La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Corso di Laurea (L2) In Storia

Tesi di Laurea

LA GRANDE GUERRA E IL CINEMA ITALIANO E FRANCESE

Relatore Ch. Prof. Pietro Brunello

Laureando Elvio Bissoli

Anno Accademico 2013/2014

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

[email protected] 2

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Indice

Premessa p. 4

1. Il cinema italiano e la Grande Guerra 5

I. L’Italia in guerra e il cinema p. 7 - II. La fascistizzazione del cinema p. 10 - III. La Grande Guerra e il cinema nella prima età repubblicana p. 15 - IV. Il cinema e la revisione del mito della Grande Guerra p. 19

2. I film 25

I. La Grande Guerra di Mario Monicelli p. 25 - II. Uomini contro di Francesco Rosi p. 33

III. La sciantosa di Alfredo Giannetti p. 38 - IV. torneranno i prati di Ermanno Olmi p. 41

V. Prima e dopo la guerra (Vincere, La marcia su Roma, I recuperanti) p. 46

3. Il cinema francese e la “Grande Guerre” 55

I. La Francia in guerra e il cinema p. 57 - II. Il cinema e il pacifismo tra le due guerre p. 61

4. I film tra le due guerre 65

I. Les croix de bois di Raymond Bernard p. 65 - II. La Grande illusion di Jean Renoir p. 67

III. J’accuse di Abel Gance p. 71

5. Il secondo dopoguerra e la revisione negli anni ’90 del XX secolo 75

6. I film del secondo dopoguerra 79

I. La vie et rien d'autre di Bertrand Tavernier p. 71 - II. Capitaine Conan di Bertrand Tavernier p. 83

III. Le pantalon di Yves Boisset p. 86 - IV. La chambre des officiers di François Dupeyron p. 89

V. Un long dimanche de fiançailles di Jean-Pierre Jeunet p. 92- VI. Joyeux Noël di Christian Carion p. 94

Conclusioni 98

Schede dei film 100

Nota bibliografica 102

Bibliografia 105

Indice dei film 108

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Premessa

Per buona parte del ventesimo secolo il cinema è stato decisivo per la costruzione della memoria e dell’identità collettiva veicolando e diffondendo le idee, grazie alla sua abilità e capacità di mostrare, manipolare e trasformare il vero, il falso, il verosimile e l’inverosimile. Nel corso del primo conflitto mondiale, in tutti i paesi belligeranti il cinema fu uno dei mezzi di persuasione della necessità della guerra e delle ragioni per mobilitare milioni di persone e, contemporaneamente, anche lo strumento per raccontare una guerra inesistente, immaginaria, irreale e invisibile nei suoi orrori. Ma l’intento di questo lavoro è di analizzare come il cinema abbia tentato, dal dopoguerra ad oggi, di opporsi alla trasfigurazione propagandistica della guerra, di scalfire in qualche modo l’immaginario e il sentimento collettivo perpetuato e tramandato nel tempo. Un compito non facile: il cinema ha dovuto e deve ancora, pur se in misura attenuata, confrontarsi con la Grande Guerra come mito sacralizzato, costruito dall’uso politico della storia, dalla letteratura e dalla memorialistica colta, dall’elaborazione pubblica del lutto, dalle cerimonie, dalla monumentalità e, oggi, riproposto, con il possibile rischio della banalizzazione, dal turismo del centenario, dalle rievocazioni in costume o dalla mai sopita retorica. L’analisi è riferita alla cinematografia di due paesi vincitori: l’Italia e la Francia che, fra l’altro, per molto tempo hanno rappresentato l’essenza del cinema europeo. Diverso è stato il percorso, nei modi e nei tempi, delle due cinematografie per ripensare la Grande Guerra. Per l’Italia, in particolare, si dovrà decantare la retorica fascista, ancora perdurante nei primi decenni della Repubblica e si dovrà intraprendere una nuova storiografia perché il cinema possa affrontare criticamente il conflitto, vincendo gli ostacoli censori e finanziari. L’esame dei film non riguarda tuttavia la valutazione delle loro qualità artistiche, estetiche ed espressive, termini propri di una recensione o di una critica cinematografica che non rientrano tra gli obiettivi di questa tesi. Essa è incentrata piuttosto sulla contestualizzazione dell’opera nel momento storico, politico e culturale in cui è stata realizzata, con richiami alla storiografia relativa ai temi più rilevanti affrontati nel film.

Sono riconoscente al prof. Pietro Brunello per avermi indirizzato e sostenuto in questo lavoro e per tutto il tempo dedicatomi. Un grande grazie a Lucia che ha dovuto sopportare molte rinunce per il mio tardivo, ma appassionante, percorso universitario e a chi mi ha sostenuto e incoraggiato: Irene, Francesco, Marco e Danilo. Grazie anche ai giovani colleghi incontrati nel corso degli studi e che sono sempre stati pronti ad aiutarmi: Nicolò, Ervis, Mirko, Simone, Enrico e Federico e ai miei coetanei Gianni, Ezio e Stefano. Per il reperimento del materiale cinematografico un ringraziamento sentito a Marco, al personale della Cineteca Comunale di Bologna, del Cinema Ritrovato e de Le Gallerie di Piedicastello Trento.

Vorrei infine dedicare questa tesi alla memoria di mio nonno Riccardo, morto sul Piave nella battaglia del Solstizio il 20 giugno 1918.

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1. IL CINEMA ITALIANO E LA GRANDE GUERRA

Per una serie di ragioni economiche, politiche e culturali il cinema italiano, a differenza di quello di altri Paesi (come Francia, Germania o Stati Uniti), non ha contribuito in misura sostanziale alla costruzione del mito della Grande Guerra una volta che questa si concluse. Tra le varie motivazioni, non ultima e non meno importante, la caratteristica che ha sempre contrassegnato il cinema italiano: la rivendicazione di una propria autonomia culturale, artistica e creativa, mantenuta – seppur in forma più attenuata o segnata dall’inattualità – anche durante il regime fascista. Come sostiene Gian Piero Brunetta, il cinema italiano è:

Un cinema che ha sempre manifestato un forte spirito d’indipendenza e insofferenza rispetto a ogni tipo di condizionamento esterno, che ha rivendicato da subito le sue discendenze culturali alte, i suoi geni artistici e letterari, che ha cercato di stabilire dei ponti con le tradizioni letterarie, teatrali e pittoriche 1.

Sin dai primi anni del Novecento, superata la fase di un divertimento inteso come fenomeno da baraccone ambulante e attrazione da luna park, il cinema era diventato uno spettacolo veramente popolare, con grande seguito di spettatori, anche per la rapida diffusione delle sale cinematografiche nei centri urbani. Negli anni a ridosso della guerra i suoi prodotti riuscivano a competere sul mercato internazionale con il cinema francese (dal quale il cinema italiano, alle sue origini, importò un gran numero di registi, scenografi e operatori), arrivando anche su quello americano che non aveva ancora sviluppato la sua potente industria cinematografica, mentre Torino poteva ben definirsi la capitale mondiale del cinema. Con il suo specifico linguaggio il cinema partecipò alla costruzione di un’identità nazionale, ancora incerta per un paese unito da pochi decenni, privilegiando le storie e le figure risorgimentali, ma recuperando anche la storiografia romana, i classici della letteratura italiana e le opere liriche 2. Non casualmente il primo film italiano a soggetto è stato La presa di Roma, 20 settembre 1870 di Filoteo Alberini nel 1905, cui seguirono Garibaldi (1907), Pietro Micca (1908) e Il piccolo garibaldino (1909). In occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia furono quasi una decina i film dedicati al Risorgimento, il più importante tra questi I Mille di Alberto degli Abbati; mentre quelli di ispirazione irredentista e antiaustriaca, in ossequio alla politica governativa che non voleva offrire alcuna sponda alle rivendicazioni irredentistiche, furono sottoposti a tagli e censure per non compromettere l’alleanza in atto. Di fatto il cinema, insieme alle finalità puramente commerciali, assunse una funzione pedagogica-divulgativa nei confronti di una società dove la scolarità obbligatoria era ancora largamente insufficiente e ben lontana da quanto realizzato negli altri paesi europei (durante le proiezioni, accanto all’accompagnamento al pianoforte, c’era chi leggeva ad alta voce le didascalie per renderle comprensibili a tutti). Si potrebbe affermare che, prima del conflitto mondiale, il cinema svolse un’azione di sussidiarietà, se non di supplenza, nella formazione di un senso popolare di appartenenza collettiva, attraverso la rielaborazione visiva di miti, storie e simboli

1 G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003, Giulio Einaudi, Torino 2003, p. XVIII

2 Conferma di questa aspirazione “alta” del cinema italiano è il coinvolgimento – dietro compensi non indifferenti - di molti letterati italiani e autori di testi teatrali nella stesura di soggetti cinematografici, pur se la maggior parte di essi si preoccupò di non far apparire in alcun modo il proprio nome: Verga, Capuana, Gozzano, Serao, Deledda, Pirandello, De Roberto, D’Annunzio (quest’ultimo forse il più pagato e che non nascose mai il suo apporto al cinema). 5

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese ripresi dal passato. La natura oligarchica- notabilare e autoritaria, che caratterizzò lo stato unitario, si era dimostrata anche nella scarsa persuasione della classe dirigente dello stato liberale di utilizzare convintamente i due strumenti principali di intervento per costruire un sentimento collettivo di appartenenza nazionale: la scuola e l’esercito. Quest’ultimo – nonostante l’introduzione della leva obbligatoria – era permeato di un sentimento elitario, fondamentalmente estraneo alla società, pur riproducendone le rigorose gerarchie, come si dimostrerà pienamente nel corso del conflitto. In sostanza un paese dove incompiuta era l’unità morale e ideale delle masse, che si poteva definire con le parole di Mario Isnenghi: “Uno Stato senza popolo, un popolo senza Stato 3”. L’opera di nazionalizzazione, e inclusione, delle masse era pertanto subordinata alla precisa volontà della monarchia e dei governi di tenerle escluse dalla vita nazionale, perché considerate pericolose e destabilizzanti nella visione dell’ordine pubblico da salvaguardare mediante la funzione di polizia affidata proprio all’esercito. A differenza degli altri paesi europei, infatti, l’Italia liberale non celebrava le sue ricorrenze più significative nelle piazze, ma la gran parte delle cerimonie avveniva all’interno delle caserme o attraverso commemorazioni in luoghi chiusi come ricordato dallo storico Emilio Gentile:

La visione di piazze colme di folla, in realtà, evocava immediatamente, nella classe dirigente, paurose immagini di rivolta e angosciosi problemi di ordine pubblico, che non favorivano certo l’istituzione di periodici riti di massa per celebrare il culto della patria e per contribuire ad incrementare, se non proprio ad inventare, una “nuova politica” per nazionalizzare le masse 4.

Non furono pochi gli intellettuali e i politici convinti che la guerra avrebbe – forzatamente – costretto gli italiani a sentirsi finalmente tali per la prima volta. I circoli colonialisti avevano ripreso forza nella metà del primo decennio del ‘900, combinandosi con il nazionalismo militarista d’anteguerra, che si esprimeva attraverso gli interventi letterari e giornalistici di numerosi intellettuali per una patria in armi, in grado di ridare energia e vitalità all’Italia e per allargare i suoi confini. Anche il cinema italiano partecipò in qualche modo al risveglio delle ambizioni colonialiste ed espansionistiche. La produzione filmica tra il 1909 e il 1914 si impegnò a recuperare il mito dell’Italia diretta discendente della potenza civilizzatrice romana, una rivisitazione della storia in chiave nazionalista, quasi la rivendicazione di un ineludibile e doveroso ritorno dell’Italia negli antichi territori (lo “spirito di Roma” che il fascismo saprà riprendere con maggior forza una volta diventato regime). In questo senso la rappresentazione cinematografica dei trionfi romani diventava il preludio di future conquiste e la riacquisizione del ruolo dell’Italia verso i “popoli senza storia”. Nerone, Quo Vadis?, Caius Julius Caesar, Gli schiavi di Cartagine, La distruzione di Cartagine, Spartaco, Marcantonio e Cleopatra, Nerone e Agrippina, Cabiria, sono alcuni dei film più importanti usciti in quel periodo.

3 M. Isnenghi, Dieci lezioni sull’Italia contemporanea, Donzelli, Roma 2011, p. 97

4 E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Bari 1993, p. 22

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L’invasione della Libia nel 1911 decisa dal governo Giolitti – prevalentemente per ragioni di politica interna e di promozione internazionale - fu un atto di sfida all’impero ottomano che, secondo gli storici Franco Cardini e Sergio Valzania, innescò quel processo di sovvertimento degli equilibri internazionali che porterà allo scoppio del primo conflitto mondiale 5.

I. L’Italia in guerra e il cinema

Il 1914 segnava l’inizio della crisi e della decadenza del cinema italiano soffocato dagli insostenibili impegni finanziari richiesti dal gigantismo delle produzioni, dai costi che il fenomeno divistico, soprattutto femminile, comportava e dal restringimento del mercato internazionale già conquistato da Hollywood. Proprio nel momento in cui il cinema avrebbe potuto essere una preziosa arma di propaganda e di racconto della guerra, non fosse altro per la sua popolarità e diffusione tra un pubblico di massa, quello italiano si indirizzava, dopo i colossi storici, verso la produzione di drammi mondani e sentimentali. Quel genere di film che riempivano i cinema delle città durante il conflitto, nella generale frenesia di divertimento che accompagnava il primo anno di guerra nei grandi centri urbani e che provocava un profondo risentimento e rancore tra i soldati rientrati dal fronte per una breve licenza. L’apporto del cinema italiano per creare consenso all’intervento, in un paese che si era diviso ferocemente durante la neutralità, si ridusse alla riedizione di due film apertamente irredentisti (Nozze d’oro e Inferno) che negli anni precedenti erano stati mutilati dalla censura. A rafforzare la motivazione ufficiale della guerra italiana come quarta guerra d’indipendenza, nel 1915 Emilio Ghione dirigeva due film violentemente antiasburgici: Ciceruacchio e Oberdan, quest’ultimo glorificato da D’Annunzio per il deciso patriottismo delle didascalie, del tenore: “La Patria sopra ogni altro affetto” o “Niun sacrificio è più bello che morire per la Patria ”. Tra il 1915 e il 1917 venivano prodotti anche tre film propagandistici d’animazione per ragazzi, il più famoso La Guerra e il sogno di Momi dove il soldato austro-tedesco è rappresentato in tutti i suoi peggiori stereotipi negativi e il finale si conclude con la scritta, imposta dalla censura, “Pax vittoriosa”. Il film di propaganda più famoso e più visto fu Maciste l’alpino del 1916 per la regia di Borgnetto e Maggi. Maciste era la figura dalla forza erculea già comparsa nel film Cabiria che aveva riscosso grande successo tanto da dar vita ad una lunga serie. Oltre a rimarcare il dovere di arruolarsi e di servire la giusta causa dell’Italia (“Avanti Savoia! Seguite Maciste!” è l’esortazione finale del forzuto alpino), il film ridicolizzava oltre ogni limite il nemico austriaco, presentando il conflitto in forma burlesca, ben lontano dalla sua barbarie, la “rappresentazione di una guerra anacronistica e inverosimile” come ha scritto Marco Mondini6 e dove la battaglia, secondo Isnenghi, “Non è mai sangue né morte, in forma macabra, o per lo meno realistica. Persino la morte del nemico diventa fiaba eroicomica”7. Di conseguenza, anche le popolarissime “comiche” si

5 Cfr. F.Cardini e S. Valzania, La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 2014

6 M. Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-1918, Il Mulino, Bologna 2014, p. 251 7 M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Arnoldo Mondadori, Milano 1989, p. 136

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese interessarono della guerra, banalizzandola attraverso il riso e lo sberleffo, come La paura degli aereomobili nemici del 1915, interpretato e diretto dal famosissimo Cretinetti (André Dead). Il contributo del cinema italiano non fu, in ogni caso, paragonabile allo sforzo del cinema americano che, superata la fase di neutralità, a partire dal 1917 si mise a completa disposizione del governo per sostenere l’intervento degli Stati Uniti nel conflitto, per dare forza alle campagne di reclutamento dei volontari e per il coinvolgimento emotivo e ideologico del fronte interno a favore dell’impegno bellico. Quasi un centinaio furono i film prodotti in quel periodo, dove veniva ricostruito in termini rassicuranti il conflitto in Europa ed era prevalente l’immagine barbarica del crudele soldato tedesco, vero e proprio “unno” moderno. A dimostrazione della forza persuasiva di questi film era la concomitante presenza nelle sale di proiezione degli Uffici di reclutamento e per la sottoscrizione dei prestiti di guerra.

Già durante la guerra italo-turca in Libia il cinema italiano aveva documentato la spedizione militare, partecipando all’esaltazione in patria di un’impresa che prometteva nuove terre da coltivare e ricchezze da prelevare. Con la Grande Guerra il racconto cinematografico si aggiungeva, in misura minore, all’immenso apparato fatto di manifesti, cartoline, illustrazioni, fotografie che – patriotticamente e retoricamente – raccontavano la guerra agli italiani rimasti a casa, come di “un mondo parallelo – secondo Isnenghi – di evasione e di sogno, lungo i sentieri del mito e dell’antimito”8. Soprattutto la stampa, come analizzato da Marco Mondini, raccontava una guerra ben diversa da quella vissuta dai soldati:

Contrapposta al racconto genuino del combattente, intollerabile per i reduci e disprezzata dai testimoni, la prosa dei giornalisti fu, tra il 1914 e il 1918, uno dei grandi momenti di elaborazione di un discorso sulla guerra, estraneo alla realtà. In tutti i paesi belligeranti la stampa svolse infatti una propria “missione patriottica” la cui priorità non era certo un’informazione corretta. Piuttosto, redattori e inviati furono attori di una strategia mediatica che ebbe come risultato una rappresentazione del conflitto decisamente lontana dall’esperienza del combattimento moderno, dalla brutalità e dall’anonimato della morte nell’epoca della guerra industriale 9.

Nello stesso modo si comportò il cinema: militarizzato come la stampa, privo della libertà di movimento sui fronti di combattimento, sottoposto a rigidissima censura e ancora tecnologicamente arretrato per riprendere la mobilità e la frenesia della guerra. L’insofferenza del comandante supremo Luigi Cadorna verso ogni tentativo di intrusione politica e civile sulla conduzione della guerra arrivò ad imporre il divieto assoluto nei confronti di deputati e senatori di recarsi in ispezione al fronte, invocando la limitazione della facoltà di indagine e di critica anche per i membri del governo. Questa ferrea chiusura valse in misura ben maggiore nei confronti dei corrispondenti di guerra e nello strettissimo controllo riguardo la diffusione delle immagini fotografiche e cinematografiche.

8 Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945,cit., p.136 9 Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-1918, cit., p. 213

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Della guerra combattuta l’osceno e la brutalità dovevano essere completamente rimosse e rese invisibili, infatti la rigidissima censura militare, preventiva e successiva, non permetteva alcuna autonoma ripresa cinematografica o fotografica, se non quelle in grado – filtrate ed addomesticate - di trasmettere un’immagine eroica ed epica della guerra dei soldati italiani (come furono le copertine di Achille Beltrame sulla “Domenica del Corriere” e le storie illustrate del settimanale del “Corriere della Sera”, rivolto ai ragazzi, “Il Corriere dei Piccoli”10). Quel che vediamo nei filmati d’epoca è ciò che i comandi militari volevano mostrare del conflitto in corso, più preoccupati di occultare gli orrori della guerra e debrutalizzare la violenza che rappresentare la sua realtà. Come sostiene Giuseppe Chigi “Il punto cieco del conflitto genera false visioni e false visioni spacciate come per vere. Ciò che non c’è viene ricreato dal cinema e il falso è destinato così a sostituirlo, quasi un fantasma11”. Le rare immagini degli assalti e dei combattimenti furono tutte ricostruite posteriormente (come Scene di guerra alpina di Luca Comerio, pioniere del cinema italiano, che già aveva filmato la guerra italiana in Libia e, nel corso della Grande Guerra, l’unico civile autorizzato dal Ministero della Guerra ad operare in zona di combattimento), mentre erano completamente assenti quelle delle distese dei cadaveri o dei morti in trincea, se non quelli degli eserciti nemici. Da questi filmati non si vede nulla delle atrocità della guerra, ma solo immagini di continui cannoneggiamenti e di lunghe colonne di soldati in movimento, di feriti amorevolmente curati e di invalidi che praticano attività sportive o lavorano a maglia grazie a protesi miracolanti, di audaci imprese marine e aviatorie, di intrepide scalate tra monti innevati e audaci discese sciistiche.

Non mancano tuttavia – hanno scritto Mario Isnenghi e Giorgio Rochat – i casi in cui documento ed estetizzazione della guerra si danno la mano e gli alpini, come in letteratura, la fanno da padroni per la stessa ragione che in letteratura, ossia perché la loro guerra rimane più “umana” e rappresentabile di quella sporca e sanguinosa della fanteria nelle trincee e negli assalti del Carso 12.

Solo dopo il disastro di Caporetto, ponendosi anche l’esigenza di costruire un’identità e unità di fronte alla possibilità di sfaldamento e disunione del paese, fondamentalmente estraneo e ostile alla guerra, la Commissione Propaganda puntò anche sul cinema 13. Nelle sale cinematografiche vi fu l’obbligo di proiettare, tre volte alla settimana, i “giornali di guerra” e le più famose dive del cinema, come Francesca Bertini e Lyda Borelli vennero chiamate per sostenere la campagna a favore dei prestiti di guerra.

10 In riferimento alle copertine illustrate da Achille Beltrame, Marco Mondini scrive: “Enrico Toti che lancia la sua stampella contro il nemico atterrito e in fuga, il volto sereno di Cesare Battisti sul patibolo, un prode capitano che sul Veliki si lancia all’assalto avvolto nel tricolore, gli alpini del battaglione “Feltre” che respingono gli austriaci gettando macigni dopo aver finito le munizioni e l’anonimo “eroe ingegnoso che da solo fa numerosi prigionieri lasciando credere di essere seguito da intere compagnie” finirono così per essere assunti come testimonianze attendibili, e divennero cardini del corredo iconografico attraverso cui gli italiani immaginarono la “nostra Guerra”. Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-1918, cit., p. 224 Mario Isnenghi ha descritto, invece, le copertine disegnate da Antonio Rubino per il famoso giornale di trincea “La Tradotta” che: “ … dipingono come microcosmi giocosi, completi di ogni rustico comfort, popolati di una giovane umanità maschile di pupazzetti intenti ai mille compiti e mestieri della vita quotidiana: lavare, lustrare, cucinare, cantare, chiacchierare, scrivere, leggere, suonare, tutto, fuor che ammazzare e farsi ammazzare.” M. Isnenghi e G. Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, il Mulino, Bologna 2008, p. 245 11 G. Chigi., Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande Guerra, Rubettino, Soveria Mannelli, 2014, p. 97

12 Isnenghi e Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, cit. p. 518

13 Solo dopo Caporetto il numero degli operatori cinematografici e fotografici autorizzati ad operare nelle zone di guerra passò dai 23 iniziali a circa 600. 9

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A Luca Comerio, il governo commissionò il film Resistere, di cui oggi non rimane alcuna documentazione. Ma il cinema era ormai fuori gioco. Come il conflitto aveva accentuato le difficoltà del cinema italiano, il dopoguerra segnò l’irrimediabile decadenza. Ha scritto lo storico francese del cinema Georges Sadoul:

Ne’ Messalina, né I Borgia, nè Teodora, né Quo Vadis, né Maria Jacobini o Francesca Bertini riuscirono a restituire al cinema italiano l’antico splendore. Esso era già agonizzante allorché “la marcia su “Roma” venne a dargli il colpo di grazia. I suoi film sarebbero scomparsi quasi del tutto dagli schermi del mondo intero per circa un quarto di secolo 14.

II. La fascistizzazione del cinema

La profonda crisi del cinema italiano, ormai focalizzato nella produzione di drammi e vicende sentimentali, non consentì al fascismo di impiegare, per la sua ascesa e il suo consolidamento come regime, la sua indubbia forza propagandistica. Negli anni venti il solo film che si può ricordare fu Il grido dell’aquila di Mario Volpe del 1923, qualitativamente modesto, ma che disegnava la continuità tra Risorgimento Grande Guerra e fascismo, quella continuità che verrà ufficializzata successivamente dalla storiografia di Gioacchino Volpe, riproposta a livello cinematografico nel 1933 da Giovacchino Forzano con il film Camicia nera e, nel 1935, Vecchia guardia di Alessandro Blasetti. L’appropriazione immediata del mito della Grande Guerra e del Risorgimento, permise al fascismo di presentarsi come il naturale compimento del movimento risorgimentale, capace di costruire e plasmare gli italiani al contrario dell’inefficiente Stato unitario liberale, l’unico baluardo patriottico contro i nemici della nazione vittoriosa: il fascismo come anima della nazione. Il fascismo riuscì pertanto ad inglobare progressivamente tutti quei movimenti e fermenti maturati prima del grande conflitto e, dopo la sua conclusione, decisi a gestire la vittoria contro la vecchia classe dirigente e la possibile affermazione del pensiero socialista tra le masse che erano state chiamate a sopportare la gran parte del peso della guerra e che non avrebbero accettato con rassegnazione di ritornare pacificamente al precedente stato di subordinazione. In questa operazione anche la riscrittura della storia portava a presentare il fascismo, retrodatandolo, come l’anima dell’interventismo d’anteguerra, della vittoria conseguita, dell’esperienza fiumana, della rottura rivoluzionaria con la mediocre Italia liberale. La Grande Guerra veniva trasformata da guerra di massa a guerra di eroi, la cui morte non doveva suscitare sentimenti di lutto, pietà, cordoglio o mestizia, ma diventare fonte di nuova vita e nuova forza della nazione, rigenerazione di un popolo attraverso il sangue versato nei teatri del conflitto.

14 G. Sadoul, Storia del cinema mondiale, Feltrinelli, Milano 1972, p. 98

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Come ha scritto lo storico Emilio Gentile:

Quando sorse il movimento fascista, vi era un atteggiamento favorevole ad accogliere e sostenere una religione nazionale, specialmente fra i reduci che avevano sacralizzato l’esperienza di guerra, fra gli intellettuali in cerca di fede, fra i giovani assetati di miti e smaniosi di dedizione e di azione, fra la borghesia patriottica, che si considerava naturale custode dei valori della tradizione risorgimentale. Gli elementi originari per la formazione della religione fascista affiorano già agli inizi del movimento, quando era composto solo da un piccolo gruppo di reduci e giovanissimi, accomunati dal richiamo ai miti dell’interventismo, della guerra e della “rivoluzione italiana” 15.

Probabilmente l’unico momento di commozione e cordoglio collettivo vissuto dal paese nel dopoguerra, moltiplicato in tutte le sale cinematografiche d’Italia con la proiezione del documentario Gloria. Apoteosi del soldato ignoto, fu la cerimonia del trasporto della salma del Milite Ignoto da Aquileia, dove era stata scelta dalla madre di un soldato morto in combattimento e non ritrovato, a Roma nel 1921. I filmati dell’epoca che documentano il viaggio dimostrano come l’opera di appropriazione del mito da parte dei fascisti fosse già una realtà. Accanto ai rappresentanti delle associazioni combattentistiche, dell’esercito, delle vedove e degli orfani di guerra, la presenza di fascisti in camicia nera e gagliardetti è preminente, sia nelle stazioni attraversate dal lentissimo convoglio ferroviario, ma ancor più durante la tumulazione della salma nel Vittoriano. Ben presto il culto dei morti accomunò in tutte le cerimonie i martiri risorgimentali, i martiri fascisti e i caduti della Grande Guerra dove, accanto alle forze armate e alla milizia fascista, il posto d’onore era riservato alle associazioni dei combattenti, dei mutilati e degli invalidi, delle madri dei caduti, vedove e orfani di guerra 16. Il culto fascista dei caduti era la componente essenziale nella liturgia elaborata dal fascismo per quella che Emilio Gentile ha definito la “religione civica” del regime e che troverà la sua massima espressione nei grandi complessi monumentali dei sacrari di guerra completati nella seconda metà degli anni trenta.

Se infatti la politica di altri Stati coinvolti nella guerra – ha scritto Patrizia Dogliani - fu quella di mantenere una rete di cimiteri nazionali sulle aree di guerra (ricordiamo che l’Impero inglese scoraggiò il rimpatrio delle salme nei paesi d’origine e che la Germania lasciò riposare in Francia molti dei suoi caduti), lungo le linee dei combattimenti e delle retrovie, la politica fascista fu quella di assemblarli, di monumentalizzarli, di inserirli in un unico insieme che facesse perdere le ultime tracce di una identità individuale già compromessa dai numeri e dall’ingente proporzione di corpi rimasti senza riconoscimento 17.

Come ha osservato lo storico George L. Mosse, in merito alle cerimonie di commemorazione dei morti del movimento nazista accomunati ai caduti di guerra:

15 Gentile, Il culto del Littorio, cit., p.41 16 Sino al 1925, quando la repressione delle opposizioni era ormai in gran parte compiuta, le cerimonie ufficiali di commemorazione della grande guerra erano sempre state un momento di scontro e conflitto con il patriottismo antifascista e le associazioni combattentistiche che contrastavano la pretesa fascista di essere l’unica depositaria della memoria e dell’amor di patria. 17 P. Dogliani, Redipuglia, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 382-3.

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Il culto dei caduti aveva un’importanza diretta per la maggior parte della popolazione: quasi tutte le famiglie avevano perso uno dei loro membri, e una maggioranza dei maschi adulti aveva combattuto la guerra e perduto un amico. Ma fu la destra politica, e non la sinistra, che si dimostrò capace di annettersi il culto e di metterlo a profitto. L’incapacità della sinistra di dimenticare la realtà della guerra e di far proprio il Mito dell’Esperienza della Guerra si risolse in un vantaggio per la destra, che poté sfruttare ai propri fini politici le sofferenze di milioni di persone 18.

Parallelamente alla “fascistizzazione” dello Stato e alla costruzione del culto del Duce, insieme alla radio, progressivamente posta sotto il pieno controllo del regime, il cinema, nella sua espressione giornalistica e documentaristica, diventava il mezzo di comunicazione principale per la costruzione del consenso 19. Nel 1924, su diretta iniziativa di Mussolini, viene fondata l’Unione Cinematografica Educativa-L.U.C.E., con lo scopo dichiarato di “educazione, istruzione e propaganda”. Come sostiene Gian Piero Brunetta:

Se il fascismo non vuole esercitare un controllo e una pressione sul cinema di finzione ciò si deve anche al fatto che, dall’indomani della nascita, ha preso sotto controllo tutta l’attività cinegiornalistica e educativa dell’Istituto Nazionale Luce. Questa istituzione riceve il sostegno politico ed economico per una rapida crescita e alcuni caratteri che ne formano l’identità. In cambio, ne celebra subito i fasti e ne registra le trasformazioni esterne, lo spirito di conquista, la costruzione dei riti e dei miti, lo sforzo e i processi di identificazione della nazione con la figura di un dittatore desideroso da subito di acquisire visibilità e peso internazionali. Per mezzo dei cinegiornali, il fascismo e il suo capo riescono a costruire, quasi giorno per giorno, un equivalente del monumentun ancyranum augusteo. Un monumento per immagini del duce e delle sue imprese pacifiche e guerresche che segna, sul piano internazionale, il primo intervento in prima persona da parte d’un regime politico sul sistema dell’informazione cinematografica 20.

L’obbligatorietà della proiezione in tutti i cinema dei documentari realizzati dall’Istituto L.U.C.E., prima del film programmato, dimostra l’importanza strategica che il regime riservava alla cinematografia, tanto più nel momento che la produzione nazionale era ormai quasi inesistente. La scarsità di film nazionali – che ancora nel 1934 raggiungeva solo il 10% del mercato interno - non aveva comunque ridotto il gran numero di spettatori che frequentava le sale cinematografiche, attirati dai film stranieri, naturalmente quelli che il regime non proibiva (sino al 1938 quando fu vietata l’importazione di film prodotti all’estero, con l’esclusione di quelli tedeschi).

…il fascismo - scrive ancora Brunetta - aveva visto che era troppo difficile impegnare il vasto pubblico che andava al cinema in una decifrazione di sottili messaggi politici o di sensi secondi contenuti nei film e quindi si era riservato fin dall’inizio come terreno diretto di intervento quello dei documentari e dei cinegiornali che fornivano ugualmente, ad ogni proiezione, l’occasione di parlare delle realizzazioni del regime e di documentarle mediante precisi procedimenti retorici ottici e verbali 21.

18 G.L. Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 117-8 19 Dell’importanza e capacità di persuasione dello strumento radiofonico nel periodo fascista abbiamo una efficace rappresentazione nel film di Ettore Scola Una giornata particolare del 1977. 20 Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003, cit., p. 84 21 G.P. Brunetta, Intellettuali cinema e propaganda tra le due guerre, Pàtron, Bologna 1973, p. 97 12

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Nel momento in cui agli inizi degli anni trenta il cinema italiano riprendeva forma, sotto l’impulso diretto di Mussolini, questi non aveva più bisogno di rinvigorire il mito della Grande Guerra, avendolo da tempo sostituito con il mito della sua figura carismatica di condottiero indiscusso: il cinema sarebbe stato chiamato a celebrare i fasti del costruendo impero, non più quindi con lo sguardo rivolto all’indietro, ma verso un domani che preannunciava la nuova potenza dell’Italia. Come ha scritto George L. Mosse:

Mussolini voleva un nuovo uomo fascista, un uomo del futuro che fosse un “vero uomo”, un soldato provvisto delle virtù fasciste della fede, del coraggio e della forza di volontà. E tuttavia l’uomo nuovo di Mussolini differiva dal modello tedesco: lungi dall’essere un prigioniero del passato, era presunto libero di creare il futuro dello Stato fascista 22.

Con l’affermarsi del sonoro lo stato fascista aveva individuato nel cinema un veicolo di legittimazione internazionale, garantendo ai film a soggetto una relativa libertà di espressione evitando di farne un mezzo di esplicita propaganda 23 (se non nel periodo 1940-1942 sull’onda del buon andamento della guerra per le forze dell’asse). Frequenti furono i lavori in Italia di registi stranieri, in particolare tedeschi e francesi (Dreyer, Ruttmann, Epstein, Ophüls, Chenal, Renoir, Gance, tra i tanti), mentre nel 1932 prendeva corpo la prima Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica a Venezia. Dalla metà degli anni trenta lo Stato intervenne con notevoli sostegni economici per rilanciare il cinema italiano, compresa la costruzione, nel 1937, di Cinecittà.

Agli inizi degli anni trenta – scrive Brunetta – si registra una svolta nella politica del regime: si abbandona l’ideologia ruralista e ogni riferimento allo squadrismo, si tenta di dare un’immagine dell’Italia pacificata e concorde, dominata da un’ideologia piccolo-borghese, e si potenzia la politica celebrativa e monumentale cercando di saldare passato e presente 24.

… al vertice del partito che si è fatto Stato – ha osservato Isnenghi – stanno gli uomini di uno storico compromesso di Regime molto più inclini a valorizzare la raggiunta unione nazionale degli italiani di tute le classi e di tutti gli ex partiti, che non a coltivare la memoria delle divisioni25.

Alla fin fine, il cinema che affronta esplicitamente la Grande Guerra durante il ventennio fascista in realtà si riduce ad un solo film: Scarpe al sole di Marco Elter (1935), un film che il critico cinematografico francese Pierre Sorlin ha definito “un’opera piacevole, ottimistica, che non rischia di disturbare gli spettatori26”, dove primeggia il racconto epico tra le rocce, in grado di mascherare la crudeltà della guerra (la montagna era un tema comune a diverse cinematografie in quel periodo, in particolare a quella germanica27).

22 Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, cit., pp. 205-6 23 “Il ministro Bottai, figura di spicco fin dalla marcia su Roma, per esempio, nel suo intervento a favore della legge del 1931 dice, tra l’altro, di non essere un frequentatore del cinema, ma di aver constatato che ˂il pubblico invariabilmente si annoia quando il cinematografo lo vuole educare˃. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003, cit., p. 77 24 Ivi, pag. 105 25 Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945,cit., p. 148 26 P. Sorlin,,Tre sguardi sulla Grande Guerra. I film di finzione in Francia, Germania e Italia, in La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e C. Zadra, il Mulino, Bologna 1986, pp. 846-7 27 Nel 1931 grande successo ottenne in patria, ma anche in Francia e in Italia, il film Berge in Flammen (Montagne in fiamme) del tedesco Luis Trenker, epica ed eroica rappresentazione della guerra tra le rocce, con i combattenti su fronti opposti quasi affratellati dall’ardimento e dalla comune appartenenza al mondo dell’alpinismo. 13

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Per Mario Isnenghi Scarpe al sole:

… interessa rappresentare una guerra di ubbidienza, di solidarietà sociale e di indipendenza nazionale a cui tutti, con naturalezza o con fatalismo, portano il proprio contributo. Spetta come al solito ai montanari e quindi agli alpini prestare il proprio volto rassicurante alla coralità della guerra nazional- popolare, vissuta come una periodica evenienza di vita, fra muli, fiaschi di vino, campanili e moderate imprecazioni insaporite dal dialetto 28.

Mentre G.P. Brunetta sottolinea che in questo film “E’ chiaro che dal punto di vista ideologico ormai al fascismo interessava poco la grande guerra e che quindi il film non trasmette degli ideali di guerra funzionali alla politica del regime 29”. Presentato alla Mostra del cinema di Venezia, Scarpe al sole ricevette in premio la coppa del Ministero della stampa e propaganda quale film “più eticamente significativo e pagina originale e nobilissima della cinematografia di guerra”. Scarpe al sole è tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Monelli del 1921, letto per più generazioni e definito da Mario Isnenghi “il prontuario narrativo di vita degli Alpini – tipizzati, immessi nella anedottica e nella affabulazione di una affettuosa ed umile epica popolare” 30. Non a caso, in una delle numerose riedizioni, venne aggiunto il sottotitolo Cronaca di gaie e di tristi avventure di alpini, muli e di vino. Difficile, invece, far rientrare fra i film di guerra il successivo Piccolo alpino, film di Oreste Biancoli del 1940, ricavato dal romanzo omonimo per ragazzi di Salvator Gotta 31 scritto nel 1926, un edificante racconto per i giovani, dove un coraggioso ragazzo segue gli alpini al fronte e partecipa alla loro guerra, con decorazione finale per il suo ardimento. Una favola insostenibile, pur se alla costruzione dei dialoghi partecipò anche Paolo Monelli, girata in fretta e furia con molta approssimazione. Comunque il film riscosse un grande successo 32.

Può sorprendere oggi - ha scritto Mondini sul libro di Gotta – eppure questo volume agiografico e melenso fu, almeno fino al secondo dopoguerra, uno dei testi più letti in Italia, con diciotto edizioni e oltre 600 mila copie distribuite fino al 1940 (…) Romanzo chiave nella formazione delle giovani generazioni per almeno due decenni, Il piccolo alpino si dimostrerà una silloge complessa e formidabile degli elementi più classici dell’educazione e dell’identità virile e della mobilitazione dell’immaginario infantile ai fini di un compiuto inserimento nei quadri di una pedagogia d’ordine e di obbedienza 33.

Come abbiamo visto in precedenza, in qualche modo la guerra degli italiani era stata rappresentata nel film del 1933 di Giovacchino Forzano Camicia nera, che utilizzava ampi spezzoni documentaristici – quelli girati da Luca Comerio - con la ricostruzione di eroiche cariche di cavalleria e di fanti che si lanciavano spavaldamente fuori dalle trincee. Un film apologetico, girato

28 Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945,cit., p. 149 29 Brunetta, Intellettuali cinema e propaganda tra le due guerre, cit. p. 113 30 M. Isnenghi, Scrittori sotto le bombe, da “Il Corriere della Sera”, 28 giugno 2014 31 Salvator Gotta è stato, tra l’altro, l’autore dei versi dell’inno ufficiale fascista Giovinezza 32 Nel 1986 la Rai ripropose, in un nuovo film sceneggiato per la TV per la regia di Gianfranco Albano, il Piccolo Alpino, lasciando immutato tutto lo spirito irredentista della Grande Guerra e non discontandosi in alcun modo dallo spirito di abnegazione ed eroismo del piccolo .

33 Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-1918, cit., p. 242

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese in occasione del decennale del regime, una sorta di genealogia del fascismo dove l’Italia di Vittorio Veneto era posta a fondamento e legittimazione della rivoluzione fascista, vero e proprio mito fondativo del fascismo.

III. La Grande Guerra e il cinema nella prima età repubblicana

Paradossalmente la rifioritura del cinema italiano nell’immediato dopoguerra era stata coltivata da quelle figure di registi e intellettuali antifascisti che, negli anni trenta, avevano trovato modo di esprimersi in quella specie di zona franca dell’arte cinematografica che il regime aveva finanziariamente sostenuto 34.

I veri amici del cinema italiano, - ha scritto Sadoul - che già preparavano la sua rinascita, erano quasi tutti ostili al regime e vivevano ai margini dei teatri di posa. Era facile trovarli al Centro Sperimentale – intorno al critico Barbaro e allo storico Pasinetti – o al GUF (Gruppo Universitario Fascista), meno favorevole a Mussolini di quanto non lasciasse pensare la sua denominazione. Alcuni studenti poterono persino vedere certi proibitissimi film sovietici o francesi. Con le difficoltà create al regime dallo scoppio di una guerra che gli sarebbe stata fatale, questi spiriti nuovi poterono riunirsi e gettare le basi per una rinascita del cinema italiano, che venti anni di fascismo non erano riusciti nemmeno ad abbozzare 35.

La brevissima stagione del neorealismo, coincidente con le speranze seguite alla Liberazione e alla sconfitta del fascismo, che esprimeva un’energia creativa liberata dopo anni di confinamento culturale angusto e provinciale, non poteva che chiudersi, dopo il quinquennio 1943-1948, con il consolidarsi di una stabilizzazione moderata guidata dalla Democrazia Cristiana e dalla forte e intatta influenza della Chiesa cattolica sulla società italiana nonostante il suo appoggio al passato regime fascista. Un consolidamento nel paese che rifletteva l’antagonismo internazionale dei due nascenti blocchi politico-militari tra Est e Ovest e che, per la presenza nel campo avverso del più grande partito comunista d’occidente, si trasformerà in una ferrea rigidità politica, senza alternative per oltre quarant’anni. Lo storico del diritto Aldo Schiavone ha così descritto questa transizione:

Il gruppo dirigente democristiano (De Gasperi e i suoi, non però Dossetti) aveva come problema essenziale di addolcire il trauma della lotta armata e della rottura antifascista riportandolo nella cornice del quietismo politico e sociale che costituiva il nucleo della presenza della Chiesa nelle cose d’Italia: una lunga immedesimazione fra disciplina religiosa e politica conservatrice, nella quale si voleva a tutti i costi vedere la stella polare della nostra storia 36.

Un quietismo che rispondeva al diffuso bisogno nella maggioranza della società italiana di normalizzazione, di dimenticare al più presto la guerra e le sue distruzioni, di lasciarsi alle spalle

34 Tra i molti meritano di essere menzionati: Lattuada, Soldati, Castellani, Rossellini, Visconti, De Santis, Zavattini, De Sica, Germi, Emmer. Nello stesso tempo occorre ricordare che il cinema italiano fu uno tra i settori meno toccati dal processo di epurazione, ad eccezione di alcuni che avevano accettato di aderire alla Repubblica di Salò. 35 Sadoul, Storia del cinema mondiale, cit., p. 376 36 A. Schiavone, Italiani senza Italia, Einaudi, Torino 1998, p. 43

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese anni di miseria, abbruttimenti e conflittualità e, soprattutto, di non fare i conti con il proprio passato e responsabilità. Una società, d’altronde, che era stata mobilitata in armi per un ventennio dal fascismo: dalla riconquista della Libia alla guerra contro l’Etiopia; dalla guerra di Spagna al secondo conflitto mondiale. Meglio di qualsiasi altra opera di spettacolo, a rappresentare questa ossessionante ricerca di oblio e cancellazione della memoria, è la commedia di Eduardo De Filippo Napoli Milionaria! del 1945, dove è rappresentata l’ostilità e il fastidio che – realmente - provocava il ritorno dei reduci e degli internati dai paesi che l’Italia fascista aveva aggredito, la stessa ostilità che sarà riservata agli esuli istriani e dalmati.

L’intreccio tra condanna e oblio – scrive Luisa Mangoni – rottura e continuità avrebbe richiesto una strada diversa:”fare un maggiore affidamento sul senso morale del popolo italiano, e tener vivo questo senso morale; eccitare a ricordare”. Ma appariva evidente invece che era proprio il desiderio di dimenticare, di chiudere con un periodo di sofferenza ciò che unificava le esperienze di molti 37.

Il disegno di restaurazione richiedeva la continuità dello Stato e la garanzia che la Repubblica non avrebbe smantellato totalmente gli ordinamenti, gli apparati amministrativi, la legislazione del passato Stato fascista. Un disegno che si concretizzò, come ricorda lo storico Silvio Lanaro, con:

Il fallimento, infine, delle misure di defascistizzazione degli apparati dello stato – volute con tenacia solo da alcuni partiti, sabotate dalle forze di occupazione alleate e applicate in modo quanto mai irresoluto e malaccorto – priva il nascente stato democratico di un corpo di servitori politicamente devoti e quindi pronti a demolire l’incastellatura autoritaria, la mentalità dispotica e i privilegi castali della burocrazia centrale e periferica 38.

Pur richiamandosi all’eredità della Resistenza, i partiti ricostituiti secondo Aldo Schiavone “Scesero così subito a patti con la vecchia società e con il vecchio Stato che intanto, finito il peggio, stavano riaffiorando dalle rovine che li avevano sepolti (non bisogna mai sottovalutare l’inerzia auto conservativa delle nostre organizzazioni pubbliche)” 39. Come ha scritto Mariuccia Salvati, in virtù di questa continuità, magistratura, polizia, esercito e servizi segreti rimasero indenni da ogni ricambio e rinnovamento.

L’aspetto più noto della continuità tra fascismo e repubblica riguarda, tuttavia, il carattere incompleto della riforma dello Stato (inteso sia come «corpi» che come leggi) attuata dopo la caduta del fascismo. La mancata riforma istituzionale e normativa è stata, anzi, il primo aspetto relativo al tema della continuità del fascismo a essere fatto oggetto di un intenso dibattito – ad opera prevalentemente di giuristi, ma anche di politici – già nella ricorrenza del primo decennale della Liberazione 40.

37 L. Mangoni, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, in Storia dell’Italia repubblicana. La costruzione della democrazia, F. Barbagallo (a cura di), Einaudi, Torino 1994, p. 691 (la frase riportata è di A.C.Jemolo) 38 S. Lanaro, Storia dell’Italia contemporanea. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Marsilio, Venezia 1992, p.26

39 Schiavone, Italiani senza Italia, cit., pag. 29 40 Salvati, Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale, in Storia dell’Italia repubblicana. La costruzione della democrazia, F. Barbagallo (a cura di), cit., pp. 416-17

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Sebbene la Costituzione del nuovo stato repubblicano garantisse la libertà delle forme di espressione, la legislazione relativa alla composizione e al funzionamento delle commissioni di censura, istituite con regio decreto del 1920 e confermate dal regime fascista, rimase invariata (eccetto che nel brevissimo periodo 1945-1947) e il cinema e la stampa furono i bersagli privilegiati degli interventi repressivi, anche da parte della magistratura e delle autorità di pubblica sicurezza. Nel 1949, su iniziativa del sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, insieme all’adozione di misure che volevano favorire la produzione cinematografica italiana – come in realtà avvenne - fu introdotta anche una sorta di censura preventiva, collegando la concessione di contributi pubblici all’approvazione preventiva della sceneggiatura da parte dell’Ufficio Centrale per la Cinematografia. Particolarmente risoluti furono gli interventi delle autorità ecclesiastiche per mantenere sotto tutela ogni forma di spettacolo, che si tradusse, come ha scritto Silvio Lanaro, in “un’attenzione spasmodica, multiforme, martellante, quasi ossessiva per i mezzi di comunicazione di massa 41”, mentre “i magistrati e le commissioni di censura, intanto, lavorano indefessi, e la loro scure si abbatte di preferenza sul cinema 42”. L’azione di controllo della Chiesa cattolica sulla produzione cinematografica si esercitava attraverso la presenza – determinante – di propri ecclesiastici nelle commissioni di censura e nell’istituzione di un proprio organismo confessionale di valutazione sui film da proiettare nelle sale cinematografiche parrocchiali, il Centro Cattolico Cinematografico. Poiché nei piccoli centri i cinema parrocchiali erano generalmente gli unici – nel 1953 le sale parrocchiali erano il 30% dell’intero circuito nazionale - un eventuale e autonomo divieto a giudizio del C.C.C. comportava non pochi danni economici alle case di produzione. Non era infrequente il caso che le commissioni di censura governative adottassero il parere già espresso dal C.C.C., mentre nelle sale del circuito cattolico era in uso proiettare pellicole già tagliate rispetto a quanto veniva proiettato nel normale circuito distributivo. Molti film di cui il fascismo proibì l’importazione in Italia, prima di essere proiettati dopo il 1945, subirono ulteriori interventi da parte delle commissioni censura dello Stato repubblicano. Limitandoci ai film che possono rientrare nell’argomento svolto in questa tesi, l’intervento censorio riguardò Westfront1918-Vier von der Infanterie di G.W.Pabts (1930), permesso solo nel 1962 e così All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di nuovo) (1930) di L. Milestone 43; A Farewell to Arms (Addio alle armi) (1932) di F. Borzage nel 1956; La grande illusion (La grande illusione) (1937) di J. Renoir nel 1947, dopo aver subito alcuni tagli. Anche The Great Dictator (Il Grande dittatore) (1940) di Charlie Chaplin, prima di essere ammesso nelle sale cinematografiche nel 1949, subì il taglio delle scene dove compariva la moglie di Bonito Napoloni (chiaro riferimento al Duce), per non urtare la sensibilità della vedova Rachele

41 Lanaro, Storia dell’Italia contemporanea, dalla fine della guerra agli anni novanta, cit., p. 100

42 Ivi, p. 186 43 “Per All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di nuovo), già proibito dai fascisti, interviene direttamente, nel 1950, Andreotti il quale, con il plauso della stampa di destra, invitò la Universal a non portare il film in censura in quanto non avrebbe ottenuto il nullaosta: troppo pacifista l’assunto, troppo antimilitarista il messaggio.” F. Vigni, Censura a largo spettro, in Storia del cinema italiano 1949-1953, L. De Giusti (a cura di), Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, Venezia 2003, p. 75 17

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Guidi ancora vivente. Il film Casablanca (1942), diretto da Michael Curtiz fu proiettato nel 1946, dopo che nel doppiaggio la frase riferita al sostegno fornito dal protagonista alla resistenza etiope contro l’invasione colonialista italiana, diventava un incomprensibile “aiuto ai cinesi”44. In questa pesante offensiva oscurantista, l’accanimento dell’azione di polizia e della magistratura non è però rivolta solamente contro le violazioni alla “morale corrente” o al “comune senso del pudore”, accuse addebitate frequentemente ai film di Totò, forse il più bersagliato dalla censura a quel tempo. Amplissimo, infatti, era il ricorso al reato di vilipendio previsto nel codice fascista Rocco e mantenuto ancora in vigore: gli autori di articoli, di film e di spettacoli teatrali che esprimevano una qualche critica nei confronti delle forze armate, o delle personalità dello Stato, subirono denunce per oltraggio e condanne sempre più numerose 45. La magistratura, addirittura, non esitò a far ricorso all’applicazione del codice militare di pace o a sottoporre i giornalisti al giudizio dei tribunali militari, utilizzando il dispositivo penale per cui ogni cittadino in congedo poiché poteva essere richiamato alle armi doveva considerarsi sottoposto alla giurisdizione militare.

Nel 1953 – ricorda Giorgio Rochat - due giovani studiosi, Guido Aristarco e Renzo Rienzi, pubblicarono su “Cinema nuovo” la sceneggiatura di un film sull’occupazione della Grecia, intitolato L’armata s’agapò. La giustizia militare li accusò di denigrazione dell’esercito e li fece arrestare, ritenendo che anche i militari in congedo fossero sottoposti alla sua giurisdizione. I due furono condannati a 6 e 7 mesi di galera, in parte scontati 46.

Solo nel 1962 la censura venne in qualche modo attenuata, ma alla maggior prudenza dei censori nell’intervenire in maniera arbitraria subentrò il fenomeno della diffusa iniziativa autonoma da parte di procuratori della Repubblica, delle denunce di singoli cittadini e associazioni che, appellandosi al codice penale, chiedevano l’intervento della magistratura per il sequestro delle opere considerate oltraggiose o indecenti 47. Secondo Silvio Lanaro le conseguenze di questa politica censoria sono “le idee cadute in abbandono, i progetti rinchiusi per sempre nel cassetto, le opere mai realizzate per l’autocensura di registi sommersi dalle intimidazioni virtuiste e di produttori spaventati dalla prospettiva del disastro commerciale ” 48.

44 Il perdurare dell’intervento censorio da parte governativa si dimostrò nel 1982 quando Giulio Andreotti, in qualità di presidente del consiglio, intervenne per impedire la proiezione del film di produzione libica Il leone del deserto di Moustapha Akkad, una ricostruzione storica della resistenza libica alla campagna fascista di riconquista del 1929. Secondo Andreotti il film risultava “lesivo all’onore dell’esercito italiano” e ne fu impedita la distribuzione in Italia. Solo nel 2009 un canale televisivo privato (Sky) trasmise il film, dopo che ogni tentativo di proiezione pubblica era sempre stato stroncato dalla Digos, come nel 1987 a Trento. Cfr. A. Ferrari, Dopo trent’anni via il divieto italiano al “Leone del deserto”, “Corriere della Sera” 11 giugno 2009. 45 Nel 1961 la censura italiana proibì la proiezione del film Tu ne tueras point (Non uccidere) diretto dal regista francese Claude Autant-Lara, prodotto dall’italiano Moris Ergas, lo stesso de Il generale Della Rovere di Rossellini e di Kapò di Pontecorvo. Il film affrontava un caso di obiezione di coscienza durante la seconda guerra mondiale e fu considerato un’istigazione a delinquere, a violare la legge sull’obbligatorietà del servizio militare. Nell’ottobre 1961 la “Comunità Europea degli Scrittori” organizzò la proiezione del film in un cinema romano, ma l’ingresso del pubblico fu impedito dalle forze di polizia su ordine della magistratura. 46 G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943, Einaudi, Torino 2005, p. 374 47 Il caso più eclatante riguardò il film di Bernardo Bertolucci Ultimo tango a Parigi del 1972, che subì la condanna della magistratura alla distruzione di tutte le copie. 48 Lanaro, Storia dell’Italia contemporanea, dalla fine della guerra agli anni novanta, cit., p. 196 18

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

I generi cinematografici prevalenti nel primo decennio repubblicano sono dunque quelli legati ai drammi sentimentali, al comico, derivato direttamente dall’avanspettacolo, al cine-opera ispirato al melodramma, al musicale e al mitologico. In questo panorama politico e culturale, dove nelle scuole italiane il Piccolo alpino di Salvator Gotta restava una delle letture scolastiche d’obbligo e i libri di testo non erano ancora stati depurati dall’impronta culturale fascista con la quale erano stati redatti, ben difficilmente il cinema avrebbe potuto interessarsi alla Grande Guerra in termini diversi dall’agiografia.

Nonostante tutto, però, - ha scritto Marco Mondini – il 1945 non rappresentò affatto uno spartiacque netto e integrale per i linguaggi del cinema bellico. Al contrario, il ricordo dei successi delle armi italiane e della vittoria finale nella prima guerra continuò ad essere enfatizzato, e utilizzato nel tentativo di attenuare il trauma della seconda, perduta, e di ridare voce alla dignità nazionale. Gli anni Cinquanta videro così fiorire in Italia un’intensa produzione di film di guerra, tra cui una quindicina (per citare solo i più importanti) dedicati al primo conflitto mondiale. Depurato delle retoriche ultranazionalistiche e imperiali della produzione littoria, ma teso all’esaltazione del valore militare italiano, dell’orgoglio della bandiera e dell’amor di patria, questo “cinema eroico” del secondo dopoguerra rappresenta ancor oggi un’efficace testimonianza della continuità nella vita intellettuale italiana 49.

A scrivere e dirigere questi film erano, infatti, gli stessi che, nel corso del ventennio, avevano aderito, almeno nella scrittura dei soggetti, allo spirito evocato dal fascismo. Di questi film che riprendono il tema eroico e patriottico della prima guerra mondiale si possono ricordare: Il caimano del Piave (1950) di Giorgio Bianchi; Piume al vento (1950) di Ugo Amadoro; La leggenda del Piave (1952) di Riccardo Freda; Addio mia bella signora (1953) di Fernando Cerchio; I cinque dell’Adamello (1954) di Pino Mercanti; La Campana di San Giusto (1954) diretto da Mario Amendola e Ruggero Maccari; Guai ai vinti (1954) di Raffaello Matarazzo (un regista per anni campione d’incassi con i suoi film dal forte tasso melodrammatico, come Catene o I figli di nessuno).

IV. Il cinema e la revisione del mito della Grande Guerra

Dopo il torpore culturale che aveva investito il cinema italiano negli anni cinquanta una nuova stagione si apriva dove, almeno sino agli inizi degli anni settanta, l’industria cinematografica conoscerà uno sviluppo, anche in campo internazionale, mai raggiunto prima. La rinascita del cinema italiano è simbolicamente marcata dall’assegnazione, nel 1959, del Leone d’Oro della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia a Roberto Rossellini con il film Il generale Della Rovere e a Mario Monicelli con La Grande Guerra. Come già aveva fatto il neorealismo nei primissimi anni del dopoguerra, con il film di Rossellini il cinema tornava ad affrontare il passato resistenziale da cui il Paese era appena uscito e con il quale doveva continuare a fare i conti considerando che nel luglio del 1960 le piazze italiane si sarebbero riempite per le estese manifestazioni contro l’emergere del neofascismo e il tentativo di includerlo in ambito governativo. Con La Grande Guerra si dimostrava che, sfidando divieti, censure e imposizioni, era possibile affrontare tematiche sino allora considerate inviolabili e

49 Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-1918, cit., p. 259 19

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese indiscutibili. Temi da non toccare anche adottando un genere, quello della “commedia all’italiana” che non spingeva oltre un certo limite la critica, ma con la capacità di raggiungere un equilibrio tra la farsa e la tragedia, seppure a volte compromesso da un certo bozzettismo e macchiettismo 50. Grazie alla validità di molti sceneggiatori (Amidei, Sonego, Age e Scarpelli, Scola, Maccari e Suso Cecchi D'Amico) in grado di interpretare il costume e il carattere degli italiani che in quegli anni stava profondamente cambiando, di registrare le tensioni e le inquietudini che il “miracolo economico” stava amplificando ed esasperando, il cinema riuscì a rappresentare una società in fermento dopo la fase della ricostruzione postbellica (ad esempio con i film di Dino Risi Una vita difficile del 1961 e Il sorpasso del 1962 o Divorzio all’italiana di Pietro Germi del 1961). Una rappresentazione che si è potuta avvalere delle robuste interpretazioni di una generazione di attori come Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e Nino Manfredi. Questo nuovo cinema italiano fu in grado, anche attraverso la commedia, di affrontare le tematiche del nazismo, del fascismo e dell’antifascismo, oscurate durante gli anni seguiti alla breve esperienza di unità dei partiti che aveva contrastato il regime dopo il 1943 (Tutti a casa di Luigi Comencini del 1960, La marcia su Roma sempre di Dino Risi del 1962, Anni ruggenti di Luigi Zampa del 1962). Come per tutti i generi cinematografici, il pericolo di una successiva banalizzazione dei conflitti rappresentati (in particolare la dittatura fascista, sdrammatizzata e ridotta in burletta) era sempre concreto e questo per ragioni prevalentemente economiche, che spingevano a sfruttare sino all’esaurimento un filone in grado di procurare incassi a volte insperati.

Tuttavia, - ha scritto Lino Miccichè - al di là di queste alchimie mercantili (che in genere riescono a distruggere culturalmente più di quanto danno economicamente) risulta abbastanza chiaro che il sottofilone satirico/farsesco sul fascismo rispondeva, aggiornandole, alle stesse funzioni evasive della commedia vernacola e quindi – come già in quest’ultima era avvenuto – tendeva per sua stessa natura ad attutire ogni urto, ad evitare ogni frontalità, a implicare il meno possibile lo spettatore in una scelta, a rasentare – e talora sposare (vedasi Il federale di Luciano Salce) – la morale patria del “semo tutti italiani”. E, quel che è più grave, il successo di cassetta che arrise a molti di quei prodotti dimostrava che il pubblico poteva e voleva ridere, ma non già sul fascismo, bensì sulla sdrammatizzata rappresentazione della propria ambivalenza fascismo/antifascismo, cioè proprio su quella costante della psicologia piccolo-borghese nazionale che andava esorcizzata e che – a quindici anni dal crollo della dittatura e a quaranta dal suo inizio – evidenziava ancora in estirpate radici 51.

Nella loro Storia del cinema Goffredo Fofi, Morando Morandini e Gianni Volpi, analizzando la commedia all’italiana, hanno osservato che:

L’appartenenza degli autori a quella piccola e media borghesia sulla quale di preferenza puntano i loro obiettivi implica e determina la tendenza a idealizzarne i conflitti: sono partecipi delle sue contraddizioni e delle sue morali come delle ambiguità culturali ed ideologiche. Sono, inoltre, professionisti, ossia per definizione, soprattutto in questo genere, alla ricerca del successo, perciò costretti a non spingere troppo oltre la critica, a lasciare al pubblico spazi di lusinga e di riconoscibilità immediati, compiacendo

50 Occorre riconoscere che anche grazie al genere della “commedia all’italiana” e alla sua capacità di irriverenza nei confronti delle pagine di storia rimosse era stata possibile la produzione di film di rigorosa e valida riflessione sul recente passato nazionale come, ad esempio: Il gobbo di Carlo Lizzani (1960), Kapò di Gillo Pontecorvo (1960), La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini (1960), Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961), Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962), Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963), Italiani brava gente di Giuseppe De Santis (1963). 51 L. Miccichè, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia 2002, p.50

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nella ripetizione semantica la sua pigrizia, il tradizionalismo, il bisogno di vedere ciò che sa in partenza essere un prodotto ben determinato, con proposte rodate e bene accette. All’interno di questi limiti, che in alcuni autori e in alcuni periodi sono stati assai rigidi, specialmente per il condizionamento degli interpreti, si è avuta tuttavia una produzione di film intelligenti e interessanti, anche per umori di polemica sociale 52.

Quasi contemporaneamente, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso, una nuova generazione di storici italiani (come Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, Enzo Forcella, Alberto Monticone, Piero Melograni, Paolo Spriano) iniziava a mettere in discussione l’uso pubblico e politico del passato e dei momenti fondamentali della storia dell’Italia unitaria. Tra questi la prima guerra mondiale che non poteva essere più considerata, e studiata, come un conflitto solo italiano, nobilitata e sacralizzata dalla mitologia di una chiamata alle armi del popolo italiano per la quarta guerra d’indipendenza, per completare il Risorgimento con la liberazione di Trento e Trieste e degli antichi domini della Repubblica di Venezia. Per la prima volta in Italia venivano analizzate tutte quelle componenti della Grande Guerra che una storiografia conformista aveva volutamente occultato, come le condizioni dei soldati, le ribellioni alla guerra, le coercizioni, le forme di disciplinamento delle masse, la giustizia militare, l’inadeguatezza e l’incapacità dei comandi, l’autoritarismo nell’esercito e nella società, l’ambiguità delle trattative con i paesi dell’Intesa e con gli Imperi Centrali durante il periodo della neutralità, la guerra quale levatrice del fascismo 53. A questo proposito hanno scritto Isnenghi e Rochat:

Un cambiamento globale di prospettiva prende corpo nella seconda metà degli anni Sessanta. L’interesse per la Grande Guerra, in se stessa e come passaggio storico alla società di massa e al fascismo, risorge con una nuova generazione di studiosi, che non è composta di ex combattenti e a cui non riesce congeniale riviverla e raccontarla con attitudine da reduce o da erede, né dell’interventismo democratico, né di quello nazionalista. Si sente piuttosto stimolata a interrogare con animo nuovo e con differenti attese gli esclusi – tanto da Omodeo quanto da Volpe – e cioè le ragioni, i sentimenti e persino i comportamenti primordiali e irriflessi, di semplice paura e non solo di natura politica, dei neutralisti del 1914-1915, e poi dei renitenti, degli autolesionisti, dei disertori, degli ammutinati 54.

Nello stesso periodo anche nella società, pur se in ambienti ristretti e prevalentemente nel mondo cattolico più sensibile e avanzato, venivano dibattuti e profondamente messi in discussione il tema dell’obiezione di coscienza, il concetto di “guerra giusta” e il valore dell’obbedienza all’autorità. Le prese di posizione di don Lorenzo Milani nei confronti del militarismo, del ruolo dei cappellani militari e del diritto alla disobbedienza furono causa della sua emarginazione ecclesiastica (come in precedenza avvenuto a don Primo Mazzolari) e, nel 1965, di un processo per apologia di reato. Anche nel panorama della musica leggera italiana (che, per quanto possa apparire banale, è uno specchio sostanziale del mutamento sociale) analoghi temi iniziavano ad apparire nonostante la preponderante produzione di canzonette disimpegnate e

52 G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, Vol. 3, Garzanti, Milano 1988, p. 52

53 “Il fascismo non fu una “rivoluzione”: il 16 novembre 1922, quando Mussolini si presentò per la prima volta alla Camera come Capo del Governo, ai suoi fianchi torreggiavano il generale Diaz e l’ammiraglio Thaon di Revel, a rappresentare ufficialmente il consenso della Marina e dell’Esercito.” Introduzione di G. De Luna a E. Lussu, La Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, Torino 2000, p. 5 54 Isnenghi e Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, cit. p. 507

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese melense. Testi più problematici e riflessivi, come La guerra di Piero di Fabrizio de Andrè (1964) o, quello ancor più esplicito, di Dio è morto di Francesco Guccini del 1967 (“Questa mia generazione che ormai non crede nei miti eterni della patria e dell’eroe, perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità”) non esitavano a demistificare e dissacrare i concetti di Patria, dedizione e sacrificio che ancora avevano presa su una larga parte della società. Canzoni di cui, per lungo tempo, fu ovviamente vietata la trasmissione sia per radio che per televisione.

Grazie all’avvento del centrosinistra, - scrive Brunetta - al rallentamento del cordone sanitario anticomunista, alla caduta di molti tabù tematici, si rivisita la storia senza più limitazioni, né complessi, né eccesso di riverenza nei confronti dei padri 55.

Come La grande Guerra di Monicelli rappresentò una svolta della “commedia all’Italiana”, che contribuì alla capacità del cinema italiano di rappresentare al meglio la trasformazione dell’Italia da paese prevalentemente agricolo in società urbanizzata ed industriale, così Uomini contro di Francesco Rosi segnava un punto d’inizio – non più ripetuto per quel che riguarda la Grande Guerra, se non nel 2014 da Ermanno Olmi - per un diverso impegno del cinema, proprio nel momento in cui stava prendendo forma il periodo tragico e oscuro degli “anni di piombo” del terrorismo.

… il cinema degli anni settanta – sostiene sempre Brunetta - sembra voler abbandonare sempre più il presente per muoversi anche alla scoperta della storia e della memoria nazionale degli ultimi cent’anni. La maggior parte dei registi delle generazioni che abbiamo finora studiato ha preferito volgere lo sguardo al passato preoccupandosi di non perdere la memoria della storia di ieri piuttosto che sciogliere o decifrare gli enigmi dell’oggi. Anzi si può dire che, tanto più lo sguardo sul presente appare confuso, tanto più appare lucido e netto in prospettiva temporale rovesciata: basti pensare alla grandiosità del quadro di Novecento, ad Amarcord e alla Trilogia della vita di Pasolini, all’Albero degli zoccoli di Olmi, a C’eravamo tanto amati di Scola (1974) 56.

Neppure il sontuoso affresco storico-politico di Giuseppe Bertolucci Novecento, del 1976, rifletteva in qualche modo sul primo conflitto, se non sfiorandolo appena. Ai film sopra ricordati è doveroso aggiungere quelli che affrontarono in maniera problematica il passato risorgimentale e fascista, come San Michele aveva un gallo (1971) e Allosanfàn (1974) di Paolo e Vittorio Taviani, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972) di Florestano Vancini, un film di notevole rigore storico e filologico e Una giornata particolare di Ettore Scola (1977).

Con la riduzione drammatica del mercato cinematografico italiano a scapito dello strapotere dell’industria americana e per il moltiplicarsi dell’offerta televisiva dopo la fine del monopolio Rai nel 1976, il cinema italiano non sarà in grado di affrontare ulteriormente il discorso iniziato da

55 Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003, cit., p. 214 56 Ivi, p. 303 22

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Monicelli e Rosi, per cui tornerà solo sporadicamente ad interessarsi della Grande Guerra, anche perché, come sostiene Brunetta:

Quella nettezza di sguardo che, nel dopoguerra, aveva consentito agli autori grandi e piccoli di mettere a fuoco ogni elemento minimo del paesaggio, promuovendolo a soggetto di storia, per una miopia diffusa e quasi patologica sembra perduta in modo irreparabile assieme al progressivo senso di perdita del paese e delle passioni e tensioni verso il futuro della popolazione che vi abita 57.

Sulla china discendente intrapresa dal cinema italiano, altrettanto impietoso è il giudizio espresso da Miccichè per il quale “sempre più disastrose appaiono le tendenze distruttive e autodistruttive del nostro cinema, avviatesi nei secondi anni ’70, accentuatesi nei primissimi anni ’80 e, da allora, peggiorate di stagione in stagione, salvo isolati, e parziali quanto illusori, recuperi momentanei” 58.

Bisognerà attendere il 2014, complice il centenario, per avere di nuovo un film interamente dedicato alla Grande Guerra o, meglio, ai suoi soldati: torneranno i prati di Ermanno Olmi, un’opera intensa e quanto mai lontana da qualsiasi intento celebrativo.

Maciste l'alpino, regia di Borgnetto e Maggi, 1916

57 Ibidem 58 Miccichè, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, cit., p.13

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2. I FILM

I. La Grande Guerra di Mario Monicelli, Italia/Francia 1959

Al solo annuncio della lavorazione di un film dedicato alla Grande Guerra si scatenarono subito le polemiche e le pressioni nei confronti della produzione da parte di chi temeva una rivisitazione dissacrante del mito della “Guerra vittoriosa” e dell’”Italia di Vittorio Veneto”, tanto più che la direzione del film era stata affidata ad un regista particolarmente graffiante, irrispettoso e irriverente come Mario Monicelli, sino allora regista di molti film di Totò e del film di grande successo, nel 1958, I soliti ignoti. A dare il via alle polemiche fu un veemente articolo sul quotidiano La Stampa di Paolo Monelli, l’autore del libro Scarpe al sole del 1921, che accusava gli sceneggiatori del film La Grande Guerra di voler offendere e oltraggiare il sentimento patriottico ancora vivo nel Paese. Preoccupazioni non infondate da parte dei custodi della retorica patriottica, considerato che il racconto del conflitto era affidato a due protagonisti che non potevano essere più antitetici dalla convenzionale figura dell’umile e valoroso fante italiano. La guerra vista dalla parte di chi fa di tutto per poterla evitare non era né accettabile, né conciliabile con il mito della Grande Guerra e con la memoria collettiva della nazione. Una memoria riordinata e modellata per trasformare in epopea eroica e gloriosa quella che era stata un’immensa tragedia, costruita e promossa non solo con celebrazioni pubbliche, monumenti e luoghi sacri, ma impiegando ogni espressione socio- culturale legata al discorso pubblico sul passato: dalla letteratura alla musica, dai sussidiari scolastici fino alla toponomastica e all’onomastica.

La memoria di bronzo e di marmo – scrivono Isnenghi e Rochat - serialmente moltiplicata in città e paesi dell’intera penisola, e la nuova sociabilità combattentistica avranno rituali e luoghi di culto, date simboliche da celebrare (24 maggio, 4 novembre) nelle piazze cittadine presidiate dai monumenti o, con i pellegrinaggi collettivi e privati di un inedito turismo della memoria nazionalpopolare, nei luoghi della guerra al fronte: cime di monti, trincee, fiumi (è il caso del Piave) sacri alla patria 59.

A raccontare la guerra era stata la classe colta, da dove provenivano gli ufficiali-scrittori che nelle loro opere autorappresentavano se stessi e l’istituzione militare. Memorialisti che indirizzavano le loro parole d’ordine alla società civile affinché facesse propri i valori del patriottismo, del sacrificio per la patria, del rispetto dei ruoli assegnati all’interno di un preciso ordine gerarchico. A parte eccezioni di rilievo, difficilmente questi ufficiali scrittori riuscivano ad inserire la loro esperienza all’interno del contesto storico-politico e delle ragioni in cui era maturata la guerra. La guerra era in qualche modo posta fuori dal tempo, un fermo immagine della propria giovinezza catapultata in un’esaltante avventura che rompeva la noiosa esistenza borghese. La guerra raccontata dagli ufficiali non era certamente la guerra vissuta dai fanti-contadini. Ci vorranno ancora due decenni, almeno sino agli anni ottanta del secolo scorso, perché la ricerca storiografica si impegnasse nel recupero della memorialistica delle classi subalterne

59 Isnenghi e Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, cit., pp. 497-8 25

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(testimonianze, diari e lettere) che raccontava una guerra senza le intermediazioni della classe colta che, proprio in virtù dell’azione quotidiana svolta dagli ufficiali, aveva insegnato e trasmesso le parole ai sottoposti perché esprimessero sentimenti ed emozioni senza che il loro scrivere scardinasse l’ordine e si trasformasse in rivolta. Questa differenza della memoria, pur se la guerra - almeno nella mobilitazione - aveva coinvolto ogni paese d’Italia, è ben descritta da Carlo Levi, durante il fascismo confinato in uno sperduto paese della Lucania:

(…) di fianco al balcone, sul muro della facciata del municipio, spiccava bianca la lapide di marmo con i nomi dei morti della grande guerra. Erano molti, per un paese così piccolo: quasi una cinquantina: c’erano tutti i nomi delle famiglie gaglianesi, i Rubilotto, i Carbone, i Guarini, i Bonelli, i Carnovale, i Racioppi, i Guerrini, nessuna casa era stata senza un morto; e più erano i feriti, i malati, e quelli che avevano combattuto e se l’erano cavata senza danno. Perchè, nelle mie conversazioni con i contadini, nessuno ne parlava mai, né mai si faceva cenno a quella guerra, né alle imprese allora compiute, né ai paesi visti, né alle fatiche sofferte? (…) Anche la grande guerra, così sanguinosa e ancora così vicina, non interessava i contadini: l’avevano subita, e ora era come l’avessero dimenticata. Nessuno usava vantare le proprie glorie, raccontare ai propri figli le battaglie combattute, mostrare le ferite o lagnarsi dei patimenti. Se io li interrogavo, rispondevano brevi e indifferenti. Era stata una grande disgrazia, si era sopportata come le altre 60.

Si può discutere se sia stato opportuno rappresentare una tragedia di tali dimensioni come la prima guerra mondiale adottando il genere della commedia (tanto più che il cinema italiano, per la prima volta, si occupava in modo critico del conflitto a più di quarant’anni dalla sua conclusione), ma è doveroso collocare il film La Grande Guerra nel complesso periodo politico e culturale in cui fu realizzato. La questione si pose subito quando Mario Monicelli - che per sua stessa ammissione riconobbe come la sceneggiatura del film dovesse molto alle opere di Emilio Lussu (Un anno sull’Altipiano) e a Piero Jahier (Con me e con gli alpini) – offrì a Lussu una sorta di diritto d’autore, prontamente rifiutato dallo scrittore sardo che considerava spazzatura il genere della commedia e dichiarava di voler mantenere la sua totale distanza ed estraneità dal film. Un altro scrittore interventista e fortemente elitario, Carlo Emilio Gadda, si pronunciò aspramente contro La Grande Guerra, considerando inaccettabile che si potesse ridere di una guerra storicamente necessaria e alla quale era stato doveroso partecipare al totale servizio del Regno. Per contro, una parte della critica cinematografica di sinistra non digerì affatto che le ragioni contro la guerra e dell’opposizione ad un conflitto combattuto dalla povera gente per gli interessi della politica di potenza delle grandi nazioni, fossero esposte da un personaggio truffaldino e imbroglione come il soldato Busacca. Eppure, come scrive G.P. Brunetta, La Grande Guerra “segna la svolta più importante della commedia verso l’acquisizione di una nuova identità e il raggiungimento di un livello più elevato, (dove Monicelli) si è confrontato con la storia monumentale, la storia profonda” 61.

60 C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori, Milano 1968, pp.117-8 61 Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003,cit., p. 203 26

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Una svolta che si manifestava in un’Italia ancora stretta nelle paralizzanti contrapposizioni determinate dalla guerra fredda e dal forte predominio democristiano che, proprio in quegli anni, mostrava pericolose simpatie e tentativi di inclusione governativa nei confronti dei partiti monarchici e neofascisti. Alla fine la commissione censura vietò la visione del film ai minori di diciotto anni riscontrando ne La Grande Guerra l’offesa al prestigio delle forze armate e ai valori della nazione, un provvedimento che comportava anche un sensibile danno economico alla produzione e alla distribuzione in quanto riduceva sensibilmente la platea degli spettatori. Nel 1959 doveva ancora consolidarsi una prospettiva storica che mettesse in discussione il mito della Grande Guerra, rimasto indenne anche dopo il passaggio dal fascismo alla Repubblica e, come tale, ben presente e continuamente propagato dalla memoria pubblica. Due esempi possono dare l’idea di come il tema della prima guerra mondiale fosse divulgato al grande pubblico, in questo caso quello televisivo. Nel novembre 1961 la Rai inaugurava il secondo canale televisivo trasmettendo lo sceneggiato La trincea, scritto da Giuseppe Dessì, per la regia di Vittorio Cottafavi 62. Lo sceneggiato rievoca un’azione bellica della Brigata Sassari nel 1915 ed è prevalentemente imperniato sui dialoghi che i vari ufficiali hanno fra loro in merito alla scelta della miglior strategia da adottare per la conquista di una trincea austriaca, dialoghi che sembrano scritti dallo Stato Maggiore, tanto riflettono il codice espressivo militare. I soldati, che restano sullo sfondo della vicenda, sono rievocati unicamente mediante espressioni stereotipate, del tipo “I miei uomini non sapranno cos’è la patria, ma sanno uccidere e morire!” o brevi siparietti di carattere regionalistico. Nel 1965, sempre a cura della Rai, è mandato in onda un corposo documentario televisivo a cura di Hombert Bianchi La Grande Guerra, verso la vittoria, anche in questo caso privilegiando quasi esclusivamente l’aspetto militare 63. Oltre ad enfatizzare la motivazione irredentista dell’entrata in guerra dell’Italia, il documentario avvalora la tesi screditata di Cadorna sulle cause della disfatta di Caporetto, da addebitarsi alle macchinazioni politiche, all’ammutinamento sociale e militare in atto nel Paese, alla vile ritirata dei reparti della II Armata. Nessun riferimento alle responsabilità del comandante in capo, il primo a non credere ad un’offensiva austriaca all’inizio della stagione invernale, il fautore di una rigidissima catena di comando che deresponsabilizzava gli altri comandanti e assertore della predominanza delle scelte militari su quelle politiche, l’autore di una strategia di guerra incessantemente offensiva che aveva imposto terrificanti sacrifici ai soldati negli anni precedenti, senza alcun esito tangibile. Tantomeno il discorso affronta Caporetto come il punto massimo della scollatura tra classe dirigente e popolo, l’immagine di una nazione che non ha mai voluto inglobare e integrare le classi subalterne. Si può pertanto comprendere quanto potesse essere dirompente l’uscita di un film che, per la prima volta, metteva in mostra l’insipienza dei comandi militari, le precarie condizioni dei soldati segnate da fame e pidocchi, l’inconsistenza e la falsità della rappresentazione epica ed eroica della

62 https://www.youtube.com/watch?v=TlhM-toy_0U (per l’intero filmato de La trincea)

63 https://www.youtube.com/watch?v=sY7DVmAp7Xo (per la terza parte del documentario La Grande Guerra, verso la vittoria)

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese guerra. Tanto più che in quel periodo il cinema italiano era in grado di attirare milioni di spettatori, con la presenza di sale in ogni città o paese e, quando queste mancavano, con proiezioni all’aperto: La Grande Guerra è stato uno dei film più visti nella storia del cinema italiano, sin dalla sua prima uscita. Nel film di Monicelli, ad eccezione degli aspetti relativi alla giustizia militare, alle decimazioni, ai mezzi coercitivi e repressivi, nessuna componente della guerra vissuta dai soldati italiani viene tralasciata, a conferma della serietà dell’impegno storico e politico sia del regista che degli sceneggiatori. Questa coerenza è dimostrata anche dalla scena finale del film, l’unica sulla quale il produttore De Laurentiis intervenne perché fosse modificata in positivo, tramite il recupero dello spirito patriottico da parte dei due soldati codardi, ferma restando la sua difesa convinta del film di fronte alle innumerevoli pressioni – soprattutto politiche - ricevute durante la lavorazione che comportò, fra l’altro, un notevole investimento produttivo 64. Una richiesta che non fu accettata dal regista che mantenne il finale come originariamente scritto nella sceneggiatura, per cui il riscatto e la dignità dimostrata dai due balordi di fronte alla morte non aveva nulla a che vedere con il sacrificio per la Patria, ma diventava conquista di una coscienza morale non più disponibile all’opportunismo, alle furbizie e al menefreghismo.

Mediante la presenza, pur ingentilita, di una prostituta di guerra il film rompe l’immaginario costruito sul ruolo della donna durante il conflitto, che consacrava la nobile funzione consolatrice di crocerossina o madrina di guerra, ruolo che, peraltro, era prevalentemente ricoperto da appartenenti all’aristocrazia e alla borghesia agiata. Tema scabroso e mai sufficientemente studiato quello dei postriboli di guerra, i bordelli itineranti pianificati e organizzati pragmaticamente dai comandi militari a ridosso del fronte (che rilasciavano le apposite autorizzazioni e che svolgevano i controlli sanitari) e sollecitati dallo stesso Cadorna per stemperare possibili tensioni nella truppa. Una situazione per certi versi drammatica che non riguardava solo le prostitute professionali, ma anche donne spinte dalle miserevoli condizioni di vita che si trovavano a dover soddisfare in un sol giorno centinaia di soldati, il cui afflusso doveva essere regolato dai carabinieri. Un aspetto doloroso della condizione femminile durante la guerra che si associava a quello originato dal prepotente ingresso delle donne nei settori industriali, dei trasporti e dei servizi, rimasti scoperti con il richiamo alle armi degli uomini.

La condizione femminile – scrive lo storico Emilio Franzina - continuò infatti ad essere strutturalmente segnata da stimmate non nuove di dipendenza coatta dal bisogno e dall’arbitrio maschile. Congiuntamente, e fuori dal sospetto di una polemica di parte, lo segnalavano la stampa femminista, soprattutto cattolica, e le autorità civili e militari preposte alla tutela della sanità pubblica senza tirare in campo, più di tanto, nel secondo caso, l’usuale e più che ambigua identificazione tra donna lavoratrice e prostituta 65.

64 Sorprendentemente, considerando l’azione censoria svolta negli anni precedenti, l’allora ministro alla difesa Giulio Andreotti, dopo aver letto la sceneggiatura, diede il suo assenso all’impiego di soldati italiani nelle scene di massa. 65 E. Franzina, Il tempo libero dalla guerra. Case del soldato e postriboli militari, in La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e Camillo Zadra, il Mulino, Bologna 1986, pp. 203-4

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Soprattutto nell’industria le condizioni di lavoro per le donne erano durissime, sia per l’aumento dei ritmi e degli orari di lavoro imposti nelle industrie “mobilitate” per le produzioni di guerra (le poche conquiste di qualche anno prima sul riposo festivo, sulle limitazioni del lavoro notturno e quello dei fanciulli furono abolite), che per le condizioni igieniche e la frequenza degli infortuni e delle malattie professionali contratte, in particolare nella fabbricazione di munizioni. Altrettanto intensi erano i ritmi del lavoro a domicilio, il più diffuso per la confezione delle divise, in grado di procurare un’entrata economica appena sufficiente alle esigenze familiari solo se non si ponevano limiti alle ore dedicate al lavoro. Durante la guerra il settore tessile, tra i più interessati alla mobilitazione industriale, occupava direttamente oltre duecentomila donne, le cucitrici a domicilio delle confezioni militari furono invece quasi seicentomila. Nel 1918 la forza lavoro femminile nelle aziende di guerra raggiunse il 22% degli occupati 66. Le donne furono sempre le protagoniste e le promotrici delle mobilitazioni e delle rivendicazioni, per lo più a livello spontaneo e senza la guida delle Camere del Lavoro o del Partito socialista, contro i turni massacranti di dodici ore giornaliere e dello straordinario obbligatorio, il basso salario (sempre inferiore a quello maschile) e il continuo aumento del costo dei generi alimentari che, nel corso della guerra, erano sempre meno disponibili. Mobilitazioni e scioperi che non furono solo contro il carovita, ma anche per l’evidenza che non tutti subivano in egual maniera le ristrettezze imposte dalla guerra e per come le diseguaglianze si allargassero con il procedere del conflitto. Il culmine delle rivolte si avrà nel 1917, ribellioni che furono duramente represse anche con le armi. Le centinaia di processi che seguirono si conclusero con pesanti condanne, mediante l’applicazione del codice militare per i maschi, e per le donne comminando multe elevatissime. Ancora più drammatica era la condizione femminile nelle campagne, dove le donne si trovarono nella condizione di sostituire il lavoro degli uomini spediti al fronte, non solo nei campi, ma anche nella conduzione amministrativa, come la vendita del bestiame o dei prodotti: una doppia fatica poiché il carico dei lavori domestici era rimasto invariato. Si può ben dire che durante la guerra l’intero sistema sociale e buona parte di quello produttivo (soprattutto quello agricolo) furono mandati avanti dalle donne, senza che nessun riconoscimento del ruolo svolto si concretizzasse nel dopoguerra, tanto più che il fascismo ne ridusse la funzione e l’immagine a moglie e madre prolifica come sottolinea Stefania Rossini.

Le donne che avevano tenute in vita quasi da sole la nazione con un lavoro duro e generoso sono respinte violentemente nell’ombra. Dovranno aspettare un’altra guerra, altri lutti e altri sacrifici prima di essere considerate finalmente e semplicemente cittadine 67.

Alla difficile e tragica situazione in cui vennero a trovarsi queste donne La Grande Guerra dedica un’intensa scena, dove la moglie di un soldato racconta delle difficoltà di far sopravvivere la numerosa famiglia, possibile solamente grazie ai soldi che il marito, offrendosi volontario in tutte le missioni pericolose, è in grado di mandare a casa.

66 Cfr. S. Musso, Storia del lavoro in Italia, Marsilio, Venezia 2012 67 S. Rossini, Prove di emancipazione, in La Grande Guerra, raccontarla cent’anni dopo per capire l’Europa di oggi, a cura di W. Goldkorn e C. Lindner, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2014, p.213 29

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Quello che non poteva trovare spazio in questo film, proprio per le sue caratteristiche, è l’aspetto terribile e doloroso – e rimosso per lungo tempo – delle violenze sessuali subite dalle donne durante il brutale regime di occupazione austriaca dei territori italiani dopo Caporetto68. Una reticenza nel raccogliere testimonianze e dati su quelli che venivano definiti “delitti contro l’onore femminile”, anche da parte della stessa Commissione d’inchiesta nominata dal Governo italiano subito dopo la guerra per indagare su tutti gli aspetti relativi all’anno di occupazione del Friuli e di parte del Veneto.

Altro tema che ritroviamo nel film è quello delle popolazioni costrette ad abbandonare le proprie case a causa dell’avanzare delle truppe austriache o perché il loro territorio era diventato zona di operazioni militari. Popolazioni che dallo sradicamento dai luoghi d’origine e dalla condizione di “esuli in patria” subirono profondi sconvolgimenti sociali e mentali, non sempre rimarginati e comunque parzialmente superati solo dopo molti anni dalla fine della guerra, un dramma e una vera e propria tragedia collettiva purtroppo ricordati e studiati prevalentemente dalla sola storiografia locale. Ne La Grande Guerra si assiste al caos e al disordine seguiti alla rotta di Caporetto, una fuga incontrollata e ingovernabile poiché, come non esisteva nessun piano per la ritirata militare, nulla era stato predisposto preventivamente per gestire l’eventuale esodo della popolazione civile.

Nell’ottobre del 1917 – ha scritto lo storico Piero Melograni - mancò un piano organico di ritirata e, da un punto di vista più generale, tutto l’esercito si trovò privo di istruzioni adeguate e di un vero e proprio addestramento alla ritirata (..) sulle poche strade che conducevano al Tagliamento si ammassarono in brevissimo tempo circa un milione di soldati e 400.000 profughi civili con carri, masserizie ed animali. Ciascuno tentò di farsi strada sopravanzando gli altri, ed in molti punti il traffico si congestionò paurosamente, immobilizzando per ore, soprattutto di notte, colonne di automezzi, quadrupedi e carri. Uno straordinario ingorgo si produsse in corrispondenza dei ponti sul Tagliamento, e centinaia di cannoni, automezzi, carri furono abbandonati lungo le strade e rovesciati nei fossati; migliaia di quadrupedi vennero sventrati perché le loro carni, cucinate presso improvvisati falò, servissero di nutrimento ai fuggiaschi 69.

Gli esodi programmati e organizzati delle popolazioni a ridosso del fronte non furono per questo meno traumatici, ancor più per coloro che furono smistati dalla provincia di appartenenza in altre regioni d’Italia, anche in quelle meridionali. Non sono pochi i casi in cui i profughi vennero accolti con freddezza e ostilità, soprattutto quelli fuggiti dopo Caporetto considerati “traditori della patria” o “austriacanti”, un dramma ripetutamente ricordato da Mario Rigoni Stern:

Ma intanto cinquecentomila profughi dalle terre invase del Veneto furono costretti a lasciare case e beni in cerca di un tetto, ma anche di cibo e di un sorriso pietoso. Questa dei profughi è una storia apparentemente piccola e poco conosciuta nella storia della Grande Guerra, eppure dolorosa e dura: molti di questi profughi – donne, bambini, vecchi – moriranno lontano dalle loro case per stenti e per

68 “Lo sfruttamento dei territori occupati dopo Caporetto fu uno dei capitoli in cui la radicalizzazione della violenza contro i civili si coniugò più spietatamente con una sistematica operazione di rapina. Le truppe tedesche e austro-ungariche vissero interamente a spese delle risorse locali per tutto l’anno di occupazione, depredando (e spesso devastando) una regione agricola fiorente, e trafugando tutto ciò che di utile all’economia bellica poteva essere asportato e inviato in Austria.” Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-18, cit., p. 282

69 P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918, Mondadori, Milano 1998, pp. 411-2 30

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l’epidemia di febbre spagnola che, nel 1918, imperverserà tra i più deboli e i più provati. Ma sorte ancora peggiore ebbero coloro che per non abbandonare i loro focolari subirono l’occupazione del nemico 70.

Nella generale penuria della vita civile durante la guerra, la presenza dei profughi divenne a volte motivo di tensione con la popolazione dei paesi ospitanti, a causa del razionamento dei generi alimentari che diventava ancora più stringente per l’aumento della popolazione nel luogo di raccolta, e per la competizione sul mercato del lavoro locale da parte dei profughi che dovevano in qualche modo integrare il misero sussidio statale. Altrettanto dolorosi e penosi furono i lunghissimi mesi che trascorsero dalla fine della guerra al rientro autorizzato dalle autorità militari nei luoghi d’origine, sconvolti, devastati e irriconoscibili, così intensamente raccontati nel libro di Mario Rigoni Stern L’anno della vittoria.

Ma quando giunse sulle alture della Klama rimase impietrito: niente più era rimasto di quanto aveva nel ricordo e che aveva conservato per tanti mesi nella nostalgia dell’anima: non erba, non prati, non case, né orti, né il campanile con la chiesa; nemmeno i boschi dietro la sua casa e il monte lassù in alto era tutto nudo giallo e bianco: L’insieme sembrava la nudità della terra dilaniata, lo scheletro frantumato. I gas, le bombe di ogni calibro, le mitragliatrici in tre anni avevano distrutto anche le macerie, ed era questo che i suoi occhi vedevano e la ragione non voleva ammettere 71.

Anche se in alcuni casi solo abbozzati, molti sono gli aspetti della Grande Guerra che il film di Monicelli rappresenta: dal cinismo e incompetenza dei comandi al ruolo degli ufficiali carrieristi e di quelli che, invece, sanno farsi stimare dai soldati; dai cappellani militari agli arditi che invitano i soldati a gettare il cuore oltre la trincea; dall’insopportabile retorica dei comitati patriottici all’ottusa burocrazia militare; dal vitto scadente e insufficiente alla distribuzione continua di alcool (il vero motore della guerra); dall’analfabetismo all’importanza del legame epistolare con le famiglie.

Ritengo che una scena de La Grande Guerra condensi abilmente, pur nella sua brevità, le reali condizioni dei soldati al fronte in opposizione alla guerra immaginaria divulgata dalla propaganda:

Durante una pausa, aspettando l’arrivo del rancio, un gruppo di soldati è al riparo dalla pioggia all’interno di una grotta. Uno di loro ha in mano la “Domenica del Corriere” e legge, in dialetto romanesco, la didascalia che illustra il disegno di copertina. 1° soldato: “Lo vedi, questi siamo noi. Stiamo dentro un villino, siamo tutti contenti. “Senti che dice: - Intorno alle stufe da campo i nostri soldati ingannano con musiche e canti le lunghe ore di attesa in questo periodo di stasi delle operazioni - “A questi gli dispiace che c’è il periodo di stasi.” 2° soldato (in dialetto veneto): “ Eh, la gente crede che la guerra è dura solo quando si spara; non sa quanto è dura star fermi qua, con il didietro bagnato e aspettare il rancio che non arriva mai.”

70 M. Rigoni Stern (a cura), La guerra sugli Altipiani, Neri Pozza Editore, Vicenza 2000, p. XXII

71 M.Rigoni Stern, L’anno della vittoria, Giulio Einaudi, Torino 1985, p.9 31

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3° soldato (in dialetto lombardo) “La guerra non è altro che un lungo ozio senza un minuto di riposo.” “A proposito, che ora è?” 1° soldato: “Boh! L’ultima volta che hanno portato il rancio caldo era giovedì.” 2° soldato: “Ecco, queste sono le cose che dovrebbero scrivere. Noi siamo qui e quelli che scrivono sono a casa.” 4° soldato: “Stiano pure a casa, basta che non continuano a scrivere balle sui giornali. Non parlo per me, ma per quei poveracci che sanno leggere.” 5° soldato, prendendo un fiasco di vino (in dialetto veneto): “Ma va’, è meglio vivere un giorno da beone che cento anni da leone.” 2° soldato: “Soltanto i morti potrebbero dire una cosa giusta sulla guerra, ma quelli non parlano...” 6° soldato, in dialetto siciliano: “Noi non possiamo sapere se si deve fare o non si deve fare...” 3° soldato: “ Stai zitto, Africa. Sono secoli che la gente si scanna con la guerra, mai servito a niente. “L’uomo, dico io, non c’ha mica il diritto di dire a un altro uomo di andare a crepare. Allora perché avrebbero abolito la pena di morte?” 1° soldato: “Per te sarebbe meglio che le abolissero tutte le pene.” 7° soldato, dopo essersi tolto dal bavero del cappotto un pidocchio (in dialetto pugliese): “Io, per fargli vedere come passiamo il periodo di stasi, gli mandasse questo pidocchio in busta raccomandata.”

Rigidissima censura, manipolazione dell’informazione e banalizzazione della guerra diventarono elementi non meno importanti delle armi nel corso della guerra. La restrizione delle licenze ai soldati dell’esercito italiano dipendeva anche dal timore dei comandi che si diffondessero notizie sull’andamento reale della guerra, per questo i rarissimi periodi di riposo nelle località d’origine erano sottoposti a rigorose prescrizioni di segretezza, oltre ai metodici controlli da parte dei carabinieri e delle autorità di pubblica sicurezza. Gli organi di stampa si assunsero il compito di fornire ai lettori rappresentazioni idilliache della guerra, attraverso corrispondenze dove il “colore”, il sentimentalismo e la retorica prevalevano su ogni altra forma d’informazione e dove la realtà era occultata e trasformata. La rappresentazione immaginaria della guerra era ancora più incisiva mediante l’impiego dell’immagine: un’orgia di copertine, manifesti, cartoline, fotografie edulcorate e rassicuranti e la cui diffusione era ben più ampia dei giornali e di immediata comprensione da parte di tutti. Un travisamento della realtà vissuto con rabbia, risentimento e ostilità da parte dei combattenti che misuravano, mesi dopo mesi, la profonda distanza creatasi tra gli uomini al fronte e la società civile. Come ha scritto Emilio Lussu nel suo Un anno sull’Altipiano “la verità l’avevamo solo noi, di fronte ai nostri occhi 72”.

72 E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, Giulio Einaudi, Torino 1945 e 2000, p. 112 32

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Voi non potete parlare – urlò il Fenoglio – Non dovete! - La sua voce investiva come un vento i vecchi, smorti tendaggi. – Voi non avete visto il sangue e la merda e il fango. Vecchi maiali, andate a vedere la merda e il sangue e il fango e poi parlerete, se ne avete ancora voglia 73.

Aspetti sconosciuti del conflitto sono i lunghi periodi di ozio, dove non c’è nulla da fare se non convivere con il degrado della vita di trincea tra il fango, la perenne sporcizia e la quotidiana presenza della morte. Una condizione di passività, alienazione, apatia e monotonia teorizzata dalla psicologia applicata alla guerra e fatta propria dai comandi, in grado di produrre rassegnazione e fatalismo nel soldato, l’accettazione della condizione di regressione quasi animalesca. Come analizzato da Isnenghi e Rochat, è la funzione positiva della noia per l’ottundimento delle menti dei soldati, per avere l’ideale del soldato “senza qualità”, in grado di agire e combattere meccanicamente e automaticamente, privo di inibizioni e interrogativi.

Per il frate-psicologo (padre Agostino Gemelli) – nelle grazie di Cadorna – anche perché questo suo discorso legittima su un piano scientifico ciò che il generale già pensa e auspica di suo – di questa atonia e processo di passivizzazione potranno forse soffrire gli intellettuali, coloro che sono andati alla guerra sulla base di scelte e di valori ora messi in mora dalla scoperta della realtà; ma non i soldati illetterati, non i contadini, che formano il nerbo dell’esercito e non hanno, per fortuna loro e della patria, tutte le attese o i grilli per il capo dei giovani allievi dei licei, né di interventisti, volontari e aspiranti eroi. Sono, dalla vita, predisposti a lasciarsi dirigere dagli altri e a vivere alla giornata 74.

II. Uomini contro di Francesco Rosi, Italia/Jugoslavia 1970

L’uscita del film Uomini contro di Francesco Rosi nel 1970 dimostrava come non fosse ormai più sostenibile la visione - unica - della prima guerra mondiale che, pur nell’era repubblicana, i manuali scolastici e le commemorazioni pubbliche ancora divulgavano, improntata sul mito costruito dal regime fascista e non sulla storia. Fino a che l’opera di revisione storiografica presumersi confinata ai soli addetti ai lavori o al mondo accademico la questione, pur a malincuore, poteva essere sopportata e in qualche modo governata dalla classe dirigente (o repressa nel caso di singole figure profetiche, ma pur sempre estremamente minoritarie e periferiche). Essa, però, diventava inaccettabile quando la rappresentazione dell’oscenità della guerra poteva coinvolgere il grande pubblico attraverso un mezzo, come quello cinematografico, in grado di creare coscienza collettiva. Soprattutto con il film di Francesco Rosi, costruito su un ben altro registro del precedente La grande guerra di Monicelli (che pur aveva avuto vissuto ostacoli e difficoltà dieci anni prima), dove la messa in scena dello spietato – e incompetente - autoritarismo e la cieca obbedienza richiesta ai soldati, metteva a nudo l’inconsistenza e l’insostenibilità dell’immagine eroica e gloriosa dell’Italia di Vittorio Veneto. Già agli inizi degli anni cinquanta, in qualità di sceneggiatore e aiuto regista, Francesco Rosi si era distinto dalla generale mediocrità in cui il cinema italiano era ripiombato dopo la stagione del neorealismo. Le sue prime opere da regista (La sfida del 1958 e, l’anno successivo, I magliari)

73 B. Fenoglio, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, cit. in A. Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 188

74 Isnenghi e Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, cit., p. 250 33

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese esprimevano una costante che caratterizzerà sempre e coerentemente il lavoro cinematografico di Rosi: l’impegno civile e politico unito alle esigenze dello spettacolo.

Il regista che – secondo Brunetta - meglio interpreta la storia economica, politica e istituzionale dell’Italia del dopoguerra, da un punto di vista riformista e senza mai inseguire le pulsioni rivoluzionarie, è certo Rosi. Il suo cinema racconta soprattutto la vocazione del Sud a scandire e condizionare il tempo del paese, riuscendo ad assoggettarlo e a piegarlo alle proprie esigenze 75.

L’impegno rigoroso, la profonda passione civile e la capacità estetica di Rosi, gli permetteranno la realizzazione di uno dei capolavori della cinematografia italiana, Salvatore Giuliano (1962), seguito poi da Mani sulla città nel 1963. Film che provocheranno le feroci reazioni governative e della destra monarchica e neofascista, per la loro impietosa e diretta denuncia sull’esercizio del potere politico ed economico intriso di criminalità, illegalità e sopraffazione.

Insieme a Raffaele La Capria e Tonino Guerra, Francesco Rosi scrive la sceneggiatura di Uomini contro, che adatta per il grande schermo Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, romanzo di guerra che per Isnenghi è “il più resistente alla distanza tra i diari di guerra nati nello spazio politico-culturale legato all’eredità storica dell’interventismo democratico (…) per Lussu in particolare, ché non si trova altrove, nella diaristica di guerra italiana, un simile grado di conoscenza e di partecipazione solidale di un ufficiale nei confronti di una umanità proletaria con cui condivide giorno per giorno la quotidiana fatica 76”. Solo nel 1937 Lussu, in esilio in Francia, scriverà il suo libro, anche per rispondere alle continue sollecitazioni di Gaetano Salvemini. Il lungo silenzio era probabilmente determinato dalla difficoltà – non solo per Lussu, ma per tutto il movimento interventista democratico - di superare il doloroso contrasto vissuto per l’essere stato convinto interventista all’università e la disillusione seguita alla drammatica realtà incontrata nella guerra di trincea, ma ancor più per il suo esito sociale e politico nel dopoguerra. Nonostante la tragicità del racconto, in Un anno sull’Altipiano la scrittura di Emilio Lussu è costantemente percorsa da una profonda ironia e, a volte, da vera comicità quando si tratta di descrivere gli aspetti più assurdi e inimmaginabili della guerra. Questo carattere del libro è ripreso nella prefazione di Mario Rigoni Stern all’edizione del 2000 quando racconta: “Uomini contro non è Un anno sull’Altipiano. Un giorno a Roma, dopo aver visto il film con lui (Lussu) e Rosi, mentre lo accompagnavo verso Piazza Adriana, mi disse come seguendo un suo pensiero: ‹… tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato …›77”. Infatti, nell’adattamento cinematografico del libro, la scelta di Francesco Rosi è netta e dominata dalla volontà di mettere in scena – nel modo più crudo e realistico possibile - la guerra di massa, come inedita forma di annullamento dei singoli e di spersonalizzazione, come realizzazione dell’universo concentrazionario basato sul terrore, la coercizione e la giustizia punitiva.

E’ una scelta – sottolinea Miccichè - e non vi è dubbio che ne sarebbe stata possibile un’altra. Tuttavia Rosi sapeva di non rivolgersi a delle élites consapevoli, che abbiano corretto per proprio conto la retorica e le mistificazioni della scuola. Sapeva (e voleva) invece indirizzarsi a larghi strati di pubblico

75 Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, 1905-2003, cit., p. 220 76 Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, il Mulino, Bologna 1989, p. 206 77 Prefazione di M.R. Stern a E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, Giulio Einaudi, Torino 1945 e 2000, p. 3 34

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che, sulla scorta della storiografia scolastica ufficiale (il Bignami e non Mack Smith), credono ancora nella eroica avventura della ‹quarta guerra di indipendenza›,sono figli spirituali del generale Leone e non certo di Ottolenghi o di Sassu 78.

E’ il soldato il vero protagonista del film, a rappresentare la sconvolgente novità vissuta da milioni di uomini chiamati a vestire l’uniforme e a combattere (solo in Italia quasi sei milioni) in luoghi sconosciuti del proprio Paese e di cui ignoravano spesso l’esistenza, all’insegna di slogan patriottici e parole d’ordine incomprensibili. Quella figura del fante contadino e pastore che costituiva la quasi totalità della fanteria, estraneo e ostile alla guerra, ma indispensabile manovalanza da impiegare e sacrificare in assalti suicidi o costringere a lunghi periodi di immobilismo e inattività nelle trincee o nei ricoveri montani. Di contorno si alternano singoli personaggi, fortemente caratterizzati ed espressione immediata di realtà generalizzabili e più complesse, quali la conduzione irresponsabile delle operazioni militari, il ruolo degli ufficiali, dei giudici militari, dei medici, quest’ultimi impegnati – insieme agli psicologi – nella cura dei feriti con il principale obiettivo di un loro pronto reimpiego.

Il fatto è che il sapere del medico – ha scritto Antonio Gibelli - ha assunto in questa guerra una forte, evidenza antipopolare: come si è visto, una parte cospicua del suo intervento consiste nell’escogitare strategie di recupero e di utilizzazione del materiale umano per le finalità della guerra, contro la volontà più o meno consapevole dei subalterni che tendono a sottrarvisi. Esso insomma ha assunto in maniera esplicita e in grado molto elevato una finalità di controllo sociale. E la sua applicazione ha conseguenze assolutamente rilevanti per i soldati: decide di una licenza o di un rinvio al fronte, di un ricovero o di un deferimento al tribunale militare. In ultima analisi nelle sue mani sono spesso la vita o la morte di molti uomini 79.

Ponendo in primo piano la condizione dei soldati, Rosi riesce a mostrare come l’esercito rispecchiasse fedelmente le rigide gerarchie e le separazioni tra le classi sociali della società italiana, come la guerra amplificasse i ritardi e le problematiche nazionali mai risolte e riconducibili alle modalità di costruzione dello stato unitario, alla sua natura oligarchica e repressiva, ostinatamente impegnato a mantenere le classi subalterne ai margini della vita civile e politica. Con la guerra veniva a scadenza, e presentava il conto, lo scarso convincimento dimostrato dalla classe dirigente dello stato unitario liberale di utilizzare i due strumenti principali di intervento per costruire un sentimento collettivo di appartenenza nazionale (l’esercito e la scuola) nell’opera di nazionalizzazione delle masse, classi subalterne sempre temute e da tenere escluse perché considerate pericolose e da governare con i soli sistemi di tutela dell’ordine pubblico. Di conseguenza, l’organizzazione militare esigeva una disciplinata e incondizionata adesione delle masse in uniforme alle volontà espresse dalle gerarchie, intese come guida naturale in virtù dell’estrazione sociale e della presunta preparazione culturale e tecnica. La guerra diventava anche l’occasione per la classe dominante per affermare la superiorità della società industrializzata e urbanizzata (in Italia avviata da pochi decenni e ancora minoritaria) su quella rurale, per cancellarne la diversità ed estraneità, come ha efficacemente analizzato Gibelli.

78 L. Miccichè, Cinema italiano degli anni ’70, Marsilio, Venezia 1980, p.76 79 A. Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 150

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Col suo incessante consumo di energie umane e i suoi caratteri di fatica e massacro senza fine, la nuova guerra rovescia la diffidenza per i rozzi abitanti delle periferie rurali e montane in elogio dei robusti e pazienti fanti-contadini, abbassa la soglia dei criteri selettivi fisici e mentali, obbliga a una pratica di recupero e riuso delle energie senza precedenti. Se prima puntava sulle attitudini, ora non può fare a meno delle inettitudini (…) esalta la qualità del “soldato senza qualità” 80.

Il processo di adattamento alla guerra richiedeva, pertanto, la completa spersonalizzazione del soldato e la sua riduzione ad un permanente stato di apatia e passività, in applicazione delle teorie di psicologia militare elaborate da padre Agostino Gemelli, direttore del laboratorio psicofisiologico del Comando Supremo, che tanta influenza esercitarono sul generale Cadorna. L’immagine rassicurante divulgata nel resto della nazione dalla stampa, dai documentari cinematografici, dalla letteratura era dunque quella di un esercito composto da umili soldati, pazienti, ben disposti alla subordinazione e al sacrificio. Esempio di questa mitizzazione è un articolo apparso nel 1918 sulla rivista “Volontà” pubblicata a Vicenza:

Vivendo per mesi a contatto del nostro soldato, giorno e notte, lo abbiamo trovato buono, docile, disciplinato, lavoratore fino all’esaurimento, affettuoso, generoso fino al sacrificio della vita. Questo figlio del popolo, ignorante, sporco, ruvido, al quale l’Italia d’oggi nulla ha dato, perché potesse elevarsi alla dignità di uomo, e che a lei tutto ha votato con slancio commovente, noi lo abbiamo visto, se comandato da uomini moralmente degni di lui, rimanere a combattere, su linee faticosamente conquistate e flagellate dal fuoco, fin sette giorni consecutivi, senza tregua, senza riposo, affamato, assetato, insanguinato, cencioso; ma sempre sereno, fermo di cuore e di braccio, spesso di buon umore (…) Nel soldato abbiamo conosciuto ed amato le grandi virtù del nostro popolo, di questa grande parte oscura dell’Italia nostra che lavora e risparmia, che non sa leggere e scrivere, ma vive nell’onestà, nel culto della famiglia e dell’onore, che sente ancora intensamente la gratitudine, l’amicizia e l’impegno morale della parola data 81.

E’ questa un’operazione per rafforzare la visione di una società in guerra ordinata, sia nelle retrovie che al fronte, con una valenza politica non certo casuale, quella di contrapporre l’ordine e le gerarchie stabilite all’irrequietezza del proletariato urbano, eversivo e sindacalizzato, ora impegnato come non mai nello sforzo di mobilitazione industriale, ma dichiaratamente contro l’intervento prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Una contrapposizione e una spaccatura tra i fanti-contadini e gli “operai-imboscati”, destinata ad aumentare con il trascorrere della guerra e che avrà gravi conseguenze per il proletariato nell’immediato dopoguerra. Della conclamata arrendevolezza e rassegnazione dei soldati non vi è traccia nel film Uomini contro: le scene di ammutinamenti e ribellioni si susseguono, così come quelle dei disperati tentativi di diserzione o di automutilazione quale unica via di fuga altrimenti impossibile.

Quanto ai soldati, al di là dei casi letali, è l’intensità stessa delle sofferenze che si autoinfliggono a dare la misura della drammaticità di tale conflitto, costituendo di per sé un indicatore della forza di ripulsa (della guerra) che li anima 82.

80 Ivi, pp. 88-9 81 Riportato in Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., p. 369 82 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., p. 149

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A scatenare le rivolte, oltre alle terribili condizioni di vita quotidiana, erano le ripetute azioni inutili e l’assoluta indifferenza dei comandi per le perdite di vite umane. Erano i turni di riposo e gli avvicendamenti sempre più rari, i momenti di riposo da trascorrere a ridosso delle linee, lontani dai paesi, dalla popolazione civile e continuamente sorvegliati dai carabinieri. A pesare notevolmente, però, era la mancata concessione delle licenze e dei permessi per i lavori agricoli stagionali, interruzioni che i Comandi ritenevano deleterie per le negative ripercussioni sul morale dei soldati e per la possibile diffusione tra la popolazione delle notizie sullo stato reale della guerra. Le scene di giustizia sommaria e implacabile (esposizione dei soldati puniti al fuoco nemico, mitragliare chi arretrava durante gli assalti, fucilazioni sul posto e decimazioni), sono tra le più drammatiche e realistiche nel film di Rosi e mostrano efficacemente come venissero messe in pratica le direttive di Cadorna, insoddisfatto della presunta lentezza e indulgenza dei tribunali militari per l’applicazione di misure punitive immediate ed esemplari, senza formalismi burocratici e legislativi. Ricorda Melograni che per il capo di Stato Maggiore:

I comandanti dovevano essere messi in condizione di reprimere fulmineamente l’indisciplina delle truppe, senza vincoli procedurali, anche perché i tribunali militari – obbligati al rispetto delle procedure – erano “affetti dallo stesso morboso sentimentalismo” che dominava il Paese, e si decidevano raramente a pronunziare sentenze capitali 83.

Altrettanto incisiva è la capacità di Rosi di mettere in scena l’incompetenza e l’inettitudine dei comandi superiori che, nella loro presunzione e ottusità, nulla avevano imparato dalle sconvolgenti novità della guerra che si erano manifestate sugli altri fronti europei durante i dieci mesi di neutralità dell’Italia. La rievocazione dell’attacco con i soldati protetti dalle inutili corazze “Farina”, o della carica all’arma bianca della cavalleria austriaca lanciata contro le mitragliatrici, oltre a dimostrare l’idiozia di entrambi i comandi e il profondo disprezzo per i soldati considerati “carne da cannone” ridotti a vero e proprio materiale di consumo 84, rappresenta l’abisso tra una guerra di devastante furia tecnologica e una tecnica militare ancora intrisa di valori e metodi arcaici, che prevedeva l’impiego di cesoie, mazze ferrate, asce, pugnali, combattimenti corpo a corpo e fiamme contro il nemico. Per questo gli scenari dominanti di Uomini contro sono la trincea e la terra di nessuno, dove milioni di uomini, ridotti per lunghissimi mesi ad una condizione di vita animale, travalicando il limite di ogni umana sopportazione, erano sottoposti a prove – fisiche e mentali - mai vissute in precedenza. Come amaramente hanno scritto Isnenghi e Rochat “Col passare delle stagioni le illusioni caddero, la fine della guerra si allontanò sempre più e per i soldati la trincea diventò una condizione senza sbocco e senza tempo” 85.

83 Melograni, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918, cit., p. 199 84 I Comandi italiani non misero mai in discussione la funzione di sostegno del fuoco dell’artiglieria agli attacchi offensivi della fanteria, arrivando ad adottare la tattica di impiegare l’artiglieria in preparazione degli attacchi non più allungando il tiro mano a mano che la fanteria avanzava verso le linee avversarie, ma ravvicinandolo alla posizione dei soldati all’attacco. I risultati di questa scelta scriteriata furono i numerosi bombardamenti sulle stesse linee italiane. Cfr. E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, cit., cap. XXVIII 85 Isnenghi e Rochat, La grande guerra 1914-1918, cit., p. 90

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Le difficoltà e gli ostacoli alla trasposizione cinematografica del libro di Emilio Lussu iniziarono ancor prima della lavorazione del film: nessun produttore italiano fu disponibile a realizzare il film di Francesco Rosi che, pertanto, fu costretto ad autoprodursi. La partecipazione alla produzione della società cinematografica jugoslava Jadran Film consentì di ricostruire l’ambientazione di Uomini contro in Istria, nel gruppo montuoso di Monte Maggiore, con la disponibilità dei soldati dell’Armata Popolare per le scene di massa. Presentato la prima volta alla 31a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (nell’edizione che non prevedeva l’assegnazione di premi), il film provocò rabbiose reazioni di politici, gerarchie militari, associazioni combattentistiche e della stampa conservatrice, oltre alla denuncia contro Francesco Rosi per vilipendio delle Forze Armate. La società distributrice del film decise la sospensione delle proiezioni in molte sale delle principali città per le minacce ricevute da parte di gruppi neofascisti, che attuarono veri e propri picchetti all’ingresso dei cinema dove era in programmazione Uomini contro. In Parlamento il più accanito detrattore del film fu Giovanni De Lorenzo, allora deputato del partito Monarchico e, in precedenza, capo del SIFAR, il servizio segreto delle Forze Armate e, poi, comandante generale dei Carabinieri e capo di stato maggiore dell'Esercito Italiano. Durante gli anni in cui De Lorenzo fu a capo del SIFAR (1955-1962), vennero spiati e schedati oltre centocinquantamila italiani tra politici, sindacalisti, imprenditori, manager pubblici, intellettuali, religiosi e militari e i relativi fascicoli, in molti casi, furono utilizzati per ricatti e condizionamenti della vita politica ed economica della Repubblica. In qualità di comandante generale dei Carabinieri (dal 1962 al 1965), elaborò il cosiddetto “Piano Solo” che prevedeva il controllo dello Stato da parte dell’arma dei Carabinieri, l’arresto e la deportazione in una base militare segreta in Sardegna di tutti coloro che erano considerati in qualche modo “sovversivi” o possibili oppositori della svolta autoritaria progettata per sovvertire il giovane ordinamento democratico italiano o, quantomeno, indebolire il più possibile la recente esperienza dei governi di centro-sinistra.

III. La sciantosa di Alfredo Giannetti, Italia 1971

Più conosciuto nella sua versione televisiva, questo film è un chiaro omaggio alla grande attrice Anna Magnani e faceva parte di un progetto della Rai (Tre donne) il cui obiettivo era ripercorrere i momenti salienti della storia italiana attraverso le vicende di tre protagoniste femminili. Pur non potendosi ascrivere alla filmografia antimilitarista e di visione critica del primo conflitto mondiale, La sciantosa è un film onesto ed ha il merito di rifuggire dalla retorica, dagli scivolamenti retorici e patriottici e dall’edulcorazione del conflitto, cosa non scontata all’inizio degli anni settanta quando la televisione italiana era ancora sotto lo stretto controllo governativo (la riforma della Rai avverrà solo nel 1975). Giannetti dà una rappresentazione realistica di uno dei problemi più angoscianti vissuti dai soldati al fronte: l’indifferenza della società civile, soprattutto quella urbana, di fronte alla terribile prova cui erano sottoposti. Già con le prime licenze concesse nell’inverno del 1915 soldati e ufficiali avevano potuto amaramente verificare quale distanza esistesse tra i campi di battaglia e le retrovie, dove la vita cittadina continuava come prima dell’entrata in guerra e gli svaghi e i

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese divertimenti sembravano addirittura aumentati, con cinema, teatri e sale da ballo sempre pieni, oltre a constatare il gran numero di giovani privilegiati che erano riusciti a sottrarsi alla chiamata alle armi.

A quanto risulta dalla maggior parte delle testimonianze, – scrive Melograni - tuttavia, le più appariscenti ragioni del disagio provato dal soldato in licenza erano altre. I giornali fornivano descrizioni idilliache e le più veritiere notizie diffuse dai soldati tornati nelle retrovie non erano state capaci di modificare le idee correnti. Gli ufficiali in licenza raccontarono spesso che il Paese non soltanto non sapeva molto delle reali condizioni dei combattenti, ma cercava anche di non saperne troppo, come se, per una forma di autodifesa, avesse avuto paura della verità 86.

Nella sua circolare del gennaio 1916 il generale Cadorna, nella sua rigida e autoritaria concezione militare, si dimostrava pertanto allarmato, non per la profonda spaccatura tra l’esercito e il Paese, ma per il fatto che le licenze producessero uno stato di scoramento e di minor aggressività tra i soldati al loro rientro e che la loro permanenza momentanea nei luoghi d’origine aveva comportato il diffondersi di notizie sull’andamento della guerra che potevano minare la fiducia e il patriottismo della popolazione civile.

Di questo mondo ignaro della guerra fa parte un’altezzosa cantante sul viale del tramonto, interpretata da Anna Magnani, che accetta l’offerta delle autorità militari di cantare per le truppe al fronte, non avendo la più pallida idea di quale ambiente dovrà affrontare e convinta di doversi esibire come in un qualsiasi altro teatro per cui avanza pretese per disporre di un camerino esclusivo e di una grande orchestra che accompagni il suo repertorio. Al contrario di ciò che avveniva negli altri eserciti, l’organizzazione del tempo libero e delle attività ricreative per interrompere e alleviare in qualche modo la dura condizione dei soldati era stata apertamente osteggiata dal comandante supremo Cadorna. Il generale, come afferma Franzina, coerentemente con il suo concetto di cieca disciplina e obbedienza, considerava pericolosa per l’austerità del ruolo militare ogni forma di svago e intrattenimento.

… la realizzabilità di un qualche progetto di assistenza ricreativa alle truppe, a quei soldati cioè che la guerra l’avevano sostanzialmente subita, stentò a farsi strada, ufficialmente, sino alla svolta del 1917- 1918. Prima di allora le distrazioni autorizzate a favore della gran massa dei militari furono così poche che se si esclude l’alcool o l’uso di bevande spiritose quali coadiuvanti contro lo stress della trincea e al momento dell’assalto (la “benzina” dei combattenti secondo la memoria di Lussu), esse si ridussero a due: le “case del soldato” e le case di tolleranza militari 87.

Il teatro immaginato dalla cantante in realtà è uno scalcinato ospedale da campo, privo di attrezzature e medicine, ma sovraffollato di feriti e invalidi di ogni genere. Quando sale sul palcoscenico e si trova di fronte quella giovane umanità dolente e sofferente, eppure così entusiasta della sua presenza, per la prima volta si misura con il dramma della guerra e si rende conto quanto ridicoli siano la sua bardatura da Italia turrita - avvolta in

86 Melograni, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918,cit., p. 97 87 Franzina, Il tempo libero dalla guerra. Case del soldato e postriboli militari, in La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e Camillo Zadra, cit., p. 165 39

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese un’enorme bandiera e con la corona in testa – e il repertorio di canti patriottici scelti per adeguarsi alla scalcinata orchestrina di soldati. Strappatasi di dosso il tricolore intona 'O surdato 'nnammurato, una canzone così lontana dalla retorica patriottica e di guerra per la sua struggente malinconia e per l’espressione di sofferenza, vero specchio del Paese che ha subito la guerra.

Una canzone cult degli italiani, - scrive sempre Emilio Franzina - da lì in avanti e anche attraverso gli smarrimenti e le lacerazioni d’altri conflitti, ossia l’incantevole e polivalente ‘O surdato ‘nnamurato di Cannio e Califano in cui la tempestività di nascita, il 1915, e la scoperta allusività dei contenuti carichi di richiami alla vita e all’amore (…) Più ancora dei canti in favore o contro la guerra, infatti, ‘O surdato ‘nnamurato decifra e interpreta lo stato d’animo di quella stessa nazione reale che sarà forzata ad autoriconoscersi, man mano, nei motivi più marziali, patriottici e “plebiscitari” de La campana di San Giusto di Drovetti e Arona (1915), de La leggenda del Piave di E.A. Mario e de La Canzone del Grappa di Meneghetti e De Bono 88.

Come ricorda Mario Rigoni Stern l’estraneità della gran parte dei soldati alla guerra era dimostrata anche dalle canzoni che essi cantavano e che, nelle trincee, non erano certo quelle imposte durante le fasi di addestramento, nelle caserme o durante i trasferimenti al fronte.

C’è da dire che i soldati non cantavano Montegrappa né La leggenda del Piave, ma altre cose. Forse, quando erano in rango, gli ufficiali facevano intonare canzoni patriottiche (…) E’ una canzone (‘O surdato ‘nnamurato) che commuove e che fa meditare. Bisognerebbe che tutti la cantassero prima di pensare alla guerra. E’, quella, una musica di pace 89.

Non appartenevano al soldato comune i canti patriottici, dalle parole auliche e indecifrabili, anche perché l’idea della patria era perlopiù sconosciuta o incomprensibile alla maggioranza dei combattenti. I canti più diffusi si rifacevano al repertorio folclorico d’anteguerra, o erano l’adattamento e la trasformazione delle più famose canzoni del varietà, con doppi sensi e parole irriverenti e satiriche, quando non apertamente di protesta. Contro la diffusione di un repertorio ritenuto immorale e nocivo per lo spirito del soldato si impegnò lo psicologo militare Agostino Gemelli, sempre attentamente ascoltato dal generale Cadorna, che:

Auspica che il compito delle autorità militari sarà quello di reagire alla tendenza del soldato a cantare “cose troppo grossolane e sconvenienti, di incoraggiare il canto patriottico, di sviluppare l’amore per il canto onesto e il gusto per il canto corale. Esprime Gemelli un’esigenza di ordine e la necessità di controllare un settore lasciato totalmente all’autonomia del soldato e, per dir così, alla libera iniziativa, con lo scopo di elevare l’animo e il morale delle truppe e di sradicare dal repertorio del popolo-soldato certe strofette denigratorie “forse suggerite dal qualche agente austriaco in servizio di spionaggio” 90.

Solamente dopo Caporetto il Comando supremo si pose il problema di intervenire organicamente con iniziative di propaganda e intrattenimento per ridare slancio e vigore ai soldati.

88 Franzina, Inni e canzoni, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita, a cura di M.Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1996, p.146

89 M. Rigoni Stern, Il coraggio di dire di no, a cura di G. Mendicino, Einaudi, Torino 2013, pp. 149, 151 90 Q. Antonelli, Dai canti di guerra ai cori di montagna, in La Grande Guerra, esperienza,memoria immagini, cit., p. 433 40

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Di questo nuovo impegno saranno protagonisti i cosiddetti ufficiali I.P. (Informazioni e Propaganda). Accanto all’organizzazione del tempo libero dei soldati, dei vuoti dai combattimenti e delle lunghe degenze ospedaliere (con giochi, cinema, teatro, dotazione di grammofoni per l’ascolto della musica), l’attività degli ufficiali I.P. svolse un’intensa opera di alfabetizzazione, di costruzione del consenso e di vera e propria educazione nazionale e patriottica (con il potenziamento delle letture nelle Case del soldato, la stampa al fronte e nelle trincee, la diffusione tra i soldati di motti, frasi fatte, slogan all’insegna del patriottismo e del dovere, un sistema che sarà poi ripreso, a livello di religione civile, dal fascismo). Come ha scritto Gibelli:

L’influenza esercitata attraverso la pratica diffusiva della scrittura dello Stato e delle classi dominanti sul linguaggio dei subalterni non concerne solo il lessico della burocrazia: si estende ampiamente ai temi del patriottismo e all’ideologia nazionale. I contadini imparano a nominare la patria prima di sapere che cosa sia. Soprattutto, essi apprendono la necessità di nominarla non solo per ragioni di opportunità ma per dare senso a cose che altrimenti non ne avrebbero, o almeno per simularne uno. E simulare un senso delle cose è talvolta l’unico modo per riferirle, per orientarsi, per ammortizzarne gli effetti traumatici 91.

Un altro compito importante assegnato agli ufficiali I.P. fu quello di assistere e aiutare i soldati a scrivere le lettere ai propri familiari e far sì che la rappresentazione della guerra non confliggesse con l’opera di costruzione del consenso anche nei confronti del “fronte interno”.

Le classi dominanti non solo gettarono i subalterni al massacro, ma offrirono e imposero loro le parole per interpretarlo, per comunicarlo e per fronteggiare il dolore che esso generava 92.

IV. torneranno i prati, di Ermanno Olmi, Italia 2014

Nell’anno del centenario dello scoppio della Grande Guerra Ermanno Olmi realizza un film lontanissimo da ogni intento celebrativo e commemorativo, un’opera dove predominano la smisurata e bestiale sofferenza degli uomini in armi e lo sforzo per conservare la coscienza individuale di fronte al suo annullamento nella guerra di massa. L’intento di Olmi è quanto mai esplicito e dichiarato senza alcuna ritrosia:

Fanfare, bandiere, discorsi per accompagnare il Centenario, ma prima va sciolto un nodo, altrimenti l’ipocrisia diviene vigliaccheria: la celebrazione deve essere per noi motivo di chiedere scusa a quei giovani morti senza sapere perché 93.

Le versioni ufficiali non sono mai credibili, le bugie, gli atti di prudenza non devono essere taciuti: dobbiamo sapere, conoscere, perché se non è sincera come può la Storia essere maestra? 94

91 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., p. 99 92 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., p. 7 93 F. Caprara, Ermanno Olmi: “La Grande Guerra grande tradimento”, “La Stampa” 4 novembre 2014 94 M. Melilli, Le trincee nel cinema. Da Monicelli a Olmi, così il conflitto sul grande schermo. “Il Corriere della Sera” 31 maggio 2014 41

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Il regista aveva già affrontato in precedenza le tematiche della guerra: nel 1970 con il film I recuperanti (v. cap. 2. par. V. Prima e dopo la guerra) e Il mestiere delle armi nel 2001. Quest’ultimo film è una rigorosa ricostruzione storica del drammatico periodo delle guerre d’Italia nei primi decenni del 1500. Il mestiere delle armi è incentrato sulla figura del condottiero Giovanni dalle Bande Nere al servizio dello stato Pontificio che tentò di fermare, vanamente, l’avanzata dei lanzichenecchi luterani che culminerà con il terribile sacco di Roma. Ermanno Olmi ha saputo mettere in scena il tramonto del Rinascimento italiano e l’affermarsi della guerra moderna, contrassegnata dalla potenza distruttiva delle artiglierie e delle armi da fuoco, ma anche la corruttiva e spietata ragione di stato e l’azione politica che governano e conducono le guerre, fatte di inganni, opportunismi, tradimenti, intrighi, menzogne e rovesciamento di alleanze. Sin dai suoi esordi nel lungometraggio (Il posto del 1961), Ermanno Olmi si è contraddistinto per il rigore formale e il forte e austero realismo, contrassegnato dalla profonda umanità e amore per i personaggi, generalmente appartenenti alla quotidianità più autentica e, per certi versi, più umile, mai ritratti con sovrapposizioni ideologiche (non a caso Olmi ha spesso impiegato attori non professionisti nelle sue opere). Questa attenzione verso l’umanità esclusa la ritroviamo anche nel film torneranno i prati. La sceneggiatura, come dichiarato dallo stesso regista, è stata guidata dalla lettura degli scritti e dei diari dei soldati comuni, di coloro che non avevano voce e non dalla narrativa degli ufficiali- scrittori che, a parte rarissime eccezioni, è impregnata, come ha scritto Mario Isnenghi, “d’una visione della società italiana in guerra che si tende a proporre ed imporre: la visione rassicurante d’una nazione e d’un esercito stabili e saldi nelle proprie gerarchie e nei propri valori 95”. A raccontare e descrivere la guerra nei suoi termini reali sono stati perciò gli scritti privati e i diari dei semplici soldati, una scrittura popolare che rispondeva all’insopprimibile bisogno di dare un senso agli sconvolgimenti vissuti, al caos e al disordine dentro i quali questi uomini erano stati scaraventati. Quasi un antidoto o un rimedio alla violenza e alla morte che quotidianamente li opprimeva.

torneranno i prati è un film che non concede nulla alla spettacolarizzazione della guerra se non l’impiego di un tremendo sonoro che può solo far immaginare l’effetto sconvolgente dei bombardamenti sulla mente e sul fisico dei soldati rintanati nei rifugi, terrorizzati e colpiti per ore, se non per giorni, dai colpi dell’artiglieria pesante. Nonostante la presenza continua di una natura ripresa nella sua inquietante bellezza, per tutto il film si è catapultati dentro un’atmosfera angosciante, a volte insopportabile e insostenibile, quasi soffocante come il peso della neve che cancella ogni cosa. Questa atmosfera è una presenza costante nelle testimonianze di guerra nell’Altipiano, a cui il film si ispira.

La neve – scrive Fritz Weber - è un peso che minaccia di stritolarci a ogni passo. Di cima in cima si ripercuote il rombo delle valanghe che precipitano a valle. Il numero delle vittime cresce. Ogni giorno, una nuova catastrofe. Nel corso dell’inverno, la montagna sulla quale ci troviamo costa la vita a ottomila

95 Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., p. 324 42

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uomini. Pochissimi cadono per mano del nemico; l’enorme maggioranza finisce nei crepacci, o ha le membra congelate o muore assiderata. Contro la neve non si lotta. E’ come un subdolo e misterioso flagello, che toglie a tutti la forza di volontà e spegne la vita come un lento veleno. Scaviamo gallerie tra un ricovero e l’altro, tra le batterie e la baracca della cucina. Non perché il farlo sia sempre necessario, ma essenzialmente per passare il tempo, per non perdere ogni speranza di vincere il terribile destino96.

La neve cancella anche la morte: i cadaveri dei soldati, che le squadre di seppellitori non potevano sotterrare se non nei rari momenti di tacita tregua tra italiani e austriaci, restavano insepolti nei campi di battaglia. Come scrive Mario Rigoni Stern:

Alla fine di aprile e a maggio vennero delle calde giornate di sole, e piogge. I ricoveri apprestati nel tardo autunno si sfacevano e crollavano perché si scioglieva il ghiaccio che li teneva assieme; sprofondavano i reticolati tesi durante l’inverno, si disfacevano i sacchetti di terra a difesa delle postazioni. Affioravano i cadaveri delle precedenti battaglie e quelli delle valanghe; l’aria era ammorbata dagli escrementi umani ovunque sparsi: la guerra di trincea mostrava gli orridi rifiuti che per sei mesi le nevicate avevano nascosto97.

A spezzare momentaneamente il senso di straniamento e di oppressione che il film è in grado di provocare è la ricostruzione di un avvenimento realmente accaduto durante il conflitto sull’Altopiano di Asiago. Non di rado la musica e il canto rappresentarono il mezzo più valido per comunicare tra le opposte trincee gli analoghi sentimenti vissuti dai combattenti, come il desiderio di pace o, almeno, di tregua, la profonda nostalgia di casa, l’amore per la fidanzata, la moglie e i figli lontani. Non erano quindi certo le canzoni di guerra o marziali ad essere le più adatte a suscitare emozioni, rimpianti e speranze, ma quelle più popolari, come quelle del repertorio napoletano o le arie da operette per gli austriaci (v. cap. 2. par. III. La sciantosa). Della capacità di un canto di suscitare un momentaneo istante di sospensione dall’orrore della guerra abbiamo la mirabile rappresentazione di Ermanno Olmi nella scena dove nessuno osa sparare contro un vivandiere che trasporta il suo carico cantando Tu ca nun chiagne, una famosissima canzone scritta proprio nel 1915.

Come spettatori siamo costretti nello spazio claustrofobico della trincea e del rifugio, nella stessa miserevole e primitiva condizione vissuta per mesi e mesi dai soldati. Nel film si colgono la costrizione in uno spazio ristretto – fetido e dove convivevano vivi e morti – l’immobilità, il ristretto orizzonte a disposizione, la perdita del senso della realtà, del significato delle cose e delle ragioni della guerra. Le testimonianze ricordano come la trincea comportasse l’atrofizzazione del pensiero, l’ottundimento della mente, maniacalmente dominata da ossessioni e allucinazioni. Così Italo Maffei descrive la sua esperienza di trincea, proprio sull’Altipiano di Asiago:

Ce n’è d’ogni forma (i vermi) e d’ogni colore, grossi e lunghi, circolanti per terra, trasudanti da tutti i buchi, uscenti da tutte le crepe del terreno, viscidi e immondi: vengono dai morti. Il mio rifugio, una specie di porta tagliata nel terreno, umida e fonda con due banchine di terra su cui dormire, a volte, io e

96 F. Weber, La guerra delle mine. La conquista del Monte Cimone, in 1915-1918. La guerra sugli Altipiani, M. Rigoni Stern (a cura di), Neri Pozza, Vicenza 2000, p. 379

97 Rigoni Stern, Il 1917. Ivi, p. 374 43

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l’attendente, ne è invaso. Filtrano dappertutto insieme con tanfo di cadavere, con le orribili mosche azzurre che vivono pasciute su le ferite e le piaghe purulente. E marciano a legioni, tanto che non si sa mai dove posar nulla senza toccarli. La loro presenza schifosa, questa orribile costrizione a viverci insieme è una specie di tortura da dannati danteschi98.

Olmi impernia il suo film su quello che considera il vero coraggio ed eroismo: l’affermazione della propria coscienza nonostante lo stato di regressione fisica e mentale causato da un’esistenza simile a quella delle talpe, l’opposizione e il rifiuto di obbedire a ordini insensati, concepiti a chilometri di distanza nella più completa indifferenza della sorte degli uomini, magari su carte topografiche sbagliate. Così, anche il gesto disperato di darsi la morte volontariamente diventa la forma estrema di ribellione, di rivendicazione della propria dignità che si è cercato in tutti i modi di annientare. La pietà e la compassione con le quali Ermanno Olmi ci mostra il giovane ufficiale, intimorito e spaesato nel trovarsi inaspettatamente al comando del plotone in trincea, consapevole della sua inadeguatezza e del grado ottenuto in virtù dei suoi studi umanistici, rivelano uno delle più gravi insufficienze gravanti sull’esercito italiano: la mancanza di ufficiali e la scadente preparazione di quelli effettivi. Soprattutto agli ufficiali di plotone, ultimo anello della catena di comando, era richiesto di far eseguire, senza alcuna discussione, gli ordini superiori e di svolgere un’opera di mediazione, convincimento e coesione tra i soldati sottoposti con i quali, sostanzialmente, condividevano le stesse condizioni di sofferenza, fatica e privazioni. In gran parte provenienti dalla piccola borghesia, in possesso di un titolo di studio superiore o ancora iscritti a corsi universitari (per la maggior parte di giurisprudenza, lettere e filosofia), gli ufficiali di complemento venivano istruiti nell’arte militare attraverso velocissimi corsi accelerati, in molti casi della durata di due mesi, per poi essere catapultati nel cuore dell’azione, costretti – a meno che non fossero invasati interventisti – ad affidarsi all’esperienza dei sottoufficiali più anziani. Nel corso del conflitto si creò una profonda frattura e conflittualità tra questo tipo di ufficiali e quelli effettivi, quest’ultimi perlopiù in servizio presso i comandi, preoccupati per la loro carriera e sempre pronti a ricorre alla giustizia militare in caso di negligenza o mancanze dei soldati (che gli ufficiali di complemento tendevano invece a risolvere faccia a faccia con il soldato, senza ricorrere ai tribunali di guerra).

Durante e dopo la guerra – ha scritto Piero Melograni - gli ufficiali di complemento criticarono piuttosto duramente il “carrierismo” dei loro colleghi appartenenti all’esercito permanente, arrivando ad affermare che quest’ultimi, in talune occasioni, avevano dato ordine ai reparti di compiere azioni inutili e dispendiose di vite umane, sol perché quelle azioni avrebbero fatto buona impressione ai superiori, e sarebbero state quindi vantaggiose per conseguire il sospirato avanzamento di grado99.

Nel film, l’episodio del giovane ufficiale fa riflettere sul conflitto tra la propria coscienza e il principio cardine della concezione autoritaria e repressiva del militarismo di Cadorna. Com’è noto,

98 da I. Maffei, Dall’Isonzo a Mladà Boleslaw. I carnai. Altipiano di Asiago. in 1915-1918. La guerra sugli Altipiani, M. Rigoni Stern (a cura di), cit., p. 282

99 Melograni, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918, cit., pp. 206-7 44

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese il generale Cadorna, secondo Mondini rappresentante “della corporazione degli ufficiali di stato maggiore della vecchia scuola piemontese”, aveva una “concezione spietata del governo degli uomini”. Come avrebbe ricordato Luigi Albertini, la sua concezione della disciplina “era ossessiva, cieca e presupponeva un’armata composta da soggetti passivi, non da cittadini di cui andava costruito e mantenuto il consenso”; il soldato in altre parole aveva il dovere di “sacrificare la vita alla patria senza discutere 100”. Questa non era solo un’idea di Cadorna, ma era diffusa tra gli alti gradi dell’esercito. Nel libro di Emilio Lussu un ufficiale dice a un certo punto: “I comandanti non si sbagliano mai e non commettono errori. Comandare significa il diritto che ha il superiore gerarchico di dare un ordine. Non vi sono ordini buoni e ordini cattivi, ordini giusti e ordini ingiusti. L’ordine è sempre lo stesso. E’ il diritto assoluto all’altrui obbedienza 101”.

Il titolo scelto da Olmi per il suo film è un evidente riconoscimento a Mario Rigoni Stern, lo scrittore con il quale ha coltivato un lungo e affettuoso sodalizio. Esso fa riferimento alla sua drammatica descrizione del paesaggio dell’Altopiano sconvolto e ferito dalla guerra, ridotto a “erba gialla morta per i gas e abeti secchi e nudi 102”. Ma è anche l’amara e disperata riflessione conclusiva del film, quando il giovane ufficiale scrive nel suo diario che, una volta rifioriti i prati, "di quel che c'è stato qui non si vedrà più niente, e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero".

L’utilizzazione della natura – ha scritto Mosse - per mascherare la morte e la distruzione, trasfigurando l’orrore della guerra, conobbe il suo vero dispiegamento soltanto dopo la cessazione dei combattimenti. Da un lato troviamo – l’abbiamo già visto – i lindi e ordinati cimiteri militari, o i boschi degli eroi. Ma sui campi in cui aveva infuriato la battaglia la natura subì trasformazioni più vaste della mera fioritura dei papaveri 103.

Oblio e cancellazione della memoria che non sono solo opera della retorica e della mistificazione che, ancora oggi, affiorano nelle commemorazioni ufficiali, ma anche della banalizzazione del ricordo, del “turismo di guerra” che suppone di onorare lo sterminio di tanta gioventù organizzando sfide agonistiche tra i sentieri della Strafexpedition, rievocazioni in costume e pranzi al sacco nelle trincee ripristinate.

100 Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-18, cit., pp. 151-2 La concezione della disciplina di Cadorna aveva avuto modo di esplicarsi con due circolari del Comando Supremo, la prima del settembre del 1915 e la seconda seguita di un anno, dopo che il generale aveva avuto modo di lamentarsi del “morboso sentimentalismo” dei tribunali militari che non comminavano pene abbastanza severe (cit. ibidem). La prima circolare diceva: “Deve ogni soldato essere certo di trovare, all’occorrenza, nel superiore il fratello o il padre, ma anche deve esser convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi (…) Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato da quello dell’ufficiale”. Ecco un passaggio tratto dalla seconda circolare: “(…) ricordo che non vi è altro mezzo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli, e allorché accertamento identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte.

101 Lussu, Un anno sull’Altipiano, cit., pp. 171-2 102 Rigoni Stern, L’anno della vittoria, cit., p. 66 103 L. Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, cit., p. 124 45

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Una smemoratezza che Ermanno Olmi ha definito “sonnolenza” di fronte a quella che oggi potrebbe essere una vigilia analoga a quella dell’estate del 1914 e che impedisce di capire “che la guerra non è l’epidemia di un virus sconosciuto, ma è un virus conosciutissimo 104”.

V. Prima e dopo la guerra

Il cinema ha la straordinaria capacità di raccontare sul grande schermo le tragedie e i drammi. Al contrario della letteratura e della saggistica, però, difficilmente l’opera cinematografica è in grado di illustrare le complesse e molteplici ragioni dello scoppio della prima guerra mondiale e le tragiche eredità lasciate alla sua conclusione. Tanto più articolato e multiforme è il “prima” e il “dopo” del conflitto, tanto più difficile è ridurre la complessità utilizzando il linguaggio cinematografico che, se vuole rivolgersi ad un pubblico vasto ed eterogeneo, deve impiegare un lessico essenziale, immediato e sintetico, subordinato alla prevalenza dell’immagine e alla limitata durata dell’opera filmica (quello che Gian Piero Brunetta definisce “L’immaturità culturale e ideologica del mezzo cinematografico”) . Come abbiamo visto il cinema italiano è rimasto sostanzialmente estraneo al tema della Grande Guerra e ancor più a quel periodo di fortissime tensioni e di scontri politici durante la fase di neutralità dell’Italia e a quello dell’immediato dopoguerra. Anche la cinematografia fascista ha stranamente trascurato qualsiasi rievocazione delle “radiose giornate di maggio”, che rappresentarono – a posteriori - un momento esaltante per l’ideologia del regime. Si possono però indicare tre film che hanno saputo affrontare il febbrile periodo precedente l’entrata in guerra dell’Italia e la tragica e violenta eredità lasciata dal conflitto: Vincere di Marco Bellocchio, La Marcia su Roma di Dino Risi e I recuperanti di Ermanno Olmi.

Vincere di Marco Bellocchio, Italia/Francia 2009

Dei mesi frenetici e convulsi che precedettero l’entrata in guerra dell’Italia, dell’impadronirsi delle piazze da parte della rumorosa e aggressiva minoranza interventista, dell’esaltazione febbrile degli interventisti all’inizio delle operazioni belliche italiane, abbiamo una efficace illustrazione nel film Vincere di Marco Bellocchio del 2009. Il film ripercorre le tragiche vicende di Ida Dalser, con la quale Mussolini ebbe una relazione da cui nacque un figlio, vittima di una sistematica opera di persecuzione e distruzione da parte degli apparati polizieschi e psichiatrici, agli ordini di un regime che in lei vedeva un pericolo e una minaccia per l’immagine pubblica del duce. La prima parte del film è dedicata al percorso politico di Mussolini socialista: dalla sua opposizione all’impero asburgico durante la sua permanenza a Trento e alla successiva contestazione dell’impresa coloniale in Africa settentrionale promossa da Giolitti. Allo scoppio della guerra in Europa assistiamo alla sua evoluzione che, da una intransigente opposizione all’intervento italiano nel conflitto mondiale - che avrebbe portato alla rovina il proletariato europeo - approda repentinamente alla convinzione di dover partecipare alla guerra a

104 A. Di Lorenzo, Olmi in trincea per la pace, “Cats”, supplemento de “Il Giornale di Vicenza”, ottobre 2014 46

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese fianco delle nazioni dell’Intesa, quale occasione per consentire al proletariato di trasformarla in rivoluzione contro la borghesia capitalista. Bellocchio ricostruisce il tormentato dibattito tra le varie anime del Partito Socialista sulle ragioni per schierarsi decisamente contro la partecipazione alla guerra. La stessa difficile e angosciante posizione in cui si trovarono i partiti socialisti europei tra mantenere ferma l’opposizione alla guerra, contraria ad ogni principio internazionalista, o sostenere il conflitto in nome dell’unione sacra della nazione (peraltro il PSI sarà l’unico partito socialista in Europa a non capitolare di fronte alla ragione di stato). Infatti, come ha scritto lo storico francese Fernand Braduel:

(…) si può ben affermare che l’Occidente, nel 1914, se si trovava sull’orlo della guerra, si trovava anche sull’orlo del socialismo. Questo era sul punto di prendere il potere, di edificare un’Europa altrettanto e forse più moderna di quella attuale. In pochi giorni, in poche ore la guerra fece crollare ogni speranza. Il socialismo europeo di quell’epoca ebbe l’enorme torto di non aver saputo arrestare il conflitto 105.

Il racconto che muove dalla fermissima opposizione di Mussolini alla guerra, la sua neutralità assoluta continuamente ribadita negli articoli sull’”Avanti!” – che, sotto la sua direzione, raggiunse anche 100.000 copie di tiratura – per arrivare al suo fulmineo passaggio all’interventismo con la fondazione di un proprio quotidiano, “Il Popolo d’Italia”, permette di comprendere il ruolo fondamentale svolto dalla stampa durante la lacerante e drammatica discussione nel Paese. Uno scontro dal clima di guerra civile, dove una minoranza agguerrita a violenta occupava la scena e le piazze italiane, sino all’assalto del palazzo di Montecitorio durante le “radiose giornate” di maggio del 1915, momentaneamente concluso con un vero e proprio colpo di stato da parte della monarchia.

Il paese – come ha scritto lo storico Enzo Santarelli - è quindi trascinato alla guerra – che viene definita volta a volta democratica o rivoluzionaria, patriottica e nazionale, ma in cui prevale oggettivamente l’aspetto dello scontro imperialista – riottoso e malcontento. Non si tratta tuttavia di una minoranza che sopraffà la maggioranza. In effetti è una nuova politica di autorità che si impone al parlamento e al popolo 106.

Il progressivo scivolamento verso l’interventismo da parte dei grandi quotidiani nazionali, espressione dei più potenti gruppi industriali e finanziari, fu determinante per influenzare l’opinione pubblica, quella acculturata, in grado di intervenire e orientare l’aspro confronto pro o contro la guerra (il “Corriere della Sera”, in particolare, si trasformò in prestigiosa cassa di risonanza degli infiammanti discorsi di D’Annunzio).

Alla fine dell’età giolittiana – ricorda Mondini - le principali testate d’opinione e di partito (“Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Il Secolo”, “Il Mattino”, “Il Giornale d’Italia”, “La Tribuna”, “L’Avanti”, “Il Messaggero”) si rivolgevano a un pubblico di oltre un milione di lettori; non era granché se paragonato a paesi con un’industria mediatica e letteraria più avanzata (in Francia nel 1914 le duecento testate della stampa quotidiana raggiungevano una tiratura complessiva di 10 milioni di copie), ma era comunque un incremento notevolissimo, quasi il doppio rispetto agli ultimi anni del secolo precedente, e il segno

105 F. Braduel, Il mondo attuale, Einaudi, Torino 1966, p. 453 106 E. Santarelli, Storia del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 63 47

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dell’esistenza di un pubblico costante (...) Salandra scrisse nelle sue memorie che “senza i giornali l’intervento dell’Italia forse non sarebbe stato possibile” 107.

Senza contare la rilevante diffusione dei giornali illustrati, come “L’Illustrazione Italiana” e “La Domenica del Corriere”, quest’ultima ampiamente diffusa a livello popolare, entrambi su posizioni interventiste.

Con il suo film Bellocchio è in grado, inoltre, di rappresentare adeguatamente l’esagitato clima interventista che inondava le piazze durante il periodo di neutralità, per trascinare l’Italia e il suo popolo dentro l’inferno del conflitto, come descritto da Isnenghi e Rochat:

La galassia interventista è comunque vogliosa di menare le mani, esige la guerra all’Austria e si mostra pronta a cercare il casus belli, con sconfinamenti, scontri di frontiera, per forzare la mano al governo Salandra che agisce con tutt’altro animo e tempi 108.

Anche l’aspetto cruciale del clima culturale degli anni precedenti il conflitto trova spazio nel film con il richiamo all’esposizione milanese delle opere del movimento futurista, che nella guerra vedeva la massima espressione del vitalismo e della virilità, la strada per la rigenerazione degli italiani dalle loro debolezze e mollezze, l’entusiasmo per la nuova civiltà industriale espressa dalla potenza micidiale delle nuove armi e dalla velocità di movimento. Bellocchio ci fa rivivere questa esaltazione febbrile - che non era dei soli artisti futuristi - la voglia di partecipare alla “grande festa della guerra”, al pari di una virile, maschia e gagliarda gara sportiva, di andare incontro alla “bella morte”, in un’estasi di distruzione di tutto ciò che era vecchio e stantio per cui la guerra diventava “il più bel poema apparso finora”. L’azione di quella generazione di intellettuali e artisti nati attorno agli anni ottanta del 1800 (che già in occasione della guerra coloniale italiana in Libia aveva esaltato l’impresa in nome del nazionalismo e della necessità di ridare energia e vitalità ad un’Italia piccola e infiacchita) influenzerà profondamente i giovani della borghesia italiana che, dopo il Risorgimento e le ultime guerre d’indipendenza, volevano combattere la loro guerra e il cui esito sarà fatale per molti di loro e per il paese.

D’altra parte mai una guerra – scrive sempre Isnenghi - è stata portatrice di tanto deterioramento fisico e mentale, quanto questa che è stata sentita da molti giovani di estrazione intellettuale (e non solo cantata nella metafora futurista) quale igiene, sport, prova di vitalità e fonte di rinvigorimento, in definitiva come salute di contro alla malattia della civiltà 109.

Molti giovani, – secondo Emilio Gentile – inquieti per mancanza di fede e tormentati dalla sete di miti, e dal desiderio di azione e dedizione per una causa, aspettavano da una guerra o da una rivoluzione il sorgere di nuove idealità, di uno spirito religioso capace di rigenerare, anche con la violenza, una società ritenuta materialistica e decadente 110.

107 Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-18, cit., pp. 37-8 108 Isnenghi e Rochat, La Grande Guerra1914-1918, cit., p. 101

109 A. Gibelli, L’esperienza di guerra. Fonti medico-psichiatrice e antropologiche, in La Grande Guerra, esperienza, memoria,immagini, a cura di D. Leoni e Camillo Zadra, cit., p. 56 110 Gentile, Il culto del littorio, cit., pp. 27-8 48

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La Marcia su Roma di Dino Risi, Italia/Francia 1962

Del drammatico e violento dopoguerra italiano si occupa lo sguardo acuto e ironico di Dino Risi con il film del 1962 La marcia su Roma. Anche questo film appartiene al genere della “commedia all’italiana” che caratterizzò, positivamente, la cinematografia italiana a partire dalla fine degli anni cinquanta del XX secolo e che, pur con tutti i limiti che abbiamo ricordato precedentemente (v. cap. 1. par. III. La Grande Guerra e il cinema nell’età repubblicana), era stato in grado di raccontare efficacemente i drammi e le tragedie collettive della storia italiana. Nel film di Risi ritroviamo infatti, tra gli altri sceneggiatori, Age e Scarpelli che già avevano collaborato con Monicelli alla realizzazione, tre anni prima, de La Grande Guerra. In precedenza Dino Risi aveva girato due pregevoli film, sempre all’interno del genere della commedia, Una vita difficile del 1961, sul contrasto tra le speranze suscitate dal fenomeno resistenziale e il cinismo della società del secondo dopoguerra, e Il sorpasso del 1962, ritratto triste e angosciato di un’Italia travolta dalla frenesia del miracolo economico e dall’affermarsi della società dei consumi.

Nonostante lo spirito picaresco che contrassegna l’avventura di due emarginati, reduci di guerra (un piccolo truffatore opportunista e un contadino cattolico cacciato da casa), coinvolti più o meno consapevolmente nell’ascesa e nell’affermazione del movimento fascista, il film – anche attraverso una corretta e sintetica ricostruzione storica - descrive con realismo l’atmosfera di violenza che pervadeva l’Italia del dopoguerra e la centralità dell’irrisolta questione contadina. Il film prende l’avvio dal deludente risultato elettorale del movimento fascista alle elezioni politiche del 1919 (un solo deputato eletto e 4.795 voti ottenuti a Milano) e il conseguente abbandono della violenza retorica a favore dello squadrismo fascista armato e animato dall’”arditismo civile” e dal culto dell’azione violenta contro il “nemico interno”, lo “straniero interno” secondo la terminologia in uso dopo Caporetto. Un nemico rappresentato dalle sedi e tipografie dei giornali socialisti, dalle Camere del lavoro e Case del Popolo, dagli operai e dai braccianti in sciopero, dai – pochi – rappresentanti dello Stato che si opponevano ai crimini e alle continue violazioni di legge da parte dei fascisti in armi. Pur se scandito dall’alternanza tra comicità e tragicità il film riesce a spiegare l’evoluzione del fascismo attraverso una serie di episodi che dimostrano la distanza tra gli obiettivi originari contenuti nel programma di San Sepolcro del 23 marzo 1919 (instaurazione della repubblica e sovranità al popolo, concessione del voto alle donne, confisca dei profitti di guerra e delle rendite improduttive – comprese quelle ecclesiastiche – distribuzione della terra ai contadini e loro gestione cooperativa, giornata lavorativa di otto ore e partecipazione dei lavoratori alla gestione delle industrie, disarmo generale) e le reali intenzioni del fascismo soprattutto quando, nella Valle Padana, si trasformerà in fascismo agrario. Attraverso la figura del capitano a capo del manipolo di fascisti, Risi riesce a ben rappresentare quegli ufficiali e sottoufficiali, espressi dalla piccola borghesia, che durante la guerra svolsero la funzione di mediazione e convincimento tra le truppe estranee od ostili all’idea di nazione e di patria e che nel dopoguerra rivendicavano un ruolo guida politico eversivo.

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Così l’episodio della somministrazione dell’olio di ricino ad un anziano giudice si trasforma in una lezione di dignità e di alto valore morale: tocca al vecchio liberale spiegare il vero concetto di patria ai due balordi in camicia nera, patria che non può essere confusa con un popolo che dia sempre ragione al suo Capo. L’epilogo del film non risparmia il comportamento acquiescente della monarchia che rifiuta di firmare la proclamazione dello stato d’assedio per impedire l’ingresso a Roma dei fascisti, anche in virtù della mancata disponibilità dei comandi militari a garantire sul leale comportamento dell’esercito.

E’ il crollo dello stato liberale, la cui classe dirigente, unitamente al padronato agrario, industriale e finanziario, si aggrappa al fascismo per colmare il vuoto, nell’illusione di servirsene e poi, ripristinati ordine e gerarchie, metterlo da parte. D’altronde, come l’Italia entrò in guerra profondamente divisa e lacerata, così si ritrovò all’indomani della vittoria, tanto da apparire – secondo Mondini - come un paese vinto e non vincitore:

Unica fra le potenze vincitrici, l’Italia non uscì mai veramente dalla guerra. Le delusioni dei reduci, imiti politici che agitavano il paese (dalla “vittoria mutilata” alla rivoluzione imminente) e la sensazione che la lotta dovesse essere continuata contro un “insidioso nemico “interno furono tra gli agenti che resero lo stato di guerra permanente molto oltre la fine delle ostilità: la violenza rimase negli animi e nei comportamenti, si riversò nelle piazze, dove divenne l’ingrediente principale di uno scontro politico sempre più brutale, e impedì agli italiani di conquistare la pace 111.

Come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, “Il 1919-22 fu una sorta di ultimo atto di quanto era iniziato nell’inverno-primavera del 1915” 112. Per l’Italia l’impegno bellico rappresentò un disastro sotto l’aspetto finanziario, che colpì in particolar modo la piccola e media borghesia sottoposta ad un gravoso carico fiscale, mentre l’industria e il commercio, che avevano tratto vantaggi spropositati dall’economia di guerra, dovevano confrontarsi con la difficile transizione ad un’economia di pace. La lunga ed estenuante smobilitazione (durata sino al 1920), accompagnata da delusioni e rancori verso una classe politica e una società che parevano ignorare i sacrifici sostenuti dai combattenti, incendiava ancor più il clima del dopoguerra. Migliaia di ufficiali di complemento al ritorno alla vita civile si sentivano umiliati e frustrati dalla perdita improvvisa di quel ruolo superiore che gli era stato assegnato durante la guerra. Nessuna marcia trionfale era stata predisposta per l’esercito vittorioso, nulla di paragonabile alla parata della vittoria del luglio 1919 che la Francia organizzò sotto l’Arco di Trionfo a Parigi per esprimere, ritualmente, la sua riconoscenza ai combattenti.

Quando sorse il movimento fascista, - sottolinea Gentile - vi era un atteggiamento favorevole ad accogliere e sostenere una religione nazionale, specialmente fra i reduci che avevano sacralizzato l’esperienza di guerra, fra gli intellettuali in cerca di fede, fra i giovani assetati di miti e smaniosi di dedizione e di azione, fra la borghesia patriottica, che si considerava naturale custode dei valori della tradizione risorgimentale. Gli elementi originari per la formazione della religione fascista affiorano già

111 Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-18, cit., p. 10

112 E. Galli della Loggia, L’eredità divisiva della Grande Guerra, “Il Corriere della Sera” 26 luglio 1914 50

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agli inizi del movimento, quando era composto solo da un piccolo gruppo di reduci e giovanissimi, accomunati dal richiamo ai miti dell’interventismo, della guerra e della “rivoluzione italiana” 113.

Il nazionalismo oltranzista alimentava il risentimento espresso dal nuovo mito della “vittoria mutilata” tanto che, per la prima volta nella storia unitaria, si verificò una vera e propria sedizione nell’esercito italiano in occasione dell’avventura fiumana di D’Annunzio, mentre qualche mese prima lo stato maggiore della III Armata, con a capo il Duca d’Aosta, aveva elaborato un proprio progetto eversivo. Come ha scritto Emilio Lussu nel suo libro La Marcia su Roma e dintorni:

Chi ha comandato un battaglione, può rimettersi, senza sentirsi umiliato, a fare l’impiegato d’archivio o lo scrivano a 500 lire al mese? La vita civile diventava per loro impossibile (…) e potevano rientrare nella vita normale in stato fallimentare, essi che avevano vinto la guerra? E, inoltre, non avevano essi ogni giorno rischiato la vita? E avrebbero dovuto ora adattarsi umilmente al lavoro, alle dipendenze di quanti avevano fatto carriera rimanendo imboscati? Ah no, meglio la guerra. Tutti questi “arditi” e ufficiali contribuirono a rendere più acuta la crisi politica. Nuclei fluttuanti fra i partiti di estrema sinistra e il nazionalismo, saranno, fra poco, con D’Annunzio all’impresa di Fiume e, fallito D’Annunzio, con Mussolini 114.

Altrettanto esplosiva era la situazione determinata dalla perdita del potere d’acquisto dei lavoratori dopo la fine del controllo sui cambi nel 1919 e il crollo della lira, con il conseguente aumento insostenibile del carovita, soprattutto per i generi di prima necessità come i cereali, base dell’alimentazione della maggioranza del popolo italiano. La promessa ingannatrice della redistribuzione delle terre ai contadini, reiterata con più vigore dalla propaganda ufficiale dopo Caporetto, non poteva non portare i contadini smobilitati ad occupare le campagne, non solo da parte di quelli organizzati nelle leghe “rosse”, ma anche coloro che aderivano al movimento cattolico che lottava per la gestione diretta delle terre. Finita la guerra il “buon fante contadino” e il popolo rassegnato ma ubbidiente, agli occhi della vecchia classe dirigente, degli industriali e degli agrari tornava ad essere la plebe minacciosa. Ciò che la classe politica dominante e i vertici militari temevano, e lo temevano tutti i governi dei paesi europei in guerra, era l’evoluzione del “buon soldato” chiamato a combattere, il rischio che in trincea diventasse anche cittadino e rivendicasse diritti dopo aver dato tanto alla patria.

Il profondo sconvolgimento – ha scritto lo storico Federico Chabod - che la guerra ha prodotto nella vita italiana, colpisce tutti gli interessi, offende tutti i sentimenti. Interessi colpiti: piccoli borghesi che cadono nelle strettezze economiche; grandi proprietari fondiari che cominciano a temere l’avvento di un bolscevismo italiano e vedono con sgomento l’occupazione delle terre, gli scioperi, le agitazioni operaie. Sentimenti offesi: in primo luogo, l’amor di patria, all’estero e nello stesso paese. Da parte delle masse si attende qualcosa di nuovo: s’è tanto parlato di pace, di maggior giustizia sociale; tanto spesso, durante la lotta, si è fatto appello al popolo, garantendogli un avvenire migliore! 115

113 E. Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica nell'Italia fascista,Laterza, Bari 2009, p.41

114 Lussu, La Marcia su Roma e dintorni, cit., p. 17

115 F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi Editore, Torino1961, pp.39-40.

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I recuperanti di Ermanno Olmi, Italia 1969

Pur se ambientato nel secondo dopoguerra tra le montagne dell’Altipiano dei Sette Comuni, il film di Ermanno Olmi affronta la perdurante e tragica eredità della prima guerra mondiale su uno dei territori più devastati dal conflitto. I recuperanti è un’opera dedicata alla memoria della guerra impressa quasi indelebilmente in un territorio completamente militarizzato, alla sua natura violentata e trasformata da quarantuno mesi di combattimenti che posero fine radicalmente ad un mondo identitario così intimamente connaturato al suo ambiente e al suo paesaggio 116. Ciò che trovarono i primi profughi al ritorno dalla pianura, molti saliti clandestinamente per sfuggire al divieto di rientro imposto dalle autorità militari dopo l’armistizio, fu il completo sconvolgimento del paesaggio prima conosciuto, come drammaticamente descritto da Mario Rigoni Stern.

Ma nell’aria restava l’odore della tintura d’iodio, di legno marcio, di gas prodotto dalle esplosioni, di merdai e di morte. Fu guardando dall’alto della Luka, verso la conca di Asiago, che il maestro Andrea e i quattro ragazzi si resero conto di quanto era accaduto nei seicentottantaquattro giorni della loro lontananza. Il paese, le contrade erano solo cumuli di macerie; i prati, i seminativi, i pascoli erano sconvolti dai bombardamenti, bruciati dall’iprite, solcati dalle trincee e camminamenti, coperti di sassi e da grovigli di reticolati. E tra tutto questo restavano a centinaia, se non a migliaia, i corpi insepolti dei soldati 117.

E ovunque ordigni inesplosi o abbandonati nelle trincee e nelle gallerie, che per anni renderanno impraticabili i terreni coltivabili e che continueranno a seminare morte, soprattutto tra i bambini e tra chi doveva falciare i prati. Per sfuggire alla miseria e all’emigrazione questo enorme patrimonio di morte diventò un mezzo di sopravvivenza attraverso il “mestiere” del recuperante, pericoloso non solo per il ricorrente rischio di esplosioni, ma anche perché l’asportazione di materiale bellico era considerato un reato dalla legge sino a che non venne disciplinato (dal 1919 al 2000 furono oltre seicento i recuperanti morti a seguito di esplosioni).

(…) se pioveva venivano un po’ di patate (dalla poca campagna coltivata), se no neanche quelle; poi un po’ di frumento, un po’ d’orzo, e non era sufficiente per dieci bocche a tavola. Però per fortuna c’erano i residui di guerra sul Pasubio e il Briata ce li comprava e andavamo su a raccogliere schegge, bombe, piombo, rame, e lo portavamo al Briata. Tutti quelli del paese lo facevano, non c’era che il prete e la famiglia dello stradino, perché quello un mensile ce l’aveva, tutti gli altri erano nelle stesse nostre condizioni 118.

116 Cfr. V. Corà’ e M. Passarin (a cura di), Guerra sull’Altopiano, Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna 2014 e Rigoni Stern, L’anno della vittoria, cit. 117 M. Rigoni Stern, La ricostruzione dell’Altipiano di Asiago (1919-1921,) in 1915-1918. La guerra sugli Altipiani, a cura di M. Rigoni Stern, cit., p. 604

118 Testimonianza di Ernesta Bisoffi, riportata in “Raccoglievo il piombo e ci guadagnavo un po’”, “Il Corriere della Sera” 29 marzo 2014 52

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L’attività dei recuperanti continuò per tutti gli anni venti, per poi riprendere durante la guerra d’Etiopia (1935-1936) quando le sanzioni contro l’Italia decise dalla Società delle Nazioni – peraltro sostanzialmente di facciata – furono l’occasione per il regime fascista di lanciare la campagna propagandistica dell’autarchia.

Il film di Ermanno Olmi (alla cui sceneggiatura parteciparono Tullio Kezich e Mario Rigoni Stern che, nel 1997, dedicherà alla figura di un recuperante il suo libro Le stagioni di Giacomo) mostra tutta la miseria in cui si ritrovarono le genti dell’Altipiano alla fine della seconda guerra mondiale, che pur questa volta aveva risparmiato le case e che, ancora una volta, imponeva la strada dell’emigrazione. Una delle poche alternative all’abbandono dei propri paesi fu la ripresa dell’attività di recuperante in attesa di tempi migliori, con gli stessi rischi e pericoli degli anni precedenti, se non aumentati per il deterioramento del materiale bellico dopo tutti gli anni trascorsi dalla prima guerra mondiale. Seguendo il peregrinare del vecchio Du e del suo giovane aiutante alla ricerca di esplosivi ancora sepolti, Olmi - con il suo scarno, ma essenziale linguaggio cinematografico – è in grado di farci comprendere quanto ancora vivi e dolorosi, dopo quasi trent’anni, fossero gli sconvolgimenti del territorio e le mutazioni sui suoi abitanti prodotte da quella che l’anziano recuperante descrive con disgusto “La guerra, una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai”. Significativamente da questa frase Olmi riprenderà, nel 2014, il suo discorso radicale contro la guerra con il film torneranno i prati, sempre ambientato tra le montagne dell’Altipiano.

Locandina de I recuperanti per la versione francese del film L’or dans la Montagne

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Scena dal film Les croix de bois

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3. IL CINEMA FRANCESE E LA “GRANDE GUERRE”

Prima di strutturarsi in vera e propria industria, per diversi anni il cinema francese aveva mantenuto l’impronta del puro divertimento e dello svago, che spaziava dalla semplice ripresa della vita quotidiana alla veloce ricostruzione di situazioni farsesche, sino alla ricerca di mirabolanti effetti illusionisti e fantastici per stupire il pubblico. Alla metà del primo decennio del ventesimo secolo il cinema francese, che dominava il mercato internazionale, aveva intrapreso la strada per superare la forma originaria di spettacolo schiettamente popolare, peraltro entrato in crisi per la rapida assuefazione del pubblico alla novità e per l’offerta di spettacoli sempre più ripetitivi. La nobilitazione del cinema quale nuova forma artistica, capace di attirare la borghesia urbana, doveva passare attraverso l’espressione di una forma di rappresentazione non più dipendente dal teatro o dallo spettacolo di varietà, mediante la costruzione di storie e soggetti tratti dal grande patrimonio della letteratura realista e naturalista nazionale, ma anche dalla drammaturgia religiosa, dal feuilleton e dal romanzo poliziesco. Soggetti originali affrontarono anche i maggiori conflitti politici che dividevano la società francese, come L’Affaire Dreyfus rappresentato cinematograficamente in due distinti film di Georges Méliès nel 1899 e di Ferdinand Zecca nel 1908, oppure gli scontri sociali e le drammatiche condizioni di lavoro nelle miniere (La grève del 1904 e l’anno seguente Au pays noir, sempre di Zecca). Per questa prima rigenerazione il cinema, in particolare la casa di produzione Le Film d’Arte, si rivolse ai maggiori letterati francesi per la scrittura di sceneggiature originali, come Edmond Rostand, Anatole France, Victorien Sardou e a importanti compositori, come Camille Saint-Saëns, per la realizzazione delle musiche da eseguire durante la proiezione dei film nelle più eleganti sale cinematografiche. A differenza dell’Italia, il cinema francese era libero dal dovere di svolgere la funzione pedagogica per la costruzione di un’identità nazionale e del senso collettivo di appartenenza. In questo il cinema francese era agevolato da uno stato territorialmente compiuto da secoli, dal mito della nazione e dal patriottismo fortemente radicati nella popolazione, oltre al fatto che il francese, in una società largamente alfabetizzata, era la lingua di comunicazione per la stragrande maggioranza della popolazione. In Francia la liturgia celebrativa laica e repubblicana era consolidata sin dalla Rivoluzione, da innovare continuamente con le vicende successive. Dopo alcuni anni, la celebrazione esclusivamente patriottica e commemorativa della fine guerra (l’11 novembre) sarà riassorbita dal carattere popolare e di festa del 14 luglio, dove la Patria si identificava sempre più con la Repubblica, come analizzato da Patrizia Dogliani:

L’ultimo, non meno importante, aspetto delle celebrazioni dell’11 novembre è la funzione pedagogica esercitata nei confronti del cittadino, dello scolaro e della famiglia. Esso viene a completare il lavoro ecumenico già avviato dalla Terza Repubblica ai suoi esordi con una vasta pubblicistica distribuita dalla scuola pubblica e dal Ministero dell’istruzione, in occasione delle principali ricorrenze storiche (…) Anche qui si richiede alla scuola un ruolo attivo e non solo una presenza libresca; la erezione di molti monumenti ai morti nei cortili di istituti scolastici e l’affidamento di parte del cerimoniale, in particolare la risposta all’appello dei morti, ai ragazzi in età scolare, tendono quasi fisicamente a collegare la scuola con la comunità, a far sì che il giovane si formi non solo attraverso la manualistica storiografica, ma

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anche con una precoce profession de foi nei confronti della famiglia d’origine, alla quale quasi sicuramente apparteneva un ancien combattan o un caduto in guerra, e della comunità di villaggio. 119

Così il culto sacrale dei caduti per la patria, “mort pour la patrie”, rappresentava una vera e propria religione civile che si saldava con il mito del soldato quale “citoyenne combattante”, soggetto cardine dell’”esercito di popolo”, il cui status non era determinato dal censo di appartenenza, ma dal merito e dal valore dimostrati, dal servizio reso alla patria con il proprio eroismo120. Un mito che il movimento degli “anciens combattants” avrebbe poi perpetuato e rinnovato a conclusione di ogni guerra successiva, rafforzando l’ideale di una Francia immutabile nelle sue virtù marziali sin dai tempi della Grande Armée napoleonica.

Solo un film premonitore, realizzato nel 1913, anticipava l’orrore che sarebbe scaturito dalla guerra moderna: Maudite soit la guerre, realizzato da uno dei pochi registi francesi apertamente progressisti e pacifisti dell’epoca, Alfred Machin 121. Film, peraltro, che non fu girato in patria, ma in Belgio per conto di Belge Cinéma, filiale della casa francese Pathé 122. Prima dello scoppio del grande conflitto europeo, grazie alla forza raggiunta dell’industria cinematografica francese (Pathé e Gaumont le principali case produttrici) e all’indubbio primato artistico, il cinema continentale europeo aveva raggiunto uno sviluppo internazionale, arricchito da frequenti scambi di registi e maestranze tecniche (scenografi, montatori, operatori), in particolare tra Francia, Spagna, Germania, Italia, Belgio, Danimarca, Ungheria. Queste frequenti trasmigrazioni gettarono le basi affinché il cinema assumesse una precisa identità europea, così diversa da quanto si stava profilando nel cinema americano, che sarà interrotta violentemente dalla guerra e che sarà ripresa solo dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale.

Come sintetizzato dal critico cinematografico Carl Vincent “La guerra gettò lo scompiglio nei teatri di posa. Drammi e commedie divennero patriottici, guerrieri e nazionalisti. Sostennero il morale della retrovia” 123. Naturalmente l’arruolamento del cinema sarà un fenomeno comune a tutti i paesi coinvolti nel conflitto, anche aldilà dell’Atlantico quando gli Stati Uniti entreranno in guerra a fianco delle forze dell’Intesa.

119 P. Dogliani, La memoria della Grande Guerra in Francia nel primo e secondo dopoguerra, in D. Leoni e C. Zadra (a cura di) La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, cit., pp.559-60 120 Sulla natura “democratica” dell’esercito francese è quanto mai illuminante il dialogo riportato al cap. 4, par. II. La Grande illusion 121 Dopo la guerra in diversi villaggi e città francesi vennero eretti monumenti di esplicita e radicale condanna della guerra anziché commemorativi dei caduti, che provocarono la forte opposizione di autorità civili e militari, oltre che delle associazioni combattentistiche. Il più famoso fu realizzato nel 1922 nel piccolo comune di Gentioux-Pigerolles (ma inaugurato solo nel 1985) su iniziativa del Consiglio municipale. La statua non rappresenta un soldato, ma un giovane orfano con il braccio levato ad indicare la scritta “Maudite soit la guerre” posta sopra l’elenco dei cinquantotto caduti della Grande Guerra. 122 Nel 1914, con la sceneggiatura di Theodor Dreyer, uscì in Danimarca il film Giù le armi, dalla forte denuncia del nazionalismo e della guerra, ispirato all’omonimo romanzo di Bertha von Suttner, sicuramente la maggior ideologa del pacifismo dell’epoca. 123 C. Vincent, Storia del cinema, Vol. 1, Garzanti, Milano 1988, p. 37

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I. La Francia in guerra e il cinema

Tra le nazioni in conflitto la Francia, insieme all’Inghilterra, fu quella più rapida a comprendere quale forza propagandistica poteva essere espressa attraverso il cinema: rinsaldare e rassicurare il fronte interno e trasfigurare in forme barbare e animalesche il nemico furono i due principali obiettivi assegnati al nuovo mezzo di comunicazione e di manipolazione delle masse. Accanto alla cinematografia, che si aggiungeva e inseriva tra le numerose novità tecnologiche che la guerra moderna avrebbe dispiegato in maniera dirompente, trovarono nuova forza più antiche forme di comunicazione. Era il caso delle immagini che proponevano la popolare forma de ‟l’image d’Epinal”, stampe dall’enorme diffusione popolare, in milioni di esemplari e presenti quasi in ogni casa, che originariamente riproducevano temi prevalentemente religiosi. Con l’esplosione del conflitto, la riconversione della produzione in stampati in chiave patriottica non presentò molte difficoltà, tanto più che la guerra fu subito rivestita di sacralità e santità, di richiami alla figura del Cristo, della croce e del Sacro Cuore cui i soldati francesi erano particolarmente devoti. Un’inondazione di figurine che rappresentavano una guerra immaginaria e irreale, una nazione unita e fiera di combattere, dove Vercingetorige, Giovanna d’Arco e gli antichi combattenti napoleonici affiancavano i giovani fanti nelle trincee del fronte occidentale. Jay Winter descrive uno dei più diffusi stampati de ‟l’image d’Epinal”:

Un manifesto dal titolo La vittoria della Marna mostra una vigorosa figura femminile che incede a grandi passi verso la battaglia, le vesti sollevate sopra le ginocchia, e sotto e sullo sfondo file e file di soldati francesi guidati da Joffre, il loro generale. L’allegoria femminile rimanda al contempo alla vittoria alata e alla Marianne: classicismo e spirito repubblicano si ritrovano uniti nell’arte dell’epoca bellica. E ancora una volta vediamo la figura rassicurante di Joffre che riporta due bambini, coi costumi tradizionali dell’Alsazia e della Lorena, in seno alla propria famiglia nazionale 124.

Da parte del governo e dei comandi militari, in forma ufficiale, analoga mistificazione della guerra era richiesta al mondo del cinema francese. Il fatto che la Germania fosse la potenza che avesse aggredito la Francia facilitava il compito dell’apparato propagandistico nel presentare la guerra come uno scontro tra la barbarie teutonica e la libertà e civiltà francese, la difesa della democrazia contro l’assolutismo imperiale tedesco (sebbene quest’ultimo aspetto presentasse la non indifferente contraddizione dell’alleanza tra Francia e Russia zarista). L’immaginario del nemico tedesco - unno redivivo e senza cultura, il luterano al servizio del demonio contro la cattolica Francia, dai comportamenti animaleschi, mosso dalla brama di violare le madri, le spose e le sorelle - diventò una costante iconografica per tutto il corso della guerra.

Pochi mesi dopo l’inizio del conflitto, il governo francese e i militari istituirono la Section Cinématographique de l’Armée per documentare il conflitto ad uso del fronte interno e del mercato estero, quest’ultimo prevalentemente coperto dai cinegiornali prodotti dalla Pathé, dalla Gaumont e dall’Eclair. A collaborare con la Section, sotto la direzione del critico cinematografico

124 J. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, il Mulino, Bologna 1998, p. 182

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Jean-Louis Croze, furono registi come Abel Gance ai suoi esordi cinematografici, Marcel L’Herbier, Alfred Machin. Naturalmente la censura militare, che interveniva già durante le riprese, e le difficoltà tecniche rendevano invisibili gli aspetti sconvolgenti della guerra poiché, come sostiene Giuseppe Chigi:

Vi sono però anche ragioni politiche: i comandi militari non vogliono che si mostri la carneficina e il cinema documentario deve accontentarsi pertanto di mostrare la logistica, le batterie di cannoni che sparano, la vita nelle trincee, negli ospedali (quelli lindi e con uomini vivi), gli spostamenti di truppe. Questo provoca la progressiva delusione e stanchezza negli spettatori perché, si sa, anche quando li si condanna il sangue e la violenza sono sempre efficaci spettacolarmente 125.

Prima che ci si rendesse conto dell’immane carneficina in cui era precipitata l’Europa, i cinegiornali francesi (le “Actualités”) traboccavano di immagini festose nelle quali cittadini euforici aderivano alla mobilitazione, di ali di folla entusiasta che accompagnavano la partenza delle truppe, sommerse dai fiori e dai baci distribuiti dalle donne orgogliose dei loro uomini in armi, con l’immancabile conclusione rassicurante di un loro ritorno prima di Natale. Scene che ritroveremo ricostruite nel film di Léonce Perret L’Angélus de la victoire del 1916 (riprese nel 1918 dal regista statunitense David W. Griffith in Hearts of the World). Immagini che il cinema aveva la capacità di rendere veritiere e tali da fissarsi nella coscienza collettiva che solo l’analisi storica successiva avrebbe dimostrato come l’entusiasmo riguardasse specifici settori della società, prevalentemente borghesi e urbani, dalla realtà ben diversa da quella vissuta nelle zone rurali. Così i cinegiornali permisero di documentare le distruzioni del patrimonio culturale e religioso compiute dall’esercito tedesco durante l’invasione del Belgio, ma contribuirono a diffondere anche la macabra leggenda delle mani mozzate ai fanciulli belgi che tanto orrore provocò in Europa (esemplare in questo senso un documentario della Pathé del 1915 intitolato L’Ouvre de la Kultur). In occasione della battaglia della Marna, le immagini delle file interminabili di taxi che trasportavano i soldati diretti al fronte contribuirono a costruire il mito della salvezza di Parigi dall’invasione tedesca grazie a questa mobilitazione. In realtà l’apporto dei taxi fu estremamente secondario e perlopiù caotico, ma l’impatto sul sentimento di orgoglio nazionale e sul morale scosso dalle precedenti sconfitte subite fu indubbiamente rilevante. Per quanto le riprese fossero guidate dai militari, le immagini controllate ed epurate, non sempre erano prevedibili le reazioni del pubblico alla loro visione, soprattutto dopo lo scemare dell’entusiasmo iniziale e l’estenuante permanenza dei loro cari nelle trincee di fango imposta dalla guerra di posizione. Non pochi furono i casi di sospensione delle proiezioni a causa del parossismo raggiunto dagli spettatori che cercavano di individuare nei filmati i propri familiari al fronte e dei quali non avevano più notizie. Il caso più rilevante fu rappresentato da un lungo documentario britannico del 1916, presentato con il titolo The Battle of the Somme (autorizzato dal War Office) in cui, accanto alle riprese documentaristiche, fu ricostruita la scena di un attacco con i soldati inglesi che si proiettavano fuori dalla trincea e la morte immediata di uno di loro. Il documentario si concludeva con le riprese del rogo dei numerosi cadaveri (di soldati tedeschi) dopo la battaglia. Il documentario ebbe un successo imprevedibile, visto in Gran Bretagna da oltre ventuno milioni di spettatori e proprio l’unica scena non veritiera del lungometraggio – l’uscita dei

125 Chigi., Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande Guerra, cit., p. 89 58

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese soldati dalla trincea per lanciarsi contro i reticolati e la morte di alcuni di loro - fu quella che provocò maggiore impressione e sconcerto tra il pubblico che per la prima volta aveva una visione, per quanto manipolata, della violenza della guerra moderna. Il solo cinema documentaristico non poteva, però, suscitare l’entusiasmo e il sostegno patriottico richiesto alla popolazione, non potendo andare oltre le continue e ripetitive scene di cannoneggiamenti, di lunghe colonne di soldati in marcia e di feriti in cura e riabilitati negli ospedali. Il cinema a soggetto, con la sua capacità di racconto e di inserire la guerra all’interno di storie individuali, sentimentali o drammatiche, rappresentò pertanto il veicolo privilegiato per mantenere vivo il coinvolgimento allo sforzo bellico. Da qui il proliferare dei “cinédrames patriotiques” e dei film “cocardier”, dove la guerra era rappresentata con la stessa iconografia dei conflitti ottocenteschi: bandiere al vento, rulli di tamburi, trombettieri impavidi, eroiche cariche di cavalleria, soldati che prima di morire intonano la Marsigliese, come nei film di Léonce Perret: Une page de gloire e L’Empreinte de la patrie del 1915 o Les Poilus de la revanche del 1916. Secondo Georges Sadoul nei film patriottici:

“La stupidità si sprecava”, scriveva allora Delluc parlando di questi film. Egli non insorgeva contro il principio, ma rimproverava al cinema propagandistico di fossilizzarsi nelle formule del vecchio melodramma. Venti anni dopo fu molto facile mettere in ridicolo, con la semplice enumerazione dei titoli, film che ci si era ben guardati dall’andare a vedere 126.

Marco Mondini, nell’esaminare il film di Perret Une page de gloire nota come la scenografia si ispirasse al quadro di Alphonse de Neuville Les dernières cartouches dipinto nel 1873, riferito alla guerra franco-prussiana, iconografia ben sedimentata nella memoria collettiva:

Il fatto è che non solo registi e attori non avevano mai visto un campo di battaglia moderno in vita loro (e spesso non ne avrebbero mai avuto esperienza), ma anche che raccontare gli eventi così come essi si svolgevano non interessava. Il “film patriottico” era un’arma morale, forse la più potente della mobilitazione culturale, e chi vi lavorava assolveva il proprio ruolo senza soverchie preoccupazioni per l’attendibilità del risultato 127.

Dei film patriottici di Abel Gance realizzati durante il conflitto si ricordano: L’Héroisme de Paddy e Strass et Compagnie del 1915; Le gaz mortels del 1916 e La Zone de la Mort del 1917. Con la violazione tedesca della neutralità del Belgio e l’attacco alla Francia la germanofobia, dopo il 1870, riprendeva ulteriore forza e pervadeva tutto il cinema patriottico che non esitava a catalogare il popolo tedesco come appartenente ad un’altra razza, informe e incompatibile con la cultura e la civiltà, come nel film di Henri Pouctal del 1916 Alsace. Violenza alle donne, uccisioni di bambini e anziani, a volte addirittura crocefissi, diventarono le costanti rappresentazioni cinematografiche del furore e della barbarie teutonica nelle terre occupate, così nei film Le Moulin tragique di Gaston Lainé del 1916, L’impossible pardon di Théo Bergerat e Vendémiaire di Louis Feuilliade entrambi del 1918. Diversi film furono dedicati alla figura femminile, in particolare quella vedovile, pronta a sacrificarsi per la patria: Françaises veillez! del prolifico Léonce Perret nel 1914 e il già citato Une

126 Sadoul, Storia del cinema mondiale, cit., p. 163 127 Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-1918, cit., p. 253 59

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese page de gloire dove una giovane donna riesce a salvare la bandiera di un reggimento annientato e con quella avvolgere il figlio appena nato. Nel film di Louis Mercanton e René Ervil, Mères françaises del 1917, è addirittura la grande attrice Sarah Bernhardt ad assumere il ruolo di ispiratrice dell’eroismo che i soldati devono mostrare sul campo di battaglia. La figura delle madrine di guerra, fondamentale per mantenere vivo il rapporto – strumentale e spesso artificioso - tra società civile e soldati, assunto principalmente dalle appartenenti all’alta borghesia, fu esaltata nel film del 1916 di Louis Feuillade Le Nöel du Poilu.

Nel 1917 la spossatezza delle popolazioni e degli eserciti su tutti i fronti raggiunse il culmine, tanto più in Francia dopo il fallimento della sanguinosa offensiva al Chemin des Dames, propagandata come “ultima e risolutiva”. All’interno dei paesi in guerra sulle popolazioni civili e sui lavoratori pesava sempre più un conflitto che pareva non dovesse finire mai. In Francia, sin dall’inizio dell’anno e poi in primavera, rivolte e scioperi si susseguirono contro la scarsità dei generi alimentari, l’aumento dei prezzi e le dure condizioni di lavoro misero a rischio “L’Union Sacré”, tanto che l’ipotesi di un colpo di stato militare fu ritenuta da molti come l’unica soluzione per non compromettere l’andamento della guerra. Al fronte si verificarono aperte ribellioni e ammutinamenti, organizzati in modo tale che non coinvolgessero mai le truppe in prima linea, ribellione che, secondo le storiche francesi Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker:

E’ la tacita “rottura del contratto” fra il comando e i soldati – patto che supponeva che i sacrifici richiesti fossero proporzionali ai risultati che si potevano raggiungere – a provocare gli ammutinamenti e non, come sostengono certi generali e politici, una generica propaganda rivoluzionaria e disfattista. Influiscono inoltre fattori legati alle condizioni di vita dei soldati: cibo mediocre, alloggiamenti mal equipaggiati, tempi di trasferimento interminabili durante le licenze, tutte insufficienze sentite come oltraggi alla dignità di coloro dai quali dipende la sorte della patria. Nella primavera del 1917 i soldati- cittadini francesi indicono una sorta di sciopero generale 128.

Per Mario Isnenghi il fenomeno delle ribellioni e degli ammutinamenti si verificò su tutti i fronti poiché:

… tra il 1915 e l’ottobre del ’17 il ruolo sociale e la coscienza delle masse – al fronte e nel paese in Italia e in tutta Europa – erano, almeno in parte, cambiati. La disgregazione dell’esercito e la rivoluzione in Russia, gli ammutinamenti e le fraternizzazioni sui vari fronti europei, in Francia, Germania, tra le truppe dell’impero austro-ungarico, Caporetto, sono alcuni dei sintomi e degli esiti di un processo di lacerazione del tessuto gerarchico dell’ordine militare e sociale promosso o accelerato dalla guerra di massa129.

Nel 1918, per dimostrare che la Francia era ancora unita, sia al fronte che nelle retrovie, a dispetto della gravissima crisi militare e sociale che aveva sconvolto il paese nell’anno antecedente, Henri Desfontaines, un operatore al servizio dell’esercito che in precedenza aveva girato Pour l’Alsace e Pedant la guerre (1917), realizzava Les Enfants de France et de la guerre dove i bambini giocano alla guerra mimando le gesta eroiche dei padri al fronte. Alexandre

128 S.Audoin-Rouzeau e A. Becker, 1914-1918, La prima guerra mondiale, Electa/Gallimard, Trieste 1999, pp.89-90

129 Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., p. 333 60

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Devarennes, nello stesso anno, con il film La femme française pendant la guerre esalta l’impegno delle donne francesi che sostituivano gli uomini nei posti di lavoro, paragonando il loro eroismo a quello della Marianne e di Giovanna d’Arco, mentre l’instancabile Léonce Perret inneggiava all’intervento americano con il film Lafayette! We come.

II. Il cinema e il pacifismo tra le due guerre

Direttamente o indirettamente quasi due terzi della società francese furono interessati da quello che Stéphane Audoin-Rouzeau ha descritto come un lutto di massa “interminabile, infinito e incompiuto”130, tanto che questa esperienza, la più tremenda nella storia contemporanea francese dopo il 1789, può ritenersi:

Sans doute est-elle constitutive de ce que l’on pourrait définir comme l’identité de la France au XXe siècle. Voire au-delà. Car – pourquoi ne pas le dire ? – il nous semble que cette expérience-là reste, aujourd’hui encore, et à notre insu peut-être, au cœur de l’identité nationale131.

Di fronte allo spaventoso massacro che aveva spazzato via intere generazioni di giovani e al dolore diffuso, cui le celebrazioni ufficiali e il moltiplicarsi di monumenti tentarono di dare un sollievo e una ragione, il cinema francese di guerra non poteva certo perpetuare la messa in scena dei valori del sacrificio per la patria e dell’eroismo. Il cinema rese in qualche modo omaggio ai combattenti filmando, a colori, la grandiosa parata della vittoria che attraversò i Champs-Elysées nel luglio 1919, un evento rimasto impresso nella memoria tanto da essere continuamente richiamato, in negativo, in quasi tutti i film antimilitaristi francesi, sino a La vie et rien d'autre di Bertrand Tavernier del 1989. D’altronde anche per il cinema francese il dopoguerra segnò il ridimensionamento della sua forza industriale e distributiva, perdendo la supremazia sia del mercato estero che di quello interno a vantaggio di quella statunitense. Il cinema francese, inoltre, si avviava a sperimentare nuove forme artistiche e di avanguardia in opposizione al “realismo” che aveva dominato il linguaggio filmico sin dal suo esordio, per cui la narrazione della guerra si rivelava poco congeniale alle nuove forme di espressione ricercate. Infatti, come hanno scritto Mariapia Comand e Roy Menarini, il cinema d’avanguardia “coprendo un largo spettro di esperimenti in verità assai diversi tra di loro, propone di ignorare ogni convenzione narrativa del cinema, di liberarlo dal rapporto rappresentativo col mondo e di estenderne il dominio fino a farne un’arte pura, onirica, autosufficiente e del tutto svincolata da ogni legame col reale” 132. Analogo è il giudizio espresso da Georges Sadoul:

Tranne qualche breve incursione nella vita popolare – limitata alle bettole e alle fiere – è difficilissimo trovare, anche tra i migliori film di questa scuola, un quadro autentico seppure metaforico, della Francia di allora. Occorre un’analisi approfondita per scoprirvi l’immagine di una nazione vittoriosa, ma

130 Cfr. S. Audoin-Rouzeau, La Grande Guerre, le deuil interminable, in Le Débat, 1999/2, n.° 104, Gallimard, Paris, 1999, p. 117-130

131 Audoin-Rouzeau, Bertrand Tavernier, la grande guerre et l’identité française, in “Le Débat”, 2005/4, n. 136, Gallimard, Paris, 2005, pp. 146-151

132 M. Comand e R. Menarini, Il cinema europeo, Laterza, Bari 2006, p. 43

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sminuita, in cui la vita era più facile che in qualsiasi altro paese d’Europa, e in cui l’individualismo degli artisti brillava di un vivido splendore formale133.

Nei dieci anni successivi alla fine del conflitto il cinema raramente affrontò organicamente il tema di conflitto, se non con l’opera di Abel Gance del 1919 J’accuse (Per la patria), definito da Carl Vincent “un’accozzaglia di invenzioni patriottiche e umanitarie” 134. Nonostante l’ampollosità e la magniloquenza che caratterizzavano i film di Gance, J’accuse dava espressione al timore che ossessivamente tormentava i reduci combattenti: il rischio concreto che la società perdesse la memoria del loro sacrificio e delle sofferenze vissute durante i quattro anni di guerra135.

Per rispondere in qualche modo a questa ansiosa angoscia, determinata dall’inesorabile affievolirsi della memoria, nel 1927 Léon Poirer iniziava la lavorazione di Verdun, visions d’Histoire, che tentava di dare una rappresentazione il più possibile realistica del grande conflitto, utilizzando sapientemente materiale documentario e ricostruzioni sceniche. L’intento del film è chiaramente pedagogico, con il proposito di unire in qualche modo un messaggio pacifista e di riconciliazione con il doveroso patriottismo. Verdun, visions d’Histoire, dopo la prima proiezione in Francia nel novembre del 1928 in occasione del decennale della vittoria, fu distribuito anche in Germania con il titolo Das Ringen um Verdun. A dimostrare il valore pedagogico assegnato all’opera, il film fu proiettato anche nelle scuole di entrambe le nazioni e utilizzato come materiale didattico. Di questa variazione e mutazione di sensibilità verso il grande conflitto (che non intaccava in ogni caso il patriottismo – se non liberandolo dall’acceso nazionalismo e sciovinismo – e il mito del valore dimostrato nei “Champs d'honneur”) si fece interprete anche Henri Desfontaines che nel 1917 aveva girato il patriottico Les Enfants de France et de la guerre. Nel 1928 con Le Film du Poilu presentava le pesantissime eredità della guerra sulla società francese: la povertà delle famiglie private della figura maschile, gli invalidi e i mutilati costretti a mendicare per le strade o a vendere cianfrusaglie per sopravvivere. Al contrario del film precedente, ove i bambini che giocavano alla guerra erano rappresentati come il simbolo dell’intera Francia che si mobilitava dopo le difficoltà del terzo anno di guerra, ne Le Film du Poilu un vecchio veterano rimprovera aspramente un gruppo di bambini impegnati nei giochi di guerra, con tanto di piccole infermiere soccorritrici, ricordando loro il dovere della memoria e del rispetto verso i caduti.

Tra gli anni venti e trenta del secolo scorso, con l’eccezione dell’Italia fascista, in Europa e negli Stati Uniti prendeva corpo un intenso dibattito pacifista, inevitabile dopo il cataclisma vissuto e per le speranze nate dopo la fine del conflitto con la fiducia di poter costruire un rinnovato ordine internazionale pacificato e guidato dalla Società delle Nazioni.

133 Sadoul, Storia del cinema mondiale, cit., p. 173

134 Vincent, Storia del cinema, Vol. 1, cit., p. 49 135 Per l’analisi del film di Abel Gance J’accuse del 1919, v. al cap. 4, par. III. J’Accuse

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Pur con limiti evidenti, anche il cinema internazionale fu in grado di realizzare notevoli film apertamente pacifisti e di rigorosa condanna della guerra: in Germania Westfront 1918-Vier von der Infanterie, di George W. Pabst nel 1930 e Niemandsland di Victor Trivas e George Shdanoff nel 1931; negli Stati Uniti All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di nuovo) di Lewis Milestone nel 1930, The man I Killed di Ernst Lubitsch e A Farewell to Arms (Addio alle armi) di Frank Borzage entrambi nel 1932. In questo contesto in Francia, nel 1932, Raymond Bernard realizzava Les croix de bois, un film dal forte realismo che rappresentava un chiaro ammonimento contro ogni guerra futura. Proprio in Francia, infatti, si potevano ritrovare le radici del vivace e intenso dibattito scaturito nell’immediato dopoguerra sulla liceità e legittimità della guerra, sulle ragioni del pacifismo e del disarmo. Larga parte del partito socialista francese si riconosceva in questo pacifismo, numerosi intellettuali francesi, come Romain Rolland, Henri Barbusse, Jean Renoir, erano impegnati in prima persona contro la guerra. Una stagione purtroppo breve, soffocata dall’inasprirsi della situazione in Europa a seguito della rinascita del nazionalismo aggressivo, del nuovo riarmo, dell’affermarsi del nazismo e del pericolo di diffusione del comunismo bolscevico.

Dopo le traumatiche esperienze della prima guerra mondiale – ha scritto Mosse - il pacifismo si trovò assediato tanto da destra quanto da sinistra. I movimenti nazionalisti videro nella guerra un mezzo per riconquistare territori perduti e ringiovanire la nazione, mentre dal canto loro i movimenti di sinistra colsero l’occasione di combattere il fascismo unendosi alle file dei lealisti repubblicani nella guerra civile spagnola. L’influenza del Mito dell’Esperienza della Guerra non trovò nel pacifismo un ostacolo di rilievo136.

L’industria cinematografica francese degli anni trenta era caratterizzata da una produzione media spiccatamente qualunquista, rispondente al principio che il cinema doveva essere, oltre che un affare commerciale, intrattenimento ed evasione. La maggior parte dei film prodotti mirava al puro divertimento, spesso grossolano, al racconto di storie banali e scacciapensieri, ma anche all’esaltazione nazionalista, militarista e colonialista. In quegli anni numerose furono le opere che celebravano le avventure in terre coloniali o le vicende eroiche dell’esercito, della marina e dell’aviazione, per la cui realizzazione le autorità militari erano ben disponibili a mettere a disposizione uomini e mezzi alle case di produzione. L’arrivo della crisi economica e della depressione in Francia diede nuova forza al militarismo e alla destra antirepubblicana, anche quella più estrema.

Apparvero – scrivono gli storici statunitensi Robert Palmer e Joel Colton –“Leghe” di tipo fascista, imitanti le organizzazioni fasciste italiane e tedesche, e molte di esse ottennero sovvenzioni da ricchi industriali; la vecchia Action française e le associazioni di reduci di destra, come la Croix de Feu del colonnello de la Rocque, erano anch’esse attive. Gli elementi che dalla rivoluzione francese in poi erano antirepubblicani, antidemocratici e monarchici, e che si erano schierati con Boulanger e contro Dreyfus, accentuarono adesso i loro attacchi contro la repubblica parlamentare 137.

136 Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, p.221 137 R. Palmer e J. Colton, Storia del mondo moderno, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 144 63

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Negli stessi anni si formava il Comitato di Vigilanza degli intellettuali antifascisti (CVIA), al quale, tra gli esponenti del cinema e della fotografia, partecipavano Jean Renoir, Jean Vigo, Marcel Carné, Luis Buñuel, Henri Cartier –Bresson, Robert Capa, Jacques Prévert, Joseph Kosma. I numerosi intellettuali che aderirono al CVIA avranno un’influenza notevole nella formazione del Fronte Popolare, contribuendo a far uscire dall’isolamento e dal settarismo i comunisti francesi - ancora fermi alla denuncia del “socialfascismo” - e arrivare così all’unità di tutte le forze di sinistra nella comune azione antifascista. Uno dei punti fondamentali del programma elettorale presentato nel 1936 dai partiti del Fronte Popolare riguardava la “difesa della pace”, da realizzarsi con la nazionalizzazione dell’industria di guerra (che riceveva ingenti da parte dello Stato), la soppressione del commercio privato degli armamenti, il pieno sostegno al ruolo della Società delle Nazioni per la negoziazione del disarmo generale, simultaneo e controllato. Nonostante la breve esperienza del governo delle sinistre, vastissimo fu l’entusiasmo e diffuse furono le speranze suscitate in ampi settori popolari e intellettuali della società francese. La breve parabola della “rivoluzione culturale” era stata vissuta con lo spirito di una vera e propria festa dove, accanto alle rivendicazioni per nuove condizioni di vita e di lavoro o alle mobilitazioni antifasciste, prevalente era il carattere gioioso e popolare. Anche il cinema divenne protagonista di quella stagione effervescente e carica di speranze per il coinvolgimento e l’impegno militante di registi, sceneggiatori, attori e documentaristi che si riconoscevano nell’esaltante momento politico e culturale cui, però, non corrispose una particolare attenzione all’industria cinematografica da parte del governo di Léon Blum138. Furono solo due, infatti, le opere cinematografiche direttamente commissionate dal Fronte Popolare, entrambe dirette proprio da Jean Renoir: La Vie est à nous (1936) e La Marseillaise (La Marsigliese) (1937), la prima, fra l’altro, finanziata dal partito Comunista Francese in occasione delle elezioni e diffusa solamente attraverso i cineclub e le sezioni del partito per la mancanza del nulla osta della censura alle proiezioni pubbliche. La breve esperienza del Fronte Popolare non era riuscita a mettere in discussione la politica di riarmo adottata dalla Francia e il permanere di un forte militarismo, come furiosamente denunciato nel film J’accuse di Abel Gance del 1938. Nel resto d’Europa il revanscismo nazionalista e le politiche di riarmo avevano definitivamente spento le speranze nate dopo la fine del conflitto. Le continue destabilizzazioni contro la Società delle Nazioni, condotte principalmente dai regimi fascisti e nazisti, la sua impotenza di fronte all’occupazione giapponese della Manciuria (1931) e all’aggressione italiana dell’Etiopia (1935), il fallimento della politica di disarmo tra le nazioni che – per un breve periodo - sembrava poter essere raggiunto e porre fine al trauma della guerra, gettarono le premesse per un nuovo e più spaventoso conflitto in Europa. Inoltre, la guerra di Spagna del 1936 aveva dimostrato quale sarebbe stato, di lì a pochi anni, il terribile scontro di portata mondiale tra fascismo e antifascismo e che porrà fine a La Grande illusion di Jean Renoir che la Grande Guerra fosse l’ultima combattuta tra gli europei.

138 Il governo del Fronte Popolare non interverrà a modificare le norme esistenti relative alla censura e al divieto di proiezioni pubbliche, né sulla struttura dell’industria cinematografica che, come la quasi totalità del mondo finanziario e capitalistico francese, era apertamente ostile alle sinistre. 64

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4. I FILM TRA LE DUE GUERRE

I. Les croix de bois di Raymond Bernard, Francia 1932

Raymond Bernard apparteneva a quel genere di registi considerati validi artigiani del cinema, capaci di confezionare film dignitosi e rispondenti alle esigenze di un pubblico popolare, distinguendosi per la particolare attenzione alle riduzioni cinematografiche di testi della grande letteratura popolare francese (Les Misérables, Tartarin de Tarascon, La dame aux Camélias). Bernard era un veterano della prima guerra mondiale e, in quanto ebreo, dovette nascondersi, senza poter lavorare, per tutto il periodo dell’occupazione nazista della Francia.

Nel 1932, con il film Les croix de bois, Bernard infrangeva quella che Jay Winter definisce “la sterilizzazione dei tratti più repellenti della guerra e la sua rappresentazione come storia mitica o sentimentale” 139 con la quale la cinematografia francese aveva raffigurato la guerra nel corso degli anni venti. Per evitare la possibile contaminazione di una visione banalizzata del conflitto e il condizionamento delle gerarchie militari, il regista rifiutò la loro usuale offerta di collaborazione e preferì impiegare nel film veterani di guerra che avessero vissuto la realtà del fronte occidentale. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Raymond Dorgelès, pubblicato nel 1919, dal quale Bernard riporta la gran parte dei dialoghi. E’ difficile dire se Les croix de bois sia un film contro la guerra, ma nella sua profonda sincerità, semplicità ed estremo realismo è sicuramente un atto di partecipazione e d’amore per tutti quegli uomini rimasti vittime della loro condizione di soldati, scaraventati da un giorno all’altro in un’incomprensibile apocalisse. Consapevole che la contabilità dei morti, dei feriti e degli invalidi aveva raggiunto cifre tali che difficilmente potevano tradursi in efficaci rappresentazioni mentali, Bernard sceglie di mostrare il destino di un manipolo di uomini, con le loro paure, debolezze e virtù per tentare di farli uscire da quella condizione anonima e indistinta di soldati che ne fa materiale inerte per alimentare una guerra industriale. Per questo la sua fedeltà artistica nel mettere in scena la guerra com’era davvero stata e la narrazione di come la volontà politico- militare di espansione e di revanscismo avesse trasformato milioni di comuni e tranquilli uomini europei in assassini dei propri simili, pone lo spettatore nella condizione di interrogare la propria coscienza o, almeno, di mettere in dubbio le proprie convinzioni. Les croix de bois è un film dove non trovano posto eroismo, abnegazione patriottica, virtù marziali e dove generali e ufficiali superiori non appaiono, se non nell’unico episodio dove i soldati, spossati da settimane in trincea sotto i bombardamenti, vengono spediti a sfilare per una parata in onore del generale, anziché a riposare. Pur non mostrando alcunché di cruento (corpi straziati o assalti feroci) Bernard riesce a far avvertire il senso del dolore e della sofferenza attraverso il solo uso del sonoro che, a tratti, rende quasi insostenibile la visione del film. Strazianti sono le scene relative ai dieci giorni ininterrotti di bombardamento delle trincee, ai soldati di entrambi i fronti che devono coprirsi le orecchie per non sentire i lamenti dei feriti abbandonati tra le due trincee contrapposte, alla lunga e solitaria agonia nella terra di nessuno del giovane studente volontario.

139 Winter, Il lutto e la memoria, cit., p. 186 65

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Per tutto il film la macchina da presa segue passo dopo passo le esperienze di una squadra di semplici soldati di fanteria, dai momenti conviviali al duro combattimento, dove ogni uomo è legato all’altro da un forte cameratismo e sentimento di solidarietà, consapevole che, nonostante le speranze, la conclusione delle continue missioni affidate non potrà che essere l’annientamento di tutti i compagni. La squadra è uno spaccato della Francia popolare, composta da uomini che prima della guerra erano panettieri, operai, cuochi, contadini, che si esprimono nel loro gergo, anche volgare, che irridono e proteggono uno spaesato studente idealista arruolatosi volontario, che esorcizzano la paura con scherzi e battute, che fanno la guerra perché la devono fare, forti del loro spirito di adattamento e di rassegnazione. Raymond Bernard è in grado di trasmetterci questo sentimento di rassegnazione – e disperazione - mostrandoci i soldati nel loro rifugio, dove non possono riposare perché sotto di loro si sentono i colpi degli scavi che i tedeschi stanno facendo per collocare una mina sotterranea e che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, senza che essi possano fare nulla perché l’ordine è di non abbandonare per nessuna ragione la postazione. A dare il senso della morte incombente e inesorabile è l’inquadratura iniziale di un battaglione schierato che lentamente si dissolve per lasciare il posto ad altrettante croci di legno. Immediatamente dopo assistiamo all’eccitazione delle giornate di mobilitazione, alla folla festante ed entusiasta che accompagna i soldati per le vie delle città, con la convinzione che, riconquistate l’Alsazia e la Lorena, a Natale tutti saranno di nuovo a casa (così come in Germania, dove il Kaiser prometteva la fine della guerra al “primo cadere delle foglie”). Un clima di entusiasmo ed esaltazione che, nelle cosiddette “giornate d’agosto” del 1914, coinvolse tutte le nazioni belligeranti, frutto dell’avvelenamento delle coscienze che un nazionalismo aggressivo e un’abile propaganda avevano prodotto. Dopo l’iniziale fervore e ubriacatura, farà seguito un diffuso sgomento e smarrimento, così incisivamente descritto da Celine:

Allora abbiamo marciato un bel po’. Non la finiva più che c’erano sempre delle strade, e poi dentro i civili e le loro donne che ci mandavano incoraggiamenti e lanciavano fiori, dalle terrazze, davanti alle stazioni, dalle chiese strapiene. Ce n’erano di patrioti! E poi s’è messo a essercene meno di patrioti … La pioggia è caduta, e poi ancora sempre meno e poi nessun incoraggiamento, non uno solo, per la strada. Eravamo dunque rimasti tra noi? Gli uni dietro gli altri? La musica s’è fermata. “Riassumendo, mi sono detto allora, quando ho visto come girava, non è più divertente! E tutto da ricominciare!” Stavo per andarmene. Ma era troppo tardi! Avevano rinchiuso zitti zitti la porta dietro noi civili. Eravamo fatti, come topi 140.

Riprendendo la forte denuncia contenuta nel romanzo di Raymond Dorgelès contro i profittatori che si sono arricchiti con la guerra, il finale del film ci mostra, alternativamente, cascate di denaro, sfilate di trionfo e la dolente marcia dei soldati caduti, francesi e tedeschi, dove ciascuno trascina la propria croce di legno, bianca o nera, come quelle che distinguono i caduti delle due nazionalità seppelliti insieme nell’Ossario di Douaumont. Significativamente Les croix de bois fu presentato la prima volta alla Conferenza del disarmo della Società delle Nazioni tenutasi a Ginevra nel 1932. Nello stesso anno fu acquistato dalla casa statunitense Fox Film per il mercato americano, ma non fu mai distribuito perché le scene di

140 L.F. Celine, Viaggio al termine della notte, Casa Editrice Corbaccio, Milano 1992, p. 13 66

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese battaglia – tagliate e rimontate - furono utilizzate per altri film, diretti da John Ford The World Moves On (Il mondo va avanti) del 1934 e da Howard Hawks The Road to Glory (Le vie della gloria) del 1936. Stanley Kubrick riconobbe di essere debitore nei confronti di Raymond Bernard per la costruzione di alcune scene nei suoi film Paths of Glory (Orizzonti di gloria) del 1957 e Full Metal Jacket del 1987. Un omaggio al film di Bernard si ritrova anche ne La chambre des officers di François Duperyon del 2000, che ripropone la stessa ambientazione di una scena di Les croix de bois: una chiesa divisa a metà dove, in una parte, si svolgono le funzioni religiose e nell’altra sono curati i soldati feriti. Anche Bertrand Tavernier ne La vie et rien d'autre del 1989 ripropone la stessa ambientazione, seppur nello spirito irriverente del film, dove la chiesa è separata tra la parte sacra e una sala da ballo per i soldati alleati. Luciano Vincenzoni, autore del soggetto originario del film di Mario Monicelli La Grande Guerra dichiarò, qualche anno dopo, di aver ripreso la scena del rientro delle truppe dal fronte, accolte con fanfare e da una folla festante che, poco a poco, ammutolisce sconvolta alla vista delle condizioni miserevoli dei soldati, dal romanzo Les croix de bois di Raymond Dorgelès141. Nel novembre 2014, dopo che la copia restaurata di Les croix de bois è stata presentata al festival di Cannes e a Bologna durante la manifestazione Il Cinema Ritrovato, il film è stato nuovamente distribuito nelle sale francesi.

II. La Grande illusion (La grande illusione) di Jean Renoir, Francia 1937

Sin dal 1934 Jean Renoir faceva parte del Comitato di Vigilanza degli intellettuali antifascisti (CVIA). Nel 1937 Renoir, dopo tre anni passati invano alla ricerca di un produttore disponibile a finanziare la realizzazione della sceneggiatura scritta con Charles Spaak, gira La Grande illusion (La grande illusione) che la maggior parte della critica iscrive fra i capolavori del cinema mondiale. Comunemente definito come un film pacifista, in realtà questa classificazione rischia di mettere in ombra la complessità dell’opera, che presenta molteplici tematiche e una tale varietà di personaggi da rappresentare realisticamente quasi tutte le componenti sociali con le loro differenze, diseguaglianze e affinità. Dei molteplici aspetti del film Georges Sadoul ha scritto:

La grande illusione fu, da un lato, l’illusione dei combattenti che avevano creduto che la loro guerra sarebbe stata l’ultima e che lo spirito di cameratismo militare sarebbe continuato anche in tempo di pace, a dispetto di tutte le differenze sociali. Dal film traspariva un’altra lezione, cioè che, al di sopra dei conflitti tra le nazioni, le classi sociali riescono ad intendersi tra loro: il marchese di Boieldieu (Pierre Fresnay) è più vicino al junker von Rauffenstein (Erich von Stroheim) che non al meccanico Marèchal (Jean Gabin). E, nonostante la barriera creata dalla diversità delle lingue, Marèchal, uscito da un ambiente popolare, s’intende meglio con una contadina tedesca (Dita Parlo) che non col suo compagno di evasione, un banchiere (Dalio) 142.

Sicuramente La grande illusione è un film antibellicista da cui traspare, però, un senso di ammirazione per alcuni valori della vita militare come il cameratismo, il senso dell’onore, la

141 Intervista a Luciano Vincenzoni: Come inventai La Grande Guerra, https://www.youtube.com/watch?v=Et4kSGSgj50 142 Sadoul, Storia del cinema mondiale, cit., p.276

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese fedeltà alla parola data. Il regista, d’altronde, era stato ufficiale in aviazione durante la prima guerra mondiale con funzioni di ricognitore, un periodo di cui aveva conservato un positivo ricordo, soprattutto per il rapporto con i suoi compagni e per essersi sentito “un buon francese”, nell’illusione di poter combattere una guerra senza odio contro “buoni tedeschi”.

Come gli uomini delle montagne – ha scritto Mosse riferendosi agli aviatori -, questi cavalieri del cielo erano leali, onesti e risoluti; e, in una misura ancora maggiore dei combattenti della montagna, essi rispettavano il nemico (…) Attraverso quest’immaginario cavalleresco, la guerra moderna fu assimilata. Integrata nell’aspirazione ad un mondo più sano e felice, in cui la spada e il duello individuale prendessero il posto della mitragliatrice e del carro armato 143.

Infatti, ne La grande illusione si scontrano e si confrontano avversari che conservano tutta la loro umanità, nessuno è dipinto come il “barbaro e sanguinario nemico” che le rispettive propagande rappresentavano per costruire e rafforzare il consenso all’impegno bellico, sia da parte dei combattenti che delle popolazioni civili. Questa umanizzazione del nemico era stata certamente un atto di coraggio nel momento che, si può ben dire, Hitler era alle porte, una scelta che attirerà su Renoir paradossali e assurde accuse di “collaborazionismo” nell’immediato secondo dopoguerra.

Il comune orgoglio aristocratico dei due nobili (scettici - se non ostili – nei confronti dei processi di democratizzazione della società), che pur appartengono a eserciti diversi, la condivisione e il rispetto delle regole cavalleresche da applicarsi all’arte della guerra, non impedisce loro di comprendere come la nuova guerra moderna e tecnologica segni il definitivo superamento del loro vecchio mondo che, proprio attraverso la guerra scatenata, si illudeva di garantire la propria sopravvivenza.

Già al momento della guerra – scrive Gibelli -, al momento della mobilitazione, il passato prossimo appariva ai più come passato remoto, la distanza psicologica da esso si dilatava improvvisamente. Il mondo che si era appena lasciato alle spalle era già un mondo sfocato, perduto, irrimediabilmente tramontato. L’ingresso nella guerra era l’inizio di un cammino ignoto, di un futuro dai contorni incerti. Potremmo chiamare tutto questo sentimento della modernità: la Grande Guerra segna la violenta e generale irruzione del moderno nella realtà e ancor più profondamente nella mente degli uomini 144.

Di questo sconvolgimento è esemplare il dialogo tra i due ufficiali:

Ufficiale Francese: “Permettete una domanda? Perché avete fatto di me un’eccezione ricevendomi qui?” Ufficiale Tedesco: “Perché voi vi chiamate de Boieldieu, ufficiale di carriera dell’esercito francese e io Von Rauffestein, ufficiale di carriera dell’esercito imperiale germanico” U.F.: “I miei camerati sono ottimi ufficiali” U.T.: “Sono i regali della rivoluzione francese” U.F.: “Credo che né io né voi si possa arrestare la marcia del tempo” U.T.: “Io non so come andrà a finire questa guerra, ma sarà la fine di gente come noi”

143 Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, cit., p. 134 144 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., p. 43 68

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U.F.: “Forse il mondo non ha più bisogno di noi” U.T.: “E non trovate che sia un peccato?” Entrambi si sentono estranei alle imponenti mobilitazioni e ai nuovi eserciti di massa, scagliati uno contro l’altro in un conflitto totale dove non c’era più spazio per manovre fulminee o per reciproci gesti di cavalleria, ma solo il lungo logoramento di una guerra di posizione la cui conclusione poteva determinarsi solo per l’esaurimento delle munizioni e degli uomini. La guerra, con la sua devastante potenzialità tecnologica, non era più la guerra di breve periodo in cui le èlites aristocratiche potevano riaffermare il proprio ruolo. In questa guerra non c’era più spazio per pulsioni e sentimenti che potessero scardinare i rigidi ruoli assegnati ai combattenti e mettere in dubbio la legittimità degli ordini superiori o la sensatezza delle strategie militari. In precedenza, fuori dal continente europeo, si era già manifestata la caratteristica della modernità con la guerra civile americana e quella russo-giapponese. Nella prima guerra mondiale prevalente era l’impiego delle nuove tecnologie industriali e, nello stesso tempo, il conflitto stimolava ed esigeva continue innovazioni. La mobilitazione generalizzata, il ferreo disciplinamento e l’addestramento degli eserciti di massa, la movimentazione e il trasporto di enormi quantità di materiali e di uomini non avrebbero potuto realizzarsi se non applicando i metodi propri dell’organizzazione del lavoro industriale e dell’omologazione degli individui al processo di distruzione di massa. In questo scenario totalmente nuovo per milioni di persone, le differenze e gli antagonismi di classe che l’industrializzazione europea aveva da tempo prodotto, potevano in qualche modo attenuarsi o essere sospesi dal comune destino e dalle condizioni vissute al fronte o nei campi di prigionia, nel contesto di quella che Mario Isnenghi ha definito “la tregua sociale imposta dalla guerra” 145. Sulle differenze di classe sicuramente prevaleva il cameratismo, non fosse altro perché dal comportamento del commilitone che stava a fianco poteva dipendere la sopravvivenza dell’altro. L’illusione che il cameratismo, con il superamento delle barriere di classe e di censo, si sarebbe mantenuto ben oltre la fine del conflitto, nella società del dopoguerra, è l’altro tema che percorre La grande illusione, una convinzione che si rafforza mano a mano che le traversie vissute accomunano sempre di più gli uomini. Nel suo film Renoir non esita ad affrontare uno dei temi più controversi e oscuri della storia francese: l’antisemitismo che ripetutamente attraversa una società che, in buona parte, si riconosce nei principi della Rivoluzione. Solo alla fine del film, dopo la temeraria fuga insieme al suo compagno ebreo Rosenthal, Marèchal riconoscerà l’assurdità dei suoi pregiudizi razziali che, al pari delle frontiere che dividono le nazioni e i popoli, sono unicamente il prodotto del pensiero degli uomini. Da qui a pochi anni il governo collaborazionista della Francia di Vichy – unico tra i Paesi non occupati direttamente dai nazisti – attuerà l’ignominiosa politica di concentramento e deportazione degli ebrei francesi e di quelli rifugiati verso i campi di sterminio hitleriani. Nonostante il rigoroso realismo stilistico di Renoir nel film, che ripercorre l’esperienza del primo conflitto mondiale, la guerra non appare in nessun momento, non vi sono scene di battaglia o di scontri armati. Essa è raccontata unicamente attraverso i dialoghi dei protagonisti e la sola

145 Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., p. 332 69

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese vittima in tutto il film è mostrata morente in un candido letto d’ospedale. L’unico riferimento concreto alle battaglie in corso è il manifesto che annuncia la caduta di Douamont, evento tragico per l’orgoglio militare francese, e la sua successiva riconquista che dà sfogo alla gioia dei francesi che subito intonano la Marsigliese di fronte agli attoniti tedeschi. La scelta di Renoir di raccontare la guerra senza mostrarla, ha fatto porre allo storico e critico cinematografico francese Pierre Sorlin l’interrogativo per cui “mostrare la verità della guerra è un’operazione pericolosa, che raggiunge raramente il proprio scopo e può servire ai bellicisti. Non è il rifiuto delle immagini di guerra l’arma migliore contro la guerra?” 146. All’uscita La Grande illusione ebbe un grandissimo successo in Francia e all’estero, soprattutto negli Stati Uniti dove il presidente Roosevelt ne raccomandò la visione a tutti i cittadini democratici. L’opera di Renoir fu presentata nello stesso anno, 1937, alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Le pressioni del regime fascista impedirono che al film fosse assegnato il gran premio (allora non ancora rappresentato dal Leone d’oro, ma dalla Coppa Mussolini) per cui venne istituito, in alternativa, il Premio per il miglior complesso artistico, mentre il maggior riconoscimento andò al film Carnet di ballo di Julien Duviver, considerato meno pericoloso. Naturalmente il film venne proibito in Italia e così in Germania, dove il ministro della propaganda Goebbels dichiarò Renoir il “nemico cinematografico numero uno”. Nello stesso giorno in cui le truppe naziste, dopo l’annessione dell’Austria al Reich, entrarono a Vienna le autorità di pubblica sicurezza ordinarono l’immediata sospensione di tutte le proiezioni in corso de La grande illusione nella capitale austriaca. Nel 1939, nello stesso anno dell’assegnazione dell’Oscar a La grande illusione quale miglior film straniero, anche in Francia fu imposto il divieto di proiezione del film risultando inaccettabile, alla vigilia del nuovo conflitto mondiale, la rappresentazione di una qualche forma di umanità dei soldati tedeschi e dei loro comportamenti rispettosi verso gli internati francesi147. Durante l’occupazione nazista in Francia la copia originale del film, e tutti i negativi girati da Renoir nel corso della lavorazione, vennero trafugati e trasferiti a Berlino dove, alla fine della guerra, divennero parte delle opere d’arte requisite dai sovietici e trasportate a Mosca dove furono poi ritrovate a metà degli anni sessanta. Dopo la guerra, nel 1946, il film di Renoir venne riproposto in Francia, subendo però alcuni tagli, in particolare le scene di fraternizzazione tra francesi e tedeschi (come quella in cui il guardiano regala un’armonica a Marèchal e quella relativa all’incontro tra i fuggitivi e la contadina tedesca che li nasconderà e ospiterà, sino alla scena conclusiva dove i soldati tedeschi smettono di sparare quando i due francesi in fuga hanno oltrepassato un’ipotetica linea di confine che attraversa prati completamente innevati). Anche nell’Italia repubblicana la prima proiezione del film nel 1947 fu sottoposta ad alcuni interventi preventivi della censura, personalmente sottoscritti dal sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti.

146 Sorlin, Tre sguardi sulla Grande Guerra, in D. Leoni e C. Zadra (a cura di) La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, cit., p 850 147 Analogo provvedimento di proibizione colpirà anche il film J’Accuse di Abel Gance 70

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III. J’accuse di Abel Gance, Francia 1938

Di fronte all’incombere di una nuova catastrofe europea, nella seconda metà degli anni ’30 Abel Gance avvertì la necessità o, meglio, il dovere di riprendere e rielaborare la precedente opera cinematografica del 1919 J’accuse e rendere ancora più esplicita ed estrema la denuncia del militarismo e della volontà bellicista che, a meno di due decenni dalla conclusione del primo conflitto mondiale, dominavano sempre di più i rapporti tra le nazioni. Gance non apparteneva alla schiera degli intellettuali impegnati contro la guerra e il fascismo. Il suo impegno era dedicato totalmente al cinema, ideatore di audaci sperimentazioni, in molti casi precursore di tecniche di ripresa, di montaggio e di proiezione che saranno utilizzate e sviluppate decenni dopo dall’industria cinematografica. Il cinema di Gance è spesso apocalittico, visionario, ossessivo e profetico ma, pur nella sua ampollosità e magniloquenza, lo storico del cinema Georges Sadoul riconosce in esso la “testimonianza di una forza e di una sincerità che nessun altro regista francese seppe uguagliare” 148. Durante il primo conflitto mondiale Gance aveva potuto filmare, grazie all’appoggio del Servizio cinematografico dell’Esercito, alcune scene di combattimento al fronte che in seguito utilizzerà per i suoi film. Infatti, nel 1919 veniva proiettato il suo film J’accuse (in italiano Per la patria) che riscosse un grande successo sia in Francia che all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, nel momento in cui i popoli europei cercavano di dare un senso e un significato alla carneficina di massa organizzata nei loro territori. Lo storico statunitense Jay Winter considera che “Come nell’opera di tanti altri artisti, la forza di Gance derivava dalla capacità di esprimere sentimenti sulla tragedia della guerra condivisi da milioni di contemporanei”149.

La ricostruzione della terribile vita dei soldati in trincea e la scarsissima considerazione delle gerarchie militari nei confronti della condizione e della vita dei loro sottoposti, sono elementi dirompenti in questo film. La scelta di Gance si opponeva all’immaginario della guerra costruito dalla sua rappresentazione banale attraverso milioni e milioni di cartoline, le corrispondenze dei giornali, i film e gli spettacoli teatrali di propaganda, dove la morte era serena e composta, anestetizzata come l’intero conflitto e il cui unico scopo era quello di mascherare e mitizzare la realtà. All’uscita del film era già in atto la costruzione della memoria collettiva da parte degli Stati, attraverso la rimozione dell’orrore e della morte di massa senza senso e rivestendo di sacralità la guerra per cui la morte assumeva il valore di sacrificio per la patria. Sul momento del lutto, sul ricordo dei singoli caduti e sul bisogno di riflettere, nelle cerimonie di commemorazione ormai prevalevano sempre più la vuota retorica patriottica e lo spirito di esaltazione da parata militare. La scena finale del primo J’accuse – straordinaria a livello filmico – vede le croci dei cimiteri di guerra scomparire e sorgere dal terreno i soldati sepolti che si dirigono, come in una tragica marcia, verso i loro paesi. I caduti vogliono capire se il loro sacrificio sia stato vano, se i comportamenti dei sopravissuti non abbiano tradito la loro memoria. Essi non vogliono sapere se i

148 Sadoul, Storia del cinema mondiale, cit., p.164 149 Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, il Mulino, Bologna 1998, p. 29 71

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese propri familiari hanno mantenuto o rafforzato l’amor di patria dopo la guerra, ma che non li abbiano traditi mentre erano al fronte, che non si siano arricchiti con i profitti di guerra, che non si siano abbandonati – durante la loro assenza - a divertimenti e lussuria. Solo dopo l’ammissione delle colpe e il pentimento sarà possibile arrivare alla riconciliazione tra i morti e i vivi 150.

Quel momento spaventoso – sempre secondo Winter - e di intensa commozione nel film in cui i morti arrivano a casa per giudicare i vivi è diverso da qualsiasi altro episodio nella storia della propaganda bellica. Nella fase finale del conflitto il film di Gance introdusse nel cinema una visione della guerra in cui le figure al centro della scena erano i morti. Fu questo a trasformarlo da celebrazioni di certezze patriottiche in esplorazione delle tematiche eterne di amore, morte e redenzione 151.

Il film era stato commissionato dall’esercito francese nel 1917, nel momento più alto e drammatico della crisi vissuta dalla società e dalle forze armate francesi. Infatti, esso presenta un forte sentimento antitedesco e addirittura compare Vercingetorige a spronare gli esausti combattenti. Eppure la potente visionarietà di Gance riuscì, nell’ultima parte, a trascinarlo fuori dai binari del patriottismo repubblicano e farlo diventare un inaspettato atto d’accusa delle generazioni scomparse sui fronti di guerra contro una società pronta ad abbandonare al più presto la loro memoria. L’intervento censorio, come ricorda Carl Vincent, fu immediato:

Essendo una requisitoria contro lo spirito della guerra, Per la patria fu mutilato prima di essere proiettato in pubblico. Fu presentato a episodi: in numerosi locali non se ne vide che una versione ridotta, e i tagli della censura, che l’avevano amputato di molte scene di transizione, condussero al risultato di sottolineare gli aspetti più melodrammatici 152.

Il pacifismo e l’antimilitarismo che Gance non aveva espresso nel 1919 diventarono i temi centrali nel rifacimento di J’accuse nel 1938, un film che, diversamente dal primo, si conclude senza alcuna prospettiva di redenzione e riconciliazione finale 153. Questa volta la denuncia non è più rivolta contro gli abitanti dei villaggi e delle città, ma è implacabilmente diretta contro i governanti ciechi, le gerarchie militari e gli industriali che vedono nella guerra – nella nuova guerra – la fonte di ricchezze insperate: tutti pronti a proseguire, su scala infinitamente maggiore, ciò che ritenevano incompiuto dopo il primo conflitto. A chi ha scatenato la prima guerra mondiale viene imputato di aver creato l’Europa di oggi e a chi sta preordinando la guerra di domani di predisporre la sua distruzione. L’intento del film è smascherare le parole dei politici che sostengono la necessità del riarmo per rendere più forte e libera la democrazia, mentre considerano inevitabile un nuovo conflitto, non avendo imparato nulla dall’ultima catastrofe e non ascoltando la voce di milioni di morti vent’anni prima che gridano: fermatevi, state percorrendo lo stesso terribile sentiero! L’intreccio sentimentale e melodrammatico del primo J’accuse e il sentimento antitedesco scompaiono nella nuova versione, mentre l’ingannevole patriottismo è cancellato dall’alternanza e

150 Anche in Germania la guida ai monumenti dei caduti tedeschi predisposta dalla Repubblica di Weimar affermava “… che i morti si erano levati dalle loro tombe, e nel cuore della notte avevano visitato i tedeschi per esortarli a far rinascere la patria”. Cfr. Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, cit., p. 88

151 Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, cit., p. 28 152 Vincent, Storia del cinema, cit., p. 50 153 Questo nella nuova versione del 1991 esaminata per il presente lavoro 72

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese contrapposizione delle scene di giubilo dopo l’armistizio e della parata sotto l’Arco di Trionfo con quelle di immense distese di cadaveri e di croci disseminati nei campi di battaglia. Nella prima parte del film i soldati al fronte non hanno nulla di eroico, sono perennemente immersi nel fango e sotto i continui bombardamenti; nei rari momenti di pausa i discorsi sono dominati dall’angoscia di non sapere nulla delle famiglie rimaste senza il loro sostegno e solo il forte cameratismo diventa un valore positivo. Il giuramento di impegnare la propria esistenza affinché non ci sia mai più un’altra guerra, che il protagonista Jean Diaz pronuncia ai suoi commilitoni, che ben sanno di essere destinati alla morte per una missione insensata e suicida da compiere il giorno prima dell’armistizio, diventa l’ossessione che percorre la restante parte del film. Anche nella nuova versione Gance riprende la scena finale dei morti che escono dalle loro tombe ma, ora, non è più un sogno come nel film del 1919. I soldati caduti sono convocati da Diaz per un ultimo e disperato tentativo di fermare la nuova guerra mondiale “io chiedo il vostro aiuto. Il vostro sacrificio è stato vano, i vivi vogliono ancora la guerra!” Lo scenario non è più quello di un desolato cimitero di guerra, ma l’immensa distesa di croci dominata dalla severa e angosciante Torre dei Morti dell’Ossario di Douaumont dove sono sepolti i caduti della battaglia di Verdun. L’appello di Diaz non è rivolto ai commilitoni francesi morti durante il conflitto (un milione e trecentomila), ma ai dieci milioni di morti appartenenti a tutti gli eserciti che si sono combattuti in Europa per cinque anni, che devono levarsi dalle loro tombe e tornare nelle proprie nazioni per impedire il nuovo suicidio europeo. La scena, che riprende alcune immagini del film del 1919, è veramente apocalittica e fortemente visionaria; molti dei fantasmi sfigurati sono anciens combattants dell'Union des Gueules Cassées, mutilati che hanno partecipato alla realizzazione dell’opera. Il tragico finale vede una folla terrorizzata e inferocita scagliarsi contro Diaz e sacrificarlo sul rogo, colpevole di aver riportato sulla terra i morti dei quali non si vuole in alcun modo ascoltare le disperate invocazioni di pace e che si vogliono far tacere sparando contro di loro un’altra volta. Una folla che diventa il simbolo di un’umanità nuovamente pronta a farsi ingannare come vent’anni prima quando, come sostiene lo storico inglese Christopher Clark, una cieca classe dirigente europea stava portando il mondo verso l’orrore 154.

154 Cfr. C. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla grande guerra, Laterza, Roma-Bari 2013 73

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5. IL SECONDO DOPOGUERRA E LA REVISIONE NEGLI ANNI ’90 DEL XX SECOLO

Il secondo conflitto mondiale - ha scritto George L. Mosse - modificò in maniera decisiva la memoria della guerra, e parve porre termine alla maniera in cui la maggioranza dei popoli e delle nazioni aveva percepito le guerre fin dall’epoca della Rivoluzione francese e delle guerre di liberazione tedesche. Esso minò l’efficacia dei miti e dei simboli che avevano ispirato il culto della nazione, come pure lo stereotipo del nuovo uomo-soldato 155.

Ciò che non sarà però scalfita, per lunghi anni, è la memoria ufficiale de “La Grande Guerre”, tanto più in Francia dove occorreva contrapporre quella gloriosa pagina d’onore al trauma della lunga occupazione nazista e al fenomeno del collaborazionismo, in parte riscattato dalla Resistenza. Un contesto mirabilmente descritto da Marcel Carné nel film del 1946 Les portes de la nuit (Mentre Parigi dorme) e che il suo clamoroso insuccesso di pubblico dimostrava il diffuso rifiuto di affrontare pagine dolorose, e vergognose, ancora aperte. Di fronte a questa situazione, nel dopoguerra il cinema francese scelse quindi la strada più renumerativa e meno impegnativa del genere poliziesco, fantastico e intimista, pur restando punto di riferimento per il cinema internazionale, insieme al rinato cinema italiano. Come ha scritto Georges Sadoul per il cinema francese, sino alla fine degli anni cinquanta “i suoi artigli sembravano consumati da una paziente repressione intellettuale e dalla routine imposta dall’industria”156. Dopo il 1945, tra le maggiori potenze mondiali solo la Francia fu continuamente impegnata su fronti di guerra: dal 1946 al 1954 in Indocina e dal 1954 al 1962 in Algeria. Quest’ultimo conflitto colonialista rischiò seriamente di provocare un colpo di stato militare nella madrepatria, a dimostrazione della forza del militarismo francese (che, tra l’altro, riuscì ad imporre la costruzione di un proprio arsenale nucleare, la”force de frappe”). Nonostante tutto questo provocasse una radicale divisione nella politica e nella società francese, il cinema rimaneva sostanzialmente assente dall’affrontare le tematiche più laceranti e dolorose. Non sempre questa assenza era determinata dal disimpegno del cinema o dalla mancanza di coraggio dei produttori timorosi di perdere le forme di finanziamento pubblico, incideva non poco l’intransigente intervento censorio in linea con il carattere autoritario della V Repubblica. Fu il caso del film di Jean-Luc Godard Le petit soldat del 1960, periodo in cui il regista non aveva ancora assunto alcuna posizione politica. Com’è nello stile di Godard l’azione nel film era solo un pretesto, posta all’interno di continui dialoghi, citazioni, discorsi e musiche, ma il fatto che essa fosse riferita alla situazione d’Algeria, senza peraltro prendere alcuna parte, impedì la sua distribuzione, che potrà avvenire solo nel 1963, dopo l’indipendenza conquistata dal paese africano 157. Analogo accanimento censorio venne riservato al film Tu ne tueras point (Non uccidere) diretto dal regista francese Claude Autant-Lara all’inizio degli anni sessanta, che affrontava la tematica dell’obiezione di coscienza (il titolo originario era infatti L’objecteur).

155 Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, p.221 156 Sadoul, Storia del cinema mondiale, cit., p. 395 157 Il film di Gillo Pontecorvo La Battaglia di Algeri del 1966, estremamente realista e attento a presentare le ragioni dei colonizzatori e quelle dei combattenti per l’indipendenza, pur sottolineando il carattere epico e civile della lotta anticolonialista, fu vietato in Francia siano al 1971. 75

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Il regista - dopo oltre dieci anni di infruttuosa ricerca di un produttore disposto a finanziare l’opera, anche per gli interventi dissuasivi del "Servizio segreto psicologico" dell'esercito francese – solo nel 1961 potrà realizzare il film grazie al produttore italiano Moris Ergas, mentre le riprese saranno effettuate in Jugoslavia. Il film, distribuito all’estero nel 1961, fu proiettato in Francia solo nel 1963 158. Ancor più prorompente fu l’impatto in Francia del film di Stanley Kubrik Paths of Glory (Orizzonti di gloria) del 1957, che toccava il nervo scoperto della repressione militare francese nel corso della Grande Guerra, attraverso un’opera che lo storico del cinema Fernaldo Di Giammatteo giudica dall’‟antimilitarismo feroce, nel quale nulla si salva dell’istituzione militare dominata da cinismo, arrivismo, incoscienza, insipienza tattica, crudeltà” 159. Il film fu talmente osteggiato dalle autorità francesi, che intervennero anche all’estero per impedirne la diffusione, da poter essere proiettato nei cinema francesi solo nel 1975.

La “nouvelle vague”, sicuramente il più importante movimento di rinnovamento e svecchiamento del cinema francese nel secondo dopoguerra, sorto alla fine degli anni cinquanta, non intendeva certo affrontare tematiche attinenti alla storia patria, per la natura prevalentemente individualista della maggior parte degli autori, disimpegnati socialmente e politicamente.

Questa generazione di artisti – scrivono Fofi, Morandini e Volpi – ha in qualche modo preparato la strada alla rivolta generazionale del decennio e dei Sessanta. E’ una generazione che non ha vissuto i problemi della guerra se non nella sua infanzia, a cui sono estranei i dilemmi dell’impegno dominanti nel primo dopoguerra (...) Il loro è un cinema che tace (come quello “vecchio”, d’altronde) sulle guerre d’Indocina e d’Algeria, sull’egemonia dell’imperialismo nordamericano, sui conflitti sociali, sui problemi dell’immigrazione, sulla condizione operaia. E’ un cinema segnato da un’assenza: quella della Francia. Con poche eccezioni e tolte le evasioni più o meno esotiche in paesi lontani, l’universo della nouvelle vague è parigino e borghese. Anche per questi motivi la nouvelle vague seppe trovare un sostegno ufficiale (era allora ministro per la cultura André Malraux) e di stampa: rinverdiva la fama di Parigi come produttrice internazionale di cultura e di mode esportabili (e monetizzabili), senza dare al regime eccessivi fastidi 160.

Nella “nouvelle vague”, che in ogni caso non era un movimento omogeneo, predominavano la soggettività dell’autore e le sue ossessioni. I giovani e il loro rapporto con la società contemporanea e la modernità sempre più complessa diventarono i soggetti privilegiati dei film di questi autori-sovrani, realizzati a basso costo e ambientati prevalentemente in ambiente urbano.

Dopo tutti gli anni seguenti la seconda guerra mondiale in cui il cinema francese aveva mantenuto le distanze dalla politica e dalla storia, all’inizio degli anni settanta al suo interno si sviluppava, soprattutto a livello critico-teorico, un dibattito sulla necessità di recuperare e rivisitare la memoria, anche quella più scomoda, per trarre anche collegamenti con l’attualità.

158 Per le vicende italiane del film Tu ne tueras point v. nota 45 al cap. 1. par. III. La Grande Guerra e il cinema nella prima età repubblicana

159 F. Di Giammatteo, Storia del cinema, Marsilio, Venezia 2002, p. 389 160 Fofi, Morandini, Volpi, Storia del cinema, Vol. 3, cit., pp. 82-3 76

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Bertrand Tavernier, non a caso l’autore che più attentamente e concretamente si è rapportato con il passato e con la storia, anche quella minuta e popolare, realizzava due film che analizzano e mettono in mostra i meccanismi del potere e le rigide articolazioni sociali: nel 1974 Que la fête commence (Che la festa cominci) ambientato durante il periodo della Reggenza e, nel 1976, Le Juge et l'Assassin (Il giudice e l’assassino) dove la storia raccontata è esemplificativa dei sistemi della giustizia, della medicina ufficiale e degli ambigui rapporti tra giustizia e borghesia nella Francia di fine Ottocento. Anche il recente passato era ora affrontato, a volte ricercando l’obiettività altre volte con il piglio militante. Marcel Ophüls realizzava Le chagrin et la pitié nel 1971, ambientato nel periodo 1940-1944 nella città di Clermont-Ferrand, con il contributo di due giornalisti, André Harris e Alain Sedouy che avevano scritto in precedenza Français si vous saviez. Il film, come scrivono sempre Fofi, Morandini e Volpi:

(…) smantella più di un mito, a cominciare da quello di una Francia unanime nel suo martirio di nazione antinazista travolta dalla potenza tecnico-militare delle Panzerdivisionen germaniche, e pone sul tappeto diversi temi: la contestazione dell’eredità culturale e storica proposta dalla classe dirigente; il rifiuto della classica, e falsa, dicotomia tra resistenti e collaborazionisti; l’interrogazione sul ruolo dei mezzi di comunicazione e propaganda 161.

Se Le chagrin et la pitié ebbe una considerevole diffusione solo nei circuiti alternativi, due film successivi che affrontavano lucidamente il dramma del collaborazionismo e dello sterminio degli ebrei francesi si rivolsero al grande pubblico, entrambi realizzati da un regista ben inserito nell’industria cinematografica, Louis Malle: Lacombe Lucien (Cognome e nome: Lacombe Lucien) del 1973 e Au revoir les enfants (Arrivederci ragazzi) del 1977. Anche la guerra d’Algeria, nei suoi aspetti più oscuri e crudeli, diventava oggetto dell’attenzione cinematografica, in particolare con due film di Yves Boisset: L’attentat (L’attentato) del 1972 sul caso Ben Barka e R.A.S Rien à segnaler (R.A.S. Nulla da segnalare) del 1972, dal forte spirito antimilitarista e che svelava i metodi per formare spietati soldati da utilizzare nella “guerra sporca” coloniale. Solo alla fine degli anni ottanta la Grande Guerra tornerà sugli schermi francesi con il chiaro intento di recuperare la memoria anche intima e individuale da contrapporre ad una memoria ufficiale del grande conflitto cristallizzata da oltre settant’anni e di dare dignità ai lutti privati soverchiati ed esorcizzati dalle commemorazioni ufficiali. Segno di questo bisogno di confrontarsi diversamente con il passato era stato anche il grande successo editoriale seguito alla riedizione di uno dei capolavori della letteratura antibellicista, scritto nel 1916, Le feu (Il fuoco) di Henri Barbusse. Come negli anni settanta in Francia si era avviato il superamento della “syndrome de Vichy”, così negli anni novanta anche la storiografia iniziava a rinnovare, anche in termini antropologici, l’approccio con la Grande Guerra, in considerazione dell’assodato perdurare nella memoria pubblica dell’immenso lutto, un ricordo assillante anche dopo la scomparsa degli ultimi combattenti superstiti. Un nuovo interesse storiografico determinato anche dalla centralità di un

161 Fofi, Morandini, Volpi, Storia del cinema, Vol. 3, cit., pp. 141-2

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese evento considerato la vera origine delle successive catastrofi del secolo in corso e che ora, con il crollo del comunismo sovietico e i nuovi conflitti balcanici, sembrava tornare al punto di origine: Sarajevo. Inevitabilmente i nuovi sforzi analitici, mettendo in discussione verità ritenute inconfutabili a livello pubblico, crearono non poche lacerazioni, come ad esempio la questione delle responsabilità della guerra. La Francia, pur essendo il paese aggredito, non poteva assolversi dall’aver condotto nei decenni precedenti il conflitto - al pari delle altre potenze europee - un espansionismo coloniale in aperta rivalità con la Germania (e, in parte, con l’Italia), una politica di riarmo e di militarismo accentuato, una politica di alleanze che imponeva automatismi d’intervento e provocava percezioni di accerchiamento e minaccia in altri paesi: tutti elementi che avrebbero potuto far deflagrare il conflitto in qualsiasi momento nel decennio prima del 1914. Così l’analisi del tema del consenso diffuso all’inizio del conflitto, delle manifestazioni di gioia ed euforia che accompagnarono la partenza delle truppe, del fascino e dell’amore per la guerra espresso da molti intellettuali, diventava in qualche modo inconcepibile e insopportabile alla luce del pensiero e delle valutazioni etico-politiche rafforzatesi in gran parte della società dopo il secondo conflitto mondiale e sotto la costante minaccia di un olocausto nucleare planetario. Ancor più divaricante fu la rivisitazione del fenomeno degli ammutinamenti del 1917 che in qualche modo li depurava dell’aurea di pacifismo e di rifiuto della guerra con cui la sinistra li aveva rivestiti, mentre per la prima volta nuove ricerche facevano luce sul metodo criminale e repressivo adottato dalla giustizia militare contro i soldati “fusillés pour l’exemple”. Un tema che divenne aspro scontro politico nel 1998, per la netta e aperta ostilità dimostrata dalla destra e dalle associazioni combattentistiche, quando il primo ministro Lionel Jospin, nel discorso tenuto a Craonne, affrontò il problema della riabilitazione dei soldati ammutinati e poi condannati (v. Cap. 6 par. III. Le pantalon di Yves Boisset). Nel 1989 a riavvicinare il cinema francese alla Grande Guerra non poteva che essere Bertrand Tavernier con il film La vie et rien d'autre. Con la sua irriverenza e causticità Tavernier metteva a nudo le ipocrisie e il cinismo delle elaborazioni ufficiali del lutto che aveva travolto le famiglie francesi. Quanto il tema fosse ancora profondamente vissuto dalla società francese lo dimostrò l’enorme successo di pubblico sin dalle prime settimane di proiezione del film, pur essendo un’opera per nulla spettacolare e percorsa da una costante dolenza. Con la sua capacità di lettura della storia basata sugli spietati meccanismi del potere, sulla memoria popolare, sul comportamento dei personaggi minori costretti ad agire all’interno di vicende e drammi ben più grandi di loro e ingovernabili, Bertrand Tavernier ha avuto il merito, come sottolinea Stéphane Audoin-Rouzeau, di aver anticipato il nuovo lavoro storiografico degli anni novanta.

Certains films historiques parviennent à devancer les recherches des historiens au point de faire sentir douloureusement à ces derniers leurs insuffisances et leurs lacunes. Ceux que Bertrand Tavernier a consacrés à la Grande Guerre – La Vie et rien d’autre en 1989, puis Capitaine Conan en 1996 – sont de ceux-là. Par deux fois, le cinéaste a réussi à exhumer, à traiter avec une justesse parfaite, à apercevoir, en un mot, deux aspects de la Grande Guerre qu’avant cette date aucun spécialiste du conflit n’avait su traiter comme lui. Grande leçon d’histoire, donc 162.

162 Audoin-Rouzeau, Bertrand Tavernier, la grande guerre et l’identité française, cit. 78

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6. I FILM DEL SECONDO DOPOGUERRA

I. La vie et rien d'autre (La vita e niente altro) di Bertrand Tavernier, Francia 1989

Con La vie et rien d'autre (La vita e niente altro) del 1989 e il successivo Capitaine Conan (Capitan Conan) del 1996, Tavernier riprendeva il tema della Grande Guerra che il cinema francese non aveva più trattato dal tempo de La Grande Illusione. La vita e niente altro è uno sguardo impietoso su quel che è seguito dopo la conclusione di una guerra che aveva comportato un tremendo prezzo di vite umane: quasi un milione e mezzo di soldati uccisi o scomparsi, più di quattro milioni di feriti e oltre trecentomila civili uccisi, un massacro che aveva creato un vuoto tale nella popolazione maschile che occorreranno più di dieci anni per la ripresa demografica della nazione. Con commossa partecipazione, ma anche aspra denuncia e ironia, il regista segue quell’‟umanità dolente˝ che percorre i territori del conflitto alla ricerca di una risposta sui propri cari scomparsi, ma non ancora identificati, vittima di raggiri, truffe e di affaristi senza scrupoli, di gerarchie militari e politiche che vogliono chiudere burocraticamente quanto prima la faccenda e rassicurare i vivi della continuità della patria (e della vita). Nello stesso tempo Tavernier non risparmia un’energica denuncia verso quella borghesia industriale che ha ricavato enormi profitti dalla guerra e che, in una sorta di accordo reciproco con gli industriali tedeschi, è riuscita a far sì che le rispettive fabbriche fossero risparmiate dai bombardamenti. Elemento essenziale del film è il paesaggio, il territorio (in questo caso la pianura di Verdun, dove si consumò una delle più grandi ecatombe dell’intero conflitto) che, al pari degli uomini, è stato sconvolto e devastato dalla furia distruttrice della guerra. In questo ambiente si trovano ad agire i superstiti dopo due anni dalla fine del conflitto: soldati dei possedimenti coloniali francesi (africani e indocinesi) impegnati nel recupero dei cadaveri ancora disseminati ovunque, contadini che tentano di coltivare nuovamente un terreno ancora cosparso di bombe inesplose che continuano a provocare vittime, familiari alla ricerca di un corpo da riportare a casa 163. Nel settore, che la burocrazia militare definisce “giacimento”, a dirigere le operazioni di identificazione dei caduti senza nome (quasi trecentocinquantamila per la sola Francia) è il maggiore medico Dellaplane, scrupoloso e instancabile, che tenta di dare un nome ai corpi recuperati sulla base delle descrizioni fornite dalle famiglie degli scomparsi. Il senso di riconoscenza per i caduti e il dovere di farli uscire dall’anonimato che ispirano l’operato del maggiore si scontrano con la volontà del governo e delle gerarchie militari di voltare pagina, di porre fine al disordine causato dai “pellegrinaggi del dolore” e al malaffare delle agenzie specializzate nella ricerca dei dispersi.

Vero è che a un certo punto – sottolinea Gibelli - il ritmo di produzione della morte diviene superiore a quello delle operazioni di sgombero. Ed è in certo senso questa eccedenza, sempre più marcata mano a

163 Ancora oggi in Francia e Belgio molti luoghi in prossimità del fronte occidentale sono interdetti all’accesso – e a qualsiasi utilizzo – per l’alta concentrazione di metalli pesanti ( rame, piombo, zinco, arsenico e percolato d’ammonio), lascito delle migliaia di bombe inesplose e degli ordigni chimici depositati sul terreno. 79

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mano che la guerra si prolunga, a iterare nel tempo gli effetti della morte e a dilatarne gli echi nell’immaginario 164.

Ma la ragione principale perché siano sospese le ricerche e le identificazioni è la decisione del governo di concentrare in un unico “Altare della Patria”, tempio della nazione, il culto dei caduti, seppellendo sotto l’Arco di Trionfo un anonimo soldato, da scegliere e inumare attraverso una procedura dal forte valore simbolico, in cui tutti possano identificarsi, senza distinzione di classe. Al maggiore medico è affidato il compito di individuare nel proprio settore una salma che, insieme a quelle recuperate in altri fronti di guerra, dovrà poi essere scelta per l’inumazione. Le uniche e ciniche indicazioni fornite dalle gerarchie militari sono limitate a prestare attenzione che il corpo non sia quello di un “negro o di un crucco”. Esemplare è la scena della scelta della bara del “Soldat Inconnu” dove risalta il contrasto tra l’ipocrisia, la retorica e la prosopopea del ministro e la sincera partecipazione e commozione del semplice soldato a cui è stata affidata la decisione. Altrettanto tagliente è la rappresentazione di quella schiera di progettisti, scultori e fornitori di monumenti e arredi funebri, che assillano con i loro cataloghi gli amministratori locali, ansiosi di erigere un monumento ai caduti nel loro paese, impegnati in una competizione con i comuni vicini che hanno un maggior numero di morti da commemorare. Questa parossistica e macabra emulazione è magistralmente raccontata nella scena in cui un sindaco e un funzionario vogliono rivolgersi al prefetto perché nel loro paese tutti i richiamati alle armi sono tornati vivi e, pertanto, non avrebbero alcuna ragione di erigere il loro monumento, per cui l’unica soluzione sarebbe quella di rettificare i confini comunali in modo da includere i due caduti della frazione limitrofa. In qualche modo il finale del film riprende, seppure in una sequenza di dialogo, la sfilata dei caduti e degli invalidi sotto l’Arco di Trionfo immaginata nei film di Abel Gance e Raymond Bernard. Commentando con amarezza l’interruzione obbligata del suo lavoro, il maggiore Dellaplane, ossessionato dalla contabilità dei caduti che è riuscito a identificare e che non potrà più continuare, calcola che se a marciare sotto l’Arco di Trionfo – con le stesse modalità della grande sfilata della vittoria nel luglio 1919 – fossero state le vittime francesi dell’inspiegabile follia della guerra, la marcia non sarebbe durata meno di undici giorni e undici notti ininterrotti. A dimostrare la capacità di Bertrand Tavernier di saper costruire personaggi e vicende, anche minute, all’interno di un solido impianto storico è proprio La vita e niente altro. D’intesa con lo sceneggiatore Jean Cosmos, durante le riprese realizzate nel circondario di Verdun, diversi episodi e situazioni raccontate dagli abitanti del posto sono state inserite nel film, quasi una lavorazione guidata da una sceneggiatura aperta. La morte di massa, in una dimensione difficilmente immaginabile, non poteva che generare in tutta Europa una “universalità del lutto”, una commemorazione pubblica e collettiva dei caduti mai conosciuta prima. Cimiteri di guerra e monumenti contrassegnano il territorio dove si erano combattute le più cruenti battaglie; la monumentalità celebrativa si inseriva nel tessuto urbano delle città capitali e, con dimensioni ben più modeste, in tutti i paesi che avevano avuto anche un solo concittadino caduto nel conflitto. In quasi tutte le nazioni il momento celebrativo voleva ricordare la perdita di intere generazioni di giovani ed essere ammonimento affinché una tale

164 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit. p. 111

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese carneficina non si ripetesse mai più, dando un senso al dolore dei sopravvissuti esprimendo il cordoglio – per quanto simulato e interessato - della patria. A differenza degli altri Paesi dell’Intesa, in Italia il regime fascista si impossessò quasi subito della memoria della Grande Guerra (già con l’imponente presenza di camicie nere alla tumulazione del Milite Ignoto nell’Altare della Patria nel 1921); il proliferare di templi e ossari divenne il modo di celebrare il regime stesso, con la sacralizzazione e l’esaltazione della morte per preparare la gioventù a combattere le guerre successive.

In effetti – scrive Gibelli -, se c’erano voluti meno di quattro anni per produrre tutti quei morti, ne saranno necessari una decina per recuperarli e organizzarli nei cimiteri di guerra. L’operazione di smaltimento verrà insomma differita, diventando contemporaneamente operazione di trasfigurazione e di edificazione monumentale 165.

In Francia e nelle Fiandre, dove il numero dei soldati caduti, non solo francesi, sopravanzava quello di tutti gli altri fronti di guerra si pose subito il problema del loro seppellimento, in qualche modo risolto dal governo francese che predispose appositi cimiteri nelle zone di guerra e vietando il trasferimento e l’inumazione delle salme nei rispettivi luoghi di provenienza 166. Questa scelta, che privava le famiglie di un luogo vicino dove onorare il proprio caro (tanto più che nei primi anni del dopoguerra la gran parte dei corpi doveva ancora essere recuperata, considerata l’enorme estensione del fronte occidentale e l’impraticabilità di molti territori ancora disseminati di ordigni inesplosi 167), diede il via a veri e propri “pellegrinaggi del dolore”. Un pellegrinaggio ancor più penoso e angosciante per i familiari dei caduti non ancora identificati poiché, oltre alla possibile perdita della persona amata, esisteva il rischio concreto che il tempo trascorso tra il recupero del corpo e la sua inumazione rendesse impossibile il suo riconoscimento.

Ma la morte di massa – continua Gibelli - non è solo questione di numero e di frequenza. C’è un altro elemento che la qualifica, ed è l’anonimato. A partire dalla guerra, anche la morte diventa un evento senza qualità, che inghiotte subito le sue vittime cancellandone in maniera subitanea l’identità 168.

Più odioso fu il traffico clandestino delle salme che personaggi senza scrupoli avviarono per recuperare e trasferire segretamente il corpo richiesto dai familiari, a fronte del pagamento di un preciso tariffario, attività che comportava un vero e proprio saccheggio dei provvisori cimiteri di guerra. Questo fenomeno fu così diffuso e difficile da reprimere che nel 1920 il governo francese riconobbe il diritto dei familiari ad avere a disposizione la salma del proprio congiunto, diritto che si concretizzò solo nel 1922.

165 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 111 166 Anche in Italia, come raccontato da Mario Rigoni Stern, il problema del recupero delle salme si protrasse per lungo tempo dopo la fine della guerra: “Inoltre fuori dalle strade di arroccamento o lontano dalle contrade, ancora molti erano i soldati che restavano insepolti. Le imprese avevano concordato un tanto a salma; i corpi riesumati o raccolti venivano depositati in semplici casse e con i camion portati nei grandi cimiteri in allestimento presso i paesi o anche nei luoghi dove erano avvenute le stragi. In questo ingrato e pietoso lavoro non sempre si osservava un minimo di carità e di rispetto: talvolta le ossa di uno venivano mischiate con quelle di un altro e, peggio ancora, di un corpo ne venivano due per aver maggior utile alla fine della contabilità.” Rigoni Stern, L’anno della vittoria, cit., pp. 81-2 167 Nell’esaminare le nuove forme di schiavitù, mascherate dal lavoro a contratto, Gabriele Turi ricorda che furono: “… decine di migliaia di cinesi utilizzati in Francia nella prima guerra mondiale per i lavori pubblici o per recuperare i corpi dei soldati nelle trincee.” G. Turi, Schiavi in un mondo libero, Laterza, Roma-Bari 2012, p.329 168 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., p. 199

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Come ha analizzato Patrizia Dogliani, contemporaneamente fiorì una vera e propria imprenditoria dell’arte patriottica e monumentale che assumeva, di volta in volta, precisi significati politici e sociali: dall’esaltazione delle virtù guerriere della nazione alla glorificazione del sacrificio, dal rafforzamento della comunità in lutto al sincero ricordo dei propri concittadini caduti, con l’iscrizione dei loro nomi nei semplici monumenti di paese.

A differenza del complicato iter amministrativo che rallentava i lavori per grandi complessi monumentali urbani, reso ancor più difficile dalle discussioni sui valori ideali e sulla simbologia dell’insieme statuario che ancora oggi dividono i politici (…) molti comuni della grande provincia agricola francese non attesero la legge di sovvenzione statale dell’ottobre 1919 per allestire i monumenti ai loro morti (…) Con il tempo, l’orazione funebre venne tenuta dal sindaco o da un consigliere comunale, quasi sempre ex- combattente, che avevano la funzione di rappresentare la duplice comunità dei cittadini e dei reduci 169.

Mentre Jay Winter rileva che:

Allorché si costruisce un monumento ai caduti, si compie una decostruzione della morte: il suo orrore, la sua indiscutibile individualità, il suo trauma, e l’ignominia che ad essa sovente si associa, tutto viene sepolto. Essa viene quindi reinvestita di significato, come un’astrazione, un sacrificio collettivo, remoto rispetto all’estinzione dei singoli. “Ai nostri morti” è un messaggio personificato, senza emittente. Allo stesso modo i morti non sono più individui. Compaiono soltanto come nomi, incisi sui monumenti. Il loro sacrificio finisce pertanto per manifestarsi come l’espressione di una volontà generale, di un’anima collettiva incarnata nello stato. In questi monumenti lo stato riafferma il suo diritto di chiedere ai cittadini di andare a uccidere e morire 170.

Ossari, monumenti, luoghi sacri, parchi della rimembranza diventavano così gli spazi privilegiati per la celebrazione delle commemorazioni pubbliche e ufficiali, veri templi del culto nazionale, dalla forte simbologia politica (oltre che cristiana o precristiana) dove prevaleva la retorica patriottica, la mistificazione della guerra e dove non avevano rappresentazione l’orrore, la morte nel fango e i corpi dilaniati, le mutilazioni e le deformità, nonostante gli invalidi, le vedove e gli orfani fossero chiamati ad essere presenti in prima fila nel corso delle cerimonie. Per la prima volta si celebrava, pur nella sua anonimità, anche il soldato comune e non più i solamente i condottieri, così che il popolo potesse identificarsi e considerare la guerra come manifestazione della sua volontà.

Coloro che si occupavano – ha scritto Mosse - dell’immagine e della perdurante attrattiva della nazione lavorarono alla costruzione di un mito volto a cancellare l’orrore della guerra, e a mettere in risalto il valore del combattere e del sacrificarsi (…) Lo scopo era di rendere accettabile un passato intrinsecamente sgradevole: un compito importante non solo non solo ai fini consolatori, ma anche e soprattutto per la giustificazione della nazione nel cui nome la guerra era stata combattuta 171.

169 Dogliani, La memoria della grande Guerra in Francia nel primo e secondo dopoguerra, in La Grande Guerra, esperienza,memoria immagini, a cura di D. Leoni e Camillo Zadra, cit., pp. 559-60 170 Winter, Il lutto e la memoria, il Mulino, Bologna 1998, pp. 134-135 171 Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, cit., p. 7

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II. Capitaine Conan (Capitan Conan) di Bertrand Tavernier, Francia 1996

Dopo la pietà per i caduti rimasti senza nome e la rabbia contro l’opportunismo dei politici e il cinismo dei militari messi in scena con La vita e niente altro, nel 1996 Bertrand Tavernier tornava a rappresentare la Grande Guerra nei suoi aspetti più oscuri e controversi con il film Capitaine Conan (Capitan Conan). Con questo film Tavernier svela l’ipocrita presunzione del potere militare di ricondurre nella normalità e nella legalità l’inarrestabile e sconfinata violenza che esso stesso aveva scatenato con la guerra industriale, la cui esperienza accompagnerà indelebilmente per sempre l’esistenza di chi l’ha combattuta, segnando una profonda ferita tra quello che si era prima e quello che si è dopo. In Capitan Conan Tavernier dimostra la sua capacità di penetrare in profondità l’abisso in cui è precipitato l’animo di questi guerrieri (così essi orgogliosamente definiscono se stessi per distinguersi dalla massa anonima dei soldati), che affrontano l’orrore e la morte come fosse una festa e il senso della loro esistenza. Così com’è in grado di mostrarci lo spaesamento, il terrore, la paura paralizzante durante gli assalti dei soldati cui la guerra è stata imposta, costretti a combattere e il cui unico desiderio è tornare a casa vivi. A governare e indirizzare lo spettacolo di violenza endemica è un gruppo di comandanti molto più preoccupati della qualità del cibo e degli alloggiamenti che delle condizioni e della sorte dei loro sottoposti. L’azione del film si svolge nei Balcani, sul fronte bulgaro nel settembre del 1918, dove l’intervento delle truppe francesi contribuisce alla capitolazione della Bulgaria, alleata degli Imperi Centrali. Parallelamente agli assalti condotti dai fanti francesi sotto il tiro delle artiglierie bulgare, agiscono i cosiddetti “disinfestatori di trincee”, i guerrieri per volontà e professione, il cui principale obiettivo è sgozzare quanti più nemici possibili, convinti che la guerra sarà vinta per le loro azioni e non da un esercito ormai inebetito dai troppi massacri e troppi anni al fronte. I “disinfestatori” agiscono sul terreno di una guerra arcaica, contrapposta alla guerra tecnologica e di massa, come tanti eroi solitari si muovono come un branco di lupi, affidandosi con piena e incondizionata fiducia al capo che li guida. Per tutti, soldati e “disinfestatori”, l’armistizio non porta la pace, ma un lungo peregrinare tra la Bulgaria e la Romania, in attesa di una smobilitazione che non arriva, poiché le forze dell’Intesa hanno già individuato un nuovo fronte di guerra: a fianco dei “bianchi” controrivoluzionari che si oppongono ai bolscevichi durante la guerra civile russa. Durante la permanenza a Bucarest la violenza e l’aggressività di alcuni membri dei corpi speciali si manifesta con furti, distruzioni e omicidi che l’autorità militare vuole fermare e punire, ricorrendo alla giustizia militare, non tanto per stabilire la verità dei fatti, ma per distribuire condanne sommarie, rapide ed esemplari. A difesa dei suoi uomini Capitan Conan ha buon gioco nel sostenere che dei guerrieri non possono trasformarsi in tranquilli cittadini solo perché un armistizio è stato firmato, né si può chiedere loro di nascondere i pugnali che fino al giorno prima hanno impugnato per la grandezza della patria. Per anni Conan ha insegnato ai suoi uomini ad attaccare e tagliare gole, per tre anni hanno fatto solo questo e ora li si vuole condannare per venti minuti di violenza in città. 83

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Chi può dunque giudicare il valore di una vita tolta in tempo di pace quando si è appena arrestata un’ecatombe dai numeri difficilmente immaginabili? E quali responsabilità addossare ai generali che hanno pianificato e diretto la carneficina europea e che ora festeggiano al suono di bande e fanfare? Nel momento in cui la nuova guerra sul fronte orientale ha inizio, l’abilità di Tavernier di utilizzare il cinema per rivelare i reali sentimenti degli uomini si dimostra nelle scene conclusive. Da una parte ci sono i soldati esausti e sfiniti da troppi anni di guerra che chiedono solo di tornare a casa, e per questo finiranno alla corte marziale, dall’altra l’esaltazione e l’eccitazione dei guerrieri che ritrovano un’insperata occasione per riprendere i pugnali e scagliarsi contro un nuovo nemico, qualsiasi esso sia pur di ritrovarsi nuovamente nell’ambiente per loro vitale e congeniale qual è il campo di battaglia. Sul tema della giustizia e della difformità di giudizio in tempo di guerra e in tempo di pace, è evidente il riferimento di Bertrand Tavernier al film di Charles Chaplin Monsieur Verdoux del 1947, ambientato nella Francia del primo dopoguerra. Nel film di Chaplin alla condanna per i numerosi omicidi commessi, Verdoux, in sua difesa, mette a nudo l’ipocrisia e la disumanità che regolano i rapporti sociali: “Io Verdoux, sono un misero dilettante come sterminatore al confronto dello sterminio scientifico appena compiuto con la guerra: un omicidio è delinquenza, un milione è eroismo. Il numero legalizza.”

Coloro che avevano pianificato e organizzato la guerra totale, addestrato masse di soldati all’odio, a combattere con l’imperativo di “uccidere o farsi uccidere”, pretendevano che l’armistizio azzerasse improvvisamente le trasformazioni mentali prodotte in milioni di persone dalle esperienze traumatiche, a volte irreversibili, e mai lontanamente immaginate prima. “Eravamo dei cittadini laboriosi, siamo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari” scrisse Robert Musil alla fine della guerra, dove aveva combattuto sul fronte trentino172. Agli occhi degli uomini inebetiti ed estraniati la morte perdeva il suo significato originario e profondo, provocava indifferenza tanto essa diventava orribile normalità. La probabilità e l’inevitabilità della morte, la sua dimensione di massa, la sua frequenza quotidiana e la presenza ossessiva dei cadaveri in decomposizione che non potevano essere recuperati, la privavano del senso di rispetto e compassione.

Nello scenario descritto – sostiene Gibelli -, dominato dalla potenza inesorabile delle artiglierie, dalla disumanità della guerra e dalla sua incolmabile distanza dalla vita, è naturale che i combattenti sperimentino una trasmutazione, il superamento di un confine oltre il quale non si è più se stessi e l’uomo si confonde con la bestia, la vita con la morte 173.

172 Riportato da E. Gentile, La macelleria della modernità, “La Domenica de il Sole 24 Ore”, 30 novembre 2008 173 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., p. 34

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Indifferenza che non riguardava solo chi combatteva, ma anche chi non era al fronte e della guerra conosceva solo ciò che riportavano i giornali, come ebbe a riflettere lo scrittore austriaco Arthur Schnitzler nel suo saggio Sulla guerra e sulla pace: “Quanti ne sono caduti ieri? Quarantamila. Spaventoso! Il giorno dopo arriva la correzione: erano quarantunmila. Batte più forte il nostro cuore per questi mille?” 174. La rassegnazione e la dissociazione vissuta dai soldati, posti nella condizione di sentirsi parte di un feroce meccanismo e la ricerca di una impossibile via di fuga, scompaginava e scardinava ogni paradigma del bene e del male, addormentava le coscienze sino ad annullarle e permetteva di giustificare qualsiasi azione compiuta. Come ha analizzato Mosse, la brutalizzazione della guerra attraverso i ferrei rapporti gerarchici e l’intensità dei combattimenti, l’opera di disumanizzazione del nemico, l’adattamento e l’insensibilità alla morte, rappresentarono un intenso addestramento sul campo che penetrò profondamente nella mente degli uomini, così da contrassegnare il dopoguerra come un periodo in cui a dominare i rapporti politici e sociali sarà principalmente la violenza.

Il prolungarsi degli atteggiamenti degli anni di guerra in tempo di pace incoraggiò una certa brutalizzazione della politica, un’accentuata indifferenza per la vita umana (...) Si trattava soprattutto di un atteggiamento mentale derivato dalla guerra, e dall’accettazione della guerra stessa. L’effetto del processo di brutalizzazione sviluppatosi nel periodo tra le due guerre fu di eccitare gli uomini, di spingerli all’azione contro il nemico politico, oppure di ottundere la sensibilità d uomini e donne di fronte allo spettacolo della crudeltà umana e alla morte 175.

Queste mutazioni mentali erano ben più radicate e introiettate in coloro che scelsero la guerra e non la subirono e che appartenevano ai reparti d’assalto (arditi, corpi franchi, disinfestatori), reparti scelti per condurre le azioni più pericolose, formati da volontari, in molti casi anche da delinquenti comuni o elementi riottosi alla disciplina militare. Eccitati dal gusto e dal piacere di vivere pericolosamente, dall’azione violenta e dal contatto diretto e sanguinario con il nemico. Su questi uomini la guerra, maestra di violenza, esercitava un fascino peculiare, in essa vedevano l’occasione per spezzare i vincoli e le regole imposte da una società disprezzata perché senza nerbo, la possibilità di esprimere e mettere alla prova la propria virilità e mascolinità. A rafforzare il forte legame emotivo tra gli uomini di questi corpi speciali era il cameratismo, vero e proprio ideale di lealtà e libertà maschile all’interno del gruppo, ma energicamente aggressivo all’esterno contro l’indolenza e la decadenza borghese, le rappresentanze politiche e istituzionali della nazione considerate corrotte e inservibili. La forza e lo spirito di questi corpi speciali si sarebbero scagliati, una volta conclusa la guerra, contro tutto ciò che potesse fiaccare o compromettere lo spirito combattivo della nazione e verso i nuovi nemici interni, come i socialisti e i bolscevichi. Per questi uomini la guerra non sarebbe mai terminata, incapaci di ripensare la propria esistenza durante la transizione dalla guerra alla pace e di trovare una ragione di vita che non fosse solo azione e scontro armato con l’avversario. Privati improvvisamente della loro dimensione

174 Riportato in La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e Camillo Zadra, cit., p. 56 175 Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, cit., p.175 85

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese violenta e dello scenario di guerra dove esercitare lo scontro con ferocia e soddisfazione, essi vivevano una profonda frustrazione, con la sensazione del tradimento da parte della patria, della classe politica e della gerarchia militare che, dopo averli addestrati a compiere con efficienza vere e proprie azioni criminali travisate da eroismo, ora li consideravano pericolosi soggetti ingombranti e ingovernabili, da ricondurre al più presto nell’ordine e nella normalità.

III. Le pantalon di Yves Boisset, Francia 1997

La prima guerra mondiale rappresentò l’evento più dirompente per la trasformazione della società europea, un immenso banco di prova dove applicare il pieno controllo degli individui e la loro collocazione all’interno di ingranaggi statuali incomprensibili e immodificabili come ha ben analizzato Antonio Gibelli.

Quel che sembra affiorare è il tratto di un’esperienza tipica del nostro tempo, a partire appunto dalla Grande Guerra, attraverso gli anni tra le due guerre: quando il potere inesorabile di meccanismi e apparati impersonali (pensiamo ad esempio allo stato, alla guerra stessa, ai campi di concentramento, alle varie forme di mobilitazione di massa) invade il privato, mentre grandi eventi sovradeterminano a tal punto la vita del singolo, da provocare la coscienza di esistere su due piani: quello appunto del privato, sempre più esile e assediato, e quello del mondo esterno, in cui non si è più se stessi, si agisce come comparse, non si è e non si conta più nulla, ma che tuttavia si dilata 176.

Nella sua linearità e semplicità Le pantalon di Yves Boisset è un film quasi didattico, in grado di far comprendere con immediatezza i meccanismi di spersonalizzazione e riduzione dell’autonomia degli individui, di selezione e omologazione dei singoli, dell’intervento dello Stato – attraverso il sistema militare - nell’azione di addestramento, disciplinamento e repressione di grandi masse di uomini mobilitati. Yves Boisset è un regista-sceneggiatore dal forte impegno civile e politico che, sin dagli anni settanta, ha indagato a fondo sul controverso tema - quanto mai scabroso per la Francia - della guerra d’Algeria e sull’impiego della tortura da parte dell’esercito (v. cap. 5. Il secondo dopoguerra e la revisione negli anni’90 del XX secolo). Altro tema spesso affrontato da Boisset è quello dei legami del sistema giudiziario con gli influenti poteri politici e finanziari e la sua dipendenza da questi, il suo agire parziale rispetto a quanto riservato alla gente comune. Ne Le pantalon il tema della giustizia, in questo caso militare, è centrale, presentata con il suo volto spietato e inflessibile contro i subalterni chiamati ad indossare una divisa e per questo spogliati di qualsiasi diritto e personalità. Il film è basato sulla storia vera del soldato Lucien Bersot, uno dei seicento soldati - sulle duemilacinquecento condanne emesse dai Consigli di guerra - “fucilato per esempio” (fusillés pour example)177, un modello di giustizia adottato dall’esercito francese per terrorizzare i soldati,

176 A. Gibelli, L’esperienza di guerra. Fonti medico-psichiatrice e antropologiche, in D. Leoni e C. Zadra (a cura di) La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, cit., p. 65 177 Una formula adottata anche dai tribunali straordinari militari italiani, come raccontato da Piero Calamandrei ne Il mio primo processo, riproposto nel 2014 delle Edizioni Henry Beyle, Milano. Il processo era stato intentato contro otto poveri soldati, tutti meridionali e anziani, accusati ingiustamente di “abbandono di posto dinanzi al nemico” di cui aveva assunto la difesa. In realtà gli otto soldati, non appena arrivati sul fronte del Pasubio, erano stati inviati, di notte, ad un paese vicino, senza una guida e senza conoscere i luoghi e, naturalmente, si erano persi. 86

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese rafforzare l’ubbidienza e ripristinare la ferrea disciplina, che diede luogo ad ogni sorta di arbitrio da parte dei comandi. Lucien Bersot, fabbro e affettuoso marito e padre di una figlia, è arruolato all’inizio del conflitto e, per la momentanea carenza di vestiario, gli sono assegnati dei pantaloni bianchi di cotone, anziché quelli di panno rosso. Bersot, nonostante il suo costante pensiero sia rivolto alla famiglia e al desiderio di una licenza per poterla ritrovare, è un bravo soldato, coraggioso e solidale con i compagni. Alle sue ripetute richieste per avere dei pantaloni d’ordinanza, anche per la stagione invernale incombente, gli sono offerti un paio di pantaloni recuperati da un soldato ucciso in battaglia, ancora sporchi di fango, sangue ed escrementi. A questa umiliante e degradante imposizione Lucien Bersot, rivendicando la propria dignità personale, oppone un fermo rifiuto per il quale è punito dal suo ufficiale superiore ad otto giorni di prigione. Una punizione che il comandante del reggimento ritiene insufficiente e inadeguata rispetto alla gravità della disobbedienza e a quanto prescrive il Codice militare. Egli pertanto chiede il giudizio del Consiglio di guerra per dare un forte e inflessibile ammonimento alla truppa. Dopo una parodia di processo sbrigativo e sommario, dove emerge chiaramente l’odio di classe verso i presunti “agitatori” in divisa, Bersot è condannato ad essere “fucilato per esempio”, mentre due commilitoni, che erano intervenuti a suo favore, sono condannati ai lavori forzati. La condanna sarà eseguita il giorno dopo l’emissione della sentenza. 178 Solo nel 1922 Lucien Bersot verrà riabilitato dalla Corte Suprema e il suo nome potrà essere aggiunto all’elenco dei caduti nel monumento eretto nel suo paese di Authoison dedicato ai “Morts pour la patrie”. Al pari di quella industriale, l’organizzazione dell’esercito e della guerra non poteva tollerare alcuna deviazione, anche formale, dalla rigida e gerarchica disciplina, nessuna rivendicazione o manifestazione di interpretazione individuale degli automatismi poteva essere consentita in quanto avrebbe inceppato inevitabilmente i collaudati meccanismi della subordinazione e del consenso. L’incomprensione di questi meccanismi, la loro assurdità e l’apparente mancanza di finalità che non fosse il riempimento dei lunghi vuoti temporali, generavano nei soldati il senso dell’inutilità e dell’illogicità. L’affermazione del controllo della propria esistenza o la resistenza a questo inafferrabile procedimento da parte dei subalterni si scontravano immancabilmente contro l’ottusità e l’assoluta impermeabilità della burocrazia e provocavano l’avvio degli inesorabili dispositivi della giustizia punitiva che nessuna ragione di buon senso sarebbe stata in grado di arrestare. La vicenda del soldato Lucien Bersot è anche l’occasione per il regista Boisset di ridicolizzare i politici e gli alti comandi che, sino ad otto mesi dall’inizio del conflitto, si ostinarono a mantenere per i fanti la vistosa uniforme ottocentesca dai larghi calzoni rossi e dal chepì sempre rosso, simbolo della Francia, ma letale per i soldati che così diventarono un ottimo e facile bersaglio per i tiratori tedeschi. Illuminante è la scena del grottesco defilé organizzato per la scelta delle nuove divise in sostituzione di quelle in uso e dove la massima preoccupazione per i politici e militari è

178 Un anno dopo l’esecuzione di Lucien Bersot, avvenuta il 13 febbraio 1915, il sistema giudiziario militare francese fu modificato con la legge del 27 aprile 1916, prevedendo maggiori garanzie per l’imputato e introducendo il divieto di eseguire le sentenze capitali prima dell’espressione del parere del presidente della Repubblica. 87

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese che esse continuassero a rappresentare al meglio la tradizione francese e non che fossero di una qualche utilità per i soldati.

Qualche tempo prima della guerra – riporta nel suo libro Melograni - il ministro Messimy aveva proposto di abbandonare quella tinta troppo vistosa per un più pratico grigioazzurro o grigioverde, ma era riuscito soltanto a sollevare le più irate proteste. L’”Echo de Paris” aveva scritto che “privare il nostro soldato di ogni nota di colore, di tutto quanto rende vivace il suo aspetto, significa violare contemporaneamente il buon gusto francese e la funzione stessa dell’Esercito”; altri avevano dichiarato che vestire i soldati francesi di un colore inglorioso sarebbe stato lo stesso che dichiarare vincitori i dreyfusards e la massoneria. Un deputato gridò in parlamento: ”Sopprimere i pantaloni rossi? Mai! Le pantalon rouge c’est la France! 179”.

Per contro, in Italia, ricorda sempre Melograni:

Chi avesse visto i fanti marciare verso il fronte nel maggio, avrebbe notato che essi non possedevano l’elmetto, ma un chepì di panno grigioverde. Negli ultimi giorni di maggio, a guerra ormai iniziata, il gen. Cigliana, comandante dell’XI corpo d’armata, si irritò grandemente nel constatare che i chepì delle sue truppe non avevano la rigidezza prescritta dai regolamenti e non lasciò pace ai suoi ufficiali fintantoché essi non riuscirono a scovare nei dintorni il cartone necessario per irrigidire quei flosci copricapo 180.

L’agire inflessibile, immediato e vendicativo della giustizia militare è stata una peculiarità comune a tutti i paesi coinvolti nel conflitto, contraddistinta dal carattere di classe per la durezza e la severità riservata ai semplici soldati (spesso incapaci di difendersi per l’incerta alfabetizzazione) e la particolare indulgenza dimostrata verso le mancanze degli ufficiali, a meno che quest’ultimi non avessero solidarizzato con le manifestazioni di dissenso dei propri sottoposti. Scarsa è invece la documentazione relativa all’applicazione della giustizia sommaria, così frequente nei momenti dell’assalto, sotto i bombardamenti o durante le lunghe e faticose marce di trasferimento, spesso eseguita immediatamente da parte di ufficiali arroganti o vittime del panico. Solo nel 1998 il problema della riabilitazione dei soldati condannati per disobbedienza o diserzione fu sollevato in Francia dall’allora primo ministro socialista Lionel Jospin, in riferimento a quanto accaduto nell’aprile del 1917 a Craonne dove furono fucilati diversi soldati che si ribellarono ai ripetuti assalti, suicidi e infruttuosi, contro le linee tedesche. Sempre nello stesso anno anche in Italia il ministro della difesa Carlo Scognamiglio affrontò la stessa questione, dichiarando al quotidiano "La Stampa" che "i nostri fucilati non furono meno eroici dei commilitoni caduti in combattimento" e che "i veri colpevoli furono i comandanti che tentavano di nascondere la loro incapacità". Le violente polemiche che seguirono, improntate sul presunto tradimento che si sarebbe compiuto rispetto al sacrificio della maggioranza dei combattenti, affossarono qualsiasi iniziativa concreta per una revisione e riabilitazione dei condannati.

Nell’estate del 2014 a Velo Veronese, nell’ambito dell’iniziativa Teatro-verità, è stata messa in scena la rappresentazione Il disertore, la vicenda di Alessandro Anderloni, bersagliere cui era

179 Melograni, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918, cit., p. 32 180 Ibidem, pp. 31-2 88

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese stata negata la licenza per rivedere la moglie morente e la figlioletta, e fuggito dal fronte di Asiago. In prossimità della strada di casa fu riconosciuto e ferito a morte dai carabinieri. Alla fine della guerra il suo nome fu iscritto tra i caduti in guerra nel monumento di Velo Veronese, ma successivamente scalpellato via durante una spedizione di fascisti.

Si trattava – ha scritto Bruna Bianchi - quindi di soldati che non avevano intenzione di abbandonare definitivamente le file dell’esercito e che avevano fino ad allora tenuto buona e ottima condotta. Soprattutto tra i soldati settentrionali prevalsero le fughe brevissime (da 1 a 3 giorni), motivate dal desiderio di riabbracciare i congiunti prima di partire per il fronte, salutare i fratelli in licenza, o semplicemente immergersi per poche ore nell’atmosfera domestica. «Avevo un gran desiderio di rivedere la famiglia», «non ho avuto la forza di resistere al desiderio di tornare a casa», «desideravo riabbracciare i miei prima di tornare in linea», sono spesso le uniche giustificazioni avanzate 181.

IV. La chambre des officiers, di François Dupeyron, Francia 2001

La chambre des officiers di François Dupeyron affronta la dolorosissima e straziante condizione dei militari dal volto devastato e del lungo percorso ospedaliero necessario per giungere a una qualche forma di riabilitazione. E’ un film dove la guerra non è mostrata nei campi di battaglia, ma nelle retrovie, nelle stanze silenziose di un ospedale dove un apposito reparto è riservato alla cura degli ufficiali feriti al viso, lì ricoverati dopo una selezione – gerarchica e di classe – tra i feriti provenienti dal fronte, depositati momentaneamente nei cortili ed esposti alle intemperie sino a che non viene trovato loro un posto. Dupeyron non esita a mettere in mostra i volti distrutti che provocano orrore negli stessi addetti al trasporto dei feriti e dei sanitari, immagini crude e inquietanti che si possono ritrovare solo nei trattati di medicina e chirurgia e difficili da sopportare per lo spettatore. Così com’è difficile sopportare l’intima soddisfazione che pervade i chirurghi nel poter sperimentare nuove tecniche di innesti, trapianti e ricostruzioni su cavie così disponibili e numerose, del loro amore della scienza per la scienza e non per il sollievo e la guarigione di quel materiale umano a disposizione. La rappresentazione del sistema ospedaliero, per quanto limitato al settore privilegiato degli ufficiali, è quanto mai efficace, così come quello del sistema di trasporto dei feriti dal fronte che, per la sua organizzazione e per i mezzi impiegati, era in grado di trasferire enormi quantità di uomini, ma anche di aggiungere sofferenza alla sofferenza. In questo film non c’è solo il dolore del fisico e dello spirito, sicuramente quest’ultimo il più intenso e inconsolabile, degli uomini colpiti dalla guerra, ma anche la profonda estraneità della società verso la guerra non vista, dove i civili esaltati alla partenza dei soldati insegnano loro come comportarsi eroicamente al fronte. Oppure la scena impietosa della visita del ministro al reparto degli ufficiali ricoverati, la cui unica preoccupazione è che il suo discorso sia compreso, e riportato, dalla stampa più che capito da quegli uomini muti e sordi ai quali riesce solo proferire l’augurio di tornare al più presto a combattere e portare a termine il loro comportamento da eroi.

181 B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918, Bulzoni, Roma 2001, p.12 89

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

La chambre des officiers è tratto dall’omonimo romanzo di Marc Dugain, pubblicato nel 1998 e ispirato all’esperienza di guerra del nonno dello scrittore francese. Una drammatica rappresentazione di ciò che doveva essere la realtà di un ospedale militare la ritroviamo nel film tedesco del 1930 Westfront1918 - Vier von der Infanterie del regista George Wihelm Pabts, dallo stile quasi documentaristico, dove i dialoghi sono ridotti al minimo e a predominare sono i rumori della guerra. E’impressionante il realismo della scena ambientata in una chiesa adibita ad ospedale, dove vagano uomini impazziti accanto a uomini feriti nel corpo, destinati ad essere operati senza anestesia o lasciati in attesa di una morte liberatrice. Per la sua forte requisitoria contro gli orrori della guerra, che provocò l’ira del movimento nazista che nella guerra vedeva la redenzione della Germania, significativamente il film si conclude con la scritta “ENDE ?!”

Durante il periodo della Grande Guerra, nel momento in cui il valore della vita aveva perso ogni significato e dimensione, e incessante era la necessità di sostituire gli uomini caduti nei ripetuti e massacranti assalti, paradossalmente si svilupparono e perfezionarono i servizi sanitari e di riabilitazione. Sulla base delle esperienze maturate nelle precedenti guerre, soprattutto quella civile americana e quella russo-giapponese, con la prima guerra mondiale si organizzò a livello industriale sia la distruzione su vasta scala che lo “smaltimento dei suoi prodotti primari” (secondo la definizione di Antonio Gibelli): i morti e i feriti, quegli uomini non più validi al combattimento, da ricomporre e ripristinare, ove possibile, per un nuovo consumo. Dall’industrialismo furono mutuate l’efficienza e la razionalità per realizzare una rete di trasporti dei feriti con treni e navi ospedale, che subito entrarono nell’immaginario collettivo nella loro forma pietosa e compassionevole, oscurando così l’orrore dei prodotti creati dalla guerra. Contemporaneamente era un sistema che mostrava tutta la sua impotenza quando la produzione di morti e feriti superava di gran lunga la capacità di smaltimento e di cura, con i morti insepolti per mesi e anni e che troveranno riposo solo a guerra finita o ritrovati ancora dopo decenni. In ogni paese belligerante il dopoguerra si popolò di una moltitudine di invalidi e mutilati (solo in Europa circa dieci milioni), cui deve essere trovata una nuova collocazione sociale e produttiva, spesso glorificati e usati nelle celebrazioni pubbliche, ma in realtà abbandonati a se stessi e alla repulsione che suscitavano nella vita quotidiana.

Poi c’era chi dalla guerra era stato sfregiato per sempre nel corpo e nell’anima. Quella stessa Europa che ballava serenamente il valzer della Belle Epoque, dopo quattro anni di follia appariva come un immenso ospedale da campo. Milioni di invalidi, storpi, poveri mostri deturpati nel viso da qualche proiettile o granata, affollavano le vie di ogni città del vecchio continente, tremando e chiedendo l’elemosina 182.

Come la guerra aveva sviluppato nuove tecnologie di devastazione, così aveva dato impulso a nuove specializzazioni chirurgiche, a inedite tecniche di ricostruzione e sostituzione delle parti

182 A. Tortato, I sopravvissuti. Le paure che restano, “Corriere della Sera” 30 agosto 2014 90

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese del corpo distrutte o deformate, in particolare quella dei volti devastati, tecnica particolarmente sviluppata in Italia anche per l’apporto dell’oculistica, dell’odontoiatria e dell’arte scultoria. La classe medica compì osservazioni, analisi, studiò rimedi per far fronte ai danni – fisici e mentali – prodotti dalla guerra e per il miglior impiego e ripristino degli uomini. Questo generò un’imponente letteratura, integrandosi organicamente nel discorso patriottico e propagandistico della mobilitazione generale, anche attraverso l’iconografia dell’ufficiale medico che soccorreva, curava e assisteva i soldati sotto il fuoco nemico o in condizioni pericolose e privo di strumenti e medicinali.

Nella letteratura specializzata – ha scritto Gibelli -, nell’osservazione professionale, i medici appaiono i più precisi interpreti della guerra come olocausto industriale e come follia, come esperienza che trasforma e deforma dal punto di vista fisico e mentale, intere generazioni. Deterioramento e deformazione, corruzione e contaminazione sono la materia abituale del loro lavoro, il tessuto stesso del loro discorso. Essi colgono il versante biologico di un conflitto che ha enfatizzato al massimo le sue valenze ideologiche; portano in primo piano la follia della guerra che ha esaltato al massimo le sue componenti sacrali. Ciò che altrove appare coperto dalla mistica del sacrificio o sublimato dalla retorica patriottica, oscurato dal pudore o dal bisogno di autodifesa psicologica, dai limiti delle risorse linguistiche o dall’intenzionale falsificazione dei linguaggi ufficiali, qui diventa oggetto pieno e legittimo di osservazione, di argomentazione, di discorso: non la guerra bella e santa, ma la guerra oscena, insuperabile produttrice di mostri 183.

Alla fine della guerra, la frenesia commemorativa dei caduti per la Patria era pari alla repulsione nei confronti di quei corpi mostruosi e deformi che, con la loro imbarazzante presenza, ricordavano impietosamente ciò che si voleva rapidamente cancellare, come raccontato da Carlo Ossola in un suo articolo:

Meglio non tornare, per essere testimoni: le guerre si raccontano da casa, si leggono sui giornali, mal’ingombro dei corpi, dei moncherini, dei “reduci” offende la pace delle anime: il reduce è un residuo, non uno che ha “resistito”, un residuo che porta addosso brandelli di quella guerra che bisogna presto dimenticare per tornare a fare affari (…) Testimoni ingombranti, quei reduci, segnali che nulla era mutato, ma tutto s’era aggravato 184.

Particolarmente in Francia fu attivo l’associazionismo tra gli invalidi di guerra, già operante durante il conflitto. “Uno dei gruppi più combattivi era l’associazione che riuniva gli ex combattenti con ferite al volto così tremende che s’erano decisi a comprare una propria tenuta per passare insieme le festività e starsene in pace tra loro 185”. Si trattava dell’Unione dei feriti al volto, le cosiddette “gueules cassées” – le facce sfigurate – con migliaia di aderenti, perché l’elevato numero dei feriti alla testa e al volto era dovuto alle caratteristiche proprie della guerra di trincea. Molti di questi feriti, sfigurati in modo talmente orribile, trascorreranno il resto della loro esistenza in ospedale sino alla morte.

183 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., pp. 67-8 184 C. Ossola, Colpevoli di essere tornati, “La domenica de Il Sole 24 Ore”, 15 giugno 2014 185 Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, cit., pp. 66-7 91

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V. Un long dimanche de fiançailles (Una lunga domenica di passioni) di Jean-Pierre Jeunet, Francia 2004

Uno degli interrogativi più ricorrenti, non solo da parte degli storici, è come milioni di cittadini europei abbiano potuto sopportare, per cinque anni, condizioni di vita estreme, ridotti ad uno stato di regressione quasi animale ed essere sottoposti a tensioni, stimoli ed emozioni smisurate nella loro violenza, di intensità mai conosciute e immaginate prima. I sacrifici richiesti ai soldati, ingiustificabili e incomparabili rispetto ai risultati ottenuti, la stanchezza della guerra e la voglia di pace, i soprusi e le vessazioni dei comandi, provocarono diserzioni, ribellioni e ammutinamenti, di intensità ben maggiore nell’esercito francese, nel 1917, che in quello italiano. Questo, però, non incise assolutamente sulla volontà dei governi e dei comandi militari di proseguire la guerra, di mantenere gli uomini in armi, se non quello di correggere e mitigare (come in Italia dopo Caporetto) il sistema dei riposi e delle licenze, del regime alimentare, degli svaghi e degli strumenti del consenso. Quello che restava immutata era l’impossibilità di nascondersi e la preclusione di qualsiasi via di fuga per chiunque volesse sottrarsi al cataclisma prodotto dalla modernità della prima guerra mondiale, se non tentando la strada dell’autolesionismo o della follia simulata (quando non subentrava, molto più frequentemente, quella reale).

In Un long dimanche de fiançailles (Una lunga domenica di passioni) la guerra non è lo sfondo occasionale dove si svolge una storia d’amore, ma una parte ben distinta – quasi autonoma –contrapposta, nella sua oscenità, al fantastico mondo della protagonista. Da una parte c’è la storia della ricerca ossessiva e incessante di una giovane donna per il suo fidanzato, condannato alla pena capitale insieme ad altri commilitoni per autolesionismo, da eseguirsi non con il plotone di esecuzione, ma con l’abbandono nella terra di nessuno tra le trincee della Somme e sotto il fuoco nemico (una pratica in vigore anche nell’esercito italiano). Dall’altra il film di Jean-Pierre Jeunet è una potente e impressionante ricostruzione dell’essenza della guerra e delle conseguenze fisiche e mentali prodotte sui soldati, dei loro tentativi disperati di fuga per allontanarsi dall’orrore sempre più insopportabile. Con estremo e crudo realismo il regista è in grado di farci precipitare profondamente nell’ambiente caotico e degradato delle trincee, dove convivono uomini, topi, pidocchi e cadaveri in putrefazione, dove il fango e gli escrementi sommergono ogni cosa. In questo allucinante contesto i soldati smarriscono la loro identità, sbigottiti, impotenti come sono di dominare una realtà sovrastante e che non lascia scampo, un universo totalizzante e concentrazionario impossibile da modificare e nel quale il pensiero della fuga – reale o virtuale - diventa ossessivo.

Era una realtà impossibile da comunicare ai propri cari per l’incomprensione e l’estraneità che essa generava in chi la viveva, non solo quindi per il timore della censura che vagliava ogni lettera spedita. Lo smarrimento, la dissociazione e la confusione mentale prodotti dalla guerra portavano molti uomini a rimuovere la tragica esperienza, a rifugiarsi nella smemoratezza, una sorta di fuga interiore, come accade ad uno dei protagonisti del film.

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

La prima guerra tecnologica di massa – secondo Gibelli - costituisce un grande campo di riflessione intorno ai rapporti tra evento e memoria, tra memoria e oblio. Essa sembra determinare insieme una difficoltà di ricordare e una difficoltà di dimenticare, in altre parole apre una contraddizione tra il bisogno di rimuovere e la coazione a testimoniare, tra la coscienza dell’essere vittime e quella opposta di essere divenuti protagonisti, tra il senso della grandezza e quello dell’orrore. L’evento supera la possibilità del racconto, e contemporaneamente il desiderio di raccontare per iscritto (…) appare coessenziale all’evento stesso, e quasi “fatale” 186.

In questo film è visivamente impressionante la rappresentazione degli assalti condotti sotto il fuoco delle artiglierie che provocavano il cosiddetto “delirio sensoriale di guerra”, lo smarrimento e il disorientamento a seguito della prolungata e intensa esposizione della vista e dell’udito a sollecitazioni e stimoli che l’essere umano non è in grado di sopportare e assimilare. Con grande efficacia Jean-Pierre Jeunet ricostruisce le reazioni e le metamorfosi dei soldati sottoposti alla violenza dei combattimenti: l’impazzimento improvviso, il mutismo, l’immobilismo catatonico sotto il fuoco, la fuga disordinata e senza meta, a volte direttamente verso il fuoco nemico. Un fenomeno che coinvolse tutti gli eserciti e dalle dimensioni ragguardevoli, al punto che la scienza medica e psichiatrica si trovò in difficoltà ad affrontare queste problematiche ricorrendo ai canoni classici allora in uso, tanto la novità era sconvolgente e sconosciuta.

I soldati – ha scritto Bruna Bianchi - riproducono in ospedale, in manicomio, le posizioni di costernazione assunte sotto il fuoco: ricurvi, le braccia incrociate sul ventre, la testa reclinata, nel disperato tentativo di nascondersi attraverso l’immobilità. La fissità dello sguardo, l’impenetrabilità dell’espressione, i sordomutismi, le paralisi, le amnesie, esprimono il desiderio di allontanare dalla coscienza le percezioni e i ricordi del mondo esterno e di abbandonarsi all’automatismo di una vita inconsapevole, liberati dall’ossessione del rumore 187.

Follia, malattie e nevrosi diventavano le principali vie di rifiuto e di fuga dalla realtà della guerra, manifestazioni contro le quali particolarmente severo era il comportamento della classe medica militarizzata (funzionale alla disumanità della giustizia militare e al sadismo dei comandi), impegnata a smascherare le simulazioni o ad accelerare i tempi di riadattamento alla vita di trincea e al combattimento. Il riferimento all’autolesionismo è predominante in Una lunga domenica di passioni, il ricorso ad una forma estrema per uscire da un assedio incomprensibile e insopportabile, che assunse maggiore frequenza con il prolungarsi della guerra (in Italia soprattutto tra i soldati-contadini). E’ possibile solo intuire il grado di disperazione e ripulsa raggiunto da questi uomini, disposti ad imporsi dolorosissime mutilazioni e pratiche autolesioniste a volte inimmaginabili. Contro gli autolesionisti si accanirono in particolar modo medici e giustizia punitiva, sia perché assimilavano l’atto alla codardia, al pari della diserzione, sia perché essi erano considerati la feccia, gli amorali, il grado infimo dei soldati al fronte, gli antipatriottici per eccellenza. Una lunga domenica di passioni è tratto dall’omonimo romanzo di Sébastien Japrisot (pseudonimo dello scrittore corso Jean-Baptiste Rossi) del 1991. La ricostruzione vivida e intensa degli scenari di guerra è stata possibile, oltre che da un’accurata ricerca iconografica, grazie ad un

186 Gibelli, L’officina della guerra, la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, cit., p. 47

187 B. Bianchi, Delirio, smemoratezza e fuga. Il soldato e la patologia della paura, in La Grande Guerra, esperienza, memoria, immagini, cit., pp. 73-4 93

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese notevole impegno finanziario che il cinema francese del ventunesimo secolo riserva per le produzioni che vogliono competere con i prodotti hollywoodiani sul mercato internazionale (in precedenza, nel 2001, Jean-Pierre Jeunet aveva diretto Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain (Il favoloso mondo di Amélie). Diverse scene e situazioni di Una lunga domenica di passioni sono chiaramente ispirate ai precedenti film di Bertrand Tavernier, in particolare il terrore e la paralisi che annichiliscono i soldati durante gli assalti, la figura dell’investigatore truffaldino che si offre per la ricerca dei soldati scomparsi, la visita dei familiari ai campi di battaglia nel dopoguerra.

VI. Joyeux Noël (Joyeux Noël - Una verità dimenticata dalla storia) di Christian Carion, Francia/Germania/Regno Unito/ Belgio/Romania, 2005

Durante il primo Natale di guerra, quando – nella presunzione di chi aveva scatenato la guerra - tutto doveva essere già concluso, in numerose parti del fronte occidentale si verificò la sospensione dei combattimenti per scelta spontanea dei soldati. Sospensioni diffuse che non rientravano nell’ambito delle tregue di volta in volta concordate per consentire il recupero e il seppellimento dei morti nelle precedenti battaglie o per ripristinare le trincee e i rifugi distrutti dalle piogge incessanti. In quell’occasione si concretizzarono vere e proprie fraternizzazioni tra i soldati degli opposti eserciti, ormai da tempo impantanati e immobilizzati nelle trincee che distanziavano anche pochi metri una dall’altra. Generalmente l’iniziativa fu presa da parte tedesca e coinvolse soprattutto soldati britannici, molto meno quelli francesi e belgi che si trovavano di fronte all’occupazione dei loro territori e alle notizie propagandate sulle terribili vessazioni e violenze compiute verso i civili.

Joyeux Noël (Joyeux Noël - Una verità dimenticata dalla storia) è un film del 2005, sceneggiato e diretto dal regista francese Christian Carion, ispirato agli episodi di tregua tacita e fraternizzazione accaduti sul fronte della provincia francese dell’Artois, che coinvolsero truppe francesi, tedesche e scozzesi alla vigilia del giorno di Natale del 1914. La pluralità dei paesi coinvolti nella produzione del film dimostra la volontà privilegiare i sentimenti di umanità e di pace contrapposti a una guerra disumana che, per la sua totalità e dimensione, non aveva precedenti nella storia. Giuseppe Chigi sostiene che, nella costruzione della nuova Europa, la politica dei governi mira a ricomporre e rimuovere le lacerazioni che hanno separato e contrapposto i popoli europei e pertanto:

Crediamo non sia del tutto casuale che nel primo decennio del Duemila appaiano alcuni film sulla fraternizzazione dei soldati: La Tréve de Noël (2003) del britannico Vikram Jayanti, La Tranchée des espoirs (2003) di Jean-Louis Lorenzi, Joyeux Noël - Una verità dimenticata dalla storia (Joyeux Noël, 2005) di Christian Carion, il docu-film Premier Noël dans les Tranchées (2005) del tedesco Michaël Gaumnitz. L’eccessiva attenzione a episodi che gli storici definiscono tanto marginali quanto rari, può essere un fenomeno cinematografico accidentale ma in armonia con la ricomposizione dei traumi che hanno diviso i popoli europei nel corso del Novecento (…) Il “cinema della fraternizzazione” sopisce le contraddizioni e acquieta il pubblico ormai europeo; il che si può considerare una variante dell’amnesia

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che colpiva molti soldati combattenti che cancellavano il proprio vissuto troppo traumatico per essere ricordato 188.

Pertanto Joyeux Noël è un film che non ha nulla dell’irriverenza e del sarcasmo che caratterizzano le precedenti opere di Bertrand Tavernier o della rappresentazione ultrarealistica della violenza della guerra di Jean-Pierre Jeunet. Christian Carion segue con uno sguardo di comprensione e partecipazione l’evolversi delle situazioni che porteranno all’incontro degli uomini in armi nella “terra di nessuno” che da quel momento, come descritto da Bruna Bianchi, diventerà la “terra di tutti”189. La scelta del regista di tenere lontana la guerra dagli attimi di quiete e tranquillità vissuti dai combattenti, al riparo dall’autoritarismo degli alti comandi che festeggiano il Natale in comode e riscaldate ville, sottende all’idea che nessuna guerra non sarebbe mai scoppiata se fosse stata rispettata la volontà dei popoli. La dinamica del racconto cinematografico, che contrappone nettamente la volontà di guerra (da parte di pochi) a quella di pace (da parte di tutti), non permette certo di affrontare il complesso, e mai risolto, problema posto dall’indubbio consenso che in alcuni paesi si manifestò all’inizio del conflitto o della tenuta complessiva degli eserciti sino a pochi mesi dalla sua fine. Come ha rilevato Isnenghi “della statualità dell’epoca fa parte intrinsecamente il fatto di essere riusciti a mobilitare sei milioni di uomini e di averli tenuti insieme, nonostante lo stillicidio di diserzioni e reati, che però non mutano la linea di marcia complessiva”190. Questa lettura del conflitto da parte di Carion porta il regista anche a rappresentare situazioni per lo meno inverosimili, forzatamente necessarie per offrire una visione umanitaria e di fratellanza universale, come quella dei soldati avversari ospitati nelle trincee nemiche per sfuggire ai bombardamenti. Non per questo Joyeux Noël non affronta altri aspetti del conflitto, come l’indottrinamento patriottico e sciovinista coltivato nelle scuole. Nella scena iniziale del film tre scolari, ognuno appartenente alle nazioni in conflitto sul fronte occidentale, recita una poesia che elenca le ragioni per cui è doveroso sostenere l’impegno bellico del proprio paese. Le parole insegnate a questi ragazzi sono terribili e crudeli, esse descrivono il nemico come “una razza da sterminare”, uomini e donne criminali, colmi di odio e di fiele che “scavano la tomba della nazione”. Anche l’esaltazione giovanile per la guerra imminente è ben rappresentata dal giovane scozzese entusiasta dell’accoglimento della sua domanda di arruolamento volontario (“finalmente succede qualcosa nelle nostre vite”), una manifestazione di vitalità e virilità che coinvolse buona parte della gioventù colta e borghese europea, studiata approfonditamente da Mosse.

I volontari si concentrarono su un certo numero di ideali specifici, che ci aiutano a comprendere meglio perché tanti giovani fossero non solo disposti, ma impazienti di sacrificarsi sull’altare della patria, per dirla con le loro parole. In una società sulla soglia dell’età moderna, l’ideale del cameratismo e la ricerca di un senso del vivere, che videro per la prima volta la luce in occasione di queste guerre, rappresentavano bisogni reali. E lo stesso è vero della conferma della propria virilità che i volontari

188 Chigi, Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande Guerra, cit., pp. 179-80 189 Cfr. B. Bianchi, La tregua di Natale del 1914, Radio Tre, “Wikiradio” del 25.12.2012 190 Isnenghi, Dieci lezioni sull’Italia contemporanea, cit., p.172 95

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cercavano nella guerra: una guerra che speravano sarebbe servita ad infondere nuova energia nella loro vita personale e in quella della nazione 191.

L’intervento censorio e repressivo del vescovo cattolico scozzese nei confronti del cappellano che ha celebrato la messa di Natale di fronte a tutti i soldati riuniti nella terra di nessuno, è emblematico del sostegno alla guerra assunto dai vari episcopati nazionali, nonostante lo sforzo continuo di papa Benedetto XV di mantenere una posizione di perfetta imparzialità tra tutti i paesi belligeranti, nella costante ricerca di una “pace giusta e duratura” per porre fine all’‟orribile bufera abbattuta sull’Europa”192. Il tremendo linguaggio veterotestamentario usato dal vescovo nella sua omelia ai soldati identifica la guerra in corso come una Santa Crociata contro le forze del male che minacciano la civiltà, per cui il dovere di ogni soldato britannico – in qualità di difensore della civiltà e della fede - è quello di uccidere il maggior numero di tedeschi, di ogni età e non solo quelli in armi, poiché non sono figli di Dio.

Naturalmente dopo gli episodi di fraternizzazione la repressione delle autorità militari non si farà attendere e sarà particolarmente spietata: esse erano perfettamente consapevoli che la reciproca conoscenza dei soldati e la scoperta di essere accomunati nella stessa tragedia comportava una seria minaccia alla volontà di proseguire la guerra contro un nemico che non si era dimostrato né un barbaro, né un mostro come la propaganda lo aveva dipinto. E’ lo stesso problema di coscienza magistralmente descritto da Emilio Lussu nel suo romanzo Un anno sull’Altipiano quando, non visto, si trova quasi faccia a faccia con un ufficiale austriaco intento a bere il caffè tranquillamente. Lussu ricorda lui come facesse la guerra “coscientemente” e come la giustificasse “moralmente e politicamente”:

La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati … che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico …, avevo il dovere di tirare. … Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso … Tirare così, a pochi passi, su un uomo … come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido” è un’altra. E’ assolutamente un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo 193.

Sulle unità dei soldati francesi e sugli ufficiali che parteciparono all’interruzione delle ostilità si abbatté la durissima reazione delle gerarchie militari e l’azione della giustizia militare, decise a procedere inesorabilmente contro le “truppe contaminate”, così definite nelle relazioni conclusive delle indagini svolte sugli avvenimenti del Natale del ’14. Oltre agli interventi disciplinari e punitivi, fu particolarmente deciso e risoluto l’intervento di politici e militari perché nel paese nulla si

191 Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, cit., p. 22 192 Dalla Lettera del S. Padre Benedetto XV ai Capi dei popoli belligeranti del 1° agosto 1917 193 Lussu, Un anno sull’Altipiano, cit., pp. 137-8 (L’episodio descritto è stato ripreso anche nel film di Monicelli La Grande Guerra)

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese sapesse di quanto avvenuto: occorreva cancellare ogni memoria della fraternizzazione avvenuta, una seconda condanna per quegli uomini che si erano momentaneamente sottratti alla guerra e alla logica del nemico sanguinario. Negli anni seguenti analoghe manifestazioni di fraternizzazione non furono più ripetute, le autorità militari intervennero preventivamente con estrema fermezza, a volte intensificando l’attività dell’artiglieria proprio in coincidenza del periodo natalizio. Inoltre sui campi di battaglia aveva fatto nel frattempo la comparsa dei gas velenosi, che avevano sparso il terrore tra i soldati, già oltremodo induriti nell’animo dagli anni di guerra e sempre più disposti all’insubordinazione che alla fraternizzazione. Per recuperare e tener viva la memoria di questo “atto di pace in tempo di guerra”, in Francia, con il sostegno della regione Nord-Pas de Calais – cha ha partecipato alla realizzazione del film Joyeux Noël - nel 2005 è stata fondata l’Association Nöel 14. Presidente dell’Association Nöel 14 è il regista Bertrand Tavernier e Christian Carion ne è il direttore.

A dimostrazione che fraternizzazioni e tregue informali, che trasformavano quelli che in precedenza erano nemici in compagni di sventura, avvenivano un po’ su tutti i fronti di guerra è una lettera (naturalmente bloccata dalla censura militare) di un soldato italiano:

Oggi la S.festa di risurrezione ne cia portato, anche a noi poveri soldati al fronte, alcune ore di quella Pace da tanto sospirata .... Nemmeno un colpo di fucile si fa più sentire. Delle bandieruole bianche sventolano dalla parte del nemico, e dei gruppi si staccano, venendo verso di noi. Facciamo anche noi altrettanto, andiamo incontro loro, li incontriamo, ci diamo amichevolmente la mano scambiandosi dei zigareti e tabacco, e pane. Pasiamo alcune ore per il campo pasegiando insieme, che per noi era divenuto un paradiso terrestre. ma ai che un colpo di cannone tirato in aria da una parte e dall'altra, si fa sentire il segnale della separazione. Ci separiamo malvolentieri perché sapevamo che tornavamo nemici 194.

194 Riportato in G.Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp.378-79. 97

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Conclusioni

Nonostante nei primi quindici anni del ventesimo secolo il cinema rappresentasse una delle più importanti espressioni della modernità esso non ha saputo, né potuto, mostrare la prima guerra moderna nella sua reale dimensione durante il suo svolgimento, nemmeno a livello documentario. La “militarizzazione” del cinema in ogni paese, come tutti gli altri settori della società considerati essenziali allo sforzo bellico, ha imposto il racconto al pubblico di un’altra guerra: immaginaria, trasfigurata e depurata dall’inaudita e inedita violenza insita nel primo conflitto mondiale. All’opera di censura e di rigido controllo si aggiungevano le difficoltà tecniche del mezzo cinematografico. In primo luogo la mancanza del sonoro non permetteva di trasmettere agli spettatori la sensazione di stordimento e straniamento provocata dagli incessanti bombardamenti sui soldati rintanati nelle trincee, mentre le ingombranti e poco maneggevoli cineprese impedivano di dare un ordine alle riprese di una guerra per sua natura caotica, disordinata e dove le masse si muovevano e si scontravano in modo indistinguibile. Quando, a partire dalla fine degli anni venti, in tutta Europa – particolarmente in Francia e in Germania durante la repubblica di Weimar - il cinema fu in grado di ripensare la guerra e confrontarsi con essa libero dalle mitologie e dalla retorica patriottica, in Italia il fascismo non solo si era consolidato come regime sopprimendo ogni residuo di libertà, ma aveva precluso ogni possibilità al cinema italiano di affrontare la Grande Guerra con altri occhi, avendolo rinchiuso in un asfittico e provinciale ambito culturale. Nel secondo dopoguerra, il cinema italiano, ansioso di recuperare la libertà di espressione negata per vent’anni, non esitava ad affrontare e rappresentare la tragica eredità lasciata dall’irresponsabile avventura fascista. Nonostante l’opprimente atmosfera di restaurazione seguita alla breve stagione del neorealismo, il cinema sarà in grado di mettere in scena, pur se nella forma originale della “commedia all’italiana”, la Grande Guerra dopo quarant’anni dalla sua conclusione, con un film che non concedeva nulla al mito e alla memoria ufficiale continuamente replicati nella società. Per il cinema italiano, e non solo, era quasi dover recuperare il tempo perduto, al contrario del cinema francese che si misurerà con il grande conflitto solo negli anni novanta del ventesimo secolo, pur se nel periodo tra le due guerre aveva prodotto il capolavoro de La grande illusione. Nel cinema francese ritroviamo alcune costanti che appartengono a quasi tutti i film esaminati: il forte senso del cameratismo tra i soldati, posto quasi come unico valore dell’esperienza di guerra; la denuncia impietosa dell’arroganza, dell’autoritarismo e della crudeltà degli alti comandi – ripresi, non casualmente, sempre all’interno di ville lussuose o nel corso di ricevimenti danzanti -; la natura spietata e terrorizzante della giustizia militare. Il cinema italiano, purtroppo, non ha mai allargato il suo sguardo sulle pagine più infamanti e dolorose della guerra, come la sorte dei prigionieri italiani, condannati alla morte certa o ad un’esistenza miserabile dal cinismo dimostrato dalla classe dirigente politico-militare; la sorte delle migliaia di sfollati dalle zone del conflitto e le violenze subite dalla popolazioni civili non solo da parte dell’esercito austro-ungarico, ma anche da quello italiano in fuga da Caporetto.

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Diversi sono stati i registri impiegati dal cinema per denunciare l’oscenità della guerra: da quello apocalittico di Abel Gance al lirismo di Jean Renoir; da quello ironico e sarcastico di Bertrand Tavernier al tragicomico di Mario Monicelli, sino alla radicale opposizione di Francesco Rosi e di Ermanno Olmi. Vorrei concludere questo lavoro riportando le frasi conclusive del diario di guerra di un semplice soldato che ha studiato sino alla seconda elementare, il bersagliere Giuseppe Garzoni, friulano, così lontane ed estranee dalla memorialistica colta che ha modellato il mito della Grande Guerra, ma in grado di trasmettere tutta l’angoscia di una guerra subita e la speranza di una pace che non sia una tregua in attesa del prossimo conflitto.

Termino il mio scrito e ricordo. Sono prigioniero con tutti i miei compagni d’armi augurando sinceramente che in europpa cessi il teribbile flagelo che gitta nel lutto tante povere madri e spose ecc. si stabilisca unna pacce che tutti i poppoli siano sodisfatti. Sollo così si avrà unna pacce durevolle e sincera della cuale tutti abbiamo bisogno e ritorni il mondo alle sue civili istitusioni di lavoro e di progresso 195.

MAUDITE SOIT LA GUERRE Monumento ai caduti della Grande Guerra nel comune francese di Gentioux-Pigerolles

195 Riportato in Q. Antonelli, Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte. Donzelli Editore, Roma 2014, p, 162

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Schede dei film

Les croix de bois di Raymond Bernard, Francia 1932 Interpreti: Pierre Blanchar, Gabriel Gabrio, Charles Vanel, Raymond Aimos, Antonin Artaud. Sceneggiatura: Raymond Bernard, André Lang. Fotografia: Jules Krüger. Musica: Lucienne Grumberg. Produzione: Pathé- Natan DCP. Durata: 115’. B/N

La Grande illusion (La grande illusione) di Jean Renoir, Francia 1937 Interpreti: Jean Gabin, Dita Parlo, Pierre Fresnay, Erich von Stroheim , Marcel Dalio. Sceneggiatura: Jean Renoir, Charles Spaak. Fotografia: Christian Matras. Musica: Joseph Kosma. Produzione: Réalisation d’Art Cinématographique (R.A.C.). Durata: 114'. B/N

J’accuse di Abel Gance, Francia 1938 Interpreti: Victor Francen, Line Moro, Marie Lou, Jean Max, Jean-Louis Barrault, Paul Amiot, Marcel Delaitre, Renée Devillers. Sceneggiatura: Abel Gance e Steve Passeur. Musica: Henry Verdun. Durata: 116’. B/N

La Grande Guerra di Mario Monicelli, Italia/Francia 1959 Interpreti: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Folco Lulli, Bernard Blier, Romolo Valli, Vittorio Sanipoli, Nicola Arigliano, Mario Valdemarin, Tiberio Murgia, Livio Lorenzon, Ferruccio Amendola. Sceneggiatura: Mario Monicelli, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Luciano Vincenzoni. Fotografia: Leonida Barboni, Roberto Gerardi, Giuseppe Serrandi, Giuseppe Rotunno. Musica: Nino Rota. Produzione: Dino de Laurentiis Cinematografica (Roma), Gray-Film (Parigi). Durata 135’. B/N

La Marcia su Roma di Dino Risi, Italia/Francia 1962 Interpreti: Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Roger Hanin, Mario Brega, Gianpiero Albertini. Sceneggiatura: Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Ettore Scola, Ruggero Maccari, Alessandro Continenza, Ghigo De Chiara. Fotografia: Alfio Contini. Musica: Marcello Giombini. Produzione: Mario Cecchi Gori (Roma), Orsay Film (Parigi). Durata: 94’

I recuperanti di Ermanno Olmi, Italia 1969 Interpreti: Antonio Lunardi, Andreino Carli, Alessandra Micheletto, Pietro Tolin, Marilena Rossi, Ivano Frigo, Oreste Costa. Soggetto e Sceneggiatura: Ermanno Olmi, Tullio Kezich, Mario Rigoni Stern. Fotografia: Ermanno Olmi. Produzione: Rai Radio Televisione Italiana Musica: Gianni Ferrio. Durata: 96’

Uomini contro di Francesco Rosi, Italia/Jugoslavia 1970 Interpreti: Mark Frechette, Alain Cuny, Gian Maria Volontè, Gianpiero Albertini, Pier Paolo Capponi, Franco Graziosi, Alberto Mastino, Brunetto del Vita, Luigi Pignatelli. Soggetto: da “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu. Sceneggiatura: Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Tonino Guerra. Fotografia: Pasquale De Santi. Musica: Piero Piccioni. Produzione: Prima Cinematografica (Roma), Jadran Film (Zagabria). Durata: 97’

La sciantosa di Alfredo Giannetti, Italia 1971 Interpreti: Anna Magnani, Massimo Ranieri, Rosita Pisano, Nico Pepe. Sceneggiatura: Alfredo Giannetti. Fotografia: Leonida Barboni. Musica: Ennio Morricone. Produzione: Rai Radio Televisione Italiana. Durata: 92’

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La vie et rien d'autre (La vita e niente altro) di Bertrand Tavernier, Francia 1989 Interpreti: Philippe Noiret, Sabine Azema, Pascale Vignal e Maurice Barrier. Soggetto e sceneggiatura: Jean Cosmos e Bertrand Tavernier. Fotografia: Bruno De Keyzer. Musica: Oswald d'Andrea. Produzione: Hachette Première, AB Films. Durata: 135’

Capitaine Conan (Capitan Conan) di Bertrand Tavernier, Francia 1996 Interpreti: François Bereleand, Olivier Bruhnes, Jean Claude Calon, Franck Jazede, Daniel Langlet, Samuel Le Bihan, Bernard Le Coq, François Levantal, Christophe Odent, Frederic Pierrot, Catherine Rich. Soggetto: dal romanzo omonimo di Roger Vercel. Sceneggiatura: Jean Cosmos e Bertrand Tavernier. . Fotografia: Alain Choquart. Musica: Oswald d'Andrea. Produzione: Little Bear, Les Films Alan Sarde, Tf1 Film Production. Durata: 127’

Le pantalon di Yves Boisset, Francia 1997 Interpreti: Wadeck Stanczak, Philippe Volter, Bernard-Pierre Donnadieu, Marie Verdi . Sceneggiatura: Alain Scoff, Yves Boisset. Fotografia: Dominique Chapuis. Musica: Angélique e Jean-Claude Nachon. Produzione: France 2 Cinéma. Durata: 90’

La chambre des officiers, di François Dupeyron, Francia 2001 Interpreti: Eric Caravaca, Denis Podalydès, Grégori Derangère, Sabine Azéma, André Dussollier, Isabelle Renauld, Géraldine Pailhas, Jean-Michel Portal, Guy Tréjan. Sceneggiatura: François Dupeyron. Fotografia: Tetsuo Nagata. Musica: Arvo Pärt. Produzione: ARP, France 2 Cinéma. Durata: 135’

Un long dimanche de fiançailles (Una lunga domenica di passioni) di Jean-Pierre Jeunet, Francia 2004 Interpreti: Audrey Tautou, Gaspard Ulliel, Dominique Pinon, Clovis Cornillac, Jérôme Kircher, Chantal Neuwirth, Albert Dupontel, Denis Lavant, Jean-Pierre Becker, Dominique Bettenfeld, Jean-Pierre Darroussin, Marion Cotillard, André Dussollier, Ticky Holgado, Jodie Foster, Julie Depardieu. Soggetto: dal romanzo omonimo di Sébastien Japrisot. Sceneggiatura: Jean-Pierre Jeunet e Guillaume Laurant. Fotografia: Bruno Delbonnel. Musica: Angelo Badalamenti. Produzione: 2003 Productions, Durata: 133’

Joyeux Noël (Joyeux Noël - Una verità dimenticata dalla storia) di Christian Carion, Francia/Germania/Regno Unito/ Belgio/Romania, 2005 Interpreti: Diane Kruger, Bennon Fürmann, Guillame Canet, Gary Lewis, Dany Boon. Soggetto e sceneggiatura: Christian Carion. Fotografia: Walther van den Ende. Musiche: Philippe Rombig, Produzione: Nord-Ouest Productions, Senator Film Produktion, The Bureau, Artémis Productions, Media Pro Pictures,TF1 Films Production, Les Productions de la Guévill. Durata: 115’

Vincere di Marco Bellocchio, Italia/Francia 2009 Interpreti: Filippo Timi, Giovanna Mezzogiorno, Michela Cescon, PierGiorgio Bellocchio. Sceneggiatura: Daniela Ceselli, Marco Bellocchio. Fotografia: Daniele Ciprì. Musica: Carlo Crivelli. Produzione: Rai Cinema, Offside Film, Celluloid Dreams. Durata: 128’ torneranno i prati di Ermanno Olmi, Italia 2014 Interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni. Soggetto: liberamente ispirato alla novella La paura di Federico De Roberto (1921). Sceneggiatura: Ermanno Olmi. Fotografia: Fabio Olmi. Collaborazione alla regia: Maurizio Zaccaro. Produzione: Cinema Undici, Ipotesi Cinema con Rai Cinema. Durata: 80’

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Nota bibliografica

Per le considerazioni e le valutazioni espresse sulle due cinematografie e su alcuni film analizzati è stata indispensabile la lettura e la consultazione dei testi riportati in bibliografia, ma anche il numeroso materiale documentario disponibile sul web e quello che la stampa specializzata ha dedicato alla Grande Guerra, come quello della rivista cinematografica SegnoCinema del novembre-dicembre 2014. Utile è stata la consultazione del progetto del “Corriere della Sera” WW1 La Grande Guerra e di “Repubblica” Paolo Rumiz racconta la Grande Guerra, così l’ascolto della serie di trasmissioni che Radio Tre ha dedicato alla Grande Guerra: sogni e macerie di un secolo fa.

In merito alla cosiddetta “zona franca” per gli intellettuali, rappresentata dal cinema italiano durante il ventennio fascista, essenziale è il libro di Gian Piero Brunetta Intellettuali, cinema e propaganda tra le due guerre (Pàtron, Bologna 1973), in particolare i capitoli VII (pp.79-90) e IX (pp. 103-127), oltre al capitolo “Dal sonoro a Salò” della Guida alla storia del cinema italiano (Einaudi, Torino 2003) dello stesso Brunetta. Sempre da quest’ultima opera, capitolo IV “Dal boom agli anni di piombo”, pp.205-244, sono state sviluppate le considerazioni sulla particolare natura della “commedia all’italiana”, insieme al testo di Lino Miccichè Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre (Marsilio, Venezia 2002), in particolare il cap. 3 “Memorie, rimozioni, risate e celebrazioni” (pp. 46- 57), riferimento anche per la valutazioni espresse sui film La Grande Guerra e La Marcia su Roma. Sulla opprimente e intimidatoria azione censoria delle Commissioni di censura e della magistratura nei confronti del cinema nel primo quindicennio della Repubblica, esauriente è La Storia del cinema Italiano, vol. VIII a cura di Luciano De Giusti (Edizioni di Bianco & Nero Marsilio, Venezia 2003), in particolare i capitoli “La contesa politica sul cinema” di Mauro Morbidelli (pp. 53- 59), “Censura a largo spettro” di Franco Vigni (pp. 64-77) e l’articolo di Renzo Renzi apparso su “Cinema nuovo”, n. 4 del 1° febbraio 1953 “Il caso Renzi-Aristarco”, riportato nel libro a cura di De Giusti (pp.567-9). La descrizione del quadro politico e culturale del secondo dopoguerra e le sue ripercussioni sul cinema italiano, ha fatto riferimento al testo fondamentale di Silvio Lanaro Storia dell’Italia Repubblicana (Marsilio, Venezia 1992) in particolare il primo capitolo “Il lungo dopoguerra” (pp. 5- 36; pp. 90-111 e pp. 164-202) e alla Storia dell’Italia repubblicana. La costruzione della democrazia, a cura di Francesco Barbagallo (Einaudi, Torino 1999), con richiamo alla sezione redatta da Luisa Mangoni “Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo” (pp.617- 718).

Per l’analisi del film di Mario Monicelli La Grande Guerra e le reazioni provocate negli scrittori interventisti oltre alle limitazioni della censura, è stata preziosa la consultazione del sito ufficiale del regista196, l’intervista dell’aprile 2013 a Luciano Vincenzoni, autore del soggetto

196 http://www.mariomonicelli.it/index_monicelli.htm

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese originario197 e l’ascolto del programma di Radio Tre, a cura di Hollywood Party, “Il cinema alla radio” del 16 settembre 2012 dedicato al film198 . Sulle traversie, gli ostacoli posti alla lavorazione e le contestazioni al film di Francesco Rosi Uomini contro esauriente è il suo intervento del marzo 2009 – insieme allo scrittore Raffaele La Capria che partecipò alla sceneggiatura – all’apertura del Cineforum a Napoli199 e la sua intervista rilasciata pochi mesi prima della morte, avvenuta il 10 gennaio 2015200. Sulla scelta di Rosi di dare una propria lettura al testo di riferimento di Emilio Lussu, essenziale è l’analisi del film di Lino Miccichè in Cinema Italiano degli anni ’70 (Marsilio, Venezia 1980) alle pagine 74-77. Per l’analisi del film di Ermanno Olmi I recuperanti, lo stesso testo di Miccichè, alle pagine 68-71. Per il successivo film di Ermanno Olmi torneranno i prati e il suo forte richiamo al valore della disobbedienza, oltre al dovere dell’Italia di oggi di chiedere scusa ai soldati del grande conflitto, è stato indispensabile l’ascolto del suo intervento alla trasmissione di Rai Tre “Che tempo che fa” dell’8 novembre 2014 201.

L’analisi dei film patriottici francesi realizzati durante il conflitto ha avuto come riferimento il libro di Giuseppe Chigi Le ceneri del passato (Rubettino, Soveria Mannelli 2014), in particolare i paragrafi “Sognando antiche battaglie” (pp. 62-70), “Mettere in scena la guerra” (pp. 95-102), “Il barbaro nemico” (pp.137-143). Per il cinema francese del dopoguerra e il carattere apocalittico di Abel Gance, la Storia del cinema mondiale di Georges Sadoul (Feltrinelli, Milano 1964), pp. 160-177, vol. I.; per il periodo del Fronte Popolare e l’impegno politico dei cineasti francesi, il testo di Roberto Escobar e Vittorio Giacci Il cinema del fronte popolare (il Formichiere, Milano 1980), i particolare le pagine 39-76 e le pagine 131-157. Sul disimpegno del cinema francese dai temi politici e sociali nei primi vent’anni del secondo dopoguerra e la natura del movimento della nouvelle vague i riferimenti sono stati la Storia del cinema di Fernaldo Di Giammatteo (Marsilio, Venezia 2002), in particolare il capitolo IV “La perdita dell’identità” (pp. 269-284; 394-422) e la Storia del cinema di Goffredo Fofi, Morando Morandini e Gianni Voli (Garzanti, Milano 1988), al paragrafo “La nouvelle vague e la V Repubblica” (pp. 82- 117). Sempre dal testo di Fofi, Morandini e Volpi i riferimenti al nuovo rapporto tra cinema francese e la storia a partire dagli anni settanta, paragrafo “Rapporto con la storia”, pagine 133- 143.

Per l’analisi del film di Jean Renoir La grande illusione di grande utilità sono state le pagine dedicate all’opera da Georges Sadoul nel suo testo citato (pp. 276-277); il materiale documentario

197 Intervista a Luciano Vincenzoni: Come inventai La Grande Guerra, https://www.youtube.com/watch?v=Et4kSGSgj50

198http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?t

199 https://www.youtube.com/watch?v=6WGJ-QT2NEk 200 https://www.youtube.com/watch?v=HgU0enEoQqk

201http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-1d21531a-b8d8-4fc1-a79f-30c47c51641f.html 103

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese presente nel sito de “Il cinema ritrovato, Cineteca di Bologna” 202, elaborato in occasione della riedizione del film nel marzo 2014, in particolare gli scritti di Chiara Ugolini “La grande illusione” e di Claudia Morgoglione “Il film più odiato dal Potere” oltre all’ascolto della puntata del 16 marzo 2014 del “Cinema alla radio”, dedicata al film 203. Analogo riferimento al sito de “Il cinema ritrovato” per il film la Les croix de bois di Raymond Bernard, restaurato e proiettato nel luglio 2014 durante la XXVIII edizione dell’omonimo festival a Bologna. Per la filmografia di Bertrand Tavernier, La vita e nient’altro e Capitan Conan, oltre all’importante saggio di Stéphane Audoin-Rouzeau, Bertrand Tavernier, la grande guerre et l’identité française (in “Le Débat”, 2005/4, n. 136, Gallimard, Paris, 2005, pp. 146-151), di grande interesse è stata la visione della conferenza di Tavernier, tenuta il 14 ottobre 2013, sulle scelte compiute durante la realizzazione dei due film 204 e il documentario Filmer l’histoire, relativo ad un incontro con il regista nell’ottobre del 2014 205.

Riguardo al film Joyeux Noël di Christian Carion è stato indispensabile il riferimento ai contenuti del programma radiofonico di Radio Tre “Wikiradio” del 25 dicembre 2012 “La tregua di Natale del 1914” realizzato da Bruna Bianchi; ulteriori notizie sono state reperite nel sito dell’Association Nöel 14 “Un monument pour ne pas oublier” 206. La Lettera del S. Padre Benedetto XV ai Capi dei popoli belligeranti del 1° agosto 1917, citata a pag. 95, è stata reperita nel sito della Santa Sede: http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/letters/1917/documents/hf_ben- v_let_19170801_popoli-belligeranti.html

Alberto Sordi e Vittorio Gassman ne La Grande Guerra, regia di Mario Monicelli

202 http://www.ilcinemaritrovato.it/home 203 http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-81ed8832-7363-4843-8572-80d194ab1707.html 204http://www.lanouvellerepublique.fr/Loir-et-Cher/Loisirs/Fetes-festivals/n/Contenus/Articles/2013/10/14/Escapades-derriere-l-ecran-des-films- de-Tavernier-1649128 205 https://www.youtube.com/watch?v=lnGFKr5p82s 206 http://noel14.fr/

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

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La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Indice dei film

Addio mia bella signora 19 Catene 19

Affaire Dreyfus (L’), di F. Zecca 55 Chagrin et la pitié (Le) 77

Affaire Dreyfus (L’), di G. Méliès 55 Chambre des officiers (La) 67, 89-91, 101

Albero degli zoccoli (L’) 22 Ciceruacchio 7

All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di Cinque dell’Adamello ( I) 19 nuovo) 17, 63 Croix de bois (Les) 63, 65-67, 100, 105 Allosanfàn 22

Alsace 59 Distruzione di Cartagine (La) 6 Amarcord 22 Divorzio all’italiana 20 Angélus de la victoire (L’) 58

Anni ruggenti 20 Empreinte de la patrie (L’) 59 Armata s’agapò (L’) 18 Enfants de France et de la guerre (Les) 60, 62 Attentat (L’) (L’attentato) 77

Au pays noir 55 Fabuleux Destin d'Amélie Poulain (Le) (Il favoloso Au revoir les enfants (Arrivederci ragazzi) 77 mondo di Amélie) 93

Farewell to Arms (A) (Addio alle armi) 17, 63

Battaglia di Algeri (La) 75 Federale (Il) 20

Battle of the Somme (The) 58 Femme française pendant la guerre (La) 61

Berge in Flammen (Montagne in fiamme) 13 Figli di nessuno (I ) 19

Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non Film du Poilu (Le) 62 hanno raccontato 22 Français si vous saviez 77

Françaises veillez! 59 C’eravamo tanto amati 22 Full Metal Jacket 67 Cabiria 6, 7

Caimano del Piave (Il) 19 Garibaldi 5 Caius Julius Caesar 6 Gaz mortels (Le) 59 Camicia nera 10, 14 Generale Della Rovere (Il) 18, 19 Campana di San Giusto (La) 19 Giornata particolare (Una) 12, 22 Capitaine Conan (Capitan Conan) 78, 79, 83-86, 101, 104 Gloria. Apoteosi del soldato ignoto 11

Carnet di ballo 70 Gobbo (Il) 20

Casablanca 18 Grand illusion (La) (La grande illusione) 17, 56, 64, 67-70, 79, 98, 100, 103 108

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Grande Guerra (La) 19, 22, 25-33, 49, 67, 96, 100, Man I Killed (The) 63 102 Mani sulla città 34 Great Dictator (The) (Il Grande dittatore) 17 Marcantonio e Cleopatra 6 Grève (La) 55 Marcia su Roma (La) 20, 46, 49-52, 100, 102 Grido dell’aquila (Il) 10 Marseillaise (La) (La Marsigliese) 64 Guai ai vinti 19 Maudite soit la guerre 56 Guerra e il sogno di Momi (La) 7 Mères françaises 60

Mestiere delle armi (Il) 42 Hearts of the World 58 Mille (I) 5 Héroisme de Paddy (L’) 59 Monsieur Verdoux, 84

Moulin tragique (Le) 59 Impossible pardon (L’) 59

Inferno 7 Nerone e Agrippina 6 Italiani brava gente 20 Nerone 6

Niemandsland 62 J’accuse (Per la patria) del 1919 62 Nöel du Poilu (Le) 60 J’accuse del 1938 64, 70, 71-73, 101 Novecento 22 Joyeux Noël 94-97, 101, 104 Nozze d’oro 7 Juge et l'Assassin (Le) (Il giudice e l’assassino) 77

Oberdan 7 Kapò 18, 20

Page de gloire (Une) 60 Lacombe Lucien (Cognome e nome: Lacombe Lucien) 77 Pantalon (Le) 86-89, 101

Lafayette! We come 61 Paths of Glory (Orizzonti di gloria) 67, 76

Leggenda del Piave (La) 19 Paura degli aereomobili nemici (La) 8

Leone del deserto (Il) 18 Pedant la guerre 60

Long dimanche de fiançailles (Un) (Una lunga Petit soldat (Le) 75 domenica di passioni) 92-94, 101 Piccolo alpino, di G. Albano 14 Lunga notte del ’43 (La) 20 Piccolo alpino, di O. Biancoli 14

Piccolo garibaldino (Il) 5 Maciste l’alpino 7 Pietro Micca 5 Magliari (I) 33 Piume al vento 19 109

La Grande Guerra e il cinema italiano e francese

Poilus de la revanche (Les) 59

Portes de la nuit (Les) (Mentre Parigi dorme) 75 Terrorista (Il) 20

Posto (Il) 42 Tiro al piccione 20

Pour l’Alsace 60 torneranno i prati 23, 41-46, 53, 101, 103

Premier Noël dans les Tranchées 94 Tranchée des espoirs ( La) 94

Presa di Roma, 20 settembre 1870 ( La) 5 Tréve de Noël (La) 94

Trilogia della vita 22

Quattro giornate di Napoli (Le) 20 Tu ne tueras point (Non uccidere) 18, 75, 76

Que la fête commence (Che la festa cominci) 77 Tutti a casa 20

Quo Vadis? 6

Ultimo tango a Parigi 18

R.A.S Rien à segnaler (R.A.S. Nulla da segnalare) 77 Uomini contro 22, 33-38, 101, 104

Recuperanti (I) 42, 46, 52-53, 100, 103

Resistere 10 Vecchia guardia 10

Road to Glory (The) (Le vie della gloria) 67 Vendémiaire 59

Verdun, visions d’Histoire 62

Salvatore Giuliano 34 Vie est à nous (La) 64

San Michele aveva un gallo 22 Vie et rien d'autre (La) (La vita e niente altro) 61, 67, 78, 79-82, 101, 104 Scarpe al sole 13, 14 Vincere 46-49, 101 Scene di guerra alpina 9 Vita difficile (Una) 20, 49 Schiavi di Cartagine (Gli) 6

Sciantosa (La) 38-41, 100 Westfront 1918-Vier von der Infanterie 17, 62, 89 Sfida (La) 33 World Moves On (The) (Il mondo va avanti) 67 Soliti ignoti (I) 25

Sorpasso ( Il) 20, 49 Zone de la Mort (La) 59 Spartaco 6

Strass et Compagnie 59

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