Music from Big Pink Reviews
Total Page:16
File Type:pdf, Size:1020Kb
MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS IN BREVE #7– I CANTAUTORI BRITANNICI NELLA PRIMA META’ DEGLI ANNI ‘80: NUOVE DECLINAZIONI FOLK-ROCK. -PAUL BRADY – HARD STATION -BERT JANSCH – HEARTBREAK -DICK GAUGHAN – A DIFFERENT KIND OF LOVESONGS -RICHARD THOMPSON – HAND OF KINDNESS -ALLAN TAYLOR – WIN OR LOSE Negli anni ‘60 la riscoperta in chiave moderna della tradizione popolare ha generato in Inghilterra, Irlanda e Scozia una ricchissima stagione creativa di revivalismo folk. L’inserimento di melodie, testi, arrangiamenti e tratti estetici tipici della musica popolare in contesti moderni e contro-culturali ha portato alla creazione di nuovi e prolifici filoni stilistici. Il folk-rock, il folk psichedelico, il folk progressivo sono solo alcune delle sterminate declinazioni e manipolazioni a cui è stato sottoposto il repertorio tradizionale, più o meno antico. Con l’esplosione del punk nel 1977, e il conseguente riflusso della new wave in tutte le sue varianti, il folk si trova proiettato fuori dalla sfera d’interesse del pubblico giovanile, che lo considera ormai datato nel linguaggio e nei messaggi che veicola[1]. Molti degli alfieri del cantautorato folk degli anni ‘60 e ‘70 si vedono costretti a reinventare il proprio paradigma stilistico, spinti a confrontarsi con un mondo che è profondamente cambiato sul piano politico, artistico, poetico e musicale. In questo settimo episodio della rubrica “In Breve” propongo cinque dischi di altrettanti artisti alle prese con la redifinizione del loro stile, al termine della florida stagione creativa degli anni ‘70. Sono tutte figure di primissimo piano del panorama Inglese, Scozzese ed Irlandese che, arrivati alla soglia della nuova decade, si approcciano a sonorità nuove, sperimentano con l’elettrificazione (per molti un tabù negli anni ‘70, periodo di stretta aderenza all'ortodossia folk), giocano con i suoni sintetici del pop, tornano all'essenzialità della forma canzone dopo l’operato semplificatore del punk. MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS Figura centrale del folk-revival irlandese, Paul Brady, chitarrista e cantautore nato a Belfast e cresciuto nella piccola Strabane, inizia la sua carriera negli anni ‘60. Lo spettro di influenze del giovane Brady è estremamente ricco e diversificato; il padre è un insegnante di flauto e indirizza il ragazzo allo studio di pianoforte e chitarra; successivamente, durante gli anni di studio, l’interesse verso il rock’n roll diventa molto forte e conduce fino all’r’n’b e alle esperienze con gruppi come gli Inmates e i Kult[2]. È però alla fine degli anni ‘60 che Brady, al college a Dublino, scopre la musica tradizionale e si unisce ai The Johnstons, nel 1967[3]. Il gruppo ottiene un notevole successo e si trasferisce dapprima a Londra, nel 1969, e successivamente, nel 1972, a New York, nel cuore del folk-revival americano. Brady però lascia la compagine e, nel 1974, si unisce ai Planxty, autentica pietra angolare del movimento irlandese[4]. La prima fase del gruppo è però al capolinea e nel 1975 la band si sfalda, dando origine alle carriere soliste dei musicisti che la compongono; Brady si unisce a Andy Irvine e pubblica il capolavoro Andy Irvine/Paul Brady nel 1976[5]. Per Paul è il momento di iniziare una carriera autonoma e nel 1978 arriva alla pubblicazione di Welcome Here Kind Stranger, album solista che però prevede ancora la partecipazione di Irvine. Il disco è una splendida collezione di tradizionali riarrangiati o rielaborati, ancora ancorato ad un sound tipico del folk acustico settantiano[6]. Il mondo musicale è profondamente cambiato e Brady decide di imprimere una svolta radicale al proprio stile. È l’alba degli anni ottanta quando esce Hard Station, primo album completamente slegato dalla produzione precedente, registrato ai Windmill Lane Studios di Dublino e pubblicato dalla WEA. Il lavoro presenta otto brani tutti a firma del cantautore, coadiuvato da una band completamente nuova MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS rispetto alle esperienze passate, priva dell’apparato strumentale tradizionale (flauti, cornamuse, bouzuki, concertina, hurdy-gurdy, violino) ma all’opposto ridotta all’essenziale pop-rock (chitarre, basso, tastiere e batteria). La musica è un elegante folk-rock dalle movenze radiofoniche, animato da linee vocali distese e godibili, ma allo stesso tempo barocche e fiorite, frutto di un approccio estremamente libero e contaminato. Questa duplicità delle linee vocali, da un lato strettamente connesse alla tendenza easy-listening del pop ottantiano e dall’altro cesellate con abbellimenti tipici della complessa vocalità folk irlandese, costituisce uno degli esiti migliori del disco. La creatività melodica di Brady è rigogliosa, capace di muoversi in direzione di una fluttuante fantasia nelle strofe e cementarsi in una orecchiabile anthemicità in alcuni ritornelli, specialmente nei brani dai connotati pop-rock più marcati. Di particolare interesse in tal senso Dancer in the Fire, in cui disegni melodici semplici vengono ornati, in chiusura di frase, con piccole colorature per grado congiunto o gruppetti di raccordo, creando di fatto una compenetrazione tra essenzialità pop e ampollosità vocale folk. La peculiare vocalità del cantante è sorretta da arrangiamenti assolutamente inediti nella carriera di Brady: la chitarra acustica lascia la stratificata filigrana di finger-picking di Welcome Here Kind Stranger per abbracciare una linea più semplice ed accordale, di ispirazione americana, nonchè spesso si combina con un massiccio utilizzo delle chitarre elettriche, in alcuni frangenti addirittura distorte (come nelle sferzate di Nothing but the Same Old Story). Anche l’uso delle tastiere è significativo e contribuisce all’aggiornamento sonoro grazie a suoni sintetici, ampi, in funzione di pedale armonico o di colore timbrico. Uno dei centri tematici di Hard Station è quello del disagio sociale, declinato in diverse direzioni narrative, una costellazione di storie di emarginazione, di sfruttamneto e criminalità metropolitana. Si ascolti a tal proposito la vicenda di tradimenti, ed errori descritta nell’up-tempo di Busted Loose, posta in apertura dell’Lp o la voglia di riscatto sociale ed umana di Nothing but the Same Old Story. Parole che potrebbero essere uscite dalla penna di Bruce Springsteen o Tom Waits, storie di personaggi che cercano disperatamente una via d’uscita alla loro frustrazione e alla loro immobilità, imprigionati in una condizione di miseria e insoddisfazione. Apice di questa linea politica/sociale è forse la title-track, uno dei brani più amati di Paul Brady, scritto come una lettera, e quasi una supplica, di un uomo povero, vittima della città e del capitalismo, ad un uomo d’affari, una persona di successo, in cui il protagonista chiede di essere redento, di avere la possibilità di riscattarsi ed essere accettato socialmente. Molto belli anche i brani d’amore, come la già citata, malinconica, Dancer in the Fire o Cold Cold Night, in cui riaffiorano elementi più eterei e quasi cavallereschi, frutto di una profonda conoscenza del repertorio d’amore folk. Hard Station è in definitiva un album maturo, ispirato e coraggioso, capace di svelare un Brady autorale, impegnato, performer raffinatissimo anche in un contesto pop. Rappresenta la chiusura di una fase e l’inizio di un periodo di ricapitolazione delle facce stilistiche di un artista poliedrico e molto completo, forse datato nelle sonorità -in alcuni momenti fin troppo radiofoniche- ma rivelatore di una scrittura duplice, bilanciata tra semplicità melodica e ricchezza poetica. MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS Se per Paul Brady Hard Station rappresenta una svolta piuttosto brusca in direzione di nuove e più moderne sonorità, per Bert Jansch i lavori degli anni ‘80 arrivano come naturale conseguenza di un percorso di grande ricchezza e poliedricità stilistica. Le prove discografiche degli anni ‘60, sia come solista che in gruppo nei Pentangle o in collaborazione con l’amico e partner artistico John Renbourn, hanno contribuito a ridefinire le coordinate di un intero movimento, fondendo molteplici istanze stilistiche e coniando a tutti gli effetti un nuovo modo di intendere il folk britannico. Gli anni ‘70 hanno rappresentato un momento di progressivo ampliamento degli orizzonti; dalle atmosfere cantautorali di Rosemary Lane Jansch è infatti passato a lavori meno manichei come Moonshine, attraverso le sonorità americaneggianti di L. A. Turnaround e Santa Barbara Honeymoon è giunto infine a dischi più elaborati sul piano strumentale come Avocet (senza tracce cantate) e spesso intrisi di sonorità jazz o maggiormente eterodosse (A Rare Conundrum e Thirteen Down). [7] Heartbreak, registrato a Los Angeles[8], rappresenta dunque un ritorno alla canzone, meno arrangiata e dai connotati formali più rigidi e minimali, lasciando sia le lussureggianti alchimie strumentali jazzate di Thirteen Down che i complessi reticoli formali di Avocet. La chitarra resta al centro del processo creativo e il finger-picking cesellato di Jansch domina l’intero lavoro, anche se ritorna al ruolo di sostegno, seppur elaborato e virtuosistico, della voce e delle canzoni. Il disco è principalmente costituito da brani composti dal musicista di Glasgow, ma non viene abbandonata la riflessione sui MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS tradizionali, qui rappresentati da Blackwaterside e Wild Mountain Thyme, a cui si aggiungono due cover: If I Were a Carpenter di Tim Hardin e Heartbreak Hotel di Elvis Presley. Un primo motivo d’interesse viene proprio dal personale approccio di Jansch al repertorio americano, trattato attraverso la sua peculiare