LA ROCCA DI CALDE‟ E LE SUE FORNACI DI CALCE: IL FUTURO DI UN‟AREA DISMESSA

RELAZIONE STORICA

Il luogo e l‟architettura.

La Rocca di Caldè, sperone roccioso in dolomia di S. Salvatore che ha alimentato per secoli le fornaci di calce erette ai suoi piedi, sorge sulla riva lombarda del Lago Maggiore, in provincia di . La sua parete precipita a picco nelle acque del lago, qui nel suo punto più profondo, lasciando un risicato spazio ad una strada pedonale costiera ed a tre imponenti gruppi di fornaci, non più operanti dal lontano 1970, ed in stato di totale abbandono, con i muri sbrecciati seminascosti da una fitta vegetazione, i tetti e le strutture cedute in più parti, gli impianti, che per anni avevano macinato calce notte e giorno, divelti. Tuttavia per le torri dei forni di cottura si innalzano ancora imponenti dall‟alto dei loro venti metri, e sebbene sia ormai dispersa al vento quella fitta coltre di polvere bianca che li rivestiva al tempo della loro massima attività, caratterizzano ancora profondamente questo tratto di costa. L‟area in esame è parte del di (comune di Castello, fusosi nel 1928 con quello di Veccana), e le sue ultime propaggini si estendono al comune di . I tre complessi delle fornaci, ben distinti, ognuno dei quali composto da due torri di cottura, da sistemi per il carico di calce e ghiaia direttamente sui barconi che solcavano il lago Maggiore, da sostre e spazi accessori per lo stoccaggio dei materiali e dei combustibili, dai locali di abitazione per i responsabili dei forni, si snodano lungo poco più di un chilometro di costa ed in andamento sud- nord si distinguono: le fornaci di “”, “del Fico” e “di Porto”. Fa da sfondo la Valtravaglia, che si apre come un verdeggiante ventaglio dalle sponde del Verbano alle cime delle Prealpi che segnano il confine con la Valcuvia e la vicina Svizzera, in un susseguirsi a perdita d‟occhio di castagneti prima e di faggete poi. Il manto verde è solo timidamente interrotto dei nuclei abitativi da sempre di modeste dimensioni, che costituiscono nel loro complesso, i comuni di Castelveccana, di Porto Valtravaglia, di , sede della chiesa plebana già anteriormente all‟anno mille, di , , Montegrino. Storia e natura convivono nella Rocca di Caldè che, per la sua millenaria vocazione produttiva, può essere agevolmente posta fra le “aree dimesse”, oggi sempre più al centro dell‟attenzione soprattutto in relazione alla loro entità ed alle loro potenzialità. Ne è conferma la crescente attenzione verso il riuso, passo necessario ed auspicabile, parallelo alla conservazione, che lega, in una sorta di interdisciplinarità oggi quasi perduta, conservatori, urbanisti e progettisti.

LE PREESISTENZE

Il villaggio preistorico ed il castello medievale nelle indagini archeologiche

La vocazione della Rocca di Caldè ad attività di fornace e la dimestichezza col fuoco ebbero assai precoce principio su queste rive. Quando nel 1879 l‟archeologo Achille Longhi, avendo avuto notizia del ritrovamento di alcune tombe nel Comune di Castello Valtravaglia, dà avvio ad una serie di scavi sulle pendici della Rocca, alla ricerca di cimeli preistorici, rinviene sul terreno, allora di proprietà della famiglia Pirola (cava di Porto), inequivocabili tracce di una fornace, cocci di vari tipi, pezzi di carbone, una fusaiola in terracotta e piccole masse d‟argilla, dall‟impasti identico a quello di alcuni cocci. Sempre Longhi, questa volta sull‟erta parete occidentale del colle, raccoglie oggetti, portati alla luce nel corso di lavori agricoli, e fatti risalire all‟età del ferro, che indicano in quella zona l‟esistenza di una fonderia. Fra i reperti, una forma di fusione per fibule a grandi coste in cloromicascisto, l‟estremità di una staffa di una fibula di bronzo , un frammento di anello, ed alcuni pezzi informi di bronzo, probabili residui di fusione. L‟operosa attività produttiva dell‟area si perde dunque nella notte dei millenni e ci ricorda di antichissimi insediamenti che occupavano questo territorio già nel VII e VI secolo a. C. E questo balcone naturale a picco sul lago, proprio per la sua posizione geografica che costituiva un punto di controllo e di osservazione privilegiato su quella che fu per secoli la più veloce e sicura via di comunicazione fra Milano ed i passi alpini, continuò ad esercitare la sua attrattiva sui Romani prima e sui Longobardi poi, che lo fortificarono rendendolo una rocca inespugnabile, per godere del suo massimo splendore sotto la signoria degli Arcivescovi di Milano e dei Visconti. Per individuare le poche rovine rimaneggiate del Castello della Travaglia, bisogna risalire a piedi lo sperone roccioso della Rocca e raggiungerne la sommità. Qualche struttura muraria, un fossato verso sud, una cisterna interrata, tracce di fortificazioni sono tutto ciò che resta; ma le fotografie di inizio secolo mostrano consistenti ruderi, che furono abbattuti, assieme alle citate cisterne di tre metri per tre, nel 1992 per costruirvi il monumento ai caduti della guerra ‟15 – ‟18. Don Arturo Frascoli, parroco di S. Pietro lascia un‟ampia descrizione delle vestigia della fortezza, così come da lui stesso rilevate nel 1907 e sulla base di testimonianze raccolte fra gli anziani del comune di Castello: “… ivi esistono alcuni avanzi di cisterne, case, torri, fossi, corti, bastioni ed altri indizi di fortificazioni ad uso guerra. … Poco dopo l‟imboccatura della strada da Castello a S. Veronica, dove i dirupi di sotto e di sopra lasciano uno stretto colle, ci doveva essere una porta relativa alle fortificazioni della Rocca, ed è chiaro argomento della sua esistenza il nome che rimase ai fondi sottoposti, appellati ancora adesso “Sottoporta” ….. Alla riva del lago, discendono dalle case, dette “portacce” della rocca, quasi per linea retta, quando il lago è molto abbassato, si indovinano, e forse si vedono ancora, degli avanzi di un porto, che si suppone apposito per gli abitanti del Castello. “Portacela” è chiamato quel seno della rupe che si incontra ascendendo la rocca per la strada di Creda (S. Pietro) là ove non solamente di sotto ma anche di sopra, gli scogli erti ed implacabili lasciavano un solo varco ed è verosimile che ivi fosse una porta. Sopra quel luogo restano dei segni manifesti di una fossa …. . Un medesimo segnale di fosso, che recinge il sommo scoglio della Rocca, sivede altresì dalla parte di S. Veronica. Sul piano della Rocca, a destra ed a sinistra del sentiero che si imbocca ascendendo a S. Celso, sono ancora visibili avanzi di due cisterne con apertura ad imbuto verso le case a cui lo scolo dei tetti e con altra apertura propria dell‟attingere. In mezzo al piano, un poco più sopra di questa cisterna, si ha una scoglio su cui appaiono ancora i fondamenti di una torre quadrata, la quale doveva essere il cuore della rocca. La parte poi del piano che guarda sopra Ortile e Castello era sicuramente destinata alle abitazioni, siccome la più sicura. La parte sopra S. Veronica e verso Caldè anche attualmente presenta vestigia di abitazioni, circondate da tre mezzelune delle quali due rotonde e quella in mezzo a tre faccie ma di lati ineguali. Queste sono le opere di fortificazioni che tuttora sussistono a dispetto del tempo e delle intemperie delle stagioni a cui sono esposte e che veggonsi da lontano. Nell‟inverno 1844 – 45 cadde metà della mezzaluna esterna verso Griffa. Alcuni vecchi raccontano che dalla porta a tramontana si scendeva per un sentiero a scale, scavato nella viva roccia fino al lago dove era un molo con darsena a portico ad uso del castellano e dei suoi armati, di cui ricordasi il nome “Molo del portichetto triplici mura cingevano il forte”.

LA PRODUZIONE DELLA CALCE NEL CONTESTO ECONOMICO DELLA VALTRAVAGLIA IN EPOCA MEDIEVALE

I ritrovamenti preistorici, le rovine della fortezza sommatale e i tratti storici conseguenti confermano la centralità della Rocca come avamposto di difesa e di commercio rispetto alla Valtravaglia, ma poco possono dirci circa la vocazione produttiva del luogo. E‟ a questo proposito che ci vengono in aiuto gli Statuti della Valtravaglia, redatti nel 1283: un complesso di patti tra l‟arcivescovo e le popolazioni locali intorno ad una forma di governo che si ispirava al principio delle libertà comunali, e che permettono quindi di ricomporre il quadro socio – economico – amministrativo del nostro ambito di indagine.

L‟amministrazione del territorio

Alla fine del 1200 si distinguevano nella Valtravaglia quattro castellane: la Maggiore, nonché quelle di Bedero, Roggiano e Mesenzana, con altrettanti castelli e fortificazioni che formavano nel loro insieme un ampio ed efficace sistema difensivo. E tale fu l‟importanza del Castello Maggiore che, al paragrafo XXVIII degli Statuti, sono minuziosamente elencati i doveri e gli obblighi degli uomini della castellanza di Travaglia nei confronti del loro castello. Questo paragrafo ci offre anche una ulteriore descrizione del castello stesso. I luoghi più importanti della castellanza erano all‟epoca: Castello con 35 fuochi, Vaccana con 32, Porto con 36, Musadino con 31, Muceno con 27, Brezzo con 14, Bedero e Roggiano con 15, Brissago con 16, Mesenzana con 14. Altra popolazione era sparsa nei cascinali. Gli abitanti erano chiamati vicini, quali membri di un comunello rurale, e vicinanzie le loro adunanze. Dai vicini (o homines) si distinguevano i nobili, di cui facevano parte le famiglie Sessa e Mesenzana e fra le cui fila venivano scelti i quattro gastaldi (probabili appaltatori dei redditi del comune: dazi, diritti di pedaggio), mentre il castellano veniva nominato direttamente dall‟arcivescovo. Tutti i distrettabili dell‟arcivescovo erano tenuti a prestare, nelle mani del castellano, il giuramento di fedeltà e la promessa solenne di soggezione ed obbedienza. Quale signore della Valtravaglia, all‟arcivescovo spettavano un potere legislativo e di giurisdizione, cioè la facoltà di pronunciare sentenze e di esigere i banni con esse inflitte. I castellani eleggevano due decani per ogni luogo della castellanza, ricevevano le querele per danni rurali, esigevano le tasse giudiziali per i singoli atti. I gualdemani, eletti pure dall‟arcivescovo, erano due per tutta la castellanza; riscuotevano tasse giudiziarie ed altri contributi, e per compenso ricevevano un denaro per ogni soldo. Fra gli ufficiali minori si accenna ai canevari, economi addetti alla custodia delle tre caneve esistenti. I vicini erano inoltre obbligati a tenere nei rispettivi castelli i portinai. I capi dell‟amministrazione dei comunelli della castellanza erano i decani, due per luogo ed eletti dai castellani, e per l‟investitura dovevano al castellano un formaggio del valore di quattro soldi. Escluse le “convenienze”, ossia le proprietà padronali che venivano date gratuitamente e per turno alle famiglie del feudo e la cui assegnazione era lasciata liberamente agli uomini del comune, il comune era diviso in appezzamenti tenuti in affitto da coloni, i quali, per nota consuetudine milanese, dovevano abitare sul luogo, né potevano subaffittare ad altri di altro luogo. L‟arcivescovo riscuoteva inoltre da tutti gli uomini della castellana “l‟alberghiera” e godeva del diritto di pesca nei territori di Castello, Porto, Muceno e Brezzo. Da determinate famiglie esigeva la “portenarizia” o il “pasto”, ossia l‟onere di dare da mangiare a certe persone in date circostanze (come ai messi del signore ai tempi della raccolta) o “l‟amiscere” (piccolo contributo di generi alimentari) o la “circatura” per le ispezioni del castellano o la “comparia” per i prati dell‟arcivescovo, o il “carreggio” o il “navigonium” (trasporto con barca in determinati mesi) o i lavori sulle terre del signore. Un settore dello Statuto era dedicato alle pene previste per furti, omicidi, assalti, ferimenti, ed ovviamente non mancavano le disposizioni a carattere agrario.

L‟economia della Valtravaglia

Lo Statuto offre una chiara visione delle risorse economiche della Valtravaglia, che non dovevano certo essere floride se, nell‟estimo delle terre del Lago Maggiore del 1393, la Valtravaglia è tassata: “Floreni 5 10d”. I cereali che appaiono con più insistenza sono il pannicolo e la segale con cui a quei tempi si faceva il pane, scarsi i cereali più nobili come frumento e miglio. La vite aveva un‟ampia diffusione. Un ruolo economicamente importante era rivestito dai boschi per la legna da ardere, la produzione del carbone da legna, che si esportava in città, per il legname da opera e per lo strame. Utilissimo il castagno, i cui frutti dovettero costituire anche per i secoli a venire un‟alimento base per superare le ristrettezze invernali, per gli abitanti di questa zona, scarsissima di aree pianeggianti e quindi poco adatta alla coltivazione di cereali e foraggio, ma formata per lo più da terreno montuoso coperto da lussureggianti castagneti, che partendo dal lago, salivano fino ai 600 di quota, dove lasciavano posto ai faggi. Di animali domestici o selvatici non si fa cenno, ma non dovevano certo mancare galline, oltre a mucche e specialmente pecore, indispensabili soprattutto per il latte ed il formaggio piuttosto che per la carne. L‟allevamento era grandemente favorito dai pascoli di montagna, sia a media altezza che a quota più alta. I prati più estesi di “Canalle” e “Segnono” erano di proprietà dell‟arcivescovo, di cui lo stesso si riservava la fienagione, probabilmente per il mantenimento dei cavalli, necessari ai servizi interni del feudo e per quelli destinati ai viaggi degli uomini e delle merci da e per Milano. Oltre che da questa agricoltura povera, gli uomini del feudo traevano nutrimento anche dalla pesca e dalla produzione della calce.

La calce come forma di tributo

Dalla lettura degli Statuti si apprende anche come la calce già all‟epoca fosse prodotta in abbondanza, se oltre al Castello Maggiore, gli abitanti avevano l‟obbligo di rifornire anche le fortezze di Broello, Arona, e , tutte di proprietà arcivescovile. Per il Castello Maggiore in particolare si precisa: (…) tutti gli uomini sono tenuti a prestare la loro opera al Castello Maggiore, a munire il fossato con spine e pali e fare le fortificazioni per il castello e dare la calce necessaria per questo castello”. Il fatto poi che l‟obbligo di rifornire di calce i castelli della zona fosse esteso a „tutti gli uomini‟, induce importanti considerazioni circa la struttura della produzione, certo fortemente parcellizzata ed ampiamente diffusa. Questa tesi trova conferma anche nei numerosi resti di forni, ancora riconoscibili, che ebbero a caratterizzare l‟intero tratto di costa tra Laveno e Porto Valtravaglia. In sintesi, la serie degli elementi deducibili dagli Statuti di fine „200 porta a ritenere che il Castello maggiore dominasse su un insediamento di notevole entità la cui popolazione si dedicava essenzialmente all‟agricoltura ed alla pesca, mentre l‟estrazione del carbonato di calcio e la sua cottura, pur importante, rappresentava più che altro una forma di tributo dovuta al vescovo, che produceva scarso reddito, eseguita in determinate stagioni, quando l‟attività agricola lo permetteva, finalizzata essenzialmente alle opere di manutenzione dei castelli arcivescovili della zona. Sarà forse proprio la scarsa redditività a determinare nei due secoli successivi l‟immobilità di questo sistema produttivo, le cui potenzialità si manifesteranno solo nel momento in cui l‟attività estrattiva da forma di tributo si trasformerà in attività generatrice di reddito, per specializzarsi sempre più e concentrarsi nelle mani di pochi, intraprendenti imprenditori benestanti. Tuttavia già all‟epoca emergevano con prepotenza quei caratteri specifici destinati a legare indissolubilmente la Rocca di Caldè alla produzione della calce e cioè: collocazione delle cave avanzata sul Verbano, basilare via di trasporto, e grande abbondanza di legname nei dintorni, per l‟attivazione dei forni.

Ruolo delle vie d‟acqua

Già i epoca romana e longobarda, il bacino del Verbano aveva offerto ai traffici una via d‟acqua a quei tempi più rapida e sicura che non quella terrestre, la cui arteria principale per giungere a Milano, transitava per Ponte e quindi attraverso la , raggiungendo prima Varese, indi Castelseprio, dove si congiungeva alla strada per Milano. Navigando invece sul lago si arrivava in poche miglia a Stazzona (attuale Angera) e da qui, per strada, a Seprio ed a Milano. Comprensibile che per il trasporto delle merci si desse la preferenza alla via d‟acqua e per la convenienza economica e per la maggior rapidità e per la sicurezza da aggressori, allora così frequenti lungo le nostre solitarie strade, immerse in una fitta vegetazione. In molti tratti poi, come ad esempio fra Laveno e Caldè, per la mancanza di un‟arteria costiera attivata solo in questo secolo, la via d‟acqua rappresentava l‟unica possibile. In età carolingia si ebbe una ripresa dell‟attività commerciale della padania e le merci di maggio interesse, come ad esempio il sale, raggiungevano le rive del Lago Maggiore attraverso Pavia, dove terminava il tratto navigabile del Po‟, quindi dal Po‟ al ed infine al Verbano. Si ritiene che anche parte delle merci importate da Venezia, con destinazione centro Europa venissero trasportate sul Verbano e dopo essere approdate al Porto di , proseguissero via terra attraverso i passi alpini, Lucomagno, Spluga, S. Gottarso, allora sotto lo stretto controllo dei Longobardi e più tardi del Ducato di Milano, che non dimenticò mai, a livello di scelte politiche, di dare la necessaria rilevanza al controllo dei valichi e delle relative vie di accesso, servendosi anche delle rocche di Angera e Caldè, punti di osservazione privilegiati sul Verbano. Niente di più favorevole ed auspicabile quindi per lo svilupp e l‟ampliamento dell‟attività estrattiva, attiva in più punti del lago.

FRAMMENTARIETA‟ PRODUTTIVA

La produzione della calce come integrazione al reddito agricolo

Durante i secoli XV, e XVI e XVII l‟economia della Valtravaglia continuerà a reggersi su un‟agricoltura povera, ai limiti della sussistenza, dove qualsiasi attività collaterale, nel nostro caso la pesca e la produzione della calce, non potrà che incontrare il favore degli abitanti, aiutandoli a far quadrare un magro bilancio. Questa situazione emerge con evidenza dagli scritti di alcuni autori locali che, seppur con toni spesso trionfalistici e campanilistici, ci regalano dettagliate descrizioni di quei luoghi. Chiaro esempio di questo stile letterario, nonché preziosa fonte di informazioni, è il Macaneo, autore della seconda metà del „quattrocento, che, trattando dell‟Alto Verbano, non manca di citare: “Caldè, ultimo villaggio della Valtravaglia. Ivi son numerose le fornaci di calce presso un monte dovizioso della materia necessaria a quelle oltre che rannobilito dagli avanzi di una torre”. Oltre un secolo più tardi il Morigia, a conferma dell‟immutata situazione economica di queste sponde, parimenti si sottolinea riviere piene di vigne che producono “vini d‟ogni sorte e delicati per la gran copia delle viti e pergolati che si veggono, così nei colli come nei piani” di olivi e di frutteti, di buone possibilità di pesca. Interessante ai fini di una riflessione economica risulta essere la “lista delle spese per il Cardinal Federigo” in visita alla Valtravaglia dall‟11 al 23 agosto 1596. le vivande offerte al cardinale, senza dubbio di produzione locale, ci danno una chiara visione di quanto fosse allevato e coltivato in zona. Nessuno degli autori accenna ad estese coltivazioni di cereali pregiati, a cui d‟altra parte né le condizioni climatiche si prestavano; e ciò non potrà che condizionare pesantemente la resa agricola di quest‟area e l‟assoluta necessità quindi di trovare fonti di sostentamento e di reddito alternativo. Tutti gli scrittori che si sono interessati del Verbano hanno dato un grosso peso alle fornaci di calce di Caldè. Lo stesso Morigia non può esimersi dal citare fra le cose rimarchevoli del Lago Maggiore, “un borgo chiamato Porto proprio sopra la ripa del lago. Luogo nominatissimo per la gran montagna di sasso bianco (n.d.r. la rocca di Caldè), dove di quelli si fanno quivi molte fornaci di calcina, dalla quale non solo la gran città di Milano se ne serve co‟ grand‟utile per le fabbriche, ma ancora ne prende grandissimo comodo la città di Pavia, Novara, Vigevano (…)”. Degno di nota è il calcolo fatto dal Morigia sulla base dei registri avuti da alcuni dazieri di , del Dazio dei Visconti, dove venivano elencati tutti i materiali che raggiungevano giornalmente il dazio di Sesto, via lago e da cui risulta che la quantità di calcina che usciva dal Verbano a quel tempo, lungo un intero anno solare, ammontava a ‟85.200 centenara‟. Se si considera che il polo produttivo era concentrato quasi esclusivamente sull‟esiguo tratto di costa tra Laveno e Porto Valtravagalia, si può verosimilmente affermare che la quasi totalità di queste 82.500 centenara di calcina annue, era prodotta dalle fornaci di Caldè. Il Vagliano, seppur con innegabile accento campanilistico (in quanto parroco della canonica di Domo), giunge a paragonare le fortune ricavate dall‟estrazione della calce di Caldè, all‟oro delle Indie ove recita: “Qui ritrovano le loro Indie què robusti abitanti tra sassi di calcina, della famosa rocca di Valtravaglia e da què macigni, cavano tant‟oro, quanto basta per vivere vedendosi in essa terra tante fornaci accese che giorno e notte la rendono chiara fra le tenebre de‟ propri cenci (…). I lavoratori legati alle corde svenano smisurate pareti, che stritolate dalle cadute della montagna servono abbrugiate a liquefarsi in calcina così bianca e fina, che nobilita le più superbe fabbriche”. E‟ ancora il Vagliano a farsi portavoce dell‟importante cambiamento subito dalla produzione della calce dopo il 1500, rispetto all‟epoca medioevale: nuovi equilibri politici, dopo decenni di sanguinose guerre, si sono instaurati in queste terre di confine, le fortezze sul lago hanno perso molta della loro importanza, ed i feudi si sono sempre più frazionati, ciò comportando, come immediata conseguenza, la perdita di controllo diretto delle risorse da parte dei feudatari. Il venir meno dei tributi pagati in natura ed in manodopera dagli abitanti del feudo, in favore di un più comodo e più controllabile pagamento in denaro, ha fatto si che, finalmente, la produzione della calce non fosse più soggetta al signore e strettamente legata alla manutenzione dei castelli, consentendo in tal modo agli abitanti della Valtravaglia di considerare l‟attività estrattiva come potenziale fonte di reddito e di ricchezza, ed avviando così un più incisivo processo di trasformazione e commercializzazione, verso i mercati di Milano, Pavia e Vigevano, del prodotto. Solo in virtù di tale considerazione trovano riscontro le parole del Vagliano quando dice di robusti abitanti che cavano tan‟oro quanto basta loro per vivere. Facendo intravedere, per la prima volta nel 1600, l‟opportunità offerta dalla calce di mantenere una famiglia, svincolandosi così, almeno in parte dall‟agricoltura.

Strutture e funzione delle fornaci

Parlando di forni, una prima ed importante puntualizzazione relativa all‟abitudine di cavare e calcinare le rocce sul posto, porta a distinguere quelli costruiti per svolgere un‟attività duratura, da quelli che dovevano soddisfare un fabbisogno limitato nel tempo. I primi, posti a ridosso di grossi banchi di calcare pregiato e serviti da vie di comunicazione, si sono rivelati generalmente più solidi, meglio eseguiti, di maggiori dimensioni ed in grado quindi di di sopravvivere anche attraverso i secoli. Dei secondi invece si hanno notizie solo tramite i testi scritti perché, un avolta esauritasi la loro funzione, venivano abbattuti o lasciati deperire, anche se non si esclude che in certuni casi potessero esser usati come ghiacciaie o depositi sotterranei. Certo è che le fornaci della Rocca di Caldè sono da collocarsi nel primo gruppo, mentre più dubbia è la classificazione dei manufatti che costellavano il litorale tra Caldè e Laveno. Fra i trattatisti è Vincenzo Scamozzi a venirci in aiuto in questo senso, quando specifica: “le fornaci per servirsene lungo tempo si fanno quadrate, o alquanto più lunghe, (…)”, distinguendo così un ulteriore elemento di caratterizzazione: il rapporto dimensionale. Il riferimento allo Scamozzi non è casuale, egli è infatti fra i primi a dare, agli inizi del „600, una descrizione dettagliata e precisa dei forni in uso al suo tempo: “Le calchere che propriamente così si chiamano dalla voce del calcolo, di che si fa la calcina, devolsi collocare al piede di qualche colle o altro luogo rilevato; o essendo al piano, su terrapieno molto bene intorno via, ed abbiano il paino pendente all‟infuori acciò l‟aria vi entri salendo. Siano di forma rotonda di dieci in dodici piedi di diametro, e tanto siano in altezza tirate a piombo o alquanto più ristrette al di sopra, acciò il fuoco faccia maggio effetto. La bocca sia volta a mezzodì, come aspetto migliore, la sua altezza sia alle spalle d‟un uomo comune e larga non più di tre piedi e ne sguanzi all‟infuori cinque per il maneggiar delle pietre; e sia cinta all‟intorno di mura di quadrelli crudi o di pietre che sprezzino il fuoco. Le calchere di dieci piedi capiranno seicento in settecento moggetti di calcina, alla quale anderà seicento o settecento passi di legna comune di noce”. Che la produzione della calce nel 1600 fosse legata all‟andamento ed ai tempi del cantiere, e comunque fosse ben lontana da un‟impostazione di tipo industriale, tale da impegnare continuativamente lungo l‟arco dell‟anno un certo numero di operai, emerge chiaramente in questo passo: “le calcine si fanno ordinariamente in marzo ed aprile essendo che allora si comincia gagliardamente a fabbricare; e gli uomini ed i bestiami sono liberi dagli affari delle campagne siccome altre se ne fanno dopo le vendemmie”. Così era probabilmente anche per la Rocca di Caldè e per i lavoro dei piccoli proprietari, ognuno con la propria fornace, gestita a livello familiare; riguardo alla struttura ed alla dimensione dei forni, un‟analisi dello stesso autore porta a ritenere che questi dovessero rispondere a parametri sufficientemente unificati e validi entro vasti ambiti territoriali.anche a Caldè la tipologia dei vecchi forni coincide quasi integralmente con le descrizioni dello Scamozzi. Se ne osservano due tipi: a pianta quadrata e circolare ma, in ogni caso, internamente hanno sempre una forma ovoidale, con apertura verso il lago, e carica dall‟alto. Nel primo forno che si incontra giungendo alla Rocca di Caldè, proprio sulla riva dl torrente, è ancora ben leggibile la forma quadrata con muratura molto profonda, a più strati, ed un riempimento inerte spesso più di un metro; leggermente rastremato in altezza ed ancora in buono stato di conservazione fu adattato, in epoca recente, a rimessa di camions; non vi è traccia invece di rivestimenti refrattari o “murate di sassi e terreno cretoso”. Lo spessore delle murature trova giustificazione nel metodo di caricamento, che si eseguiva disponendo le pietre da cuocere in volta, così da lasciare al di sotto una camera di combustione. Una simile disposizione delle pietre, tale da esercitare forti spinte verso l‟esterno, doveva necessariamente essere sostenuta da strutture ben solide, che avevano anche il compito di opporsi alle pressioni interne esercitate a causa delle alte temperature raggiunte. A cottura ultimata veniva fatta crollare la volta ed il prodotto estratto dalla bocca inferiore. In tali fornaci, che il Dizionario Industriale di Arti e Mestieri indica come “fornaci di campagna”, si adoperava combustibile vegetale, cioè fascine di legna giovane, di quercia e di castagno, presente quest‟ultimo in grande abbondanza in Valtravaglia. Per questa operazione non era necessario che il legno fosse secco, chè l‟esperienza aveva dimostrato essere più conveniente adoperare legno alquanto verde. Anzi era pratica comune spruzzare d‟acqua il combustibile per l‟influenza favorevole che il vapore acqueo assumeva nella scomposizione del carbonato di calcio. Questi “forni di campagna” non si rinvengono solo in Rocca, ma costellavano, caratterizzandolo in maniera forte, l‟intero tratto costiero tra Caldè e Laveno. Ed anche quando tali manufatti sono stati convertiti ad altre destinazioni, (come nel caso di una villa e di terrazze panoramiche sul lago) restano riconoscibili nelle loro antiche forme, segno tangibile di una funzione oramai passata. Naturalemte, date le caratteristiche geo-morfologiche del sito, il tipo di forno sviluppatosi a Caldè non può essere integralmente assimilabile ai modelli sino ad ora descritti o meglio, lo è nelle dimensioni e nel funzionamento, ma particolare è l‟ubicazione, proiettata sul lago. La camera di combustione risulta infatti in tutto o in parte fuori terra, con la porzione a monte interrata e quella a lago necessariamente isolata da uno spesso muraglione composito, ciò ad evitare l‟accumularsi di umidità ed il conseguente maggior dispendio di combustibile.

Autorevoli riconoscimenti al pregio del sasso calcareo di Caldè.

“… dev‟essere formata di pietra bianca o selce cotta: e quella che sarà di pietra densa, e della più dura, riuscirà migliore per la fabbrica, sebbene per l‟intonaco sia migliore quella di pietre spugnose…”. Così Vitruvio, per primo, scrive parlando della calce. E‟ indubbiamente nella qualità del prodotto che va ricercata la risposta al perché dell‟ampio utilizzo della calce di Caldè . la calce infatti, per non compromettere il risultato dell‟opera architettonica, doveva essere della migliore qualità; e secondala concezione del tempo, ciò era tanto più vero quanto più importante era la fabbrica da realizzare. Se poi si pensa che causa delle scarsissime conoscenze di chimica, le valutazioni sulla bontà del prodotto si basavano su osservazioni visive e del comportamento del materiale durante le fasi della sua preparazione (valutazioni impossibili per un compratore del materiale cotto o addirittura già spento), si comprende facilmente come architetti e capomastri fossero orientati verso quelle produzioni di cui qualità e affidabilità erano certi. Niente di meglio di quella calce da sempre utilizzata per tenere insieme le massicce strutture difensive di epoca medioevale dell‟intero ducato e per di più, facilmente trasportabile e reperibile i quantità illuminata (per allora) per la vastità dei giacimenti della Rocca.se quindi per costruzioni povere e semplici abitazioni si utilizzava abitualmente il banco calcareo più vicino, per palazzi signorili e cattedrali, si preferiva rivolgersi a quanto di meglio presente sul mercato. E la ricerca e la codificazione dei parametri, atti ad indicare di questi tutti trattati e manuali da Vitruvio ai giorni nostri. Altri trattatisti infatti hanno elogiato i pregi della calce. Ai fornaciai di Caldè, il testo dello dello Scamozzi dovette rendere un grosso servizio nel momento in cui, accanto alle prescrizioni di carattere generale relativa alla quantità della calce, compariva un elenco delle migliori produzioni di calce d‟Europa, fra le quali troviamo citata quella del Lago Maggiore. Una precisa ed autorevole indicazione per tutti coloro che, trovandosi ad operare in zona a loro estranea, potevano avere dubbi circa l‟approvvigionamento di materia prima per l‟edilizia. Ma la vera svolta fu ad opera di Francesco Milizia che fra i primi scrive: “Tutte le pietre su le quali l‟acqua forte agisce e produce effervescenza, sono proprie a far calce: le più dure e le più pesanti sono le migliori”. Non più valutazioni empiriche, come si era fatto sino a quel momento, paragonando l‟ottima calce alla crema, ma un test con l‟acido cloridrico (acqua forte), la cui reattività con la pietra ne designa la bontà. Si tratta della prima verifica di matrice chimica che costituirà la base delle ricerche successive. Proprio a questo progredire nella ricerca ed ai continui richiami alla qualità dei materiali, si deve la diffusione e la fortuna della calce di Caldè. Una prova che si aggiunge ad un‟ampia serie di testimonianze specifiche che vale la pena di ricordare. Antonio Averlino, il Filerete, nell‟intento di individuare il prodotto migliore presente sul mercato di Milano, per erigere quello che doveva essere il suo capolavoro, Sforzinda, scrive: “Le calcine che tu hai a far fare per lo provedimento delle mura della nostra Sforzinda, per farle buone e vantaggiate secondo che ho veduto e provato, vogliono essere pietre di quelle de‟ fiumi (…); ancora quella petrina del lago d‟Angera è buona (…)”. Non mancano certo i riferimenti a Firenze, sua terra d‟origine, o alla realtà veneta, ma significativo è il risalto dato alla calce proveniente dal lago Maggiore (qui definito lago d‟Angera) e molto probabilmente alla stessa Rocca di Caldè. Quasi a conferma che nel caso specifico il nome di Angera vada inteso come riferimento geografico stante ad indicare il Lago maggiore e non l‟omonima pietra ivi estratta, è una frase di alcune pagine più avanti in cui l‟autore sottolinea: “(…) e così le calcine, secondo mi disse il mio amico che in quelle montagne di verso occidentale gli era molte generazioni di pietre che per lo fiume si possono condurre”. La menzione alle montagne escluderebbe Angera, a cui fa da sfondo una pianura appena ammorbidita da modeste colline moreniche, avvalorando invece l‟ipotesi che il Filerete intendesse proprio la Rocca di Caldè, posta all‟estremo limite occidentale dlla Lombardia, in territorio montuoso. E si può leggere una conferma dell‟autore stesso a questa considerazione, quando accennando alle pietre d‟Angera scrive: “perché se ne fa calcina, non te ne consiglio se puoi avere altro, pure sono assai buone, sono di colore bianco e anche rosso e giallo, cioè pendono in questi colori e hanno questa natura che quando ci piove si fanno verdi”. Nella ricerca di un prodotto di buona qualità, il Filerete considera la facilità di trasporto, i tempi, i costi e le distanze. Certamente nella sua opera non può fare a meno, parlando di calce, di citare quella prodotta lungo l‟Adda, provatamente anch‟essa di ottima qualità, ma è l‟autore stesso a specificare la sua propensione per il prodotto proveniente dal Verbano, sottolineandone l‟economia e la comodità di approvvigionamento, accanto alla pregevole qualità. Un secolo più tardi sarà lo Scaramozzi a riconoscere la pregevole qualità della calce del Ticino e dei dintorni del Lago Maggiore. Nel suo trattato dall‟intento universalizzante dove, parlando della pietra di calce non mancano riferimenti alla Francia, ai paesi germanici e al territorio balcanico, la dicitura „dintorni del Lago Maggiore‟, vuol distinguere un ambito geografico ben preciso. L‟accenno più esplicativo alla calce della Rocca, infine, è relativamente recentemente e trova spazio sul manuale di G. Vivarelli, datato 1913, che tra i banchi calcarei di miglio qualità da lui conosciuti, menziona quelli della Val Seriano, in provincia di Bergamo, di pressoVarese, di Palazzolo, di Porto Valtravaglia a Caldè. I ricorrenti riferimenti alla calce di Cladè, intesi a sottolinearne la bontà, coprono un arco di sette secoli, dagli statuti del 1283 all‟opera del Vivarelli e non possono dare adito a dubbi. Elemento qualificante riteniamo di essere la composizione mineralogica dell‟imponente banco calcare, che costituisce la Rocca stessa

Caldè: un paese che alla calce deve la propria esistenza

Le origini dell‟abitato di Caldè di identificano, a detta degli storici del luogo, con un primo insediamento sui prati di Segniono, che nel 1283 erano di stretta pertinenza dell‟arcivescovo di Milano. All‟epoca a „Segniono‟ veniva segnalato un solo contribuente: “conversus ecclesie Sancti Antonii”, segno evidente della mancanza in questa zona di un qualsivoglia nucleo abitativo e dove pare di capire che l‟unico edificio degno di nota fosse costituito dalla chiesa di S. Antonio; ed ancora oggi a Caldè c‟è la Chiesa di S. Antonio da Padova, la cui costruzione risale, è vero, al 1667, ma data la frequenza con cui a quei tempi si perpetuava la devozione ai senti del luogo, è ragionevole supporre che la nuova chiesa fosse stata eretta al di sopra della vecchia costruzione. E questo è un primo passo per assimilare „Segniono‟ a Caldè. Inoltre su terreno così accidentato e acclive come quello della Valtravaglia, soltanto a segnino poteva trovarsi una consistente estensione prativa che fosse al tempo stesso nei pressi del castello del feudatario, là dove i due torrenti che delimitano l‟area a sud e nord, rispettivamente il Torrente Asino ed il Torrente Caldè, hanno contribuito alla formazione di un modesto cono alluvionale adatto al pascolo. E‟ presumibile che l‟area di Caldè alla fine del 1200, si presentasse come un vasto appezzamento prativo, con una chiesa, all‟ombra della inespugnabile fortezza e sotto il diretto controllo del castellano. Non resti però inosservato il passo degli Statuti relativo ai: “viaggi degli uomini e della merce da e per Milano”. Considerando che la produzione agricola del luogo era limitata, ed appena sufficiente alla popolazione locale, come del resto in tutta la fascia prealpina verbanese, le uniche merci „per Milano‟ non potevano essere che legna e calce. Ed ecco che Caldè, ancora prima di esistere, già serviva alla nobile produzione della sopraffina calcina della Rocca. Si è dovuti risalire al 12 agosto 1596 per trovare una delle prime citazioni del toponimo Caldè, riportata su un documento. Trattasi della relazione redatta in occasione della visita del Cardinale Federico Borromeo alla Valtravaglia, ove si legge: “Its petia terre aratiur, de vitee, et prati siti in Caldè (…)”. Nel 1596 il castello sulla Rocca era già stato messo a ferro e fuoco dagli svizzeri, e i prati di „Segniono‟ erano affidati a privati che trasformarono parte dei pascoli in aratorio vitato. Nel contempo l‟attività estrattiva dell‟adiacente Rocca, non più vincolata al rigido controllo di un castellano che dimora in loco, ebbe modo di svilupparsi in maggiore autonomia, consentendo a Caldè di accrescersi sfruttando la ricchezza delle cave di calcare piuttosto che perpetrando l‟antica ma poco redditizia vocazione agricola. Il toponimo stesso farebbe pensare ad un‟identificazione con l‟attività che vi si svolgeva: Calchera, indi Caldero ed in fine Caldè. D‟obbligo a questo punto per un riscontro cartografico e per verificare l‟espandersi di questo piccolo centro, un salto di alcuni secoli che, pur violando la rigida impostazione cronologica del lavoro, chiarisce ogni residuo dubbio sulle origini del paese e sull‟importanza che la produzione della alce ebbe per i suoi abitanti. La prima descrizione dell‟abitato compare sulla mappa del Catasto Teresiano ( 1756). Si distinguono due nuclei concentrati quasi esclusivamente sulla via centrale, circondati da orti, al di là dei quali i campi arati. La chiesa emerge isolata sulla strada di collegamento con l‟abitato di Castello, e colpisce l‟elevato numero di fornaci lungo tutto il tratto di lago dal Sass Galet a Porto Valtravaglia nonché la presenza, in luogo dell‟attuale piazza sul lago, di un edificio e tre forni (distinguibili per la sagoma circolare) eretti non sulla riva ma direttamente in acqua. il fabbricato è indicato come casa ad uso di sostra e forno. Il posizionamento dei forni in mezzo all‟acqua è a dir poco curioso, va però fatta una specificazione importante: a differenza di quanto avveniva in Rocca, dove i fondali erano e sono profondi anche sotto costa, in prossimità della foce del Torrente Caldè, e lungo tutta la riva del paese, dato il carattere di formazione alluvionale di questo lembo di terra, i fondali degradano assai più dolcemente. Considerando che i trasporti di calce avvenivano tramite lago, su barche a guscio (non ancora sui più tardi barconi larghi e capienti) il cui fondo di notevole pescaggio, veniva riempito il più possibile, capiamo come si rendesse necessario caricare il materiale da fondali accessibili a tali imbarcazioni. Ecco uno dei possibili motivi per cui troviamo una sostra, ad uso magazzino di carico, così avanzata nell‟acqua. Questa ipotesi incontra immediata e definitiva conferma esaminando la pianta di Caldè nella mappa del Cessato Catasto dove l‟ansa inondata appare sostituita da un vasto piazzale strappato alle acque, a comprova che quel tratto di lago doveva essere particolarmente basso, o addirittura inondato solo periodicamente. Tutti i fabbricati in prossimità della riva, sono adibiti a forni e sostre; su qualche appezzamento sorgono fino a cinque fornaci. Le abitazioni occupano la parte più interna al paese e sono quasi tutte di proprietà del nucleo Cometti. Il che fa supporre che i Cometti siano stati tra i primi „colonizzatori? Dei prati di Segnino, ed i più perseveranti produttori di calce. Un altro elemento rilevante infine, è dato dalla destinazione delle cause stesse. Abitazioni si era anticipato, dotate spesso di orto, ma prive di stalle, fienili, cascine, tipiche delle comunità rurali. E questo confermerebbe che l‟occupazione primaria degli abitanti del paese fosse la produzione ed il trasporto della calce. Non resta che fare un accenno al sistema viario di Caldè, rimasto immutato nei suoi tratti essenziali: una strada di collegamento esterna all‟abitato, dalla quale si dirama la via d‟accesso a Caldè, che si biforca a sua volta raggiungendo rispettivamente le fornaci verso nord e quelle più a sud. Su tali strade si è poi addensato il modesto abitato. Il sistema di trasporti terrestre del paese si struttura quindi in modo tale da soddisfare le esigenze produttive. Le numerose ma piccole fornaci sorte sul lungolago del paese, che non potevano contare su ingenti depositi di materia prima alle spalle, e per giunta difficilmente raggiungibili a causa dei bassi fondali dalle imbarcazioni di stazza sempre, maggiore, si riveleranno nel corso degli anni successivi, troppo onerose: elevate spese di trasporto e scarsa produttività. Col progressivo esaurirsi dei ridotti banchi calcarei posti nel loro ambito, verranno definitivamente chiuse, abbandonate o convertite.

La grande emigrazione ed il tentativo di dare alla produzione della calce un volto industriale, nella seconda metà dell‟Ottocento.

Prima di esaminare gli effetti della concentrazione di proprietà sul territorio e sugli immobili, verifichiamone la portata attraverso alcune significative relazioni economiche dell‟epoca. Gli atti e le attività del Dipartimento del Varbano, al tempo della Repubblica Cisalpina, ci informano che i prodotti naturali della zona erano: seta, grani, (eccetto il riso), vino noci, castagne, legana, rusca.poche novità dunque rispetto al XIII secolo. Nel 1798 i Ministro degli Interni della Repubblica Cisalpina richiede ai cittadini più accreditati del Verbano, dei progetti con iniziative concrete per dar vitalità ai commerci ed alle industre della zona. Tutti questi progetti suggeriscono, fra l‟altro, opere che favoriscano e diano nuovo sviluppo all‟importante industria della calce. Domenico Adiamoli suggerisce di attivare la strada Milano- -Varese ed un canale navigabile fra i laghi Maggiore e Varese “affinché non venisse rallentato e pregiudicato il commercio dei grani e della calce”. Anche il progetto Bernago dà risalto alla quantità di calce smerciata verso Milano e Pavia. Giuseppe Gaizi, nella sua proposta non manca di informarci che Piemonte e Svizzera soo importanti destinatari della calcina delle fornaci di Caldè. E Carlo si sofferma, oltre che sui vetri e sui cristalli di Porto Valtravaglia, anche sulla calce prodotta nella stessa valle. Elementi precisi sul sorgere dell‟industria varesina, unitamente ad alcune importanti considerazioni, si incontrano nelle due “Discussioni Economiche” che Melchiorre Gioia dedica, sul finire del Regno d‟Italia, alle provincia di Como e di Milano (la sponda lombarda del Verbano era all‟epoca inclusa nella provincia di Como), dove l‟autore non manca di citare fra le “fabbriche di terre”, le numerose fornaci di calce esistenti in Valtravaglia. In sostanza il Gioia sembra trarre l‟impressione di un territorio molto attivo, dove lo spirito „di speculazione e di iniziativa‟ ha saputo trovare buone occasioni di guadagno, cangiando „le pietre in pane‟. L‟inchesta agraria redatta da Stefano Jacini negli anni ‟70, dè una chiara visione della situazione agricola varesina e descrive la sponda lombarda del Lago Maggiore coltivata da ulivi, alberi da frutto e filari di viti, che si rincorrevano ogni cinque o dodici metri, intervallati da coltivazioni di patate, segale, miglio, lino, canapa, trifoglio ,. L‟alimentazione era costituita da polenta, patate, fagioli, cavoli, rape cotte nell‟acqua, cicoria, porri, grossolanamente paste condite con olio di ravizzone e lardo; carne e pane bianco solo a Natale, Pasqua e Ferragosto. L‟agricoltura non aveva mai superato i suoi limiti strutturali dunque e per di più gli anni ‟60 avevano visto ripresentarsi la filossera delle viti e l‟atrofia dei bachi da seta, venendo così a mancare le due voci principali dell‟economia contadina: uva e bozzoli. Per i paesi rivieraschi, dove lo smercio del vivo aveva da sempre rappresentato una delle più importanti fonti economiche, era la miseria. L‟impoverimento della popolazione diede vita ad una sempre più accentuata emigrazione verso Francia , Svizzera e financo Stati Uniti d‟America, nonché ad un‟immigrazione interna dalle campagne alle città. Le „Rassegne Mensili‟ della Camera di Commercio di Varese, ci informano che a Veccana, “la desolata popolazione (era) costretta ad emigrare in gran numero onde procurarsi i mezzi di sostentamento”. Attorno al 1880 a Castello Valtravaglia gli emigrati risultavano essere 100 su 800 abitanti. E questo nonostante la statistica del 1873 su Cave e Fornaci riporti che a Castello Valtravaglia, e più precisamente attorno alla Rocca di Caldè, si contavano 25 fornaci a carattere industriale il cui commercio in direzione di Milano e lungo le coste del Lago Maggiore era garanzia di redditività. Ma l‟aggregazione territoriale e l‟attività estrattiva concentratasi nelle mani dei Martignoni e dei Porta, imprimeranno nuovo impulso alle tecniche produttive con un più ampio impiego di manodopera. La Rassegna della Camera di Commercio può quindi riportare a fine „800, un indice di emigrazione „meno doloroso‟ nella zona di Porto Valtravaglia, “i cui abitanti trovano occupazione nelle fornaci di calce delle vicinanza” fornaci che saranno fonte di lavoro anche in occasione di un‟altra emigrazione epica, quella del nostro Sud nel decennio 1955-65.

Furono le grandi concentrazioni ad apportare le maggiori novità a livello di capacità produttiva. E se un‟impostazione di tipo industriale è comprensibile con la famiglia Cometti, sorprende come già Bernardino Martignoni intendesse in senso industriale moderno la produzione a metà „800. ne è un esempio il suo interesse per un collegamento via terra, la lacuale Caldè Laveno, e via ferrovia. Quest‟ultima soluzione riemergerà negli anni 70 anni dopo; in un atto di vendita del 1920 si legge: “(…) nel caso che in avvenire si potesse ottenere il collegamento delle fornaci colla ferrovia con binario teleferiche, le fornaci Martignoni avranno diritto ad usufruirne, concorrendo nelle spese (…), dimostrando come il trasporto fluviale, avesse ormai perso di competitività rispetto al trasporto su strada e su ferro. Ma non basta, fu presumibilmente il Martignoni stesso ad introdurre i primi forni a torre funzionanti con miscela di combustibile e pietra; ricerche e sforzi in questo senso sono ben documentati in una relazione datata 14 giugno 1864, sulla condizione industriale del comune di Castello Valtravaglia, ove si trova scritto: “Lungo la spiaggia del Lago Maggiore, sul territorio di questo comune, trovasi diverse cave di calcare con fornaci la più parte proprietà del sig. ing. Bernardino Martignoni e fratelli Porta fu Carlo di Porto Valtravaglia che (…) danno una produzione media di circa 75 mila quintali di calce all‟anno, col consumo di circa 55 mila quintali di legna e 25 mila metri cubi di torba, impiegando così una centinai di lavoranti tra minatori, braccianti e barcaioli. E qui dirò che il sig. Bernardino Martignoni dopo molti esperimenti, (…) volle tentare anche un altro esperimento di economia introducendo l‟uso di una griglia di ferro atta a resistere al calore della fornace col far uso di combustibile misto di torba e legna, con grande risparmio e miglio vantaggio che con l‟uso della sola torba”. Volgiamo a questo punto sottolineare che la diffusione della torba come combustibile in quest‟area venne a coincidere con la scoperta ed il primo sfruttamento della Torbiera di Laveno Mombello. Posta in un‟area a sud-ovest, al confine con i comuni di e Cerro, a una distanza di un chilometro dal lago, con una superficie di circa dieci ettari, per un aprofondità utile di dieci metri, la torbiera era in grado di rifornire di combustibile le maggiori fabbriche della zona. Si sa infatti, da una relazione che porta la data del 27 settembre 1873, che nell‟estate di quell‟anno vennero estratti dalla torbiera di Mombello da ottanta a cento mila quintali di torba, impiegando più di 350 tra fanciulli, donne e uomini che vi lavoravano giornalmente, senza contare il personale impiegato nel trasporto per terra e per acqua ( di gran lunga il più economico data la vicinanza del lago). I primi esperimenti per l‟utilizzo della torba come combustibile in ambito locale si devono all‟ing. Revelli, comproprietario e direttore tecnico delle „ Fabbriche di stoviglie fine di Laveno „, che ottenne un rendimento maggiorato del 40%, nonché una maggiore uniformità di cottura. Fu sempre lui a diffondere l‟uso della torba nella „ Fabbrica di stoviglie comuni di ‟, nonché alle fornaci di mattoni e calce di S. Andrea, , Caldè, Porto Valtravaglia, ecc. si può quindi ipotizzare che l‟intraprendente Bernardino Martignoni, iniziato all‟uso della torba dallo stesso Revelli , abbia poi sperimentato quella sua particolare miscela di torba e legna, di cui si parla nella relazione del 1864, capace di una resa ancor maggiore che non la semplice torba.

La situazione attuale

Tralasciando ora di trattare nel dettaglio l‟ultima fase dell‟attività produttiva in Rocca, che ha visto uno sfruttamento intensivo delle risorse minerali presenti, fino alla definitiva crisi del mercato delle calci da costruzione a favore del cemento, veniamo alla situazione attuale della Rocca. La sedimentazione dei resti delle attività umane svoltesi nei millenni in questo luogo hanno lasciato tracce, a volte appena accennate, altre volte più consistenti. Ciò che è certo è che la Rocca si è sempre connotata come un‟emergenza dal punto di vista sociale ed economico per questi luoghi. Proprio questa sua centralità e questo protagonismo meritano di essere valorizzati in qualsiasi proposta progettuale per l‟area. L‟elemento vero di qualità che può contraddistinguere la riuscita di un progetto moderno capace di guardare anche al passato, è dato dalla capacità di superare l‟idea per la quale vi debba essere per la Rocca una funzione predominante, riuscendo a far rivivere la molteplicità di funzioni e vocazioni che, in tempi diversi e con diversi effetti, hanno caratterizzato il luogo. Un progetto quindi che sappia far emergere tutti i dati che la storia sopra rapidamente tratteggiata ha lasciato, riorganizzandoli entro un grande contenitore che faccia rivivere la Rocca come luogo di transito, di socializzazione, capace di mettere in campo valori economici, paesaggistici e storici nello stesso momento e nello stesso luogo. Recuperare la centralità della Rocca attraverso le tracce del tempo entro una dinamica che non sia di musealizzazione ma bensì di movimento, di uso e di socializzazione appunto. Il recupero della Rocca come luogo di transito e di attrazione, accanto al potenziamento della vocazione turistica del luogo, è il segreto dell‟operazione, l‟uovo di Colombo capace di contemperare gli aspetti della produttività economica con i valori storici e paesaggistici del luogo. Un luogo che deve essere il più possibile vissuto, come sempre è stato vissuto in passato e come, paradossalmente, è vissuto tutt‟oggi (nonostante lo stato di degrado del sito) proprio per l‟estrema capacità attrattiva che detiene. Con l‟obiettivo di fare emergere e valorizzare le potenzialità e l‟attrattività della Rocca sono stati individuati dei PERCORSI tematici che, accanto agli insediamenti stabili, siano dotati di autonoma dignità e sui quali si basi la scommessa per il futuro della Rocca di Caldè. IL PERCORSO ARCHEOLOGICO Dalla foce della froda, passando attraverso la chiesetta di S. Veronica con i suoi affreschi 400eschi e l‟intervento sulla facciata del primo 900 (raro esempio di intervento razionalista di alta scuola su un edificio religioso antico), parte il percorso che attraversi i resti delle mura della fortezza medievale porta alla vetta della Rocca dove, alla base del monumento ai caduti e nei suoi immediati dintorni, sorgono i resti dell‟antica fortezza oltre ai basamenti dell‟antica chiesa di S. Celso della quale si legge compiutamente l‟abside, l‟orientamento e la pianta dell‟edificio. Ammirato il panorama che si gode dal faro sulla vetta, scendendo verso S. Pietro, tra altri resti di mura e cisterne, si giunge su in piccolo pianoro a strapiombo sul lago ove si presentano ben visibili i resti di un antico abitato. Il percorso continua verso S. Pietro e si ricongiunge a S. Veronica attraverso un comodo sentiero pianeggiante che attraversa il versante nord est della Rocca. (n.b. tale percorso esiste già, è stato abbondantemente studiato, è pubblicato, i resti sono stati rilevati e riprodotti gli interventi da fare si limiterebbero ad alcune sistemazioni del perrcorso, alla tabellazione ed alla spiegazione dei resti al fine di offrire una illustrazione esaustiva. Costo dell’operazione estremamente contenuto).

IL PERCORSO DELL‟ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE Dalle 5 arcate parte questo ampio itinerario attraverso i forni di cottura della calce e le infrastrutture legate alla estrazione e commercializzazione del calcare che trova in Rocca la sua massima espressione. Il percorso può continuare fino ai resti di quel poco che rimane dell‟antica e gloriosa Vetreria Lucchini. Facendo sistema il percorso di archeologia industriale potrebbe partire dagli stabilimenti ceramici di Laveno collegandosi con il museo delle ceramiche di Cerro. Per quanto riguarda il Comune di Castelveccana e la Rocca in particolare si tratterebbe solamente di valorizzare i sei forni tronco conici ottocenteschi mediante un restauro conservativo e senza la necessità di interventi statici. I forni potrebbero convivere anche in stretta adiacenza con le infrastrutture o le residenze turistiche purchè restino avvicinabili e in tutto o in parte visitabili. Potrebbero altresì accogliere al proprio interno spazi raccolti e di transito per mostre temporanee, piccoli musei etrnografici o tradizionali, luoghi per suggestioni sonore o luminose (come quelli che hanno fatto diventare famosa Villa Panza a Varese).

IL PERCORSO NATURALISTICO E AMBIENTALE Dalla foce della Froda, proseguendo verso Porto, dopo un breve tratto pianeggiante si svolta a destra verso il pianoro di S. Veronica. Superato un primo dislivello si devia a sinistra e si imbocca il sentiero panoramico della Rocca che collegava la base delle diverse cave, fino a ricongiungersi al percorso principale di attraversamento della Rocca in prossimità delle cave di Porto. Il percorso oltre alle suggestioni dell‟ambiente calcareo dolomitico (con la particolarià di essere al pelo dell‟acqua) si articola attraverso i resti di alcuni manufatti legati all‟attività estrattiva e transita attraverso i luoghi di nidificazione di alcune specie di rapaci del luogo. Il versante per la particolare esposizione ed il micro clima ospita alcune specie vegetali e floreali assai rare e che non troviamo in altre parti della provincia di Varese. Il percorso naturalistico ambientale dovrebbe inoltre fare sistema con un percorso ciclo- pedonale che dai lidi di Caldè si spinga fino al Trigo consentendo di realizzare un percorso protetto di più di 5 Km, tutto sul lago, per pedoni e bici, che potrebbe essere inserito tra gli itinerari ciclo turistici destinati ai ciclo turisti d‟oltralpe che potrebbero avere un motivo inj più per preferire il transito dalla Val Travaglia al transito dalla parallela Valcuvia . Il percorso naturalistico ambientale potrebbe inoltre fare sistema con gli itinerari del turismo equestre e di mountain bike che si sviluppano lungo i stra di caver. Da pira infatti, costeggiando la Froda, si potrebbe realizzare il collegamento tra la Rocca e l‟alta valle. La piazza di Caldè potrebbe così diventare uno di punti di partenza per le escursioni verso il Cuvignone ed il S. Michele ed il punto di arrivo o di transito per le passeggiate a cavallo. Sempre per rendere attrattivo ed unico il percorso naturalistico ambientale della Rocca si potrebbe valutare l‟ipotesi, in occasione dell‟inevitabile consolidamento delle pareti di cava, di allestire una palestra di roccia (operazione non sempre facile o consigliabile sul calcare) che se solo si rivelasse possibile si rivelerebbe concorrenziale con le modeste pareti di Brezzo di Bedero e di Colmengna, raccogliendo folte schiere di arrampicatori. Naturalmente la presenza di tali percorsi consentirebbe la possibilità di sviluppare piccole iniziative imprenditoriali legate al trasporto sia via lago che via terra (trenini eletrici, calessini con cavalli, fino a ipotesi più affascinanti di un percorso su rotaia che rivisiti i vecchi carrelli di trasporto della calce).

IL SISTEMA DELLE SPIAGGE E DELLA BALNEAZIONE Il comprensorio Sasso Galletto/foce del Trigo costituisce un punto di riferimento unico per la balneazione sulla sponda lombarda del Verbano. La presenza di spiagge sabbiose e ghiaiose e di rocce calcare a picco sul lago costituiscono una varietà unica ed attrattiva. La presenza di calette e anfratti, la vicinanza a centri abitati quali Varese ed il suo comprensorio, completano il quadro di interesse per quest‟area che, se dal punto di vista naturalistico e anche della qualità dell‟acqua (sempre pulita alle 5 arcate, al fontanino ed al lido 2 di Caldè) offre notevoli potenzialità, è invece assai più carente per quanto riguarda le infrastrutture ed i servizi per i bagnanti. Atteso che altrove sulla costa è ormai impossibile intervenire in maniera consistente e redicale, resta solo la Rocca che, accanto alle indubbie suggestioni delle sue spiagge, conserva la possibilità (utilizzando parte delle strutture già esistenti) di poter realizzare infrastrutture a servizio dei bagnanti che possano rendere ulteriormente attrattivo l‟intero comprensorio balneare. La possibilità di avere spiagge attrezzate oltre ad attrezzature per l‟attività subacquea e per i diportisti offrirebbero all‟intero comprensorio una nuova dignità dal punto di vista turistico e dell‟attrattività del luogo in considerazione anche degli sforzi già in atto in tal senso (docce nelle spiagge esistenti a Caldè e Porto, riqualificazione di alcune spiagge dimenticate a Porto e nolo dei pedalò presso punta Molino).

LA RESIDENZA TURISTICA E STABILE Accanto a tutto ciò c‟è indubbiamente lo spazio per insediamenti stabili di tipo turistico che potrebbero trovare allocazione proprio tra le strutture già esistenti in Rocca. In particolare sarebbe preferibile una differenziazione nell‟offerta di infrastrutture per il turista. Atteso che l‟ipotesi dell‟albergo tradizionale risulta poco attrattiva per l‟operatore economico data la limitatezza della stagione turistica alle nostre latitudini, si potrebbe puntare su altre forme più flessibili quali bed and breackfast, meublè, residences, multiproprietà, ovvero soluzioni che garantiscano un tourn over ed un‟ampia ricettività, senza necessariamente orientarsi esclusivamente sulle seconde case che causano alloggi vuoti per 11 mesi all‟anno e che quindi impoveriscono ulteriormente un‟economia turistica che fatica a partire in provincia di Varese. Forme che garantiscano invece una maggiore turnazione di arrivi consentirebbero da Pasqua alla prima settimana di Ottobre, una costante presenza di turisti che darebbero l‟impulso al fiorire di iniziative ed attività commerciali e ricreative. Il richiamo offerto da una maggiore e più ampia fruibilità della Rocca acanto alla garanzia di presenze costanti al propri interno dovrebbero offrire all‟intero comprensorio Castelveccana - Porto Valtravaglia quel respiro sufficiente all‟avviarsi di un‟economia turistica che sembra l‟unica vera alternativa per questi luoghi. Restando ancorati al progetto e atteso che quanto descritto sopra in termini di percorsi e potenzialità della Rocca non comporta la necessità di immediati e ingenti investimenti, restando nell‟ambito di quanto concesso dal PRG, si potrebbero da un lato definire la rete delle infrastrutture, dall‟atro la maglia dell‟edificato, intervenendo poi sull‟area con apporti pubblici e privati, puntando sul concorso di enti sovra ordinati che potrebbero prendersi in carico anche solo l‟attuazione di una singola proposta (percorso naturalistico, piuttosto che archeologico ecc.). Al privato resterebbe il ristoro dell‟investimento immobiliare di tipo turistico “alberghiero” e l‟onere della messa in sicurezza dell‟area. Restano due nodi aperti che meritano un‟attenzione a parte: il collegamento con Caldè attraverso la Froda ed il discorso viabilistico e dei parcheggi sempre a Caldè. Le ipotesi di cui sopra vedono infatti la centralità di Caldè rispetto all‟intera operazione, Caldè quindi come luogo d‟attrazione, di transito e di sosta che, come tale dovrà essere in grado di essere all‟altezza di rispondere al notevole flusso di visitatori previsto.