UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO TITOLO L'eredità Di Roberto Longhi

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO TITOLO L'eredità Di Roberto Longhi UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO Scuola di Alta formazione Dottorale Corso di Dottorato in Studi Umanistici Interculturali Ciclo XXXII Settore scientifico disciplinare L-ART/04 TITOLO L’eredità di Roberto Longhi Supervisore: Chiar.mo Prof. Marco Belpoliti Tesi di Dottorato Tommaso TOVAGLIERI Matricola n. 1049230 Anno Accademico 2019/20 Sommario Longhi on demand I 3 giugno 1970 II L’Eredità III Più di una manciata di lettere: il carteggio tra Paolo Candiani e Roberto Longhi (1943-1967) IV Dal 1945 in giù, fino al giovane Longhi TAVOLE Longhi on demand Se esiste una figura in grado di riassumere da sola l’evoluzione dello studio della storia dell’arte nelle sue molteplicità, dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri, quella figura è senza dubbio Roberto Longhi (1890-1970) (Fig. 1). Perché sia storia dell’arte deve essere storia dell’uomo e la vita di Longhi, che divideva il suo tempo come a stagioni, è sempre principio e fine. Il suo metodo tutto ha rimesso in questione e tutto ha tenuto in sé: riscavando ogni volta dal fondo, tornando ogni volta all’inizio. Come un faro che svetta in mezzo al mare del Novecento, Longhi ha saputo illuminare ciò che gli stava dietro con ciò che gli sarebbe stato davanti. Planando a volo d’uccello sul primo scorcio del secolo, Longhi muove culturalmente ispirato dalle atmosfere di Eugène Fromentin, influenzato nell’immaginario dal neoromanticismo di Ruskin e di Pater, guardando a Giovanni Battista Cavalcaselle, ai pioneers della Scuola di Vienna, quando la storia dell’arte, in reazione alle superstiti trascendenze neoclassiche e romantiche, si era fatta storia di quadri, di statue, di edifici, di documenti, di fatti concreti, di giustificata materia positiva. Nel 1911 si laurea con Pietro Toesca, un ligure poco più grande di lui, che capisce da subito di avere a che fare con un predestinato a cui non può sottrarre l’invenzione del Caravaggio per una banale tesi su i castelli del Monferrato. Come Toesca, Longhi, faceva parte di quelle generazioni di studenti che erano quasi tutti allievi diretti o indiretti di un modenese che avrebbe voluto fare l’artista ma che era finito per ottenere la prima cattedra universitaria di storia dell’arte, quando la disciplina era ancora assai debole: Adolfo Venturi. A lui Longhi si rivolge ben presto da pari a pari. Il giovane critico nutre infatti il bisogno di misurarsi con giganti del suo livello: diventa crociano, anticrociano, postcrociano, ricevendo il plauso di grande tra i grandi dal filosofo abruzzese. Prende di mira il principe dei conoscitori piovuto in Italia dall’America, Bernard Berenson: lo ama, lo studia, lo sfida, lo supera. Nonostante l’approdo relativamente tardo alla cattedra universitaria Longhi si impone sullo scenario storico artistico come il maggiore conoscitore d’arte antica. Titolo riconosciutogli anche dai suoi detrattori nel dietro le quinte di innumerevoli lettere, mentre chi platealmente prova ad attentarne la posizione cade inesorabilmente sotto i colpi di missili quali Piero della Francesca, l’Officina ferrarese, i Quesiti caravaggeschi, I fatti di Masolino e Masaccio… capisaldi che affrancarono la storia dell’arte da quell’orgogliosa astrattezza con cui veniva ancora trattata e intesa. D’altronde quello storico dell’arte originario di Alba sembra il depositario di un nuovo alfabeto, in grado di unire alle doti attribuzionistiche del suo occhio, una profonda conoscenza storica e un esercizio prosastico del tutto sconosciuti per le arti visive. Dietro la costruzione dei suoi testi si agitano le ombre di Manzoni, di D’Annunzio, di Proust, maestri più o meno rivelati a cui il critico deve il suo impasto narrativo tanto che Longhi diventa un caso letterario già da vivo: non solo storici dell’arte ma anche critici, scrittori, romanzieri, tutti lo guardano nessuno lo afferra, di lui l’amico Gianfranco Contini proverà a scomporre l’opera periodizzandone lo stile: “primo Longhi, secondo Longhi, terzo Longhi”, “vociano, sperimentale, classico”. E sempre Contini lo avrebbe considerato nella sua risicata «Storia della letteratura italiana contemporanea» come punto alto e fermo accanto a Montale e a Ungaretti. Guardando alle personalità della scuola che mise a punto, dai primi corsi bolognesi della seconda metà degli anni Trenta fino al suo pensionamento dall’Università di Firenze nel 1966, si assiste al propagarsi delle diverse sfaccettature ed implicazioni del pensiero critico di Longhi: pensiero che ha dentro di sé le ragioni del suo sorgere e del suo definirsi. Ma il mito e l’immaginario longhiano inizia ad espandersi e a riprodursi al di là dei confini strettamente legati al tradizionale rapporto tra insegnante e allievo. Da Longhi trovano formazione studiosi come Francesco Arcangeli, Raffaello Causa, Giovanni Previtali, meteore come Alberto Graziani, conoscitori come Giuliano Briganti, Luciano Bellosi, Carlo Volpe, outsider come Giovanni Testori, equivoci morali come Federico Zeri, insospettabili come Giorgio Bassani e Mario Soldati, precoci teoriche del femminismo e rivelatrici dell’”Arte povera” – prima che questa avesse un nome – come Carla Lonzi, fino alla «fulgurazione» di uno tra i maggiori intellettuali del nostro Novecento: Pier Paolo Pasolini. Per ognuno di loro, per i tanti di loro, Longhi apre sentieri disciplinari inesplorati, costruisce schemi architettonici nuovi, traccia le fisionomie, indirizza i risultati nel sacro bosco di una storia dell’arte sistemata dal di fuori, per secoli, per regioni, per scuole, alla ricerca di quella serie di artisti responsabili, raggiungibili per tappe di un progressivo accostamento. Longhi è in grado di vedere là dove nessuno ancora vede, anticipando e recuperando allo stesso tempo, con sguardo bifronte, tra futuro e passato, consapevole del fatto che la scoperta si nasconde nell’attribuzione ma anche nella storia delle fonti. Dalla sua testa inevitabilmente sarebbe nata infatti, come Atena da Zeus, anche Paola Barocchi e da quella stagione avrebbe richiesto a gran voce la traduzione di Patrons and Painters di Francis Haskell. Coprendo e dominando, in questo modo, il campo della partita giocata sul metodo di ricerca storico artistico per cui Longhi, che tutto tiene in sé, non è l’iniziatore ma il fasto. In questo senso per provare a raccontarne l’eredità si comincia dall’immagine della fine come in Sunset Boulevard: dal 3 giugno 1970, il giorno della morte. In una logica di ribaltamento della cronologia di una vita, non priva della poetica del frammento, dove una parte della storia comprende tutta la storia, si registrano dal principio le reazioni al grande gelo della sua dipartita: guardando al fenomeno Roberto Longhi da un osservatorio del tutto rovesciato per cui si incontrano dati inaspettati che aiutano a scalfire, un poco di più, il mistero e l’importanza del suo lascito. Nel coro di voci riunitesi nel ricordo del maestro non mancano ragazzi della prima ora, studenti e compagni di viaggio, illustri colleghi, allievi indiretti, direttori di museo, scrittori realisti e non, ma anche presunti avversari o inconfondibili arganiani. La figura di Longhi si presta alla costruzione di un’allegoria dello studio della storia dell’arte senza precedenti, un teatro di metodo e d’erudizione, una fabbrica di visioni prospettiche, antiche e moderne insieme, il cui artefice con perizia riproduce, nella forma delle sue edizioni delle «Opere complete», ogni mitologia. La cura della sua opera – dalla rivoluzionaria rivista «Paragone», nata a doppio fascicolo, letterario e storico artistico nel 1950, fino al trittico espositivo milanese – sembra avere gli stessi codici del Kolossal cinematografico assomigliando sorprendentemente a una dimensione d’opera disneyana. Ed è davvero curioso scoprire come Longhi finisca per avere a che fare anche con il regista newyorkese John Cassavetes, in particolare con il film che l’ha consacrato definitivamente come uno dei più grandi autori del cinema internazionale: Faces, (Volti), girato nel 1968. Il film racconta la storia di Maria e Richard Forst, una coppia altoborghese, interpretata da John Marley e Lynn Carlin, che dopo quattordici anni di matrimonio sembra arrivata alla fine. L’uomo vuole infatti divorziare e, mentre la moglie trascorre una serata con delle amiche e con un ragazzo conosciuto in un locale, Richard incontra una giovane Gena Rowlands nei panni di una sensibile prostituta. È un film che si svolge interamente a Los Angeles, per lo più all’interno di due abitazioni, girato con pochissimi mezzi e senza neppure i cachet per gli attori. Ciò nonostante l’effetto risulta eccezionale. E proprio in gran parte delle scene ambientate nell’appartamento della Rowlands non si contano le inquadrature dove spicca il manifesto – con il dettaglio del polittico di Treviglio di Butinone e Zenale – della mostra longhiana Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, allestita al Palazzo Reale di Milano dieci anni prima (Figg. 2-11). Per Longhi la sua eredità sarebbe passata anche dall’esaudimento di quel desiderio rivelato in tempi ancora non sospetti ma che rimontava a chissà quale periodo della vita: la realizzazione di una Fondazione di studi a lui intitolata. Nel disegno dello storico dell’arte l’istituto sarebbe stato la rappresentazione fisica del luogo in cui conservare e tramandare il proprio pensiero. Anche qui Longhi esercita tutta la sua visione, formalizza i testi, sceglie gli spazi, fa dono della propria collezione e fototeca, tutela finanziariamente la moglie Anna Banti senza tuttavia coinvolgerla direttamente nell’Istituto per il quale mette in asse un cast di personalità di primissimo ordine, da Raffaele Mattioli a Gianni Agnelli, collaudando l’ingranaggio di una macchina di formazione che, per il settore delle arti visive nell’Italia degli anni Settanta, era a dir poco avveniristica. Non sapremo mai se negli ultimi momenti, piuttosto malconci di salute, trascorsi tra fotografie di quadri e rassicurazioni elargite fino all’ultimo ad allievi e amici, Longhi fosse convinto di poter compiere l’impresa della Fondazione. Ciò che sicuramente non aveva messo in conto era lo snaturamento che la stessa avrebbe subito, qualche anno dopo la sua morte, attraverso l’inserimento di nuovi soggetti, diciamo così, non propriamente ortodossi al suo lascito.
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