La Rocca Di Caldé E Le Sue Fornaci Di Calce
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LA ROCCA DI CALDE‟ E LE SUE FORNACI DI CALCE: IL FUTURO DI UN‟AREA DISMESSA RELAZIONE STORICA Il luogo e l‟architettura. La Rocca di Caldè, sperone roccioso in dolomia di S. Salvatore che ha alimentato per secoli le fornaci di calce erette ai suoi piedi, sorge sulla riva lombarda del Lago Maggiore, in provincia di Varese. La sua parete precipita a picco nelle acque del lago, qui nel suo punto più profondo, lasciando un risicato spazio ad una strada pedonale costiera ed a tre imponenti gruppi di fornaci, non più operanti dal lontano 1970, ed in stato di totale abbandono, con i muri sbrecciati seminascosti da una fitta vegetazione, i tetti e le strutture cedute in più parti, gli impianti, che per anni avevano macinato calce notte e giorno, divelti. Tuttavia per le torri dei forni di cottura si innalzano ancora imponenti dall‟alto dei loro venti metri, e sebbene sia ormai dispersa al vento quella fitta coltre di polvere bianca che li rivestiva al tempo della loro massima attività, caratterizzano ancora profondamente questo tratto di costa. L‟area in esame è parte del comune di Castelveccana (comune di Castello, fusosi nel 1928 con quello di Veccana), e le sue ultime propaggini si estendono al comune di Porto Valtravaglia. I tre complessi delle fornaci, ben distinti, ognuno dei quali composto da due torri di cottura, da sistemi per il carico di calce e ghiaia direttamente sui barconi che solcavano il lago Maggiore, da sostre e spazi accessori per lo stoccaggio dei materiali e dei combustibili, dai locali di abitazione per i responsabili dei forni, si snodano lungo poco più di un chilometro di costa ed in andamento sud- nord si distinguono: le fornaci di “Verbania”, “del Fico” e “di Porto”. Fa da sfondo la Valtravaglia, che si apre come un verdeggiante ventaglio dalle sponde del Verbano alle cime delle Prealpi che segnano il confine con la Valcuvia e la vicina Svizzera, in un susseguirsi a perdita d‟occhio di castagneti prima e di faggete poi. Il manto verde è solo timidamente interrotto dei nuclei abitativi da sempre di modeste dimensioni, che costituiscono nel loro complesso, i comuni di Castelveccana, di Porto Valtravaglia, di Brezzo di Bedero, sede della chiesa plebana già anteriormente all‟anno mille, di Brissago, Mesenzana, Montegrino. Storia e natura convivono nella Rocca di Caldè che, per la sua millenaria vocazione produttiva, può essere agevolmente posta fra le “aree dimesse”, oggi sempre più al centro dell‟attenzione soprattutto in relazione alla loro entità ed alle loro potenzialità. Ne è conferma la crescente attenzione verso il riuso, passo necessario ed auspicabile, parallelo alla conservazione, che lega, in una sorta di interdisciplinarità oggi quasi perduta, conservatori, urbanisti e progettisti. LE PREESISTENZE Il villaggio preistorico ed il castello medievale nelle indagini archeologiche La vocazione della Rocca di Caldè ad attività di fornace e la dimestichezza col fuoco ebbero assai precoce principio su queste rive. Quando nel 1879 l‟archeologo Achille Longhi, avendo avuto notizia del ritrovamento di alcune tombe nel Comune di Castello Valtravaglia, dà avvio ad una serie di scavi sulle pendici della Rocca, alla ricerca di cimeli preistorici, rinviene sul terreno, allora di proprietà della famiglia Pirola (cava di Porto), inequivocabili tracce di una fornace, cocci di vari tipi, pezzi di carbone, una fusaiola in terracotta e piccole masse d‟argilla, dall‟impasti identico a quello di alcuni cocci. Sempre Longhi, questa volta sull‟erta parete occidentale del colle, raccoglie oggetti, portati alla luce nel corso di lavori agricoli, e fatti risalire all‟età del ferro, che indicano in quella zona l‟esistenza di una fonderia. Fra i reperti, una forma di fusione per fibule a grandi coste in cloromicascisto, l‟estremità di una staffa di una fibula di bronzo , un frammento di anello, ed alcuni pezzi informi di bronzo, probabili residui di fusione. L‟operosa attività produttiva dell‟area si perde dunque nella notte dei millenni e ci ricorda di antichissimi insediamenti che occupavano questo territorio già nel VII e VI secolo a. C. E questo balcone naturale a picco sul lago, proprio per la sua posizione geografica che costituiva un punto di controllo e di osservazione privilegiato su quella che fu per secoli la più veloce e sicura via di comunicazione fra Milano ed i passi alpini, continuò ad esercitare la sua attrattiva sui Romani prima e sui Longobardi poi, che lo fortificarono rendendolo una rocca inespugnabile, per godere del suo massimo splendore sotto la signoria degli Arcivescovi di Milano e dei Visconti. Per individuare le poche rovine rimaneggiate del Castello della Travaglia, bisogna risalire a piedi lo sperone roccioso della Rocca e raggiungerne la sommità. Qualche struttura muraria, un fossato verso sud, una cisterna interrata, tracce di fortificazioni sono tutto ciò che resta; ma le fotografie di inizio secolo mostrano consistenti ruderi, che furono abbattuti, assieme alle citate cisterne di tre metri per tre, nel 1992 per costruirvi il monumento ai caduti della guerra ‟15 – ‟18. Don Arturo Frascoli, parroco di S. Pietro lascia un‟ampia descrizione delle vestigia della fortezza, così come da lui stesso rilevate nel 1907 e sulla base di testimonianze raccolte fra gli anziani del comune di Castello: “… ivi esistono alcuni avanzi di cisterne, case, torri, fossi, corti, bastioni ed altri indizi di fortificazioni ad uso guerra. … Poco dopo l‟imboccatura della strada da Castello a S. Veronica, dove i dirupi di sotto e di sopra lasciano uno stretto colle, ci doveva essere una porta relativa alle fortificazioni della Rocca, ed è chiaro argomento della sua esistenza il nome che rimase ai fondi sottoposti, appellati ancora adesso “Sottoporta” ….. Alla riva del lago, discendono dalle case, dette “portacce” della rocca, quasi per linea retta, quando il lago è molto abbassato, si indovinano, e forse si vedono ancora, degli avanzi di un porto, che si suppone apposito per gli abitanti del Castello. “Portacela” è chiamato quel seno della rupe che si incontra ascendendo la rocca per la strada di Creda (S. Pietro) là ove non solamente di sotto ma anche di sopra, gli scogli erti ed implacabili lasciavano un solo varco ed è verosimile che ivi fosse una porta. Sopra quel luogo restano dei segni manifesti di una fossa …. Un medesimo segnale di fosso, che recinge il sommo scoglio della Rocca, sivede altresì dalla parte di S. Veronica. Sul piano della Rocca, a destra ed a sinistra del sentiero che si imbocca ascendendo a S. Celso, sono ancora visibili avanzi di due cisterne con apertura ad imbuto verso le case a cui lo scolo dei tetti e con altra apertura propria dell‟attingere. In mezzo al piano, un poco più sopra di questa cisterna, si ha una scoglio su cui appaiono ancora i fondamenti di una torre quadrata, la quale doveva essere il cuore della rocca. La parte poi del piano che guarda sopra Ortile e Castello era sicuramente destinata alle abitazioni, siccome la più sicura. La parte sopra S. Veronica e verso Caldè anche attualmente presenta vestigia di abitazioni, circondate da tre mezzelune delle quali due rotonde e quella in mezzo a tre faccie ma di lati ineguali. Queste sono le opere di fortificazioni che tuttora sussistono a dispetto del tempo e delle intemperie delle stagioni a cui sono esposte e che veggonsi da lontano. Nell‟inverno 1844 – 45 cadde metà della mezzaluna esterna verso Griffa. Alcuni vecchi raccontano che dalla porta a tramontana si scendeva per un sentiero a scale, scavato nella viva roccia fino al lago dove era un molo con darsena a portico ad uso del castellano e dei suoi armati, di cui ricordasi il nome “Molo del portichetto triplici mura cingevano il forte”. LA PRODUZIONE DELLA CALCE NEL CONTESTO ECONOMICO DELLA VALTRAVAGLIA IN EPOCA MEDIEVALE I ritrovamenti preistorici, le rovine della fortezza sommatale e i tratti storici conseguenti confermano la centralità della Rocca come avamposto di difesa e di commercio rispetto alla Valtravaglia, ma poco possono dirci circa la vocazione produttiva del luogo. E‟ a questo proposito che ci vengono in aiuto gli Statuti della Valtravaglia, redatti nel 1283: un complesso di patti tra l‟arcivescovo e le popolazioni locali intorno ad una forma di governo che si ispirava al principio delle libertà comunali, e che permettono quindi di ricomporre il quadro socio – economico – amministrativo del nostro ambito di indagine. L‟amministrazione del territorio Alla fine del 1200 si distinguevano nella Valtravaglia quattro castellane: la Castellanza Maggiore, nonché quelle di Bedero, Roggiano e Mesenzana, con altrettanti castelli e fortificazioni che formavano nel loro insieme un ampio ed efficace sistema difensivo. E tale fu l‟importanza del Castello Maggiore che, al paragrafo XXVIII degli Statuti, sono minuziosamente elencati i doveri e gli obblighi degli uomini della castellanza di Travaglia nei confronti del loro castello. Questo paragrafo ci offre anche una ulteriore descrizione del castello stesso. I luoghi più importanti della castellanza erano all‟epoca: Castello con 35 fuochi, Vaccana con 32, Porto con 36, Musadino con 31, Muceno con 27, Brezzo con 14, Bedero e Roggiano con 15, Brissago con 16, Mesenzana con 14. Altra popolazione era sparsa nei cascinali. Gli abitanti erano chiamati vicini, quali membri di un comunello rurale, e vicinanzie le loro adunanze. Dai vicini (o homines) si distinguevano i nobili, di cui facevano parte le famiglie Sessa e Mesenzana e fra le cui fila venivano scelti i quattro gastaldi (probabili appaltatori dei redditi del comune: dazi, diritti di pedaggio), mentre il castellano veniva nominato direttamente dall‟arcivescovo. Tutti i distrettabili dell‟arcivescovo erano tenuti a prestare, nelle mani del castellano, il giuramento di fedeltà e la promessa solenne di soggezione ed obbedienza. Quale signore della Valtravaglia, all‟arcivescovo spettavano un potere legislativo e di giurisdizione, cioè la facoltà di pronunciare sentenze e di esigere i banni con esse inflitte.