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Capitolo 5 Articoli Monografici

5.1. … Paints a Picture

Negli anni 1954-1964, presi in considerazione in questo saggio, Milton Gendel scrisse due articoli che facevano parte della famosa rubrica di “Art News”, …Paints a Picture: il primo, del 1954 è dedicato ad Alberto Burri554, il secondo, del 1955, a Toti Scialoja555. Gendel manifesta per questi due artisti un’attenzione particolare; questo emerge anche dai suoi articoli per “Art News” della sezione Art News From , in cui recensì le loro esposizioni, sia quelle presso gallerie private sia quelle presso la Biennale di Venezia, seguendo l’evolversi del percorso artistico dei due pittori. Le recensioni erano di solito molto brevi e a carattere informativo più che critico, come, per esempio, Art News From Rome del gennaio del 1959, in occasione della mostra di Burri alla Galleria del Naviglio a Milano556, e Art News From Rome dell’estate del 1959, quando Burri espose alla galleria La Tartaruga di Roma557; infine entrambi gli artisti sono citati negli articoli per la Biennale di Venezia del 1956558 e del 1958559. L’attenzione di Gendel per questi artisti si può forse ascrivere al fatto che sia Burri sia Scialoja avevano seguito un percorso artistico originale e solitario, raggiungendo una pittura dai tratti estremamente caratterizzati e personali. La stima del critico per la loro opera si univa anche all’amicizia, soprattutto con Scialoja. Gendel ha raccontato, nell’intervista di chi scrive, il suo primo incontro con Toti Scialoja: il critico, durante una cena, avrebbe infatti espresso un parere molto negativo su un’opera dell’artista romano, ignaro della sua identità e della sua presenza, mandando su tutte le furie Scialoja. In seguito, però, il rapporto di amicizia fu molto stretto, tanto che Scialoja e la moglie Gabriella Drudi diventarono i “vicini di casa” del critico, quando si liberò un appartamento a Palazzo Costaguti, dove abitava Gendel560.

554 Milton Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, vol. 53, n. 8, dicembre 1954, pp. 28-30, 67-69. 555 Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, “Art News”, vol. 54, n. 4, estate 1955, pp. 43-45, 69-70. 556 Milton Gendel, Art News From Rome, “Art News”, vol. 57, n. 9, gennaio 1959, p. 52. 557 Milton Gendel, Art News from Rome, “Art News”, vol. 58, n. 4, estate 1959, pp. 50, 67-69. 558 Milton Gendel, The iron-Courtain at the Glass factory, “Art News”, vol. 55, n. 5, settembre 1956, pp. 23-26. 559 Milton Gendel, Art News from Rome, “Art News”, vol. 57, n. 5, settembre 1958, pp. 50-51. 560 Intervista di chi scrive a Milton Gendel, cit.

—143— Gendel conobbe, invece, Burri frequentando i locali di via Aurora, dove questi aveva il suo studio: qui si trovava anche l’abitazione di Colla, grazie al quale l’artista umbro venne introdotto nell’ambiente artistico romano. In questo edificio, infatti, si trovava la sede della Fondazione Origine, a cui Burri aveva aderito più per l’amicizia con Colla che per una decisione programmatica561. Gendel apprezzò particolarmente le opere di Burri, tanto che se gli si chiede come mai decise di dedicare un articolo proprio all’artista umbro, risponde sorpreso della domanda: “Non ha visto le sue opere?”562. Gli articoli di Gendel costituiscono un momento importante per questi artisti, rafforzando, nel caso di Burri, e incitando, nel caso di Scialoja, il loro collegamento con gli ambienti americani. Essere presentati nello stessa rivista che aveva pubblicato articoli su artisti del calibro di Pollock era, infatti, un grande riconoscimento artistico. “Art News” era una vetrina molto prestigiosa per l’affermazione degli artisti. Pur non essendo una rivista scientifica e pur non mantenendo toni troppo intellettuali, aveva, infatti, un vasto pubblico che era si era abituato alle sperimentazioni dell’espressionismo astratto e vi partecipavano sia critici di fama internazionale sia artisti. Scialoja e Burri sono gli unici italiani protagonisti della rubrica in questo periodo. La rivista, infatti, dedicava spazio agli artisti contemporanei italiani principalmente con la sola rubrica Art News from Rome o nelle recensioni alle esposizioni nelle gallerie di New York. Non vennero, infatti, pubblicati altri articoli specifici su artisti italiani delle nuove generazioni. Nei due articoli Gendel descrisse passo dopo passo la realizzazione di un’opera da parte dei due artisti, seguendo le impostazioni tipiche dei … Paints a Picture. La rubrica, infatti, era estremamente innovativa: si concentrava sul processo di creazione di una determinata opera d’arte, registrando le fasi con cui l’artista raggiungeva il risultato finale; in questo modo venivano messe in luce eventuali correzioni e ripensamenti in funzione dell’obiettivo che l’artista aveva in mente. Spesso venivano riportate

561 In via Aurora Burri conobbe Villa e Ballocco; nel 54, invece, fece conoscenza di Scialoja, che era da poco diventato astratto. Scialoja sostenne molto l’arte di Burri, e lo introdusse a Dorfles, Brandi e Venturi. In Il mio amico Incompreso, (Intervista a Toti Scialoja, “La Repubblica”, 14 febbraio 1995), Scialoja raccontò di aver anche litigato con Brandi perché non apprezzava le opere dell’artista umbro. (Piero Palumbo, op. cit., pp. 54-64). 562 Intervista di chi scrive a Milton Gendel, cit.

—144— dichiarazioni degli autori, che esplicitavano la loro poetica e il loro pensiero: si rendeva possibile, quindi, osservare i mezzi con cui l’artista cercava di esprimerli. Gli articoli erano una sorta di guida per la comprensione tecnica di un dipinto, e il critico è solo un fedele registratore di ciò che l’artista fa, e cerca di rendere il testo quanto più possibile obiettivo. I …Paints a Picture non sono articoli critici comuni, perché non vi vengono espressi un parere o un giudizio esplicito, ma viene avanzata, invece, una proposta al lettore, che può osservare e giudicare da sé le opere e il pensiero dell’artista. In questi brani si nota, inoltre, l’uso di un linguaggio insieme molto semplice e molto tecnico: vengono identificati i materiali e i colori utilizzati, dei quali si riporta anche il numero e la marca, e viene descritto il modo specifico in cui questi sono impiegati. Gli articoli descrivono molto precisamente l’opera che viene creata e sono accompagnati da alcune fotografie che mostrano i vari passaggi verso il risultato finale. La rubrica …Paints a Picture iniziò nel 1949 con un articolo di Thomas B. Hess su Ben Shahn563, sebbene negli anni Cinquanta fu dedicata essenzialmente agli artisti dell’espressionismo astratto. La scelta di Gendel di dedicare questi approfondimenti ai due artisti italiani dimostra una sua profonda comprensione della loro opera: il critico ne legge forse il legame e i possibili contatti con la pittura internazionale e informale americana. Di seguito verranno analizzati i due articoli in questione. In particolare, si cercherà di contestualizzare il rapporto artistico degli autori con gli Stati Uniti e di verificare come questi brani si inserirono nella storia della critica sui due autori. Nell’analisi dell’articolo su Burri, si cercherà di ricostruire la fortuna critica dell’autore fino all’articolo di Gendel, mettendo in luce il suo graduale riconoscimento artistico, senza entrare in merito alle diverse interpretazioni dell’opera di Burri. Come si apprenderà in seguito, infatti, l’analisi delle motivazioni profonde alla base delle opere dell’artista umbro avverrà, soprattutto in Italia, solo in seguito al suo riconoscimento come artista564. Per quanto concerne l’articolo su Scialoja, invece, si cercherà di porre in rilievo l’evoluzione della critica e dell’opera dell’artista: il brano di Gendel, infatti, presenta un breve excursus sull’evoluzione stilistica dell’autore.

563 Thomas B. Hess, Ben Shahn Paints a Picture, “Art News”, vol.48, n..3, maggio 1949, pp. 20-22, 50- 56. 564 Cesare Brandi, , Edizioni d’Italia, Roma 1963, p. 40.

—145— Il brano Burri Makes a Picture565 fu il primo saggio di Milton Gendel dedicato ad un solo artista per “Art News”. Nel brano viene descritta la realizzazione da parte di Burri dell’opera Rosso I, 1954566. Il testo fu uno dei primi dedicati all’artista dalla stampa estera, e fu in netto anticipo rispetto alla critica italiana, che tardò, invece, a riconoscere l’opera di Burri. Questo avvenne perché inizialmente le creazioni dell’artista, in particolare i Sacchi, prodotti a partire dal 1950, provocarono un grande senso di smarrimento. Le opere erano estremamente innovative e inusuali: l’artista utilizzava infatti dei materiali usati, poveri, normalmente estranei alla pittura. I sacchi erano la materia più umile e comune che si potesse utilizzare, a differenza delle resine o delle polveri che erano state utilizzate fino a ora567. Nell’articolo di Gendel si trova un’eco delle difficoltà iniziali della critica ad accettare queste sperimentazioni che provocavano proteste e shock; tra gli aneddoti viene ricordato un episodio secondo cui un famoso collezionista milanese si era rifiutato di includere le opere di Burri nella sua collezione perché le riteneva “spazzatura” 568. In effetti, l’uso di materiali poveri, come i sacchi, creeranno forte sgomento anche molto tempo dopo la pubblicazione di questo articolo: ne possono essere un esempio i titoli di alcuni quotidiani locali italiani, come ad esempio Arte e stravaganza569, comparso nel quotidiano Alto Adige nell’ottobre del 1959, o Astrattisti e pubblica igiene570, pubblicato in “Paese Sera”, articolo in cui si apprende che il pittore era stato denunciato per la “scarsa salubrità” delle opere esposte in una mostra. La critica italiana sembrò tacere, all’inizio, di fronte all’arte di Burri. Lo stesso Maurizio Calvesi scrisse, nella monografia su Burri del 1971, che “dapprima Burri non fu considerato, o quasi […]Quando ci si accorse di lui, fu oggetto di ironia” 571. Gendel ricorda che Burri fu scoperto prima dall’America. “Cesare Brandi-dice il critico-non lo considerava nemmeno un artista. Ma poi si convertì”572.

565 Milton Gendel, Burri Makes A Picture, “Art News”, dicembre, 1954, pp. 28-30, 67-69. 566 Rosso Gobbo, I, 1954, cm 113×128, collezione Bright, Los Angeles, in Cesare Brandi, 1963,op.cit., n. 19. 567 Cesare Brandi, op. cit , p. 26. 568 Milton Gendel, “Art News”, dicembre, 1954, cit., p. 29. 569 “Arte e stravaganza”, “Alto Adige”, 20 Ottobre 1959 (il titolo del giornale è riprodotto in Burri e Palazzoli, Galleria Blu, Milano, 17 settembre - 8 novembre 2001). 570 Astrattisti e pubblica igiene, “Paese sera”, 18 Novembre, 196 (Ibidem ) 571 Maurizio Calvesi, Alberto Burri, Fratelli Fabbri editori, Milano, 1971, p. 1. 572 Intervista di chi scrive a Milton Gendel, cit.

—146— Il primo critico italiano a dedicargli un articolo fu Lorenza Trucchi, in un pezzo per “Il Momento” nel gennaio del 1952573, in cui la studiosa sottolineava soprattutto il lato psicoanalitico nell’opera di Burri, notandovi il ruolo dell’inconscio e definendo le opere inquiete e inquietanti. Inizialmente, però, l’attenzione verso Burri venne soprattutto da letterati e poeti574, come Sinisgalli575 e Villa576: tanto che Cesare Brandi successivamente interpretò questo fatto come una profezia della poeticità intrinseca delle future opere di Burri577. I saggi dei maggiori critici italiani furono pubblicati solo quando Burri era ormai accademicamente accettato nell’ambito del “museo” 578: Arcangeli scrisse un testo nel 1957579, Argan presentò la prima retrospettiva dell’artista nel 1959580, Calvesi581 e Crispolti582 scrissero i primi approfondimenti storici sull’artista rispettivamente nel 1959 e nel 1962. Un altro indizio del ritardo della critica ufficiale italiana si può trovare nella partecipazione di Burri alla Biennale di Venezia: nel 1952, infatti, gli venne rifiutata la partecipazione e venne relegato nella sezione “Bianco e nero”; ancora nel 1956 l’artista ottenne solamente una parete invece della sala che gli era stata promessa, a causa dell’intervento di Lionello Venturi583. A partire dalla Biennale del 1958, invece, la sua opera iniziò a essere documentata, quando era già un artista affermato584.

573 La critica sostenne che non bisognava analizzare le opere di Burri con freddezza analitica, della “scienza o la sordità della tradizione”, ma capire di getto la sua “materia tremenda e splendida”: suggeriva quindi un approccio emozionale, in cui non si dovevano cercare interpretazioni esatte. (Lorenza Trucchi, “Il Momento”, Roma, 16 gennaio, 1952; l’articolo è ripubblicato, in A. A. V. V., Alberto Burri, catalogo della mostra (Roma, galleria nazionale d’Arte Moderna, 15 gennaio-14 marzo 1976), De Luca editore, Roma 1976, p. 13. 574 Achille Bonito Oliva, Alberto Burri 1948-1993, con antologia minima di Chiara Sarteanesi, Skirà, Milano 1998, p. 74. 575 L. De Libero, L. Sinisgalli, Alberto Burri, presentazione alla mostra alla Galleria la Margherita, Roma, luglio 1947. 576 E. Villa, Burri, presentazione della mostra alla Fondazione Origine, Roma, 1953; Su “Arti Visive”, Villa dedicò a Burri un brano in versi, in cui collegava i sacchi a elementi organici e paragonava le cuciture e gli slabbramenti alle suture eseguite dal chirurgo. (Emilio Villa, Burri, “Arti Visive”, Roma, 4- 5, maggio 1953, ripubblicato in A.A.V.V., Alberto Burri, 1976, op. cit., p. 14). 577 Cesare Brandi, Alberto Burri, Edizioni d’Italia, Roma 1963, p. 40. 578 Achille Bonito Oliva, op. cit., p. 74. 579 Francesco Arcangeli, Opere di Alberto Burri, Bologna, Torino 1957 (citato in Achille Bonito Oliva, op. cit., p. 74). 580 Giulio Carlo Argan, Burri, Bruxelles, 1959 (citato in Achille Bonito Oliva, op. cit., p. 74). 581 Maurizio Calvesi, Alberto Burri, in “Quadrum”, n. 7, Bruxelles, 1959 (citato in Achille Bonito Oliva, op. cit., p. 75). 582 Enrico Crispolti, Mostra Antologica, opere dal 1948 al 1955, Roma, 1961 (citato in Achille Bonito Oliva, op. cit., p. 75). 583 Antonello Negri, Carlo Pirovano, Esperienze, tendenze e proposte del dopoguerra in A.A.V.V., Il Novecento, Electa, Milano 1993, p. 210. 584 Ibidem.

—147— Molto più tempestivo fu invece il riconoscimento artistico delle sperimentazioni di Burri da parte della critica americana. La prima personale di Burri negli stati Uniti ebbe luogo le prime settimane del 1953 con la mostra Alberto Burri: paintings and collages presso la Frumkin Gallery585 di Chicago. Pochi mesi dopo, in Italia, durante una sua personale alla Galleria Fondazione Origine586, l’artista ebbe occasione di conoscere J. J. Sweeney, allora direttore della Solomon R. Guggenheim di New York. Il critico, al quale Irene Brin, la proprietaria della galleria Obelisco, aveva suggerito di visitare lo studio del pittore, rimase positivamente colpito dall’opera di Burri e lo invitò a partecipare alla mostra itinerante Younger European Painters587, che stava preparando in America e che si inaugurò presso il Solomon R. Guggenheim di New York nel 1954. Sempre a New York l’artista tenne una personale alla Stable Gallery alla fine del 1953588. Tra le prime segnalazioni di Burri negli Stati Uniti vi furono due articoli comparsi su “Art Digest” nel 1953589. Allen S. Weller notava il senso di bilanciamento quasi architettonico delle creazioni di Burri; nel brano di Martica Sawin, invece, l’autrice riconosceva l’importanza dell’opera di Burri e vi collegava come riferimento critico il collage e l’opera di Klee. L’articolo più approfondito venne però da Milton Gendel, che fu, con J. J. Sweeney, tra i primi sostenitori dell’artista. “Art News” aveva già pubblicato una breve recensione590 sulla mostra di Alberto Burri alla Stable Gallery591: nel pezzo, Fairfield Porter affermò che l’artista era uno dei migliori pittori che si era visto a New York e paragonò le opere dell’artista a delle mappe o delle visoni aeree. Gendel, invece, approfondì la personalità dell’artista per la prima volta nella rivista, contribuendo ad affermare la figura di Burri sullo scenario artistico americano. Pochi mesi dopo venne pubblicata la monografia di Sweeney592 dedicata all’artista: un’edizione molto raffinata , in cui vi era una particolare

585 Alberto Burri Paintings and Collages (New York, Stable Gallery, 13 gennaio - 7 febbraio; Chicago Frumkin Gallery, fino al 12 dicembre 1953). 586 Burri, Roma, Galleria dell’Obelisco, dal 16 Aprile 1954. 587 Younger European Painters, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 2 dicembre 1953- 21 febbraio 1954. 588 Alberto Burri Paintings and Collages, Chicago, Frumkin Gallery, 13 gennaio - 7 febbraio; New York, Stable Gallery, fino al 12 dicembre 1953. 589 Allen S. Weller, “Art Digest”, febbraio 1953; Martica Sawin, “Art Digest”, dicembre 1953. 590 F. P. (Fairfield Porter), Alberto Burri, “Art News”, vol. 52, n. 3, maggio 1953, p. 48. 591 Vedi nota 579. 592 James Johnson Sweeney, Alberto Burri, Ed. L’Obelisco, Roma 1955.

—148— attenzione all’impaginazione delle immagini593. Il testo iniziava con la frase “But out of a wound beauty is born”, cioè da una ferita è nata la bellezza594; il critico lesse nell’opera di Burri una metafora della corpo umano, con una suggestione di carne e sangue. Questa lettura era stata suggerita anche da Gendel nel suo articolo. Sweeney, inoltre, collegò, per primo, Alberto Burri alla tradizione della avanguardie, paragonando la sua ricerca a quella di Kurt Schwitters595. In seguito a questi articoli la fama di Burri negli Stati Uniti si consolidò sempre più, tanto che fu incluso nella mostra The New Decade. 22 Europeans Painters and Sculptors tenutasi al MoMA596. L’inserimento di Burri nell’ambiente artistico americano è un esempio delle relazioni che si instaurarono tra Roma e New York nella metà del secolo in Italia. La presenza in Italia di numerosi intellettuali come Gendel permise e favorì lo scambio culturale tra i due paesi. Le affinità dell’arte di Burri con le sperimentazioni che venivano effettuate in America negli stessi anni sono molto evidenti e fanno dell’arte di Burri un’arte estremamente internazionale. Un esempio della vicinanza delle sue invenzioni con quelle di artisti d’oltreoceano può essere il confronto con Rauschenberg: i Sacchi e i Gobbi dell’artista italiano sono estremamente affini ai Black Paintings del pittore americano, tanto che a lungo si è dibattuto sulla paternità dell’invenzione. Rauschenberg venne, infatti, in visita a Roma nel 1953, insieme a Twombly. Il loro soggiorno non è ancora stato ancora debitamente ricostruito: Germano Célant afferma che non si è sicuri che i due avessero visitato lo studio di Burri, anche se è molto probabile. Rauschenberg infatti espose Scatole e Feticci presso la galleria Obelisco597, e si può pensare che Irene Brin e Gaspero Del Corso lo abbiano invitato a vedere le opere dell’artista umbro, promuovendo l’arte italiana come erano soliti fare598. Burri, da parte sua, sostenne che Rauschenberg venne ripetute volte a visitarlo nel suo studio. La questione non è ancora chiarita, e non è stata definita con certezza la datazione dei Black Paintings, che vengono generalmente ascritti tra il 1951 e il 1952, anche se studi

593 Testimonianza di Giovanni Caradente, in Piero Palumbo, Burri, op. cit., p. 159. 594 James Johnson Sweeney, op. cit., pp. 5-7. 595 Una simile lettura di Burri si ebbe durante la Biennale di Venezia del 1958. Vedi pp. 98. 596 The New Decade. 22 Europeans Painters and Sculptors, a. c. di Andrew Carnduff Ritchie New York, Minneapolis, Los Angeles San Francisco, 1955. 597 Robert Rauschenberg, Roma, Galleria Obelisco, marzo 1953. 598 Germano Celant, Rome - New York 1948-1964, ed. Charta, Milano 1993, pp. 19-23.

—149— recenti, li datano al 1953599, dopo, cioè, il suo soggiorno romano. Barbara Drudi, invece, nel suo articolo sulla presenza americana a Roma, sostiene l’originalità delle opere di Rauschenberg, che partivano da premesse diverse da quelle dell’artista umbro e costituivano il normale svolgimento del suo percorso artistico600. Le interpretazioni di Burri da parte della critica furono molteplici e differenti. Maurizio Calvesi riassume nella monografia sopra citata601 le principali interpretazioni sull’artista. Emilio Villa aveva offerto nei suoi scritti delle immagini letterarie, definendo l’opera di Burri come una sorta di precisione dell’imprecisione, in cui trovava nche una metafora legata agli organismi biologici602; in particolare si può notare come la critica su Burri dei primi anni Cinquanta mantenne un riferimento “organico” nella descrizione delle opere dell’artista, riferimento che, come si è detto si trova in Villa, in Sweeney e in Gendel. Francesco Arcangeli sottolineò la bellezza degli accostamenti materici dell’artista, in cui l’introduzione di questi materiali faceva sì che “da un effetto d’ordine spirituale il significato trapassava d’un subito ad una zona crudamente surreale” 603. L’interpretazione di Crispolti fu invece quella di leggere nella consunzione delle opere di Burri il loro essere relitti, tracce dell’impronta dell’uomo: la materia era “sintomo di un evento umano”604. Brandi, infine, valutava, nella monografia del 1963, l’impatto del quadro sullo spettatore, attratto e tenuto allo stesso tempo a distanza: uno shock e una sorpresa cha caratterizzavano tutta la pittura informale605. L’articolo di Gendel, seppur contenga dei riferimenti alle suggestioni organiche nelle opere di Burri, si astiene da qualsiasi tipo di lettura che vada oltre alla descrizione fisica di ciò che crea

599 I Sacchi di Burri sono, invece, databili al 1949- 1952. Walter Hopps data i Black Paintings al 1953, perché sono simili a quelli visti per la prima volta nello studio di Fulton street del pittore dagli unici testimoni. (Walter Hoops, Robert Rauschenberg: The Early 1950s, Huston, the Menil Collection/Huston Fine Art Press, 1991, citato in Germano Celant, op. cit., pp. 17-20) 600 L’autrice sostiene che le opere di Rauschenberg si basino su una rilettura dadaista, e che quindi l’artista non poteva essere così interessato alla profondità espressiva delle opere di Burri. (Barbara Drudi, Anni Cinquanta, Roma e gli artisti Americani, “Terzoocchio”, XV, 2, giugno 1989, pp. 30-34). 601 Maurizio Calvesi, op. cit., pp. 1-20. 602 Maurizio Calvesi, op. cit., p. 10. 603 Il critico sottolineò la diveristà delle motivazioni alla base delle opere di Burri e Schwitters, a cui spesso veniva accostato il pittore umbro: Burri era, infatti, lontano dal gioco dada i suoi dipinti nascvano invece da una calcolatà esigenza espressiva. (Francesco Arcangeli, Opere di Alberto Burri, Glleria la Loggia, Bologna, 22 ottobre-1 novembre 1957, ripubblicato in A.A. V.V., Alberto Burri, op. cit , p. 16). 604 Per il critico, i materiali impiegati da Burri venivano riportati ad una comune origine fisiologica e ad una espressività universale, data dalla loro “mera oggettiva verità”. ( E, Crispolti, Burri, Un saggio e tre note, Milano, 1961, ripubblicato in A. A. V. V., Alberto Burri, 1976, op. cit., pp. 18-19). 605 Brandi sottolineò la differenza tra le opere di Burri e le pitture surrealiste: la materia rimandava sì a qualcosa d’”altro” ma non in maniera allusiva ed affabulatoria, bensì con la sua presenza effettiva, immediata ed indubitabile. (Cesare Brandi, op. cit., p. 40).

—150— l’autore in termini formali. In questo modo, Gendel asseconda la stessa lettura dell’autore delle sue opere. Burri, come si vedrà in seguito, non ne considerava possibile una spiegazione esatta. Nell’introduzione Gendel mette in evidenza la peculiarità delle opere dell’artista umbro, cioè la loro polimatericità: queste erano pitture in cui vi era “little or no paint”, cioè poca o nessuna pittura606. Proprio per questo l’articolo è intitolato Burri Makes A Picture, invece del solito … Paints A Picture, a indicare il processo creativo dei dipinti dell’artista attraverso materiali di uso comune e quotidiano, sottolineando l’azione fisica della creazione. Le opere di Burri, come molte delle opere moderne, sfuggivano, per Gendel, alle tradizionali classificazione artistiche: i critici d’arte cercavano ancora di spiegare gli artisti contemporanei e di attribuire loro delle “etichette” artistiche, mentre era più corretto cercare di ricreare la personale fisionomia artistica delle loro opere. In questo articolo, Gendel si propone di fare proprio questo, seguendo l’impostazione tipica di questa rubrica: l’opera di Burri viene spiegata da un punto di vista pratico, e ci si limita a una descrizione dei procedimenti e dei ripensamenti dell’autore, motivati spesso da cause formali, senza cercare di rintracciare simbolismi né ulteriori significati alle opere. In questo modo, il critico si avvicina molto profondamente alla poetica dell’artista, del quale alla fine del brano è riportata proprio questa dichiarazione:

“The words don’t mean anything to me; they talk around the picture. What I have to express appears in the picture. In this one I have worked with a big red space that is expanding forward and in all directions. With the other elements is involved in a whole chain of pulls and tensions. But this is only the architecture structure. For the rest I have nothing to add” 607

Il silenzio di Burri davanti alle sue creazioni vuole significare che l’opera ha valore per se stessa ed è dotata di una sua autonomia: la forma, l’interazione tra i materiali e i colori sono decisi e creati dall’artista, ma assumono una valenza espressiva intrinseca

606 Milton Gendel, Burri makes a picure, dicembre, 1954, cit., p. 29. 607 “Le parole per me non hanno alcun significato, spiegano solo lontanamente il dipinto. Quello che devo esprimere, appare nell’immagine. In questa ho lavorato con un grande campo rosso che si espande in tutte le direzioni. Con gli altri elementi si innesca un gioco di spinte e di tensioni. Ma questa è solo la struttura architettonica dell’opera. Per il resto non ho niente da aggiungere” (Milton Gendel, Burri Makes a Picture, dicembre, 1954, cit., p. 69).

—151— che non è spiegabile semplicemente attraverso analogie e simboli. Il significato delle opere di Burri è autonomo e indipendente da qualsiasi spiegazione a parole. Gendel, come farà Sweeney608, trovò nei dipinti di Burri, e in particolare in quello descritto, Rosso I, 1954, una connessione con la sostanza organica: i sacchi evocavano materiale in via di decadimento e l’operare dell’artista poteva essere paragonato a quello di un guaritore, che cercava di arrestare tale processo. Ma, aggiunge Gendel, questa rimaneva solo una suggestione e il significato delle opere era solo suggerito: Burri era “a solitary, a hunter, who eschews conjecture on his uncounscious process”609. Proprio per questo, l’articolo, che descrive semplicemente in termini formali la creazione dei dipinti di Burri, coglie profondamente il pensiero dell’artista. Seguendo la descrizione del processo creativo di Rosso, I, 1954, si apprende che l’artista lavorava a più opere contemporaneamente e le interrompeva per lunghi periodi di contemplazione. La procedura è molto complessa e include l’utilizzo di diversi materiali: i sacchi di iuta, di cui l’artista si riforniva nella sua città natale; il Vinovil; i colori a tempera, in questo caso il rosso; e una plastica americana usata anche per l’imballaggio di aeroplani e veicoli. L’artista cercava, in questo periodo, di eliminare qualsiasi riferimento figurativo nei suoi quadri. Nel brano, infatti, Burri si preoccupa di eliminare una figura “a forma di R”, perché suggeriva la figura di un animale. L’organizzazione del dipinto, quindi, è gestita dall’artista in funzione dell’eliminazione di una possibile interpretazione figurativa e alla ricerca di una armonia di tutte le parti del quadro tra loro. L’artista, ad esempio, modifica una parte del dipinto rosso scuro, considerandola “too obvious … too bold … too crude”610, Le opere di Burri, infatti, pur non essendo figurative, mantengono una composizione molto bilanciata, in cui nessuna parte prevale in maniera troppo netta sulle altre. Proprio in tale senso andò anche l’interpretazione di Cesare Brandi: osservando i quadri dell’artista umbro, dopo un iniziale senso di smarrimento, ci si rende conto come la composizione sia perfettamente equilibrata e che i materiali fungano da elementi figurativi funzionali alla composizione, senza assumere significati simbolici611.

608 James Johnson Sweeney, op. cit., p. 5-7. 609 Milton Gendel, Burri Makes a Picture, dicembre, 1954, cit., p. 69: un solitario, un cacciatore, che rifugge alle congetture con il suo processo inconscio. 610 Ibidem: troppo ovvio, troppo audace, troppo crudo. 611 Achille Bonito Oliva, op. cit., p. 17.

—152— Gendel osserva un fatto estremamente interessante: Burri, quando creava i dipinti, rifiutava la normale relazione tra pittore e opera, secondo la quale la tela rimane fissa e il pittore si muove attorno. L’artista umbro, invece, faceva sì che sia l’opera che il pittore si muovessero: il dipinto poteva essere appeso a una parete o spostato in un angolo, per una diversa e più completa osservazione. Il procedimento descritto nell’articolo è molto complesso. L’artista inizia lavorando con una grande area rossa e cerca di variare il campo rosso con delle protuberanze. In seguito all’utilizzazione dei diversi materiali, opera degli slabbramenti agli stessi, che, per Gendel, apparivano come processi organici di decomposizione. Burri prosegue, dopo molti ripensamenti sulla composizione, a bilanciare le relazioni tra parti glutinose, create con l’aiuto del Vinavil, e le forme scure. Questa sistemazione dei materiali, di derivazione industriale e non, entro una composizione quasi “classica”, fu letta in seguito come l’accettazione dell’artista dello scontro tra la casualità della materia e la sua sistemazione nella pittura; non una ricerca solo estetica, ma volta alla sistematizzazione entro un equilibrio formale dei processi e dei materiali naturali612. Descrivendo la realizzazione dell’opera, Gendel smentisce l’interpretazione del gesto di Burri come un gesto nato dalla “rabbia”: Pieyre De Mandiargues613 ed Emilo Villa614 avevano scritto che l’azione di Burri era effettuata con un certo furore esistenziale. Dal resoconto di Gendel, invece, sembra che l’opera sia creata con calma e meditazione. Anche se l’artista opera delle azioni aggressive nel confronto della materia, questo gesto non sembra nascere da un approccio di tipo “violento”; la creazione dei sacchi non è per nulla paragonabile alla velocità e all’immediatezza, per esempio, della realizzazione di opere dell’action painting, in cui il pittore scaricava sulla tela anche con una certa violenza, un impulso. I sacchi di Burri sembrano invece nascere da un’attenta meditazione e da un calcolo preciso, in cui l’artista valuta passo dopo passo come armonizzare lo spazio. Nella serie dei Gobbi, iniziata nel 1952, Burri realizzò quadri che avevano una superficie aggettante che “ingobbava” la tela verso l’esterno, spingendola verso lo spazio dello spettatore.

612 Un’interpretazione simile si può leggere in Achille Bonito Oliva, op. cit., p. 13. 613 André Pieyre De Mandiargues, Burri, in “Nouvelle Revue Française”, II, 20, 1° agosto 1954, p. 358. 614 Emilio Villa, 1953, op. cit.

—153— A corredo dell’articolo sono presentate cinque fotografie che illustrano i diversi stadi progressivi dell’opera Rosso I, 1954615. Dall’articolo emerge un efficace ritratto dell’artista umbro, descritto come un pittore solitario, timido, che non amava né fornire definizioni per la propria arte né frequentare troppo i circoli intellettuali e mondani di Roma. Burri aveva rinunciato alla sua professione medica per diventare pittore, e sosteneva questa sua scelta, serenamente convinto che fosse l’unica giusta. Il pittore dipingeva, continua Gendel, tutto il giorno e non aveva praticamente neanche il tempo per la vita sociale. Il critico sembra descrivere l’attività e la personalità dell’artista con una certa ammirazione per i suoi modi silenti, pacati e timidi. Il riferimento al riutilizzo dei sacchi con una sorta di “Franciscan piety”616 sembra quasi collocare l’esperienza artistica di Burri in un rituale quasi sacro. Nell’estate del 1955 venne pubblicato l’articolo di Milton Gendel su Toti Scialoja617; probabilmente il brano fu scritto l’anno precedente in quanto si riferisce a una serie di opere del 1954, e visto che ne segue e documenta la realizzazione passo dopo passo, si può supporre che sia stato scritto proprio in quell’anno. L’articolo fu uno dei primi brani dedicati all’artista apparsi nelle pubblicazioni straniere e il primo che comparve negli Stati Uniti. Sulla stampa estera sono documentati618 solo i seguenti articoli precedenti a quello di Gendel, che trattano dell’artista ma non monografici: Modern Italian Art in London, in “The Times”, nel gennaio del 1955619; T. Mullaly, Modern Italian Art, in “Art News and Review”, nel febbraio del 1955620; M. H. Middleton, Art, in “The Spectator”, Londra, 11 febbraio 1955621. L’articolo di Gendel fu molto importante per l’affermazione dell’artista, infatti, dopo Scialoja Paints a Picture, appariranno, sempre nello stesso anno, altri brani sull’artista in riviste americane622, tra cui l’articolo di Dore Ashton, Syntesists, in “Art and Architecture” nel dettembre del 1955623.

615 Le fotografie sono a cura di Josephine Powell. 616 Milton Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, dicembre 1954, p. 29. 617 Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, “Art News”, vol. 54, n. 4, estate 1955, pp. 43-45, 69-70. 618 Dalla bibliografia su Toti Scialoja in Fabrizio d’Amico, op. cit., p. 180-183. 619 Modern Italian Art in London, in “The Times”, Londra, 22 Gennaio 1955. 620 T. Mullaly, Modern Italian Art, in “Art News and Review”, Londra, 5 Febbraio 1955. 621 M. H. Middleton, Art, in “The Spectator”, Londra, 11 Febbraio 1955. 622 Altri articoli sull’artista citati nelle bibliografie dell’artista sono: H. Devree, French Abstractionist Wins First Prize in Canergie International Exhibition, in “The New York Times”, New York, 14 ottobre, 1955; H. Devree, The 1955 Pittsburgh Version Raises Question of the Statute of Our Art, in “The New

—154— L’articolo di Gendel svolse un ruolo importante nel percorso artistico di Scialoja: fu anche grazie ad “Art News” che l’artista iniziò ad interessarsi all’avanguardia americana. Scialoja, infatti, dichiarò, in un'intervista del 1992, che nel 1955, prima della comparsa dell’articolo sulla rivista americana, conosceva ancora poco delle sperimentazioni degli artisti della New York School624. L’artista aveva avuto qualche informazione al riguardo solo attraverso Afro, pittore che aveva viaggiato negli Stati Uniti ed era stato a New York e aveva mantenuto un fitta corrispondenza con Scialoja durante il suo soggiorno; questi, però, si era interessato maggiormente ai Surrealisti e all’opera di Gorky. Scialoja commentò in un’intervista, l’articolo di Gendel, affermando:

“Milton Gendel era un critico d'arte venuto in Italia con l'esercito di liberazione degli Stati Uniti, si era stabilito a Roma ed era diventato corrispondente di “Art News”, era grande amico di Tom Hess, il direttore di questa rivista. (…) Io stavo diventando astratto, ero già astratto, da poco, era il 1954. Fece questo saggio in una serie che raccontava nel modo più pragmatico possibile ― perché il pragmatismo è d'obbligo per gli americani ― come Burri, come Scialoja dipingeva un quadro: proprio la modalità. Descriva tutti i colori, gli impasti, le azioni, le pause, gli intervalli, come si ricomincia etc., partendo dal bozzetto (non era mia abitudine farne), per arrivare a capire come era fatto il quadro. … Fece anche le fotografie dello sviluppo, il primo tratto, poi i segni che seguono, come si campisce un punto, poi come si corregge, … tutto quello che è l'andamento del fare un quadro. Erano interessanti; Art News nasceva come una rivista rivolta al dilettante, a quelli che volevano imparare a dipingere, poi in seguito fu modificata ― pragmatica in un modo incredibile. Fallo da te il capolavoro!”625

Aggiunse che quando uscì il pezzo di Gendel, gli fu spedito il numero di “Art News” a casa, a Roma: e che qui poté leggere moltissimi articoli su pittori, scultori e manifestazioni artistiche. L’artista, sorpreso e colpito dalla vitalità e dall’audacia artistica che la rivista gli aveva rivelato, decise quindi di comprare un libro sul Museum of Modern Art 626. Nel Giornale di pittura, testo che raccoglie dichiarazioni e pensieri dell’artista, Scialoja scrisse le impressioni che aveva ricevuto sfogliando alcuni cataloghi di arte americana, e affermò che le opere offrivano immagini “sempre irrisolte, morbosamente invischiate nei loro stessi problemi, tormentate in ogni punto da

York Times”, New York, 12 Ottobre, 1955; E. Genauer, Abstract Art Floods Canergie, in “The New York Tribune”, New York, 16 Ottobre, 1955. 623 D. Ashton, Syntesists, in “Art and Architecture”, vol. LXXII, n. 9 , Los Angeles, Settembre, 1955, pp. 6-7. 624 Intervista a Toti Scialoja, di Miriam Merlonghi, BTA-Bollettino telematico d’arte, 11 Luglio 2000, n. 104 (intervista del 9 dicembre 1992). 625 Intervista a Toti Scialoja, 1992, cit. 626 Ibidem.

—155— assilli e irrisolutezze” 627. Nello steso anno a Roma, ebbe luogo una mostra alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma, dove erano esposte alcune grandi tele di Diebkorn, in occasione di un premio per artisti under 35628: fu la prima volta in cui l’artista poté osservare dal vero opere americane. Scialoja rimase incantato da questa visita, e fu colpito soprattutto dalle pasta pittorica, dall’espressività delle pennellate e del colore di queste opere, che le rendevano estremamente vive629. Un altro evento molto importante per il percorso artistico di Scialoja fu la conoscenza di Thomas B. Hess630, l’editore associato di “Art News”, in occasione di un suo soggiorno romano. L’editore, grande amico di Milton Gendel, accolse Scialoja nel 1956, quando l’artista arrivò a New York, in occasione di una sua mostra alla Galleria di Catherine Viviano a Manhattan631. L’esposizione fu anche brevemente recensita in “Art News”, nella rubrica Reviews and Previews, da cui si apprende che questa era la prima volta che l’artista esponeva a New York i risultati del suo “space-light ideal”, (ideale dello spazio e della luce)632. Durante questo suo primo soggiorno in America, l’artista chiese esplicitamente a Hess di poter visitare gli studi dei grande pittori americani633. Fu così che l’artista venne introdotto a Ad Reinhardt, De Kooning e Rothko e a altri esponenti della pittura astratta634. Nel Giornale di pittura, infatti, Scialoja scrisse635:

“Due mesi a New York. Conoscenza e frequentazione con tutti i pittori più vivi della nuova scuola di New York. Amicizia con De Kooning, con Rothko, con Guston, con Motherwell, con Marca-Relli. Visita agli studi di Kline, di Reinhardt, di Viciente, di Rescnick, di Frankentaler, Stamos ecc. (…) Volontà di tirare subito delle conclusioni” 636

Scialoja, che fino ad allora aveva potuto vedere solo poche opere americane, approfondì in questo viaggio la sua conoscenza su questo nuovo ambiente artistico, che ebbe una

627 Toti Scialoja, Giornale di Pittura, prefazione di Gillo Dorfles, ed. Riuniti, Roma 1991, novembre 1954. 628 Giovani Pittori, 1955, GNAM, Roma (Arturo Carlo Quintavalle, Introduzione a Toti Scialoja, catalogo critico di Giuseppe Bonini, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, 1977, pag XI). 629 Toti Scialoja, Giornale di pittura, Aprile 1955. 630 Hess scrisse su Scialoja: T. B. Hess, Preface Pour Toti, in Scialoja, Opere dal '58, Catalogo dell’esposizione, (Roma, Galleria d’Arte Marlborough, 5 maggio - 5 giugno 1996). 631 Toti Scialoja, New York, Galleria Catherine Viviano, da novembre 1955, 632 Toti Scialoja, firmato “P. T. ”, “Art News”, vol. 55, n. 7, novembre, 1956, p. 8. 633 Intervista a Toti Scialoja, 1992, cit. 634 Ibidem. 635 Toti Scialoja, Giornale di pittura, 28 novembre-4 dicembre 1956 (ripubblicato in Arturo Carlo Quintavalle, 1977, cit., p. 11). 636 Ibidem.

—156— notevole incidenza nella sua pittura e nella sua comprensione della pittura non figurativa contemporanea. In particolare, Scialoja colse l’importanza dell’opera di Gorky, di cui gli aveva già parlato Afro in Italia637. L’artista, per Scialoja, era stato poco conosciuto in Italia ed era, a quel tempo, poco diffuso persino in America: Gorky era il precursore di tutta la pittura americana contemporanea e tutti i pittori della scuola di New York derivavano lui. La sua idea formale, infatti, stava alla base di tutte le opere di questi artisti. Di ritorno dal viaggio in America, Scialoja dipinse alcune opere che lasciano intravedere la rielaborazione delle suggestioni dei pittori americani, come ad esempio De Kooning638. In seguito, Scialoja diede vita alle introspettive Impronte, nelle quali non si sente l’influenza della gestualità violenta dell’espressionismo americano; si nota, invece, la ricerca di un’immagine lirica, in cui l’artista cercava di visualizzare la verità che sta tra il soggettivismo dell’interiorità dell’uomo e l’oggettività data dal corpo639. L’articolo di Gendel si può dividere in due parti principali. Nella prima viene descritto il percorso stilistico dell’artista, nella seconda viene raccontata con precisione la realizzazione dell’opera Dark Window del 1954. Il pittore viene definito come un artista “europeo” 640, cosmopolita, che non aveva mai accettato di essere catalogato in una scuola o in una corrente artistica italiana: questi non aveva mai mostrato, infatti, un legame specifico con la Scuola Romana o con i Neorealisti, ma aveva esplorato in solitudine la pittura fino a trovare la sua originale idea spaziale. Il pittore era passato da una iniziale fase di sperimentazione Neo- impressionista a una fase più vicina agli esiti espressionistici di Kokoscha e Soutine641.

637 Scialoja scrisse su Gorky anche nel Giornale di pittura del 1956 (Toti Scialoja, Giornale di pittura, dicembre 1956 (Ivi, p. 12). 638 Arturo Quinto Cantavalle, op. cit., p. XIV. 639 Gillo Dorfles, Toti Scialoja, opere inedite: New York, 1960, (New York, Marlborough Gallery, Marzo 1973). 640 Gendel scrive che l’artista era stato definito così da un “amico romano” (Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, estate 1955, cit., p. 43. 641 L’influenza della pittura francese su Scialoja va anche ricollegata al fatto che l’artista soggiornò dal 1947 al 1948 a Parigi, dove ebbe modo di conoscere l’opera di questo artista ( Toti Scialoja: opere 1955- 1963, a cura di Fabrizio D’Amico, Skirà, Milano 1999).

—157— Il nome di Soutine viene fatto anche da Cesare Brandi in un testo del 1941642, in occasione di un’esposizione alla Società degli Amici dell’Arte. In seguito, Scialoja sperimentò una pittura tonale, con cui si affermò nell’ambiente artistico italiano: questo tipo di pittura lo portò alla maturazione di uno stile che partiva da una meditazione sugli effetti tonali di Morandi e sui colori e sui soggetti dei Fauves. A differenza di Morandi, le tele di Scialoja vengono definite de Gendel come pervase da un tono crepuscolare e una trasparenza di tinte delle creature marine643. Tra il 1945 e il 1953 la sperimentazione dell’artista manifestò una tendenza verso la Metafisica e il Surrealismo, e raggiunse, infine, uno stile in cui giocavano un grande peso gli echi di Klee e Picasso. In particolare Gendel faceva riferimento ai dipinti dell’artista spagnolo della fine degli anni venti affermando che Scialoja era approdato alle “allarmate spiagge di Picasso”; cioè i dipinti con figure sulla riva del mare. Tale interpretazione, infatti, viene proposta anche da Arturo Quinto Cantavalle nella sua monografia su Scialoja nel 1977644. A metà degli anni Cinquanta la produzione artistica di Scialoja subì un'ulteriore svolta, allontanandosi dalle suggestioni e dalle reminescenze precedenti, e avvicinandosi a una pittura astratta che lo accostò, per la prima volta, ai pittori della sua generazione. Secondo Fabrizio d’Amico nel 1954 l’artista tolse il suo sguardo dall’oggetto per concentrarsi sulla pittura: Scialoja rinunciò a ogni riferimento alla natura e, per di più, al pennello, iniziando a dipingere con uno straccio645. Gendel tende a sottolineare come tale svolta stilistica dell’artista non sia stata una scelta programmatica o un’adesione alle tendenze astratte dell’epoca, ma bensì una scelta spontanea, nata da esigenze proprie del pittore. In seguito a questo cambiamento il pittore fu accolto da Lionello Venturi nel Gruppo Astratto Concreto: questo non rappresentava una scuola, ma riuniva un insieme di pittori che stavano scegliendo la stessa strada senza regole precise. Lionello Venturi fu uno dei primi critici italiani ad appoggiare le scelte artistiche di Scialoja e nel 1956 scrisse su di lui l’articolo Toti Scialoja in “Commentari”, dove indicò il 1955 come

642 Cesare Brandi, dal Catalogo della mostra alla Società Amici dell’Arte, Torino 1941 (ripubblicato in Arturo Carlo Quintavalle, op. cit., pp. 43-44). 643 “Unlike the suspended still-life visions of Morandi, his canvases, even when dealing with the same repertory of bottles and candlesticks, conveyed a crepuscolar uneasiness and a transience of hue in marine animals” (Milton Gendel, Scialoja Paints a Piacture, estate 1955, cit., p. 43). 644 Arturo Carlo Quintavalle, op. cit., p. VIII. 645 Fabrizio D’Amico, 1999, op.cit.,p. 24. .

—158— l’anno del passaggio dell’artista da modi cubisti all’astrattismo, “e cioè alla rappresentazione della realtà immaginata e non fisica” in cui “c’è l’adesione spontanea a immagini che affiorano nella coscienza o da un ricordo lontano o dall’ignoto” 646. Venturi scrisse anche il testo di presentazione di Toti Scialoja nel Catalogo della Biennale del 1958647 e in quello della mostra a New York Painting In Post-War Italy presso la Columbia University648. Sebbene Scialoja si ritrovasse a seguire lo stesso percorso di Afro, Burri, Vedova, Corpora, Cassinari, Moreni, Breddo e Paolucci, tuttavia per Gendel non si può parlare di un voluto allineamento alla poetica di questi artisti. Nell’articolo vengono citate anche alcune affermazioni dirette di Scialoja. L’artista si espresse sull’importanza della rivoluzione spaziale avvenuta con il cubismo, affermando che questa poteva essere paragonata all’introduzione della prospettiva nell’arte del Quattrocento, e tracciò un parallelismo tra la figura di Picasso e quella di Masaccio649. In questo modo Scialoja intendeva sottolineare l’importanza della nuova dimensione che il Cubismo aveva dato all’uomo: un nuovo modo di percepire la spazialità che aveva cambiato il modo di dipingere tanto quanto aveva fatto la prospettiva. Già nel 1954 Scialoja aveva scritto, nel suo Giornale di Pittura, alcune considerazioni sulla sua mutata concezione spaziale nei dipinti:

“da quando ho cominciato a dipingere lo spazio e non più nello spazio, il senso esaltante di sentirmi nella realtà. Di essere accolto. Essere entrati nel mio proprio tempo, cioè nella realtà, che è sempre storia” 650

Queste convinzioni, per Gendel, si trovavano espresse in una serie di tele, alcune delle quali furono presentate alla Biennale di Venezia del 1954651. In queste opere si notano

646 Lionello Venturi, Toti Scialoja, in “Commentari”, a. VIII, fasc. II, Roma, aprile-giugno, 1956 (ripubblicato in Arturo Carlo Quintavalle, op. cit., pp. 53-55). 647 Lionello Venturi, Toti Scialoja, in Catalogo della XIX Esposizione Biennale d’arte, Venezia 1958, pp. 35. 648 Lionello Venturi, Painting in Post War Italy, 1945-57, Catalogo della mostra, New York, Columbia University, 1958. 649 “Cubism gave man a new dimension which has had to be incorporated in all the painting done since, just as all painting after the fifteenth century had to be in perspective. The contribution of Picasso and Braque in Synthetic Cubism is of the same order as that of Masaccio in the Brancacci Chapel”(Il cubismo aveva dato una nuova dimensione che divenne indispensabile in ogni dipinto, proprio come dopo il quindicesimo secolo tutti i dipinti dovevano avere la prospettiva. Il contributo di Picasso a Braque con il Cubismo sintetico ebbe lo stesso peso di quello di masaccio nella Cappella Brancacci.) (Milton Gendel, “Art News”, estate, 1955, cit., p. 44). 650 Roma, ottobre, 1954, Giornale di pittura, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 10.

—159— la progressiva eliminazione dell’oggetto, l’adozione di una struttura di linee e di piani, e l’introduzione di colori muti ma luminosi, di natura terrosa in quanto vicini alla tonalità ocra e ai colori di terra, che rendono una sensazione profonda e drammatica652. Nonostante questi cambiamenti, rimaneva inalterata, per Gendel, la passione di Scialoja per gli effetti atmosferici e le allusioni ai soggetti visti in natura prima della creazione di un’opera. Il critico cita in seguito un gruppo di opere dell’artista che erano state presentate nel 1954 in una mostra a Milano, riferendosi quindi alla personale di Scialoja presso la Galleria Il Milione653. Le opere esposte erano state create dall’artista a Procida, dove soggiornava spesso durante l’estate: queste presentavano una particolare attenzione all’interazione tra spazio, luce e colore in ambienti interni ed esterni, osservati attraverso una finestra o una porta aperta654. Questi quadri nascevano dall’osservazione di tali elementi, quindi dal mondo degli oggetti. Arturo Quinto Quintavalle sottolinea, nella sua monografia su Scialoja, come le opere nate tra il 1952 e il 1954 sembrino apparentemente legate a una tradizione postcubista, ma in realtà hanno origine da una ricerca diversa, che svela una particolare attenzione alla luce. Il critico prosegue ponendo come modello, più che Picasso, come affermato da altri critici il Boccioni degli Stati d’animo655. Scialoja fermava le impressioni che riceveva dal mondo esterno in un blocchetto di schizzi, con alcuni tratti veloci. Gendel si sofferma a descrivere la realizzazione di due opere di questa serie, Finestra rosata e Finestra scura 656. Entrambe nascono da un medesimo schizzo dell’artista relativo a un raggio di luce brillante che filtrava attraverso una doppia porta semiaperta. Questo disegno, rimasto nella scrivania del pittore per un certo periodo, funse da ispirazione per le opere: una, però, fu realizzata con colori caldi che ricordano il tramonto, l’altra con colori freddi, neri, blu e grigi.

651 Le opere di Scialoja furono esposte al Padiglione Italiano, nella sala XIII: 32. Natura morta, 1954; 33. Natura morta, 1954; 34. Natura morta, 1954; 35. Natura Morta, 1954; 36. Natura Morta, 1954 (cfr. Catalogo della XXVII Esposizione internazionale Biennale d’Arte, Venezia, 1954) 652 Toti Scialoja: opere 1955-1963, a cura di Fabrizio D’Amico, Skirà, Galleria Lo Scudo, Milano 1999. 653 Toti Scialoja, Milano, Galleria del Milione, 14-29 Ottobre, 1954. La rassegna incluse 32 opere. 654 Tutte le opere hanno, infatti, un titolo che rimanda ad oggetti. 655 Arturo Carlo Quintavalle, op. cit., pp. IX-X. 656 Roseate Window e Dark Window, nel testo in inglese (Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, 1955, cit., p. 45).

—160— Dopo questa breve introduzione all’opera e alla poetica di Scialoja, Gendel entra nel vivo della descrizione della tecnica dell’artista. Scialoja era un pittore rapido, che finiva le sue opere a volte in un solo pomeriggio, e a volte, quando si trattava di opere più grandi, in due. Il completamento dell’opera era invece relativo, e l’autore spesso rimaneggiava i suoi lavori, apportando cambiamenti anche in grandi zone del dipinto. Nessuna tela poteva quindi dirsi veramente finita prima che fosse completata tutta la serie di dipinti: questi erano una sorta di flusso di opere che si influenzavano l’una con l’altra. I suoi lavori erano come qualcosa di vivo, di organico; a esse l’artista era legato da una grande intimità e con esse instaurava un legame quasi personale. Se alcune tele non lo soddisfacevano, venivano raschiate e riutilizzate, sia per una motivazione pratica, sia perché l’artista stesso rifiutava la possibilità che le opere neglette continuassero a esistere. È molto interessante la descrizione dell’ambiente in cui lavorava Scialoja, che dà un’idea di come il pittore potesse percepire la luce e le variazioni atmosferiche che poi si riflettevano nei suoi dipinti. Si trattava di uno studio all’ultimo piano di un condominio romano, esposto a sud-est, in cui la luce penetrava costantemente e in tutte le sue gradazioni attraverso alte finestre, che fungevano da diaframma tra luce esterna e interna. Il pittore amava dipingere di sera, quando la luce aveva una qualità più “tonale”. Gendel descrive accuratamente il procedimento e le sostanze adoperate dall’artista per la realizzazione di Finestra Scura. Creata su una vecchia tela, opportunamente raschiata e trattata con trementina, l’opera viene posta sul cavalletto, e su di essa viene tracciato uno schizzo. L’opera astratta, come evidenzia anche il sottotitolo dell’articolo, nacque dall’osservazione della doppia porta socchiusa: le parti verticali sarebbero le ante aperte, le due parti a trapezio una visione dei pannelli della stessa, la protuberanza sulla sinistra e la cavità sulla destra la serratura e la maniglia. Questa identificazione delle parti costituenti il dipinto sono estremamente interessanti e forse per la prima volta fu colto così da vicino il nesso tra le opere astratte di Scialoja e la realtà da cui erano ispirate. La struttura del dipinto venne tracciata da Scialoja con dei gessi a olio perché si armonizzava molto bene con l’impiego di terre e le aree più ampie furono realizzate con una spatola. L’aspetto strutturale, infatti, gioca un ruolo fondamentale nelle opere di questo periodo. Anche Dore Ashton, nel suo articolo su Scialoja in “Arts and

—161— Architecture” del settembre del 1955657 sottolineò come i dipinti di Scialoja, nonostante la sperimentazione, fossero sempre “good, structural painting”(buone pitture strutturali). Gendel descrive esattamente quali furono i colori usati dall’artista, citandone anche la marca: il bianco di zinco “Maimieri”, il marrone scuro “Windsor & Newton”, la terra d’ombra verde “Lukas”; Scialoja li mescolava con pomice e trementina, che serviva a far essiccare meglio i colori. Dall’articolo di Gendel si apprende come Scialoja rimaneggiasse più volte i suoi quadri alla ricerca di un'armonia generale dei toni e delle linee. In particolare, Gendel riporta un aneddoto secondo cui l’artista venne anche criticato da un amico-editore romano, che, in seguito alle modifiche apportate a Finestra rosata, aveva detto all’artista che aveva rovinato un bel quadro; Scialoja aveva risposto affermando che la bellezza che lui cercava era quella in cui si trasmetteva contemplazione, calma, ordine e luminosità. A corredo dell’articolo sono pubblicate numerose fotografie di Josephine Powell. Le immagini ritraggono il pittore all’opera di Dark Window(Finestra Scura) in otto diversi scatti e la tela stessa viene fotografata nei diversi stadi di avanzamento fino al risultato finale. Gendel manterrà sempre un rapporto di amicizia e stima con Toti Scialoja. Il critico, infatti, scriverà in seguito altri due testi per l’artista. In particolare, nell’Introduzione al Catalogo della personale di Toti Scialoja presso la Marlborough Gallery a New York, nel 1973658, affermerà che “Toti Scialoja and his art are (…) a towering contemporary presence and at the same time command a long perpective to the past” 659.

5.2. Interviste

Milton Gendel realizzò per “Art News” due interviste: la prima a Renato Guttuso, nell’aprile del 1958660, in occasione della sua prima personale a New York, e la seconda

657 Dore Ashton, “Arts & Architecture”, settembre, 1955, cit., p. 7. 658 Toti Scialoja, New York, Marlbourogh Gallery, 1973. 659 Milton Gendel, 1973, ripubblicato in Arturo Carlo Quintavalle, op. cit., pp. 65- 66: “Toti Scialoja e la sua arte sono (…) una torreggiante presenza contemporanea, e allo stesso tempo dominano una lunga prospettiva verso il passato”. 660 Milton Gendel, Guttuso: a Party Point of view, “Art News”, vol. 57, n. 2, aprile 1958, pp. 26-27, 59- 61.

—162— a Balthus nell’aprile del 1962661, per la sua nomina a Direttore dell’Accademia di Francia a Roma. I testi non vennero presentati nella consueta rubrica Art News From Rome, ma furono pubblicati nella sezione Articles, corredati da riproduzioni di alcune opere degli artisti e da una fotografia che li ritrae: quella di Guttuso è stata probabilmente scattata da Gendel662, mentre quella di Balthus, concessa da “Life”, è di Loomis Dean, come viene indicato nella didascalia663. I due artisti avevano in comune uno stile legato al realismo, anche se con esiti molto differenti: dai brani emergono i ritratti di due figure solitarie, che per scelta ideologica o per carattere avevano intrapreso una strada lontana dalle mode e dalle tendenze più in voga del momento. L’intervista a Guttuso cerca di mettere in luce soprattutto il pensiero artistico e le idee politiche del pittore, nelle quali si legge anche una certa distanza con l’intervistatore; il dialogo con Balthus è, invece, più intimo e personale, fatto dovuto anche alla ritrosia dell’artista a parlare della propria poetica e delle sue opere. I testi seguono la consueta politica artistica perseguita da “Art News”, in cui si cerca di riportare il pensiero dell’artista, piuttosto che subordinarlo a una lettura critica esterna. I due pittori vengono interrogati circa le motivazioni stilistiche e la loro poetica: le domande di Gendel sono acute e, talvolta, soprattutto per quanto riguarda Guttuso, pungenti. Si nota, in parte, la volontà dell’autore di far parlare gli artisti proprio sulle tematiche che non vorrebbero affrontare: Guttuso viene continuamente spinto a discutere dei suoi ideali politici e Balthus è messo di fronte alle varie letture critiche delle sue opere. In questo modo l’autore riesce a ricreare le personalità dei due pittori, dipingendone due ritratti molto caratteristici. In entrambe le interviste vi è, inoltre, l’interesse di Gendel di conoscere la posizione di due artisti così lontani dalle ricerche contemporanee, sulla pittura astratta e sugli artisti più all’avanguardia.

661 Milton Gendel, H. M., the King of Cats: a footnote, “Art News”, vol. 61, n. 2, aprile 1962, pp. 37-38, 52-54. 662 Non compare, infatti, nessuna indicazione e si può presumere quindi che sia di Gendel. 663 La fotografia è ambientata nella tenuta di Chassy di Balthus, e lo ritrae con la nipote, che posa da modella, nell’attitudine tipica delle figure femminili dei suoi quadri. (Loomis Dean, Balthus, “Art News”, aprile 1962, p. 37).

—163— L’articolo su Guttuso venne pubblicato in occasione della prima personale dell’artista a New York presso la Aca Gallery nell’aprile del 1958664. Gendel si era già occupato di Guttuso in occasione della Biennale di Venezia del 1956665, e lo recensirà anche in seguito nella rassegna veneziana del 1958666. L’artista aveva già partecipato a numerose collettive negli Stati Uniti, come per esempio, XXth Century Italian Art presso il MoMA di New York nel 1949667, Five Italian Painters presso la Catherine Viviano Gallery668, e Contemporary Italian Paint- ing a Boston669, entrambe nel 1950; Painting and Sculpture Acquisitions presso il MoMA di New York nel 1957670, e, infine, Art Work f Draftsmen-Sixty from U. S. and Italy presso la “G” Gallery a New York671. Nella mostra presso la Aca Gallery Guttuso presentò numerose opere che documentavano l’ampiezza delle tematiche che aveva trattato nel corso della sua carriera: i quadri andavano dalle nature morte ai paesaggi, ma veniva dato particolare peso alla serie di dipinti che coglievano l’uomo sociale “collettivo”, come, per esempio, ne La discussione (cat. gen. 57/85)672. In queste opere, cariche di grande vitalismo, si é parlato di passaggio da un realismo “sociale” a uno di carattere "esistenziale", per il riferirsi alla meditazione sulla condizione dell'uomo, in cui si cerca di registrare la vita con verità umana673. La personale del 1958 venne presentata da James Thrall Soby, Douglas Cooper e da una lettera di Roberto Longhi. Nel catalogo Soby definiva Guttuso un artista anti-grazioso, audace, forte, intelligente, “che non aveva mai avuto paura della volgarità quando questa gli era servita per rialzare l’effetto emotivo dei suoi quadri” 674. Cooper, invece, sebbene lo definisse un pittore che dipingeva con l’immediatezza e la forza di un artista

664 Renato Guttuso, New York, Aca-Gallery, 7-28 aprile 1958. 665 Milton Gendel, The Iron-Courtain at the Glass Factory, “Art News”, settembre 1956, pp. 24-25. 666 Milton Gendel, Art News from Rome, “Art News”, settembre 1958, pp. 50-51. 667 XXth Century Italian Art, New York , The Museum of Modern Art, luglio-settembre 1949. 668 Five Italian painters, New York, Catherine Viviano Gallery, (con Afro, Cagli, Morlotti e Pizzinato), gennaio-febbraio, 1950, 669 Contemporary Italian Painting, Boston, The R. K. Markson Collection, dal 14 settembre 1950. 670 Paintings and sculpture aquisitions, New York, The Museum of Modern Art, 1-31 gennaio, 1957. 671 Art Work f Draftsmen-Sixty form U. S. and Italy, New York, “G”Gallery, marzo 1957. 672 Enrico Crispolti, Catalogo ragionato generale dei dipinti di Renato Guttuso; con una prefazione di Natalino Sapegno, note di Antonio Del Guercio sulla fortuna critica e lettera di Renato Guttuso a Francesco Pellin, Mondadori & associati, Milano 1983, pp. XXXVIII. 673 Enrico Crispolti, Ivi., pp. LII. 674 James Thrall Soby, Renato Guttuso, testo in catalogo della personale presso la Aca- gallery di New York, 1958 (ripubblicato in: Guttuso, con testi di Guttuso, De Micheli, Soby, Russoli Sciascia Longhi, Vittorini et. al., Fratelli Fabbri editori Torino 1976, p. 4).

—164— primitivo, tuttavia trovava negativo il suo “aspetto polemico, internazionale e tragico, nel quale l’artista si serve di mezzi espressionistici per imprimere su di noi l’orrore delle terribili componenti di oppressione, di vittime e ripetuti martiri”; […] “sembra che Guttuso tenda troppo spesso a cercare la sua ispirazione in un’idea piuttosto che in una esperienza visiva.” Il critico, però, proseguiva sottolineando come la sua pittura non fosse reazionaria ma aggiornata, e indicava come precedenti David e Courbet, aggiungendo infine che “Il linguaggio e il colore di Guttuso sono essenzialmente contemporanei”675. Si può leggere, nella recensione di Cooper, quasi una lettura della figurazione come un segno di estroversione, confrontato con l’introversione dei pittori astratti contemporanei. Dai testi nel catalogo si può, forse, notare come la presentazione di Guttuso cerchi di eludere il più possibile il riferimento alla politica: nell’introduzione all’intervista di Gendel, infatti, vi è una didascalia che afferma che l’esposizione “escludes some of his furius attacks on the west”cioè che escludeva alcuni dei suoi feroci attacchi al mondo occidentale676. L’impostazione di “Art News” fu invece differente. Nel numero di aprile della rivista, infatti, veniva proposto come filo conduttore di un gruppo di articoli, di cui quello di Gendel fa parte, l’argomento Art and Artists under Communism (Arte e artisti sotto il Comunismo): dal sommario si apprende che i brani avrebbero dovuto indagare How Art Exist under Communism. In questa sezione comparivano un brano di Ella Winter, “El Lissitski: a Revolutionary out of Favour 677, uno di Andrè Chastel, “Leningrad. French master of the hermitage 678 e uno di A. Hyatt Mayor, Budapest: Great Drawing from Noble Collection 679. Già dall’impostazione del fascicolo, è quindi chiaro che nell’intervista Gendel cercherà di mettere in luce anche le posizioni politiche di Guttuso: ovviamente, si nota il tono provocatorio di alcune sue domande, che, come è tipico del critico, cercano di arrivare al punto senza troppi giri di parole. Nel sottotitolo del brano, Guttuso viene presentato come campione del realismo socialista: “Europe’s

675 Douglas Cooper, Istinto e vita, colore e umanità, in Guttuso, Catalogo della personale presso l’ ACa Gallery di New York, 1958 (ripubblicato in Guttuso, 1976, op. cit , p. 14. ) 676 Milton Gendel, Guttuso: a Party Point of View, gennaio 59, cit., p. 26. 677 Ella Winter, El Lissitsky: a Revolutionary out of favour, “Art News”, vol. 57, n. 2, aprile 1958, pp. 28-29. 678 Andrè Chastel, Leningrad. French Master of the Hermitage, “Art News”, , vol. 57, n. 2, aprile 1958, pp. 33-34. 679 A. Hyatt Mayor Budapest:Great Drawing from Noble Collection, “Art News”, , vol. 57, n. 2, aprile 1958, pp. 32, 54.

—165— leading socialist realist justifies his position”680; da questo si deduce che il testo sarà impostato su una lettura critica dell’opera di Guttuso, pur offrendo all’artista siciliano anche un’occasione per chiarire le proprie idee al pubblico americano in maniera diretta. La prima parte della conversazione si concentra, infatti, sull’eventuale significato politico dei dipinti di Guttuso. Uno dei primi argomenti affrontati è il dipinto Boogie Woogie681: l’opera, eseguita nel 1953, era stata presentata nel padiglione italiano del 1954 alla Biennale di Venezia. Alfred Frankfurter, che aveva recensito la rassegna nel settembre del 1954682, aveva pubblicato un’immagine del dipinto e, nella didascalia, aveva scritto che l’opera era una critica alla società americana e aveva aggiunto che presentava sullo sfondo una caricatura di Mondrian. Gendel, come prima domanda, chiede all’artista di spiegare quali fossero state le sue intenzioni nel realizzare il dipinto. Il pittore nega ogni lettura esplicitamente moralistica e rivolta contro i costumi americani, e sottolinea che il riferimento a Mondrian non era in chiave negativa, ma in omaggio all’artista, autore di Broodway Boogie-Woogie. Guttuso ridimensiona la carica polemica delle proprie opere e lamenta la tendenziosità di molte recensioni e critiche sui suoi dipinti: nel 1951, ricorda, il clima artistico in Italia era diventato molto teso, dovuto all’inasprimento della “battaglia” tra il realismo e l’astrattismo, e la sua opera era diventata, in quell’occasione, il bersaglio di critiche inopportune e forzate. Il dipinto Boogie Woogie era stato visto dalla critica come un cambiamento nella poetica dell’artista, che aveva mutato il suo caratteristico realismo sociale da una polemica proletaria a una considerazione sulla realtà collettiva: non venivano proposti, infatti, temi di lotta di classe, ma una scena di svago, in cui l’artista si apriva a un discorso sulla pluralità del reale683. L’opera, se non vi si può leggere un esplicito messaggio anti-americano, come era stato percepito da Frankfurter, ha comunque una visione che non è certo ottimista sulla società contemporanea, e sottolinea l’aspetto grottesco delle mode e dei miti di massa. L’autore stesso aveva dichiarato che, all’inizio, aveva pensato di contrapporre nel quadro due balli, il Boogie-woogie, cioè un

680 Milton Gendel, Guttuso: a Party Point of View, aprile 1958, cit., p. 26: “il campione del realismo socialista giustifica le sue posizioni”. 681 Boogie-Woogie, 1953, olio su tela, cm. 169x205. Coll. Privata, Milano. (cat. generale n. 53/28, p. 283). 682 Alfred Frankfurter, European speculations: Modern Art and Marco Polo, “Art News”, settembre 1954, pp. 23-25, 50-51. L’opera è riprodotta a pag. 25. 683 Enrico Crispolti, op. cit., p. XIII

—166— ballo di moda importato dall’America o dalla Francia, e un ballo popolare italiano, la balera. Il quadro era, quindi, per il pittore, dedicato alla gioventù e riproduceva “questa moda esistenzialista così come è arrivata a Roma, dove ha un’aria ancor più grottesca che altrove, dove è diventata una mascheratura, una brutta copia della moda parigina”684. Il quadro aveva anticipato la poetica espressa in La spiaggia, opera presentata alla Biennale di Venezia del 1956685, in cui il pittore avrebbe accentuato la carica vitalistica686. Come si è visto, Gendel aveva scritto dell’opera nel suo resoconto sulla rassegna veneziana: dalla recensione si può intuire che il critico, da un lato, considera Guttuso una “macchina del realismo socialista”, dall’altro, riconosce la sincerità dei suoi dipinti, e quell’esuberanza espressiva che era stata sottolineata anche dalla critica contemporanea687. Lo stesso Longhi, infatti, nella lettera edita nel catalogo della mostra newyorkese, aveva definito Guttuso un “pittore di Vita” e aveva sottolineato che nel lavoro dell’artista vi si trovava una “irrompente vitalità”688. E forse non è un caso che Gendel gli chieda in che modo si considerava siciliano: la risposta di Guttuso sottolinea, in particolare, la propria forza di carattere e la volontà di collegare la carica vitalistica della propria pittura con il tipico “temperamento mediterraneo”: “When I see a sunset I see the red as redder and the blu as bluer”689. Nella recensione della rassegna veneziana del 1956, Gendel aveva sottolineato l’aggiornamento stilistico delle opere dell’artista, e le aveva confrontate con quelle presenti nel Padiglione russo: parlando con il prof. Niedoscivin, aveva affermato che le opere di Guttuso sembravano molto più contemporanee rispetto a quelle russe. Nell’intervista, Gendel chiede a Guttuso di esplicitare la propria ideologia politica, e in particolare di motivare la sua scelta a fronte degli eventi succedutisi dopo la rivolta in Ungheria690, quando molti intellettuali italiani avevano moderato la loro posizione. Guttuso rispose più genericamente che non voleva interferire con la coscienza degli

684 G. C., Boogie-Woogie e ballo popolare, “Noi donne”, Roma, 1 novembre 1953. 685 Milton Gendel, The Iron-Courtain at the Glass Factory, cit., pp. 24-25. 686 Il dipinto è stato trattato nel capitolo III, p. 94. 687 Ibidem. 688 Il testo di Longhi qui citato è stato citato nella versione originale: Roberto Longhi, Lettera per la Mostra di Guttuso a New York, 1958, “Paragone”, a. IX, n. 101, maggio 1958, Sansoni Editore, Firenze, pp. 72-72. 689 Milton Gendel, Guttuso: a Party Point of View, april 1958, cit., p. 59: quando vedo un tramonto vedo il rosso più rosso e il blu più blu). 690 La rivoluzione ungherese del 1956 fu duramente repressa dall’Unione Sovietica, causando lo sgomento di molti intellettuali comunisti in Italia.

—167— individui e chiedeva solo fosse rispettata la sua. A volte, il critico incalza esplicitamente l’artista per quanto riguarda l’U.R.S.S. e la mancanza di libertà d’espressione nei paesi sovietici. Per esempio, quando Guttuso afferma che solo un artista poteva auto-limitare la propria libertà, il critico gli chiede provocatoriamente se questa affermazione fosse valida anche sotto il regime di Stalin. Proseguendo l’intervista, Gendel chiese a Guttuso di spiegare il proprio percorso artistico, tracciando così una breve storia dell’artista, come aveva fatto anche per Scialoja. L’artista parla brevemente della tradizione del realismo italiano, dagli esordi sotto il fascismo in opposizione alla pittura ufficiale, attraverso il Tonalismo e “una certa pittura neo espressionista”, facendo i nomi di Morlotti, Birolli, Cassinari e Vedova. In particolare, come si è già sottolineato nel secondo capitolo, Guttuso mette in luce l’importanza di Picasso nelle sue scelte stilistiche, e dice di aver portato per anni nel portafoglio l’immagine di Guernica. L’artista, inoltre, ricorda i suoi esordi nello studio di Pippo Rizzo, un pittore palermitano futurista presso il quale aveva studiato ai tempi del liceo. Significative sono anche i pareri sulla pittura contemporanea informale e sull’action painting, che Gendel chiede a Guttuso, tenendo conto, non solo che il brano era per una rivista americana e in occasione di una mostra a New York, ma anche che lo stesso anno era giunta in Italia alla Galleria Nazionale Moderna di Roma la retrospettiva di Pollock. Guttuso, infatti, nomina proprio l’artista americano e si confronta così con la sua poetica:

“I find Pollock one of the most interesting painters of the postwar period, even thug I am not in agreement with what he does […] My point of view is not exclusive. I believe in figurative art. If I believed in abstract art I would paint that way. But this don’t prevent me from distinguishing a true experiment from a formalist one.”691

Guttuso, quindi, riconosce la validità della sperimentazione di Pollock, pur continuando a credere nella pittura figurativa. Egli si era confrontato con le ricerche artistiche piú

691 “Trovo Pollock uno dei pittori più interessanti del dopoguerra, anche se non sono d’accordo con quello che fa. Il mio punto di vista non è esclusivo. Io credo nella pittura figurativa. Se avessi creduto nella pittura astratta avrei dipinto in quel modo. Però questo non mi impedisce di distinguere una vera sperimentazione da un banale gioco formale” (Milton Gendel, Guttuso: a Party Point of View, gennaio 1958, cit., p. 59).

—168— sperimentali anche nel 1957, sulle pagine della rivista “Paragone”. Qui il pittore aveva dimostrato di avvertire che vi era un' esigenza di rinnovamento nel realismo, che non poteva rischiare di cadere nell'accademismo vuoto e superficiale, come accadeva alla pittura russa. L'artista vedeva nella pittura “informale” e nel realismo una comune esigenza di un contatto profondo con il reale, che veniva però messo in atto con metodi opposti. Come soluzione finale, Guttuso non auspicava un compromesso tra le due tendenze, ma la creazione di una situazione nuova, di un qualcosa “d'altro”, perché l'atteggiamento dell'informale era ancora quello “estetico d'avanguardia, che andava di fatto superato” 692. Enrico Crispolti, nel Catalogo generale dei dipinti di Guttuso, sottolinea come il pittore, nel 1958, fosse molto interessato ai risvolti della pittura informale, seppur costituisse per lui un polo dialettico opposto: Guttuso aveva compreso che stava prevalendo la pittura informale europea e americana, come aveva dimostrato l’ultima Biennale di Venezia. Questo, però, fu per l’artista un motivo di rinnovamento, nel senso di una maggiore adesione al concreto e al reale, adottando però modi di figurazione più sciolti, segnici e gestuali. Proseguendo l’intervista di Gendel, Guttuso rilascia altre affermazioni interessanti:

“In these movements (abstract expressionism n. d. r) there are very important personalities who have thought me things and whom I view with respects as one does any one who teaches you something693”.

Guttuso dice di aver imparato qualcosa dalla pittura “astratta”. Per chiarire meglio quale insegnamento intendesse l’artista, si può far riferimento ad alcune sue dichiarazioni dello stesso anno su Pollock apparse su “Il Contemporaneo”. Guttuso, infatti, in occasione della retrospettiva romana sull’artista newyorkese, aveva dichiarato che apprezzava il pittore e che da lui aveva imparato “che certe volte uno può buttare il suo

692 Nello stesso fascicolo vennero pubblicati i saggi di Francesco Arcangeli, Una situazione non improbabile, che é una professione di fiducia nell'arte informale, e di Giovanni Testori, Realtá e natura, in cui si accusava il realismo di essere diventato "servo"dei meccanismi politici. Cfr. "Paragone", gennaio 1957, citato in Enrico Crispolti, op. cit., pp. XXVI- XXXII). 693 “In questi movimenti ci sono personalità molto importanti che mi hanno insegnato cose e che io vedo con il rispetto che si deve a chi ti insegna qualcosa”. (Milton Gendel, Guttuso: a Party Point of View, cit., p. 27).

—169— cuore ancora più avanti”694. L’artista siciliano riconosceva in Pollock una “certa disperazione” e una presenza del reale, che si manifestavano in un “groviglio di esperienze culturali e di sentimenti e passioni confuse”: vi era quindi una carica emotiva sincera e umana. Quello che Guttuso contestava a questo tipo di pittura era la tendenza decorativa e il pericolo di abbandonarsi a un “edonismo soddisfatto”: per questo proprio il quadro più famoso di Pollock, One, era il suo quadro più debole. Nel lavoro dell’artista americano, Guttuso trovava “la soddisfazione puramente formale, estetizzante, […] e la disperazione che gli viene dalla coscienza dei limiti di un simile procedimento”695. L’intervista di Gendel prosegue cercando di chiarire la posizione del pittore in merito all’arte socialista. Gendel chiede a Guttuso se pensa che un artista debba rispondere alle reazioni di un largo pubblico o a un ristretto numero di intenditori, e qui sembra riferirsi alle polemiche espresse dal prof. Niedoscivin nella Biennale del 1956 e a quelle di Romanov nel già citato articolo di Afred Barr Jr.696. La risposta del pittore è che la pittura doveva cercare di essere compresa dal numero maggiore di persone possibile. Alla fine dell’intervista, Guttuso ribadisce la propria posizione solitaria nella panoramica artistica internazionale, affermando, “I’ve always been alone”: l’artista non cercava di uniformarsi agli stili di tendenza, e si trovava ugualmente distante dal realismo sovietico quanto dall’informale americano. La Russia, infatti, pur essendo ideologicamente più vicina all’artista, non apprezzava i suoi dipinti, come afferma lui stesso, poiché i vecchi pittori lo consideravano un formalista. Si ricorda a questo proposito che anche il prof. Niedoscivin aveva affermato che le sue opere non rappresentavano il Realismo socialista697. Paradossalmente, in Russia, il pittore, non aveva mai avuto una personale, mentre molte sua opere apparivano in collezioni americane ed erano state esposte in mostre collettive. L’artista cercava con questa personale alla Aca Gallery, di poter rappresentare una proposta figurativa negli Stati Uniti, e a Gendel sottolineò come il suo scopo fosse

694 Sulla rivista vi era un dibattito sull’artista tra Guttuso, Trombadori, Del Guercio, Morosini e Micacchi, in cui prevaleva una ricezione negativa dell’opera di Pollock, che era vista come un’alienazione dai fatti della realtà, una scelta quasi di inerzia. Morosini vi riconosceva, però una forza straordinaria e una rivota di tipo “anarcoide”. (Il caso di Jackson Pollock, “Il Contemporaneo”, (n. 1-2), Roma, 1 aprile maggio 1958, pp. 113-133. ) 695 Ibidem. 696 Alfred Barr Jr., Reply to Mr. Barr’s Abstract Souvenir, “Art News”, vol. 60, n..,gennaio 1962, p. 30. 697 Milton Gendel, The Iron-Courtain at the Glass Factory, settembre 1956, cit., pp. 24-25.

—170— quello di comunicare con le persone e non con “i socialisti o non–socialisti”. In queste affermazioni si legge quindi la volontà dell’artista di essere considerato una valida alternativa pittorica, al di là di significati e intenti politici. In tutta l’intervista, infatti, Guttuso sembra voler ridimensionare le letture i messaggi ideologici dei suoi quadri, lamentando che “I have no intention of making propaganda for the overthrow of the US government, I have painted very few political themes in my life, but they see propaganda even in my still lifes”698. L’artista cerca quindi di far valere la propria posizione artistica, cercando di mettere in luce la ricerca sociale e soprattutto umana, e facendo passare in secondo piano l’ideologia. “Art News”, però, titola il brano: Guttuso: a Party Point of View. Nell’aprile del 1962 Gendel ebbe l’occasione di intervistare Balthus. Il pittore era famoso per la sua ritrosia a parlare della propria attività e, ancora di più, a rilasciare interviste. Balthus , infatti, concesse poche interviste e non rilasciò quasi mai dettagli sulla propria vita. A questo proposito, estremamente significativo è il telegramma con cui Balthus rispose alle richieste pressanti di informazioni biografiche da parte di John Russel per il testo di presentazione della retrospettiva dedicata all’artista dalla Tate Gallery nel 1968:

“No biografical details. Begin: Balthus is a painter of whom nothing is known. Now let us look at the picture”.699

Nel sottotitolo dell’intervista per “Art News”, Balthus viene presentato come “elusivo, in-intervistabile e un enigma internazionale”. Gendel spiega, infatti, che l’artista provava un certo disdegno per le classificazioni della società di massa e non amava troppo il giudizio del pubblico: la sua reazione all’interesse dei curiosi era semplice e diretta, cioè “he simply shuts the door”. Elegante, sui cinquanta, il pittore era cambiato molto poco nella sua apparenza, come le sue opere: “handsome, youthful, tall, lean, polished, refied, elegant, measured elusive, warm and affable”700, queste le parole con cui lo descrive Gendel.

698 Milton Gendel, Guttuso: a Party Point of View, gennaio 1958, cit., p. 61: “non ho nessuna intenzione di fare propaganda per rovesciare il governo americano; ho dipinto pochi quadri politici nella mia vita, , a vedono propaganda anche nelle mie nature morte”. 699 Sabine Rewald, op. cit., p. 1.

—171— La figura di Balthus era sempre apparsa come quella di un pittore solitario e isolato, ma in realtà aveva numerose amicizie ed una vita familiare molto accogliente; ai suoi amici permetteva di curiosare tra le sue opere e anche di fare domande sul loro significato, tollerandole pacificamente “like a cybernetic engineer permitting a pal who can have no knowledge of the mechanism to feed frivolous question to a computer701. La sua famosa riservatezza contrastava, inoltre, con il nuovo ruolo pubblico che aveva assunto: Balthus, infatti, era stato nominato direttore dell’Accademia di Francia a Roma il 5 febbraio 1961, in sostituzione di Jacques Ibert. Il contratto in seguito gli fu rinnovato e il pittore rimase a capo dell’Accademia per sedici anni. Come si apprende dall’intervista, Balthus aveva accettato l’incarico "for frienship-s sake", cioè in nome dell'amicizia che lo legava a André Malroux, ministro della cultura francese702. Questa nomina aveva provocato non poche controversie, e aveva visto contrapposto il candidato di Malroux a quello de l'Academie des Beaux Arts, che aveva proposto Yves Brayer, ex Grand Prix de Rome; proprio il fatto che Balthus non avesse vinto tale onorificenza aveva fatto scattare la polemica di coloro che accusavano il ministro francese di autoritarismo. Malraux voleva ridare lustro all'istituzione, perché la riteneva ormai prigioniera di un certo accademismo: la candidatura dell’artista era segno di volontà di rinnovamento e di trasformazione. Sotto la guida di Balthus, l'edificio storico di Villa Medici, sede dell’Accademia, venne restaurato completamente, dalla copertura alle fondamenta; si cercò di eliminare l'“infelice arredamento” (così lo definì lo stesso Balthus) dell’ ultimo secolo, per ridargli il suo stile originario703. Durante i lavori, fu notevole la scoperta di alcuni affreschi. Questa operazione di restauro non avvenne secondo un metodo scientifico o storico preciso, ma seguí piuttosto il gusto del pittore, che poté agire in completa autonomia e godere di ampi finanziamenti, visto che godeva del completo appoggio del Ministro

700 Milton Gendel, H. M. Kings of Cat, gennaio 1962, cit., p. 37: “affascinante, giovanile, alto, magro, raffinato, elegante, misuratamente sfuggente, caloroso ed affabile”. 701 Milton Gendel, H. M. Kings of Cat, gennaio 1962, cit., p. 37: “come un ingegnere cibernetico che permette ad un amico che non capisce assolutamente niente del macchinario di fare domande frivole sul computer”. 702 Balthus conobbe Malraux in Svizzera negli anni Quaranta, e i due mantennero un forte legame quando Balthus si trasferì a Parigi. 703 Annick Lemoine, Balthus a Villa Medici (1961-1977), in Balthus, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 2001), a. c. di Jean Clair, Bompiani, Venezia 2001, pp. 103-119.

—172— della Cultura. Nell'intervista fatta da Gendel, Balthus sembra molto soddisfatto dell'andamento dei lavori. Nell’intervista, Gendel prova più volte a spingere l’artista a parlare delle sue opere o delle sue idee sulle letture critiche che ne venivano fatte, ma con scarso risultato. Balthus, infatti, afferma con sicurezza che non ne avrebbe parlato e che non amava discuterne in generale: “No. There is no point, unless with other artists. (. . )But with those who don’t paint, what is there to say”704. Svanito il tentativo di sentire dei commenti sulle sue opere, Gendel prova a coinvolgere Balthus nel commentare le critiche di alcuni autori recenti, ma l’artista rimane elusivo e vago. Alla domanda sull’interpretazione erotica dei suoi quadri, per esempio, Balthus risponde in modo scettico, sostenendo che chi li definiva tali, non conosceva abbastanza la sua opera. Gendel tenta anche di far esprimere il pittore su una recente affermazione di un critico americano, che aveva visto in Balthus una forma di “escapism”, cioè di un’evasione della realtà, ma questi risponde con il suo ormai celebre sorriso ironico. Come di consueto, Gendel chiede all’artista di raccontare il proprio percorso stilistico, che a Balthus riesce solo a fare abbozzare: una formazione da autodidatta, avvenuta copiando al Louvre, e studiando Masaccio e Piero della Francesca durante un viaggio di un anno in Italia durato un anno. Il pittore cita gli artisti e gli amici, con cui amava confrontarsi, come Giacometti, il suo amico più caro, Bonnard, Derain, Matisse, Leger e Arp. Un punto molto interessante dell’intervista è quando Gendel, come per Guttuso, chiede all’artista francese la sua posizione in merito all’arte astratta; Balthus risponde:

“I can’t understand this artificial battle between the figurative and the abstract. Before the war there was no troble. There was, as always, good painting and bad, and some of the good was abstract” 705

L’artista, che amava dipingere nella sua tenuta di Chassy, si era isolato dal mondo artistico e, da alcuni anni, dipingeva da solo, vedendo poche persone: si manteneva

704 Milton Gendel, H. M. Kings of Cat, gennaio 1962, cit., p. 38: “No, è inutile, se non con altri artisti. Ma con quelli che non dipingono, cosa c’è da dire”. 705 “Non posso capire questo conflitto artificiale tra arte figurativa e arte astratta. Prima non c’erano problemi. C’era solo, come sempre, buona o cattiva pittura, e alcuni buoni quadri erano astratti”. (Milton Gendel, H. M. Kings of Cat, gennaio 1962, cit., p. 52.

—173— quindi al di fuori di qualsiasi dibattito artistico, mantenendo la sua posizione artistica come una scelta personale e non ideologica. L’opposizione tra figurazione e astrattismo gli sembrava creata negli ultimi anni artificialmente, senza nessun motivo. Molto interessante è, inoltre, come Gendel sottolinei la mancata ricezione dell’opera di Balthus in Italia. Nell’Intervista afferma che, parlando con un gruppo di artisti romani, aveva appreso che questi lo consideravano addirittura uno scenografo (mentre in realtà aveva realizzato solo poche scenografie), e che l’esposizione di Balthus presso la galleria L’Obelisco nel 1958, non aveva ricevuto nessuna attenzione. Lo stesso artista sembra non ricordarsi dell’esposizione romana, tanto che afferma svogliatamente che doveva essere stata organizzata con “qualcosa spedito dalla galleria di Parigi”, senza che lui lo sapesse. In effetti, se da un lato la nomina di Balthus aveva suscitato l'approvazione della critica italiana706, la sua opera, presentata pochi anni prima alla galleria l'Obelisco707, era passata praticamente inosservata. Questo era stato già sottolineato da Gendel in un articolo del 1958, in cui aveva scritto che la mostra romana non era stata recensita quasi da nessuno probabilmente perché pochi in Italia sapevano chi fosse Balthus. Questo era, in parte, vero: in Italia l'artista era stato presentato per la prima volta nell'aprile del 1958 a Torino, presso la Galleria Galatea708 e la mostra all’Obelisco era, invece, stata la prima personale dell'artista a Roma. Nel regesto della Galleria L'Obelisco, redatto dalla Galleria Nazionale d'arte Moderna, dove é segnalata anche la bibliografia di tutte le esposizioni, viene indicata come unica recensione a questa mostra, quella su “L'Uomo Qualunque” del 23 maggio del 1958709. Tranne la presentazione di Luigi Carluccio per la personale a Torino, bisogna aspettare la fine degli anni Sessanta per i primi testi critici italiani su Balthus. L'artista era, invece, molto più conosciuto negli Stati Uniti: dal 1934 era a contratto da Pierre Matisse, presso il quale aveva esposto per la prima volta a Parigi in quell'anno.

706 Annick Lemoine nel suo saggio sull’ opera di Balthus a Villa Medici, sotiene che la critica fu unanime nel riconoscere in questa nomina un segno di rinnovamento (in senso positivo) dell’ istituzione francese). (Annick Lemoine, op. cit., p. 103). 707 Balthus, Roma, Galleria Obelisco, 12- 18 maggio, prefazione di Luigi Carluccio. 708 Balthus, Torino, Galleria Galatea, 10- 30 aprile 1958, prefazione di Luigi Carluccio. 709 Il regesto è consultabile on-line: www. ufficignam. it

—174— Quando Pierre Matisse si trasferì a New York, organizzò le mostre personali di Balthus nel 1938710 e nel 1939711, e poi ancora nel 1949712 e nel 1957713. “Art News” aveva dedicato già due articoli a Balthus, e questo dimostra che la rivista non era focalizzata solamente sui pittori astratti ma che era invece aperta anche alle possibili alternative. Nel 1956, Pierre Klossowski, il fratello maggiore di Balthus, novellista e critico, aveva dedicato all’artista un lungo articolo714, in occasione dell’apertura a New York della sua personale presso la Pierre Matisse Gallery e della sua contemporanea retrospettiva presso il Museum of Modern Art715 (con la mostra fu pubblicata anche la prima monografia su Balthus di James Thrall Soby). Nel brano, fatto assai raro, erano comparse anche alcune notizie biografiche dell’artista716: l’autore era riuscito a rendere la poetica di Balthus molto da vicino e aveva descritto il suo confronto con i grandi maestri del passato, la sua visione delle immagini dell’infanzia, e il senso di mistero e di inquietudine che pervadeva le opere dell’artista. In seguito, nel febbraio del 1957, comparve anche un articolo nella sezione Reviews and previews firmato T. B. H, che recensiva la mostra annunciata nel dicembre del 1956: il brano sottolineava come la distanza dalla pittura contemporanea di Balthus facesse del pittore una figura solitaria e in qualche modo, eroica717. L’intervista di Gendel a Balthus ritrae l’artista, sottolineandone i modi semplici ma elusivi, e la ferma volontà di non classificare la propria opera; l’alone di mistero, che lo aveva fatto definire da molti un “enigma”, viene mantenuto intatto: il pittore cambia spesso discorso o non risponde affatto, e quando lo fa, è molto vago.

710 Balthus Paintings, prefazione di James Thrall Soby, New York, Pierre Matisse Gallery, 21 marzo-16 aprile 1938. 711 Balthus: Paintings and Drawings (Illustrations for "Wutherings Heights"), New York, Pierre Matisse Gallery, 17 marzo-8 aprile 1939 712 Balthus, New York, Pierre Matisse Gallery, 1949, prefazione di Albert Camus. 713 Balthus, New York, Pierre Matisse Gallery, 1957. 714 Pierre Klossowski, Balthus: Beyond Realism, “Art News”, dicembre 1956, pp. 27-30, 50-52. 715 Balthus, New York, Museum of Modern Art, 18 dicembre-3 febbraio, 1956-1957. 716 Balthus nacque nel 1908 a Parigi, dal pittore e storico dell’arte Eric Klossowski e Baladine Klossowski, grazie alla quale conobbe Rainer Maria Rilke. Trascorse la sua infanzia tra Parigi, Berna e Ginevra, dove a undici anni pubblicò un libro di illustrazioni, Mitsou, la storia di un gatto, con la prefazione di Rilke. Nel 1924 tornò a Parigi e in seguito fece un viaggio in Italia, dove studiò Piero della Francesca. Nel 1929 fece il servizio militare in Marocco; nel 1934 tenne la sua prima esposizione alla galleria Pierre Matisse a Parigi; nel 1935 disegnò i costumi e il set per I cenci di Antonin Artaud. Nel 1939 venne mandato al fronte, però per ragioni di salute tornò un mese dopo. Nel 1943 espose in Svizzera e nel 1946 e nel 1956 ebbe due importanti personali a Parigi. (Pierre Klossowski, Balthus: Beyond Realism, cit., pp. 52). 717 T. B. H., Balthus, “Art News”, vol. 55, n. 10, febbario 1957, p. 9.

—175— Il dialogo descritto è ambientato all’Accademia di Francia, dove il Balthus appare come “the master of a large old country house”, ovvero il padrone di una grande e vecchia tenuta di campagna. Alcuni gatti che giravano per il giardino richiamano alla mente di Gendel l’animale che Balthus amava tanto disegnare: proprio a questi si riferisce il titolo di un autoritratto del pittore, che dà anche il nome all’articolo esaminato, cioè H. M. Kings of cats. In questo dipinto l’artista si era ritratto con a fianco un gatto, e aveva apposto l’iscrizione, diventata poi il titolo dell’opera, che si riferiva sia alla sua passione per l’animale, sia al nome di una sua amica, soprannominata “Queen of forest”, alla quale regalò il dipinto. La frequente presenza dei gatti nei dipinti dell’artista è stata spesso legata dalla critica a un significato erotico, una lettura che lo stesso Gendel suggerisce nell’intervista, ottenendo una risposta vaga quanto negativa dal pittore718. L’articolo si chiude con l’immagine serena e silenziosa di Villa Medici, che sembrava essere una perfetta cornice per l’enigmatico pittore francese.

718 Nel catalogo di Sabine Rewald su Balthus, il gatto viene interpretato come le due facce del soggetto della natura, il sensuale e l’ascetico, che combattono per il dominio. Nel dipinto H. M. King of cats (olio su tela, 28x19 cm, 1935, collezione privata) il gatto rappresentato era proprio l’animale di Balthus. (Sabine Rewald, Balthus, Harry Abrms, Inc., New York 1984, p. 92)

—176—

Figura 48: Milton Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, vol. 53, n. 7, dicembre 1954.

Figura 49: Alberto Burri fotografato da Josephine Powell, in Milton Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, vol. 53, n. 7, dicembre 1954.

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Figura 50: Alberto Burri fotografato da Josephine Powell, in Milton Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, vol. 53, n. 7, dicembre 1954.

Figura 51: Alberto Burri fotografato da Josephine Powell, in Milton Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, vol. 53, n. 7, dicembre 1954.

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Figura 52: Milton Gendel fotografato da Josephine Powell nello studio di Alberto Burri (Roma, dicembre 1954).

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Figura 53: Alberto Burri, Rosso, Gobbo, I, 1954.

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Figura 54 e figura 55: Due diverse fasi della realizzazione dell’opera Rosso, Gobbo I, 1954, di Alberto Burri, in Milton Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, vol. 53, n. 7, dicembre 1954.

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Figura 56: Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, “Art News”, vol. 54, n. 4, estate 1955.

Figura 57: Toti Scialoja, fotografato da Josephine Powell, in Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, “Art News”, vol. 54, n. 4, estate 1955.

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Figura 58: Toti Scialoja fotografato da Josephine Powell, in Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, “Art News”, vol. 54, n. 4, estate 1955.

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Figura 59: Toti Scialoja, Finestra scura, 1955.

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Figure 60 e 61: Due diverse fasi della realizzazione di Finestra Scura (1955), in Milton Gendel, Scialoja Paints a Picture, “Art News”, vol. 54, n. 4, estate 1955.

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Figura 62: Renato Guttuso fotografato da Milton Gendel, in Milton Gendel, Guttuso: A Party Point of View, “Art News”, vol. 57, n. 2, aprile 1958.

Figura 63: Balthus e sua nipote fotografati da Loomis Dean, in Milton Gendel, H.M. King of Cats, “Art News”, vol. 60, n. 9, gennaio 1962.

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APPENDICE Intervista a Milton Gendel, Roma, 22 gennaio 2009

(L'intervista é stata completata con alcune domande rivolte al critico in seguito, attraverso posta elettronica)

Mitlon Gendel nella sua casa (Roma, gennaio 2008).

—187— Per prima cosa, vorrei farle alcune domande che riguardano la sua vita, perché sono interessata a sapere innanzitutto cosa l’ha spinta a venire in Italia. Come arrivò in Italia? Io avevo vinto una borsa Fulbright, per la Cina, dove pensavo di tornare perché avevo fatto il soldato lì. Ma con l’arrivo di Mao, la Cina non ha voluto riconoscere le borse; il Dipartimento di Stato, che era la fonte della borsa, mi ha invitato a scegliere un altro paese. Io studiavo Storia dell’Arte ed ero stato in Italia da studente. Avevo visitato città come Torino, Milano, Venezia, Roma. Quindi decisi di venire in Italia.

Come era la situazione artistica americana quando lei approdò in Italia? Negli anni Cinquanta era il momento di “De Kooning e compagnia”. C’era già l’inizio della Pop Art.

Che influenza, secondo lei, ebbe il surrealismo e la pittura europea sui pittori americani? Il surrealismo ebbe un’influenza abbastanza forte. Breton arrivò con il suo gruppo, tra cui vi erano Tanguy, Ernst e Matta. Hanno avuto una grande influenza sui pittori americani, per esempio su Gorky.

Lei conobbe Breton e i pittori Surrealisti, e fece parte del loro gruppo, insieme a Robert Motherwell. Motherwell e io siamo stati associati al gruppo di Breton; eravamo i più giovani “indigeni”, tutti gli altri erano europei. Ho conosciuto Motherwell alla Columbia Univerisity: eravamo tutti e due studenti di Meyer Shapiro; poi abbiamo cominciato a frequentare l’Atelier di William Stanley Hayter, pittore e incisore. Per Natale, una volta, circa nel 1940-1941, avevamo inciso delle carte di Natale, con dei disegni astratti; tutti fieri siamo andati da Breton, per presentare queste opere: lui è andato su tutte le furie:“Queste serpi! Ho combattuto la borghesia per anni e loro arrivano con delle carte di Natale!”. Le ha buttate per terra e ci ha detto di andare fuori. Dopo un periodo di “quarantena”, siamo stati riammessi al gruppo, però abbiamo perso il nostro

—188— ruolo nel gruppo. Noi, infatti, facevamo da “facciata” per la rivista “VVV”, che aveva bisogno di due americani di nascita, secondo il regolamento di guerra. Cacciati da Breton siamo stati rimpiazzati da David Hare, artista molto simpatico, che era l’unico altro americano, praticamente analfabeta, non sapeva scrivere una frase senza errori. Ma tanto non aveva bisogno di scrivere, era solo una facciata!

A New York Lei ha conosciuto Peggy Guggenheim. C’è un episodio sulla collezionista che si ricorda in particolare? Pegeen, la figlia della Guggenheim chiese soldi alla madre per un viaggio in Messico con Motherwell e altri. Peggy le ha dato I soldi, dicendo però: "Gite! Avrei preferito comprarmi un Picasso".

Parliamo ora della sua attività di critico e fotografo. Venne prima la sua attività di fotografo o quella di giornalista e critico o tutte contemporaneamente ? Scrittore, critico, giornalista. La fotografia venne dopo, ma è sempre stato qualcosa a lato: io facevo foto per me o per illustrare i miei articoli.

Come è iniziato il suo rapporto di corrispondenza per “Art News”? Dopo la guerra lavoravo alla Funk & Wignali, come senior writer, dove ho scritto trecento articoli su arti, ponti e tribù indiane. Mentre lavoravo mi è arrivata una chiamata di Tom Hess, che aveva sentito parlare di me da Larry Cambpell. Così mi ha ha proposto di scrivere le recensioni delle mostre. Quando sono andato in Italia mi ha chiesto di fare il corrispondente, come lo sono tuttora.

Quindi ha iniziato a scrivere su “Art News” già a New York? A New York scrivevo brevi recensioni delle mostre in corso nelle gallerie. Prima e dopo l'articolo su Burri, avevo su “Art News” una rubrica col titolo di Letters from Rome. Ho scritto anche un articolo su Clerici e altri soggetti.

Quale era il suo rapporto con l’editore Thomas Hess ?

—189— Troppi ricordi, l’amicizia era molto stretta. Ha coinvolto le nostre famiglie e i nostri “tempi”, a parte il legame del lavoro ogni estate facevamo delle gite in Grecia, Turchia, Francia, New York. Ero totalmente libero di scrivere. Il rapporto di lavoro era basato sul dialogo e su una corrispondenza fitta. Non ci sono mai stati screzi con lui. Mi ha sorpreso solo una volta quando a Parigi eravamo a pranzo con il corrispondente di Parigi per “Art News” e a un certo punto, Tom, in mezzo al pranzo, lo ha licenziato, così, in modo molto casuale. Il corrispondente era molto affranto e mi ha detto:“Mi ha messo alla porta come un vecchio domestico!”. E’ l unica nota stonata che mi ricordi.

Che politica perseguivano nella direzione della rivista? Favoriva la New York School e l’arte astratta. Sa che Hess ha scritto su De Kooning e l’altro amico di strisce …. Barnett Newmann. Però anche lui iniziava a dare spazio alla Pop Art, mi ricordo una copertina della rivista con la bandiera americana di Jasper Johns. La New York School rimaneva però centrale, ma cominciava a penetrare la Pop Art.

Le venivano date indicazioni sugli articoli da scrivere o era lei che doveva scegliere e muoversi nell’ambiente artistico italiano? C’era una richiesta particolare dal giornale, argomenti privilegiati? Sceglievo io. Ogni tanto dalla redazione chiedevano “Vuoi coprire la Biennale di Venezia?” “Si”. La rivista poteva chiedere delle cose speciali come la Biennale, ma per il resto non c’erano delle direttive precise.

Che idea pensa avessero i lettori di “Art News” sull’Italia? Roma era vista ancora come una città storica o si era interessati anche agli artisti contemporanei oltre che al suo passato? Non c’era un distinguo. Si poteva trattare di una mostra o di un artista contemporaneo come di una scoperta di un altro Caravaggio o delle indagini per ritrovare un Leonardo scomparso.

—190— Negli anni Cinquanta altre riviste americane avevano corrispondenti da Roma. Quali erano i rapporti con gli altri critici americani, o anche di altre nazioni? Rapporti di amicizia. Per esempio conoscevo Dore Ashton, eravamo amici. Barbara Rose era un'altra amica. Che immagine aveva lei di Roma prima del suo arrivo nella città? Avevo l’immagine che mi feci nel 39, quando l’ho vista la prima volta, non era cambiata molto dal 39 al 50. C’era molta distruzione, per esempio a San Lorenzo. Anzi l’unica fatalità a Roma fu quando noi e gli inglesi abbiamo bombardato la linea ferroviaria, e come risultato, non voluto, vi fu la demolizione di San Lorenzo fuori Roma.

Lei aveva una tesi sul rinnovamento architettonico di Roma . Veramente il tema era “Il cambiamento nelle grandi città italiane dopo l ‘Unità”. Per quello avevo come “consigliere” Bruno Zevi, storico dell’ architettura. Come esercizio per imparare italiano ho tradotto il suo libro, “Saper vedere l’architettura”, che poi uscì con il titolo in inglese: “Architecture and Space”. Lui era stato per anni in America, a Harvard, per cui conosceva bene l’inglese; quando è uscito ha letto la mia traduzione del manuale e mi ha fatto un complimento molto barocco: “questa traduzione è cosi bella che per la prossima edizione del mio libro, lo faccio tradurre dall’inglese”.

Dopo la guerra la città era povera e distrutta. Come ricorda gli anni della ricostruzione? Come si viveva il periodo di rinnovamento? Strepitosa. Una cosa che mi è molto piaciuta fu un giro della Sicilia, che è avvenuto cosi: una sera in una trattoria a via dei Greci, ho conosciuto una compatriota, Margery Collins, fotografa, che aveva avuto l’incarico di andare in Sicilia, per fotografare gli effetti del piano Marshall, cioè se erano stati costruiti strade, ponti, case, tante cose che mancavano a causa della guerra o per altre ragioni. Lei mi disse che voleva andare in Sicilia, ma che sentiva che sarebbe stato meglio andarci in macchina; però non aveva la macchina e non sapeva guidare; allora io le ho detto: “io ho la macchina e so guidare!”. Così

—191— abbiamo fatto il giro e mentre lei svolgeva il suo compito, io ho fatto molte foto, che poi sono state pubblicate e oggi sono nel Museo di Gibellina. Allora non c’erano stati ancora grandi cambiamenti, era una Sicilia che poi è scomparsa lentamente. Che influenza hanno avuto, secondo Lei, gli Stati Uniti nella ricostruzione italiana? Colossale. Appunto attraverso il piano Marshall.

Molti suoi articoli riguardano grandi restauri e ricostruzioni di Musei. Per esempio il Museo di Capodimonte. Lei scrisse anche che l’amministrazione dei beni culturali italiana in quegli anni era la migliore al mondo e probabilmente la più sottopagata. . . Bei vecchi tempi!

Era un periodo “eroico” nella ricostruzione italiana?Venne dato un particolare impulso nella cura del patrimonio storico?Oggi la pensa ancora così? Se l’ho detto all’ epoca, sarà vero. No la burocrazia delle belle arti è piena di personaggi molto preparati e piena di forza intellettuale come Strinati, Coliva, la Marini Clarelli, Ida Giannelli.

Lei ha scritto numerosi articoli in cui riporta notizie su scoperte archeologiche e scavi. Un interesse personale o era richiesto da “Art News”? Mi interessava e inoltre dovevo rappresentare l’Italia. E poi io mi sono laureato alla Columbia University in un corso che si chiamava Storia dell’arte e archeologia.

Roma è una città legata alla storia. C’era, e c’è, difficoltà ad accettare il nuovo? Per esempio, le ricordo un suo articolo sulla ricostruzione del museo archeologico di Villa Giulia, che aveva provocato numerose polemiche, di chi addirittura lo considerava un insulto alla civiltà. E oggi? C’è differenza con gli Stati Uniti?

—192— Si, le controversie ci sono sempre e in genere seguono le linee politiche. Negli Stati Uniti sarebbe difficile pensare un dibattito culturale tra democratici e repubblicani!

Parlando dell’arte a Roma e in Italia in quegli anni, come era la situazione dell’arte nel dopoguerra? In una intervista che ho letto in internet, lei afferma che l’arte in Italia non era mai morta. All’inizio c’era un orientamento verso Parigi, che era un retaggio del periodo prima della guerra; infatti gli intellettuali italiani erano più vicini alla cultura francese che altro. Ma negli anni Cinquanta c’erano i giovani che partivano verso le avanguardie più recenti: Dorazio, Perilli, il più vecchio Turcato, Guttuso, e ancora tra i giovani, Tancredi, artista di tutto rispetto.

Quali erano, secondo lei, le influenze degli avvenimenti politici sull’arte? Influssi politici importanti, per la polemica. Una come Palma Bucarelli puntualmente veniva attaccata perché tendente a cose troppo contemporanee.

E in America? La sinistra qui amava indicare che l’arte americana era sostenuta dal governo e utilizzata dalla CIA.

Che cosa ne pensa? Mai visto degli assegni. Io penso che come in Francia e in Inghilterra e in altri paesi, il governo appoggiava la cultura del paese. Dei metodi di appoggio, poi, non sono pratico.

In Italia faticò ad affermarsi la pittura informale. Agli inizi degli anni Cinquanta, quando lei arrivò a Roma, si conoscevano i pittori americani? Pittori come Scialoja e Afro certamente. Tramite le riviste, i libri e di persona. Qualcuno veniva qui e loro andavano lì. Per esempio, gli Scialoja, Afro, Colla, Melotti erano tutti vicini a De Kooning quando lui ha fatto le sue visite a

—193— Roma. So che quando gli Scialoja andarono a New York hanno conosciuto tutto l’ambiente delle arti.

Lei ha scritto uno dei primi articoli che sosteneva l’arte di Burri. Come ha conosciuto l’artista? Burri me lo deve aver presentato Scialoja e poi sono andato a trovarlo nel suo studio in via Aurora.

Come era considerato Burri in Italia, che difficoltà c’erano per la sua affermazione? Il riconoscimento di Burri veniva dall’America. Forse il primo a scrivere su di lui era stato James Johnson Sweeney. C’era parecchia resistenza a Burri. Brandi, per esempio, non lo considerava neanche un artista. Dopo un po’ poi si è convertito. Chi fu tra i primi a capire Burri fu Giovanni Carandente. Anche lui era un amico di Calder e ha curato la grande esposizione di Calder al Lingotto. Ha fatto anche una donazione di Calder al museo civico di Spoleto.

Come è nata l’idea dell’articolo? Mi piaceva, lo trovavo interessante. Personaggio buffo. Era un medico di Provincia, di Città di Castello, prigioniero in Texas, iniziò a dipingere… lì faceva dei paesaggi… lui amava sparare. Era sposato con questa Minsa Graig, americana.

Lei ha seguito la realizzazione dell’opera con Burri. Che idea aveva di Burri e del suo modo di avvicinarsi alla pittura? Come ho detto mi piaceva. Se mi chiede il perché … non ha visto le sue opere?

Parliamo ora dell’articolo su Scialoja. Che rapporto aveva con Scialoja? Come vi siete conosciuti? Amicizia, con lui e con la moglie, Gabriella Drudi, scrittrice. Tra i personaggi più interessanti di Roma.

—194— Gabriella aveva una sorella, Tatina Drudi, che aveva sposato uno scrittore americano, come si dice oggi “afro-american”, di nome Bill Demby; un’amica una sera mi ha detto:”C’è una coppia interessante, lui americano e lei italiana”, così mi ha invitato. Ero lì senza conoscere nessuno. Ad un certo momento, Demby mi chiese:”Cosa pensi di quel quadro di fronte?””Mi sembra un po’ indifferente… sembra uno specie di surrealismo provinciale” risposi io. Un signore seduto vicino a me si alza e dice “tu vuoi fare a pugni”. Era Toti Scialoja e il quadro era proprio suo! Una serata tremenda. Poi siamo diventati grandi amici. Quando abitavo a Palazzo Costaguti e si liberò un appartamento, gli Scialoja sono venuti e siamo stati vicini di casa per molti anni.

Come è nata idea articolo? Lei ha influenzato molto l’opera di Scialoja. Recentemente in un’intervista l’artista aveva dichiarato che anche grazie al suo articolo si interessò agli artisti americani. Lo introdusse lei a Thomas Hess? È probabile che gli presentai Hess. Gli Hess venivano ogni anno in Italia.

Avete mai parlato di arte con Scialoja? Le chiedeva informazioni sui pittori americani? Scialoja era un pittore, un poeta, uno scenografo e non aveva bisogno di consigli, sapeva tutto in quei campi. Ma li offriva volentieri.

A Roma iniziarono ad arrivare molti artisti e critici americani. Come mai questo rapporto privilegiato… per esempio Willhelm De Kooning, Rauschenberg . . ? Perché l’Italia? Per una ragione. C’era la Rome-New York Art Foundation, all’ Isola Tiberina. Era stata messa su da Francis Mc Cann, americana che faceva la pittrice e la fotografa a Parigi. Era una donna con molti mezzi e voleva trasferirsi a Roma, per ragioni sue. Ha chiesto all’amica in comune Peggy Guggenheim cosa doveva fare a Roma e questa le disse “Apri una galleria. ”

Lei prese parte all’iniziativa di Francis Mc Cann?

—195— Frances McCann, stimolata da Peggy Guggenheim, mi ha reclutato subito per aiutare a creare e lanciare la Rome-New York Art Foundation, con sede nell'Isola Tiberina. L'amante della McCann, Giacinto Scelsi, compositore di musica di avanguardia, non voleva altri maschi attorno, e così Stanley Moss, poeta americano, ed io siamo stati estromessi dal programma. Mi ricordo di aver scritto una notizia dell'iniziativa della McCann per “Art News”.

Il mercato italiano però non era molto vivace. I collezionisti romani, lei scrisse in un articolo del 59, preferivano l’arte del Settecento e Ottocento. Da questo punto di vista la città non era molto vivace? Il mercato per l’arte contemporanea era limitatissimo a Roma. Le persone che mettevano cose sulle pareti preferivano stampe di corse di cavallo e soggetti di quel genere, all’epoca.

E gli espressionisti astratti vendevano? Gli espressionisti astratti per niente! Però con il boom economico la situazione migliorò, e certe gallerie, come quella di Franchetti e di Plinio de Martiis, vendevano di più; loro stessi collezionavano e riuscivano a vendere qualcosa. Parliamo ora della vita culturale romana. A Roma iniziarono a fiorire numerose gallerie nel dopoguerra. In particolare si ricorda le più attive o quelle a cui era più legato? L’Obelisco a via Sistina faceva mostre interessanti; poi c’era la Tartaruga: il suo indirizzo si capisce quando Franchetti ha sconosciuto Twombly e ha cominciato subito a esporlo.

Tra i personaggi femminili del mondo dell’arte dei suoi articoli compaiono, tra gli altri, Irene Brin e Palma Bucarelli. Può commentarle? Irene Brin: donna piena di brio, scriveva per riviste, era la moglie di Gaspero del Corso. Se aveva conoscenze negli Stati Uniti? Penso di sí, all’ epoca il mondo dell’ arte era piuttosto ristretto, più o meno tutti si conoscevano. Palma Bucarelli, la vamp. Era molto bella e si comportava da donna bella. Ebbe un ruolo molto importante per l’arte contemporanea, era una donna di

—196— polso: in un periodo in cui non c’era simpatia neanche per Picasso, per esempio, lei ha fatto la prima mostra di Picasso.

Vi era ostilità per queste iniziative? Ostilità no, indifferenza direi. Un po’ di ostilità, sa che si formano “tribù”, una contro l’ altra.

Lei ha pubblicato un articolo sul Gruppo Tevere, dove scrisse che a Roma erano rare iniziative di questo tipo, in cui vi era un supporto reciproco tra gli artisti… Era una rarità. E suonava molto originale lanciarsi su una chiatta nel Tevere! In genere gli artisti sono protagonisti di se stessi e anche se si raggruppano, dopo un po’ i gruppi si sciolgono.

Le istituzioni ufficiali di Roma come si schierarono verso le nuove tendenze artistiche? In occasione di una mostra della collezione Guggenheim alla Galleria Nazionale di Roma lei scrisse che a Roma non venivano fatte tante mostre collettive che illustrassero le nuove tendenze artistiche. In questo senso erano più attive città come Milano o Venezia? Più o meno c’era lo stesso mondo. C’era una donna attiva a Milano, con la Galleria L’Ariete, Beatrice Monti. A Venezia c’era Cardazzo, Bergamini a Milano. Poi, ovviamente c’era la Biennale a Venezia.

Le istituzioni sostenevano le iniziative gallerie? Come istituzioni uno pensa alla GNAM e a Palma. Ma per il Ministero o per lo Stato, no. Le banche e l’Alitalia hanno cominciato a collezionare l’arte contemporanea.

Verso gli anni Sessanta inizia a manifestarsi la Pop Art. Secondo Lei la Pop Art ebbe una ricezione più facile rispetto all’espressionismo astratto? Si . Perché non hai bisogno di niente, solo di un paio di occhi e vedi cose che riconosci. E più facile da capire.

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Lei si dedicò maggiormente alla Biennale di Venezia, rispetto alla Quadriennale di Roma. La Biennale era più affermata all`estero? Un altro andazzo. Venezia nasce come una fiera internazionale. La Quadriennale è nazionale

Il rapporto tra collezionisti e artisti iniziava a cambiare? I collezionisti davano sempre più un indirizzo? Cerano personaggi singoli come Panza di Biumo e Guggenheim a Venezia. La Guggenheim continuava a collezionare ma non andava oltre a una certa generazione, mentre Panza di Biumo ha collezionato tutte le novità. Centinaia di pezzi.

Lei ha pubblicato anche un'intervista a Renato Guttuso. Cosa pensa e ricorda di questo artista? Renato Guttuso, figlio d'arte nel senso che suo padre a Bagheria era un pittore di carri siciliani, era un grande charmeur, bello con una bella voce e quando cantava si accompagnava con la chitarra. Diventò un uomo per tute le stagioni. Come pittore esibiva prima alla galleria la Cometa a Roma quando c'era ancora il fascismo. Dopo la caduta del regime figurava nel PCI, anzi diventò membro del comitato centrale del partito, però nello stesso tempo era sposo di una contessa milanese e abitava a Roma splendidamente a Palazzo del Grillo e vendeva bene i suoi quadri non soltanto a "sinistra" ma anche in Inghilterra e nel Texas. Balthus lo invitava spesso a Villa Medici, tra i notabili, perché era famoso, aveva vinto il Premio della Pace Lenin ed era rappresentato in collezioni importanti nel mondo. Guttuso aderiva naturalmente al realismo socialista. Quando é stato invitato a contribuire alla galleria d'arte moderna del Vaticano, mandò una veduta del Colosseo, emblema del Cristianesimo senza un riferitmento diretto alla religione. Intelligente a simpatico come persona, é stato mandato dal governo ad accompgnare il busto di Bruto del M ichelangelo prestato da Firenze al Museo Pushkin . Ci siamo visti a Mosca e mi ha invitato di accompagnarlo in un giro

—198— per l'Unione Sovietica. Purtroppo avevo altri impegni in Russia e non potei accettare.

Come ultima domanda vorrei tornare alla sua doppia attività di scrittore e fotografo. C’è corrispondenza tra il suo modo di scrivere e il suo modo di fotografare? Si può rovesciare la cosa? Mi piace scrivere su quello che ho fotografato. Quando faccio fotografia, se non sono fotografie a tema su un dato personaggio o una serie come la Sicilia, mi piace fotografare quello che mi arriva sotto gli occhi. Preferisco le foto ambientali, che danno l’ambiente.

—199— REGESTO DEGLI ARTICOLI DI MILTON GENDEL

1954 M. Gendel, Undimmed Old Masters from Italy’s Archives “Art News”, vol. 53, n.3, maggio 1954, pp. 26-28, 52. M. Gendel, Mural Moderns and Masterpieces, “Art News”, vol. 53, n.4, estate 1954, pp. 31, 65-66 M. Gendel, Burri Makes a Picture, “Art News”, vol. 53, n. 8, dicembre 1954, pp.26-30, 67-69 1955 M. Gendel, Travel: Rome, “Art News”, vol 53, n. 10, febbraio 1955, pp. 18, 73. M. Gendel, Art News from Rome,“Art News”, vol. 54, n.2, aprile 1955, pp. 14, 65-67. M. Gendel, Scialoja Paints a Picture, “Art News”, vol. 54, n.4, estate 1955, pp. 43-45, 69-70. M. Gendel, Summer events: Rome, “Art News”, vol. 54, n.4, estate 1955, pp.50-52. 1956 M. Gendel, Art News from Rome, “Art News”, vol. 55, n.1, marzo 1956, pp. 10 M. Gendel, Art News from Rome, “Art News”, vol 55, n.4, estate 1956, p.20. M. Gendel, The Iron- curtain at the Glass Factory, “Art News”, vol. 55, n.4, settembre 1956, pp.22-26, 58-60 1957 M. Gendel, Rome and Baroque Europe, “Art News”, vol. 56, n. 2, aprile 1957, p.24-27, 50-51. M. Gendel, New Landmarks in Old Italy, “Art News”, vol. 56, n. 6, ottobre 1957, pp.24-27, 67-69. 1958 M. Gendel, Art News from Rome, “Art News”, vol 57, n. 2, gennaio 1958, pp.46 e 48 M. Gendel, Guttuso: a Party Point of View, “Art News”, vol 56, n. 9, aprile 1958, pp. 26-27, 59-61. M. Gendel, Summer in Spoleto, “Art News”, vol. 57, n.4, estate 1958, p. 41.

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—201— BIBLIOGRAFIA

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2.BIBLIOGRAFIA RAGIONATA GENERALE

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