RASSEGNA STAMPA di lunedì 17 febbraio 2020

SOMMARIO

“«Ehi, voi due, cos’è che volete l’uno dall’altro? Desiderate congiungervi indissolubilmente in una sola cosa, così da non lasciarvi né di giorno né di notte?» chiede il dio Efesto a due amanti sorpresi a unirsi, in un passo memorabile del Simposio, il dialogo di Platone sull’amore - scrive Alessandro D’Avena oggi sul Corriere della Sera -. Perché vogliono stare attaccati, si chiede il filosofo? «Non è il solo piacere erotico lo scopo per cui se ne stanno stretti con tale intensità. No: l’anima di ciascuno vuole un’altra cosa che non sa esprimere, ma che intuisce e manifesta con simboli». Per Platone carezze, abbracci, amplessi sono tentativi di afferrare qualcosa che sembra manifestarsi nell’unione con l’altro, ma che sempre sfugge. Gli amanti sono le due infelici metà di una sfera spezzata, in cerca dell’unità originaria, per non sentire più la loro dolorosa incompletezza. Infatti il dio fabbro propone loro di fonderli per sempre, così da non perdere mai più quello che l’eros ha fatto trovare loro. Ma, alla prova dei fatti, la fusione erotica non basta: l’essere «incollati» lenisce ma non guarisce la nostra incompiutezza e fragilità. Il miracolo, che l’eros aveva promesso e che i gesti hanno cercato, sembra rimanere irraggiungibile. Il Cantico dei Cantici, uno dei libri della Bibbia che amo di più e rileggo periodicamente, mette in scena la stessa ricerca dell’impossibile attraverso l’eros di un ragazzo e una ragazza. Ma a differenza dell’amore senza fessure di Platone, qui tutto è pieno di vie di fuga. I corpi dei due si nascondono, si cercano, si inseguono, si toccano, si perdono: proprio al momento della loro massima vicinanza, il con-tatto , corrisponde sempre una mancanza, soprattutto nel finale. Come mai? Perché l’amore raccontato dall’anonimo autore del Cantico, 25 secoli fa, rappresenta l’amore così com’è, pieno di promesse e di delusioni, ma proprio per questo, anche se può sembrare contraddittorio, aperto al miracolo. L’amore non è la circolarità perfetta di due metà «incollate» nella sfera platonica, ma la frantumazione del guscio della solitudine dell’ individuo, la graduale e reciproca resa, l’accettazione di una sconfitta che è in realtà una vittoria, perché solo chi esce da sé può trovare se stesso: «Mi alzerò e farò il giro della città, voglio cercare l’amore dell’anima mia» (3,2). I due amanti, toccandosi, con le mani e con le parole, vogliono «toccare il cielo», il loro amore vuole eternità, ma non ne ha le forze: «Ho aperto allora all’amato mio, ma l’amato mio era scomparso. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato ma non mi ha risposto» (5,6). Il desiderio allora diventa una breccia, due finiti si riconoscono tali e uniscono le loro debolezze per lasciare entrare l’infinito: la loro insufficienza da condanna può diventare salvezza. Il Cantico non è un inno a «fare l’amore», come Roberto Benigni ha fatto intendere a Sanremo, ma a «fare spazio all’Amore». Per questo è il libro più commentato nella storia del cristianesimo: basti dire che quando Dante, dopo 64 canti (Purgatorio XXX, 11), incontra finalmente Beatrice, sceglie di indicarla proprio con un verso del Cantico («Vieni, o sposa, dal Libano»). L’amore del Cantico, tra ricerca e mancanza, gioia e dolore, possesso e perdita, ri-vela (cioè mette un velo su ciò che è troppo luminoso per poterlo guardare direttamente) come Dio cerca e vuole esser cercato dall’uomo: come fanno due ragazzi innamorati. I due amanti di Platone cercano l’eterno senza riuscire a raggiungerlo o a farlo entrare nella loro sfera, quelli del Cantico, invece, accettano di avere una ferita che neanche l’altro può far guarire del tutto, ma se la medicano a vicenda per tutto il tempo della vita, perché non diventi mortale, e cercano insieme la cura. La ferita è la mancanza di eternità, che niente di ciò che è finito può guarire: chiunque cerchi eternità in un altro finirà con il rimanere deluso e con l’incolparlo di non essere il dio che aveva sperato. Per questo l’amore del Cantico non è sferico e compatto, ma ricco di aperture e crepe. Se l’amore umano fosse «tutto» l’amore, gli amanti sarebbero completi e non desidererebb ero nient’altro, ma all’amore umano, per quanto felice, manca sempre qualcosa: il miracolo dell’eternità. Nel Cantico l’eros non è il fine, ma il desiderio del senza fine, la danza dell’«ancora, ancora», che gli amanti sperano nell’estasi, proprio perché s anno che finirà: «Dov’è andato il tuo amato, bellissima tra le donne, perché lo cerchiamo con te?» (6,1). Tutti vogliono l’amore senza fine, che non è possibile all’uomo, ma solo a Dio, qui intuito, proprio nella follia erotica dei due giovani, come fonte dell’amore che non muore mai: «Forte come la morte è l’amore» dice infatti il più bel verso del Cantico (8,6). Leggetene gli otto capitoli (basta mezz’ora) e scoprirete che l’amore non ha la forma di una sfera, ma di una rosa, bella proprio quando si apre” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA

LA REPUBBLICA Pag 22 Come si ascolta la terra cantare di Enzo Bianchi

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 16 febbraio 2020 Nell’autunno 2022 la XVI assemblea generale del Sinodo dei vescovi Lo ha deciso il Pontefice nella prima riunione del XV consig lio ordinario della segreteria generale

Proseguire fermamente nel cammino delle riforme legislative Assicurata piena fiducia agli organi giudiziari e investigativi e ricordate le segnalazioni partite da autorità interne su situazioni finanziare sospette

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 5 «In ascolto del grido dei popoli» di Alessandro Polet Il cardinale Bassetti: l’indiffere nza uccide. «Il Mediterraneo, concentrato di tutti i problemi del mondo» L’Europa? «Ritrovi la sua anima». Sul dramma migranti: «Se affonda la carità, naugrafa l’umanità»

Pag 18 Il Papa: scandali finanziari incompatibili con la Chiesa

CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Papa, la lettera del disgelo di Massimo Franco Francesco scrive al cardinale Müller

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 15 febbraio 2020 L’urgenza di una conversione poetica di Andrea Monda

È l’ora di rimboccarsi le maniche. Per andare incontro all’altro e abbattere i muri che isolano ed escludono In un messaggio al laicato spagnolo il Papa denuncia le tante voci di morte e di disperazione che soffocano la vecchia Europa

Grati a Dio per i compagni di cammino nella vita di Benedetta Capelli Messa a Santa Marta

AVVENIRE di sabato 15 febbraio 2020 Pag 3 La salda rotta mediterranea della Chiesa che ascolta e semina di Angelo Scelzo Verso il grande incontro di Bari, richiamando la tappa di Papa Francesco a Napoli

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La forma dell’amore di Alessandro D’Avenia

Pag 1 Così si spegne l’università di Antonio Scurati

IL GAZZETTINO Pag 1 Istruzione, l’ingrediente per tornare a crescere di Paolo Balduzzi

LA NUOVA Pag 10 Generazione di cavallette indifferente al futuro di Francesco Jori

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Una risposta a due povertà di Leonardo Becchetti Dono e spreco contro fame e insensatezza

IL GAZZETTINO di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 E’ la scuola la priorità decisiva del Paese di Romano Prodi

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 12 Scalinata danneggiata al Tempio Votivo. Inaugurato e mai usato di E.P.

Pag 12 La famiglia Marzotto in aiuto della vigna di San Francesco di Eugenio Pendolini

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 febbraio 2020 Pag VIII Vandali al Tempio votivo, danneggiata la scalinata di L.M.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 15 febbraio 2020 Pag IX San Camillo e Stella Maris, accordo sui 40 lavoratori a rischio esubero di Lorenzo Mayer

LA NUOVA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 26 Nascite a picco, scuole vuote. Le iscrizioni crollano del 7% di Laura Berlinghieri Negli istituti privati il dato peggiore: solo 188 adesioni in prima elementare con una flessione del 30%. All'origine calo demografico e crisi economica

8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 11 “Il vescovo non mi conosce, ho le prove di quanto dico” di Giuliano Pavan L’ex seminarista Cecchin a monsignor Pizziolo: “Non mi ha mai visto, i fatti sono documentati”. Oggi la denuncia in Procura a Treviso

LA NUOVA Pag 13 Veneto, la terra delle mafie in doppiopetto: “Più che comandare vogliono fare soldi” di Carlo Mion Intervista a Vittorio Rizzi, vice capo della Polizia

Pag 19 Il parroco padovano ai fedeli: “Accuse false, io querelo” I presunti abusi in Seminario 30 anni fa

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 18 Treviso, denunciati abusi. Nota della dioces i di Francesco Dal Mas “Stiamo verificando le accuse dell’ex seminarista”

IL GAZZETTINO di domenica 16 febbraio 2020 Pag 11 Il vescovo: “Quegli abusi? Inverosimili” di Elena Filini Vittorio Veneto, monsignor Pizziolo “sconcertato” dalle accuse dell’ex seminarista

Pag 14 Lavoratori introvabili, a Nordest 4 su 10 di Raffaella Ianuale Studio della Cgia di Mestre, ecco le professioni più r ichieste: tecnici informatici, badanti ma anche operai metalmeccanici

CORRIERE DEL VENETO di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Cercasi progetto di Stefano Allievi

Pag 7 Davide, professore di social per ragazzi e imprenditori. «Insegno l’etica nel web» di Andrea Priante

Pag 9 «Quei due preti hanno abusato di me a Treviso e ancora mi minacciano» di Stefano Bensa Una lettera dopo 29 anni: «Ecco perché solo ora riesco a parlare». La Curia assicura «trasparenza e verità». «Disposti fin da subito a incontrarlo»

IL GAZZETTINO di sabato 15 febbraio 2020 Pag 9 Prof denuncia dopo 30 anni: “Io violentato in seminario” di Giuliano Pavan Docente universitario di Filosofia fa i nomi degli aguzzini, ora parroci a Venezia e Padova

LA NUOVA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 33 “Io seminarista insidiato da preti pedofili”. Denuncia le violenze subite dopo 29 anni di Giuliano Doro, Andrea Passerini e Giovanni Cagnassi Il vescovo di Treviso: “Ero pronto a riceverlo”. Un parroco veneziano: sono sereno

CORRIERE DEL VENETO di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 Cattolici, la politica “debole” di Giandomenico Cortese Idee per il futuro

Pag 1 Tino e Renata, una lettera e una pistola per dirsi addio di Giovanni Montanaro Rovigo, omicidio-suicidio a San Valentino

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le verità spiacevoli per la Ue di Federico Fubini La nuova era Trump

Pag 5 Il governo elettorale per arrivare fino a settembre (se scoppia la crisi) di Marzio Breda

IL FATTO QUOTIDIANO L'attivismo cattolico del premier e il sostegno della Chiesa italiana di Fabrizio D’Esposito

CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Retorica perdente sul clima di Lucrezia Reichlin I cambiamenti reali

Pag 1 Ma che Italia sarà tra 10 anni? La frattura dei due Paesi di Federico Fubini Nord e Sud

Pag 24 Una concezione mite di politica e giustizia di Paolo Franchi

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 3 Salviamo lo studente Zaki con il passo della diplomazia di Riccardo Redaelli Il pugno di ferro di al-Sisi. Premere sul Cairo evitando minacce o gesti plateali

CORRIERE DELLA SERA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 Ma Trump si può fermare di Alberto Alesina Il voto in America

Pag 1 Le ferie obbligate del Parlamento (e le liti sui posti) di Francesco Verderami

Pag 15 Dopo 70 anni il primo bilaterale tra Cina e Vaticano di Gian Guido Vecchi Rapporti Santa Sede – Pechino

AVVENIRE di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 Oltre l’ombra con i deboli di Lucia Capuzzi Lula dal Papa: ragioni d’un dialogo

Pag 3 E’ l’azzardo la vera pandemia: 1830 euro di spesa pro capite di Maurizio Fiasco Più preoccupante del previsto il bilancio del “gambling” nel nostro Paese

IL GAZZETTINO di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 La crescita dimenticata, continuità tutta italiana di Luca Ricolfi

Pag 1 La pistola nel cassetto e un Paese immobile di Bruno Vespa

LA NUOVA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 7 La crisi è già in atto ma per il momento non si può dire di Bruno Manfellotto

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3 – VITA DELLA CHIESA

LA REPUBBLICA Pag 22 Come si ascolta la terra cantare di Enzo Bianchi

Ho sempre sentito il comandamento "Amerai il prossimo tuo come te stesso" come un imperativo ad amare anche la terra come me stesso. Non si può amare l'altro, il prossimo, senza amare la terra, perché l'altro sta di fronte a me e condivide lo stesso mio spazio, perché ha una vita che dipende dalla vita della terra e anche perché, come me, è terra: venuti dalla terra, torniamo alla terra. Ma che cos'è la terra che amo? È la terra su cui cammino e vivo; è la mia terra delle colline coperte di vigne del Monferrato; è la terra morenica, boscosa e piena di grandi sassi in cui abito; è la terra del mio orto; è la terra che sa generare la vita e accoglie la morte. Il mio è un amore viscerale, tanto che a volte mi sembra di poter abbracciare la terra e che essa possa ascoltare le mie confessioni di passione per lei. Non è una dea, ma è il dono essenziale che Dio ci ha fatto perché possiamo essere e vivere. La terra mi ha accolto quando sono uscito dal ventre di mia madre, mi ha aiutato a "stare in piedi" a camminare con speranza, mi sta aiutando nell'arte di "lasciare la presa", di consentire che essa mi accolga, apra le braccia al mio corpo e permetta che io diventi lei stessa. Ma come si ama la terra? Innanzitutto si tratta di imparare a vederla, ad ascoltarla, a conoscerla, in una vera e propria relazione nella quale, crescendo l'assiduità, cresce anche l'amore. La terra chiede di essere osservata così come si presenta nelle sue variazioni dovute ai ritmi del giorno, della notte e delle stagioni. Nel buio la terra emerge solo con la luce, sia pure poca; allora acquista almeno un profilo, anche se le ombre sembrano avvolgerla. Ma al mattino la terra, accogliendo la luce, si mostra, si veste di molti colori e inizia a cantare. La terra è fatta di cose: un ruscello, un prato che fiorisce, un bosco che della luce sa fare un'ombra, la mia quercia centenaria che è la prima cosa che al mattino guardo con gioia uscendo dalla cella. Dal vedere sgorga poi il celebrare: celebro, dunque canto la terra, o meglio la vita, mia, nostra, di noi umani e della terra insieme. Umani perché venuti dall'humus, e dunque umili per natura. Non essere umili è il grande peccato contro natura! Secondo la tradizione ebraica e cristiana Dio non ha solo creato con la sua parola e con il suo soffio la terra, ma l'ha affidata ai terrestri: Adam riceve la terra per essere il suo giardiniere; giardiniere, non sfruttatore, che la devasta, la opprime, la fa ammalare. Perché non ci domandiamo cosa abbiamo fatto e continuiamo a fare contro la bellezza e la bontà della terra? Terre avvelenate dai rifiuti, terre cementificate da costruzioni insensate, terre sfruttate Fa impressione rileggere le parole di Alano di Lilla, un monaco del XII secolo: "Uomo, ascolta cosa dice contro di te la terra, tua madre: perché fai violenza a me che ti ho partorito dalle mie viscere? Perché mi tormenti e mi sfrutti per farmi rendere il centuplo? Non ti bastano le cose che ti dono, senza che tu me le estorca con la violenza?".

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 16 febbraio 2020 Nell’autunno 2022 la XVI assemblea generale del Sinodo dei vescovi Lo ha deciso il Pontefice nella prima riunione del XV consiglio ordinario della segreteria generale

Papa Francesco ha deciso di indire per l’autunno 2022 la sedicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi. Lo ha reso noto sabato 15 febbraio un comunicato stampa della segreteria generale, a margine della prima riunione del XV consiglio ordinario, svoltasi dal 6 al 7 febbraio scorsi per suggerire al Santo Padre possibili temi da trattare nella suddetta assise, così come per affrontare altri argomenti. Tra questi: i lavori svolti dalla segreteria generale dopo il Sinodo sui giovani del 2018 e la risonanza dell’esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit. All’inizio della riunione il segretario generale ha reso noto che, in seguito alla nomina del cardinale a prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, è subentrato come nuovo membro del consiglio ordinario il cardinale , arcivescovo di Karachi (Pakistan), che è stato il padre sinodale dell’Asia ad aver ottenuto più voti. I lavori hanno avuto inizio con l’intervento del segretario generale, il cardinale , che ha presentato i risultati della consultazione svolta dalla segreteria generale circa i temi per la prossima assemblea generale ordinaria, coinvolgendo, durante il 2019, le Conferenze episcopali, i sinodi delle Chiese cattoliche orientali sui iuris, i Dicasteri della Curia romana e l’Unione dei superiori generali. Dopodiché ha avuto luogo un ricco dibattito sia in sessione plenaria sia in gruppi linguistici. La sessione plenaria del pomeriggio di giovedì 6 è stata presieduta dal Santo Padre, al quale è stata presentata una terna di temi possibili, che egli ha accolto in vista della scelta definitiva dell’argomento sinodale. Nel corso del dibattito di quello stesso pomeriggio è emersa anche la necessità di esprimere con urgenza solidarietà con i fratelli e le sorelle coinvolti nel dramma della migrazione forzata. È stato anche discusso l’iter verso la prossima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi e al riguardo, il Santo Padre, avendo ascoltato il parere della segreteria generale e del consiglio ordinario, ha deciso di indirla per l’autunno 2022, in modo da assicurare un maggior coinvolgimento di tutta la Chiesa nella preparazione e nella celebrazione del prossimo Sinodo ordinario. Durante la mattina del venerdì 7 febbraio i lavori sono iniziati con l’intervento del cardinale Kevin Joseph Farrell, prefetto del Dicastero per i Laici, la famiglia e la vita, invitato per illustrare le attività post-sinodali che la sezione giovani porta avanti per sollecitare l’attuazione dell’esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit. Dopo uno scambio di opinioni sulle prossime attività del consiglio ordinario il segretario generale ha ringraziato i membri per il contributo che hanno offerto.

Proseguire fermamente nel cammino delle riforme legislative Assicurata piena fiducia agli organi giudiziari e investigativi e ricordate le segnalazioni partite da autorità interne su situazioni finanziare sospette

Nella mattina di sabato 15 febbraio, alla presenza di Papa Francesco, si è svolta nella Sala Regia del Palazzo Apostolico la cerimonia di apertura del 91° anno giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dal Pontefice.

Illustri Signori, sono lieto di incontrarvi, così numerosi, alla cerimonia di apertura dell’Anno Giudiziario. So che molti di voi sono impegnati in Istituzioni preposte alla amministrazione della Giustizia ed alla tutela dell’ordine pubblico. Proprio per questo il vostro lavoro assume un valore prezioso, perché è garanzia non solo di ordine, ma soprattutto di responsabilità nella qualità delle relazioni interpersonali vissute nel nostro territorio. Vi chiedo di perseguire, con sempre più convinzione, la via della giustizia, come via che rende possibile un’autentica fraternità in cui tutti sono tutelati, specie i più deboli e fragili. Il primo punto che vorrei sottolineare in questo incontro è il Vangelo. Esso ci insegna uno sguardo più profondo rispetto alla mentalità mondana, e ci mostra che la giustizia proposta da Gesù non è un semplice insieme di regole applicate tecnicamente, ma una disposizione del cuore che guida chi ha responsabilità. La grande esortazione del Vangelo è quella di instaurare la giustizia innanzitutto dentro di noi, lottando con forza a emarginare la zizzania che ci abita. Per Gesù è da ingenui pensare di riuscire a togliere ogni radice di male dentro di noi senza danneggiare anche il grano buono (cfr. Mt 13, 24-30). Ma la vigilanza su noi stessi, con la conseguente lotta interiore ci aiuta a non lasciare che il male prenda il sopravvento sul bene. Davanti a questa situazione nessun ordinamento giuridico potrebbe salvarci. In questo senso invito ciascuno a sentirsi coinvolto non solo in un impegno esterno che riguarda gli altri, ma anche in un lavoro personale dentro ognuno di noi: la nostra personale conversione. È solo questa la giustizia che genera giustizia! C’è però da dire che la giustizia da sola non basta, ha bisogno di essere accompagnata anche dalle altre virtù, soprattutto quelle cardinali, quelle che fungono da cardine: la prudenza, la fortezza e la temperanza. La prudenza, infatti, ci dà la capacità di distinguere il vero dal falso e ci consente di attribuire a ciascuno il suo. La temperanza come elemento di moderazione ed equilibrio nella valutazione dei fatti e delle situazioni ci rende liberi di decidere in base alla nostra coscienza. La fortezza ci consente di superare le difficoltà che incontriamo, resistendo alle pressioni ed alle passioni. In special modo a voi può esservi di aiuto nella solitudine che spesso sperimentate nel prendere delle decisioni complesse e delicate. Per favore, non dimenticate che nel vostro impegno quotidiano vi trovate spesso di fronte a persone che hanno fame e sete di giustizia, persone sofferenti, talora in preda ad angosce e disperazione esistenziale. Al momento di giudicare dovete essere voi, scavando nella complessità delle vicende umane, a dare risposte giuste, coniugando la correttezza delle leggi con il di più della misericordia insegnataci da Gesù. Infatti, la misericordia non è la sospensione della giustizia, ma il suo compimento (cfr. Rm 13, 8-10), perché riporta tutto in un ordine più alto, dove anche i condannati alle pene più dure trovano il riscatto della speranza. È un compito, quello di giudicare, che richiede non solo preparazione ed equilibrio, ma anche passione per la giustizia e consapevolezza delle grandi e doverose responsabilità legate al giudizio. Il vostro compito non può trascurare l’impegno costante a comprendere le cause dell’errore, e la fragilità di chi ha violato la legge. Un secondo punto della nostra riflessione sulla giustizia è costituito dalle leggi che regolano i rapporti interpersonali e dunque la loro legalità, ma anche dai valori etici che ne fanno da sfondo. A questo proposito, la legislazione vaticana ha subito, soprattutto nell’ultimo decennio, e in particolare nel settore penale, significative riforme rispetto al passato. Alla base di queste importanti modifiche non vi è stata solo una naturale esigenza di ammodernamento, ma anche e soprattutto la necessità di rispettare impegni internazionali che la Santa Sede ha assunto anche per conto dello Stato Vaticano. Impegni riguardanti soprattutto la protezione della persona umana, minacciata nella sua stessa dignità, e la tutela dei gruppi sociali, spesso vittime di nuove, odiose, forme di illegalità. Lo scopo principale di queste riforme va, dunque, inserito all’interno della missione della Chiesa, anzi fa parte integrante ed essenziale della sua attività ministeriale. Ciò spiega il fatto che la Santa Sede si adoperi per condividere gli sforzi della comunità internazionale per la costruzione di una convivenza, giusta ed onesta, e soprattutto attenta alle condizioni dei più disagiati e degli esclusi, privati di beni essenziali, spesso calpestati nella loro dignità umana e ritenuti invisibili e scartati. Per dare concretezza a questo impegno, la Santa Sede ha avviato un processo di conformazione della propria legislazione alle norme del diritto internazionale e, sul piano operativo, si è impegnata in modo particolare a contrastare l’illegalità nel settore della finanza a livello internazionale. A tal fine, ha alimentato rapporti di cooperazione e condivisione di politiche ed iniziative di contrasto, creando presidi interni di sorveglianza e di intervento capaci di effettuare severi ed efficaci controlli. Tali azioni hanno recentemente portato alla luce situazioni finanziarie sospette, che al di là della eventuale illiceità, mal si conciliano con la natura e le finalità della Chiesa, e che hanno generato disorientamento e inquietudine nella comunità dei fedeli. Si tratta di vicende all’attenzione della magistratura, e devono essere ancora chiarite nei profili di rilevanza penale. Su di esse perciò non ci si può pronunciare in questa fase. In ogni caso, premessa la piena fiducia nell’operato degli Organi giudiziari ed investigativi, e fermo restando il principio della presunzione di innocenza delle persone indagate, un dato positivo è che proprio in questo caso, le prime segnalazioni sono partite da Autorità interne del Vaticano, attive, sia pure con differenti competenze, nei settori della economia e finanza. Questo dimostra l’efficacia e l’efficienza delle azioni di contrasto, così come richiesto dagli standard internazionali. La Santa Sede è fermamente intenzionata a proseguire nel cammino intrapreso, non solo sul piano delle riforme legislative, che hanno contribuito ad un sostanziale consolidamento del sistema, ma anche avviando nuove forme di cooperazione giudiziaria sia a livello di organi inquirenti che di organi investigativi, nelle forme previste dalle norme e dalla prassi internazionale. In questo campo si è distinto anche il Corpo della Gendarmeria per la sua attività investigativa a supporto dell’Ufficio del Promotore di Giustizia. Occorre rilevare che le pur apprezzabili riforme introdotte nel tempo e che stanno dando concreti risultati, restano comunque ancorate e dipendenti dall’operato dell’uomo. E, infatti, al di là delle specificità dei materiali normativi di cui disponga, chi è chiamato alla funzione di giudicare, deve comunque operare secondo criteri umani, prima ancora che giuridici, perché la giustizia, come ricordavo prima, non scaturisce tanto dalla perfezione formale del sistema e delle regole, quanto dalla qualità e rettitudine delle persone, in primis dei giudici. Occorre, dunque, una particolare attitudine degli operatori, non solo sul piano intellettuale, ma anche morale e deontologico. In questo senso, la promozione della giustizia richiede il contributo da parte di persone giuste. Possono aiutarci qui le parole esigenti e forti di Gesù: “Con la misura con cui giudicate, sarete giudicati” (cfr. Mt 7, 2). Il Vangelo ci ricorda che i nostri tentativi di giustizia terrena hanno sempre come orizzonte ultimo l’incontro con la giustizia divina, quella del Signore che ci aspetta. Queste parole non devono spaventarci, ma solo spronarci a compiere il nostro dovere con serietà e umiltà. Vorrei concludere esortandovi a continuare nella realizzazione della vostra vocazione e missione essenziale nello sforzo quotidiano di stabilire la giustizia. Impegnatevi nella consapevolezza delle vostre importanti responsabilità. Aprite spazi e nuovi percorsi per attuare la giustizia a vantaggio della promozione della dignità umana, della libertà, in definitiva, della pace. Sono certo che onorerete questo impegno, e prego perché il Signore vi accompagni in questo vostro cammino. E vi chiedo di pregare anche per me. Grazie. E chiediamo insieme, prima della benedizione, la protezione della Madonna: che come Madre ci aiuti in questo impegno di giustizia. Ave o Maria,... [Benedizione].

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 5 «In ascolto del grido dei popoli» di Alessandro Polet Il cardinale Bassetti: l’indifferenza uccide. «Il Mediterraneo, concentrato di tutti i problemi del mondo» L’Europa? «Ritrovi la sua anima». Sul dramma migranti: «Se affonda la carità, naugrafa l’umanità»

Sulla scrivania il cardinale ha già una prima stesura dell’intervento con cui mercoledì aprirà a Bari il “forum” per la pace nel Mediterraneo. E, vicino a una copia della Bibbia, ci sono i testi di Giorgio La Pira, il sindaco “santo” di Firenze che al presidente della Cei ha ispirato l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” che per la prima volta riunisce i vescovi di tutto il bacino. Venti i Paesi rappresentati dai loro pastori e tre i continenti che in Puglia si abbracceranno: Europa, Africa e Asia. «Il Vangelo ha tratti mediterranei. E la nostra è una Chiesa mediterranea – spiega Bassetti –. Se il Mediterraneo è il concentrato, o meglio la cartina di tornasole dei problemi del mondo, non possiamo far finta di non vedere quello che accade. E neppure possiamo scivolare nella rassegnazione». La voce dell’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve si fa decisa. «È l’ora della responsabilità, è l’ora dell’impegno, è l’ora della pace che tutti siamo chiamati a costruire. La Chiesa non intende stare con le mani in mano». Dalle finestre del palazzo arcivescovile, nel cuore del capoluogo umbro, entrano i raggi di un sole quasi primaverile. Bassetti arriverà a Bari martedì, alla vigilia del grande evento organizzato dalla Cei che sarà concluso domenica 23 febbraio da papa Francesco. «E il Papa mi ha anche detto che cosa vuole: a noi vescovi chiede non lamentele o discorsi accademici ma proposte concrete che possano essere utili per l’oggi». Molti i temi che entreranno nell’agenda delle giornate “sinodali” scandite dal dialogo (a porte chiuse) fra i pastori. Le persecuzioni delle minoranze cristiane, ad esempio. «La prossimità concreta ai nostri fratelli nella fede deve essere reale – dice Bassetti –. Altrimenti peccheremmo di omissione». Poi le disuguaglianze fra le sponde. «Va ribaltato un modello di rapporti basato ancora sullo sfruttamento », sostiene il cardinale. Ancora: l’Europa che «mostra segnali preoccupanti di apatia o di chiusura», osserva il presidente della Cei. Quindi il dramma dei migranti. E il cardinale cita una frase delle monache agostiniane di Pennabilli che gli hanno consegnato le riflessioni di nove monasteri in preghiera per il Mediterraneo: «Dove la carità non fa da nave, ad affondare non sono solo i barconi ma è la nostra umanità». Una pausa. «Come Chiesa italiana non potevamo restare indifferenti di fronte a tutto ciò – afferma Bassetti –. Perché, come ha ammonito papa Francesco, l’indifferenza uccide». Eminenza, quale contributo può giungere dalla comunità ecclesiale alla pace nel Mediterraneo? Consapevole che ha bisogno di un supplemento d’anima, la Chiesa intende farsi ponte fra i popoli alimentando una continua tensione verso il perdono e la riconciliazione. Con una certezza: come ricorda la sequenza di Pasqua, «morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello; il Signore della vita era morto ma ora, vivo, trionfa». Fra guerra e pace c’è già un vinci- tore: la pace. Non è utopia. Però va fatta trionfare con una pratica attiva e creativa. Ed è la sfida del nostro Incontro. Siamo di fronte a un piccolo “Sinodo”? L’Incontro ha un metodo sinodale nel senso che vuole aiutare le Chiese a camminare sempre più insieme. Gli episcopati sono stati coinvolti nel cammino di preparazione. Ma saranno soprattutto le giornate di Bari ad avere al centro l’ascolto e il dialogo come strumenti di discernimento comunitario. Questo appuntamento è un unicumnel suo genere. Non è una conferenza o un simposio internazionale ma un incontro di fraternità fra vescovi del Mediterraneo che per la prima volta si ritrovano insieme per riflettere e provare a trovare le coordinate di un’azione comune. Come insegnano gli Atti degli Apostoli, il sostegno e l’aiuto reciproco sono dimensioni costitutive dell’essere comunità cristiana. Che cosa aspettarsi allora? Ci metteremo innanzitutto in ascolto del grido dei popoli. Da pastori che viviamo in mezzo alle genti, sappiamo quali sono i drammi, le miserie, le ansie delle nostre comunità. Non siamo politici. Ma il mistero dell’Incarnazione ci dice che la Chiesa è per l’uomo e serve l’uomo. Quindi deve abitare il presente. Dai monasteri che hanno formato una rete di preghiera per sostenere l’Incontro mi hanno scritto che la Chiesa è chiamata ad avere «un compito di vigilanza e profezia rispetto alla storia» e ad essere «capace di smascherare ogni forma di ingiustizia che governa il mondo facendo sentire la sua parola, in nome di Dio, a difesa degli ultimi». Faccio mia questa intuizione che ben sintetizza il senso della nostra iniziativa. Lei ha voluto l’Incontro. Com’è nato? C’è una profezia di pace sul Mediterraneo che attraversa il Novecento e che si interseca con la grande storia – penso al magistero sulla pace da Giovanni XXIII a Francesco – e anche con la mia vicenda personale. Nella mia biografia c’è sia la memoria drammatica della seconda guerra mondiale, sia l’incontro umano e spirituale con Giorgio La Pira. Ero seminarista a Firenze e spesso il rettore invitava il sindaco “santo”. Erano gli anni in cui La Pira, un mistico prestato alla politica, organizzava i “Colloqui mediterranei” con capi di Stato e di governo. Lui parlava del Mediterraneo come del «grande lago di Tiberiade» in cui si affacciavano le civiltà della «triplice famiglia di Abramo». Quella delineata da La Pira era una prospettiva di dialogo, di pace e di incontro che ambiva a superare secoli di divisione. Ho fatto mia questa prospettiva quando, da presidente della Cei, mi sono trovato di fronte ai migranti morti in mare e all’instabilità politica del Mediterraneo. E, come avvertiva La Pira, è compito dell’Italia «costruire ponti che i popoli del Mediterraneo attraversino per giungere alla civiltà della pace». È venuto il momento di costruire questi ponti. Come leggere la presenza del Papa a Bari? L’Incontro è stato proposto due anni fa, in prima battuta, al Papa che subito ne ha condiviso lo spirito. E la sua presenza a Bari dimostra la sua attenzione verso il nostro progetto. L’evento arriva mentre il Mediterraneo si infiamma ancora di più. Negli ultimi anni i problemi del- l’intero bacino si sono acuiti. Penso ai nuovi focolai in Iraq, alla lunga guerra civile in Libia, all’«inferno» della Siria come lo ha definito il cardinale Mario Zenari, alle tensioni in Turchia. Ma c’è anche altro: il latente conflitto israelo-palestinese, le fibrillazioni in Libano, le ferite ancora aperte nei Balcani. A tutto ciò si aggiungono fattori destabilizzanti come il fondamentalismo, le migrazioni di massa, il mancato sviluppo che non consente un reale protagonismo del Medio Oriente e del Nord Africa. In questo contesto l’Europa deve riscoprire la sua “anima”, come affermava Paolo VI, fondata sulla fede, sulla dignità della persona umana e sulla solidarietà. Nel Mediterraneo i cristiani fanno i conti con persecuzioni, esodi forzati, violenze. I cristiani vivono situazioni di estrema sofferenza. Le ho potute toccare con mano anch’io in alcuni miei viaggi. Accenno alle persecuzioni e alle violenze che subiscono i cristiani della Siria o dell’Iraq costretti a fuggire a causa della guerra e del terrorismo. Ricordo le discriminazioni che si registrano nei Balcani o le difficoltà che si vivono in Terra Santa dove il numero dei cristiani si assottiglia. Tutto ciò mette in pericolo la presenza cristiana in territori dove affondano le radici della nostra fede. Come ha osservato il cardinale Sako, se le radici vengono tagliate, l’intero albero rischia di morire. E la sfida del dialogo? Va adottata la cultura del dialogo come via di fraternità. C’è bisogno di dialogo fra le culture. Ed è più che mai necessario il dialogo fra le fedi da cui dipende in ultima istanza anche l’amicizia fra i popoli. La storia insegna che l’estremismo religioso e l’intolleranza sono all’origine di numerosi scontri che anche di recente marcano il Mediterraneo. Come evidenzia il Documento sulla fratellanza umana firmato un anno fa ad Abu Dhabi, se Dio ha creato l’unica famiglia umana, non posso non vedere nell’altro, chiunque esso sia, un fratello. Certo, il dialogo non si costruisce a tavolo e implica una purificazione della memoria e dei cuori. Ma le difficoltà, che innegabilmente ci sono, non possono farci desistere dall’incontrare l’altro. C’è ancora da rovesciare la logica delle crociate? O, per dirla in altri termini, l’Occidente ha sempre uno sguardo di superiorità? Direi di sì. Suggeriva La Pira che «l’Occidente deve liberarsi delle scorie egoistiche e tornare all’amore cristiano». Oggi i potenti della terra agiscono nel Mediterraneo mossi dal particulare, si direbbe con Guicciardini. Allora facciamo nostro il monito di Paolo VI quando nella Populorum progressio sosteneva che lo sviluppo è il nuovo nome della pace. Tema migranti. I vescovi del sud del Mediterraneo invitano a non partire. In Europa i Paesi chiudono i confini. Come affrontare la questione? Noi guardiamo al fenomeno migratorio da un punto di vista occidentale: ci limitiamo a vedere chi giunge da noi. L’accoglienza è virtù evangelica: va assicurata senza se e senza ma, soprattutto se chi varca il nostro confine è in condizioni disperate. Comunque l’arrivo dei profughi non riguarda solo l’Europa. Cito il Nord Africa dove si approda dal sud del Sahara, o il Libano e la Turchia che ospitano milioni di rifugiati di guerra. La Chiesa è sempre in prima linea. Tuttavia c’è anche altro. Alcune Chiese restano vive proprio grazie ai migranti come avviene nei Paesi del Maghreb o in Grecia. Inoltre come comunità ecclesiale dobbiamo denunciare con forza il traffico di esseri umani ma anche le condizioni di schiavitù in cui versano i migranti nei campi d’accoglienza sparsi per il Mediterraneo. E già si pensa al “dopo Bari”. Saranno talmente numerosi gli argomenti che affioreranno nelle cinque giornate pugliesi che è impossibile esaurire tutto. Per questo verranno costituiti tavoli di lavoro tematici che permetteranno ai vescovi di incontrarsi di nuovo. Ma le modalità andranno definite in accordo con il Santo Padre. Senza dubbio saremo molto impegnati nei prossimi anni.

Pag 18 Il Papa: scandali finanziari incompatibili con la Chiesa

Roma. Le «situazioni finanziarie sospette» su cui la magistratura vaticana sta indagando «mal si conciliano con la natura e la finalità della Chiesa ». Lo ha ribadito papa Francesco ricordando che le prime segnalazioni di queste operazioni sono arrivate dai controlli interni alle Mura Leonine e rimarcando il fermo impegno della Santa Sede a proseguire nel cammino per il «consolidamento del sistema» anche avviando «nuove forme» di cooperazione internazionale. Il Pontefice è intervenuto personalmente ieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario dello Stato della Città del Vaticano. Una novità nella prassi seguita almeno negli ultimi pontificati. Per Francesco le «azioni» della Santa Sede per contrastare l’illegalità nel settore della finanza a livello internazionale – anche tramite «presidi di sorveglianza e di intervento capaci di effettuare severi controlli» – «hanno recentemente portato alla luce situazioni finanziarie sospette, che, al di là della eventuale illiceità, mal si conciliano con la natura e le finalità della Chiesa e che hanno generato disorientamento e inquietudine nella comunità dei fedeli». «Si tratta di vicende – ha precisato – all’attenzione della magistratura, e devono essere ancora chiarite nei profili di rilevanza penale». «In ogni caso, – ha aggiunto – premessa la piena fiducia nell’operato degli Organi giudiziari ed investigativi, e fermo restando il principio della presunzione di innocenza delle persone indagate, un dato positivo è che, proprio in questo caso, le prime segnalazioni sono partite da Autorità interne del Vaticano, attive, sia pure con differenti competenze, nei settori della economia e finanza». E ciò «dimostra efficacia e l’efficienza delle azioni di contrasto, così come richiesto dagli standard internazionali». Papa Francesco non è entrato nel dettaglio, ma la vicenda a cui ha fatto riferimento è quella riguardante un investimento immobiliare a Londra, che ha visto la sospensione di cinque dipendenti della Santa Sede e su cui sta indagando appunta la magistratura vaticana. Nel suo discorso il Pontefice ha rammentato che «la legislazione vaticana ha subito, soprattutto nell’ultimo decennio, e in particolare nel settore penale, significative riforme rispetto al passato». Alla base di queste «importanti modifiche» non vi è stata solo «una naturale esigenza di ammodernamento, ma anche e soprattutto la necessità di rispettare impegni internazionali che la Santa Sede ha assunto anche per conto dello Stato Vaticano». Lo scopo principale di queste riforme, ha specificato, va «inserito all’interno della missione della Chiesa, anzi fa parte integrante ed essenziale della sua attività ministeriale». Per questo la Santa Sede si adopera «per condividere gli sforzi della comunità internazionale per la costruzione di una convivenza, giusta ed onesta, e soprattutto attenta alle condizioni dei più disagiati e degli esclusi, privati di beni essenziali, spesso calpestati nella loro dignità umana e ritenuti invisibili e scartati». Papa Francesco poi ha chiesto «di perseguire, con sempre più convinzione, la via della giustizia, come via che rende possibile un’autentica fraternità in cui tutti sono tutelati, specie i più deboli e fragili», invitando a «operare secondo criteri umani, prima ancora che giuridici». Tuttavia «la giustizia da sola non basta», e «ha bisogno di essere accompagnata anche dalle altre virtù, soprattutto quelle cardinali: la prudenza, la fortezza e la temperanza». E a queste 'virtù' va aggiunto «il di più della misericordia, insegnataci da Gesù». «Per favore – ha concluso – non dimenticate che nel vostro impegno quotidiano vi trovate spesso di fronte a persone che hanno fame e sete di giustizia, persone sofferenti, talora in preda ad angosce e disperazione esistenziale». Alla cerimonia di inaugurazione ha assistito per la prima volta il nuovo presidente del Tribunale dello Stato Vaticano, Giuseppe Pignatone, nominato di recente dal Papa. Presenti otto cardinali (Bertone, Bertello, Mamberti, Stella, Becciu, Vallini, Calcagno Monterisi) e varie autorità italiane, tra cui il ministro della giustizia Alfonso Bonafede. La cerimonia si è svolta nella Sala Regia ed è stata preceduta da una messa nella Cappella Paolina presieduta dal cardinale Segretario di Stato . Il promotore di giustizia del Tribunale vaticano, Gian Piero Milano, non ha tenuto la tradizionale, corposa, relazione sull’attività giudiziaria dell’anno passato. Ma in un breve saluto al Pontefice ha osservato che la «conformazione alla normativa sovranazionale» ha determinato, nella normativa interna, «l’introduzione di una serie di rilevanti modifiche nel diritto penale sostanziale e processuale», mentre nel settore della cooperazione ed assistenza giudiziaria «le rogatorie ed altre forme di assistenza giudiziaria sono divenute pratiche correnti e spedite, ed il rifiuto o il differimento di assistenza può considerarsi ormai una eccezione».

CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Papa, la lettera del disgelo di Massimo Franco Francesco scrive al cardinale Müller

Sette righe in spagnolo con la grafia inconfondibile di papa Francesco è arrivata al cardinale Gerhard Müller . Una lettera con scritto «mi è piaciuto» riferito allo scritto, critico, del cardinale sul Sinodo dell’Amazzonia. Una mano tesa ai tradizionalisti. «Querido hermano», caro fratello, «molte grazie per il libro “Il Papa, missione e dovere” e per il documento sull’esortazione Post-sinodale “Querida Amazonia”, che mi è piaciuto...». La lettera, sette righe in spagnolo vergate con la calligrafia microscopica e inconfondibile di Francesco, è arrivata al cardinale Gerhard Müller con la data del 12 febbraio, lo stemma pontificio e l’intestazione a penna «Santa Marta», l’albergo dentro il Vaticano dove il Papa vive da sempre. E fin da queste prime righe l’ex prefetto tedesco per la Dottrina della fede, sostituito bruscamente da Jorge Mario Bergoglio nel luglio del 2017, ha avuto un moto di felice sorpresa. Quel «mi è piaciuto» riferito al suo scritto ha fatto passare in secondo piano le amarezze e l’isolamento degli ultimi anni. Gli è sembrato una mano tesa che forse non si aspettava. Eppure, doveva in qualche modo immaginarlo. Il suo commento al Sinodo sull’Amazzonia, inviato a Francesco nei giorni precedenti e pubblicato anche sul National Catholic Register , giornale conservatore statunitense, dà atto al Papa di avere compiuto «un atto di riconciliazione». Non avere avallato la fine del celibato dei sacerdoti, come chiedevano insieme vescovi brasiliani e tedeschi progressisti, ha evitato una spaccatura della quale erano state un’avvisaglia le polemiche sul libro del cardinale con un contributo di Benedetto XVI. Ma ha anche ottenuto il risultato imprevedibile e quasi paradossale di ricompattare intorno a Francesco almeno alcuni tra quelli che negli ultimi anni sono stati i suoi critici più feroci sul fronte tradizionalista. E a ufficializzare la novità è stato proprio Müller, bersaglio degli strali del «cerchio magico» bergogliano, in Argentina e tra i gesuiti italiani: il teologo conservatore, pupillo di Ratzinger, che non ha mai nascosto le sue perplessità sulla caratura dottrinale dei consiglieri di Francesco, né risparmiato critiche allo stesso Papa. D’altronde, qualche segnale era arrivato già all’inizio dell’anno, in occasione degli auguri ai cardinali per l’Epifania. Stringendo la mano alla fila delle «porpore», quando Francesco è arrivato davanti alla figura imponente di Müller hanno scambiato qualche battuta vivace. Il cardinale gli ha fatto notare scuotendo la testa che tra gli amici di Bergoglio c’è chi lo considera un nemico del Papa. Sorridendo, il pontefice gli avrebbe risposto di non fare caso a certe sciocchezze, aggiungendo che gli voleva bene. Ma il vero cenno di riconciliazione è rappresentato dalla dissertazione di Müller sul controverso Sinodo sull’Amazzonia, e sul messaggio scritto ricevuto in risposta nei giorni scorsi. È strano: quell’appuntamento rischiava di aprire un nuovo fronte polemico all’interno della Chiesa. Negli Stati Uniti, ma non solo, qualcuno aveva di nuovo evocato scenari scismatici. E il pasticcio editoriale sul saggio di Sarah aveva portato all’esautoramento di monsignor Gänswein, prefetto della Casa pontificia e segretario personale del Papa emerito, capro espiatorio del gioco di potere tra pretoriani di Bergoglio e oppositori. Invece, l’esito finale ha mostrato che Francesco non era così incline a concedere la fine del celibato; e non lo era fin dall’inizio, sebbene il suo silenzio sui sacerdoti sposati sia stato interpretato come un passo indietro e abbia deluso le avanguardie dell’episcopato brasiliano e soprattutto tedesco, vero regista finanziario e culturale del Sinodo. L’alter ego argentino di Francesco, Victor Manuel Fernandez, vescovo di La Plata, il 14 febbraio ha cercato di minimizzare. Ha spiegato che in realtà il Papa non avrebbe chiuso nessuna porta definitivamente rispetto all’ipotesi di un «rito amazzonico». Ma sembra più un modo per placare l’irritazione di chi confidava in uno strappo papale, e che ora tace con una punta di stupore. Anche perché Müller, indicato in passato come possibile leader di uno schieramento conservatore contro Bergoglio, ha sempre rifiutato questo ruolo, dichiarandosi leale al pontefice. Eppure non rinuncia a criticare sia Francesco sia Benedetto XVI, che a suo avviso avrebbero, in maniera e per motivi differenti, contribuito a logorare l’istituzione papale. D’altronde, anche sull’ultimo Sinodo non è tenero. A sentire Müller, i settori progressisti della Chiesa tedesca avrebbero dato «milioni di euro per fare propaganda alla fine del celibato dei sacerdoti. Il loro obiettivo non era fare sposare i preti in Amazzonia, ma aprire la porta alla fine del celibato anche in Europa. Per fortuna il Papa ha bloccato la manovra». Per l’ex prefetto per la Dottrina della fede, perfino la sfilata di indigeni in Vaticano è parsa poco convincente. «Quella quarantina di indios con le piume in testa, i volti colorati e gli idoli di Madre Terra, ricevuti dal Papa, non mi è sembrato che provenissero dalla foresta amazzonica. Ho l’impressione che siano stati portati in Italia da Brasilia, da San Paolo, e ospitati a Roma in hotel a cinque stelle, pagati dai vescovi tedeschi», spiega Müller. Parole abrasive dalle quali si intuisce che il «documento di riconciliazione» sia vissuto dal cattolicesimo conservatore come una mezza rivincita, e dagli alleati tradizionali di Francesco come un arretramento o comunque un rallentamento delle riforme. Insomma, la ricomposizione della Chiesa sembra ancora un tentativo, più che una realtà.

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L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 15 febbraio 2020 L’urgenza di una conversione poetica di Andrea Monda

A fine novembre il Papa tornando dal viaggio in Asia alla domanda su cosa può insegnare l’Oriente all’Occidente risponde prontamente: la poesia, è questo ciò che manca all’Occidente a un tempo tecnologico e smarrito. Due mesi dopo, il 24 gennaio, pubblica il messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali e mette al centro della sua riflessione il tema del racconto, partendo dal fatto che l’uomo è un “animale narrante” per cui la linfa che permette la buona circolazione di una persona, di una comunità, della società è la linfa delle storie, perché «per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone». Qualche giorno dopo partecipando a un convegno all’interno del progetto del Patto Educativo Globale da lui fortemente voluto, ha affermato che una buona educazione è quella capace di creare poeti. Infine due giorni fa, pubblicando l’atteso testo dell’Esortazione post-sinodale Querida Amazonia, cita ben diciassette poeti, alcuni noti come Pablo Neruda, tutti provenienti dal Sud America. Diciassette poeti. Qui siamo ben oltre il teorema proposto da Agatha Christie secondo la quale: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», è quindi forse il caso di fermarsi e riflettere su cosa ci sta dicendo il Santo Padre. Nel suo lavoro di annuncio del Vangelo e di invito alla conversione rivolto agli uomini del suo tempo, in fondo è questo il compito essenziale assegnato al Vicario di Cristo, Papa Francesco sta indicando una particolare “natura” della conversione che lui ritiene urgente, appunto la natura poetica. A fianco alle conversioni che sono emerse durante i lavori e poi nel documento finale del Sinodo per l’Amazzonia, quella pastorale, sinodale, culturale ed ecologica c’è anche quest’altra conversione, verso una dimensione poetica della vita. È evidente da tutti questi “indizi” che si tratta di un tema che sta molto a cuore a Papa Francesco che sente con urgenza la crisi di un Occidente ripiegato su un orizzonte solo ed esclusivamente produttivo, dove il profilo dell’efficienza prevale su tutto il resto. Come già evidenziato a suo tempo da Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae: «Il criterio proprio della dignità personale - quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio - viene sostituito dal criterio dell’efficienza, della funzionalità e dell’utilità: l’altro è apprezzato non per quello che “è”, ma per quello che “ha, fa e rende”». Contro il virus dell’efficienza esiste un antidoto che per il Papa è la poesia, la capacità cioè di avere uno sguardo grato e gratuito, libero e contemplativo verso la realtà, il mondo, gli altri che, visti con gli occhi della poesia, si rivelano come dei doni e non come ostacoli all’affermazione del proprio ego. Lo scorso anno, a seguito del discorso di Natale Urbi et Orbi, scegliemmo la “fratellanza” come “parola dell’anno” che abbiamo sviluppato su queste pagine lungo il 2019, quest’anno stimolati dal Messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali la parola sarà “racconto”. Nella prima delle interviste che stiamo realizzando per sviluppare questo tema è intervenuto Renzo Piano che ha sottolineato come anche l’architettura non è solo un fatto tecnico, pratico, corrispondente ai bisogni abitativi ma ha una sua dimensione poetica, legata alla bellezza e alla natura umanistica di questa arte. Ogni casa, anche la più umile, ha affermato Piano (l’intera conversazione sarà pubblicata fra qualche giorno), ha ed è una storia, possiede un racconto, e l’architetto è chiamato a mettersi a servizio di quel racconto, senza la pretesa di controllarlo, manipolarlo, utilizzarlo. Poesia è quindi libera apertura alla vita, contemplazione del mistero dell’esistenza e infine racconto di questa esperienza che scaturisce dall’impatto con la vita stessa. È poeta colui che serve e non si serve della realtà, che non ha la pretesa di dominarla, definirla perché il linguaggio poetico non spiega la realtà, né tantomeno la piega verso un proprio fine, ma la dispiega, lascia cioè che la realtà possa dispiegarsi in tutte le sue possibili direzioni. Un poeta argentino caro al Papa, J.L. Borges, diceva che si può definire un poligono ma non un mal di denti e che l’essenza della poesia è cogliere le cose in quanto strane. Lo sguardo poetico vince il rischio della “familiarità” con le cose che porta alla scontatezza e così di fatto alla noia, alla tristezza e al risentimento. La natura della poesia invece si radica nel senso della meraviglia e conduce alla libertà perché ci ricorda che la realtà del mondo e degli uomini non è un oggetto di cui possediamo il libretto di istruzioni per l’uso ma è qualcosa che deve suscitare uno stupore che “solo conosce”, secondo l’espressione di san Gregorio di Nissa. Forse allora le uniche “istruzioni” ammesse nel mondo della poesia sono quelle proclamate da Mary Oliver, poetessa americana scomparsa un anno fa, il 17 gennaio 2019, nella sua breve lirica intitolata Istruzioni per vivere una vita: «Pay attention (Fa’ attenzione)/ Be astonished (stupisciti) / Tell about it (raccontalo)».

È l’ora di rimboccarsi le maniche. Per andare incontro all’altro e abbattere i muri che isolano ed escludono In un messaggio al laicato spagnolo il Papa denuncia le tante voci di morte e di disperazione che soffocano la vecchia Europa

Oltre 2.000 persone in rappresentanza di parrocchie, movimenti e associazioni provenienti da tutto il Paese, sono riunite da venerdì 14 febbraio a Madrid insieme con 70 vescovi per il Congresso nazionale del laicato spagnolo. Di seguito una traduzione del messaggio inviato dal Papa per l’apertura dei lavori, che - inaugurati dal cardinale Farrell, prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita - si concludono domenica 16.

All’Eminentissimo Cardinale RICARDO BLÁZQUEZ PÉREZ Presidente della Conferenza Episcopale Spagnola Caro fratello, Mi rivolgo a lei, come anche all’amato Cardinale , Arcivescovo di Madrid, e a tutti i fratelli vescovi, sacerdoti, religiosi e, in modo particolare, ai fedeli laici, in occasione del Congresso Nazionale che celebrate con il tema: “Popolo di Dio in uscita”. Per arrivare a questa celebrazione avete percorso un lungo cammino di preparazione, e questo è bello, camminare insieme, fare “sinodo”, condividendo idee ed esperienze a partire dalle diverse realtà in cui siete presenti, per arricchirsi e far crescere la comunità in cui si vive. È significativo che iniziate questo Congresso nel giorno in cui la Chiesa fa memoria dei santi Cirillo e Metodio, patroni d’Europa. Essi diedero impulso a una grande evangelizzazione in questo continente, portando il messaggio del Vangelo a quanti non lo conoscevano, rendendolo comprensibile e vicino alle genti del loro tempo, con un linguaggio e forme nuove. Con il loro ingegno e la loro testimonianza, furono capaci di portare la luce e la gioia del Vangelo a un mondo complesso ed ostile. Il frutto fu di vedere come molti credevano e aderivano alla fede, formando una comunità; una porzione del Popolo di Dio cominciò a camminare in quella vasta regione del continente, e continua a farlo ancora oggi sotto la protezione di quei due fratelli evangelizzatori. Questo ci indica - come afferma il motto del Congresso - che siamo Popolo di Dio, invitati a vivere la fede, non in modo individuale e isolato, ma nella comunità, come popolo amato e caro a Dio. Gli apparteniamo, e questo implica non solo essere stati incorporati a Lui per mezzo del battesimo, ma anche vivere coerentemente con questo dono ricevuto. Perciò è fondamentale prendere coscienza del fatto che facciamo parte di una comunità cristiana. Non siamo un raggruppamento qualsiasi, e neppure una Ong, ma la famiglia di Dio convocata attorno a uno stesso Signore. Ricordarlo ci porta ad approfondire ogni giorno la nostra fede: un dono che si vive nell’azione liturgica, nella preghiera comune di tutta la Chiesa, e che deve essere annunciato. È il popolo convocato da Dio, che cammina sentendo l’impulso dello Spirito, che lo rinnova e lo fa tornare a Lui, volta dopo volta, per sentirci una cosa sua. E questo Popolo di Dio in uscita vive in una storia concreta, che nessuno ha scelto, ma che gli viene data, come una pagina in bianco su cui scrivere. È chiamato a lasciarsi alle spalle le proprie comodità e a fare un passo verso l’altro, cercando di dare ragione della speranza (cfr. 1 Pt 3, 15), non con risposte prefabbricate, bensì incarnate e contestualizzate per rendere comprensibile e accessibile la Verità che come cristiani ci muove e ci fa felici. Per questo è necessaria quella libertà interiore capace di lasciarsi toccare dalla realtà del nostro tempo e avere il coraggio di andarle incontro. Il mandato missionario è sempre attuale e torna a noi con la forza di sempre, per far risuonare la voce sempre nuova del Vangelo in questo mondo in cui viviamo, in particolare in questa vecchia Europa, nella quale la Buona Novella si vede soffocata da tante voci di morte e di disperazione. La Parola viva di Dio ha bisogno di essere predicata con passione e gioia attraverso la testimonianza cristiana, per poter abbattere anche i muri più alti che isolano ed escludono. È la vostra ora, è l’ora di uomini e donne impegnati nel mondo della cultura, della politica, dell’industria... che con il loro modo di vivere siano capaci di portare la novità e la gioia del Vangelo ovunque si trovino. Vi incoraggio a vivere la vostra vocazione immersi nel mondo, ascoltando, con Dio e con la Chiesa, i battiti dei vostri contemporanei, del popolo. E vi chiedo, per favore, di evitare a ogni costo le “tentazioni” del laico all’interno della Chiesa, che possono essere: il clericalismo, che è una piaga e vi rinchiude nella sacrestia, come anche la competitività e il carrierismo ecclesiale, la rigidità e la negatività..., che soffocano la specificità della vostra chiamata alla santità nel mondo attuale. Non abbiate dunque paura di calpestare le strade, di entrare in ogni angolo della società, di giungere fino ai limiti della città, di toccare le ferite della nostra gente... questa è la Chiesa di Dio, che si rimbocca le maniche per andare incontro all’altro, senza giudicarlo, senza condannarlo, ma tendendogli la mano, per sostenerlo, incoraggiarlo, o semplicemente accompagnarlo nella sua vita. Che il mandato del Signore risuoni sempre in voi: “Andate e predicate il Vangelo” (cfr. Mt 28, 19). Vi incoraggio nel vostro compito e impegno, e prego il Signore affinché questo Congresso possa dare frutti abbondanti. E, per favore, vi chiedo di pregare per me. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa vi custodisca.

Fraternamente, Francesco Roma, presso San Giovanni in Laterano, 14 febbraio 2020 Festa dei santi Cirillo e Metodio, Patroni dell’Europa

Grati a Dio per i compagni di cammino nella vita di Benedetta Capelli Messa a Santa Marta

Il calore di Casa Santa Marta, di una «famiglia larga» come la definisce il Papa, fatta di persone che «ci accompagnano nel cammino della vita», che ogni giorno vi lavorano, nel cuore del Vaticano, con dedizione e cura, che aiutano se una compagna è malata, provano tristezza se una di loro va via. Volti, sorrisi, saluti: semi che si gettano nel cuore di ognuno. Francesco, nella messa celebrata venerdì mattina, 14 febbraio, ha preso spunto dal pensionamento di una dipendente, Patrizia, per fare «atto di memoria, di ringraziamento» e anche di scuse nei confronti di chi «ci accompagna nel cammino». È stata un’omelia che ha raccontato la quotidianità di Casa Santa Marta, la dimora scelta dal Pontefice, che ha voluto soffermarsi sulla famiglia, non solo «papà, mamma, fratelli, zii, nonni» ma «la famiglia larga», cioè «coloro che ci accompagnano nel cammino della vita per un po’ di tempo». Il Pontefice ha spiegato che, dopo 40 anni di lavoro, Patrizia va in pensione; una presenza di famiglia su cui soffermarsi. «E questo - ha sottolineato - farà bene a tutti noi che abitiamo qui: pensare a questa famiglia che ci accompagna; e a tutti voi, che non abitate qui. Pensare a tanta gente che vi accompagna nel cammino della vita: vicini, amici, compagni di lavoro, di studio... Noi non siamo soli. Il Signore ci vuole popolo, ci vuole in compagnia; non ci vuole egoisti: l’egoismo è un peccato». Nella sua riflessione, Francesco ha ricordato la generosità di tante compagne di lavoro che si sono prese cura di chi si è ammalato. Dietro ogni nome, una presenza, una storia, una permanenza anche breve ma che ha lasciato il segno. Una familiarità che ha trovato spazio nel cuore del Papa. «Penso a Luisa, penso a Cristina», ha affermato il Pontefice, alla nonna di casa, suor Maria, entrata a lavorare giovane e che decise di consacrarsi. E nel ricordare la sua famiglia «larga», il Pontefice ha avuto un pensiero anche per chi non c’è più: come «Miriam, che se n’è andata con il bambino; Elvira, che è stata un esempio di lotta per la vita, fino alla fine». E poi altri ancora, che sono andati in pensione o a lavorare altrove. Presenze che a volte si fa fatica a lasciare. «Oggi - ha detto - farà bene a tutti noi pensare alla gente che ci ha accompagnato nel cammino della vita, come gratitudine, e anche come un gesto di gratitudine a Dio. Grazie, Signore — è stata la sua preghiera — per non averci lasciati da soli. È vero, sempre ci sono dei problemi, e dove c’è gente ci sono delle chiacchiere. Anche qui dentro. Si prega e si chiacchiera, ambedue le cose. E anche, alcune volte, si pecca contro la carità». Peccare, perdere la pazienza e poi chiedere scusa. Si fa così in famiglia. «Io vorrei ringraziare per la pazienza delle persone che ci accompagnano - ha affermato il Papa - e chiedere scusa per le nostre mancanze». Ecco allora che, ha osservato, «oggi è un giorno per ringraziare e chiedere scusa, dal cuore, ognuno di noi, alle persone che ci accompagnano nella vita, per un pezzo della vita, per tutta la vita... E vorrei approfittare di questo congedo di Patrizia - ha concluso Francesco - per fare con voi questo atto di memoria, di ringraziamento, e anche di chiedere scusa alle persone che ci accompagnano. Ognuno di noi lo faccia con le persone che abitualmente lo accompagnano. E a coloro che lavorano qui a casa, un grazie grande grande grande. E a lei, Patrizia, che incominci questa seconda parte della vita, altri 40 anni!».

AVVENIRE di sabato 15 febbraio 2020 Pag 3 La salda rotta mediterranea della Chiesa che ascolta e semina di Angelo Scelzo Verso il grande incontro di Bari, richiamando la tappa di Papa Francesco a Napoli

Se sulla rotta della Chiesa italiana verso Bari, per il summit sul 'Mediterraneo frontiera di pace' viene in mente Napoli, non può che trattarsi di un indizio in più per affermare che l’approdo è quello giusto. Napoli sta per l’apporto di una Chiesa locale che ha sempre avuto gli occhi e il cuore attenti sul Mediterraneo, ma in particolare, in questo caso, per la Facoltà teologica dell’Italia meridionale, sezione San Luigi, dove papa Francesco, il 21 giugno dello scorso anno, si recò sorprendentemente in visita per concludere, seduto al tavolo dei relatori, il convegno 'La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo'. Quella visita significò soprattutto che, anche al chiuso delle aule e dei laboratori di studi, l’approfondimento teologico, al contatto con le situazioni di vita vissuta, prende vita e vigore, trova le naturali vie d’uscita, per affrontare senza complessi la sfida di un’attualità che, apparentemente, sembrerebbe appartenerle poco. In una mattinata dal sole cocente, con alle spalle una delle più suggestive vedute del Mediterraneo, nell’anfiteatro tra il Vesuvio e capo Posillipo, Francesco venne a dare atto alla facoltà dei padri gesuiti, di aver avviato, secondo le indicazioni della Veritatis gaudium (la costituzione apostolica indirizzata in maniera specifica alle Università e alle Facoltà ecclesiastiche) un processo verso un «radicale cambio di paradigma» che non esitò a indicare come una «vera e propria rivoluzione culturale», capace di dare «concretezza alla dimensione sociale dell’evangelizzazione». Su queste premesse la Facoltà teologica napoletana non ha esitato a sua volta a intraprendere un cammino tutto nuovo, culminato con la visita ma soprattutto con le parole di sintonia di papa Francesco. Proprio per questo, oltre che una rotta, Bari diventa in qualche modo il nuovo orizzonte al quale anche Napoli guarda. È in realtà, un altro tratto dello stesso cammino, con la provvidenziale congiunzione del Sinodo sull’Amazzonia, a far da raccordo tra prospettive teologiche (non necessariamente sfide) ed esigenze pastorali, misurate su terreni non ordinari. Non è passato inosservato, in questo senso, un intervento del preside emerito della pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale, padre Domenico Marafioti. In un articolo pubblicato nei giorni scorsi su 'Il Foglio', padre Marafioti, ha fatto pensare a un passo indietro proprio rispetto alla creazione di quel clima di «dialogo e di pratica intellettuale necessario per il discernimento e il rinnovamento delle scuole di teologia». Il decano della Facoltà di Posillipo, padre Pino Di Luccio, ha precisato che l’articolo «non esprime l’indirizzo della Sezione san Luigi della Pftim, per la tempistica e per la modalità con cui affronta la questione del sacerdozio per i diaconi sposati dell’Amazzonia trattata nel Sinodo dello scorso ottobre». Le argomentazioni, ha osservato il decano, semplificano la riflessione su una questione importante dal punto di vista teologico e spirituale. Ma più che una diversità di opinione, o l’innesco di una polemica, l’intervento del decano è servito a sgombrare il terreno da una serie di questioni trattate in maniera non appropriata quanto ai temi – le Riduzioni del XVII secolo in America Latina, l’infelice paragone tra celibato sacerdotale e precetto domenicale, il dono di sé espresso con il celibato confuso con lo 'sforzo' della castità e presentato con argomentazioni che riguardano il genoma umano e le etnie – e poco opportuna nei tempi, considerando anche la scia polemica del libro 'Dal profondo dei nostri cuori'. Lo sguardo della Facoltà, tanto più dopo la visita del Papa e in vista dell’importante appuntamenti di Bari, è rivolto in avanti. La necessità è quella di capire davvero cosa dice, a chi parla e come si rende comprensibile una teologia che dà per scontato che le identità del Mediterraneo sono in aumento, come sono in aumento le configurazioni dei piccoli aggregati sociali e dei grandi conglomerati urbani. Napoli è sulla rotta di Bari soprattutto perché nell’incontro a Posillipo, Papa Francesco ha detto che una teologia adatta al nuovo contesto del Mediterraneo, è una teologia dell’accoglienza che si fa con il dialogo e con discernimento, e che ciò presuppone l’ascolto. Non l’ascolto di chi pretende di «sapere in anticipo ciò che l’altro dirà». Ciò significa anche, ascoltare la storia e il vissuto dei popoli che si affacciano sullo spazio Mediterraneo. Il Mediterraneo è proprio il mare del meticciato, un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione. Affacciarsi sul Mare Nostrum per il Mezzogiorno d’Italia, può forse diventare qualcosa più di un semplice slogan o una scontata evidenza geografica. Con papa Francesco e la Chiesa italiana, il Sud sta riscoprendo sempre più questa sua condizione come una vera e propria vocazione, culturale e religiosa insieme. Sullo sfondo gli orizzonti ampi di un nuovo umanesimo e del dialogo come via essenziale alla pace e alla comprensione tra i popoli. Napoli e Bari sono sulla rotta giusta.

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La forma dell’amore di Alessandro D’Avenia

«Ehi, voi due, cos’è che volete l’uno dall’altro? Desiderate congiungervi indissolubilmente in una sola cosa, così da non lasciarvi né di giorno né di notte?» chiede il dio Efesto a due amanti sorpresi a unirsi, in un passo memorabile del Simposio , il dialogo di Platone sull’amore. Perché vogliono stare attaccati, si chiede il filosofo? «Non è il solo piacere erotico lo scopo per cui se ne stanno stretti con tale intensità. No: l’anima di ciascuno vuole un’altra cosa che non sa esprimere, ma che intuisce e manifesta con simboli». Per Platone carezze, abbracci, amplessi sono tentativi di afferrare qualcosa che sembra manifestarsi nell’unione con l’altro, ma che sempre sfugge. Gli amanti sono le due infelici metà di una sfera spezzata, in cerca dell’unità originaria, per non sentire più la loro dolorosa incompletezza. Infatti il dio fabbro propone loro di fonderli per sempre, così da non perdere mai più quello che l’eros ha fatto trovare loro. Ma, alla prova dei fatti, la fusione erotica non basta: l’essere «incollati» lenisce ma non guarisce la nostra incompiutezza e fragilità. Il miracolo, che l’eros aveva promesso e che i gesti hanno cercato, sembra rimanere irraggiungibile. Il Cantico dei Cantici, uno dei libri della Bibbia che amo di più e rileggo periodicamente, mette in scena la stessa ricerca dell’impossibile attraverso l’eros di un ragazzo e una ragazza. Ma a differenza dell’amore senza fessure di Platone, qui tutto è pieno di vie di fuga. I corpi dei due si nascondono, si cercano, si inseguono, si toccano, si perdono: proprio al momento della loro massima vicinanza, il con-tatto , corrisponde sempre una mancanza, soprattutto nel finale. Come mai? Perché l’amore raccontato dall’anonimo autore del Cantico, 25 secoli fa, rappresenta l’amore così com’è, pieno di promesse e di delusioni, ma proprio per questo, anche se può sembrare contraddittorio, aperto al miracolo. L’amore non è la circolarità perfetta di due metà «incollate» nella sfera platonica, ma la frantumazione del guscio della solitudine dell’individuo, la graduale e reciproca resa, l’accettazione di una sconfitta che è in realtà una vittoria, perché solo chi esce da sé può trovare se stesso: «Mi alzerò e farò il giro della città, voglio cercare l’amore dell’anima mia» (3,2). I due amanti, toccandosi, con le mani e con le parole, vogliono «toccare il cielo», il loro amore vuole eternità, ma non ne ha le forze: «Ho aperto allora all’amato mio, ma l’amato mio era scomparso. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato ma non mi ha risposto» (5,6). Il desiderio allora diventa una breccia, due finiti si riconoscono tali e uniscono le loro debolezze per lasciare entrare l’infinito: la loro insufficienza da condanna può diventare salvezza. Il Cantico non è un inno a «fare l’amore», come Roberto Benigni ha fatto intendere a Sanremo, ma a «fare spazio all’Amore». Per questo è il libro più commentato nella storia del cristianesimo: basti dire che quando Dante, dopo 64 canti ( Purgatorio XXX, 11), incontra finalmente Beatrice, sceglie di indicarla proprio con un verso del Cantico («Vieni, o sposa, dal Libano»). L’amore del Cantico, tra ricerca e mancanza, gioia e dolore, possesso e perdita, ri-vela (cioè mette un velo su ciò che è troppo luminoso per poterlo guardare direttamente) come Dio cerca e vuole esser cercato dall’uomo: come fanno due ragazzi innamorati. I due amanti di Platone cercano l’eterno senza riuscire a raggiungerlo o a farlo entrare nella loro sfera, quelli del Cantico, invece, accettano di avere una ferita che neanche l’altro può far guarire del tutto, ma se la medicano a vicenda per tutto il tempo della vita, perché non diventi mortale, e cercano insieme la cura. La ferita è la mancanza di eternità, che niente di ciò che è finito può guarire: chiunque cerchi eternità in un altro finirà con il rimanere deluso e con l’incolparlo di non essere il dio che aveva sperato. Per questo l’amore del Cantico non è sferico e compatto, ma ricco di aperture e crepe. Se l’amore umano fosse «tutto» l’amore, gli amanti sarebbero completi e non desidererebbero nient’altro, ma all’amore umano, per quanto felice, manca sempre qualcosa: il miracolo dell’eternità. Nel Cantico l’eros non è il fine, ma il desiderio del senza fine, la danza dell’«ancora, ancora», che gli amanti sperano nell’estasi, proprio perché sanno che finirà: «Dov’è andato il tuo amato, bellissima tra le donne, perché lo cerchiamo con te?» (6,1). Tutti vogliono l’amore senza fine, che non è possibile all’uomo, ma solo a Dio, qui intuito, proprio nella follia erotica dei due giovani, come fonte dell’amore che non muore mai: «Forte come la morte è l’amore» dice infatti il più bel verso del Cantico (8,6). Leggetene gli otto capitoli (basta mezz’ora) e scoprirete che l’amore non ha la forma di una sfera, ma di una rosa, bella proprio quando si apre.

Pag 1 Così si spegne l’università di Antonio Scurati

Questo è uno di quegli articoli che di solito non legge nessuno. Tratta, infatti, della crisi dell’università, una delle istituzioni cruciali per il futuro della nazione italiana, della quale, però, sembra non importare a nessuno. E bbene, se il futuro del nostro Paese ancora vi sta a cuore, sappiate che secondo molti professori l’università italiana sta morendo (secondo altri sarebbe già morta). Non sto esagerando. Proprio oggi viene pubblicato in rete (www.roars.it) un documento sottoscritto da più di duecento professori universitari dal titolo esplicito: «Disintossichiamoci». È un documento drammatico. Descrive l’università italiana odierna come un territorio gravemente contaminato da un incidente nucleare, una landa desolata, popolato di animali morenti. Secondo gli estensori del documento, infatti, il mutamento catastrofico che si è abbattuto sull’università negli ultimi decenni - un veleno sottile, una catastrofe al rallentatore - avrebbe sortito l’effetto non soltanto di devastarne il paesaggio istituzionale ma anche quello di desertificare gli animi delle donne e degli uomini che ci lavorano. Una distruzione terribile e paradossale: nella cosiddetta «società della conoscenza» - quella in cui il sapere assume un ruolo fondamentale per la vita sociale - condannata a morte lenta è proprio l’istituzione dedicata alle cose della conoscenza. Che cosa accade? Chi o che cosa sta uccidendo l’università? Due sarebbero i principali responsabili: la burocratizzazione ipertrofica e il correlato asservimento di ricerca e insegnamento a sedicenti logiche di mercato. Il perno su cui ruota questo movimento a tenaglia di strangolamento dell’università è il mito soffocante e ossessivo della «valutazione». Per esser chiari: quando intrapresi la carriera universitaria (25 anni or sono) tutte le mie energie erano spese ad aumentare la conoscenza ricevuta (ricerca) e a trasmetterla agli studenti (didattica). Oggi, invece, sarei chiamato a dedicare più della metà del mio tempo professionale a compilare questionari, schedari, certificazioni, accreditamenti, rendicontazioni, riesami, revisioni per mezzo dei quali un elefantiaco apparato burocratico, il cui unico scopo è giustificare la propria esistenza, pretenderebbe di valutare il mio operato in termini di efficienza produttiva. Con l’inizio del nuovo millennio, la vita del professore è sprofondata in un universo kafkiano di parametri pseudo-oggettivi, mediane, soglie, rating, metriche, decaloghi, indicatori, «somministrati» da una pletora di organismi e protocolli - Anvur, Invalsi, Ava, Gev, Vqr, Asn - tramite i quali i burocrati del sapere vessano sistematicamente studenti e docenti, con l’unico risultato di spegnere in loro ogni autentico desiderio di conoscere, ogni libero impeto a sapere, ogni possibilità di fecondarsi reciprocamente nell’eterno e rinnovato mistero dell’insegnamento. D’altro canto, tutti noi docenti siamo pienamente consci del fatto che questo presunto sistema di valutazione oggettivo della conoscenza prodotta e di quella trasmessa è una colossale menzogna. È l’ultima, ennesima, sfinita maschera indossata dalle vecchie baronie, ora anche spogliate di quel minimo di responsabilità che il rango comportava, per continuare a sopravvivere da parassiti di un sistema del sapere al collasso. Cosa ancora più grave, anche la costante giustificazione di questa oppressione burocratica con il ricorso al feticcio del “mercato” è, per lo più, una volgare impostura. I fautori di questa sclerosi hanno tagliato ricerca e didattica non sul desiderio di conoscenza degli studenti, non sulla domanda di nuove forme di sapere da parte delle nuove generazioni, non sulle esigenze di un Paese in rapido mutamento, ma su quelle delle loro carriere, dei loro fondi di ricerca, dei loro piccoli feudi personali in un totale e progressivo scollamento tra l’università e la società. Una macchina celibe che gira su se stessa, una produttività da castrati, l’efficienza della cavia da laboratorio costretta a mordersi la coda nel loop di una cattiva eternità. Il risultato, ha scritto Alvesson, è che «mai prima nella storia dell’umanità tanti hanno scritto così tanto pur avendo così poco da dire a così pochi». Sia chiaro: nessuno dei firmatari, e tanto meno il sottoscritto, rimpiange la vecchia università delle baronie a viso aperto. Ma siamo certi che queste nuove baronie mascherate, questa grottesca applicazione alle cose del sapere di un linguaggio da mutui subprime, questa terminologia da marketing che nasconde l’antica pratica della marchetta, stia assestando il colpo letale all’università che pretende di rianimare. In fondo sarebbe così semplice... basterebbe tornare alla Costituzione repubblicana: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».

IL GAZZETTINO Pag 1 Istruzione, l’ingrediente per tornare a crescere di Paolo Balduzzi

Ancora una vota, le previsioni per la crescita economica nel 2020 ci certificano fanalino di coda tra i paesi europei, con uno scarso 0,3%, ben distanti dai paesi migliori (tra questi, l'Irlanda con il 3,6%), dalla media (1,4%) nonché da Francia e Germania, entrambe penultime ma comunque con previsioni di crescita oltre l'1%. E la prospettiva per il 2021 non è certo di gran lunga migliore (0,6%). Un paese o un popolo non possono essere giudicati esclusivamente sulla base di una variabile economica, naturalmente. Ma ciò non impedisce una qualche considerazione su come le risorse del paese stesso vengano impiegate e redistribuite. Crescita zero, gli ultimi della classe. Un legame molto evocativo e che non si limita ad essere solo un'immagine retorica: tra le origini infatti dell'infinita stagnazione italiana c'è sicuramente anche l'ormai pluridecennale responsabilità del legislatore di investire sempre di meno e sempre peggio nell'istruzione. Lo ha ricordato con grande efficacia Romano Prodi proprio ieri su questo giornale: la scuola deve essere una priorità per questo paese. E come facciamo a dire che invece non lo è? Innanzitutto, guardando alle cifre: l'Italia spende molto meno degli altri Paesi dell'Unione europea per istruzione, in particolare per quella terziaria. La spesa per istruzione in rapporto al Pil è infatti intorno al 3,8%, ben al di sotto della media Ue (4,8%). E tale confronto si fa ancora più impressionante quando si osservano le singole voci di spesa del bilancio pubblico: meno dell'8% della spesa pubblica italiana è dedicata all'istruzione, quando invece già solo quella per interessi sul debito pubblico è di poco superiori e quando, per pensioni, la quota di spesa sul totale supera il 30%, cioè circa quattro volte tanto. Certo, l'Italia è un paese che invecchia moto rapidamente, come ha nuovamente certificato l'Istat nei giorni scorsi. Ma anche tenendo conto dello scarso numero di giovani nel nostro paese, cioè guardando ai dati pro capite aggiustati per l'età, la situazione migliora solo di poco. Peraltro, questo punto di vista ci porta a compiere anche un grossolano errore di prospettiva. Perché motivare la bassa spesa per istruzione con il fattore demografico è una scusa di chi si ostina, per pigrizia o cattiva fede, a non vedere che la relazione causale potrebbe benissimo esser invertita. È l'assenza di strutture pubbliche adeguate, la mancanza di assistenza alle famiglie, l'incapacità di conciliare i tempi della scuola con quelli di lavoro che di fatto delega la gran parte dei costi di formare una famiglia ai genitori stessi. Chi si ostina ideologicamente a sostenere che il welfare non debba essere privatizzato non comprende che, in particolare per l'istruzione e per le cure famigliari, il welfare italiano è privatizzato da anni, ma in modo poco trasparente, e si basa proprio sul tempo e sulle risorse economiche che le famiglie possono mettere a disposizione. La verità è che in Italia non esiste affatto un welfare per i giovani ma solo, nella migliore delle ipotesi, belle parole, grandi convegni e talvolta un ministero che non serve a nulla. In secondo luogo, appare discutibile anche la qualità della spesa per istruzione. Non esiste una vera e propria volontà politica di valutare l'insegnamento (che sarebbe invece necessario) ma solo erronei e reiterati tentativi di valutare gli studenti, sin dalla tenera età. E per quanto riguarda le performance degli studenti, i risultati appaiono contrastanti. Da un lato i test standardizzati internazionali, pur con tutti i limiti che questi possono avere, non ci collocano certe nelle posizioni di vertice, come evidenziato dai più recenti test Pisa del 2019. D'altro canto, uno sguardo alle eccellenze nei migliori istituti di ricerca e università mondiali mostra una vasta presenza proprio di nostri connazionali, molti dei quali si sono formati in Italia e hanno poi deciso di trasferire il proprio capitale umano altrove, dove meglio avrebbe potuto fruttare. Uno spreco senza precedenti e una vera e propria emergenza nazionale. Che però emergenza è solo sui giornali o nelle discussioni accademiche, visto che il legislatore mai si è davvero preoccupato di agire in tale proposito. Terzo: dal punto di vista metodologico, soprattutto per l'istruzione primaria, l'Italia potrebbe essere un paese all'avanguardia. C'è, giusto per fare un esempio, un metodo copiato e applicato in tutto il mondo, nato in Italia poco più di un secolo fa ad opera di Maria Montessori, che punta allo sviluppo e al raggiungimento dell'autonomia del bambino e che trova il suo apice proprio tra i 3 i 10 anni. Ovviamente ci sono anche approcci diversi. E non è certo l'unico primato che potremmo implementare ed esportare. La causa principale di una tale amnesia generale sull'istruzione non è certo quindi demografica ma è al contrario squisitamente politica o ancor meglio elettorale: i benefici dell'istruzione si vedranno dopo molti anni, ben oltre l'orizzonte temporale che interessa al legislatore in carica. Che però così compie un gravissimo e duplice errore di valutazione. Primo, perché il benessere delle generazioni future non deve essere immolato a nessuna tornata elettorale. E secondo, perché alcuni di questi benefici emergono anche nel breve e medio periodo: perché strutture adeguate darebbero la possibilità alle donne che lo desiderano di tornare a lavorare dopo il parto; perché sviluppare un'istruzione professionale di qualità anticiperebbe la capacità di diventare indipendente per molti giovani e darebbe loro anche la possibilità di creare posti di lavoro per altre persone; perché, infine, la presenza nella società di una popolazione generalmente più istruita migliorerebbe anche la qualità della vita democratica. E a quel punto anche il corpo elettorale saprebbe benissimo premiare scelte che solo apparentemente penalizzano il presente ma che invece valorizzerebbero il futuro del paese e la sua crescita.

LA NUOVA Pag 10 Generazione di cavallette indifferente al futuro di Francesco Jori

Meno ai padri e più ai figli, suggeriva una ventina di anni fa un economista del valore di Nicola Rossi. L'Italia cialtrona ha irriso quell'invito a gestire in modo lungimirante le risorse del Paese, trasformandolo in "sempre meno ai padri e niente ai figli". L'Istat ha appena impietosamente documentato l'effetto di questo autentico menefreghismo del futuro: un calo della natalità che da smottamento si sta trasformando in slavina. Lo scorso anno sono nati 67 bambini ogni 100 persone morte; dieci anni prima il rapporto era quasi alla pari, 97 a 100. È solo il saldo migratorio a tenerci a galla, ma ancora per poco. Siamo al ricambio naturale più basso da un secolo a questa parte, e occupiamo l'ultimo posto in Europa con 7,6 nati per mille abitanti, a fronte di una media UE del 10,1. A Nordest, solo il Trentino-Alto Adige è sopra la soglia nazionale, con 9,0; il Veneto è a 7,3, il Friuli-Venezia Giulia a 6,4. Quanto squallido sia l'assenteismo delle nostre politiche pubbliche in materia, lo segnala il fatto che nello stesso momento in cui uscivano i dati Istat, l'Inps bloccava l'erogazione dei bonus 2019 per gli asili nido alle famiglie che ne avevano diritto. Per giunta senza neppure darne avviso, nella classica mentalità che considera le persone non cittadini ma sudditi: i genitori che come ogni mese mettevano mano all'apposita scheda on-line, si sono trovati di fronte alla secca scritta in rosso, "budget esaurito". E per questo 2020? A chi accede al sito Inps, viene comunicato, in prepotente quanto oscuro burocratese, che "sono in corso le implementazioni procedurali necessarie all'attuazione delle disposizioni di legge, concluse le quali saranno fornite le istruzioni operative", eccetera eccetera. Una vergogna, anche perché i fondi sono tutt'altro che esauriti: dei 300 milioni di euro stanziati per il 2019, a tutto settembre ne risultavano erogati 163. Dove sono finiti gli altri 137? Purtroppo non è un caso isolato. La verità, nuda e cruda, è che in Italia una vera politica per la famiglia non c'è mai stata: né ieri, quando al governo del Paese c'era una forza che aveva scelto come logo un cristianissimo scudo crociato; e neppure oggi, quando il tema viene affrontato a puri fini di propaganda, usando la famiglia per piantarci sopra la propria bandierina di parte. Lo dimostra, tra i tanti esempi possibili, lo stucchevole balletto cui è sottoposto in Parlamento da ben cinque anni il cosiddetto "family act" (utilissimo l'inglese quando c'è da spargere oscurità...). Sulla carta, è finalmente un pacchetto organico di aiuti alle famiglie, per un investimento da 15 miliardi l'anno. Nei fatti, ad oggi è l'ennesimo segnale di fumo. Così da rendere più che mai vera la sconfortata denuncia avanzata dallo stesso Nicola Rossi qualche anno fa: l'Italia è in ostaggio di una generazione di cavallette della politica, che del futuro stanno facendo terra bruciata. E a confronto delle quali, quelle delle piaghe d'Egitto erano innocui moscerini.

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Una risposta a due povertà di Leonardo Becchetti Dono e spreco contro fame e insensatezza

Dono e spreco: due input (fattori produttivi) abbondanti in natura che, se combinati in modo efficiente, possono risolvere il problema di due povertà: quella materiale e quella di ricchezza e di senso del vivere. I dati sullo spreco sono impressionanti. Ogni anno un terzo della produzione mondiale (il 40% negli Stati Uniti) viene sprecata (in parte al momento della produzione, ma soprattutto al momento del consumo). Secondo le stime della Fao gli 868 milioni di persone che soffrono la fame potrebbero essere nutrite per 4 anni con lo spreco di un solo anno. In Italia la 'Legge del buon Samaritano' (Legge n 155, entrata in vigore il 16 luglio del 2003) ha costruito un meccanismo che agevola la cessione dei prodotti commestibili ma non più vendibili dalla grande distribuzione e dalla ristorazione alle organizzazioni di Terzo settore che combattono la povertà e si prodigano per gli 'scartati'. Anche grazie a questo stimolo stanno nascendo in varie parti del Paese 'empori della solidarietà'. Si tratta di luoghi dove organizzazioni di Terzo settore raccolgono i prodotti della grande distribuzione e li distribuiscono a una lista di beneficiari rigorosamente selezionata dai centri d’ascolto con meccanismi di tessere a punti che evitano abusi e rivendita di prodotti. Un parroco di Capua don Gianni Branco ha però introdotto nel circuito del dono e dello spreco un’innovazione significativa che diversifica le fonti di offerta. Partendo dalla tradizione di generosità napoletana del 'caffè sospeso' (un dono monetario che i clienti di alcuni bar lasciano per offrire un caffè e chi verrà dopo) ha messo in collegamento attraverso un App il circuito dei negozi della città dove venditori e clienti possono lasciare un 'sospeso' collegato a tutti i possibili beni vendibili. I beneficiari selezionati dalla Caritas e dai centri d’ascolto possono così accedere in uno dei punti vendita a una vasta gamma di beni e servizi. Un altro innovatore e 'broker' efficiente dello spreco Marco Costantino è l’inventore di 'Avanzi Popolo' a Bari. Che offre il proprio logo a eventi e ricevimenti locali (dove notoriamente l’offerta è generosa e il cibo largheggia) che sono già in collegamento con l’organizzazione che indirizza quanto avanzato a una rete di beneficiari locali. La gestione efficiente del circuito dello spreco e del dono può risolvere simultaneamente due forme di povertà. Quella materiale dei riceventi e quella di senso del vivere dei potenziali donatori. Il Rapporto mondiale sulla Felicità sottolinea infatti come la gratuità sia uno dei sette fattori chiave che spiegano il 75% delle differenze di soddisfazione di vita tra i diversi Paesi del mondo. Facilitare l’attivazione del dono e canalizzare lo spreco verso potenziali beneficiari non risolve dunque solo il problema di quest’ultimi, ma è anche capace di attivare quella predisposizione a donare che può salvarci da epidemie di povertà di senso del vivere come quella scoppiata negli Stati Uniti con la crisi delle morti per disperazione che ha aumentato il tasso di mortalità dei bianchi non ispanici tra i 40 e i 60 anni. Il circuito dello spreco e del dono incentivato fiscalmente è un bell’esempio di quell’economia a quattro mani (mercato, istituzioni, cittadinanza attiva, organizzazioni e imprese responsabili) che sono fondamentali per risolvere i nostri problemi nella logica dell’economia civile. Una direzione di progresso fondamentale di queste esperienze innovative sta nella capacità di coinvolgere in forme sempre più attive e generative i beneficiari che possono diventare soci e promotori della stessa iniziativa. La povertà (materiale) è infatti in realtà un fenomeno multidimensionale fatto di fragilità economica, povertà educativa, di relazioni, di autostima. Non si risolve soltanto con un assegno o con un pacco dono ma richiede accompagnamento e attivazione. Creare valore economico sostenibile è un’azione morale decisiva nella nostra società. Ma gestire in modo efficiente il circuito del dono e dello spreco è altrettanto importante perché può risolvere contemporaneamente le due povertà di cui si è detto e che, in diversi modi, ci assediano, quella materiale e quella di ricchezza e di senso del vivere.

IL GAZZETTINO di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 E’ la scuola la priorità decisiva del Paese di Romano Prodi

Succedono strane cose al mondo: mentre restano giustamente elevate le preoccupazioni per la diffusione del Coronavirus in Cina e ancora più si teme per le imprevedibili conseguenze che tale morbo produrrebbe se si espandesse verso l'India o verso l'Africa, le previsioni sulle sue conseguenze economiche sono assai meno allarmanti. Vengono messi giustamente in rilievo i generali e pesanti effetti negativi sui viaggi e sul turismo, si insiste sulle difficoltà nel sistema delle subforniture internazionali e sulle temporanee interruzioni della produzione cinese, ma le conclusioni della maggioranza degli esperti internazionali si orientano verso l'espressione no debacle yet. Non vi sarebbe cioè ancora nessun disastro generale in campo economico, anche se si sollevano ovviamente punti interrogativi riguardo al futuro. I mercati finanziari si comportano in conseguenza e, dopo un calo iniziale, hanno dato segni di ripresa, arrivando fino ad attribuire un forse eccessivo rilievo alle conseguenze positive del calo dei prezzi del petrolio. Il fatto che il Coronavirus sia considerato dagli analisti economici un evento grave, ma probabilmente temporaneo, ci deve tuttavia spingere ad essere cauti sull'andamento dell'economia mondiale, timorosi sulla crescita europea e ancora di più preoccupati sull'andamento dell'economia italiana. Ben poco di nuovo sta quindi accadendo rispetto a quanto la globalizzazione ha prodotto negli ultimi dieci anni: i recenti protagonisti dell'economia mondiale continuano a crescere più in fretta, gli Stati Uniti se la cavano bene, l'Unione Europea arranca appesantita da decisioni sbagliate, mentre l'Italia viene stabilmente relegata all'ultimo posto dalla sua volubile e imprevedibile politica. Il fatto che il nuovo governo si mantenga saldamente legato all'Europa ci garantisce tassi di interesse relativamente bassi, con ovvio beneficio per il bilancio pubblico. Tuttavia le tensioni tra i partiti che compongono la coalizione governativa impediscono di guardare al futuro con quell'atteggiamento positivo che è fondamento di ogni crescita economica. Nella situazione in cui ci troviamo i consumatori sono riluttanti a spendere, gli investitori diventano ancora più prudenti e gli operatori stranieri tendono a ritenere l'Italia un paese ancora più straniero. Eppure penso che a tutto questo vi sia un possibile rimedio. Come spesso capita nei sistemi democratici con una molteplicità di partiti, si è creata nello scorso agosto in Italia una coalizione nuova fra partiti che si erano in precedenza combattuti portando avanti obiettivi fra di loro in contrasto. In questi casi il nuovo matrimonio esige un periodo di fidanzamento durante il quale si deve costruire il faticoso accordo a cui si debbono conformare i futuri modelli di convivenza. A differenza di quanto avvenuto in Germania e in Austria, tutto ciò non è stato possibile da noi, dove i processi di adattamento sono invece avvenuti dopo il matrimonio. Purtroppo, invece di dare la priorità ai numerosissimi capitoli nei confronti dei quali vi era un comune sentire, si sono messi sul tavolo, con spirito sostanzialmente masochistico, tutti i problemi nei confronti dei quali si erano verificate le più profonde divergenze. Il dibattito sul pur importante tema della prescrizione è un esempio quasi scolastico di questo istinto suicida al quale si possono affiancare tanti altri casi. A questo istinto suicida si può porre rimedio solo cambiando totalmente strategia, con un programma che contenga una o pochissime priorità che possano attrarre in modo appassionato tutte le energie del paese. Di priorità decisive e unificanti per il nostro futuro ne voglio elencare solo tre: scuola, scuola e scuola. Alle quali aggiungere il naturale complemento della ricerca scientifica e delle moderne infrastrutture necessarie per raggiungere il livello dei paesi leader. Quando parlo di scuola intendo dalla materna ai corsi postuniversitari e, quando parlo di priorità, intendo uno sforzo finanziario massiccio. Uno sforzo senza precedenti e un cambiamento nelle gerarchie sociali capace di attribuire agli insegnanti e a tutti coloro che operano nel settore il ruolo e la dignità che essi meritano, ma gravandoli nello stesso tempo degli obblighi che la loro missione comporta. È chiaro che tutto questo costa ed è chiaro che a questo scopo deve essere indirizzata una cospicua parte degli introiti della lotta all'evasione fiscale, oggi finalmente possibile con i nuovi mezzi tecnologici che abbiamo già a disposizione. E rimarranno disponibili anche risorse aggiuntive dedicate alla diminuzione delle imposte, diminuzione resa ora impossibile dai limiti del nostro bilancio pubblico. La nuova politica europea ci offre inoltre, facilitando la raccolta delle necessarie risorse, la prospettiva di un altro grande progetto: la costruzione di un'Italia verde che, in un nuovo equilibrio ecologico e territoriale, si affianchi alla scuola per preparare un migliore futuro per le nuove generazioni. Sono sicuro che se ci poniamo questi due obiettivi con sufficiente energia e serietà il resto ci sarà dato in sovrappiù. Mi rendo conto che l'attività di governo copre uno spettro ben più ampio di quello che ho volutamente semplificato nelle righe precedenti e di questo ogni governo deve tenere conto, ma sono anche convinto che, se non abbiamo punti di riferimento semplici e condivisi per preparare il futuro, dovremo accontentarci delle briciole sempre più scarse che ci ha lasciato il passato.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 12 Scalinata danneggiata al Tempio Votivo. Inaugurato e mai usato di E.P.

Inaugurato in pompa magna a ottobre da Comune, Regione e Patriarcato, ma ancora abbandonato a se stesso. E ora, preso di mira dai vandali. Non c'è pace per il Tempio Votivo del Lido, la cui scalinata è stata danneggiata venerdì notte dai vandali. Un episodio condannato dalle autorità cittadine («I luoghi restaurati restano al sicuro quando sono vissuti», denuncia Danny Carella, presidente della Municipalità). E che riporta a galla l'allarme lanciato prima dell'inaugurazione da parte del sindaco e del Patriarca, da parte delle associazioni lidensi: il rischio che il Tempio Votivo si trasformi in una cattedrale nel deserto. All'interno della struttura sono conservate le spoglie di 2. 691 caduti della prima guerra mondiale, 108 decorati al valor militare e 403 militi ignoti, 449 caduti durante la seconda guerra mondiale, 58 decorati al valor militare, 110 militi ignoti e 43 ufficiali medaglie d'argento. Dopo tre anni di lavori, la struttura è stata restaurata con buona parte dei fondi regionali per il centenario della Grande Guerra (1 milione e 400 mila euro) e un contributo del Comune e del Patriarcato di 500mila e 100mila euro. Il piano di recupero prevedeva una convenzione tra Comune e Patriarcato per utilizzare i due piani superiori per mostre o altre iniziative. Niente di tutto questo, al momento, è stato realizzato. «Siamo a un punto morto», attacca l'associazione Lido d'Amare. Il problema, secondo chi ha seguito il recupero della struttura, sta nella difficoltà di trovare un soggetto che si faccia carico della gestione. Dal canto suo, il Patriarcato fa sapere che la «riconsegna ufficiale del cantiere è avvenuto solo da un paio di settimane con la consegna delle chiavi da parte dei tecnici comunali alla diocesi». Ora si attende una risposta da parte dell'associazione d'arma (Onor Caduti) che dovrebbe impegnarsi nella apertura e custodia dell'immobile. Nel frattempo, per il Tempio Votivo sono stati commissionati gli arredi interni e dalla prossima estate le messe festive saranno celebrate al suo interno.

Pag 12 La famiglia Marzotto in aiuto della vigna di San Francesco di Eugenio Pendolini

Il vino prodotto dai frati di San Francesco della Vigna a partire dalla prossima stagione sarà a marchio Santa Margherita, gruppo vinicolo di Fossalta di Portogruaro che rientra nella galassia imprenditoriale della famiglia Marzotto. Non è dato sapere, al momento, le modalità con cui questa alleanza prenderà forma. Si tratta più che altro di un «aiuto», così viene descritto, che l'azienda vinicola fornirà ai frati dell'antichissimo convento veneziano. Sono in cinque, infatti, a gestire l'intera struttura, composta da un istituto di studi ecumenici e una biblioteca, oltre che da convento e vigna. Nel complesso di San Francesco della Vigna vi sono tre chiostri, due sono adibiti a orto e vigneto, nel terzo viene invece raccolta l'acqua piovana, usata poi per irrigare i vigneti.Inevitabili, dunque, le difficoltà nell'adempiere a tutte le incombenze che l'edificio cinquecentesco in pieno centro storico richiede. E tra queste, spicca la produzione del vino "Harmonia Mundi": 1.500 bottiglie a stagione, il cui ricavato viene utilizzato per finanziare le borse di studio per gli studenti dell'Istituto di Studi ecumenici della facoltà di Teologia presente nel complesso. Ad occuparsene, ora, saranno i tecnici di Santa Margherita (azienda da 177,4 milioni di euro di fatturato 2018). L'azienda è una delle ramificazioni della famiglia Marzotto, il cui capostipite fu Gaetano Marzotto conte di Valdagno, il «re della lana». Oggi, la dinastia Marzotto ha diviso il suo impero in vari settori: una parte si occupa dell'industria tessile; un'altra, capitanata da Gaetano Marzotto, 67 anni, detiene la maggioranza di Hugo Boss e possiede il gruppo Santa Margherita.E proprio nel vino, come dichiarato in un'intervista del 2017, i Marzotto hanno investito oltre 150 milioni di euro. Oltre a garantire alcuni lavori interni alla struttura, i tecnici avranno il compito di seguire e coordinare l'andamento della vigna. Proprio i frati di San Francesco, non più tardi di qualche settimana fa, si erano detti preoccupati del futuro della vigna stessa. Il motivo riguardava la vicina area degli ex Gasometri, al centro di un progetto di recupero di Ivan Holler (Mtk) che prevede la realizzazione di due edifici da otto piani all'interno delle strutture industriali vincolate come bene industriale da tutelare. Nei piani dell'imprenditore austriaco, nell'area (dove a breve inizieranno le opere di bonifica dagli inquinanti, per un costo totale di 4 milioni di euro) dovrebbe sorgere un hotel con 220 camere extra lusso. Al momento, però, manca ancora il cambio di destinazione d'uso da residenziale a recettivo e dal Comune non sembrano arrivare novità in questo senso. Almeno, non a breve. Come beneficio pubblico, l'imprenditore austriaco ha garantito la costruzione di una palestra da destinare alle 125 classi degli istituti Bendetti-Tommaseo- Barbarigo, ancora oggi costrette a spostarsi nel palazzetto dell'Arsenale per l'ora di educazione fisica. Inizialmente previsto all'interno dell'area ex Gasometri e poi nel cortile dell'istituto Sarpi, di recente è spuntata l'ipotesi dell'area abbandonata all'interno dell'Arsenale per il nuovo palazzetto dello sport. Ipotesi al centro, nei giorni scorsi, di un incontro pubblico a cui gli stessi frati di San Francesco hanno partecipato insieme alla cittadinanza. A dimostrazione del loro interesse, come indica l'aiuto di Santa Margherita, al mantenimento in buono stato di San Francesco della Vigna.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 febbraio 2020 Pag VIII Vandali al Tempio votivo, danneggiata la scalinata di L.M.

Danneggiamenti alla scalinata monumentale esterna del Tempio Votivo, in riviera Santa Maria Elisabetta il Lido. Il Sacrario militare dove riposano circa quattromila Caduti delle due guerre, inaugurato, dopo i lavori di restauro, lo scorso ottobre, è ancora chiuso. Ignoti però hanno pensato bene di staccare il corrimano in ferro della scalinata che è stato completamente divelto e gettato a terra lungo la stessa scalinata. Non è chiaro se l'episodio possa essere stato un atto vandalico compiuto volontariamente, oppure un danneggiamento involontario forse da parte di ragazzini che magari potrebbero avere utilizzato la scalinata per le scorribande con i loro skateboard, come successo anche in passato. Quel che è certo è che i danni sono balzati subito all'occhio essendo l'edificio da poco restaurato con un intervento costato complessivamente più di un milione e 300 mila euro. Sarà assai difficile risalire ai responsabili: in passato erano installate delle telecamere di videosorveglianza, proprio per scoraggiare eventuali atti vandalici. Ma, a quanto pare, le telecamere attualmente non sono in funzione. La richiesta è anche quella che il Tempio possa essere aperto al più presto.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 15 febbraio 2020 Pag IX San Camillo e Stella Maris, accordo sui 40 lavoratori a rischio esubero di Lorenzo Mayer

Fumata bianca. Senza brusche frenate o impreviste retromarce, ieri mattina, in Prefettura si è arrivati alla firma dell'accordo che mantiene inalterata l'intera pianta occupazionale per l'ospedale San Camillo e la casa di riposo Stella Maris degli Alberoni al Lido. Non ci sarà nessun esubero. Tutti salvi i 25 posti di lavoro a scavalco, che avevano un contratto con la Codess, ma che si occupavano di garantire servizi sia per l'ospedale San Camillo sia per la casa di riposo Stella Maris, e anche i 15 lavoratori Sodexo, azienda che in appalto fornisce pasti e ristorazione in appalto. Complessivamente, quindi, 40 posti di lavoro non saranno smantellati. La firma, messa nero su bianco, supera in modo definitivo quanto si paventava poco prima di Natale. La riunione di ieri in Prefettura, che faceva seguito all'incontro del 17 dicembre, che di fatto aveva aperto la crisi ha partorito la svolta in poco più di un'ora. Erano presenti tutte le componenti coinvolte. A coordinare i lavori la viceprefetto Beatrice Musolino, alla presenza dell'assessore alla Coesione sociale del Comune di Venezia, Simone Venturini, del sindaco di Chioggia, Alessandro Ferro, Paola Fusetti per la Regione Veneto e Michele Bacchin in rappresentanza dell'Ulss 3 Serenissima. L'ospedale San Camillo era, invece, rappresentato da Stefano Carducci, Codess da Moira D'Agostino Amoroso e Marika Ranieri, Sodexo con Francesco Ballan. Al tavolo anche tutte le sigle sindacali: per Cgil Giancarlo Da Lio e Cristiano Zanetti, Cils Carlo Alzetta e Silvano Baseggio e Maria Rosa Durigon, Uil (Piero Polo). L'ACCORDO - L'intesa raggiunta stabilisce che San Camillo e Codess si ripartiscano tra loro, i dipendenti a scavalco, inquadrandoli nei rispettivi organici. Per quanto riguarda i 15 manutentori (che ricordiamolo svolgono servizi per entrambe le strutture), 10 saranno assunti da Irccs San Camillo e 5 da Codess, il personale della portineria (5 lavoratori), invece, verrà preso in carico da Codess. Infine i 5 dipendenti di lavanderia e rammendo saranno presi in carico da Irccs San Camillo. «Una bella notizia - ha ripetuto Venturini - in pochi mesi si è riusciti ad arrivare, grazie alla buona volontà di tutti, a una conclusione positiva della vicenda». L'ospedale San Camillo, in una nota, ha sottolineato l'importante conclusione della vicenda. «Irccs San Camillo si legge nel comunicato - esprime grande soddisfazione per la positiva conclusione della vertenza sugli esuberi all'ospedale San Camillo e alla casa di riposo Stella Maris del Lido di Venezia. Ancora una volta la Congregazione delle Suore Mantellate di Pistoia ha fatto la propria parte, e anche di più, dimostrando che mettere al centro la persona, con il suo lavoro, aspetto fondamentale per la vita, non è solo un buon proposito, ma un fatto concreto. Il risultato ottenuto è la conferma dell'impegno assunto e che è stato possibile raggiungere grazie a un lavoro certosino, talvolta non facile, condotto in questi ultimi mesi».

LA NUOVA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 26 Nascite a picco, scuole vuote. Le iscrizioni crollano del 7% di Laura Berlinghieri Negli istituti privati il dato peggiore: solo 188 adesioni in prima elementare con una flessione del 30%. All'origine calo demografico e crisi economica

Crollano le nascite e crollano le iscrizioni nelle scuole della provincia di Venezia: rispetto al precedente anno scolastico, meno 7,1% se si considerano le elementari, meno 3.1% per le medie e meno 0.9% per le superiori. E a soffrire sono soprattutto gli istituti privati. È il dato che emerge dai dati provvisori sulle iscrizioni per il prossimo anno scolastico. Dati suscettibili di aggiustamenti: per la loro provvisorietà e, in riferimento alle paritarie, perché i dirigenti di queste non erano obbligati alla registrazione nel sito del Miur. In ogni caso, il calo vale per le scuole di ogni ordine e grado. Sono 6.039 gli iscritti in prima elementare, di cui 5.851 nelle statali e appena 188 nelle paritarie: solo per queste ultime, il calo di iscrizioni è stato di oltre il 30 per cento.«Numeri preoccupanti, ma confido in un aggiustamento con le cifre definitive» commenta Chiara Cavaliere, presidente regionale delle scuole paritarie cattoliche Fidae. «Ci sono tante spiegazioni. Il crollo demografico, sicuramente. E poi la crisi economica. Le famiglie che vogliono iscrivere il figlio alla primaria hanno molte alternative. Con un lavoro sempre più in bilico, le famiglie faticano a prendere un impegno economico quinquennale». La retta media di una scuola paritaria primaria si aggira intorno ai 270-300 euro mensili. Circa un centinaio in più rispetto ai costi per le scuole paritarie dell'infanzia. Strutture che, pur con un decremento del 9 per cento rispetto all'anno scorso (da 7927 a 7213 iscritti), "tengono", essendo a volte l'unica scelta per le famiglie.«Nella provincia di Venezia, sono scelte dal 50% dei genitori. Il costo medio delle rette si aggira tra i 150 e i 170 euro mensili» spiega Stefano Cecchin, presidente regionale di Fism (Federazione italiana scuole materne). «Il calo delle iscrizioni ha come unica causa il calo demografico. Per questo, delle misure a sostegno della natalità avrebbero senz'altro un riverbero positivo. E poi soffriamo l'immigrazione di ritorno».Al calo alcune scuole stanno rispondendo, per la prima volta, con una modulazione della retta in base all'Isee. Parlando delle scuole superiori, i Licei sono stati scelti dal 49,1% dei ragazzi (3.074), scalando la "classifica" di 4 punti percentuale rispetto all'anno scorso. Sono 2.444 gli studenti che preferiscono gli istituti tecnici (39.1% del totale). In crisi nera i professionali, che perdono ulteriormente terreno (10%), seguiti dai percorsi triennali, con appena 100 iscritti in tutta la provincia. In totale, al suonare della prima campanella del prossimo anno, saranno 19.698 i ragazzi che metteranno piede in una scuola nuova: 19.161 hanno scelto un istituto statale, 537 vuole il privato.

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8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 11 “Il vescovo non mi conosce, ho le prove di quanto dico” di Giuliano Pavan L’ex seminarista Cecchin a monsignor Pizziolo: “Non mi ha mai visto, i fatti sono documentati”. Oggi la denuncia in Procura a Treviso

Treviso. «Dalla mia parte ho la verità dei fatti, e sono documentati. Per questo vado avanti per la mia strada e oggi i miei legali depositeranno in Procura la denuncia contro quei due preti». Gianbruno Cecchin è determinato. Dopo quasi 30 anni di sofferenze e di silenzi ha scelto di denunciare pubblicamente gli abusi sessuali che avrebbe subito tra il 1990 e il 1991 nella comunità vocazionale del seminario vescovile di Treviso. Gli aguzzini sarebbero stati il responsabile e il suo assistente, oggi parroci nel veneziano e nel padovano. «Accuse inverosimili» le ha definite il vescovo di Vittorio Veneto, monsignor Corrado Pizziolo. Che ha anche aggiunto: «Tutto si chiarirà, ma intanto il male è già stato fatto. Tutti pedofili, tutti lazzaroni. Loro si difenderanno e si capirà davvero quale sia la verità. Però la loro reputazione (quella dei due parroci accusati da Cecchin, ndr) è distrutta, e questo non si cancella». LA RISPOSTA - Parole che non sono piaciute all'ex assessore di Galliera Veneta, che ha trovato in monsignor Pizziolo un nuovo bersaglio. «Lui non mi conosce - esordisce Cecchin -. In un anno di seminario non mi ha mai parlato una volta. Credo non mi abbia nemmeno mai visto. Lui era il direttore della comunità teologica, io ho subito quelle violenze nella comunità vocazionale. Sono due realtà distinte». Il libero professionista, nella lettera inviata per conoscenza anche a papa Francesco e ai vertici della Cei, oltreché ai vescovi emeriti di Treviso, fa nomi e cognomi di chi avrebbe abusato di lui. Non sono gli unici: lascia intendere che c'è chi sapeva ai piani alti della Diocesi trevigiana. «Mi assumo la responsabilità di quello che dico - sottolinea Cecchin -. Non è vero che ho frequentato meno di un anno di seminario: l'anno l'ho concluso, così come ho sostenuto tutti gli esami previsti e a dimostrarlo ho ancora il libretto. E non è neppure vero che tiro in ballo tutto il seminario. Io accuso direttamente due persone, non tutti gli educatori che c'erano all'epoca o tutti i parroci della Diocesi. Non voglio certo distruggere la Chiesa». LE PROVE - Le versioni non collimano. I sacerdoti della provincia di Treviso, e non solo, difendono i due parroci sotto accusa, e la Curia non mette in dubbio l'integrità dei due ex educatori. Ma Cecchin tira dritto: «Ho un diario dove sono annotati i giorni e le ore in cui sono avvenute le violenze - afferma -. C'è scritto anche quello che ho subito. Prima di decidere di togliermi questo peso dalla coscienza mi sono munito di prove. Sono documentato, proprio per non essere attaccabile. Per fortuna non ho i video, anche perché sarebbe raccapricciante rivedere quelle scene: già le rivivo ancora nella mia mente». Ora saranno gli inquirenti a dover capire cosa sia davvero accaduto tra le mura del seminario di Treviso quasi 30 anni fa.

LA NUOVA Pag 13 Veneto, la terra delle mafie in doppiopetto: “Più che comandare vogliono fare soldi” di Carlo Mion Intervista a Vittorio Rizzi, vice capo della Polizia

Cento misure cautelari eseguite, per associazione mafiosa, in un mese nel 2019. In Veneto si può parlare ancora di infiltrazioni?«Il Veneto, in ragione della posizione strategica nonché delle numerose imprese attive, è una delle regioni trainanti per l'economia italiana. Le infrastrutture e la ricchezza prodotta dalle aziende rappresentano obiettivi di grande interesse per la criminalità mafiosa che cerca di infiltrare, in maniera "silente", l'economia legale. Il modus operandi è quello di avvicinare le imprese in difficoltà, proponendosi come soci e finanziatori, per poi acquisirne la proprietà. In alcuni casi sono gli stessi imprenditori in difficoltà a rivolgersi a soggetti vicini alle consorterie mafiose per la risoluzione di problemi economici. D'altra parte le organizzazioni criminali non esitano, poi, a far ricorso all'intimidazione per raggiungere i propri obiettivi». Inizia così l'intervista su "Mafia a Nordest", al Prefetto Vittorio Rizzi, Vice Capo della Polizia e direttore centrale della Polizia Criminale e già capo della Squadra Mobile di Venezia. C'è stata disattenzione nel valutare i segnali che qualche cosa, anche nel tessuto socio- economico della "locomotiva d'Italia", stava cambiando? «C'è sempre stata da parte della Magistratura e delle Forze di Polizia forte consapevolezza della minaccia rappresentata dalla criminalità organizzata. Le Istituzioni e le Forze di Polizia hanno sempre vigilato utilizzando gli strumenti normativi a disposizione per prevenire e contrastare i tentativi di infiltrazione criminale nel tessuto socio economico e nel settore pubblico. A riprova di tale attività, ci sono i positivi risultati conseguiti con i numerosi arresti e con le disarticolazioni di propaggini di organizzazioni mafiose nel Veneto. Solo per citarne alcune si pensi alle operazioni "Terry", del 12 febbraio 2019 a , Venezia, Vicenza, Treviso, Crotone, Ancona e Genova, "Camaleonte", del 12 marzo 2019 a Padova, Venezia, Vicenza Treviso, Belluno e altre province italiane e "Maestrale 2017", del 16 maggio 2019 a Verona, Bari, Molfetta (Ba), Trani, Augusta e Lecce. Queste attività hanno portato, nel complesso, all'arresto o al deferimento di oltre 130 persone. L'attività di contrasto svolta negli anni non ha tralasciato di aggredire anche i patrimoni illecitamente accumulati. Solo nel 2019 nel Veneto sono stati sequestrati alla criminalità organizzata beni per un valore di 24 milioni di euro». Al Nord la mafia non usa la lupara, ma le mazzette. L'effetto è lo stesso. È cambiata la mafia o si è solo adeguata al territorio da conquistare? «La mafia adotta il metodo della cosiddetta "colonizzazione", cerca cioè di espandersi nei territori dove c'è ricchezza, cerca di investire e riciclare i proventi delle attività delittuose. Le consorterie hanno dimostrato una notevole capacità di adattamento e di mimetizzazione nel tessuto sociale al fine di non attirare su di se' l'attenzione delle Forze di Polizia. La scelta è stata quella di accreditarsi presso imprenditori, professionisti, politici, funzionari e amministratori pubblici per raggiungere i propri scopi attraverso le promesse di guadagni o più banalmente con il metodo corruttivo». In un'intercettazione il capoclan Luciano Donadio dice: Noi siamo i casalesi di Eraclea". Le cosche al nord godono di autonomia, rispetto alla "casa madre"? «Nel Veneto, come altrove, le diverse organizzazioni mafiose mantengono i collegamenti con le regioni d'origine. A seconda del tipo di organizzazione è evidente che si cerchi di riproporre le stesse strutture criminali della zona di provenienza e di ricevere appoggi da esse. In taluni casi può esistere dipendenza, in altri potremmo parlare di autonomia. Di fatto la criminalità è in continua evoluzione e dimostra grandi capacità imprenditoriali e di adattamento. In particolare, i modelli criminali tradizionali così come venivano rappresentati nel passato sono mutati: oggi le organizzazioni criminali pongono al centro il business e quindi c'è trasversalità e i modelli orizzontali (che prevedono autonomia) coesistono con quelli verticali (che fanno riferimento a strutture gerarchiche)». Camorra, 'ndrangheta e mafia. Sono presenti in Veneto, ma non si registra conflittualità. È possibile che ci sia un accordo? «La criminalità oggi fa affari e non ha come obiettivo prioritario l'affermazione di una supremazia con l'uso delle armi. Se è funzionale al business si fanno accordi e ci si arricchisce anche in ragione del fatto che più le organizzazioni criminali si mimetizzano meno attirano l'attenzione delle Forze di polizia. Una criminalità non conflittuale può realizzare una penetrazione profonda e silente del tessuto economico, politico e sociale di un territorio».Nordest e Grandi opere. Sono sufficienti gli strumenti di controllo esistenti, per impedire che quanto sarà realizzato, diventi business per le cosche? «Gli strumenti di controllo e la normativa italiana rappresentano un modello per tutti i paesi che subiscono l'aggressione delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Lo stesso articolato sistema delle misure di prevenzione costituisce uno straordinario strumento per aggredire i proventi illeciti delle organizzazioni criminali. Le cosche, per mere ragioni di business, immettono nel circuito economico legale, i proventi delle attività illecite tipiche dei grandi gruppi criminali (il traffico di stupefacenti e di armi, l'usura, l'estorsione, la tratta degli esseri umani) facendo venir meno il principio della libera concorrenza di mercato. Il riciclaggio di questi proventi rende il territorio apparentemente e illusoriamente ricco di risorse, ma in realtà svuotato di ogni contenuto imprenditoriale legale e di prospettive future. L'attività di prevenzione è particolarmente complessa ed anticipata in quanto riguarda anche le fasi autorizzative e di aggiudicazione degli appalti, nel corso delle quali non sono infrequenti fenomeni di corruzione e turbativa d'asta. I Prefetti, avvalendosi dei Gruppi Investigativi Antimafia, prevengono le infiltrazioni criminali con lo strumento delle Interdittive Antimafia. Sono, inoltre, numerosi i Protocolli di Legalità tra le prefetture e le confederazioni di impresa, che tengono conto delle linee guida dell'Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione) e del Casiip (Comitato di Coordinamento per l'Alta Sorveglianza delle Infrastrutture e degli Insediamenti Prioritari) che opera in seno al Ministero dell'Interno. Nell'ambito della Direzione Centrale della Polizia Criminale - Servizio Analisi Criminale, opera, inoltre, un gruppo specializzato proprio nell'effettuare questo tipo di controlli, nel 2019 ha infatti controllato 3248 società e in 360 casi sono state evidenziate criticità che hanno portato all'emanazione di provvedimenti interdittivi. Nel Nordest tra il 2014 e il 2018, sono state emesse Interdittive Antimafia pari al 10% del dato nazionale».Il Nordest è lo sbocco, nel sud Europa, della "rotta balcanica". Droga, armi e traffico di esseri umani, passano anche di qua. Ci può essere una saldatura tra i gruppi criminali stranieri e le cosche che operano da noi?«Sarebbe riduttivo pensare che il Nordest sia solo lo sbocco naturale della "rotta balcanica", intesa in senso criminale. Quasi tutti i Paesi dell'area balcanica e, più a nord, i cosiddetti Paesi "cuscinetto" con la Russia, (es: Polonia, Romania) ambiscono ad indirizzare i loro flussi commerciali in quest'area del territorio sino all'Adriatico settentrionale. Oggi la criminalità organizzata non ha confini, il business è l'obiettivo di tutte le consorterie criminali, esiste una trasversalità di interessi e dove sono utili interazioni e collaborazioni le organizzazioni criminali non esitano a condividere i loro traffici. Un esempio per tutti è quello della cosiddetta tratta delle bianche, che viene gestita dalle mafie balcaniche sia nella fase del reclutamento che del trasferimento in Italia. La gestione poi dei proventi, se necessario, viene condivisa con le mafie italiane».

Pag 19 Il parroco padovano ai fedeli: “Accuse false, io querelo” I presunti abusi in Seminario 30 anni fa

San Martino di Lupari. Ha preso la parola, subito dopo la comunione, e ha detto la sua verità: «Contro di me accuse prive di fondamento, procederò con un esposto per calunnia e diffamazione». Don Livio Buso, 64 anni, parroco di San Martino di Lupari, ha scelto ieri sera di parlare alla sua comunità, senza aspettare, senza convivere con il brusio e le mezze parole. In duomo ha affrontato con un foglio scritto e un minuto e mezzo di parole emozionate e sofferte quanto affermato da Gianbruno Cecchin, l'ex assessore di Galliera Veneta che lo ha accusato di abusi sessuali in seminario tra il 1990 e il 1991.L'eucarestia è stata celebrata da un suo collaboratore pastorale, in chiesa c'è una buona partecipazione: famiglie, tanti giovani, ragazze e ragazzi. La liturgia prevede un vangelo «da vertigini», come definito dal sacerdote nell'omelia: «Gesù ci chiede di fare di più. C'è durezza, ma c'è anche un alzare la posta, un andare oltre. E noi non possiamo mai dirci a posto di fronte alla proposta del comandamento dell'amore. Nessuno si salva da solo e senza Gesù non possiamo proseguire nella vita di un cammino di liberazione». La messa procede, dopo la comunione i parrocchiani tornano a sedere. È in questo momento che don Livio prende la parola al microfono e legge come sempre gli avvisi parrocchiali: c'è la festa del carnevale, la riunione del consiglio degli affari economici, gli appuntamenti. Il primo marzo arriverà per la prima volta il vescovo Michele Tomasi per il percorso del battesimo di alcuni adulti. Don Livio, però, non si ferma qui.«Un avviso particolare», dice. Si prende una pausa, di alcuni secondi, e si schiarisce la voce. Ha un foglio in mano, legge: «Penso che molti di voi abbiate letto o sentito in questi due giorni le pesanti accuse nei confronti miei e di un altro sacerdote». La platea ascolta, in silenzio. Alcuni restano sorpresi, ma molti sanno a cosa si riferisce il parroco. Che va avanti e pronuncia le parole forse più difficili e solenni: «Vi assicuro, in coscienza, di fronte a Dio, che quanto dichiarato è privo di fondamento». Poi aggiunge: «Pur in un indescrivibile dolore, nel profondo del cuore sono sereno». Al termine di ogni celebrazione, nella giornata di ieri, è stato comunicato come don Livio respingesse le accuse; alle porte della chiesa sono stati distribuiti i fogli con il comunicato stampa diramato dalla diocesi di Treviso. Don Livio anticipa che adirà le vie legali: «In quanto parte lesa procederò con un esposto per calunnia e diffamazione». Poi conclude, con parole di misericordia anche nei confronti del suo accusatore: «Vi chiedo di pregare per noi preti, per il nostro seminario, per la chiesa tutta e per la persona che ha provocato questo dolore». Prende commiato dicendo semplicemente «grazie». La solidarietà - subito dopo la sua riflessione - gli viene tributata anche dal celebrante: «Diciamo noi grazie a te, don Livio, perché ci sei. E noi siamo con te». Si chiude con la benedizione finale ed il canto. Nel frattempo i parrocchiani commentano, nessuno dubita del proprio prete «che sta facendo moltissimo e dal suo arrivo ha saputo coinvolgere tante persone nella vita della comunità».

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 18 Treviso, denunciati abusi. Nota della diocesi di Francesco Dal Mas “Stiamo verificando le accuse dell’ex seminarista”

Treviso. Gianbruno Cecchin, 48 anni, professore di filosofia, bioetica e antropologia filosofica, ha dato mandato ai suoi legali di presentare in Procura della Repubblica a Treviso una querela contro due sacerdoti del Seminario per presunti abusi sessuali e violenze psicologiche avvenuti 29 anni fa, poco dopo l’ingresso in comunità vocazionale (a 19 anni). Il fascicolo sarà domani nelle mani degli inquirenti. Cecchin ha descritto i traumi che avrebbe subito in una lettera resa pubblica, pur essendo in attesa di un incontro richiesto e fissato col vescovo di Treviso Michele Tomasi. «È con dolore ma anche con serenità che stiamo procedendo per valutare i passi da fare, in tutte le sedi» fa sapere il vicario generale della diocesi di Treviso, monsignor Adriano Cevolotto, «ribadendo la volontà di chiarezza, trasparenza e verità, esprimiamo la nostra fiducia nei confronti dei due sacerdoti coinvolti e del loro lavoro, che è una fiducia in tutto il presbiterio diocesano». Una fiducia che è confermata anche «nei confronti dell’ambiente del Seminario, che nel corso degli anni ha saputo dimostrare un impegno e una serietà nell’accompagnare tanti giovani, nel discernimento vocazionale, che non sono mai stati messi in dubbio». Il primo incontro con il vescovo Tomasi, fissato a inizio febbraio, causa precedenti impegni del presule - «disponibile fin da subito all’accoglienza e all’ascolto», come precisa il vicario - è stato posticipato da Cecchin, mentre all’appuntamento rimesso in agenda per la prossima settimana l’interessato ha scelto di rinunciare e di agire diversamente. «Di certo, dopo aver ricevuto la lettera, il vescovo si è attivato per raccogliere gli elementi necessari e affrontare la questione con tutta la serietà del caso» conferma Cevolotto. «La lotta agli abusi nella Chiesa portata avanti con fermezza da papa Francesco è importantissima – conclude il vicario generale – e vede impegnata la diocesi di Treviso, insieme a tutte le diocesi, per l’ascolto, l’accoglienza, il rispetto, per la trasparenza e per la verità. Una verità e un rispetto che dobbiamo anche alle persone e alle Istituzioni accusate, che hanno diritto di fare i passi necessari per difendersi e tutelare la propria onorabilità».

IL GAZZETTINO di domenica 16 febbraio 2020 Pag 11 Il vescovo: “Quegli abusi? Inverosimili” di Elena Filini Vittorio Veneto, monsignor Pizziolo “sconcertato” dalle accuse dell’ex seminarista

Treviso. «Una storia inverosimile. Ho lavorato con questi sacerdoti per oltre trent'anni. Mi fido di loro più che di me stesso». È durissimo Monsignor Corrado Pizziolo nei confronti della querela sporta da Gianbruno Cecchin, l'ex seminarista ed ex assessore a Galliera Veneta e oggi libero professionista che ha denunciato di aver subito abusi a Treviso nel 1991 da due sacerdoti, uno di San Donà di Piave e l'altro di San Martino di Lupari. I due sacerdoti non commentano. Ma il Vescovo di Vittorio Veneto si dice «sconcertato» dalle accuse di Cecchin: operava nello stesso seminario al tempo dei fatti denunciati e conosceva tutti i protagonisti di questa vicenda. Non una difesa d'ufficio dunque la sua. «Ma non scherziamo. Io ho frequentato in maniera approfondita questi sacerdoti ed escludo categoricamente che queste accuse siamo vere». Conosce Cecchin? «Ero in seminario anch'io a quel tempo. Ricordo questa persona, entrata nella comunità vocazionale. Lo vedevo in Seminario. C'è stato meno di un anno». Al tempo avevate avuto avviso dei motivi per cui Cecchin aveva lasciato il seminario? «No, nessun avviso. E nessun accenno mai. Neppure una chiacchiera, una parola suggerita. Nulla di nulla. E non potrebbe essere diversamente, visto che stiamo parlando di persone dalla reputazione cristallina. Poi, dopo 30 anni, arrivano queste accuse infamanti». Esclude il fatto che una persona vittima di abusi possa impiegare del tempo per affrontare fatti così delicati? «Ho lavorato fianco a fianco a questi preti per trent'anni. Conosco profondamente le persone che accusa. Sono accuse inverosimili. Una follia». Ha sentito oggi i due confratelli? «Certo, li ho chiamati subito. Sono distrutti. Si immagini se lei si sveglia un giorno e si vede additata sui giornali in questo modo». Oltre all'accusa, l'ex seminarista racconta di subire costantemente minacce di morte. «Ripeto, per me è una follia. Su queste persone non è mai circolata alcuna voce, nulla di nulla. Sono io che chiedo a Cecchin cosa gli sia venuto in mente». Perché sottolinea che Cecchin è entrato in seminario attraverso la comunità vocazionale? «Perché c'è differenza. Chi fa questo percorso abbraccia la fede da adulto. Cecchin era maggiorenne». Cosa significa questo? «Non era un bambino. Anche ammesso che avesse visto o subìto qualcosa di strano, avrebbe avuto la possibilità di denunciare e opporsi immediatamente, non dopo 30 anni». Secondo lei perché l'incontro tra Cecchin e il Vescovo è saltato? «Questo bisogna chiederlo a Cecchin. Mi chiedo perché non abbia voluto incontrare il vescovo Tomasi. Non mi sembra una cosa da sottovalutare, sarebbe stata l'occasione per un confronto chiaro e diretto». Lei continua ad escludere che i fatti denunciati siano avvenuti. «Nella maniera più assoluta. Senza alcun dubbio. Chiunque conosca questi due sacerdoti si mette a ridere di fronte ad accuse di questo tipo. Mi fido di loro più che di me stesso». Perché dice che, a prescindere dall'esito di questa storia, i due sacerdoti sono già segnati? «Tutto si chiarirà ne sono certo. Ma intanto il male è già fatto. Tutti pedofili, tutti lazzaroni. Loro si difenderanno e si capirà davvero quale sia la verità. Ma intanto oggi la loro reputazione è distrutta. E questo danno non si cancella». Cosa si sentirebbe di dire a Gianbruno Cecchin se accettasse un colloquio? «Gli chiederei davvero perché sta facendo tutto questo».

Pag 14 Lavoratori introvabili, a Nordest 4 su 10 di Raffaella Ianuale Studio della Cgia di Mestre, ecco le professioni più richieste: tecnici informatici, badanti ma anche operai metalmeccanici

Venezia. Lavoratori introvabili a Nordest. I posti ci sono, ma in quattro casi su dieci non vengono coperti perché i candidati non hanno il profilo professionale richiesto o non sono disposti a intraprendere determinate carriere. Due le tipologie di impieghi per i quali non si reperiscono reclute: personale altamente qualificato da una parte e figure con bassi livelli di competenze e specializzazione dall'altra. I lavoratori maggiormente richiesti e che la domanda non riesce a soddisfare sono i tecnici informatici (quindi programmatori di hardware e software, ma anche addetti alla manutenzione dei computer), le badanti e gli operai specializzati del settore metalmeccanico, nello specifico saldatori, fresatori, lattonieri, ma anche montatori di carpenteria metallica, fonditori e fabbri ferrai. Un quadro che conoscono gli imprenditori del Nordest in continuo affanno quando si stratta di assumere e in questo territorio a mancare è soprattutto il personale qualificato. Se si allarga lo spettro, però, scarseggiano pure giovani italiani disposti a fare mestieri che s'imparano sul campo come l'idraulico, il calzolaio e il carpentiere. Insufficienti rispetto alla richiesta anche cuochi, camerieri e camionisti o in ogni caso persone con le patenti C e D per guidare mezzi pesanti: in questo settore a livello nazionale si sono persi 25mila padroncini in dieci anni. Il primato italiano nella difficoltà a reperire personale spetta a Gorizia, ma nella parte alta della classifica si trovano pure Trieste, Pordenone, Vicenza e Treviso. TUTTI I NUMERI - A quantificare il fenomeno è l'elaborazione dell'Ufficio studi della Cgia sui risultati dell'indagine condotta sulle entrate programmate dagli imprenditori lo scorso mese di gennaio (studio Unioncamere-Anpal, Agenzia nazionale politiche attive lavoro, con Sistema informativo Excelsior). L'indagine svela che il 32,8 per cento delle assunzioni previste dagli imprenditori sono complesse da fare a causa dell'impreparazione o dell'assenza dei candidati. Questo significa che su poco meno di 500 mila assunzioni a livello nazionale in calendario a gennaio 2020, per 151.300 gli imprenditori intervistati hanno segnalato molte difficoltà a coprire i posti di lavoro di cui il 15,7 per cento per mancanza di candidati (poco meno di 72.500) e un altro 13,8 per cento per la scarsa preparazione (circa 63.700). Nella classifica delle Regioni le realtà che occupano i primi posti sono Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Veneto. «L'offerta di lavoro si sta polarizzando spiega il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo da un lato gli imprenditori cercano sempre più personale altamente qualificato, dall'altro figure caratterizzate da bassi livelli di competenze e specializzazione. Se per i primi le difficoltà di reperimento sono strutturali a causa anche dello scollamento che in alcune aree del Paese si è creato tra la scuola e il mondo del lavoro, i secondi sono invece profili che spesso i nostri giovani rifiutano e solo in parte vengono coperti da stranieri». PROVINCE IN CRISI - A livello provinciale la situazione più critica si registra a Gorizia. Qui gli imprenditori sostengono che a fronte di 1.430 assunzioni programmate, quasi la metà (48,1%) è difficile da coprire per mancanza di lavoratori (28,2%) o per poca preparazione (17,%). A Trieste su 1.520 neo assunti l'incidenza di difficile reperimento è del 45,5%, a Vicenza su 9.140 ingressi è del 44,6%, a Pordenone a fronte di 2.820 nuovi occupati il 44,2% è introvabile. I numeri si fanno anche più alti a Treviso, dove gli imprenditori erano disposti a dare 8.540 nuove opportunità di lavoro, delle quali il 42,3% sarà restituita al mittente. Questo comporta un forte rallentamento nella crescita dell'occupazione e non per mancanza di offerta. «Quest'anno - spiega il segretario della Cgia Renato Mason - si profila una crescita dell'occupazione a livello nazionale dello 0,4 per cento, in calo rispetto allo 0,6 registrato l'anno scorso. Si rischia di interrompere un trend favorevole soprattutto per i giovani. Secondo i dati Istat del 2019 si è avuta infatti una flessione significativa del tasso di disoccupazione, raggiunto grazie alla buona performance dell'apprendistato che costituisce ancora adesso il contratto più utilizzato per consentire agli under 25 di entrare nel mercato del lavoro». Altro fenomeno tutto italiano sta nel fatto che pur avendo un numero di diplomati e laureati tra i più bassi d'Europa, gli occupati sovraistruiti, cioè che ricoprono mansioni inferiori rispetto al titolo di studio, sono sei milioni: il 24,2% dei lavoratori totali e il 35% di quelli con diploma o laurea.

La difficoltà di trovare giovani disposti a fare gli idraulici nelle parole di Francesco Costantini, 51 anni, titolare della Gas Clima Service di Mestre, una ditta individuale con dodici dipendenti che si occupa di impiantistica, dal riscaldamento al condizionamento. Le manca personale? «Diciamo che ho una realtà geriatrica e non me ne vogliano i miei dipendenti: Sandro ha 58 anni, Giorgio 55, Michele 54, il più giovane è Christian e ha 36 anni. Quando cerco di formare dei giovani è un disastro». Quali sono le difficoltà? «La prima cosa che chiedono è quanto si guadagna e se si lavora al sabato. Poi sono più i giorni che rimangono a casa rispetto a quelli che lavorano. Sono le mamme a chiamarmi per dirmi che il figlio non si sente bene e non è riuscito ad alzarsi, per poi trovare su Facebook le foto della serata prima trascorsa in discoteca». Quanti anni hanno? «Tra i 18 e i 20 anni e ancora non se la cavano da soli. Poi c'è un altro problema: la lussazione del pollice». In che senso? «Lavorano con il cellulare in tasca e riescono a rispondere ai messaggi senza nemmeno estrarlo. Sono incredibili in questo». Esistono scuole per idraulici? «No, per questo collaboro con gli istituti tecnici della città nell'ambito dell'alternanza scuola-lavoro. Il mio desiderio è formare i giovani e fargli ottenere i patentini che servono per fare questo lavoro. I patentini costano quindi faccio un investimento» Quanto guadagna un dipendente in questo settore? «Nei 5 anni del contratto di formazione 800 euro, un operaio appena assunto 1.000 euro e un operaio specializzato fino a 1900 euro».

Il calzolaio, un lavoro in via d'estinzione. Non ci sono giovani che vogliano farlo e i negozi chiudono come spiega Paolo Favaretto, 60 anni fra pochi giorni, e bottega a Venezia, nel sestiere di Dorsoduro a pochi passi dall'Università Ca' Foscari. Da quanti anni fa questo lavoro? «L'attività è stata aperta da mio papà nel 1970, poi lui nel 1986 è deceduto e sono subentrato io. Quando andrò in pensione chiuderò. Come stanno ormai facendo tutti, anche botteghe storiche con molta tradizione». I suoi figli non lavorano con lei? «Le mie figlie di 35 e 27 anni sono una a Berlino e l'altra in Inghilterra. Hanno due ottimi lavori e non se la sentono di mollare tutto». Nessun giovane le chiede di imparare? «Magari potessi insegnare il mestiere. Ho cercato giovani, ma non li trovo. E se si presentano non hanno la pazienza di imparare e crearsi una clientela. Vogliono fare soldi possibilmente tanti e subito. Vorrebbero il terreno già spianato e tutto facile, invece devono mettere anche qualcosa di loro se vogliono farcela». Quante botteghe sono rimaste? «I calzolai sono 5-6 a Mestre e altrettanti a Venezia, ma quando i titolari invecchiano spariscono anche le loro botteghe». Dà soddisfazione il suo lavoro? «Ci si può vivere bene, anche se bisogna diversificare l'attività. Non si fa più la bella riparazione di un tempo di scarpe importanti. Ci sono tante calzature da pochi soldi che una volta rotte si buttano. Ma vendo anche articoli per cani, da sempre perché un tempo i guinzagli erano solo in cuoio, pelletteria, cinture e portafogli».

CORRIERE DEL VENETO di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Cercasi progetto di Stefano Allievi

Le elezioni regionali sono alle porte. Tutto tranne che impreviste: lo si sa da cinque anni. Ci si aspetterebbe che un partito, la cui principale attività è per l’appunto partecipare alle elezioni (sarebbe bello che facesse anche altro, ma siamo realisti), si preparasse per tempo. Che poi non sarebbe difficile: uno straccio di programma, un (o una) leader pronto a correre. La Lega, e il centro-destra, non ha di questi problemi. Il leader vincente c’è già, si chiama Zaia, e nessuno lo mette in discussione: corre per vincere, anzi, rivincere, forse strarivincere. E poiché il destino di tutti gli altri dipende dal suo effetto di trascinamento, nessuno ipotizza alternative. A maggior ragione stupisce che l’opposizione non sia minimamente preparata. Oltre tutto, proprio perché difficilmente si corre per vincere, ma solo per piazzarsi onorevolmente preparandosi per il prossimo giro, sarebbe ragionevole aspettarsi una certa preparazione, una capacità e una dinamicità di azione e di proposta. Si può essere più radicali e critici, in situazioni come queste. Sei persino deresponsabilizzato dal rischio della gestione, potresti fare solo proposte. Eppure, niente di tutto questo. Un po’ perché è una regione così: adagiata sui suoi rituali. Neanche chi governa, dopo tutto, lo fa. Ma ha il vantaggio di non averne bisogno: ha già il potere, che è il più efficace dei collanti. Non ha nemmeno bisogno di un programma: basta la narrazione, ridotta a slogan, incarnata in una persona. Nel caso del Veneto: «più autonomia». Come, per fare cosa, con quale personale adeguatamente preparato allo scopo, non ce n’è traccia. Come per un’antica pubblicità: basta la parola. Che poi il prodotto finale sia davvero più efficace, settore per settore, problema per problema, non viene neanche approfondito: lo si dà per scontato. Sarebbe precisamente compito dell’opposizione fare questa analisi critica, ed eventualmente fare le sue proposte realizzative, o le sue controproposte. L’ha fatto? No. Se uno dovesse chiedere quale idea di Veneto, e quali proposte per i prossimi dieci anni, in alternativa a quelle di Zaia e della Lega, ha il Partito Democratico, che risposta potrebbe trovare? Ma vale anche per la sinistra di Liberi e Uguali, se esiste ancora, e per il Movimento 5 Stelle. I soli che ce l’hanno sono, paradossalmente, gli autonomisti radicali. La cui proposta è «ancora più autonomia» (o magari indipendenza). Come, nel concreto, per fare cosa, con quale classe dirigente e preparazione, resta naturalmente ancora più vago. Il Pd tuttavia è l’attore storicamente principale, almeno per ora, dell’opposizione. È giusto pretendere di più, e criticare più severamente. Nell’ultimo quinquennio (ma potremmo dire nell’ultimo quindicennio – l’era Zaia, per capirci): quale idea del Veneto che voleva ha dato il Pd? Nessuna. Perché non l’ha preparata. Perché non ha mai fatto un bilancio di quanto fatto e (soprattutto) di quanto non fatto. Perché non ha cresciuto una classe dirigente, ma ha solo riprodotto e reiterato (e lottizzato) quella esistente. È significativo il dibattito (anzi, la vuotezza del dibattito) delle ultime settimane. Nessuna discussione su progetto e programma, e magari utilità della propria funzione: solo sul leader. E si è finito, come sempre, per scegliere un papa straniero, un esterno: oggi il vicesindaco di Padova Lorenzoni, in passato Bortolussi, prima ancora Carraro (e in fondo anche la leader del Pd della scorsa campagna elettorale regionale, Moretti, era stata paracadutata dall’alto). Peraltro, obtorto collo, con grandi divisioni interne, nessuna vera convinzione, e quindi un probabile scarso coinvolgimento. Solo perché si sa – ed è la peggiore delle accuse – che nessun interno ha alcun appeal all’esterno, per cui meglio affidarsi ad altri (anche perché le motivazioni a favore del leader interno sono la certificazione di una fragilità, e l’anticamera di una sconfitta: perché se no si perdono dei posti in consiglio regionale, e quindi ci saranno meno spoglie da dividere, perché così ci si può ricandidare per un terzo mandato, o semplicemente perché si vuole dire che si ha un’identità, che non si vede in altro modo). Per fare cosa? Per quale Veneto? Se ne parlerà, forse, un’altra volta…

Pag 7 Davide, professore di social per ragazzi e imprenditori. «Insegno l’etica nel web» di Andrea Priante

Nel 2014, a Cittadella, una ragazzina di 14 anni salì sul tetto di un hotel abbandonato e si gettò di sotto. Da diversi mesi su Ask.fm - un social network ideato in Lettonia - i bulli la tormentavano con frasi agghiaccianti: «Sei una ritardata, grassa e culona», «Ucciditi», «Non sei normale, curati: nessuno ti vuole, nessuno». Sei anni dopo, un suo ex compagno di scuola gira l’Italia parlando agli studenti delle insidie del web. Si chiama Tommaso, è padovano, e dedica parte della sua vita a impedire che altri adolescenti facciano la stessa fine della sua amica. Lo fa grazie all’associazione «Social Warning - Movimento Etico Digitale», una no profit che si batte contro cyberbullismo, hater e leoni da tastiera. È formata da una rete di 150 volontari che finora hanno incontrato gratuitamente più di venticinquemila studenti e settemila genitori. Il fondatore del Movimento è un vicentino, si chiama Davide Dal Maso e oggi ha 24 anni. L’idea gli venne quando aveva più o meno l’età di Nadia. «Mi fecero delle fotografie in cui apparivo davvero molto goffo», ricorda. «Qualcuno ebbe l’idea di farle circolare da un telefonino all’altro e iniziarono le prese in giro. Più che una ex vittima di bullismo mi definirei il protagonista di un brutto scherzo che però fu la molla che mi spinse a riflettere sulle insidie delle nuove tecnologie». A dirla tutta, ci fu anche un altro episodio. «Il video sexy girato da una ragazzina della mia zona. Lo diffuse il suo fidanzato e lei ne restò così scioccata che per mesi non venne neppure a scuola». Da tutto questo è iniziata la carriera di Dal Maso che l’ha portato, nel 2019, a essere inserito da Forbes tra i primi cinque under 30 italiani più influenti nel settore Education, mentre nel 2018 gli è stato conferito il premio Italia Giovane per «la sua storia, esperienza personale e professionale nel contrasto al cyberbullismo, che sono esempi positivi che danno lustro al Paese e forte stimolo per le nuove generazioni». Mentre gran parte dei suoi coetanei ancora studia, lui all’università ci va per fare lezione, segnando pure un record: «Sono stato il più giovane a tenere una docenza, nella storia dell’ateneo di Padova», rivendica con orgoglio. «Ma ho collaborato anche con Verona e Venezia, e a fine mese parlerò alla Bocconi. Nelle mie lezioni affronto il tema dell’imprenditoria giovanile e tento di dare strumenti ai ragazzi per promuovere i loro talenti». Detta così, non è molto chiaro quale sia il suo lavoro. Lui lo spiega in questi termini: «Faccio il “social media coach” per conto di grandi marchi italiani». In pratica gli imprenditori lo pagano perché insegni loro come migliorare gli affari attraverso un corretto utilizzo di Facebook, Twitter, Instagram e piattaforme simili. Quando non fa il consulente, Dal Maso sale in cattedra. E non soltanto all’università: per la prima volta in Italia una scuola superiore - il Centro di formazione professionale di Trissino - quest’anno ha inserito, all’interno del proprio programma, l’Educazione civica digitale. «Due ore di lezione la settimana - spiega Dal Maso - per spiegare agli studenti il corretto utilizzo delle nuove tecnologie. Si imparano tante cose. Ad esempio come “raccontarsi” correttamente sui social ma anche quale sia il modo migliore per rispondere a un insulto su Facebook o le possibili conseguenze del revenge porn». Non è un caso che l’insegnamento della materia sia sperimentato proprio in quella scuola: due anni fa, al Cfp di Trissino il preside fu costretto a vietare la diffusione su Instagram di immagini riprese all’interno dell’istituto, perché circolavano video di alunni che sfottevano gli insegnanti e di studentesse intente a truccarsi durante la lezione. «È importante la sensibilità dimostrata dal dirigente Claudio Meggiolaro e dall’assessore regionale all’Istruzione, Elena Donazzan: è solo grazie a loro che è stato possibile introdurre l’Educazione civica digitale in una scuola, portando così avanti un progetto innovativo e molto utile». Sia chiaro: non è una mera questione di bon ton applicato a computer e telefonini. Stando ai dati raccolti dall’Osservatorio scientifico di Social Warning, quattro ragazzi su dieci tra i 12 e i 16 anni trascorrono su internet almeno due ore al giorno, imbattendosi nell’esposizione di immagini pornografiche ma anche in episodi di bullismo. Eppure, a fronte dei rischi, solo il 55 per cento dei genitori impone ai propri figli delle limitazioni rispetto all’uso della Rete. E quasi sempre, anche questi «paletti» si traducono in un tempo massimo oltre il quale scatta l’ordine di interrompere la navigazione sul web. «L’errore più frequente fatto dagli adulti - assicura Dal Maso - è quello di demonizzare le nuove tecnologie. Non si rendono conto che spingere i ragazzi a rinunciarvi, non soltanto è inutile ma si potrebbe rivelare perfino dannoso. Facebook, Instagram, Tik Tok e gli altri social network, se utilizzati nel modo corretto, possono diventare occasione di crescita personale oltre che una prospettiva di tipo lavorativo». Piaccia o meno, se la «Generazione Z» (come viene identificata quella degli under 25) va educata a un uso consapevole di tablet e smartphone, i genitori devono almeno sforzarsi di conoscere questi strumenti. «Gli adulti sono in imbarazzo nell’impartire regole precise ed esplicite per vivere serenamente il web in famiglia - ammette Dal Maso - forse per la sfiducia con la quale molti di loro hanno sempre visto il digitale». Eppure è sempre più necessario costruire un ponte tra genitori (analogici) e figli (digitali): «È l’unico modo - conclude - per arrivare a un sano equilibrio tra la vita on-line e quella off-line».

Pag 9 «Quei due preti hanno abusato di me a Treviso e ancora mi minacciano» di Stefano Bensa Una lettera dopo 29 anni: «Ecco perché solo ora riesco a parlare». La Curia assicura «trasparenza e verità». «Disposti fin da subito a incontrarlo»

Galliera Veneta (Padova). «È stato mio marito a convincermi: “Liberati da questo peso, finiscila e parla”, ha insistito. Ed è in quel momento che ho deciso di scrivere a monsignor Michele Tomasi e di divulgare pubblicamente la mia storia». Gianbruno Cecchin, 49 anni, docente universitario di Filosofia, collaboratore del Bo di Padova ed ex assessore a Galliera Veneta, mantiene una certa calma - sia pure con toni decisi - mentre conferma i contenuti della lettera di denuncia inviata al vescovo di Treviso, a Papa Francesco e, fra gli altri, ai vescovi emeriti Gardin e Magnani. Lettera nella quale denuncia gli abusi che avrebbe subito trent’anni fa, nel seminario del capoluogo della Marca, da parte di due preti tutt’oggi alla guida di parrocchie nel Padovano e nel Veneziano. Abusi proseguiti per un anno, cominciati «con pesanti approcci» e proseguiti «con una decina di rapporti completi». «Sono stato traumatizzato: ero appena maggiorenne, ho anche pensato di farla finita. Ho vissuto per vent’anni in astinenza, dopodiché ho conosciuto quello che sarebbe divenuto mio marito». E da lì è cambiato tutto. «Sì, ero schiacciato da un macigno e mi ha convinto a liberarmene. Anche perché vogliamo concentrarci sulla nostra vita, abbiamo deciso di adottare due bambini e costruire una famiglia». Nella sua lettera racconta di aver cominciato a frequentare il seminario perché voleva diventare prete. «Mi avvicinai alla chiesa come molti ragazzi: a 8 anni ero chierichetto, a 15 facevo l’animatore a Galliera dopodiché, a 18, scelsi la via del Gruppo Diaspora, di orientamento vocazionale per giovani. Non avrei mai immaginato che quel percorso si sarebbe tramutato in un inferno». Cosa accadde? «Quei due sacerdoti cominciarono ad approcciarsi pesantemente fino a quella decina di rapporti completi che non riesco ancora a dimenticare. Era il 1990-1991. Sono stati anni di dolori e atroci sofferenze». Li ha più incontrati? «Ancora oggi mi scrivono o mi fanno arrivare messaggi intimidatori». Per cui ha scritto al nuovo vescovo di Treviso, Michele Tomasi. Perché ha atteso lui? «I suoi predecessori erano tutti della zona, non avrebbero mai fatto trapelare la cosa, anche se monsignor Gardin (vescovo di Treviso fino al 2019, ndr .) destituì quei due sacerdoti trasferendoli nel Veneziano e nel Padovano. Dopodiché Papa Francesco ha iniziato ad affrontare il tema della pedofilia convocando il summit di Roma e ho pensato: Tomasi è nuovo, viene dall’Alto Adige, magari può fare qualcosa». La Diocesi assicura di averle fissato un incontro. «Ho dovuto scrivere due lettere prima di ricevere una telefonata: il primo colloquio era previsto il 10 febbraio ma l’hanno cancellato spostandolo al 21. Quindi hanno deciso di annullarlo... Facciano ciò che vogliono: io sono stato chiaro». Lunedì presenterà una denuncia in Procura. Cosa spera di ottenere? «So che, a distanza di tanto tempo, il reato potrebbe essere caduto in prescrizione (l’abuso sessuale su maggiorenne va denunciato entro 6 mesi dai fatti, ndr .) ma non m’importa: se ci sarà da combattere in tribunale combatterò. E penso a quei ragazzi che tutt’oggi frequentano il Palazzo Vescovile e le parrocchie di quei due preti. Comunque sia, al contrario della giustizia terrena Dio non archivia». Ha perso la fede? «Mi sono fatto sbattezzare. Nel mio futuro c’è il matrimonio e l’adozione. Sono queste le mie priorità».

Treviso. «È con dolore ma anche con serenità che stiamo procedendo per valutare i passi da fare, in tutte le sedi». Ma pur assicurando «volontà di chiarezza, trasparenza e verità» la Curia di Treviso esprime «fiducia nei confronti dei due sacerdoti». Il vicario generale della Diocesi della Marca, monsignor Adriano Cevolotto, affida ad una nota la replica alle accuse dal professor Gianbruno Cecchin, e difende «tutto il presbitero diocesano» nonché «l’impegno e la serietà» del seminario. Cevolotto, peraltro, assicura la disponibilità del vescovo Tomasi («fin da subito») ad incontrare il docente, smentendo ogni ritardo e, soprattutto, di aver disdetto gli appuntamenti. «L’incontro di inizio febbraio - afferma il prelato - è stato posticipato dall’interessato, mentre a quello della prossima settimana la persona ha scelto di rinunciare». E ribadendo la lotta agli abusi nella Chiesa, il vicario puntualizza come «anche le persone e le istituzioni accusate hanno diritto di fare i passi necessari per difendersi».

IL GAZZETTINO di sabato 15 febbraio 2020 Pag 9 Prof denuncia dopo 30 anni: “Io violentato in seminario” di Giuliano Pavan Docente universitario di Filosofia fa i nomi degli aguzzini, ora parroci a Venezia e Padova

Treviso. «Infami», «vermi», «approfittatori», per arrivare fino a «criminali». Un atto d'accusa durissimo, quello di Gianbruno Cecchin, 48enne docente universitario di filosofia, bioetica e antropologia filosofica oltreché libero professionista nell'ambito della comunicazione e delle risorse umane, che ha deciso di denunciare pubblicamente gli abusi sessuali che sostiene di aver subito quando frequentava il seminario vescovile di Treviso. Sono passati quasi 30 anni da quelle violenze, quasi sei lustri fatti di silenzi e sofferenze. «Dio non archivia» scrive il professore, dando mandato ai suoi legali di depositare in Procura a Treviso una querela contro i suoi due aguzzini: all'epoca dei fatti erano il responsabile della Comunità Vocazionale e il suo assistente, ora sono entrambi parroci, uno nel veneziano e l'altro nel padovano. Il fascicolo sarà nelle mani degli inquirenti lunedì, quando gli avvocati saliranno al terzo piano del palazzo di giustizia di via Verdi. Ma una lettera in cui il 48enne descrive i traumi conseguenti agli abusi sessuali è già stata recapitata al vescovo di Treviso, monsignor Michele Tomasi, e per conoscenza anche a Papa Francesco, al presidente della Cei e arcivescovo metropolita di Perugia - Città della Pieve, cardinale Gualtiero Bassetti, al prefetto della Congregazione per il clero, cardinale Beniamo Stella, e ai due vescovi emeriti di Treviso, monsignor Gianfranco Agostino Gardin e monsignor Paolo Magnani. LO SFOGO - A spingere il docente a trovare il coraggio di denunciare le vessazioni di cui dice di essere stato vittima nell'anno del seminario, è stato per sua ammissione il summit che si è svolto in Vaticano (che definisce «il luogo dove alberga Satana») sul tema della pedofilia. «La mia vicenda è quella di tanti ragazzi vissuti all'ombra del campanile, negli ambienti della chiesa fin da piccolo - scrive Cecchin - A 8 anni ho iniziato a fare il chierichetto, a 15 l'animatore nella mia parrocchia, a 18 a frequentare il Gruppo Diaspora perché sentivo una sorta di chiamata a diventare prete. L'anno successivo, dopo la maturità, sono entrato in comunità vocazionale. Ero pieno di vita e di sogni, volevo fare un'esperienza forte per capire meglio la mia vocazione - continua -. Ma è stato proprio lì dentro, nelle maledette mura del seminario, altro luogo satanico, che è avvenuto quello che mai avrei pensato mi succedesse. Per un anno non ho avuto la forza di andarmene, anche perché erano tempi in cui ancora non si poteva parlare di pedofilia e di abusi sessuali da parte di preti». Il 48enne racconta della notte passata a dormire in macchina dopo essere fuggito dal seminario per cercare aiuto all'episcopio parlando con l'allora vicario generale, monsignor Angelo Daniel, oggi vescovo emerito di Chioggia. Non riuscì a dire nulla. Era marzo, anno 1991. Cecchin ha lasciato il seminario a luglio: in quei quattro mesi avrebbe subito altre violenze. Molte dice di averle rimosse, ma più di una decina le ricorda meticolosamente. «Non si possono dimenticare quei pomeriggi terribili e nefandi a fare direzione spirituale all'interno di quella camera da letto». Il professore parla di rapporti sessuali, di costrizioni, di vessazioni psicologiche. e anche di minacce: «Ancora oggi - afferma - vengo minacciato di morte da questi preti che hanno abusato sessualmente di me o mi fanno arrivare messaggi da altri preti o uomini di curia: Se parli sei morto». L'INCONTRO - La Diocesi di Treviso conferma: «La persona aveva un appuntamento già fissato con il vescovo Michele Tomasi la prossima settimana - fa sapere il vicario generale, monsignor Adriano Cevolotto - L'incontro era stato concordato per poter ascoltare con massima disponibilità la persona che, evidentemente, ha però scelto di agire diversamente». La lettera di Cecchin è stata recapitata il 16 dicembre scorso, ma allora l'uomo non ha avuto risposta. Il vescovo Michele Tomasi gli ha telefonato dopo aver ricevuto una seconda missiva a fine gennaio. Un incontro era stato fissato il 10 febbraio, poi rinviato dal monsignore per un impegno improvviso. Si sarebbe dovuto tenere venerdì prossimo, il 21 febbraio, ma Cecchin ha declinato l'invito: «Io voglio che il vescovo agisca, non che mi parli - dichiara -. Mi sono fatto sbattezzare perché non credo più in Dio e nella giustizia divina, ma credo in quella terrena e pretendo che sia fatta». La svolta è arrivata nel 2010. Dopo aver pensato più volte al suicidio, il professore ha conosciuto il suo attuale compagno, un medico francese, durante l'anno di volontariato assieme a Medici senza Frontiere passato ad Haiti dopo il terremoto. «Lì mi sono ritrovato e ho scoperto anche l'amore. È stato lui a dirmi che dovevo togliermi questo peso per poter essere felice. Dovevo farlo, perché vogliamo sposarci e adottare due bambini. Ecco perché ha deciso di denunciare».

LA NUOVA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 33 “Io seminarista insidiato da preti pedofili”. Denuncia le violenze subite dopo 29 anni di Giuliano Doro, Andrea Passerini e Giovanni Cagnassi Il vescovo di Treviso: “Ero pronto a riceverlo”. Un parroco veneziano: sono sereno

Galliera Veneta. Un dolore che tormenta la carne e annienta ogni desiderio di serenità. Un male che si annida nelle viscere. Ogni ora, ogni giorno. Per 29 anni. Senza fine. «Dovevo gettare fuori da me stesso questa cosa che è all'origine del mio male». Così Gianbruno Cecchin, 49 anni, docente di filosofia con un passato da assessore a Galliera Veneta, ha deciso di rendere pubblico quel male interiore che lo attanaglia. «Solo ora ho trovato la forza di denunciare gli abusi sessuali, le umiliazioni e le gravi vessazioni che ho subito durante l'anno in cui ho frequentato il seminario di Treviso tra il 1990 e il 1991». Attacca così la lettera di denuncia dei presunti abusi da parte di preti pedofili indirizzata a papa Francesco, ai vertici della Chiesa per le diverse competenze e al vescovo di Treviso Michele Tomasi e al suo predecessore, monsignor Paolo Magnani. La sua storia è simile a quella di tanti altri ragazzi che agli inizi degli anni Novanta vivono all'ombra del campanile: chierichetto a 8 anni, animatore in parrocchia a 15 e poi la frequentazione dei gruppi dell'Azione cattolica. Ottenuta la maturità, Cecchin entra nella comunità vocazionale del seminario di Treviso. Ed è tra queste «maledette mura, in queste maledette stanze dell'orrore» che succede l'irreparabile, secondo la sua versione. Parole impresse sulla carta che lunedì mattina si trasformeranno nell' atto d'accusa che sarà depositato alla Procura del tribunale di Treviso. «Denuncerò gli abusi sessuali, renderò noti i nomi dei due preti pedofili che mi hanno usato violenza e che ancora oggi, ogni mattina, celebrano la messa e fanno la comunione come se niente fosse». Cecchin punta il dito contro due sacerdoti che esercitano il presbiterio in una parrocchia del Padovano e un'altra del Veneziano, entrambe ricadenti sotto la giurisdizione diocesana di Treviso. Ma non si ferma qui «perché nonostante i 29 anni trascorsi, questi preti che hanno abusato sessualmente di me mi scrivono e o mi fanno arrivare messaggi da uomini della Curia: "Se parli sei morto"», rivela il docente di filosofia. Ma perché rivelare ora questi fatti indicando episodi risalenti a 29 anni fa. «Perché il mio compagno, siamo legati da unione civile, mi ha aiutato in questo percorso: "Se non lo fai tu, lo farò al posto tuo"». Si tratta di un medico francese che Cecchin ha conosciuto nel corso di una missione umanitaria ad Haiti. «Da nove anni è il mio marito e il mio compagno di vita, è grazie a lui se ho trovato la forza di rivelare questi fatti. Siamo arrivati a un punto decisivo della nostra vita e di fronte a scelte importanti (un'adozione), non potevamo sopportare insieme questo fardello». Da qui anche il procedimento che ha portato Cecchin allo sbattezzo, concesso dalla Curia trevigiana con l'inevitabile scomunica. La missiva con le accuse è stata inviata prima di Natale, ma non uno dei destinatari ha risposto. Così Cecchin ha inviato una seconda lettera al vescovo Tomasi minacciando di rivelare tutto alla magistratura ordinaria. «È stato allora che monsignor Tomasi mi ha telefonato. "Una lettera commovente, la sua, e non le dico il mio stato d'animo, papa Francesco mi ha incaricato di gestire questa situazione, vorrei incontrarla". Così mi ha detto il vescovo, ma dopo aver fissato un incontro, questo è stato successivamente rinviato. Perciò ho deciso di uscire allo scoperto». Cecchin sostiene di essere al corrente di altri abusi consumati dai prelati trevigiani ai danni di altri seminaristi e che sarebbero stati commessi nella casa delle vacanze della diocesi trevigiana, nel Bellunese. Lei sa, Cecchin, che se non proverà queste accuse rischia un'imputazione per calunnia? «Che mi denuncino pure, dalla mia parte ho la verità. Che accertino, finalmente, quello che è avvenuto». Ma che prove ha in mano?«All'epoca non c'erano i telefonini per fare foto o video, ma ricordo indelebilmente ogni sevizia subita, ogni particolare, l'ora, il posto, le circostanze. I crimini potranno andare in prescrizione, ma in prescrizione non andranno mai il mio dolore, le mie lacrime, i traumi che ho subito: Dio non archivia».

Il nuovo vescovo di Treviso, monsignor Michele Tomasi, era pronto ad ascoltare il docente di Galliera, ex seminarista, la prossima settimana: l'appuntamento era già fissato. La Diocesi, con il vicario generale monsignor Adriano Cevolotto, conferma la disponibilità ad ascoltare il professor Gianbruno Cecchin, dopo aver ricevuto a dicembre, la sua terribile lettera. «L'incontro era stato concordato per poter ascoltare con la massima disponibilità la persona, che, evidentemente, ha però scelto di agire diversamente», spiega il numero due della Diocesi, che poi fa un altro distinguo, parlando di «vicenda di presunti abusi che sarebbero avvenuti circa 30 anni fa nel Seminario vescovile di Treviso, denunciati in questi giorni da un uomo, allora maggiorenne».La Diocesi non entra assolutamente nel merito della vicenda e delle accuse, come si vede, ma rileva comunque come Cecchin all'epoca non fosse minorenne. Come a smontare già, preventivamente, ogni accusa di "pedofilia" rivolta a preti oggi parroci. I bene informati dicono che il nuovo vescovo Tomasi avrebbe ricevuto Gianbruno Cecchin, con una linea improntata all'ascolto e alla massima trasparenza da un lato, e al massimo rigore dall'altro. Linea che ricalca quella di papa Francesco, nelle sue reiterate denunce degli abusi nella Chiesa. Certo il Vescovado, dopo lo shock del documento ricevuto, ha avuto un altro contraccolpo nel vedere Cecchin diffondere la lettera, di fatto alla vigilia dell'incontro. Dire che in piazza Duomo siano rimasti spiazzati è poco. Né Tomasi avrebbe mai pensato, pochi mesi dopo l'insediamento, di ricevere una documento così esplosivo ed esplicito, carico di riferimenti personali a parroci, preti, responsabili di strutture diocesane e assistenti, con riferimenti "pesanti" persino a un ex vescovo. Tanto più se la lettera preannuncia esposti in Procura e getta ombre inquietanti su coperture e protezioni all'interno dei vertici ecclesiastici trevigiani (le accuse si riferiscono quasi interamente a decenni passati). Abbiamo raggiunto anche uno dei preti accusati, oggi parroco in un comune della provincia di Venezia: «Mi ricordo di quel ragazzo, ma su quello che afferma non ho molto da dire se non che sono sereno», dice. Non si affretta neppure a negare le accuse, tanto se ne sente estraneo. Persona a modo, riservato e ministro di culto rispettato e autorevole, è misurato e pesa le parole una ad una. «Era un seminarista allora giovane che fu poi allontanato perché sostanzialmente non adatto alla vita ecclesiastica», conclude, «anche se sono passati anni e non rammento bene i motivi: questa denuncia è davvero qualcosa che non ti aspetti, da un giorno all'altro, ma davanti alla quale mi sento molto sereno».

CORRIERE DEL VENETO di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 Cattolici, la politica “debole” di Giandomenico Cortese Idee per il futuro

La politica «debole» dei cattolici in Veneto. Sparsi tra centrodestra e centrosinistra, per lo più demotivati da un astensionismo sterile che tradisce la loro vocazione alla partecipazione attiva, sembrano diventati afoni, ritratti entro rassicuranti mura domestiche, silenti anche su temi etici epocali, a partire da rispetto, sicurezza, libertà, ambiente. Trascurate le loro proverbiali abitudini, le percezioni che ci offrono sono di un disincantato disimpegno dalla vita pubblica, se si trascura la loro presenza soprattutto nell’associazionismo del volontariato sociale e, in una qualificata minoranza nella promozione e difesa della vita (con le dovute eccezioni). Sempre più alla ricerca di una nuova bussola in grado di offrire orientamenti. Pressoché inascoltato il monito di Papa Francesco, che già nel settembre di cinque anni fa, incontrando la Chiesa italiana in un celebre appuntamento a Firenze, sottolineava: «La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media». E poi suggeriva: «Ricordatevi che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». C’è in effetti qualche risveglio. Nella primavera dello scorso anno il «Forum di Limena» – animato da un gruppo di cristiani, laici e religiosi - si era impegnato a dare delle linee, ad indicare «un futuro che vogliamo», con presenze molto diversificate, con aperture di solidarietà, sollecitazioni alla convivenza, attraverso gesti, parole, scelte concrete. Senza la pretesa di imporre idee, piuttosto «rompere il silenzio e sollecitare il confronto». Oggi alle 15, ancora a Limena, ci sarà l’occasione per un significativo approfondimento ed il lancio di alcune proposte su un problema di scottante attualità. Il tema è «Demografia e welfare sostenibili: il Veneto e le sue comunità locali», a partire dalla ricerca curata da Maria Letizia Tanturri e Giampiero Dalla Zuanna, demografi dell’Università di Padova, promossa da un gruppo di lavoro dell’Asvess (Associazione veneta per lo Sviluppo Sostenibile), guidata da Giorgio Santini. Il welfare veneto ha alcune peculiarità che lo studio riconosce, con alcuni pregi (il primo è la prossimità e scambi gratuiti fra parenti, a partire dalla vicinanza e disponibilità dei nonni, il boom del lavoro domestico retribuito) e qualche significativo difetto come la solitudine e le povertà di chi non ha una famiglia, il freno alla mobilità sociale, la silenziosa iniquità del sistema successorio, la trappola del welfare al femminile, la dipendenza prolungata dalla famiglia d’origine e non ultimo quel welfare familiare che diventa motore segreto della bassa fecondità. Una strategia per superare lo spopolamento risulta allora indispensabile. Utile offrire alcune indicazioni sugli interventi possibili nelle realtà venete. Alleanze territoriali a sostegno della famiglia sono già attive in questa regione. Occorre forse dare consistenza strutturale e continuativa. La sfida da affrontare è complicata, ma sostenibile. Fino a oggi, analizzando le classi di età, e il loro rapporto, si notava da noi un indice di dipendenza simile a quello dell’Europa. Ma da qualche anno l’Italia e il Veneto vivono in una «tempesta demografica perfetta», che rischia di alterare questi rapporti, tra giovani e anziani e quanti sono occupati e in età produttiva, molto più elevati rispetto alla media europea. Un solo dato: nel 2050, in Veneto ci saranno 82 persone da accudire ogni 100 persone in età da lavoro, contro 70 su 100 nella media della già vecchia Europa. Non è un problema facile da risolvere. I cattolici suggeriscono attenzione. E cercano condivisioni.

Pag 1 Tino e Renata, una lettera e una pistola per dirsi addio di Giovanni Montanaro Rovigo, omicidio-suicidio a San Valentino

Io me li immagino tanti anni fa. Giovani, con le speranze di chi comincia a volersi bene, e a un certo punto capisce, che si potrebbe stare anche per tutta la vita. Mi immagino che per un istante abbiano pensato a quando uno dei due non ci sarebbe stato più. È un pensiero più raro, in giovinezza, ma che qualche volta sfiora; per la paura di un abbandono, di un incidente, perché a un certo punto si pensa alla vecchiaia, lontana e terribile. Forse è successo quando si sono conosciuti, lui che vinceva le gare di ciclismo, lei che tifava e un poco si arrabbiava, se non c’era mai a casa, le domeniche. O quando sono nati i figli, e si son sentiti che tutto il mondo, tutto il senso della vita era per loro. O un giorno qualunque, alla pompa di benzina dove lavoravano spesso tutti e due; guanti e camicia sporca, tanti sorrisi e qualche incomprensione. Mi immagino loro due che si parlano, e si accorgono che non vorrebbero mai restare uno senza l’altra, che non saprebbero come fare, da soli. Me lo immagino così, il loro amore doloroso, così tragico, finito d’un colpo. Me li immagino come quegli amori ambiti e difficili, inseparabili, quelli che mi sembrano perduti, lontani, quelli dei miei nonni, che non si mollavano per niente, anche perché la vita aveva meno alternative, non si poteva mollarsi, non era giusto, castigo e gioia insieme. Amori così ci sono ancora. Amori così li sperano tutti, salvo poi averne paura, andarsene, distruggerli. Amori cui quasi non si crede più. Amori fraintesi, talvolta irrisi. Amori semplici, senza furbizia. Amori fatti di fatica, costruiti pezzo per pezzo, pieni di crepe e che non crollano, solidi anche di tutte le loro ferite, che spesso neanche si sanno. Tradimenti, paure, che diventano piccoli, nel tempo, come macchie che si sciolgono in un liquido e non si vedono più. È il giorno di San Valentino, chissà se è scelto o senza importanza. A Rovigo, Tino e Renata si coricano a letto. L’hanno fatto insieme migliaia di volte, più di ventimila volte a fare i conti a spanne. Quel letto è stato tante cose nella loro vita, il centro della loro fragilità, della loro nudità; il letto dell’amore, il letto che si fa un figlio, il letto del riposo, delle risate, dei pensieri, il letto che certe volte non si dorme, e si sveglia anche l’altro. Il letto in cui urlano le malattie, i problemi, le angosce. Il letto in cui qualche volta basta una carezza, il modo di trovarsi durante il sonno, per sapere che non si è da soli, che in qualche modo ce la si fa sempre, insieme. È che ieri loro due si son coricati per morire. Hanno deciso che era arrivato il momento, che era quello. E chissà se ne avevano parlato, se han deciso all’improvviso, chissà come funzionano queste cose. Lasciano un messaggio per chiedere scusa, e basta. Un poco si vergognano, sanno forse che non si fa così, ma ogni tanto capita, sono forze più forti del poco che siamo noi esseri umani. Forse è per una malattia. Forse è perché si sentono un peso. Forse semplicemente perché sentono il tempo, lo annusano, capita agli anziani, di sapere qualcosa che non possono dire. Non si sa, perché han deciso di andarsene così. Non c’è bisogno di spiegare, però, perché han deciso di andarsene insieme.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le verità spiacevoli per la Ue di Federico Fubini La nuova era Trump

A volte certi episodi minori sono come uno strappo nella rete che rivela in quale situazione versino oggi l’Europa e, al suo interno, l’Italia. Chi si ferma a guardare attraverso quello squarcio vedrebbe un vasto campo di gioco e una squadra - la nostra - che si ostina a giocare a pallavolo mentre ormai le altre, dal resto del mondo, ci stanno affrontando in una spettacolare partita di rugby. Le circostanze sono di quelle che i media internazionali registrano in modo rapido, slegate fra loro. A Washington è stato appena licenziato un uomo che era stato determinante per la tenuta finanziaria dell’Europa, benché molti non ne abbiano mai sentito pronunciare il nome. Negli stessi giorni a Bruxelles lo spagnolo Josep Borrell, vicepresidente della Commissione, si è dovuto scusare per aver pronunciato una verità sconveniente sul cambio climatico. L’uomo licenziato a Washington si chiama David Lipton, ha un dottorato in economia a Harvard, ha lavorato nelle amministrazioni di Bill Clinton e Barack Obama e da nove anni era numero due del Fondo monetario internazionale. Di fatto per lunghi periodi ha gestito l’intera organizzazione. Se l’euro non è andato in pezzi negli anni scorsi, è anche grazie al lavoro tenace di questo funzionario. Lipton è l’incarnazione stessa del washingtoniano internazionalista, convinto che il suo ruolo nel mondo obblighi l’America a sostenere amici e alleati sulla base di valori, regole e istituzioni comuni. Nella sua visione l’America è la «città che risplende sulla collina» - nella citazione evangelica ripetuta da John Fitzgerald Kennedy, Ronald Reagan e Obama - ispirazione al resto del mondo. Lipton la settimana scorsa è stato cacciato dal nuovo direttore generale del Fondo, la bulgara Kristalina Georgieva. La ragione, mai spiegata, è che la Casa Bianca di Donald Trump ha esercitato molta pressione: «Difficile credere che, qualunque riorganizzazione fosse utile al Fmi, essa richiedesse l’uscita di David Lipton - ha commentato l’ex capoeconomista del Fondo, Olivier Blanchard -. La sua partenza è un grave colpo per l’istituzione». Questo era del resto l’obiettivo: quel funzionario era espresso da un Paese il cui presidente non ha più alcun interesse nella «città che risplende sulla collina». Interpreta la propria convenienza in modo diverso. Per Trump l’America non è più né un modello né un garante per l’Europa, e l’Europa è un insieme di potenze minori intente a trarre slealmente profitto dall’America. Quest’ultima è vittima - non leader - dell’ordine internazionale che lei stessa aveva creato decenni fa. Il licenziamento di Lipton è solo un mattone di più che Trump sbriciola del sistema multilaterale. Non il primo, ovviamente: ha già ridotto alla paralisi l’Organizzazione mondiale del commercio, scatenato guerre economiche bilaterali, tolto gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima. Ora intende ridimensionare anche il ruolo del Fmi in caso di nuove crisi. Persino la rivalità trumpiana nei confronti della Cina di Xi Jinping esclude di fatto l’Europa, perché non si fonda su valori o ideologie - il mondo libero contro la superpotenza autoritaria - ma è un puro confronto di potere fra due leader ugualmente nazionalisti. Del resto questo stato di cose non cambierà radicalmente anche se Trump in novembre non fosse rieletto: persino il candidato democratico più legato al mondo di ieri, l’ex vicepresidente Joe Biden, fa sapere che non intende riportare i dazi unilaterali contro Pechino ai livelli minimi di quando alla Casa Bianca c’erano Obama e lui stesso. Questo non è più il «mondo piatto» del libro di Thomas Friedman del 2005. La relativa tregua attuale della Casa Bianca sui dazi dà un po’ di respiro all’Europa, niente di più: questo resta un mondo post liberale, pieno di nuovi ostacoli agli scambi e di antiche logiche di potenza. Non è neanche più il tempo del clintoniano «it’s the economy, stupid» perché per la politica non conta più solo la crescita, anzi. Fra gli elettori della Brexit l’affermazione dell’identità viene prima del tornaconto materiale e persino l’America usa contro gli alleati la propria potenza commerciale - l’accesso al dollaro, o al mercato - come leva per piegarli politicamente. Chi fa affari con l’Iran è fuori da Wall Street. Chi compra reti di telecomunicazioni dai cinesi rischia dazi contro le auto. Questo mondo non è migliore di quello di ieri, a prima vista, ma oggi è quello che abitiamo e qui l’Europa sembra un sopravvissuto. La sua architettura era disegnata per permetterle di prosperare di un sistema globalizzato retto da organi multilaterali, dove le norme dell’economia valevano per tutti e restavano separate dalla lotta fra potenze grazie al consenso delle élite internazionali. Possiamo avere nostalgia di quel mondo, oppure no, ma non c’è più. Eppure l’Europa resta strutturata per viverci dentro. Non ve n’è sintomo più crudele della cosiddetta «gaffe» di Borrell. Ha detto giorni fa l’Alto rappresentante della politica estera di Bruxelles, ricordando i limiti dell’evangelizzazione ambientalista dell’Europa nel mondo. «Mi piacerebbe sapere se i giovani che manifestano nelle strade di Berlino, chiedendo misure contro il cambio climatico, sono coscienti dei costi. Se capiscono che dovranno ridurre il loro tenore di vita per compensare i minatori di carbone polacchi che resteranno disoccupati». Borrell ha fatto capire che l’Europa ha scelte dure da affrontare, se vuole il ruolo guida nel mondo che oggi reclama. Ha detto che la politica e la potenza non sono mai gratis. Apriti cielo: la Commissione europea si è ufficialmente dissociata e lo spagnolo ha dovuto scusarsi per aver parlato di quella che chiama la «sindrome Greta»; aveva osato dire una verità spiacevole in un’Europa abituata a vivere protetta. Ma un sistema che non sopporta la verità è un sistema politico debole. E l’Europa, oggi, non se lo può permettere.

Pag 5 Il governo elettorale per arrivare fino a settembre (se scoppia la crisi) di Marzio Breda

«Wait and see», traducibile (meno elegantemente) con il «calma e gesso» che pronunciano i giocatori di biliardo quando devono fare un tiro difficile e prendono tempo strofinando con il gesso la punta della stecca. Ecco la sintesi che esce dal Quirinale per descrivere l’approccio di Sergio Mattarella alle fasi di altissima tensione politica come quella attuale, con il governo in bilico. Una laconicità che spiega perché da lassù sia calato il silenzio, mentre appunto «si aspetta di vedere» quale sarà il punto di caduta nella sfida aperta da Matteo Renzi contro il premier Giuseppe Conte. Sabato pareva che dovesse scattare una tregua di medio termine, per permettere anche ai contendenti di concentrarsi sulle nomine pubbliche, partita cruciale. Ma sul Colle, in attesa di una controprova, non ci stanno credendo troppo. Lo scenario di un armistizio e di una ripartenza dell’esecutivo con questa stessa maggioranza è infatti subordinato all’ipotesi che il leader di Italia Viva intenda davvero interrompere la sua asfissiante tattica di logoramento: da alleato/avversario. Il che ancora non sembra alle viste. Del resto, lo stesso Mattarella non saprebbe forse come interpretare le mosse di Renzi, dato che non ha più avuto un faccia a faccia con lui dai tempi del governo Gentiloni. Scontato comunque che, nell’incertezza generale, tanti abbiano almanaccato ieri sui contenuti dell’ultimo colloquio tra premier e capo dello Stato. Azzardando persino dei botta e risposta che hanno destato «stupore» (cioè irritazione) al Quirinale, costretto a una delle sue rare smentite. Ora, è ovvio che Conte abbia illustrato il quadro di destabilizzazione progressiva di cui è vittima da parte di Iv e che si sia anche detto convin-to di avere qualcuno pronto a sostenerlo, in quel partito. Per nulla ovvio, invece, che Mattarella si sia esercitato con l’interlocutore in una contabilità parlamentare, vagheggiando magari futuribili cambi di maggioranza. O che si sia spinto a condividere l’idea di met-tere insieme un gruppo di «responsabili» su modello di quello creato nel 2013 da Alfano, quando si staccò da Berlusconi per salvare la legislatura, dando vita a Ncd. Certo, con quel che sta accadendo, ogni scenario è possibile e valutabile. Anche per il presidente. Purché trovi sbocchi costituzionalmente accettabili in Parlamento e lasci il Quirinale fuori da negoziati e contese. Questo presidente della Repubblica non è uomo da manovre coperte. E ha lasciato intendere già in agosto, quando questo esecutivo è nato, che la formula di governo giallorossa è l’ultima praticabile, e che se fallisse (magari per un incidente in aula) resterebbe solo il voto. Non prima di settembre, però, considerando l’ingorgo di adempimenti prodotto dal referendum di fine marzo. Alle urne ci si andrebbe, quindi, con un nuovo governo. Elettorale.

IL FATTO QUOTIDIANO L'attivismo cattolico del premier e il sostegno della Chiesa italiana di Fabrizio D’Esposito

Il Cardinale e il Presidente. Il primo a braccia aperte che recita il Padre Nostro. Il secondo compunto, accanto a lui, come in raccoglimento. Si è aperto così il convegno che ha celebrato a Palazzo Altieri, a Roma, il settantatreesimo anniversario della nascita dell'Ucid, l'Unione cristiana imprenditori dirigenti. Il Cardinale è Sua Eminenza Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e arcivescovo di Perugia e Città della Pieve. Il Presidente è il capo del governo Giuseppe Conte, che guida una coalizione giallorossa. La partecipazione del premier alla festa dell'Ucid è caduta nei giorni convulsivi della sceneggiata di Italia Viva sulla prescrizione, a conferma che l'avvocato ci tiene particolarmente al suo intenso rapporto con la Chiesa e il mondo cattolico. Meno di un mese fa è stato ad Assisi dai francescani per l'anti-Davos italiana. Indi ha presentato con il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, il libro sul Mediterraneo di padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica nonché tra i consiglieri di papa Francesco. Infine la scorsa settimana, tra il convegno dell' Ucid e il ricevimento per il novantunesimo anniversario dei Patti Lateranensi, dove è stato il politico più corteggiato per i selfie. Una lettura semplicistica e superficiale inserirebbe l'attivismo contiano su questo fronte tra le solite illazioni sul "partito cattolico". In realtà il processo innescato dal premier è più profondo e riguarda il tratto caratteristico della sua leadership giallorossa: l'umanesimo cristiano che è stato patrimonio di tutta la sinistra dc da Giorgio La Pira in poi. Non a caso, le parole dello stesso Conte ai cronisti che lo hanno avvicinato a Palazzo Altieri sono state queste: "Non sto parlando di un nuovo partito dei cattolici ma di un'impostazione culturale". Insomma un umanesimo che riguarda più la coalizione giallorossa che un singolo partito da fondare, contrapposto alla destra che odia. E che incassa il sostegno della Chiesa anche nella fase contingente. Ha detto il cardinale Bassetti sul governo Conte: "La stabilità politica è un valore in sé".

CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 febbraio 2020 Pag 1 Retorica perdente sul clima di Lucrezia Reichlin I cambiamenti reali

Oggi, nel mondo, e in particolare in Europa, sta crescendo la consapevolezza che, in assenza di azioni drastiche per la difesa dell’ambiente, si andrà verso una catastrofe climatica. Questo sta producendo nuove politiche e nuove regole oltre ad influenzare l’orientamento di chi investe. L’idea che ci avrebbe pensato il mercato a risolvere la situazione non convince più nessuno. Siamo di fronte a quello che gli economisti chiamano un’esternalità, cioè il fatto che le attività produttive di singole imprese hanno un costo per l’ambiente che non è riflesso nel prezzo. In questo caso l’esternalità tocca quasi tutti gli aspetti dell’attività economica e rende impraticabile il modello di consumo che fin qui ha caratterizzato le nostre società. Il consenso tra gli scienziati è chiaro: il cambiamento climatico è associato a disastri naturali sempre più frequenti i cui costi sono molto ingenti. Siamo di fronte a un rischio molto più grande di quello di una crisi finanziaria. Il cambiamento climatico può portare a eventi irreversibili per difendersi dai quali non ci si può assicurare. È urgente quindi mettere in campo politiche adeguate, che arrestino la tendenza al riscaldamento della Terra e che permettano di raggiungere a livello globale l’obbiettivo di emissione zero per il 2050. Questo richiederà decisioni radicali per la politica economica, poiché significa limitare e/o tassare le attività nocive, mettere in campo risorse per favorire le transizioni ad altre forme di produzione e compensare chi ne sarà penalizzato. In Europa, il «green deal», votato ad amplissima maggioranza a dicembre dal Parlamento dell’Unione, definisce un nuovo quadro per le politiche economiche comuni che ha al centro la difesa dell’ambiente. Ursula von der Leyen ne parla come una nuova strategia per la crescita. Secondo il piano tutti gli aspetti dell’attività economica dell’Unione saranno rivisti alla luce del nuovo imperativo dell’emergenza climatica. Ci si propone di tramutare l’obbiettivo di emissione zero per il 2050 in legge, di dimezzare le emissioni per il 2030 e di stabilire standard per i beni manufatturieri in modo da incentivare l’economia circolare. Per esempio dal 2021 almeno il 40% del bilancio della politica agricola comune sarà dedicato alla riduzione delle emissioni invece che ai sussidi che le alimentano. Nonostante il piano sia stato criticato per non essere abbastanza ambizioso, è ovvio che comunque comporterà grandi trasformazioni e una riallocazione tra diversi settori produttivi, penalizzando in particolare alcuni settori chiave del manifatturiero. È certo che i costi si distribuiranno in modo diseguale tra Paesi, settori e gruppi di lavoratori. Nella discussione pubblica si è enfatizzato l’aspetto «win-win» (comunque vincente) del green deal. Per esempio il fatto che ci siano sul piatto nuovi fondi per l’investimento pubblico, che attraverso le politiche ambientali si potranno superare i limiti alla spesa previsti dal patto di Stabilità (cosa peraltro per nulla scontata) e che questa missione darà al progetto europeo una rinnovata direzione comune in grado di superare le divisioni degli ultimi anni. Questa retorica del «win-win» a me sembra quanto mai preoccupante quanto lo è la mancanza di discussione – a livello nazionale, e non solo in Italia – su quali siano le responsabilità degli Stati singoli e le implicazioni per le politiche fiscali e di bilancio. Guardando ai fatti, pochi Paesi hanno messo in campo politiche coerenti con l’ambizione del green deal. Per esempio, come ha recentemente ricordato Pisani-Ferry, solo tre Paesi nella Ue (e l’Italia non è tra questi) tassano l’emissione di carbonio a più di 30 euro per tonnellata quando si stima che la tassa compatibile con il green deal dovrebbe arrivare a 50 euro per tonnellata nel 2021 e almeno a 100 per tonnellata nel 2030. Una discussione realistica e trasparente è quanto mai urgente perché è la condizione per trovare il consenso a un percorso trasformativo. Ma come ha detto il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney siamo prigionieri della trappola dell’orizzonte: i governi – per sopravvivere – danno priorità ai problemi immediati e sono strutturalmente inadeguati ad affrontare fenomeni i cui costi ricadono sulle generazioni future nonostante affrontarli oggi ne riduca l’onere complessivo. Ma poiché il pianeta appartiene a tutti bisognerà trovare il modo di definire un’azione collettiva efficace che possa far fronte alle resistenze di interessi costituiti e ai conflitti redistributivi che deriveranno dalle politiche green. Il green deal europeo è qualcosa di più di un’insieme di politiche. È una missione che definisce una nuova identità dell’Unione e afferma la leadership globale dell’Europa sulle politiche ambientali. Ma definire una missione non significa necessariamente portare a casa risultati. Il pericolo che, come per l’unione monetaria, interessi diversi non siano ricomposti, ma che, al contrario, le divisioni tra Paesi e gruppi sociali si approfondiscano, è tangibile. Dopo tante promesse, il fallimento, oltre a essere tragico per il futuro dell’umanità, potrebbe anche essere la tomba dell’Unione. Come al solito la responsabilità di evitarlo ricade non solo su Bruxelles ma su tutte le capitali europee, inclusa – ovviamente – Roma.

Pag 1 Ma che Italia sarà tra 10 anni? La frattura dei due Paesi di Federico Fubini Nord e Sud

Ese provassimo a fare un esperimento? Immaginare l’Italia del futuro, con i dati che abbiamo a disposizione oggi e le tendenze. E, ovviamente, in assenza di un piano in grado di cambiare radicalmente le carte in tavola. Insomma: che Italia sarebbe tra dieci anni? E come in tutti i test conviene prendere gli estremi: in questo caso il Mezzogiorno e il Nord. Con ogni probabilità assisteremmo ad una frattura, a una sorta di due Paesi. Il governo l’altro giorno ha tentato qualcosa che, in un’Italia strangolata dalla dittatura del breve termine, si osa sempre di meno: ha guardato ai prossimi dieci anni, azzardandosi a indicare una strada. Lo ha fatto il ministro per il Sud Beppe Provenzano, quando venerdì ha presentato un piano per ridurre la frattura territoriale del Paese. Provenzano indica un gran numero di misure sulla scuola o l’uso dei fondi europei e già dai prossimi mesi la tenuta della maggioranza, assieme all’efficienza dell’amministrazione, permetteranno di capire se il suo piano può funzionare. È però possibile fare da subito l’esperimento opposto: ci si può chiedere cosa accadrebbe, semplicemente, se non ci fosse nessun piano di questo e dei futuri governi. Si può provare a immaginare cose sarebbe l’Italia in futuro se non succedesse nulla di nuovo. Se la grande divergenza sociale, produttiva, educativa, migratoria, demografica, sanitaria, degli stili di vita, delle aspettative e della partecipazione civica degli abitanti dei suoi territori continuasse come ha fatto negli ultimi dieci anni, o decenni. È solo un test, la proiezione arbitraria sui prossimi anni delle derive degli ultimi dieci. E come in tutti i test conviene prendere gli estremi, il Mezzogiorno e il Nord, tenendo fuori le misure spesso intermedie del Centro Italia. L’obiettivo è farsi un’idea di cosa può accadere fra quelle due aree se tutto restasse sul piano inclinato di questi anni. Di sicuro il rapporto di forze fra Nord e Sud del Paese sarebbe destinato a cambiare. L’Istat ha mostrato nei giorni scorsi che la popolazione nelle regioni meridionali nel 2019 si è ridotta (di 129 mila persone) più che quella di tutta l’Italia nel suo complesso (scesa di 116 mila persone). In altri termini al Centro e soprattutto al Nord prosegue lentamente un incremento nel numero degli abitanti, mentre il calo delle nascite e l’aumento dell’emigrazione verso il resto del Paese stanno erodendo la popolazione delle regioni meridionali. L’Italia si riempie pian piano da una parte e si svuota rapidamente dall’altra. Le leggi della demografia sono simili a quelle dei ghiacciai, che si spostano pianissimo fino a cambiare profondamente. Oggi con quasi ventuno milioni di residenti il Mezzogiorno d’Italia per popolazione pesa per circa tre quarti del totale degli abitanti del Nord, ma cosa può succedere alle tendenze attuali? L’Istat lo mostra nelle sue previsioni: nello scenario «mediano» il numero degli abitanti del Nord cresce fino al 2042 e quello del Sud non fa che calare. Fra ventidue anni sarà meno di due terzi rispetto al settentrione. Cause e conseguenze a quel punto si alimenteranno a vicenda nell’economia, nella vita civile e in quella quotidiana. Per esempio, gli indicatori dell’Istat mostrano che la probabilità di un laureato di lasciare il Sud fra i suoi 25 e 39 anni è salita di recente dal 31% al 35%. Più di un laureato su tre se ne va, mentre il Nord ne riceve un afflusso netto. Anche per questo fra gli abitanti di 30-34 anni l’incidenza dei laureati nel Meridione era dell’80% dei livelli settentrionali dieci anni fa, è scesa oggi al 65% e alle tendenze attuali fra dieci anni - per un pari numero di giovani - i laureati al Sud non saranno molto più della metà di quelli del Nord. A quel punto il lavoro nella parte meno ricca d’Italia potrebbe diventare sempre meno qualificato e produttivo, con il rischio di accelerare le tendenze in corso: calcoli della Banca d’Italia dei mesi scorsi mostrano che il reddito pro-capite al Sud era pari al 64% del Centro-Nord nei primi anni ’70 ma appena del 55% alla fine di questo decennio. Si può solo immaginare il seguito, se si nota che lo scarto nel tasso di occupazione è cresciuto da venti punti percentuali dieci anni fa a ventiquattro oggi e la deriva prosegue. Gli slittamenti demografici sono poi destinati a ripercuotersi in politica. Non solo le regioni settentrionali conteranno sempre di più nei referendum e potrebbero rivendicare un peso maggiore in Parlamento o nella ripartizione del bilancio pubblico, anche la disaffezione civica di un Sud che si sente sempre più periferia irrilevante può facilmente aumentare. Se ne vedono già i segni. Fatta pari a cento l’affluenza elettorale alle europee del Nord Italia, quella meridionale negli ultimi dieci anni non ha fatto che scendere: era all’81% del Settentrione nel voto del 2009, al 74,6%% cinque anni fa e al 70% a maggio scorso. I meridionali fanno sentire sempre di meno la propria voce e si può solo chiedersi fino a che punto arriveranno nell’apatia riguardo alla cosa pubblica. Anche la società italiana dà segni di biforcazione lungo i suoi diversi paralleli. Dieci anni fa l’aspettativa di vita nel Mezzogiorno era di appena mezzo anno inferiore al Nord, più di recente la differenza è salita a un anno e se lo slittamento prosegue sarà quasi di un anno e mezzo nel 2028. Conta anche che l’incidenza della mortalità per tumori, che dieci anni fa era più bassa al Sud, di recente ha superato i livelli del Nord. Certo l’insicurezza generale nella società meridionale è così diffusa che più persone si dichiarano preoccupate di andare in giro da sole al Sud, anche se borseggi, rapine, furti in casa e anche omicidi sono meno frequenti che nel Nord. Gli indicatori della banca dati Istat disegnano così una nazione percorsa da incrinature che fra dieci o vent’anni - se nulla cambia - potrebbero diventare vere e proprie fratture. Ma gli italiani sono ancora tenuti insieme da alcune percezioni comuni. Uno di questi è l’amor di patria. Un altro, a un estremo e all’altro della penisola, è che esattamente il 2,5% degli abitanti dichiara oggi di fidarsi dei partiti. Non uno di più.

Pag 24 Una concezione mite di politica e giustizia di Paolo Franchi

«Hanno fatto il percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione, e ritengo che mio padre come Aldo Moro, che hanno dato la vita per la Costituzione e lo Stato di diritto, non possano che rallegrarsi di ciò». Risponde così Giovanni Bachelet, nella bellissima intervista rilasciata nei giorni scorsi al Corriere, a Giovanni Bianconi, che gli chiede un giudizio sul fatto che i brigatisti che il 12 febbraio del 1978, quarant’anni fa, uccisero alla Sapienza suo padre Vittorio, ex presidente dell’Azione Cattolica e vicepresidente del Csm, sono da tempo in libertà. E le sue parole sembrano contraddire vistosamente lo spirito del tempo. Come può mai fare, non un cittadino qualsiasi, ma addirittura il figlio di una vittima, a essere così «buonista» da non esigere che gli assassini siano quanto meno lasciati a «marcire in carcere» (anche se meglio sarebbe giustiziarli, o perché no, lapidarli, o linciarli) sino alla fine dei loro giorni? In realtà, l’idea che la giustizia sia un sinonimo della pubblica vendetta, comprensibilmente destinata a tradursi in dilagare delle vendette private se le istituzioni non sanno o non possono o non vogliono metterla in pratica, in Italia, uno Stato di diritto, fondato, oltre tutto, sulla «Costituzione più bella del mondo», non ha preso corpo solo negli ultimi decenni. Negli anni Settanta, segnati da una vistosa recrudescenza della criminalità organizzata oltre che dallo stragismo di destra e dal terrorismo di sinistra, il tentativo del Msi di promuovere un referendum per la reintroduzione della pena di morte raccolse un consenso popolare assai più vasto di quanto si possa desumere dalla lettura dei giornali del tempo. Nel marzo del 1978, all’indomani del rapimento di Moro, la invocò, nella convinzione che tra i brigatisti e lo Stato vigesse ormai lo stato di guerra, persino Ugo La Malfa. Della medesima opinione si dichiararono (nel 1981, lo stesso anno in cui in Francia François Mitterrand consegnava ai musei la ghigliottina e in Italia Marco Pannella cercava senza successo di abolire l’ergastolo per via referendaria) il grande musicologo Massimo Mila, resistente e azionista, e dieci anni dopo, ma stavolta a fini dissuasivi verso la fiorente industria dei sequestri, il pur mitissimo segretario della Dc Arnaldo Forlani. Si potrebbe proseguire a lungo, e non solo a proposito della pena di morte. Ma resterebbe sempre il fatto che tra il nostro passato (relativamente) recente e il nostro presente c’è una differenza fondamentale, anche se quasi universalmente sottaciuta. Certo, anche ieri la concezione puramente afflittiva (ma forse sarebbe più esatto dire: vendicativa) della pena, che è parte essenziale del fenomeno che un po’ sommariamente definiamo giustizialismo, era assai diffusa, e secondo i sondaggi d’epoca addirittura maggioritaria. E probabilmente era diffusa, e magari anche maggioritaria, pure l’idea che, se non c’è fumo senza arrosto, un imputato andasse considerato colpevole, non innocente, fino a prova contraria, e che i garantisti fossero amici del giaguaro (nel caso del terrorismo: fiancheggiatori nemmeno troppo occulti). Ma trovavano a contrastarle sul campo uomini e prima ancora tradizioni e culture radicate tanto nel Paese quanto nelle pratiche di governo e di amministrazione. In particolare le tradizioni e le culture portatrici di una concezione mite della politica, che erano ben consapevoli dell’esistenza degli spiriti animali della società, ma che, invece di cavalcarli e all’occorrenza di scatenarli, cercavano di addolcirli e comunque di tenerli a bada. Due su tutte. Quella del socialismo umanitario, che pesò, eccome, anche nella scelta di Bettino Craxi (che pure, del suo, mite proprio non era) di mettersi in cerca quasi in solitudine di una via appunto umanitaria per cercare di strappare vivo Moro ai suoi carnefici. E, ben più influente, quella del cattolicesimo democratico, che invece sul caso Moro drammaticamente si divise (un suo esponente illustre come Vittorio Bachelet, lo ricorda il figlio Giovanni nell’intervista al Corriere, non si schierò pubblicamente né per il partito della fermezza né per il partito della trattativa, ma perché pensava, da uomo delle istituzioni, che bisognasse lavorare in silenzio all’interno di queste per liberare il prigioniero). Entrambe sono state travolte agli inizi degli anni Novanta, quando anche le loro virtù vennero rappresentate come delle maschere, o degli alibi costruiti perché non venissero alla luce i loro vizi. Della prima, la socialista umanitaria, si sono smarrite ormai le tracce. La seconda è viva, sì, ma innegabilmente minoritaria, temo anche all’interno del cattolicesimo italiano, e sul piano politico, dopo la scomparsa della Dc, conta quello che conta, cioè poco, o pochissimo. Sarebbe inutile, e anzi controproducente, indulgere alle nostalgie. Ma non c’è bisogno di essere dei nostalgici per segnalare che se ne avverte assai l’assenza, o il ridotto peso specifico. Per dire: difficilmente, nei tempi ormai lontani in cui contavano, avremmo anche solo immaginato di poter sentire, a proposito della prescrizione, un ministro della Giustizia affermare in tv che «gli innocenti non vanno in galera», salvo poi precisare che si riferiva, bontà sua, agli imputati assolti. Ha ragione Aldo Cazzullo, quando al funerale di Vittorio Bachelet sentimmo emozionati Giovanni esortare a pregare per i servitori dello Stato democratico, certo, ma anche per gli assassini, per la prima volta pensammo che forse «i buoni» avrebbero vinto la loro battaglia senza smettere di essere tali. Trent’anni dopo, purtroppo, ne siamo meno convinti.

AVVENIRE di domenica 16 febbraio 2020 Pag 3 Salviamo lo studente Zaki con il passo della diplomazia di Riccardo Redaelli Il pugno di ferro di al-Sisi. Premere sul Cairo evitando minacce o gesti plateali

È comprensibile, e quasi perfino naturale, che l’arresto di Patrick George Zaki – lo studente egiziano copto dell’Università di Bologna – nel nostro Paese abbia sparso nuovo sale sulla ferita mai rimarginata del caso Regeni, una delle vicende più dolorose e brutali che ha terremotato le relazioni fra Roma e il Cairo e che ancora oggi aspetta giustizia. Ma la vicenda di questo giovane imprigionato e forse torturato dalla polizia egiziana è in verità profondamente diverso: Zaki non è italiano e su di lui pendeva un mandato di cattura della magistratura egiziana. Nei confronti della quale noi possiamo fare ben poco. Certo, le accuse a lui rivolte raccontano molto delle condizioni in cui versa l’Egitto oggi: incitamento a proteste non autorizzate, pubblicazione di notizie false allo scopo di disturbare la pace sociale e istigazione al rovesciamento del governo, questi i motivi dell’arresto. Insomma, si tratta di un pericoloso sedizioso per il regime del presidente al- Sisi, mentre ai nostri occhi è un attivista per i diritti civili dei cittadini. Soprattutto, questa incarcerazione illumina la sinistra verità di un presidente che si fa paladino del popolo contro 'i terroristi', contro il fanatismo islamista, che dichiara di voler proteggere la minoranza cristiana copta, ma che ha riempito le prigioni di oppositori, attivisti, presunti jihadisti. Sessantamila persone arrestate, più di 2.500 condannate a morte dall’inizio della sua presidenza dopo il colpo di mano per destituire il presidente islamista Mohamed Morsi, lasciato morire di diabete in un carcere lo scorso anno. Un uso sistematico della tortura e della carcerazione preventiva; minacce e chiusure forzate delle poche voci di opposizione... nemmeno negli anni più cupi del regime di Hosni Mubarak vi era nel Paese un clima di tale repressione e di paura. Forze militari e polizia godono di una totale impunità per i loro abusi e le recenti modifiche costituzionali ne hanno rafforzato ulteriormente il potere, mentre il presidente si arrocca sempre più nei gangli vitali del sistema, attorniato da familiari e fedelissimi. Una posizione di forza che cela forse una debolezza politica nel mediolungo termine, in un Paese dagli equilibri complessi come l’Egitto. La scommessa di al-Sisi è che la crescita economica (superiore al 5%) – grazie anche allo sfruttamento dei nuovi giganteschi giacimenti di gas naturale off-shore e agli aiuti esteri – e la centralità geopolitica gli permettano di irridere le contestazioni internazionali sul mancato rispetto dei diritti umani. Da questo punto di vista, niente di nuovo in Medio Oriente: la storia contemporanea della regione è piena di dittatori che si credevano insostituibili. Eppure, molti di essi sono finiti deposti, o peggio. Nel caso specifico dello sfortunato Patrick Zaki influisce anche il fatto che le proteste ufficiali, e le dichiarazioni venute dall’Italia e dal Parlamento europeo, rischiano di essere controproducenti, dato che le veline governative le hanno già bollate come indebite interferenze occidentali negli affari interni dell’Egitto. Lo studente è egiziano, si dice, non italiano. È allora opportuno calibrare al meglio l’azione di difesa. Non fare cadere il silenzio sulla vicenda, perché dobbiamo far capire al Cairo che deve muoversi con prudenza e che i nostri occhi sono vigili, ma evitare gesti plateali o minacce che spingano il sistema di potere a reagire con una prova di forza. Questi sono i momenti in cui la diplomazia serve, soprattutto se discreta e silenziosa. Senza sbandierare vittorie della libertà se verrà liberato e senza cercare 'photo opportunity' di politici o di movimenti. Ma senza restare muti o inerti. Con la speranza che Zaki torni presto al suo master e ai suoi studi.

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 Ma Trump si può fermare di Alberto Alesina Il voto in America

Come diceva Mark Twain è molto difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro, ma io ne azzardo una. Donald Trump vincerà le elezioni di novembre a meno che il partito democratico non nomini l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg. Perché? Cominciamo dai motivi per cui Trump ha ottime possibilità di essere rieletto. Tradizionalmente il presidente uscente è avvantaggiato soprattutto quando l’economia va bene, cioè crescita alta e disoccupazione bassa. In questo senso l’economia favorisce Trump, anche deflazionando le mirabolanti descrizioni del presidente secondo cui gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una specie di Nirvana. Gli Usa non hanno avuto una recessione per 11 anni, ma di questi 11 solo tre erano con un Trump presidente. Il tasso di crescita durante la presidenza di Trump è intorno al 2,5 per cento ed è simile a quello degli ultimi anni di Obama e al di sotto di quel 3 per cento che è considerato un po’ il punto che divide crescita alta e modesta per gli Stati Uniti e che è più o meno la media della storia recente americana. Non solo, ma questi tassi di crescita sono per ora relativamente deludenti dato il forte stimolo fiscale di Trump. Siamo ben lontani dal fenomenale 6 per cento che prometteva. La disoccupazione è ai minimi storici al 3,6 per cento, ma già aveva un trend discendente ed era intorno al 5 per cento quando Trump è salito al governo. I salari stanno finalmente risalendo un poco, circa lo 0,4 per cento sopra l’inflazione. Il mercato azionario è esploso. Gli aspetti meno positivi dell’economia americana sono di più lungo periodo e meno evidenti per l’elettore medio. A prescindere dalle politiche (anti)ambientali di Trump (per esempio una recente controriforma del sistema di protezione delle acque dolci del Paese) rimane il debito pubblico che continua ad aumentare. Il taglio delle imposte sulle imprese ha un senso perché erano relativamente alte. Ma a questo taglio Trump avrebbe dovuto far seguire un aumento della progressività del sistema fiscale sulle famiglie, riducendo il peso sulle classi medie chiudendo i mille canali con cui i super ricchi riescono a pagare relativamente poche tasse; oltre ad un segnale di giustizia ciò avrebbe anche stimolato di più i consumi. Dal lato della spesa Trump ha fatto ben poco. Il programma di assistenza medica pubblica gratuita per tutti gli anziani ricchi e poveri (Medicare) è una bomba ad orologeria per il bilancio. Nulla è stato fatto. Invece Trump sta attaccando Medicaid il programma di assistenza medica gratuita per i meno abbienti che è un problema fiscale molto inferiore. Perché? Ovvio, gli anziani votano Trump, soprattutto in alcuni stati cruciali come la Florida, i molto poveri no, i quali, anzi spesso non votano del tutto. C’è poi l’aumento della ineguaglianza negli Stati Uniti. Nel 1980 l’uno per cento più ricco deteneva il 10 per cento del reddito totale, oggi il doppio, circa il 20 per cento. La metà più povera deteneva sempre nel 1980 il 21 per cento del reddito totale, oggi circa il 13. È straordinario che in un Paese con un tale andamento della disuguaglianza una buona parte degli elettori continuino a favorire il partito repubblicano e che in un anno elettorale Trump stia addirittura promettendo tagli al welfare americano. I motivi sono due: uno di natura culturale/storica, l’altro contingente alle politiche attuali dei due partiti e dei candidati democratici. La prima ragione è che gli americani al contrario degli europei sono molto più propensi ad accettare la disuguaglianza come una necessità ed entro certi limiti la ritengono «giusta». Secondo la World Value Survey (un sondaggio d’ opinione molto prestigioso) più del 70 per cento circa degli americani ritiene che i poveri non sarebbero tali se si impegnassero di più ad uscire dalla povertà, e queste possibilità di mobilità sociale ci sono. Il numero di europei che ha queste opinioni è poco piu della metà (il 40 per cento). L’idea del «sogno americano» su cui questo Paese si è formato storicamente rimane saldamente nel cuore di molti americani anche più di quanto la realtà lo confermi oggi. Ovviamente Trump non fa che battere su questo punto, auto elogiandosi per la rinascita del «sogno». L’altra ragione deriva dalle strategie dei due partiti, vincenti quelle dei repubblicani disastrose quelle dei democratici. Il partito repubblicano ha abbracciato il culto della personalità per Trump, il quale si vendica senza pietà di chi non è d’accordo con lui. Anche l’ala del partito cosiddetta del «nord est», cioè l’ala della élite urbana, esalta un presidente che la protegge dalle temute redistribuzioni fiscali. Lo accetta anche a costo della sua mancanza di rispetto per le basi del costituzionalismo americano che sta creando precedenti assai pericolosi per la democrazia americana. Il partito democratico è allo sbando. Le primarie sono iniziate con una dozzina di candidati di cui una buona parte sono sconosciuti che non fanno che creare confusione. Il disastro organizzativo dell’Iowa è stato imbarazzante. Tra i veri contendenti ci sono due estremisti (per gli standard americani) Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Il primo si dichiara apertamente socialista (un «non starter» per gli Stati Uniti) ed è un ideologo stile Corbyn che con toni esaltati ed esagerati promette di tutto senza spiegare come finanziare le sue straordinarie promesse. Trump tifa apertamente per lui perché sa che se lo mangerebbe in un boccone se vincesse le primarie democratiche. La Warren ci dice invece come pagare per le sue promesse: forti tasse sulla ricchezza, e tasse sui redditi alti (ma non altissimi) fino al 75 per cento. Un programma perfettamente accettabile in Francia, ma che non la porterebbe da nessuna parte negli Usa, e infatti sta andando malissimo. (Non a caso i suoi consiglieri economici sono due professori francesi della università di Berkeley, ottimi economisti ma con poco senso della politica americana). Il candidato dei moderati doveva essere Joe Biden, ma appare sempre meno energico, (Trump lo chiama con qualche ragione «Biden il lento»). Sembra privo di idee e «vecchio» non solo nel senso anagrafico del termine ma nel senso di «vecchio establishment»; ha perso nettamente le prime gare in Iowa e New Hampshire. Buttigieg è un fuoco di paglia: dopo aver ottenuto qualche migliaio di voti in quei due piccoli Stati parla come se fosse un nuovo Obama non dicendo nulla di concreto a parte, vaghe, noiose e ripetitive promesse di «cambiamento». Prima si ritira e smette di dividere il voto moderato meglio è per lui e per il suo partito. È invece apparsa sulla scena una ottima senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar che io vedrei con molto piacere come presidente ma probabilmente non ce la farebbe da sola contro Trump. Rimane allora la meteora Bloomberg che ha scelto una strategia innovativa: ignorare le primarie iniziali dei piccoli Stati e concentrarsi su quelle dei grandi che arriveranno fra qualche settimana, facendo uso della sua ricchezza senza fondo che lo rende libero dai finanziatori. Ce la farà a vincere la nomination? Difficile da prevedere, ma le cose si cominceranno a chiarire fra meno di un mese con il super Tuesday con primarie in molti Stati grandi. Se Biden si ritirasse prima del super Tuesday dopo qualche altra delusione nelle primarie, (Nevada e South Carolina) e trasferisse i suoi voti a Bloomberg, e se quest’ultimo, Bloomberg, scegliesse relativamente presto la Klobuchar, come vicepresidente, (che è di origini umili e bilancerebbe il profilo del super ricco newyorkese) vincerebbero le primarie. Stravincerebbero se la Warren, quando si ritirerà, decidesse di trasferire i suoi voti a Bloomberg, dato che è vicina alle posizioni politiche di Sanders ma personalmente non lo sopporta. Tutto ciò richiederebbe nel partito democratico un minimo di coordinamento che invece non esiste. Forse una parola di Obama in questa direzione sarebbe molto utile anche per sanare i contrasti tra gli afroamericani e Bloomberg createsi quando era sindaco di New York. Insomma, credo che un ticket Bloomberg e Klochubar sia l’unico che potrebbe battere Trump e Pence.

Pag 1 Le ferie obbligate del Parlamento (e le liti sui posti) di Francesco Verderami

Mentre Palazzo Chigi brucia, il Parlamento nemmeno discute. Dalla ripresa dei lavori dopo le festività natalizie è praticamente fermo, immobilizzato dalla (finta) crisi di governo. A Palazzo Madama l’unico brivido l’ha offerto questa settimana il voto su Salvini. A Montecitorio le riunioni d’Aula sono diventate ormai un evento: da gennaio l’Assemblea ha convertito appena due decreti e un disegno di legge. Il resto delle sedute è stato dedicato a tre informative ministeriali, tre ratifiche di trattati internazionali e una decina di mozioni. Praticamente nulla. Un tempo, dopo la Finanziaria, il Parlamento doveva subito esaminare i disegni di legge «collegati» e non c’era un attimo di tregua. Oggi invece è come se la politica non abitasse più lì. Vive surrettiziamente nei continui vertici di governo, dove la mitica «agenda 2023» è stata sostituita dal «lodo» sulla prescrizione. Le cronache dello scontro tra Renzi e Conte raccontano atti d’eroismo e decisioni irrevocabili, in realtà l’altro ieri il premier era propenso a non varare in Consiglio dei ministri la contestata norma e la riforma del processo penale: vista l’assenza polemica dei colleghi di Iv temeva il peggio e voleva evitare la «forzatura». È dovuto intervenire Franceschini: «Qui non si arretra, altrimenti Renzi non si fermerebbe... Semmai pensasse di farlo». Nel frattempo gli abitanti di Montecitorio avevano vissuto l’ennesima giornata di ferie obbligate. È questa la condizione delle Camere, spogliate ormai del loro ruolo e delle loro prerogative. I parlamentari, al pari dei cittadini, vedono i dibattiti dei leader sulle dirette Facebook e attendono con ansia il risultato di elezioni regionali a cui impropriamente viene assegnato un valore nazionale. Da spettatori non più protagonisti, che siano di maggioranza o di opposizione, in questa legislatura si sentono letteralmente «bullizzati» da Palazzo Chigi. Fin qui i ritmi di produzione (bassissimi) del governo giallorosso sono simili a quelli del governo gialloverde, e oggi come allora i presidenti delle Camere protestano perché il Parlamento è costretto a correre per approvare i decreti in scadenza, per giunta consegnati in ritardo. Sarà perché l’attenzione è concentrata sulle centinaia di nomine che rappresentano il vero motivo di scontro tra Renzi e i suoi alleati. Lo prova la confidenza fatta dal ministro Patuanelli ad alcuni grillini, ai quali ha raccontato uno scambio surreale di messaggi con il leader di Iv: «Renzi mi ha scritto e in principio pensavo che mi stesse parlando di politica, invece si riferiva alle nomine». Ma quale crisi di governo, quale voto anticipato. Piuttosto, non fosse stato per la «crisi politica di Hong Kong» e per la «crisi sanitaria in Cina», alla Camera non avrebbero potuto nemmeno dedicarsi alla scrittura di alcune mozioni per combattere la noia. Ci sarebbe anche la «crisi economica in Italia», coi suoi dati preoccupanti, «e bisognerebbe dare un segnale alle imprese che stanno soffrendo», ha detto il viceministro Buffagni: «Servirebbe agire sulle norme per gli appalti». L’esponente grillino ha citato il «modello spagnolo» per non dover ammettere che il «modello italiano» è da rivedere. Ma chissà se Di Maio gli ha riferito la voce circolata in Consiglio dei ministri e che l’ha fatto sorridere amaro: «Il dicastero dell’Economia ha fermato alcuni provvedimenti perché Gualtieri è impegnato nelle elezioni suppletive di Roma. Fossi stato io...». In attesa che l’ennesimo annuncio di Conte (il piano per il Sud) si trasformi in un provvedimento per l’Italia, la Camera ha regolamentato le relazioni con Colombia, Turkmenistan e Uruguay. Ed è chiaro che il Parlamento non è colpevole ma vittima della situazione. Perciò, in attesa di votare qualcosa, passa il tempo a parlare di ipotetici ribaltoni. L’ex sottosegretario Ferri ha riferito, per esempio, che i «due Matteo» sarebbero pronti all’intesa di governo e che «per convincere la Meloni potrebbero darle la Difesa». È quando Verdini è a Roma che si scatena il pissi-pissi. Anche ieri era nella Capitale, in procinto di partire per Firenze. Ma ha sbagliato treno: «Denis, ultimamente le sbagli tutte», gli ha sorriso il diccì Rotondi che era sulla carrozza. È il risiko delle nomine però ad appassionare il Palazzo. Se Renzi è furioso con Conte è perché ritiene che abbia già iniziato la spartizione alle sue spalle. Se ce l’ha con Franceschini è perché sospetta che il suo criterio di assegnare i posti «uno per volta» sia un modo per tagliarlo fuori. Davanti a questo spettacolo, il Parlamento è fermo: non si interrompe un’emozione...

Pag 15 Dopo 70 anni il primo bilaterale tra Cina e Vaticano di Gian Guido Vecchi Rapporti Santa Sede – Pechino

Città del Vaticano. Il comunicato della Segreteria di Stato vaticana arriva in serata, e già il titolo non ha precedenti, la novità è storica: «Incontro bilaterale Santa Sede – Repubblica Popolare Cinese». Il Vaticano e la Cina non hanno rapporti diplomatici formali da settant’anni, da quando Mao prese il potere e il nunzio Antonio Riberi fu costretto a lasciare il Paese due anni più tardi, il 5 settembre 1951. Ma anche prima —le relazioni ufficiali risalivano al 1942 — non c’era mai stato un incontro diplomatico di così alto livello: l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si sono visti a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco 2020. Il colloquio si è svolto «in un clima cordiale» e «sono stati evocati i contatti fra le due Parti, sviluppatisi positivamente nel tempo», informa il Vaticano. La strategia del dialogo con Pechino, voluta da Papa Francesco, ha già portato all’«accordo provvisorio» del 22 settembre 2018 sulla nomina dei vescovi dopo decenni di trattative sottotraccia. I due ministri degli Esteri, nel colloquio, ne hanno «evidenziato la particolare importanza». La nota vaticana fa capire che si sta lavorando al ristabilimento dei rapporti diplomatici: «Si è rinnovata la volontà di proseguire il dialogo istituzionale a livello bilaterale per favorire la vita della Chiesa cattolica e il bene del Popolo cinese». Nell’incontro «si è auspicata maggiore cooperazione internazionale al fine di promuovere la convivenza civile e la pace nel mondo e si sono scambiate considerazioni sul dialogo interculturale e i diritti umani». Poi l’ apprezzamento comune per «gli sforzi per debellare l’epidemia di coronavirus» e di «solidarietà nei confronti della popolazione». Su iniziativa del cardinale , Elemosiniere del Papa, la Santa Sede ha inviato in Cina 700 mila mascherine per prevenire il contagio. A dare la notizia era stato il Global Times, versione inglese del Quotidiano del Popolo, organo del partito comunista cinese.

AVVENIRE di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 Oltre l’ombra con i deboli di Lucia Capuzzi Lula dal Papa: ragioni d’un dialogo

«Ho necessità di incontrare papa Francesco per ringraziarlo», aveva detto Luis Inácio Lula da Silva all’inizio di febbraio. E, mercoledì sera, ha ripetuto lo stesso concetto: il gesto del Pontefice «di riunire ad Assisi, il mese prossimo, migliaia di giovani economisti per immaginare insieme una nuova economia più giusta, è un esempio. Un esempio per tutti», a cui il mondo dovrebbe ispirarsi. In quest’ottica va letta l’udienza privata – per questo non presente nell’agenda ufficiale diffusa dalla Santa Sede – che il Papa ha concesso, nel pomeriggio di mercoledì, a Lula. Il quale – aveva anticipato nei giorni scorsi –, in vista di Assisi, ha voluto anche descrivere al Pontefice l’esperienza brasiliana di lotta alla fame e alla povertà realizzata durante i suoi due governi (2003-2010). Ovvero i programmi “Fame zero” e “Borsa famiglia” che hanno fatto uscire dalla miseria oltre 28 milioni di persone tra il 2004 e il 2014. Un esempio di successo, elogiato dalle organizzazioni internazionali e riproposto da vari Paesi che ora, però, rischia di saltare per il taglio dei fondi. La riduzione della povertà e il boom economico, dovuto all’alto prezzo delle materie prime, avevano trasformato Lula nel presidente «più popolare della storia del Brasile», con l’80 per cento di consensi al termine dell’incarico, e in un simbolo per il Sud del mondo. Negli ultimi anni, però, il nome dell’ex leader è stato associato a contenuti di ben altro tenore. Lula è finito al centro di “Lava Jato”, la maggiore indagine antitangenti nella storia del Brasile, avviata nel luglio 2013 dal giudice Sergio Moro. Un ciclone che, in 50 processi, ha travolto manager e politici di ogni schieramento. Tra i 155 condannati ci sono ben due ex presidenti: il conservatore Michel Temer e il progressista Lula. Quest’ultimo è uscito dal carcere di Curitiba l’8 novembre scorso, dopo avervi scontato 580 giorni per corruzione passiva e riciclaggio. L’ex leader – che avrebbe dovuto restare in cella otto anni e dieci mesi dopo la conferma in appello – è stato rilasciato su istanza della Corte Suprema per incostituzionalità della detenzione prima dell’esaurimento di tutti i gradi di giudizio. Lula, dunque, non è stato scagionato: è uscito per una ragione tecnica. Su di lui, inoltre, pesa un’altra sentenza di colpevolezza in prima istanza, sempre per corruzione e riciclaggio, e sei cause potenziali per associazione al traffico illecito di influenze. Delitti per i quali l’ex leader non si stanca di professarsi innocente e vittima di un complotto per impedirgli la candidatura alle ultime presidenziali, in cui era in testa ai sondaggi. Ad acuire le polemiche, la decisione del suo “grande accusatore”, Moro, di accettare l’incarico di ministro della Giustizia nel governo di Jair Bolsonaro, esponente dell’ultradestra e principale rivale di Lula nella scorsa competizione elettorale. E, soprattutto, le rivelazioni, l’estate scorsa, del sito di inchiesta The Intercept che ha diffuso una serie di messaggi, scambiati via Telegram, fra gli inquirenti di Lava Jato. Dalle comunicazioni, Moro – magistrato giudicante – sembra imbeccare i pm e incitarli a “incastrare” i sospettati. La diatriba è aperta. E, di certo, il colloquio a Santa Marta con Francesco non ha mai avuto la pretesa di chiuderla. Lo stesso Lula – per altro incline all’autocelebrazione – non ha fatto menzione della sua vicenda giudiziaria riguardo all’incontro con il Papa. La riunione, semmai, va letta alla luce di quanto l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio disse all’arcivescovo dell’Avana, Jaime Ortega, poche ore prima dell’elezione al soglio pontificio: in un momento di cambiamenti cruciali per l’America Latina, «la Chiesa non può rimanere a guardare; tanto meno deve affrontare la situazione dall’esterno esprimendo critiche eccessive. Questi processi vanno accompagnati dall’interno attraverso il dialogo». Nel Brasile ultrapolarizzato, lacerato dai conflitti per la terra, segnato dall’avanzata delle sette evangelicali – per altro sostenute dallo stesso Bolsonaro, nonostante si professi cattolico – il dialogo è necessario. Di più: urgente. E la Chiesa non può, non vuole sottrarsi a questa sfida.

Pag 3 E’ l’azzardo la vera pandemia: 1830 euro di spesa pro capite di Maurizio Fiasco Più preoccupante del previsto il bilancio del “gambling” nel nostro Paese

Sulla resistibile ascesa dell’azzardo va fatta un’errata corrige riguardo le cifre del 2019. I dati definitivi superano di un bel po’ le proiezioni formulate a metà tappa. E così si aggiunge un miliardo e 600 milioni di euro: in conclusione quel che hanno giocato gli italiani lo scorso anno ammonta esattamente a 110 miliardi e 447 milioni di euro o, se si preferisce, a quasi 110 miliardi e mezzo. E non a 'soli' 108 virgola 8, com’era nelle anticipazioni presentate a mo’ di exit poll. Appare, nelle dimensioni effettive, l’amara verità dei numeri del gioco d’azzardo, che prosegue inesorabile la marcia nelle contrade del Belpaese, rosicchiando – tra il 2018 e il 2019 – un altro 2 per mille di Prodotto interno lordo. Come se non fossero bastati quei 107 miliardi di euro nel 2018. Dunque, è stata superata anche la soglia psicologica della cifra tondia (per l’appunto il 110): grazie al salto del canguro sul divieto di pubblicità e delle misure di contenimento adottate da molti comuni, la grande Armada delle società di scommesse, lotterie e slot-machine (tipo 'a' e tipo 'b') fidelizza i vecchi clienti e ne arruola di nuovi. A dispetto di limitazioni e altri ostacoli, il consumo di giochi con denaro e per denaro gode della fidelizzazione efficace dei clienti: la dipendenza, come per l’alcol in abuso, quando si continua a bere senza sete. Ed è curioso che l’industria delle manifatture, il terziario dei servizi, il commercio e l’economia del turismo non afferrino che sullo stato di dipendenza dei consumatori poggi un ingiusto vantaggio competitivo, cioè di mercato, delle imprese dell’azzardo. La gerarchia delle spese quotidiane viene infatti sovvertita: si rinuncia a rinnovare l’abbigliamento, non si va in vacanza e si evita la serata in famiglia al ristorante. Mentre si continua a spendere più denaro in lotterie e slot-machine e a inviarlo ai casinò online. Anche le spese di salute sono rinviate, per esempio le cure ai denti dei bambini: si fa sempre meno prevenzione, come mostra il dato di un taglio del 34%, cioè di oltre 600mila in- terventi soft, alle otturazioni per le carie, diffuso d’associazione dei medici specialisti. La conferma è in un viaggio, rapido e accurato, nelle venti regioni italiane. Per la prima volta con i dati del 2019 appena concluso si ha un quadro completo, sia per quanto riguarda il denaro versato nelle istallazioni dentro sale fisiche, sia per il giro di soldi nelle piattaforme digitali dei siti online. Ecco il panorama, con una tavola che parla a chi voglia intenderne il senso. Ponendo in relazione l’importo totale del consumo, quale si distribuisce nelle singole regioni, con il numero di abitanti, colpisce che regioni particolarmente segnate dalla crisi economica siano ai vertici della classifica: l’Abruzzo e la Campania. Nelle loro province si è ampiamente superata la barriera dei duemila euro a persona di spesa annua. In media, vale a dire per una comparazione statistica procapite, a ogni italiano va attribuito un consumo lordo di gioco d’azzardo pari a 1.830 euro in un anno: più di 152 euro al mese. Neonati e ultranovantenni inclusi. Sopra il valore medio, si colloca per l’appunto l’Abruzzo, che si distacca dalle regioni confinanti – Molise, Lazio e Marche – rispettivamente per 17, 12 e 24 punti percentuali. Una proporzione davvero allarmante. Ed è proprio la contiguità territoriale e la somiglianza del tessuto sociale tra queste regioni Italia che fanno risaltare con immediatezza il legame con la sofferenza della vita dopo il terremoto, e perciò l’approfittamento che ne fa l’industria dell’azzardo. Il Centro d’Italia, l’Abruzzo prostrato dalla tragedia del sisma, è esposto indubitabilmente al business aggressivo delle scommesse e delle apparecchiature del gambling, nella dimissione dello Stato dal compito di proteggere i cittadini. Unici anni dopo il terremoto. In controtendenza va solo il Piemonte. E lo possiamo documentare, correggendo quanto avevamo ricavato dalle prime anticipazioni dai dati poi risultati incompleti per difetto. Sì, le province di quella Regione hanno continuato a giovarsi della protezione della legge che a fine 2017 aveva allontanato dai luoghi sensibili le istallazioni del gioco d’azzardo. I due valori di riferimento – il consumo per persona di azzardo 'territoriale' e di quello digitale – pongono la Regione sabauda al di sotto, per 14 punti percentuali, della media nazionale. E per il solo gioco con supporto fisico il divario è di quasi 15. Lì, effettivamente, si è avuto un contenimento dei danni per la Salute che la Regione aveva reso possibile nella precedente legislatura. E che ora le lobby vogliono cancellare, con una reformatio in peius delle norme del 2016. I nsomma, nel bilancio del 2019, come si presenta il panorama in Italia? Con un netto peggioramento dello stato di salute quasi ovunque. Vi è la progressione di un continuum della patologia sociale che si incarna nella sofferenza quotidiana delle persone e delle famiglie. Detto in altri termini: questi numeri denunciano che prosegue la sequenza che trasforma il giocatore da occasionale in abitudinario; quello che pratica l’azzardo in modo costante diviene 'problematico'; dal problema, cioè, dall’eccesso difficile da controllare, si scivola nel disturbo clinico da gioco d’azzardo, come con l’acronico 'Dga' lo classifica il Servizio Sanitario Nazionale. La punta dell’iceberg per la salute pubblica. Ancora più esplicitamente: al dilatarsi dell’area della popolazione che sta appena un gradino sotto la dipendenza, corrisponde un veloce passaggio dall’epidemia alla pandemia. Quel che contrassegna l’Italia in eloquente cronicizzarsi della sua crisi economica e sociale. Nella più beata incoscienza delle classi colte, delle autorità e degli apparati, compresi alcuni accademici ben condizionati. I nsomma, tra comportamento in patologia clinica, quello appena subclinico e l’abitudinario, il gioco d’azzardo in Italia costituisce un’emergenza innegabile. Se tanti dettagli sullo sfondo (conflitti interpersonali, episodi estremi di autolesionismo, boom di casi di fallimento per debiti delle famiglie, depressione della domanda interna di beni e servizi) venissero accostati a questo fenomeno di grave impatto sociale e individuale, cadrebbe il velo su una delle principali ragioni della crisi italiana da 12 anni in qua.

IL GAZZETTINO di sabato 15 febbraio 2020 Pag 1 La crescita dimenticata, continuità tutta italiana di Luca Ricolfi

Se scorriamo i titoli dei giornali e dei telegiornali delle ultime settimane, è inevitabile constatare che tre argomenti hanno ormai monopolizzato l'attenzione dei media e della politica: il processo a Salvini per la vicenda della nave Diciotti, la giustizia, con la questione della prescrizione, e il coronavirus (ora ribattezzato Covid-19). La questione della prescrizione è arrivata al punto di minacciare la sopravvivenza del governo, mettendo in evidenza la incompatibilità fra Italia Viva e Cinque Stelle. Il problema del coronavirus ha riacceso le accuse di razzismo e xenofobia che il mondo progressista riversa su chiunque non sposi la linea ufficiale, per la quale il diritto allo studio (niente quarantena preventiva per gli studenti che arrivano dalla Cina) ha la precedenza su quello alla salute. O, se preferiamo dirla in modo più filo-governativo: per le autorità preposte a gestire l'epidemia, i rischi di contagio sono così bassi che possiamo permetterci di correrli. In tutto ciò, quel che è completamente sparito dalla scena sono i problemi dell'economia. Eppure l'economia batte alle porte. Ci sono, innanzitutto, i problemi che fino a ieri parevano cruciali, e che ora si preferisce rimuovere. Ricordate il dramma dell'Ilva, che fino a due mesi fa pareva una questione di vita o di morte, per la salute dei cittadini di Taranto come per l'economia del mezzogiorno e dell'intero paese? E l'Alitalia ? Una vicenda che si trascina da anni e ora è tornata alla ribalta solo perché la magistratura ha deciso di indagare una ventina di dirigenti per presunti favori illeciti a Etihad. C'è poi la questione della revoca della Concessione ad Autostrade, un problema che si tende ad affrontare in modo ideologico, come se le scelte (o le non scelte) che si compiono non avessero pesanti ripercussioni economiche (la revoca potrebbe costare miliardi alle casse dello Stato, la rinuncia a imporre investimenti al concessionario potrebbe peggiorare ulteriormente lo stato della nostra rete autostradale). E il MES? Qualcuno ricorda che fino a un paio di mesi sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità volavano le accuse, e anche i più cauti fra gli economisti avanzavano preoccupazioni? Tutto cancellato, tutto sottotraccia, tutto in sordina, sommerso dalle intemperanze dei politici che si sfidano sul processo al capo della Lega, sulla prescrizione, sulle misure da adottare per contrastare il contagio. Ma non è tutto. Accanto ai problemi specifici dell'economia italiana ci sono le turbolenze che arrivano da fuori e da lontano. La crescita mondiale sta rallentando, la Brexit sta creando incertezza e instabilità, il commercio con la Cina subirà certamente una frenata. E in questo quadro arrivano le stime di crescita per il 2020 e il 2021 della Commissione europea, che annunciano un rallentamento dell'Europa in generale, e dell'Italia in particolare. La vera notizia, per noi, è che anche nei prossimi anni, così come in quelli passati, l'Italia occupa l'ultimo posto, dietro paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Tutti i paesi dell'euro, secondo le previsioni, cresceranno più dell'1%, e 10 paesi (su 19) cresceranno fra il 2 e il 4%. Solo per l'Italia la Commissione prevede una crescita prossima a zero (0.3%). Qualcuno dirà che questa è l'amara eredità del governo populista e del suo capo, quel Giuseppe Conte che aveva profetizzato che il 2019 sarebbe stato un anno bellissimo. Qualcun altro obietterà che, nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso, o da Conte 1 a Conte 2, le cose sono addirittura peggiorate, visto che per il terzo trimestre del 2019 l'Istat prevede addirittura una contrazione del Pil (-0.3%). Ma ad entrambi, e a chi rimpiange gli anni precedenti, vorrei ricordare che il primo segno meno davanti al tasso di crescita del Pil risale al secondo trimestre del 2018, quando il timone dell'economia era ancora in mano al governo Gentiloni. Dunque, facciamocene tutti una ragione: se guardata dal lato dell'economia, l'Italia brilla per la continuità delle sue non- politiche. Sono anni e anni che, chiunque governi, siamo ultimi in Europa. E sono anni e anni che i nostri nodi veri, dal debito pubblico alla pressione fiscale, dalla produttività all'occupazione, preferiamo non affrontarli. E ogni coronavirus che passa ci fornisce l'insperata occasione di perseverare nella nostra inerzia.

Pag 1 La pistola nel cassetto e un Paese immobile di Bruno Vespa

Matteo Renzi conferma di avere la pistola con il colpo in canna per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ma allontanandosi dall'Italia per qualche giorno l'ha messa in un cassetto. La mozione di sfiducia è pronta e può essere tirata fuori al momento opportuno. Ma il momento potrebbe tardare settimane. Al tempo stesso Italia Viva è pronta a votare la fiducia al governo quando Giuseppe Conte manderà in Parlamento il pacchetto giustizia approvato dal Consiglio dei ministri l'altra notte, incluso il lodo sulla prescrizione che Renzi sostiene di non voler accettare per nessuna ragione. Che senso ha tutto questo? Apparentemente nessuno. In realtà si sta giocando al gatto col topo. Il problema è che sia Conte che Renzi sono convinti di essere il gatto. Il premier ha una pattuglia di responsabili nascosta? Difficile che da Forza Italia vada qualcuno a sostenere il governo su un provvedimento giustizialista promosso dai 5 Stelle. Il premier pensa che Renzi bluffi e vuole scoprirgli le carte? Il suo predecessore tiene per questo nel cassetto la pistola con la pallottola della sfiducia per Bonafede e l'uscita dalla maggioranza. Il problema è come e quando possa andare avanti un governo in cui uno dei quattro partiti che lo sostengono non partecipi a una riunione importante del Consiglio dei ministri e che si dissoci da provvedimenti chiave. Dopo la prescrizione, Renzi partirà all'attacco del reddito di cittadinanza, delle intercettazioni e quant'altro. E il colpo su colpo continuerà per mesi, anche perché PD e M5S cercheranno di non fargli toccare palla sulle nomine di primavera. Abbiamo appreso ieri che i contrasti della maggioranza hanno prodotto la revoca del rinvio ad aprile della detraibilità delle spese pagate per contanti (quindi chi ha pagato nei primi 45 giorni dell'anno non ne beneficerà) e l'annullamento della moratoria di un anno chiesta da professionisti e imprese prima dell'attuazione delle pagelle fiscali. Veniamo intanto a scoprire che soltanto il 21% delle opere prioritarie previste dalla Legge Obiettivo (governo Berlusconi 2001) sono state completate in quasi vent'anni con una spesa di 19 miliardi sugli 89 stanziati. Delle 25 opere definite di serie A ne sono state completate soltanto tre, tutte milanesi e di medio importo. Il Sud è sempre più lontano. Dinanzi a questi dati, a un'economia di nuovo sull'orlo della recessione, a un Paese che si conferma ancora una volta ultimo in Europa, a un parlamento che nel nuovo anno ancora non riesce a combinare niente per mancanza di materia prima, c'è da chiedersi fino a quando dovremo riempire giornali e trasmissioni di parole senza che spunti una concreta sferzata di energia.

LA NUOVA di sabato 15 febbraio 2020 Pag 7 La crisi è già in atto ma per il momento non si può dire di Bruno Manfellotto

In altri tempi, tocca dire così, la crisi di governo sarebbe già aperta da un pezzo. Del resto succede che un azionista di minoranza della compagine voti ripetutamente contro la sua stessa maggioranza - alla cui nascita ha fatto da levatrice - e dunque si schieri con l'opposizione. Non su una quisquilia, poi, ma nientepopodimeno che sul totem della prescrizione. Matteo Renzi quindi non si ferma, insiste, e però lo fa giurando che non ha alcuna intenzione di far cadere il governo. Ha ingaggiato un braccio di ferro - "voi giustizialisti, io garantista" - e vuole vincere lui. Più che alleato, concorrente. Il paradosso, di cui si nutre la politica, vuole però che a battersi ad agosto per l'alleanza con i 5S, impensabile solo poche ore prima, sia stato proprio colui che ora li sta picconando. Non si esagera dunque a pensare che Renzi lo abbia fatto anche e soprattutto per marcare una sua strategica autonomia, e per indebolire e mettere in difficoltà il Pd. Occhio alle date: i suoi ministri giurano assieme al nuovo governo il 5 settembre, e lui annuncia la scissione dal Pd e la nascita di Italia Viva il 17, appena due settimane dopo. A essere maligni, diceva Andreotti... Per carità, in politica è ammesso (quasi) tutto. Ma è lecito chiedersi che vantaggio possa esserci nel bucare il fondo della barca sulla quale si sta navigando. Se tutto questo battagliare finisse male e si andasse a votare, Renzi dovrebbe dire che cosa vuole fare e da che parte sta: se restasse con il centrosinistra, si appoggerebbe a una compagine che ha fatto di tutto per indebolire e umiliare; se corresse dall'altra parte, si condannerebbe a fare la ruota di scorta di Salvini e Meloni. Sempre che non pensi a un personale trionfo, una vittoria alla Macron: eppure la brutta esperienza del referendum dovrebbe insegnare qualcosa. Senza contare poi che - con grande leggerezza, per non dire irresponsabilità - lo scontro avviene sul tema sensibilissimo della giustizia. Per la complessità e la singolarità del caso italiano (processi troppo lunghi), l'approccio alla prescrizione imponeva una discussione approfondita, una seria analisi di costi e benefici. Copione simile ha accompagnato la decisione di mandare a processo Matteo Salvini per il sequestro - così recita l'accusa - dei migranti soccorsi dalla nave militare Gregoretti. Il fatto che solo pochi mesi prima il premier Conte (uno) e le truppe grilline abbiano invece difeso a spada tratta lo stesso Salvini nel caso di nave Diciotti e abbiano cambiato idea ora che l'alleato di governo è diventato avversario, apre la strada a un pericoloso relativismo giudiziario. Che peraltro consegna alla magistratura una questione innanzitutto politica. Ora, vai a sapere come finirà. Comunque, se non dovesse concludersi subito e traumaticamente, la telenovela giallorossa proseguirebbe in uno stato di caos perenne, di tensione senza fine. Protagonista un governo senz'anima. Destinato, in assenza di un colpo di reni, a spegnersi lentamente.

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