Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea in Sociologia Modelli antropologici e realtà identitarie a

Relatore Laureanda Prof. Pompeo Francesco Mariani Annamaria

Anno Accademico 2016-2017

1 Indice

Introduzione 3

Capitolo I - Quadro storico. Le trasformazioni di un territorio

1.1 Le origini storiche di Ferentino 7 1.2 Dalla società feudale al riscatto delle terre contadine 15 1.3 La società contadina tra stereotipo e realtà 26 1.4 Ascesa e crisi dello sviluppo industriale 35 1.5 Le lotte per il lavoro 44 1.6 Caratteri della modernizzazione socio-culturale in 48

Capitolo II - Dal passato prossimo al presente

2.1 L‟evoluzione dell‟artigianato, del commercio e del terziario. Nuovi attori e nuove reti economiche 53 2.2 Geografia locale della grande distribuzione 62 2.3 Passeggiando nel centro commerciale 76 2.4 Criticità locali nel presente 82

Capitolo III - il nuovo reticolo urbano

3.1 Lo spazio come costruzione culturale 85

3.2 Centro storico e nuove periferie 89 3.3 Nuove presenze nel territorio 99 3.4 Quartieri, spazi privati e spazi pubblici dei migranti 111 3.5 La costruzione dello spazio nell‟immigrazione 118

Conclusioni 126

Bibliografia 133

Sitografia 138

2 Introduzione

Questo lavoro nasce dal mio interesse e dalla mia curiosità di voler conoscere, in quanto nata e da sempre vissuta nella piccola cittadina ciociara di Ferentino, le sue modificazioni antropologiche ed urbane dalle origini ad oggi, e quindi di voler approfondire le cause e le modalità di tali trasformazioni in quanto avvertite sempre in prima persona anche senza mai averne una profonda cognizione di causa. Essenzialmente si è voluto comprendere come lo spazio, inteso come insieme di relazioni sociali, assume configurazioni e significati diversi sia nei vari momenti della evoluzione storica del territorio sia nella contemporaneità attraverso le nuove presenze migratorie e le dinamiche del mondo globale. La nascita, la crescita e la continua presenza nel luogo mi hanno consentito di iniziare questo percorso da una “sensibile”, spontanea e quotidiana osservazione e conoscenza degli spazi, degli attori e delle relazioni del territorio senza la necessità di dovermi calare in una realtà sconosciuta e di doverne interpretare i codici locali. Una “impregnazione” completa, per voler usare un termine tanto amato dagli antropologi, che tuttavia mi ha fatto avvertire anche la difficoltà di distaccarmi e di estraniarmi. “Immaginarsi al di fuori” di una realtà ( Mills, 1962) che sempre ha costituito il mio stesso habitus è stato per me l‟ostacolo operativo più grande da superare per poter interpretare in modo oggettivo tutti i particolari, spesso sfuggenti perché dati per scontati, senza tra l‟altro cadere in giudizi favoriti da un coinvolgimento intenso ed emotivo. Questa è stata la necessità: uscire dalle intuizioni e sensazioni soggettive per trovare conferma nella ricerca. I primi passi della ricerca sono stati fatti per raccogliere fonti scritte storiche ed attuali e dati statistici relativi alla situazione economica e demografica di ieri e di oggi. I dati rielaborati sono stati raccolti dall‟Ufficio della Camera di Commercio di , dall‟Ufficio Anagrafe del di Ferentino, dal Centro per l‟Impiego di Frosinone, dalle pubblicazioni Istat. L‟esistenza di reti di relazioni quotidiane, già costruite sul territorio nel corso della mia vita, mi ha facilitato la raccolta di testimonianze, storie di vita ed interviste svoltesi come chiacchierate spontanee in cui gli interlocutori non hanno vissuto il disagio ed il distacco di una presenza sconosciuta. Le interviste e le storie di vita

3 sono state trascritte mantenendo l‟anonimato degli intervistati indicati solo con un nome proprio. Nel primo capitolo ripercorro le tappe storiche attraverso cui si determinava dall‟origine una forte immagine identitaria locale del paese, anche come strenuo difensore della sua autonomia di fronte alla potenza di Roma, con specifiche caratteristiche naturalistiche e morfologiche, vocazioni economiche e tradizioni culturali. Descrivo attraverso le fonti storiche le origini di Ferentino e le profonde trasformazioni da centro economico-culturale con agricoltura, artigianato e commercio fiorenti, già dai tempi del dominio di Roma, a centro soprattutto agricolo caratterizzato dal latifondo, dalle colture estensive e dalla povertà contadina durante l‟età medievale. Un paragrafo apposito è stato dedicato agli usi, tradizioni, abitudini che ruotavano intorno al modello familiare della cultura rurale che ha profondamente caratterizzato la Ciociaria, così denominata tra l‟altro per la particolare calzatura contadina. Infine la descrizione degli anni Sessanta è stata realizzata attraverso l‟analisi di dati prelevati da pubblicazioni specialistiche della Camera di Commercio di Frosinone relative agli anni fiorenti del Consorzio di Sviluppo. L‟avvento delle grandi industrie grazie all‟intervento della Cassa del Mezzogiorno ha avviato la strutturazione di una nuova identità economica con modificazioni sociali, urbanistiche e demografiche. Sono stati analizzati quindi gli aspetti di questa rivoluzione antropologica rimasta tuttavia incompiuta. I contadini trasmigrarono improvvisamente nella nuova identità operaia senza mai farla propria completamente, continuando a coltivare le terre concepite fino ad allora come uniche fonti di sostentamento: terre lavorate per anni con contratti di enfiteusi, affitto, colonia, mezzadria e soccida, successivamente riscattate in proprietà e tolte ai grandi latifondisti, oppure terre acquistate al ritorno dall' emigrazione in America. Le nuove generazioni colsero meglio dei loro genitori l‟opportunità del cambiamento. Andarono a lavorare in fabbrica e sul pezzo di terra lasciato in eredità dai genitori costruirono la casa dove andare a vivere con moglie e figli. Le mogli anch'esse operaie, soprattutto presso la Bonser, allora famosa fabbrica di camicie con uno spaccio interno per la vendita diretta, stavano compiendo il primo passo verso l'emancipazione in un luogo fatto fino ad allora solo di terra e focolare domestico. I figli dei nuovi operai dovevano frequentare la scuola obbligatoriamente, la scuola diventò scuola di massa e non più solo per i figli dei grandi proprietari terrieri. Il secondo capitolo vuole essere una descrizione dell‟evoluzione delle attività del terziario dopo la crisi del secondario. Il nuovo circuito socio-economico messo in moto dall‟industrializzazione e dallo sviluppo di un terziario ad essa connesso è destinato ad

4 interrompersi negli anni Settanta in quanto modello totalmente importato e trapiantato in un tessuto sociale con peculiarità e vocazioni non collegate alle attività industriali impiantate sul territorio. Ancora una volta nella località si configura una ristrutturazione spaziale in cui agiscono nuovi attori e nuove reti di relazioni. “ Nuove forme di socialità dense, squilibrate e complesse si ricostituiscono nelle isole del consumo” ( Pompeo 2012, pag. XXIX) e si generano in un territorio caratterizzato nel presente da nuove problematiche ambientali e occupazionali. Infine l‟ultimo capitolo contiene una ricostruzione della situazione migratoria sul territorio che tende a configurarsi non più come un processo di trasferimento temporaneo ma come un processo di stabilizzazione la cui conclusione è l‟acquisizione della cittadinanza italiana. I dati raccolti presso la Caritas diocesana della Provincia sono stati integrati dalla raccolta di informazioni verbali e dal contatto diretto con le attività dell‟Associazione “Oltre l‟Occidente” di Frosinone, presso la quale ho svolto attività di tirocinio, che da anni lavora su temi della migrazione e sulle trasformazioni socio-politiche che essa ha prodotto. Il focus di tale capitolo può essere individuato nella analisi e riflessione sul processo di continua de-costruzione e ri-costruzione di una nuova spazialità, di “neo-luoghi” attraverso una nuova relazione tra dispersione e densità, tra centro storico e nuove periferie. Luoghi dove si generano “nuovi discorsi e si tessono nuove relazioni convergenti o conflittuali” tra gli stessi autoctoni e tra gli autoctoni e i migranti, in una località caratterizzata dalla mobilità del mondo globale e della surmodernità (Pompeo 2012) . La preparazione di questo lavoro non sarebbe stata possibile senza la collaborazione di tutti coloro che alla fine di questa introduzione vorrei ringraziare. Innanzitutto il relatore, prof. Pompeo Francesco, docente di antropologia culturale e sociale presso l‟Università di Roma Tre e profondo conoscitore della mia terra a lui emotivamente vicina, che mi ha guidato nella ricerca e nella stesura attraverso suggerimenti, consigli e correzioni. Infine proseguo nel ringraziare tutti coloro che mi hanno consentito la consultazione di fonti e di testi e che mi hanno fornito materiali e dati statistici.

Un ringraziamento particolare va a mio padre che già da qualche anno ha lasciato questo mondo e che mi ha trasmesso l‟amore per la cultura del mio paese. Sin dall‟infanzia mi ha consentito la vicinanza con le tradizioni dei suoi parenti contadini che non ha mai

5 dimenticato, nonostante la sua istruzione e l‟arrivo di tempi nuovi gli abbiano consentito una vita più agiata da impiegato presso le Ferrovie dello Stato. Il suo amore per la coltivazione della terra nel tempo libero, le frequentazioni di feste, cerimonie e ricorrenze presso cugini e nipoti con saltarelli sull‟aia e tagliatelle per pranzo faranno sempre parte dei miei ricordi e della mia formazione. Infine i ricordi dei racconti della sua infanzia, l‟ascolto delle poesie in dialetto ferentinese, che amava leggere ad alta voce in nostra presenza, mi fanno sentire fortemente appartenente alla cultura del mio paese che ho cercato di rappresentare in queste pagine.

Dedico questo lavoro ai miei figli, Emilio e Laura, che stanno crescendo nella società tecnologica profondamente diversa da quella in cui io sono cresciuta. A loro voglio particolarmente ricordare che i nuovi mezzi della conoscenza, seppur utili ed affascinanti, non prenderanno mai il posto dei racconti dei nostri nonni, delle tradizioni passate su cui ci costruiamo e del piacere della lettura e comprensione della nostra storia. Spero che possano capire, nell‟età più matura, che questo lavoro sicuramente é il risultato della mia curiosità per la realtà che mi circonda, del mio amore per la lettura e per lo studio che non ho mai abbandonato nonostante il passare degli anni.

Infine dedico questo lavoro a mio marito che ha condiviso le mie passioni e che, con il suo aiuto e la sua collaborazione familiare, mi ha consentito di dedicare del tempo allo studio e alla stesura del presente lavoro.

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CAPITOLO I

Quadro storico. Le trasformazioni di un territorio

1.1 Le origini storiche di Ferentino

La terra denominata come Ciociaria, situata nel Meridionale, si identifica nella provincia di Frosinone che comprende novantuno Comuni; Frosinone nasce come provincia nuova soltanto nel 1927 con l‟unificazione di alcune zone a Sud della vecchia provincia di Roma con altre a Nord della precedente provincia di Caserta. La Ciociaria quindi si estende a Nord fino a Colleferro, primo comune della provincia di Roma, a Sud- Est fino alla Campania. I confini con Roma, Latina, Caserta, Isernia e L‟Aquila sono tracciati principalmente da catene montuose. Il limite con la zona costiera del mar Tirreno, quindi con la provincia di Latina, è segnato dalla Pianura Pontina, dai , dai e dai Monti Aurunci; al confine con la provincia di Roma si trovano a Nord- Est i , a Nord- Ovest i e i Colli Albani. Ancora a Nord- Est i e le Mainarde separano il territorio della Ciociaria dall‟Abruzzo e a Sud- Est le ultime propaggini degli Aurunci dal Molise.

Cartina che delimita la Ciociaria

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Ferentino sorge nella zona più a Nord della Ciociaria, su uno dei tanti colli che dominano la valle del fiume , chiamato anticamente Trerus, fertile piana delimitata dai Monti Lepini e dagli Ernici. Il suo territorio si estendeva dalla riva destra del Sacco fino ai confini di Priverno, Terracina e Fondi. Attualmente i suoi confini amministrativi toccano le campagne dei paesi limitrofi come e ad Ovest, a Nord, e ad Ovest, Frosinone a Sud.

Cartina con indicazione dei confini di Ferentino

Archeologi e storici sono tuttora alla ricerca di fonti per determinare con esattezza l‟epoca dei suoi primi insediamenti. Si può comunque con sicurezza affermare, grazie a reperti archeologici trovati in tempi più recenti con i rinvenimenti di resti di abitazioni a Frosinone e ad Alatri, che la Ciociaria era terra abitata da tempi antichissimi; frammenti di un cranio risalente al passaggio dall‟Età del Bronzo all‟Età del Ferro, rinvenuti nel 1994, dimostrano che l‟uomo ciociaro già in quel periodo viveva di caccia in villaggi stanziali (Quadrozzi 2002).

Le mura megalitiche o pelasgiche, dette ciclopiche, presenti in diversi centri antichi tra cui Alatri e Ferentino, rivelano l‟insediamento di civiltà proto-laziali sulle alture della zona. Le mura di Ferentino nelle quali si aprono dodici porte, lunghe circa due chilometri e mezzo, sono costituite da blocchi di pietra calcarea, nota agli antichi con il nome “silex”, di volume anche superiore ai venticinque metri cubi, posati a secco e ad incastro; esse

8 vennero costruite da popolazioni che si arroccarono per esigenze difensive sui luoghi più alti in alcuni punti strategici. A tutt‟oggi non è possibile tuttavia risalire all‟origine, alla storia di questi costruttori di opere così poderose, avvolti ancora nella evocazione della leggenda dei Ciclopi o dei misteriosi popoli Pelasgici.

Secondo l‟antico storico Dionigi di Alicarnasso l‟origine di tali popolazioni poteva farsi risalire al periodo pre-ellenico: i Pelasgi, vissuti forse 1000 anni prima di Roma, erano una popolazione greca originaria del Peloponneso, da dove si spostarono in Tessaglia, cacciandone i barbari che l'abitavano. A loro volta cacciati dalla Tessaglia, si sarebbero dispersi tra Creta, le Cicladi e la Beozia spingendosi fino in Italia. Alcuni sarebbero arrivati a Spina, alle bocche del Po, mentre altri fino all‟Italia Centrale venendo in contatto con gli Umbri, contro cui ebbero alcuni scontri, e con gli Aborigeni, con cui invece si allearono ( Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, I 18.3-5). La parola Aborigeni che deriva dal latino plurale Aborigenes, probabilmente da “ab origine” (dall'inizio), secondo alcuni denominerebbe i primi abitanti delle zone montuose del Lazio centrale. Secondo un'altra interpretazione del termine fornita da Dionigi di Alicarnasso il nome Aborigeni deriverebbe invece da Aberrigenes, dalla parola latina “aberrare” , vagare, e quindi essa indicava popolazioni inizialmente nomadi. Potrebbero essere attribuiti ai Pelasgi che si insediarono nelle zone del Lazio miti e divinità di origine pre-greca, non ricollegabili a quelli di altri popoli indoeuropei, come il mito della titanomachia che ricomprende anche le vicende del dio Crono, romanizzato in dio Saturno, a cui si fa risalire l‟origine del Lazio e di Ferentino.

La ricerca archeologica (Lugli,G.,1957, pag. 51-165) ha proposto una catalogazione delle costruzioni megalitiche sulla base di quattro distinte tecniche costruttive. La semplice sovrapposizione di blocchi di pietra grezzi o appena sbozzati costituisce la modalità esecutiva della prima e della seconda tecnica produttiva. La seconda maniera si differenzia dalla prima per l'inserimento di zeppe o di pietre più piccole tra un interstizio e l'altro e, in alcuni casi, per un primo tentativo di levigatura dei piani esterni. La terza modalità costruttiva rappresenta invece la vera novità in quanto i blocchi hanno le forme perfettamente geometriche di veri e propri poligoni. Le superfici esterne delle fortificazioni sono perfettamente levigate e, quelle di posa, assolutamente combacianti. Con la quarta maniera, i blocchi prendono forma di parallelepipedi quadrangolari, non sempre perfettamente levigati all'esterno e vengono fatti combaciare con minor cura. Numerosi

9 risultano gli esempi di commistione tra la seconda e la quarta tecnica costruttiva. Tuttavia gli archeologi non hanno stabilito con precisione la successione cronologica delle diverse tecniche di costruzione delle opere megalitiche, ritenendo che alcune opere poligonali realizzate con le la prima e seconda tecnica potrebbero risalire alla fine del VII secolo a.C. mentre molte altre potrebbero essere datate alla fine del VI secolo a.C.

Le mura di Ferentino comprendono tratti in cui sono evidenti tutte e quattro le maniere dell'opera poligonale, comprese le maniere intermedie: ciò dimostrerebbe la loro edificazione dal VI secolo a.C. sino alla conquista romana.

Mura megalitiche. Acropoli di Ferentino

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Ferentino -Mura megalitiche- Porta Sanguinaria

L‟origine di Ferentino si perderebbe quindi nelle leggende e nei miti che vanno tuttavia letti ed interpretati nei loro “mitemi” ( Lèvi Strauss, 1974 ). Innanzitutto il mito del dio Saturno ( già Crono per i Greci) che, spodestato dal figlio Giove, avrebbe trovato riparo nel Lazio dove regnava il dio Giano. Quest‟ultimo lo avrebbe accolto e volle che si stabilisse definitivamente nelle sue terre; lo accompagnò quindi su un monte, il più alto, in modo che potesse scegliere e disegnare con gli occhi l‟estensione di quello che sarebbe stato il suo regno. Questo monte più tardi, nella realtà e al di fuori di ogni racconto leggendario, fu chiamato Fumone perché da esso, che fungeva da vedetta, con segnali di fumo si comunicava all‟intero territorio l‟arrivo dei nemici. Il regno di Saturno sarebbe durato quattro secoli e sarebbe stato chiamato Età dell‟oro perché non ci furono guerre né proprietà private: il dio insegnò agli indigeni le arti e le tecniche dell‟artigianato, dell‟agricoltura e dell‟allevamento; fondò le città stanziali di Ferentino, Anagni, Alatri, e Atina che vennero successivamente fortificate per l‟arrivo di popolazioni orientali ( Quadrozzi 2002) .

Il mito è il racconto che attraverso una simbologia, una sua grammatica sottesa, giustifica e descrive temi fondamentali come l‟origine del mondo, di un fenomeno o di una realtà o rievoca età fiorenti tramontate per sempre. Come il linguaggio il mito ha nuclei

11 narrativi di base e regole precise di combinazione che vanno interpretate per la ricostruzione di ciò che esso vuole rappresentare (Lévi Strauss 1974). Partendo dalla figura del dio Saturno, antico dio dei Romani, si può ricordare che lo stesso abbia una provenienza problematica. Infatti già in antichità si riteneva che non fosse un dio indigeno ma che provenisse dalla Grecia e ciò consente di ipotizzare la probabile origine non autoctona dei popoli italici o l‟esistenza di contatti culturali tra i popoli suddetti con l‟Asia Minore e con il mondo ellenico. Infine Saturnus è il dio che avrebbe insegnato agli uomini del Lazio e della Ciociaria la tecnica dell'agricoltura e tale narrazione mitologica giustifica l‟esistenza di un territorio quale quello della Ciociaria verde e fertile già al momento della sua origine. E‟ il dio dell‟inizio di un‟era aurea significativa della prosperità ed abbondanza dei luoghi, di un‟era di pace e senza conflitti in quanto nell‟ordine nuovo che egli costituì non ci furono le differenze sociali determinate dalla proprietà privata. L‟inizio di un‟era di pace potrebbe rappresentare l‟inizio di nuove forme di alleanze e di convivenze dopo un periodo di conflittualità tra le popolazioni autoctone e quelle sopraggiunte da altri luoghi. Così ad esempio in Virgilio:

Primo venne Saturno dall'etereo Olimpo, fuggendo le armi di Giove ed esule del regno usurpato. Raccolse la stirpe indocile e dispersa per gli alti monti, e diede leggi e volle che si chiamassero Lazio le terre nella cui custodia era vissuto nascosto. Sotto quel re vi fu il secolo d'oro, che narrano; così reggeva i popoli in placida pace;

(Virgilio, Eneide, VIII, 313-327; traduzione di Luca Canali)

I cicli leggendari legati a questi territori raccontano della nascita di Roma ad opera dell‟esule troiano Enea che sarebbe approdato nel Lazio con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio. Anche questa leggenda rappresenta le terre del Lazio come raggiungibili, già prima della nascita di Roma, da parte di popolazioni provenienti dall‟altra parte del Mediterraneo, traduzione del fatto che presumibilmente esistevano scambi commerciali e relazioni con popolazioni provenienti dalla Grecia e dall‟Asia Minore.

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Infine la leggenda della “bella principessa Camilla”, di origine volsca, vuole raccontare la tenace resistenza degli Italici contro la nascente potenza di Roma. La principessa Camilla sarebbe stata appartenente alla stessa popolazione da cui provenivano anche gli abitanti di Ferentino, paese che maggiormente combattè contro Roma e che per ultimo si piegò al suo dominio. Vissuta in Ciociaria, ad e a Castro, ella avrebbe lottato per la difesa delle popolazioni italiche (Quadrozzi 2002).

Gli Equi, i Volsci, i Sanniti e i Marsi combatterono contro Roma per contrastarne l‟espansionismo. Ferentino, città appartenente al popolo volsco, era una delle città più estese, protetta da dieci rocche che avevano lo scopo di sbarrare la strada ai romani. In poco più di due secoli Roma diventò padrona di tutta l‟Italia centrale e stipulò alleanze con le popolazioni che prima l‟avevano contrastata. Ferentino continuò ad essere inespugnabile. Attraverso le alleanze, finalizzate a garantire pacifiche e durature collaborazioni con Roma, i fedeli popoli locali conservarono le proprie leggi, la propria religione, ottennero il riconoscimento del diritto al matrimonio con i Romani, li appoggiarono nelle guerre e di conseguenza parteciparono alla spartizione dei bottini.

L‟origine volsca di Ferentino è documentata da varie fonti. Per molto tempo Ferentino fu Curia, luogo di convegno o di parlamento, in quanto uno dei più importanti centri dei popoli volsci. Come riferisce Dionigi di Alicarnasso, le antiche popolazioni volsche e i Magnati dei popoli latini ostili alla potenza di Roma, tenevano le loro riunioni al “Locus Ferentinae” e il nome Ferentino significa proprio “ luogo del convegno” (Catracchia, 1997). Anche Tito Livio, a sostegno dell‟origine volsca, riferisce che Roma e l‟alleanza Hernica-Latina riuscirono nel 468 a.C a strappare Ferentino ai Volsci facendola diventare “oppidum primariun Hernicorum”, la fortezza principale degli Ernici (Tito Livio, Ab urbe condita, Libro IV, 51).

Da allora la fedeltà a Roma non venne più tradita dai Ferentinati. Quando Anagni, la città più importante degli Ernici, si ribellò ai Romani, che di conseguenza sciolsero la Lega Hernica, essa non ebbe il sostegno di Ferentino. Né lo ebbe Annibale quando, marciando su Roma da Capua, devastò nel 211 a.C le campagne di Ferentino insieme a quelle di Frosinone, di Anagni e di Labico.

Ferentino nel periodo repubblicano, a seguito dell‟assoggettamento definitivo a Roma, venne romanizzato attraverso trattati stipulati con i popoli fedeli ed alleati nella Confederazione Latina. Divenne Municipio, ossia come si desume dal significato della

13 parola “munera capere”, gli abitanti delle terre conquistate assunsero i doveri, gli obblighi e gli impegni del cittadino romano. Ad essi fu concessa la cittadinanza romana e appartennero alla tribù Publilia. Nel 193 a.C. i Romani condussero a Ferentino una colonia di 3000 soldati e 300 cavalieri. I Ferentinates Novani si insediarono nella valle determinandone lo sviluppo edilizio e commerciale. Ferentino Nuova più tardi venne distrutta dai Longobardi.

I Romani costruirono le grandi arterie consolari quali l‟Appia e la fino a Capua, ossia l‟odierna Casilina SS. n. 6. Quest‟ultima partiva da Roma, dalla porta Capena presso il Colosseo, con il nome di Ferentina e dopo l‟Agro romano attraversava la valle del fiume Sacco per raggiungere . Ferentino attraversò un periodo di grande splendore ai tempi degli imperatori romani Traiano e Adriano: furono realizzati monumenti, teatri, acquedotti e ville presso cui si recava in villeggiatura la nobiltà romana. Facilmente raggiungibile attraverso la Via Latina era centro di attrazione per la salubrità del clima e anche come località termale per la presenza di acque solforose (Loffredo, 1978).

L‟Impero romano finì con le invasioni barbariche: le campagne divennero boscaglie incolte, abbandonate dai contadini che preferivano rifugiarsi nelle città per sfuggire ai saccheggi. Gli abitanti di Ferentino Nova dopo la devastazione di Longobardi si trasferirono in luoghi più sicuri spostandosi dalla valle e dando vita a sobborghi più elevati, vicino alle loro terre. I loro nuovi insediamenti determinarono la nascita dei paesi come Supino, Morolo e (Catracchia,1997). Soltanto nel XII secolo i proprietari ecclesiastici delle terre, attraverso le concessioni in affitto ai contadini, riavviarono le colture e la bonifica di gran parte del territori.

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1.2 Dalla società feudale al riscatto delle terre contadine

Dopo la fine dell‟Impero di Roma Ferentino passò, già dall‟Alto Medioevo e quindi nel XII secolo, sotto il potere temporale della Chiesa formando insieme ad altre città la regione di Campagna e di Marittima.

Dal XII al XV secolo la provincia pontificia di Campagna comprendeva i territori sublacensi, il territorio ernico, le città vescovili di Anagni, Ferentino, Alatri, e le terre soggette all‟abate di Subiaco.

In questo periodo diversi attori si contendevano il potere politico: il Papato, l‟Impero, il Regno del Sud, le signorie feudali e i comuni. Tra le famiglie feudali più importanti si possono citare i De Mattia, gli Annibaldi in Marittima, i Conti di Segni in Campagna, fino al Duecento i Colonna, nel 1400 i Caetani (Cortonesi, Gianmaria 1999).

Il papato determinava la crescita e il ridimensionamento delle famiglie feudali; le terre insieme ai contadini che le lavoravano venivano assegnate dalla Chiesa ai vari feudatari dietro giuramento di fedeltà da parte di questi ultimi al Beato Pietro ed alla Romana Chiesa che divenne da quel momento la principale proprietaria terriera con migliaia di ettari, condizione che si protrasse fino al periodo post-unitario. I vescovi ed il clero diocesano erano quindi i più grandi detentori delle proprietà agricole e favorirono l‟ascesa dei milites con la concessione di terre. I milites riversavano nella zona i proventi delle loro attività belliche.

In quel contesto un ruolo specifico era svolto dalle abbazie benedettine come la Certosa di Trisulti, l‟abbazia di San Pietro di Villamagna di Anagni, l‟Abbazia di Casamari, l‟Abbazia di Sant‟Antonio di Ferentino che a loro volta si trovavano a possedere grandi patrimoni ed una rilevante forza sociale e politica. Esse rappresentavano spazi di indipendenza dall‟ingerenza episcopale nelle stesse città diocesane.

La maggior parte della popolazione era addetta all‟agricoltura e alla pastorizia. Alto era il numero degli ecclesiastici, dei milites e dei feudali.

Nel 1100 e 1200 è attestata una rilevante presenza di artigiani legati alla fase espansiva del settore dell‟edilizia, soprattutto architetti e maestranze lombarde, per la

15 costruzione di grandiosi complessi architettonici come chiese, cattedrali, abbazie, torri, castelli ed edifici militari. Più tardi si svilupparono attività artigianali locali anche nel settore della tessitura, della lavorazione del cuoio, del legno e del ferro (Cortonesi, Gianmaria, 1999).

Interi Comuni o gruppi di essi, compresi i contadini che ne facevano parte, erano posseduti da famiglie di signori feudali, vescovadi, conventi o direttamente dai papi. Quindi l‟autonomia dei piccoli comuni come Ferentino, Veroli, Alatri, Anagni, che si configuravano infatti nel Medioevo come civitates vescovili, era notevolmente limitata dal potere delle autorità religiose.

L‟incastellamento era la forma di insediamento più frequente, già diffusa dal IX secolo, in quanto le città erniche, nonostante le loro possenti mura di difesa, erano state nei secoli precedenti l‟anno mille continuamente bersaglio di saccheggi da parte di nuovi conquistatori come i Normanni, i Bizantini e i Saraceni. La comunità castellana era piccola e comprendeva dalle trecento alle cinquecento unità. Era strutturata con una fortezza centrale, con cinta muraria formata da case e torri. Fuori dalla cinta muraria c‟erano le piccole comunità familiari rurali addette alla coltivazione. Proprio nelle mura dei castelli più tardi si manifesteranno le prime forme di vita comunale, le “universitas civium”, e le prime forme di rivendicazione dei contadini contro il potere feudale o ecclesiastico. Si riscontrava anche la presenza di insediamenti collinari di piccole comunità all‟altezza di 300/500 metri con molti abitanti e separate l‟una dall‟altra da pochi chilometri. Tuttavia piccole “civitatulae” si trovavano anche nelle più elevate vette come Arcinazzo e Cacume.

Nel 1300-1400 si verificò la crisi dell‟insediamento castellano e si diffuse l‟insediamento con casale. Questo era una unità economico-agricola appartenente ad un grande proprietario terriero che poteva essere un feudatario, un miles, un‟abbazia o un‟altra istituzione ecclesiastica. L‟edificio era fortificato, possedeva almeno una torre o un recinto e si collocava ai margini degli appezzamenti di terra coltivati, in una zona di confine tra coltivazioni e macchia. Il casale oltre a costituire una nuova forma di insediamento di tipo poderale-familiare, rappresentava anche una trasformazione produttiva con l‟introduzione di colture promiscue, del vigneto e l‟estensione della cerealicoltura. Queste nuove tendenze agricole si intrecciarono con la fioritura dei Comuni dei secoli XII e XIII.

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Il paesaggio agrario si presentava tuttavia ancora scarsamente antropizzato con prevalenza di zone boschive.

I rapporti di produzione tra proprietario e contadino erano regolati sin da questa epoca con concessioni perpetue, in particolare con enfiteusi o con locazione in terza o in seconda generazione. Tutte le varie forme di contratti presentavano la caratteristica comune del trasferimento del dominio utile al locatario-contadino per la messa a coltura della terra.

L‟enfiteusi, ossia l'uso di concedere in godimento porzioni anche considerevoli di terreni, era praticata già ai tempi di Roma repubblicana, ma trovò ampia diffusione nel Medioevo come diritto reale costituito soprattutto sulle proprietà ecclesiastiche. Abbazie e monasteri che sovente si trovavano in difficoltà nel gestire i terreni di loro proprietà, sia per la notevole estensione degli stessi sia per la distanza che taluni appezzamenti avevano dalla sede della abbazia, li concedevano in enfiteusi per la durata di 29 anni o a terza generazione. L‟enfiteuta aveva la facoltà di godimento pieno, ossia il dominio utile, sul fondo stesso ma per contro doveva migliorarlo e pagare al proprietario un canone periodico, che poteva consistere o in una somma di danaro o in una quantità fissa di prodotti naturali al concedente. La durata del contratto di enfiteusi era molto lunga in quanto il miglioramento della produttività del terreno di poteva realizzare solo a distanza di tempo.

In un‟indagine svolta sui patti agrari nel Lazio meridionale nei secoli XII-XV (Cortonesi, Gianmaria, 1999) vengono individuati alcuni elementi sempre presenti nei contratti pur nella diversità delle forme degli stessi e delle aree di stipulazione. Elementi essenziali risultano essere: la clausola di miglioria, l‟obbligo di corrisposta e la durata.

La clausola migliorativa poteva consistere nell‟obbligo a carico del contadino di impiantare la vigna, gli alberi di olivo o di altra tipologia o in un generico obbligo all‟incremento della produttività. Le spese di miglioria erano sempre a carico del contadino. La lunga durata frequentemente veniva introdotta come durata bigenerazionale. La trasmissione per via ereditaria dei beni locati poteva avvenire da parte del contadino nei riguardi di un unico figlio al fine di evitare la parcellizzazione della proprietà; molti divieti limitavano la disponibilità del contadino per quanto riguardava la divisione, la vendita e la permuta. Ampia è la casistica in merito agli obblighi dell‟affittuario in termini di “corrisposta”: questa poteva oscillare tra la metà, un terzo ed un quinto della produzione, a

17 partire dal primo anno. Risultavano prevalenti le corrisposte in natura e di tipo parziario ossia consistenti in una parte del raccolto calcolata in relazione all‟intera entità dello stesso. Nei contratti era rara la presenza di un canone a quota fissa, presente invece nel contratto di enfiteusi, che non era cioè relazionato all‟entità del raccolto. Abbastanza diffusi erano anche i canoni monetari nelle corrisposte miste in cui la quota monetaria integrava la quota parziaria in natura. Da tali tipologie di canoni risulta evidente la volontà del concedente di attribuire esclusivamente al locatario l‟onere della miglioria in cambio del godimento di una parte dei prodotti.

Tra il 1100 e il 1300 i canoni misti diventarono molto diffusi. Essi erano costituiti da diversi elementi: la realizzazione di prestazioni di opere per il padrone, la consegna di enxenia di diverso genere nelle occasioni festive, il versamento annuo di somme di valore simbolico o di tributi.

Le caratteristiche dei contratti cambieranno attraverso i secoli pur mantenendo inalterati gli aspetti essenziali degli stessi. Un Patto colonico verolano, che di solito assumeva una durata temporanea, risalente al 1769, integralmente riportato, dimostra il contenuto tipico dei patti agrari:

1° Che avendo ora detto predio ad uso di prato debba tutto vangarlo in termine di un anno ad uso di arte, e nella prossima stagione vi debba essere il siciliano ( mais) da seminarsi da essi socci, altrimenti sia tenuto a tutti gli danni. 2° Che in termine di tre anni da oggi debba aver ridotto detto predio vestito con le seguenti piantagioni di alberi vitati secondo le capacità e quantità del terreno ed arte dell‟agricoltura, altrimenti sia tenuto a tutti gli danni. 3° Che in termine di un anno da oggi debba piantarsi dalla parte verso la strada tante piante di gelsi secondo le capacità di estensione del terreno. 4° Che tutti gli frutti del terreno, si del grano che dei minuti quanto ancora i frutti degli alberi vitati e della foglia dei gelsi debbono dividersi alla metà… perché così e non altrimenti. 5° Che vendendosi le foglie degli alberi di olmo debba anche dividersi alla metà . 6° Che debba sempre tener arborato e rivestito il fondo…7° Che debba sempre mantenere i confini. 9° Che il predio da migliorarsi debba sempre tenersi per un corpo intero né possa dividersi nè darsi in dote, altrimenti detto signor Padrone diretto gli possa espellere con pagargli però il miglioramento a stime di periti da eleggersi comunemente secondo l‟uso e consuetudine di Veroli. 11° Che ogni anno gli medesimi coloni debba dare al Signor Padrone diretto nelle Ss.me feste del Natale due para di capponi cioè che gli due para di pollastri che sono soliti dare ogni anno nella raccolta e nella spartenza, questi si debbano

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castrare ed allevare e fargli capponi e consegnarli come sopra perché così e non altrimenti ( Del Nero, 1907, pp.203-204).

Il territorio di Ciociaria seguì le sorti dello Stato pontificio fino al 1870. Dopo l‟Unità d‟Italia due importanti leggi determinarono un nuovo assetto della proprietà terriera in Ciociaria e nell‟Agro Romano. La legge contro l‟Asse ecclesiastico del 1871 n. 286 rendeva commerciabili grandi estensioni di terreni, di cui 63.000 solo nell‟Agro Romano; con la legge successiva n. 14902 del 1873 vennero venduti, fino al 1883, 36.401 ettari di terre tolte alla Chiesa. Così nell‟Agro Romano, dove maggiormente trovava applicazione la legge suddetta, “ la proprietà delle borghesia terriera passava dal 15% al 40-41% per un totale di 80 mila ettari; la proprietà nobiliare continuava ad interessare il 50% dell‟Agro Romano” ( Compagnoni 1997, p. 77). All‟assegnazione dei lotti parteciparono soltanto coloro che detenevano grandi capitali perché le terre della Chiesa vendute all‟asta erano molto estese.

Frosinone divenne provincia nel 1927 attraverso l‟accorpamento di due entità territoriali molto diverse: da un lato la Ciociaria che ricomprendeva Frosinone che già era stato capoluogo della provincia pontificia di Campagna e Marittima; dall‟altra parte il cassinate che comprendeva i Comuni che erano appartenuti alla provincia di Caserta fino al 1927 ed al Regno delle due Sicilie fino all‟Unità d‟Italia. Nel Cassinate prevalevano le forme di colonia parziaria e mezzadria regolate da accordi verbali, nella Ciociaria la colonia semplice, la colonia migliorataria, temporanea o perpetua, e l‟enfiteusi regolate con contratti scritti. “ Nel decennio 1950-1960 nella provincia di Frosinone le enfiteusi a canone fisso in natura o in denaro e le colonie miglioratarie interessano ancora una superficie di 56.000 ettari” ( Compagnoni 1997 p. 20-21).

Lo storico Cacciavillani individua le ragioni della sopravvivenza di contratti tipicamente feudali e del mancato decollo dell‟agricoltura in Ciociaria nella permanenza del latifondo e nella frammentazione dello stesso in tante parcelle di circa due o tre ettari di terra assegnate ai coloni ( Ibidem, 1935). Il proprietario della terra stipulava un contratto di colonia semplice che poteva durare da tre a nove anni se il suo campo era “ nudo” e se voleva assicurarsi manodopera per la coltivazione dello stesso; le quote di ripartizione erano diverse a seconda della fertilità del terreno e della partecipazione del proprietario alle spese di impianto e coltivazione.

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Soprattutto nella Valle del Sacco e nella zona collinare ernica il proprietario stipulava il contratto di colonia migliorataria o anche di enfiteusi, temporanea o perpetua, comunque di durata più lunga, se voleva “vestire” il suo terreno con seminativi ma soprattutto con coltivazioni legnose come vite ed olivo a totale carico del colono. Nel caso il terreno fosse stato già vestito il colono doveva pagare una somma pari ad una parte del valore che trovava già immesso sul terreno corrispondendo il diritto di entratura, doveva comperare i semi ed i concimi e sostenere le spese per eventuali lavori iniziali e per le raccolte; infine doveva trasportare, sempre a sue spese, la quota del raccolto a domicilio del proprietario, esclusa l‟uva. Il proprietario aveva l‟onere di fornire gli animali da lavoro e del pagamento delle imposte fondiarie. Infine poteva sempre riprendere il fondo, anche se migliorato, e in questo caso doveva al colono la somma pari alla metà del valore del soprassuolo. In genere al proprietario spettavano due quinti dei prodotti del suolo e la metà di quelli aerei o di soprassuolo.

Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale i proprietari imponevano ancora gravi condizioni ai contadini. Difatti la maggioranza dei proprietari non applicava il lodo De Gasperi che prevedeva per la ripartizione dei prodotti il 47 per cento al proprietario ed il 53 per cento al colono; tale provvedimento, finalizzato ad alleggerire l‟onere di spese a carico del mezzadro, riconosceva l‟obbligo dell‟investimento del 4 per cento a carico del proprietario per la miglioria. Ugualmente non veniva rispettato dal proprietario quanto previsto dai decreti Gullo del „44 per l‟abolizione delle regalie e per la proroga dei contratti. In un contratto rogato a Frosinone nel 1950 si legge:

Il mezzadro accetta e si obbliga a lavorare convenientemente il terreno, a mettere a proprie spese il seme occorrente, a portare il prodotto a casa della proprietaria…. L‟aia è scelta dalla padrona. Il mezzadro si obbliga di portare ogni anno due pollastri non inferiori al peso di 1 kg ciascuno ed in mancanza di ciò la proprietaria potrà rivalersi prendendosi l‟equivalente in grano o granone ( Compagnoni, 1957, p. 94).

E ancora in un contratto rogato a Veroli nel 1954 si riscontrano iniquità nei compensi per i mezzadri poichè la distribuzione della raccolta del soprassuolo o dei frutti, più favorevole per il proprietario, non é di fatto compensata dalla distribuzione dei prodotti del suolo che pure sembra in apparenza più favorevole per il mezzadro. Difatti i due terzi del mezzadro si riducono veramente a poco quando nel terreno arborato la coltivazione del suolo è più difficile:

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Con la presente scrittura è convenuto quanto segue: 1) la mezzadria ha durata di 3 anni da oggi; 2) la divisione dei prodotti del soprassuolo viene fatta in ragione di due terzi al padrone e un terzo ai coloni coltivatori; il proprietario dovrà al mezzadro due terzi del solfato di rame e zolfo per la ramatura del sottosuolo; 3) la divisione dei prodotti del suolo invece viene fatta in ragione di un terzo al proprietario e due terzi ai mezzadri eccettuato il fieno che si divide a metà. Tutte le spese di coltivazione del suolo e le sementi sono a carico del mezzadro come quelle del soprassuolo ( Compagnoni, 1997, pagg. 94- 95).

In Ciociaria i contadini acquisirono la piena proprietà della terra circa cento anni dopo la proclamazione del Regno d‟Italia. Tale lento processo di uscita dal “feudalesimo” si realizzò attraverso l‟azione congiunta di tre fattori. In primo luogo fu determinante la costituzione di un grande movimento di contadini che si organizzò nei primi decenni del Novecento in leghe e che lottò per la rivendicazione del diritto di proprietà sulla terra. In seguito organizzatori dei movimenti, avvocati ed intellettuali, eletti nel territorio della Ciociaria come rappresentanti nelle diverse cariche politiche, si fecero portavoci della questione contadina nelle sedi decisionali. Si può citare in merito l‟intensa attività parlamentare , relativa agli anni „50 e „60, di senatori come Angelo Compagnone, l‟avv. Domenico Marzi, l‟avv. Dante Schetroma che sfociò nell‟approvazione di leggi finalizzate a riconoscere la prevalenza del lavoro del contadino sul diritto di proprietà del padrone e di conseguenza il diritto di riscatto delle terre a favore di chi le aveva sempre lavorate. Infine alle leggi seguirono le numerose iniziative giudiziarie ossia gli innumerevoli ricorsi per affrancazioni innanzi alle Preture, in cui difficilmente il contadino fu parte soccombente contro i proprietari. Questi chiedevano, spesso senza alcun risultato, opponendosi ai ricorsi, canoni di riscatto più alti o la restituzione della terra in virtù di una maggiore forza giuridica del diritto di proprietà sul possesso definibile invece come una situazione di fatto favorevole al contadino soltanto a seguito dell‟ uso dell‟immobile protrattosi nel tempo.

I Comuni di Frosinone, terre essenzialmente agricole, furono coinvolti nelle rivendicazioni contadine già dai primi anni del secolo. Dal 1900 al 1905 si ebbero ben cento occupazioni di terre nel Lazio e Giolitti, allora Presidente del Consiglio e Ministro dell‟Interno, si occupò di tale problematica nella seduta del settembre 1907 alla Camera dei Deputati. In questo periodo il circondario di Frosinone, in cui operavano venticinque leghe contadine organizzate, era secondo solo al circondario di Roma che ne aveva quarantasette (Compagnoni, 1997). Sempre più onerose erano agli inizi del Novecento le tasse sul bestiame, sugli strumenti di lavoro, sui prodotti ricavati dalla terra. Giuseppe Ballarati.

21 socialista di Valmontone, e un gruppo di intellettuali indipendenti posero le basi per la nascita delle diverse leghe contadine. La prima in ordine temporale fu costituita a nel 1905 con il contributo diretto della Camera del Lavoro di Roma. Il movimento si diffuse in tutti i paesi dei Monti Ausoni e Lepini, a Sud fino a Lenola e a Terracina, a Nord fino a Ceprano e a Sora. Nel 1911 sorse la Federazione delle leghe con il compito di coordinare l‟azione contadina nel circondario di Frosinone (Mancini, 1985, pag. 19). L‟organizzatore delle leghe presenti nella Valle del Sacco, Giuseppe Ballarati, presto progettò la nascita di un partito contadino, prima vicino ai socialisti poi più autonomo,che nelle competizioni elettorali del 1914 conquistò una trentina di Comuni. Lo scontro tra contadini e amministrazioni locali per la salvaguardia degli usi civici e per il miglioramento dei patti agrari ebbe la sua massima e dolorosa espressione con l‟eccidio di Roccagorga nel 1913 dove, nella piazza sottostante la sede del palazzo comunale, persero la vita sette dimostranti e ne rimasero feriti quaranta. Trentasei contadini di Roccagorga furono arrestati dopo l‟eccidio a seguito della occupazione della sede agricola da parte dei granatieri inviati da Roma su richiesta del Prefetto al fine di ristabilire l‟ordine. L‟inno del Movimento per la “Difesa del contadino” significativamente esprime una coscienza di classe che in quegli anni progressivamente si formava e diventava condivisione dell‟interesse comune alla liberazione dal padrone latifondista e oppressore.

Tutti nati dal sen della terra

una grande famiglia formiamo,

d‟ogni artiere fratelli noi siamo,

ma nemici del vile oppressor!

E‟ il lavoro ogni nostra ricchezza

è la terra ogni nostro ideale

e per farci redenti dal male

una libera Armata formiam!

Nell‟Armata della terra

Su muoviamo tutti uniti,

ch‟ai potenti si fa guerra

pel trionfo del lavoro

(Ugo Nalato , 1984 in Giuseppe Ballarati promotore di lotte contadine nel Lazio centro-

meridionale. 1900-1920.)

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Nel secondo dopoguerra l‟intensa attività svolta dalle leghe, come l‟Unione dei contadini, la Federterre e l‟Alleanza contadini, produsse in Ciociaria una crescita socio- politico e culturale dei contadini direttamente coinvolti e partecipi nelle assemblee e nelle lotte di rivendicazione dei loro diritti. Soprattutto crebbe il movimento di lotta per l‟applicazione dei decreti Gullo del 1944 che rappresentarono il primo grande cambiamento: anche se essi non prevedevano una nuova organizzazione dei rapporti di lavoro sulla terra, introdussero diversi criteri per la spartizione dei prodotti. Di conseguenza il diritto ad una più equa ripartizione poteva essere rivendicato dai contadini sia con la forza delle occupazioni ma anche usufruendo della tutela degli organismi sindacali. I decreti Gullo rappresentarono la fine di una regolamentazione di un rapporto di lavoro basato, da secoli, sulla disparità delle parti. I contadini affrontarono i padroni soprattutto con la consapevolezza di avere diritti riconosciuti da una legge. Così racconta Angelo Compagnone, capo storico del movimento contadino a e responsabile provinciale della Federterra, che spesso in prima persona presenziava insieme ai contadini alla spartizione del raccolto con il fattore:

Arrivammo sul posto che il sole era già alto e cominciava a picchiare sulle teste. Concetta disse qualcosa al marito che faceva bere le vacche alla sorgente, poi legò l‟ultima manata di spighe e si accostò. “Allora Concetta, fece l‟amministratore, diamo inizio a questa divisione? Tu qui a Tana del Tasso quanti covoni hai fatto?” “ Settantotto” rispose puntuale il guardiano, prima della donna. “ Settantotto. Allora prendiamo i nostri trentanove cominciando da questa parte”. [………..]. “Treantanove? Te ne toccano di meno”. “ Perché come vorresti dividere?”. “Come dice la legge” rispose Concetta senza scomporsi. “E che dice la legge ? Che ne sai tu della legge? Lo hai avvertito tuo marito? “. “Mio marito non si è mai interessato: lo sai bene decido sempre io”. “ Allora ti assumi tutte le responsabilità di quello che deve accadere”. “ Si mi assumo tutte le responsabilità. […..]” “Conta trentuno covoni e due gregne, tanto dopo faremo i conti. Gliela faccio vedere io la legge! Adesso pure Concetta si mette a parlare di legge”. ( Compagnoni, 1982, pp 72-73)

Anche la nuova situazione post-bellica, caratterizzata da un lato dalla sconfitta del fascismo e dall‟altro dal ritorno alla libertà ed alla vita normale, generarono nuove consapevolezze. I proprietari durante la guerra avevano rinunciato alla gestione dei terreni per restare a Roma, spesso come dirigenti e funzionari del partito fascista. Avevano

23 rinunciato ad un contratto da cui nascevano reciproci impegni. Il contadino da solo aveva salvato la terra, il bestiame, aveva seminato e raccolto anche durante la guerra rischiando la vita. E finita la guerra ritornava il padrone con la stessa arroganza di prima ( Martini, p. 92). Nella coscienza del contadino ormai maturavano queste sicurezze: “ Anche chi sembrava troppo forte poteva essere battuto . Non c‟era più niente che non potesse essere rimosso, anzi tutto era suscettibile di un cambiamento” ( Compagnoni, 1997, pp 72-73).

Le vicende parlamentari degli anni „60 furono l‟epilogo di un lungo cammino di servitù e liberazione. Esse portarono all‟approvazione delle leggi n. 327 del 25 febbraio 1963 “ Norme sui contratti a miglioria in uso nelle province del Lazio” e n. 607 del 22 luglio 1966 “ Norme in materia di enfiteusi e di prestazioni fondiarie perpetue “. La prima riconobbe ai mezzadri il diritto affrancazione della terra ossia il diritto di acquisto in proprietà in cambio del pagamento di una somma di denaro definita canone di riscatto in favore del proprietario; la seconda garantì l‟effettivo esercizio del diritto di riscatto riconoscendo una determinazione uniforme e più bassa dei canoni di riscatto e la semplificazione della procedura di affrancazione.

A Casamari nel mese di settembre del 1963 “venne organizzato un vero e proprio corteo funebre, con tanto di cassa da morto, per il funerale al famigerato Patto colonico verolano. Alla originale iniziativa partecipano alcune centinaia di persone” ( Compagnoni, 1997, p. 173). A dispetto di queste manifestazioni popolari, i concedenti contestarono le modalità di liquidazione di un riscatto, dal loro punto di vista troppo basso, sollevando questioni di legittimità innanzi alla Corte Costituzionale, tutte dichiarate successivamente infondate. L‟Alleanza contadini provinciale di Frosinone fu la prima ad agire per difendere la legittimità costituzionale della legge attraverso i propri legali.

A conclusione di tale excursus storico si può dire che con il contratto agrario il contadino inizialmente ha acquisito una posizione di soggetto contrattuale, liberandosi dalla condizione di “ cosa della terra”, di servo della gleba. Tuttavia si deve anche affermare che il contratto si sia configurato sin dall‟inizio come strumento di sfruttamento del lavoro rurale.

Le leggi che negli anni Sessanta hanno favorito il riscatto della terra hanno rappresentato la liberazione da una ingiusta posizione di subordinazione con il riconoscimento di diritti sociali, politici e di cittadinanza per il contadino. Tali accadimenti

24 hanno aperto una fase di grandi trasformazioni, nonostante la caratteristica contadina di tale territorio permanga con il successivo sviluppo della industrializzazione.

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1.3 La società contadina tra stereotipo e realtà

Il contadino ciociaro è stato descritto con il suo costume e le sue ciocie da poeti ed artisti di varie epoche. Artista romano, vissuto ai tempi del poeta Belli tra il XVIII e XIX secolo, Bartolomeo Pinelli (Meo per i Romani) ne diede una romantica e classicheggiante interpretazione come si può vedere nelle riproduzioni sotto riportate.

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Luigi Alonzi, scrittore e poeta di ciociaro del Novecento, così racconta di donne e uomini nel loro costume tradizionale nel giorno della festa della Domenica delle Palme:

I contadini hanno avuto il dono dell‟ulivo benedetto e ora salgono in paese, sgargianti, con le robe d‟occasione. Le donne, in vesti piegose - come vuole la tradizione-, collane di corallo con perle grandi come noci e orecchini che scendono fino a toccar le spalle; sul capo, fazzoletti multicolori che a guardarli dall‟alto, nella piazza affollata, danno idea di un giardino semovente (…….. …) I vecchi sveltiscono nelle brache a metà gamba, strette, con lo spaccato filettato di bottoni, e nel corpetto di velluto ( Alonzi, 1933, p. 58).

Costumi ciociari

Il termine Ciociaria viene fatto derivare dalla particolare calzatura indossata dai contadini ciociari. La ciocia, il cui nome deriva a sua volta dall‟umile soccus ( dal latino zoccolo) che era la calzatura dei pastori e dei contadini fin dai tempi preromani, veniva realizzata con pelle di capra e stringhe di cuoio nero che, arrotolate intorno alla gamba, tenevano fermo un semplicissimo rivestimento del piede. Per queste sue caratteristiche era il simbolo della povertà di un territorio e di gente che viveva solo di agricoltura, che lavorava con sacrificio per il sostentamento della famiglia. Nonostante venisse indossata

27 anche da pastori e contadini dell‟Abruzzo, del Molise e della Campania, la ciocia definisce e stigmatizza soltanto il Ciociaro come personaggio caratterizzato dalla povertà. I costumi popolari che si possono osservare nelle diverse iconografie sono quelli elaborati, colorati e vistosi indossati nei giorni delle festività e ricorrenze vissute dalla collettività in un tempo non lavorativo. Difatti un altro elemento del costume che sempre compare nelle rappresentazioni della ciociara è il corsetto per fasciare e contenere il petto. Il corsetto di ogni giorno era nero con le zagane infilate in una ventina di occhielli sistemati verticalmente uno sull‟altro. Invece nel giorno della festa o delle nozze il corsetto era di un colore vivace o intonato a quello dell‟abito da sposa. Il corsetto insieme al vestito da sposa veniva conservato per essere indossato di nuovo in altre ricorrenze importanti o per il matrimonio di altri parenti. La Ciociaria era una terra contadina, i cui valori fondamentali erano il lavoro, la famiglia, la religione e il sacrificio imposto dalla povertà. La società contadina è sempre stata delineata come una società semplice con una forte coesione interna, definibile nella letteratura sociologica classica come solidarietà meccanica. Gli individui sarebbero strettamente uniti gli uni agli altri con attività poco differenziate. Anche le coscienze non si differenzierebbero: tutti aderiscono agli stessi valori, credenze ed aspettative. I membri stessi della comunità con i loro comportamenti controllano il funzionamento della collettività e la distribuzione della risorse. Le relazioni tra individui erano regolate da usi, consuetudini e tradizioni tramandate oralmente. Di ciò si trova traccia in massime e proverbi, stornelli e strambotti che raccontano i cicli dell‟attività agricola, la vita familiare, i ruoli sociali, le credenze ed i valori fondamentali di quella cultura. In particolare i canti e le rime, le ninne nanne per bambini dondolati sulle ginocchia, descrivono momenti di vita domestica e costituiscono vere e proprie pratiche educative e di inculturazione ai ruoli sociali:

“Dormi dormi bel diletto “dormi dormi bell‟amato acciuccatu sul mio petto accucciato sul mio petto Sta nutrito del mio latto sei nutrito con il mio latte Dormi dormi pargoletto. Dormi dormi piccoletto. Ninna nanna ninna nanna. Ninna nanna ninna nanna Mamma fa lu faccinnole mamma fa le faccende di casa t‟ammannisci lu fasciole ti prepara le fasce

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Gli cinturi, la scuffietta, il cinturo la cuffietta ninna nanna ninna nanna”. ninna nanna ninna nanna “ ( AA.VV. Tradizioni popolari e folklore a Ferentino, 1994, p.126).

Lo stornello è un canto popolare con cui si esprimono, attraverso botta e risposta, con espressioni libere ed improvvisate, dichiarazioni d‟amore, frasi licenziose non comunicabili con espressioni ordinarie. Tra un bicchiere di vino ed uno stornello il contadino racconta gelosie, amori sfortunati, le sue fatiche, il suo modo di vivere e di divertirsi:

“ Fior d‟erba pazza si zeca ,brutta, racchia, Fior d‟erba pazza sei piccola, brutta, racchia „na cucozza, , una zucca mu pari n‟oca all‟ara che starnazza”. mi sembri un‟oca sull‟aia che starnazza

“Du giorno annanti a mammuta Di giorno davanti a tua madre „n tu baci, non ti posso baciare, du sera patrito appizza lu froci; di sera tuo padre tende le orecchie per sentire; quando pozzo baciarto „n santa paci?” Quando ti posso baciare in santa pace? ( AA.VV. Tradizioni popolari e folklore a Ferentino, 1994, p.120- 121).

I proverbi, espressione di saggezza popolare, sono tuttora evocatidalle persone anziane e denotano le visioni semplici su cui la società d‟altri tempi era costruita:

“Chi tè la mma piagni chi nun la tè “Chi ha la mamma piange , chi non la ha piagne e suspira”. piange e sospira”. “Chi tantu s‟innalza, lestu s‟abbassa”. “Chi tanto si alza, presto si abbassa” “Ama gli re cogli vizi sé”. “Ama il re con il vizio suo” (AA.VV. Ferentino ieri, 1981, p.166-167).

Il nucleo centrale della società contadina è stato sempre individuato nella famiglia estesa costituita dalla convivenza di più nuclei generazionali legati dalla coltivazione dello stesso terreno. Tuttavia secondo alcuni autori la nascita della famiglia nucleare-coniugale non necessariamente è da ricollegarsi al periodo della industrializzazione: questo modello esisterebbe già prima della industrializzazione nel mondo contadino che non è quindi sempre caratterizzato da una famiglia a struttura estesa o patriarcale (Barbagli, 1977).

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Le diversità nelle strutture familiari nel mondo rurale dipendevano dalle diverse forme di contratti agrari. Le famiglie contadine di braccianti che vivevano nei borghi rurali e che quotidianamente si spostavano dalle loro case ai campi fuori le mura, avevano una struttura di tipo nucleare con residenza neolocale. Le grandi famiglie multiple con residenza patrilocale o le famiglie a ceppo si trovavano invece dove il contratto agrario garantiva sia un duraturo rapporto del colono con un grande appezzamento di terreno, sia un avvicendamento generazionale per la miglioria senza la parcellizzazione della terra. Anche l‟organizzazione produttiva poderale costituiva sostentamento per famiglie complesse o multiple costituite da adulti, giovani e vecchi ( Saraceno, Naldini, 2001).

La famiglia contadina era una unità produttiva in cui tutti i membri erano lavoratori all‟interno di essa: unità domestica, unità di produzione e di consumo coincidevano. I membri della famiglia producevano e consumavano ciò che producevano. L‟unica attività extra familiare, a volte realizzata, era la vendita agli abitanti del paese di qualche prodotto eccedente e della legna secca da ardere, raccolta nei boschi dalle donne e spesso anche dai ragazzi.

La numerosa famiglia contadina era anche un‟unità che realizzava le esigenze di sopravvivenza attraverso un equilibrio di forza lavoro, risorse e bocche da sfamare: l‟eccedenza di forza lavoro produceva la mobilità di giovani contadini che svolgevano servizi presso altre famiglie poderali o si spostavano nella capitale per cercare altri padroni. E‟ il caso di braccianti agricoli ciociari che negli anni Sessanta “ si spostano a Roma per ottenere un salario più redditizio e che al loro ritorno raccontano ai loro paesani di aver conosciuto il cinema o di aver comprato le scarpe a Porta Portese la domenica” (Compagnoni, 1997, p. 91).

La società era fondata sul matrimonio in cui i ruoli erano rigidi e ascritti: gli uomini provvedevano ai più duri lavori nei campi, le donne si occupavano anche del lavoro campestre ma principalmente dell‟educazione dei figli, della casa, della filatura e della tessitura, dell‟assistenza agli anziani.

Il matrimonio nella letteratura antropologica (Dizionario di antropologia ed etnologia, 2009), viene definito, secondo l‟approccio funzionalista, come istituzione universale finalizzata, attraverso l‟unione di un uomo e di una donna, a garantire una linea di discendenza, la legittimità dei figli nati dalla donna e ruoli definiti al suo interno. Nell‟ambito di tale istituzione si instaurano relazioni non solo tra coniugi ma anche tra i

30 loro gruppi di parentela, definibili come vere e proprie alleanze consolidate da movimenti di beni. Questi ultimi che accompagnano il matrimonio possono configurarsi come dote, ossia come trasferimento di beni che va dalla famiglia della sposa a quella del marito, oppure come prezzo della sposa pagato dalla famiglia del marito alla famiglia della sposa. Prevaleva il l‟uso del “prezzo della donna” nelle società in cui era più importante la filiazione; era più utilizzato l‟istituto della dote nelle società che davano maggiore valore alla alleanza (Goody,Tambiah,1981). Pertanto sulla base di queste peculiarità il matrimonio si configura, secondo gli antropologi marxisti francesi, principalmente come alleanza tra gruppi parentali fondata sullo scambio e la reciprocità o su manifestazioni rituali come il fidanzamento. La riproduzione e la continuità sociale avvengano sotto il controllo degli anziani proprio attraverso il movimento dei beni tra famiglie (Barnard, 2009, p.526-527).

Il matrimonio tra contadini non era di norma basato sull‟amore romantico; piuttosto era dominato dalla logica dei costi e dei benefici, stipulato in funzione delle necessità di lavoro. Tanti figli costituivano futura forza lavoro da impiegare nei campi. Il coniuge era scelto nell‟ambito della stessa classe sociale secondo logiche precise di acquisizione e scambio legate ai patrimoni, spesso proprio per questo nelle comunità contadine più ristrette si riscontravano unioni tra consanguinei ed affini.

Le cerimonie di fidanzamento erano le condizioni per la legittimazione dell‟unione (Barnard, 2009, p.526-527). Figure come il parroco, la comare, la ”ruffiana”, erano gli intermediari per il contatto tra le famiglie degli sposi tra cui dovevano stabilirsi anche accordi patrimoniali: l‟uomo portava il terreno, le pecore, la donna la dote. Tutta la comunità, con i suoi intensi rapporti di vicinato, partecipava alla funzione di controllo sociale ed alla distribuzione delle risorse in occasione della costituzione della nuova famiglia. Una lunga fila di donne portava nei cesti gli oggetti della dote e le provviste nella casa degli sposi. Le relazioni parentali creavano forti legami tra generazioni, realizzavano sostegno reciproco.

Il vedovo o la vedova che passavano a nuove nozze venivano canzonati e beffeggiati: tale condotta evidenziava l‟atteggiamento negativo della comunità nei confronti di chi utilizzava più volte le risorse matrimoniali collettive. Una squadra di amici con arnesi di ferro, coperchi e pentolacce di rame, per tre sere consecutive precedenti il matrimonio, faceva il giro della città e con un rumore assordante gridava:

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” Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! Peppinella n‟ha fatti tre Peppinella ha avuto tre mariti attenti Giovagnottu ca tocca puru a te!” Attento Giovagnotto che adesso tocca pure a te!

Tutto il paese viene a sapere che Peppinella “l‟arraiata” si risposa con ”Giuvagnottu gli mbriaconu” (Celani, 1981, p.35).

Il mondo contadino, fragile nella sua subalternità, era in balìa delle influenze più incontrollabili quali i disordini della natura, le minacce quotidiane del caso, le invidie degli uomini. Il bisogno di protezione veniva garantito attraverso le figure del compare e della comare a cui chiedere soccorso contro la realtà ostile. Sin dalla nascita con il battesimo, il bambino era affidato alla protezione simbolica di un padrino e altri compari e comari venivano scelti in occasione della cresima e del matrimonio. Il protettore, scelto alcune volte tra le famiglie abbienti, garantiva per il futuro aiuto in casi di necessità, occasioni di lavoro, favori e vantaggi di cui usufruire nella comunità in cambio di rispetto, ubbidienza ed eventuali doni. Tale relazione dal punto di vista sociale riconfermava i rapporti di subalternità tra la classe contadina e la classe padronale, consolidandoli con relazioni intime ed affettive. I più frequenti rapporti di comparanza che si istituivano invece nell‟ambito della stessa comunità contadina soddisfacevano più specificamente il bisogno di edificare alleanze interfamiliari e di rafforzare una socialità che poteva essere minata da conflitti interni. Dal padrinato e dal madrinato nascevano relazioni di salda amicizia e di solidarietà più forti di quelle generate dalla stessa parentela. In letteratura definite “parentele spirituali” venivano costituite anche in occasione delle processioni o delle feste patronali così da apparire come relazioni quasi sacre, protette e protettive nello stesso tempo e destinate a durare nel tempo.

Il contadino ciociaro viveva nel casale, agglomerato di pertinenze aziendali e di case dominate dalla casa padronale, oppure nei borghi rurali e quotidianamente raggiungeva il suo terreno “ fuori porta o fuori le mura”. Un altro tipo di abitazione era la casa mezzadrile che invece era isolata in campagna. Era in muratura con tetto a due spioventi, si articolava su due o tre piani. Gli spazi agricoli erano separati dal corpo principale della casa, dinanzi c‟era un‟aia in terra battuta. Nonostante l‟esistenza di leggi sanitarie che facevano obbligo ai proprietari di mantenere una casa sana ed adeguata alle

32 esigenze della famiglia mezzadrile, pochi mezzadri avevano la fortuna di vivere in abitazioni con queste caratteristiche. La casa colonica aveva poco a che vedere con una abitazione civile: era costituita da pochi ed angusti ambienti in cui convivono negli stessi spazi adulti, piccoli, vecchi e anche animali e dove si conservavano scorte alimentari e sementi. D‟inverno la stalla era lo spazio più caldo dove il respiro degli animali creava tepore per grandi e piccoli.

La casa era arredata con oggetti semplici ed indispensabili per la quotidiana soddisfazione di bisogni primari. Molto frequente nell‟arredamento era la madia per impastare e conservare il pane. La cassa nuziale piena di biancheria, preparata in occasione delle nozze, accompagnava l‟arrivo della moglie nella nuova casa coniugale. La cassa conteneva: 12 rucchi ( rotoli di panno), 12 lenzuola di canapa o di lino, 12 asciugamani, 12 pannuni ( strofinacci), 6 mantili ( tovaglie), gli pagliaricci ( sacco riempito con le foglie della pannochia, su cui gli sposi dormivano ), 1a coperta “‟mbuttita”, 1a coperta di seta da esporre alla finestra durante le processioni. Il centro della vita domestica era il focolare che riscaldava l‟abitazione o consentiva la cottura degli alimenti nei paioli pendenti dalla catena al centro del camino. Frequente era l‟uso di recipienti di rame portati in dote dalla sposa, tra cui la conca utilizzata dalla ciociara per prendere acqua presso le fontane (Bravo, 2001). “Lu cuncono” è infatti un altro simbolo della Ciociaria insieme alle ciocie e veniva portata dalla donna in equilibrio sulla “croglia” appoggiata sulla testa. La conca insieme a “lu surello”, ossia un grosso mestolo con due beccucci che serviva per bere l‟acqua, venivano di solito regalati dalla comare alla neonata.

L‟alimentazione del contadino ciociaro era semplice costituita da pane, patate e legumi. Secondo il Del Nero (1907) l‟immobilità e la debolezza di coscienza dei contadini dipendevano, oltre che dall‟analfabetismo, anche da una alimentazione poco ricca di nutrimento perché basata sul consumo eccessivo di pane, integrato da poco companatico, e su un uso smodato di alcolici. Durante i mesi d‟inverno i pasti del mezzadro erano costituiti da pane di granturco, da patate, cipolle e verdura dei campi con poche gocce di olio e tanto peperoncino. Tipico cibo dei più poveri era l‟acqua cotta, una minestra di acqua, sale olio e pane raffermo. I pranzi a base di carne avevano luogo solo in occasione di festività, di giorni importanti del ciclo agrario come la mietitura e la vendemmia o in occasione di ricorrenze come la macellazione del maiale o dell‟agnello. In queste ricorrenze la comunità si riuniva per la preparazione delle risorse per l‟inverno. Dopo la raccolta delle olive le donne preparavano la cena a base di polenta e sugo di salsiccia. Sul

33 treppiede veniva messo il pignato, una grande pentola di rame in cui le donne, quando l‟acqua era calda, buttavano la farina gialla e la giravano con lo stunnuturo ( un bastone con diverse piccole ramificazioni) . Sul tavolo si metteva una grande scifa, la donna sollevava il pignato e vi versava la polenta; un‟altra sollevava la scifa, ora da una parte ora dall‟altra, per distendere la polenta in modo omogeneo. Successivamente si versava il sugo su tutta la polenta mentre le salsicce venivano messe al centro. Con la forchetta, ognuno dalla sua parte, iniziava a mangiare procedendo avanti fino ad arrivare centro dove poteva prendere soltanto la salsiccia che gli spettava.

Le giornate di raccolta delle olive, del granturco, della mietitura si chiudevano con le danze sull‟aia, così come avveniva nelle feste di matrimonio; i ballerini del saltarello, a coppie o a gruppi di tre o quattro, si agganciavano le spalle con le braccia, con il corpo un po‟ curvo in avanti, arrivavano ad un angolo dell‟aia e ripartivano per raggiungere l‟altro angolo. Le coppie nel vortice della danza accentuavano i movimenti sensuali: l‟uomo si avvicinava sfiorando il corpo della donna, questa ballava con movenze sempre più audaci e provocatorie, mentre gli altri spettatori intorno all‟aia incitavano i ballerini battendo le mani e gridando “e piglia… piglia… piglia… e daie… daie…daie”.

Facevano parte della cultura contadina ciociara anche i riti in cui si intrecciavano magia e superstizione, spirito religioso e religiosità popolare attraverso cui si cercava di allontanare ciò che ha sempre spaventato l‟uomo: la morte, la malattia, la sofferenza e la sventura. A volte tutto si risolveva con cure erboristiche o con manipolazioni dell‟ “aggiustaossa”, altre volte era necessaria una preghiera con l‟utilizzo di amuleti come il cornetto. La pratica della fattura voleva contrastare l‟influsso di spiriti malefici con formule, gesti, rituali, scongiuri ed invocazioni. La sera della Vigilia di Natale le persone anziane insegnavano alle giovani le formule per scacciare il malocchio, il mal di testa, la paura, per togliere i vermi e altri disturbi. La medicina dei contadini era costituita non solo da rituali magici ma anche dalle cure vegetali fatte di erbe coltivate nell‟orto di casa, o che nascevano spontanee nei boschi o ai margini della strada. Tali terapie erano il frutto di esperienze fatte dai vecchi e ad esse si associavano scongiuri e preghiere propiziatorie. Contro i vermi intestinali dei bambini le mamme preparavano collanine fatte con spicchi di aglio da portare al collo, per chi aveva la bronchite era riservato un decotto di fichi secchi con l‟aggiunta di miele e zucchero; il decotto di parietaria era efficace contro il bruciore di stomaco. Infine il peperoncino strofinato sul capo arrestava la caduta dei capelli.

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1.4 Ascesa e crisi dello sviluppo industriale

Secondo gli economisti Marzano e Tucci si può parlare di sviluppo economico quando in un determinato contesto storico-geografico la presenza e la disponibilità di fattori e condizioni determina risultati come la trasformazione del territorio e delle modalità produttive, la diffusione dell‟imprenditorialità, l‟aumento della popolazione e della qualità di vita della stessa. Tra i fattori condizionanti lo sviluppo e la crescita di un determinato territorio assumono un ruolo fondamentale quelli definiti agglomerativi di cui sono esempio: 1) la disponibilità di materie prime; 2) la buona qualificazione della manodopera; 3) la sufficiente disponibilità di infrastrutture di tipo tradizionale ed avanzato; 4) un soddisfacente rapporto tra terra coltivabile e popolazione, tra popolazione e risorse disponibili; 5) la buona attitudine alla innovazione produttiva e culturale. I fattori disagglomerativi determinano invece il permanere di una situazione negativa di arretratezza (Marzano, Tucci, 1991).

L‟anno 1951 è il punto di partenza di una nuova fase di sviluppo. Nel decennio 1951- 1961 l‟economia italiana si trasformò in economia aperta, nel passaggio da economia prevalentemente agricola ad una diversamente legata al modello industriale, da economia di esportazione di prodotti primari a economia di produzione ed esportazione di manufatti. Negli anni successivi al Cinquanta diventarono competitive a livello europeo l‟industria siderurgica, chimica, automobilistica e manifatturiera. Successivamente lo sviluppo si estese all‟industria del mobilio, degli elettrodomestici e alimentare. Si modificò anche la struttura degli insediamenti con una concentrazione sempre più elevata della popolazione nelle grandi città.

Tuttavia lo sviluppo dell‟economia italiana in generale fu caratterizzato anche da aspetti negativi; innanzitutto una distanza profonda tra il grado di crescita delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali, infine un dualismo produttivo ossia la presenza di poche imprese tecnologicamente all‟avanguardia che convivevano con un settore costituito da piccole iniziative imprenditoriali arretrate. L‟agricoltura era un settore ancora in grave difficoltà e poco produttivo rimanendo ancorata alle strutture tradizionali e alla sussistenza; era caratterizzata da sovrabbondanza di manodopera, con un forte esodo verso l‟industria e verso le regioni del Nord nel periodo 1955-1965.

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Il Lazio meridionale prese la via dello sviluppo nel secondo dopoguerra, a causa della disponibilità solo in questo momento storico di fattori agglomerativi e per l‟ attuazione di politiche economiche di sostegno pubblico allo sviluppo industriale destinate in particolare alle province di Frosinone, Latina e Rieti (Marzano, Tucci, 1991 ). Tuttavia lo sviluppo presentò differenziazioni tra zona e zona della regione mostrando ancora oggi i segni di un processo incompiuto.

Le province già depresse di Frosinone e Latina furono quelle che più velocemente furono coinvolte nel processo; in particolare lo sviluppo che caratterizzò la provincia di Frosinone fu direttamente legato alle politiche di sostegno della Cassa per il Mezzogiorno. La Cassa per il Mezzogiorno, cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell' Italia Meridionale, fu istituita dal governo De Gasperi con legge 10 agosto 1950 nº 646, come ente pubblico finalizzato a favorire lo sviluppo del Meridione attraverso pianificazioni e finanziamenti di opere straordinarie. Il piano Asi, strumento di pianificazione più importante della CASMEZ, individuò come area destinata alla industrializzazione una zona estesa 400 ettari compresa in larghezza tra l‟Autostrada del Sole e il fiume Sacco e in lunghezza tra il monte Faito presso Ceccano e le sorgenti di Mola dei Frati presso il confine di Ferentino. L‟area di concentrazione delle industrie si estendeva dalla Valle del Sacco a Frosinone- attraverso i Comuni di Paliano, Anagni, Ferentino, Patrica e mantiene tuttora tale fisionomia. Nel 1964 venne quindi istituito il Consorzio per il Nucleo di industrializzazione della Valle del Sacco, presieduto dall‟allora Sindaco di Frosinone ing. Armando Vona, cui aderirono i Comuni di Ferentino, Frosinone, Ceccano, Patrica, Supino, Veroli, la Camera di Commercio di Frosinone, l‟Amministrazione provinciale di Frosinone, il Banco di Napoli e l‟ISVEIMER. La Cassa per il Mezzogiorno, attraverso la politica dei poli di sviluppo, scelse aree a cui destinare finanziamenti per la realizzazione non solo di “rustici industriali” sedi delle future imprese, ma anche di infrastrutture e di edilizia scolastica.

Vari sono stati i fattori che hanno rappresentato lo sviluppo economico della regione Lazio e delle sue province nel secondo dopoguerra ( Marzano, Tucci, 1991). Il rapporto densità della popolazione/territorio mutò e, in precedenza sfavorevole, assunse andamento positivo passando da 194 abitanti per kmq nel 1951 a 292 nel 1981. La situazione geografica risultava invece particolarmente carente di materie prime: uniche eccezioni un piccolo giacimento di petrolio nelle vicinanze di Frosinone e un piccolo giacimento di zolfo nella zona di Manziana. A ciò si contrapponeva una situazione positiva rispetto al

36 contesto nazionale relativamente alle infrastrutture soprattutto concentrate nel territorio della Capitale e nelle zone limitrofe. Per quanto riguardava le reti ferroviarie dello Stato o in concessione l‟incidenza del Lazio sul totale nazionale passava dal 5% nel 1961 al 6,3% nel 1985. Per quanto riguardava la rete stradale l‟incidenza del Lazio sul totale nazionale era del 4,5% nel 1961 e del 6,3% nel 1985. Tra le infrastrutture di viabilità assumeva importanza la realizzazione della autostrada del Sole. La superficie complessivamente destinata a piste di volo nel 1982 era di 803.200 mq, di cui 234.000 a Roma-Fiumicino e 99.000 all‟aeroporto civile di Roma-Ciampino ( Marzano, Tucci, 1991).

Nell‟arco di tempo 1951-1981, come nelle altre regioni d‟Italia, nel Lazio si verificarono processi di esodo dalle campagne, d‟industrializzazione, di urbanizzazione e di crescita dell‟occupazione terziaria soprattutto nella capitale. Per quanto riguarda la distribuzione strutturale dell‟occupazione dal 1951 al 1984 il settore agricolo subì una riduzione di un terzo del livello iniziale passando da 375 .800 a 114.100 unità di addetti; l‟industria aumentò del 37% da 318.000 a 435.500 unità; nel terziario privato si ebbe un aumento del 135% passando da 367.500 a 862.300 unità; nella P.A. un aumento del 177% passando da 166.600 a 462.100 unità. (Marzano, Tucci, 1991). I settori dove l‟incremento fu maggiore furono quelli dell‟industria e del terziario privato con un crescente numero di occupati, mentre la crescita fu minore nella Pubblica Amministrazione e in netta diminuzione nel settore agricolo. Ciò porta a dire che l‟economia laziale si delinea nel secondo dopoguerra complessivamente come “economia a crescente industrializzazione”, soprattutto in determinati settori, a differenza del Nord Italia dove il processo di de- industrializzazione e sviluppo del terziario è anticipato. Infatti nello stesso periodo nel Nord Italia l‟occupazione nel settore industriale decresceva in favore del terziario.

La più evidente trasformazione produttiva negli anni 70 rispetto agli anni 60 era essenzialmente data dal ridimensionamento del settore agricolo particolarmente visibile nelle province di Frosinone con un calo di oltre 10 punti dal 16,6 al 5,9 per cento e nella provincia di Rieti con un calo dal 20,8 al 10,4. A Roma l‟incidenza del settore agricolo passava ai valori minimi. Invece il processo di industrializzazione risultava differenziato da provincia a provincia: più avanzato nelle province di Frosinone e Latina dove il reddito totale per settore industriale salì rispettivamente dal 32,6 nel 1969 al 42,1 nel 1979, dal 38,1 nel 1969 al 38,9 nel 1979 per Rieti. Per la provincia di Roma l‟incidenza del reddito del settore industriale nel 1979 era solo del 20,3% e il reddito più alto era prodotto dal settore terziario e dal settore pubblico.

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In conclusione i dati generali relativi alla regione Lazio evidenziano un declino diffuso dell‟agricoltura in tutte le province con picchi più alti per Frosinone e Rieti. Si delineano inoltre differenziate identità economiche delle province laziali come maggiormente industrializzate o maggiormente terziarizzate. Roma in particolare diventa capitale del terziario. Complessivamente il Lazio diventa una regione in crescente industrializzazione negli anni in cui in altre regione è già avviato il declino del secondario.

Passando ad una analisi dettagliata della situazione locale negli anni Sessanta l‟economia di Ferentino era basata su una agricoltura lenta nell‟adottare la meccanizzazione e nuove pratiche colturali. Le colture venivano condotte alla vecchia maniera, le forze lavoro erano in sovrabbondanza rispetto alle possibilità di occupazione offerte dal settore. Le aziende agricole erano eccessivamente povere e polverizzate in piccole o piccolissime proprietà: nel 1946 la metà delle proprietà agricole avevano una estensione non superiore a mezzo ettaro di terreno. L‟analfabetismo era nel 1951 di 90.723 unità della popolazione compresa nel Nucleo di industrializzazione della Valle del Sacco. Le difficile condizioni di vita costrinsero ad emigrare verso la capitale 90.000 persone provenienti da vari paesi della provincia di Frosinone, soprattutto dalle zone montane. La disoccupazione era quindi il problema impellente da risolvere per le amministrazioni locali.

Quadrozzi evidenzia come anche l‟economista Sylos Labini avesse a quei tempi dimostrato interesse per la grave situazione demografica ed occupazionale della Ciociaria. L‟economista denunciò il fatto che i passati governi avevano disposto l‟immissione esclusiva di famiglie del Settentrione sull‟Agro Pontino bonificato, ignorando i problemi economici delle zone agricole con esso confinanti e densamente popolate. Se i contadini della Ciociaria fossero stati occupati nell‟Agro Pontino avrebbero avuto una grande occasione di riscatto (2012). Uno spostamento della popolazione attiva dalla campagna per garantirne un‟occupazione necessitava quindi di una nuova politica economica che prevedesse la istituzione di stabilimenti industriali e successivamente di scuole di qualificazione. Non sarebbero invece serviti gli investimenti in opere di bonifica agricola che fino ad allora non avevano mai prodotto la conseguenza di favorire l‟investimento privato in agricoltura.

Come “area depressa” il territorio del Comune di Ferentino rientrò nel Nucleo di industrializzazione Valle del Sacco, successivamente trasformato in Area dello Sviluppo

38 industriale della provincia di Frosinone, e ad esso furono destinati gli incentivi industriali della Cassa per il Mezzogiorno. L‟area di sviluppo fu suddivisa in 5 agglomerati: agglomerato di Anagni, di Sora e Isola Liri, di Cassino-, di Ceprano e di Frosinone di cui faceva parte il territorio di Ferentino. Quest‟ultimo era l‟agglomerato meglio servito dalle infrastrutture viarie in quanto situato ad un crocevia di strade, la via Casilina, l‟autostrada del Sole, la statale che porta a Latina, la statale Isola Liri –Sora, la statale -. Alla fine del 1968, a seguito degli interventi della CASMEZ, gli stabilimenti industriali attivi dell‟Agglomerato di Frosinone erano diventati 83. A Ferentino gli stabilimenti erano nove e di modeste dimensioni operanti in diversi settori (Mastracco, Pompeo, C., 1981) ed alcuni con partecipazione di capitale straniero. La maggior parte furono ubicati lungo le strade vicine all‟attuale accesso al casello autostradale, di recente realizzazione, o vicino alla stazione ferroviaria. I centri abitati invece si trovavano e si trovano ancora sulle colline, a notevole distanza dall‟autostrada e dalla stazione. Tra i più importanti insediamenti produttivi se ne citano alcuni ancora esistenti e altri non più attivi: la Bonser che occupava manodopera femminile per la produzione di camicie; la Prinz-Brau e l‟ Italgel che operavano nel settore alimentare rispettivamente nella produzione di gelati e di birra; la Henkel Sud che produce detersivi per uso domestico e industriale, la Maragoni Spa per il settore degli pneumatici. Infine la Plastisud per la produzione di materie plastiche, la Cemamit operante nel settore edile e la Italfornaci che produceva manufatti edili di terracotta, argilla e creta, tutte non più funzionanti.

Agglomerato industriale di Frosinone comprendente l’area industriale

di Ferentino anni Sessanta

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La Italfornaci e la Prinz-Brau furono le prime industrie ad essere impiantate sul territorio.

Mario, attualmente piccolo imprenditore sessantenne, ricorda il forte impatto sociale dell‟arrivo delle industrie che determinarono lentamente cambiamenti sociali ma anche nuove abitudini e una più moderna mentalità del paesano ciociaro, che come figura-tipo dei tempi passati, ben assomigliava ai personaggi contadinotti ed analfabeti rappresentati in modo caricaturale da attori come Manfredi ed altri:

Avevo otto anno e sul balcone della casa di mia zia in piazza Matteotti vedevo i carri di Carnevale che arrivavano dalla passeggiata del Vascello fino in piazza. Qui sostavano sotto il monumento in mezzo alla gente allegra che faceva baldoria. Tra i carri c‟era anche quello della Prinz Brau. Portava una grosso barilotto di legno con sopra impressa a grandi caratteri la scritta Prinz Brau. Una volta fermo, scendeva l‟addetto che preparava i rubinetti della botte e i bicchieri per le persone che nel giorno di festa potevano assaggiare la birra offerta dalla ditta.

La birra rappresentava un nuovo modo di bere per il ciociaro abituato al vino rosso e bisognava pubblicizzarla penetrando le feste ed i riti paesani.

Clara, di cui qui si raccoglie la storia di vita, da giovanissima venne assunta dalla Bonser. Il suo lavoro in fabbrica è durato cinque anni fino al 1976 quando la Bonser si trasformò in tre aziende S.T.A., Gallia e Ferentino Moda, gestite dalla Gepi fino all‟arrivo della Cassa integrazione guadagni per tutti le ex addette, dopo fallimentari tentativi di riconversione. L‟arrivo di questa industria sul territorio produsse un grande cambiamento culturale per le donne del luogo che, uscendo dalle pareti domestiche, iniziarono a vivere momenti di libertà nella vita quotidiana, nella vita privata, nell‟ organizzazione del loro futuro. Così nelle testimonianza di C.:

Si parlava spesso dell‟arrivo a Ferentino di un‟industria che avrebbe assunto ragazze che sapevano cucire; tutto il paese era in fermento per la novità, si cercavano conoscenze per poter essere tenuti in considerazione per l‟assunzione, chi andava dal prete chi dal collocatore, chi da altre persone che per la posizione occupata, più o meno importante nel paese, avrebbe potuto fare da intermediario. L‟ industria Bonser iniziò la sua attività nel 1971: un po‟ di mesi di prova nel laboratorio che si trovava in un grande scantinato nel rione Sant‟Andrea sottostante la piazza Matteotti, poi l‟ addestramento-avviamento a Roma in via Aquilonia presso la borgata Gordiani sulla Prenestina ed infine l‟assunzione nel grande stabilimento nell‟area industriale di Ferentino.

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Fui assunta, dopo questa trafila obbligatoria per tutte, nel 1972 e qualche anno dopo arrivò anche mia sorella. Non fu facile superare le resistenze di mio padre che, come tutti i genitori di quei tempi e tra l‟altro di un piccolo paese dove le donne erano sempre state in casa e in famiglia, non accettava che “la figlia femmina” andasse a lavorare. Tuttavia si convinse, in famiglia eravamo cinque ed io avrei contribuito a sostenerla e poi avrei potuto facilmente raggiungere la fabbrica a piedi poiché si trovava a pochi chilometri dalla mia abitazione. La finestra della mia casa, da cui si vedeva il piazzale su cui transitavano gli autobus che portavano le ragazze da Ferentino centro e dai paesi vicini di , Anagni, , Paliano, Frosinone, era la vedetta di controllo. Da lì mio padre poteva “sbirciare” se arrivavo da sola o sulla proibita cinquecento rossa del mio fidanzato. Dopo aver percorso un viale coperto, entravamo a sinistra dove c‟erano gli armadietti per il deposito degli oggetti personali e per il cambio. I camici erano di diversi colori, giallo-ocra per il reparto taglio, bianco per le operaie addette alle macchine da cucire, giallo per il reparto stiro e verde per il capolinea. Io indossavo il camice bianco e per arrivare nel mio reparto dovevo oltrepassare il laboratorio taglio, oltre il mio reparto si vedevano le lavoratrici addette allo stiro. L‟ambiente era familiare, 500 addette e solo in amministrazione c‟erano uomini. Nella mezz‟ora di pausa pranzo il piazzale si riempiva di nuovo di autoveicoli, di motorini e vespette dei fidanzati che venivano a salutare. Molte preferivano non mangiare a mensa per dedicarsi a questo momento che aveva il piacevole sapore del proibito , del nascosto e della libertà . Mi sentivo contenta, il giorno non dovevo più soltanto aiutare mia madre nelle attività domestiche o in campagna, ma uscivo la mattina anche sistemandomi con cura nell‟aspettativa dell‟incontro piacevole del mio fidanzato; il lavoro era occasione per conoscere tante persone, per parlare, ridere e scherzare nei momenti di pausa. Ancora oggi sono rimasta legata ad amiche lì conosciute. Mi sentivo soddisfatta quando a fine mese portavo a casa la mia paga e anche se dovevo consegnarla a mio padre e a mia madre che provvedevano ad amministrala sapevo che quei soldi sarebbero stati utili per tutta la famiglia ed anche per me. Ora le spese straordinarie per il matrimonio di mia sorella, ora la biancheria per tutte noi “femmine di casa”, ora il frigorifero nuovo: la mia paga era il mio contributo per il benessere di tutti e per una mia vita futura più agiata. Sentivo dentro di me che tutto stava cambiando.

Questi sono gli anni del boom le cui conseguenze si manifestarono da subito anche nell‟edilizia, con realizzazione di nuove costruzioni, ristrutturazioni e lo sviluppo dell‟edilizia popolare. La Cemamit in particolare produceva manufatti di cemento-amianto e sarà causa, a distanza di anni, di decessi per cancro di quasi tutti gli addetti ( Dati Sportello amianto – Comune di Ferentino).

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Gli interventi per la promozione e il rilancio produttivo del territorio rappresentarono occupazione per disoccupati e donne, la realizzazione di opere infrastrutturali, di scuole professionali, la crescita del commercio e dell‟artigianato. un miglioramento diffuso delle condizioni di vita. Tuttavia nel lungo periodo è possibile vedere anche conseguenze che ne costituiscono un risvolto negativo. Estesissimi ettari di terreni coltivabili ed irrigabili nella piana fiancheggiante la Valle del Sacco vennero espropriati ai contadini per l‟insediamento delle industrie e sottratti così all‟agricoltura. Un giornalista locale ( Quadrozzi, 2012) riporta in una sua opera una intervista televisiva ai familiari di Giuseppe Bonollo, l‟imprenditore che impiantò la prima distilleria ad Anagni, in cui essi ricordavano che nel 1958, quando vennero la prima volta ad Anagni, la Valle del Sacco era un paesaggio bucolico, un susseguirsi di vigne, di campi, di boschi con il fiume in mezzo.

Molte di queste industrie nacquero con investimenti di capitali stranieri o di imprese del Nord che trasferirono a Ferentino solo il reparto produzione. Inoltre il nuovo tessuto produttivo creato con gli incentivi statali non si collegava affatto all‟ identità economica locale originaria, alle sue risorse ed alle potenzialità specifiche territoriali. Ciò rappresentò il fallimento delle politiche meridionalistiche a Ferentino, in quanto esse non realizzarono obiettivi quali la valorizzazione delle risorse locali e l‟aumento della produttività agricola. Né tantomeno tali politiche, con la tendenza al trasformismo ed al clientelismo (Quadrozzi,2012), stimolarono la creazione di iniziative imprenditoriali da parte dei residenti sul territorio. Pertanto, sopravvenuta l‟estinzione della Cassa per il Mezzogiorno, tante industrie hanno cessato di esistere creando disoccupati e abbandonando le strutture dismesse. In questo senso l‟industrializzazione non si è integrata in una dinamica di sviluppo locale vero e sussiste tuttora l‟incapacità o l‟impossibilità di ricucire un tessuto economico attraverso l‟utilizzo delle risorse locali tra l‟altro depauperate e danneggiate dall‟inquinamento industriale.

Si è verificata negli anni del boom economico quella che Pasolini ha definito una “modernizzazione senza progresso”, che ha cancellato identità e generato consumismo materiale e spirituale, uniformazione e distruzione di valori. Cambiarono i comportamenti delle classi fino ad allora misere economicamente ma ricche spiritualmente, ma mancò nelle loro coscienze un lento processo di maturazione della consapevolezza di un cambiamento sociale, politico ed economico (Pasolini, 1994). La modernizzazione fu veloce ed imposta dall‟alto. Come velocemente arrivò così si dissolse.

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Lo sviluppo è un concetto che va distinto da quello di progresso. Infatti ancora citando Pasolini : “ Lo sviluppo è un obiettivo degli industriali raggiungibile attraverso un aumento della produzione anche attraverso l‟applicazione della tecnologia. Il progresso è emancipazione ed è un obiettivo che vogliono raggiungere gli operai, i contadini, chi lavora e chi è dunque sfruttato”. Questi ultimi inconsapevolmente ed irrazionalmente hanno condiviso negli anni della industrializzazione uno sviluppo senza progresso, così come voluto dagli industriali, poiché ha rappresentato per loro promozione sociale e abiura di quei valori culturali legati al “modello di poveri “ (Pasolini, 1999).

Un altro aspetto di questa modernizzazione senza vero progresso è stato l‟impatto ambientale: se infatti le attività industriali sviluppatisi negli anni Sessanta hanno prodotto aumento del reddito delle famiglie e un cambiamento strutturale della società locale, accanto ad essi si sono registrati rilevanti danni ambientali per la contaminazione dei terreni, delle falde acquifere e l‟ inquinamento atmosferico. Nel 2005 le Associazioni ambientaliste hanno dichiarato lo stato di emergenza per la Valle del Sacco in cui il territorio e lo stato di salute della popolazione risultano gravemente compromessi. Il fiume è assimilabile ad un malato cronico tenuto continuamente sotto osservazione: a 100 metri a destra e a sinistra del Sacco e in tutte le aree di esondazione non si può più coltivare.1

Estremamente difficile appare per le Amministrazioni e per gli enti operanti a livello locale nei diversi settori realizzare nel breve termine una pianificazione di riqualificazione del territorio che tuttavia appare necessaria per la tutela della salute dei cittadini e dell‟ecosistema in generale.

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1 “Nel sangue degli abitanti della zona risulta, in un numero significativo di casi (una persona su cinque a Ceccano), la presenza di beta-esaclorocicloesano una molecola derivata dai pesticidi che ha fatto un lungo viaggio: dai depositi selvaggi al fiume, dal fiume ai campi, dai campi al foraggio e dal foraggio al latte” (www.retuvasa.org/ambiente/linchiesta-di-la-repubblicait- sulla-valle-del-sacco ; Cianciullo, A, Se la natura presenta il conto - L'emergenza infinita del Sacco, L'inchiesta di La Repubblica.it sulla Valle del Sacco, Colleferro ,Roma)

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1.5 Le lotte per il lavoro

La trasformazione di una realtà da agricola in industrializzata produsse mutamenti positivi come la riduzione della disoccupazione e della povertà in Ciociaria ma anche situazioni conflittuali. Protagonisti di questo scenario furono operai ed operaie che progressivamente costruirono, nella conflittualità con i padroni della fabbrica, una identità come classe sociale portatrice di valori motivanti alla lotta, alla rivendicazione di diritti e di condizioni lavorative migliori. Il miglioramento delle condizioni di vita del contadino, ora operaio, si realizzò quindi non solo con l‟arrivo della industria e con lo sviluppo economico ma anche e soprattutto con il progressivo riconoscimento di diritti sindacali, di salari più adeguati e con la fine delle prevaricazioni della classe padronale, a quei tempi poco aperta e molto repressiva. Appare significativo, in questo percorso ricapitolare alcune biografie di soggetti che, coinvolti in questo processo di emancipazione, pagarono prezzi molto alti raggiungendo i loro scopi anche perdendo la vita.

Gli scioperi contro lo sfruttamento del lavoro si svolsero in diverse zone della Ciociaria, soprattutto in quelle della Ciociaria meridionale, spargendo il vento della rivolta e della partecipazione anche più a Nord del Cassinate. Le lotte dei contadini si intrecciarono con quelle del movimento operaio organizzato nel sindacato.

In questo quadro ad esempio una figura come quella di Compagnoni Angelo originario di Ceccano, responsabile provinciale della Federterra, promosse nel 1944 la nascita del Movimento di contadini che occuparono le terre e chiesero la revisione dei patti agrari e del Patto colonico verolano; questo contratto iniquo obbligava i coloni a compiere migliorie senza che fossero ricompensati con una proporzionata ripartizione dei prodotti. Il movimento contadino crebbe e i militanti comunisti si impegnarono per la riorganizzazione del sindacato CGIL rinato a Frosinone nel 1945. Compagnoni fu eletto senatore nel 1953 e la sua attività in Parlamento fu determinante per far approvare la legge n.327 del 1963 “Norme dei contratti a miglioria in uso nelle province” che prevedeva il riscatto delle terre a condizioni particolarmente favorevoli per il coltivatore del fondo.

Subito dopo la guerra si manifestò l‟esigenza della ricostruzione soprattutto nella zona denominata dei “paesi dei santi” perché comprendeva i piccoli comuni come Sant‟Apollinare, , Santi Cosma e Damiano, San Donato, che avevano

44 vissuto direttamente l‟esperienza del fronte a differenza dei paesi più a Nord. Tutti erano stati quasi completamente distrutti. Si verificò una forte saldatura tra i paesi e le campagne circostanti per realizzare la ricostruzione e per far rinascere nuove opportunità di lavoro. Francesco Notarcola , attivista e militante del Partito Comunista e della CGIL, racconta della mobilitazione dei comunisti e dei socialisti finalizzata a tali obiettivi:

Tutte le sere facevamo riunioni presso i Comuni del Lazio meridionale, compilavo i quaderni in cui venivano indicati dettagliatamente i lavori di ricostruzione di cui ogni Comune necessitava per poter ricominciare ad organizzare una vita sociale normale: strade, scuole, reti elettriche. Nelle sedi dei Comuni si organizzavano incontri anche con le donne violentate dai Marocchini, che attraversarono le nostre montagne, per il riconoscimento delle vittime di guerra. Si cercava di raccogliere testimonianze in ogni angolo del Cassinate. Si cominciò a prospettare, data la sconcertante diffusione del fenomeno, la possibilità di ottenere per le donne un rimborso una tantum. Solo più tardi verrà affrontato anche il problema della indennità pensionistica.

Nel 1951 a Cassino la CGIL nel “Convegno per la rinascita del Cassinate”, cui partecipò il segretario generale Giuseppe Di Vittorio, promosse la nascita dei Comitati per la Rinascita finalizzati a favorire l‟occupazione e l‟accelerazione del processo di ricostruzione post-bellico. I disoccupati iniziarono a praticare lo sciopero a rovescio, si recavano a sistemare, con conseguente richiesta di retribuzione, muretti che delimitavano le strade , strade di campagna, ponti e argini fluviali. Lo sciopero a rovescio si praticò a e a e le iniziative si conclusero, non con il promesso pagamento per lavori compiuti dai disoccupati, ma con l‟arresto del segretario della locale Camera del Lavoro, Vincenzo Coletti, e di altri attivisti sindacali.

Negli anni Sessanta una grande industria chimica, l‟Annunziata di Ceccano, occupava manodopera proveniente dai centri limitrofi e produceva i saponi Scala il cui marchio era ormai noto non solo nel mercato locale ma anche nazionale. Dalle testimonianze degli ex lavoratori intervistati riportate nella raccolta dello studioso Tommaso Baris (2006) si legge: “a volte si facevano anche dodici ore…….magari smontavi la mattina alle nove o alle dieci, ma ti veniva uno a chiamare e ti diceva. “ Guarda che devi rientrare perché quello non è venuto” .

L‟Annunziata era una fabbrica costruita proprio all‟ingresso di Ceccano, a fianco al ponte sul fiume Sacco, nella zona abitata sottostante il paese arroccato poco più in alto.

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Anche se da tempo non è più attiva i suoi scarichi acidi e chimici nel fiume ancora oggi si possono considerare una delle principali cause della morte del fiume stesso e del disastro ecologico. Inoltre le sue emissioni atmosferiche nella zona abitata determinarono un numero consistente di morti per cancro tra gli abitanti residenti vicino all‟azienda.

Le condizioni lavorative non garantivano la salvaguardia del diritto alla salute degli operai: “ Si rimaneva in mezzo al vapore perché bollivano le caldaie con l‟ace e con la soda,….. non ci vedevamo l‟un l‟altro. Ad un certo momento Annunziata ordinò le maschere antigas, quelle di una volta, della prima guerra, a muso di maiale, perché l‟aria era irrespirabile e veniva proprio da rimettere. (Baris, 2006)

Nel 1958, in seguito alle denunce del sindacato, l‟Ispettorato del Lavoro eseguì un controllo in azienda. Vennero interrogate soprattutto le operaie che raccontarono la verità sui vapori che respiravano e sui pesi che sollevavano. Pochi giorni dopo furono licenziate in tronco. Annunziata, proprietario del saponificio e presidente dell‟Unione Industriale provinciale di Frosinone, era un padrone dispotico, licenziava quando sapeva che i suoi operai facevano parte del sindacato.

All‟epoca era dirigente sindacale della CGIL provinciale Elio Belardinelli, che, nell‟intervista raccolta dall‟autore sopra citato ( 2006), racconta delle agitazioni della primavera del Sessantadue scoppiate perché Annunziata non voleva applicare gli accordi firmati l‟anno precedente con cui si legittimava la presenza del sindacato in fabbrica. Gli scioperanti appoggiati da tutta la cittadinanza bloccavano l‟entrata e l‟uscita delle merci. Una sessantina di operai su 560, recatisi al lavoro, venivano difesi dalle forze di polizia che presidiavano gli ingressi della fabbrica. Appena le forze dell‟ordine vedevano gli operai radunarsi in piccoli gruppi intervenivano con i manganelli e gli operai rispondevano con le sassaiole. Tale contestazione si concluse tragicamente con l‟uccisione dell‟ operaio di quarantacinque anni iscritto alla CGIL, Luigi Mastrogiacomo e con il ferimento di altre otto persone. Passò un camion ma siccome la strada era piena di manifestanti, per farlo passare una parte della gente si spostò spingendosi verso la porta della fabbrica: “Uscirono i carabinieri che stavano dentro la fabbrica da settimane,…..avevano delle facce stravolte, sicuramente avevano bevuto cognac, anche perché si diceva che Annunziata li riforniva continuamente di bottiglie di cognac,….. e allora cominciarono a sparare, a sparare mirando” ( Baris, 2006).

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L‟evento suscitò ampie polemiche: da una parte i partiti ed i sindacati chiedevano che fosse vietato l‟uso della forza pubblica nelle manifestazioni, dall‟altro le forze opposte lo ritenevano necessario per il mantenimento dell‟ordine nei momenti in cui gli operai venivano fortemente incitati alla rivolta dalle organizzazioni sindacali, ritenute dal Bollettino della Confindustria le uniche vere responsabili di tali episodi tristi e sanguinosi.

Molti altri furono i momenti di conflittualità vissuti nel momento storico della nascita delle industrie in Ciociaria. Ogni fabbrica era un centro in cui formava una coscienza democratica nuova e centro di lotta per il miglioramento delle condizioni economiche.

La modernizzazione del luogo ciociaro, non realizzatasi attraverso uno sviluppo industriale vero poiché non rispondente alle caratteristiche del territorio, si è però compiuta soprattutto attraverso questi momenti di contestazione con il conseguente riconoscimento del diritto al lavoro come presupposto per il pieno godimento della libertà, dell‟uguaglianza e della partecipazione politica della classe contadina e operaia.

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1.5 Caratteri della modernizzazione socio-culturale in Ciociaria

Secondo le teorie sociologiche classiche con l‟industrializzazione nasce una società complessa fondata sulla divisione del lavoro e sulla solidarietà organica: ogni individuo si differenzia dall‟altro in quanto specializzato nella esecuzione di una determinata attività. Tuttavia, pur nella differenziazione, le attività dell‟uno sono indispensabili per la sopravvivenza dell‟altro. La divisione del lavoro porta con sé la separazione del lavoro agricolo e artigianale da quello industriale, quindi la separazione tra città e campagna (Weber, 2005). Anche le coscienze si individualizzano: ognuno ha un suo modo di pensare, di agire, di concepire il mondo. L‟adesione spontanea ad un insieme di valori condivisi è più difficile e deve essere garantita dalla imposizione di norme. La società è caratterizzata dal conflitto tra classi sociali portatrici di interessi differenti.

In Ciociaria il riscatto delle terre e la liberazione del contadino dalle forme di sfruttamento, di cui i contratti agrari sono testimonianza, avvennero negli stessi anni dello sviluppo industriale. In questo momento storico anche l‟agricoltura avrebbe potuto essere “industrializzata” cioè trasformata in una attività di produzione per il mercato, anziché rimanere un‟attività destinata esclusivamente all‟autoconsumo. Tuttavia gli ex coloni, appena usciti da una situazione di subordinazione, non avevano capitali da investire per innovare e migliorare le tecniche di produzione e la politica economica non prevedeva incentivi per l‟agricoltura. Nella Valle del Sacco il mondo rurale era fermo: la fertilità dei terreni non cresceva, il suolo era povero, la manodopera era sovrabbondante rispetto alle risorse e al fabbisogno lavorativo; infine la proprietà fondiaria era spezzettata e le leggi sul riscatto avevano favorito la proprietà privata e parcellizzata della terra che costituì un ostacolo alla nascita di aziende produttive moderne. La grande azienda capitalistica a coltura intensiva, che nasceva in altre zone dell‟Italia come la Pianura Padana, stentò a nascere in Ciociaria: l‟ex colono, ora piccolo proprietario, praticava ancora una economia domestica, di autoconsumo e, al limite, di piccolo smercio.

L‟industrializzazione favorì una fuga dalla campagna e nella Valle del Sacco si verificò una combinazione tra le preesistenti attività rurali e artigianali e le nuove attività industriali e commerciali.

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In una economia di transizione elementi contrastanti si contrapposero, conflissero e si integrarono tra loro: la riduzione degli addetti all‟agricoltura e il conseguente abbandono della terra con la possibilità di una tecnicizzazione dell‟agricoltura; la permanenza di una cultura rurale con l‟avvento di nuovi ruoli sociali connessi alla produzione capitalistica industriale; una nuova configurazione di famiglia nucleare con la permanenza di funzioni tradizionali della famiglia estesa per il sostegno alla mobilità ed al cambiamento sociale in una società più complessa.

Lo status di operaio nasceva attraverso la mobilità sociale e la mobilità territoriale: innanzitutto con la mobilità sociale vengono abbandonati altri status come quello dell‟artigiano e del contadino; invece i trasferimenti dei lavoratori e delle loro famiglie per avvicinarsi al luogo di lavoro costituiscono la mobilità territoriale e determinano il fenomeno dell‟inurbamento. Considerando questi due criteri che determinarono la nascita del nuovo status di operaio possiamo ritenere che il contadino ciociaro non assunse mai pienamente questo nuovo status. Difatti da un lato lo status di contadino non è stato mai abbandonato e dall‟altro lato è stata rara la mobilità territoriale con nuove residenzialità, praticata soltanto dai più giovani e determinata dalla necessità di avvicinamento alla fabbrica. Le fabbriche nelle zone industriali erano facilmente raggiungibili dai paesi collinari ad esse vicine e, nei casi di maggiore lontananza, la distanza dei nuovi luoghi di lavoro incrementava il fenomeno del pendolarismo.

I protagonisti del boom economico in Ciociaria erano i nuovi salariati della fabbrica o dell‟edilizia: si trattava tuttavia di una classe operaia differente da quella tradizionale. Quest‟ultima si poteva individuare soltanto nelle industrie e nei paesi della Valle del Liri. Invece i nuovi operai infatti nella Valle del Sacco erano i giovani figli di contadini, attirati dai nuovi più redditizi impieghi dell‟industria e da una vita qualitativamente più facile e più attraente; questi si allontanarono definitivamente dall‟agricoltura, con migrazione residenziale. Anche il capofamiglia-contadino, più adulto, si prestava alla nuova occupazione in azienda, tuttavia con pendolarismo e senza mutamento della residenza che restava l‟abitazione rurale. Infine altri contadini, già con esperienze di lavoro salariato nella capitale o emigrati al Nord o all‟estero, rientravano per lavorare nelle nuove fabbriche. Quindi la classe operaia in Ciociaria non era di estrazione urbana ed artigiana “corporativamente riprodottasi attraverso cambi padre-figlio, produttrice di una vita comunitaria che si identifica nella fabbrica e nel ceto urbano circostante e che si fa carico dell‟efficienza produttiva” ( Martini, 1981). Era una classe operaia contraddittoria che,

49 anziché urbanizzarsi nelle nascenti cittadine come Frosinone e Cassino, restava nei paesi di origine e praticava un pendolarismo anche di due o tre ore giornaliere per raggiungere la fabbrica pur di non separarsi dal pezzo di terra. Le difficoltà che il Consorzio incontrò per acquisire le terre su cui doveva avvenire l‟insediamento della Fiat presso sono emblematiche dell‟atteggiamento del contadino ciociaro, “attaccato” alla sua terra, che difficilmente addiveniva ad un accordo bonario per cederla, nonostante la fabbrica rappresentasse una grande opportunità di cambiamento. Fu necessaria, anche per le pressanti richieste della Fiat di disporre delle terre nel più breve tempo, la occupazione d‟urgenza e temporanea dei terreni attraverso l‟intervento della Prefettura (Mastracco, Pompeo, C., 1981). I contadini si arresero soltanto in cambio delle impegni assunti dalla Fiat di assumere sia loro che i loro familiari. “Solo allora la costruzione dello stabilimento iniziò rapidamente” (Casmirri, 2006, p. 260). Nel 1970 fu dato il primo colpo di ruspa, nel marzo del 1971 venne innalzato il primo pilastro, nell‟ottobre del 1972 venne prodotta la prima Cinquecento. L‟insediamento della Fiat determinò un cambiamento sociale ed economico ed anche la penetrazione in tali luoghi periferici di un clima politico di contestazione, che già si manifestava livello nazionale e che ebbe il suo momento culminante nel 1968 e negli anni successivi (Quadrozzi, 2012)2.

Il nuovo salariato di fabbrica manteneva legami con l‟ambiente e la tradizione contadina, alternava le occupazioni in campagna con quelle in fabbrica praticando il lavoro a metà tempo come operaio-contadino; nasceva la figura ibrida del “metal-mezzadro” (Giammaria, 2013).

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2 Il 27 gennaio 1976, giorno in cui venne data alle fiamme la macchina del Caporeparto verniciatura, segna l‟inizio presso la Fiat di Piedimonte San Germano di una serie di episodi di intimidazioni e di sabotaggio. Nel marzo del 1977 venne incendiato dolosamente il reparto montaggio e nel 1978 venne assassinato il Capo dei servizi di sorveglianza dello stabilimento, Carmine De Rosa. Infine l‟atto terroristico dell‟8 novembre 1978 in cui rimasero uccisi, nei pressi del Comune di Patrica, il Procuratore della Repubblica dr. Fedele Calvosa, il suo autista Rossi Luciano e l‟agente di custodia Giuseppe Pagliei, fu compiuto dai coniugi Armellino Alberto, impiegato alla Fiat e delegato al Consiglio di fabbrica, e Argetta Lina. Questi, insieme al terrorista Roberto Capone, deceduto durante l‟attentato, appartenevano alla Formazione comunista combattente, organizzazione terroristica operante al Sud del Lazio e particolarmente a Cassino.

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Il contadino operaio venne chiamato dallo studioso Martini lavoratore “affluente” perché adottava stili di vita simili a quelli dei giovani del ceto medio e si mostrava poco propenso alla conflittualità e alla militanza sindacale. La nuova classe operaia, di origine rurale e senza tradizioni sindacali, riproduceva all‟interno della fabbrica un comportamento di accettazione passiva verso l‟autorità e la disciplina imposta dal nuovo padrone imprenditore, che lo ricambiava con salari elevati per chi era abituato ad una vita magra e con la sicurezza del posto di lavoro (Martini, 1981). La figura del sacerdote svolgeva in questo contesto una azione normalizzatrice: raccomandava il giovane che sarebbe andato a lavorare in fabbrica, garantendo così un atteggiamento non conflittuale del neo-occupato. La tendenza alla lotta sociale dell‟operaio veniva così stemperata e veniva mantenuto, con forme clientelari e indirette, l‟ordine sociale. Questa era la prima generazione di lavoratori manuali che riusciva ad accedere ai consumi di massa e a un sicuro benessere economico, avendo ancora fresco il ricordo di una condizione misera e incerta e di attività lavorative ben più faticose e penose. L‟analisi riferita dall‟autore (Martini, 1981) alla situazione lavorativa nella Fiat di Cassino può essere estesa alle altre aziende del territorio in esame: le ore di lavoro straordinario svolte dai metal-mezzadri erano molte in alcune mesi dell‟anno e ad esse faceva da contrappeso l‟alto tasso di assenteismo in altre precise fasi dell‟anno agrario. Ciò evidenziava come l‟operaio fosse ancora legato al lavoro sulla terra: soprattutto quelli più anziani utilizzavano il salario come investimento per incentivare l‟attività agricola, per esempio per comprare il trattore. Anche i giovani concepivano il salario come un investimento per potersi sposare, per comprare un pezzo di terra proprio, per cominciare a costruirsi una casa. Interessante è anche analizzare come lo stesso autore sostiene la trasposizione nell‟ambiente di fabbrica delle relazioni parentali tipiche della famiglia tradizionale contadina e paesana. Pur di avere in cambio assunzioni di figli, mogli e nipoti e di mantenere strette ed ampie reti di solidarietà parentale, la famiglia contadina è disposta a subire ancora forme di oppressione culturale, clientelare e padronale, L‟ operaio inizialmente non ha coscienza di classe e promette asservimento ad un nuovo padrone in cambio di un salario dignitoso che migliorerà le sorti della sua famiglia. La nascita di un proletariato con coscienza di classe si ebbe in un momento successivo a seguito della scolarizzazione delle generazioni più giovani e della conquista da parte degli stessi di maggiore autonomia rispetto all‟autoritario capo-famiglia contadino. La nascita di un proletariato industriale con coscienza di classe si avvertì a

51 livello locale attraverso una forte presenza politica di partiti rappresentativi della classe operaia e fortemente conflittuali con i partiti più conservatori. Nelle elezioni amministrative del 1958 a Ferentino il Partito Vanga e Stella riportò 2769 voti con 10 seggi, il partito Socialista 1544 voti con 5 seggi, contro voti 4355 dello Scudo crociato con seggi 15 . Il governo che si insediò fu di Centro-sinistra. Negli anni Sessanta le sezioni dei partiti erano gremite e le piazze piene in occasione dei comizi elettorali. Con l‟affermazione dell‟industrializzazione si trasforma anche il modello di famiglia; l‟affermazione dei nuovi valori individualistici della società industriale determinò il consolidamento del modello di famiglia nucleare con residenza neolocale. Laslett e gli studiosi della Scuola di Cambridge sostengono che la famiglia nucleare rappresenti un modello universale sempre esistito e che l‟industrializzazione abbia provocato soltanto un adattamento del tempo della famiglia tradizionale al tempo industriale con i suoi nuovi orari, la nuova disciplina del lavoro, il mutamento tecnologico e la mobilità. Permangono tuttavia elementi di mescolanza tra il modello di famiglia contadina ed il nuovo modello di famiglia operaia, soprattutto per quanto riguarda la produzione del reddito e la sua amministrazione. La famiglia operaia come quella contadina è ancora una unità produttiva, i redditi guadagnati all‟esterno, ora anche dalle donne, vengono infatti amministrati collettivamente per il benessere generale di tutti i suoi membri (Laslett, 1972). Il figlio non ereditava più dal padre il podere e non c‟erano più legami lavorativi tra loro, diveniva prevalente il legame affettivo sul legame lavorativo. Poiché non si doveva più lavorare in comune non c‟era più neppure la necessità di una prossimità residenziale dei figli con i genitori. Era l‟imprenditore che controllava e decideva l‟impiego della forza lavoro e non più il capofamiglia. Lo spazio di fabbrica era lo spazio di lavoro extrafamiliare e si differenziava dallo spazio domestico in cui le donne svolgevano un lavoro familiare necessario di cura, di trasformazione dei beni acquistati, di mantenimento dei legami intergenerazionali. Nei primi tempi dell‟industrializzazione il ruolo della donna in famiglia ed in campagna diveniva centrale poiché l‟uomo andava a lavorare in fabbrica. Tuttavia anche la donna presto si emancipò dal lavoro contadino scoprendo nuove occupazioni e la fatica del doppio lavoro (Giammaria, 2013).

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Capitolo II Dal passato prossimo al presente

2.1 L’evoluzione dell’artigianato, del commercio e del terziario.

Nuovi attori e nuove reti economiche.

Nel territorio prevalentemente agricolo della Ciociaria il terziario era costituito essenzialmente da attività di trasformazione artigianale dei prodotti dell‟agricoltura e dell‟allevamento insieme ad attività di fabbricazione degli strumenti utili per la vita rurale e domestica. Tramandate di padre in figlio tali attività erano legate ai tempi ed alle produzioni caratteristiche di determinati paesi: dove abbondavano ferro, argilla e legno si riscontravano rispettivamente la presenza di fabbri, di vasai e di falegnami. Un‟attività tipica dell‟artigianato tradizionale era quella del fabbro, fondamentale perché provvedeva alla manutenzione di utensili usati da artigiani e contadini o alla fabbricazione di serrature, pentole e ferrature per i cavalli. Nell‟ambiente contadino egli condivideva con il barbiere anche attività di medicina popolare come amputare arti o cavare denti. La sua attività si differenziava da quella dello stagnino che saldava la latta con lo stagno per costruire imbuti, lumi e oliatori. Un‟attività artigianale femminile era invece la lavorazione del lino, della canapa e della lana di pecora. La lana prima di essere usata per la realizzazione di indumenti, veniva cardata e pulita con gli “ scardassi”, attrezzi chiamati così perché sostituivano il cardo selvatico precedentemente usato; con essi si pettinavano e si raddrizzavano le fibre, eliminando quelle più corte. Il calzolaio utilizzava cuoi, pellame e spago per la realizzazione delle cioce. Di tale mestiere oggi rimane qualche traccia nei paesi più piccoli della Ciociaria. Nei paesi di montagna la raccolta e la conservazione della neve costituivano una vera e propria cerimonia a cui partecipava tutta la popolazione: la neve veniva spinta dentro pozzi profondi coperti con la paglia per poi essere venduta per la conservazione degli alimenti (Gambardella 1998).

Nel XIII secolo Ferentino, libero Comune munito di uno Statuto proprio, godeva di autonomia politica e finanziaria. In quel periodo l‟attività commerciale era fiorente nonostante le vie di comunicazione utilizzate per portare le merci nei mercati degli altri paesi fossero piene di pericoli, razzie e molto scomode. Si lavoravano lana, lino e canapa; la saggina per la produzione delle scope ed il vimini per i canestri; esisteva anche una minima produzione serica ( Loffredo, 1978).

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L‟artigianato come espressione della semplicità e della creatività del lavoro dell‟uomo ha sempre accompagnato la sua storia. Volgendo lo sguardo a tempi a noi più vicini, è sicuramente lo sviluppo industriale negli anni Sessanta che ha comportato una consistente flessione delle attività artigianali. Il prodotto in serie, realizzato in minor tempo e a minor costo in fabbrica, soppiantò il prodotto unico ed originale dell‟artigiano creato nell‟angusto spazio della bottega. La nuova produzione in serie, che trova il suo fondamento esistenziale nel consumismo e nella pubblicità, determinò la nascita della pratica, oggi diffusa più di ieri tra i consumatori, dell‟ “usa e getta”. La povertà, da cui si generava la conseguente necessità di abitudini conservative e di riciclaggio di tutto ciò che faceva parte della vita quotidiana, lasciò spazio a nuovi comportamenti opulenti e caratterizzati dall‟ “antirisparmio”. Di conseguenza le attività artigianali tradizionali che si occupavano della manutenzione e “della lunga vita” di quegli oggetti destinati in passato a durare per intere generazioni iniziarono a diventare inutili e desuete. Anche per molti artigiani, come accadde già per i contadini, l‟industria fu la nuova meta lavorativa dopo la chiusura della bottega.

Nonostante le ripercussioni che lo sviluppo industriale produsse sull‟artigianato, negli anni del boom economico questo settore continuò ad esistere con riduzione del numero degli addetti e con caratteristiche arretrate e completamente diverse rispetto a quelle che distinguevano l‟emergente settore industriale. Infatti l‟artigianato che sopravvisse all‟industria non si modernizzò persistendo come nicchia economica in cui bassi erano gli investimenti di capitale per l‟impiego di macchinari tecnologicamente più avanzati. La manodopera occupata continuò ad essere non qualificata per quei mestieri che si tramandavano e che si apprendevano da padre in figlio. Infine le botteghe artigiane mantennero una esclusiva concentrazione entro i piccoli centri urbani conservando così la loro ubicazione originaria e non cercando espansione nella neo-periferia, zona che già in quegli anni andava delineandosi come più commerciale e più urbanizzata. Come si evidenzia dai dati elaborati dal Consorzio per lo sviluppo delle aree della provincia di Frosinone negli anni Sessanta, nel 1966 nell‟intera provincia di Frosinone risultavano ancora operanti 6973 imprese artigiane di cui lo 0,5 in attività connesse all‟industria ed il 17% nel settore dei servizi. In totale risultavano occupati nel settore artigianale 11.711 addetti (Mastracco, Pompeo, C., 1981).

Il boom economico non rappresentò soltanto nuove e maggiori opportunità lavorative ma fu caratterizzato anche da profondi cambiamenti culturali e sociali tra i quali

54 l‟emancipazione femminile e la conseguente modificazione dei ruoli all‟interno della famiglia. Le donne lavoravano come operaie o impiegate non qualificate ma pagavano così lo scotto del doppio lavoro, quello in fabbrica e quello in casa come casalinghe. La Bonser era, a livello locale, l‟industria produttrice di camicie che occupava prevalentemente donne. Il doppio reddito familiare migliorò le condizioni di vita: lavatrici, frigoriferi ed elettrodomestici di tutti i generi resero le abitazioni più confortevoli e comode e i televisori crearono l‟incanto e la meraviglia di avere il mondo a portata di mano dentro le pareti domestiche. Un nuovo terziario era poi costituito da attività commerciali per la rivendita dei moderni prodotti industriali e da nuove figure di artigiani, installatori e riparatori dei simulacri elettronici della modernità. I giovani sul territorio disponevano di opportunità formative per le nuove professioni e mestieri in quanto nel capoluogo di provincia, erano presenti oltre a quasi tutti i tipi di scuola, soprattutto quelli ad indirizzo tecnico- professionale finalizzati alla formazione di tecnici per l‟industria e per il nuovo terziario. Lo sviluppo economico fece nascere nei giovani le speranze di nuove occupazioni anche per le qualifiche superiori e non solo per le mansioni tecniche. Venne fondata a Cassino, già sede della facoltà pareggiata del Magistero, una facoltà di Economia e Commercio ad indirizzo industriale che avrebbe dovuto formare i quadri dirigenti. Le prime iniziative per avviare una facoltà di Ingegneria a Frosinone risalgono a questo periodo fertile e fecondo ( Giordani, R.,Gironi, F., Legitimo, G., Scaiola, S., 1978).

Tra il 1965 e il 1968, anni centrali del boom economico, aumentò quindi il numero delle attività commerciali ed artigiane: nel 1969 nell‟intera provincia il numero di titolari di imprese artigiane salì a 8.200 unità. Anche nel settore commerciale la situazione cambiò rispetto alla situazione che si desume dalla tabella sottostante in cui è evidenziato il numero delle licenze rilasciate nel 1965 nelle singole zone facenti parte del Consorzio per lo sviluppo industriale di Frosinone (Mastracco, Pompeo, C., 1981).

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Tabella n.1 . Numero delle licenze rilasciate nel 1965 nei cinque agglomerati del Consorzio per lo sviluppo

Tra il 1965 e il 1968 il numero delle licenze nell‟intera provincia salì di oltre 3400 unità e le attività commerciali erano maggiormente concentrate nei centri più popolosi e a più alto sviluppo produttivo. Differentemente rispetto a quanto accadrà con la grande distribuzione dalla metà degli anni Novanta, la maggiore concentrazione delle attività di rivendita nei centri con più alta densità demografica consentiva che i bisogni di beni essenziali venissero soddisfatti dai consumatori in prossimità della residenza; gli acquisti più importanti si svolgevano invece nel Comune capoluogo, a Frosinone, o nei centri più grandi come Sora e Cassino ( Giordani, R.,Gironi, F., Legitimo, G., Scaiola, S., 1978).

Il fatto che le attività del terziario fossero insediate nei centri dove più intensa era la presenza delle industrie dimostrava che sul territorio erano maggiormente diffuse le attività ausiliarie e di servizio all‟industria come il commercio, il trasporto e le comunicazioni, il credito e le assicurazioni. Nel periodo compreso tra il 1965 e il 1968 operavano in Ciociaria 45 sportelli bancari di cui il 71,7% appartenevano a due sole aziende: al Banco di Santo Spirito con 19 sportelli e alla Cassa di risparmio di Roma con 14 sportelli. Non vi erano sportelli nei Comuni con meno di 4.000 abitanti. Il Consorzio per lo sviluppo dell‟Area ne sottolineò la necessità del potenziamento in quanto necessari come attività economica ausiliaria allo sviluppo in fieri dell‟industria.

Rispetto a questo quadro, l‟aumento quantitativo di molte attività del settore commerciale non andava di pari passo con un aumento qualitativo. Uno spicchio del settore commerciale relativo alle piccole e piccolissime imprese come i generi alimentari, i

56 tabacchi e le edicole, presentava in quegli anni caratteristiche arretrate simili al settore artigianale. Il commercio al dettaglio, in quanto attività economica essenzialmente gestita nella forma di impresa individuale o familiare, evidenziava una bassa disponibilità di capitali da investire per la modernizzazione delle strutture e dei servizi offerti. Di conseguenza i titolari di piccole e piccolissime imprese commerciali con bassa produttività e basso reddito concepivano la loro attività come una “occupazione di rifugio”. Essi stazionavano in tale nicchia occupazionale “accontentandosi” ed attendendo nuove opportunità lavorative che il territorio offriva con l‟industrializzazione (Mastracco, Pompeo, C., 1981).

Dall‟inizio degli anni Settanta la congiuntura nazionale recessiva rallentò il processo di industrializzazione e gli investimenti di capitali si diressero verso altri settori del terziario. Gli anni del boom economico terminarono con la crisi del fordismo quindi con la chiusura di unità industriali medio-grandi e la conseguente contrazione del numero degli addetti nel settore. Anche il Lazio, nonostante sia stata sempre una regione fortemente industrializzata, a vocazione automobilistica e manifatturiera, negli anni Settanta e Ottanta attraversò un processo di terziarizzazione che continuò negli anni seguenti.

Sul piano generale la letteratura consente di affermare che la contemporanea società della conoscenza si é sostituita a quella industriale ed è caratterizzata dalla predominante presenza dei servizi. I settori del terziario tradizionale quali il commercio e l‟artigianato, da sempre esistiti avevano già assunto ai tempi dell‟industrializzazione una nuova configurazione. Ad essi si affiancano ora da un lato la produzione di servizi finanziari, assicurativi e sociali che registrano un significativo aumento quantitativo, dall‟altro il terziario avanzato che offre servizi ad alta tecnologia, di rete e culturali che costituiscono la vera novità del presente.

Da un‟indagine dell‟Istituto Tagliacarne del 2009 relativa alla provincia di Frosinone risulta che il settore terziario rappresentava a tale data la principale fonte di ricchezza. Tuttavia esso pesava sul valore aggiunto provinciale per il 64,4%, meno che nelle province del Centro in cui il peso era del 76,1% e meno del livello nazionale che aveva un peso sul valore aggiunto del 70,4%. Nella provincia di Frosinone, conformemente alla tendenza nazionale, la crisi economica stava coinvolgendo maggiormente i comparti industriali ad elevata intensità tecnologica rispetto a quelli a medio-basso o basso contenuto tecnologico e al terziario. I comparti industriali di specializzazione ad elevata intensità tecnologica

57 persero, tra il 2004 ed il 2006, 301 occupati; invece i comparti industriali a medio-basso o basso contenuto tecnologico e il terziario aumentarono il numero di occupati. Il commercio continuava ad essere l‟attività terziaria prevalente, ancora non travolto dalla concorrenza della grande distribuzione, con il 33,3% delle unità locali totali presenti nel territorio ed il ed il 19,2% degli addetti. Le principali specializzazioni erano il commercio al dettaglio di macchine, attrezzature e prodotti per l‟agricoltura ed il giardinaggio (338 occupati), il commercio al dettaglio di materiali da costruzione (453 addetti), il commercio al dettaglio ambulante itinerante di altri prodotti non alimentari (232 addetti), i minimercati e gli altri esercizi non specializzati di alimentari vari (1.401 occupati) insieme agli intermediari del commercio di vari prodotti (896 occupati). Data la presenza della che attraversa in modo longitudinale la provincia, continuava anche ad essere rilevante il numero delle aziende fornitrici di servizi di autotrasporto e logistica. Tra le altre attività ausiliarie si trovavano il trasporto di passeggeri fornito dalla Cotral S.p.A con 883 occupati, agenzie di viaggio, agenzie assicurative e di consulenza finanziaria, studi professionali ed altri servizi di supporto all‟attività industriale. La presenza di stabilimenti idrotermali nei comuni di Fiuggi e di Ferentino consentì anche lo sviluppo del turismo termale in provincia. (Istituto Guglielmo Tagliacarne per la promozione della cultura economica, 2009).

Infine la necessità della riduzione dei costi di produzione è stato anche il fattore determinante l‟esternalizzazione di prestazioni e di servizi prima svolti direttamente all‟interno dell‟impresa: la preparazione, finitura e assemblaggio di pezzi, la fornitura del servizio mensa e di consulenza aziendale sono stati delegati a piccole e medie imprese specializzate a lavorare su commessa dell‟impresa più grande.

Passando ora da una analisi a livello provinciale ad una più dettagliata relativa al Comune di Ferentino si fa riferimento ai dati del Registro delle Imprese della Camera di Commercio per il decennio 2007-2017 da cui si evidenzia la seguente situazione delle unità economiche operanti sul territorio. Gli effetti a cascata della crisi economica travolsero insieme all‟industria anche il terziario ad essa connesso. Gli anni in cui la crisi economica si manifestò con maggiore intensità sono il 2008, il 2012 e il 2013. Il 2008, che ne segna l‟inizio, è caratterizzato da un numero di imprese cessate sul totale delle imprese registrate (168 imprese cessate ossia lo 0,09% su un totale di 1775 ) più alto rispetto a quello del 2007 (102 imprese cessate ossia lo 0,05% su un totale di 1815) e una diminuzione del totale delle imprese registrate sempre rispetto al 2007. Negli anni

58 successivi continua la flessione di queste ultime. Negli anni 2012 e 2013 troviamo un‟altra impennata di imprese cessate sul totale delle imprese registrate: rispettivamente 139 imprese cessate pari allo 0.07% su un totale di 1791; 120 imprese cessate pari allo 0,06% su un totale di 1813. I settori del commercio, manifatturiero, di costruzioni e dei trasporti sono stati nel corso degli anni i più rappresentativi evidenziando le vocazioni economiche del territorio. Tali attività tradizionali e sempre operanti perdono consistenza nel corso del decennio, di rimando emergono nuove attività censite nel 2009 come quelle di fornitura acqua, energia e gas data la privatizzazione di tali servizi prima a regime di monopoli, le attività professionali, scientifiche e tecniche, quelle per attività artistiche sportive e di intrattenimento e le agenzie di viaggio. Il settore commercio con flessione del numero delle imprese nel 2009 rispetto all‟anno precedente, da 500 a 472, riaumenta il numero delle stesse dal 2015 ad oggi, riassestandosi sulle 500 unità circa. Anche a livello provinciale si ha un nuovo aumento delle assunzioni in questo settore del 34,64% solo nel 2015 (Camera di Commercio Frosinone, Registro delle imprese, 2007-2017). A sua volta l‟ attività manifatturiera con 255 unità nel 2008, decresce fino al 2015 in cui si registrano solo 186 unità. Mentre la consistenza quantitativa delle imprese di trasporto rimane pressoché stabile nel corso del decennio, nel 2012 il numero delle imprese per i servizi di ristorazione e alloggio acquisisce una posizione superiore rispetto alle stesse. Giovani disoccupati frequentemente tentano l‟apertura di piccoli esercizi come bar, pizzerie e ristorantini che hanno tuttavia vita breve cessando di esistere quando vengono meno le condizioni finanziarie agevolate previste per l‟inizio della attività. Nel 2010 aumenta il numero delle attività professionali rispetto all‟anno precedente, da 28 a 37, svolte da giovani laureati o tecnici diplomati non assorbiti nel terziario amministrativo.

La prima grande espansione del settore terziario delle costruzioni si ebbe a livello locale negli anni Sessanta-Settanta con l‟aumento demografico e la conseguente espansione urbanistica in periferia al di fuori dei centri storici, topograficamente non suscettibili di mutamenti abitativi: proliferarono così costruzioni monofamiliari , quartieri periferici e ristrutturazioni di abitazioni. Le imprese del settore edilizio erano piccole e con struttura piuttosto arcaica: muratori, manovali, pittori lavoravano in proprio o con cottimi e subappalti presso le imprese più grandi e più stabilmente presenti sul territorio. L‟intensa produzione edilizia in quegli anni determinò un aumento di tali imprese del 199,5%. Il settore delle costruzioni già rilevante negli anni Sessanta e che negli anni pre- crisi occupava il primo posto per assunzioni dal 2008 è attraversato da una profonda crisi

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(Provincia di Frosinone, Settore politiche del Lavoro, 2015). Titolari di piccole imprese che fino al 2008 sono datori di lavoro che domandano manodopera specializzata diventano lavoratori iscritti presso i Centri per l‟impiego come disoccupati.

In conclusione si può affermare che la crisi economica a livello locale si è delineata soprattutto come crisi della grande industria e delle attività del terziario ad essa connesse. Le maggiori flessioni sono state quelle relative alle imprese manifatturiere e di costruzione. Le prove tangibili della crisi vissuta dal territorio sono le strutture dismesse per la cessazione delle attività industriali o riutilizzate per l‟ubicazione di nuovi centri di commercio, disseminate come cattedrali nel deserto nell‟area periferica del paese.

La crisi del commercio al minuto e all‟ingrosso è stata determinata non solo dal fattore recessivo ma anche da altre due importanti cause. Il forte impatto concorrenziale della grande distribuzione e la diminuzione della densità abitativa dei centri storici hanno reso difficile la permanenza in tali centri dei piccoli negozi al dettaglio. Infine la diffusione delle nuove pratiche di consumo della new economy ha favorito l‟acquisto smaterializzato di prodotti di tutti i generi direttamente da casa soprattutto da parte di giovani e di adulti occupati per lavoro durante il giorno. Un lieve recupero del settore commercio si è registrato nel 2015, dato che comunque deve trovare conferma in un periodo più lungo per poter parlare di effettiva ripresa.

Si rileva inoltre l‟avvio dello sviluppo del nuovo terziario che offre servizi diversi legati al tempo libero e al ristoro, al soggiorno e all‟intrattenimento. Una stabile e permanente territorializzazione di tali imprese non viene al momento favorita da una mobilità locale limitata agli affari o al week-end o dalla organizzazione di attività di intrattenimento soltanto occasionali e di “fine settimana”. Pertanto l‟esistenza di strutture ricettive, nuove o di vecchio insediamento, è caratterizzata da sofferenza di mercato che spesso le conduce ad una rapida estinzione. Lo sviluppo di questi nuovi settori, che ancora stenta a decollare, viene interpretato come il punto di forza per un una nuova crescita socio-economica del territorio, per nuove opportunità occupazionali ed infine anche per la rivalorizzazione delle potenzialità agricole ed artistiche dello stesso (Quadrozzi , 2002).

Un‟identità locale contadina ed artigianale si è delineata storicamente e culturalmente dalle origini fino al periodo precedente l‟industrializzazione attraverso un processo endogeno, sulla base delle caratteristiche naturali, climatiche, morfologiche e delle tradizioni del territorio. L‟agricoltura ha subito una forte flessione con

60 l‟industrializzazione; anche successivamente con l‟affermarsi del terziario tale settore primario non è stato ancora rivalutato come un importante fattore che potrebbe favorire un nuovo sviluppo di servizi turistici connessi alla ruralità ed alla valorizzazione dei prodotti agricoli ed artigianali locali. Le imprese agricole nel 2007 erano 207, nel 2017 diventano 166.

Con la fine dell‟agricoltura finisce anche la cultura che vi era legata e ciò, oltre a delineare una nuova identità territoriale non più ben definita, rende particolarmente difficile una ripresa o una rinascita di tale attività, che rivive ormai solo attraverso i diffusi tentativi di rievocazione e di ricostruzione di una memoria storica del luogo.

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2.2 Geografia locale della grande distribuzione.

Una ulteriore trasformazione nel terziario, in particolare nella struttura del settore commerciale, si è avuto quando il nuovo modello di vendita della grande distribuzione organizzata, già introdotto nel Nord Italia intorno agli anni Settanta, dalla metà degli anni Novanta si espande in Ciociaria. Nel territorio di Ferentino e in quello ad esso limitrofo viene localizzato il moderno sistema di vendita al dettaglio attraverso catene di supermercati, ipermercati e centri commerciali.

Il centro commerciale è un unico ed omogeneo complesso edilizio appositamente progettato e costruito per ospitare numerose attività economiche tra cui punti vendita specializzati, spesso operanti in franchising, cinema, ristoranti, sportelli bancari e altri servizi alla persona come parrucchierie, palestre, centri estetici e altro. Tutti i negozi merceologicamente differenziati ruotano intorno ad un supermercato o ipermercato di grandi dimensioni. Le nuove “cattedrali del consumo” (Ritzer, 2012) offrono quindi una concentrazione di beni e servizi che possono essere acquistati contemporaneamente nello stesso luogo, riscaldato d‟inverno e climatizzato d‟estate, con attrazioni che attirano le famiglie nel tempo libero e con la comodità di ampi parcheggi.

Nel territorio locale tali insediamenti hanno rappresentato da un lato nuove opportunità occupazionali, soprattutto per giovani assunti precariamente con forme contrattuali a tempo determinato, a progetto, part-time a tre o sei mesi, o a un anno; dall‟altro hanno determinato la crisi e in alcuni casi la chiusura ed estinzione del modello del piccolo negozio tradizionale soprattutto in settori come l‟abbigliamento ed il settore alimentare. Inoltre i centri commerciali hanno rappresentato nel territorio la ricostruzione di nuovi spazi di socializzazione cui si contrappone la decadenza dei tradizionali luoghi di incontro.

Accanto alla Grande Distribuzione Organizzata, in cui confluiscono capitali esteri soprattutto tedeschi e francesi, non mancano nel territorio i gruppi consorziati di piccoli e medi dettaglianti, che costituiscono la piccola Distribuzione Organizzata, come la Sisa, Sigma e Despar, localizzati in spazi meno decentrati; questi offrono anch‟essi prodotti soprattutto alimentari a prezzi concorrenziali perché, in quanto consorziati, possono ottenere agevolazioni economiche nel momento dell‟approvvigionamento delle merci da rivendere.

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La grande distribuzione ha interessato anche settori come l‟arredamento ed i relativi complessi occupano fabbricati industriali dismessi, opportunamente ristrutturati, vicini al centro commerciale “Le Sorgenti” nell‟area industriale.

Non esistono nella zona centri commerciali direzionali o polivalenti la cui area commerciale comprende anche strutture di interesse pubblico o sociale non commerciali come sindacati, ambulatori, patronati, Uffici decentrati del Comune.

Ferentino e i Comuni limitrofi risultano pertanto essere un territorio in cui la grande distribuzione e la distribuzione organizzata sono sovrabbondanti rispetto alla densità della popolazione. Un luogo come Ferentino la cui storia è prevalentemente fondata sull‟agricoltura e sull‟artigianato e in cui una fitta rete di piccoli negozi riempivano il centro storico creando connettività e relazioni, si è trasformato, come ogni altra parte del mondo globale, in luogo di confluenza di grandi capitali.

La periferia di Ferentino è tagliata longitudinalmente dall‟Autostrada del Sole con relativo casello di uscita recentemente realizzato sull‟area industriale e dalla via Casilina S.S. n.6; trasversalmente dalla Sora-Frosinone o S.S. n. 214. Infine c‟è la cosiddetta “via del mare” ossia la S.S. n. 156 Frosinone – Latina che, non incidente sul territorio di Ferentino, è accessibile uscendo dall‟Asse attrezzato, tratto stradale che taglia l‟area industriale. L‟Asse attrezzato fu realizzato negli anni Sessanta per favorire lo scorrimento degli operai in uscita e in entrata dalle fabbriche e per creare un collegamento tra l‟area industriale di Ferentino e quella di Frosinone. Scorre parallelamente al fiume Sacco e alla linea ferroviaria fino a confluire sulla “via del mare”, nel tratto Frosinone-Ceccano. In occasione dell‟insediamento dei centri commerciali, sul rettilineo dell‟Asse attrezzato sono state realizzate varie rotatorie che favoriscono l‟accesso agli stessi.

I più importanti centri della grande distribuzione, tuttora funzionanti, sono stati ubicati nelle zone prossime alle principali arterie della viabilità e in aree strategiche di confine tra varie cittadine della provincia di Frosinone così da essere facilmente raggiungibili da utenti residenti nei diversi Comuni.

In questo quadro così delineato si può far riferimento al concetto di abbondanza insito nel prefisso “sur” della parola “surmodernità” utilizzata da Augè. L‟abbondanza come eccesso appare in tutta la sua essenza in un percorso che prima attraversa la Casilina fino a Frosinone e in seguito si sposta sull‟Asse Attrezzato dell‟area industriale: eccesso di

63 una fitta rete di strade, di magazzini, di punti di passaggio e di occasionalità di incontri, che trasforma lo spazio “da spazio della memoria” a spazio impersonale di transito e di comunicazione. Vie di transito e centri commerciali tutti uguali e senza particolarità architettoniche, uniscono paesi un tempo separati da ampie campagne trasformandoli in un‟unica grande area urbana diffusa, smontando per l‟individuo che li percorre il legame tra identità e territorio. Non luoghi senza relazioni, senza storia, in cui la nostra identità si smarrisce ( Augè, 1992).

Nella zona periferica sottostante il paese, vicino all‟ex hotel Bassetto nel punto in cui la Via Casilina incrocia le direzioni Anagni- Ferentino, sussiste un‟area adibita a banche, uffici e ai due discount, Eurospin e MD, nati recentemente. Essi rappresentano un‟ulteriore nuova proposta di vendita a basso costo: difatti sono definibili negozi di sconto che offrono vari prodotti anche alimentari di largo consumo e il cui assortimento non prevede la presenza di marche. Su due grandi piazzali, poco distanti l‟uno dall‟altro, insistono le diverse porte di accesso alle banche e ai locali dei discount. Gli interni, non eccessivamente grandi come potrebbero essere quelli di un centro commerciale, danno l‟idea di un grande magazzino in cui ci si imbatte in merce anche accatastata e impacchettata o in grandi scatoloni che invitano il consumatore all‟acquisto della grande quantità a buon prezzo. L‟arrivo del discount con offerte concorrenziali a basso prezzo nel settore alimentare ha determinato la diminuzione delle vendite dei beni alimentari nei centri commerciali come Le Sorgenti e Panorama.

Continuando a percorrere la via Casilina in direzione di Frosinone, sul lato destro, si incontrano un Conad e il supermercato Orizzonte. Nei pressi della località denominata Roana si può prendere la superstrada per Sora e raggiungere in poco tempo, nei pressi dell‟uscita di Alatri, il centro commerciale “ Le Pigne”. Qui negozi in franchising, Unieuro Eurogross ed altri, ruotano intorno al supermercato Conad molto più grande per metri quadrati e per occupazione di forza lavoro rispetto ai tre Conad situati nel territorio di Ferentino, due in prossimità del centro storico ed un altro sulla via Casilina vicino alle Terme Pompeo.

Tornando indietro sulla via Casilina in direzione Frosinone, si incontra il centro commerciale Panorama, al confine con il territorio di Ferentino, ubicato sul territorio del Comune di Alatri. E‟ un‟area organizzata di consumo, che fiancheggia quindi una strada ad alta percorrenza, costituita da una bassa struttura interamente coperta, con due parcheggi

64 uno coperto e l‟altro scoperto. Entrando, su un largo corridoio centrale si affacciano a destra i diversi tornelli di uscita delle casse del supermercato Pam, dall‟altro lato negozi e un bar. Le giostre sono posizionate appositamente in un angolo per attrarre i bambini che con le mamme escono dall‟ascensore utilizzato per salire più comodamente dal parcheggio coperto. Si raggiunge Frosinone, si oltrepassa la rotatoria Brunella e girando a destra per la S.S. Frosinone-Latina, cosiddetta Monti Lepini, si incontra la Coop, supermercato- cooperativa di più vecchio insediamento sul territorio. Anche qui un capannone basso ma di piccole dimensione con un parcheggio per circa cinquanta posti macchina.

La cartina sottostante indica la localizzazione delle principali aree commerciali sulla strada Casilina.

Via Casilina con localizzazione dei centri commerciali

Per raggiungere Le Sorgenti, il più esteso centro commerciale della zona e ubicato nell‟area industriale, si deve invece percorrere la strada provinciale che da Ferentino-centro conduce alla Stazione ferroviaria per poter imboccare la deviazione di fronte alla ex fabbrica di laterizi Italfornaci; i piazzali che erano di questa vecchia azienda sono ormai utilizzati per il deposito delle circolari della agenzia di viaggi e di trasporto Cialone. Il centro commerciale Le Sorgenti comprende più negozi che ruotano intorno al

65 supermercato Carrefour; esso offre maggiori servizi rispetto agli altri centri ed ha negozi disposti su due piani.

Come si vede dalla cartina sottostante ben quattro rotatorie devono essere oltrepassate per arrivare al centro del consumo nell‟area industriale.

Rotatorie lungo la linea di percorrenza per raggiungere l’Asse attrezzato

La cartine seguenti, nella pagina successiva, invece indicano: 1) la linea di percorrenza dell‟Asse attrezzato, strada denominata Via Amedeo Vona, che attraversa l‟area industriale fiancheggiando il fiume Sacco ; 2) l‟ alta densità commerciale ed industriale dell‟area stessa.

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Ferentino - Area industriale dall’ingresso dell’Asse attrezzato al Centro commerciale

Le Sorgenti

Ferentino- Area industriale

Una organizzazione del territorio che ricorda i non luoghi di Augè: “Svincoli (dove non ci si incrocia) e non incroci (dove ci si incontra)”, in cui transitano “passeggeri (definiti dalla destinazione) e non viaggiatori (che si attardano nel tragitto)” (Augè, 1992 p. 96). La prima rotatoria sotto il ponte della superstrada Ferentino-Sora, immediatamente

67 seguita dal sottopassaggio della ferrovia, interseca la strada che arriva da Ferentino con un‟altra che taglia la campagna in direzione opposta. Un grosso pannello su un muro di cemento, interrompe la continuità del grigio dell‟asfalto e delle pareti dei passaggi coperti: ” L‟utente è solo, con soltanto dei testi ( dei pannelli, degli schermi) che si interpongono tra lui e il mondo esterno” (Augè, 2007, pp.56-57). Come si può vedere nelle immagini sottostanti e nell‟immagine del frontespizio del presente lavoro, il pannello si frappone tra l‟individuo e il mondo esterno, ricordandogli con immagini suggestive e colorate di monumenti che è il “benvenuto a Ferentino, storica città d‟arte”.

Ponte della Superstrada Ferentino-Sora- Pannello pubblicitario

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Particolare pannello pubblicitario

Questo nuovo uomo di un piccolo mondo surmoderno come Ferentino è un utente, proiettato nella dimensione standardizzata del consumo e dello scambio, che transita velocemente come passeggero su questi percorsi senza fisionomia , tutti uguali, insieme a centinaia e migliaia di persone sconosciute. L‟obiettivo è raggiungere il luogo dei desideri, il centro commerciale, dove si esiste insieme agli altri solo perché ci si sente perfettamente uguali agli altri. Quel pannello gli ricorda la sua storia, ma è una sorta di scenografia cinematografica o teatrale che ricrea nella periferia anonima i segni di una civiltà medievale e romana, in cui la relazione tra l‟uomo ed il suo spazio era completamente diversa. Due entità differenti, la chiesa di santa Maria Maggiore in esso raffigurata ed i pilastri del cavalcavia non si mescolano ma “coesistono indifferenti gli uni agli altri” (Augè, 2007).

Una successiva rotatoria sulla via Asi consortile, che affianca longitudinalmente l‟area industriale e l‟Asse attrezzato, deve essere attraversata per raggiungere una terza rotatoria su cui sfociano, come sul delta di grandi fiumi, gli autoveicoli provenienti dalla superstrada Ferentino-Sora e dall‟uscita del casello autostradale. Sul lato destro troviamo,

69 come è visibile nelle fotografie seguenti, enormi pilastri di cemento armato, con svincoli, strade sopraelevate che scendono e che salgono, e infine il casello. Quasi per incanto ci sembra di essere entrati nella pista elettrica con cui giocavamo da bambini, anzi di essere proprio alla guida, una volta tanto desiderata, di una di quelle colorate e veloci macchinine che sfrecciavano su di essa. O ancora ci sembra di rivivere il brivido che si provava sulla pedana delle macchine da scontro, quella montata sulla piazzetta in occasione della festa del Santo Patrono, che sembravano venirci tutte addosso mentre percorrevano i loro giri obbligati. Infine sull‟ultimo svincolo è possibile prendere le direzioni per Morolo, Supino e per l‟Asse attrezzato.

Ferentino- Autostrada del Sole

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Casello autostradale- uscita Ferentino

Quindi si è arrivati vicino al fiume Sacco che segna il confine con Supino; il centro commerciale Le Sorgenti insiste sul territorio del Comune di Frosinone al confine con Ferentino, sulla strada definita Asse Attrezzato che favorisce il collegamento tra Ferentino, Frosinone, Ceccano, Supino, Patrica, Sgurgola, Anagni. In fila come in una lunghissima processione sui due lati dell‟Asse attrezzato si vedono industrie e capannoni di tutti i tipi: di produzione, di attività di rivendita all‟ingrosso, di riparazione, di stazionamento di camion per le imprese di trasporti e logistica. Chiamata dagli abitanti del luogo anche “Stradone”, l‟Asse attrezzato è frequentatissimo all‟imbrunire nelle sere d‟estate e nelle buie serate invernali; infatti è luogo di prostituzione di ragazze provenienti dai Paesi dell‟Est e di nigeriane che tramite la vicina ferrovia raggiungono la zona partendo dalle periferie di Roma. Chiudono l‟Asse Attrezzato gli insediamenti di Mondo Convenienza e di Carrabbetta. Conducono comunque al centro commerciale anche molte scorciatoie che tagliano la campagna, come un estesissimo labirinto, vicino alle diverse industrie. Se tutte le strade portano a Roma, la capitale, anche da noi vale il proverbio “tutte le strade portano al centro commerciale”, nuova essenza e nuovo spazio della surmodernità.

Finalmente il punto di arrivo di un percorso tortuoso, un grande parcheggio destinato a ricevere ogni giorno centinaia di persone. Un esteso slargo su cui si affacciano le

71 strutture, anonime e uguali in ogni parte del mondo, di Decathlon, Brico, Le Sorgenti e il servizio di rifornimento di benzina per le automobili che, ormai prolungamento necessario del consumatore, non possono essere dimenticate in quanto anch‟esse utenti con bisogni da soddisfare in questo luogo di consumo e di ristoro per tutti.

Subito una maleodorante aria proveniente dalla porcilaia di Patrica, dalla discarica di fronte e da una eccessiva concentrazione di smog, riempie le nostre narici; i vecchi canoni della passeggiata fuori porta per “prendere un po‟ d‟aria” e per rigenerare i polmoni, dopo aver trascorso tanto tempo dentro le mura domestiche, qui sono completamente saltati.

Centro commerciale Le Sorgenti

In passato la mappa del viaggio per raggiungere l‟area industriale obbligava a passare attraverso la Stazione ferroviaria, attraverso siti e località densi di ricordi familiari e di esperienze dell‟infanzia e dell‟adolescenza. Si proseguiva sulla strada nella direzione Morolo-Supino e la tanto attesa stazione spuntava, oltrepassata la curva, dopo aver

72 fiancheggiato un‟area di aperta campagna, i capannoni della Italfornaci ed il piazzalone dell‟azienda pieno di pile di laterizi. Al suono della campanella scendevano le sbarre del passaggio a livello e, poco dopo, le aspettative di noi bambini venivano soddisfatte dal fischio della locomotiva a vapore e ci si divertiva a riconoscere se il treno era merci o passeggeri, lungo o corto, se marciava verso destra o verso sinistra preannunciando le rispettive stazioni di arrivo. La stradina a destra del passaggio a livello conduceva ad una piccola stazione a due piani che ospitava la biglietteria ed al piano superiore la residenza del capostazione. Dei tre binari, i primi due erano di percorrenza e il terzo era quello adibito alla sosta dei vagoni merci o delle carrozze. All‟entrata, oltrepassata la biglietteria, un giardinetto con fontanella e panchine era il luogo di incontro dei viaggiatori in attesa. Di fronte alla struttura della stazione un lavatoio coperto in cui le donne della zona lavavano il bucato.

Un luogo che è diventato non luogo,” il primo non si è mai cancellato completamente, il secondo non si compie mai totalmente” (Augè, 1992, p.101). Le storie individuali, fatte di memorie di infanzia, si intrecciano con le storie delle nuove identità del mondo globale uniformi e ingarbugliate. Il luogo cambia significato e vi si costruiscono nuove relazioni. Oggi i bambini non chiedono più di andare a vedere i treni che passano mentre attendono che le sbarre si rialzino. Il passaggio a livello smantellato è stato sostituito da un muro di cemento, visibile nel documento fotografico sottostante, che interrompe la viabilità e che fiancheggia la stradina fino al vecchio edificio della stazione. Qui non esiste più la biglietteria e le finestre delle case del capostazione e dei ferrovieri sono ormai permanentemente chiuse. Marciapiedi enormi, cordoli di cemento fiancheggiano i due binari e delimitano le diverse zone di accesso e di uscita. Tutti, studenti, lavoratori e professionisti, corrono immersi nel loro silenzio. Il suono del campanello che segnala l‟arrivo del treno è immediatamente seguito da un rimbombo provocato dai passi veloci sul cavalcavia di ferro che consente l‟attraversamento dei binari.

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Stazione di Ferentino - Muro che sostituisce il vecchio passaggio a livello

Stazione di Ferentino - In fondo la Henkel Spa

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I recenti lavori in corso stanno ulteriormente modificando la fisionomia dello spazio circostante per ampliare le aree di parcheggio. L‟operaio Federico, soddisfatto perché il suo lavoro contribuisce al progresso e alla modernizzazione, sottolinea la necessità di strutture pubbliche funzionali ad una società completamente trasformata.

“ Smantelliamo il cavalcavia, gli ascensori per disabili, realizziamo una pensilina che copre il marciapiede per tutta la sua lunghezza, lo pavimentiamo in alcuni tratti con mattonato per ciechi. La casa del capostazione sarà adibita ad uffici del comune. Stiamo realizzando un‟opera pubblica supermoderna con un parcheggio che finalmente potrà soddisfare le esigenze di tutti. Sono veramente contento di poter contribuire alla realizzazione di una delle stazioni più belle della provincia, mi sento giovane, nonostante l‟età, perché realizzo cose che serviranno soprattutto alle giovani generazioni e al loro benessere. Meglio spendere i soldi per le comodità, per il giardinetto della vecchia stazione sarebbe poi necessario anche il giardiniere. Sì era bello , ma costa troppo e serve a poco….”.

L‟operaio Federico tornato da poco in Italia, dopo aver lavorato per tanti anni in Francia, ora è stato assunto da una grande ditta di costruzioni, appaltatrice per la realizzazione di importanti opere pubbliche tra cui la Stazione di Ferentino. Parla anche il francese e ben rappresenta con la sua biografia un uomo nuovo nonostante l‟età matura: bilingue, situato qui ma che è stato lì, con doppia cittadinanza, nè perfettamente italiano né perfettamente francese. L‟uomo della surmodernità, non solo immerso ma anche creatore di un mondo di costruzioni tutte uguali fatte di acciaio e di lamiere, di ascensori, di scale mobili e di pannelli elettronici che sostituiscono il ferroviere di un tempo della piccola stazione di Ferentino, che con la bandierina rossa ed il fischietto annunciava di allontanarsi dai binari per l‟arrivo del treno.

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2.3 Passeggiando nel centro commerciale

Una costruzione omologata, tipica dei centri commerciali segna linee e semicerchi perfettamente simmetrici. Le pensiline tondeggianti che coprono i carrelli all‟esterno rompono la piattezza del piano di parcheggio; una scala mobile centrale rispetto ai due ingressi laterali consente l‟uscita direttamente dal secondo piano sul piazzale e rompe la linearità della struttura. Il marciapiede che congiunge i due ingressi è fiancheggiato da una vaschetta, ornata da piccole aiuole, che raccoglie fievoli zampilli. Niente a che vedere con gli scenari fantastici dei grandi centri commerciali americani: poco verde, pochi colori e parcheggi assolati sempre uguali e tutti uguali. Dimenticando per caso di essere nel parcheggio delle Sorgenti potremmo facilmente confonderci e dire di trovarci in un altro qualsiasi centro commerciale di un‟altra qualsiasi cittadina.

All‟interno un grande corridoio con le casse del supermercato da un lato, dall‟altro negozi e scale mobili. Lungo il corridoio panchine su cui sostano clienti che seduti fianco a fianco non possono guardarsi negli occhi, ma mangiano, consumano gelati o si riposano senza parlare; le giostre in fondo determinano il passaggio obbligato davanti a tutte le vetrine dei negozi. Dalle giostre i bambini possono sentire l‟odore della pizza proveniente da una pizzeria e fast food con tavoli e sedie dove si possono accomodare per fare merenda. In un‟altra area, sempre con tavoli e sedie ma coperta, possono stazionare persone che non ordinano il pasto ma leggono, poggiano i loro oggetti mentre chiacchierano o si vedono arrivare vecchie signore stanche della confusione e dei passi a volte troppi numerosi per la poche cose da acquistare. All‟ora di pranzo utilizzano questi spazi i professionisti e gli impiegati che escono dalle banche o dagli uffici vicini e tra i racconti dei problemi di lavoro consumano il rito del “mordi e fuggi” tipico del fast food.

Il centro commerciale è un mondo perfetto, razionale, dove tutto è organizzato sincronizzato, controllato e nello stesso tempo è un mondo fantastico, magico ed irreale. Le costruzioni sono uniformi, i prodotti sono omologati nei punti vendita di tutto il mondo, gli acquisti avvengono sempre allo stesso modo, seguendo le stesse regole. Tuttavia l‟ambiente luminoso, con feste e intrattenimenti nelle ricorrenze, gli spazi di svago, catturano le nostre emozioni rendendoci felici, spensierati, senza problemi e protetti.

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Ciò che porta fuori dalla quotidianità incanta e offre l‟opportunità di stare in un mondo surreale con l‟illusione di rimanervi per tanto tempo, oltre il tempo reale. Infatti si ha l‟illusione di fuggire dal tempo e di vivere un oggi lunghissimo al di fuori dei ritmi scanditi e frenetici della realtà quotidiana, Il tempo non ha più le forme delle ore, delle stagioni, delle età. Non incalzano l‟ora del pranzo e della cena, della partenza e dell‟arrivo, dell‟uscita e dell‟entrata: esse non sono visibili su nessun orologio. L‟apertura è continuata, si può fare spesa senza pausa fino alle 21 e nei giorni festivi. Dimentichiamo se è giorno o notte, la luce ed il buio naturali: dentro c‟é sempre luce artificiale. Il tempo delle stagioni è completamente rovesciato: se fuori è freddo, dentro è caldissimo, se d‟estate è caldo nel centro commerciale fa freddo.

Anche il tempo della vita è stravolto. Piccoli, adolescenti, adulti e anziani sono abbagliati dal fascino delle “nuove cattedrali dove si pratica la religione del consumo” (Ritzer, 2012, p.18). Ogni legge o necessità che governa la comunità sembra essere violata. La legge religiosa che impone il risposo della domenica; la necessità dei risparmio energetico per lo sviluppo sostenibile dell‟umanità.

Come il tempo allo stesso modo è cancellato lo spazio: non ci sono finestre e le uscite sono poche: i percorsi tra le scaffalature sono interminabili. Abituati a frequentare luoghi piccoli o di medie dimensioni, quel luogo senza confini ci dà un senso di libertà e di infinito “ cornucopia enorme di merci e servizi”, una “fantasmagoria” (Ritzer, 2012, p.186). Tutto è programmato ed organizzato per conquistare, per attirare e per controllare. Il controllo è totale. Il cliente è fuori da una dimensione temporale, spaziale e temporale, gli oggetti banali diventano appetibili e da comprare. Tutti seguono la stessa mappa per raggiungere lo stesso negozio. Il nostro percorso è tracciato, segnato dalle piastrine dei prodotti che prendiamo, dalle carte di credito che usiamo per pagare. Videocamere ed apparecchiature audiovisive ci seguono e ci guardano. Il sistema di lavoro degli addetti è perfettamente razionale ed efficiente: l‟addetto esegue quanto deciso dall‟amministrazione, tutti i lavoratori agiscono allo stesso modo e i loro tempi sono cronometrati.

Camilla,una giovane commessa, che di corsa dal ristorante sale le scale per raggiungere il suo box, si affretta a dirmi che ha poco tempo per ascoltarmi perché deve riprendere la sua postazione. Trova molto piacevole condividere la mezz‟ora di pausa pranzo con le colleghe ma deve rientrare al più presto:

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Pranziamo al ristorante che si trova dentro il centro commerciale, con le colleghe del mio stesso negozio, ho conosciuto anche colleghe degli altri negozi. Scambiamo due chiacchiere divertenti. Ho fatto tante nuove amicizie. Mi piacerebbe rimanere di più ma la pausa pranzo è di mezz‟ora. Quando una di noi è più libera o ha finito il turno, prima di andare via, porta velocemente il caffè alle altre da consumare nei tempi morti in cui c‟è poco movimento. Non possiamo assolutamente allontanarci dai nostri box.

Nelle ore di maggiore affluenza arrivano frotte di persone assimilabili a pulviscoli di atomi, in apparenza senza alcuna relazione ma le cui storie inconsapevolmente si sfiorano, si toccano facendo parte di un unico e “accomunante” contesto. Il palcoscenico si riempie di attori dove ognuno recita il suo ruolo con i mezzi che la società surmoderna gli mette a disposizione. ( Goffmann , 1997).

Con Augè, trasponendo al metrò il centro commerciale, si potrebbe ripetere: ”Solitudine questa è la parola chiave che un osservatore potrebbe essere tentato di fare del fenomeno sociale del metrò. Il paradosso un po‟ provocatore di questa espressione deriva semplicemente dalla necessità, in cui si troverebbe molto presto questo osservatore, di scrivere il termine solitudini al plurale” ( Augè, 2017, p.59).

Troppa gente che ride, che cammina, che fa la fila alla cassa, che parcheggia, che riparte, che sale e scende la scala mobile, che mangia gelati; il termine solitudine richiede immediatamente il suo plurale. Il plurale è così fondamentale e generatore di sicurezza che il suo contrario fa sorgere l‟angoscia della solitudine che spaventa perché dà occasione e coraggio di agire al ladro, al nemico, al violentatore e all‟assassino ( Augè, 2017, p.59). Così quando il centro commerciale si svuota ci sembra di vedere qualcuno che, mentre fa finta di vedere i prodotti sugli scaffali, sembra stia aspettando il nostro passaggio per scipparci o per provare un abbordaggio un po‟ spinto da cui non sapremmo difenderci.

Il centro commerciale non è luogo di solitudine, non può essere non luogo astorico, non identitario e senza relazione; esso diventa neo-luogo che assume significati diversi a seconda di come viene costruito e vissuto dai soggetti che lo utilizzano ( Pompeo, 2012). E precisamente è tempio del consumo, “luogo neodevozionale” dove la relazione si costruisce attraverso gli oggetti. Questi sono cercati, adorati e venerati e come i simboli sacri nei luoghi religiosi uniscono i fedeli nella comune e condivisa ritualità così essi costituiscono il collante di una nuova realtà sociale. “Quel palcoscenico di relazioni sconnesse, temporanee, confuse e incomprensibili riscrive un luogo che non é comunità,

78 come è stata tradizionalmente intesa, ma neanche solo anomia o mancanza assoluta di legame sociale” ( Pompeo, 2012, p.24).

Una carrellata di personaggi ognuno ha la sua scala mobile da salire, il suo bene da inseguire, ma ognuno é inserito in una realtà sociale uguale per tutti. La dimensione individuale è affermata dai singoli solo in quanto questi vivono tutti la stessa situazione sociale che li omologa. L‟io e l‟altro si identificano.

Alcuni entrano, sanno già dove sono diretti, comprano e scappano via; sicuramente passavano “per di qua”, non sono venuti appositamente, avranno qualche altro appuntamento urgente o forse c‟ è qualcuno in macchina che li aspetta. Per oggi resistono all‟ attrazione e alla magia del centro commerciale.

La mattina, in cui il traffico è meno fitto, girano soprattutto anziani in pensione ed è possibile leggere nella loro lenta e pacata selezione dei prodotti la preoccupazione di scegliere ciò che meglio può salvaguardare la loro salute o farli vivere più a lungo; oppure riempiono il carrello in vista delle visite pomeridiane dei nipoti a loro affidati dalle mamme lavoratrici.

Le donne casalinghe si muovono in un silenzio razionale distribuendo i loro pensieri alla ricerca della soddisfazione dei bisogni dei figli, del marito, degli anziani con loro conviventi e a volte degli animali domestici. Il loro camminare è stanco ed appesantito da tante fatiche e dalla forte volontà che in esso trapela. Donne e uomini sono attratti soprattutto dall‟offerta di tanti e diversificati prodotti e a volte dai prezzi più convenienti. Il centro commerciale è principalmente un luogo di acquisto per tante persone che arrivano già organizzate con la classica lista della spesa, sapendo con precisione quali sono i beni di cui hanno bisogno.

La signora Giovanna, casalinga di circa sessant‟anni, accompagnata dal marito, non gradisce molto l‟ambiente del centro commerciale, non ne ama la confusione e l‟artificialità, troppo freddo d‟estate, troppo caldo d‟inverno. La sensazione avvertita è di stordimento e di smarrimento. Vi si reca esclusivamente per cercare di risparmiare sulla spesa alimentare familiare:

Inseguo le offerte. Leggo a casa i volantini che le pubblicizzano e vengo con mio marito a riempire il carrello per la famiglia, cercando di risparmiare il più possibile. Non ho una preferenza

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per un particolare centro commerciale, frequento anche altri supermercati per la spesa alimentare sempre inseguendo esclusivamente le offerte.

Anche Fabrizio, un giovane di 26 anni, frequenta il centro commerciale almeno una volta a settimana per acquistare soprattutto beni alimentari.

Trovo maggiore possibilità di scelta rispetto agli altri negozi, inoltre parcheggio e faccio spesa con tranquillità; mentre passeggio tra le scaffalature di esposizione trovo sempre quello che cerco. Vengo spesso da solo e qui intrattengo soltanto relazioni finalizzate all‟acquisto. Per incontrare gli amici scelgo altri luoghi.

In alcuni momenti e per determinate categorie di soggetti questo neo-luogo diventa spazio di incontro e di consumo del tempo libero.

Nei week-end, nelle festività e in tardo pomeriggio per i giovani diventa un luogo in cui passare il tempo con i coetanei. Transitano giovani in gruppo con il loro abbigliamento tipico, capelli ripresi con il codino alto, orecchino, scarpe Stan Smith e bermuda, con tatuaggi che escono dal girocollo delle magliette o sui polpacci. Altri soli, camminano più annoiati, pigri, con cuffiette per ascoltare la musica o chini sul cellulare per la lettura dei messaggi. Rivelano la noia e la malinconia di un‟età adolescenziale che si isola in un mondo virtuale qualunque sia il luogo domestico o collettivo in cui si stia transitando.

Soprattutto i giovanissimi sostano dinanzi alle esposizioni delle ultimissime versioni aggiornate di cellulari, tablet e portatili “irresistibilmente irrinunciabili” e di fronte alle vetrine degli accessori dei teenager ritenuti necessari “per un‟esistenza dignitosa e da persona normale” nel gruppo dei coetanei. Gli oggetti poi passano di moda, possono essere smarriti e buttati perchè non sono stati desiderati e con essi non è nato alcun legame emotivo. E‟ lo stile dell‟ acquisto che deve durare, mentre gli oggetti sono continuamente cambiati e si avvicendano (Bauman, 2012).

Un altro gruppetto di ragazze spensierate e felici esprimono “il gioco dell‟acquisto” senza comprare e ciò già le rende felici: provano ombretti cappelli e borsette prendono il vestito dallo stand, lo appoggiano sul corpo e si mostrano all‟amica per avere un consiglio, e poi lo rimettono a posto con l‟illusione di averlo posseduto anche solo per un istante o contente di averlo acquistato anche solo con l‟immaginazione (Paolucci, 2006).

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Alessia, che accompagna la madre per le compere, ritiene il centro un luogo di ritrovo molto gradevole: “Anche senza comprare niente mi diverto e vengo qui con le amiche per svagarmi, chiacchierare e passare un pomeriggio diverso”. Monia commessa di 24 anni, si sente parte integrante di questo nuovo mondo:

Da poco lavoro qui a Carrefour come commessa e sono molto soddisfatta della mia nuova occupazione. Mi piace molto questo ambiente, è pieno di vita. Lo frequentavo anche prima di venirvi a lavorare. Per me era ed è un luogo in cui posso passare un pomeriggio con le amiche. Offre anche la possibilità di condividere del tempo con i familiari quando veniamo insieme a fare compere di ogni genere. La domenica poi ci sono gli eventi e qui si sta bene perché ci si diverte come se se si fosse in città.

Nei giorni di festa o quando piove per le mamme con i bambini come diventa spazio ludico con giostre ed altri tipi di intrattenimenti. Se è Carnevale ci sono persino le castagnole e il clown per bambini, se ricorre la festa di Sant‟ Antonio c‟è la polenta offerta ai visitatori.

Ognuno recita individualmente ma non originalmente la propria parte teatrale (Pompeo , 2012). Donne, uomini giovani e vecchi, senza relazionarsi con le commesse o tra di loro, cercano, scovano, portano in cassa, facendo tutto quello che nei precedenti negozi qualcuno faceva per loro. Così anche il professionista durante la pausa pranzo prende il suo pranzo, lo porta al tavolo, infine rimpila il vassoio e getta i rifiuti nei bidoni della differenziata. Ma tutti recitano la stessa parte attraverso gesti rituali uguali, prevedibili, razionali, veloci ed efficienti ( Ritzer, 2012). In questo senso il centro commerciale come il metrò un fatto sociale totale, è una relazione omologante che ricrea collettività ( Augè, 1992).

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2.4 Criticità locali nel presente

Ad oggi le problematiche del territorio emerse già con la crisi della industrializzazione risultano accentuate dall‟attuale crisi economica che vede il suo apice negli anni 2008-2013.

Come si desume da una analisi incrociata dei dati del Centro per l‟impiego della provincia di Frosinone, il territorio evidenzia criticità negli aspetti sociali fondamentali, quali il tasso di occupazione, il livello di istruzione, la parità di trattamento uomo-donna. In base a tali indicatori va valutato un processo di sviluppo, sia esso mondiale o locale, inteso come “un processo di ampliamento delle scelte umane significative” (UNDP, 1990), per la realizzazione della dignità e della libertà della persona.

Per avere un quadro d‟insieme in merito alla disoccupazione giovanile nel territorio ciociaro è necessario far riferimento ai dati relativi alle iscrizioni ed ai licenziamenti (Provincia di Frosinone, Settore politiche del Lavoro, 2015). I soggetti richiedenti iscrizione sono suddivisi per fasce di età: le fasce che presentano una prevalenza di iscrizioni sono quelle comprese tra i 19 e 24 anni, con incidenza superiore a tutte le altre fasce di età nel Centro per l‟Impiego di Frosinone, e quella relativa alle età 25-30 nel Centro per l‟impiego di Cassino. Quindi un‟alta percentuale di giovani è disoccupata: in essa rientrano quelli che non hanno conseguito professionalità specifiche, quelli che hanno conseguito livelli di istruzione più alti ed infine quelli con contratti a termine scaduti. Anche i dati nazionali attribuiscono al Lazio il record negativo per la disoccupazione giovanile con gli indici più alti per i giovani tra 25 e 34 anni per la provincia di Frosinone con il 25,1% contro il 18,3% del Lazio e il 17,8% dell‟Italia. Inoltre, come dimostrato dal fatto che i licenziamenti per scadenza dei termini sono più numerosi ( 71,22%), fino al 2015 i giovani sono stati assunti prevalentemente con contratti a termine. Confrontando i dati con quelli nazionali si riscontra per la provincia di Frosinone una percentuale superiore di nove punti per i contratti di durata fino ad un mese. Quindi il mercato locale del lavoro è stato caratterizzato, più delle altre Regioni e province italiane, dalla stipula di un‟alta percentuale di contratti a tempo, anche di un mese o di pochi giorni, con notevole innalzamento dell‟indice di precarietà sino al 2015.

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Gli adulti non si trovano certo in condizioni migliori, anzi a causa della difficoltà della riconversione, essi costituiscono la fascia dei nuovi poveri o di lavoratori al nero. La grande crisi dell‟industria ha generato la disoccupazione di ritorno per cui le liste di lavoratori adulti in mobilità risultano particolarmente dense nei centri per l‟impiego in cui esse erano territorializzate. Solo nel 2013 si aggiungono alle liste di mobilità 1230 lavoratori a seguito dei licenziamenti della Videocon di Anagni. Gli ultracinquantenni in mobilità iscritti sono il 61,39% del totale. La maggioranza dei lavoratori iscritti nelle liste di mobilità è quindi costituita da lavoratori adulti ancora lontani dall‟età del pensionamento, privi delle specializzazioni richieste dall‟attuale mercato del lavoro per una riconversione e con figli giovani ancora da sostenere perché a loro volta o studenti o non lavoratori. La tabella sotto riportata indica i dati relativi alle iscrizioni per fasce di età e la maggiore numerosità degli adulti iscritti.

Tabella n.2 iscritti elenco anagrafico per fasce di età al 31/12/2015

Infine la posizione delle donne che nel mondo del lavoro rimane sempre caratterizzata da inferiorità e insicurezza: il genere maschile usufruisce di contratti più stabili, mentre l‟altro genere di contratti più precari. L‟indice di precarietà, ossia il rapporto tra numero di contratti stipulati e lavoratori assunti, nel corso del decennio 2005-2015 diminuisce di 0,02 punti per i maschi, per le donne invece aumenta di 0,19 punti (Provincia di Frosinone, Settore politiche del Lavoro, 2015).

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Tabella n.3 - Numero di maschi e femmine assunte nei vari anni ( 2008-2015)

Un‟altra variabile da considerare è il tasso di istruzione. Il Lazio rispetto al numero di laureati nella fascia compresa tra 20 e 34 anni si colloca al secondo posto dopo la Lombardia. La provincia che risulta avere il più alto tasso di disoccupazione e di inattività di giovani laureati è Frosinone.

In Ciociaria vi sono 91.302 persone con la licenza di scuola elementare, 99.037 con la licenza di scuola media, 145.498 diplomati e 45.601 laureati. La maggioranza dei giovani laureati accedono al mondo del lavoro o rivolgendosi direttamente al datore di lavoro, o organizzandosi autonomamente, o attraverso il canale parentale o amicale, o attraverso procedure concorsuali ( 13,5%). L‟utilizzo dei Centri per l‟impiego è dell‟1,1% e quello delle agenzie interinali del 2,5%. (www.RegioneLazioStat.2015).

I dati del Centro per l‟impiego di Frosinone evidenziano un cambio di tendenza dal 2015 relativamente alla diminuzione del numero degli iscritti e al maggior numero di contratti stipulati a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato. Nonostante tale tendenza, che tra l‟altro dovrà essere confermata negli anni futuri per poter essere valutata positivamente, non possono considerarsi definitivamente risolte le diffuse problematiche territoriali del mondo del lavoro ancora caratterizzato dalla precarietà, dalla disoccupazione giovanile e femminile,dall‟alto numero di adulti iscritti nelle liste dei disoccupati, dal lavoro nero degli immigrati e dei licenziati ancora in età lavorativa.

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Capitolo III Il nuovo reticolo urbano

3.1 Lo spazio come costruzione culturale

Il nuovo concetto di spazio derivante dalla antropologia della surmodernità e dalla recente sociologia è sicuramente utile per comprendere le trasformazioni socio-culturali di un piccolo territorio come quello di Ferentino. Anche questa piccola cittadina è uno spazio che non può essere più concepito come delimitato e chiuso geograficamente ma aperto alla mobilità della globalità. Il nuovo criterio ordinatore dello spazio è la mobilità ( Pompeo, 2012, p. XVIII).

Lo spazio è creazione. L‟uomo fa proprio lo spazio, vi lascia la propria impronta, lo modella e gli dà forma attraverso la generazione di una società che in esso si rappresenta. L‟ambiente è spazio di vita e non di sopravvivenza, di relazioni in una duplice direzione: esso in quanto ricco di simboli conferisce significato e dà forma all‟azione che in esso si svolge, contemporaneamente esso si costruisce come insieme di simboli attraverso l‟azione dell‟uomo. Lo spazio è un‟entità flessibile, “appropriabile” nel momento in cui diventa sociale, in quanto vissuto dagli attori sociali diventa strumento di un progetto di vita. (Lefebve, 1970).

Gli antropologi hanno inizialmente concepito lo spazio in modo statico in funzione della società che su di esso si radica, cioè come la proiezione di un totalità sociale con la sua storia, con il suo passato e con il presente che cambia. Ogni società si radica nello spazio che diventa “contenitore” di culture e di identità collettive specifiche e si realizza così una piena coincidenza tra unità spaziale ed unità culturale. Partendo dallo spazio è stato sempre possibile per l‟antropologo iniziare un percorso di indagine per studiare una cultura ed i suoi valori più profondi. Lo spazio è culturalmente creato, su di esso “ si proiettano tutti i sistemi di classificazione simbolica che la società ha adottato, si riflette il sistema sociale stesso; nello spazio il sistema si materializza e si rinforza continuamente” ( Fiore, 1985, p.3).

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L‟antropologia ha però cambiato la sua interpretazione dello spazio, passando da una concezione dello stesso come spazio geografico e “contenitore di culture” a quella di località che cambia e si struttura in relazione ai cambiamenti della comunicazione umana.

Pertanto, già negli studi di G. Simmel e L.Wirth, la comunicazione più o meno intensa struttura in modo diverso i mondi abitati come la campagna e la città. La sovrabbondanza di immagini e di impressioni in veloce sequenza nello spazio genera l‟intensificazione della vita nervosa da cui l‟uomo blasè si difende mettendo da parte le relazioni affettive ed emotive e privilegiando le relazioni razionali ed indifferenti. Tutte le comunicazioni, le relazioni nella città diventano impersonali, schematizzate ed uguali. Nella campagna o nella piccola città l‟esistenza è invece basata sui sentimenti, sui legami affettivi abitudinari ( Simmel, 1995). Le relazioni si frazionano diventano impersonali, superficiali e transitorie: lo spazio cittadino diventa mosaico di mondi sociali (Wirth, 1999).

La Scuola di Chicago, che segna la nascita della antropologia urbana, ha come oggetto di studio una comunità dai contorni ben definiti, un territorio come quello della città di Chicago degli anni Venti. Come l‟antropologo con il metodo etnografico indaga un luogo rigidamente delineato quale potrebbe essere un piccolo villaggio, così il sociologo della scuola di Chicago si appropria dell‟etnografia per studiare la città come spazio “contenitore di un mosaico di mondi diversi”. Pertanto ogni città è un organismo vivente che si articola in “diverse aree naturali“ . Ognuna di esse assume una specifica funzione in relazione a fattori ambientali o ecologici quali le caratteristiche fisiche delle etnie e della popolazione, i valori dei terreni, le proprietà immobiliari, le strade, i fiumi, le caratteristiche culturali, le risorse economiche. Lo spazio della città viene raffigurato schematicamente come una serie di cerchi concentrici che rappresentano le diverse zone di insediamento: al centro c‟è il quartiere degli affari dove le proprietà immobiliari ed i terreni valgono di più; intorno i quartieri operai, poi un‟ulteriore zona di appartamenti della classe media e infine l‟area residenziale della classe superiore. Ogni formazione spaziale della città attira elementi ad essa congrui respingendo quelli inappropriati; così i quartieri se abitati dagli emigrati sono roccaforti di identità separate e chiuse nei confronti della comunità ospitante o viceversa sono aree di residenza degli autoctoni non inclusive nei confronti della comunità di nuovo insediamento. La classe sociale e la storia di vita del soggetto è tracciata dallo spazio occupato.

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L‟antropologo francese Augè ha coniato il concetto di non luogo che si contrappone al luogo antropologico, tradizionale oggetto di studio, ossia al luogo organizzato in cui gli individui, relazionandosi, fanno società. Il non luogo è l‟effetto degli eccessi propri della surmodernità: sovrabbondanza di spazi, di tempo, di immagini e di eventi. Il luogo è identitario, relazionale e storico, il non luogo è privo di questi elementi. ”Il non luogo è come un‟immensa parentesi che accoglie individui sempre più numerosi, che sono identificati, socializzati e localizzati soltanto all‟entrata e all‟uscita” ( Augè, 1992, p. 99). Biglietti, passaporti, carte di credito ci identificano e nello stesso tempo ci consentono di acquisire subito dopo l‟anonimato. L‟identità esiste solo al casello autostradale, alla cassa del supermercato. Nel non luogo tutti hanno la stessa identità, tutti passeggeri o clienti, ognuno uguale a tutti, ognuno anonimo. “Il non luogo non accoglie nessuna società organica” (Ibidem). Tale distinzione di Augè da un lato anticipa gli studi sulle caratteristiche del mondo globale, dall‟altro riafferma in modo rigoroso l‟uguaglianza tra territorio ed identità culturale.

Con l‟avvento del mondo globalizzato l‟antropologia ha dovuto ripensare e “decostruire” (Clifford, 2008) le categorie concettuali di cultura, luogo e identità. “Deterritorializzazione” è il termine che indica l‟abbandono del territorio: le culture non sono più localizzate, cioè non più costituite da un insieme di usanze stabili nel tempo e praticate su uno stesso spazio geografico. La cultura da un lato non è più legata ad un ambiente fisico come spazio delimitato e differenziato, dall‟altro non appartiene più soltanto ad un gruppo sociale insediato in un luogo preciso. Essa può stare dappertutto, diventa planetaria; all‟inizio era priva di legami esterni, nel villaggio globale esce dal suo piccolo e si incontra con le altre e si trasforma. Diviene rete di significati, insieme dinamico di relazioni sociali.

Anche la città non è più una articolazione spaziale e strutturale universalmente definibile ma è localmente differenziata e nello stesso tempo caratterizzata da fenomeni che possono essere spiegati facendo riferimento a situazioni più vaste o globali. Lo sviluppo delle città in tutti i continenti, la coesistenza nello stesso spazio di popolazioni diverse portano ad una nuova visione della città come rete di relazioni, come mosaico di modelli culturali. I concetti tradizionali di città e di campagna non hanno più la loro specificità, si amalgamano e si confondono .

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Con l‟opera di Hannerz “ Esplorare la città “, che costituisce un superamento delle teorie della Scuola di Chicago, si avvia lo studio della città come realtà complessa nell‟ecumene globale “ regione di interazione e scambio culturale persistente” ( Hannerz, 2006). La città è territorio affollato da relazioni fondate sulla varietà e sulla combinazione di diversi ruoli. Ogni individuo è coinvolto in situazioni comportamentali assumendo un repertorio di ruoli di approvvigionamento, di traffico, di tempo libero, di vicinato e familiari. Ogni ambito situazionale implica relazioni esterne ed interne dei ruoli. In questi ambiti si trovano le combinazioni più stravaganti e imprevedibili di significati e di ruoli. Le relazioni di approvvigionamento si configurano più rigide, determinate e conflittuali; le aree meno strutturate come quelle del tempo libero, riducono questi attriti portano innovazioni nelle costellazioni di ruoli. Zone flessibili e rigide della città si compenetrano: la città appare così coesa e frammentata, rigida e flessibile, ruoli di origine urbana coesistono ed interagiscono con ruoli di origine rurale.

Ogni nodo della rete agisce sull‟altro. Un quartiere, un gruppo etnico, un gruppo di professionisti sono condizionati da un contesto globale: lo stile di vita degli attori si atteggia diversamente nei contesti specifici di ogni singola città. Di conseguenza la città è incontro di cultura dominante e deviante, di culture diverse , di forme sedimentate e di forme fluide ( Hannerz, 2006).

Si avvia così uno studio diverso dello spazio come luogo di azione di grappoli relazionali significativi nella rete dei legami che li collegano ad altri.

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3.2 Centro storico e nuove periferie

Oggi la cittadina di Ferentino si estende per 81 chilometri quadrati, ha una popolazione di 21.160 abitanti e comprende la frazione di Porciano, distante circa 18 chilometri dal paese e situata sul Monte Barano dalla cui altitudine di circa 800 metri si vede il al confine con Fiuggi.

La superficie complessiva di Ferentino si può suddividere in un‟area centrale comprensiva del centro storico delimitato dalle mura ciclopiche e di un primo anello esterno immediatamente prossimo ad esso e nella periferia comprensiva di tutta la zona urbana più esterna, dell‟area industriale e della campagna o area rurale adibita a coltivazioni. Le aree verdi sono costituite da parchi soprattutto esterni alla zona centrale come il Parco delle Molazzette, ad eccezione del recente Parco urbano chiamato Orto del Vescovo perché sottostante l‟Acropoli ed il Vescovado.

La geografia del territorio è varia: il paese sorge su una collina all‟altitudine di 395 metri sopra il livello del mare, ai cui piedi si estende la vallata pianeggiante del fiume Sacco, un tempo fertile e ricca di sorgenti di acqua potabile e sorgenti di acqua solforosa. Rientra nelle geografia del territorio anche una zona lacustre, la riserva naturale del Lago di Canterno presso cui insiste un‟altra area verde, il parco del Lago di Canterno anch‟esso di recentissima realizzazione.

Lago di Canterno

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La prima periferizzazione di Ferentino nasce quando anche questa cittadina assume la configurazione di città moderna che si espande oltre le vecchie cinte murarie del centro storico. L‟industrializzazione negli anni Settanta portò in zona persone provenienti da altri paesi, attratte dalle opportunità lavorative offerte dalle nuove fabbriche insediatesi nell‟area industriale. Per far fronte alle esigenze abitative di diverse classi sociali vennero con il tempo costruite diverse tipologie di quartieri esterni, per cui la periferia può essere considerata oggi come un grande contenitore di “abitatività” diverse e di usi differenziati del territorio.

La periferia, in particolare l‟area industriale che in passato era tutta zona rurale, attualmente è una spaccato di contraddizioni, di sovrapposizione temporale di modelli socio-economici e culturali diversi e conflittuali: pezzi di natura convivono con strutture industriali dismesse o funzionanti, che hanno lasciato sul territorio ferite indelebili. Sono tuttora visibili disseminate nelle diverse zone di campagna, anche se nascoste ormai in anfratti di vegetazioni incolte, bocche di sorgenti naturali da cui un tempo gorgheggiava acqua abbondante, nelle cui adiacenze vennero costruiti lavatoi, abbeveratoi per animali e vasche di raccolta. La contrada “La Sala”, confinante con l‟area industriale a Sud dello Scalo ferroviario, già con la sua denominazione che appunto significa “ acquitrinio, costa erbosa umida” dimostra la presenza di estese zone acquitrinose a Ferentino a ridosso del fiume Sacco. La sorgente con i vasconi sui diversi livelli del terreno e un po‟ più a Nord, sulla via Morolense, l‟altra fontana chiamata Venti Merli ci rimmergono in un mondo rurale passato ma immediatamente l‟ordinanza sindacale, affissa in prossimità, avvisa che a seguito del riscontro della presenza di una densa schiuma sul manto dell‟acqua ne è vietato qualsiasi utilizzo.

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Fontana Venti Merli- Ferentino Via Morolense

Complesso industriale dismesso antistante la fontana Venti Merli- Ferentino -Via Morolense

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Sorgente “ La Sala “ – Via La Sala- Ferentino Scalo

Complesso industriale nei pressi della sorgente “ La Sala “- Ferentino Scalo

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Il centro storico è racchiuso all‟interno delle mura pelasgiche, mentre la periferia, intendendo con ciò in senso ampio tutto ciò che è fuori dal centro, è delimitato dalle varie linee viarie, dalla linea ferroviaria, dal fiume Sacco e dall‟area industriale. Tale superficie periferica si estende fino alle campagne di confine dei paesi limitrofi , Alatri, Anagni, Fiuggi, Frosinone, Fumone, Morolo, Sgurgola, Supino e .

Ferentino – Centro storico e periferia

Il termine geo-catastale di periferia come la tradizionale contrapposizione centro- periferia, ormai superati, lasciano il posto al nuovo termine antropologico del “perturbano policentrico” che indica anche una nuova perifericità ossia “isole di abitatività in cui si mette in scena una socialità altra” (Pompeo, 2012, p. XXVI ). Tale nuovo termine può essere utilizzato anche per indicare “l‟urbano esteso” di Ferentino che ricomprende frazioni, case isolate o piccoli quartieri.

La perifericizzazione a Ferentino si è determinata con una inversione di abitatività. Il centro storico, una volta tessuto urbano per eccellenza e luogo del patrimonio artistico, è ancora interessato da un processo di abbandono mentre si continua a costruire fuori dal centro con conseguente espansione del periurbano. Questa è avvenuta attraverso diverse

93 modalità insediative che hanno determinato sia una frammentazione del tessuto urbano in microaree sia un rafforzamento delle differenziazioni sociali. Gli insediamenti nel periurbano vengono quindi a costituire macchie di urbanizzazione verificatesi in tempi diversi per soddisfare esigenze di ceti sociali differenti e realizzate in modo disordinato data l‟assenza di piani regolatori fino a tempi recenti.

L‟abusivismo edilizio, a cui si sono succeduti negli anni condoni a sanatoria, ha favorito la nascita di villette isolate, delle cosiddette “case di campagna”. Tali insediamenti hanno rappresentato in negativo la modificazione della destinazione d‟uso di parti di campagna e la nascita di problematiche amministrativo-politiche connesse alla espansione e organizzazione delle reti idriche, fognarie ed elettriche. Molte case di campagna sono state realizzate anche come autocostruzioni direttamente dai proprietari dei terreni, lentamente negli anni, e ad esse hanno fatto seguito collegamenti o “ allacci” abusivi realizzati dagli stessi proprietari alle reti comunali idriche e fognarie o anche la costruzione di “pozzi neri” di raccolta anch‟essi non autorizzati, che con il tempo hanno inquinato le falde acquifere sottostanti.

Tra gli Settanta ed Ottanta un intervento di edilizia popolare pubblica agevolata sulla strada provinciale che conduce a Ferentino-Scalo, ad opera di Cooperative e IACP, ha previsto modalità abitative nuove rispetto a quelle che avevano caratterizzato le prime case popolari a Ferentino negli anni Cinquanta. Nel lontano periodo degli anni Cinquanta le case riservate al ceto medio-impiegatizio vennero costruite all‟ingresso di viale Guglielmo Marconi, le altre riservate ai ceti più disagiati in prossimità della Circonvallazione e nei pressi di San Nicola. Quindi furono insediamenti che insistevano sempre nell‟area semi - centrale o periferia storica, ossia nel primo anello esterno che circondava il centro storico, a differenza del nuovo quartiere popolare che è stato realizzato invece negli anni recenti in una zona che prima veniva definita campagna. Inoltre ad esso fu destinata un‟area estesa perché il progetto comprendeva la realizzazione di spazi verdi e di ampie strade di accesso al fine di creare un isolato collegato al centro ma nello stesso tempo autonomo da esso. L‟intervento fu finalizzato innanzitutto a soddisfare il “bisogno di casa” delle classi più disagiate che si trovavano nell‟impossibilità di acquistare al prezzo di mercato o di pagare i canoni di affitto. Le avvenute occupazioni abusive dei tempi in cui il progetto non era stato ancora ultimato evidenziarono anche una impellente ed urgente esigenza abitativa in un periodo in cui alla domanda di case non corrispondeva una adeguata offerta a seguito dell‟incremento demografico degli anni dell‟industrializzazione.

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Gli immobili vennero concessi alle famiglie, inserite in graduatorie per classi di reddito, a bassi canoni di locazione e con diritto di riscatto da molti esercitato in quanto opportunità di comprare ad un prezzo al di sotto del valore di mercato degli immobili. Tale quartiere è stato oggetto di frequenti interventi di riqualificazione ed oggi tale area è zona di mercato, le sue strade sono intitolate al magistrato Giovanni Falcone, ospita un plesso scolastico, è servita da numerosi esercizi commerciali e da una linea di trasporto urbano. E‟ ancora centro di concentrazione dei ceti a più basso reddito, ed è il simbolo di una forte frattura sociale: frequenti espressioni designano le persone che vi abitano come “quelli delle case popolari “ o il plesso scolastico anziché essere chiamato con il nome di scuola Giovanni Paolo II viene indicato come “ la scòla delle case popolari”, dove molto frequenti sono stati i furti e gli atti di vandalismo negli anni passati.

La nuova area residenziale, “Quartiere Ponte Grande”, nei pressi della Via Casilina direzione Anagni, è più vicina al centro del paese e caratterizzata da costruzioni-palazzine all‟esterno e da villette monofamiliari con giardini nella zona più interna. Il modello “villettopoli”, simile a quello delle città anglosassoni, soddisfa l‟esigenza dei ceti medio- alti ad una abitatività alternativa a quella nel centro storico in cui la convivenza è forzata in spazi angusti, la vicinanza comprime la privacy, l‟area già ristretta per le persone non sembra poter accogliere l‟abbondanza di autoveicoli per cui mancano parcheggi e garage. Le villette realizzano quindi il desiderio individualistico di una casa isolata da non condividere in condominio o con una prossimità eccessiva, comoda, con spazio verde e garage o posto-macchina; aspettativa tuttavia illusoria perché la loro organizzazione in complessi ricrea le condizioni di una convivenza come in una piccola città. Il quartiere residenziale è scenario di esperienze di vita di persone che, perifericizzate, manifestano un nuovo modo di vivere la socialità e nuove forme culturali. Il quartiere diventa il polo di attrazione e convergenza anche per persone provenienti dal centro o da altre aree del paese in quanto in esso si volgono attività “specializzate” sportive e culturali. “L‟estate nel quartiere” che si protrae per tutto il mese di luglio ricomprende iniziative di cineforum, di tornei per giovani ed anziani, spettacoli e serate di ballo. La mobilità in tali spazi è favorita da larghe strade di scorrimento e da ampi parcheggi. Centri sportivi, spazi per attività ricreative, centri per anziani e campi di bocce, bar e centri di ritrovo per i giovani, ampi giardini con giostrine per bambini sono raggiungibili anche con collegamenti del servizio di trasporto urbano. Quanto descritto rappresenta una nuova spazialità distinta da quella del centro storico ed una nuova socialità che si rilocalizza dal centro alla periferia.

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Con l‟inversione di abitatività le due polarità centro e periferia cambiano di significato. Citando Augè, nel non luogo come la periferia si ricompone un luogo e ciò che originariamente era luogo, come il centro storico pullulante di relazioni e di storia, diventa forma fluida che si ristruttura anch‟esso con sensi diversi ( Augè, 1992).

La diminuzione della densità demografica del centro genera a catena processi di cambiamento di natura economica e culturale. Difficile diventa la permanenza di piccole e medie imprese di prossimità, da sempre insediate nel territorio vicine alla residenzialità del consumatore.

Il recupero del centro storico si è concretizzato fino ad ora nella organizzazione e produzione ad opera delle Amministrazioni locali e di Associazioni, soprattutto nel periodo estivo e in occasioni delle ricorrenze festive, di manifestazioni culturali, di rievocazioni storiche e di percorsi enogastronomici. In tale modo non è stata ricostruita la località del centro storico come uno spazio relazionale ma solo come contenitore di memorie e del passato “ in cui prevale la rappresentazione di simboli e di cerimonialità, territorio che nella sua valenza storica si monumentalizza” (Pompeo, 2012, pag XXII). Esso diventa luogo in cui consumare il tempo libero, in cui passeggiare una volta ogni tanto ripercorrendo all‟indietro, dalla moderna abitazione della periferia al passato, gli angusti vicoletti calpestati dai nostri nonni, ricordando che nell‟antica botteguccia c‟era Gilda che vendeva calde e profumate ciambelle con l‟anice, che negli sterrati sotto le mura, ora ridefiniti come viali di camminamento con panchine, un tempo giocavano i nostri genitori sporcandosi di fango e di polvere di breccia.

I Ferentinati di oggi, anch‟essi cittadini del mondo globale, sono “i pionieri” ( Bravo, 2013) “della invenzione della tradizione” (Hobsbawm, 1987); ristrutturano lo spazio del centro storico sulla memoria, vissuta però con le condizioni e con gli strumenti che il mondo globale offre. Infatti gli eventi di rievocazione storica, le manifestazioni che ricordano le antiche tradizioni contadine o gli antichi mestieri, sono anch‟essi prodotti della globalizzazione pubblicizzati con i moderni siti internet e realizzati con materiali della contemporaneità.

I valori culturali locali si trasformano per effetto dell‟influenza delle presenze altre, della mobilità, della comunicazione di massa, dell‟assimilazione e ripetizione di comportanti omologanti. Nel tentativo di restaurare il prodotto della cultura tipica ferentinate, lo spazio e la tradizione che in esso viene rappresentata si trasformano e si

96 verifica ancora un cambiamento nel significato della località. Lo spazio non è più espressione di una autentica tradizione ma è palcoscenico di “una autenticità messa in scena”, dove si recita una finta tradizione perché essa non è quella tramandata tra le generazioni, non è quella rimasta nel patrimonio culturale, ma è semplicemente storia riattualizzata, è modernità vestita di tradizione.

Positivamente queste manifestazioni rappresentano anche la rivalorizzazione di una identità locale ma con forme ibride in cui il presente si mescola con il passato, lo spazio di oggi, mobile e in continua ristrutturazione si mescola con lo spazio di ieri “che non si è mai completamente cancellato”.

Inoltre anche l‟ organizzazione della festa cambia: il contesto è più ampio e più complesso, richiede costi più alti e comprende momenti di mercato e di commercializzazione. Bancarelle che occupano i viali del centro per più giorni, prodotti di legno e tipicamente africani esposti per terra sulle stuoie utilizzate anche sulle spiagge d‟estate da “vu cumprà” di colore, musiche messicane e odori d‟incenso, e spettacoli di cantanti ben pagati , “ quelli della televisione”, animano la festa del Santo Patrono. Questa è il momento di più intenso consumo dello spazio storico del paese in cui l‟affermazione dell‟identità locale si mescola, “si adatta” ad un nuovo modo di stare insieme attraverso comportamenti che poco hanno a che vedere sia con quelli caratteristici di una comunità che vanta una determinata storia sia con quelli di una comunità ristretta e delimitata geograficamente.

La festa del Santo Patrono riempie il paese di gente: paesani che tornano al centro dalla periferia dove hanno trovato una nuova residenza, paesani che tornano da città lontane anche d‟oltreoceano. Tutti fedeli ad un rito sempre uguale a se stesso, coinvolti in una rappresentazione collettiva vissuta in un contesto sociale rinnovato con attori sociali che esprimono le esigenze nuove di un mondo globale. Infine ci sono anche le presenze altre, soprattutto romeni abituati, secondo le loro tradizioni, alle fiere ed alle feste patronali e soprattutto grandi amatori della carne di maiale consumata “a iosa” sulle panche provvisoriamente collocate vicino alle bancarelle della porchetta da cui si alza l‟odore forte di salsiccia e peperoni.

Il patrono, rimosso dalla sua collocazione permanente e segreta, attraversa il tracciato urbano tra grida di gioia, applausi, urla, pianti e commozione generale. E ritornano in mente le nonne che esultano dalle finestre con i loro piccoli ormai cresciuti,

97 diventati nostri genitori e che ancora oggi come i loro avi esultano e piangono. Nel silenzio religioso interrotto dai campanellini dei fedeli in processione, la folla fa sentire la sua voce all‟unisono “ Viva, Viva, Viva Sant‟ Ambrogio!!!”

La comunità si riconosce e riflette su se stessa attraverso una cerimonia che è la costruzione culturale della sua identità. Una comunità trasformata, in questo giorno chiede ancora rispetto per se stessa, per la propria storia e per la propria continuità. Nello stesso tempo la comunità si osserva nella cerimonia con le sue differenze sociali, le sue caratteristiche, le sue evoluzioni storico-economiche in un territorio profondamente modificato. Un momento importante vissuto in uno spazio condiviso dove si armonizzano le tensioni sociali e politiche, si compensano e si intrecciano i vissuti culturali di autoctoni e di nuove presenze di migranti ormai numerosi. Tale festa patronale, espressione della mobilità passata e contemporanea, diventa rappresentazione di presenze, “universo di riconoscimento” ( Hannerz, 1998).

Anche la festa patronale evidenzia le nuove caratteristiche dello spazio della città. Ogni piccolo centro è divenuto ” glocale”, è parte di un‟ecumene globale ma nello stesso tempo piccolo spazio di tradizione e cultura specifica. Il ritorno alla normalità quotidiana dopo la festa segna la riaffermazione di una realtà rafforzata e più sentita.

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3.3 Nuove presenze nel territorio

L‟Italia dalla fine degli anni 80 diventa destinazione di diversi flussi migratori e di conseguenza si trasforma da paese di emigrazione in paese di immigrazione, da paese esportatore di manodopera in paese importatore. Le provenienze sono plurime e disperse territorialmente; le regioni del Nord sono quelle in cui risiede il 58,6% del totale della popolazione straniera.

Anche la Ciociaria è terra interessata da flussi migratori, in particolare nella provincia di Frosinone al 1° gennaio 2016 la popolazione straniera ammonta a 24.164 unità di cui il 52,4% donne e il 47,6% uomini (Caritas e Migrantes, 2016). Storicamente è stata caratterizzata da movimenti migratori interni ed esterni. Basta pensare alle periodiche transumanze dei pastori dalla montagna alla valle o al pendolarismo dei contadini prima dell‟industrializzazione verso la città di Roma per la ricerca di lavori occasionali ma più redditizi o alla vera e propria migrazione verso le regioni più industrializzate del Nord che ha coinvolto tutto il Centro-Sud negli anni Sessanta. Inoltre per molti ciociari, soprattutto di piccoli paesi, l‟America ha rappresentato nel dopoguerra la sconfitta della povertà, il sogno della propria realizzazione. Tanti al ritorno hanno avviato attività imprenditoriali, hanno acquistato le terre, altri invece sono rimasti lì. Intere comunità di ciociari di una stessa origine hanno creato, proprio come gli immigrati di oggi, enclaves etniche concentrandosi nelle stesse aree geografiche, svolgendo le stesse professioni, operando negli stessi settori lavorativi. Così i Ferentinati a Rockford e New York, i Supinesi a , hanno costituito nicchie di insediamento che ancora oggi conservano gelosamente le loro tradizioni e riproducono persino le loro feste patronali.

Quindi questa terra ha sempre vissuto, nel passato come nel presente, le problematiche legate alla mobilità e di conseguenza le paure e inquietudini dovute all‟incontro con la diversità. Il difficile tema del rapporto con il “forestiero”, poco affidabile perché sconosciuto, è diversamente raffigurato anche nelle massime proverbiali della cultura popolare. Il famoso detto, diffuso ovunque ed anche in Ciociaria, “ moglie e buoi dei paesi tuoi” trova la sua spiegazione nel fatto che la migliore conoscenza della natura e della mentalità della donna, dovuta alla condivisione della cultura di appartenenza, rende più facile la convivenza durante il matrimonio. Le abitudini e i comportamenti della donna dello stesso paese sono facilmente interpretabili e prevedibili, la forestiera riserva

99 invece sorprese. Lo stornello sul matrimonio con la forestiera evidenzia la pericolosità di tale unione e le tristi ed indecorose conseguenze che possono derivarne. L‟uomo non ha più il controllo della vita matrimoniale e familiare, non è ascoltato, non ha più potere di decisione, è un sottofondo come “il contrabbasso nella fanfara”. I tradimenti della moglie forestiera lo trasformano in oggetto di scherno da parte di tutta la comunità:

“ Tu cu tu si spusata „ssa frastéra tu che hai sposato questa forestiera

mo fa da contrabbasso alla fanfara, adesso sei il contrabbasso nella banda musicale

dugli curnuti si portabandiera” porti la bandiera dei cornuti.

(AA.VV. Ferentino ieri, 1981).

La comunità difende la sua appartenenza locale individuando insieme alla strega e allo stregone anche lo zingaro, straniero e nomade per eccellenza, come figura marginale ed elemento di pericolosità e di turbamento della sicurezza sociale.

Il forestiero è colui che viene da fuori e quindi è la persona-bersaglio su cui ricadono le rivalità e gli antagonismi tra paesi. Invettive ed insulti contro persone appartenenti a paesi diversi dal nostro sono ormai stemperati del loro significato conflittuale originario e sono rimasti come semplici modi di dire. I ferentinati vi erano condannati insieme al loro vino: “Frintin‟ trista gent‟ i cattiv‟ vin” / Ferentino gente scorbutica e vino cattivo (Guglielmo Lutzenkirchen , 1995, p. 17 ).

Allo stesso modo molti proverbi di diverse zone non solo ciociare, indicando i termini “focu e locu” come sinonimi, fanno pensare a quanto sia importante il ricongiungimento agli affetti familiari o la costituzione di nuclei familiari per sentirsi appartenenti ad un territorio. I termini usati insieme indicano il legame vincolante che esiste tra il focolare domestico, che rappresenta la casa e la comunità familiare, ed il luogo di radicamento sul territorio (De Vita, 2012). “Acqua e focu dacci locu”, ossia i beni disponibili per la sopravvivenza e il focolare domestico fanno il luogo a cui apparteniamo. Il luogo di appartenenza, come posto di vita permanente e sicuro, non é solo quello dove si dispone di ciò che è necessario per la sopravvivenza ma è anche il posto dove si costituisce una rete di affetti e di relazioni, a cui tanti immigrati di oggi hanno desiderato e desiderano ricongiungersi.

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E anche se il luogo non è quello in cui siamo nati, in esso abbiamo costruito un progetto di vita per noi, per moglie e figli, per le persone a cui siamo affezionati. E in questo spazio devono essere attribuiti i diritti e la libertà di esercitarli, tra cui anche quello all‟uso pieno del luogo come spazio di incontri e di ritmi di vita, come insieme di opportunità che esso offre ( Lefebvre, 1970).

Per delineare la situazione migratoria a Ferentino sono stati ricavati i dati dall‟Ufficio Anagrafe del Comune non esistendo rapporti elaborati sulla immigrazione locale. A Ferentino la popolazione straniera residente è aumentata nell‟arco del decennio 2006-2016, passando da 822 unità su una popolazione complessiva di 20.654 abitanti nel 2006 a 1364 unità su 21.131 nel 2016. Tuttavia la crisi economica che ha investito l‟Italia negli ultimi anni ha fatto registrare una flessione del flusso migratorio anche a livello locale. Infatti guardando in particolare i dati anagrafici relativi agli ultimi cinque anni, dal 2012 al 2015, nonostante il numero dei residenti stranieri continui ad aumentare, gli incrementi sono via via più contenuti rispetto agli anni precedenti. In questo senso va interpretato anche il dato relativo al 2013 che potrebbe destare perplessità se colto singolarmente; invece, se esaminato in relazione alle acquisizioni delle cittadinanze può fornirci indicazioni più dettagliate. L‟ abbassamento notevole relativo al 2013 delle unità residenti, che diventano 1292 rispetto alle 1473 dell‟anno precedente, non evidenzia un forte calo dell‟immigrazione in sé, ma soltanto una diminuzione delle residenze straniere per le numerose (precisamente 23) acquisizioni di cittadinanza italiana ottenute nello stesso anno (Ufficio Anagrafe Ferentino, 2006- 2016).

La decrescita della popolazione straniera residente è dovuta in parte al calo dei flussi migratori legato al diffondersi della crisi economica ma soprattutto all‟elevato numero di stranieri che acquistano la cittadinanza italiana. Quindi non si può dire che il flusso migratorio a Ferentino si sia fermato nè che sia un processo destinato ad esaurirsi nel tempo. I migranti continuano ad arrivare ma questa mobilità va assumendo caratteristiche completamente diverse rispetto alle migrazioni precedenti. Il progetto del migrante è più consapevole e mirato alla stabilizzazione. Il fenomeno migratorio non è più temporaneo, di partenza e di ritorno nel paese di origine. Esso si conclude con una inclusione definitiva nel territorio di arrivo.

Nelle realtà di paesi in cui esistono possibilità occupazionali e una adeguata rete di servizi molti stranieri hanno scelto la permanenza. Da diversi fattori possiamo desumere

101 che il flusso migratorio tenda a concludersi con un inserimento definitivo e permanente nella comunità ospitante. Innanzitutto il fatto che quasi tutti gli stranieri residenti siano sposati e vivano in famiglia è sintomo di questa tendenza. A Ferentino nel 2016 su 1364 stranieri 1328 vivono in famiglia.

Inoltre l‟aumento delle richieste di acquisizione della cittadinanza è un dato che rivela che l‟immigrato ha trovato sul territorio la sicurezza del lavoro, si è ricongiunto con la famiglia e qui ha fatto nascere i suoi figli che, come immigrati di seconda generazione, conoscono bene la lingua italiana e frequentano regolarmente le scuole. Ferentino, anche se piccola cittadina, offre opportunità occupazionali soprattutto in determinati settori quali l‟edilizia e la cura alle persone, in cui la domanda di lavoro non è più soddisfatta dagli italiani. Pertanto attraverso attività lavorative più o meno stabili, la costituzione di piccole imprese edili o piccole attività commerciali i migranti si sono garantiti migliori prospettive di vita e un forte radicamento che si è concluso per molti con l‟acquisizione della cittadinanza italiana. Dai dati dell‟Ufficio Anagrafe risulta che nel 2007 solo 8 stranieri acquistano la cittadinanza italiana, nel 2013 aumentano fino a diventare 23 e 33 nel 2015. I dati regionali confermano i dati locali. Il Lazio insieme all‟Emilia Romagna e alla Lombardia ospitano il 48% di straneri di più vecchio arrivo, precisamente quelli arrivati in Italia dal 2007. Il Lazio è quindi anche la regione che insieme alle altre due registra il maggior numero di richieste di concessione di cittadinanza.

Gli albanesi sono stati i primi immigrati ad arrivare a Ferentino; oggi le prime comunità di albanesi sono ormai costituite per la maggioranza da quasi tutti cittadini italiani. Alcuni di essi sono proprietari di piccole imprese edili in cui lavorano tutti i componenti della famiglia, padri, figli, nipoti e generi, che eseguono lavori su commesse principalmente private nel territorio ed anche in quelli limitrofi. In questi ultimi anni di forte crisi economica, le loro possibilità di lavoro si sono notevolmente ridotte; molti lavorano nel settore dell‟edilizia come manovali, imbianchini attraverso il pendolarismo, spostandosi verso Roma o altri paesi limitrofi accontentandosi di lavori occasionali e senza contratto, con paghe basse, settimanali e anche giornaliere.

R. e M , moglie e marito a Ferentino da 20 anni, albanesi ormai cittadini italiani da due anni, hanno costruito qui il loro progetto di vita, anche se oggi la vita è più difficile rispetto al momento in cui sono arrivati, e così raccontano la loro toccante ed emozionante storia di vita.

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Nella mia terra era già finito il regime comunista nel 1991 prima della mia partenza per l‟Italia, c‟era poco lavoro quindi sono andato in Grecia per fare qualche soldo. Una volta tornato ho lasciato, come molti di noi hanno fatto nel periodo di grande corruzione e di disordine dopo la fine del regime, che persone senza scrupoli e senza alcun controllo dello Stato investissero i miei risparmi ed il denaro della vendita della mia casa promettendomi interessi altissimi. Come tanti altri connazionali sul lastrico, ho perso tutto e ho deciso di progettare una vita migliore per me ed i miei figli. Sono arrivato in Italia nel 1997 con sei- sette amici, viaggiando per mare su un gommone, come clandestino. Avevo 28 anni e avevo lasciato in Albania mia moglie M. e mio figlio G. di 10 mesi. Per ben due volte, arrivati in Puglia, fummo rimbarcati dalla Finanza sulla nave che ci riportava a Valona. Dopo il terzo viaggio sul gommone riuscii a raggiungere Roma e poi Ferentino dove avevo contatti, amici albanesi arrivati prima di me che mi avrebbero aiutato a trovare un posto per dormire ed un lavoro. Qui lavoravo al nero come muratore, condividevo con dieci anche quindici amici una vecchia casa nel centro storico. Non so se quella si poteva chiamare casa, con una bombola ed un fornelletto per cucinare, servizi igienici essenziali e tanti topi tra i piedi. Dopo la regolarizzazione nel 1999 con la prima legge Bossi- Fini, nel 2000 ho portato in Albania il nulla osta per il ricongiungimento con mia moglie e con mio figlio. Erano passati tre anni e finalmente mia moglie e mio figlio erano con me a Ferentino, in una casa autonoma, affittata in campagna. Mio figlio non mi conosceva e chiedeva a mia moglie chi fosse la persona vicino a lei.

Gli occhi si bagnano di lacrime e la testa si china leggermente verso il basso. Sono seduti tranquilli sul loro divano, nei loro sguardi che si incrociano durante il racconto si scorge la fiducia reciproca che li ha sostenuti, tutto l‟ amore che non si è mai spento nella solitudine, nella lontananza al di là del mare, che ha dato loro la forza di continuare a credere e a sperare. Ogni tanto timidamente mi dice “questo te lo spiega meglio mia moglie, lei parla bene l‟italiano io non ci sono mai riuscito ed ancora non ci riesco, …… questo te lo dice lei perchè lei ha studiato, io sono geometra ma lei doveva andare all‟università se non fosse successo quello che é successo”. L‟uno il sostegno dell‟altro: anche ora che lui sembra un po‟ stanco e avvilito, qualche “acciacco” di salute con la preoccupazione di non poter più lavorare come prima anche per l‟età che aumenta.

Mia moglie stava sola per lunghi periodi anche quando è nato il nostro secondo figlio C. perché lavoravo a Venezia, a Trieste sempre nell‟edilizia a quei tempi con contratti regolari e con il versamento dei contributi. Reti amicali e di vicinato hanno costituito soprattutto per mia moglie, sola e con due bambini piccoli, un grande sostegno avendo i parenti lontani. Una vicina di casa particolarmente affezionata lasciò a mia moglie addirittura il telefonino, da usare in caso di bisogno, quando tornò a casa dopo aver partorito. Dopo dieci anni dal mio arrivo comprai con i

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pochi soldi messi da parte una casa molto piccola e i materiali per ristrutturarla. Con mia moglie la rendemmo abitabile, e lei sopportando il freddo e la fatica, mi aiutava a tinteggiare i muri, a preparare i fili per l‟impianto elettrico, a mettere le porte e le finestre. Trascorsi altri dieci anni abbiamo comprato una casa più grande dove viviamo ora e sempre rimessa in piedi da noi. Qui, con la mia esperienza da muratore, ho preparato anche un piccolo laboratorio di sartoria per mia moglie; lei prima ha lavorato come aiutante da qualche sarta, ora vuole provare ad avviare una attività tutta sua.

M. ha costruito meglio il suo spazio nel paese, ha intessuto le sue conoscenze con le mamme degli altri bambini quando i figli piccoli andavano a scuola, con il vicinato, ora con le clienti che le chiedono lavori di cucito. Lui è più polemico e critico nei confronti della società locale, non si sente ancora perfettamente incluso soprattutto sul lavoro.

Sul lavoro, che oramai è anche difficile trovare, vengo trattato sempre come l‟ultimo manovale. Nonostante la mia esperienza, i padroni mi fanno dare istruzioni dagli italiani, anche più giovani ed anche inesperti. Purtroppo per poter lavorare accetto tutto, ma sento che vengo trattato diversamente solo perché sono albanese. Rimpiango l‟Albania dove la società è più umana e tutti si salutano; qui la gente più ricca non saluta gli stranieri e quelli più poveri.

Di nuovo uno sguardo rassicurante di lei che non si avvilisce, che lo conforta dicendo che per i figli la vita sarà migliore, che c‟è stata sofferenza ma che ora è diverso; il primo ha conseguito già un diploma presso l‟Itis e sta lavorando con un contratto a tempo determinato; il secondo, anch‟egli studente dell‟Istituto tecnico, è molto bravo e sperano che continui a studiare.

Il migrante ha trovato quindi l‟opportunità di emanciparsi da condizioni di vita peggiori e ha costruito un progetto di vita. Il forte radicamento e la ricerca della stabilità trovano conferma nell‟aumento della natalità degli stranieri e nella più alta percentuale di donne straniere residenti, arrivate in un secondo momento per ricongiungimento familiare. La presenza di molte donne migranti può essere messa in relazione anche all‟invecchiamento della popolazione ferentinate. Con la crisi del Welfare l‟onere di assistenza degli anziani dallo Stato è ad esclusivo carico delle famiglie dei figli che vi provvedono economicamente e spesso riaccogliendo il genitore anziano presso la loro residenza. Tuttavia, poiché ancora in età lavorativa, i figli non possono provvedere direttamente all‟assistenza ma la garantiscono attraverso le prestazioni di cura di figure di supporto, le cosiddette “badanti”, donne immigrate che svolgono il loro lavoro di solito stabilizzandosi presso la residenza dell‟anziano.

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Nel centro abbandonato dalla maggior parte dei residenti per la preferita periferia, si incontrano nelle ore pomeridiane signore che accompagnano anziani ed anziane al sole tiepido della passeggiata del Vascello, che si fermano ogni tanto sulle panchine per far riprendere fiato ai polmoni affaticati e per far riposare le stanche membra. Un nuovo modo di stare insieme, anche nel silenzio, attraverso scambi di sguardi da cui trapelano richieste di aiuto e di comprensione e complicità di sopravvivenza. Un legame con una figura straniera sconosciuta, che non parla bene l‟italiano ma a cui ci si affeziona piano piano, alle cui forze ed energie si aggancia la fatica di vivere ad una certa età.

Altre donne straniere svolgono lavori di assistenza domestica o prestazioni come baby sitter per le famiglie, sempre sopperendo alla mancanza di asili nido o al costo elevato degli stessi. A Ferentino c‟è un unico asilo nido pubblico con lunghissime liste d‟attesa ed altri due nidi privati. Le cosiddette badanti, le colf e le baby sitter provengono dai paesi dell‟Est, principalmente sono romene, poche ucraine.

L‟invecchiamento della popolazione ferentinate riproduce l‟andamento demografico che si sta verificando in tutta la nazione italiana. Da un lato si ha un allungamento della vita con l‟aumento del numero degli anziani, dall‟altro nascono sempre meno bambini. L‟abbassamento del tasso di natalità e l‟innalzamento del tasso di mortalità determinano sia un calo della popolazione sia l‟invecchiamento della stessa e la riduzione della popolazione attiva in età lavorativa. Dal saldo naturale degli stranieri e degli italiani, dato dal rapporto nati/deceduti, si evidenzia che il calo della popolazione riguarda soltanto la popolazione italiana mentre lo stesso saldo per gli stranieri é positivo. Il numero dei nati stranieri raggiunge un picco nel 2012. Dal 2010 il numero dei nati stranieri progressivamente si riduce, causa la crisi economica che non favorisce la natalità in genere. Tuttavia il tasso di natalità degli stranieri continua ad essere sempre più alto rispetto a quello degli italiani. I bambini stranieri che nascono a Ferentino raddoppiano dal 2006 al 2016, con qualche anno in cui si registra soltanto una lieve flessione (Ufficio Anagrafe Ferentino, 2006-2016).

E‟ caratteristico per le vie di Ferentino, durante le ore mattutine dell‟uscita per gli acquisti, il passaggio di mamme straniere che si muovono in gruppo, dati gli stretti rapporti di vicinato che hanno costruito insediandosi in spazi comuni del centro storico. Spingono a fatica i passeggini sulle salitelle dei vicoletti o sulle strade ornate con sampietrini ed altri bambini più autonomi seguono l‟andamento lento delle carrozzine o si aggrappano ad esse

105 al momento del transito delle automobili. Le stesse mamme si incontrano di nuovo lungo la Circonvallazione nelle ore d‟uscita dalle scuole materna ed elementare e qui “raccolgono” altri bambini più grandi che anch‟essi si accodano alle lunghe file di carrozzini. A piedi raggiungono le loro case disseminate tra strade e stradine, si infilano negli angoli più stretti, entrano in porte dove, ad uno sguardo poco attento, non sembrava che ci fossero case abitate. Finestrelle sopra le mura, dietro le mura, piccolissime entrate all‟estremità di un vicolo cieco, che tuttavia consentono l‟accesso a tutti siano essi grandi, piccoli, o piccolissimi. La mattina dopo si riparte verso l‟asilo nido, verso la scuola, verso il panificio di Teresa, il pomeriggio verso il Vascello dove ci sono cavallucci dondolanti e piccoli scivoli.

L‟aumento della natalità straniera pone di conseguenza il problema della organizzazione e fornitura di una serie di servizi territoriali quali asili, scuole, servizi sociali, servizi amministrativi, consultori adeguati alle nuove e numerose utenze. I servizi rappresentano gli strumenti attraverso cui l‟insediamento e la realizzazione del progetto di vita dei migranti nel paese ospitante sono facilitati.

L‟alta natalità straniera ha consentito di compensare il saldo naturale dei residenti che evidenziano più morti e meno nati; tale compensazione è particolarmente visibile nel centro storico dove allo spopolamento fanno da contrappasso le nuove presenze migratorie. Lo spopolamento del centro abitato è determinato anche dalla fuga dei giovani da Ferentino che per essi non offre opportunità di lavoro o solo lavori precari. Lo straniero si è costruito in questo paese un progetto di vita occupando quelle nicchie di attività lavorative non più ambite dagli italiani; migranti, anche muniti di titoli di studio, accettano le occupazioni lavorative più umili e poco qualificanti pur di realizzare condizioni di vita migliori rispetto a quelle originariamente possedute. Invece per i giovani residenti si verifica la mancanza di opportunità occupazionali confacenti alle professionalità conseguite con più alti livelli di istruzione. Quindi i giovani ferentinati vengono cancellati dalle liste anagrafiche per trasferimenti all‟estero o in altre province, con conseguente saldo iscritti-cancellati negativo. Invece per gli stranieri il saldo migratorio, ossia il rapporto iscrizioni-cancellazioni, è positivo in quanto aumentano gli iscritti presso il Comune ed il numero dei cancellati dipende in gran parte dalle richieste e dal conseguimento delle cittadinanze acquisite (Ufficio Anagrafe Ferentino, 2006- 2016).

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I paesi di provenienza degli stranieri che sono arrivati a Ferentino sono cambiati negli anni. Negli anni Novanta i primi migranti sono stati gli Albanesi. Attualmente si riduce il loro numero in quanto, arrivati prima del 2004 dopo dieci anni hanno potuto richiedere la cittadinanza. Gli arrivi più numerosi dalla Romania si sono verificati dal 2007 con l‟entrata del paese nell‟Unione Europea che ha reso più facile la mobilità dei romeni verso gli altri paesi europei e verso l‟Italia. I romeni si concentrano soprattutto nel Centro Italia, un quarto del loro totale si raggruppa nel Lazio.

Ultimamente a Ferentino è stato attivato un progetto del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati ( SPRAR ) con il quale si crea sul territorio una rete di accoglienza per coloro che rivestono lo status di rifugiato o richiedente asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951. Il Sistema di protezione è nato a livello nazionale nel 2001 con il nome di “Programma Nazionale Asilo” grazie ad un Protocollo siglato tra il Ministero dell‟Interno, l‟Associazione Nazionale dei Comuni italiani e l‟Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. La figura del rifugiato o del richiedente asilo è colui che, a differenza del “migrante per motivi di lavoro”, fugge da guerre, persecuzioni, da situazioni in cui la propria vita si trova in pericolo. Egli non immagina alla partenza un progetto migratorio e non ha nel luogo di arrivo una rete familiare o di conoscenti. Il suo è uno sradicamento forzato dal suo territorio accompagnato da un assoluto spaesamento all‟arrivo.

Il progetto “Insieme per un‟accoglienza migliore” che è stato avviato sul territorio di Ferentino nel 2014 vede coinvolti l‟Ente Locale, Comune capofila a livello territoriale, in collaborazione con la cooperativa onlus Diaconia, Ente gestore dei servizi della Caritas. Esso ha previsto l‟erogazione di servizi di accoglienza quali i primi accompagnamenti sanitari, l‟attivazione di corsi di lingua italiana, l‟orientamento e l‟accesso ai servizi del territorio, all‟inserimento lavorativo e all‟inserimento sociale. Dopo il riconoscimento dello status di rifugiato, che deve avvenire nel primo Stato in cui si sbarca, la Prefettura ha ridistribuito sul territorio di Ferentino, attribuendone la presa in carico alla Cooperativa Diaconia, 32 ospiti di cui nove donne, con età media di 30 anni. Il più alto numero di migranti-rifugiati proviene dalla Nigeria, altre provenienze si hanno dalla Costa d‟Avorio, dal Congo, dalla Somalia, dal Senegal e dal Pakistan (Cooperativa Diaconia, 2017). La prima accoglienza fornita è consistita nel fornire l‟alloggio diffuso presso la foresteria del Monastero Santa Chiara delle suore clarisse, il corso di italiano e l‟ assistenza sanitaria. Le

107 strutture ospitanti sono state soprattutto immobili pubblici, anche di proprietà ecclesiastica, e pochi immobili di proprietà privata.

La totale presa in carico dei beneficiari da parte degli operatori ha comportato il pagamento di affitti per le strutture che li hanno ospitati e l‟impiego di personale, appunto “ di operatori”, che aiutano il rifugiato ad usufruire dei vari servizi esistenti sul territorio e ad inserirsi gradualmente sullo stesso. La finalità del percorso dovrebbe concludersi con la realizzazione dell‟obiettivo di rendere i rifugiati autonomi nella gestione dei servizi, nella ricerca del lavoro ed economicamente autosufficienti. Tali progetti non eliminano tuttavia le difficoltà o l‟impossibilità di garantire al rifugiato che termina l‟inserimento nello SPRAR una integrazione abitativa e lavorativa.

A. un‟operatrice dello Sprar, racconta che l‟integrazione definitiva di solito non avviene qui in zona perché la maggior parte dei rifugiati desidera spostarsi in altri Paesi europei soprattutto del Nord: “Mi dicono che vogliono andare in Europa. Per loro l‟Italia è solo una terra di passaggio, perché lì si vive meglio, lì avranno il lavoro dopo aver imparato bene la lingua. Mahomed è stato qui e poi è partito per la Germania”.

I rifugiati-migranti costruiscono la località con l‟immaginazione; con essa, “palestra per l‟azione” (Appadurai, 2001), costruiscono e progettano il loro percorso di vita lontano dall‟Italia. Il mondo immaginato è il mondo creato con la fantasia ma che diventa reale attraverso le scelte concrete, spaziando dal piccolo luogo di Ferentino ai tanti spazi che offre la globalizzazione.

L‟immaginazione ha avuto sempre la sua importanza nelle manifestazioni culturali della società esprimendosi nei miti, nei sogni e nelle canzoni, oggi ha una nuova forza nella vita sociale. I migranti immaginano repertori di vite possibili. I mass media offrono nuovi scenari; inoltre i contatti , le informazioni di coloro che sono diventati abitanti di questi mondi possibili ne contribuiscono alla creazione. “La fantasia è una pratica sociale che in modi molteplici entra nell‟invenzione delle vite sociali per molte persone in molte società” (Appadurai, 2001, p. 78). La vita locale del migrante non è solo costituita da eventi contingenti e reali ma è costruita su idee e opportunità che provengono da mondi lontani.

Sul territorio la reazione sociale non è stata allarmistica per i nuovi arrivi nè si è riscontrata all‟opposto una vera e propria cultura dell‟accoglienza. Nella società

108 postmoderna il prevalere di un sempre più forte individualismo e la negativa politicizzazione del tema immigrazione rendono difficile la nascita di catene di solidarietà spontanee da parte della cittadinanza. Per i primi arrivi la situazione fu differente: da questo punto di vista. R., albanese arrivato venti anni fa e già in precedenza intervistato insieme alla moglie M., ricorda che i primi periodi di “appaesamento” a Ferentino furono favoriti anche da affettuosi rapporti di vicinato: “ Appena siamo arrivati abbiamo fatto tante amicizie, i vicini di casa ci aiutavano; per qualche piccolo lavoretto che facevo per loro non solo mi pagavano ma mi regalavano anche una damigiana di vino, di olio. Oggi c‟è più egoismo, più indifferenza, ognuno fa la sua vita”.

Indifferenza, paura e diffidenza sono i sentimenti predominanti. I rapporti di vicinato possono far trapelare un trasporto emotivo, interesse e commozione che tuttavia non si traducono mai in vera condivisione di sentimenti e in comportamenti che evidenzino una forte partecipazione alle difficoltà degli altri.

A., operatrice nella cooperativa Diaconia, più che una solidarietà spontanea tra i cittadini ritiene che ci sia una solidarietà efficace in quanto istituzionalizzata cioè garantita da associazioni riconosciute come quella in cui ella stessa lavora, oppure favorita da relazioni personali di amicizia di qualche operatore dello Sprar con qualche persona della comunità locale.

B., un ragazzo venuto dal Mali, ha trovato una occupazione come aiutante in un‟azienda agricola di Veroli solo perchè il proprietario dell‟azienda era un amico di un operatore della nostra cooperativa.

Anzi racconta di un‟esperienza personale che dimostra come il sentimento dei paesani nei confronti dei migranti non sia sempre positivo:

Noi operatori di solito non stringiamo rapporti personali troppo stretti con forte coinvolgimento emotivo con i soggetti presi in carico, perché altrimenti la nostra funzione di condurre la persona presa in carico all‟autonomia ed all‟autosufficienza potrebbe fallire. Però in alcune circostanze può verificarsi l‟opportunità o la necessità di un rapporto più intimo. Margaret, una ragazza nigeriana, doveva partorire e mi ha chiesto se potevo accompagnarla e sostenerla in questo momento così importante della sua vita. Mentre sostavo con lei nella sala travaglio ascoltavo le infermiere che discutevano delle presenze straniere negli ospedali come fattore determinante una immagine dequalificata della sanità.

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In conclusione si può ritenere che l‟arrivo di presenze straniere anche in piccole comunità locali come quella di Ferentino abbia suscitato paure e malumori soprattutto tra le persone meno avvantaggiate che si trovano a concorrere con gli stranieri stessi per ottenere il posto di lavoro , il posto all‟asilo nido per i figli o per l‟assegnazione della casa popolare. Come sostiene Bauman questa paura e questo malumore si trasformano in armi attraenti da usare contro quelli più deboli di noi. Ecco perché nella situazione di crisi che sta attraversando l‟Europa lo straniero è figura che evoca la “precarietà del noi” , la fragilità ed insicurezza della nostra esistenza più che la “presenza degli altri tra noi” (Bauman, 1999).

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3.4. Quartieri, spazi privati e spazi pubblici dei migranti.

Il mondo globale richiama l‟idea di un mondo deterritorializzato senza gli Stati intesi tradizionalmente come spazi con confini delineati da norme internazionali. Questo mondo appare popolato da migranti che si muovono senza terra e senza tempo, da uomini autoctoni che viaggiano anche con la forza della immaginazione e della fantasia in spazi aperti ed extranazionali e soprattutto da persone che hanno relazioni virtuali e a lunga distanza. Tale immagine del mondo globale sembra annullare il concetto di località; fa dimenticare l‟uomo come attore sociale che vive pur sempre in luoghi come città e periferie, più densi o meno densi, di partenza e di arrivo insieme ad altri con cui intesse rapporti di vicinato, costruendo identità individuali e collettive. Ognuno di noi, e maggiormente il migrante, delineando il proprio progetto di vita anche nella relazione con l‟altro si appropria di uno spazio, crea e trasforma continuamente il concetto di località.

I migranti, cercando la loro collocazione, utilizzano e si appropriano in diversi modi dello spazio, inteso come spazio di partenza e di arrivo, spazio pubblico e spazio privato, spazio di lavoro ed abitativo. I differenti modi di vivere il luogo possono essere messi in pratica anche dalla stessa persona in diversi momenti delle sua vita da migrante o non.

L‟accesso ad una casa in cui poter vivere è il primo punto di riferimento per costruire un rapporto con il paese, per conoscerne il territorio e per un inserimento dignitoso del migrante. L‟abitare rappresenta una caratteristica fondamentale dell‟ “essere uomo” consentendo una realizzazione dei suoi bisogni di libertà, privacy e dignità. L‟abitazione delimita uno spazio individuale che separa ciò che è dentro, che è familiare e ordinato, da ciò che è fuori e quindi non familiare ed estraneo. Abitare significa avere uno spazio che dà protezione e sicurezza, che tiene lontano dal caos. In esso, contro l‟ignoto, si ricostruisce la presenza del singolo individuo unitamente alle presenze delle persone più vicine. L‟abitare non è pertanto soltanto uno spazio geometrico ma è espressione simbolica di un progetto di vita; inoltre l‟abitazione non è la casa in senso ristretto, ma il luogo dove si svolge, con i suoi rapporti di vicinato, la vita abituale. In questo senso il cambiare abitazione è, come accade per i migranti, fonte di angoscia e di perplessità, un mutamento dell‟ordinario per lo straordinario, un passaggio dalla certezza all‟incertezza ( Scala, 1976).

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La possibilità di una abitazione è un momento già difficile per l‟italiano, diventa un ostacolo insormontabile per il migrante e fonte di forti disuguaglianze con l‟italiano nelle condizioni di accesso.

La maggior parte degli immigrati risiede nel centro storico di Ferentino con più grande concentrazione nei quartieri di Santa Lucia, di “Cortellupi” e della “Piscina”, quartieri questi ultimi nei pressi di Porta Montana e nella zona sottostante la Chiesa di Santa Maria Maggiore. L‟insediamento si è concentrato sia nei vicoli del centro più antico come nelle zone circostanti la piazza del paese. Non ci sono tuttavia zone che possono essere definite strettamente a residenza italiana o a residenza straniera.

L‟immigrazione si è distribuita soprattutto nel centro storico per il basso costo degli immobili, adeguato alle modeste possibilità economiche del migrante; pertanto il criterio di scelta della casa utilizzato dai migranti è essenzialmente l‟esigenza economica e non la preferenza personale. Il basso costo dell‟affitto è legato alla svalutazione degli immobili abbandonati dai Ferentinati che hanno preferito condizioni abitative diverse: il complesso di case popolari realizzate e rese abitabili dopo gli anni Novanta, o le villette di quartieri residenziali a seguito della realizzazione di “villettopoli”, o le case isolate di campagna. Lo scarso, a volte pessimo, stato di manutenzione delle case, dovuto all‟abbandono dei loro precedenti abitanti, determina il loro più basso costo. Tuttavia attraverso l‟insediamento dei migranti nel centro storico rientrano nel mercato delle locazioni quegli immobili situati nel paese che prima ne erano fuori. I canoni riscossi rappresentano per il proprietario rendite da reinvestire per le ristrutturazioni. Piccoli appartamenti, non voluti dagli italiani per il loro stato di abbandono, diventano le abitazioni dei migranti, anzi essi stessi provvedono alla loro riqualificazione con lavori di manutenzione.

Gli abitanti del luogo dimostrano una certa riluttanza ad affittare agli stranieri; la resistenza cede qualora chiacchiere di paese diffondono la notizia della “brava persona straniera ” che ha abitato la casa vicina o raccontano di esperienze di famiglie straniere che hanno sempre pagato l‟affitto a differenza degli italiani che a volte sono più morosi.

Come rilevato da interviste effettuate presso le agenzie immobiliari del territorio, romeni, albanesi e marocchini chiedono case in affitto arredate, di superficie non superiore a 70-80 metri quadrati, nel centro storico per cui sono disposti a pagare un canone fino ad un massimo di duecento o trecento euro. La percentuale dei contratti conclusi con gli stranieri è circa del 10% sul totale. La trattativa con l‟agenzia va a buon fine e si conclude

112 con un contratto di affitto soltanto qualora l‟agenzia riesca a fornire al proprietario dell‟immobile anche informazioni sul lavoro, la regolarità del soggiorno dello straniero che ne garantiscano comunque l‟affidabilità circa il pagamento del canone.

Il mercato della casa è spesso gestito, più che dai proprietari, dagli stranieri stessi che costruiscono una serie di strategie pur di ottenere lo spazio abitativo con regolare contratto. Quest‟ultimo per essi rappresenta il presupposto su cui poter fondare la regolarità del soggiorno e la possibilità di ottenere il rimborso delle utenze di fornitura di acqua o di energia elettrica. Il mercato appare quindi caratterizzato da forte conflittualità con il locatore; gli stessi affittuari stranieri procedono alla denuncia dei contratti al nero all‟Ufficio del Registro ottenendo così sia la riconfigurazione della rendita catastale dell‟immobile al fine di pagare un canone ancora più basso di quello richiesto dal locatore sia una regolarizzazione per legge.

Più frequente rispetto agli anni passati è la richiesta di acquisto di case da parte dei migranti per prezzi all‟incirca non superiori ai sessantamila euro. L‟acquisto della casa attraverso l‟agenzia è ancora poco diffuso poiché le banche concedono mutui solo con garanzie che gli stranieri non possono fornire. Le case private comprate dagli stranieri, attraverso la trattativa privata e senza l‟intermediazione dell‟agenzia, hanno una quadratura molto piccola, basso stato di manutenzione e scarsa dotazione di servizi.

Le soluzioni residenziali oltre a differenziarsi in relazione alle caratteristiche strutturali del territorio di arrivo, si articolano anche in base alle tipologie di lavoro svolto dagli stranieri e alle abitudini delle comunità di origine (Cingolani, 2012). Per i primi arrivi degli albanesi l‟Ente locale trovò la soluzione residenziale con pernottamento presso le palestre degli edifici scolastici, mostrando coinvolgimento e solidarietà attraverso la fornitura di vitto e biancheria che l‟Ente locale stesso procurò. A tali primi insediamenti fece seguito la prassi dell‟utilizzo dell‟appartamento collettivo affittato dal proprietario alla persona munita del permesso di soggiorno. Quest‟ultima dà in subaffitto o condivide, con suddivisione delle spese, l‟abitazione con amici tutti uomini, arrivati senza mogli e senza figli. Successivamente la stabilizzazione, la formazione di nuove famiglie o i ricongiungimenti fanno nascere la necessità della casa autonoma.

Un ruolo fondamentale per l‟insediamento abitativo è svolto da reti parentali o amicali. Persone già presenti nel luogo, siano esse parenti o amici, facilitano l‟arrivo dei connazionali e ne determinano la collocazione presso le abitazioni già occupate da altri.

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Le diverse situazioni lavorative determinano differenti abitatività. Anche a Ferentino, come a livello nazionale, è in aumento il numero delle donne che migrano da sole. Queste, le cosiddette badanti, adottano la forma della coabitazione con la famiglia dell‟anziano da cui ricevono anche vitto e alloggio. Il loro spazio lavorativo ed abitativo coincidono, mentre gli spazi abitativi individuali e familiari sono distanti, multilocalizzati nel paese di arrivo e di origine. I proventi del lavoro vengono inviati nel paese d‟origine e si distribuiscono tra i familiari, nel paese in cui risiedono esse producono le risorse da trasferire.

Anche per i marocchini, che stanno recentemente insediandosi sul territorio con le caratteristiche attività di rivendita di frutta e verdura, non c‟è separazione tra spazio di lavoro e spazio abitativo personale. Vivono nello stesso stabile in cui lavorano con il padrone o con gli amici con cui svolgono la stessa attività. Posti letto e servizi igienici sono ubicati dietro il locale dove sono collocati i banchi per la rivendita.

Nel quartiere di Santa Lucia l‟abitatività degli stranieri riproduce quella degli autoctoni. Le case sono al piano terra con accesso sulla strada. Le donne, portando sedie fuori dalla porta o sedendosi sugli scalini, usano trascorrere i momenti di tempo libero chiacchierando sulla strada stretta e a senso unico su cui transitano pochi veicoli o sulle piazzette. Le straniere riproducono gli stessi comportamenti creando così una identità collettiva in cui autoctoni e stranieri si riconoscono nella condivisione di abitudini.

Avere una casa è per lo straniero la conquista del primo spazio necessario per l‟inclusione, è una libertà raggiunta. Lo spazio domestico all‟interno delle abitazioni viene ridisegnato con varie forme anche ibride: forme occidentali unite a quelle tipiche del paese di provenienza, oppure forme che rispecchiano esclusivamente i riferimenti culturali della cultura di provenienza; infine la casa può essere il simbolo di una completa occidentalizzazione attraverso l‟acquisizione di abitudini e tradizioni abitative proprie del paese di arrivo.

M, nigeriana, è a Ferentino da tanti anni con le sue due figlie, cui vuole garantire integrazione, libertà ma soprattutto la cittadinanza italiana che potrebbe dare loro maggiori opportunità anche lavorative qui e all‟estero. Più fortunata di tante altre, è venuta per studiare in Italia, poi trovatasi nella necessità di crescere due figlie ha interrotto i sui studi e ha sperimentato diverse attività lavorative come servizi di cura agli anziani oppure ha offerto ripetizioni d‟inglese a domicilio. Si è costruita una fitta rete di amicizie e di

114 conoscenze tra i locali, sia italiani che stranieri. Le sue esperienze più faticose vengono raccontate con difficoltà, mentre i percorsi attraverso cui ha conquistato sempre maggiore spazio a Ferentino rivelano la sua soddisfazione personale. Ha un negozietto etnico sotto la sua abitazione nel centro storico. Questa è piccola e l‟affitto non è alto. Il negozio è la sua seconda casa, vi trascorre tutta la giornata, ogni tanto chiude, di corsa sale le scale, va a dare un‟ occhiata alle figlie che sono a casa a studiare e ritorna giù. La sua casa rispecchia completamente la cultura abitativa occidentale e il suo desiderio di diventare italiana. Un salone con un ampio divano e con tante foto alle pareti che raccontano le feste di comunione ed i compleanni delle figlie festeggiati qui in Italia. Qualche oggetto esotico si mescola all‟arredamento prevalentemente europeo rivelando la doppia appartenenza a luoghi tutti ancora presenti. In un angolo, appeso ad una stampella, un vestito nigeriano con il suo copricapo che spesso indossa per venire in chiesa la domenica, dato che lei e le sue figlie sono cattoliche. In Nigeria questi sono i vestiti che si indossano per le cerimonie o per le ritualità religiose. La casa è il suo personale spazio, costruito con oggetti che sono parti costitutive del suo progetto di vita, carichi di emozioni ed ordinati secondo priorità di ricordi. Sulla televisione scorre un programma in cui un predicatore nigeriano spiega in inglese la parola di Dio, alla sua predicazione fanno seguito danze e canti di fedeli vestiti con costumi coloratissimi su cui spicca la pelle nera. In cucina si sentono gli odori a cui il nostro olfatto non è abituato. Ma è soprattutto il suo negozietto che riproduce tutta la sua essenza nigeriana, prepara lei stessa le collane per le sue clienti imprimendo su ognuna di esse il suo gusto straniero. La scenografia di tale rivendita è un palcoscenico in cui le rappresentazioni spaziano dalla cultura del paese di origine ai prodotti che simulano soltanto l‟esoticità. Da un lato insegne, colori e odori di una cultura altra che si appropria simbolicamente di un piccola parte dello spazio ferentinate, dall‟altro le donne di Ferentino che acquistando la collana di M. si sentono un po‟ nigeriane, si appropriano anch‟esse di una cultura che non appartiene a loro. L‟appropriazione dello spazio da parte di locali e migranti diventa località mescolata del qui e dell‟altrove. Recentemente dopo aver fatto richiesta di cittadinanza per la figlia più grande che ha finito la scuola superiore, M. sta preparando il suo ritorno in Nigeria poiché per la crisi non riesce a sostenere le spese dell‟affitto del negozio e della casa.

La presenza dei migranti si manifesta oltre che negli spazi domestici anche negli spazi pubblici. I nuovi residenti costruiscono luoghi di consumo, di preghiera e di socialità. Ferentino ha dimostrato poca permeabilità alle trasformazioni per l‟adattamento alle nuove

115 esigenze dei migranti. Non sono nati luoghi di culto per i migranti; tanti romeni la domenica mattina si spostano a Colleferro per partecipare alla messa ortodossa. L‟avviamento di un negozio per la rivendita di prodotti romeni ad opera di imprenditori romeni nel centro storico è rimasta un‟esperienza isolata e si è conclusa con la chiusura dell‟attività. Sono state concesse licenze commerciali alle poche famiglie cinesi e marocchine presenti sul territorio.

Piazzette e mercati sono gli spazi dove si mettono in campo diverse identità. Il mercato del sabato è un campo aperto di conflittualità dove la reazione degli ambulanti italiani del luogo alle presenze dei cinesi e dei marocchini è spesso difensiva e finalizzata a stabilire confini precisi e netti tra i tipi di rivendite. L‟ambulante italiano rivendica la sua preminenza per difendere lo spazio come proprio, attraverso beffe, offese o cartelli ben in mostra “ Qui si vendono prodotti italiani”.

Una nuova ed isolata esperienza in cui le identità si incontrano integrandosi sul territorio è l‟uso dello spazio dell‟oratorio della parrocchia di San Valentino in piazza Matteotti in cui è stata costituita l‟associazione “ Scuola della pace” ad opera del Movimento dei giovani della Comunità di Sant‟Egidio a Ferentino, costituito soprattutto da studenti del Liceo. L‟iniziativa è stata intrapresa con l‟intervento del parroco Don P. arrivato a Ferentino con il Vescovo da quasi dieci anni e proveniente da una formazione presso la Comunità di sant‟Egidio di Roma. La Scuola della pace trova i suoi albori negli anni Settanta quando si chiamava “Scuola popolare” ed i giovani della Comunità di Sant‟Egidio agivano nelle periferie di Roma offrendo servizi anche a domicilio per tamponare il fenomeno dell‟analfabetismo diffuso nelle classi più disagiate. Tale esperienza dei giovani di Ferentino rivela una particolare modalità di uso dello spazio urbano in cui si costruiscono relazioni sociali tra le persone autoctone e gli stranieri di diverse età, di diverse provenienze e religioni. Bambini più piccoli sono guidati nello studio da ragazzi più grandi anche stranieri di seconda generazione. Dopo il doposcuola, l‟attività ricreativa è svolta in un piccolo cortile interno. L‟obiettivo fondamentale è quello di insegnare il valore della pace per costruire sullo stesso qualsiasi tipo di relazione sia essa ludica o di apprendimento. Il valore della pace è da intendersi come il fondamentale principio per l‟inclusione, la tolleranza, la convivenza e la democrazia.

La particolare caratteristica dell‟attività del gruppo è quella di aver esteso la relazione sociale tra i giovani anche agli anziani attraverso il progetto “ Viva gli anziani”

116 finalizzato ad abbattere la solitudine dell‟anziano tipica della società contemporanea ed a favorire la comprensione dell‟importanza dell‟aiuto e del sostegno tra le generazioni. Gli anziani, soprattutto autoctoni, trascorrono il pomeriggio nello stesso luogo, essendo questo anche di svago e di ricreazione per la terza età. Qui lo spazio si configura come incontro e scambio relazionale tra generazioni diverse e tra identità diverse. Tuttavia l‟ adesione a tale forma di associazionismo incontra una forte resistenza sul territorio in quanto c‟è una grande diffidenza a frequentare sia l‟ambiente del doposcuola che potrebbe apparire come un luogo a cui si rivolgono comunque persone con difficoltà , sia l‟ambiente costituito soprattutto da stranieri.

Le presenze “altre” e le loro diverse forme di appropriazione dello spazio stanno mettendo in atto dinamiche sociali, economiche e culturali che segnano una profonda trasformazione di cui gli autoctoni e l‟ente Locale ancora non sono pienamente consapevoli. Difatti lentamente si prende coscienza del fatto che Ferentino diventa nuovo luogo che va acquisendo una nuova identità. Il borgo spopolato e invecchiato si sta trasformando demograficamente con i nuovi nati e nuove forze attive che rivitalizzano il mercato immobiliare e alcuni settori economici. Gli abbandonati luoghi di incontro e di ritrovo, come i vicoli e le vecchie piazzette, si ripopolano con la costruzione di relazioni che possono generare un noi collettivo costituito sia da migranti che da nativi.

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3.5 La costruzione dello spazio nell’immigrazione

L‟appaesamento dei migranti nei diversi territori, anche nei più piccoli come Ferentino, comporta differenti processi di adattamento ai sistemi socio-economici ivi esistenti. A sua volta la comunità locale intrecciandosi con le culture diverse ne risulta modificata nelle forme organizzative, nelle modalità relazionali, nella forme di vita quotidiana.

L‟incontro-confronto tra le diversità culturali del paese ospitante con quelle del paese di provenienza crea e ha sempre creato problematiche di inclusione-adattamento da un lato e di accoglienza- resistenza dall‟altro.

La prima fase dell‟esperienza del migrante è caratterizzata dalla sensazione di non essere in nessun luogo. Infatti per difficoltà linguistiche, mutamento di abitudini di vita, mancanza di relazioni sociali e non avendo alcun punto di riferimento il migrante prova disorientamento, nostalgia per ciò che ha lasciato e spaesamento. Il concetto di “doppia assenza” formulato dal sociologo franco algerino Sayad (1999) fa immediatamente pensare al fatto che il migrante non abbia una vera e propria esistenza sociale, di essere in bilico tra due mondi, non avendo più uno spazio sociale nel paese di partenza e tantomeno nel nuovo paese d‟arrivo. Senza luogo, fuori luogo, estraneo nella società ospitante come in quella di partenza.

M. e R., albanesi a Ferentino da venti anni ( vedi intervista par. 3.1), si sentono estranei sia qui che lì. In particolare R., il marito, si sente altro in qualsiasi territorio, parla con nostalgia dei parenti che ha lasciato e qui ancora prova disagio nel sentirsi trattato da “albanese” soprattutto nel contesto lavorativo. M. la moglie, più inserita nel contesto locale, invece si sente estranea soprattutto nel suo paese di origine.

Ho mio padre lì, mia madre è morta qualche anno fa. Ho fatto venire mio padre per alcune cure in Italia, si è fermato ma subito ha espresso il desiderio di ripartire, non si è sentito a suo agio. Non usciva perché non conosceva nessuno e non sa nemmeno una parola di italiano. Ha fatto qualche passeggiata con i miei figli. Io ormai ho più amici qui, lì non conosco più nessuno. Vado sempre di meno in Albania, l‟ultima volta sono andata per il funerale di mia madre. La società albanese ora è cambiata, è diversa rispetto a come era quando siamo partiti. Tutti ci conoscevamo nel mio paese; ora è diventata un po‟ come quella italiana, fredda e con poche

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relazioni, ed inoltre lì ho perso tutti i contatti che avevo prima. Ormai mi sento straniera nei luoghi da cui provengo.

Il secondo momento dell‟esperienza migratoria è invece caratterizzato dalla costruzione di una doppia presenza. Infatti il luogo di provenienza continua ad essere un forte legame per il migrante. Le reti di relazione con le famiglie che sono rimaste nel paese di origine sono quotidianamente vissute. La diminuzione dei costi dei viaggi aerei consente continui rincontri. La grande diffusione dei telefoni cellulari e le nuove tecnologie della comunicazione, come Internet e Skype, accrescono la possibilità di mantenere contatti frequenti con i familiari. I canali televisivi satellitari infine facilitano una informazione aggiornata e veloce su tutto ciò che succede nel paese d‟origine. Dalla sensazione di non essere in alcun luogo il migrante matura la sensazione di essere qui e lì.

A. è la badante romena di Memmina, una vecchietta che nonostante l‟età si ostina a far aprire ogni giorno le serrande del suo piccolissimo negozio di alimentari, poco distante dalla sua abitazione nel centro storico. La sua vita, da donna non sposata, è stata sempre “casa e bottega”. Quindi la sua badante la accompagna la mattina ad aprire e la sera a chiudere il piccolo locale svuotato di tutta la merce deperibile. Memmina si siede al sole davanti all‟entrata e, contenta come se stesse ancora gestendo la sua attività, vede passare la gente, scambia un saluto o una chiacchiera. Il suo interlocutore preferito è il dottore C. dirimpettaio, con casa ed ambulatorio nell‟antico palazzo di famiglia, di cui conosce meglio di una efficientissima e giovanissima segretaria orari di partenza e di arrivo, di cui sa se è dentro o se è uscito per qualche visita domiciliare urgente “ Comm‟è gli dottore ancora n‟aropre le finestre, ha successo ca ccosa?”/ “ Come mai il dottore ancora non apre le finestre, è successo qualcosa? “, oppure al paziente che arriva: “ Gli dottore nun ci stà è scito pe „na visita”/ Il dottore non c‟è, è uscito per una visita.

A., badante paziente e disponibile nei confronti della sua signora Memmina, così racconta il legame con la sua località originaria:

Lavoro per mandare i soldi a casa. Lì ho lasciato due figli. Mia figlia sta organizzando il suo matrimonio, ogni tanto compro la biancheria per lei qui nel negozio vicino a quello della signora Memmina e poi quando vado in Romania la porto a casa. Da noi c‟è come da voi la tradizione della biancheria portata dalla sposa nella nuova casa in occasione del matrimonio.

N., giovane romena, con due figli molto piccoli, lavora invece presso famiglie come aiutante per i servizi domestici e suo marito è occupato nell‟edilizia. Vive in una

119 piccolissima casa a forma di torretta nel centro storico con tre stanze una sull‟altra. Non ha i termosifoni ma solo una grande stufa nella stanza al primo piano e racconta che i suoi bambini dormono con due o tre pigiami, uno sull‟altro, in pieno inverno:

I miei figli studieranno qui, ma stiamo costruendo una casa in Romania. Noi torneremo in Romania, non sappiamo se con o senza i nostri figli che potrebbero anche decidere di rimanere nel caso in cui dopo gli studi troveranno lavoro. Come ho possibilità compro materiale di rubinetteria, mattonelle, serrature e materiale per infissi e mando tutto in Romania o con gli amici che tornano per trovare i parenti o porto io tutto quello che lì ci può servire quando una volta l‟anno ci spostiamo per andare a trovare la famiglia.

Luoghi distanti e separati costituiscono un unico luogo di movimento e di relazione, ricongiungendosi. Lo straniero non è più staticamente presente nel luogo di arrivo ma è qui e lì, si muove da una parte e dall‟altra, la sua cultura è itinerante. “Le culture sono trasnazionali, sono strutture di significato che viaggiano su reti di comunicazione sociale non interamente situate in alcun singolo territorio” ( Hannerz, 1998, p. 322,).

J. Clifford, come esponente dell‟antropologia postmoderna, decostruisce il concetto tradizionale di cultura, che non è più qualcosa di staticamente ancorata ad uno spazio precisamente e stabilmente delimitato, ma è “diasporica”, viaggiante. ”Perché non mettere a fuoco esaminando una qualunque cultura la sua componente di viaggio in tutta la sua estensione ?” (2008, p. 37).

I migranti abitano più località quella di partenza e quella di arrivo, vivono più vite. Le relazioni si intrecciano non più entro un territorio delimitato ma entro flussi di persone ma anche di cose, di oggetti della propria e della altrui tradizione che si mescolano ibridandosi e indigenizzandosi. Materiali e cose espressione di una abitatività tipicamente italiana si utilizzano in uno spazio “altro” con tradizioni ed abitudini separate e distinte. Come si legge nell‟intervista di N., la giovane romena, si trasformano gusti e comportamenti, ciò che era tipicamente italiano ora è anche romeno e viceversa.

La deterritorializzazione investe non solo l‟economia come i trasferimenti di denaro, di ricchezza e di investimenti ma anche i gruppi etnici che non sono più culturalmente omogenei. Le identità di gruppi culturali interagiscono e si ibridano oppure, si può ugualmente dire, una data cultura non è più sostanza propria di un categoria di esseri umani. In tali “panorami culturali o etnorami “ (Appadurai, 2001) mutevoli e

120 frastagliati si interrompe il legame tra luogo e l‟individuo, tra il territorio ed il gruppo etnico:

Ciò non significa che non ci siano comunità relativamente stabili e reti di parentela, amicizia, lavoro e tempo libero, così come di nascita, residenza ed altre forme di affiliazione. Ma significa che la trama di queste stabilità è percorsa ovunque dall‟ordito del movimento umano, poiché sempre più persone e gruppi hanno a che fare con la realtà di doversi muovere o con la fantasia di doversi muovere ( Appadurai, 2001, p. 35).

Le reti sociali attraversano lo spazio e il tempo e ciò avviene non solo quando il migrante arriva ma anche quando è ancora nel suo luogo originario di appartenenza. Anche la decisione di migrare avviene in un contesto relazionale transazionale. Essa non è soltanto la conseguenza di decisioni prese in termini di costi e convenienze economiche ma anche il risultato della influenza di reti migratorie. I migranti già arrivati a Ferentino, che già si sono appropriati di uno spazio abitativo e lavorativo, costituiscono reti informative e di supporto per quelli che arriveranno. Questi ultimi non arriveranno a Ferentino per caso ma perché parenti ed amici già qui trasmettono loro informazioni, raccontano il successo del loro “stare bene qui” e l‟ avvenuto insediamento in piccole nicchie lavorative. I reticoli di sostegno, le catene familiari e i flussi informativi tra il locale vicino e il locale lontano determinano la creazione dello spazio per i nuovi arrivi.

Le migrazioni per lavoro si configurano come migrazioni familiari o enclaves cioè catene di migrazione che si raggruppano e si distinguono anche per vicinanze territoriali e per occupazioni lavorative simili. Quindi ancora il mondo locale vicino e lontano si intrecciano non solo con le rimesse inviate alle famiglie nel luogo di origine a seguito delle attività lavorative svolte dal migrante ma anche a seguito del ruolo attivo svolto dai migranti nelle società ospitanti per favorire l‟arrivo di altri. Aiutano ad arrivare inviando ai familiari il denaro per il viaggio, a trovare ospitalità, a trovare lavoro e a districarsi nei meandri della burocrazia.

Tuttavia le reti migratorie spesso ostacolano o rendono più difficile l‟inclusione e la relazione con gli autoctoni. Le reti rafforzano l‟identità di gruppo come stranieri che insieme agli altri connazionali vivono le stesse condizioni di discriminazione; ci si comprende perché tra migranti le barriere linguistiche si attenuano, si condividono le stesse condizioni di svantaggio rispetto agli autoctoni. Molte pratiche sociali quali frequenze di culti, usanze e festeggiamenti particolari vengono vissute solo con i connazionali a

121 discapito dei rapporti con gli autoctoni. Con il gruppo dei connazionali viene conservata, riprodotta ed autoaffermata la cultura della propria identità minoritaria.

Inoltre le reti sdoppiano l‟identità del migrante. Infatti in patria egli gode di una immagine prestigiosa, è il fortunato che è all‟estero e può fare una vita migliore, mentre nel paese ospitante è anche colui che vive in condizioni che non sono quelle che avrebbe desiderato o che non immaginava al momento della partenza. Il mondo immaginato ascoltando i media nei paesi di origine si scontra con le difficoltà di inclusione, con la sofferenza del distacco e della lontananza dalle famiglie, dei lavori al nero o sottopagati. Una chimera confusa che non corrisponde alla realtà empirica.

Il campo sociale dello straniero lega insieme il paese d‟origine e quello d‟insediamento, è un mondo relazionale senza frontiere da cui derivano anche diverse modalità di identificarsi e di rappresentarsi. Lo straniero è una strana figura complessa da un lato appartenente per cittadinanza allo Stato da cui proviene e con cui mantiene un legame politico ed affettivo, dall‟altro è la persona presente in un‟altra comunità in cui non ha l‟appartenenza pur utilizzando tutti gli spazi che delineano la presenza: lo spazio abitativo e lavorativo, dall‟uso dei servizi per la tutela della salute all‟uso dei servizi scolastici. Il transnazionalismo è quindi caratterizzato da una bidirezionalità o bifocalità di pratiche sociali (Vertovec, 2010).

Anche il campo sociale del migrante a Ferentino comprende sia relazioni vissute sul nostro territorio sia relazioni transfrontaliere.

Ferentino è essenzialmente una piccola cittadina in cui tutti si conoscono e dove la vita scorre tranquilla. L‟estensione della periferia ed un mutamento sociale più generale verso l‟individualismo hanno comportato rispettivamente una dispersione abitativa ed un allentamento dei rapporti di vicinato.

Il vicinato, che sempre ha caratterizzato i piccoli centri, i quartieri e i villaggi, è un fattore di equilibrio contro l‟isolamento. Il problema della fine dei rapporti di vicinato si pose con la nascita delle grandi città cui si cercò di ovviare con la soluzione fallimentare della costruzione dei quartieri urbani che si rivelarono solo come ambienti costituiti da soggetti della stessa estrazione sociale che si svuotavano di giorno per motivi di lavoro per ricomporsi a fine giornata. Il fallimento di tale realizzazione urbanistica dimostrò anche

122 che per la nascita dei rapporti di vicinato non sono sufficienti lo stare insieme fisicamente e la semplice vicinanza delle presenze.

I rapporti di vicinato possono nascere qualora gli individui si sentono appartenenti ad una collettività maturando un senso di comunanza. Nella collettività cui si sentono emotivamente legati svolgono ruoli da cui nascono relazioni reciproche e vivono il quotidiano nella consapevolezza che i loro bisogni possono essere soddisfatti con risorse collettive che provengono da fonti collettive e che vanno distribuite. Di conseguenza il vicinato, fondato su tale forte sensazione dello stare insieme, si consolida attraverso le condivisioni di tradizioni, abitudini e modi di vita. Il vicinato, fatto di simboli, richiede tempo per essere costruito. Richiede prossimità, conoscenza reciproca e continua, appaesamento, comunicazione faccia a faccia, racconti e narrazioni di esperienze di vita; esso deriva dalla storia degli uomini che si conoscono e che la condividono e la partecipano reciprocamente, che si osservano e si raccontano. Soltanto questo vicinato, così profondo nel contenuto, stimola l‟incontro, lo scambio e la partecipazione alla vita sociale.

Ferentino come piccola cittadina soprattutto nel centro storico e nella periferia, non contaminata dall‟industrializzazione ed abitata dai contadini di altri tempi, è stato un ambiente intriso da forti rapporti di vicinato. La conoscenza, a volte anche invasiva e troppo dettagliata dei particolari delle vite degli altri, è stata accompagnata dal naturale fenomeno del pettegolezzo, forma comunicativa innata anche nelle altre specie animali ed utile per rafforzare il tessuto connettivo sociale. I rapporti di vicinato restano comunque densi, si espandono e coinvolgono le nuove presenze. La piazzetta, il vicoletto sono i luoghi in cui la conoscenza reciproca si tocca con mano e le esperienze di vita diventano comuni. Anche se provenienti da mondi diversi sono pur sempre esperienze di uomini che faticano, lavorano e amano. Come l‟emigrato, tornando dall‟America, raccontava di mondi nuovi e sconosciuti anche il migrante attuale racconta ai Ferentinati qualcosa da cui essi sono incuriositi anche se all‟inizio dimostrano reticenza, perplessità e timore. M., intervistata insieme al marito ( vedi intervista par. 3.3), albanese ormai cittadina italiana, racconta il legame affettivo creato con il vecchietto che abitava vicino alla sua abitazione in campagna nei primi anni in cui arrivò in Italia con il figlio per la ricongiunzione con il marito R..

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Uscivo fuori dalla porta, lui stava lì a fare qualche lavoro in campagna, mi chiedeva se avevo bisogno di qualcosa e se andava tutto bene, avendo da poco partorito il mio secondo figlio ed avendo il marito lontano perché lavorava al Nord. Mi raccontava della guerra , di quando era stato soldato, dei prigionieri italiani in Albania. Ricordo ancora quei lunghi racconti che mi coinvolgevano anche emotivamente. Anch‟io raccontavo dell‟Albania della mia famiglia, dell‟occupazione dell‟Università cui avevano partecipato anche i miei amici quando si preparava il crollo del regime.

Da tali conoscenze “raccontate” si costruisce la stima, la fiducia, il rispetto che la persona merita, nonostante abbia una provenienza diversa. Il paesano garantisce al proprietario la serietà, la moralità dello straniero o della straniera a cui si può affittare la casa o a cui si possono lasciare i bambini mentre le mamme lavorano. “Quello è una brava persona, magari fossero tutti gli italiani così”, spesso si sente dire quando si chiede informazione su uno straniero a cui vogliamo affidare un piccolo lavoro o con cui dobbiamo comunque avere a che fare. Una fiducia che può anche interrompersi quando il paese si sente tradito nonostante abbia fatto affidamento o abbia stretto un legame comprendendo i sacrifici della vita migrante. M. è stata scoperta dalla proprietaria di casa presso cui faceva i servizi. Sono stati sottratti gioielli e denaro nonostante la sua padrona le avesse dato fiducia lasciando anche i cassetti dei comodini chiusi senza il giro di chiavi. Una fiducia tradita che annulla tutto, che costringe a cambiare perché il giro di chiacchiere ormai è troppo esteso, passa attraverso i rapporti di vicinato e l‟ affidabilità perduta è troppo difficile da ricostruire.

Nella piazzetta di Santa Lucia ed in altri luoghi pubblici il vicinato funziona perfettamente come aiuto reciproco nella vita quotidiana, come controllo sociale in quanto aiuta la collettività al rispetto delle regole, come eliminazione delle diversità socio- economiche ed etniche di individui che nel momento in cui si relazionano si sentono appartenenti alla stessa comunità. Anche nel negozietto nigeriano di M, ( vedi intervista par. 3.3) le signore si fermano non solo per comprare ma anche per chiacchierare. Notizie e personaggi le cui storie sono veicolate dai rapporti di vicinato arrivano agli stranieri che stranamente conoscono anche i personaggi paesani, i loro soprannomi e le loro strane ed anomale vicende di vita. Il negozio di M. è una fonte di notizie della vita del paese.

Nonostante la condivisione di storie e la condivisione dello spazio, si è ancora lontani dal sentirsi addosso un‟identità di noi paesani come comprensiva anche dell‟identità delle nuove presenze. Molti vedono i migranti come coloro che si appropriano

124 di spazi non propri. Inoltre l‟appaesamento dei migranti negli stessi quartieri, la condivisione di feste e tradizioni nelle case private con gli stessi connazionali, evitando lo sguardo di noi paesani, sono lo strumento di cui gli stranieri dispongono per mantenere le differenze e per difendere la loro specificità identitaria.

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Conclusioni

Questa ricerca ha avuto come scopo l‟analisi delle trasformazioni socio-culturali di un piccolo territorio della Ciociaria travolto anch‟esso, nonostante la ridotta estensione geografica, dalle recenti esperienze di “delocalizzazione” e “diaspore” del mondo globale.

Il territorio di Ferentino è stato storicamente punto di convergenza di lotte tra popoli italici e di questi contro Roma, quindi di percorsi di vita contadina, dell‟avvento della industrializzazione negli anni Sessanta fino alla terziarizzazione ed alla crisi anche di quest‟ultima per congiunture nazionali e fattori economici locali. L‟avvento della grande distribuzione e dei prodotti del mondo globale negli anni a noi più vicini, ha modificato ulteriormente l‟economia locale e creato nuovi luoghi relazionali. Quest‟ultima trasformazione ha determinato la nascita di una identità residua di un uomo neo- consumatore e neo-individualista.

Tuttavia il contesto storico-economico di Ferentino è stato caratterizzato nel tempo da processi che hanno consentito al ciociaro di costruirsi prima come contadino poi come operaio, impiegato, metalmeccanico con identità di volta in volta diverse e corrispondenti a determinati ruoli che, relazionandosi tra loro, hanno intessuto una comunità con specificità proprie, con punti di forza e punti di debolezza. Di conseguenza un territorio che ha avuto come forze endogene la sua storia, le sue tradizioni, le lotte per le conquiste dei diritti e del lavoro non può ora limitarsi a nuovi usi e comportamenti finalizzati esclusivamente al consumismo, all‟individualismo e all‟anomia. E‟ necessaria la ricostruzione di uno spazio e di una identità che non cancelli il passato e che nello stesso tempo incorpori le novità del mondo globale.

Dall‟analisi dei suoi modelli antropologici è emerso un territorio con una identità storico-geografica ben definita già dai tempi delle sue origini preromane. I suoi confini naturali tracciati da fiume Sacco, dal lago di Canterno, dalle mulattiere di campagna e dalle montagne hanno delineato una località con caratteristiche specifiche quali la fertilità del suolo ricco di sorgenti e di acquitrini, il clima mite e salubre, un‟economia prevalentemente agricola e artigianale ed una ricchezza artistico-monumentale determinatasi soprattutto ai tempi del dominio di Roma.

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Di conseguenza i luoghi hanno disegnato una identità di Ferentino e del Ferentinate che presenta come tratti comuni di appartenenza un proprio dialetto, una storia e tradizioni, che sono anche tratti distintivi dalle culture dei popoli limitrofi. Il “noi che siamo di Ferentino” è un noi che distingue quelli che abitano a Ferentino dagli abitanti degli altri paesi.

Battute, definizioni ironiche e blasoni popolari denotano antichi antagonismi tra le diverse provenienze dei ciociari e forti conflittualità dovute a lotte politiche, a contrasti tra classi sociali o rivalità commerciali.

L‟abitante di Anagni definito proverbialmente con il detto “se non porti non magni”, era rappresentato come freddo, avaro e poco ospitale, quello di Alatri invece come intraprendente con forte mentalità imprenditoriale, il “commerciante per natura”, infine il supinese veniva considerato chiacchierone e saccente. Il Ferentinate si autorappresenta nella diversità con gli altri ciociari in quei concetti di gente triste ( dal latino tristis , poco affabile, burbero, stizzoso) e di cattivo vino che appaiono nel blasone popolare: “Frintin trista gent‟ i cattiv‟ vin”. In esso si ritrovano un po‟ tutte le sue aggettivazioni negative: l‟ assenza di ilarità e la scarsa ospitalità. Se il Ferentinate è poco ospitale e la sua compagnia non è gradevole anche il vino, che di solito è il simbolo di ospitalità, solo perché fatto da lui sarà cattivo. Il vino di solito si beve in allegria con gli amici , ma il cattivo vino non consente scambi amichevoli. L‟altro blasone negativo “ Frintinu passu i camminu” , conferma questa scontrosità tipica del Ferentinate . Ferentino passa e cammina, significa che non conviene fermarsi perché non si trova ospitalità ed accoglienza.

L‟identità culturale è una “costruzione umana” sempre iscritta in un processo storico. Quindi è un assemblaggio di caratteristiche le cui origini vanno ritrovate nei diversi contesti storico-sociali e culturali in cui i Ferentinati hanno vissuto o nelle relazioni intraprese o nelle diverse modalità di rapporti di potere che si sono configurati nelle interazioni quotidiane. Interazione tra l‟antico volsco e la gens romana, tra il contadino ed il proprietario della terra, tra l‟operaio e l‟industriale, tra coloro che operano nel terziario e nuovi utenti delle tecnologie informatiche e multimediali, tra i neo-consumatori nei neo- luoghi ed il grande capitale dei “finanziorama”. Determinate caratteristiche non sono naturalmente ed oggettivamente proprie di una comunità ma è questa stessa che sceglie di averle cercando di trovare insieme agli altri del gruppo le forme migliori di adattamento all‟ambiente. L‟identità del Ferentinate è il risultato di una “progettazione di una

127 definizione”, a volte anche fatta di sovrapposizioni da un lato contingenti e necessarie dall‟altro contraddittorie e distruttive del passato e delle tradizioni.

L‟identità del Ferentinate già dall‟inizio è quella di un popolo prosperoso e pacifico a cui il dio Saturno ha insegnato l‟arte dell‟agricoltura, dell‟allevamento e le tecniche dell‟artigianato da praticare in un verde e fertile territorio. Anche se dominate da Roma, le terre di Ferentino sono luogo di tranquillità e riposo per le famiglie romane che qui arrivano per oziare, per godere del clima mite, del bel paesaggio e delle buone tradizioni.

Le invasioni barbariche ed il Medioevo segnano un periodo di povertà e di sfruttamento della classe contadina che riscatta la propria libertà dal padrone soltanto negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. Relazioni di servilismo, costruiscono una identità passiva del contadino che con difficoltà esce da una cultura di subalternità caratterizzata dalla impotenza a mutare la propria condizione e dalla accettazione del suo stato come necessario e immodificabile. Ciò ha comportato una lenta acquisizione della consapevolezza della sua appartenenza ad una classe sociale che necessitava di affrancarsi dallo sfruttamento, valorizzando, nel movimento nato per il riscatto dal padrone, il suo lavoro come ricchezza e la proprietà della terra come risorsa necessaria alla sopravvivenza.

Il contadino affrancato non ridefinisce il rapporto originario con la sua terra attraverso relazioni e gesti quotidiani in una prospettiva di libertà. Il ciociaro non vuole recuperare la sua identità contadina nel nuovo contesto che va industrializzandosi ma vuole uscirne; non si autorappresenta come contadino ora libero, ma sempre come contadino analfabeta e ancora povero il cui processo di emancipazione non si completa con l‟acquisita proprietà della terra ma solo con nuove, alternative e soprattutto più redditizie occupazioni. Con l‟arrivo delle fabbriche abbandona la terra che è ancora simbolo di povertà e che diventa un luogo in cui rinvestire il salario di fabbrica. Il contadino compra la casa, il trattore e l‟automobile. Tuttavia nel processo costruttivo della identità, che dura per tutta la vita dell‟uomo, le acquisizioni successive non cancellano le precedenti ma permangono creando una identità complessa realizzata come un puzzle dai tanti tasselli della propria storia e del proprio vissuto.

La mentalità del contadino che si prepara a diventare operaio era ancora caratterizzata da un forte grado di conservatorismo e radicalismo. Gli abitanti della campagna sono più tradizionalisti, più refrattari alla novità, più fedeli alle verità

128 tramandate da generazione in generazione. Condividendo gli studi sulle differenze tra l‟uomo di città e l‟uomo di campagna, sicuramente il contadino con i suoi ritmi pacati di vita sempre uguali non ha la fretta, l‟impazienza né la volontà di apportare un radicale cambiamento per raggiungere obiettivi nuovi. La terra, anche se di sua proprietà, non è una risorsa su cui investire ma una occupazione secondaria, da mantenere e nello stesso tempo da affiancare al lavoro in fabbrica. Si adatta passivamente al cambiamento importato dall‟industrializzazione e non costruito sulle risorse del territorio; il suo nuovo destino da operaio, come quando era diretto dal proprietario della terra, continua ad essere nelle mani di un nuovo padrone. Non fa parte della sua identità la caratteristica della mentalità imprenditoriale con cui potersi mettere in gioco creando un‟alternativa alla povertà e con cui autorappresentarsi in positivo. La Cassa per il Mezzogiorno e i nuovi rapporti di potere, i sistemi clientelari basati sulla conoscenza familiare, amicale e religiosa, lo inseriscono in un mondo nuovo a lui estraneo come la fabbrica dove, nei primi tempi della industrializzazione, è operaio solo per non essere povero e senza coscienza di classe.

Si pone il problema del destino della identità contadina di fronte all‟espansione di un modello industriale. Alcuni elementi della cultura contadina si vanificano, si trasformano e vengono sostituiti da altri. Sopravvissuta nei sottofondi di un nuovo habitus oggi la cultura contadina riappare attraverso le manifestazioni di sensibilizzazione per la sua scomparsa, affiancate dal rilievo dato a tematiche ecologiche, a temi salutisti o al ritorno ad una abitatività di campagna. Immaginiamo di ascoltare la voce dei contadini in esposizioni di oggetti e costumi, rendendo così visibile una identità cancellata dai mutamenti storico-economici e ambientali come l‟abbandono della terra, l‟appropriazione della stessa da parte dell‟industria, la distruzione dell‟ecosistema.

La grande distribuzione ha rappresentato per l‟immaginario locale, in tempi più recenti, quella novità che negli anni Sessanta rappresentò l‟industrializzazione; nuove opportunità economiche e di costruzione di spazi che arrivano comunque sempre dall‟esterno e si insediano su un territorio già denaturato e depauperato. Relazioni dissonanti con quelle che hanno caratterizzato le precedenti identità, costruite sulla storia e sulla gestione delle risorse del territorio, configurano neo- luoghi, spazi neo-devozionali e neo-festivi. L‟identità si riformula per mimesi del globale, “nella tirannia del consumo e degli imperativi del narcisismo”( Pompeo, 2012).

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Infine la condivisione dello spazio con i migranti modifica la nostra percezione ed interpretazione del luogo, non più delimitato geograficamente ma parte del mondo globale. L‟analisi delle migrazioni sul territorio consente di riconoscere le nuove modalità di uso del locale e la capacità di costruire località multiple. I migranti sono qui ma nello stesso tempo lì, nei luoghi reali dove hanno lasciato le loro famiglie ed al cui sostentamento provvedono e nei luoghi immaginari dove vorrebbero arrivare perché pensano che siano migliori di qui.

La vita quotidiana “qui” consente loro di posizionarsi sul territorio e di utilizzare lo spazio appropriandosene. L‟appropriazione è un‟appartenenza distinta da quella originaria ma è un vivere qui, un abituarsi al qui, una conoscenza ed esperienza del qui, “una nuova forma identitaria di neoautoctonia” ( Pompeo, 2012). Lo spazio da loro costruito non si differenzia più da quello degli autoctoni.

Nell‟era globale non sembra possibile rivendicare un aspetto autentico dell‟essere “ferentinate” e ravvisarlo nel legame con un territorio rigidamente caratterizzato geograficamente e socialmente solo da specifiche tradizioni artigianali e contadine.

Si può ancora dire che Ferentino debba ritrovarsi nel suo spazio geopolitico che è sempre stato il suo? Si può dire ancora che Ferentino debba reimparare ad essere se stesso come nei tempi passati? Le stesse iniziative della governance quali la progettazione di eventi, di interventi di recupero del passato e dei suoi valori finalizzate a riaffermare una identità di Ferentino legata indissolubilmente ad un territorio diventano inevitabilmente identitarismo, una forma di “una malattia del territorio”.

Non solo i migranti ma anche gli autoctoni sono soggetti contestualizzati e nello stesso tempo parte di dinamiche di mobilità globale. Il migrante che si “appaesa” vive e si costruisce lo spazio come lo vivono e lo costruiscono gli autoctoni. Il migrante diventa elemento di una identità collettiva nuova.

Lo spazio appartiene a chi da sempre lo ha vissuto avendolo abitato da generazioni, costruendo in esso il suo habitus, la sua posizione sociale presente e passata; nello stesso tempo appartiene al migrante che lo abita ora conoscendolo progressivamente attraverso gli spazi inizialmente consentiti come la casa, la scuola, i servizi sanitari e riproponendo nel luogo i gesti quotidiani che esprimono l‟altrove.

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Il migrante si sta appropriando dello spazio e lo sta costruendo lentamente come spazio di conoscenza e di sopravvivenza in cui è evidente l‟ambizione di cercare lo spazio giusto, la prontezza di cambiare comportamenti di fronte alle necessità che gli adattamenti impongono e di fronte alle novità. La loro mentalità fattiva e creativa rivitalizza spazi che gli autoctoni hanno abbandonato, riattiva settori economici non più praticati. Nello stesso tempo il loro vivere quotidiano é costituito da gesti di vita semplice e frugale fondati sulla solidarietà, tipici di una società meno complessa quale era quella contadina ciociara.

L‟identità del ciociaro costruita da generazioni si incontra con le nuove risorse identitarie. Nella contemporaneità in cui l‟uomo sembra avere solo la dimensione del consumo o un‟identità smarrita , questa si arricchisce di nuove componenti culturali.

Si delinea una comunità nuova non priva di tensioni sociali, in quanto la percezione del migrante è ancora la percezione del diverso con la conseguenza più immediata di un non realizzato processo di inclusione. Relazioni sociali di vicinato, di condivisione di storie presenti e passate, di storie del qui e dell‟altrove possono edificare una nuova identità collettiva la quale potrebbe rappresentare anche il recupero delle tradizioni del locale che potrebbero rivivere insieme alle penetrazioni del globale.

L‟identità non è solo appartenenza è anche storia, è insieme di habitus, di ruoli vissuti nel passato ed in un presente in movimento dall‟individuo come singolo e come membro di una collettività.

Con Moravia si può sostenere che il mondo in cui l‟uomo vive deve essere fatto su sua misura. L‟uomo moderno per lo scrittore, o surmoderno come direbbero i sociologi contemporanei, è sempre più piccolo rispetto agli organismi di cui fa parte: le grandi città, i neo- luoghi, il mondo globale. La conseguenza di questa piccolezza è che l‟uomo diventa sempre più incapace di vivere le sue relazioni, di conseguenza di conoscere se stesso e la sua identità. D‟altro canto si deve tener conto che la misura umana è duplice, è “l'universale e il particolare, non il gigantesco e il minimo”. Di conseguenza nella dimensione locale egli può comunicare, costruire i significati delle sue relazioni; invece la dimensione globale delle relazioni, anche locali, gli consente di utilizzare valori universali che legano gli uomini di tutti i luoghi in quanto uomini. L‟uomo può essere tale qualora costruisca uno spazio, un contesto sociale in cui non sia un mezzo ma un fine raggiungere. Lo spazio gli deve cioè consentire di realizzare tutte le sue potenzialità e finalità umane. Il

131 contesto sociale deve quindi permettere all‟uomo la realizzazione della sua dimensione umana particolare ed universale.

Ne segue questo sconfortante risultato: che l'uomo è costretto a far parte di organismi troppo vasti per essere umani ma troppo angusti per essere universali. Sono questi le nazioni, gli stati, le società moderne, in lotta tra di loro, altrettanto spietate con coloro che pretendono di difendere come con coloro che vogliono distruggere. È urgente, per tutti questi motivi, che il mondo torni ad esser fatto alla misura dell'uomo. Soltanto in un mondo fatto secondo la sua misura, l'uomo potrà ritrovare, attraverso la contemplazione, un'idea adeguata di se stesso e riproporsi se stesso come fine e cessare di essere mezzo. Un mondo siffatto presuppone certamente la distruzione e la scomparsa degli Stati e delle Nazioni e conseguentemente delle immense città in cui Stati e Nazioni riuniscono i loro organi direttivi. Un mondo moderno fatto secondo la misura dell'uomo dovrà da un lato esser fatto secondo la misura fisica di quest'uomo ossia secondo la sua fisica capacità di muoversi, di vedere, di abbracciare e di intendere; dall'altro secondo la sua misura intellettuale e morale, ossia la sua capacità di entrare in rapporti con le idee e i valori morali. Abbiamo così, in poche parole, descritto un mondo in cui non vi saranno più grandi metropoli del genere di Mosca, di New York, di Londra, di Parigi; e al tempo stesso non vi saranno più Stati o Nazioni come la , l'Inghilterra o gli Stati Uniti. Le prime dovranno cedere il luogo a gruppi di case o centri abitati molto più piccoli; le seconde ad una civiltà vasta come la terra. Nei primi l'uomo vivrà, nella seconda produrrà e penserà( Moravia , 2000)

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