La folle estate del cinema in Puglia

Una volta era “Cinecittà” la capitale del cinema italiano; oggi possiamo definire la Puglia, la regina incontrastata della settima arte. Set naturale, come pochi altri nel mondo, la Puglia è ormai da anni oggetto delle attenzioni delle più grosse produzioni cinematografiche nazionali ed internazionali. Ma mai come in questa estate, la nostra regione è stata presa d’assalto dal jet set cinematografico. E’ in Puglia infatti, il meglio del cinema brillante nazionale, con produzioni che vedremo tra televisione e cinema, tra l’autunno e il Natale prossimi.

E’ vero, il revival della Puglia come set cinematografico è un fenomeno avviato da anni e sempre in costante crescita, ma quello che sta accadendo in questi giorni nella nostra regione, è qualcosa di visto solamente a Roma e Napoli, in quelli che erano gli anni d’oro della commedia all’italiana (n.d.r. anni ’60 e ’70). Sul Gargano e nei dintorni si registra in questo momento un sovraffollamento di set.

Carlo Verdone è impegnato tra Salento e bassa costa barese con le riprese di Si vive una volta sola, con Max Tortora, Rocco Papaleo e Anna Foglietta; mentre Sophia Loren è impegnata a Trani per La vita davanti a sé, film diretto dal suo secondogenito Edoardo Ponti. Intanto Checco Zalone, sta terminando le riprese della sua ultima chilometrica fatica, dal titolo Tolo Tolo, girato tra Africa e Puglia: Massafra, Monopoli e Salento interno, le zone geografiche più toccate dall’attore barese. Sono in Puglia anche Aldo, Giovanni e Giacomo, che hanno scelto la regione pugliese per tornare insieme, dopo tre anni di assenza dai set cinematografici: le riprese del loro 12esimo film in trio, dal titolo Odio l’estate, diretto da Massimo Venier, sono cominciate ad Otranto a metà giugno e dureranno per circa due mesi. Fino al 29 giugno tra Nardò, Galatina, Acaya e San Vito dei Normanni, con Claudio Bisio, Stefania Rocca, Pietro Sermonti e Dino Abbrescia si è girata la serie Cops, prodotta da Dry Media per Sky e diretta da Luca Miniero, che racconta la vicenda di una piccola cittadina di provincia nella quale da anni non si commettono reati e il cui commissariato è diventato quindi una spesa superflua.

A Taranto fino al 20 luglio tengono banco i ciak della fiction Rai Il commissario Ricciardi diretto da Alessandro D’Alatri, con Lino Guanciale nei panni del commissario inventato dallo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni. Dall’inizio di giugno e fino al 6 luglio, tra Bari, Spinazzola e Pulsano, c’è Salvatore Esposito, il Genny Savastano di Gomorra per le riprese del film drammatico Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, prodotto da La Sarraz Pictures, Shellac Sud e Rai. E in agosto, sbarca in Puglia anche una grossa e storica produzione hollywoodiana: James Bond Daniel Craig con la sua nuova avventura farà tappa tra gli uliveti e le spiagge pugliesi, con Taranto sede principale della maggior parte delle scene.

Insomma per la Puglia, per anni tagliata fuori dalle grosse produzioni nazionali e riscoperta praticamente dalla commedia sexy all’italiana in poi (metà anni ’70), cinematograficamente è un periodo d’oro, che sembra non avere fine. L’estate poi, dona alla regione, grazie alla bontà del suo clima e ai colori paesaggistici unici al mondo, la luce naturale perfetta per essere invasa dalle grandi produzioni cinematografiche. Qualcuno già anni fa si era accorto della grandezza cinematografica della nostra Puglia, qualcuno che si chiamava Pier Paolo Pasolini, che diceva questo a proposito di Taranto, la quale tra tanti problemi sociali, è pur sempre la seconda città della regione:

“Taranto brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi. Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari e i lungomari. Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti.”

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La Luna e il Cinema

Fin dall’antichità la Luna, il nostro fedele satellite, ha ispirato poeti e artisti, e come tale il Cinema non poteva rimanere insensibile di fronte al fascino, alla magia, al sogno e al mistero che la avvolge. La Luna ha un ascendente enorme sulla nostra fantasia e come tale ha avuto le sue esperienze cinematografiche. Già dagli albori, il cinema si è interessato ad essa, e ben presto il rapporto Luna- Cinema è diventato epocale. L’immagine del volto della Luna con una smorfia di dolore per la navicella spaziale conficcata nell’occhio destro è da tempo diventata iconica, utilizzata per pubblicità, copertine, manifesti eccetera. Si tratta in realtà di un fotogramma di un celebre film, Il viaggio nella Luna di Georges Méliès del 1902, che possiamo considerare il primo film di fantascienza della storia. Se i fratelli Lumière, gli inventori “ufficiali” del cinema, filmavano quasi solo scene di vita reale fu il citato Méliès, uomo di teatro che si appassionò alla novità, a intuire che il cinematografo poteva servire anche per una narrazione. Méliès è ricordato come “il creatore della spettacolo cinematografico”. Tra le tante pellicole da lui dirette e interpretate, tutte di argomento fantastico, Le voyage dans la Lune è il più importante e celebrato: fu un grande successo internazionale, tanto che sembra persino che le sale cinematografiche siano nate proprio per poterlo proiettare, mentre in precedenza si utilizzavano i teatri di prosa. E’ chiaramente ispirato al romanzo Dalla Terra alla luna di Jules Verne in tutta la prima parte, quella relativa alla progettazione, alla costruzione e al lancio della navicella, mentre la seconda parte è dovuta all’immaginazione del regista. Ricordiamo infatti che nel romanzo di Verne, e nel suo seguito Attorno alla Luna, i terrestri non arrivano sul nostro satellite, mentre nel film di Méliès vi atterrano, si scontrano con i sui abitanti che non sono amichevoli ma per fortuna possono essere sconfitti a colpi di ombrello, poi tornano indietro semplicemente lasciando che la capsula spaziale “cada” verso la Terra, dove sono accolti con grandi onori. Per l’epoca il film può considerarsi un kolossal: vi erano una quantità di comparse, tra cui le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet e gli acrobati delle Folies-Bergère, e la sua durata, che pare in origine fosse di ventuno minuti mentre le copie oggi rimaste sono di quindici, era notevole; alcune copie furono colorate a mano (oggi ne sopravvive solo una). In effetti è un tripudio di inventiva, effetti speciali, costumi sfarzosi.

Questo successo diede ovviamente impulso alla cinematografia lunare e già nel 1908 vi fu un secondo viaggio con Excursions dans la Lune dovuto a Segundo de Chomon, altro cineasta famoso all’epoca e che aveva lavorato con Méliès, che per la verità è un vero e proprio plagio del film precedente – anche se allora il concetto di plagio non esisteva – perché ne segue pedissequamente tutta la messa in scena, differenziandosi solo per gli effetti speciali, forse un po’ più tecnici ma meno immaginifici. Lungo tuttavia solo 7 minuti, ha qualche piccola differenza: la navicella spaziale non colpisce l’occhio della Luna ma vi entra in bocca, e i terrestri sono ben accolti dai seleniti con un balletto e lasciati ripartire tranquillamente. Dopo un altro film dallo stesso titolo, ma in inglese: A Trip to the Moon, nel 1914, del quale non si sa niente perché è perduto, è la volta del romanzo di Herbert George Wells I primi uomini sulla Luna a essere trasposto per il cinema nel 1919 dagli inglesi Bruce Gordon e J.L.V. Leigh. Anche questo The First Men in the Moon è oggi perduto ma ne sono sopravvissuti alcuni fotogrammi e rimane una recensione dalla quale si capisce che è abbastanza fedele al romanzo, sia pure con l’aggiunta di una storia sentimentale e di un lieto fine. La Luna di queste opere è descritta come dotata di atmosfera anche se molto rarefatta, di acqua e di rare piante, e abitata da una popolazione molto evoluta che vive nel sottosuolo. Di tutt’altro avviso è Fritz Lang, che dieci anni più tardi descrive una Luna deserta e inospitale ma ricca di oro, che è il motivo per il quale viene organizzata la spedizione. Tratto da un romanzo dell’anno prima di Thea von Harbou, sceneggiatrice allora moglie del regista, Una donna sulla Luna è l’ultimo film muto di Lang e probabilmente anche il più brutto di un regista che con I Nibelunghi e Metropolis aveva filmato due assoluti capolavori. Al di là della risicata trama, è invece azzeccata l’accuratezza scientifica dei dettagli del volo, per i quali il regista si era rivolto a due pionieri della missilistica, Willy Ley e Hermann Oberth, i cui calcoli furono così accurati e talmente simili ai progetti reali dei razzi V1 e V2 che la Gestapo alla fine della Seconda Guerra Mondiale li fece sparire. Altro particolare curioso è che fu in occasione di questo film che venne inventato il “conto alla rovescia” poi divenuto abituale in occasioni di lanci spaziali e in tante altre.

Con questo film si chiude il periodo del cinema muto e per avere un altro film “lunare” si dovrà aspettare il dopoguerra, esattamente il 1947, quando si gira un film messicano, Buster Keaton va sulla Luna. In realtà si racconta di un poveraccio che finisce per sbaglio in un razzo ed è convinto di essere atterrato sul nostro satellite, dove trova degli esseri identici a noi ma dal comportamento molto bizzarro: il razzo ha fatto solo un breve volo ed è rimasto sulla Terra, per cui la conclusione di questa commedia satirica, non molto ben riuscita e con il celebre attore ormai decaduto, è che i veri “alieni” siamo noi stessi. Una vera – sempre in senso cinematografico, dove intanto è arrivato l’uso regolare del colore – spedizione sulla Luna si ebbe poi nel 1950 con Uomini sulla Luna, film dallo stile quasi documentaristico e molto accurato dal punto di vista tecnologico: non a caso i consulenti sono gli stessi di Die Frau im Mond, ossia gli ingegneri spaziali Hermann Oberth e Willy Ley, dopo la guerra emigrati in America. La storia è tutta concentrata sull’impresa del viaggio extraplanetario, dell’esplorazione del nostro satellite e del problematico ritorno sulla Terra, senza avventure strane e persino con l’assenza di qualsiasi storia personale o sentimentale che coinvolga gli astronauti (per una volta Hollywood fa a meno di mogli preoccupate o di fidanzate trepidanti). Sarà un successo che aprirà la strada ai kolossal fantascientifici. Dimenticabile il successivo Quei fantastici razzi volanti di Arthur Hilton del 1953, forse meglio conosciuto anche in Italia con il titolo originale Cat Women of the Moon, che racconta di una spedizione che raggiunge il nostro satellite, dove trova atmosfera respirabile e gravità pari a quella terrestre, e una popolazione femminile dotata di poteri telepatici (ma solo nei confronti delle donne) che minaccia di invadere la Terra.

Poco dopo, nella vita reale, si ha il primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra, lo Sputnik 1 del 1957, ed è già cominciata la “corsa allo spazio” che vede contendere USA e URSS, e anche la letteratura e il cinema di fantascienza hanno incrementato la loro produzione, quindi non è strano trovare delle opere che satireggiano la situazione. Il grande Antonio de Curtis nel 1958 gira per la regia di Steno Totò nella Luna, una farsa tipica dell’epoca, una commedia degli equivoci che vedrà il Principe della risata, ben coadiuvato da Ugo Tognazzi, Sylva Koscina, Luciano Salce, Sandra Milo e altri bravi caratteristi, arrivare per errore sul nostro satellite. Totò è un tipografo e dirige una rivista scandalistica, sulla quale il suo fattorino Achille (Tognazzi) riesce a pubblicare un racconto di fantascienza, provocando le ire del proprietario; tra i due scoppia una lite e Achille viene ricoverato, ma si scopre che il suo sangue è ricco di “glumonio”, una sostanza che lo rende adatto ai viaggi spaziali. Per questo viene contattato da Cape Canaveral, ma per una serie di equivoci alla missione spaziale parteciperà Totò, che si ritroverà sulla Luna dove incontrerà una copia femminile di Achille… Per quanto non sia tra i migliori di Totò si tratta di una divertente parodia della fantascienza, sia cinematografica che letteraria, in particolare di La morte viene dallo spazio dello stesso 1958, primo film italiano di fantascienza, e di L’invasione degli ultracorpi (1956), i cui celebri “baccelloni” diventano qui “cosoni”. L’anno successivo troviamo il mediocre Missili sulla Luna di Richard Cunha, remake sexy dell’altrettanto non memorabile Cat Women of the Moon, nel quale due delinquenti si nascondono in un razzo che arriva sul nostro satellite per scoprire che è abitato da una popolazione di fanciulle che vivono nel sottosuolo perennemente minacciate da ragni giganti. Nonostante l’ambientazione sotterranea è ben visibile il paesaggio del Red Rock Canyon in California – dove il film fu girato – con le sue piante e il cielo terso: un habitat decisamente molto poco lunare! Altro film dall’intento satirico è Mani sulla Luna di Richard Lester (1962), ambientato nel minuscolo e inesistente Ducato di Gran Fenwick che era già stato teatro delle vicende raccontate ne Il ruggito del topo (1959). Questa volta si scopre che il pregiato vino prodotto nel Ducato è adattissimo come propellente e quindi viene chiesto l’aiuto di USA e URSS per poter finanziare l’impresa di una spedizione sulla Luna; le due potenze sospettano che sia un trucco – come in effetti è – per poter avere aiuti finanziari, ma non possono tirarsi indietro: finirà che la spedizione riesce davvero e sulla Luna verrà innalzato il vessillo di Gran Fenwick. Il film, nato per satireggiare la mania spaziale delle due superpotenze finisce per essere più comico che satirico, ma è una serie di gag molto divertenti, di puro humour britannico (il “conto alla rovescia” viene interrotto per non saltare il tradizionale tè delle cinque!), con situazioni ben congegnate rette da attori di razza quali Terry Tomas e “miss Marple” Margaret Rutherford. Uno dei personaggi minori, lo scienziato tedesco emigrato in America che inneggia a Hitler, deve aver ispirato Stanley Kubrick per il suo Dottor Stranamore.

Segue un’altra gustosa parodia “made in Italy”, dal titolo 00-2 Operazione Luna, film del 1965 con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia protagonisti. Il soggetto è una parodia del cinema di fantascienza, irridendo a dei temi di forte attualità, quale la corsa allo spazio, la competizione tra le Superpotenze e la stessa Guerra Fredda. In questo film, il duo appare in un ruolo duplice, quello noto al pubblico ed uno serio, dove danno una piccola ma importante prova di estrema bravura, in una trama fantascientifica di grande divertimento. E’ la storia di Cacace e Messina, due ladruncoli siciliani, che vengono rapiti dai servizi segreti russi, allo scopo di sostituire una coppia di cosmonauti perduti nello Spazio, al fine di coprire l’insuccesso e salvare il prestigio della superpotenza sovietica. Nonostante la perfetta somiglianza, i due malcapitati si troveranno nei guai non appena i veri piloti spaziali, sopravvissuti, faranno ritorno sulla Terra. Nel 1967 è la volta di un grande regista, Robert Altman, di occuparsi di una spedizione lunare in Conto alla rovescia, film modesto, valido dal punto di vista tecnico grazie al ricorso a materiale documentario, con Robert Duval e James Caan che esprimono ottimamente le esigenze autoriali di Altman.

Sebbene la trama sia molto più estesa e non concentrata sulla Luna non si può qui non ricordare 2001: Odissea nello spazio, immortale pellicola di Stanley Kubrick, perché alcune scene importanti sono ambientate proprio sul nostro satellite, nel cratere Clavius dove c’è la base statunitense e soprattutto nel cratere Tycho dove viene ritrovato il celebre “monolito” che è alla base del film. Ma siamo arrivati al 1968: appena un anno dopo l’uomo metterà davvero i piedi sulla Luna e l’epoca del sogno sarà finita perché ne comincia un’altra. Infatti proprio in occasione dell’allunaggio molti sostennero la fine della fantascienza (dimenticando tra l’altro che questo genere letterario non era limitato all’esplorazione spaziale ma anzi la sua parte più importante era quella che specula sul futuro, non solo dal punto di vista tecnologico ma soprattutto da quello sociale e politico) e in effetti la Luna viene messa da parte, ma solo perché l’orizzonte si amplia, ora si pensa a Marte e ancora più lontano. Non è quindi un caso che la successiva cinematografia lunare non si occupi più dei tentativi di esplorazione del nostro satellite ma, proprio a partire da 2001, lo consideri già colonizzato. Infatti nel film successivo, il modestissimo Luna Zero Due del 1969, la Luna del 2021 è già parzialmente abitata e vista come la “nuova frontiera” da conquistare; la pellicola fu pubblicizzata come il primo “western spaziale” e del genere western segue gli stilemi più banali, dal cavaliere (nel caso un pilota di astronavi) intrepido alla donzella in pericolo, dalla caccia al tesoro (un asteroide interamente di smeraldo) al possidente avido e spietato, dalle scazzottate nel bar alle sparatorie (ovviamente con pistole laser). Prodotto dalla Hammer, giustamente famosa per la sua produzione horror e che non riuscì mai a sfondare davvero nella fantascienza, il film è mediocre in tutto, dalla scenografia ai costumi (troppo simili a quelli della coeva serie televisiva U.F.O.), dalla trama alla recitazione.

Dovranno passare venti anni perché la Luna si riaffacci nella cinematografia, e, appunto, si tratterà solo di apparizioni sporadiche, senza nessun prodotto che la metta al centro della narrazione. In Moontrap – Destinazione Terra (Robert Dyke, 1989), che mescola civiltà perdute, extraterrestri, esplorazione spaziale, cyborg e scene horror in un pasticcio inenarrabile, due astronauti a bordo di una navicella Apollo trovano sulla Luna i resti di una civiltà terrestre nonché una bella fanciulla in animazione sospesa che si rivela una aliena. Nell’altrettanto dimenticabile LunarCop – Poliziotto dello spazio (Boaz Davidson, 1994), ambientato nel 2050, le colonie lunari offrono una sistemazione migliore rispetto alla Terra, ormai desertificata a causa del buco nell’ozono, ma la trama di tipo spionistico per il possesso di una scoperta che potrebbe migliorare la situazione atmosferica si svolge per lo più sulla Terra, con un agente selenita mandato a impadronirsi della formula che finisce per aderire a un gruppo di ribelli che contrasta le mire espansionistiche dell’imperatore della Luna. Ancora minori gli accenni che troviamo in altri film: Star Trek: Primo contatto (Jonathan Frakes, 1996); Starship Troopers – Fanteria dello spazio (Paul Verhoeven, 1997); Austin Powers – La spia che ci provava (Jay Roach, 1999).

Caso a parte quello di Capricorn One (Peter Hyams, 1978), ispirato dalle teorie negazioniste che peraltro finisce per alimentare: dopo la conquista lunare si progetta quella marziana ma un guasto impedisce la partenza, così la NASA per non perdere la faccia e i finanziamenti inscena un falso “ammartaggio”, che viene però scoperto da un giornalista dando così l’avvio a una vicenda thriller molto ben congegnata. Vi sono anche alcuni film in cui la Luna è scomparsa, distrutta dagli uomini (Il pianeta delle scimmie, 1968, di Franklin J. Schaffner; The Time Machine, 2002, di Simon Wells) o dagli extraterrestri come in Guida galattica per autostoppisti (Garth Jennings, 2006), dove viene comunque “ricostruita”.

Nel frattempo era però uscito, nel 2009, un film importante e che rientra nel binomio tra Luna e Cinema: Moon di Duncan Jones, talentuoso figlio di David Bowie già regista di videoclip e qui alla sua prima opera lunga. Il protagonista Sam Bell, ben interpretato da Sam Rockwell, lavora alla stazione mineraria Selene (nell’originale Sarang) dove gestisce l’estrazione di rocce dalle quali si estrae l’elio-3 utilizzato su Terra come carburante; è da solo, coadiuvato dalle macchine e ha come unica compagnia una intelligenza artificiale chiamata Gerty. Il suo contratto triennale sta per finire ma proprio un paio di settimane prima del suo previsto ritorno sul nostro Pianeta scopre una copia di se stesso, che ritiene esse un suo clone salvo poi accorgersi di essere un clone egli stesso. Da questo momento in poi la narrazione assume toni drammatici, i rapporti tra lui e l’altro Sam si fanno sempre più problematici e soprattutto egli – e con lui lo spettatore – si chiede cosa ci sia dietro, se esistano altri cloni, chi gestisce il software che permette a Gerty di agire a sua insaputa (infatti gli impedisce di comunicare con la base terrestre), dov’è il Sam Bell originale. Un riuscito ibrido tra cinema di fantascienza e thriller psicologico. Un piccolo gioiello, giustamente lodato, problematico senza essere intellettuale, ottimamente diretto e sceneggiato.

Insomma, appare chiaro e lampante come il dualismo Luna-Cinema abbia avuto molta fortuna nell’ambito del cinematografo, solleticando la fantasia di registi e sceneggiatori e suscitando l’interesse del pubblico di tutte le generazioni. Addio a Franco Zeffirelli, un regista che ha segnato la mia infanzia di giovane spettatore cinematografico

Ho un ricordo della mia infanzia molto forte legato ad un film di Franco Zeffirelli, era verso la fine degli anni ’70, ero molto piccolo, forse 3, 4 anni e come spesso accade i ricordi legati all’infanzia sono quelli che, non solo definiscono chi siamo diventati, ma sono la parte più indelebile della nostra memoria. Il film era Romeo e Giulietta del 1968, che ho visto in televisione con i miei genitori un po’ di anni dopo l’uscita in sala.

Ovviamente ero troppo piccolo per capire l’intreccio della storia d’amore per eccellenza, troppo piccolo per comprendere elementi come la regia, il montaggio, etc., ma ero abbastanza grande e curioso da porre domande e da ricordare alcuni elementi del film, primo fra tutti la bellezza degli interni in cui era ambientata la pellicola, non sapevo si chiamasse scenografia, poi i costumi buffi e colorati e soprattutto la musica che accompagnava lo scorrere delle immagini. Era tutto bello, meraviglioso ed esagerato, oggi per dirlo userei termini come: ricercato, abbagliante e sontuoso.

Più di tutto mi sono rimasti nella memoria le immagini degli interni accompagnate dalla struggente musica, una musica che, quando la risento oggi, ancora riesce a suscitare in me sentimenti di nostalgia e malinconia.

La colonna sonora del film, come scoprì solo da adulto, era stata scritta e diretta dal famoso compositore Nino Rota. Ma era il tema del film, la famosa “What Is a Youth”, con testo di Eugene Walter, interpretata da Glen Weston, ad aver segnato profondamente il mio immaginario. Il brano nella versione italiana del film si intitolava “Ai giochi addio”, con il testo di Elsa Morante (scrittrice Premio Strega), che venne affidato al cantante Bruno Filippini, che nel film interpreta il menestrello (e che aveva vinto il Festival di Castrocaro insieme a Gigliola Cinquetti). I d u e p r o t a g o n i s t i d e l film Romeo e Giulietta erano molto vicini all’età dei personaggi originali; infatti, durante le riprese Leonard Whiting (Romeo) aveva diciassette anni, Olivia Hussey (Giulietta) sedici.

Va da sé che a 4 anni, non capii niente della trama, della storia, delle vite tragiche di Romeo e Giulietta, ma quando lo rividi da ragazzo 6, 7 anni dopo, con una consapevolezza e maturità diverse, il film mi impressionò e commosse oltre ogni dire e così è stato negli anni successivi, in cui l’ho rivisto, sempre con emozione e trasporto. Sicuramente il film di Zeffirelli è fra quelli che ho visto più spesso, almeno una quindicina di volte.

Mi è tornato in mente questo ricordo proprio sabato scorso (15 giugno ’19) quando, davanti alla TV guardando l’edizione principale del TG1, ho appreso della morte del grande regista, scenografo e sceneggiatore italiano. Mi sono tornati in mente altri suoi film che hanno segnato la mia giovinezza di appassionato di cinema e la mia vita adulta di cinefilo incallito: Gesù di Nazareth (1976), forse la trasposizione cinematografica più riuscita della vita di Gesù; Amleto (1990), con uno straordinario Mel Gibson nei panni del principe danese e con un cast stellare, tra cui spiccavano Glenn Close, Alan Bates e Helena Bonham Carter, un film incredibile per le scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, per le musiche di Ennio Morricone e per i ricercati (e storicamente attendibili) set allestiti fra la Scozia, l’Inghilterra e la Francia.

Franco Zeffirelli se n’è andato, nella sua casa di Roma, all’età di 96 anni, dopo una lunga malattia, lasciando un vuoto immenso nel mondo del cinema. Un regista amatissimo in Italia, ed ancora di più all’estero, che aveva cominciato la sua carriera come aiuto regista di Luchino Visconti per film come La terra trema e Senso, dopo aver frequentato prima il collegio del Convento di San Marco a Firenze, dove ebbe come istitutore Giorgio La Pira, e poi l’Accademia di Belle Arti della stessa città, dove aveva conseguito una laurea in scenografia.

Si divise sempre fra cinema e teatro, ci lascia tanti capolavori cinematografici e un numero incredibile di regie di opere teatrali e liriche, che sono sempre state accompagnate da un grandissimo successo di critica e pubblico. Curò la regia di importanti eventi televisivi come l’apertura dell’Anno Santo nel 1974 e nel 1999 e collaborò con i più importanti teatri dell’opera del mondo fra cui La Scala di Milano, il Metropolitan Opera House e l’Opéra National de Paris.

È stato un vero ambasciatore della cultura italiana nel mondo e per questo fu insignito di diverse onorificenze fra le quali: Grand’Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 1977, Medaglia ai benemeriti della cultura e dell’arte nel 2003 e addirittura nel 2004 la Regina Elisabetta lo nominò Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico. Fu un grande regista, un vero Maestro, come si è detto, non solo italiano ma mondiale, fin dalle sue prime regie lavora con grandi produzioni internazionali. Cominciò giovanissimo nel dopoguerra prima al teatro e poi al cinema ed ha avuto una carriera lunga oltre 70 anni.

Il lavoro di Franco Zeffirelli come regista cinematografico è stato sempre caratterizzato dall’estrema eleganza formale e la predilezione per il melodramma e le storie d’amore, messe in scena con senso dello spettacolo e gusto figurativo ricercato e prezioso. Furono senza dubbio i suoi studi all’Accademia ed i primi anni di apprendistato, svolti sotto l’ala protettiva di Luchino Visconti (con il quale ebbe anche un lungo e travagliato rapporto, molto chiacchierato dalla stampa, a metà degli anni ’50), ad influenzare il suo stile registico.

Fu dichiaratamente omosessuale e cattolico, oltre che politicamente anticomunista, vicino al centro- destra, per il quale fu senatore nelle file di Forza Italia dal 1994 al 2001.

Non vinse mai un Oscar, per il quale ricevette solo due nomination, una nel 1969 come Miglior Regista per Romeo e Giulietta, l’altra nel 1983 per la Miglior Scenografia per La Traviata. Vinse 5 David di Donatello e solo un Nastro d’Argento nel 1969 come Regista del Miglior Film per Romeo e Giulietta (tra l’altro il suo film più premiato).

Sicuramente avrebbe meritato qualche riconoscimento in più sia all’estero che in patria, ma il pubblico non gli fece mancare mai il suo affetto e le attestazioni di stima; un pubblico che ha affollato in migliaia la camera ardente allestita a Palazzo Vecchio nella sua amata Firenze, nei due giorni successivi alla morte.

Ci lascia oltre ai film e alle opere teatrali e liriche, uno sterminato patrimonio composto da disegni, bozzetti, copioni, sceneggiature, libretti d’opera, fotografie, filmati e una biblioteca di oltre 10mila volumi, raccolti nei settant’anni di carriera del maestro, che verranno custoditi in un apposito museo nella Fondazione Franco Zeffirelli, a due passi da Piazza della Signoria, sempre a Firenze. Un patrimonio immenso, stimabile in 180 milioni di euro.

Insomma un vero e proprio gigante non solo del cinema ma della cultura, uno che un tempo si sarebbe chiamato intellettuale e/o Maestro, ma che oggi, sommersi come siamo dalla società liquida, sbrigativamente ci limitiamo a definire “solo” regista.

A me mancherà tantissimo l’eleganza formale delle sue inquadrature, la bellezza delle sue scenografie e, soprattutto, il suo sguardo sul mondo; fortuna che ci rimarranno sempre le sue opere che potremo rivedere ancora ed ancora.

Addio Maestro. Il grande spirito - Il film

Quello appena uscito nelle sale, ovvero Il grande spirito, è un film complesso, poeticamente stralunato e avvolto da un realismo magico, cifre distintive del cinema di Sergio Rubini e di Rocco Papaleo, attore comico “lunare”, un po’ alla Macario. Sempre in bilico fra materia e spirito, fra concretezza anche gretta e allucinazione sempre nobile, Il grande spirito è una storia di miseria e nobiltà, con una grande attenzione all’elemento polisensoriale: il suono, in particolare, è molto curato, dal lamento gutturale di un malato costretto al ricovero forzato al ticchettio di una mano nervosa. Il grande spirito è dunque un piccolo gioiello, partito quasi nell’ombra, ma che ben presto ha assorbito ammiratori come una spugna assorbe l’acqua. Surreale e a tratti bizzarro, ma anche profondamente calato nella realtà locale: il film è girato a Taranto, ma nella parte industriale, quella avvelenata dai veleni dell’industria siderurgica, la quale però, saggiamente, rimane sempre sullo sfondo.

I due personaggi principali creano una sinergia magistrale che dà forza e propulsione alla storia. La vicenda per lo più si sviluppa sui tetti e resta in alto, in una dimensione onirica, senza mai cadere in basso nel sentimentalismo o nella banalità. E’ la storia di Tonino (Sergio Rubini), un ladruncolo sempre in cerca del grande colpo di fortuna: che sembra finalmente arrivare quando il bottino di una rapina, per cui lui era stato relegato al ruolo di palo, finisce fortuitamente nelle sue mani. Tonino fugge con la refurtiva sui tetti di Taranto e trova rifugio in un abbaino fatiscente abitato da uno strano personaggio: Renato (Rocco Papaleo), che si è dato il soprannome di Cervo Nero perché si ritiene un indiano, parte di una tribù in perenne lotta contro gli yankee. Renato, come sillaba sprezzantemente Tonino, è un “mi-no-ra-to”, ma è anche l’unica àncora di salvezza per il fuggitivo, che tra l’altro si è ferito malamente cadendo dall’alto di un cantiere sopraelevato. Fra i due nascerà un’intesa frutto non solo dell’emarginazione, ma anche di un’insospettabile consonanza di vedute.

Rubini, alla sua 14esima regia, sforna un film, che sembra rifarsi allo stralunato gioiello della commedia all’italiana Non toccare la donna bianca, in cui la guerra di secessione americana, era ambientata in una cava nel centro di Parigi e le avventure dei protagonisti (Mastroianni, Tognazzi, Noiret, Piccoli), si svolgevano con i grattacieli di Parigi sullo sfondo. Allo stesso modo la storia attuale si svolge sui tetti, anziché in una cava, e sullo sfondo al posto dei grattacieli ci sono le famose ciminiere di Taranto. Le immagini della fabbrica, con le sue fornaci e i suoi tossici fumi, si mescolano alle immagini del fuoco “purificatore” acceso da Cervo Nero: inferno e praterie celesti, distruzione e devozione, peccato e redenzione. Altra scelta fortemente simbolica è quella di ambientare quasi tutta la storia sui tetti di Taranto, in una ricerca visiva di elevazione fisica e spirituale: tutta la parabola (è il caso di dirlo) di Tonino e Renato si consuma nella verticalità, in ascese celestiali e rovinosi schianti a terra – quella terra avvelenata dalle fabbriche e infestata dalla malavita. Anche le ciminiere dell’Ilva incombono grazie alla loro altezza, che si erge arrogante sopra il livello del mare tarantino.

La questione dell’Ilva insomma, pur senza invadere il campo della vicenda, permea – come un veleno silenzioso e letale – tutta la storia: le esistenze miserabili, la decimazione degli “indiani”, la rabbia (mal) repressa, l’orizzonte forzatamente (de)limitato. Tonino e Renato sono quindi, l’uno l'”uomo del destino” dell’altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore, quella luce che lotta contro il buio circostante. Ma i due personaggi sono soprattutto lo specchio del talento dei due protagonisti, autori-attori di straordinario talento, poliedrici e capaci di acchiappare il pubblico di tutte le età, con un viscerale amore per il cinema, che permea dal primo all’ultimo minuto di film. Una pellicola da ricordare e…da vedere: amara e figlia dei tempi attuali.

The Matrix – Il Film

È il marzo del 1999 quando nella sale USA esce il film “The Matrix”, realizzato dagli allora fratelli Andy e Larry Wachowski (prima di diventare le sorelle Lana e Lilly), film epocale sia per gli argomenti trattati sia per le tecnologie cinematografiche impegnate.

Siamo alla fine di un secolo e di un millennio, il mondo è profondamente diverso da come lo conosciamo oggi. In esso vi erano poco meno di 400 milioni di utenti collegati ad internet e non esistevano Facebook, You Tube, Iphone ed app. La preoccupazione principale legata alla rete internet, ancora appannaggio di pochi utenti, era rappresentata dal “Y2K bug”, meglio noto come Millennium bug, un difetto informatico che si sarebbe manifestato al cambio di data della mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati di tutto il mondo.

Il film dei fratelli Wachowski ci presenta un futuro prossimo venturo dispotico, claustrofobico e terrorizzante. Tutto prende avvio dalla vita di Thomas A. Anderson, programmatore di software presso la Metacortex, cittadino modello di giorno e attivo hacker, sotto lo pseudonimo di “Neo”, di notte. Ad un certo punto il nostro inconsapevole eroe viene contattato da Trinity, esperta e conturbante hacker braccio destro del misterioso Morpheus, vero e proprio criminale informatico.

L’incontro con Morpheus è illuminante: Neo viene a conoscenza del fatto che il mondo reale a cui è abituato altro non è che una gigantesca simulazione al computer a cui tutti gli esseri umani sono collegati a loro insaputa, simulazione che prende il nome di “Matrix”, che serve a nascondere una amara e allucinata realtà creata dalla macchine e dall’intelligenza artificiale per assoggettare gli esseri umani.

Risvegliato alla vera realtà, Neo entrerà nella resistenza guidata da Morpheus, che cerca di scollegare quanti più umani possibili da questa simulazione globale.

Il film presenta profondi riferimenti filosofici, religiosi e sociologici e, in un certo senso, profetizza il mondo in cui oggi ci troviamo a vivere, perennemente collegati ai nostri dispositivi elettronici, che misurano e profilano ogni aspetto della nostra vita, “suggerendoci” che cibo mangiare, come vestire, cosa leggere, quale opinione avere, chi frequentare, chi votare e così via. Gli smartphone e le innumerevoli app su di essi scaricate sono quanto di più simile all’incubatrice in cui si risveglia Neo dopo aver ingerito la famosa pillola rossa datagli da Morpheus. Il film è passato alla storia principalmente per gli effetti speciali, ma tutta la lavorazione fu difficile e complessa: pensate che la sceneggiatura richiese più di 5 anni di lavorazione, per un totale di 14 bozze e che gli storyboard furono più di 600.

Gli spunti letterari per la storia furono innumerevoli: in primis il film saccheggia il “mito della caverna” di Platone”, poi “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, l’“Odissea” di Omero e soprattutto “Simulacri e Simulazione” di Jean Baudrillard, ritenuto così essenziale ai fini della storia che i fratelli Wachowski comprarono molte copie del testo, che fecero leggere a gran parte del cast e della troupe. Questo libro era così importante che a Keanu Reeves (Neo) venne imposto di leggerlo ancor prima di iniziare a sfogliare la sceneggiatura. Reeves ha sempre sostenuto che fu proprio grazie a questo libro che fu capace di cogliere e capire tutte le sfumature filosofiche del film.

A proposito di Keanu Reeves, che regalò al personaggio di Neo un’interpretazione magistrale, l’attore non fu la prima scelta dei registi: il ruolo del protagonista fu offerto prima a Johnny Deep, Brad Pitt, Val Kilmer, Leonardo Di Caprio ed anche all’allora giovanissimo Will Smith, ma alla fine la scelta si restrinse tra Johnny Deep e Keanu Reeves, con quest’ultimo preferito dalla Warner Bros perché, fin da subito, sembrò aver capito l’essenza del film. Anche per il ruolo di Morpheus si pensò a diversi nomi, tra questi Gary Oldman e Samuel L. Jackson, ma alla fine a spuntarla fu Laurence Fishburne, che definì il suo personaggio di Morpheus come un mix tra Obi-Wan Kenobi e Darth Vader.

Le scene e le ambientazioni dark del film furono calibrate su un scelta cromatica molto forte e precisa. Tre furono i colori principali usati per colorare e caricare di significato i fotogrammi. Innanzitutto il verde, che fu utilizzato per tutte le scene ambientate nel mondo fittizio di Matrix; si voleva ricreare l’effetto di una realtà filtrata attraverso il monitor di uno schermo di computer (nel 1999 molti schermi del computer erano ancora monocromatici, appunto verdi, perché si era scoperto che questo colore aumentava la definizione e non stancava la vista), poi perché questo colore è da sempre associato al mistero ed all’oscurità. Poi il blu, che divenne il colore per rappresentare le scene della realtà e della vita vera fuori dalla simulazione di Matrix; il colore blu fu usato per le sensazioni di freddezza e melanconia che trasmette, le stesse che i registi volevano traspirassero dal film. Infine fu scelto il giallo per rappresentare il limbo fra vita reale e Matrix, come ad esempio le simulazioni dell’addestramento di Neo: il giallo è da sempre associato all’insicurezza e sembrò ideale per rappresentare tutte quelle simulazioni non ordite dalle macchine ma create dagli uomini per sconfiggerle.

Il film immaginò anche un abbigliamento ed uno stile molto dark: tutti i protagonisti del film, maschili e femminili, sono fasciati in lunghi capotti neri ed attillate tutine di PVC. Per i costumi Kym Barrett, per via del budget limitato, fece di necessità virtù, realizzando il costume di Trinity con PVC a basso costo e il cappotto di Neo con una stoffa che costava 3 dollari al metro. Altro trattamento fu riservato per gli splendidi occhiali da sole dei protagonisti, che sarebbero diventati un must della moda di quegli anni. Fu una piccola azienda artigianale, la Blinde, che vinse la gara contro colossi come Ray-ban e Arnette, che decise di realizzare gli occhiali basandosi sull’inusuale nome dei personaggi. Richard Walker, fondatore dell’azienda, disegnò e realizzò degli occhiali molto avveniristici soprattutto per il modello di Morpheus, che era privo di stanghette e che si reggeva sul naso con una speciale clip brevettata.

Ma Matrix è passato alla storia soprattutto perché ha aperto nuove frontiere nella tecnica cinematografica, a partire dal “bullet time”. Un effetto speciale che, sfruttando simultaneamente un gran numero di fotocamere, disposte intorno ad un oggetto o una persona, permette di ricostruire, frame dopo frame, la medesima scena e riprodurla al rallentatore. Questa tecnica, insieme alla computer grafica 3D e al chroma key, ha reso leggendaria e citatissima la scena di Neo intento a schivare i proiettili.

Insomma un film epico, anzi un franchise multimediale, composto da altri due film, un videogioco, un fumetto ed una serie di cortometraggi di animazione “Animatrix”, media diversi che a detta degli autori e dei registi dovevano essere fruiti e visti tutti per ampliare e comprendere meglio l’universo narrativo del film. E, a proposito di fumetti e spunti narrativi, Matrix ha rischiato anche una denuncia di plagio. I l s e t p e r l a r e a l i z z a z ione dell’effetto “bullet time”.

Nel 1992 Stefano Disegni e Massimo Caviglia avevano creato “Razzi Amari”. Si trattava di un fumetto multimediale da leggere insieme a una musicassetta realizzata dalla band Gruppo Volante dello stesso Disegni. La storia era incentrata su un futuro allucinato, in cui la popolazione era sotto il giogo di una dittatura dispotica creata dalle macchine. Le macchine controllavano le persone tramite un chip, installato nella loro mente appena nati, che proiettava l’illusione di vivere in un mondo perfetto. Anche nel fumetto di Stefano Disegni c’era una resistenza che si era organizzata e combatteva le macchine. Insomma una storia molto simile a quella del film, che spinse i creatori del fumetto a contattare un avvocato che ravvisò gli estremi per una causa di plagio, ma alla fine i fumettisti desistettero perché la causa contro la Warner Bros sarebbe stata proibitiva.

Per concludere, The Matrix (o Matrix nella traduzione italiana), è un film assolutamente da vedere perché come tutta la miglior fantascienza ci racconta chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando e, siccome il film ha già 20 anni, il futuro immaginato da Matrix è il nostro presente e, per dirla con Morpheus:

“Benvenuti nel deserto del reale!” Dalle nozze di stagno a quelle di oro di 5 capolavori assoluti del cinema.

Il nostro mensile dedica questo numero agli anniversari importanti del 2019 ed io, per parlare di cinema, ho a disposizione tantissimo materiale, eterogeneo ed interessante. Fare una selezione dei film che quest’anno compiono un anniversario importante non è stato semplice, numerosi i generi e tanti i capolavori. Ho provato a sceglierli partendo da un anniversario fresco come quello dei 10 anni, dove è ancora semplice ricordare il film e le sensazioni che ci ha lasciato, fino ad arrivare a quello dei 50 anni, le nozze d’oro di pellicole indelebili. 10 anni di “Avatar” (2009)

E’ il film che detiene il record come campione d’incassi al botteghino con 2,8 miliardi di dollari (record che potrebbe essere superato da “Avengers: Endgame”). Film di fantascienza ideato e diretto dal regista James Cameron (già campione d’incassi con il colossal “Titanic”), narra la storia di Jake Sully, un ex marine sulla sedia a rotelle, che è stato reclutato per viaggiare anni luce fino al pianeta Pandora, dove si sta estraendo un minerale che è la chiave per risolvere la crisi energetica sulla Terra. L’atmosfera sul pianeta, però, è tossica per gli umani, quindi, sono stati creati degli esseri simili in tutto agli umani che, invece, si trovano al sicuro dentro la base e che guideranno, collegando le loro coscienze, questi avatar, ibridi sviluppati geneticamente dal dna umano unito al dna degli abitanti nativi di Pandora, i Na’vi. Opera che ha segnato la storia del cinema, soprattutto per gli effetti speciali, essendo stato concepito dal regista appositamente per la visione in 3D; tra i tanti premi, è vincitore di 3 Oscar: Miglior fotografia, Migliori effetti speciali e Miglior scenografia.

20 anni di “Essere John Malkovich” (1999)

Film nato dal connubio tra il visionario regista Spike Jonze e l’inventivo sceneggiatore Charlie Kaufman, è la storia di Craig (John Cusack), burattinaio che, spronato dalla moglie Lotte (una giovanissima Cameron Diaz, che non siamo abituati a vedere così trasandata), trova lavoro come archivista, in una ditta che si trova al settimo piano e mezzo di un grattacielo di New York. Ma ancora non capiamo cosa c’entra l’attore John Malkovich in tutto questo. Craig un giorno scopre per caso, dietro un armadio, un passaggio segreto, un tunnel e percorrendolo si ritrova catapultato in un’esperienza unica: essere John Malkovich. Il regista statunitense esordisce alla regia nel 1999, con questa perla cinematografica, grottesca e surreale, che catapulta lo spettatore in una storia assurda, per poco più di 100 minuti, e il protagonista in un altro corpo, per soli 15 minuti. 30 anni di “L’attimo fuggente” (1989)

Capolavoro del regista Peter Weir, ambientato nel 1959, con protagonista il grande Robin Williams, nei panni del prof. John Keating, che in questo film ci regala un’interpretazione toccante ed illuminante. L’insegnante guida con passione la sua classe del collegio maschile Welton, nell’emozionante mondo della letteratura e della poesia e con i suoi metodi poco ortodossi segnerà per sempre le loro vite. E’ difficile scegliere il miglior film dell’attore americano che troppo presto ci ha lasciati, ma sicuramente questa è una delle pellicole in cui maggiormente ci ha entusiasmato e commosso. Oscar alla Miglior sceneggiatura originale allo sceneggiatore Tom Schulman, per un film pieno di riferimenti e citazioni letterarie.

40 anni di “Apocalypse now” (1979)

Francis Ford Coppola dirige il film di guerra che rimarrà indelebile nella storia del cinema. Ambientato durante la guerra in Vietnam, segue la vicenda del capitano dei corpi speciali Benjamin Willard, che riceve l’ordine di uccidere il colonnello Kurtz, che sta combattendo una guerra personale ai confini fra il Vietnam e la Cambogia. Le riprese di questo imponente film diventano un’odissea, tra alcol e droghe, complicazioni con la polizia, problemi di salute del regista e degli attori, la sua realizzazione finisce per durare un totale di dieci anni. Nonostante tutto questo, il film vince due premi Oscar, per la Miglior fotografia (all’italiano Vittorio Storaro) e per il Miglior sonoro ed anche la Palma d’Oro a Cannes, con una versione neanche definitiva.

50 anni di “Prendi i soldi e scappa” (1969)

E’ il primo film diretto, interpretato e sceneggiato, da Woody Allen, e racconta la storia di un rapinatore maldestro i cui tentativi di delinquere si risolvono sempre in numerosi grotteschi disastri; entra ed esce di prigione finché viene condannato a ottocento anni di carcere. Il regista gira un finto documentario, con lo stile del documentario, infatti, realizza filmati di repertorio e interviste, dando vita a gag semplici ed efficaci, che nel corso della sua produzione cinematografica rappresenteranno la sua personale ed inconfondibile cifra stilistica. Nel 2000 l’American Film Institute ha inserito “Prendi i soldi e scappa” al 66° posto della classifica delle migliori cento commedie statunitensi.

Il mio augurio per questo anniversario è che il 2019 (così come gli anni successivi) possa regalarci altri capolavori, da poter ricordare, con piacere ed emozione, tra 10, 20, 50 anni.

Ma cosa ci dice il cervello - Il film

Iniziamo dall’epilogo: Ma cosa ci dice il cervello consegna a Paola Cortellesi, splendida protagonista del film, il Nastro d’Argento come miglior attrice di commedia, un giusto riconoscimento ad una donna del cinema, che ogni anno che passa diventa sempre più brava, sempre più interprete dei vizi e delle virtù della donna italiana. In questo potremmo forse paragonarla a Monica Vitti? Probabilmente è la più vicina, perché è quella che più di tutte, al giorno d’oggi, nell’ambito della commedia riesce meglio a comprendere come siano le donne italiane del nuovo millennio.

Le avrà probabilmente giovato l’accoppiata non solo artistica con Riccardo Milani, regista del suddetto film e suo compagno di vita. Al suo quarto film con il regista, dopo Scusate se esisto, Mamma o papà e Come un gatto in tangenziale, Paola Cortellesi è utilizzata in una parodia delle spy story di spionaggio all’americana, che mette in risalto il suo grande talento comico.

P a r t e d e l c a s t d e l f i l m “Ma cosa ci dice il cervello”.

Come in tutti i film di spionaggio che si rispettino, anche quelli parodistici, si viaggia per il mondo. Si gira a Roma, a Mosca proprio nella Piazza Rossa, a Siviglia e perfino per le vie del mercato di Marrakech.

Lo stesso regista, all’ottava edizione di Ciné-Giornate di cinema, ha descritto così il suo film, che poi sarebbe uscito qualche giorno dopo, ovvero il 18 aprile scorso:

“Una commedia sociale per raccontare un Paese che ha bisogno di risvegliarsi dal torpore. Proprio come farà la sua protagonista, Paola Cortellesi, donna abituata alle angherie del quotidiano, alle prepotenze del traffico e che un giorno, rincontrando amici di vecchia data, avrà la forza per alzare la testa e smuovere qualcosa, magari rimettendo le cose al proprio posto”.

Le avventure che vive l’agente segreto interpretato da Paola Cortellesi, con sferzante ironia, possono essere viste come un tentativo comunque riuscito, di raccontare il nostro Paese, in chiave di divertimento e di riflessione sui tempi moderni.

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David di Donatello 2019: i verdetti

Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti.

Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel, montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale, continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.»

Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations, conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano Cucchi:

Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory, Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens.

Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa , completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi. L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata. Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie davvero, non me lo aspettavo.»

Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima batte Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio «alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di Gabriele Muccino. D e b a c l e t o t a l e p e r L a z zaro Felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di che, a fronte rispettivamente di 9 e 7 nomination, restano a mani vuote. Due grandi registi si aggiudicano invece i David per il miglior documentario e per il miglior film straniero. Il primo è Nanni Moretti con il suo Santiago, Italia ed uno scarno e veloce ringraziamento sul palco, mentre il secondo è Alfonso Cuarón con il suo pluripremiato Roma, già vincitore il mese scorso agli Oscar hollywoodiani. David per il miglior cortometraggio a Frontiera di Alessandro Di Gregorio.

Esplicati i David ordinari, la serata, come sempre è stata arricchita dai David speciali alla Carriera. Uno di questi, attesissimo, è andato al grande Tim Burton. Il geniale regista di Dumbo, accolto da una standing ovation giusta e accorata, ha sottolineando la differenza di trattamento che riceve in patria: «Vorrei che la gente fosse così carina con me anche nel mio paese». Molto emozionato ha poi ricordato il suo amore per il cinema italiano: «Io sono cresciuto con registi italiani come Fellini, Mario Bava, Dario Argento.. ho lavorato con Dante Ferretti. Non sono italiano ma è come se avessi una famiglia italiana ed è meraviglioso per me ed è un onore essere qui.» Burton ha poi parlato del suo reboot di Dumbo ed ha ricevuto il David alla Carriera dalle mani di Roberto Benigni: «Roberto l’ho ammirato e amato per tantissimi anni, quindi la famiglia si ingrandisce. E per me ricevere questo premio da Roberto e tutti quelli che ho conosciuto ed amato qui, è uno dei più grandi onori della mia vita». Benigni risponde omaggiandolo a sua volta, annuncia poi il suo ritorno al cinema nel Pinocchio di Matteo Garrone, mentre riceve anch’egli una standing ovation meritata per il ventennale del trionfo della Vita è bella agli Oscar.

Altro ospite internazionale e altro David alla carriera per la sempre sensuale Uma Thurman. Gli altri due David alla Carriera della serata, invece parlano italiano: la terza statuetta speciale va alla grande scenografa vincitrice di 3 Oscar Francesca Lo Schiavo, che lo ha dedicato a «tutti i registi con cui ho lavorato e che mi hanno insegnato a guardare oltre il possibile»; la quarta e ultima statuetta alla Carriera, sicuramente la più meritata, va a Dario Argento, accolto dalla terza standing ovation della serata. Il maestro del brivido, che in carriera non aveva mai vinto un David, dopo le banali e trite domande di Conti, si compiace a metà per il premio, con un pizzico di polemica: «Vorrei dire una cosa, un po’ polemica: io ho fatto tanti anni cinema, ormai quasi 40 anni, e non ho mai ricevuto un David di Donatello, questa è la prima volta». E alla battuta di Conti «Maestro.. uno solo, ma un David Speciale dato col cuore dall’Accademia», Argento taglia corto con un lapidario «sì, ma troppo tardi».

Se l’assegnazione dei premi, ordinari e speciali, è condivisibile e per alcune categorie, ampiamente previste, per la qualità delle eccellenze messe in gioco (vedasi Dogman per il miglior film, Alessandro Borghi come miglior attore ed Elena Sofia Ricci come miglior attrice), lo show è altresì sembrato troppo simile a quelli classici, salottari e sempliciotti, a cui “Mamma Rai”, ci ha abituato negli ultimi anni. Forse uno show più innovativo per i cosiddetti “Oscar italiani”, sarebbe stato più consono all’importanza e alla risonanza che i David di Donatello hanno nel mondo, in ossequio alla gloriosa e più che centenaria storia del nostro cinema. David di Donatello 2019: le candidature

La 64esima edizione dei cosiddetti “Oscar italiani”, ovvero quella dei David di Donatello, è ormai imminente: si terrà infatti mercoledì 27 marzo in diretta su Rai Uno, dove la cerimonia torna, dopo le parentesi mediocri su Sky. La conduzione della serata di gala sarà affidata all’esperto Carlo Conti: una sicurezza, nonché un marchio di fabbrica di mamma Rai. L’edizione di quest’anno ha visto l’introduzione di una serie di cambiamenti, tra cui la nomina di una nuova giuria, nuove regole di ammissione dei film e la nascita del David di Donatello dello Spettatore. Il premio sarà assegnato al film uscito entro il 31 dicembre 2018 che avrà ottenuto il maggior numero di spettatori.

Il direttore artistico Piera Detassis, al momento dell’annuncio alla stampa delle nominations, ha enunciato tutte le novità di un’edizione che si preannuncia innovativa, progressista, anche più internazionale se possibile. I gloriosi David alla Carriera, quelli più prestigiosi e importanti saranno assegnati al visionario e sognatore regista americano Tim Burton e al nostro Dario Argento, maestro mondiale dell’horror movie. Come per i David speciali alla carriera, anche altri premi sono stati già svelati: il David dello spettatore, assegnato al film che ha registrato più incassi al botteghino, è andato al film A casa tutti bene, opera corale di Gabriele Muccino, già vincitore del Nastro d’argento speciale a tutto il cast; il David al miglior film straniero, va a Roma di Alfonso Cuaròn, già vincitore degli Oscar come miglior film e migliore regia; il David al miglior cortometraggio, infine, è stato assegnato a Frontiera di Alessandro Di Gregorio.

Tutti gli altri numerosi premi, verranno svelati la sera del 27 marzo, a fronte di una giuria numerosa che si è già pronunciata in merito. Ovviamente l’attenzione è quasi tutta concentrata sui premi principali, ovvero quelli al miglior film e alla migliore regia e ai quattro dedicati agli attori (miglior attore e miglior attrice, categorie protagonista e non protagonista). Quattro film sono presenti sia nella categoria “miglior film” che in quella dedicata alla “miglior regia”: Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino; Dogman, di Matteo Garrone; Euforia, di Valeria Golino; Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è invece presente soltanto nella categoria “miglior film”, così come Capri-revolution, di Mario Martone è presente soltanto in quella alla “miglior regia”. L’impressione, come spesso accade, è che il premio al miglior film e alla miglior regia, andranno a combaciare nel giudizio insindacabile della giuria.

Per la categoria “miglior attrice protagonista”, favoritissima la splendida Elena Sofia Ricci, per la superba interpretazione di Veronica Lario nel film Loro, di Paolo Sorrentino, già vincitrice del Nastro d’argento nella medesima categoria. Sue rivali Marianna Fontana per Capri-Revolution, Pina Turco per Il vizio della speranza, per Troppa grazia, Anna Foglietta per Un giorno all’improvviso. Cinquina fenomenale ed incerta anche quella al “miglior attore protagonista”: Marcello Fonte – Dogman, Riccardo Scamarcio – Euforia, Luca Marinelli – Fabrizio De André: Principe libero, Toni Servillo – Loro, Alessandro Borghi - (quest’ultimo favoritissimo). Particolare la cinquina della categoria al “miglior attore non protagonista”: dal favorito Massimo Ghini per A casa tutti bene, ad Edoardo Pesce per Dogman, passando per l’onnipresente Valerio Mastandrea (Euforia), collezionista di premi e nominations ai David, fino al compianto Ennio Fantastichini per Fabrizio De André: Principe libero, e Fabrizio Bentivoglio per Loro. Nella stessa categoria al femminile troviamo le seguenti candidature: Donatella Finocchiaro – Capri-Revolution, Marina Confalone – Il vizio della speranza, – Lazzaro felice, Kasia Smutniak – Loro, Jasmine Trinca – Sulla mia pelle.

Considerato anche i numerosi premi minori, precisando quel termine “minori”, come impatto mediatico e non certo per l’impegno o per le professionalità delle competenze messe in atto, a fare la parte del leone è Dogman con 15 nomination, seguito da Capri-Revolution con 13 e Chiamami col tuo nome e Loro con 12 nomination ciascuno. Tutto è pronto dunque per quella che ogni anno, tra critiche e polemiche di ogni tipo, è la serata di gala del cinema italiano, checché se ne dica, sempre vivo e pieno di fresche novità.

20 anni senza Stanley Kubrick

Il 7 marzo del 1999, a pochi giorni dalla conclusione del montaggio del suo ultimo film Eyes Wide Shut, moriva stroncato da un infarto, a 77 anni, il grande cineasta Stanley Kubrick.

Un regista, geniale, irriverente e visionario, leggendario per almeno 3 generazioni (fra cui la mia), che per molti, moltissimi appassionati rappresenta l’essenza stessa della regia; il suo nome è, addirittura, diventato “sinonimo” delle parole regista e cinema. U n a c a r r i e r a l u n g a 5 0 anni, che ci consegna solo 13 film, ma che sono altrettanti pietre miliari del cinema mondiale. Basta scorrere l’elenco per rendersene conto: “Lolita”, “Il dottor Stranamore”, “2001 Odissea nello spazio”, “Arancia meccanica”, “Shining”, “Eyes Wide Shut”, giusto per citare i più celebri.

Il suo talento visionario, la cura maniacale per i particolari, il carattere riservato, il suo famigerato controllo assoluto su tutti gli aspetti del film, sono solo alcune delle caratteristiche che ne hanno aumentato la leggenda ed il mito. Stanley Kubrick resta indissolubilmente legato all’arte del cinema e rappresenta, cosa rara, uno dei pochi registi apprezzato da pubblico e critica. I suoi complessi e stratificati film, le sue smaglianti immagini, i suoi spunti narrativi ancora permeano ed influenzano profondamente, non solo la cultura alta e quella pop, ma il nostro stesso immaginario collettivo. D a y o f t h e F i g h t ( 1 9 5 1 ) .

Sarebbero tantissime le cose da dire su questo straordinario regista ed i suoi film (e francamente sono un po’ in imbarazzo a scrivere di questo cineasta), ma vi propongo, tredici aneddoti, tanti quanti i suoi film, tredici curiosità, tredici meta-informazioni cinematografiche per farvi conoscere, approfondire, innamorare o ri-innamorare di questo regista.

1) Il primo film fu il cortometraggio/documentario Day of the Fight, è del 1951, ed è basato sul reportage fotografico che lo stesso Kubrick realizzo per la rivista Look con la quale lavorava. Il film segue per un giorno intero la preparazione del pugile Walter Cartier per un combattimento. Fu autoprodotto con un investimento di 3900 dollari e Kubrick stesso si occupò di gran parte delle mansioni della troupe, oltre a quella di regista, infatti, svolse quelle di sceneggiatore, operatore della macchina da presa, direttore della fotografia, montatore e scenografo; S t a n l e y K u b r i c k e J a c k Nicholson sul set del film Shining (1980).

2) Il primo lungometraggio è del 1953, Fear and Desire (Paura e desiderio), dove il regista con una piccola troupe filma le vicende di un plotone disperso dietro le linee nemiche. Il film rappresenta il primo approccio del regista al genere bellico e la prima disamina sull’inutilità e la violenza della guerra, argomenti sui quali tornerà con “Orizzonti di gloria” del 1957, “Full Metal Jacket” del 1987 ed, in parte, con “Barry Lyndon” del 1975. Per girare il film, gli amici del regista raccolsero 1000 dollari con una colletta fra conoscenti e parenti e, lo stesso Kubrick, coinvolse nel progetto suo zio Martin Perveler, agiato proprietario di una catena di farmacie a Los Angeles, che divenne produttore associato e fornì altri 9000 dollari. Il film fu presto ripudiato dal regista, che lo considerava un errore giovanile e che si premurò di limitarne al massimo la diffusione, acquistando e facendo “sparire” gran parte delle copie presenti negli archivi;

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3) Il terzo lungometraggio The Killing (Rapina a mano armata) del 1956, viene girato dal regista appena ventottenne con un budget di 330.000 dollari e con una piccola casa di produzione fondata insieme al regista, sceneggiatore e produttore James B. Harris, che produrrà anche “Orizzonti di gloria” e “Lolita”. Il film è un flop al botteghino dove incassa solo 30.000 dollari, ma un successo di critica, alcuni commentatori parlano di Kubrick come il nuovo Orson Welles, inoltre, la pellicola, diventa un vero paradigma del genere noir. Il regista, infatti, decide di adottare uno stile di racconto non consequenziale, ma con struttura diegetica non lineare, con diversi e continui salti indietro e in avanti nel tempo, che rendono lo svolgersi del film complesso ed originalissimo. Questa struttura del racconto sarà ripresa, omaggiata e “saccheggiata” da molti altri registi del genere, tra cui Quentin Tarantino che lo utilizzerà “pari-pari” per “Le Iene” del 1992, Michael Mann per “Heat – La sfida” del 1995 e Paul McGuigan per, il più recente, “Slevin – Patto criminale” del 2006.

O r i z z o n t i d i G l o r i a (1957).

4) Il quarto lungometraggio Paths of Glory (Orizzonti di Gloria) del 1957 è il primo film del regista girato con una star hollywoodiana in forte ascesa, Kirk Douglas, che interpreta l’umano colonello Dax. Il film è anche il primo del regista, prodotto da una grande casa di produzione, la United Artists ed è considerato uno dei film più antibellici di sempre. La storia raccontata si ispira ad un fatto realmente accaduto durate la Prima Guerra Mondiale al 336º Reggimento di fanteria francese, comandato dal generale Géraud Réveilhac. Il film è l’occasione per mostrare la grande capacità di Kubrick di utilizzare la tecnica di ripresa in maniera fortemente espressiva. In questo film, ad esempio, il regista utilizza per le scene girate in trincea, il carrello, a precedere e seguire, montato su gomma e non su rotaia, dando alle scene delle ispezioni delle trincee del colonello Dax, una fluidità, un rigore ed una solennità fino allora impensabili. Il film di guerra è originale anche per il fatto che il dramma e la morte sono tutte interne ad un solo esercito: il nemico menzionato, evocato, combattuto, non appare in nessuna scena. Il film farà vincere il Nastro d’argento 1959 a Stanley Kubrick come “Miglior regista straniero”;

5) Il quinto film di Kubrick è il colossal Spartacus del 1959, prodotto ed interpretato da Kirk Douglas, che volle fortemente il regista newyorkese dopo l’abbandono di Anthony Mann, con cui Douglas aveva avuto parecchi contrasti sul set. L’esperienza sarà negativa, Kubrick soffre il fatto di non avere il controllo totale sul film e delle continue intromissioni sulle scelte registiche da parte di Douglas. Il film è, a detta dello stesso regista, il meno kubrickiano dei suoi film, anche se in molte soluzioni tecniche e in moltissime spettacolari riprese, si riconosce lo sguardo e lo stile del regista. Il film vincerà 4 Oscar (Miglior attore non protagonista Peter Ustinov, Miglior fotografia, Miglior scenografia e Migliori Costumi) e sarà un successo al botteghino, ma rappresenta anche il definitivo addio di Kubrick ad Hollywood ed alle politiche delle major, l’anno dopo si trasferirà in Inghilterra, dove realizzerà tutti gli altri suoi film e che non lascerà più fino alla morte;

2 0 0 1 : O d i s s e a n e l l o spazio (1968).

6) 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio) l’ottavo lungometraggio di Kubrick è forse il film della storia del cinema con la più ampia letteratura critica, psicologica, filosofica dedicata. Sul film, sul suo significato, sulle sue implicazioni filosofiche, sulla sua influenza nella cultura popolare, sul suo aver ridato dignità al genere fantascientifico, fino allora di serie B, sulle sue innovazioni tecniche e stilistiche, è stato detto e scritto di tutto e risulta davvero arduo trovare un aneddoto per questa lista. Forse i più significativi, fra i tanti, sono due: il primo, legato alla lavorazione durata 4 anni ed ai costi di produzione di quasi 12 milioni di dollari di cui 6 milioni e mezzo solo per gli effetti speciali; il secondo, legato al fatto che questo film fa vincere a Kubrick l’unico Oscar della sua carriera, quello per gli effetti speciali ai quali aveva lavorato personalmente;

7) A proposito di Oscar, Stanley Kubrick ricevette nel corso della sua carriera 13 Nomination (tra cui 3 per il “Miglior Film” e 4 per la “Miglior Regia”), ma non ne vinse nemmeno uno. Come abbiamo detto, l’unico Oscar che vinse fu quello per i Migliori Effetti Speciali nel 1969 per 2001: Odissea nello spazio.

8) 2001 Odissea nello spazio sarebbe dovuto cominciare con una serie di interviste a scienziati, filosofi, ingegneri ed astronomi, che avrebbero dovuto parlare di evoluzione, intelligenza artificiale, viaggi spaziali e vita extraterrestre; il progetto fu poi abbandonato dal regista e le interviste già fatte a personalità del calibro di Isaac Asimov, Aleksandr Oparin, Margaret Mead, finirono poi nel libro “Stanley Kubrick. Interviste extraterrestri”; S h i n i n g ( 1 9 8 0 ) .

9) Arancia meccanica del 1971 è il nono film realizzato dal regista, il primo degli anni ’70. Fu un successo planetario sia di critica che di pubblico, la censura fu molto severa in tutta Europa, soprattutto in Inghilterra, Germania ed Italia; addirittura in Inghilterra e Germania il regista fu costretto a ritirare la pellicola dalle sale per un certo periodo, poiché molti giovani affascinati dall’ultraviolenza cominciarono ad imitare i comportamenti dei protagonisti del film. In Italia ebbe prima il divieto a 18 anni fino al 1998 poi abbassato a 14 anni ed ebbe il suo primo passaggio televisivo nel 2007 sul canale La7, ben 35 anni dopo la sua uscita cinematografica;

10) Il film Shining rappresenta il primo film a fare un largo uso della steadycam, lo stabilizzatore per le riprese in movimento inventato dall’operatore video Garrett Brown, che lavorava nel film di Kubrick. Secondo lo stesso Brown, Shining, resta tuttora insuperato, per eleganza e capacità espressiva delle riprese, proprio grazie alle idee del regista che seppe esaltare le possibilità tecniche; E y e s W i d e S h u t ( 1 9 9 9 ).

11) È leggendaria e famigerata la cura maniacale che Kubrick dedicava a tutti gli aspetti del film anche per ricreare quanto più fedelmente gli ambienti dei suoi film. Il set di Shining è emblematico a riguardo: all’epoca delle riprese era il set cinematografico più grande del mondo, tanto da contenere la facciata e l’interno dell’Overlook Hotel e lo smisurato giardino labirinto. Per ricreare la neve del labirinto di “Shining”, vennero impiegate 900 tonnellate di sale da cucina mischiato a palline di polistirolo;

12) Il regista detiene diversi record, fra i quali: quello per il maggior numero di riprese per una singola scena, ben 127, quelle che fece a Shelley Duvall nel film Shining del 1980 e quello per i tempi di lavorazione più lunghi per un film, ben 400 giorni per Eyes Wide Shut.

13) Infine Stanley Kubrick avrebbe potuto girare il Signore degli Anelli con i Beatles! Nel 1967 fu contattato da Denis O’Dell (collaboratore della band) che gli propose la regia dell’adattamento del libro con Paul McCartney come Frodo, Ringo Starr come Sam, George Harrison nei panni di Gandalf e John Lennon nella parte di Gollum. Kubrick che era già impegnato con le riprese di 2001Odissea nello spazio rifiutò l’offerta.

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La situazione lavorativa italiana, raccontata in 5 film

La complessa tematica della disoccupazione, la difficoltà di arrangiarsi con lavori sottopagati, il problema dei neolaureati costretti a fuggire all’estero, sono argomenti che spesso sono stati affrontati sul grande schermo. Tra i tanti film che parlando della situazione lavorativa attuale in Italia, cinque opere trovo particolarmente interessanti:

Santa Maradona (2001, regia Marco Ponti): film che rappresenta una generazione, uno dei primi film italiani ad affrontare la difficile tematica del lavoro precario. “Santa Maradona” è un mix di citazioni letterarie, sportive e cinematografiche, che racconta la routine di due giovani squattrinati, i grandiosi Stefano Accorsi e Libero De Rienzo, attraverso dialoghi esilaranti e una movimentata regia stile fine anni ’90.

Leggi anche:

■ Cercare il lavoro nell’era di LinkedIn, di Google e del digitale: guida e consigli pratici. ■ L’evoluzione del mercato del lavoro nel marketing e nella comunicazione (digitale). Intervista a Cristiano Carriero.

Il regista, circa quindici anni prima di dedicarsi ai fortunati “Io che amo solo te” e “La cena di Natale”, distanti anche per stile e tematica da “Santa Maradona”, regala uno spaccato dei neolaureati di inizio duemila, preda delle incertezze e dell’amore (anch’esso incerto) nello sfondo di una Torino dinamica e talvolta cupa. Fugace apparizione dei Subsonica, che interpretano loro stessi, dopo soli cinque anni dalla loro nascita. Tutta la vita davanti (2008, regia Paolo Virzì): Il regista livornese ci ha sempre abituati ad un riso amaro, invitandoci a guardare e a riflettere su situazioni goffe e realistiche ed anche in questa pellicola non è da meno. E’ la storia di Marta, interpretata da una emergente e già brava Isabella Ragonese, che dopo una laurea in filosofia e tante porte in faccia, finisce per accrescere la sua carriera professionale in un call center, con a capo una brillante Sabrina Ferilli, in una delle sue migliori interpretazioni.

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■ Work in progress

Come sempre nei film di Virzì, anche in questo film i protagonisti sono personaggi umani, con numerosi limiti e difetti, che vivono una vita mediamente soddisfacente e fanno di tutto per non restare indietro e anche Marta, alla fine, troverà il modo di affrontare la sua banale, ma estremamente vera, esistenza.

Workers – Pronti a tutto (2012, regia Lorenzo Vignolo): commedia divisa in tre episodi, tutti incentrati sul tema del precariato. Le tre storie (“Badante”, “Cuore di toro” e “Il Trucco”) partono da un elemento comune, una coppia di colleghi, proprietari dell’agenzia interinale “Workers”, che propina a tre giovani in cerca di futuro, dei lavori improponibili. Film piacevole e poco conosciuto che, con ironia, affronta il tema, purtroppo ancora attuale, del doversi accontentare di lavori mortificanti e sottopagati, ben lontani dal percorso di studi intrapreso. L’ultimo episodio, il più bello, ha un tocco surreale, non usuale per il cinema italiano ed è reso ancor più strambo e tetramente divertente, dal contributo attoriale di Paolo Briguglia, Nicole Grimaudo e Nino Frassica.

Smetto quando voglio (2014, regia Sydney Sibilia): Esordio del regista salernitano con un action movie tutto italiano, una saga di tre episodi intelligente, spassosa e coinvolgente. E’ la rocambolesca storia di Pietro Zinni, ricercatore a caccia di un posto fisso all’università, che quando le sue aspettative vengono disattese, decide di provare a guadagnare con una folle intuizione.

Per approfondire:

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Vuole creare una smart drug, una droga considerata legale perché non ancora inserita nella lista delle sostanze stupefacenti; vuole riuscire in questa impresa radunando una banda di geniali ricercatori squattrinati. Esilarante pellicola che affronta il triste tema dei ricercatori plurilaureati, costretti a fare lavori sottopagati o addirittura ad emigrare all’estero, argomento trattato nel secondo capitolo della saga “Smetto quando voglio – Masterclass”, del 2017. Uscito nel 2017 anche l’episodio finale “Smetto quando voglio – Ad Honorem”, dove Pietro e la sua banda dovranno fare i conti con l’astuto Walter Mercurio. Gli ultimi saranno ultimi (2015, regia Massimiliano Bruno): commedia amara con protagonisti Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann e Fabrizio Bentivoglio. Il film, ambientato in un piccolo comune romano, racconta la storia di Luciana e Stefano, moglie e marito: lei lavora in una fabbrica tessile e lui cerca di sbarcare il lunario, provando a fare il meccanico e facendo piccoli scambi commerciali, non sempre fortunati. In contemporanea, è narrata anche la vicenda del poliziotto Antonio (Fabrizio Bentivoglio), che da poco è stato trasferito in paese. La vita va avanti tra difficoltà economiche e solita routine, finché la gravidanza di Luciana non cambierà le cose, causando il suo licenziamento.

Oscar 2019: Edizione senza colpi di scena, senza presentatore, ma con numerosi momenti emozionanti e di spessore politico e sociale.

Cerimonia senza presentatore, quella del 2019, che forse per questo motivo è stata un po’ meno frizzante delle scorse edizioni. Le emozioni, però, non sono certamente mancate. Degno di nota il coinvolgente discorso del regista afroamericano Spike Lee, che dopo aver vinto l’Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale per il suo “BlacKkKlansman”, ha smosso tutti affermando “Le elezioni 2020 sono dietro l’angolo, ricordiamocelo, possiamo fare una scelta di amore e non di odio”.

Momento di emozione anche quello del regista di “Roma”, vincitore del premio come Miglior film straniero: Alfonso Cuarón ha dichiarato “Sono cresciuto vedendo film stranieri, siamo tutti parte della stessa emozione, tutti parte dello stesso oceano”.

Tanti i vincitori afroamericani, chiaro e forte messaggio di integrazione in una edizione non priva di riferimenti politici e gesti plateali di solidarietà, verso la situazione sociale dell’America di questi anni di presidenza Trump.

“A star is born” con tante nomination, porta a casa solo quella per la Miglior canzone “Shallow” cantata da Lady Gaga e Bradley Cooper.

“Bohemian Rhapsody” massimo vincitore con 4 Oscar: Miglior attore protagonista, Miglior Montaggio, Miglior sonoro e Miglior Montaggio sonoro.

Per approfondire:

■ Bohemian Rhapsody – Il Film Ecco i candidati e i vincitori: MIGLIOR FILM

A star is born BlacKkKlansman Black Panther Bohemian Rhapsody La favorita Green book Roma Vice

MIGLIOR REGIA

Adam McKay, Vice Alfonso Cuarón, Roma Pawel Pawlikowski, Cold war Spike Lee, BlacKkKlansman Yorgos Lanthimos, La favorita

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

Bradley Cooper, A star is born Christian Bale, Vice Rami Malek, Bohemian Rhapsody Viggo Mortensen, Green book Willem Dafoe, Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

Glenn Close, The wife Lady Gaga, A star is born Melissa McCarthy, Copia originale Olivia Colman, La favorita Yalitza Aparicio, Roma

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

Adam Driver, BlacKkKlansman Mahershala Ali, Green book Richard E. Grant, Copia originale Sam Elliott, A star is born Sam Rockwell, Vice

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

Amy Adams, Vice Emma Stone, La favorita Regina King, Se la strada potesse parlare Rachel Weisz, La favorita Marina de Tavira, Roma

MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE

Gli Incredibili 2 Isola dei cani Mirai Ralph spacca internet Spider-Man: Into the Spider-Verse

PER APPROFONDIRE:

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MIGLIOR DOCUMENTARIO

Free solo Hale county this morning, this evening Minding the gap Of fathers and sons RBG

MIGLIOR FILM STRANIERO

Opera senza autore (Germania) Un affare di famiglia (Giappone) Cafarnao (Libano) Roma (Messico) Cold war (Polonia)

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

First reformed Green book La favorita Roma Vice

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

Spike Lee, BlacKkKlansman Joel e Ethan Coen, La ballata di Buster Scruggs Nicole Holofcener e Jeff Witty, Copia originale Barry Jenkins, Se la strada potesse parlare Eric Roth, Bradley Cooper, Will Fetters, A star is born MIGLIOR CANZONE

“All The Stars”, Black Panther “I’ll Fight”, RBG “Shallow”, A star is born “The Place Where Lost Things Go”, Il ritorno di Mary Poppins “When A Cowboy Trades His Spurs For Wings”, La ballata di Buster Scruggs

MIGLIOR TRUCCO E ACCONCIATURE

Border Maria Regina di Scozia Vice

MIGLIORI COSTUMI

La ballata di Buster Scruggs Black Panther La Favorita Il ritorno di Mary Poppins Maria Regina di Scozia

MIGLIORE SCENOGRAFIA

Black Panther La favorita First Man Il ritorno di Mary Poppins Roma

MIGLIOR EFFETTI SPECIALI

Avengers: Infinity War Ritorno al bosco dei 100 acri First man Ready player one Solo: A Star Wars story

MIGLIOR FOTOGRAFIA

Cold war La favorita Opera senza autore Roma A star is born

MIGLIOR MONTAGGIO

BlacKkKlansman Bohemian Rhapsody Green Book La favorita Vice

MIGLIOR COLONNA SONORA ORIGINALE

Black Panther BlacKkKlansman Se la strada potesse parlare L’isola dei cani Il ritorno di Mary Poppins

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO

Detainment Fauve Mother Marguerite Skin

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DI ANIMAZIONE

Animal behaviour Bao Late afternoon One small step Weekends

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DOCUMENTARIO

BlacksSheep End game Lifeboat A night at the garden Period. End of sentence

MIGLIOR SONORO

Black Panther Bohemian Rhapsody First man A quiet place Roma

MIGLIOR MONTAGGIO SONORO

Black Panther A star is born Bohemian Rhapsody First man Roma

Ora aspettiamo con ansia gli Oscar italiani, i David di Donatello 2019, che si svolgeranno nel prossimo marzo.

10 giorni senza mamma - Il film

Commedia brillante, “10 giorni senza mamma” è l’ennesima fatica sostenuta dal talento comico di Fabio De Luigi, in questo determinato momento storico, uno degli attori più presenti al cinema: è stato già pochi mesi fa, a novembre, in sala con “Ti presento Sofia”, al fianco di Micaela Ramazzotti, sui problemi familiari di un papà divorziato con figlia in fase pre-adolescenziale alle costole ed una nuova fidanzata.

Questo nuovo film, procede sulla falsariga del primo, rimangono i problemi familiari, affrontati con il sorriso sulle labbra. Stavolta Fabio De Luigi è un padre di famiglia, con una moglie e tre figli, anch’essi dai dieci anni in giù. Ad un certo punto “mamma” (, bellissima) decide di partire per 10 giorni con la propria sorella, lasciando i tre figli con un papà praticamente assente, per lavoro e per pigrizia: guai a catena.

E ancora una volta il volto di “gomma” di Fabio De Luigi si presta a meraviglia ad una tragicommedia familiare. Sebbene sia innegabile infatti che alcune delle vicende in cui si ritrova invischiato il suo personaggio siano esilaranti, dietro nascondono la forte malinconia di un padre che ha trascurato i propri figli. Ed ancora più importante, di un padre che non comprende a pieno il ruolo di una madre full time.

In questo si nota la volontà degli sceneggiatori di scrivere un prodotto diverso, sia pure nell’ambito della commedia brillante. Così facendo, creano un lavoro dal retrogusto amaro, che convince soprattutto nel rapporto di questo padre con i suoi tre figli, e soprattutto in quello, ancora salvabile, con la propria partner.

E quindi appare chiara la forte volontà di portare sul grande schermo tematiche attuali quali la frustrazione di una donna nell’essere “solo” una madre o il difficile connubio famiglia/lavoro. E specialmente nell’affrontare la prima, è lodevole il modo con cui è stato scritto il personaggio interpretato da Valentina Lodovini, un ruolo femminile dal sapore (finalmente) contemporaneo. Il film rimane come uno dei migliori prodotti brillanti dell’annata, che si prospetta proficua per il nostro cinema e per la commedia, all’alba del nuovo decennio.

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I film italiani in sala a febbraio 2019

Nel mese di febbraio le uscite italiane nelle sale cinematografiche nazionali supereranno quelle americane, e questa è la novità più rilevante degli ultimi anni, sintomo di una rinnovata freschezza e di una rinnovata fiducia nei nostri prodotti. Quota 18 a fronte di 10 prodotti hollywoodiani, un incremento rispetto al gennaio scorso di ben 8 film, il che vuol dire anche che le case di distribuzione hanno deciso di puntare maggiormente sull’ultimo dei mesi invernali, quello che si affaccia alla primavera senza però esserlo. Ovviamente i film di maggiore visibilità sono quelli legati a case di distribuzioni importanti e con registi e attori popolari, brillanti e di grande verve.

Nominiamo per primo allora 10 giorni senza mamma, distribuito dalla Medusa in ben 410 cinema, commedia brillante, sostenuta dal talento comico di Fabio De Luigi, in questo determinato momento storico, uno degli attori più presenti al cinema: è stato già pochi mesi fa, a novembre, in sala con Ti presento Sofia, al fianco di Micaela Ramazzotti, sui problemi familiari di un papà divorziato con figlia in fase pre-adolescenziale alle costole ed una nuova fidanzata.

Questo nuovo film, procede sulla falsariga del primo, rimangono i problemi familiari, affrontati con il sorriso sulle labbra. Stavolta Fabio De Luigi è un padre di famiglia, con una moglie e tre figli, anch’essi dai dieci anni in giù. Ad un certo punto “mamma”(Valentina Lodovini, bellissima) decide di partire per 10 giorni con la propria sorella, lasciando i tre figli con un papà praticamente assente, per lavoro e per pigrizia: guai a catena. E ancora una volta il volto di “gomma” di Fabio De Luigi si presta a meraviglia ad una tragicommedia familiare. Sebbene sia innegabile infatti che alcune delle vicende in cui si ritrova invischiato il suo personaggio siano esilaranti, dietro nascondono la forte malinconia di un padre che ha trascurato i propri figli. Ed ancora più importante, di un padre che non comprende a pieno il ruolo di una madre full time. Si nota la forte volontà di portare sul grande schermo tematiche attuali quali la frustrazione di una donna nell’essere “solo” una madre o il difficile connubio famiglia/lavoro. E specialmente nell’affrontare la prima, è lodevole il modo con cui è stato scritto il personaggio interpretato da Valentina Lodovini, un ruolo femminile dal sapore (finalmente) contemporaneo.

Sullo stile fantasy-eroico, altro film destinato al successo è Copperman, ancora una volta distribuito massicciamente in giro per lo stivale (quasi 200 sale) e ancora una volta dipendente, quasi in maniera integrale, dal suo popolare protagonista, ovvero Luca Argentero. Copperman ovvero Anselmo è un uomo che viaggia nel mondo con l’innocenza di un bambino e il cuore di un leone. Anselmo è un bambino molto particolare. Dotato di grandissima fantasia e sensibilità, affronta la quotidianità da solo con la madre in maniera tutta sua: ha sviluppato un’ossessione per i colori, per le forme circolari e soprattutto per i supereroi. Desidera tanto possedere anche lui dei superpoteri per poter salvare il mondo come il padre, che in realtà lo ha abbandonato subito dopo la sua nascita. Questo desiderio cresce dopo aver conosciuto Titti, una bambina molto stravagante, che però viene costretta ad allontanarsi presto da lui.

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Anselmo cresce ma non smette di guardare il mondo in maniera infantile tanto che, grazie all’aiuto di un caro amico di famiglia, si trasforma in Copperman, l’uomo di rame, che di notte aiuta a ripulire il proprio paese dalle ingiustizie. Le responsabilità di Copperman diventeranno più grandi quando finalmente Titti tornerà a casa. Un cinema d’altri tempi, non solo per le atmosfere vintage date da una (curatissima) scenografia che riporta direttamente indietro ad altri anni, ma soprattutto per l’approccio genuino e fresco con cui si avvicina a certe tematiche. L’espediente supereroistico qui non ha infatti nulla di ultraterreno, ma diventa una semplice fantasia infantile per affrontare dei traumi, delle problematiche intrinseche nei personaggi. Senza pietismo ed al tempo stesso senza superficialità, si mettono in campo le classiche dicotomie tra buoni e cattivi filtrate dagli occhi di un bambino che non è mai cresciuto.

Vengono alla mente alcune opere di Jean-Pierre Jeunet in cui non ci si interfaccia solo con il racconto di un personaggio, ma il suo mondo diventa visivamente anche quello dello spettatore. Ed è quello che prova a fare Puglielli con il proprio film e quello che riescono a ricreare anche i bambini (non) cresciuti interpretati perfettamente da Luca Argentero e .

E in questo mese ritorna in sala Fausto Brizzi, ormai riabilitato pienamente dalle accuse di “molestie sessuali”, con una commedia comica delle sue, trascinante e dilagante, dal titolo Modalità aereo, e lo fa servendosi di Paolo Ruffini, di Violante Placido, di Dino Abbrescia, ma soprattutto di Pasquale Petrolo in arte Lillo, qui privo di Greg, ma che ha verve, simpatia e magnetismo attrattivo, alla stregua dei più grandi comici del cinema italiano. Il classico cliché della commedia degli equivoci è utilizzato sapientemente, da chi (Brizzi) sa come si creano commedie di successo. Sociologicamente il film è una commedia all’italiana a tutti gli effetti, con spunti di situazioni che rimandano ai nostri maestri più celebrati e si basa su una semplice domanda: cosa succederebbe se un uomo importante (imprenditore, influencer, uomo d’affari) in viaggio di lavoro in Australia, dimenticasse il proprio telefonino nei bagni dell’aeroporto e questo finisse in mano a due poveracci desiderosi di godersi la vita? Pensateci: contocorrente, post-pay, social network…il punto della questione del film è questo, tutta la nostra vita è nei nostri cellulari.

Se, anni fa Perfetti sconosciuti aveva sdoganato l’importanza dei nostri smartphone dal punto di vista sentimentale, con annesse possibili relazioni extraconiugali, ora Brizzi lo fa guardando un punto di vista meno intimista, più pubblico e più lavorativo, in ossequio all’apparenza che sembra, ahimè, il vero motore per fare soldi nella società di oggi, dove la stessa apparenza vale più della realtà: specchio di tutto watshapp, facebook, instagram e prodotti similari.

Tra gli altri film in sala a febbraio, posto d’onore merita senz’altro Domani è un altro giorno, con la supercoppia d’autore composta da Marco Giallini e Valerio Mastandrea remake dell’argentino Truman – Un vero amico è per sempre. La storia è quella di due grandi amici che si ritrovano per quattro giorni: uno dei due è malato, l’altro lo raggiunge dal Canada, dove vive e lavora. Sono tante le cose da dirsi e da sistemare, tra cui un cane, che nell’originale si chiamava appunto Truman, in questo Pato, e avrà uno spazio importante all’interno della storia. Una bella storia di amicizia al maschile in cui vengono fuori tante cose, tra cui il fatto che se si è amici nella vita lo si è per sempre e ci si ama soprattutto perché si è diversi.

I personaggi sono volutamente agli antipodi: da una parte un carattere molto estroverso, dall’altro uno più chiuso e riflessivo. Se uno vive in Canada, al freddo, l’altro ha una sua vita a Roma. La conoscenza tra i due diventa una sorta di partita a tennis, in quello che si configura come un dramma privato: “Continuiamo ad evitare di pensare alla morte ma è bello che il cinema lo racconti: dopo l’ondata delle commedie, anche un po’ scadute, degli ultimi tempi sentivo il bisogno di far realizzare un film drammatico. Sarà una riflessione sui rapporti e sull’esistenza, che farà anche sorridere lo spettatore”. Non a caso il titolo è diverso dall’originale: “Rinvia all’idea dell’accettazione della morte, per cui poi le cose vanno avanti: chi fa cinema deve sempre pensare che domani è un altro giorno, lo dico anche in riferimento alla scomparsa del mio caro amico Carlo Vanzina”. (Maurizio Tedesco, produttore del film in un’intervista rilasciata per l’Ortigia Film Festival).

Lo stesso giorno del precedente film, il 28 febbraio, esce nella sale anche Croce e delizia, una commedia familiare di stampo romantico interpretata da Alessandro Gassman e Jasmine Trinca; mentre chicca del mese è la presenza in sala di Ladri di biciclette, il capolavoro neorealista del maestro Vittorio De Sica, restaurato e riportato allo splendore delle origini.

Per il resto scarse distribuzioni, per scarsa visibilità: purtroppo i grandi nomi sono i veri trascinatori di una pellicola, da sempre è così, ad Hollywood quanto a Cinecittà. Non c’è che da prenderne atto e sperare che un giorno il cinema indipendente in Italia, possa avere un regolamentazione capace di farlo emergere e dare piena dignità a tutto quel sottobosco cinematografico che lavora in silenzio e spesso crea dal nulla, capolavori che poi rimangono nel cassetto.

L’Agenzia dei bugiardi – Il Film

Mattina presto: il telefono squilla, con la fastidiosa suoneria personalizzata di tua moglie, ti svegli di soprassalto e ti riprendi a fatica, ma poi realizzi che sei in un letto non tuo, che la casa intorno a te, benché famigliare, non ti appartiene e, cosa peggiore, che la donna nuda accanto a te non è tua moglie.

Lo so, a qualcuno potrà sembrare l’incipit di un film alla “Una notte da leoni”, ma sarebbe fuoristrada, il film è italiano, come gli attori e il regista Volfango De Biasi (Come tu mi vuoi, Iago, Natale a Londra – Dio salvi la Regina). Ma il film è anche il remake del campione d’incassi francese del 2017 Alibi.com di Philippe Lacheau.

Ma torniamo al nostro spaventato personaggio: cosa fare quando, dopo una notte di bagordi con la tua amante, ti addormenti e non rientri a casa da tua moglie? E per di più hai il collo pieno di segni (leggete succhiotti) della passione? Beh, le soluzioni sono 2: o scappi con l’amante o chiami i professionisti dell’’Agenzia dei Bugiardi. Il nostro sprovveduto amico decide per la seconda opzione.

Dall’altra parte del telefono ti risponde Fred, il sempre più bravo e maturo Gianpaolo Morelli, che con fredda risolutezza ti dice subito cosa devi fare e, contemporaneamente, elabora e mette in moto un piano per riscattare la tua colpevole scappatella agli occhi di tua moglie e dei tuoi suoceri, intanto accorsi a casa tua.

Cambio scena: il campanello suona a casa tua, tua moglie inviperita viene ad aprire e ti trova malconcio su di una sedia a rotella con un collare ortopedico, scortato da un infermiere del 118 ed un poliziotto della stradale, i quali le spiegano che hai avuto un brutto incidente rientrando a casa per non investire il cane di un cieco. Fantastico, sei passato in un attimo da marito fedifrago ad eroe, salvando matrimonio ed amante e rimettendoci solo un telefonino e una macchina.

Tornati in agenzia, scopriamo che l’infermiere altri non è che Diego (lo stralunato ed esilarante Luigi Luciano), l’esperto informatico dell’agenzia, e che il poliziotto era lo stesso Fred, titolare e performer dell’Agenzia dei Bugiardi, specializzata a fornire alibi a mariti e mogli infedeli, ma anche altri servizi a tutta una serie di personaggi insospettabili. Cambio scena: Fred sta cercando personale, e lo vediamo intento a fare un colloquio ad un candidato, Paolo (l’attore e conduttore televisivo Paolo Ruffini), al quale spiega le motivazioni, il funzionamento e i servizi dell’agenzia.

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Insomma, un’attività di successo, remunerativa e con un bacino di clienti pressoché illimitato. Tutto bene, tutto bello, addirittura con un certo risvolto sociale giacché, come spiega Fred al candidato Paolo, l’idea dell’Agenzia nasce da un suo personale dramma familiare che gli ha fatto maturare l’opinione che è “meglio una bella bugia che una brutta verità!”, frase usata pure come slogan aziendale.

Il film procede con vari interventi salva bugiardi durante la settimana di prova del candidato Paolo; tutto fila liscio fino a quando, e qui arriva il plot del film, all’agenzia non si rivolge un ricco uomo d’affari, Alberto (il sempre bravo Massimo Ghini), che espone all’agenzia un problema di difficile gestione.

Senza voler svelare altro del film, che consiglio di vedere, veniamo alla critica vera e propria. Il film gira bene, gli attori si innestano perfettamente gli uni sugli altri, la regia è lieve, la sceneggiatura solida (entrambe di Volfango De Biasi) e le situazioni che l’Agenzia dei Bugiardi è chiamata a risolvere, benché al limite dell’assurdo, sono credibili ed esilaranti. Il film per la prima parte è girato soprattutto in interni, stanze, alberghi, etc., ma nella seconda parte si apre all’esterno con scenografie naturali ben sfruttate, fra cui spicca un resort di lusso in Puglia, meta gettonatissima dalle produzioni italiane ed estere. G i a n p a o l o M o r e l l i e Diana Del Bufalo sul set del film.

Su tutto spiccano, come succede in questo tipo di commedie, le interpretazioni degli attori, tutti bravi, ma tra di esse emergono quelle di Gianpaolo Morelli, sempre più credibile e a suo agio nei ruoli borderline sia al cinema che in tv, di Massimo Ghini, attore maturo e pieno di sfumature, di Alessandra Mastronardi, frizzante e poliedrica attrice che si muove perfettamente fra cinema e fiction, commedia e drammatico, e della sorprendente Diana Del Bufalo (Amici, La profezia dell’armadillo, Puoi baciare lo sposo), che interpreta con ironia e voglia di prendersi in giro il ruolo di W Cinzia (non viva ma doubleV) che fa da collante a tutti i personaggi del film.

La Del Bufalo, che attualmente è nelle sale sia con questo film che con il mediocre “Attenti al Gorilla” di Luca Miniero, canta, sui titoli di coda, in un videoclip musicale che, parodiando Baby K, prende in giro il rap italiano con tanto di twerking, vestiti animalier, ambientazioni urban-pop, e che da solo merita i soldi del biglietto.

Per concludere, possiamo dire che il film regala 102 minuti di divertimento, senza parolacce, condito con una discreta dose di riflessione sociologica su cosa la nostra società di consumatori compulsivi è diventata. Il regista sembra dirci che oggi si compra, ma soprattutto si consuma, di tutto: matrimoni, infedeltà, scappatelle e, ahimè, se tutto è in vendita, allora anche la verità e le bugie sono sul mercato e possono essere acquistate dal miglior offerente e manipolate dall’abile professionista. Una metafora di internet, dei Big Data, delle fake, della disinformazione, un film che fa ridere con un po’ di amarezza e riflettere con un senso di disgusto.

Per approfondire:

■ #10yearschallenge: complotto di Facebook o semplice fenomeno social? ■ Utilizzo dei dati, Facebook e Cambridge Analytica, in parole semplici! ■ Fake Politics Mentre scrivo questa recensione (21 gennaio), il film è 5° al Box Office, con un incasso totale di 893.223 euro a quattro giorni dall’uscita, il 17 gennaio 2019, battendo nel weekend addirittura il blockbuster Aquaman, che si ferma a 864.559 euro.

I film italiani in sala a gennaio 2019

La programmazione per quanto riguarda i film italiani nelle sale cinematografiche nazionali per il primo mese del nuovo anno, è parecchio variegata, seppur limitata quantitativamente. Il numero dei film in sala, infatti, non supera le 10 unità, con almeno 3 di essi che non superano le 5 sale in programmazione (DIGITALIFE, DOVE BISOGNA STARE, MIA MARTINI-IO SONO MIA). Nel complesso il mese sarà dominato dalle classiche commedie commerciali, supportate dai più importanti nomi del panorama comico-brillante nazionale, non sempre però adeguatamente accompagnate da trame accattivanti.

Fuori da questa critica negativa, si eleva NON CI RESTA CHE IL CRIMINE, uscito in quasi 400 sale (la potenza del produttore Fulvio Lucisano e della 01 distribution), con un trio di protagonisti davvero d’eccezione: Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, affiancati da un Edoardo Leo di indolente ironia nei panni di Renatino De Pedis, capo della famigerata Banda della Magliana. NON CI RESTA CHE IL CRIMINE è un mix volutamente dichiarato tra NON CI RESTA CHE PIANGERE e SMETTO QUANDO VOGLIO. Il titolo è un omaggio all’ironia del primo leggendario film, il crimine fa parte del plot. E’ la storia di uno sfaccendato trio di amici che mostra ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana. Un giorno i tre si trovano catapultati, tramite un cunicolo spaziotemporale, esattamente nel 1982 durante i Mondiali di calcio, in un salto nel tempo curioso e ricco di interesse spettacolare.

Risaputo e abusato fin troppo come tema, nello stesso periodo sarà in sala anche COMPROMESSI SPOSI, una sorta di remake sessant’anni dopo de I PREPOTENTI, con Nino Taranto e , o ancora di TOTO’, FABRIZI E I GIOVANI D’OGGI. La classica storia di due ragazzi innamorati, lei del sud, lui del nord, divisi dall’insostenibile campanilismo dei propri padri che si odiano e che faranno di tutto per dividerli. Ma ovviamente l’happy-end finale trionferà. Per carità, Vincenzo Salemme e Diego Abatantuono sono bravissimi ed espertissimi, e nel film si ride pure, ma il confronto con i mostri sacri sopra citati non regge assolutamente.

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Non va meglio con ATTENTI AL GORILLA, farsaccia surreale con Frank Matano, uomo di spettacolo, ma non di cinema, in cui si salva soltanto Lillo Petrolo, per una volta senza il fido Greg, nei panni dell’amico mammone Jimmy, che vive con il protagonista, lasciato da moglie e figli, e con un curioso gorilla che ha la voce di Claudio Bisio. Terrificante!!!

Più centrato, sia pur nell’ambito di un film di puro godimento esilarante, L’AGENZIA DEI BUGIARDI, una commedia surreale che vede come protagonisti Giampaolo Morelli, Luigi Luciano e Paolo Ruffini, titolari di una strana, diabolica e geniale agenzia che fornisce alibi ai propri clienti e il cui motto è ” Meglio una bella bugia che una brutta verità”. La storia si complica quando Fred alias Morelli, si innamora della figlia di un suo cliente avvezzo alle scappatelle extra- matrimoniali. Ci sarà da ridere, soprattutto grazie a Morelli, che con gli anni diventa sempre più bravo e sempre più primo-attore, tra un ispettore Coliandro e una commedia brillante, è l’attore italiano più utilizzato degli ultimi due anni da produzioni televisive e cinematografiche.

Ma a gennaio è uscito anche un bel film d’autore, SUSPIRIA un horror per la precisione, in cui Luca Guadagnino omaggia il maestro del genere, Dario Argento con un film personale, riflessivo, originale nello stile visivo e coraggioso nella messa in scena. Ovviamente, come di solito, nella carriera del fortunato autore italIano, il film è una produzione maggioritaria statunitense. Questo perché il suo è un cinema coraggioso, fuori dagli schemi e soprattutto dalle richieste del nostro sistema nazionale cinematografico. Per cui la ricerca di fondi, di trame complesse, strutturate, mal si adeguano a ciò che i produttori nazionali intendono commercializzare e far fruttare in Italia. Il dio denaro comanda anche il cinema, da sempre, e allora meglio lavorare in uno Stato, dove la cultura cinematografica del pubblico, è molto più avanti e radicata che da noi. Ricordate CHIAMAMI COL TUO NOME, tratto dal romanzo omonimo di Andrè Aciman, passato pressocchè inosservato da noi, ma vincitore nel 2017 del Premio Oscar per la miglior sceneggiatura.

E nell’ottica di una visibilità negata, perché la popolarità dell’attore rimane sempre il motore vero e reale di un film, passeranno inosservati o quasi, film dalla scarsissima distribuzione come SEX COWBOYS, MIA MARTINI-IO SONO MIA, DIGITALIFE, DOVE BISOGNA STARE e IL PRIMO RE, dove almeno c’è Alessandro Borghi, reduce dal film biografico sulla morte “sospetta” di Stefano Cucchi. E a proposito sapete che questo film, SULLA MIA PELLE, osannato dalla critica, è stato un flop colossale nelle sale italiane, fermandosi a neanche 500.000 euro di incassi?

L’elenco dei film italiani in sala a gennaio 2019 è questo: 4 commedie, 3 film drammatici, 2 documentari e 1 horror. Ce n’è per tutti i gusti, sperando che anche i meno distribuiti, possano guadagnarsi un proprio spazio nei cuori del pubblico, perché il cinema è fatto soprattutto dal sottobosco indipendente che cerca di emergere e che meriterebbe un’attenzione maggiore da parti dei legislatori e soprattutto un’autorevolezza che qui da noi viene negata, e in cui per emergere devi essere legato più a case di produzioni potenti, quindi a legami di “conoscenza”, che al puro talento. In Francia funziona diversamente, già, proprio in Francia dove sanno cosa vuol dire la parola “rivoluzione”. In tutti i sensi. Non ci resta che il crimine - Il film

Non ci resta che il crimine, di Massimiliano Bruno, uscito in quasi 400 sale (la potenza del produttore Fulvio Lucisano e della 01 distribution), poggia tutta la sua popolarità sul trio di protagonisti davvero d’eccezione: Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi. Accanto a loro un Edoardo Leo di indolente ironia nei panni di Renatino De Pedis, capo della famigerata Banda della Magliana. Non ci resta che il crimine è un mix volutamente dichiarato tra Non ci resta che piangere e Smetto quando voglio.

U n a s c e n a d e l f i l m “ Non ci resta che il crimine”, con i 4 prtagonisti Alessandro Gassman, Gianmarco Tognazzi, Edoardo Leo e Marco Giallini vestiti e truccati come i Kiss.

Il titolo è un omaggio all’ironia del primo leggendario film, il crimine fa parte del plot. E’ la storia di uno sfaccendato trio di amici che mostra ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana. Un giorno i tre si trovano catapultati, tramite un cunicolo spaziotemporale, esattamente nel 1982 durante i Mondiali di calcio, in un salto nel tempo curioso e ricco di interesse spettacolare.

Lo stesso Marco Giallini, ospite d’onore in Sicilia, all’Ortigia Film Festival, aveva raccontato in anteprima quello che sarà il film e la sua connotazione di omaggio e in se di commedia d’avventura:

“Ci siamo avvicinati modestamente a un capolavoro come Non ci resta che piangere, ma lo abbiamo ambientato negli anni 70 anziché nel Medioevo. Nel film ci vedrete nei panni di guide che mostrano ai turisti i luoghi della Banda della Magliana, vestiti proprio come negli anni 70. Un giorno usciamo da un bar gestito da cinesi e ci ritroviamo in mezzo alla banda vera in un salto temporale curioso da oggi a quegli anni lì. Ci sarà parecchio da ridere”. Quello del film in costume, con un cortocircuito spazio-temporale che proietta i nostri “eroi” indietro nel tempo, in epoche remoto o anche meno remote è una delle più affascinanti tecniche di suggestione cinematografica e siamo sicuri che questa stessa pellicola avrà la forza per sopravvivere in mezzo a tante commedie coeve, dove manca quel pizzico di originalità, indispensabile per emergere.

Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.

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Golden Globe 2019: trionfo per “Bohemian Rhapsody” e Alfonso Cuarón

Il 6 gennaio scorso si è svolta la 76esima edizione dei Golden Globe, il premio statunitense assegnato ogni anno ai migliori film e programmi televisivi della stagione.

Ecco tutti i vincitori:

■ Miglior film drammatico: “Bohemian Rhapsody” ■ Miglior regista: Alfonso Cuarón (“Roma”) ■ Miglior attore in serie tv (musical o commedia): Michael Douglas (“Il metodo Kominsky”) ■ Miglior attore in un film drammatico: Rami Malek (“Bohemian Rhapsody”) ■ Miglior attrice in un film drammatico: Glenn Close (“The Wife”) ■ Miglior film o commedia musicale: “Green Book” ■ Miglior attrice in una commedia o in un film musicale: Olivia Colman (“La favorita”) ■ Miglior miniserie o film per la tv: “The Assassination of Gianni Versace” ■ Miglior serie tv comedy: “Il metodo Kominsky” ■ Miglior attrice in una serie tv comedy: Rachel Brosnahan (“The Marvelous Mrs. Maisel”) ■ Miglior attore in una miniserie: Darren Criss (“American Crime Story: L’assassinio di Gianni Versace”) ■ Miglior film in lingua straniera: “Roma” ■ Miglior attore in un film musical o in una commedia: Christian Bale (“Vice – L’uomo nell’ombra”) ■ Miglior attrice non protagonista in una serie: Patricia Clarkson (“Sharp Objects”) ■ Miglior sceneggiatura: Peter Farrelly, Nick Vallelonga, Brian Currie (“Green Book”) ■ Miglior attore non protagonista in un film: Mahershala Ali (“Green Book”) ■ Miglior attrice in una serie drammatica: Sandra Oh (“Killing Eve”) ■ Miglior attrice non protagonista in un film: Regina King (“Se la strada potesse parlare”) ■ Miglior canzone originale: Shallow (“A Star Is Born”) ■ Miglior colonna sonora originale: Justin Hurwitz (“First Man”) ■ Miglior attore non protagonista in limited series, serial tv e film per la tv: Ben Wishaw ■ Miglior serie tv (drammatica): “The Americans” ■ Miglior attore in serie tv (drammatica): Richard Madden (“Bodyguard”) ■ Miglior cartoon: “Spider-Man: Into the Spider-Verse

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Serata senza polemiche e satira politica, all’insegna del buon cinema e della buona televisione d’intrattenimento. Non sono mancati momenti divertenti, come il discorso di Christian Bale, premiato come Miglior attore per il film “Vice – L’uomo nell’ombra”: “…grazie a Satana, per avermi dato l’ispirazione per recitare questo ruolo…”, queste le parole dell’attore, che in poche ore hanno fatto il giro del mondo.

Emozione per il trionfo del film “Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer e per il toccante discorso dell’attore Rami Malek, premiato per la sua straordinaria interpretazione del cantante Freddie Mercury: “…grazie ai Queen, a te Brian May e a te Roger Taylor!

Per aver assicurato l’autenticità e l’inclusività che esistono nella musica e nel mondo e in tutti noi! Grazie a Freddie Mercury per avermi dato la gioia di una vita! Ti amo, splendido uomo,questo è per te ed è merito tuo, meraviglia!”.

Non resta che aspettare di sapere se gli altri ambiti premi del cinema, gli Oscar, concorderanno con questi risultati. Bohemian Rhapsody – Il Film

Come si racconta un mito?

Come approcciare la storia di una rock band leggendaria?

Quale sceneggiatore scegliere?

Quale regista?

Quale produttore?

Quali gli attori? Quando la rock band si chiama Queen e il frontman Freddie Mercury, da dove bisogna cominciare?

Allora, vediamo di snocciolare un po’ di numeri e di date che ci aiutino ad inquadrare questo film: 8 anni di sviluppo da quando Brian May annunciava che era in progetto un film sui Queen e su Freddie Mercury. La sceneggiatura era affidata a Peter Morgan. Nei panni di Freddie Mercury ci sarebbe stato Sacha Baron Cohen, mentre la casa di produzione sarebbe stata la TriBeCa Productions, e le riprese sarebbero cominciate nel 2011.

Nel dicembre 2013 viene annunciato che l’attore britannico Ben Whishaw avrebbe preso il posto di Sacha Baron Cohen, che intanto aveva abbandonato il progetto nel luglio dello stesso anno, e che la regia sarebbe stata affidata a Dexter Fletcher. Entrambi, Whishaw e Fletcher, lasceranno definitivamente il progetto nel 2014.

Alla fine del 2015 la casa di produzione GK Films assume lo sceneggiatore neozelandese Anthony McCarten per scrivere una nuova sceneggiatura, col titolo “Bohemian Rhapsody”.

Nel novembre 2016 viene annunciato che la New Regency Pictures e la GK Films sarebbero state nella produzione della pellicola e che le riprese sarebbero iniziate nei primi mesi del 2017.

Lo stesso anno viene annunciato che Rami Malek vestirà i panni di Freddie Mercury e che il nuovo regista sarà Bryan Singer.

Allora ricapitoliamo:

■ 8 anni di sviluppo; ■ 2 sceneggiature; ■ 2 diversi sceneggiatori; ■ 2 registi; ■ 3 attori per il ruolo di Freddie Mercury; ■ 4 diverse case di produzione coinvolte (considerando anche la Queen Films Ltd).

Sembra quasi che Hollywood stessa avesse un timore reverenziale a cimentarsi in questo impegnativo biopic.

Il film non analizza tutta la vita della storica band ma, si focalizza sui primi 15 anni, dalla fondazione del nucleo originario fino al concerto del Live Aid al Wembley Stadium di Londra, il 13 luglio del 1985.

Ma veniamo alla recensione vera e propria, che film è stato Bohemian Rhapsody? Spettacolare è l’unica risposta che mi viene in mente!

Sono nato nel 1973 e sono cresciuto con le musiche dei Queen proprio dalla metà degli anni ’80 fino alla metà degli anni ’90, periodo che è coinciso con la mia adolescenza e quindi con le prime cotte, con le prime uscite in discoteca e con la spensieratezza degli anni giovanili, dunque non può che essere questo il mio giudizio.

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Ma, nostalgia a parte, il film è davvero spettacolare, per almeno 4 ottimi motivi.

1. La fotografia, incredibilmente spettacolare, veloce e roboante nelle scene dei concerti e estremamente curata, pacata e ovattata, nelle scene d’interno ed in tutti i dialoghi. Il direttore della fotografia, Newton Thomas Sigel, ha optato per una scelta cromatica slavata e tenue per tutte le scene d’interno della prima parte del film, coincidente con gli anni ’70 e le atmosfere ed i colori tipici di quegli anni. Ma la tavolozza cromatica, pian piano, diventa più scintillante e smagliante, con l’arrivo degli anni ’80, come a voler rimarcare il cambio di decennio anche dal punto di vista cromatico. Nel film sono presenti diversi spezzoni originali dei videoclip dei Queen ed è estremamente interessante l’uso che ne fa Newton Thomas Sigel, miscelando filmati d’archivio e riprese dal vivo con grande maestria. Il direttore della fotografia è uno dei collaboratori fissi del regista Bryan Singer e la notevole esperienza ed intesa raggiunta su set di film d’azione e di supereroi, quali X-Men, Superman Returns, Operazione Valchiria, X-Men – Giorni di un futuro passato e X-Men – Apocalisse, ha sicuramente giovato alle riprese ed alle inquadrature del film; 1. Il cast di attori, tutti bravissimi e talmente calati nei personaggi, da ricreare un effetto mimetico, una recitazione totale. Su tutti svetta Rami Malek (Mr Robot, Papillon, Una notte al museo), che interpreta un Freddie Mercury perfetto. L’aderenza al personaggio è pressoché totale: l’attore ha studiato a fondo le immagini dei concerti dei Queen, in particolare quella del Live Aid ed infatti questa scena, la più impegnativa da girare di tutto il film, vede una performance di Rami Malek talmente perfetta da essere indistinguibile da quella fatta dallo stesso Freddie Mercury. Ma anche le altre interpretazioni dei membri della band sono notevolissime, tre giovanissimi attori (il più grande ha 35 anni), con il quasi sconosciuto, ma bravissimo, Gwilym Lee (The Tourist, L’ispettore Barnaby, Jamestown), che sembra il fratello gemello di Brian May, passando per il talentuoso Ben Hardy (X-Men – Apocalisse, Fire Squad – Incubo di fuoco, Mary Shelley – Un amore immortale), che presta il volto a Roger Taylor, per finire con Joseph Mazzello (Jurassic Park, Il Mondo perduto, Viaggio in Inghilterra), che presta corpo e maschera a John Deacon, il bassista dei Queen;

2. Costumi, trucco e parrucco, curati rispettivamente da Julian Day e Charlie Hounslow sono incredibili, la ricerca e lo studio per ricreare i look e quindi le atmosfere degli anni ’70 ed ’80 sono stati maniacali. Con una maggior approssimazione, sono sicuro che il film non avrebbe avuto lo stesso effetto. Tutto: gli accessori, i vestiti, le acconciature e il trucco sono meritevoli della candidatura ai premi Oscar, vedremo; 3. Le musiche, il montaggio del suono, il montaggio vero e proprio, anche questi da Oscar. Dietro a tutti e tre c’è sempre la stessa persona: il compositore, montatore e regista statunitense John Ottman, assiduo collaboratore di Bryan Singer. Il lavoro più arduo è stato quello della sincronizzazione delle canzoni originali dei Queen, con il labiale degli attori, un lavoro lungo ed estenuante, che concorre in maniera importante al budget complessivo del film, che è stato di 52 milioni di dollari.

Ma, oltre a queste 4 ragioni, potremmo aggiungerne una quinta: la storia raccontata nella trama del film, benché molti detrattori e puristi abbiano riscontrato delle incongruenze: l’entrata nel gruppo del bassista John Deacon, sfalsata di un anno; il fatto che i Queen, diversamente da quanto raccontato nel film, non si siano mai sciolti; il non rispetto dei tempi cronologici dell’uscita di alcune canzoni; la scoperta della seriopositività di Freddie Mercury, avvenuta fra il 1986 ed il 1987, e non prima del Live Aid, come raccontato nel film. La storia della band inglese, invece, è raccontata come una sorta di “educazione sentimentale” alla vita da artisti.

Tutto sembra uscito da un romanzo di Kipling: il nome esotico Farrokh Bulsara, la nascita a Zanzibar, l’infanzia a Bombay, il trasloco a Londra, la vita in periferia. Tutto concorre, come nella vita di un supereroe (di cui il regista è esperto), alla nascita del mito e della leggenda. I superpoteri del nostro eroe sono un’estensione vocale di quattro ottave, mani magiche che padroneggiano istintivamente sia la chitarra che il pianoforte, un carisma ed un fascino magnetici che ne faranno uno dei performer più grandi di tutti i tempi.

Ultima curiosità, fra i produttori della pellicola, figurano due dei tre membri dei Queen: Brian May e Roger Taylor, che hanno supervisionato tutti i passaggi del progetto, con il preciso intento di consegnarci un’immagine del gruppo e del loro leader, in parte edulcorata, per non smagliare la memoria di Freddie Mercury, che è meglio ricordare per la sua bravura ed il suo talento, che per la sua vita di eccessi, tipica delle rock star. Sia come sia, il film è diventato ad 8 settimane dall’uscita (2 novembre 2018 USA, 29 novembre 2018 Italia) il biopic musicale di maggior successo di sempre, con 743.706.115 di dollari di incassi nel Mondo e con 23.351.240 euro in Italia, che ne fanno il miglior incasso per il 2018 per il nostro paese.

Mentre scrivo questo articolo (7 gennaio 2019), il film è ancora presente in molte sale italiane, forse lo sarà per un’altra settimana, ma almeno fino a mercoledì 9 gennaio, quindi il mio suggerimento, se non lo avete ancora fatto, è di andare a vederlo, non ve ne pentirete.

Ma, se proprio non doveste riuscire a vederlo al cinema, aspettate l’uscita del dvd o del bluray, saranno soldi spesi bene e magari al cinema andateci per un altro biopic musicale, in uscita fra maggio e giugno: “Rocketman”, sulla vita e la musica di un altro grandissimo artista, Elton John. Sono sicuro che anche questo film ci emozionerà e farà fare un tuffo nei ricordi ad almeno due generazioni.

I film italiani in sala nel Natale 2018: commedie, film d’azione e graditi ritorni

Come da tradizione, il periodo di Natale, quello che cinematograficamente va dal 15 novembre al 15 gennaio, è il periodo in cui escono in sala i film potenzialmente di maggior incasso: una vera boccata di ossigeno sia per gli esercenti che per i produttori cinematografici. Storicamente questi 60 giorni sono i più prolifici in termini di presenze a meno di qualche exploit particolare di singoli e specifici film in altri periodi dell’anno. Un Natale che sarà dominato dagli innumerevoli film hollywoodiani, citiamo su tutti “Il ritorno di Mary Poppins”, una rivisitazione dell’originale film della supertata, con Emily Blunt e Meryl Streep. Ma anche il nostro cinema ha un po’ di frecce al suo arco, con gustose commedie, film d’azione e anche alcuni graditi ritorni.

Quest’anno ad aprire la sfida natalizia ci ha pensato il redivivo Leonardo Pieraccioni, che dopo tre anni dalla sua ultima fatica (il mediocre Il professor Cenerentolo), torna in sala con un film, “Se son rose…”, che lo riporta quasi alla felice vervè di un tempo. Se son rose… è un film azzeccato, poetico e inusualmente anche un po’ amaro, un punto di nuovo inizio nella carriera pluriventennale dell’attore toscano. Non più giovane, scanzonato donnaiolo, un po’ bambino; ma cinquantenne che si trova a fare i conti con il proprio passato e in fondo anche con il proprio presente. Leonardo è un uomo di mezz’età ostinatamente single che fa il giornalista di successo sul web occupandosi di alte tecnologie e ha una figlia di 15 anni, Yolanda, lascito di un matrimonio naufragato. Yolanda è stanca di vedere il padre nutrirsi di involtini primavera surgelati e crogiolarsi nel suo infantilismo regressivo, e pensa che la chiave di volta possa essere una relazione stabile. Per metterlo di fronte ai suoi innumerevoli fallimenti in materia sentimentale Yolanda decide di mandare a tutte le ex di Leonardo un sms che dice: “Sono cambiato. Riproviamoci!”. E le sue ex rispondono, ognuna secondo la propria modalità. Come premessa comica è curiosa, e ha il potenziale per una di quelle farse alla francese cui il cinema d’oltralpe ci ha abituati negli ultimi anni; eppure Pieraccioni sceglie la strada malinconica unita alla crescita interiore di un personaggio, che forse alla fine sceglie l’amore, quello nuovo, perché tornare indietro “è soltanto una minestra riscaldata”. Tra i punti di forza del film, oltre ad una serie di belle e brave attrici (Claudia Pandolfi, Micaela Andreozzi, Gabriella Pession), la ritrovata vervè vernacolare di Pieraccioni, vero punto di forza del comico. E apre a quella vena malinconica che, in un paio di occasioni (l’incontro con la fidanzatina del liceo, il dialogo finale con l’ex moglie), lascia intravedere qualche sprazzo di autenticità autobiografica e un principio di vera autocritica. La domanda centrale della storia, ovvero “Quando e perché finiscono gli amori?”, nasconde uno strazio sincero, soprattutto nei confronti di un’unione matrimoniale terminata nonostante una figlia molto amata. Considerato che il suo nume tutelare dichiarato è Monicelli, Pieraccioni fa bene ad esplorare il lato amaro del proprio personaggio, smarcandosi dalla melassa, tipica del suo cinema. Se son rose è la riflessione di un Peter Pan sulle proprie responsabilità nei fallimenti sentimentali collezionati nel tempo, ma anche sulla fragilità strutturale di una generazione maschile autocompiaciuta e programmaticamente immatura. Con un po’ di coraggio in più Pieraccioni potrebbe uscire dalla dimensione fintamente fanciullesca ed entrare con successo in quella cinico-romantica alla Bill Murray, versione toscana. La strada è tracciata, e non solo la critica, ma anche il pubblico, dopo anni di mugugni, ha dimostrato gradire questa deriva malinconica e amara del “nuovo” e cinquantenne Pieraccioni, che piaccia o no, uno dei mostri cinematografici italiani più importanti degli ultimi trent’anni.

E in tema di ritorni, questo sembra un Natale cinematografico vecchio stile, come se si tornasse indietro di 13 anni diciamo, a quel 2005 quando la sfida cinematografica natalizia era tra Ti amo in tutte le lingue del mondo (Pieraccioni) e Natale a Miami (ultimo film insieme della coppia De Sica- Boldi, prima della chiacchierata rottura). Già perché la notizia cinematograficamente più rilevante dell’annata venne data a metà giugno: il Corriere della Sera titolò “a dicembre tornano insieme Boldi e De Sica, dopo 13 anni di lontananza”. Un colpo ad effetto e nostalgico della Medusa del Cavalier Berlusconi, di sicuro e prevedibile successo. Il ritorno del “vero” cinepanettone si parlò. E invece il film “Amici come prima”, non è un cinepanettone, sembra più una pochade alla francese, con De Sica quasi sempre travestito da donna, che deve accudire il suo vecchio amico (Boldi) e proprietario dell’hotel di cui era direttore, e lo aiuterà a salvare il patrimonio di famiglia. Che l’intenzione di Amici come prima sia metacinematografica è esplicitamente dichiarato dall’inquadratura finale, una carrellata all’indietro che denuncia la finzione filmica, con tanto di blooper finali. E non è un caso che quei blooper documentino il rapporto di amicizia ritrovata fra Massimo Boldi e Christian De Sica che dà il titolo a questa commedia. Amici come prima porta infatti in dote il loro sodalizio ventennale e il consolidato contrasto fra la milanesità dell’uno e la romanità dell’altro. Dentro a questa storia c’è l’affetto che il pubblico ha tributato per decenni al duo, ci sono l’aspettativa per le linguacce di Boldi e le reazioni fulminee di De Sica (due o tre qui da antologia), c’è la trivialità scatologica e infantile cui ci hanno abituati decine di cinepanettoni, ci sono i botta-e-risposta dal ritmo comico ben rodato. E c’è anche una riflessione autobiografica e dolorosa sulla vecchiaia e la paura di essere rottamati. Non chiamatelo però cinepanettone. Christian De Sica, qui nelle vesti anche di regista e sceneggiatore, ci tiene infatti a precisare che il film non sarà una serie di gag giustapposte l’una all’altra, ma le risate saranno al servizio di una trama ben solida, ispirata alla lunga tradizione della commedia all’italiana. All’inizio il soggetto sarebbe dovuto essere al contrario un film drammatico ma, un po’ per le richieste della produzione, un po’ per il volere dell’attore di lavorare ancora con l’amico, il progetto è virato verso un prodotto leggero natalizio. Il 10 gennaio, infine, prodotto dal vecchio e leggendario Fulvio Lucisano, uscirà l’attesissimo “Non ci resta che il crimine”, un mix davvero strepitoso, tra Non ci resta che piangere e Smetto quando voglio. Il titolo è un omaggio all’ironia di Non ci resta che piangere, il crimine invece fa parte del plot. Alla sua sesta prova dietro la macchina da presa, a due anni da Beata Ignoranza e quattro da Gli ultimi saranno ultimi, ritroviamo il regista romano Massimiliano Bruno, classe 1970, che negli anni ci ha abituato a commedie ridanciane con un bel graffio sull’attualità. Come da usanza, nei grandi film italiani degli ultimi anni, anche Non ci resta che il crimine, si serve di un cast corale di mattatori di altissimo livello: dal trio Marco Giallini, Alessandro Gassman e Gianmarco Tognazzi, a Edoardo Leo e Ilenia Pastorelli. “Ci siamo avvicinati modestamente a un capolavoro come Non ci resta che piangere, ma lo abbiamo ambientato negli anni 70 anziché nel Medioevo” racconta Giallini, ospite dell’Ortigia Film Festival. “Nel film ci vedrete nei panni di guide che mostrano ai turisti i luoghi dove aveva operato la Banda della Magliana, vestiti proprio come negli anni 70. Un giorno usciamo da un bar gestito da cinesi e ci ritroviamo catapultati in mezzo alla banda vera, esattamente nel 1982 (Edoardo Leo interpreterà De Pedis, ndr) in un salto temporale curioso da oggi a quegli anni lì. Ci sarà parecchio da ridere, ma anche da riflettere”. Un film, insomma, che promette risate e azione stile Smetto quando voglio, ma anche il fascino misterioso dei viaggi nel tempo in grado di attirare l’attenzione del pubblico. Un film destinato a rimanere negli annali: c’è da scommetterci!