Luciano Ligabue

Fuori e dentro il borgo

Bastarono i nostri quindici anni. Bastò un trasmettitore da 5 watt preso a centomila lire. Bastò un vecchio giradischi Philips, un microfono da dieci carte e un mixerino con due fader. Bastò l'estro di un amico diciassettenne che faceva l'Istituto tecnico. Bastò una stanza di casa sua e una antennazza sui suoi tetti. E avemmo la nostra radio. Non sto parlando dei tempi di Marconi: era il 1975. Luciano Ligabue (Correggio, , 1960) è il più importante cantautore rock della scena italiana. L'ultimo album è il doppio live «Su e giù da un palco» e questo è il suo primo libro. Instancabile, la Grande Pianura continua a generare storie, miti, leggende. E se la colonna sonora è quella del rock perché davvero «l'Emilia è un sogno rock», come ha detto qualcuno - la scrittura è quella del racconto popolare, della «storia orale», mentre i protagonisti sono personaggi che costruiscono da soli il proprio mito e spesso trovano da se stessi anche i propri cantori. Non importa se compagni di bevute o grandi scrittori o magari grandi registi o cantanti e scrittori insieme. Il Grande Miracolo è che questo retroterra così riconoscibile riesca a far scaturire scritture sempre nuove, originali, e storie sempre diverse. Tutti i «narratori delle pianure» hanno il loro timbro inconfondibile e nello stesso tempo partecipano di un'atmosfera assolutamente unica. Nel nostro caso, il cantante, quando torna al borgo, trova Virus e Savana, Spiura e Genova, Fiuto e Cosmo, Cico, Tondo e il Condor, e Athos «prugna», il boss del liscio, come dire l'altra faccia della musica (e della cultura) popolare di questa incredibile terra «tra la via Emilia e il West»; ma trova anche finalmente i ritmi giusti per concentrarsi su se stesso. Il cantante sa che non sarebbe diventato quello che è senza l'Ines e il geometra Bodoni, senza Bonanza e senza la prima radio libera-ma-libera-veramente, senza i giardinetti in cui ha consumato il proprio «romanzo di formazione». Per questo il racconto sfuma nel diario e il diario (quando il cantante è su un palco lontano dal borgo.) Nota Con alcune varianti, Tatiana col mappamondo è apparso su Smemoranda » Altro giro altro regalo, col titolo In tour, è stato pubblicato su « "Dire fare baciare" » insieme a Dovreste vederlo, Cico, Ho fatto un giro e Capo danno da Jim Qualcuno tre piani sopra è compreso nel volume collettivo Tondelli e la musica il testo di Pier Vittorio Tondelli alle pagine 164-165 è tratto da Altri libertini (Feltrinelli, 1991) Non ce la fanno i belli non resistono. Charles Bukowski Il jazz aveva proprio la forma del buco della serratura così è passato attraverso, il blues era smilzo e condizionato a soffrire, così, dai e dai, ce l'ha fatta ma il rock era grosso come una salsiccia ed è rimasto incastrato nell'orecchio medio verso terra. Tom Robbins Adesso Grazie a Muffa, Minola, Zeo, James, Chele, Trico, Cecio e Ciupi per avermi regalato un po' di storie. Adesso? E adesso? Adesso che questa fine d'anno si è consumata con un bellissimo raduno che nemmeno la giornata più nevosa del secolo ha potuto mandare a monte e gli iscritti al fan club, splendidi, ci hanno raggiunto da ogni parte d'Italia facendosi mazzi indescrivibili su strade impossibili pur di dire « presente » all'ennesimo pomeriggio insieme e con un capodanno in piazza a Modena sotto una fioccata impressionante che durante A che ora è la fine del mondo? sembrava che qualcuno ci prendesse in parola mandandoci giù fiocchi che parevano stracci e la copertura del palco non poteva niente e le chitarre non tenevano l'accordatura e la bocca mi s'ingolfava di neve mentre cantavo o tentavo di cantare e nel frattempo godevo come un pazzo e ragazzi fradici sotto tormenta da ore pretendevano da noi il miglior spunto per questo anno nuovo tutto da giocarsi? Adesso che l'ennesimo bisestile è dietro alle spalle con ciò che mi ha portato e ciò che mi ha portato via fra concerti e interviste e terremoti e premi e traslochi e morti e aerei e ritardi e televisioni e partite, incontri e show di beneficenza e fotofotofotofotofoto e andate e ritorni e gli autogrill in mezzo e network e feste e articoli e prove e missaggi e riunioni e domandecomepiovessero e richiesteabusso e brindisi e litigi e pacifatte e silenzioqua-simai e chissà quant'altro ancora in questa ruota fra tutte le ruote che giravano intorno? Luciano Ligabue Adesso ho tolto la spina della giostra. Che troppe luci troppo a lungo fanno male agli occhi. Adesso la mia voglia di tranquillità la sfogherò in breve, e a breve mi mancherà tutto quel correre. Adesso ho 118 libri che mi aspettano, pile di Cd da ascoltare con l'attenzione che meritano, parecchi film da recuperare. Adesso ho davanti la bella lista dei miei proponimenti che sfumeranno implacabilmente in pochissimo tempo. Adesso quasi tutti quelli che incontrerò, non avendomi visto in televisione per quindici giorni, mi chiederanno inesorabilmente: « Ma sei fermo? » preoccupati (forse) che non sia per sempre e sarà così decine di volte al giorno fino alla ripresa del giro. Adesso ho da far sedimentare quasi due anni fitti, intensi, di corsa. Adesso farò un po' di conti con la mia presunta normalità senza poter contare sulle vacanze da lei che, cantare, ogni tanto mi concede. Adesso me ne sto qui con la spina della giostra in mano. Ogni tanto la infilerò per poi staccarla di nuovo. Finché qualcuno non cambierà la presa. Una delle storie d'amore di via Cairoli Il fan club è a due passi da via Cairoli. Le cose che « contavano » in via Cairoli, a due passi dal fan club, erano piazza Padéla, un negozio d'antiquariato che si chiamava « Ai tempi che Berta filava », uno spicchio di giardinetto pubblico di dieci metri quadri la cui panchina era puntata da file di coppiette e la lavanderia comunale. Di fronte alla lavanderia comunale, in piena via Cairoli, a due passi dal fan club c'era un gruppo di case. In questo gruppo di case di fronte alla lavanderia comunale di via Cairoli a due passi dal fan club ce n'era una a due piani. In uno dei due piani di questa casa che faceva parte di un gruppo di fronte alla lavanderia comunale a metà via Cairoli e quindi a due passi dal fan club, abitava mia nonna materna con tanto di zii e cuginetto. Nell'altro dei due piani di questa casa facente parte di un gruppo di case dall'altro lato della strada rispetto alla lavanderia comunale e comunque in via Cairoli e di conseguenza a due passi dal fan club, c'erano l'Ines e il geometra Bodoni. Conviventi. È una zona che ricordo bene perché i fine settimana dei miei 6-8 anni li passavo quasi sempre lì da mio cugino, tutt'e due affidati a nonna Barbara così che i miei e gli zii avessero un po' di libertà. Luciano Ligabue

In piazza Padéla ci furono naturalmente grandi partite di calcio e gare in bicicletta giù per la discesa che allora ci sembrava ripidissima; nel giardinetto andavamo a spiare le coppie e, grandissime faccediculo, con espressioni innocenti chiedevamo informazioni nei momenti più caldi rimediando, un paio di volte o tre, schiaffoni e scappellotti; nel negozio d'antiquariato facemmo scoppiare un paio di petardi che per poco Bice non ci lasciò le penne dietro il suo banco; nella lavanderia comunale giocavamo a nascondino e una volta quasi non ci lasciai un occhio, per un disperato « "tana" », contro uno dei fili di ferro su cui stendevano il bucato. Al primo piano di questa casa in pieno gruppo di case in faccia alla lavanderia comunale in via Cairoli e per forza a due passi dal fan club c'erano parecchie cose: c'era la stufa a legna con cui mio cugino si strinò una volta e per sempre; c'era la camera senza riscaldamento ma col braciere sotto le coperte che andare a letto d'inverno era una goduria come poche altre; c'era Canzonissima e il nostro tifo per Gianni Morandi che Claudio Villa e gli altri non si azzardassero a vincere; c'erano i fiammiferi per la stufa con cui ci divertivamo sempre e una sera la facemmo grossa che prese fuoco una tenda e se non era svelta la nonna a tirarla giù e spegnerla chissà cosa succedeva; c'era la bontà e l'infinita pazienza della Barbara che anche quella volta cercò di difenderci ma una tenda non sparisce da sola e si venne a sapere e ne beccammo un barile; c'erano il pettine, la brillantina, le braghe corte e il cravattino per la messa in San Quirino e durante la messa in San Quirino c'era Rossana fra i banchi delle ragazze che mi metteva una strana agitazione addosso e non riuscivo a vedere o sentire altro se non, poi, gli strattoni di un catechista che mi marcava sempre perché stessi attento; c'era la tappa in edicola al ritorno dalla chiesa dove con le nostre cento lire compravamo « "Vitt » di Jacovitti & C. e poi c'erano gli gnocchi di patate irripetibili della Barbara; e poi c'era il cesso in comune. Che per me era un grosso problema. Non si trattava soltanto di dover affrontare quasi al buio una turca dalla puzza impossibile, dove fra muschio e funghi e licheni poteva vivere tranquillamente Belfagor; il peggio era che ogni volta che avevo bisogno d'andarci saltava fuori l'Ines. Una donnona di ottanta chili che appariva in corridoio e mi acciuffava, mi sollevava e urlava con occhi sbarrati che belputein, che belputein sbaciucchiandomi a labbra aperte, stringendomi fra un paio di tette che la tabaccaia di Amarcord era piatta, ed emanando miscele d'ascella e cipolla e pesce e... L'Ines, però, non urlava solo con me. Urlava soprattutto parolacce al geometra Bodoni al piano superiore di questa casa in questo gruppo di case di fronte eccetera eccetera. E poi urlava alla gente in strada. Si metteva alla finestra sempre - d'inverno usando l'ombrello - e diceva qualcosa a ognuno che passava. A quelli che non conosceva chiedeva: « Che or'è? » Gli altri li salutava ricordando i bei tempi andati. Perché sembra che fosse stata una bella donna e ai suoi tempi ne avesse presi un bel po'. Furono poeti e fabbri e muratori e matti e dottori e bidelli... Non c'era distinzione di ceto. Una volta la sentimmo urlare al direttore delle elementari: « Adesso fai finta di niente ma una volta ti piaceva, eh! » Solo che a 6-8 anni non potevamo sapere a cosa si riferisse, altrimenti riuscite a immaginarvi che colpo avremmo fatto? Comunque la vedevi sempre lì alla finestra a urlare e insultare e fare la dolce fin quando non tornava il geometra Bodoni e allora rientrava per potersi concentrare su di lui con urli e insulti personalizzati. Perché lui era quello con cui, raggiunta una certa età, si era fermata. Il geometra Bodoni, in realtà, era un ex geometra. Radiato dall'albo per aver fatto crollare per incapacità un piano di una palazzina nuova, lo vedevi attentissimo a salvare le apparenze: ogni mattina alle 8 usciva di casa, fra le urla dell'Ines, con il cravattino, la borsa « da geometra » probabilmente vuota e una immancabile collezione di patacche sulle braghe; saliva sulla sua 850 bianca e percorreva trecento metri di via Cairoli in retromarcia, visto che era senso unico, e poi via verso un ufficio che non aveva, verso un cantiere in cui non lavorava. La mattina in cui, durante l'operazione di retromarcia, lasciò una portiera che gli si era aperta contro un lampione, l'Ines si sentì male. Gli urlò contro talmente tanto che le venne un colpetto. Il geometra Bodoni, invece, non urlava quasi mai. ' Suonava il violino. O meglio, continuava a provarci. Insomma in quella casa di via Cairoli fra le urla di lei e il violino di lui potevamo permetterci di fare tutto il casino che ci pareva. Una sera mi misi in testa di dare un'occhiata a casa Bodoni. Finsi di dover andare in bagno e mi arrischiai verso il piano superiore. Si sentiva suonare il violino e l'Ines non stava urlando. Forse era finalmente uscita. Mi avvicinai alla loro porta d'ingresso sapendo di non avere scuse se mi avessero beccato: nessuno andava mai al loro piano. Ne erano così sicuri da lasciare la porta accostata. Mi avvicinai allo spiraglio sentendo, dal suono sempre più presente del violino, che il geometra Bodoni era proprio nei paraggi. Sbirciai dentro e vidi: che il geometra era con la sua canottiera unta, violino sulla spalla ed espressione concentrata; stava seduto, senza calzoni né mutande, indossava solo... l'Ines che, inginocchiata di fronte a lui, con i capelli grigi sciolti stopposi e le enormi tette libere e ballonzolanti, stava come masticando - così a me sembrava - il suo pisello. I progressi sul violino continuavano a non farsi sentire. Scesi le scale un po' sconvolto, c'erano troppe cose che non capivo in quella scena. Non dissi niente nemmeno a mio cugino. Perché mi sembrava che fosse una roba grossa, su cui non si poteva scherzare. Si potevano fare battute su loro due, su come erano fatti ma quella faccenda, che non sapevo cosa fosse, mi sembrava un loro modo di fare pace o di giocare o di stare vicini. Comunque qualcosa di dolce di cui non mi erano mai sembrati capaci prima. Le barzellette su di loro continuarono, io solo ci scherzai un po' meno. Continuarono le urla dell'Ines, le finzioni del geometra, le retromarce per via Cairoli e... continuò il violino. Diversi anni dopo finì tutto quello che era di competenza del geometra Bodoni, grande ingoiatore di insulti,grande attore nella parte del geometra in attività, gran testone nel non regolarizzare la sua posizione con l'Ines. Continuò a essere nei pissi pissi bao bao di paese fino alla sua morte per infarto. La finestra dell'Ines si chiuse un pochino e poi, via via, sempre di più. Finché il gran salto non lo fece pure lei. Il girotondo di Freccia Fu trovato in un fosso. Immerso a metà. A testa in giù. Sotto un cavalcavia nei pressi di Carpi. Capirono che era lì da almeno tre giorni. Sufficienti perché nessuno potesse riconoscerlo. Ci riuscì alla fine il fratello, che chiese ai carabinieri di togliergli i calzoni e, quando trovò una stella tatuata sul ginocchio destro ebbe, violentissima, la certezza che non avrebbe mai voluto avere. Risalirono ai quattro che erano in macchina con lui. Il suo giro non era vasto. Quella sera, comunque, quei quattro si accorsero della sua overdose solo dopo che lui era morto. Presi dal panico, furono loro a scaricarlo nel fosso. Si fecero alcuni mesi per omissione di soccorso e occultamento di cadavere. Freccia, uno dei più bei funerali del borgo. Fu senz'altro uno dei primi a farsi d'eroina al borgo. Per la soddisfazione di quelli che cercano magagne famigliari dietro a chi si buca diremo che gli morì il padre a 11 anni, che sua madre si mise con un elemento che non gli piacque mai per niente, che si sentiva in dovere di proteggere il fratello più piccolo. Alla sua prima fuga da casa si presentò da un amico con un sacco a pelo dentro cui aveva nascosto il suo primo stereo rubato. Per quella volta fu convinto a riportarlo nei pressi della casa del proprietario. Ma fu anche l'ultima ad andare così. Le pere che lo aspettavano poco più avanti non avrebbero mai ammesso ripensamenti. Si chiamava Freccia per via di una voglia a forma di punta di freccia sulla guancia destra. Le sue improvvise, impetuose incazzature lo facevano arrossire così tanto che tutto d'un colpo la voglia non si notava. E definire incazzature i momenti in cui veniva a sapere di botte o insulti al fratello sembra riduttivo. Allo storico concerto dei Police al Palazzetto di Reggio, ad esempio, ci fu uno che al terzo tentativo di Berto il fratello, appunto - di farsi largo per raggiungere i posti a sedere, lo spintonò. A Freccia si vide sparire la voglia in mezzo al rossore del viso. Poi, di scatto, mollò sei-dieci pigne - troppo veloci per contarle - che scagliarono il tipo addosso ad altri dietro lui. Che a loro volta risposero e poi via via fino allo scatenamento di una rissa per quasi tutta una tribunetta. Intanto Freccia e Berto raggiunsero comodamente i propri posti commentando: « Ma guarda un po' che nervosi che sono, invece di godersi il concerto ». Il giorno dopo anche il giornale parlò della rissa nel settore C del Palazzetto. Un'altra volta Berto arrivò in bar piuttosto ammaccato. Qualcuno lo aveva menato. Ci mise un po', Freccia, a sapere chi fosse stato. Il fratello se ne voleva stare, muto e vergognoso, a un tavolino per i suoi. Ma una volta avuti i nomi, estrasse dal baule della sua R4 una spada rudimentale di una decina di chili che si era costruito al lavoro e girò per il borgo guidando con la destra e trascinando con la sinistra l'arma fuori dal finestrino. Si sapeva che nessuno l'avrebbe fermato e allora si stette a guardare, incrociando dita e resto, quel pattugliamento lento e scrupoloso sperando che la spada rimanesse a fare scintille sulla strada. Insomma, quella volta andò davvero bene che non gli riuscisse di trovare i colpevoli. Sarebbe girata malissimo per tutti. Dalla sua, Freccia aveva una bella generosità e un forte senso d'amicizia. Contro di lui giocavano le pere e le stronzate per comprarsele. Non sempre gli amici avevano voglia e intenzione di coprirlo. O almeno di perdonarlo. Lui, intanto, acquisiva sfacciataggine e sicurezza. E passò alle macchine quella volta che si presentò in Bonifica, dove tutti si faceva il bagno, brillante come pochi a bordo di una Mini Minor con un paio di forbicine infilate nell'accensione. Più avanti capitò in bar, bello bello per un caffè. La sua macchina, parcheggiata in vista a tutti, esplodeva di pellicce e giubbotti di cuoio appena rullati al guardaroba di una discoteca del mantovano. Stava per andare dal suo ricettatore di Reggio che, come sempre, gli avrebbe elemosinato il minimo, sfruttando il suo bisogno di forarsi il braccio. E allora pure l'impunità andò ad aggiungersi a sfacciataggine e sicurezza. Per cui entrò nella vetrina di una gioielleria vicino a Modena con la propria macchina e fece fuori il possibile apparentemente divertito da tutto quel suonar d'allarmi. Ma cominciò a girare come si sa. Vale a dire lo beccarono. E cominciò l'inevitabile girotondo del dentro e fuori la galera. E dagli ospedali, pure. Da cui, sistematicamente, scappava. Quella volta che fece a cazzotti con un buttafuori di un club di Reggio svenne. Si riprese in ortopedia. Lo videro, mezz'ora dopo, fare l'autostop in pigiama dalle parti del

Campo Volo. Non potevano tenerlo dentro. Un po' perché l'avrebbero costretto lontano da ciò che sapete e un po' perché gli ricordavano il suo cuore malato e che ogni buco era, per lui, molto più rischioso che non per chiunque altro. Ma non era certo quello che lo poteva fermare. Per farlo ci volle la moda dell'eroina. Nella seconda metà dei Settanta, quando tanti cominciarono, lui smise. Lui, che non spacciò mai, che non tirò dentro mai nessun conoscente, che riuscì a mantenere un certo pudore nel farsi nascondendo agli amici almeno il gesto e le sue condizioni peggiori, trovò forse ripugnante e forse spaventosa, forse infantile la logica del « prova anche tu che è figo »; lo spaccio senza ritegno a chiunque, di qualsiasi età e difesa, per il proprio fabbisogno; lo sventolio di una « pratica » da sborroni. Sicuramente l'espandersi di una moda non bastò da solo perché la chiudesse lì. Però contribuì insieme a un forte spavento postoverdose e, soprattutto, alla sua nuova storia con una ragazza. Questa gnocca da nove-novemmezzo veniva da anni e anni di gran tiramento. Il fatto poi di essere di Carpi nel momento di grande concentrazione di pila e grandi passerelle in piazza Martiri dove griffe e modelli esclusivi e abbronzature e acconciature fatte apposta nei weekend a

Parigi e lavori in palestra sembrava doveroso ostentarli per mostrare quanto la fabbrichetta di famiglia stesse marciando bene, la ammise di diritto alla corsa allo status. Era chiaro che Freccia non c'entrava nulla. Però nel frattempo aveva smesso... E allora lo si preferiva succube di una che se lo teneva come una busta sotto l'ascella piuttosto che altro. C'è un vecchio luogo comune sulla troppa disponibilità in amore. Dice che quando uno dei due è troppo accondiscendente, quando la sua passione diventa masochismo, l'interesse dell'altro sfuma. Se è vero che nei luoghi comuni c'è, di solito, un fondo di verità

(toh: altro luogo comune) è verissimo che nella loro storia capitò così. Più Freccia si infoiava di lei, più la cercava, più non resisteva al bisogno di starci insieme, più lei se ne approfittava. E più lo vedeva disposto a qualsiasi cosa, meno le interessava lui. Finché un giorno lo mollò dicendogli di aver trovato un altro che, perlomeno, aveva un Bmw. Fu senz'altro una brutta scoppola per Freccia. Che fu visto vacillare e poi sbandare e poi barcollare... E poi, dopo un paio di settimane, reagire. Si presentò a casa di lei, suonò il campanello e le chiese di farsi alla finestra.« Mi dicevi che ti piacciono i Bmw, no? Come lo vedi questo? » E gliene mostrò uno nero, quasi nuovo, appena appena fatto fuori. «Il mio nuovo amico ha qualcosa di meglio del Bmw», fece lei. «Ah! » fu l'unica risposta di Freccia prima di risalire in macchina. Portò il Bmw nella campagna più vicina e gli appiccò fuoco. Poi tornò in centro a piedi e trovò una De Tomaso Pantera. Con la sua consueta destrezza, l'aprì, l'avviò e tornò da lei. Suonò ancora il campanello. Dovette insistere un po' perché si riaffacciasse. « Dici che questa basta? » le chiese seduto sul tettuccio e allargando le braccia. « Non hai capito niente. Le macchine non c'entrano. E che mi è passata, capito? Preferisco non vederti più e basta», rispose lei con quella punta di cattiveria che ci viene fuori quando ci sentiamo costretti a dire cose che eviteremmo. « Basta saperlo », chiuse lui. La voglia era sparita. Ma non era per rabbia. Tornò nel posto in campagna in cui era appena stato. Il Bmw stava ancora bruciando. Gli mise la De Tomaso vicina e diede fuoco anche a lei. Quindi portò la punta di una paglia sulla fiamma più bassa, si spostò di qualche metro, si sedette a gambe incrociate e tirò lente boccate profonde. Rimase lì fin quando i due falò non smisero di rischiarare, per quanto potessero, una notte così buia. Mariocorso Se sei destinato ad amare il calcio, è fra i 4 e i 6 anni che scegli la tua squadra del cuore. Se lo amerai davvero non cambierai mai più quella decisione. Perciò diciamocelo: anche qui ci vuole culo. Perché casomai decidi per una formazione l'anno del suo unico scudetto, o segui le indicazioni di amici balordi, o tieni alla squadra della tua città in perenne altalena fra A, B e C. In ognuno di questi casi ti si prospettano sofferenze, orgoglio, patimenti, illusioni, sudatissime e risicate soddisfazioni. Anni faticosi, comunque. Se sei fortunato, invece, becchi quella con cui far tacere tutti la maggior parte delle volte. Dall'alto di una bacheca che spurga scudetti e coppe varie. Io, fra i 4 e i 6 anni, ho scelto l'Inter. Era la squadra di quasi tutti i miei amici con tré-quattro anni più di me, quelli che volevo imitare. La squadra che aveva appena vinto quello che si poteva vincere. La squadra il cui schieramento

SartiBurgnichFacchettiBedinGuarneriPicchiJairMazzolaDomenghiniSuarezCor so lo recitano a memoria ancora, curiosamente, anche tifosi di altre squadre. Da allora qualche soddisfazione, un po' di tribolazioni, l'entusiasmo per qualche campione e per qualche stagione e le speranze eccessive sui

Magistrelli, Cerilli, Libera, Ambu, Sabato, Doldi... Tutte figurine difficili da trovare. Chissà se c'è un nesso. Comunque mi sa che l'ho già fatta troppo lunga su questa passione che, come tutte le passioni, la si dovrebbe vivere piuttosto che descrivere. Era per cercare di rendere l'idea di quello che sto provando nello spogliatoio dell'Inter, indossando la divisa nerazzurra mentre altrettanto stanno facendo Mazzola, Facchetti e Corso. L'occasione è una partita di beneficenza. Una Inter-Milan con squadre composte da ex calciatori e tifosi della

Nazionale Cantanti e del gruppo di « Smemoranda ». Si gioca, scusate, al Meazza. A me danno la maglia numero 11. Numero che è, notoriamente, quello di Mariocorso. Vabbé che i numeri non contano più (e anche qui ce ne sarebbe da dire sull'affezione per un numero che corrispondeva a un ruolo, a una zona del campo, alla lotta per avere il 10 e subito dopo il 9 o l'11 e quindi il 7, ma ho sentito anche gente impuntarsi per avere il 2) ma questo mi sembra che conti ancora. Vado da lui e gli dico che mi sento come un ladro. Spero in un suo: «Figurati! » Invece lui mi guarda con la sua famosa palpebra abbassata e mi fa: «

Cerca di onorarla ». Questo è uno dei calciatori che non saranno mai ex. Gli faccio presente che non sarà un cazzo facile. Non voglio annoiare nessuno con la cronaca delle emozioni di un interista che si trova a giocare a , pardon Meazza, in nerazzurro, con dietro Facchetti e di fianco Mazzola e lì fa pure un goal. Ma di Mariocorso devo parlare. Entra nei primi minuti del secondo tempo con il numero 22 (due volte

11, nel caso non aveste colto). Il primo pallone che « non » tocca è una finta a centrocampo che manda a sedere un avversario e fa arrivare il pallone a un compagno. Io gli urlo un « vai Mario ». Lui mi guarda e la sua espressione dice: « Lascia fare, ragazzino ». Da quel momento abbiamo a che fare con la fantasia. Il suo trotterellare a centrocampo, causa pancetta, è in realtà l'incedere di chi prende in mano il pallino. Fa apparire e sparire la palla, la dirige nei posti meno ovvi, la telecomanda con effetti antigravitazionali, ci offre un repertorio di magie. Giocatori come lui, oggi come oggi, si troverebbero addosso un paio di pittbull raddoppiatori in pressing a caccia di tibie. Fortuna che ho fatto in tempo a vedere anche un calcio diverso. A metà ripresa l'arbitro ci da un rigore. Batte chiaramente lui. Il portiere avversario implora che lo tiri, invece, uno di noi scarponi. Mariocorso lo rincuora dicendogli: «Dai che te lo tiro a sinistra». Il milanista sembra sollevato pensando di avere una chance. Silenzio, fischio... ed esecuzione implacabile nell'angolo opposto. Il portiere, rialzandosi, lo guarda sorpreso. E il due volte 11 gli fa: «Ma come: mi hai creduto? » Di Mariocorso si dice che ai tempi d'oro, nelle giornate calde, giocasse solo dove la tribuna faceva ombra. La personalità di un calciatore la vedi dal fatto che essere o no al centro dell'attenzione sembra assolutamente una sua scelta. Proprio come lui stasera. Proprio come lui allora. Dieci minuti dopo c'è anche lo spazio per la magia finale. Beneficiamo di una punizione di prima dalla classica posizione del « piede sinistro di Dio ». Credo che tutti, interisti e milanisti, vorremmo vedere, ancora e dal vivo, lo spettacolo della sua celebre « foglia morta ». Anche lui sente che stiamo aspettando qualcosa. Si aggiusta il pallone con molta attenzione, se ne frega della distanza della barriera, attende il fischio con le mani sui fianchi, solita palpepra di chi continua a saperla lunga, postura di chi sa di avere un dono speciale, silenzio nello stadio, barriera saltellante, portiere che sputa sui guanti, fischio, rincorsa minima, tiro... alto. A conferma che la magia non la puoi aspettare. Quella sarebbe, casomai, prestidigitazione. Finisce la partita. Abbiamo perso ma chissenefrega. Sto uscendo da San Siro, pardon Meazza, con i calzettoni abbassati. Da quando avevo 4-6 anni, li porto così. Da quando li ho visti portare così da Mariocorso. Virus Virus è uno di quelli a cui piace fare scommettere su di sé. Ha cominciato un giorno per caso mentre, al bar, stava alle spalle di uno dei quattro giocatori di un tressette tiratissimo. Faceva come quelli che spiegano cosa si sarebbe dovuto fare quando si è perso. Un mestiere serio. Oggi però non aveva gran voglia e se ne stava un po' per i suoi. Finché non vide la vetrinetta coi Buondì. E fermò il tressette. Mai successo prima. Mai più successo dopo. « Scommetto che mi faccio cinque Buondì in quattro minuti senza bere niente. » Il bar si fermò. Tutti i tressette e trionfi e scope e scalequaranta e briscole e busche e ramini e pinnacoli furono sospesi. Altro fatto di cui non si ricordano precedenti. Oscar si slacciò il cipollone e si preparò, con una certa solennità, a cronometrare. Virus scartò i Buondì, li dispose ordinatamente di fronte a sé e li guardò come un pugile guarda l'avversario prima dell'incontro. Ora, io non so se vi ricordate come sono fatti i Buondì. Ogni boccone lo devi masticare un centinaio di volte, speri che un'abbondante salivazione lo addomestichi un po' dopodiché, pregando i tuoi santi, tenti di ingoiarlo. L'importante è tenersi vicino qualcosa di liquido per sbloccare eventuali intasamenti di esofago. Virus, incurante dell'inesorabile legge fisica del Buondì, aspettò il via da Oscar e se ne ficcò uno quasi intero in gola. Dopo un primo, inevitabile, momento di panico, cominciò a lavorare di tecnica. Mascelle, palato, faringe ed esofago se ne fregavano della compattezza del Buondì. Furono quattro minuti di tifo bestiale. E nonostante gli ultimi bocconi dovessero passare per una gola inaridita e spossata e il pomo d'Adamo scendesse con una lentezza mai vista, Virus, occhi strabuzzati e venati di rosso, ce la fece. Ognuno fu contento di pagargli la scommessa. Tre giorni dopo scommise di farsi otto cedrate Tassoni in due minuti. Naturalmente vinse. Però non fu lo stesso successo d'immagine avuto coi Buondì. Così decise di allargare il terreno delle sue prestazioni e un pomeriggio, al bar, comunicò che la scommessa avrebbe avuto luogo nel negozio di pesca. Quindi, con un codazzo di appassionati, entrò nell'Ornitolpesca del borgo, si fece consegnare tre lombrichi e scommise su quelli. Va da sé che Virus non si poteva permettere di far vacillare una fama crescente per cui, come logico, ingoiò i vermi d'un fiato. Solo che ci bevve dietro mezza boccia di lambro gelato e, per reazione, ne vomitò un paio. Molti si rifiutarono di pagare la scommessa. Per la prestazione successiva invitò tutti al negozio di elettrodomestici. Il suo seguito, incuriosito al limite, si interrogava su cosa si sarebbe mangiato: una radio? un asciugacapelli? un ventilatore? Virus « ordinò » una lampadina. Prese le scommesse su quella, la spaccò e sbriciolò finemente il vetro esterno. Quindi, masticando lentissimamente, la fece fuori. Il nostro fachiro della Bassa. Anche qui qualcuno, polemico, si lamentò perché non aveva mangiato l'anima e la base della lampadina e non pagò. La volta successiva, Virus volle regalare al bar che lo aveva « lanciato » l'onore di essere sede della nuova scommessa. Arrivò con quindici yogurt e una confezione di prugne secche. Scommise che li avrebbe mangiati insieme e non sarebbe andato in bagno per quattro ore. Mangiare quella roba fu, naturalmente, uno scherzo. Non lo fu altrettanto trattenersi per le quattro ore previste con tutto il bar che origliava i suoi sommovimenti intestinali e qualche provocatore che andava al cesso lasciando la porta aperta e azionando lo sciacquone in continuazione. Ma anche stavolta ce la fece. Improvvisò uno show per due soli amici, quel giorno che apparvero, a pesca, tre uova sode nel cestino di uno dei due. Se le fece fuori col guscio in sette minuti e si comportò come se avesse regalato ai due amici un evento straordinario. Al massimo della forma e della sicurezza nei propri mezzi una sera dichiarò: « Datemi un flessibile e una settimana di tempo e vi mangio una 500 ». Da qualche tempo Virus non si esibisce più. Si dice che non stia tanto bene. Qualcuno, invece, dice che si stia allenando in segreto e abbia avvisato quelli del Guinness dei primati di tenersi pronti. Vi terremo informati. Noi o il Guinness. Oggi c'era una testa di pesce gatto per strada Oggi c'era una testa di pesce gatto per strada. Credevo che le teste di pesce gatto stessero in acqua. Inoltre, non che io sia uno scienziato, ma mi sembra di ricordare che le teste di pesce gatto stiano normalmente attaccate a un corpo di pesce gatto. Invece questa era lì, da sola. Con gli occhi rivolti a una profumeria. Forse era una testa di pesce gatto femmina. Nonostante i baffi. Era a dieci metri da uno stop che, secondo me, non raggiungerà mai. Mi sa che ci debba essere una ragione per ogni testa di pesce gatto ferma sulla strada. Fuori dagli Stones Questa volta mi hanno preso per la gola. C'è una manifestazione pròEuropa trasmessa in Eurovisione dalle piazze di tre diverse città in cui, contemporaneamente, si suona musica:

Torino, Lisbona e Bruxelles. Mi è stato chiesto di fare un duetto con Mick Taylor. Siamo volati a Torino. Mick Taylor ha suonato, fra gli altri, con John Mayall e Bob Dylan ma, soprattutto (per noi) ha fatto parte degli Stones. Non solo: ha dovuto raccogliere la pesissima eredità lasciata da Brian

Jones in un periodo cruciale da cui sono usciti capolavori come « Let

It Bleed », « Sticky Fingers » ed « Exile on Main Street ». Tutti dischi che io e i ragazzi del gruppo abbiamo amato, consumato, smontato cercando di carpirne i segreti, i suoni, lo spirito. Leggenda dice che Taylor sia entrato negli Stones ragazzino e ne sia uscito, dopo meno di sei anni, vecchio. In effetti quello fu probabilmente il periodo più tossico del gruppo. L'organizzazione ci ha chiesto di fare quattro pezzi insieme, due degli

Stones e due miei e, in particolare, vorrebbero aprire il collegamento in Eurovisione con You Can't Always Get What You Want. Il secondo pezzo Taylor vuole che sia You Gotta Move, un blues un po' nascosto fra i solchi di « Sticky Fingers ». La scelta, considerando la sua impostazione - blues appunto - torna. Il primo incontro è durante la conferenza stampa per la presentazione della manifestazione. Mi è un po' difficile riconoscerlo: Mick Taylor oggi è piuttosto diverso dal biondino che sorride all'obiettivo nella locandina promozionale di « Sticky Fingers » che campeggia in casa mia. D'altronde sono passati ventisei anni da quella foto. Nei buchi tra foto e interviste cominciamo a parlare di musica: gli dico che se You Gotta Move possiamo farla come su disco, in Do, You

Can't Always... preferirei farla in Sol. Lui mi dice che così potrà usare l'accordatura in Sol aperto. Io azzardo un: « Come fa sempre Keith Richards » e lui mi risponde un:

« Yeah! » un po' annoiato. Più avanti scopriremo che non è che ami smodatamente parlare degli

Stones. Mi presenta il suo tastierista che si chiama Max Middleton. Fede quasi sviene: Max, fra gli altri, ha suonato con Jeff Beck, idolo

« totale » del nostro Poggipollini. Quindi mi presenta Susan, sua moglie, una bella donna di una ventina d'anni di meno rispetto a lui che sta aspettando un bambino. Mi chiede se lei può fare i cori e, naturalmente, non c'è problema. Il pomeriggio facciamo le prove in uno studiolo affittato dall'organizzazione. Dopo un paio di «you can't... » Mick si scioglie del tutto, sorpreso positivamente, forse, dall'aver trovato suoni e groove giusti. Poi dice a Robby che Charlie Watts non l'ha mai suonata così. E Robby: «Lo so, lui la suona così! » e imita quel curiosissimo modo di suonare il charleston di Watts. Taylor si stupisce ancora di più e suona con maggiore partecipazione. Le mie canzoni non le conosce e allora io lo preparo: una delle due è un po' lontana dal suo mondo ma crediamo sia giusto farla per la piazza di Torino. E se con Vivo morto o x lo vediamo divertirsi, con Certe notti « annusiamo », effettivamente, qualche problema. Questa infatti è una canzone che, nella sua apparente semplicità, si fonda su un giro armonico brigoso da mandare a memoria. Inoltre gli accordi da usare sono parecchi, cosa che normalmente ai bluesmen non piace mai più di tanto. Max si preoccupa di trascrivere gli accordi mentre Mick sembra un po' seccato. Poi decide di fare fraseggi e assoli e di non imparare il giro armonico, col risultato che alla terza-quarta esecuzione il pezzo gli piace. A questo punto siamo tutti più sciolti e più liberi di farci i complimenti l'un l'altro. L'esibizione è per il giorno dopo, così abbiamo la sera libera. Dopo cena alcuni amici di Torino ci portano in un paio di locali. Uno di questi è « coloratissimo » da trans e bonazze che ballano in mutandine sui tavolini. Anche la security che abbiamo attorno è molto colorata. Una via di mezzo fra Warriors e Village People. La musica è come un dito in gola. Una tipa buca il servizio d'ordine, mi si viene a sedere sulle ginocchia, mi chiede chi sono e prima di venire alzata di peso e portata via mi lecca la faccia. Un ragazzo insiste perché io faccia un tiro dalla sua sigaretta « così le nostre labbra avranno toccato lo stesso punto ». Un paio di gemelle compiono gli anni e mi chiedono « un bel regalo ». Insomma il locale è bello caldo. A tré-quattro metri da noi si piazza una bionda. Difficile capire se stia ballando o facendo l'amore col resto del mondo. Il suo bacino scuote forte un bel culo costretto in un paio di calzoni verde pisello. Tutto dice: « Guarda che fine fai se mi passi sotto ». Con un certo successo. Il Tondo, incordonatissimo, si fionda prima che qualcuno lo preceda, ma lei non guarda né ascolta: è come in trance. Lui, tentativo con poche speranze, le dice il suo hotel e il numero della camera. In diversi lo guardano, ridono e pensano « mettiti in fila, zio». La tipa, di scatto, chiude bottega, si normalizza fin troppo e torna a casa sola. O fa l'amore con tutto il mondo o soltanto con se stessa. Il pomeriggio del giorno dopo, in una Torino in cui piove senza interruzioni, passa indolentemente fra riunioni, interviste e sound check. Poi arrivano le 21 e tocca a noi. Mick è in spolvero: completo di velluto nero su camicia bianca. Lo strano è che sale sul palco con una chitarra che non è quella del giorno prima. Ha deciso all'ultimo momento di non suonare in Sol aperto. È come se le prove non le avessimo fatte. In ogni caso attacchiamo e lui dopo venti secondi alza di brutto il volume del suo ampli mandando a ramengo i riferimenti sul palco e io per l'ennesima volta devo cantare senza sentire quello che sto facendo. Nonostante ciò, viviamo intensamente anche questa emozione sentendo le nostre performance arricchite dal gusto, cambio di strumento o no, di questo storico chitarrista. Anche questa volta, appena cominciato abbiamo già finito e, dopo soli venti minuti, ci troviamo giù dal palco. Mick vuole sapere come siamo andati. Credevo di dover essere io a chiederglielo. Ultimo scambio di complimenti. Rigo si fa autografare la sua copia in vinile di « Sticky Fingers ». Mick mi chiede di fargli avere qualche copia del mio cd per i suoi amici. Farà un mini-tour quest'estate in Italia. Mi sa che non ci rivedremo tanto tardi. Lucianone e Lucianino Il mattino dopo l'esibizione con Mick Taylor, squilla il telefono. Da una controllata alla sveglia risultano le 8 e io, a letto da tre ore, impreco e non cago. Alla quinta o sesta serie di squilli mi sembra di percepire al viva voce un Maio implorante. Alzo la cornetta e lui si affretta a chiedermi scusa prima di essere coperto d'insulti: « Ha chiamato Pavarotti, ti vorrebbe al "Pavarotti

International" e gli serve una risposta subito: ha la conferenza stampa di presentazione fra un paio d'ore». Prima di realizzare qualsiasi cosa dico: «Sì! » sradico lo spinotto e risvengo. Sono sul palco. Mi sono appena complimentato con Joan Osborne per l'album che ha fatto e con Eric Clapton per tutto. Certe notti comincia come sempre, con l'arpeggio di Fede e quindi l'ingresso mio, di Rigo e di Robby. Sulla seconda strofa, quella in cui entra Mel, parte anche l'orchestra. Ma è un cambiamento che mi sembra nella norma. È quando arriva il refrain, quando entra Big Luciano, che scoppia la rivoluzione. La foga e la potenza con cui canta non le aveva mai usate in prova. E qui che si «impossessa» davvero della canzone. I monitor da cui esce la sua voce sembrano scoppiare e io, cantando sotto, mi sento minuscolo anzi, a dir la verità, non mi sento affatto. Le parole del ritornello, attraverso di lui, sembrano passare dal corsivo al grassetto sottolineato. Anche orchestra e gruppo sembrano in difficoltà di volume rispetto a lui. Come in una famosa gag di Jerry Lewis, ecco, capisco che se mi avvicino un altro po', Pavarotti mi spettina. Ma non basta. Ultimo refrain. ...ci vediamo da Mario prima o pOOOOOOOOOOOOOOOOHUUII! Quel pOOOOOOIIII è un La in cui Pava, a suo agio, si può esprimere come vuole. E allora va... E giù in platea: le gonne svolazzano, le braci delle sigarette si ravvivano, le acconciature si sfasciano, i fermacravatte si appannano, le sciarpe di seta sbandierano, i gioielli scrosciano, i vestiti griffati si attaccano a tette, stornaci e genitali, le giarrettiere vibrano, alcune mutandine si bagnano, nelle primissime file ci si aggrappa ai braccioli, e poi: le maree cambiano, i satelliti si spengono, stormi di folaghe si spennano, alcune montagne si assestano, branchi di squali si convertono al plancton, molte teorie ballano, parrucchini salutano, marirossi si separano, i pecorini maturano, torridipisa raddrizzano, i sismografi si ribaltano, le amanti dicono « grazie al cielo », gli ufo si spaventano e tornano a casa. Quindi lui, l'orchestra e noi finiamo di colpo. C'è l'attimo in cui il mondo si risistema. E poi la gente che dimostra di avere molto apprezzato. E io che ci metto qualche anno a smaltire la pelle d'oca. E figli maschi Ci vogliono stornaci di cemento e coglioni infrangibili per le nozze all'emiliana. È tutto un trionfo di riti incrollabilmente uguali a se stessi. Ho visto amiche tostissime e molto sarcastiche in materia impazzire - quando viene il loro turno - per l'abito nuziale, frequentare chiese non viste per anni, fare il giro dei mercatoni la domenica pomeriggio, lasciare accuratissime liste dei regali nei negozi di casalinghi, bocciare centinaia di bomboniere, innervosirsi per il carattere usato negli inviti, lasciarsi seppellire da riviste specializzate, litigare col ragazzo per i conti, nascondere dietro le moine con le amiche la propria smania competitiva che il loro sarà il matrimonio più bello, aumentare gli incassi di estetiste e dietiste, chiedere in agenzia per la luna di miele più memorabile per gli altri, aggiungere e depennare di ora in ora nomi nell'elenco degli invitati, girare per concessionarie per il noleggio della macchina che le accompagnerà in chiesa, non lasciare parola al promesso e nel frattempo lamentarsi di dover fare tutto da sole. Oggi si sposano Rino e Nadia. Rino è uno di noi. Nadia no. Dicono che sia una di quelle che ne vogliono prendere sempre tanto. E sono pochi quelli che riescono a darne sempre tanto per tanto tempo. Così, quando sposi una come Nadia, forse speri che quello che puoi le basti, oppure sei così brillante che ti prendi il tuo divertimento e dove non arrivi lasci che ci pensino altri, o ancora ti nascondi il problema, o addirittura ti illudi che cambi la sua natura. Be', questi sono pensieri a bocce ferme. Perché Rino è cotto: prendere o prendere. Il figlio nascerà fra sette mesi. Le malignità si sprecano. Per oggi, almeno, il padre è Rino. Ci siamo già fatti fuori del frizzantino a casa dello sposo. Ci siamo ciucciati l'arrivo della sposa, doverosamente ultima, con tanto di corteo e di «brava! bella! » e di passerella con finta emozione e di ragazzeedonneevecchie a ficcanasare: «Com'è la sposa?

Come stan bene insieme», e a sognare un visserofeliciecontenti che a casa ce l'hanno solo in certe puntate di Beautiful. Ci siamo beccati tutti i « guai a te guai a te guai a voi guai a loro » del vecchio prete del borgo. Siamo fuggiti un quarto d'ora in bar per un goccio da sistemarci un po'. Siamo passati per l'appartamento dei due, un amico aveva recuperato le chiavi, e abbiamo messo un branzino di più di un chilo nel loro letto. Prima notte sul divano. La prossima vita ti scegli altri amici, Rino. Ci siamo risparmiati il lancio di riso e il bacio alla sposa precedendo gli altri al ristorante e portandoci avanti con gli aperitivi. Abbiamo assistito alla deprimente sfilata di chi, in grande e pacchiano tiro, sembrava dire: « Visto come funziona il nostro, di matrimonio?

»Ci siamo ingolfati di cappelletti, lasagne, risotti, tagliatelle, bolliti, arrosti, affettati. Tutto cattivo ma abbondante. Come il lambruscone. Come da tradizione nei ristoranti specializzati in pranzi nuziali. Abbiamo sentito che uno di noi ha regalato a Rino, ateissimo, l'abbonamento per un anno a « Torre di Guardia » barrando la casella sì del modulo che chiedeva se l'abbonato gradiva la visita di qualche

Testimone di Geova per approfondire gli argomenti del giornale. Ci siamo intristiti per l'allegria che sembrava vera di chi gridava per la quindicesima volta « bacio bacio » « bacio dei nonni ». Abbiamo chiesto altro lambro. Abbiamo sospirato all'arrivo, finalmente, di Kingo, un balordo sosia di

Elvis che abbiamo assoldato per l'occasione. L'abbiamo visto esordire saltando sul tavolo degli sposi e lì ballare e cantare, su una base attivata dal suo compare, una Jailhouse Rock urlatissima dentro la sua giacca dorata, sotto i suoi occhiali d'ordinanza, grattandosi un pacco gonfiato da chissà quanta ovatta. L'abbiamo incitato mentre saltava di tavolo in tavolo avvicinando il pacco alla faccia di alcune invitate e poi regalava loro foulard bagnati del suo sudore come solo The King sapeva fare. Abbiamo notato la falsità dei sorrisi di Nadia per lo spettacolo. Ci siamo sorbiti il giro dei tavoli dei novelli che, Kingo o no, si assicuravano, come tradizione vuole, che tutto procedesse bene. Abbiamo tifato per il nostro showman anche quando è rimasto in mutande e qualcuno l'ha voluto portare via. Abbiamo assistito ai ringraziamenti che la presidentessa della Croce rossa del borgo ha fatto ai due sposi che, ignari, venivano informati di aver devoluto una consistente parte del regalo degli amici per l'acquisto di un'ambulanza. Abbiamo notato quanto abbiano cercato di passare per benefattori timidi ma abbiamo capito quanto gli fosse difficile ingoiare. Abbiamo pensato che, quasi quasi, sarebbe stato giusto non fosse solo uno scherzo. Abbiamo fatto sì che il cameriere fosse dei nostri e non ci facesse mai mancare il lambro. Siamo andati a sentire cosa faceva l'Inter. Abbiamo fatto un po' sudare Rino per il nostro regalo. Gli abbiamo nascosto la lira dentro una cinquantina di bottiglie di plastica buttate nella piscina del ristorante. Gli abbiamo consegnato canoa e pagaia e augurato buon lavoro. Lo abbiamo visto togliersi scarpe e calze, arrotolarsi i calzoni alle ginocchia e fingere di divertirsi ma sussurrare madonne remando per il recupero delle bottiglie. Ci siamo ancora intristiti per le risate sguaiate di qualche invitato, neanche questa della piscina fosse gran cosa. Ci siamo preoccupati dell'assenza sia di Nadia che di Enea. Perché Enea è uno di quelli portati a spasso per il mondo dal proprio uccello. E sembra che non ci possa fare niente. E a volte due più due fa proprio quattro. E quel quattro lì, oggi, sarebbe un brutto numero per tutti. Abbiamo visto Rino agitarsi e poi, con finta nonchalance, dire di avere bisogno del bagno. Abbiamo cercato di distrarre una sala che controllava l'assenza dei tre. Si è notata l'assenza di trucco sulla faccia di Nadia al suo rientro dal bagno. Si è osservato che Rino nascondeva male il suo sconvolgimento mentre chiamava allegria e torta. Si è sentita la macchina di Enea andarsene. Si è capito che la sala fingeva di non aver capito. Abbiamo buttato giù uno spumante che sembrava fatto con le mele. Abbiamo visto i due partire con i barattoli legati alla macchina e i responsabili della cosa urlare, ridere, applaudire. Abbiamo sentito che l'Inter ha perso. Anche oggi. Fantastico Savana Quando torno al borgo so cosa mi aspetta. Una serie di leggende che sopravvivono nonostante il pericolo d'estinzione di chi le ha generate. Fra questi un posto di primissimo piano lo occupa sicuramente Savana, genio puro dell'invenzione della balla più deflagrante dal Big Bang a qui. Teatro dei suoi racconti: il negozio di articoli da pesca (cioè dove la balla già circola impudentemente di suo). Pubblico: un gruppo di raffinati intenditori di balle. Soggetto: la guerra d'Africa. Esclamazione più frequente: C'eri te??? E alora...? (frase che Savana ripete sistematicamente all'incredulo di turno bucandogli il torace con l'indice). Come ogni leggenda anche Savana ha il suo biografo. Si chiama Califfo. Gli ho fatto affrontare un paio di bocce di lambro. Tanto per sapere se di Savana non mi fosse scappato niente. Male che vada avrei risentito le più famose nella versione arricchita da quel gran raccontatore che, poi, il Califfo è. CARLINGHE FRAGILI « Stavo dormendo nella mia tenda quando il nemico comincia a bombardare. Io c'avevo un sonno bestia e questi qui mi vengono a spacare i maroni coi loro aeroplanini. Esco e tuti quanti che corono avanti e indietro che mi sembran matti e mi dicono: "Al riparo, Savana!" Al riparo 'ste due angurie! Questi qui mi han troppo stizito... Guardo su e... be', ma non c'avevano due aeroplanini lofi lofi? Vado pian pianino su una palma, mi nascondo e, non appena passano vicini, con due cazzotti BIM BUM gli sfondo la carlinga, gli sfondo.

Ohhhh, son micca morti, veh! Son riusciti ad aterare. Però eran beli spiegassati, eh eh! , , Mentre li facevano prigionieri mi aplaudivano tuti. ( Ma state zitti, va, che voglio tornare a dormire... » SPIGA PER IL LEONE « Mentre che siam lì che andiamo io parlo, parlo e non mi risponde nessuno. Mi volto e son lì da solo. "Oh, ma dov'è che siete?" "Occhio, Savana!" Occhio Savana, cosa? hai Be', ma non c'è un leone che mi corre adesso... Ve mai corso un leone adesso a voi? Micca belo, veh! Imagina un leone di 8 metri come quello lì, alora. Prendo la mira col fucile e... be', ma non è incepato 'sto barachino? ' Alora mi metto in ginocchio e, mentre che aspetto thè ariva, alungo un braccio e chiudo gli occhi. Vieni mo', scoreggione. Come salta m'ingoia il braccio. Io lì son stato sveltino, veh, perché con la mano dentro gli ho stretto subito un budello, con l'altra gli ho tenuto i denti e... zac! ho tirato il budello e l'ho ribaltato. Che chissà cos'aveva mangiato che faceva una pussa... E gli altri ad aplaudire. Oh, ma aplaudono sempre quelli lì? » BRINA « Oh, un giorno faceva un caldo che voi che non sapete una bega del'Africa neanche v'imaginate. Un caldo che tuti e dodici quelli del mio plotone erano svenuti. Io me li ero legati con una corda e li tiravo. Perché ricordate che

Savana, anche se gli sminussano i maroni, agli amici ci salva la vita.

Finalmente trovo un bar. Mollo la corda e i ragassi e prendo per il copino il barista: "Ohhhhh, vai a inafiare il plotone là fuori e mollami subito la roba più ghiacciata che hai". M'ha dato un litro di birra così fredda, ma così fredda che, per reasione coi sessanta gradi che c'erano fuori, sullo stomaco mi son venute due dita di brina. L'ho tolta da lì, l'ho messa in un sachetto e c'ho fatto la borsa del ghiaccio per i ragassi del plotone. » CACCIA D'AFRICA «Mi ero portato lo schioppo coi palini da casa che quando m'hanno detto: "Savana vai in guerra in Africa!" ho pensato: "'Sterìa va mo là che adesso si caccia davero". Solo che dopo 120-122 safari c'avevo i maroni fritti che di bestie grosse ne avevo fatte fuori così tante che il governo d'Africa m'aveva scritto: "Signor Savana per favore si fermi che restiamo senza bestie grosse". Va be', alora sparo agli ucelli. Oh, un giorno passa uno stormo belo grosso, micca come quelli che vedete voi qua. Prendo la mira e... pum... Be', ma non volano via lo stesso... Non è posibile... che non ho mai sbaliato un tiro... Poi vedo che vola giù come... della gramigna. Erano 88 zampe d'ucello. Avevo tirato apena un po' basso. » LA CUCINA EMILIANA NEL MONDO « Bisogna stare ativi, segaioli, anche quando le cose girano come voliono loro. Io avevo visto che la truppa era demoralisata e depressa e ho detto: qua ci voliono un po' di tortelli. E alora ci ho fatto dei tortelli che ancora adesso mi scrivono: "Grazie Grazie Grazie e Grazie, Savana". "Ma il ripieno come l'hai fatto?" "Con le foglie di palma, 'gnorante!" "E le uova dove le hai prese?" "Ogni volta che c'è una bugna un po' strana nel deserto, lì sotto c'è un uovo di strusso, spina." "Ma la sfolia dove l'hai tirata?" "Ho abasato una sponda del camion e l'ho tirata lì sopra, dove vuoi che l'abbia tirata..." "E per mattarello cos'hai usato?" "Ma cosa vuoi che abbia usato? La canna dell'obice, no? Oh, ma siete proprio lofi, veh!"» SAVANA ALLENATORE « Avevo trovato un africano che c'aveva due gambe che erano due platani. Ho detto: "Lo sai ciccio che se ti lasci alenare per i 100 metri, qua faciamo i soldi tuti?" Lui s'è convinto subito e alora siamo andati in mezzo al deserto per stare un po' soli. Gli ho detto: "Al mio via cori svelto più che puoi". Poi ci ho fatto via e a lui ci giravano le gambe così svelte che... si è piantato nella sabbia fino alla pancia. Ci abbiam provato altre dieci-undici volte ma era sempre così. Alora ci ho costruito una piataforma in cemento per la partensa che forse era solo il problema della ripresa inisiale. Gli ho detto: "Adesso ci siamo. Preparati che fra un po' diam la paga al mondo. Pronto? Via!" Lui è andato così forte che la piataforma si è capovolta e lui si è piantato nella sabbia a testa in giù due metri sotto. Andava troppo forte quel ragasso. Ho pianto venti minuti. Perché, cosa credete?, il cuore del qui presente Savana è sempre stato buono. » ROMMEL/1 « Quando ci spostavamo ognuno si doveva fare una buca per ripararsi. Tuti quanti facevano delle buche bele tristi. Io invece le facevo bele grosse e bele rotonde. Il capitano ogni volta mi dava il premio per la buca più bela. Un giorno, dopo che me n'era venuta una che era un capolavoro, mi scapa da vuotar le olive. Alora vado fuori a pisiare, che la mia buca la volio bela pulita. Be', ma quando torno, non c'è dentro un batalione? "Oh, massa di furbi, cosa fate lì?" "Ssshhh! È il batalione di Rommel con Rommel che gli sta dando le istrusioni." "Rommel o no la buca è mia. "RAUSSSSSSS!"» ROMMEL/2 « Mentre che stiamo per tornare a casa ariviamo a un bivio. Io mi ero poi anche rotto i maroni del'Africa. C'è anche Rommel, con noi, che mi chiede: "Qua! è la strada giusta, Savana?" Si va per di qua, gli dico io. "A me sembra che la diresione giusta sia quest'altra, invece", fa 'lui. "E invece è proprio di qua e, se non ci va bene, fa poi come vuole: io vado di qua." "Alora è il caso di salutarci, Savana, perché noi prendiamo l'altra direzione." "Adio, alora." Io so solo che a casa ci son tornato. Lui non lo so. » C eri te??? E alora...? A onor di cronaca va detto che Savana ha preso veramente una medaglia al valor militare. Nessuno sa per quale delle storie che ha raccontato.

O se deve ancora giocarsela al meglio. Tatiana col mappamondo Il numero di Tatiana veniva dalla tradizione e... non andava da nessuna parte. Era la stessa sorte che, piano piano, sembrava dovesse toccare all'intero circo. Si trattava di un circo russo che aveva vissuto stagioni straordinarie in giro per il mondo e che, se era vero che non sapeva rinnovare la propria formula, era pur vero che poteva contare sulle grandi capacità dei suoi acrobati che garantivano brividi e piacere. Peccato non garantissero più il tutto esaurito. Tatiana aveva un numero di contorno: girava in pista in equilibrio su un'enorme palla. Spesso si chiedeva se la gente avesse idea di quanto esercizio e sacrificio ci fossero dietro quella piccola sfida alle leggi gravitazionali, ma poi si arrendeva all'evidenza di un interesse rivolto più alle sue gambe che alle sue evoluzioni. Le sembrava, addirittura, che anche nei numeri ad alto rischio, quelli senza rete, il pubblico prestasse più attenzione al fisico degli acrobati che non al loro coraggio. Così Tatiana sapeva di dover lavorare su due cose: l'equilibrio e la bellezza delle gambe. I suoi, mai avuto niente a che spartire col circo, avevano vissuto male l'infatuazione che la figlia provava per un mondo che loro non capivano. Poi, un giorno, pur sempre senza capire, accettarono la cosa e per farsi perdonare anni di litigi e incomprensioni, le regalarono un mappamondo di un metro di diametro e più. Diventò subito la palla per il numero di Tatiana. E visto che doveva passarci tante ore al giorno, fu un bene il fatto che ci si affezionasse subito moltissimo. Tracciò con un pennarello indelebile delle piccole croci sui paesi in cui il circo era stato, segnando, con un altro pennarello, alcune città di un colore più intenso. Poi, una volta salita sul mappamondo, le sembrava di ritornare in quei posti. Aveva imparato a tenerlo quasi fermo. In quei momenti i suoi piedi scalzi, toccando le varie crocette, le aprivano le porte di un'osteria a Roma, un caffè a Marsiglia, un appartamento a Liegi, un coffee shop ad Amsterdam. Per non parlare del Café du Monde a New Orleans, delle luci di Las

Vegas, degli spettacoli agli Universal Studios a Los Angeles, dei club a San Francisco in quell'unica, mitica tournée negli States. Il circo era parte del mondo e il suo mondo, Tatiana, lo custodiva sotto i piedi muovendolo come lei desiderava, fermandolo, imbizzarrendolo, facendolo rotolare in più direzioni, lasciandolo impazzire. Le sue preoccupazioni erano la bellezza delle sue gambe, l'applauso del pubblico e la scorta di pennarelli a due colori. Se c'era questo c'era tutto. Finché il circo, esausto per i conti che non tornavano, si fermò a

Berlino incorporandosi con un altro circo stabile e allungando la sua sopravvivenza. Si dice che Tatiana, di fronte alla definizione « circo stabile», abbia riso per mezz'ora. Si dice che quando capì che non era una battuta non parlò per un mese. Si dice che sia in giro sulla sua palla, battagliando con le forze dell'ordine per dei permessi che non ha, ma insistendo e raccogliendo offerte in ogni strada in cui da spettacolo: ci son troppe crocette che deve ancora mettere sul suo mappamondo. Primomaggio La festa del Primomaggio, in piazza San Giovanni a Roma, è più festa del solito. Qualcuno dice perché in molti non hanno ancora festeggiato come si deve il risultato delle elezioni di dieci giorni prima. Fatto sta che il tassista che cerca di solcare la folla costeggiando la basilica maledice la festa e la sfiga di avere, proprio lui, beccato la mia chiamata. I ragazzi che mi riconoscono urlano agli amici « Ligabbue staqqua» e via tutti a smanacciare il taxi per farmi voltare. Sono sempre di più quelli che si attaccano ai finestrini e ci fanno dondolare. Il tassista calcola ad alta voce i presunti danni che la sua macchina sta subendo e intervalla con madonne che fumano. Nel frattempo, preoccupandosi di non investire nessuno, mi sa che urli anche per coprire la paura che gli sta crescendo. Festa dei lavoratori un po' strana per lui. Un ragazzo aggrappato al tettuccio continua, in mezzo a tutte quelle mani, a offrirmi la sua birra. Non capisce che non posso aprire il finestrino e mi manda a fare in culo. Arriviamo al punto in cui non è proprio più possibile proseguire. Comincia a mancare l'aria. Il tassista, sbiancato, ha smesso di urlare. Noi, di sorridere alla gente. Arrivano quelli della security che mi sradicano dal taxi e mi portano di peso verso il backstage. Credono troppo nella loro parte e fanno un po' di spettacolo insidiando e spintonando e facendo cadere. Io urlo loro di darsi una calmata che è meglio per tutti. L'urlo più forte, però, è quello del tassista. Ce l'ha con me. Ci raggiunge: «Mo', a mme la deddica la devi fa'... Scrivice: "Ar tassinaro con più ppalle de Roma, Ligabbue" ». Nel backstage, dalle parti dello studio mobile, è come se ci fosse il raduno di tutti i tecnici con cui ho lavorato. Passa di lì anche il sindaco che controlla lo stato di un parco sottostante fatto sistemare da poco e mi ricorda le mie responsabilità. A ognuno le sue. Fra le varie interviste ce n'è una « di gruppo » di un Tg durante la quale tutti, compresi i capi dei sindacati un po' in imbarazzo, ci troviamo a pogare una versione improvvisata di Bella ciao. Tutt'intorno è un carosello di discografici spazientiti, giornalisti annoiati, promoter che leccano culi, tecnici affannati e tecnici sbadiglianti, manager impostati, cantanti riveriti, cantanti non cagati, cantanti stranieri snob e sempre diffidenti verso l'italica organizzazione, tope scosciate e topine sognanti, musicisti timidi e musicisti in punta, radiofonici anguillosi con registratori sempre accesi, fotografi senza nessuna forma di pudore. Le chiamano pubbliche relazioni. Quest'anno l'organizzazione ha montato un palco girevole con due situazioni palco per accelerare i cambigruppo. Appena prima di salire ci comunicano che per un errore saliremo sul palco A invece che su quello B dove avevamo fatto le prove. Roba da poco. Dovremo solo affrontare 500.000 persone senza sentire quello che suoneremo. Be', prendiamo posto e... non c'è niente da fare: è proprio così. Dopo la rullata di Robby e il riff di Fede, tocca a me cominciare la prima strofa di Vivo morto o x. Nella mia postazione sento solo la chitarra del Poggipollini. La mia voce quasi non l'avverto. Di fronte però c'è un granspettacolo: non si riesce a vedere la fine di quel mare di braccia e facce e corpi. E allora mi butto e anche se non sento quello che sto cantando, non ho tempo, né modo, né intenzione di preoccuparmi, che qua mi devo godere la festa anch'io. Penso a quelli in fondo, anche se il fondo non lo si vede. Non possono vederci e probabilmente non ci distingueranno nemmeno sugli schermi giganti. Per non parlare di come sentiranno. Ma sono lì per la festa. Non faccio in tempo a dare corpo ai pensieri, va tutto troppo veloce: se ne sono già andate due canzoni. E allora che lavorino le emozioni. Perché il pezzo che arriva ora si presta particolarmente a scatenarmene di forti. Urlando contro il cielo l'ho sempre vissuto così, sbattendomene di cose quali interpretazione, intonazione e tempo. A maggior ragione sarà così qui, dove non riesco a sentirmi. È una canzone con cui riesco a liberare certe cose mie. Soprattutto parla dell'importanza di fare « sentire » la propria presenza, di fare sapere che con te ci devono fare i conti. E sarà l'emozione, sarà « romantica » interpretazione personale, sarà un pensiero retorico ma mi sembra che lì, durante i cinque minuti della canzone, in tanti dimostrino di volersi far sentire. La chitarra di Fede che dai monitor mi passa i timpani e mi fora la testa, le espressioni un po' smarrite, come di chi ha perso il controllo di qualcosa, dei ragazzi del gruppo, il volume dei cori della piazza, le mani alzate a tenere il tempo, il sobbalzo di San Giovanni sul beat del rullante, il festival di 500.000 pensieri... mi spediscono in una sorta di trance emotiva. Che belli i Primomaggio a Roma. Ora diciamocelo: è vero che dal palco prima o poi si deve scendere ma in questo caso, dopo solo tre canzoni, è un po' come un'eiaculazione precoce. E mancano ventiquattro giorni a un concerto vero e proprio... In compenso non dovremo aspettare neanche un minuto il nostro tassista:

è poco oltre le transenne con l'espressione di chi sta per andare in missione. Bonanza ai tempi del kung fu Cè ne approfittavamo di Bonanza. Va detto. Si infoiava troppo per ciò che vedeva al Politeama. Arrivava sempre vestito come il Brando del Selvaggio. Ma sotto il culo aveva un Gilera 50. Comunque arrivava, vi dicevo, motorino sul cavalletto a bordo portici, camminata di rimbalzo, abbondanti grattate di maroni, acquisto di tre sacchetti di semi di zucca dal vecchio quasi omonimo Bonaccia che pioggianevetempesta piantonava l'ingresso del cinema col suo cesto in vimini, raggiungimento sempre di rimbalzo della biglietteria, richiesta perentoria di « 1 galleria » per il corrispettivo di 1 mila, sguardo di sfida con la maschera allo strappo del biglietto, raggiungimento della prima fila di galleria (rimbalzo sempre presente), stravaccamento con appoggio piedi sulla transenna, inizio nevicata gusci di semi di zucca in platea, partenza immedesimazione di Bonanza. Che, come avete capito, arrivava con parecchi film alle spalle. Era però difficilissimo spiegargli che appena fuori, già sotto i portici, non c'erano praterie o corse all'oro o accampamenti indiani o licenze di uccidere o dottorizi vago o sporchemezzedozzine o bighe romane o falconi maltesi o alieni verdini o ginelollobrigide. Perché lui li vedeva. E allora chi di noi non lo sfidò mai a duello? Andava così: «Bonanza, io sono pronto! » « Coltello o pistola? » lui chiedeva con gli occhi socchiusi come Clint

Eastwood a mezzogiorno. Tu sceglievi l'arma e poi andavi in piazza con lui e gli spettatori del caso. Appena lì lo vedevi farsi dirigere da Sergioleone, muoversi con lentezza epica, porgendo un concentratissimo profilo a un'immaginaria macchina da presa, fischiando nella testa uno dei carillon di

Morricone, portandosi la mano sulla fondina e sgranchendosi le dita con movimenti quasi impercettibili. Ti fissava con l'aria di compatimento di chi pensa « che sfiga ti è capitata » e aspettava che fossi tu a fare la prima mossa. Può darsi che sentisse anche le inevitabili campane o il martellare del becchino o quello del maniscalco, ma niente gli toglieva la concentrazione. Perché non appena tu fingevi di arrivare alla tua fondina...... lui si buttava a terra estraendo la sua pistola giocattolo e cominciava a rotolare su se stesso, pozzanghere o no, urlando agli altri « al riparo » e facendo un playback infernale neanche la sua colt fosse stata un bazooka. Tu, comunque, dovevi morire. Perché lui potesse, rialzandosi, soffiare sulla canna della rivoltella, beccarsi applausi e fischi, rimbalzare fino al saloon vicino strisciando speroni invisibili e pagare a tutti. Ecco la nostra fatica per scroccare un goccio. Comunque il nostro era un approfittarsi innocente. Ci fu chi fece peggio. Come quella volta che, uscito dalla visione di Il profeta del goal, cominciò a credersi Turone, allora libero del Milan. Fu un periodo impossibile in cui ogni lattina o striscia di carta l'appallottolava e cercava di tenerla su di tacco. Finché qualcuno, e ancora oggi non si sa chi, gli inviò una lettera di convocazione per il ritiro del Milan. Fu uno molto abile perché l'intestazione sembrava vera. Fatto sta che non so se fu peggio chi gliela mandò o tutti quelli che, falsi da vomito, si mostrarono felici per lui allo sbandieramento che

Bonanza fece del documento nei giorni a venire. So che la settimana dopo venne attaccato sullo specchio del bar dietro agli amarocora e strega e sambuca un trafiletto preso da « Stadio » che così titolava: Squilibrato si presenta a Milanello. Si crede Turone. E allora nel concorso « chi è il peggiore? » mettiamo anche quelli che lo convinsero che nel borgo abitava da un po' un produttore di film horror. Gli dissero che il provino migliore era spaventarlo. Gli recuperarono una maschera repellente e gli dissero di suonare il campanello del numero 6 di via Astrologo alle 3 di mattina di un certo venerdì. I suoi vicini di casa dissero di aver sentito urla orribili venire per qualche giorno dal suo bagno. Aveva provato l'urlo più convincente con cui presentarsi. Adesso vi parlo un attimo di Collo. Collo è un muratore a cui è sempre piaciuto mostrare quanto riesca a spostare travi e mattoni e calcinacci vari anche senza carriole e carrucole e pippe simili. Lo chiamano così per via di un collo largo come la base d'un platano che diventa un'esposizione di vene non appena è sotto sforzo. Adesso vi devo anche dire che è lui ad abitare in via Astrologo al 6. Ed è proprio lui che ha sentito suonare il campanello alle 3 di mattina di un certo venerdì. È proprio lui che, aprendo la porta, si è trovato di fronte una maschera repellente con dietro uno che urlava a squarciagola. Ed è sempre lui che, prima di stropicciarsi gli occhi, ha lasciato andare una pigna che ha cambiato per sempre la disposizione dei tratti di Bonanza. Finì che per un bel po' non si fece vedere. Al suo rientro era già tempo di kung fu. Noi, ancora cinni, andavamo in due per motorino all'Odeon di San

Martino. Qui, la domenica pomeriggio, c'era doppia proiezione: un film di arti marziali e uno vietato ai diciotto. Si trattava solo di qualche tetta e un po' di pelo pubico sparsi in contesti normalmente senza nessun senso: gli antesignani dell'hard-core senza hard-core. Comunque l'idea di quelle poche immagini bastava per farci nascondere sotto le sedie fra una proiezione e l'altra e farci beccare, noi senza l'età, e quindi cacciare fra il compatimento di qualche pippaiolo più adulto. Tanto ci avremmo riprovato la domenica dopo. All'Odeon beccavamo sempre Bonanza che, giocando fuori casa, perché al

Politeama niente kung fù, se ne stava bello composto sulla poltroncina in angolo in fondo alla platea. A volte lo seguivamo di nascosto e notavamo che la sua compostezza continuava per tutto il ritorno, fino al raggiungimento del borgo e quindi del bar. Lì, finalmente, cominciava a urlare come Bruce Lee, a concentrarsi e poi scatenare qualche attacco contro chiunque di piede, di taglio di mano, di tacco, strepitando con frequenze irritantissime. Alla fiera di San Quirino, quell'anno lo videro girare con metà manico di scopa a mo' di catana infilato in un fodero dietro la schiena come un samurai che si rispetti davvero. Durante una dimostrazione di abilità, di fronte al pubblico più numeroso che avesse mai avuto, fra giostre e bancarelle e curiosi, lo estrasse, cominciò a rotearlo e si fece spazio con i soliti strepiti finché, con un colpo spettacolare, non si sbriciolò una rotula. E l'urlo di Chen, allora, fu più che giustificato. L'ho rivisto l'altro giorno, Bonanza. Aveva la sua vecchia colt giocattolo nel giubbotto di pelle. Me l'ha mostrata e mi ha detto che, dopo aver fatto la guerriglia col

Che, ora ha un incarico a Cuba. «Hai presente quando arrivi all'Avana, Liga? C'è quella via lunga? Tu prendi la terza a sinistra e subito ci trovi l'ufficio antiterrorismo e antidroga. Io lavoro per tutti e due. Mi raccomando: mutismo totale! » Sapete che film danno in questo periodo? L'ultima volta del padre di Tito Fu l'ultima volta che il padre di Tito stuprò la sorella di Tito. Perché questa volta Tito gli sparò quattro colpi. Fino a quel momento la gente del borgo aveva parlato bene di lui e disprezzato il genitore. Forse è giusta, allora, la versione che quello non fosse che l'ennesimo episodio di una lunga serie, che ci furono litigi e scazzottate fra padre e figlio e ancora violenza ed esasperazione fino a portarlo a credere che quella fosse l'unica soluzione. Può darsi che a questo pensasse mentre sul suo motorino bucava quella puzza di concime che, a ridosso del borgo, sembra volerne conquistare anche il centro. Chissà se la campagna in quel momento non gli sembrasse più aperta del solito. Avrà salutato i conoscenti che incrociava.' O avrà corso il rischio di sembrare maleducato? Quanta sarà stata la lucidità di riserva dopo tutta quella usata per arrivare al comando dei carabinieri e suonare il campanello? E quanta quella rimasta dopo un dialogo che fu pressappoco così: « Chi è? » « Mi chiamo Tito, dovrei costituirmi. » « Cos'ha fatto? » « Ho ammazzato mio padre. «Ora il maresciallo non c'è. Ripassi dopo pranzo...» Tito di sicuro prese la sua incredulità, se la ficcò sul mucchio di sentimenti forti della giornata e andò a farsi una vasca. Probabilmente passò per i giardini costeggiando l'Istituto magistrale da cui a quell'ora escono decine e decine di ragazze e si sarà messo in loro scia fino al piazzale delle corriere. Può anche darsi che, sfiorando l'ingresso della Banca popolare, abbia pensato che per una volta si poteva permettere il lusso di non pensare ai soldi. Può essere anche che, vedendo la locandina della gazzetta locale sul trespolino ai piedi dell'edicola di fronte, abbia immaginato qualche titolo dei giorni a venire. Si sa comunque che una volta raggiunto il bar salutò il Griso che, come ogni giorno a quell'ora, misurava a Space Invaders la sua capacità di far fuori sempre più creature spaziali prima di venire inesorabilmente e inevitabilmente distrutto. « Ciao Griso. » « Veh: c'è il Tito. Come va? » di sbircio. « Ho accoppato quel pezzo di merda di mio padre. » « Fatto bene. » Tito si rese conto che neppure lui avrebbe mai creduto a un amico che gli avesse detto una cosa del genere. E allora se ne rimase lì, fisso, a vedere gruppi di alieni diventare sempre più numerosi, sempre più forti, sempre più difficili da eliminare. Ineliminabili, infine. Gli credettero solo dopo che lo videro nei titoli della stampa. Dopo che il maresciallo gli diede finalmente ascolto. Merry Christmas, Genova! Se sei un giocatore non te ne può fregare troppo dei soldi. Altrimenti muori presto. Però, come ogni altro tossicodipendente, sai che ti servono per la cosa che più conta. In questo caso le fiches. Se sei un giocatore sai che non ti puoi permettere il lusso della vergogna o del principio: quello che combinerai per comprarti il diritto di stare al tavolo sarà sempre condannato dai tuoi, sarà fonte di difficoltà, guai, umiliazione e derisione, conti da pagare fisicamente e non. Sarà a volte illegale. Solo che tutto questo capita fuori dal casinò. E poi diciamocelo, se sei un giocatore sai anche che nessuno ha inventato nessun metadone per te. Tutte cose che Genova conosce benissimo. Genova è il cognome che ha preso da una famiglia che ormai l'ha stramaledetto. E successo quando dopo aver dilapidato il patrimonio di casa e aver costretto se stesso e i suoi a un bilocale loffissimo, promise di non giocare più. Naturalmente mantenne quella promessa per un quarto d'ora. Dopodiché si impantanò in chissà quali casini con chissà chi, ma riuscì a procurarsi un po' di verza per le sue frequentazioni alla roulette. Perdendo come perde un giocatore. Che non se ne va mai quando vince davvero. Al punto che la direzione del casinò di Venezia si sentì in dovere di mandargli una cartolina di sentitissimi auguri di Natale che, malauguratamente, finì in mano al genitore babbo dando il via a un imperioso trabocco di vaso. Genova, comunque, sa che non può farci niente. Dice che la sua Regata, verso la casa da gioco della Laguna, ormai ci va da sola. Ce lo ha confermato anche Valvoline che una volta ha avuto l'onore di accompagnarlo. Sembra che, non appena si usciva di qualche metro dal solco tracciato fra il borgo e Venezia, la macchina trovasse il modo di segnalare l'errore. Comunque in quell'occasione Valvoline ebbe modo di vedere con quanto rispetto Genova venisse salutato da un coro di croupier e inservienti vari, tutti ossequiosi e scappellanti di fronte all'ennesimo sfogliamento di mance. Lo vide finire in trance e assumere le sembianze di un nobile d'altri tempi. Pieno di nonchalance e di grande controllo osservava su quale numero si fermasse la pallina sui tre-quattro tavoli a cui giocava contemporaneamente, mantenendo una quieta espressione di serenità qualunque fosse l'esito. Ci fu anche un colpo a effetto quella sera. La sua vescica riuscì a ordinargli di mollare per qualche secondo i tavoli. Fece la puntata, chiese a Valvoline di controllare tutto e corse ai cessi. Pisciò più in fretta possibile, uscì e si accorse che stava per partire il giro seguente. Urlò: « 500 sull'8». A venti metri da lui il croupier aveva già staccato il suo riennevaplus. Il caposala gli disse di accettare lo stesso la scommessa del buon vecchio cliente. Ci fu chiaramente una certa curiosità da parte di tutti per l'insolita procedura. Curiosità e silenzio e frullar di pallina e... e...... 8 fu. Con tanto di standing ovation ad accompagnarlo trionfalmente nel suo ritorno ai tavoli. Valvoline lo giura. C'è stato anche un periodo di tentata disintossicazione, in cui Genova cercò di tenersi occupato con un lavoro «normale». Diventò rappresentante di salumi. Con un furgone carico di insaccati vari girava l'Italia nel tentativo di convincere qualche grossista. Durò poco. Una sera, dopo un incontro di lavoro a Treviso, non resistette e si fiondò col suo furgone a Venezia. Quella volta si coprì di debiti più di quanto non avesse mai fatto. Con cinquanta carte rimastegli in tasca si prese una stanza d'albergo e restò tutta la notte con gli occhi piantati al soffitto a pensare a come farsi fuori. Il mattino dopo tirava un'altra aria: scese al parcheggio dell'hotel, montò sul furgone, fermo perché a secco, e ci visse per quattro giorni. Dormendo nel vano dietro, cibandosi d'insaccati, bevendo a una fontanella vicina. Quando racconta questa storia, più che raccontarti come ne sia venuto fuori, tende a ricordare che tutto quel salume se l'è dovuto far fuori senza pane. D'altronde di quello che gli sia capitato nei diversi momenti in cui spariva dalla circolazione, come quella volta appunto, nessuno sa dire niente. Un giorno un orefice del borgo si vide entrare in bottega due energumeni. Uno di loro gli chiese se si chiamava Enrico. Al suo sì, l'altro bestione gli si mise alle spalle, gli strinse un braccio intorno al collo e gli puntò una pistola alla tempia. L'altro, escludendo qualsiasi possibilità di replica, gli disse: «

Allora tira fuori tutto ». L'orefice convinto che si trattasse di una rapina cominciò, braccio al collo e pistola puntata contro, ad aprire tutte le vetrinette. Al loro: « 'zzo fai? » lui, tremante, rispose: « Eseguo! » Gli dissero che volevano solo quello che gli spettava. E pian pianino, a domanda risposta, venne fuori che c'era stato uno scambio di persona. Stavano cercando Enrico Genova. Fu quello il suo più lungo periodo d'assenza dal borgo. Ora sembra acqua passata. Ha sposato una brava ragazza, grande lavoratrice. Le ha promesso una zampata settimanale nel cestino dei risparmi. Il viaggio di nozze? « Chiamatemi santo, ragazzi. L'ho portata in ristoranti da due milioni a cranio. E poi il giro dei migliori casinò del mondo. Cosa vuol dire: "Pagava lei"? Le ho fatto avere una botta di vita che basta a lei, ai suoi, ai suoi dei suoi... fino a tre generazioni precedenti. » La Cianciulli! e l'Ermelina Leonarda Cianciulli in Pansardi nata nel 1893 a Montella (AV) Deceduta nel manicomio di Pozzuoli nel 1970 Segni particolari: serial killer, saponificatrice. « Fai il bravo o arriva la Cianciulli. » Questo era quello che si diceva ai bambini di qualche generazione precedente alla mia a Correggio. Una celebrità tale per cui, per qualche tempo, il borgo veniva ricordato come «la città della

Cianciulli». La saponificatrice aveva una storia tormentata alle spalle. Sposò Raffaele Pansardi prima della guerra '15-18. Il matrimonio fu fortemente contrastato da sua madre che la voleva in moglie a un cugino ricco. Fece quattordici figli ma i primi dieci morirono per cause misteriose. La madre l'aveva maledetta Ermelina Lotti in Ligabue nata l'8/2/1900 a Correggio (RE) Deceduta a

Correggio il 29/3/1993 Segni particolari: nonna del sottoscritto. Ermelina era una donna per cui i numeri erano tutto. Non tutti i numeri, sia chiaro. Quelli dall'1 al 90. Cioè quelli del lotto e della tombola. Numeri di una certa importanza, comunque, furono: 00 anno di nascita

(così da far presto, per tutta la vita, a ricordarsi gli anni) 1 il marito 2 le guerre mondiali attraverso cui passò 3 i figli che le morirono 6 i figli tuttora viventi 13 i nipoti. Nel suo comò nascondeva gelosamente una continua riserva di cioccolatini e caramelle di menta e un pezzo di pelle di biscia che era il predicendole che nessun figlio sarebbe sopravvissuto finché fosse stata in vita lei. E così fu. Il terremoto del 1915 nella zona della Marsica fece crollare la casa della giovane e sfortunata coppia che decise, così, di emigrare a

Correggio. Qui trovarono un ambiente favorevole e riuscirono a rimettersi in piedi. Lei cominciò a commerciare in abiti usati, quattro figli sopravvissero alla maledizione della nonna, arrivò il risarcimento per il terremoto: si piazzarono. La futura saponificatrice poteva permettersi il lusso del lotto. suo portafortuna personale. Era superstiziosissima però aveva anche un gran culo e vinceva molto spesso. Così tanto da non mettere in discussione mai la validità delle sue scaramanzie. Io ho una mia teoria: quel po' di sano egoismo che si portava dietro le ha sempre fatto fare quello che voleva per la bellezza di 93 anni. Perché anche quando viveva momenti tremendi di fame, stenti e paura durante le due guerre o il ventennio con un marito che non si piegava alle torture dei fascisti e un figlio partigiano, al lotto e alla tombola non rinunciava mai. L'Ermelina e la Cianciulli si videro diverse volte nel botteghino del lotto di via Roma. Non diventarono vere e proprie amiche però chissà quante chiacchiere sui numeri sognati, sulle settimane, che non usciva "l'8oil61o chissaché, sugli ambi beccati, sulle ruote che pagavano meglio... chissà... La prima vittima della Cianciulli si chiamava quasi come mia nonna:

Ermelinda. Lei come le altre due che la seguirono erano amiche intime di Leonarda. Tutte e tre vivevano sole. Tutte e tre ebbero, a un certo punto, un motivo buono (chi. Non credo che i soldi che vinceva le interessassero particolarmente. Però con quelli poteva prendere più cartelle a tombola e giocare più combinazioni al lotto. Aveva uno strano rapporto con la televisione. un vecchio amore, chi un buon posto di lavoro) per andarsene dal borgo. Tutte e tre finirono nel pentolone della Cianciulli. Una per volta ne fece a pezzi i corpi con una scure e ne ricavò sapone mettendole a bollire con chissà quanta soda caustica. Leggenda dice che con le ossa fece farina per i dolcetti che offriva agli ospiti. Alla gente diceva che era stata incaricata dalle tre di occuparsi dei loro beni. Cominciarono però a girare voci terribili e quando la polizia verificò che nessuna era più tornata a casa la arrestarono. La Cianciulli al processo confessò che non uccise per rapinare ma per compiere un sacrificio con cui allontanare la morte dai suoi quattro figli come ordinatele, in sogno, da una «Madonna che reggeva un bambino nero». E intanto all'avvocato d'accusa faceva segno che gli avrebbe tagliato la gola. Fu condannata, con le attenuanti, a trent'anni di reclusione in un manicomio criminale. Lì dentro scrisse poesie e morì a pochi anni dalla fine della pena. Però durante le estrazioni del lotto si piazzava a due centimetri, metteva l'amplifon a palla e, nonostante si sentisse solo il fischio del suo apparecchio, capiva tutto. Le rare volte che non usciva niente scandiva dei secchi « vaacaghér » e riduceva al silenzio il suo auricolare, ma quando vinceva bene, si dimenticava di abbassarlo e girava con 'sto fischio che a duecento metri potevi dire: « Arriva l'Ermelina ». Le piaceva molto scherzare con noi, e io e mio fratello, da veri stronzi, le raccontavamo le balle più impossibili sapendo che avrebbero fatto il giro di tutto il borgo perché lei le avrebbe riportate alle amiche di lotto e tombola. Era come se avesse la capacità di farsi scivolare sopra le cose brutte della vita senza che la potessero scalfire. Aveva una serenità e una « leggerezza » che avrei tanto voluto ereditare. Invece non ho neanche ereditato la sua famosa pelle di biscia che un giorno promise di lasciarmi e che chissà dov'è finita. Appena prima di spirare mi riconobbe, sorrise, e si fregò il pollice e l'indice come per Qui fuori è nei brividi di quelli che si soffermano davanti alla sua abitazione in via Cavour 11/A a pensare alla sua storia e negli incubi dei bambini che non se ne stanno buoni: «Dormi o arriva la Cianciulli

». dirmi: « Ne stai guadagnando, eh?» Chissà quante cartelle di tombola avrebbero potuto essere. Era il 29 marzo 1993. Aveva, quindi, 93 anni. E sforato di tre il massimo numero di lotto e tombola. Ruspa aspirante pornodivo Ruspa è uno dei nostri tecnici. Uno svelto. Uno che è stato capace di far fuori un paio di sci in un negozio di articoli sportivi, per intenderci. Voglio dire: non è che li puoi nascondere facilmente sotto il maglione, gli sci. L'altro giorno ha chiesto a Maio se per caso conosceva Schicchi o qualcun altro del giro porno. Sa di avere i numeri e soprattutto le misure per far carriera nel settore. Ha promesso un 50% a Maio se gli fa da manager. Ha già in mente la sua sigla prima e dopo la copula: l'elicottero. L'elicottero è il numero che fa a chiunque veda un po' giù. In quei casi lui si apre la patta, tira fuori un affare da far venire grandi complessi a tutti noi, lo afferra con una mano alla base e lo fa roteare velocissimo. Ruspa è uno che da spettacolo. Ci tiene al buonumore della gente. Come quella volta che tre altri tecnici gli hanno detto: « Perché non prendiamo una puttana e facciamo un po' di mucchio sul camper? » Figuratevi se lui diceva bao. E allora trattano con una slava, le spiegano tutto e se la portano via. Sennonché, al momento buono, i tre mettono marcia indietro: « Io, però, non c'ho voglia ». « In quattro siamo troppi ». « C'è una puzza assassina qui dentro ». « Non ce n'era una un po' meglio? » « Chiediamo se ci fa lo spettacolino lei? » « Per me possiamo anche pagarla e lasciarla andare ». Ruspa ha fermato tutto, ha detto ai ragazzi di sedersi e respirar profondo. Poi ha guardato lei e le ha fatto capire che toccava a loro due. Per un paio d'ore il camper è stato shakerato, con tanto di ripasso di repertorio completo, e si dice che fuori arrivassero le urla autocaricanti del nostro e le gridoline piuttosto divertite della morettina. Si è meritato quasi tre minuti di applausi e richieste di bis. Mica balle. Una volta col Tondo ha avuto un problema. Il Tondo è il suo compagno di viaggi a Troialand. Viaggi piuttosto frequenti. Be', dicevo, quella volta lì era novembre, in pieno freddo blu e loro dovevano assolutamente scaricare l'ingombro. Fanno il contratto con una a fine carriera e se ne vanno in campagna per non pagare la camera. Il primo dei due era sempre il Tondo visto che dove passa Ruspa non cresce più l'erba. Voglia o non voglia, non fu niente facile vincere il freddo ma il Tondo ne venne fuori bene e cominciò a spassarsela. Ruspa aspettava impaziente in macchina, una paglia dietro l'altra, facendo disegnini osceni sui vetri appannati. Finché non sentì un urlo e accorse. Era il Tondo: gli si era rotto il preservativo dentro. Lei batteva i piedi e urlava: « Vaffanculo ora dovrò abortire ». E lui, occhi e bocca sbarrati: «Mavaffanculoteva! E se c'hai l'Aids, eh? ...cazzo ne so io...» Ruspa, da vero esperto, con grande distacco disse: « Ci vuole dell'alcol ». Andò in macchina, ci trovò due birre, le prese, tornò e le versò sul coso del Tondo. Il suddetto coso fra spavento, freddo e birre versateci sopra praticamente rientrò. Riaccompagnarono la tipa, che smise di offenderli solo quando le allungarono qualche lira in più del pattuito e tornarono sul camper con

Ruspa che smadonnturcheggiava perché non si era svuotato. Lì finirono il lavoro vuotando sul lombrico spaventato mezza boccia d'alcol denaturato. Capisco che il Tondo è stato profondamente toccato da quell'esperienza dal modo in cui me la racconta. Anche oggi che gli esami hanno detto negativo. Alla fine della storia si raccomanda: ok Liga, credimi, qualsiasi cosa ma non vuotarti mai ! dell'alcol sull'uccello ». Cercherò di tenerlo presente, Tondo. Piccoli show padani Ruspa e il Tondo mi raccontano di aver fatto uno spettacolo pure loro, una volta. Prima, però, vi devo parlare dei Rockets. I Rockets furono un gruppo che raggiunse un discreto successo a metà anni Settanta con una rivisitazione elettronica di un vecchio hit dei

Canned Heat: On thè Road Again. Più che per il pezzo, mi sa che la loro popolarità derivò dal modo in cui si presentavano: completamente calvi e con la pelle totalmente rivestita di una vernice color argento, indossavano buffissime tute spaziali e si muovevano come ci si immaginava si muovessero i robot nei primissimi film di fantascienza. A coronamento di ciò, fra abusi di fumi e raggi laser, assumevano espressioni molto più da idioti che da alieni. Resta il fatto che i loro spettacoli, la domenica pomeriggio nelle discoteche, impressionavano noi cinnazzi quindicenni al punto da distoglierci dalla nostra affannosa ricerca di passerina. Impressionarono in modo particolare Ruspa e il Tondo che decisero, con qualche amico, di essere per un giorno come loro. E decisero di farlo provocando un po' di confusione nelle testoline bigotte di un gruppo di ragazzi dell'oratorio di un paese vicino con cui, per qualche motivo, ce l'avevano. Fecero le cose per bene: si rasarono a zero, condannandosi a qualche mese di berrettino, e si procurarono un furgone, un estintore e la vernice argento. Per i costumi spaziali improvvisarono, e per il resto uno di loro ci mise il proprio stereo e un altro preparò una pseudomolotov. Il giorno dello spettacolo ci vollero un paio d'ore per dipingersi d'argento, fra madonne e puzza e bruciori vari, dopodiché si nascosero nel furgone che venne guidato da un amico reclutato per l'occasione. Raggiunto l'oratorio, dove si stava svolgendo una qualche sagra, il loro amico frenò brusco e lanciò la molotov poco oltre il furgone. Il botto e le fiamme, oltre a portare panico, portarono un po' d'inferno in un posto in cui ci si allena a stargli lontani. Oltre tutto fu il segnale per i Rockets nostrani. I quali spalancarono gli sportelli del furgone e scheggiarono giù con movimenti meccanici. Uno di loro azionò l'estintore che, oltre a spegnere la molotov, ebbe il compito di ricreare l'effetto fumo e, soprattutto, di seminare ulteriore confusione. Poi partì On thè Road Again a palla, slabbratissima, con i coni che sembravano voler saltare fuori dalle loro sedi nelle casse dello stereo. E loro come pazzi, con occhi sbarrati e costumi improbabili, ad agitarsi, saltare, sudare, miniare gli alieni in un playback superbo. L'espressione sulla faccia dei ragazzi dell'oratorio era semplicemente

« spettacolare ». Poi, ancora d'improvviso, per non permettere al « pubblico » di realizzare cosa stava capitando, fecero andare l'estintore e, nascosti dal fumo, salirono sul furgone e sparirono. Ruspa e il Tondo mi confermano che fu una rottura dover coprire le pelate con coppole e berretti vari. Però conservano ancora il trafiletto della « Gazzetta » di Reggio che parlava dello sbarco degli alieni nostrani a Fabbrico. E giurano che uno dei ragazzi dell'oratorio ora faccia l'ufologo. Radio fu Bastarono i nostri quindici anni. Bastò un trasmettitore da 5 watt preso a centomila lire. Bastò un vecchio giradischi Philips, un microfono da dieci carte e un mixerino con due fader. Bastò l'estro di un amico diciassettenne che faceva l'Istituto tecnico. Bastò una stanza di casa sua e un'antennazza sui suoi tetti. E avemmo la nostra radio. Non sto parlando dei tempi di Marconi: era il 1975. Anno in cui, nello spazio quasi vergine dell'FM, si beccavano, da noi, solo tre emittenti. C'era così tanto spazio che il nostro amico tecnico cambiava la frequenza della radio secondo i nostri capricci del giorno. E con quei 5 miseri watt potevamo coprire quasi tutta la provincia. Lo verificavamo quasi ogni sera coinvolgendo un amico che aveva macchina e autoradio. Pattugliavamo i comuni di Reggio esultando quando trovavamo il segnale bello chiaro e riconoscevamo uno di noi a distanza di una trentina di chilometri. Potevamo fare sentire la nostra voce. Potevamo ficcargliela lì, nelle loro case, nelle loro autoradio, nei loro negozi, nelle loro officine, nelle loro sedi di partito, nei loro bar. Probabilmente non avevamo così tanto da dire. Però, perdio, era la nostra voce. Trasmettevamo i dischi che ci portavamo da casa. Quando ci pareva. Bisognava solo che fossimo in due perché uno, mentre l'altro parlava al microfono, potesse cambiare il disco nell'unico giradischi che usavamo. Godevamo della nostra clandestinità, emuli sfigatelli di Lupo

Solitario. Ma dicevamo ciò che volevamo. Non eravamo costretti da nessun impegno. Le nostre scorribande in un etere così aperto e sgombro e penetrabile, insieme alla nostra totale possibilità di scelta, ci spalancarono una libertà tale che fu difficile riprovarla poi con quella intensità. E poi stavamo guadagnando l'attenzione di passerine ventenni altrimenti inarrivabili. Qualcuno di noi andava a Zocca a spiare come funzionasse Punto Radio, la migliore di tutte. E cercò di andare dietro a loro. Ma se c'era qualcosa che avremmo dovuto difendere era il nostro starcene lontano da qualsiasi modello. Anche perché Punto Radio c'era già. Però chi trasmetteva da lì ci sembrava una star. E allora un po' di noi pensarono: «Anch'io! Anch'io! » e peggiorammo le cose. Ci chiamammo Radio King. Ci fermammo sui 95.5 megahertz. Diventammo più facili da raggiungere. Ci arrivarono le prime lettere di complimenti: stavamo dando l'indirizzo della sede. Ci venivano a trovare. Un radioamatore finlandese ci spedì la registrazione di un nostro programma ricevuto per uno scherzo dell'etere di allora. Insomma, qualcuno cominciò a sentirsi dj e a tirarsela. Ci fu l'esigenza di stare al passo: prendemmo un altro giradischi e un altro mixer. Bisognava però insonorizzare la sala di trasmissione. Ci servivano dei portauova e della lana di vetro. Per i primi potevamo contare su un amico contadino, per la seconda non c'era pila. E allora organizzammo l'esproprio proletario in un cantiere. Beccammo un amico col furgone e ci finimmo una sera di quell'autunno lì. Eravamo io, Squaglia - cioè quello col furgone - e il Crotalo. Vale a dire il nostro rappresentante alla selezione mondiale delle facce come il culo. Squaglia ce le metteva alla prova con i suoi: « Coglioni che sono, 'zzo ci faccio qua? Mi sputtanate la piazza con le vostre cagate ». Faceva così perché, se ci avessero beccato, i casini seri sarebbero stati suoi, unico maggiorenne per di più alla guida del riconoscibilissimo furgone con cui andava ad aggiustar lavelli. Era per questo che io lo lisciavo un po' e il Crotalo non lo aveva ancora inviato a dar via. Arrivati al cantiere ci trovammo una macchina seminascosta in piena tromba. Capimmo una volta per tutte perché si chiamava Squaglia. Era già con la retro innestata e stava già salutando il pubblico, quando il Crotalo gli disse: « Sta buono lì ». Dopodiché diede tré-quattro colpi d'abbagliante alla 124 furtiva. Poiché non successe niente il Crotalo, con Squaglia che faceva: «Ma no, ma no, ma no, ma no... » mise gli abbaglianti fissi. Vedemmo la coppia nella macchina far capriole e rivestirsi in grande affanno. Ci passarono davanti a testa china. Il Crotalo suonò il clacson e salutò. Poi ci approssimammo alla zona interessante e cominciammo a caricare. Si alzò una tapparella al primo piano della casa di fronte e si affacciò una signora. Il Crotalo le puntò la torcia in faccia e le urlò: « Sta' in casa che qui fuori è un brutto mondo ». Lei, velocissima, rientrò e sigillò tapparella e finestra. E mentre Squaglia ci chiedeva sistematicamente, ogni venti-trenta secondi, se avevamo finito, il Crotalo, calmissimo, sceglieva un po' di roba anche per sé. Poi trovammo delle assi che ci sarebbero servite per fissare la lana di vetro al muro e decidemmo l'« esproprio » anche di quelle. Ci toccò metterle sul portapacchi: erano troppo lunghe. Anche in questo caso il Crotalo ne caricò una decina più del necessario. Comunque, giusto un attimo prima del collasso nervoso del nostro amico idraulico, io e il mio compare dal sangue freddo rientrammo in cabina. Puntammo verso la radio. Sennonché, al semaforo di fianco al barello centrale, uno Squaglia troppo nervoso si accorse del rosso all'ultimo momento e inchiodò facendo finire tutte le assi a terra, di fronte a noi. A quel punto morì. Senza dirci niente. O almeno così sembrava. Anch'io a dir la verità la stavo vedendo bruttina. In quel silenzio. Bersagli puri di tutto quel fissare. Il Crotalo, bello bello, scese e disse alla gente immobile: «Dateci una mano, va', ragazzi». E tutti si profusero a sgombrare l'incrocio, ad aiutarci a chiuderla lì, a ridare la vita a Squaglia. Morale: la radio ebbe anche la lana di vetro. Diventammo più funzionali ma il progresso non si fermò. Lasciammo entrare nella radio alcuni furbetti che, facendo leva sull'ambizione e sull'ingenuità di alcuni di noi, promisero pubblicità e dischi nuovi e grana e successo per tutti. E le cose cambiarono. Diverse delle nostre voci non furono più nostre. Presero l'impostazione, la dizione, il ritmo, gli argomenti di chi, in giro, stava funzionando. Ma la radio non fu mai sufficientemente furba o manageriale da mantenere un suo spazio rispetto a tutte quelle che, nel frattempo, erano nate. Come non fu sufficientemente « pura » da salvaguardare l'unicità che l'avrebbe contraddistinta. Morì e poi rinacque un paio di volte per morire ancora. Assieme ai nostri quindici anni. Vediamo, editor, quanti buoni-piagnisteo ho a disposizione? Uno solo? Me lo gioco qua, allora: quella radio non me la ridarà nessuno. Rachele Sedetevi un attimo di fronte al mondo. Solo per dare un'occhiata. Notate quanto i vostri pensieri sembrino vaghi. E allora buttatevici dentro. Sorvolate oceani e catene montuose e steppe e deserti e laghi e tundre e pianure e se sentite ancora troppa genericità restringete il campo al vecchio continente. Non basta ancora? Allora scegliete una penisola nel suo sud. E ancora poco? Prendete il nord di questa penisola a sud. E poi prendete la regione più a sud del nord di questa penisola nel sud

Europa. E poi inquadrate due province al centro di questa regione a sud del nord di questa penisola nel sud del vecchio continente. Fra queste due province c'è Carpi. Cioè dove siete voi adesso. Se scegliete di mettere ancora più a fuoco vi posso indicare una trasversale che dalla tangenziale porta in via Ugo da Carpi e quindi in via Tonelli. Qui c'è una casa d'angolo con quattro appartamenti. In uno dei due appartamenti al primo piano c'è una camera appena a destra rispetto all'ingresso. Dentro questa camera c'è una bara. Dentro la bara c'è una donna che ha 68 anni. La donna si chiama Rachele. È spirata stanotte vinta dal cancro. L'uomo che vedete ai piedi della bara è Bruno, mio zio. Si sono conosciuti subito dopo la Resistenza. Nella quale furono partigiano lui, staffetta lei. Con la Liberazione si sono visti aprire un mondo senza costrizioni, né oppressioni, senza paura per la vita propria e dei propri cari, senza clandestinità, forse addirittura senza fame e stenti, forse senza odio per un nemico che viveva nello stesso Paese. La libertà di scegliere e vivere le proprie idee e i propri principi non si doveva più difendere con lo schioppo. Pensate che occasione. Si apriva un mondo di opportunità, di avventura, di punti di domanda. Ma si apriva col gusto della vittoria e della vittoria della fermezza in ciò in cui credevano. Si apriva soprattutto davanti alla loro storia d'amore. Storia d'amore e di sesso dichiarato allegramente fino a oggi. Rachele ha saputo sfruttare l'apertura di quel mondo. La luce che passava attraverso quell'enorme varco, l'ha raccolta per spargere, di suo, energia e incoraggiamento e ottimismo tutto intorno. Ha preso in mano l'organizzazione della famiglia, le ha dato un taglio matriarcale e ha visto crescere le sue due figlie come voleva. Ha goduto delle fortune del loro negozio di abbigliamento e poi di pellicceria che li ha portati dalla fame a un certo benessere. Ha visto che le proprie figlie non hanno ereditato ma scelto i suoi stessi principi. Ha portato avanti la casa e ha parlato tanto con sorelle e prole e consorte e parentele varie. Perché la cercavano. Ha visto nascere due nipotine, una per figlia. Con una delle due, pure, ha fatto in tempo a chiacchierare a lungo. Ha affrontato le intemperie della vita con battute e risate continue. Rideva e fumava sigarette di nascosto, portando a spasso il treppiede della flebo, anche pochi giorni fa, l'ultima volta che l'ho vista viva. Era un po' la mascotte del reparto. Non aveva tempo per compiangersi o soffrire. Aveva solo pochi giorni per stare con gli altri. Domani sarà sabato e il traffico di Carpi che incrocerà il suo corteo le renderà involontariamente omaggio rimandando di qualche minuto l'arrivo agli ipermercati. La banda suonerà Bella ciao sottolineando la forza con cui un'idea, nonostante in altri Paesi abbia preso forme fallimentari e nel proprio abbia perso intensità, abbia trovato modo dentro di lei di restare viva, potente, indiscutibilmente giusta. Ora, mentre uscirete dalla camera e quindi dall'appartamento e quindi dalla casa di via Tonelli e quindi da Carpi fra Modena e Reggio e quindi dall'Emilia e dall'Italia e quindi dall'Europa per poi risedervi di fronte al mondo pensate, durante questo vostro ritorno, se sia giusto, come penso io, spendere l'aggettivo « compiuta » per descrivere la sua vita fino a qui. Condor contro tutti Avessi la memoria del Condor. Mi viene da dire che la userei per il tressette ma, in fondo, quelli così la usano in ogni campo della vita, perché dovrebbero scegliere? Il Condor macella carne e serve al banco. È brillante, sui venticinque. Le clienti fanno file più lunghe pur di essere servite da lui. Ogni tanto va a smontare qualche vacca. Gli capita di fare ganci alle contadine sotto i quaranta. Il giorno del mercato bestiame, l'unico in cui i mariti escono, si prende sistematicamente mezza giornata di ferie e le va a trovare. Nel suo calendario c'è segnato un impegno per ogni martedì dei prossimi quattro mesi. Qualche tempo fa stavamo discutendo, io e un paio di musicisti del borgo, sulla vecchissima questione « meglio Fender o Gibson? » Io avevo appena aggiunto anche Gretsch che arrivò il Condor e si inserì nel gruppo con una competenza impossibile. Voglio dire, mentre noi ci fermavamo a considerazioni sul suono dell'una o dell'altra marca, eventualmente sulla bellezza delle forme dei vari modelli, lui cominciò a elencare, per ogni chitarra, il tipo di legno con cui era costruito il corpo e poi il manico, i pick-up montati, le meccaniche, se c'erano o no edizioni limitate. Insomma a noi sembrava che le sparasse un po'. Così andammo in un negozio di strumenti - che, badate bene, non decise lui - lo bendammo e gli chiedemmo di riconoscere al tatto le varie chitarre. Non solo le indovinò tutte ma elencò per ognuna le caratteristiche che vi dicevo. Strafece quando, riconoscendo una Gibson SG, invece di buttare subito il risultato andò a sentire con la punta delle dita sulla paletta e sentì la scritta per le edizioni limitate concludendo con un: « È una SG color legno ». Sapeva che la Gibson aveva fabbricato cinquecento pezzi della sua SG con quel colore. Insomma non c'era trucco. Di fronte alla nostra curiosità rivelò che quella era la passione della sua ultima settimana. Aveva letto un po'. Gli bastava leggere una volta per trattenere tutte le informazioni. Un cavallo del genere va fatto correre puntandoci sopra. Così quando, una decina di giorni dopo, mentre si stava svaccheggiando in piazza, passò un camion e il Condor che era di spalle indovinò dal rumore marca e modello, ci venne da chiedergli: « I camion sono la tua ultima passione? » « Sì. » « Ti senti sicuro? » «Sì! » Andammo a cercare le nostre vittime. Ne beccammo una decina vicino alla farmacia centrale e con loro concordammo i termini e la posta della scommessa. Quindi ci spostammo, a bordo di quattro macchine, su una stradina di campagna che costeggia un tratto della Verona-Brennero. Raccogliemmo i piatti giocati, quello di noi tre contro quello di loro dieci, li mettemmo in due berrettini a terra, vicini. Bendammo il Condor e lo girammo verso la campagna. Uno di loro controllava che non si girasse o non barasse in chissà quale altro modo. Ne indovinò dieci su dieci. Esaltati festeggiammo il nostro eroe neanche l'avesse messa dentro l'Inter in una finale di Coppa. Ma quei pezzi di merda decisero di non pagarci. Erano dieci contro tre. Quattro col Condor. E allora si tornò al borgo con evidente frullio dei citatissimi. Ma anche con la consapevolezza che su quella strada si poteva continuare. E logico dunque che quando sette giorni dopo si ripresentò il nostro macellaio dicendo: «Sono forte negli orari dei treni della stazione di

Reggio » noi fossimo prontissimi a organizzare tutto senza rischi di seconde figure da coglioni. Trovammo tre, più piccoli di noi, con cui scommettere e ci spostammo verso la stazione. Qui il solito rito della benda attirò un po' di curiosi e la rottura di lunghe spiegazioni alla polizia ferroviaria. Una volta espletate le formalità, col Condor che dava le spalle al tabellone, uno di loro tre cominciò a chiedere orari di partenza, presunti orari di arrivo e tipo di treno. Dieci su dieci. Cercammo di contenere la nostra gasatura ma tampinammo attentissimi i tre finché, fuori dalle zampette della Polfer, potemmo farci pagare. Il piatto venne diviso in quattro parti uguali. Sette giorni dopo il Condor si presentò con la sua nuova specialità. Le motrici dei treni. Questa volta decidemmo di giocarcela ancora meglio. Gli chiedemmo una piccola prova. So che non fu molto bello: avremmo dovuto fidarci. Ma l'intenzione era di giocare più pesante. Così tornammo in stazione a Reggio e, spalle ai binari, lo sentimmo indovinare una dozzina di treni. Ogni volta che sentiva il rumore diceva il tipo di motrice. La sigla corrispondeva sempre. Pagammo da bere e ce ne andammo a casa pensando a come preparare questa scommessa in modo speciale. Immaginavo il Condor, fuori dalla macelleria e dai suoi martedì di sesso in campagna, informarsi su riviste e libri e poi esercitarsi dal vivo per poterci stupire ogni volta. Lavorammo qualche giorno su come ottimizzare la cosa dei treni finché il Condor non ci raggiunse un pomeriggio in gelateria dicendoci: « Si potrebbe fare un duello: c'è un esperto di treni a Sant'Agata». Ora pensate un po': mentre siamo qui a dirci queste cose c'è, da qualche parte, chi si sta specializzando nel riconoscimento di furgoni, auto tedesche, moto giapponesi, aerei, ambulanze, rimorchi, elicotteri, mezzi speciali, vetture diplomatiche, monovolume, caravan, sidecar, pullman, veicoli delle forze dell'ordine. E poi ci sono i jolly. Come il nostro cavallo di razza. Che, infatti, ci tenevamo ben caro. Comunque fu lui a organizzare tutto, stavolta. Disse che quelli di Sant'Agata giocavano mediamente forte. Era quello che volevamo sentire. Per cui l'accordo venne fatto e, poiché gli sfidanti erano loro, avremmo giocato in casa. C'era già chi faceva piani su come spendere la vincita perché il

Condor, alla stazione di Reggio, non solo riconosceva le motrici ma, in seconda battuta, aveva sempre gli orari mandati a memoria che lo avrebbero ricondotto a qualsiasi treno stesse passando. Insomma si arrivò lì con la fretta di sbrigare la formalità. I due contendenti vennero bendati, rivolti verso l'uscita e dotati di carta e penna. Anche da bendati sarebbero riusciti a trascrivere le sigle. E finalmente si partì con la gara. Era al meglio dei dieci treni. Qualcuno ogni tanto controllava che non si voltassero ma più che altro eravamo tutti presi dal trascrivere, a nostra volta, le dieci motrici nel giusto ordine. Quando, ed era ora, passò l'ultima corremmo a verificare la trascrizione dei due esperti. Dieci su dieci tutt'e due. Si decise di proseguire a oltranza. A ogni treno che passava, andavamo a controllare. I due continuavano a non sbagliar colpi. Poi all'ottavo o nono - non ricordo bene - della sequenza a oltranza il

Condor, invece di scrivere « 626 casseruola », scrisse « 266 casseruola

». Venne notte. Lui, depressissimo, disse che forse gli era capitato per troppa sicurezza, che quella era una delle motrici più facili. Il risultato non cambiò: pagammo la scommessa e infilammo la strada di casa. Fu un ritorno nel silenzio assoluto. Non ci salutammo neppure all'arrivo al borgo. E in questi sette giorni non ci è ancora venuta voglia di rivederci. Ora vi dico una cosa. Se quei due dormiveglia dei miei amici avessero controllato meglio i biglietti dei due indovinatreni, avrebbero visto che erano scritti entrambi con la stessa calligrafia: quella del Condor. Era lui a mettere le sigle delle motrici nei due fogli. Il tipo di Sant'Agata non sapeva la punta della fava in materia ferroviaria. Non era neanche di Sant'Agata. Il malizioso macellaio aveva promesso a quegli sconosciuti il 30% del piatto, una serata insolita e lo spettacolo, siòre e siòri, della memoria del Condor. Altro giro altro regalo Il lavoro di progettazione, di metro e di bolla con cui far stare nel baule borse, chitarre, pile di fax, guide, tour book, pacchi di roba del fan club, scarpe da calcio se si suona in uno stadio, libri e riviste lì stagnanti da sempre, floppy disk, custodie di cd, cassette di chi vuole un'opinione o un aiuto o una produzione o una raccomandazione, ciondoli, pupazzi, braccialetti e anelli omaggio della data precedente, cancelleria di Marco, computer portatile, medicinali accartocciati, lettere e messaggi, sacchetti semivuoti - o semipieni - di patatinepolentinecrackers, ritratti, rassegne stampa, specialità locali varie. La prima tappa in autogrill per caffè, pasta al cioccolato e quotidiano. Le barzellette di Maio e le sue teorie. I suoi progetti. Le imprecazioni per le pagine politiche del quotidiano. Le interviste telefoniche: 1) Springsteen. 2) Il mio impegno politico. 3) Perché questo titolo all'album? Marco, sommerso dalla roba del fan club, riesce tuttavia a spanciarsi per qualche teoria particolarmente curiosa di Maio. Il cd appena comprato che vorresti ascoltare, ma Maio non tace un attimo e, se tace, gli suona subito il telefono. La sorpresa nella faccia di chi ti riconosce mentre gli chiedi indicazioni per il Palazzetto. L'arrivo sul posto e trovare tutte le facce attente ma già stanche - e c'è ancora da fare lo show - di chi monta e smonta lo spettacolo. Il gruppo ha sempre voglia di suonare e li trovi sul palco un po' a provare, un po' a cazzeggiare, un po' a cercare di alzare il volume del proprio ampli senza che nessuno se ne accorga. Il rimbombo nel Palazzetto mentre fai il sound check e tu che non riesci mai a sentire bene, senza volumi pazzeschi, quello che vorresti sentire sul palco e ogni volta ti auguri che tutto si aggiusti durante lo spettacolo. La conferenza stampa: 1) Springsteen. 2) Il mio impegno politico. 3) Perché questo titolo all'album? L'incontro con gli iscritti al fan club. L'emozione di alcuni, l'esuberanza di altri, la timidezza di altri ancora, la sfacciataggine di qualche ragazzina. L'odor di cena che parte dal catering e fa accorrere i tecnici. Il ripasso della scaletta e di certi arrangiamenti con i ragazzi del gruppo, il datore luci, il fonico palco e i backliners. Il direttore di produzione che chiama i « cinque minuti ». Il rito propiziatorio. Le luci che vengono spente, la base che parte e l'urlo del pubblico. I backliners che passano le chitarre. Robby che attacca con la rullata. La liberazione di quel momento. L'energia. Braccia. Facce. Onde. Occhi. Bocche. Corpi. Ondeondeonde. L'energia. Urla. Voglia di farsi sentire. L'energia. Il fonico palco preoccupato che tutto proceda. Lasciarsi andare. Davvero. Cori con dentro il tuo nome. Striscioni con dentro il tuo nome o una tua canzone. L'energia. Presente indicativo verbo «vibrare». Rimaste fuori per un po' le nostre differenze. O forse ci sono tutte. Chissenefrega. Pelle d'oca. Sarà energia? Ping-pong ping-pong. Ho capito, bella, ho capito. Non vedevo l'ora di cantare questa frase. Forse dovrei urlare meno. Ti hanno portato qui a forza, tu che mi guardi male? Sentire. Sentirli sentire. Chissà come saranno le luci? Non ho mai visto un mio spettacolo. Urlo più forte dell'impianto. Il groove è giusto. LLLLLLLLL'energia. Chissà se domani troveranno un preservativo usato. Sul parterre. E già successo. E tu, biondina, stai capendo? Robby preoccupato per la velocità. Capitan Fede a bordo palco. Ciao ciao testa. Benvenute gambe. I backliners che accordano le chitarre ballando. Mel dedica una nota dell'assolo a qualcuno. Rigo fra un saltello e l'altro controlla l'ampli. Il gruppo c'è. L'energia. Sarà così fare surf? Anche i ragazzi delle magliette ballano. Fra le transenne e il palco alcune vecchie conoscenze. E alcuni raccomandati. C'è qualche sciamano qui dentro? Facce a luci accese durante Leggero. Ancora pelle d'oca. Maio mi porta l'accappatoio. Fradicio. Le orecchie mi fischieranno ancora per un'ora. Si festeggia nei camerini. Quasi che quella appena vissuta non fosse già la più bella delle feste. Il solito giornalista ritardatario dice che ha bucato e non c'era per questo alla conferenza stampa. Fingiamo entrambi di credere alla sua balla. Dopo la doccia faccio l'intervista: 1) Springsteen. 2) Il mio impegno politico. 3) Perché questo titolo all'album? Toni sul palco Venite, vi faccio vedere una cosa. Attenzione a non inciampare: l'acciottolato è dispari in parecchi punti. Sì, stiamo proprio andando verso tutta quella gente. C'è uno spettacolo in corso. Non vi dovete preoccupare ho i pass all areas per tutti. Sapete com'è, ogni tanto mi vengono incontro. Appena becco uno del servizio d'ordine chiedo di scortarci fin sul palco. Lo so che ci guarderanno tutti come raccomandati, ma lo volete vedere

'sto show o no? Eccone uno, ci penso io. Voi preoccupatevi solo di camminare fra loro senza assumere l'aria di chi se la tira. Eeeeecco così. Ora seguitemi sulle scale. Piantatela di rompere, vi ho detto che c'ho i pass che sono talmente all areas che ci è consentito stare sul palco. Cercate di fare gli indifferenti e rilassatevi. Siete dei privilegiati: godetevela. Vedete? Quello che si sta esibendo' a pochi metri da noi è Ligabue. Lo so che sembra strano con indosso quella sottoveste. Che, oltre tutto, fa a cazzotti coi suoi baffi e la sua calvizie e il suo naso rovinato. Sono strani i suoi versi, le sue piroette. È strano il fatto che sia qui, fra tutta questa gente. Ma questo è Ligabue. A proposito scusate... per non creare confusione... Ligabue Antonio. Toni. Guardatelo mentre passa il pennello sulla tavolozza a terra. Sentitelo urlare. È furioso mentre da una pennellata apparentemente casuale sulla tela. E poi si piega e continua a imprecare agitato da chissà quali spiriti che, intanto, gli fanno mettere indumenti femminili e gli fanno dare sassate sul suo stesso naso. Guardate come se ne frega di noi e degli altri che lo stanno guardando e del mondo intero. Lui così assolutamente battagliero già con il suo. Cercate di vedere la sua brutta storia di famiglia e i suoi ricoveri in clinica addosso alla prossima pennellata. Immaginatevi la sua solitudine nei pressi del Po, la fame e gli stenti. Poi pensate al momento in cui ha capito di poter dipingere. Quindi ancora alla sua consapevolezza, nonostante il resto del mondo, di possedere un dono. Prendete tutti questi elementi e appoggiateli sulla prossima virgola che il pennello farà sulla tela. Sentite da quanto lontano viene la sua imitazione del verso dell'aquila, a bocca spalancata, la lingua tutta fuori mentre... fffuttt... altro colore dato quasi senza vedere. Sforzatevi di farvi arrivare solo una minima parte delle sue visioni e vedetelo barattare i suoi quadri per un piatto di minestra per poi riciclare, con gli escrementi, altro colore per le tele, altri dipinti. Pensate alle derisioni. Di fronte metteteci la sua sicurezza nel sapere che sbagliavano. Vedetelo mentre gli viene riconosciuto tardivamente il suo valore e coi primi soldi si prende la macchina agognata con tanto di autista sventolando avanti e indietro il suo nuovo status. Non sembra, quel giro del destino, una cosa di cui lui fosse a conoscenza? Immaginatelo allo sbando dietro un mondo, quello femminile, mai conosciuto se non attraverso la fantasia alimentata dalle pellone che si faceva dopo gli sbirciamenti alle lavandaie con le gonne alzate al fiume. Cercate di sentire la disperazione per non essersi mai rifugiato in nessuna di quelle tane. Be', comunque posate tutto questo nella sua mano per l'ultima pennellata. Non appena avrà finito di girare in tondo attorno al cavalletto. Ecco! Ora il quadro è finito. E lui se ne va bestemmiando a farsi possedere dall'arte in qualche altra piazza. Avviciniamoci. Guardate: è un autoritratto. Non c'è bisogno di essere degli esperti per lasciarsi emozionare. Avete anche voi la mia stessa sensazione? E come se ci fosse molto più Ligabue nel quadro che in chi l'ha fatto. Be', valeva la pena, no? Sappiate che non mi vergogno a prender mance. Intanto vi riaccompagno, comunque. Ma avete visto come può essere violenta l'arte? Come lo squassava? E poi sembra fregarsene dell'involucro in cui finisce. Oppure, forse, germoglia bene dove ci sono semi di grande sofferenza... A proposito: cercate di usarlo con parsimonia quel termine. Ad esempio... quel suo omonimo... che canta. Insomma fa canzoni... Che sono importanti, per carità, ma sono altra cosa. Se gli mollate un bell'artista sulla schiena, proprio lì dove ha scritto fragile, ve lo dovrete tenere, poi, rotto. Non sei diverso dalle altre puttane Sia quando tua moglie è incinta e vedi tutto quanto da un'angolazione così diversa che proprio non te l'aspettavi; che quando quel figlio lo perdi e con lui le fantasie su di lui e il tuo « nuovo sguardo » sul mondo; sia quando un tuo caro amico sta morendo di un linfoma che non perdona e neanche quattro-cinque dosi di morfina al giorno gli danno tregua; che quando fai con lui qualche «viaggio della speranza » presso un medico « alternativo » godendo del sollievo che gli da e soffrendo, allo stesso tempo, della sua illusione; che quando al suo funerale non puoi andare perché hai in concomitanza un concerto a Catanzaro; sia quando un terremoto ti ribalta fuori e dentro e ti fa fare ciao a casa tua per sempre e sembra dirti: « Per stavolta ti va fin grassa: pensami! »; che quando le scosse d'assestamento sono, allora, la goccia d'un rubinetto che non riesci a chiudere, la goccia che cade sempre sullo stesso punto dei tuoi nervi; sia quando devi prenderti un avvocato per difenderti da altri avvocati che alcuni « amici » hanno assunto per quello che, finalmente, sai che vogliono da te: mungerti; che quando il sapore di merda in bocca diventa insostenibile per quello di cui ti vedi costretto a esser capace dopo aver sentito ciò di cui è capace un avvocato per contrastare quello di cui sono capaci altri avvocati, sapendo che, dietro, c'è quello di cui sono stati capaci

«loro»... la gente ha comunque comprato quel biglietto. Non è solo la risaputa storia dello spettacolo che deve andare avanti. Il problema, cocco, è l'intensità con cui, comunque, deve capitare. E provi a dirti che per quelle due ore sul palco sei riuscito a tenere tutto fuori e a regalarti un po' di sollievo ed energia. E, comunque sia, comunque tu stia, ognuno di loro ha diritto alla sua foto con te. Perché comunque sia e comunque tu stia ti dirà sempre: «Ma è solo un attimo...» Guarda l'obiettivo e sorridi. Pronto Soccorso Sorrisi funzionante 24 ore al giorno. Niente Natale. NON SEI DIVERSO DALLE ALTRE PUTTANE, CICCIO. Poco oltre uno stop Salve, come va? Ma lo sapete che, a proposito di andare, io e voi abbiamo un diverso modo di sentire quel verbo? Io non so cosa voglia dire. Comunque vi vedo farlo. Sto qua a immaginare le vostre storie mentre vi vedo parlare, ridere, imprecare. Finalmente soli, nelle vostre macchine. Vi vedo ripetere le cose che avreste voluto dire in occasioni che non torneranno. Oppure preparare il discorso per il prossimo appuntamento. Oppure desiderare la morte di uno che vi intralcia il passaggio. Oppure cantare. O telefonare. O fare i fighi sulla macchinina nuova. O sfiorarmi mentre cercate l'accendino. O affiancare tipe sanissime. O venire affiancati. Insomma avete un mondo e soprattutto delle gambe, dei motori, delle ruote a disposizione per girarlo. Io non ho neanche potuto scegliere il posto in cui sto da sempre. Mi hanno piantato poco oltre lo stop alla fine di via Don Minzoni. Sono un cartello a specchio. Vi dico quando passare. Non come un semaforo, però: la scelta è a vostra discrezione. Sia chiaro che non mi lamento, qui il traffico è buono. So, ad esempio, di un mio collega, un dare precedenza, in campagna, un po' esaurito: non gli passa più. Qui invece vi servo in ordine. Mi tengono bello. Mi ripitturano il palo spesso. Ancora di più mi puliscono lo specchio. E poi qualcuno di voi mi tocca. I ragazzini una volta si arrampicavano e mi smanacciavano il cartello. Uno, col pennarello mi ci scrisse: « Cosa ti specchi, stronzo? » Un rapper, invece, dipinse: « Ecco il tuo vero nemico! » Un idiota mi sparò un paio di colpi con non so cosa. Altri mi buttarono uova. Siete di tutti i gusti. A due scappò di fare l'amore contro di me. Non finirono: passò qualcuno. Passa sempre qualcuno. Ricordo molto bene la schiena di quella donna. Sapete, se avessi le mani potrei fare lo scrittore. Perché potrei raccontare con molta precisione la storia dei cinquanta metri attorno a me, case, alberi, strada. E voi. Voi che potete spostarvi se cani e gatti mirano a pisciarvi sulle gambe. Comunque mi è successo qualcosa di forte. Il cantante del borgo mi è arrivato addosso ieri sera. Chissà cosa aveva, questa zona la conosce benissimo. E invece è arrivato, sparato, e mi ha piegato. La sua macchina ce l'ho ancora contro. O forse farei meglio a dire attorno. Lui non si deve essere fatto granché perché è sceso, si è preso qualche secondo e poi, zoppicando, se ne deve essere andato a casa. Io, messo come sono adesso, vedo le cose da un'altra prospettiva. Non è una novità da poco. E poi mi sa che non riusciranno a raddrizzarmi. Quindi mi toglieranno e mi porteranno via. Saprò finalmente cosa vuol dire andare. Ciullo e gli altri del rock « Nanni, Nanni còr che c'a ghe un sterio un nigher c'al pèrla gnan in italian. » (Nanni, Nanni corri che c'è una specie di stregone nero che non parla nemmeno italiano.) La contadina che, spaventatissima, chiamò in aiuto il figlio Nanni dalla soglia della stalla non poteva sapere che quello strano tipo dal look gitano non era uno stregone ma Willy De

Ville. Che passeggiando per le campagne del borgo si era fermato a chiedere informazioni sui metodi di allevamento delle vacche. « Oh, c'è il cantante dei R.E.M. al bar centrale. » « Come no. E c'è Prince in gelateria. » L'incredulo la stava facendo fuori vaso perché Michael Stipe stava veramente godendosi un drink lì vicino. Tanto che, appena uscito, le ragazze del bar incellophanarono lo sgabello che usò e ci scrissero sopra, a pennarello: « Qui si è seduto

M. Stipe ». Se il borgo ha un po' di « confidenza » col rock, se così tanti ragazzi che ci abitano suonano qualche strumento, formano gruppi, sono informatissimi sulle ultime tendenze, molto lo si deve a un gruppo di volenterosi che con passione e lavoro e testardaggine sono riusciti, fin dalla metà degli anni Settanta, con la programmazione della festa dell'Unità, a portarci grande musica. Uno di loro è Ciullo, il coordinatore. Quello che deve affrontare con pazienza e tenacia le proteste dei compagni dello stand del gnocco e quelli del liscio che, con la loro praticità, non sempre capiscono perché si debba rischiare di rimettere soldi con cantanti che non conoscono. Gli altri sono Sfinge, il Losco e Boris, gente che ogni anno si prende le ferie per poter essere, durante quei quindici giorni di luglio, a disposizione per l'accoglienza, la soddisfazione dei capricci, il catering. In poche parole per risolvere i problemi che inevitabilmente solleveranno le rockstar scese al borgo. Chiaramente la loro attività non si esaurisce lì. Prima ci sono estenuanti riunioni e scazzi e conti e delusioni e spiegazioni da dare e ancora più estenuanti trattative. Ma al di là della tacita soddisfazione di aver portato qualche leggenda a esibirsi in una cittadina di 20.000 abitanti apparentemente non attrezzata per loro, a cose finite li vedi, Ciullo e gli altri, con la pragmaticissima espressione di chi ha lavorato per «una cosa fatta bene». Il fatto poi di vedere che certi « nomi » si siano meravigliati dell'accoglienza trovata; di arrivare a sapere che diverse volte, per la stessa rockstar, affluiva più gente all'arena del borgo che non a

Milano o Roma; di venire informati che sulla mappa di diverse agenzie inglesi il nome del borgo fosse cerchiato in rosso ha mosso un orgoglio che sarà anche provinciale ma giustificatissimo. Il sottoscritto ha più volte rinfocolato la propria passione per il rock grazie all'emozione e al divertimento provati in diversi concerti battagliati e conquistati da Ciullo & C. Si è emozionato per una Patti Smith che, nonostante l'ingrigimento dei capelli, sembrava più sbarazzina di vent'anni prima (quando la vide nel mitico concerto di Firenze) e saltellava sul palco facendosi accompagnare anche dal figlio e da Tom Verlaine, oltre che ospitare

Michael Stipe (ecco cosa faceva al bar centrale). Ha verificato che Ben Harper è uno dei migliori cantautori-chitarristi in circolazione. Si è lasciato tirar dentro da un Lou Reed in spolvero elettrico. Ha avuto la fortuna di beccare Bob Dylan in una serata discreta. Si è commosso di fronte a un Neil Young in ottima forma, non riuscendo a trattenersi di fronte a una Only Lave Can Break Your Heart e una

Helpless in strazianti versioni voce e piano. Ha ballato con i Pogues. Ha ammirato il grande gusto di Ry Cooder, John Hiatt, Jim Keltner e

Nick Lowe finalmente insieme in un breve progetto chiamato Little

Village. Ha verificato la fondatezza di una scena alternativa coi Sonic Youth e

Porno for Pyros. Ha sentito vibrazioni provate in pochi altri concerti con Jeff Buckley. Ha avuto conferma delle capacità compositivo-esecutive di Elvis

Costello. Si è indispettito per il temporale che chiuse dopo solo mezz'ora la splendida esibizione dei Neville Brothers nel periodo della loro massima forma e per quello che cancellò lo show di Van Morrison. Ha controllato la consistenza dei Grant Lee Buffalo. Ha misurato l'incrollabilità dello stile di Willy De Ville. Qualche anno addietro ha avuto modo di divertirsi con Housemartins,

Dream Syndicate, Siouxsie & The Banshees, Hoodoo Gurus, Kid Creole & thè Coconuts, Flying Burrito Brothers, Johnny Clegg & Savuka... Ridde Lee Jones, dopo una pera e una boccia di Jack Daniel's, cosa che fece quasi svenire un addetto ai camerini, tenne uno splendido concerto la sera che l'Italia vinse i mondiali di Spagna. Qualcuno registrò e mise in giro un bootleg (che ci arrivò chissà come visto che venne stampato e diffuso in Olanda) in cui si possono ancora sentire, in sottofondo, i clacson dei festeggiamenti. Gli Area vennero la sera dopo la morte di Demetrio Stratos. Gli U2, una data dei quali venne acquistata subito dopo il loro esordio, cancellarono all'ultimo momento il tour italiano per una stronzata del promoter ma il loro nome è ancora stampato nel programma di quell'anno. I Jethro Tuli furono quelli che misero per la prima volta a dura prova l'organizzazione esigendo l'aria condizionata sul palco e 150 chilogrammi di ghiaccio per poter mettere a fresco le birre. Inoltre vollero che venisse tagliato il noce che, nel bel mezzo dell'arena, campeggiava da sempre. I ragazzi dell'arena portarono il ghiaccio, impazzendo sia nel trovarlo che nel trasportarne le lunghe stecche sia a sbriciolarlo (riciclandolo però, poi, per lo stand del pesce), misero degli enormi ventilatori sul palco, ma per quel che riguardava il noce... che i Jethro Tuli si attaccassero... Bob Dylan si muoveva a scatti nel backstage rasentando i muri, nascondendosi sotto cappucci di tute e spaventandosi esageratamente non appena qualcuno entrava nel raggio di cinque metri nonostante l'attenzione delle sue guardie del corpo. Neil Young lasciò per souvenir un cocomero intarsiato come una zucca di

Halloween. Gli Housemartins pretesero caramelle di una marca stranissima che un runner potè trovare solo a Bologna. Il cantante dei Jamiroquai vedendo sulla cartina che il borgo è vicino a Maranello scese da Londra con la sua Ferrari convinto di poter fare un paio di giri nel circuito e farsi dare una messa a punto. Venne blindato per tre ore al confine francese per eccesso di velocità e arrivò spappolato riuscendo sì e no a cantare. Seppe solo poi che per le messe a punto delle Ferrari ci vogliono appuntamenti presi mesi prima. King Sunny Ade arrivò con cinque ore di ritardo. Ci volle molto per convincerlo a non salire sul palco e a fargli capire che la gente se n'era andata già da quattro ore. Lo show dei Negresses Vertes fu una piccola parte di tutta la musica che suonarono quel giorno nel backstage per la gioia di chi potè assistere a quello spettacolo privato. Shane Me Gowan nel pieno dello spettacolo dei Pogues era talmente sbronzo da dover chiamare un collaboratore che, mentre qualcun altro cantava al suo posto, lo accompagnò a braccetto dietro il palco, gli tirò fuori il coso, lo fece pisciare, lo scrollò e rimise via, per poi riaccompagnare il cantante di fronte al microfono. I ragazzi dell'arena non erano professionisti ma appassionati che, potendo contare sul volontariato del resto del festival (e quindi su fabbri, falegnami, elettricisti, idraulici, medici e via andando) riuscirono a mettere in piedi una macchina che poteva resistere alle più robuste spallate che agenzie, tour manager e pippe di rockstar potessero infliggerle. Certo qualche problemino ogni tanto ci fu, ma sempre superato di tacco. Per esempio la sera di un concerto di De Gregori misero di vigilanza al cancello che dava nel backstage Otello, un cinquantenne amante del liscio. Con lui furono molto chiari: « Non far entrare nessuno! » All'arrivo di una macchina Otello fu molto chiaro a sua volta: «Prego... Girare la macchina e... aria! » « Ma io devo entrare. » « Ded che an pasa nisun. » (Di qua non passa nessuno.) « Ascolti: è meglio se mi apre il cancello. » « Te tal pò scurder, cécio. » (Te lo puoi scordare, ciecio.) « Oh, guarda che sono De Gregori. » « E De Gregori chi el? » (E De Gregori chi sarebbe?) Insomma De Gregori dovette trovarsi un altro ingresso. Sempre nella stessa occasione capitò, durante le prime canzoni, che le luci e l'audio si affievolissero improvvisamente per poi riprendersi e poi riaffievolirsi sempre più spesso. Eppure il generatore era stato controllato e ricontrollato tutto il giorno. Presi dal panico i ragazzi fecero una riunione volante e si sguinzagliarono a cercare le cause mentre il cantautore si esibiva vedendo luci e audio andare e venire. Un addetto alle cucine che, trovato aperto lo sportello del portageneratore, si ostinava a volerlo chiudere. Non accorgendosi che la cosa che impediva la chiusura era il tubo dell'afflusso del gasolio, continuamente otturato dalla sua voglia d'ordine. Vicino al Ponte Vettigano Stufo di dover impazzire, nelle sere di nebbia, a cercare lo stradello di casa propria vicino al Ponte Vettigano, Spiura decise di organizzarsi. Comprò una latta di vernice bianca, una pennellessa, una tavola di legno, un palo, martello e chiodi. Inchiodò già lì, sul pavimento del ferramento, la tavola di legno al palo ricavandone un cartello. Pagò facendo l'asino con la cassiera e caricò la roba sulla sua Giulia. Arrivato nei pressi di casa sua accostò e poi, con pennellessa e vernice bianca, tirò la riga di mezzeria dritta dritta fino in casa. Quindi, per quelli che avrebbero seguito la nuova indicazione stradale, piantò il cartello una decina di metri dentro lo stradello dopo averci scritto su: PROPRIETÀ PRIVATA, COGLIONI! Pork party Ed eccomi alla guida di un furgoncino (per gentile concessione del salumificio del borgo che fa la mortadella più buona del mondo) pieno di tutto ciò che fu maiale. Di cui, come ben si sa, non si butta via niente. Mentre guido mi sento minacciato da anime suine che, alle mie spalle, occhieggiano attraverso le loro attuali forme: pancette, coppe normali e coppe di spalla, cicciolate, prosciutti, prosciutti cotti, bresaole, cotechini, salami, salami all'aglio, salami ungheresi, salami piccanti, salamelle, salsiccia varia, zamponi, ciccioli, arrosti. Soprattutto il colpo spettacolare della famigerata mortadella (nel cui impasto, leggenda dice, ancora oggi il titolare del salumificio mette personalmente un ingrediente segreto) in una forma da più di un quintale. Claudio è uno dei ragazzi dell'Esagono, lo studio di registrazione in cui ho lavorato questi ultimi anni: un bunker tecnologico attaccato a un ex caseificio dalla forma appunto esagonale, in piena campagna rubierese. Assieme a lui lavorano con capacità e gusto Fabio e Kaba.

Lucia, sua moglie, si occupa splendidamente dell'accoglienza. Oltre a tirare avanti lo studio, formano un buon gruppo: i Frontera. Dietro di loro c'è una comunità di recupero tossicodipendenti tenuta in piedi da un coraggioso prete della zona. Alcuni dei Frontera furono suoi ospiti. Il suono che esce da questo studio, la sua accoglienza, i ritmi « giamaicani » di lavoro, la campagna attorno sono un marchio di fabbrica ben preciso: se volete « togliervi il dente » della realizzazione di un disco frenetico cercate qualcos'altro; se volete godervi il periodo di registrazione e missaggio del vostro album, benvenuti qui. E io qui sono arrivato accompagnato dall'eco di grugniti fantasma e da

Renzo e Ivan, del famoso salumificio, splendidi poi nel lavorare di coltello e affettatrice per tutta la serata. Spettacolarizzo un po' la faccenda scaricando il furgone da solo fra rulli di batteria e ole dei presenti. La mortazza da cento chili, però, la portiamo in tre. Le casse sparano bossanova e altro Sudamerica per la goduria dei

Frontera che di Sudamerica ne hanno fatto un bel po'. I cotechini finiscono nel pentolone, fagioloni e purè li stanno aspettando. Con grande maestria, Renzo e Ivan spellano e poi affettano quantità industriali di fu porco. La mortazza campeggia inquietante. Ai suoi piedi centinaia di cubetti da lei ricavati senza che ne venisse scalfita. L'anima del Grande Suino sta spandendosi sopra di noi. Fegato, intestino, interiora mi supplicano di non dargli così tanto lavoro. Ma un impegno è un impegno. C'è un palchetto ricavato in un angolo in cui finiscono presto Robby,

Fede, Mel, Paolo e Rigo un po' a fare rock'n'roll e un po' ad accompagnare Freddy MoraIcs, uno dei bluesmen puri della nostra Bassa. Wilko dei Rats, oltre che cantante, è anche un buon chitarrista e si prepara a dare il cambio a qualcuno. I Negrita, dall'alto dei loro due metri a cranio (Barbacci compreso), sembrano essere usciti dall'esperienza della realizzazione dell'ultimo album a New Orleans con una crescita anche umana. I Modena City Ramblers mi fanno i complimenti ma io gli dico che questo non è un festeggiamento quanto il saldo di una scommessa. Infatti buona parte della gente che c'è qui non la conosco. Max (Cottafavi) è seduto su un cavallo a dondolo. Mi dice che è appena entrato nel gruppo di Battiato. Deve aspettare una risposta per il prossimo tour. Gianfranco (Fornaciari) e sua moglie sono provati ma felici per il figlio appena nato che non dorme mai. Gigi (Cavalli Cocchi) sta facendo le prove con i Csi. I Massimo Volume mi fanno sentire un po' del loro nuovo disco in macchina. Mi sembra un altro bell'album con ottimi testi di Emidio. Meriterebbero molta fortuna. Il Pork party sta carburando, sul palchetto ci si mescola sempre di più e sempre più spesso a suon di Stones, Creedence, Hendrix, Chuck Berry,

Beatles, Clapton, Clash, James Brown... Little Taver fa le « prove rocker »: tedia, strizza fianchi, cosce, culi e maroni e dichiara rocker chi, al tre, non si è lamentato. Poi, con uno sforzo sovrumano, solleva Maio e lo sbatte sul mucchio di giubbotti e cappotti decretando il proprio suicidio. Alcuni di voi, leggendo di questa festa rock, staranno pensando: «

Vabbé, ma quando pippano? Dolente ma l'unica cosa che qui ci finisce in vena lavorando sul colesterolo - è del gran suino e del gran lambro. Tanto suino che i muri dell'Esagono sembrano tappezzati di narici di maiale. Tanto lambro che le narici sembrano vere. Mungo e Jerry sono due backliners del tour e mi confidano che vogliono fare una cosa a tre con una tipettina che sta fingendo di non capire. Bino è il massaggiatore del tour. È uno che nella new age ha trovato alcune risposte o forse è riuscito a smettere di farsi qualche domanda.

Fatto sta che lo vedi sempre sereno e carico delle buone vecchie goodvibrations. Abbiamo parlato molto durante le lunghe sedute di massaggio olistico. Gli dico che a distanza di due mesi dalla fine del tour, non solo non mi sono ancora riposato, ma mi sembra che gli impegni mi si intrighino sempre di più. Lui mi parla di una forte accelerazione che tutti stiamo vivendo e non è tanto una cosa sociale quanto la preparazione all'era dell'Acquario. Lo dice con la solita carica facendomi capire che è una grande opportunità poter vivere questo momento. La sua bella ragazza acconsente. Io cercherò di fare attenzione alle energie sottili di cui tanto mi ha parlato, ma in questo momento non sono più sottili neanche le fette che Ivan sta tagliando e Renzo servendo. L'anima del Grande Suino, ora, si sta posando sui settanta-ottanta fegati i cui proprietari stanno ballando, urlando, conversando, bevendo, suonando, affettando, giocando. Nella sala biliardino Pau e Nico stanno battendo chiunque. Lucia passa dalla cucina al microfono e, con alle spalle i Frontera, comincia a cantare stupendamente. Questi ragazzi hanno sul groppone delle esperienze tostissime vissute in buona parte in Colombia a suonare sulle navi e negli alberghi. Sono passati attraverso storie incredibili ma con loro c'era sempre la musica che amavano. Lo si sente quando, facendo standard rock, soul, blues e pop, riescono a imprimergli il loro vissuto. Mungo e Jerry non mollano il colpo e provano con la tipa uno alla volta. Ogni tanto si vede sfrecciare Little Taver inseguito da Maio, con la forza di tediare chiunque e comunque, anche in corsa. Belluzzi, brillante ed estroverso, non si fa mancare il lambro e fa l'asino con le ragazze. Quando è l'ora di suonare, però, preferisce farlo da seduto, chiudendosi un po' in sé. Potenza del jazz - da cui proviene - quella di farsi sempre trattare con rigore e serietà. Un gruppetto si sta chiedendo: « Se un gruppo di cavalli si chiama mandria, un gruppo di pecore gregge... come si chiama un gruppo di maiali? » Io suggerisco un: « Noi? » Vengo mandato a cagare. Evidentemente, però, il suino è entrato in circolo. Renzo e Ivan si stanno sfinendo. Un paio dei Mamamicarburo la buttano sul funky e sull'hard rock facendo ballare ancora di più. Ma ormai, più cerchi di saltare, più il Grande Suino ti tiene giù. Qualche ora dopo, verso le 5, quasi tutti se ne sono andati. Molti, nel salutarmi, mi hanno detto: « Complimenti ancora» e io non sono stato a rispiegare la tiritera che non era una festa mia eccetera eccetera. La sala del biliardino è vuota. Pau e Nico l'hanno lasciata imbattuti, i maledetti. Belluzzi ci da ancora di lambro. Scommetto che sarà l'ultimo ad andarsene. Si suona sottovoce. La mortadella troneggia dove l'avevamo posata. Nonostante l'impegno di settanta-ottanta ingordi, sembra che non sia stata toccata. Un sacco di altri salumi finiscono intoccati nei frigo e nella cantina dell'Esagono. Il Grande Suino ha vinto. D'altronde era difficile batterlo, proprio qui, a Reggio, dove gioca in casa. Saluto i reduci. Fra cui Mungo e Jerry. Stanno ballando. Con la tipa. Una torchsong. Scivolando su bucce di salame. Le strade blu dell'Ameribassa Prendete una fetta della via Emilia. Precisamente quella porzione che, solcando il centro di Reggio, si estende ai lati per una decina di chilometri verso Parma e Modena. Cercate di abbracciarla idealmente guardando verso il Po. Ora, se avete voglia, possiamo procedere a rete muovendoci fra le strade blu, quelle più nascoste, quelle dove l'America non ha lasciato solo merda ma anche qualche profumo. Ebbene questo profumo, sotto forma di musica, si è piazzato addosso a certi locali e certi personaggi che sbattendosene di mode, di tendenze, di rincorse al successo, hanno abbracciato una filosofia, uno stile, un linguaggio, un suono dell'anima. La ricerca di una personale purezza. Tutto questo pagandolo con un po' d'isolamento e l'irrisione di chi, instabilmente, saltella fra neoromantic, new wave, dark, garage, vari filoni rumoristi, postpunk, hiphop, triphop, britpop, powerpop, grunge, post grunge, trashcore e le centinaia di ramificazioni del rock che, di volta in volta, hanno rappresentato la nuova casella d'identificazione per gente che ne aveva bisogno e le nuove fortune dei discografici. La gente e i locali di cui vi sto parlando amano il blues e le forme di rock strettamente annesse a quello. E per questo che sono condannati a essere tacciati per sempre di conservatorismo. Solo che loro lo sanno bene che è molto più eversivo un album di John

Lee Hooker che non la schitarrata di chi suona più peso per affermare, infantilmente, di essere lui il più violento, il più oltranzista, il più trasgressivo. Comunque cominciamolo questo viaggio, sempre tenendo d'occhio il

Mississippi nostrano, partendo dal Corallo, locale di Scandiano e vecchia sentinella del rock a Reggio. Qui la programmazione è sempre stata, tranne qualche venerdì di buon funky, doc con grande attenzione ai classici e qualche meditata apertura al nuovo « migliore ». Una filosofia che fa accoglienza. Con successo, oltre tutto, visto che

è sempre pieno. Il Corallo è un po' il prolungamento di Key Rock, la radio cui è collegato: niente ricerche di formule particolari, niente lustrini, niente confezioni speciali, solo buona musica. Key Rock è in effetti l'emittente rock della provincia. Ha sede pure lei a Scandiano da dove, pure, trasmetteva Mondo Radio, altra storica radio rock chiusa qualche anno fa. La formula che questo baluardo, così vicino alle conduzioni delle fu

«radio libere», usa è: nessuna imposizione di «ritmi» ai conduttori, nessun accordo con le case discografiche, piena libertà di scelte a chi

è di fronte al microfono, nessun obbligo di « impostazione vocale » agli speaker, niente accavallarsi di jingle superveloci, spot pubblicitari veramente « nostrani », niente pugnette mentali sulla musica. In poche parole: una meraviglia. Comunque questa è la radio su cui restare sintonizzati per entrare un po' meglio nel mondo verso cui stiamo viaggiando. Visto che siamo qui, voglio anche citarvi il Rockville e il Lido dei

Calanchi, rispettivamente a Castellarano e Baiso, che sono le appendici estive del Corallo e il Vox a Nonantola con una splendida programmazione di concerti alle spalle. Andiamo verso Reggio dove questo rock-blues è apparso a volte nei vari

RedKo, Be Bop e Maffia. Qui in città troviamo Johnny La Rosa, talentuoso cantante e chitarrista dall'ottimo gusto. Lui, come tutti gli altri di cui parleremo, conosce bene l'importanza delle sfumature. Torniamo nelle strade blu, però, e spingiamoci, in direzione di Parma, a Taneto di Gattatico dove c'è il Fuori Orario, locale in cui campeggia un vero vagone ferroviario da cui si può comodamente assistere alla bella e fortunata scelta di spettacoli. Sempre in zona va ricordato il Bainait di Montecchio le cui domeniche sere blues hanno resistito negli anni Ottanta anche grazie alle performance di Oracle & thè Miracles le cui interminabili versioni di

Hoochie Cocchie Man risulta finissero con la gente sui tavoli e

Oracolo, il cantante, saltellare un po' ovunque grazie a un cavo di venticinque metri fatto fare apposta per il suo microfono. Ora che abbiamo « steso la rete » orizzontalmente, dipaniamola verso il nostro Po-Mississippi. Per strada incontreremo i Wild Junkers e la Travelling Band, entrambe cover band di gusto. Faremo tappa al borgo dove incontreremo per forza « il re della piazza

» nonché « capo rocker della zona » Little Taver le cui spassose esibizioni, assieme ai suoi Crazy Alligators viaggiano, fra Elvis e

Little Tony, Belushi e Ghigo, ormai ben al di fuori della provincia.

L'irriverenza con cui tratta la materia gli è perdonata dai bluesmen locali per la sua irresistibile simpatia. Sempre del borgo i Rockerville, fedeli al rock'n'roll. L'aria di blues, man mano che si avvicina l'odore del fiume, si fa sempre più densa. E allora a Rio becchiamo Pera, valente armonicista. E poi Freddy Morales, vaga somiglianza col De Niro del Cacciatore, acrobatico figlio di circensi, invaghito perso del Canada, ottimo interprete blues. Dopo aver mandato a memoria pronuncia e impostazione e modulazione di

Muddy Waters e altri classici, ora spadroneggia con sicurezza la propria tecnica vocale nei Red Spiders. Nelle fila di questi suona l'armonica Max, i cui « soli » sono finiti anche in due dischi miei. Max è di Brescello, sul Po, e sempre qui, nei pressi, c'è il locale blues della provincia: il Mulino Cases. Qui i Red Spiders, i Tacchini Selvaggi (appassionati di southern rock), i bolognesi Dirty Hand e Johnny La Rosa sono di casa. Quando non suonano vengono per sentire gli altri suonare. Vengono raggiunti da Cow, chitarrista in filosofia col resto del gruppo, Pera, Cristiano, altro buon chitarrista con una grande passione per Stevie Ray Vaughan, Martin Angel Face, bassista jolly di garanzia, e compagnia per lunghe disquisizioni sulla musica e sulla vita fatte con un gergo pieno di neologismi a metà fra il dialetto e la parola blues, con la sensazione di complicità di chi sa di poter parlare in profondità senza intellettualismi. Ognuno di loro fa altro per vivere: chi è operaio, chi camionista, chi fa i mercati, chi è commesso in un videonoleggio... Ognuno di loro sa, o perlomeno immagina, che sarà molto difficile poter vivere di musica facendo esclusivamente il proprio genere. Ognuno di loro sa che non sono tanti quelli che sanno davvero apprezzare il gusto che mettono nelle esecuzioni delle loro poche ma ben scelte note mentre, con altri generi, sarebbe molto più facile l'esibizione tecnica e di effetti speciali per gli ohohhhh del pubblico. Ognuno di loro (o quasi) esegue solo pezzi d'altri, frenato in parte dal grande rispetto verso chi scrisse e in parte motivato dallo stimolo di un'interpretazione che, anche senza stravolgimenti, sia la più personale possibile. Ognuno di loro ha alle spalle anni di ascolto attento per capire, scendendo sempre più in profondità, il mistero di un bending, di un gorgheggio, di una pausa, di un lick da brividi, di note tenute in modo strano e apparentemente fuori tempo. Ognuno di loro ha cercato per chissà quanto e chissà dove ampli, chitarre, microfoni e stivali speciali. Ognuno di loro ha potuto parlare della propria passione con pochissimi per non assistere alle conclusioni troppo generiche di chi è rimasto in superficie perché fuori genere. Ognuno di loro risparmia per l'ennesimo giro ad Austin. Ognuno di loro sente che se in America il blues a volte può rischiare la routine, qui non potrà mai capitare perché « incorniciato » dal mito. Ognuno di loro (sono uno, due o tre per paese) continuerà probabilmente a sentirsi fuori posto e deriso da chi, non capendo, continuerà a considerarli «imitatori». Ognuno di loro, per questi motivi, sta facendo musica per la musica. Ognuno di loro lo troverete orgogliosamente conficcato, bandierina blu, sulle strade blues fra Reggio e il Po. Gratta e infila Bulbo cotonato con improvvise, ampie aperture tra capello e capello; braga generalmente pastello con rigorosa piega e orgogliosa, ostinata, scampanatura; polacchino assolutamente fuori produzione recuperabile solo in certe calzolerie d'antiquariato; camicia con fantasie esplosive sbottonata metodicamente fino al diaframma; doverosa catenona d'oro poggiata su pelo pettorale tipo «vorrei ma non posso »; brillante conficcato in un incisivo; occhiale dalla montatura ingombrante perennemente sdraiato sul bulbo di cui sopra; tatuaggio di delfino sull'avambraccio destro a simboleggiare chissà quale passato marinaro; orecchino a forma di chiave di violino poggiato sul lobo sinistro:

Omero. Che è poi l'unico, nel borgo, a frequentare il night del borgo. Il resto è un fiorire di macchine targate tutto tranne che RE. Perché il frequentatore di certi locali sa che è un errore giocare in casa. E i night sono l'esempio del funzionamento di certi gemellaggi. Fatto sta che Omero li ha sempre gestiti lisci lisci, certi movimenti. Ma se dobbiamo ricordare quello che gli è riuscito meglio, be' allora parliamo della sua lotteria. Faceva il giro dei bar con quei blocchetti neutri, a doppia matrice, numerati da uno a cento. Si faceva dare cinque carte a biglietto. Sopportava le lamentele di chi diceva che era caro ma intanto comprava sempre. Non appena i biglietti erano tutti venduti faceva l'estrazione, ogni volta in un bar diverso. Il possessore del biglietto fortunato vinceva una notte con una puttana. Va precisato che Omero non ha mai lesinato sulla qualità delle professioniste affittate. Però, essendo la matematica poco discutibile e sapendo che le tariffe di allora si aggiravano sui cinquanta buoni da mille per notte, si capiva come riusciva, l'Omero, a permettersi certi lussi. È vero che ci fu qualche inconveniente, che qualche sfasciatesticoli si lamentò del brodo grasso, che un paio di volte non si trovarono i vincitori perché scrissero il proprio nome sulla matrice con calligrafia illeggibile per non lasciare prove. Ma resta il fatto che il giro dei bar dell'Omero era attesissimo e, soprattutto, nessuno, che giocasse o no, si sognò mai di fare la spia. Poi Omero allargò il giro, tenendo in tasca diversi blocchetti. C'era la lotteria trans, la lotteria nera, la lotteria orientale, la lotteria pompa. I suoi contratti erano sempre più vantaggiosi. A volte portava le foto dei premi. Organizzò anche premi di consolazione per i secondi e terzi estratti. Però successe che, come ogni moda, anche quella si esaurì. La gente perse gusto al gioco e preferì puntare sul sicuro andando a scegliere di persona alla Bottegona, un quartiere fuori Modena, dove il venerdì sera ci si sente come al mercato e si devono fare file di mezz'ora. Ma dove la mercanzia ancora oggi è tanta e tale da far fronte a tutta la domanda del caso. Comunque altro tempo è passato. E allora voglio dirvi che se vi capita, da queste parti, di incontrare un tipo col bulbo cotonato e ampi spazi fra un capello e l'altro e occhiali impossibili poggiati sull'insieme, può darsi che vi offra uno o più biglietti del suo « gratta e infila. Può darsi che grattando con la vostra monetina non ci troviate niente. Può darsi invece che ci troviate l'immagine di una contorsionista che, caviglie dietro la testa, vi guardi maliziosa e vi offra il più ampio panorama di sé. Se è così avete vinto una notte movimentata. E state aiutando Omero a stare al passo. Fiuto appena fuori dall'inferno Avrete senz'altro conosciuto uno di quei tipi così carichi di energia che frequentarli è una fatica bestia perché fra te e loro chi imposta il passo sono sempre loro. Tanto per intenderci quelli che poi, di botto, più che addormentarsi sembrano svenire. Ovunque, anche in mezzo al frastuono più impossibile. Per poi, appena svegli, ripartire subito a palla. Fiuto è così. Be', sappiate che anche lui ha avuto un periodo in ctìlt non riusciva a svenire. Era il periodo in cui aveva l'inferno nella stalla. Il fatto che avesse stretti rapporti con l'aldilà ce lo ricordava spesso con le sue incursioni al borgo, venendo dalla frazione armato della sua bicicletta e di un registratore. Allora fermava il primo gruppo dì ragazzi che beccava sotto i portici e, ancora con il fiato in gola, faceva loro sentire le voci più fresche, quelle appena registrate. Quelle che lui garantiva essere di Berlinguer, Giuseppe Verdi, Dorando

Pietri. E altre celebrità storico, politico, musicalsportive dalle anime vivaci. Poi però venne il brutto momento dell'inferno. Diceva che tutti quei lamenti che provenivano dalla stalla non lo facevano dormire. Era veramente troppo anche per Fiuto. Fu un periodo in cui sembrava che qualcuno si fosse dimenticato di cambiargli le pile. La voce usciva a un quarto del solito volume. Gli occhi non mandavano più nessuno spillo. I movimenti, ben lontani dall'essere esagerati come sempre, erano contenuti, deboli. E più passava il tempo più le cose peggioravano. Perché il chiasso dell'inferno nella stalla aumentava. Girava in bicicletta con appeso un quadro in cui aveva dipinto un grande buco rosso sotto a mucche e mungitrici. Poi il buco divenne sempre meno rosso e sempre più nero. Si cominciò a raccomandargli specialisti, a offrirgli letti lontani da casa sua, sonniferi, a suggerirgli tecniche di rilassamento. Risultati zero. Qualcuno cominciò a prepararsi a doverlo salutare. Forse presto. Specialmente quando per un po' non si videro i suoi quadri e non si sentirono le sue registrazioni, le sue urla, le sue pedalate veloci. E invece un bel giorno riapparve la sua bicicletta con tanto di Pluto elicante sopra. Si vide subito che era come nuovo. Arrivò così a palla che ci toccò aspettare cinque minuti prima che, ripreso fiato, ci potesse dire le ultime. «Ero cotto. , Non ne potevo più davvero. Avevo paura di essere irriverente e soprattutto poco ospitale ma, insomma, loro dovevano anche capire che non potevano fare quello che volevano in casa d'altri. Allora mi son fatto coraggio, son sceso nella stalla e gli ho chiesto se potevano lamentarsi più piano. Non mi avevano in nota. Ci ho riprovato tré-quattro volte ma, visto che continuavano a non considerarmi, mi sono frullati a mille e gli ho urlato:

"FFFFFFIIIIIUUUUTTTT! ADESA BASTA: TUT FORA!" (Ora basta: tutti fuori). Oh, sono andati via davvero... Insomma stanotte c'era qualche decina di migliala di anime, quelli morti nelle ultime ore. Però, per un po' si dorme. » Ha acceso il registratore per farceli sentire. E finalmente è potuto svenire. I miei 42 sassi Dovendo ravvivare un noioso pomeriggio invernale, Mandrake e Valvoline hanno deciso di saperne di più sui sassi del centro storico del borgo. Piazzatisi ai bordi, naturalmente sul lato più frequentato, hanno misurato l'ampiezza del loro passo. Sapendo che questo sarebbe stato il loro strumento di misurazione hanno cercato di mandare a memoria la riproduzione di 1 metro più precisa possibile. Dopo un bel po' d'allenamento, serissimi nella nuova larghezza del loro passo, hanno cominciato a delimitare il primo metro quadro della zona pedonale. Quindi con l'espressione di chi ha una missione che possono capire in pochi hanno cominciato a contare i sassi. Una volta ricavato il numero hanno fatto decine e decine di rilievi e conteggi in altri punti dove i sassi, più piccoli o grandi o disposti più vicini o distesi fra loro, potevano essere più o meno numerosi del primo calcolo. Quando il numero di campioni sembrava sufficiente hanno ricavato la media. Finalmente hanno misurato con il proprio passometro la lunghezza del centro storico. Questa è stata la parte più difficile perché, ripetutamente interrotti da curiosi, perdevano ogni volta il conto dovendo ripartire da capo. Poi hanno dovuto misurare la larghezza e tener nota dei punti in cui quest'ultima cambiava un po'. Una volta avuta la metratura l'hanno moltiplicata per la media. Ora sanno quanti sassi ci sono nel centro storico. Mi hanno riferito che la mia parte, come quella di ogni altro cittadino del borgo, è di 42 sassi. Ero in pensiero. Solo che fra questi ci potrebbe essere qualche assa fetida (si chiamerà così?), una pietra particolarmente oleosa, maleodorante e, soprattutto, di nessun valore, sparsa in numero discreto, a detta delle loro rilevazioni, fra gli altri buoni vecchi sassi. C'è qualcuno lì da voi che possa garantire un servizio simile? Una data del Marchio del Destino Athos « prugna » non è solo il batterista della Bella Brigata ma anche uno dei più grossi impresari di liscio della zona. Partito tenendo i conti al suo gruppo si è guadagnato presto una credibilità maggiore come ragioniere che non come musicista. Poi ha cominciato a curare i rapporti con i gestori delle balere e, quindi, a piazzato le proprie date. La voce che circolò all'epoca, secondo la quale Athos « prugna » si sarebbe sifonato una delle cantanti bonazze di Casadei, gli proiettò addosso un tale alone di rispetto che tanti gruppi cominciarono a servirsi di lui. E Athos, che ogni mattina pocciava il suo pane nel brodo di volpe, si seppe muovere bene. Piazzava tre gruppi al prezzo di due; imponeva le registrazioni di dischi in studi di registrazione da cui aveva dei ritorni; faceva mettere da tutti i gruppi almeno tre o quattro canzoni da lui firmate nei bollettini Siae anche se non venivano mai suonate; pagava stipendi da fame con la lusinga di altri lavori a venire; riusciva a non far lavorare in nessuno dei « suoi » locali chi per una volta non sottostava alle sue condizioni finché non tornavano, mogi mogi, ad accettare termini ancora peggiori. Insomma chi sapeva di valzer e mazurke e polke doveva scappellarsi di fronte al boss del racket del liscio. Ma l'ingordigia di chi gestisce un racket è nota, per cui Athos cominciò a piazzare ballerine brasiliane di Fabbrico, fachiri di

Poviglio, ventriloqui di San Michele, cabarettisti di Moglia, imitatori di Boretto, contorsionisti di Pomponesco. Il « pezzo » che piazzava meglio era un prestigiatore di Mazzalasino che una volta era riuscito ad andare alla Corrida. Poi, dopo aver allargato la cerchia di clienti anche a fiere matrimoni e compleanni, arrivò finalmente a organizzare varietà per qualche mercato del bestiame. Quindi passò a trattare alcuni complessi moderni. Uno dei primi fu Il Marchio del Destino, gruppo appassionato di hard rock che aveva preparato un repertorio di cover per poterci ficcare in mezzo un paio di brani propri. Si rivolsero ad Athos « prugna » perché trovare serate era quasi impossibile. Lui come primo contratto trovò, nientemeno, una data dalle parti di

Pomposa. Gliela fece cascare da altissimo dicendo loro che un'occasione così speciale era solo per inaugurare un rapporto che, grazie ai loro numeri e alle sue conoscenze, avrebbe portato le tre magiche « p » (pila, passera e prosciutto) a tutti quanti. In realtà il boss del liscio aveva promesso a quella balera gli

Zimbelli del Po, uno dei gruppi folk che più andavano, ma a due giorni dal concerto si era fatto avanti un locale di Gattatico che aveva offerto per lo stesso gruppo, nella stessa serata, duecento carte in più. Questo tipo di argomento riusciva sempre a commuovere Athos «prugna» il quale, vero galantuomo, strappò in un nanosecondo il contratto già firmato e chiamò quelli di Pomposa per dirgli che, visti i loro rapporti, aveva deciso di mandargli, allo stesso prezzo, un gruppo molto più forte degli Zimbelli del Po. Eccoli quindi, i Marchio del Destino, con gli strumenti stivati nei bauli delle loro macchine, lanciati verso la promessa di gloria la cui prima tappa era Pomposa. Annusarono presto che qualcosa non andava. Prima l'arredamento folk del locale, poi la faccia che fece il gestore quando gli dissero che erano il gruppo del contratto, infine le locandine affisse ovunque: solo gruppi lisciaioli. Due cose però li preoccuparono ancora di più: la prima fu quando videro sulla loro locandina una targhetta con scritto a mano « Serata danzante

»; la seconda quando, durante il sound check, dopo dieci secondi al loro volume, venne tolta la corrente. Comunque avevano ben chiare le parole di Athos « prugna »: « È un pubblico di intenditori. Di solito faccio fare molta gavetta, ma voglio che voi partiate a mille. Dovete avere tutto e subito ». E allora contarono i minuti che li dividevano dalle tre magiche « p » nel loro camerino. Per catering avevano acqua di rubinetto ferrarese. Al momento fatidico scesero dal camerino direttamente sul palco e presero posto ai rispettivi strumenti. Il cantante pensò di partire alla grande: se era vero che quello era un pubblico di intenditori, era necessaria un po' di sana trasgressione, tanto per stabilire un po' di complicità. Così urlò un «beccatevi questa! » e, mettendosi il microfono all'altezza del culo, mollò una bronza di una certa importanza. Solo che la tensione accumulata fin lì gli giocò un brutto scherzo e sentì che la bronza se ne era uscita in compagnia. Il fatto poi di indossare calzoni bianchi attillati non migliorava la situazione. Capì che non avrebbe mai potuto offrire le spalle al pubblico. Comunque, ora che si era abituato alle luci di fronte, riuscì finalmente a vedere sotto il palco. Vide un centinaio di coppie, la maggioranza sopra i cinquanta, abbracciate come pronte per un valzer. Immaginò che fossero uno zoccolo duro del rock e si preparò a scoprire in che strano modo si ballasse l'heavy da quelle parti. Quindi il chitarrista cominciò la serata. Col riff di Smoke on thè Water dei Deep Purple. Il cantante vide la gente prima sparire dalla sala e poi rientrare in coda dietro al gestore del locale. Il quale si mise ai bordi del palco e non appena ci fu il «solo» del chitarrista chiamò fuori la voce dei Marchio del Destino dando vita a un dialogo più o meno così: « Da questo momento in poi non ci suonate altro che liscio. » « Ma noi facciamo metal. » « Risposta sbagliata. Voi fate metal fuori da questo locale. » «Be', allora facciamo su tutto e ce ne andiamo.» « Seconda risposta sbagliata. Voi siete già qua, è tutto montato, la gente vuole ballare. » « Vaacaghér, noi quella merda non la suoniamo. » Apparve nella mano destra del gestore una lama da 15 i cui primi due finirono dentro la narice destra del cantante. « Sono sicuro che sotto sotto hai una gran voglia di cantarci il liscio questa sera. » Gente tostissima questa delle balere. Fatto sta che la voce dei Marchio del Destino estese il suo disastro nei calzoni bianchi. Quindi approfittò per cambiarseli, tornò al suo posto e disse agli altri di attaccare il Carnevale di Venezia. Fu soltanto dopo che lo sentirono urlare di non fargli domande che attaccarono il pezzo. Il quale, essendo l'unico brano di folk che conoscevano, venne eseguito instancabilmente per le tre ore a venire, come da contratto. Il pubblico, tutt'altro che entusiasta, potè comunque ballare. Il gestore, data la scarsità della performance, guardandoli con estremo disprezzo disse loro che gli andava grassissima, che era buono e gli elemosinò solo metà di quanto stabilito. Giusto giusto la parte di Athos « prugna ». Dovreste vederlo, Cico. È un granspettacolo: 110 chili per 175 centimetri, baffetto sottile e portamento da signore. Sicuramente non l'uomo più bello del mondo ma, quasi certamente, il più forte. Dovreste vederlo quando, facendo un po' la merda, strapazza i facchini che l'organizzazione di ogni concerto mette a disposizione per il carico del suo camion. Ogni sera, solita solfa: lui che fa il colonnello e gli altri a caricare nell'ordine che lui stabilisce. Se qualcuno azzarda un « ma che cazzo vuoi? » diventa una bestia e carica da solo quello che in tre non riuscivano mentre affanculeggia di brutto. Al che, di solito, ognuno riprende le proprie consegne e a quel punto lui, affabilissimo, teorizza sulle « cose che van fatte come si deve ». Dovreste vederlo quando sceglie un'uscita di sicurezza e quella diventa sua e nessuno osa avvicinarsi. Sta lì a piantonare finché arriva qualche ragazza che vuole infilarsi nei camerini e lui che fa il gentile e intanto parla di responsabilità e «non è mica facile» e «sai quante altre vorrebbero entrare » e « tu non sai cosa rischio» finché... qualche soddisfazione se la toglie. Contente loro... contento Cico. Dovreste vederlo. È il più staccato dal gruppo, visto che lavora quando noi abbiamo finito, controlla il carico, raggiunge la nuova piazza, si assicura dello scarico del materiale e poi dorme fino all'ora dell'appostamento all'uscita di sicurezza. L'ultima volta si è fatto portare dal cameriere tre etti di cicciolata

« affettata fine ». Roba che il mio fegato, solo a vederla, si è fatto il segno della croce. La scommessa era che l'avrebbe mangiata tutta in un solo boccone. Perché, sapete, Cico è uno di quel genere lì. Quelli che ti devono far vedere che ce n'hanno di più. Be', se l'è infilata in bocca e quell'etto e mezzo che sporgeva se l'è premuto fino a che restava fuori soltanto un po' di sugo. Poi, con gli indici di entrambe le mani, si è accomodato il pastone fra denti e gengive. E intanto il mio fegato era svenuto. E il suo sarebbe da studiare. Avreste dovuto vederlo quella volta che proprio lui che per fare il duro fa finta di tenere poco in nota chi ha vicino - si è lanciato dal palco sulla testa di tre emeriti stronzi che si stavano accanendo, durante un concerto, per chissà quali motivi, contro uno dei ragazzi del gruppo. Ne è uscito indenne e dispiaciutissimo che gli fossero « scappati i cavalli ». Un po' più dispiaciuti e un po' meno indenni, mi hanno raccontato, i tre poveretti. L'ho visto di recente, Cico. Aveva un'espressione che non gli riusciva bene. E così mi ha raccontato che una notte, mentre portava il camion di qualcun altro (che 'sto mestiere è così: giriamo tanto, ma giriamo tanto anche fra di noi) si è visto raggiungere da una macchina di tipi che gli volevano fare il camion. Lui ha accelerato e loro, raggiuntolo, gli hanno sparato in cabina. Così, semplicemente. Due pallottole in faccia, una gli ha « solo » bruciato uno zigomo e l'altra è in un posto che il chirurgo gli ha detto: « È meglio se non tocchiamo niente e la lasciano lì». Be', questi continuano a sparare e non mollano finché lui, dopo qualche chilometro, accosta e scende tutto sanguinante. Anche loro scendono e gli puntano le armi. Lui urla una bestemmia e butta le chiavi del camion nel prato vicino. E, mi confessa, si sporca le mutande. Fatto sta che gli altri, spiazzati, risalgono in macchina e se ne vanno. Mentre mi racconta 'sta cosa cerca di fare il duro, ma la risatina è un po' isterica e l'occhio gli gocciola, anche se lui dice « per via della pallottola dentro ». E poi c'è da dire che il sorriso resta chiuso in una piccola smorfia. Ma lui mi garantisce, stavolta ridendo sul serio, che le ragazze che vogliono entrare nei camerini non ci fanno granché caso. Undici e quaranta in via Santa Maria Vabbé, posso uscire adesso? Oh, non mi lamento, eh: qua è tutto pagato.

Però non posso neanche scegliere niente. E poi ho voglia di toccare e di venir toccato. Anche se sono stati bravi fino adesso a non farmi sentire solo. A proposito solo o sola? ^ Boh! Me lo diranno. C'è nessuno lì fuori? Ehhhhhh! E qui dentro che non c'è nessuno. D'accordo, agitati, arrivo. Oscia che lus c'a pasa. Mi viene da parlare in dialetto. I miei usano quasi solo quello. Com'è che non riesco a muovermi? Cosa tirate? Io uscirei anche ma c'è qualcosa che mi trattiene. Non sto facendo il furbo: vi ho detto che esco. Sì, ma mettiamoci d'accordo che così non va. Ohhhhh, sto male. Datevi una calmata o è peggio per tutti. Soprattutto per me. Ho qualcosa in testa, mi sentite? Attorno alla testa. Finalmente qualcuno ha capito. Che impressione quel ditone attraverso la luce. Bene, siete riusciti a spostare quella specie di corda che mi teneva la fronte. Ora esco. Be', ma chi è quel terzino del Kaiserslautern? Non sarà mica mia madre, eh? Ah no: è la padrona del ditone salvavita. Vabbé, ma adesso perché mi sculaccia? Non era colpa mia la storia della corda. Almeno credo. ' Mi vuoi veder piangere? Cominciamo bene. E adesso perché mi chiamate cianotico? Vi avevo sentito decidere per Luciano. Non un granché forse ma sempre meglio di cianotico. Lucianotico. Via Santa Maria 5. Mi sa che in questa casa giri poca lira. Faremo senza. Però quel divano a scacchi è bello colorato. Posso prenotarlo per qualche anno? Be', ma è domenica mattina. Buono. Niente messa oggi? Undici e quaranta di un tredici marzo. Pesci ascendente cancro. Bel casino. Non potevi anticipare o posticipare di qualche ora, mamma? A proposito come sei? Fa' vedere. Ma sei una ragazzina. Sei sconvolta, va bene, ma pensa allora quanto lo sono io. Mi piaci. So che staremo bene insieme. Il babbo chi è? Quello là? Sembra tosto. Sarà un po' meno facile intenderci. Ma ce la faremo. Bel lavoro, ragazzi. Posso rientrare ora? Ho dimenticato una cosa. No? Farò senza. Come Cosmo nessuno Bisogna parlare di Cosmo. Uno che non è mai stato visto menare nessun altro. Uno che, però, è bravo a convincerti che se comincia proprio con te, ti sbriciola. Sarà per questo che gode di un rispetto estremo. E, ad esempio, suona la batteria alle 3 di notte e nessun condomino si

è mai sognato di lamentarsi minimamente. Gli piace imporre la sua personalità. Gli piace che gli diano moooolto retta. Come certe volte in discoteca. Si metteva, spalle al bar, immobile. Perché, come lui insegnava: « Gli sborroni stanno sempre fermi mentre gli ansiosi pipparoli lasciano il solco attorno alla pista». Quando adocchiava la vittima dichiarava: «Lui! » un po' come si dichiara la buca dove infilare palla 1 a otto e quindici. Quindi lo chiamava a sé, e gli metteva in mano cento lire. Infine gli diceva di tenerle strette lì, che lui sarebbe ripassato dopo tre ore e le voleva sentire belle calde. Puntualmente, all'ora stabilita, ribeccava la vittima con le cento in pugno, se le faceva riconsegnare ed erano sudatissime. E Cosmo, bellamerda, si lamentava anche di questo. Luciano Ligabue Una sera beccò uno che se le era messe in tasca. Guardò gli amici con la faccia di chi ha un supplemento di lavoro. Lo prese per un orecchio, lo portò fuori dal locale e gli disse: «Ora ti faccio prendere il brevetto di sub ». Il tipo era più grosso di lui ma non ci pensò neppure un attimo alla rissa: muto muto, si adagiò sotto la macchina indicatagli e finse di nuotare sporcandosi il vestito del sabato. Io stesso ho visto più volte gruppi di ragazzi fingere dei playback al proprio tavolino in discoteca. Uno alla batteria, basso, tastiere, chitarra e canto. Cosmo era passato di lì. Diceva loro che gli sarebbe dispiaciuto molto se non avessero suonato niente per lui. E affidava a ognuno lo strumento immaginario più adeguato. Per una settimana intera, un po' d'anni fa, Cosmo girò con la mascella gonfia per un ascesso. Qualcuno si azzardò a fare battute leggerissime. Lui si tolse il dente con le proprie mani, così almeno giurò, e per chissà quanto tempo andò in giro col molare marcio e sporco di sangue rappreso in tasca, mostrandolo a chiunque lo incontrasse: « Guarda il pezzo del leone ferito che non può più ferire il Icone ». Una volta se ne stava in pizzeria con gli amici e venne disturbato da una cameriera che gli chiedeva se volesse un dessert. Lui non la considerò. La cameriera ci riprovò due minuti dopo e lui la squadrò con grande altezzosità. Al terzo tentativo disse: « Ma certo, tesoro, portami un tiramisù ». Quando gli fu servito, ci ficcò le mani dentro e cominciò a pastrugnarlo pronunciando, lentissimo: « No, tesoro, il dessert mi sembrava di averti detto che proprio non lo voglio ». Probabilmente, direte voi, è faticoso tenere in piedi una leggenda così. Ma qualcuno lo deve pur fare. E così se la cavò più o meno brillantemente anche quella volta che rischiò di vedere incrinata la sua fama. Stava facendo ammirare la sua Harley. Decise, perciò, di ripassare davanti al baretto centrale pieno di divulgatori di leggende. Non si sa ancora come sia successo ma la moto ha sbandato e lui ha perso il controllo. Un disastro per uno che deve farsi rispettare. Però, proprio mentre realizzava che la caduta era inevitabile, invece di preoccuparsi dei danni fisici e alla moto, puntò l'indice sui ragazzi davanti al bar e se ne uscì con: « Al prem c'al red al cop »

(Il primo che ride l'accoppo). Dopodiché cadde facendosi un male bestia e rovinando la moto. Non guardò neppure un attimo né il suo sangue né i danni all'Harley: fissava le facce di chi non poteva ridere. E nessuno rise. È facile immaginare che avesse uno strano rapporto coi vigili. Quando veniva fermato e gli venivano chiesti i documenti se ne usciva con: « Ma sai è brutto che tu me li chieda. Come se non mi conoscessi. Io, per esempio, a te non li ho chiesti. Eppure potresti essere un impostore vestito da vigile. E io, invece, ti voglio credere ». Comunque uno dei vigili, Grand Hotel, era famoso per le ramanzine che ti appioppava prima di mollarti la multa. Erano robe che sfinivano, credete a uno che ne fu vittima le belle volte. Credeva così tanto alla parte da fare una contravvenzione alla moglie perché le trovò un fanale posteriore rotto nella macchina in garage. Insomma, ci fu questo duello. Grand Hotel contro Cosmo. ^ Lo sceriffo contro l'uomo di frontiera. In un noioso pomeriggio d'una domenica d'estate. Con tanto d'aria calma e di silenzio crescente. Il vigile si appostò di fianco al famoso saloon all'angolo di un incrocio con semaforo. Cosmo lo fissò un po' e poi fece andar su di giri la sua Matra Simca. Allo scattare del rosso lasciò una fortuna in pneumatici sull'asfalto e attraversò l'incrocio a scheggia. A Grand Hotel non sembrava vero. Soffiò nel fischietto con tanta foga e soddisfazione che quelli del bar dovettero tapparsi le orecchie con le mani. La Matra Simca, però, non si fermò. La faccia di Grand Hotel fu una fioritura di colori sempre più intensi mentre imprecava e ripeteva: « Prima o poi ti becco! » a voce alta e intanto annotava sul suo blocchetto. Poi si sentì in lontananza il rumore della Matra farsi sempre più forte finché Cosmo non riapparve all'incrocio. Si fermò al verde, sfessurò appena il finestrino e fece scivolare fuori venti carte. L'importo di allora per due contravvenzioni. Il vigile raccolse i due biglietti da dieci e non fece in tempo a realizzare cosa tutto ciò volesse dire che il semaforo si rifece rosso. E, allora, Cosmo ripartì. A Grand Hotel rimasero venti carte, due anni di prediche preparate e rimaste in gola, un principio d'ulcera, una gran voglia di vendetta e una figura di merda davanti al baretto. Un'altra di quelle che girano racconta della volta che nel bagno di un night c'era uno che si stava lavando le mani. Non appena queste furono insaponate Cosmo chiuse il rubinetto dicendo:

«Basta acqua». Il tipo, chiaramente, provò a riaprirlo ma il leggendario, fermo, ribadì: «Basta acqua». Ancora incredulo, il ragazzo ci riprovò, ma Cosmo, aggrottando le sopracciglia e comunicando, con ciò, che sarebbe stata l'ultima volta, scandì lento: « Basssta acccqua ». La vittima dovette rientrare nel locale con le mani insaponate. La storia ufficiale finisce così. Ufficiosamente, però, risulta che ci fu una coda. Sembra che il fratello della vittima, una volta informato, raggiunse i bagni, riconobbe Cosmo, gli mise una pistola in bocca facendolo sedere su una tazza e gli chiese se conosceva un buon idraulico. Poi aggiunse che, pensandoci bene, anche se lo avesse conosciuto a quell'ora nessun idraulico sarebbe accorso. E lui voleva fare una verifica urgente. Voleva controllare il funzionamento dello sciacquone. Così disse a Cosmo di tappare il buco con le mani, tirò l'acqua e ci spinse dentro la testa del nostro leggendario. Poi, molto cortesemente, disse: «Grazie, funziona: acqua ce n'è ancora

». Mise via la rivoltella e se ne andò lasciando Cosmo con la leggenda spaccata. Voi però questa cosa non raccontatela a nessuno. Cosmo, pur continuando a vivere nel borgo, frequenta i bar di un altro paese. E stufo di sentirsi fare le stesse domande. X E nato per fare, non per raccontare ciò che ha fatto. Ed è in esilio volontario in un borgo fuori borgo. Finché, fra tre o quattro anni, non dovrà andarsene da lì. Ho fatto un giro Ho fatto un giro, l'altra sera. Ho fatto un giro per i miei giardini. Ho fatto un giro standomene a casa. Ho rivisto tutti gli angoli, ricordando bene che ognuno di loro era una conquista del « crescere ». La zona del grado zero era il parco giochi: qui ci andavano i più piccoli. Il parco occupava il lato dei giardini più lontano dalla piazza, era curiosamente recintato da una sorta di siepe metallica e l'anello interno era una pista per le gare fra tricicli, go-kart a pedali, bici con le rotelline dietro e via andare. Poi, fra scivolo, altalene e compagnia bella c'era la « piscina di sabbia » per le infinite gare a biglie con su Gimondi e Zandegù,

Bitossi e Balmamion, Adorni e Motta. Chi teneva le biglie coi francesi o i belgi era un puzzolente fighino. E mentre noi ci impegnavamo, i più grandicelli, fuori dal recinto, si impegnavano a prenderci per il culo per le nostre colpe: essere più piccoli ed essere lì dentro. Incapace di starmene al mio posto, feci e disfeci finché non conquistai la fiducia di una compagnia di « più grandi » che mi ammise al grado uno. La zona del grado uno era quella per i « non più bambini » ed era adiacente al parco giochi. Qui, nonostante il fondo di ghiaia, si giocava a pallone, e si prendevano per il culo quelli del recinto. Poi c'era il problema dei vigili (che si portavano addosso curiosi nomi d'arte: Grand Hotel, Bolero, l'Intrepido eccetera) che, almeno una volta la settimana, ci requisivano il pallone di gomma e noi a ingoiare pensando a dove sarebbe finita la nostra paghetta settimanale. Sapevamo che quel pallone, intanto, sarebbe caduto nelle mani dei figli dei vigili stessi. Che, però, era meglio non provassero a venire ai giardini. Incuranti delle stramaledizioni di qualche vecchietto che voleva godersi la sua panchina troppo vicina al nostro « stadio » e delle prepotenze di qualche « più grande » che dalla gelateria adiacente ci invitava al mutismo assoluto, mettevamo in piedi i tornei del secolo. Tanto alla gelateria ci saremmo arrivati, prima o poi. La mia carriera ebbe un brusco stop il giorno in cui sentii pronunciare da un compagno del grado uno uno strano verbo: guzzare. Incautamente gli chiesi cosa volesse dire e lui, senza pietà, mi bocciò insieme agli altri: torna nel parco, cinno! Così ripartii dal grado zero e quando venne il mio turno di diritto anagrafico per il grado uno puntavo già al grado due. La zona del grado due era quella centrale dei giardini. Qui imperavano varie compagnie di ragazzini delle medie inferiori. Ogni compagnia aveva la propria panchina e la propria aiuola. Qui non ci si abbassava a prendere per il culo i bambini del parco giochi e i quasi bambini del calcio. Qui c'erano delle responsabilità, cazzo! C'era l'onore della compagnia da difendere e qualche spedizione punitiva nei confronti di compagnie irriverenti ma, soprattutto, c'era qualcuno che aveva sentito l'odore dell'altro sesso. Insomma, le cinne non erano più solo teoria. Io, ancora incapace di starmene al mio posto, mi avventurai senza averne diritto d'età in una di queste compagnie, ma il mio bluff durò pochissimo. Intanto fu durissimo cercare di far pensare che sapessi qualche cosa di ragazzine ma, soprattutto, il giorno in cui mi chiesero come prova di coraggio di starmene fermo contro un albero mentre il capo del gruppo avrebbe fatto il lanciatore di coltelli con le sue freccette, mandai tutti a cagare e tornai al grado uno. Insomma, la mia trafila me la feci tutta capendo che il grado superiore era un po' faticoso e il pari grado a volte mi rompeva i maroni. Arrivai con pieno merito al grado tre della gerarchia dei giardini in qualità di avente diritto. La zona laterale dei giardini, quella adiacente alla piazza da una parte e alla gelateria dall'altra, era quella appunto del grado tre: dai 13 ai 18 anni. Io ci arrivai in un periodo peso: metà anni Settanta. Le chitarre ci regalavano grandi orchiti con Inti Illimani e stonature cantautoriali. Ci straziavamo nervi e genitali con infinite, esasperanti discussioni politiche. Qualcuno si prendeva la sua bella vacanza andandosene in un altro parco e frequentando la panchina più buia. Tenendo il motorino bene in vista, lì a due metri, ti toglievi le tue soddisfazioni con un'amica. Poi tornavi ai giardini bello gasato, sperando che qualcuno si accorgesse di qualche cambiamento in te e ti chiedesse cosa avevi. E allora tu a straripare raccontando, caricato, ogni minimo particolare. Per arrivare a sapere che, con quella, eri stato solo uno di una lunga fila. E poi cominciare a sentire la discussione: il sesso di bocca è di destra o di sinistra? E quello di mano? E quello vero? E allora salutare, che in pochi minuti ti avevano rovinato una gran sera. Che due maroni i giardini! Però domani ci torno! Perché fra poco sono pronto per la piazza e la gelateria... Ho fatto un giro, l'altra sera, e mi è venuta una gran voglia di farlo di persona. Fine agosto a Napoli Il 31 agosto siamo a Napoli per la finale del Festivalbar. Neanche oggi c'è recupero: a letto alle 4 dopo un concerto in provincia di Asti, sveglia alle 7 per l'aereo. Mi sento un po' a fine corsa. I recuperi sono sempre più faticosi. Sarà perché da due anni non mi concedo pause. Il tassista all'aeroporto mi riconosce e mi apre la portiera con grande solennità. Con altrettanta solennità scandisce un insulto irripetibile alla mamma di uno che gli taglia la strada cento metri dopo. I ragazzi sui motorini - minimo due su ognuno ma, spesso, anche tre - mi vedono e mi « scortano » fino all'albergo. Di fronte all'ingresso ci sono alcune centinaia di fan: nonostante la security,. entrare è una signora impresa. Il tempo di mettere lo zaino in camera e lavarmi la faccia e mi chiamano per dirmi che è già arrivata la troupe con cui dovrò girare uno spot antipirateria per MTV. Salgo sulla macchina che mi dovrà portare sul posto. Partiamo dal garage per passare dal retro ma, sfortunatamente, abbiamo di fronte a noi una Rolls che ci ostruisce il passaggio. La Rolls non può fare manovra e deve uscire marcia indietro solcando una folla impressionante. Ciliegina sulla torta, a guidarla è un imbranato totale che impiegherà non meno di dieci minuti per togliersi dai piedi e fare cinquanta metri. In questi dieci minuti, sulla nostra macchina, viene a mancare la luce del giorno. E un delirio di mani, bocche, urla, flash, corpi che si schiacciano contro i finestrini, altri che salgono sul cofano. Tutti che battono sulla macchina. In questo terremoto non riusciamo a sentirci, ma chi è che ha voglia di parlare? Al primo spiraglio di luce l'autista scheggia via, sfiorando non so quante gambe, con una tranquillità imbarazzante. Vive a Milano ma è di Napoli e mi racconta di Bagnoli, dell'Italsider, di Posillipo, di quello che ha fatto Bassolino e di quello che ci sarebbe ancora da fare. Nel frattempo continua a fare la barba a pedoni, motorini, macchine, muretti e ostacoli vari. Poi mi parla di Nisida e mi dice che, lavorando nell'organizzazione, ha saputo che oggi sarei andato in visita al carcere minorile. Secondo lui troppi cantanti ci vanno per farsi belli. Gli dico che nessuno sa che vado lì, non ci sarà nessun giornalista o testimone d'altro tipo. Gli divento più simpatico. Lo spot antipirateria girato proprio a Napoli. Gli vogliono dare un significato particolare. Il tempo di mettermi d'accordo col regista, di raggiungere il luogo adatto e lo giriamo alla svelta nonostante i continui ingressi in campo, per un autografo o un saluto, di chi passa di lì. Adesso posso andare a Nisida. Mi ci portano un paio di macchine di agenti. Sono simpatici, nessuno di loro gioca a fare il missionario. Dobbiamo passare due portoni di ferro. Fra l'uno e l'altro c'è una guardiola in cui gli agenti depositano la pistola d'ordinanza. Il rumore del secondo portone che ci si chiude dietro fa senso. Don Paolo, il cappellano che ci ha invitati, non ce la fa a raggiungerci oggi. Al suo posto un folto gruppo di volontari che danno una mano lì dentro. Il direttore ci parla con orgoglio delle attività di formazione dell'istituto e del lavoro quotidiano per dare opportunità educative e culturali ai ragazzi. Alcuni di loro lavorano fuori per rientrare di sera. Da un terrazzino si vedono Capri, Ischia, Procida e un mare stupendo. Però è fuori. Quasi nessuno dei ragazzi rinchiusi mi conosce. Mi chiedono quanto ci vuole per imparare a suonare la chitarra e cosa ne penso di Napoli. Quando dico che mi sembra una città bella e strana, uno di loro, molto serio, mi chiede cosa vuol dire « strana ». Gli spiego che, vista da fuori, è una città unica, orgogliosa di questa unicità e che vive di regole proprie che non sempre è facile capire. L'imbarazzo rimane. Poi, con un improbabile accento napoletano azzardo: « 'nu cazz'e città strana proprio ». Ridono mollando un po' di diffidenza. Gli canto un paio di canzoni, facciamo un po' di foto insieme e poi li saluto. Non finiscono di sbracciarsi da dietro le finestre con le loro facce normali sopra delle colpe che tanto normali non sembrano. Qualcuno di loro ha già ucciso, per trecento-cinque-centomila lire, prima dei diciott'anni. Nell'ala femminile solo tre ragazze sono italiane. Le altre sono slave, marocchine, tunisine... Una continua a professarsi onesta. Qualcun'altra fa battute sessuali. Un'altra mi fa firmare il proprio diario, pieno di appunti che si sbriga a non farmi leggere. Tutte mi chiedono di salutarle dal Festivalbar. Ci accordiamo che a un certo punto avrei mandato un bacio e quello sarebbe stato il saluto. Al ritorno c'è il consueto assalto davanti all'albergo. Poi c'è lo spettacolo di Castel dell'Ovo alla finestra. Niente di tutto questo mi distrae dalla mia massa di pensieri su

Nisida. Il Tg dice che per motivi di sicurezza il Festivalbar andrà in diretta su tutta la Campania perché piazza Plebiscito è stipata. La raggiungiamo con la solita fatica, sperando che nessuno si faccia male. Bassolino, lì dietro, è vistosamente orgoglioso della manifestazione. A dirla tutta lo è anche dei cambiamenti della città. Mi sa che questo con la politica faccia, altroché pippe. Salgo sul palco. Piazza Plebiscito è uno spettacolo. Come si fa a essere qui per un paio di playback invece che per un concerto vero? Mando il bacio alle ragazze di Nisida sperando che la telecamera inquadri mentre lo sto facendo. Torno in albergo e questa volta la macchina quasi ce la rovesciano. Ceniamo sulla terrazza, dell'albergo, sotto un cielo stupendo. Si vedono un Vesuvio da cartolina e ancora Castel dell'Ovo. Nisida no. Oggi a Napoli c'erano Nisida e il Festivalbar. Il Festivalbar e Nisida. Una delle mie linee d'ombra Te lo stringo quel collo del cazzo. Con una mano sola. E mi piacerebbe vedessi come vuole scoppiare questa vena che hai sulla tempia. Non ti sei voluto fare bello davanti ai nonni? Non mi hai urlato « emilian-rosso-teron » come chissà quanti e chissà quante volte ogni vomitoso giorno di questi ultimi otto mesi? E non sei più giovane di me di un paio di scaglioni? Eh, burba? Tutto torna. E capitato a te. Stai pensando a come mai sta capitando? Oppure ti stai solo preoccupando di come prendere fiato? Sei in ginocchio, merdoso. E ti sta colando un filo di bava fino a terra. Fai proprio schifo. Te lo stringo per ogni volta che il magazziniere ha riso al cambio delle mie lenzuola sporcate dall'ennesimo gavettone di piscia di mulo. Te lo stringo per ognuna delle ore dei miei vent'anni che mi hanno fregato. Cosa sbarri quegli occhi? Te lo stringo per stringerlo a tutte quelle facce di merda che, coi loro giochi da cerebrolesi, non hanno potuto avermi tra di loro, almeno fino a questo momento, e allora sono stati bravi, proprio e tanto, a pulirsi il culo con me dall'alto di qualche mese di naia in più Te lo stringo per gli infiniti pattugliamenti, il sesso non fatto, le punizioni, lo squallore, l'ignoranza, il sonno non dormito, le umiliazioni, le regole, la solitudine, le turche disincrostate, il cinismo, i cubi, la noia, le code, il freddo patito, le ulcere ai piedi, la voglia di casa, la voglia di figa. Sei di un brutto colore adesso. Dovresti farti vedere. Te lo stringo per qualcosa che non è mai stato mio e ora, grazie anche a te, lo è. Eccole. Adesso sento che mi passa. Ti mollo il collo di scatto. Te lo prendi tu con entrambe le mani mentre ti afflosci a terra e tossisci e ti affanni a buttar dentro ossigeno e sei solo un ragazzino. Come me. Almeno finora. I nonni hanno visto tutto. ( Nessuno si è sognato di fermarmi.

Hanno vinto loro. Un paio di giorni dopo giurò di venirmi a trovare a casa, a militare finito, per farmi fuori. Mi fai ridere. Una volta a casa sarò fortissimo. Il giorno del congedo, appena rientrato, mi dicono che c'è il funerale di un amico. Si è suicidato un paio di giorni prima. Con una fucilata in bocca. Al poligono di tiro. Non so quale fosse il suo segreto. L'ultima volta che l'ho visto era pieno di vita. So che capirà se, di vita, ora me ne riprendo un po' io. Qualcuno tre piani sopra Fu durante una licenza militare che venni a sapere che il libro di un nostro concittadino, Vicky Tondelli, stava diventando un vero caso. Io sono uno che legge un po' come viene, ma mi sembra di ricordare che in quel pieno down morale cercassi di ammazzarmi del tutto massacrandomi di Ottocento russo. Quindi fu senz'altro per curiosità e per morbosità, più che per qualsiasi altro motivo, che cercai di procurarmene una copia. Il libraio del borgo mi disse che non si poteva venderlo: era sotto sequestro. Però me lo mise in una busta e, con furtività da pusher, me lo allungò sottobanco. Io caddi in pieno trip da Carboneria e mi cacciai libro e busta sotto la maglietta finché, appena lucido, mi misi a contemplare l'oggetto di tanta curiosità: « Ah... allora il nome per esteso di Vicky è Pier Vittorio. La copertina non è male... Però... un editore importante, eh!... » Poi pensai a lui. Non lo conoscevo se non di vista ma quel poco di cui ricordavo - magro, alto, occhiali, decisamente timido o, almeno, riservato e, in anni in cui c'era ancora lo sbrigativo incasellamento « con Don Camillo o con Peppone », risultava nella casella « con Don

Camillo » - mi mosse ancora più curiosità, una volta lette le note di quarta di copertina e il titolo Altri libertini. Quindi ci fu l'immersione nelle pagine violente e disperate di

Postoristoro, in quelle allegre e un po' frivole di Mimi e istrioni, in quelle inquiete di Viaggio, negli sballi e negli amori consumati e no di Senso contrario e Altri libertini. Per poi trovare in Autobahn le parole che non ero mai riuscito a esprimere, lì a raccontare l'inquietudine, l'inseguimento di un odore, il pretesto di una meta da non raggiungere, l'entusiasmo e lo scazzo da vivere e pagare «in movimento». L'emozione era resa ancora più forte dalla visualizzazione dei posti e delle facce da lui raccontate. Avevo tutto intorno: bastava saper guardare! Quel libro mi stava dicendo ciò che la letteratura in generale credo dovrebbe dire: « Guarda un po' meglio, ciccio ». La vitalità che attraversava i sei episodi mi fece un po' da ricostituente per i mesi che mi mancavano al congedo. E poi, nonostante qualcuno la definisse una scrittura troppo vicina a

Kerouac per non essere jazz, io non so se avessi mai letto, fino ad allora, un libro così rock. Era rock la sua fisicità, la sua leggerezza, la sua tossicità, la sua urgenza, il suo ritmo, il suo essere popolare, la sua ansia di vita, il suo movimento, i suoi dialoghi, la sua comunicatività facciale e slabbrata ma sempre senza risparmio, il suo accostarsi sempre al limite. Era rock anche la sua colonna sonora. Poi, forse, Pao Pao e furono pop e Camere separate e Dinner

Party furono blues e Un weekend postmoderno e L'abbandono furono sia rock che pop che blues. Resta il fatto che ognuna delle cose che ha scritto erano di una musica comunicativa ed emotiva. Il mio personale percorso di ricordi arriva sempre alla constatazione amara di una conoscenza personale che non è mai avvenuta nonostante le occasioni propizie: tra l'altro ho abitato per alcuni anni nello stesso condominio dei suoi genitori cui tornava spesso a fare visita. Poi c'è stato un periodo in cui la sua Saab nera era parcheggiata sempre più frequentemente di fronte a casa, proprio davanti a quel tempio devozionale che racconta con così tanta commozione in Camere separate. Quindi una notte che non dimenticherò facilmente. Metà dicembre 1991. Devo fare un concerto a Modena ma, di botta, sto male. Brividi a palla e febbre che va subito a 40. Il concerto salta. Il medico parla di una normale influenza. Intanto io sto da cane e sragiono. Mi rigiro per casa tutta notte con una coperta addosso e, insomma, io un'influenza così proprio non la ricordo. Fra i rumori che mi sembra di sentire nel mio delirio ce ne sono alcuni che purtroppo, come scoprirò più tardi, sono reali. Sono i movimenti delle persone vicine a Vicky che, tre piani sopra, sta morendo. Io credo di essergli debitore per tutta la curiosità, l'entusiasmo e la voglia di raccontare che mi ha trasmesso. E ancora oggi rileggo ogni tanto il finale di Autobahn per farmi contagiare dall'entusiasmo di quelle righe: Solo questo vi voglio dire credete a me lettori cari. Bando a isterismi, depressioni, scoglionature e smaronamenti. Cercatevi il vostro odore eppoi ci saran fortune e buoni fulmini sulla strada. Non ha importanza alcuna se sarà di sabbia del deserto o di montagne rocciose, fossanche quello dell'incenso giù dell'India o quello un po' più forte, tibetano o nepalese. No, sarà pure l'odore dell'arcobaleno e del pentolino pieno d'ori, degli aquiloni bimbi miei, degli uccelletti, dei boschi verdi con in mezzo ruscelletti gai e cinguettanti, delle giungle, sarà l'odore delle paludi, dei canneti, dei venti sui ghiacciai, saranno gli odori delle bettole di Marrakesh o delle fumerie di Istanbul, ah buoni davvero buoni odori in verità, ma saran pur sempre i vostri odori e allora via, alla faccia di tutti avanti! Col naso in aria fiutate il vento, strapazzate le nubi all'orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti insieme incontro all'awenturaaaaa! Ventisettembre È il ventisettembre. Sono sballottato fra alcune radio di Roma per il « Buon compleanno,

Buon compleanno Elvis ». Festeggiamo l'uscita dell'album un anno fa. E quello che è successo durante quest'anno. Non c'è uno che sia uno che non mi chieda se sono Stanco. Devo averlo stampato negli occhi e nelle rughe. Nonostante gli occhiali da sole. Il tassista mi scambia per e mi chiede l'autografo per la figlia. Non ho voglia di contraddirlo né di deludere la figlia: mi firmo Luca

Carboni. Poche ore fa eravamo al Palastampa di Torino. Era l'ultima data. Non è facile accettarlo. Autografi per gente che, sono sicuro, sa sì e no chi sono. Foto. «Ragazzi non ce n'ho! » «Ma è solo un attimo...» No, sono 100-200 attimi. Prezzo pagato a ogni posa. « Te l'aspettavi questo successo? » Torta a forma di chitarra. E foto con coltello in mano. «Smile! » No, grazie, niente pranzo. Non voglio perdere l'aereo delle 6. Pizza bianca e mortazza. E mezza boccia di grappa. Autografi per amici e parenti di tecnici e dj. E ancora foto. Maio fammi muro. Maio sta facendo muro contro enti, associazioni, leghe, circoli, crocirosse, club e discoteche. Vogliono un concerto, una comparsata, una partecipazione, due righe, un messaggio in video, un saluto al bar. E io sono da solo. E poche ore fa ho salutato il gruppo, il catering, i tecnici, l'agenzia, lo staff. Strade diverse, adesso. E mi fischiano ancora un po' le orecchie per ieri sera. Erano volumi seri. « Hai visto? Quello è Ligabue. » « Non me ne frega un cazzo. » L'ha detto a voce alta. Ci teneva a farmelo sapere. « Ti seguo fin dai tempi di Ballando sul mondo. » (Balliamo sul mondo, balliamo, stronza!) « E ora ascoltiamo uno dei singoli di quest'album fortunatissimo: Un momento, addio. » (Si chiama Hai un momento, Dio? ...Ma chi ti paga?) Due ragazzi mi beccano sul taxi e mi fanno firmare, al volo, le loro Vespe. « Questo è il figlio d'un pezzo grosso: fagli l'autografo. » Come se agli altri non li facessi. Foto con struscio. Tocca, tocca la tipa. « Senti io vorrei parlare di un argomento che troppe volte, con te, hanno tirato fuori ingiustamente: Springsteen. » E intanto ne parliamo un'altra volta. A quest'ora il palco è tornato al suo deposito. E ogni tecnico a casa. Per quanto? « Senti... ma allora il rock è morto? » (Sono morti i miei maroni, appena ammazzati da te.) « Progetti futuri? » Dormire... Dormire... Dormire... Dormire... Fra pochi giorni mi sarò ripreso. Sto pensando che più che godere ancora di quello che è successo, mi preoccupa già la mancanza di tutto questo nei prossimi mesi. Punto. Capodanno da Jim Oh, ciao Jim! Io mi chiamo Luciano e questi sono alcuni amici miei. Eravamo qui a Parigi per il Capodanno e, insomma... si sapeva che li avrei portati qui. Strano, eh? Alcuni di loro non hanno neanche un tuo disco eppure ti stanno guardando commossi davvero. Siamo passati un paio di volte prima ma, vedendo che c'erano già una trentina di ragazzi qua attorno, ci siamo avvicinati solo ora. Tanto il numero non cala: a parte quattro o cinque che chissà da quanto sono qui, è un flusso continuo. Molti sono italiani. È la prima volta che compro la mappa di un cimitero. Per trovare te, a dir la verità, non ce n'era bisogno: è pieno di frecce fatte con gessi e pennarelli che indicano Jim. Trovare Modigliani o Apollinaire o Colette, invece, sarebbe stata dura. Per Proust, Wilde (a proposito, cosa ne pensi della sua «sobria» lapide, gentile dono di un'ammiratrice? Secondo te lui ha gradito?) e la Piaf, bastava seguire la gente. Sai che ai cessi ci sono le scritte di un paio di coppie che ti ringraziano per il loro amore? Bello, no? Hai potuto anche quello. Le scritte d'amore verso di te proprio non si contano. Chissà quanto i tuoi «vicini» si sono dovuti rassegnare. Ti hanno cambiato la lapide, eh? Quella che si vedeva nel film di Stone non ne poteva proprio più. A proposito, l'hai visto quel film? Ti è piaciuto? ...E com'era Nico? Mi piacerebbe starmene un po' qui da solo. E invece mi tocca sorbirmi la lagna di questa tipa che ripete di averti capito più di chiunque altro. Qualcuno ti offre la sua lattina di birra. C'è uno simpatico sulla quarantina, vestito e pettinato come te, che ha salutato tutti, si è presentato a ognuno e, con qualcuno, scambia due chiacchiere in inglese. Un paio di cinni sono gonfi di risate che stanno cercando di nascondere e trattenere. Ripensandoci, non è male la compagnia di questa gente, sembra di percepire un sentimento comune che non è di « perdita » ma di « piacere » di averti lì davanti. Sono sicuro però che, col nostro egoismo, nessuno di noi ti vuole immaginare tranquillo. Vogliamo pensarti ancora « posseduto dalla visione », come ti definiva Manzarek. Porta pazienza, va'! Lo sai che continuano a fare inchieste sui motivi della resistenza del tuo mito? Troverei molto più naturale ne facessero se non fosse così. Vorrei chiederti se stai suonando il blues o scrivendo poesie, ma di domande te ne ho già fatte troppe, e chissà quante e strane te ne fa ognuno di quelli che ti vengono a trovare. Un'ultima, però, te la devo fare. È quella la cui risposta mi interessa di più. Quella per cui sono venuto qui. Anzi, adesso che il flusso è aumentato e siamo un po' in troppi e i miei amici, finita la commozione, smaniano per andarsene, è proprio il momento di salutarti e chiedertela. Puoi rispondermi anche mentre me ne sto andando, se vuoi. Quando e come vuoi. La domanda è: TORNERESTI INDIETRO? Buon anno. Il cantante, il borgo e l'era dell'Acquario Il cantante, nel borgo, non si sente ospite come in tanti altri posti che frequenta. C'è un complesso di facce, colori, bacheche, targhe, angoli, botteghe, edicole, corsivievialiviuzzevicoliprovinciali, caffè, umidità, spray su monumenti, lastricati, catene, ghiaia, portici, chioschi, salegiochi, piazzepiazzette, platani, colonne per annunci funebri, istituti, palazzine, parrocchie e conventi, cortiletti, aperture verso la campagna, cimiteri, fontane, diurni, asili, parcheggi, lapidi, autoscuole, cinema, teatrichiusi, villaggindustriali, palestrecircolitennispiscinecampisportivi, spogliatoi, aiuole, fogne, rotonde, farmacie, distese per bar, crocirosse, cartelli biancorossi e non, reparti d'ospedale, cartolerie, uffici, ambulatori, campanili, orologi, centriculturalsociali, sedidipartito, orti, tigli, americanbar, appartamenti, ascensori, pasticcerie, erboristerie, con cui sembra, dopo tanti anni di frequenza, essere venuto a patti. Conciliato in parte da un sottofondo d'odori che, spinti lì dalla campagna prossimissima, partono da concimi e vendemmie e mietiture e scendono ad aggiornare il calendario. Sta giocando al calcolo delle probabilità che lo hanno ficcato lì. Riflettendo su tutto ciò da un punto di vista religioso, filosofico, fatalistico smetterebbe di utilizzare concetti come « coincidenze » o « casualità ». Qualcuno gli ha appena chiesto se abbia sempre abitato nel borgo che non l'aveva mai notato « prima ». Sta considerando che questa cosa non lo sorprende. La sua era una visibilità superficiale, aveva smesso presto di faticare a spiegare a chi non aveva intenzione di capire la sua autonomia emotiva, di sentimento e di pensiero. Era quello che era ma lasciava che gli altri vedessero quello che volevano. È per questo che non vedevano quasi niente. Per ironia della sorte sta facendo un mestiere in cui riservatezza è una parola senza senso e l'esposizione di quello che è un dovere. Forse pensava che l'esibizione violenta di se stesso gli guadagnasse il diritto di stare tranquillo fuori dal palco. O che potesse essere una forma d'esorcismo. O forse, più semplicemente, le cose sono andate così e basta. Ha la sensazione di aver cominciato a conoscere il mondo con un certo ritardo. Perché il suo, invadentissimo, lo ha sempre tenuto molto impegnato. Forse ha pure passato un periodo di snobismo esistenziale schedando con faciloneria chi, vicino, gli sembrava impostare la vita dentro schemi modesti. Perse così l'occasione di conoscere e apprezzare a suo tempo profondità e splendide qualità che erano appena dietro. Ora però che riesce a riconoscere tutto questo si gusta l'evidenza del suo cambiamento e la prospettiva delle scoperte a venire. Sa che il suo mestiere gli ha dischiuso il proprio mondo mandandoglielo in collisione con parecchi altri. Crede sempre di più a quella teoria orientale per cui quello che fai, in una forma o in un'altra, ti ritorna e al concetto di « energia ». Conclusioni inevitabili dopo aver fatto da tramite nella circolazione di vibrazioni energetiche impressionanti di tanti concerti. Mentre passeggia sotto i portici, in merito al borgo gli vengono in mente queste parole: praticità, sottovoce, arrocco, garanzia, tempo. Il municipio gli ricorda la sua breve esperienza in Consiglio comunale dove capì quanto anche la gestione amministrativa di un borgo di 20.000 abitanti richieda malizia, diplomazia, furbizia, pazienza. Qualità non sue. Sa di stare lavorando sempre più intensamente sulla sua capacità di tollerare. Tifa sempre più forte per semplicità e predisposizioni positive. E nel borgo ce n'è. Passando davanti al duomo ricorda le code al confessionale. Sempre di più scrivere canzoni gli sembra una forma di confessione dovuta. E forse proprio di confessare gli viene chiesto quando qualcuno lo ferma per indagare se sia vera o no l'ultima chiacchiera di paese su di lui (negli ultimi anni ha circolato che è stato più volte malato terminale di varie malattie, vittima di diverse overdose, in perenne separazione con la moglie, padre di figli mai riconosciuti, coperto di debiti per il gioco, protagonista di incidenti spettacolari). In realtà è come se gli venisse chiesto di confessare chi è. Perché sente che più gli capitano delle cose con la sua professione, più c'è il bisogno di esprimere un giudizio su di lui. E il fatto di non riuscire a ricondurlo a schemi rassicuranti fa circolare giudizi sempre più sommari, soggettivi, fantasiosi nella loro rigidità. Prova fastidio per il fatto di consentire a questo incasellamento facilone di fargli « pressione ». Perché lo sa, lo ha già provato alcune volte, che buttarsi il giudizio dietro le spalle - sia quello subito che quello da emettere - gli fa raggiungere zone impensabili di sollievo. Però, come sempre, un conto sono le teorie, un altro la loro applicazione. E allora cerca almeno di non farsi devastare dall'idea che chiunque possa, sulla base di due note, di una foto, di un'apparizione televisiva, di un'intervista pubblicata con i suoi begli aggiustamenti, arrivare a emettere sentenze su di lui, su tutto ciò che ha scritto, sulla sua anima. Gli hanno detto che durante una messa nella chiesa d'una frazione del borgo il prete ha ordinato ai fedeli di non ascoltare i suoi dischi, di non seguirlo in nessun modo. Immagina, allora, di avere uno schermo al posto della faccia su cui, di volta in volta, persona dopo persona, viene proiettato il « lui » che ognuno vuole vedere. Molto di più, molto di meno, semplicemente molto diverso rispetto a ciò che effettivamente è. Si diverte all'idea di quante proiezioni diverse possano accavallarsi su uno schermo solo. Conclude comunque che se al momento dell'installazione del software nel suo hardware natale avessero inserito un po' meno sensibilità, si sarebbe perso senz'altro qualcosa ma non avrebbe quella sensazione, che spesso ha, di procedere con il freno a mano tirato. Si meraviglia sempre nel vedere tanta ironia, tanta predisposizione a sorridere e a sdrammatizzare in così tanta gente del borgo. Gli sembra che sia una ricetta acquisita così, naturalmente, contro i più inquietanti dilemmi esistenziali. E soprattutto è riuscito a stimare, rispettare, forse un po' invidiare queste loro caratteristiche. Non si è più permesso di pensare: « Si sono arresi ». Non appena il dischiudersi del suo mondo gliel'ha concesso non ha più visto in vite, contesti, schemi apparentemente grigi tutto quel lasciarsi andare che immaginava. Ha capito che il colore di tutto quello che lo attornia dipende strettamente dal modo in cui ognuno lo guarda. Vite, contesti e schemi non erano grigi o perlomeno non è detto che lo fossero. Sicuramente lo era il suo punto di vista. Fortunatamente il periodo in cui considerava chi sfoggiava in continuazione la propria gioia di vivere un insensibile ottuso, se l'è lasciato dietro. I portici continuano a dargli una confortante sensazione di immobilità temporale nonostante il borgo, non diverso dal resto del mondo, stia subendo a sua volta un'impressionante accelerazione verso il futuro. Ricorda ad esempio che solo venticinque anni prima, da bambino, faceva il bagno d'estate nei canali e nelle Bonifiche appena fuori dal centro. E chi si faceva le pere aveva nome e cognome e veniva contato sulle dita di una mano sola. Ora che intingere in un qualsiasi fosso un dito vorrebbe dire vederselo disossato, che il bollettino dei caduti per eroina è via via sempre più desolante, che industrializzazione, informatizzazione, crescita delle banche puntano alla modificazione di un territorio e del suo spirito, gli da una piacevole sensazione di freschezza la consapevolezza un po' buddista di poter raggiungere qualsiasi posto del borgo in bicicletta. È come se il lastricato gli trasferisse, un piede dopo l'altro, la garanzia di una solidità speciale. E, un piede dopo l'altro, il passaggio sotto una lapide ai caduti della Resistenza gli apre un altro file di pensieri. Non è casuale che al richiamo per la difesa di alcuni valori base, in tanti del borgo risposero « presente », pena la propria vita. Sente che molti scelsero di uccidere o di esporsi a essere uccisi, non solo per libertà e diritti e idee ma anche, e forse soprattutto, per la difesa della propria gioia di vivere. Decisero che la vita era così o niente. Da questa prospettiva gli sembra che allora tutto il borgo potrebbe essere un enorme monumento alla Resistenza per la propria solida, magnifica spensieratezza. Gli piace anche l'idea che, come ogni monumento che si rispetti, se ne stia lì tutto intero campeggiando a spruzzare ogni tanto la memoria di un'esperienza storica troppo importante e unica da consentire l'ipotesi che possa venire mai dimenticata. Di fronte a un supermercato vede un vecchietto ridere con un pakistano. Sa che il vecchietto parla quasi solo in dialetto e non capisce come quei due possano comunicare. Ma intanto, loro, lo fanno e basta. Prova a pensare quanto debba essere stato strano per un indiano, marocchino, polacco, algerino, cinese, organizzarsi una propria microcomunità all'interno del borgo. E il borgo avrà sempre reagito bene di fronte alla scardinatura delle sue barriere provinciali? E ora che anche diversi suoi abitanti indigeni organizzano le serate di meditazione, e si aprono sempre più centri di shiatzu, yoga, massaggi olistici, riflessologia, corsi di reiki e qigong? Ora che girano prodotti ayurvedici, omeopatici, fiori di Bach, essenze per aromaterapia? Ora che soya e cibi integrali sono nei supermercati? Ora che le visite possono essere iridologiche o di controllo dei meridiani? Come si porrà il borgo, con tutte le sue tradizioni, di fronte all'era dell'Acquario, lui che un certo ritmo dell'anima si sente di averlo sempre garantito? Saprà essere flessuoso e fermo allo stesso tempo lasciandosi baciare da ciò che il mondo produce e mostrando contemporaneamente e orgogliosamente la propria storia; o si irrigidirà nella strenua difesa delle sue tradizioni perdendo tutti i treni che passeranno? Le sue riflessioni, intanto, sono interrotte ciclicamente dalla sua buona dose di risposte quotidiane. Si è reso conto che più va avanti più sono numerose le domande che gli vengono fatte. Dai famigliari per le continue richieste d'aggiornamento per ogni cosa capitata, dai collaboratori per qualsiasi scelta che il suo lavoro comporta, dai giornalisti per le interviste e poi quelle fuori intervista quasi che le risposte di prima facessero parte di una tacita messinscena, dagli ammiratori per l'interpretazione di una frase, una risposta filosofica, un bacio, un appuntamento, per vedere se c'è o ci fa, la giustificazione di qualsiasi comportamento, i suoi progetti, i suoi sogni, i sentimenti eventualmente inespressi nelle canzoni, le sue canzoni più sentite, i motivi della scelta di un suono, di un palco, di un gruppo, delle città in cui canta, l'ascolto di un nastro, fuma o non fuma?, droghe o non droghe?, la sua opinione sulle più svariate questioni sociali. Lui, lontanissimo dal lamentarsi del brodo grasso e fiero dell'affetto che riceve, trova legittimo tutto quel chiedere. Vorrebbe però che il suo argomento della giornata non fosse sempre «lui». E poi pensa che se a ognuno di noi viene dato in dotazione un certo numero di risposte, sta rischiando di vedere esaurita un po' presto la sua quota. Anche perché, oltre a quelle appena pensate, di domande gliene arrivano molte altre da amici e conoscenti, che non solo vogliono sapere di lui ma come sono quelli della televisione fuori dalla televisione. E poi da parecchia della gente che, incontrata per strada, si sforza di chiedere qualsiasi cosa pur di attaccar bottone. Quindi ci sono le richieste. Di cene, partecipazioni, comparsate, prestiti, oboli, offerte, collaborazioni, solidarietà, partite, investimenti, aiuto, raccomandazione. Immagina che quando il successo, così aleatorio e capriccioso e fuggevole, verrà per fargli ciao con la manina, nell'altra mano terrà tutti questi che gli stanno chiedendo qualcosa. Portandoli via da lui definitivamente. È per questo che gli sembra giusto tenersi qualche risposta di riserva.