Il Cinema Tra Finzione E Realtà
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Napoli da Serao a Saviano: racconto o cronaca? IL CINEMA TRA FINZIONE E REALTÀ Maria Lucia Siragusa Questa sezione è un excursus sulla storia del cinema napoletano, con uno sguardo particolare a quei registi che con le loro pellicole hanno raccontato o denunciato momenti ed eventi legati alla storia di Napoli. Sono stati selezionati quindici film con schede di approfondimento, segnalati con i titoli in grassetto. Le schede dei film Sperduti nel buio e La tavola dei poveri sono state curate da Chiara Masiello. Il cinema nasce ufficialmente nel 1895 a Parigi: la rivoluzionaria invenzione inconsapevolmente ha creato un nuovo modo di comunicare, di trasmettere messaggi, di informare. Il linguaggio subliminale ha la sua migliore arma nell’immagine. Il cinema, quindi, prima dell’avvento della televisione, è stato il più grande mezzo di diffusione della cultura. Nel 1896 il Salone Margherita dei fratelli Marino, primo esempio di café-chantant in Italia, ospita il neonato cinématographe dei fratelli Lumière, presentato a Parigi soltanto l’anno precedente, ma una vera sala cinematografica viene aperta da Mario Recanati nella Galleria Umberto intorno al 1898. Le proiezioni sono solo immagini mute in movimento con storie prive di un particolare contenuto. L’entusiasmo del pubblico incoraggia la nascita di case cinematografiche come la Tina film e la Polifilm. La Vesuvius film esporta le proprie pellicole in America, a beneficio della numerosa comunità italoamericana. La produzione è ancora ad un livello artigianale, più che di industria della cultura, si parla di “manifattura”. Nel primo decennio del secolo scorso le realizzazioni napoletane vanno dal primo corto Il ritorno delle carrozze da Montevergine (1900) di Roberto Troncone, a Tarantelluccia sorrentina e ’O pazzariello d’ ’a Pignasecca, con storie passionali, duelli, eruzioni del Vesuvio ambientate nello scenario naturale del Golfo. Contemporaneamente in città si incominciano a pubblicare riviste specializzate: “Il cinematografo”, “Café Chantant,”, “Il programma”. Intorno al 1910 il cinema italiano comincia ad attraversare un periodo di crisi, dovuto alla forte concorrenza straniera che offre un prodotto più rifinito. I proprietari delle sale inventano, allora, una nuova formula di intrattenimento, in cui la proiezione si alterna ad esibizioni di comici, fantasisti e cantanti. Il connubio tra cinema e canzone si rafforza in questi anni, creando un divario tra la produzione partenopea - legata ad una cultura locale con realizzazioni di storie di guappi, storie strappalacrime e pianti di mamme - e quella nazionale che si orienta sui kolossal storici come Gli ultimi giorni di Pompei. 1 Napoli da Serao a Saviano: racconto o cronaca? A Napoli la figura del regista non è ancora consolidata, perché non è consolidata questa nuova forma d’arte sentita dal pubblico come una sorta di commedia in movimento, un genere più “basso” del grande teatro partenopeo, della sceneggiata corale. I pionieri del cinema partenopeo assommano in un’unica figura regista, sceneggiatore, produttore e distributore. Successivamente il regista è coadiuvato da uno sceneggiatore che a volte è anche attore. Raffaele Viviani è attore e sceneggiatore di Sperduti nel Buio, mentre Francesca Bertini è aiuto-regista oltre che attrice protagonista in Assunta Spina. La presenza femminile che collabora attivamente nella produzione cinematografica dà un nuovo impulso alla cinematografia partenopea. È proprio una donna, Elvira Coda Notari, a fondare nel 1905 la Film Dora che, inizialmente, produce cortometraggi colorati a mano uno per uno: ricordiamo Arrivederci e Augurali. In seguito la Notari apre una Scuola di arte cinematografica e da coloratrice a mano di pellicole diventa produttrice e regista. La Film Dora, da semplice laboratorio artigianale si trasforma nel 1915 in Dora Film, diventando una delle più prestigiose case cinematografiche italiane. Oltre ad Elvira, vi lavorano il marito Nicola Notari e i due figli Eduardo e Dora. Producono diversi generi di film: dal romanzo popolare ai drammi. Ricordiamo La Medea di Portamedina,dal romanzo di Francesco Mastriani e È picceralla che prende spunto dalla canzone di Libero Bovio. Gli anni 1914-1915 sono fondamentali per la cinematografia partenopea. Si attinge alle opere letterarie, abbandonando i duelli e gli strazi amorosi. Due film segnano il punto di svolta: Sperduti nel buio, diretto da Nino Martoglio nel 1914, tratto da un dramma verista di Roberto Bracco (1901) e Assunta Spina del 1915, per la regia di Gustavo Serena, dall’opera omonima di Salvatore Di Giacomo. La protagonista di questa pellicola è interpretata da Francesca Bertini (al secolo Elena Saracini Vitello), una delle più grandi attrici del cinema muto italiano, che affianca anche il regista nella sceneggiatura. Entrambe le produzioni sono considerate le migliori del cinema muto napoletano e anticipatrici del neorealismo. Dal primo dopoguerra, sino all’ascesa del fascismo, inizia per il cinema napoletano un periodo di grave crisi dovuto sia alla qualità superiore della produzione straniera, sia alla scarsità di grandi contenuti da proporre. Tra il 1920 e il 1925 ha un grande successo la canzone “drammatica” o di “giacca” interpretata da grandi autori come Enzo Luciano Murolo, Libero Bovio e E.A. Mario. Questo genere favorisce la fusione tra la sceneggiata, la canzone dialettale e il cinema, realizzando, quindi, film quali ’A legge di Elvira Notari, Si ve vulesse bene (1922) e ’O schiaffo (1923) di Emanuele Rotondi, L’urdema canzone mia (1923) di Fausto Correra, Cor ’e guappo (1925) di Mario Negri, che sono accolti con un grande consenso popolare. L’avvento del fascismo segna l’inizio di una crisi profonda per il cinema partenopeo. Le leggi censorie proibiscono l’uso del linguaggio dialettale, a favore di un’italianità del testo, e la sceneggiatura di storie ambientate in situazioni di degrado sociale o economico. La Dora Film, per arginare la censura fascista, apre una succursale in America: la Dora Film of America. Negli Stati Uniti le pellicole censurate in Italia, come Le geste del brigante Musolino, riscuotono un enorme successo nella comunità italiana. L’introduzione del sonoro nei film coincide con una vera industrializzazione dell’arte cinematografica ed, infine, la creazione degli stabilimenti di Cinecittà nel 1937, trasforma la crisi partenopea in vera paralisi della produzione. La censura impedisce in tutta la penisola la libertà di espressione, evidente anche nella cinematografia. Dagli anni Trenta in poi a Napoli non si produce quasi nulla, tranne pellicole che attingono al repertorio musicale partenopeo con storie d’amore laceranti. Al contrario nel campo letterario si notano dei fermenti, portatori di una successiva rinascita culturale, ancora lontana: Natale in casa Cupiello (1931) di Edoardo De Filippo; Tre operai (1934) di Carlo Bernari; Angelici dolori (1937) di Anna Maria Ortese. 2 Napoli da Serao a Saviano: racconto o cronaca? La cinematografia nazionale, che segue il filone celebrativo del regime o quello asettico dei “telefoni bianchi” è acritica. Altre due correnti si delineano in questa stasi creativa: quello realistico, comunque impersonale e quello “calligrafico” che riporta in pellicola romanzi popolari. Al filone realista è ascrivibile La tavola dei poveri (1932) per la regia di Alessandro Blasetti, l’opera cinematografica più valida realizzata a Napoli in questi anni. È evidente la presenza di Raffaele Viviani sia per la collaborazione alla regia, sia per la sua migliore interrpretazione cinematografica. Il film, tra l’altro, è l’unico documento audiovisivo che ci è rimasto del commediografo. Viviani tesse le maglie della regia di Blasetti e la farsa napoletana lascia il posto ad un’analisi lucida della realtà vista attraverso il filtro di un’amara ironia. Di spessore assai più modesto sono altre pellicole uscite in questo decennio: Napoli che canta (1930) di Mario Amirante, Napoli verde e blu (1935) di Armando Fizzarotti, Napoli che non muore (1939) di Amleto Palermi. Asettici, senza scendere in problematiche sociali, senza visioni inquietanti della città, ma sorretti da un “sano” ottimismo, genere “domani è un altro giorno”, questi film non disturbano la censura fascista. Sono trame “leggere”, epurate della napoletanità linguistica, mordace e realistica. La censura non arriva nei teatri di periferia e nei ridotti dove si fa avanspettacolo e sopravvive ancora la battuta ironica, dialettale, pungente e improvvisata, che dura lo spazio di una serata e che non lascia tracce scritte o visive che possono turbare le coscienze. Il malessere sociale è sottaciuto. Un giudizio diverso merita il singolare L’ultimo scugnizzo (1938), diretto da Gennaro Righelli, regista salernitano. È la versione cinematografica della commedia omonima, con la collaborazione dell’ultimo Viviani. Nel film è famosa la scena degli scugnizzi con il sottofondo musicale della Rumba degli scugnizzi. Tra i film prodotti durante la seconda guerra mondiale si segnalano, per la presenza dei fratelli De Filippo, In campagna è caduta una stella (1940), Non ti pago e A che servono questi quattrini, del 1942. Il secondo dopoguerra deve affrontare un’Italia smarrita, lacerata, divisa e soprattutto povera. I film diventano coscienza critica della collettività, con estrema aderenza alla realtà contemporanea, testimoni delle problematiche più scottanti dell’immediato dopoguerra: disoccupazione, emarginazione, miseria e degrado dei quartieri suburbani. Il linguaggio attinge al linguaggio dialettale, gli attori sono presi dalla