Marco Impiglia

L’EQUITAZIONE ITALIANA OGGI intervista a Federico Euro Roman

165 L’equitazione italiana oggi. Intervista a Federico Euro Roman L’EQUITAZIONE ITALIANA OGGI INTERVISTA A FEDERICO EURO ROMAN, L’ULTIMO OLIMPIONICO

Marco Impiglia [email protected]

Nell’estate del 1980, il ventinovenne triestino , dopo aver fatto esperienza ai Giochi di , vinse in quelli di Mosca la medaglia d’oro nel concorso completo individuale, bissando con l’argento nella prova a squadre insieme al fratello Mauro, ad Anna Casagrande e a Marina Sciocchetti. Si tratta degli ultimi podi sui quali sono saliti i nostri cavalieri in sede olimpica. Oggi Federico gestisce un suo Circolo-Scuola di equitazione, ha una famiglia tutta dedita alla passione per i cavalli, e segue le vicende agonistiche dei figli Pietro e Luca, anche loro già partecipanti alle Olimpiadi. Chi meglio di lui può renderci conto dello stato dell’equitazione italiana? Partiamo allora con le domande 1.

Federico, come si spiega la generazione d’oro del secondo dopoguerra?

In quegli anni, la nostra equitazione viveva una situazione di vantaggio scaturito dalla scuola di matrice militare. Tradizione eccellente, solida, nel suo rigore morale e con la efficace capacità di indirizzo derivata dall’implicita abitudine alla gerarchia. Un lascito interpretato in maniera sempre più raffinata dai nostri cavalieri del salto ad ostacoli e da docenti e studiosi che avevano via via approfondito, anche con una progressiva elaborazione personale, la tecnica equestre, mantenendo sempre al primo posto i concetti caprilliani. Indubbiamente, questa situazione positiva e privilegiata rimase tale fino ad un dato momento, esaltata da elementi di assoluto valore come i fratelli D’Inzeo, Mancinelli, Vittorio Orlandi nel salto ostacoli, Mauro Checcoli, , Ravano, Angioni e altri a seguire nel mondo del completo. È vero che sono i personaggi, i campioni a fare la storia. Ma c’era un assunto di partenza, comune a tutti loro, connesso alle origini e agli sviluppi che avevano caratterizzato l’equitazione italiana. Come si stava trasformando nel frattempo il tessuto sportivo equestre in epoca di enormi cambiamenti sociali? Presto detto. La scomparsa, in brusca progressione, dei reparti a cavallo nelle Forze Armate, venne bilanciata dall’affermarsi di un’attività privata, coordinata dalla Federazione Sport Equestri, di cavalieri, gruppi di entusiasti, istruttori competenti che fece nascere le famose “Scuole di Equitazione”. I circoli, i centri e le società ippiche Torinese, Romana, Lombarda, quelle di Cagliari, Catania e Palermo, di Parma, Bologna, Ferrara, Pisa e Firenze, Napoli, Udine, Alessandria, Padova, Sanremo e molti altri: una bella varietà anche geografica, un fermento evidente. Le libere Scuole, che sono ancora

1 Il testo è la elaborazione di una intervista registrata a Roma il 20 novembre 2017.

166 Marco Impiglia oggi, teoricamente, uno strumento insostituibile per promuovere gli sport equestri, riempirono rapidamente – in quel periodo di concetti semplici, basilari ma precisi – il tessuto sportivo nazionale. Tramite gli Istruttori di base, quasi esclusivamente di formazione militare (i famosi “Marescialli”), si creò, in alcuni ambiti, una adeguata omogeneità, complementare ai principi ed allo stile dei cavalieri migliori, formatisi nel medesimo indirizzo. Questo linguaggio comune, una koinè virtuosa ammirabile nei saggi annuali che vedevano esibirsi le Scuole a settembre-ottobre, avrebbe prodotto le basi del periodo d’oro della nostra equitazione, in un positivo mix tra tradizione e rinnovamento. Tradizione invidiata all’estero e buoni maestri, diffusione e diversificazione sul territorio, organizzazione centralizzata nel Coni della rinascita targato Onesti & Zauli. Furono questi i cardini per la ripresa post-bellica del movimento degli sport equestri.

E tuttavia, col tempo, da maestri diventammo allievi. Fummo superati dalle altre scuole nazionali. Perché?

Volendo approfondire l’analisi sul piano squisitamente tecnico, accadde che in quell’epoca il dressage fu messo quasi all’indice, con l’eccezione del mondo del completo, dove Fabio Mangilli, il generale Manzin, Vittorio Zecchini, cioè grandissimi tecnici, mantennero vivo anche lo studio del lavoro in piano. Fu un eccesso di interpretazione, manicheo direi, della voce di Caprilli: mancò la capacità di trasferirlo a una realtà di mezzo secolo dopo e più. Si generò, così, un meccanismo di regressione subdolo ma potente. Il resto del mondo aveva colto il meglio dei principi innovatori dell’equitazione italiana, legati all’impiego del cavallo sul salto e a taluni concetti di posizione-assetto, insieme al cavallo, del cavaliere: il corretto utilizzo delle staffe, il senso dell’andatura nell’equilibrio, la mano che segue, la libertà dell’incollatura, ecc. Ed in più, le scuole straniere avevano tenuta desta l’attenzione sulla parte positiva del lavoro in piano-dressage, vale a dire del lavoro atletico e ginnastica del cavallo: l’addestramento tout court . L’addestramento del cavallo è indispensabile sempre. Esso consiste nell’ottenere una progressione fisica, psicologica e tecnica che è utile per andare a fare una passeggiata, per galoppare in campagna, per impegnarsi in un dressage o in una prova di salto ad ostacoli. Questa attenzione di altri mondi sportivi per il lavoro in piano, contrapposta alla nostra trascuratezza in merito, fatalmente pose gli altri paesi nella condizione di superarci. Gli avversari sapevano, oramai, eseguire bene le cose nelle quali noi eravamo stati i maestri riconosciuti. In più, i loro binomi cavallo-cavaliere godevano di una preparazione atletica migliore, dovuta al sistematico training. I nostri elementi più bravi avevano saputo lavorare in piano, ma non riuscivano a trasmetterne i concetti, o ritenevano il “lavoro” approfondito privilegio di pochi. Conseguenza di tutto ciò? Al declino dei “campionissimi” cominciarono a latitare i risultati e arrivarono i maestri da fuori.

Che ti ricordi di quella novella stagione della “docenza” straniera?

Beh, diciamo che io ho partecipato a tantissimi stages o lezioni con tutti, sia italiani che

167 L’equitazione italiana oggi. Intervista a Federico Euro Roman stranieri: da D’Inzeo a George Morris, Katy Kusner, Joe Fargis e via discorrendo. Nelson Pessoa, il celebrato “Mago” paragonabile a Messi nel calcio, fu uno dei primi ad essere chiamato al nord Italia. Se non erro, giunse all’abbrivio degli anni ‘70. Il suo modo di montare era ammaliante, vinceva con eleganza e raffinatezza. Poi era arguto e brillante nella conversazione. Cosa portarono Pessoa e gli altri? Essi proposero, a della gente che andava bene sui salti ma denotava grosse lacune in piano, per l’appunto di lavorare di più in piano, in ottemperanza ai metodi da loro sperimentati e collaudati. Soluzione necessaria, per rilanciare il nostro movimento agonistico ad alti livelli. Le vittorie dei formidabili Raimondo e Piero D’Inzeo, modello ineguagliato della sinergia Coni-Forze Armate avviata nella prima metà degli anni ‘50, e quelle del “professionista-commerciante” erano, infatti, il frutto di un abbinamento con cavalli estremamente lavorati; ma, come detto prima, senza aver creato discepoli. La loro maestria inarrivabile non venne coinvolta nell’insegnamento uniforme capillarmente diffuso giù fino alle radici, nelle decine di centri equestri aderenti alla Fise. Sui motivi si potrebbero aprire molti dibattiti. La riscoperta di un approccio più ragionato e tecnicamente definito, meno legato al solo talento individuale, nonché l’individuazione di quello che Pessoa e compagni facevano a completamento di un percorso tecnico, creò un grande abbaglio. Molti di coloro che erano cresciuti sui vecchi principi si scapicollarono a scimmiottare la parte finale del lavoro dei tecnici figli della nuova era. Dimenticando, senza rendersene conto, che comunque i nuovi maestri “esotici” avevano assorbito la nostra scuola, elaborandola in maniera moderna, per cui essi, in ultima analisi, rappresentavano e praticavano l’evoluzione dei canoni caprilliani di settanta anni prima. In sostanza, ciò che da noi era venuto a mancare era stata la trasmissione della tradizione. Molti nostri cavalieri di fulgido curriculum avevano sì interpretato nel pratico la cultura dell’equitazione che li aveva formati, ma non avevano saputo ritrasmetterla coll’insegnamento. E stiamo parlando della teoria: i libri, i manuali, la scrittura che tramanda le esperienze e le conoscenze acquisite sul campo. Per tale motivo, nel completo tenemmo botta, fummo ‘resilienti’ – come ai giorni d’oggi si usa dire – riuscendo quasi sempre a ottenere discreti risultati alle Olimpiadi. Mentre sia nel dressage che nel salto ostacoli abbiamo avuto assenze importanti, finendo per fare da tappezzeria nei concorsi internazionali che contano.

Possiamo dire, allora, che tu stesso e i tuoi colleghi vi siete in qualche misura avvalsi della lectio magistralis di Pessoa e dei maestri di lingua inglese, portoghese, spagnola, tedesca o francese?

Meglio dire che noi completisti eravamo più “attrezzati” a capirne concetti e linguaggio, grazie all’insegnamento del lavoro in piano e sulla condizione atletica del cavallo tramandatoci dai nostri maestri. Quando facevo gli stage con Pessoa o Fargis, per me era tutto chiaro. Più chiaro che ad alcuni ostacolisti da prima squadra dell’epoca.

Ma cosa è successo dopo, negli anni ‘80 e ‘90, per sparire del tutto dal medagliere olimpico? C’è stata una incapacità di saper contemperare le esigenze dei numeri con quelle della selezione. La legge istitutiva del Coni, e di concerto delle Fsn, ha influito molto al riguardo.

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Progressivamente, vuoi in nome di una pretesa democraticità (ma lo sport agonistico è per sua natura non egualitario!), vuoi per l’illusione che l’ampliamento numerico avrebbe prodotto risultati di vertice, si è privilegiatata la ricerca del consenso piuttosto che affidarsi al lavoro quotidiano volto a scremare i migliori. Traducendo in soldoni: si è persa la qualità delle Scuole, la spinta selettiva. Anche la stagione dei Giochi della Gioventù, che per il nostro sport durò circa tre lustri, fu più che altro un’operazione a valenza politica. Fu più di scena che di effetto, e non si seppe inserire in un discorso serio e continuativo. Tra i presidenti, Cesare Croce fu il primo a credere nella forza dei grandi numeri; cosa che, forse, in quel momento era pure giusta, sicuramente al passo con lo spirito dei tempi. Croce portò a compimento progetti utili, ad esempio tentò di recuperare il gap che pativamo nel dressage. Sotto di lui, e dei presidenti che seguirono, si offrì però il fianco a un demone insidioso: la ricerca del consenso. Furono aperte strade di crescita a realtà più inserite in un meccanismo numerico amministrativo che non rispondeva ad un’analisi profonda della qualità; il che comportò un incremento dell’apparato burocratico, e non solo. Mi riferisco agli istruttori, ai dirigenti dei comitati regionali, ai Gog e Magog che ebbero agio di segnare gli indirizzi federali. Lì, a partire circa dagli anni ‘80 connotati da profonde tensioni sociali e contrapposizioni ideologiche, nacquero i primi equilibri complessi, nel nome di una politica che si ingegnava ad andare sempre più incontro ai desiderata della “base”. E si dimenticò che la Federazione non è lo sport nella sua globalità, non può pensare a tutto e determinare ogni cosa. Soprattutto, non si comprese che, qualora sia mera espressione della massa, una federazione sportiva opera in un’unica direzione, che privilegia la quantità rispetto alla qualità e livella verso il basso i valori agonistici. È la filosofia attualmente cavalcata dal web e dai sistemi politici che alla rete si appoggiano, quando la democrazia (che pretenderebbe i migliori ad indirizzare, nell’interesse dei tanti) si fa nemica della meritocrazia. Col tempo, si arriva ad un orizzonte omogeneo ma piatto, dove solo il numero spicca e conta: l’opposto della democrazia di qualità.

Democrazia di qualità... Bello sarebbe se anche le nostre Fsn riuscissero a capitalizzare questo concetto. Fu dunque il populismo della Fise, scaturito dall’allargamento dei praticanti e dal governo di una maggioranza miope e per nulla silenziosa, quello che alla fine diede i cattivi frutti: la contrazione numerica dei tesserati e dei circoli, l’egoismo dei gestori attenti più ai loro interessi che al bene comune, la dispersione del ricco patrimonio della “scuola italiana”, la mancanza di campioni, i disavanzi finanziari e, ciliegina sulla torta, la chiusura, speriamo solo temporanea, del Centro equestre olimpico dei Pratoni del Vivaro, ceduto dal Coni allo Stato?

Io non ho dati certi, però vado a naso, perché registro l’andamento sia del mio circolo che dei circoli che conosco. Fondamentalmente, è stata la pessima congiuntura dell’economia nazionale a determinare la crisi numerica. Era già successo negli anni ‘90, e ora la storia si ripete. L’ambiente sportivo equestre risente in ritardo di queste crisi, e recupera pure in ritardo. Ad esempio, il buco da otto milioni di euro, che ha portato al commissariamento della Fise, è collegato alla politica errata di cui detto, la smania di fare tante cose, accontentare

169 L’equitazione italiana oggi. Intervista a Federico Euro Roman una pletora di persone, muoversi su mille fronti. Fronti che, al redde rationem, non si sono mai rivelati significativi per risolvere il problema dei carenti risultati agonistici. Per esperienza personale, posso dirti che del budget federale quel che viene finalizzato all’attività sportiva è sempre stata una porzione abbastanza piccola. Invece, l’apparato è enorme, labirintico, e non è mai sazio di cibo. Per anni ci si è nutriti dell’idea, della convinzione del “modernismo”. In nome del quale la “base” e i suoi rappresentanti hanno creduto che si potesse destinare al buio polveroso del solaio, con le robe degli antenati, proprio quel che la Tradizione ci dava di positivo. Così è accaduto che siano stati consegnati valori importanti a persone di una caratura equestre modestissima, inversamente proporzionale alla presunzione. E ciò ha prodotto su larga scala la perdita di cultura e persino la distruzione materiale di elementi storici quali il campo del dressage dove abbiamo ospitato i Mondiali e gli Europei, o il famoso doppio-talus dei Pratoni. Autentiche sciocchezze, sciagure agli occhi di noi vecchi cavalieri.

Per dare un senso a questi nostri “piccoli discorsi giapponesi”, Federico, cosa si può fare per rilanciare gli sport equestri in Italia? Per vedere di nuovo una medaglia d’oro olimpica al collo dei cavalieri azzurri? Esiste una medicina priva di effetti dannosi collaterali, una terapia vincente?

Ripartiamo dalle basi, quelle vere. Innanzitutto, il sacrificio. Nell’antico modus militare, c’erano anche degli aspetti che magari io, da giovane, potevo giudicare negativi. Ma, di fatto, la routine in grigioverde aiutava a introdurre nel mondo dello sport quegli elementi di disciplina, serietà, regolarità d’impegno che costituiscono un’ottima piattaforma per andare a cavallo in maniera vincente; e lo faceva non a livello verbale, bensì a livello concreto, di sacrificio. Tutti, oggi, parlano dello sport e del sacrificio. Ma guarda che, all’ipotesi di alzarsi al mattino un’ora prima, i più storcono il naso, si fanno portare la sella dalla mamma, dopo mezz’ora di trotto impegnato sono stanchi morti. L’idea di avere un ordine mentale, e anche comportamentale, ad esempio l’abbigliamento, per un cavaliere non è tecnicamente determinante, e tuttavia è già l’inizio di un’attenzione per se stesso e per il cavallo che poi è utile per raggiungere la perfezione nel momento della performance importante. Altro valore che si è progressivamente perduto è quello della Scuola. Sono pochissimi i centri che ancora vivono coll’idea della Scuola, mentre, se apri un annuario Coni dell’epoca che fu, diciamo il 1967, ne trovi in lista una cinquantina. Ma i tempi cambiano. Discettare di “scuola italiana” quale stile tecnico, non ha più attinenza con la realtà delle cose. Nel senso che la tecnica del salto ostacoli, ma anche del dressage, e in misura minore del completo, si è molto uniformata: tutti montano in maniera simile ad altissimo livello, c’è più poco da inventare. Quello che manca in Italia sono spesso le comuni premesse di base, i precetti da prima classe elementare – come si sale a cavallo, come si impugnano le redini, come si alza un piede a un cavallo, come il ginocchio è fermo ma snodato nel galoppo: capisaldi che negli altri paesi rimangono fortissimi e senza i quali al liceo si zoppica, all’università si passa pagando, ma il Nobel non arriverà mai. E chi insegna ha troppa fretta, pensa in primis alla

170 Marco Impiglia propria tasca e, nel migliore dei casi, alla coccarda precoce. Quando iniziai io, abbastanza tardi a tredici anni, mio padre Antonio, che fu il mio primo istruttore, mi consentì di partire al galoppo dopo sei mesi di passo e trotto. Oggi, per un istruttore, è quasi normale immaginare che un ragazzino cominci a galoppare dopo sei giorni. Per quel che riguarda la Federazione, dovrebbe dare meno importanza agli iter e ai meccanismi burocratici, e ridiscutere certe formule che li governano. Ci sono delle realtà sportive che, in maniera autonoma, hanno una loro validità. Diverse di queste non sono premiate di fatto semplicemente perché non hanno seguito il percorso previsto a livello formale. Al contrario, si dovrebbero recuperare e utilizzare meglio. Il problema dell’unifor mità dell’insegnamento deriva dalla circostanza che non c’è un vertice tecnico, una indicazione, una comunicazione valida tra i tecnici nazionali e le Scuole. La filiera Tecnici Nazionali, Tecnici responsabili Regionali, Tecnici dei Circoli non funziona. Se parliamo di formazione, poi, non esiste un indirizzo, ma si ascoltano moltissime parole, si osservano regolamenti, si leggono testi, e quel che alla fine latita è il contenuto tecnico. Si avverte l’uniformità solamente per valori tipo: quanti anni, quanto costa, quanti giorni, quante ore, quante gare... Bisognerebbe avere il coraggio di prendere decisioni scomode, conferire titoli di merito, ricreare una gerarchia tecnica, dare il potere a chi possiede le capacità di indirizzare gli altri e non per sintonia politica. Non si possono promuovere tutti solo perché riprovano lo stesso esame ventisette volte! Un buon concetto dello sport, se si vuole primeggiare, è il seguente, che certo non scopro io adesso: chi è più bravo spieghi agli altri come fare, senza tante fisime e discussioni: a piedi ed a cavallo. Devi sapere che di cavalieri dotati, che potevano dare qualcosa di più ed invece si sono persi, ne abbiamo avuti moltissimi negli ultimi vent’anni. Per migliorare fino ai vertici bisogna insegnare e pretendere il valore della modestia, specie in chi sta andando bene. Michael Jung, che è oggi il Verbo in Completo, ascolta suo padre in campo come fosse il Padreterno, appunto. Altrimenti resistono i cavalieri medi che, sottoponendosi a un lavoro serio, fanno più strada, ma poi mancano del talento per le medaglie. Vorrei chiudere con alcune riflessioni sul materiale primo: i cavalli. Come prospetto, siamo messi male. Il nostro allevamento non si è evoluto a sufficienza, è meno competitivo di trenta o cinquant’anni addietro, quando i cavalli italiani andavano alle Olimpiadi. Irlanda, Francia, Germania sono mille leghe avanti a noi. Ci dibattiamo tra i fili di ragno di una realtà legislativa che non aiuta. Perchè in Francia tutta l’area dello sport equestre sta sotto l’ombrello protettivo del Ministero dell’Agricoltura, e in Irlanda è considerata come un settore strategico dell’economia nazionale. Il protezionismo e gli incentivi dell’epoca Enci-Unire hanno solo prodotto un mercato drogato. Oggi importiamo ogni anno una massa di cavalli a costi notevoli, e cadiamo ancora nella convinzione, troppo scontata, che il problema di fondo sia quello dei cavalli. Ma l’equitazione non è l’ippica. Non è il Ribot di turno il campione leggendario. Chi conta, chi rimane nella mente, non è il quadrupede ma il bipede. Sai il nome del sauro castrone di dieci anni (nato in Italia) col quale Raimondo D’Inzeo vinse a Roma ‘60? No eh? Eppure sei uno storico dello sport...

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