– LA MENTE CHE CANCELLA (Eraserhead, USA/1977) di (89’) Versione originale inglese con sottotitoli italiani

I SEGRETI DI FABBRICAZIONE

“Se vuoi mandare un messaggio vai all'ufficio postale. Devi essere libero di pensare le cose. Le idee arrivano e si agganciano l’una all’altra. Se stanno bene assieme e formano una storia che ti fa procedere in avanti, la prima cosa che può rovinare tutto ciò è di preoccuparsi di cosa ne penserà la gente. Quindi, se ti danno il permesso e il denaro per realizzare un film, devi dire, o così o niente. Se vi disturba, uscite dal cinema, per favore.” (David Lynch)

Durante il primo anno al Center for Advanced Film Studies, Lynch lavora principalmente a una sceneggiatura cui tiene molto, ma che non riesce a trasformare in film, Gardenback, da lui definita “una storia di adulterio che ha molto a che fare con i giardini e gli insetti”. Abbandonato a malincuore il progetto, comincia a lavorare a Eraserhead. Nelle sue intenzioni il film dev’essere un lungometraggio, ma l’AFI tende a finanziare soltanto opere brevi e dal momento che la sceneggiatura presentata da Lynch è di ventuno pagine, mettono a sua disposizione cinquemila dollari per realizzare un cortometraggio di ventuno minuti. L’idea di partenza deriva da una sorta di visione: una testa spiccata dal corpo e utilizzata per farne gomma per cancellare. Da questo nucleo primario il regista ricava altri spunti altrettanto bizzarri, strutturando la sua storia più in termini di texture (un vocabolo, questo, ricorrente nei discorsi di Lynch) che di trama vera e propria. Il regista ottiene dall’AFI il permesso di girare il film in 35mm in bianco e nero. Le riprese hanno inizio il 29 maggio del 1972. Si prevedono sei settimane di lavorazione. (Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)

Convinto che il film finirà per essere più lungo, David Lynch inizia a negoziare, ottenendo il permesso di girare un mediometraggio di 41 minuti. Per le scene può contare su locali lussuosi, diverse stanze di una residenza estiva di proprietà dell’AFI. Riunisce un ristretto gruppo di lavoro, che comprende suo fratello John, Alan Splet e Catherine Coulson, la futura 'Signora del Ceppo' della serie Twin Peaks. Nella primavera del 1973 le riprese vengono interrotte, soprattutto perché l’AFI, intuendo che il lavoro si stava trasformando in un lungometraggio, sospende i finanziamenti e cessa di rifornire al regista la pellicola necessaria. (Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du cinéma, Parigi 2000)

Il nucleo centrale della troupe di Eraserhead comprendeva l’operatore Herbert Cardwell (che più tardi sarebbe stato rimpiazzato da Frederick Elmes), il tecnico del suono Alan Splet, Catherine Coulson (in un gran numero di ruoli), la produttrice esecutiva Doreen Small e l’attore Jack Nance. L’affetto nutrito da Lynch per il film costituisce una componente del naturale attaccamento per le persone, per l’epoca e per un particolare metodo di fare cinema, basato sui tempi lenti. Tutte ragioni in più, presumibilmente, per preservare il quintessenziale mistero di Eraserhead. Anche solamente a causa delle sue dilatate modalità produttive, il film apporta nuove sfumature di significato all’idea di 'lavoro svolto per passione'. Con i suoi cinque anni di lavorazione, Eraserhead rappresenta uno degli esempi più singolari dell’assoluta determinazione di un regista nel portare sullo schermo le proprie visioni, pur affrontando una considerevole serie di avversità. L’aver messo a punto un immaginario così impeccabilmente ermetico nell’arco di diversi anni, e potendo disporre di un budget tanto ristretto, costituisce un esito eccezionale. (Chris Rodley, in David Lynch, Io vedo me stesso, il Saggiatore, Milano 2016)

È certo che l’'estraneità' del film risulta evidente sin dal percorso produttivo, davvero insolito. In primo luogo Eraserhead è stato girato quasi completamente di notte, in parte perché i luoghi delle riprese erano particolarmente rumorosi di giorno, ma anche perché quasi tutte le persone coinvolte (compreso lo stesso Lynch) avevano un lavoro. Lynch, che nel frattempo ha appreso le tecniche di meditazione trascendentale, lascia che le sue idee si sviluppino quasi per conto loro, senza forzarle. […] Nonostante le enormi difficoltà, è disposto a tutto pur di terminare il film: arriva persino a pensare di costruire un pupazzo con le sembianze di Henry e di completare la pellicola con sequenze realizzate con la tecnica dello stop motion. In questo frattempo l’operatore Frederick Elmes dirige la fotografìa per il film di Cassavetes L’assassinio di un allibratore cinese (1976). Tutte le persone coinvolte nella produzione, dai tecnici agli attori, continuano comunque ad incontrarsi per cercare soluzioni. Dopo aver bussato alla porta di parenti e amici, ed aver racimolato una somma di denaro sufficiente, il gruppo può ricominciare le riprese nel maggio del 1974. Lynch, che ha divorziato dalia moglie, abita di nascosto nella stanza di Henry ricostruita sul set, cancellando ogni mattina le tracce della sua presenza, e durante le riprese deve spesso assentarsi a causa del suo lavoro che consiste nel vendere il “Wall Street Journal”. Tra continui rinvii, ritardi e ingiunzioni dell’American Film Institute a liberare i locali occupati, il film è finalmente terminato nella primavera del 1976, dopo una lunga e laboriosa opera di creazione degli effetti sonori e di missaggio realizzata da Alan Splet assieme al regista. Il responso decisamente negativo dopo la 'prima' nel marzo del 1977, convince Lynch a tagliare alcune scene. Ma Eraserhead troverà il suo pubblico soltanto una volta entrato nel circuito dei midnight movies. (Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)

I SAW IT: NASCITA DI UN CULT

“Io dico sempre che Eraserhead è il mio Scandalo a Filadelfia. Gli manca solamente Jimmy Steward!” (David Lynch)

Ignorato dalla maggioranza di critici ed esperti di cinema sperimentale, film d’arte ed exploitation – nonostante possieda alcuni tratti in comune con tutte e tre le categorie (o forse proprio per questo) – e trattato in maniera sprezzante da gran parte della stampa mainstream dell’epoca, Eraserhead trovò il suo ristretto pubblico solo grazie alla pazienza e alla dedizione del suo distributore, che continuò a organizzare proiezioni nel circuito dei cinema notturni per molte settimane ben prima che il film diventasse qualcosa di simile a un oggetto di culto. (Jonathan Rosenbaum)

La proiezione al Filmex ha tuttavia un seguito fecondo: suscita infatti l'entusiasmo e l'interesse del distributore Ben Barenholtz, lo stesso che ha inventato, con film come di Jodorowsky, il fenomeno del film-culto per proiezioni di mezzanotte. La sua tattica consiste nel passare per un lungo periodo film che il pubblico deve scoprire a poco a poco, senza investimenti promozionali che rischierebbero di stroncare il fenomeno sul nascere. Nel 1977, Lynch si reca dunque a New York con Mary, e passa due lunghi mesi a controllare la stampa di una buona copia (operazione che da sempre costituisce il suo incubo, e infatti in seguito criticherà violentemente quelle di Elephant Man). Per l'occasione, Barenholtz scopre con una certa sorpresa l'aspetto da bravo ragazzo di Lynch, così poco newyorkese, incapace di farsi coinvolgere in una discussione intellettuale, e abituato ad andare a letto alle dieci di sera (ma forse doveva soltanto recuperare la fatica accumulata in tante notti passate a realizzare il film). Il film esce a New York al cinema Village nell'autunno del 1977. La prima sera fa venticinque spettatori e la seconda ventiquattro. Ma le previsioni di Ben Barenholtz finiscono per realizzarsi: programmato tutti i sabati sera a mezzanotte, trova un pubblico e costruisce la sua leggenda. “I saw it”, dice il distintivo del suo fan-club. Il cineasta aiuta Lynch dichiarando che Eraserhead è il suo film preferito durante una proiezione di una delle sue opere. Eraserhead passerà poi in un altro cinema del Greenwich Village, il Waverly, dove resta in programmazione fino a metà settembre del 1981. Nel 1982, Ben Barenholtz aveva trentadue copie del film in circolazione nel mondo intero. Presentato ad Avoriaz nel 1980, il film vince un'Antenne d'or e il Premio della giuria (presieduta da William Friedkin). I critici francesi ne sono affascinati e sconvolti, ma alcuni in realtà soltanto sconvolti perché vedono nel film un fastidioso esercizio sperimentale che ricollegano all'avanguardia newyorkese o al teatro dell'assurdo. Il film diventa un oggetto unico, anche per coloro che non l'hanno mai visto, ma ne hanno sentito parlare in termini stupefatti (il nostro primo approccio al film, prima di scoprirlo al Waverly, è frutto dei racconti di amici che ne descrivevano minuziosamente l'ambiente sordido). Corre voce che Kubrick se lo sia fatto proiettare varie volte nel suo rifugio in Inghilterra, per capire i segreti di fabbricazione del neonato, e abbia dichiarato come sia l'unico film che avrebbe voluto dirigere egli stesso. (Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

Kubrick mi fece il complimento più bello. Poco prima di iniziare le riprese di The Elephant Man, in Inghilterra, arrivarono sul set alcuni tizi della Lucas Films. Si erano fermati a far visita a Jonathan Sanger ed erano passati a salutarmi. Stavamo chiacchierando all’entrata dei Lee International Studios, a Wembley, quando a un certo punto dissero: “Siamo felici di averti incontrato, David, perché l’altra sera eravamo a Elstree con Kubrick. Abbiamo discusso un po’, e poi lui ci ha chiesto: 'Ragazzi, stasera vi va di venire a casa mia a vedere il mio film preferito?'”. “Certamente!” risposero; ci andarono, e il film in questione era Eraserhead. Per me fu una botta di euforia, poiché ritengo che Kubrick sia uno dei più grandi registi di tutti i tempi. Praticamente ognuno dei suoi film sta nella mia top ten. […] John Waters è stata un’altra persona che mi ha aiutato moltissimo. Uno dei suoi film stava per uscire, non ricordo esattamente quale fosse, e lui si era già fatto un nome negli ambienti underground. Gli fecero un’intervista, ma non fece parola del suo film: disse soltanto che bisognava andare a vedere Eraserhead! La cosa fu di grande aiuto al film, che fu programmato regolarmente in diciassette città. A quei tempi, ma sfortunatamente non più oggi, le proiezioni di mezzanotte andavano davvero forte; per esempio al Nuart, qui a Los Angeles, tenne il cartellone per quattro anni. Si trattava solamente di una sera alla settimana, ma durante tutti gli altri giorni il manifesto rimaneva esposto; perciò, che la gente l’avesse visto oppure no, si parlò di Eraserhead per oltre quattro anni. Mi piacerebbe molto che quest’abitudine si ristabilisse: ci sono un sacco di film che potrebbero sfondare, se solo avessero questa opportunità. (David Lynch, Io vedo me stesso, a cura di Chris Rodley, il Saggiatore, Milano 2016)

Oggi che Eraserhead fa parte, per noi, della serie di film targati Lynch, può aver perso l’aspetto cult movie dei suoi esordi. Questa dimensione andrebbe riguadagnata, poiché il contesto di appartenenza del film è proprio quello, momento terminale di un concetto di underground scioccante, ben studiato da 'cultisti'come Jonathan Hoberman, Jonathan Rosembaum o Denis Peary. Il cult movie, come noto, è un film che convive a fatica con la nozione di 'autore' poiché si dà come espressione unica del rapporto diretto testo/spettatore, senza tante mediazioni critiche o accademiche né chiavi d’accesso categoriche come la politique des auteurs. La forza di Eraserhead è probabilmente più nel suo impatto e nella sua unicità a suo modo 'datata' che non nella iscrizione dei suoi temi e figure dentro la poetica di Lynch, del resto certa e ampiamente dimostrabile. Quel 1976 è dunque l’inizio di una cinematografia che da subito intende rinunciare all’idea di immaturità/maturità, sperimentalismo/classicità, underground/overground. (Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002)

TESTE CHE CANCELLANO E INSONDABILI MISTERI

Io ho 'sentito' Eraserhead, non l'ho pensato.(David Lynch)

Privo di una trama o di un personaggio convenzionali, Eraserhead ruota attorno a un giovane sognante e sdolcinato di nome Henry Spencer (Jack Nance) che vive con una pianta scarna e malnutrita in una stanza ammobiliata buia e squallida in un ambiente urbano degradato. Invitato a una cena di famiglia grottesca dall’ex fidanzata Mary, si scopre padre di un mostro illegittimo, una sorta di feto simile a un verme; Mary e l’ululante creatura prematura traslocano nell’appartamento di Henry. La creatura si ammala e le sue urla strazianti finiscono per causare la fuga di Mary nel mezzo di una notte piovosa. Henry tenta di prendersi cura del figlio. Non riuscendoci, distrugge il feto e di conseguenza se stesso e l’intero universo. Storia lugubre, certo, ma gran parte del film è soprattutto una sardonica meditazione metafisica sui contenuti della mente di Henry: un paesaggio di fantasie, processi misteriosi e rumori industriali tenuti assieme da un mosaico di ossessioni riguardanti il sesso, le macchine, la biologia, la botanica, l’astronomia, la teologia, il tutto espresso in maniera non verbale. E se di trama si può parlare, essa è più che altro una commedia dell’assurdo, un incubo, più che una tragedia tormentata dall’angoscia. Gli equivalenti europei più prossimi non sono Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni, ma Il processo di Orson Welles, le sequenze in bianco e nero di Stalker di Andrej Tarkovskij oppure (per l’uso comicamente astratto e musicalmente ritmato di suono e silenzio) Le vacanze di Monsieur Hulot di Jacques Tati. Percorso da un’ipnotica bellezza formale e da un’originalissima forma di umorismo nero, con ritmi meditativi che trasformano l’esile trama in una serie perpetua di scoperte e di rivelazioni, Eraserhead è un capolavoro sui generis che la maggior parte degli spettatori e dei critici non ha mai saputo bene come prendere. (Jonathan Rosenbaum)

In Eraserhead tutto si sviluppa a partire da un problema di luoghi. Dove siamo? Qual è il luogo, il paesaggio del film? È la domanda che inevitabilmente ci si pone sin dalle prime immagini. L’apertura è sulla testa di un uomo (Henry, il protagonista) in posizione supina, come galleggiante nello spazio, in sovrapposizione ad un pianeta. La testa esce dall’inquadratura verso sinistra. La macchina da presa compie un movimento di avvicinamento al pianeta; stacco di montaggio, la ripresa mostra dei canaloni e dei rilievi rocciosi. Lo schermo diventa nero, la macchina da presa inquadra una paratia di metallo con un foro al centro. Il foro si ingrandisce sempre di più, stacco. Siamo in una stanza oscura: accanto alla finestra c’è un uomo a torso nudo, stacco. Inquadratura di Henry a bocca aperta disteso su un fianco; dalla bocca gli esce un piccolo verme bianco simile ad uno spermatozoo. Inquadratura dell’uomo che aziona una leva in un macchinario di fronte a lui. L’uomo tira una seconda leva, stacco. Un foro nella formazione rocciosa, è pieno di un liquido denso all’interno, stacco. L’uomo tira una terza leva. Il verme/spermatozoo precipita nel liquido. L’inquadratura sfuma al nero, dal nero emerge un foro da cui proviene una luce bianca; la macchina da presa si avvicina, fino a che lo schermo non diventa bianco. La prima sequenza di Eraserhead funziona in pratica come una 'cornice': ci introduce letteralmente all’interno di un mondo (l’immagine iniziale del pianeta); un mondo il cui paesaggio è formato dalle rocce e dai corpi (la sovrapposizione della testa di Henry con il pianeta). (Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Genova 2004)

La 'cancellazione' a cui si riferisce il titolo del primo lungometraggio di Lynch non rinvia soltanto alla scena in cui un uomo scrive sulla superficie di una pagina un tratto che cancella con l'estremità opposta della matita, ma anche al tentativo di Henry di sopprimere il bambino che ha fatto nascere, come un creatore onnipotente cancella il quadro della sua creazione. […] È questa la grande forza di Lynch, fin dal suo primo indimenticabile lungometraggio, di non permetterci mai di decidere. (Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

L’incarnazione di questa paternità 'corrotta' è, ovviamente, la patetica creatura che Mary dà alla luce, realizzata dallo stesso regista con un’abilità sorprendente. La particolarità di questo 'mostro' risiede nel fatto che è tutt’altro che pauroso, come accadrà a John Merrick in Elephant Man. Costui genera piuttosto nello spettatore un gran senso di disagio, orrendamente diviso com’è tra un aspetto sommamente disturbante e qualità profondamente 'umane' come i pietosi occhi che paiono imploranti e il suo pianto lancinante, così simile a quello di un 'vero' bambino. Lynch non ha mai voluto rivelare in quale modo e con quale tecnica abbia realizzato questo effetto speciale davvero inquietante; il regista, sempre disponibile e affabile nel corso delle interviste, diventa a questo proposito reticente fino al silenzio, limitandosi a suggerire la sua passione per la dissezione di animali e per le texture organiche (lasciando sapientemente intervistatori e lettori nel dubbio che la creatura possa essere stata concepita con tecniche non esclusivamente meccaniche ma, forse, biologiche). La gelosia nei confronti di questo 'effetto speciale' spingeva Lynch, durante la visione dei giornalieri assieme ai tecnici e agli attori, a coprire personalmente gli occhi all’addetto alla proiezione affinché questi non potesse scorgere i rari momenti in cui la macchina da presa inquadrava il neonato prima del ciak, rivelandone i segreti di fabbricazione. (Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)

Lynch esplora il cinema come dimensione spaziale, apertura, ma non in senso semplicemente geografico. Nel cinema come nella filosofia, non si tratta più, come nota Nancy: “Di prendere visione o di affinare la vista del mondo, dell’essere o del senso, ma si tratta piuttosto di aprire uno spazio che inizialmente non è visibile, di aprire uno spazio per una vista, o uno spazio di vista, che non sarà più uno spazio dinanzi ad uno sguardo”. Il cinema dunque, non è visto come il dispiegamento di uno spettacolo per uno sguardo già esistente, ma diventa il luogo, lo spazio entro cui si può creare uno sguardo. Perché questo sguardo si crei, il film non deve cercare di rinviare ad una realtà esterna di cui sarebbe la copia, ma deve cercare di arricchire e di modificare l’immagine in modo da far apparire non il reale, ma il suo insondabile mistero. Tornando ad Eraserhead allora, l’impronta magrittiana nel primo film di Lynch si rende ancora più evidente. Il pittorico in Magritte agisce come apertura di un mondo in cui si crea uno sguardo incerto, sospeso nell’indecidibilità del senso di ciò che sta vedendo. I corpi e gli oggetti sono lì, nella loro evidenza e, proprio per questo, nel loro mistero Come nella pittura di Magritte, Eraserhead dispiega oggetti quotidiani, corpi e narrazioni apparentemente riconoscibili e, allo stesso tempo, integrati in un mondo altro, le cui regole non sono conosciute. Un mondo, quello del film, che ne contiene altri, dalla stanza di Henry, alla casa dei genitori di Mary, la sua fidanzata, al radiatore che contiene il teatro in miniatura, dove la piccola figura femminile dalle guance deformi canta In Heaven Everything is Fine. Mondi isolati che contengono altri mondi, in un gioco ad incastri di non facile soluzione, ma che costituisce – come già Lynch mette in chiaro sin dal primo lungometraggio – il cinema stesso come apertura di uno spazio. (Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Genova 2004)

PER UN'ESTETICA DELL'INCUBO

Come Vidler ha fatto notare, l’inquietante era radicato nei racconti di Edgar Allan Poe e di E.T.A. Hoffmann. La sua iniziale manifestazione estetica fu espressa nella raffigurazione di interni apparentemente benevoli e familiari invasi da una presenza estranea spaventosa. Ed è questa la sostanza di Eraserhead, Velluto blu, Twin Peaks, Strade perdute e Mulholland Drive. La loro espressione psicologica sta nella metafora del doppio, dove la minaccia è data dall’esistenza di una copia di se stessi, tanto più terrificante in quanto l’altro non è veramente 'altro'. […]. L’inquietante fu anche generato dal sorgere delle grandi città. Appena le persone cominciarono a sentirsi separate dalla natura e dal passato, esso divenne un’ansia moderna associata a malattie e disturbi psicologici, in particolare a paure legate allo spazio come l’agorafobia o la claustrofobia. L’iniziale terrore delle città di Lynch e il suo amore per la natura e per un passato idillico può aver contribuito a queste paure così evidenti nel suo cinema, spesso espresse nell’uso del cinemascope. Personaggi come Fred Madison in Strade perdute sono circondati da spazi aperti, arenati nell’incerta geografia delle loro stesse vite. O, come per Henry in Eraserhead, ogni ambiente, interno ed esterno, dev’essere dettagliatamente e attentamente trattato. L’incertezza, l’estraniazione e la mancanza di orientamento ed equilibrio sono talvolta così intense, nell’universo lynchiano, che ci si chiede se sia mai possibile sentirsi a casa propria. […] L’inquietante fu ripristinato come categoria estetica dall’avanguardia moderna, che l’usò come strumento di 'defamiliarizzazione'. Per i surrealisti, esso risiedeva nello stato tra il sonno e la veglia, da qui il loro interesse per il cinema. Se Lynch è “il primo surrealista populista: un Frank Capra della logica del sogno”, come affermò una volta il critico cinematografico Pauline Kael, è precisamente per il suo interesse nel processo di defamiliarizzazione e nello stato veglia/sonno”. (Chris Rodley, in David Lynch, Io vedo me stesso, il Saggiatore, Milano 2016)

Il primo lungometraggio di David Lynch è innanzitutto la storia di un uomo, Henry Spencer, e poi quella di una coppia che vive insieme al loro bambino in una zona industriale degradata, su un terreno abbandonato pieno di fanghiglia, disseminato di rumori di officina o di macchine, un territorio ai margini del fantastico che deve forse ricordare il paesaggio della zona di Philadelphia dove abitava Lynch con la moglie e la figlia. Questa dimensione realista in virtù della sua stessa stranezza è una delle chiavi del film. Al tempo stesso, il soggetto di Eraserhead può riassumersi nei normali problemi di una coppia con un bambino piccolo: problemi di sonno, di coesistenza, fobie domestiche di vario tipo, rapporti di vicinato, ma tutti trattati da David Lynch in modo decisamente stilizzato. Perché la forza di Eraserhead risiede anche nella sua particolarissima estetica. Bianco e nero carbonaceo, colonna sonora non realista, creature bizzarre, ibride, tra cui primeggia il pargolo, che ricorda più un animale che emette vagiti di un neonato, sequenze di animazione, effetti speciali rudimentali, propensione per la metamorfosi, atmosfera oppressiva: tutto concorre a fare del film di Lynch una sorta di oggetto bizzarro, senza che peraltro si perda nella gratuità o nell’originalità fine a se stessa. Eraserhead fa parte di quelle pellicole che instaurano un filo diretto tanto con l’inconscio dei loro autori quanto con quello dei loro spettatori. Il film descrive in primo luogo un percorso interiore, quello di Henry Spencer – interpretato dal sorprendente Jack Nance, che apparirà poi nel corso degli anni nella maggior parte dei film di David Lynch, per il quale Nance diventerà una sorta di attore-feticcio –, un percorso tormentato, come se il personaggio subisse una specie di metamorfosi interiore senza comprendere quello che gli sta accadendo. In effetti, un clima di angoscia sorda e crescente avvolge Eraserhead, lungometraggio dominato da stati umorali, da sensazioni, da tutta una gamma di fatti organici che colpiscono corpi e menti. (Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du cinéma, Parigi 2000)

Non partendo da studi cinematografici, la padronanza del linguaggio filmico da parte di Lynch potrebbe non apparire completa. Al contrario, è ormai evidente che la scuola figurativa cui il regista fa riferimento non è stata un ostacolo bensì una ricchezza: egli ha così potuto utilizzare convenzioni narrative e formali solo in funzione di un modo di vedere il cinema totalmente unico e personale. Se è vero che nel corso degli anni lo stile di Lynch si è fatto via via più maestoso e scintillante, ciò appare frutto di una scelta consapevole più che di una avvenuta maturazione linguistica. La rappresentazione dello spazio e del tempo, di conseguenza, obbedisce all’originalità delle intuizioni lynchane, pur operando all’interno del cinema americano e del suo riconoscibile modello. Il 'cronotopo' – se ci si passa il termine desunto da Bachtin – del cinema hollywoodiano è presente nel cinema di questo autore come luogo mentale in cui proiettare continue distorsioni, praticare strade senza uscita, proporre logiche intransitive al racconto classicamente inteso. Lynch non appartiene certamente al cinema cosiddetto neoclassico e, d’altra parte, pur essendone un ispiratore, non si può nemmeno affermare che sia un regista postmoderno. L’innovazione sui concetti di spazio e tempo è pressoché impercettibile a un primo sguardo. […] All’interno dei film, non è semplice definire una chiara dimensione temporale degli avvenimenti. Nelle opere più sperimentali, Eraserhead e Fuoco cammina con me! soprattutto, i nessi di causa ed effetto non sono per nulla evidenti. Una serie di avvenimenti prende corpo man mano che i personaggi progrediscono nei loro incubi a occhi aperti. (Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002)

SOUNDSCAPE

In Eraserhead, con la musica acidula dell'organo Hammond di Fats Waller e il canto tremolante della Signora del termosifone, nasce inoltre un concetto musicale tipicamente lynchano, anche se riuscirà davvero a padroneggiarlo definitivamente soltanto in seguito: la sensazione dello strumento o della voce in assolo come denudati, fragili, tremanti nel vuoto. È infatti questo il suono che, con l'aiuto di Angelo Badalamenti, il suo futuro Nino Rota, Lynch ritroverà in Velluto blu e più chiaramente ancora in Cuore selvaggio e nell'album Floating Into the Night, trasformandolo in un personalissimo clima musicale, in particolar modo attraverso il filo di voce della cantante Julee Cruise. Un altro aspetto interessante e specifico della musica in Lynch, da Eraserhead in poi, è la confusione di sacro e profano: la musica allegramente swingata di Fats Waller evoca anche, con le sue sonorità d'organo, le volte della chiesa, e ha qualche somiglianza con il cantico della Signora del termosifone. Ma la forza dell'impianto sonoro del film sta soprattutto nel fatto che non c'è continuità tra ambiente e musica. Si passa in tutta naturalezza da un rumore burrascoso che evoca una tempesta o una macchina, a un tremolo musicale tenuto di natura melodrammatica o estatica, come quando Henry scopre che il Baby è malato, e uno dei raccordi più traumatici del film ci mostra la sua testa coperta improvvisamente di pustole e di bolle: un accordo d'organo elettronico esplode allora brutalmente, succedendo a un gorgoglio di caldaia, cui si lega senza alcuna rottura estetica. Di Lynch si può dire che ha rinnovato il cinema attraverso il suono: se il suo 'découpage' visivo resta classico e trasparente – ma con una sorta di deformazione che attesta una volta di più la forza del cinema, dove il minimo scarto in rapporto alle regole risulta tanto ricco di effetti – il suo 'découpage' sonoro è decisamente personale. Il suono ha una funzione precisa, quella di spingerci avanti nel film, di farci subito sentire al suo interno, avviluppati dalla sua durata. (Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

Per quanto riguarda il complesso 'ambiente sonoro' di Eraserhead, è necessario tornare a quesiti fondamentali sull’origine del fuori campo del film, definito da molti commentatori 'assoluto'. Da dove provengono i rumori industriali che, onnipresenti ed eccessivi, accompagnano Henry per tutto il film? Si tratta di suoni off, di cui la fonte viene tenuta fuori campo, oppure sono rumori 'finti' che non hanno derivazione, che mirano a suggerire l’idea di un riferimento ambientale più che rimandare con precisione a un contesto industriale? Non si tratta semplicemente di suoni di carattere macchinico, quanto di una sinfonia proteiforme composta da stridii, fischi, rombi e boati, generante un frastuono invisibile che rimanda anche, spesso con chiarezza (si veda in proposito la sequenza notturna della fuga di Mary), a rumori naturali, vento e tuoni, quasi lo scopo della colonna audio fosse quello di ibridare l’aspetto dei diversi suoni, naturale e industriale, di contaminarli e diffonderne la presenza, per raccontare una città deserta, svuotata della presenza umana ma non per questo divenuta silente. Quando Lynch definiva Eraserhead un “film su Philadelphia” denunciava una fonte d’ispirazione importante. Negli anni della lavorazione, il regista visse con la famiglia in una zona industriale della città, violenta e abbandonata, e da questa esperienza rimase profondamente scosso. La città del film, che si sente e non si vede, che incombe come una presenza inquietante su chi la vive, nelle cui strade la gente si uccide e in cui le persone normali non si vedono in giro, forse impaurite dall’oscurità e dal degrado dilaganti, funge da sfondo naturale indispensabile al testo per caricarsi di ambiguità e al contempo potenziare la propria caratteristica misura angosciante. (Marco Giallonardi, Eraserhead. La mente che cancella, in David Lynch, a cura di Paolo Bertetto, Marsilio, Venezia 2008)

In che misura hai lavorato sulle modalità espressive dei personaggi di Eraserhead?I rari dialoghi del film sembrano pronunciati in una maniera tutta particolare. Be’, dovevano dare quest’impressione. Derivò tutto dalle prove: infatti i personaggi avrebbero potuto parlare in molti modi, tutti completamente fuori luogo. Perciò mi sforzai di trovare quello più appropriato, tanto per ciascuno di loro che per l’atmosfera generale. Mi calai all’interno delle varie sfumature verbali: forti, sommesse e quant'altro. Si possono considerare i dialoghi alla stregua di effetti sonori o musicali, ma nonostante ciò conservano attinenze con i personaggi; quindi, una volta scoperta la chiave, l’espressione corretta viene di conseguenza. Se tutto va bene parecchi di questi elementi emergono quasi subito e vengono fissati una volta per tutte.

Anche la colonna sonora possiede una certa densità: una 'presenza' costante, quasi subliminale. Sono assolutamente affascinato dalle presenze, da quello che si è soliti definire 'tono locale': il suono che si avverte nel silenzio, tra una parola e l'altra o tra una frase e l'altra. È un aspetto molto delicato, poiché dentro questa sorta di ambiente sonoro apparentemente tranquillo si possono inserire delle sensazioni che contribuiscono a costruire l'immagine di un universo più ampio.

Una di queste 'presenze' pare essere l’elettricità: il rumore e la potenza prodotti dalla corrente elettrica. Eraserhead è solamente la prima manifestazione della tua attrazione per l’elettricità. Di che si tratta esattamente? Anche in questo non ci capisco granché... Be’, esistono cose che penetrano fin dentro il luogo in cui vivi... entità generate o create all’esterno, ognuna delle quali allude al senso del tempo, alla vita. E se poi in tutto ciò c’è qualcosa che non va o che non funziona come si conviene, il fatto può anche rivestire qualche altro significato. Si dà il caso che mi piaccia l’elettricità, ma non è che le nuove spine che si usano qui in America mi facciano proprio impazzire. Amo tutto ciò che riguarda l’elettricità degli anni trenta e quaranta, e anche quelle fabbriche con le ciminiere. Il fuoco, il fumo, il rumore. I suoni si sono sempre più affievoliti: il ronzio di un computer è un gioco da ragazzi in confronto alla potenza nell’accezione vera del termine. E malgrado in quel computer ci sia una grande quantità di energia, la sua natura è del tutto diversa, e non mi fa provare nessuna emozione. (David Lynch, Io vedo me stesso, a cura di Chris Rodley, il Saggiatore, Milano 2016)

ANTOLOGIA CRITICA

Il primo mostro è – o sembra essere – il regista, David Lynch. Due teste: Eraserhead e Elephant Man. Così diverse l’una dall’altra, si dice in giro. E invece fino a oggi (privilegio e condanna del vivere e scrivere in quest’attimo...) i due film formano un campo meravigliosamente organizzato e coltivato e integrato, percorso da scambi (evidenti, o nascosti come il flusso di certe acque) che ne fanno un unico corpo ma soprattutto un’unica testa girevole, evidentemente a due facce (che si nutrono dello stesso cervello). […] Questo è l’inestimabile pregio di Eraserhead, che (come facilmente si è classificato Elephant Man come film 'umanistico' di facile vena...) pure si sarebbe portati a definire classico film 'd’avanguardia' sulla linea degli incubi onirici alla Chien andalou. No, Eraserhead non ha nulla della facilità delle inversioni e invenzioni surrealiste, né della studiata figuratività espressionista. Come Elephant Man, si pone sotto il segno dell’ambizione cosmica, agitando e mostrando prima di tutto proprio lo spettro della generazione e della pro-creazione fantastica, il formarsi nel vuoto oscuro di un biancore che diventa forma, sostanza, incubo, elefante, gomma, materia qualsiasi. Tutto il cinema di Lynch, in Elephant Man in modo più semplificato e paradigmatico e essenziale, in Eraserhead più polifonicamente e complessivamente, è il sorgere di forme che si scontrano, si spezzano, si suddividono, ne procreano altre, senza problemi quanto alla materia, sia essa carne o gomma. Come Shining, Eraserhead stupisce per la capacità di tener fede alla forma linguistica dell’inconscio senza dimenticare di comprendervi la follia ossessiva e lucidamente illuministica di tale stessa intrapresa, senza cioè abbandonarsi al mimetismo onirico. Eraserhead riesce in questo nonostante la fortissima connotazione fantastica di ogni immagine e di ogni inquadratura. […] Realistico e infernale rumore di una periferia cittadina, ma anche suono di fondo del mondo che ruota dentro il vuoto cosmico; un’orrenda disarmonia delle sfere che rompe la rassicurante e abituale omogeneità del suono filmico, eterno garante della riconoscibilità dei singoli oggetti cinematografici. (Enrico Ghezzi, "Scena", n. 1, 1982)

La narrazione di Eraserhead è essa stessa il processo di creazione del narrato. Ciò viene rappresentato come una complessa relazione tra la volontà umana – per prima cosa la tirannia delle parole – e il processo involontario. La massa di materia animata che emerge da Henry senza che abbia alcuna diretta relazione con lui spiega questo atteggiamento di 'inevitabilità' pulsionale. […] L’energia rilasciata dalla narrazione deriva dal processo involontario che spinge Mary X e Henry a liberarsi dalle proprie costrizioni. Il film, comunque, non riguarda Mary bensì Henry e la sua liberazione dai “pensieri torbidi e angoscianti” che Lynch ha descritto con queste parole. Eraserhead presenta l’inconscio come un correttivo a ciò che è “torbido e angosciante”. Per quanto assurda la figura della donna nel radiatore possa apparire, l’unione di Henry con lei è il dono offertogli dal suo subconscio e rappresenta un contatto con la realtà che viene altrimenti oscurato da tutto ciò che 'cresce', anche in termini narrativi, intorno al protagonista. Noi possiamo comprendere ancora meglio Eraserhead se ascoltiamo la frase di Lynch sui “pensieri torbidi e angoscianti” nel contesto del senso narrativo mostrato nei film successivi e delle sue influenze primarie. Dobbiamo, cioè, concludere che egli si sta riferendo al lato oscuro delle forme linguistiche che rabbuiano importanti tratti della realtà di Henry. La struttura narrativa del film descrive così la doppia natura che tanto eccita Lynch. Da una parte, è una forma limitante, persino oppressiva. Dall’altra, ciò contiene – misteriosamente e paradossalmente – una forma di energia, incarnata dalla donna che danza, che produce una strana 'libertà' dentro quegli stessi confini. (Martha P. Nochimson, The Passion of David Lynch, University of Texas Press, Austin 1997).

Meritando di essere considerato come un fenomeno oltre che come film, Eraserhead è radicalmente differente da The Rocky Horror Picture Show dal punto di vista del rapporto con il suo pubblico. Gli spettatori ridono abbastanza spesso, ma mai in maniera esagerata e senza alcuna traccia dello spirito di clan; e il film non diventa oggetto di un proprio rituale. Spogliato del suo culto, The Rocky Horror Picture Show non ha praticamente alcun interesse; con o senza i suoi fedeli partigiani e i suoi rari critici, Eraserhead è senza alcun dubbio un avvenimento decisivo per la storia del cinema fantastico. […] I pensieri, le ispirazioni, i timori, le emozioni, le tentazioni, i deliri: una delle ragioni che fanno sì che Eraserhead ricordi così tanto Bataille, la sua estetica e poetica del disgusto, è la determinazione dell’artista a mescolare tutto […]. In più, l’impatto del surrealismo su Lynch sembra essere stato decisivo – si pensi ai ready-made di Duchamp e al gusto di Buñuel per i sogni –, e infatti se il film può avere un modello ancestrale nel cinema (in opposizione a un modello ancestrale pittorico), questo è probabilmente Un chien andalou, sebbene certi stati emozionali (penso soprattutto all’orrore per il sesso, per la procreazione e la paternità che ha quasi un’aria ecologica) siano totalmente propri di questo film. (Jonathan Rosenbaum, Eraserhead à New York. Un film-culte, “Cahiers du Cinéma”, n. 19, 1981).