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IN BREVE #7– I CANTAUTORI BRITANNICI NELLA PRIMA META’ DEGLI ANNI ‘80: NUOVE DECLINAZIONI FOLK-ROCK.

-PAUL BRADY – HARD STATION - – HEARTBREAK -DICK GAUGHAN – A DIFFERENT KIND OF LOVESONGS -RICHARD THOMPSON – -ALLAN TAYLOR – WIN OR LOSE

Negli anni ‘60 la riscoperta in chiave moderna della tradizione popolare ha generato in Inghilterra, Irlanda e Scozia una ricchissima stagione creativa di revivalismo folk. L’inserimento di melodie, testi, arrangiamenti e tratti estetici tipici della musica popolare in contesti moderni e contro-culturali ha portato alla creazione di nuovi e prolifici filoni stilistici. Il folk-rock, il folk psichedelico, il folk progressivo sono solo alcune delle sterminate declinazioni e manipolazioni a cui è stato sottoposto il repertorio tradizionale, più o meno antico. Con l’esplosione del punk nel 1977, e il conseguente riflusso della new wave in tutte le sue varianti, il folk si trova proiettato fuori dalla sfera d’interesse del pubblico giovanile, che lo considera ormai datato nel linguaggio e nei messaggi che veicola[1]. Molti degli alfieri del cantautorato folk degli anni ‘60 e ‘70 si vedono costretti a reinventare il proprio paradigma stilistico, spinti a confrontarsi con un mondo che è profondamente cambiato sul piano politico, artistico, poetico e musicale. In questo settimo episodio della rubrica “In Breve” propongo cinque dischi di altrettanti artisti alle prese con la redifinizione del loro stile, al termine della florida stagione creativa degli anni ‘70. Sono tutte figure di primissimo piano del panorama Inglese, Scozzese ed Irlandese che, arrivati alla soglia della nuova decade, si approcciano a sonorità nuove, sperimentano con l’elettrificazione (per molti un tabù negli anni ‘70, periodo di stretta aderenza all'ortodossia folk), giocano con i suoni sintetici del pop, tornano all'essenzialità della forma canzone dopo l’operato semplificatore del punk. MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

Figura centrale del folk-revival irlandese, Paul Brady, chitarrista e cantautore nato a Belfast e cresciuto nella piccola Strabane, inizia la sua carriera negli anni ‘60. Lo spettro di influenze del giovane Brady è estremamente ricco e diversificato; il padre è un insegnante di flauto e indirizza il ragazzo allo studio di pianoforte e chitarra; successivamente, durante gli anni di studio, l’interesse verso il rock’n roll diventa molto forte e conduce fino all’r’n’b e alle esperienze con gruppi come gli Inmates e i Kult[2]. È però alla fine degli anni ‘60 che Brady, al college a Dublino, scopre la musica tradizionale e si unisce ai The Johnstons, nel 1967[3]. Il gruppo ottiene un notevole successo e si trasferisce dapprima a Londra, nel 1969, e successivamente, nel 1972, a New York, nel cuore del folk-revival americano. Brady però lascia la compagine e, nel 1974, si unisce ai Planxty, autentica pietra angolare del movimento irlandese[4]. La prima fase del gruppo è però al capolinea e nel 1975 la band si sfalda, dando origine alle carriere soliste dei musicisti che la compongono; Brady si unisce a Andy Irvine e pubblica il capolavoro Andy Irvine/Paul Brady nel 1976[5]. Per Paul è il momento di iniziare una carriera autonoma e nel 1978 arriva alla pubblicazione di Welcome Here Kind Stranger, album solista che però prevede ancora la partecipazione di Irvine. Il disco è una splendida collezione di tradizionali riarrangiati o rielaborati, ancora ancorato ad un sound tipico del folk acustico settantiano[6]. Il mondo musicale è profondamente cambiato e Brady decide di imprimere una svolta radicale al proprio stile. È l’alba degli anni ottanta quando esce Hard Station, primo album completamente slegato dalla produzione precedente, registrato ai Windmill Lane Studios di Dublino e pubblicato dalla WEA. Il lavoro presenta otto brani tutti a firma del cantautore, coadiuvato da una band completamente nuova MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS rispetto alle esperienze passate, priva dell’apparato strumentale tradizionale (flauti, cornamuse, bouzuki, concertina, hurdy-gurdy, violino) ma all’opposto ridotta all’essenziale pop-rock (chitarre, basso, tastiere e batteria). La musica è un elegante folk-rock dalle movenze radiofoniche, animato da linee vocali distese e godibili, ma allo stesso tempo barocche e fiorite, frutto di un approccio estremamente libero e contaminato. Questa duplicità delle linee vocali, da un lato strettamente connesse alla tendenza easy-listening del pop ottantiano e dall’altro cesellate con abbellimenti tipici della complessa vocalità folk irlandese, costituisce uno degli esiti migliori del disco. La creatività melodica di Brady è rigogliosa, capace di muoversi in direzione di una fluttuante fantasia nelle strofe e cementarsi in una orecchiabile anthemicità in alcuni ritornelli, specialmente nei brani dai connotati pop-rock più marcati. Di particolare interesse in tal senso Dancer in the Fire, in cui disegni melodici semplici vengono ornati, in chiusura di frase, con piccole colorature per grado congiunto o gruppetti di raccordo, creando di fatto una compenetrazione tra essenzialità pop e ampollosità vocale folk. La peculiare vocalità del cantante è sorretta da arrangiamenti assolutamente inediti nella carriera di Brady: la chitarra acustica lascia la stratificata filigrana di finger-picking di Welcome Here Kind Stranger per abbracciare una linea più semplice ed accordale, di ispirazione americana, nonchè spesso si combina con un massiccio utilizzo delle chitarre elettriche, in alcuni frangenti addirittura distorte (come nelle sferzate di Nothing but the Same Old Story). Anche l’uso delle tastiere è significativo e contribuisce all’aggiornamento sonoro grazie a suoni sintetici, ampi, in funzione di pedale armonico o di colore timbrico. Uno dei centri tematici di Hard Station è quello del disagio sociale, declinato in diverse direzioni narrative, una costellazione di storie di emarginazione, di sfruttamneto e criminalità metropolitana. Si ascolti a tal proposito la vicenda di tradimenti, ed errori descritta nell’up-tempo di Busted Loose, posta in apertura dell’Lp o la voglia di riscatto sociale ed umana di Nothing but the Same Old Story. Parole che potrebbero essere uscite dalla penna di Bruce Springsteen o Tom Waits, storie di personaggi che cercano disperatamente una via d’uscita alla loro frustrazione e alla loro immobilità, imprigionati in una condizione di miseria e insoddisfazione. Apice di questa linea politica/sociale è forse la title-track, uno dei brani più amati di Paul Brady, scritto come una lettera, e quasi una supplica, di un uomo povero, vittima della città e del capitalismo, ad un uomo d’affari, una persona di successo, in cui il protagonista chiede di essere redento, di avere la possibilità di riscattarsi ed essere accettato socialmente. Molto belli anche i brani d’amore, come la già citata, malinconica, Dancer in the Fire o Cold Cold Night, in cui riaffiorano elementi più eterei e quasi cavallereschi, frutto di una profonda conoscenza del repertorio d’amore folk. Hard Station è in definitiva un album maturo, ispirato e coraggioso, capace di svelare un Brady autorale, impegnato, performer raffinatissimo anche in un contesto pop. Rappresenta la chiusura di una fase e l’inizio di un periodo di ricapitolazione delle facce stilistiche di un artista poliedrico e molto completo, forse datato nelle sonorità -in alcuni momenti fin troppo radiofoniche- ma rivelatore di una scrittura duplice, bilanciata tra semplicità melodica e ricchezza poetica. MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

Se per Paul Brady Hard Station rappresenta una svolta piuttosto brusca in direzione di nuove e più moderne sonorità, per Bert Jansch i lavori degli anni ‘80 arrivano come naturale conseguenza di un percorso di grande ricchezza e poliedricità stilistica. Le prove discografiche degli anni ‘60, sia come solista che in gruppo nei Pentangle o in collaborazione con l’amico e partner artistico , hanno contribuito a ridefinire le coordinate di un intero movimento, fondendo molteplici istanze stilistiche e coniando a tutti gli effetti un nuovo modo di intendere il folk britannico. Gli anni ‘70 hanno rappresentato un momento di progressivo ampliamento degli orizzonti; dalle atmosfere cantautorali di Rosemary Lane Jansch è infatti passato a lavori meno manichei come Moonshine, attraverso le sonorità americaneggianti di L. A. Turnaround e è giunto infine a dischi più elaborati sul piano strumentale come Avocet (senza tracce cantate) e spesso intrisi di sonorità jazz o maggiormente eterodosse ( e ). [7] Heartbreak, registrato a Los Angeles[8], rappresenta dunque un ritorno alla canzone, meno arrangiata e dai connotati formali più rigidi e minimali, lasciando sia le lussureggianti alchimie strumentali jazzate di Thirteen Down che i complessi reticoli formali di Avocet. La chitarra resta al centro del processo creativo e il finger-picking cesellato di Jansch domina l’intero lavoro, anche se ritorna al ruolo di sostegno, seppur elaborato e virtuosistico, della voce e delle canzoni. Il disco è principalmente costituito da brani composti dal musicista di Glasgow, ma non viene abbandonata la riflessione sui MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS tradizionali, qui rappresentati da Blackwaterside e Wild Mountain Thyme, a cui si aggiungono due cover: If I Were a Carpenter di Tim Hardin e Heartbreak Hotel di Elvis Presley. Un primo motivo d’interesse viene proprio dal personale approccio di Jansch al repertorio americano, trattato attraverso la sua peculiare filigrana chitarristica e restituito con il delicato tratto del primigenio folk-revival britannico. In If I Were a Carpenter la lettura di Jansch ravviva l’atmosfera sospesa dell’originale -staccandosi così dalle celebri ed invadenti rivisitazioni di Joan Baez e Johnny Cash- pur risultando meno materica, sofferta e minimale rispetto all’interpretazione di Hardin. Molto bella ed originale anche la riproposizione di Heartbreak Hotel in cui viene svelata la solida radice blues del pezzo che, privato di ogni spinta sensuale rock diventa un elegante ballabile screziato da due magnifici assoli elettrici. I pezzi firmati dal cantautore segnano un parziale ritorno a quel folk-blues, allo stesso tempo essenziale e ricamato, che aveva segnato l’inzio della carriera. Tuttavia l’esperienza accumulata con le virate stilistiche degli anni ‘70 ha lasciato delle profonde tracce nella scrittura di Jansch, sia sul piano strettamente compositivo, in special modo nelle melodie e nelle armonie chitarristiche, che su quello dell’arrangiamento. La scrittura si fa più distesa e dilatata, rarefatta rispetto ai fitti intarsi del folk chitarristico più ortodosso, spesso sporcata da aperture pop di ascendenza americana, nonché arricchita da discreti interventi elettrici. Negli assoli si mescolano perfettamente tutte le diverse anime stilistiche del musicista, capace di fondere in un unico fraseggio frammenti jazzati, melodie modali e lunghi intermezzi blues (specialmente negli assoli). Nonostante non vengano raggiunte le vette del passato, sia in termini musicali che poetici, il ritorno alla forma canzone riconsegna un cantautore di grande spessore, maturato anche sul piano vocale e capace di padroneggiare, senza snaturare il proprio background, un ampia messe di stimoli diversi. Paradossalmente è proprio quando l’arrangiamento si fa più pieno, con la batteria e la sezione ritmica ben presenti, ispessito da interventi elettrici di chitarra e basso, che i brani sono più convincenti, capaci di rinvigorire lo stile fluido, in un continuo passaggio tra blues e folk, del miglior Jansch. And Not a Word Was Sad col suo andamento quasi rock valorizza il fitto telaio d’accompagnamento meglio che le ballad puramente acustiche e prettamente folk, mentre sono interessanti i tentativi di commistione tra la tradizione inglese e il country, seppur non sempre del tutto compiute. Heartbreak è un disco minore della produzione del cantautore, ma è un’istantanea vivida di un momento particolare, primo passo verso una completa riconversione al folk che si manifesterà nel finale di carriera, nei dischi degli anni novanta -da Ornament Tree a When The Circus Comes to Town-. I frutti della rivisitazione in chiave europea di elementi stilistici folk-blues americani troveranno un tardivo esempio nelle ultimissime prove in studio ( e Black Swan), quasi una ricapitolazione e un testamento artistico.[9]

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La carriera di Dick Gaughan è stata tutt’altro che omogenea, il musicista di Glasgow è infatti sempre stato attivo in molteplici progetti, una figura fondamentale di alcuni importanti gruppi oltre ad aver costantemente coltivato un percorso solistico parallelo. Se la discografia solista, dal debutto del 1972 all’acclamatissimo Handful of Earth del 1980[10], è stata un contributo fondamentale nella reinterpretazione della tradizione in chiave cantautorale, l’esperienza con i Boys of the Laugh e i Five Hand Reels [11] ha rappresentato un decisivo sviluppo di materiale tradizionale in maniera più corale ed arrangiata. Il successo di Handful of Earth, premiato come disco folk dell’anno da “Melody Maker”[12], era arrivato dopo un periodo difficilissimo nella vita dell’artista, fermo per tutto il 1979 a causa di una crisi personale sfociata in un esaurimento nervoso. Il lavoro del 1980 era un tributo essenziale alla tradizione settantiana, quasi un testamento del folk-revival propriamente detto, con brani per voce e chitarra acustica (con accordatura aperta) e dal taglio espressamente politico, una presa di posizione durissima contro le scelte del Conservative Party scozzese all’indomani della vittoria politica del 1979[13]. La rinascita artistica e personale di Gaughan esplode in momento creativo felicissimo e, dopo la collaborazione con Andy Irvine per Parallel Lines del 1982 [14], il cantautore pubblica A Different Kind of Lovesongs. Il taglio essenziale e quasi minimalista di Handful of Earth si stempera ed amplia, MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS aprendo la musica di Gaughan ad un più ampio range espressivo e stilistico. Il lavoro è una combinazione di brani originali e tradizionali reinterpretati e riarrangiati con una grande varietà ed ispirazione. La title-track è una dichiarazione d’intenti, un manifesto poetico nonché una delle grandi protest-song del folk mondiale, un brano sofferto in cui Gaughan rivendica l’importanza di schierarsi politicamente e di impegnarsi socialmente con la musica. In questa canzone, quasi una lettera aperta ai propri ascoltatori e una chiamata alla coscienza collettiva, Gaughan spiega come tutte le sue canzoni, a difesa dei lavoratori sfruttati, schierate dalla parte di chi soffre, sono canzoni d’amore, ma d’un altro tipo “All the song that I sing are love songs/ but their love is a different kind”. L’apertura, così drammatica e intensa, schiude le porte ad un album magnifico non solo dal punto di vista lirico ma anche musicale; nella seconda traccia dell’album, la coriacea Revolution, l’introduzione affidata alle voci armonizzate sfocia in una danza, orgogliosa e militante, in cui gli sturmenti (batteria, basso e tastiere) e la voce dialogano senza sosta, un canto di battaglia e di rivoluzione, come dichiarato dall’inequivocabile titolo. I brani firmati da Gaughan denotano un’ispirazione altissima, che sviluppa sul piano dell’arrangiamento le scarnificate atmosfere di Handful of Earth, ma anche sul versante dei traditionals il disco mostra soluzioni e accorgimenti estremamente interessanti. Father’s Song (di Ewan MacColl) e Prisoner 562 (di Iain MacKintosh e Oswald Andrae) erano brani concepiti per voce sola, non accompagnata; il lavoro di Gaughan arricchisce i brani di accompagnamenti minimi, discreti, che da un lato rispettano l’essenzialità quasi sacrale della tradizione e dall’altro la attualizzano e la rendono più accessibile. Nel pezzo di MacColl si torna alle atmosfere rarefatte di Handful of Earth con un sottlie sostrato accordale affidato alla chitarra acustica, nel caso di Prisoner 562 il cantautore scozzese inserisce un bordone di sol affidato al sintetizzatore, un artificio che àncora tonalmente la melodia della voce e crea un ombra sonora dando profondità e spazialità alla canzone. Pur mantenendo un contatto stretto con gli stilemi della scena revivalista questo lavoro tenta una via di rinnovamento, sia nei piccoli accorgimenti strumentali che nell’inserimento di elementi solitamente estranei all’universo folk. In By the People, scritta dallo stesso Gaughan, si manifesta addirittura una vena rock tout-court, con tanto di sistematica elettrificazione e batteria ben presente nel missaggio. Uno degli album più belli della discografia di un grande cantautore, capace di applicare la forza comunicativa delle nuove tendenze rock e pop (seppur blande ma ben calibrate e presenti) con il rigore ideologico e politico del vecchio folk militante.

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La figura di Richard Thompson è una delle più importanti non solo del folk-rock inglese ma del rock europeo nella sua totalità. La sua carriera discografica e concertistica è stata tentacolare ed instancabile; in un arco di tempo ampissimo si è concentrata in molti progetti che hanno affrontato da prospettive stilistiche molto eterogene la materia folk in chiave rock. Tra il 1968 e il 1970 è stato la colonna portante dei , da cui è fuoriuscito nel 1971[15] (anche se ha continuato sporadicamente a collaborare con la vecchia band); nel 1972 esce il suo primo album solista e, subito dopo, si apre una lunga collaborazione con la moglie Linda, da cui scaturiscono sei album (tra il 1974 e il 1982) e diversi capolavori[16]. Le partecipazioni come autore e musicista in altri contesti sono impressionanti per qualità e importanza storica; dovendo citarne alcune basterebbe nominare Incredible String Band, , Nick Drake, John Martyn, , , Iain Mattews, e moltissime altre. Nel 1982 il sodalizio artistico e sentimentale con la moglie si rompe dopo le tormentate registrazioni di Shoot Out the Light del 1982[17] e Thompson ripensa in maniera sostanziale la propria attività artistica. Per il nuovo album il cantautore decide di rimaneggiare completamente la propria backing- band, seppur non rinunciando ai contributi dei suoi ex compagni nei Fairport Convention, e Simon Nichol, che avevano preso parte al disco precedente. La sofferenza scaturita dalle vicende personali e i buoni riscontri di pubblico e critica ottenuti dal suo ultimo lavoro con la moglie segnano una svolta stilistica importante nella carriera del musicista che MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS sembra deciso a svecchiare la formula sonora e a seguire una strada diversa. Hand of Kindness si rivela un album di rottura, da un lato più sbilanciato sul versante rock rispetto al passato, caratterizzato da brani vivaci ed energici, e dall’altro scaturito da un momento di grandi ripensamenti e riconsiderazioni. Per Humphries, biografo di Thompson, con questo lavoro l’artista «lascia l’oscurità alle spalle e si incammina fuori verso la luce»[18]; questo processo però si sublima musicalmente non solo con vere proprie danze rock in up-tempo ma anche con amare riflessioni catartiche sulla sua vicenda personale e sentimentale. La coppia di brani che inaugura l’Lp è esplicita in tal senso, all’avvio saltellante di Tear-Stained Letter, caratterizzata da un’energia rock dirompente e arrangiata con un ampio uso dei sax, viene contrapposta la struggente How I Wanted To che, seppure ammantata da una superfice soft-rock, possiede la forza espressiva delle disperate ballate folk sentimentali. Nonostante l’album segua, in alcune direttrici stilistiche, il lavoro maturato attraverso Sunnyvista e Shoot Out the Light qui la produzione si fa più smaccatamente rock, con suoni rifiniti e levigati, con la batteria molto alta nel mix, e in generale con una compattezza di gruppo più rocciosa e d’impatto. Hand of Kindness prosegue su queste coordinate, con brani rock più ritmati alternati a momenti meno cinetici ma sempre molto estroversi sul piano musicale, con grande presenza dei sax e coronati da ritornelli memorizzabili. In alcuni momenti la fusione tra retaggi folk (soprattutto nelle melodie vocali o nelle armonie chitarristiche) e radiofonicità rock riesce molto bene, ad esempio quando Thompson flirta con soluzioni di arrangiamento care a certo cantautorato rock americano, in altri risulta meno felice, ad esempio nella chiusura danzante di Two Left Feet, in cui la sezione ritmica viene forzatamente calcata su un telaio bal-folk. La combinazione tra energia catartica e introspezione che anima la musica dei brani di Hand of Kindness si riflette anche sul piano lirico ed interpretativo. Thompson sfoggia ancora una volta una prestazione vocale molto intensa e virile, la sua voce stentorea si adatta molto bene anche a questo abito sonoro rock e si fa veicolo di riflessioni sul passato e sulla sofferenza, sulla perdita e sul rimpianto. Quello che affiora da queste tracce è un Richard Thompson che proietta la propria intimità su un piano più esteriore e tenace, che esprime la propria volontà di ricominciare, che custodisce una fiamma creativa che non si esaurisce ma trova sempre nuovi stimoli, distante dalle rivendicazioni politiche di fine anni ‘60 ma non meno forte ed emozionante. MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

La carriera del cantautore di Brighton Allan Taylor segue un percorso frastagliato e può essere segmentata in diverse fasi creative. Gli inzi sono nel cuore della spinta revivalista del nuovo folk inglese tanto che la prima esperienza rilevante è un tourdi supporto ai Fairport Convention nel 1970 [19]; il prestigio di queste apparizioni live consentono a Taylor di firmare un contratto con la United Artist e di pubblicare due album, entrambi editi nel 1971 [20]. Questo primo periodo restituisce un cantautore ancora acerbo, dedito ad un folk piuttosto intimo, pastorale ed arrangiato nelle sonorità che, seppur mostrando una scrittura non del tutto rifinita sul piano poetico e musicale palesa, in nuce, una personalità autorale forte. Fin da questa fase embrionale le influenze del giovane sono evidenti: da un lato le caratteristiche tipiche del cantautorato folk britannico (anche sul piano chitarristico) e dall’altro uno sguardo alla scena newyorkese che in quegli anni era al massimo della sua potenza produttiva. Questa fascinazione per il movimento revivalista del Village lo porta a trasferirsi a New York dove suona nei più importanti club folk[21]; da questa esperienza nasce The American Album, datato 1973 e registrato tra Los Angeles e Nashville. Come molti altri cantautori Taylor viene tentato dall’esperienza in gruppo e così, rientrato in Inghilterra, fonda i Cajun Moon, collettivo con cui pubblica nel 1976 l’omonimo album. A questo punto arriva la svolta: il cantautore torna al lavoro solista ed inanella una serie di album straordinari, marchiati da uno stile molto personale, in cui gli MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS elementi assorbiti negli USA (soprattutto sul versante dei testi) vengono ricondotti ad una scrittura e ad un arrangiamento prettamente britannici. Due capolavori, tra il 1978 e il 1983, chiudono la colaborazione con la Chrysalis e portano a Win or Lose, nuovo approdo sonoro e nuova declinazione del mondo poetico e musicale di Taylor. In questo album il musicista di Brighton si avvale di una strumentazione diversa, fa largo uso di sintetizzatori e tastiere, a cui vengono accostati strumenti elettrici ed acustici. Non ci sono concessioni al rock, non c’è un incremento della pulsazione ritmica o un tentativo di utilizzare strumenti tipici del pop-rock ottantiano come il sax, la chitarra elettrica o una sezione ritmica particolarmente invadente. Il risultato è straordinario, i pezzi sono moderni e atmosferici, senza perdere nulla in termini di delicatezza e raffinatezza sonora, le melodie vocali, di estrazione folk, si sposano perfettamente con l’ariosa ambientazione delle tastiere. Una tinta sonora affine al cantautorato francese, forse assorbita dalle lunga tourneè europea di supporto a The Traveller e Roll on the Day, affiora tra le crepuscolari canzoni di Win or Lose. I brani sono prevalentemente storie d’amore, piccoli quadri malinconici, alcuni che sembrano delle sommesse confessioni intime, altri che invece sono dei veri e propri ritratti, come nel tributo di Piaf, omaggio alla grande interprete francese. A questa linea poetica si innesta il retaggio dell’antica tradizione trobadorica, incentrata su storie d’amicizia, di lontananza, di amori non corrisposti o tormentati. È un album che, sul versante musicale, unisce con grande naturalezza momenti più americaneggianti, come nei vasti spazzi descritti dall’arpeggiato di Syracuse and Albany, a retaggi rielaborati della tradizione inglese, come ad esempio la splendida chiusura di The Rose and the Briar, capace di incrociare la solennità britannica con una potenza espressiva quasi soul. Win or Lose è un album poco conosciuto, ma uno dei migliori dell’intera discografia del cantautore; le miniature che Taylor descrive in questi brani sono riuscitissime, spaccati di vita in cui l’autore si incrocia e confonde con i propri personaggi. L’atmosfera piovosa che pervade le sonorità del lavoro, splendidamente sbilanciato sui toni bassi, è quasi un fondale per i ricami chitarristici, meno estrosi e barocchi rispetto a quelli di Jansch o Renbourn, ma nitidi e diretti nella loro semplicità. Sembra che le diverse anime dell’autore, dagli scarni e ingenui toni pastello degli esordi, attraverso l’esperienza americana, fino alla maturazione a cavallo tra gli anni ‘70 ed ‘80, vengano ricomposti in maniera ideale, creando un lavoro che guarda al futuro senza sradicare le radici poetiche che l’hanno originato. MUSIC FROM BIG PINK REVIEWS

NOTE

[1] In realtà qualche esperienza di rilievo nella contaminazione con i nuovi generi si registra anche in ambito folk: basti pensare al bal-folk dei Blowzabella, alla plastificata new-age di Enya o al folk-punk dei Pogues. Cfr. SWEERS Britta, Electric Folk: The Changing Face of English Traditional Music, Oxford University, 2005. [2] Cfr. McREDMOND Louis, Modern Irish Lives: Dictionary of 20th-century Irish Biography, Gill & Macmillan, 1996, p. 27. [3] Cfr. SCHAEFFER Deborah, Irish folk music: a selected discography, Greenwood, 1989, p. 93. [4] Cfr. PIETZONKA Karin, And the Healing Has Begun..., Author House, 2013, p. 80. [5] Cfr. KAUL Adam, Turning the Tune: Traditional Music, Tourism, and Social Change in an Irish Village, Berghahn, 2009, p. 60. [6] Cfr. VIVALDI Antonio (a cura di), Folk inglese e musica celtica, Giunti, 2001, p. 20. [7] Cfr. HARPER Colin, Dazzling Stranger: Bert Jansch and the British Folk and Blues Revival, A&C Black, 2012. [8] Cfr. VIVALDI Antonio, op. cit., p. 52. [9] Cfr. RILEY John (a cura di), Bert Jansch: Bert Transcribed. The Bert Jansch Songbook,2017, pp. 131- 133. [10] Cfr. WATTS Richard, MORRISSEY Franz Andrey, Language, the Singer and the Song: The Sociolinguistics of Folk Performance, Cambridge University, 2018, p. 136. [11] Cfr. BROCKEN Michael, The : 1944–2002, Routledge, 2017, pp. 197-198. [12] Cfr. TURNBULL Michael, Edinburgh portraits, J. Donald Pub., 1987, p. 119. [13] Cfr. STRONG Martin, The Great Scots Musicography: The Complete Guide to Scotland's Music Makers, Birlinn, 2002, p. 31. [14] Cfr. IRVINE Andy, Aiming for the Heart. Irish Song Affairs, PoD, 2008, p. 103. [15] Cfr. SWEERS Britta, op. cit., p. 93. [16] Cfr. VIVALDI Antonio, op. cit., pp. 93-96. [17] Cfr. CHILDS Hayden, Richard and Linda Thompson's , Bllomsbury, 2008. [18] HUMPRIES Patrick, Richard Thompson, Strange Affair:The Biography, Virgin, 1996, p. 189. [19] Cfr. LARKIN Colin, The encyclopedia of popular music, Volume 7, Muze, p. 5308. [20] Cfr. VIVALDI Antonio, op. cit., pp. 89-90. [21] Cfr. www.allantaylor.com