Le Macerie Invisibili Rapporto 2010
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Le Macerie invisibili rapporto 2010 a cura dell’Osservatorio permanente sul dopo sisma Edizioni MIdA 1 2 Indice Prefazione. pag. 7 di Antonello Caporale Le macerie invisibili. pag. 11 di Giuseppe Napoli Trent’anni di terremoti italiani. pag. 19 Un’analisi comparata sulla gestione delle emergenze di Stefano Ventura Il terremoto del 1980 nell’esperienza pag. 89 di un magistrato contabile. di Michele Oricchio Terremotati, migranti, pag.105 Italian-Americans a New York. di Manuela Cavalieri 3 4 5 6 Prefazione di Antonello Caporale Riannodare il filo della memoria è uno dei compiti istitutivi dell’Osservatorio perma- nente sul dopo sisma. Ma il bisogno di memoria, l’impellenza del ricordo anche come misura comparativa della qualità del nostro agire quotidiano è tema che coinvolge que- sto tempo e impone tutti all’impegno della rendicontazione. In questo lavoro, che segna il primo degli obiettivi dell’Osservatorio - produrre docu- menti e analisi che sollecitino la riflessione e il dibattito sulla qualità della capacità pubblica di affrontare grandi emergenze nazionali - sono accuratamente elencate le cifre come esse sono state nel tempo certificate dalle fonti ufficiali che narrano alcuni dei più grandi interventi di Protezione civile degli ultimi trent’anni. Il lavoro compara sullo sfondo i medesimi segmenti che hanno segnato l’attività di soccorso e di prima assistenza delle popolazioni colpite da quattro distinti e gravi disa- stri naturali. Sono stati enucleati – per quanto è stato possibile – dati riferiti a situa- zioni simili in contesti naturalmente diversi e in periodi differenti della nostra storia contemporanea. Punto di partenza: il terremoto del 23 novembre 1980 nei territori della Campania e della Basilicata. Punto d’arrivo: il sisma che ha sconvolto L’Aquila. Circa trent’anni lo spazio temporale tra inizio e fine dello studio. Trent’anni. Tutto questo tempo a cosa è servito? Anzitutto a costruire una vasta e soli- da rete di Protezione civile. E questo è un primo fatto certo, incontrovertibile. Non esisteva allora e oggi invece sì. L’interesse della ricerca – per mano di uno studioso serio come Stefano Ventura – è stato però devoluto alla qualità – se crescente o meno – dell’aiuto statale, alla sua cele- rità, all’efficienza e quantità delle azioni messe in campo. Preso un periodo di tempo omogeneo, si è voluto capire cosa è stato fatto in Irpinia, quanto è stato realizzato e cosa invece (e quanto) in Umbria e nelle Marche, nel Molise e infine in Abruzzo. Sterilizzato ogni giudizio sul come, ci si è domandati quanto sia costata la macchina dei soccorsi in ciascuno dei disastri presi in esame, cosa abbia infi- ne prodotto. Le tabelle illustrative offrono al lettore spunti di originale riflessione che, si spera, diano inizio a un dibattito spogliato da ogni suggestione particolare. Il racconto di Giuseppe Napoli che apre il rapporto narra invece questo nuovo mondo 7 ricostruito. E le sue parole seguono un viaggio immortalato dalle telecamere di Luca Cococcetta ed Emanuele Pantano e che in questo volume ritroverete in dvd. Una set- timana attraverso i punti cardinali del terremoto. I luoghi della distruzione e della rico- struzione. Il racconto di Napoli misura ciò che il tempo ha tolto al futuro della nostra terra, segnala i principi a cui abbiamo abdicato, il deficit di civiltà e di progresso. Alla responsabilità delle Istituzioni ritorna l’intervento di Michele Oricchio, il procu- ratore regionale della Corte dei Conti della Basilicata, che a suo modo descrive l’ono- re (e il disonore) delle classi dirigenti, di una democrazia senza popolo, gracile, affati- cata. Oricchio, con la sua testimonianza, induce anche a ritenere che esistono menti e mani pulite e coraggiose, che esiste - malgrado tutto - un futuro aperto alla speranza, a chi ha voglia di fare, di impegnarsi e di dire. Un futuro si apre se c’è memoria del nostro passato. È un assillo costitutivo del nostro piccolo impegno. Per questo Manuela Cavalieri, a New York, ha voluto rior- dinare il filo e, come dicevamo all’inizio, riallinearlo. Ha bussato e trovato volti e pensieri di chi è sempre stato vicino alla sua terra, vicino al dolore, dentro al dolore. La credibilità di una struttura di ricerca, per quanto fragile e modesta come la nostra, è tutta affidata alla veridicità dei dati esposti, all’attendibilità dei riscontri, alla com- piutezza del lavoro svolto. Anche qui, anche sul tema del miglior modo possibile, deve aprirsi – specialmente al Sud – un ulteriore spazio di discussione. L’Osservatorio è una articolazione della Fondazione Mida, e trae vita da essa. Non un euro di finan- ziamento pubblico ma la capacità della Fondazione di generare, attraverso l’ottimale gestione di beni, sostegno ad attività eminentemente di studio come questa. Sia chiaro che il bisogno economico è stato ridotto – e volutamente – al lumicino. L’impegno collettivo è volontario. È solo finanziato un rimborso delle spese ai ricer- catori e a chi cura l’organizzazione e bada alle faccende quotidiane e minute. La passione civile produce miracoli. Il Sud può contare su energie intellettuali enor- mi, sul prestigio dei tanti che devolvono gratuitamente parte del loro tempo senza nulla avanzare. Basterebbe un’azione generale di interpello civile, una chiamata alla passione, una pro- posizione di possibilità e iniziative. Ma queste azioni, per essere messe in campo, hanno bisogno della credibilità di chi le invoca. E qui, altro tema di discussione. Questo Osservatorio è davvero un seme piccolo e trascurabile. Eppure badare alla sua crescita è stata un’impresa che ha raccolto l’entusiasmo di tante persone, giovani e preparate. Ringrazio il gruppo di lavoro che si è andato formando, senza nulla chiedere, ma anzi avendo solo voglia di dare, di mostrare il proprio talento. 8 9 10 Le macerie invisibili di Giuseppe Napoli D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda. Italo Calvino, Le città invisibili Giugno 2010. Diario di un viaggio Sette giorni in tour nelle provincie di Salerno, Avellino e Potenza a distanza di 30 anni dal terremoto per provare a tracciare un solco tra il prima e il dopo. Un viaggio scandito da appunti, fermi immagine, flashback. Per guardare da vicino, toccare con mano, com’è cambiata la vita in questi luoghi. Nel racconto troverete le mille sfaccettature di un territorio devastato dalla desertificazione sociale, dall’eterna sospensione verso il nulla, dal bisogno negato. Dall’indolenza che ha ingravidato i giorni, le settimane, i mesi e gli anni di deformi creature. Pochi, davvero pochi, sono i modelli virtuosi che abbiamo incrociato sul nostro cammino. Briciole, a confronto con il marcio prodotto della ricostruzione post-sisma. Ma ci sono. Ed abbiamo voluto accompagnarvi anche lì. Soprattutto lì. Prim’ancora che nelle lande desolate dei distretti industriali fantasma o nei borghi amorfi clonati dallo scarabocchio di architetti ed urbanisti. Abbiamo voluto fermare il tempo sui volti delle persone che hanno ancora memoria del loro passato. Che hanno ancora voglia, a distanza di 30 anni, di riavere il proprio paese, di rimetterlo a posto, di rifarsi rifacendolo. Per certi versi ognuno di noi è fatto di «carne e geografia» (Renzo Piano) e in giro s’incontra ancora qualcuno che desidera. Che sogna. Che riesce ancora a sdegnarsi. Che rantola alla ricerca del riscatto. Come ci ha insegnato il Calvino delle “città invisibili”, le città che diventano una proiezione ad occhi aperti dei sogni dei propri abitanti. Ed è soprattutto per questo che possono sempre rinascere. Il borgo fantasma Antonio ha 85 anni. La coppola ben piantata in testa a coprirgli la fronte madida. Una canottiera cucita addosso a fargli da seconda pelle e un pantalone, di quelli invernali, che fa a cazzotti con il solleone di un fine giugno rovente. La mano destra è ancorata al bastone e la sinistra spasmodicamente incollata alla barba ispida che gli solca le rughe del tempo. Già, la barba. Antonio cerca un barbiere che non c’è a Romagnano 11 al Monte. Paese nuovo, poco meno di 400 anime che vivono sospese in questo pezzo della provincia di Salerno costruito a qualche chilometro dalle macerie di ciò che resta della vera Romagnano. Il terremoto non ha risparmiato niente e nessuno, sbriciolando un paesino che pare forgiato dalle mani sapienti di un artigiano del presepe. Eppure le case sono rimaste incredibilmente lì, aggrappate con le unghie alla cima della montagna come pezzetti di noccioline sul verde pistacchio del cono gelato. Un borgo fantasma che respira a fatica tra le macerie delle due chiese vuote: quella del Rosario e del Carmine. Rovine dello spirito dell’antica città che, oggi, sembrano aspettare una resurrezione. Gli abitanti, come Antonio, sono stati afferrati come soldatini e spostati nel paese nuovo. Decisione presa dall’alto. Si ricostruisce altrove. Una frustata alla dignità di questa gente. E così, quando le istituzioni decidono da sole, la vita delle persone devia verso una transumanza senza fine. Come quella di Antonio. Sbattuto nel paese senza balocchi. Un limbo eterno tra ciò che è stato e ciò che non è. C’è una scuola per quindici bambini, nella nuova Romagnano. Nemmeno due squadre di calcio. Ma giocano, i bambini. Eccome se giocano. A basket. Per canestro qualche sgangherata cassetta della frutta inchiodata al tronco dell’albero più grande. Una qui. Un’altra lì. Quasi a segnare il territorio. A fare di ogni centimetro di strada la mattonella di un immaginario palazzetto dello sport. Lungo e largo una spanna. Senza pubblico. Senza arbitro. Solo una palla di stoffa. E sogni di carta. Barba e caffè, prego. Già, la barba. Antonio non ha la mano ferma di una volta. Sperava che nel paese nuovo ci fosse almeno il vecchio salone, dove il profumo del sapone e dell’acqua di colonia fresca si mischiavano al sapore del grappino fatto in casa che il barbiere teneva nascosto nel doppiofondo del retrobottega.