"Jeanne Lee E Il Pianoforte"

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FRANCESCO FORGES "JEANNE LEE E IL PIANOFORTE" Analisi di 4 incisioni discografiche realizzate dalla grande cantante insieme a Ran Blake e Mal Waldron. Un dialogo ai confini del silenzio, tra tradizione e sperimentazione, oriente e occidente, musica afro-americana ed europea del '900. Esame di Storia del Jazz I Bienno Superiore di Jazz- Anno scolastico 2008/2009 Conservatorio "G. Verdi" di Milano E' difficile, a pochi anni dalla sua scomparsa, affrontare con il necessario distacco una figura di cantante ed artista come quella di Jeanne Lee. Difficile perché scarsi sono i materiali critici a disposizione a dispetto dell'importanza di questa musicista nello sviluppo del canto jazz ed è, allo stesso tempo, eccessivo il suo lascito discografico a dispetto di una certa discontinuità negli esiti artistici. Ho pensato dunque di concentrare la mia attenzione su 4 lavori discografici che vedono la cantante newyorkese nella dimensione del duo con pianoforte, dimensione che appare senz'altro la più congeniale per una voce che quasi mai oltrepassa il carattere del sussurro e che quasi sempre oscilla, dal punto di vista dinamico, tra il pianissimo e il mezzoforte. Il che suona assai bizzarro, in considerazione anche del fatto che il nome di Jeanne Lee è associato, in maniera a mio parere riduttiva, al free jazz (cfr. per esempio Paolo Vitolo in "Guida al jazz"), cioè un linguaggio preciso la cui dimensione sonora, decisamente espressionista e spesso ridondante, si muove spesso nei territori del fortissimo, dell'urlo, trovando a mio parere un'identificazione più corrispondente, in ambito vocale, nella concitazione rabbiosa espressa da una Abbey Lincoln (che, come vedremo, è certamente uno dei punti di riferimento della stessa Lee ma da un altro punto di vista) nella "Freedom Now Suite" di Max Roach o in certe espressioni più recenti, e prevalentemente maschili, della free music europea e americana (Phil Minton, Beñat Achiary, Dave Moss), senza dimenticare alcune performances di Diamanda Galas che, pur non essendo strettamente una cantante di jazz, è senz'altro debitrice nei confronti del movimento free di alcune sue modalità di emissione nonché di un aggancio, non casuale, con la dimensione blues o religiosa che può ricordare alcune produzioni di Albert Ayler. Jeanne Lee al contrario, pur aderendo all'idea del free come liberazione dai canoni formali e stilistici del jazz precedente, pare invece riportare sempre i suoi accompagnatori, e più in generale i musicisti e gli organici con i quali collabora, alla sua specifica dimensione sonora e, di conseguenza, espressiva e poetica. Scorrendo la sua discografia corposa quanto ricca di titoli rarissimi e per lo più fuori catalogo o introvabili si nota che, se la dimensione del duo è spesso praticata (prevalentemente in compagnia del secondo marito, il polistrumentista tedesco Gunter Hampel), sono solamente due i pianisti insieme ai quali la Lee incide ed anche loro, diciamo così, due "eccentrici" del pianoforte, due musicisti appartati e caratterizzati da uno stile molto personale che incorpora in entrambi casi alcuni elementi del free jazz senza mai aderirvi interamente, uno bianco e uno nero: Ran Blake e Mal Waldron. 1 - Blake/Lee 1961 Nata nel 1939 a New York in una famiglia di musicisti, Jeanne Lee incontra Ran Blake al Bard College dove ha potuto studiare letteratura, psicologia e danza e si è laureata nel 1961. Proprio negli ultimi mesi di quell'anno il loro duo, già attivo alla fine degli anni '50, registra quello che sarà il primo disco della carriera di entrambi: "The Newest Sound Around", sotto l'egida di Gunther Schuller che aveva già conosciuto casualmente Blake un paio di anni prima e lo aveva introdotto nel mondo del jazz, portandolo a studiare, ai corsi estivi della Lenox School o privatamente, con alcuni grandi del jazz come John Lewis, Oscar Peterson, Bill Russo, Mary Lou Williams e, cosa assai importante ai fini di questa analisi, Mal Waldron. Questo disco, ancora oggi considerato un piccolo capolavoro e oggetto di numerose ristampe anche in cd, nasce dunque dall'incontro fra due musicisti eccentrici nonché giovanissimi (nel momento della registrazione Blake ha 26 anni e Lee 22). Jeanne Lee appare, dal punto di vista vocale, come completamente autodidatta e si può ipotizzare che la sua maggiore influenza sia quella del padre, S. Alonzo Lee, che Eric Porter, nel suo interessante saggio "Jeanne Lee's voice" - reperibile su Internet e da cui ho tratto molte informazioni per questa tesi - definisce "concert and church singer", dunque certamente un cantante, anche se non è chiaro esattamente in quale ambito musicale (ma Luciano Federighi, nel suo "Cantare il jazz" la definisce: "educata formalmente, figlia d'un cantante classico"). La sua formazione, e più in generale il suo pensiero musicale e poetico, risultano invece molto determinati dalle altre discipline affrontate nel corso dei suoi studi e in particolare dalla danza che potremmo definire il suo mezzo di avvicinamento alla musica colta europea, attraverso le coreografie realizzate - sempre in ambito universitario - sulle musiche di Bartók, Bach, Ives, Schoenberg e Kodály. Un'attitudine questa che certamente le ha reso possibile avvicinarsi al mondo espressivo di Ran Blake che già a quel tempo andava chiarendosi nel senso di un dialogo fecondo fra le musiche e i linguaggi a lui più vicini - il jazz e il mondo della musica afro-americana in senso ampio - e il pensiero musicale dei grandi compositori europei del '900, tanto che nel suo pianismo possiamo trovare tracce di gospel come di Ravel e Debussy, di Monk come pure di Messiaen o Prokofiev e Scriabin oltre che una conoscenza approfondita, e neanche tanto celata, del repertorio degli standard di Broadway e delle musiche del cinema "noir", un'altra delle sue passioni. E del resto questa prima produzione discografica del duo Lee-Blake (con l'aggiunta del bassista George Duvivier in due brani), a differenza della seconda di cui ci occuperemo più avanti, è composta quasi interamente di standard e blues, con l'eccezione di un brano di Monk (anch'esso un blues) e un originale di Blake ispirato al gospel. Dunque sembra che l'intenzione dei due giovani musicisti sia proprio quella di utilizzare i temi dei musical allo stesso modo dei boppers, cioè per demistificarli rendendoli niente di più di una griglia di accordi sui quali improvvisare, ma con l'aggiunta di alcuni elementi in più che li rendono in qualche modo partecipi della scena musicale a loro contemporanea. In particolare l'uscita, almeno parziale, dalla pulsazione ritmica regolare e l'incessante rielaborazione armonica sono gli elementi che più avvicinano questi due musicisti al pensiero musicale e agli esperimenti portati avanti in quegli stessi anni da musicisti come Ornette Coleman e Cecil Taylor e che portano l'ascoltatore, in taluni casi, ad un vero e proprio senso di spaesamento arginato solamente dalla precisione e fedeltà della Lee nella dizione del testo di ciascuna canzone e, in parte, nell'esposizione della linea melodica originale. Va detto inoltre che dalla prima edizione discografica vengono esclusi quattro titoli che pur appartengono alle stesse sedute di registrazione, svoltesi a New York il 15 e 16 novembre e il 7 dicembre del 1961. Ed è curioso notare come due di questi titoli esclusi (gli altri sono un secondo brano orginale di Blake e uno spiritual intonato a cappella da Lee) siano proprio due temi di Mal Waldron su testi di Billie Holiday ed Abbey Lincoln, una scelta che rende immediatamente evidente l'importanza e l'influenza di questo musicista per entrambi e delle due cantanti per la Lee. Il disco si apre su alcuni accordi di Blake, quasi presi di peso da qualche spartito di Messiaen, che introducono il tema di Laura tratto dall'omonimo film di Preminger di cui Blake si dichiara da sempre appassionato. Ma ad ascoltare attentamente la trama armonica costruita dal pianista intorno all'esposizione del tema si nota come gli accordi originali siano sempre presenti e allo stesso tempo continuamente modificati e alterati, con una scrittura quasi contrappuntistica che guarda certamente alla musica contemporanea europea per poi all'improvviso distendersi in un accompagnamento tradizionale subito smentito da improvvisi accordi dissonanti. Jeanne Lee in questo caso si impegna strenuamente a intonare il tema senza grosse variazioni e proprio questa sembra essere la funzione stabilita a priori dai due, se non che alla fine del primo chorus i ruoli si invertono ed è la cantante, quasi senza preavviso, che comincia ad improvvisare liberamente e senza parole sulle prime A e B, mentre Blake riprende quasi in maniera impalpabile il tema ma sempre trasformando gli accordi con continue dissonanze. Il tema dunque, nelle sue componenti sia melodica che testuale, sembra essere la bussola che entrambi usano per ritrovarsi in questa particolarissima versione, allucinata e ai confini del silenzio, di quella che Schuller definì la "third stream", un'etichetta che, come molte altre etichette, sembra essere un po' riduttiva per musicisti come questi. E' evidente che, ascoltati oggi, questi brani non sono altro che la prefigurazione di qualcosa che nel presente in cui viviamo è ampiamente praticato a tutti i livelli da moltissimi musicisti, americani ed europei, in taluni casi anche con esiti che potrebbero essere definiti di cattivo gusto o meramente commerciali ed a-problematici. Ma a me sembra che il tratto principale di questo progetto non sia la semplice giustapposizione di elementi jazzistici con altri presi di peso dalla musica colta europea e non, piuttosto invece la necessità di dar vita ad un mondo musicale e poetico del tutto nuovo e che sia la risultante di molti approcci e discipline diverse, non ultima una vera e propria messa in scena del testo, dove in questo caso l'atmosfera "noir" del film da cui è tratto è determinante nella scelta della veste espressiva da parte dei due artisti.
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