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Premessa

Al fine di rendere più agevole agli studenti il ricordo delle lezioni introdutti- ve al corso di diritto penale II che insegno a Firenze, pubblico, in questa ver- sione ancora interlocutoria, alcune riflessioni che sto maturando sul concetto di “specialità” nel diritto penale. Come si comprenderà leggendo le pagine che seguono, nel testo c’è qualcosa di più e di diverso rispetto a quello che può essere detto, ragionevolmente, in un corso di lezione del III anno di Giurisprudenza: nonostante tutto, ho ancora ben presente che l’insegnamento istituzionale, come le canzoni di Natale, va cantato secondo canoni tradizionali e senza indulgere nelle stranezze. Oltre a qualche cosa in più, nel libro c’è anche tanto di meno rispetto a ciò che si è detto a lezione. Manca la voce diretta degli studenti, ed è un peccato perché, negli ultimi anni, anche da noi gli studenti hanno imparato a parlare: con tutti gli altri e non solo con il vicino di posto. Questo consente a chi insegna, se lo vuole, di smettere, a sua volta, di declamare la lezione come farebbe una radio. Forze prima contrapposte possono essere, ora, utilizzate sinergicamente: questa feconda interazione è una bella novità, tra le tante cose che non vanno. Alcune delle riflessioni qui sviluppate hanno radici antiche; mi accompagna- no almeno da quando, nell’estate del 1986, tornai da Chicago con una sedicente (e molto rozza) “teoria delle norme invisibili”. Altre idee, maturate negli anni recenti alla luce di nuove ispirazioni e impreviste letture, si sono concretizzate in occasione di alcune esperienze d’insegnamento. Non solo quelle fiorentine, che ricordavo in apertura; penso ai corsi “Images of Evil in Criminal Law”, che ho tenuto dapprima alla Columbia Law School di New York (2011), poi alla Stan- ford University in Florence (dal 2014 ad oggi), e, da ultimo, a Miami Law School. Il discorso sulla natura iconografica della tipicità penale è stato centrale anche nei seminari che ho insegnato a Buenos Aires (2012), ancora a Columbia (2013) e a Osaka (2014). Non dico tutto questo per esibizionismo accademico, ma, al contrario, per confessare subito un difetto: la varietà del vissuto apre la mente, ma complica indubbiamente le idee e talora le confonde. Fossi stato chiuso in una stanza, tutto

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mi sarebbe, probabilmente, più chiaro. (Quale “tutto”, però, … non saprei dire). Ha scritto Pascal che i guai dell’essere umano derivano proprio dalla sua in- capacità di stare chiuso in una stanza 1; chi scappa da lì e vaga sino ai confini estremi del mondo, non trova altro che quello che portava con sé dall’inizio del viaggio: i limiti della sua condizione umana 2. Nella Lettera sull’Ascesa al Monte Ventoso, Francesco Petrarca racconta una simile esperienza. Faticosamente arrivato in vetta, egli contempla la bellezza della natura; ha con sé le Confessioni di S. Agostino e, aprendo il libro, tuttavia, legge: “E gli uomini vanno ad ammirare le alte cime dei monti, gli ingenti flutti del mare, gli estesissimi corsi dei fiumi, la distesa dell’oceano e i moti delle stelle, e trascurano se stessi”. Conclude: “[...] chiusi il libro, adirato con me stesso, poiché ancora ammiravo le cose terrestri, proprio io che già in preceden- za avrei dovuto imparare dai filosofi pagani stessi che nulla è ammirabile ad eccezione dell’animo, alla cui grandezza non c’è niente di paragonabile”. È vero: la meta che importa raggiungere non sta nelle pietre lontane, ma nel mondo dello spirito. Per arrivarci, tuttavia, non è detto ci si debba chiudere den- tro una cella. Giunto pure io, all’alba del 1 gennaio 2015, in cima al mio monte ventoso, il Kilimanjaro, ho pensato che un’aria così fina ed un cielo così celeste attivassero molti più neuroni di quelli che ruminano solitamente nella mia stanza a Novoli. L’esperienza del mondo, e specie quella dei suoi confini remoti o addi- rittura del finis terrae, sveglia risorse dello spirito diverse e nuove. Vissuta con la concretezza dei sensi, l’esperienza è alla base della nostra capacità di produrre pensiero metaforico, potentissimo tra gli strumenti cognitivi: senza essere andati davvero da qualche parte, senza l’“ascesa” faticosa e l’arrivo sulla “vetta”, non ci sarebbero né l’alto né il basso, la destra e la sinistra, il prima e il dopo. Guar- deremmo dappertutto senza vedere niente e non sapremmo neppure se collocare il futuro “davanti” o “dietro” di noi. Anche questo libro, come dice il titolo, è il racconto di un viaggio, un viaggio fantastico: non parla dell’ascesa verso una vetta, ma di una discesa: quella den- tro l’infinitesimo di una parola, la parola: “speciale”. La stesura del racconto, iniziata verso la fine del 2015, si è concretizzata, ab- bastanza rapidamente, nell’Erlebnis primaverile del 2016 ed è certamente segna- ta da quella cornice. Il testo fu subito pubblicato in versione elettronica. È pas- sato un anno e ora lo si rende disponibile anche in cartaceo. Ci sono integra- zioni e correzioni, ma è sostanzialmente quello d’allora: un ibrido necessitato,

1 Pensieri, (1670), trad. it., Torino 1984, 348, p. 151. 2 Sono più o meno le parole con cui P. Hazard, (La crisi della coscienza europea, trad. it, To- rino, 1946, 3) descrive lo spirito dell’“età classica” (intesa, alla francese, come tempo che va dall’inizio del Seicento ai primi del Settecento).

X che mette fianco a fianco un’esperienza di studio molto personale e un conco- mitante impegno didattico. Questa prima versione è una fermata prima del bi- vio. Da tempo non sono più lì: ho seguito il lato fantastico della forza, immagi- nando creativamente un cammino. Bisognerebbe saper pensare con lo spirito tagliente del Candide; liberarsi dalle parole perdute, dai discorsi sulla finta vi- ta delle foglie morte; progredire leggeri, dimenticare le valigie, lasciandole a girare in tondo sul nastro bagagli dell’aeroporto; portare solo l’indispen- sabile, cioè, tendenzialmente, nulla. Nel sequel di questo libro ci saranno, dunque temi nuovi: quello delle meta- fore, viste come strumento espressivo dell’invisibile; poi quello dell’estetica co- me strumento di controllo sociale. Tratterò anche, più diffusamente, del nesso profondo che esiste tra le parole e l’esperienza della visualità: nesso epistemo- logico fondamentale della cultura umana e dunque anche del diritto penale. Nesso di cui è ponte la natura simbolica del linguaggio, e da cui discende la possibilità di partorire metafore con valore cognitivo. Attorno alla visualità orbitano, in tutti gli idiomi, una congerie di verbi dalle sofisticate sfumature semantiche: osservare, vedere, guardare, spiare, mirare, scorgere; per restare solo ad alcuni termini della lingua italiana. Questi verbi dal- le intrecciate e profonde radici descrivono interazioni emotivamente molto pre- gnanti tra soggetto e realtà: c’è la preoccupazione di chi guarda e fa la guardia; il compiacimento di chi è guardato; l’entusiasmo di chi vede e comprende; il turba- mento di chi getta la vista lontano, penetrando il futuro come fosse trasparente. La diversità esperienziale è colta, si diceva, da una molteplicità di verbi. Ma accanto ai verbi che descrivono i modi di vivere la visualità, vi sono le parole che ogni giorno riproducono pittoricamente, dentro di noi, l’esperienza stessa della realtà: si combinano in frasi, enunciati, sequenze capaci di animare, con gestaltica efficacia, l’immaginazione mimetica del mondo. È un discorso che tocca profondamente il diritto penale, dal momento che la sua “parte speciale” contiene uno dei più ricchi e concentrati giacimenti di tali formule, offrendo a chi le legge una vera e propria imagerie du mal.

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Queste riflessioni sono dedicate al mio amico Mario Coloretti, medico e lette- rato dei suoi tempi. Voleva scrivere il più lungo romanzo della storia, ma un aneurisma si è messo di mezzo ed è in coma dal 2011. Ora sta lì: Lazarus se ipsum curans; con il solo ricordo delle parole tiene in scacco sia la vita che la morte.

Firenze, maggio 2016+1

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Capitolo I Sono parole, diciamo spesso, sono solo parole

1. Dentro ogni parola c’è un pozzo profondo e insondabile; un abisso di si- gnificati: evidenti, riflessi, criptici. La parola, ogni singola parola, è un non-luogo d’insospettabile immensità: come il microcosmo atomico che sta dentro alla materia. Meno ordinato, ha energie esplosive ancora maggiori. La parola è una realtà che è molto più di se stessa: è un simbolo dalla forza 1 incontenibile; «è il più potente strumento di creazione» . Esplorare il mondo che sta dentro una parola è dunque una meravigliosa av- ventura; un fantastic voyage nell’infinitesimale, simile a quello degli esploratori 2 miniaturizzati che vagano dentro il corpo umano . Anche per entrare nella struttura atomica della parola occorrono motivazioni, strumenti, preparazione e abilità particolari, e non si improvvisano; ma quando il corpo semantico è ricco, anche una breve escursione, come quella che faremo nelle prossime pagine, può schiudere panorami illuminanti. “Speciale”: è questa la parola che vogliamo esplorare. È dentro questo corpo che proveremo a viaggiare.

1 A. Belyj, La magia delle parole (1909), in Id., Il colore della parola, (raccolta di saggi), Napoli, 1986, 259. In linea con una antica tradizione di pensiero, Belyj sostiene che «Ogni co- noscenza discende già dalla denominazione, ed è impossibile senza la parola». Sul “realismo” mistico delle parole, cioè sulla loro capacità di fondare la conoscenza profonda del mondo dire- mo brevemente anche nel seguito di questa parte introduttiva. 2 Fantastic Voyage (titolo italiano: Viaggio allucinante) è un film del 1966, diretto da Ri- chard Fleischer e basato su una storia di O. Klement e J. Bixby. È dello stesso anno il romanzo omonimo di (edito in Italia da Mondadori, Milano, 1966). Insolitamente, fu pro- prio il libro ad essere concepito dopo il film. Il filone dei viaggi nell’infinitesimo ha nel cinema un interessante precedente in The girl in the golden atom (La ragazza nell’atomo d’oro) del 1919 di Ray Cummings, e poi un seguito in un remake di Fantastic Voyage, realizzato alla fine degli anni Ottanta con il titolo: , prodotto da Steven Spielberg con la regia di Joe Dante.

1 Figure 1-2. – Dentro la parola: l’esplorazione profonda dei significati Qui sotto, la pagina iniziale del Vocabolario della Crusca, prima ed., Venezia 1612; nella figura a destra, entriamo dentro un lemma: quello della parola “spezie” (specie)

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Figure 3-4. – Dentro la materia: l’esplorazione profonda dell’infinitesimo Sotto a sinistra: rappresentazione ipotetica della struttura atomica. Quella a destra è inve- ce una immagine reale di tale struttura: si tratta di una fotografia di punti quantici. Il pas- so reticolare, cioè la distanza tra gli atomi (i puntini neri), è pari a 0,340 nanometri. Un na- nometro è pari a un milionesimo di millimetro

2 Figure 5-6. – Dentro la rete profonda tra le parole: il Thesaurus Nel Thesaurus, le parole sono organizzate per somiglianza di significato. Nella immagine sotto a sinistra, una pagina del primo Thesaurus, ideato da Peter Mark Roget nel 1805. A destra, uno visuale: la rete semantica centrata sulla parola “Type” (tipo) (v. www.visualthesaurus.com)

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Figura 7. – Dentro le radici della parola: l’esplorazione etimologica (pagina del vocabolario etimologico di Ottorino Pianigiani (1907), scannerizzata in www.etimo.it)

3 2. Prima di iniziare il nostro viaggio verso la profondità infinitesima della parola “speciale”, guardiamo per un momento il mondo di superficie che sta at- torno all’ingresso: “parte speciale del diritto penale”, “principio di specialità” “diritto penale speciale”, “leggi speciali”: sono per lo più queste, per i giuristi, le espressioni di uso comune ove compare la parola che ci interessa. Quando si parla della “parte speciale del diritto penale”, si dice solitamente che essa è “il catalogo dei reati e delle pene”, “l’insieme delle norme incrimina- 3 trici e delle corrispondenti previsioni sanzionatorie” . È interessante notare come l’espressione (diciamo più correttamente: il sin- tagma o l’enunciato) “parte speciale” operi, nell’uso menzionato, come una sor- ta di nome proprio; “parte speciale” è una “descrizione definita”, cioè l’eti- chetta di un singolo e determinato insieme oggetto: l’insieme delle norme in- criminatrici e delle corrispondenti sanzioni. Quando si dice “la parte speciale del diritto penale” si indica direttamente, come farebbe un nome proprio, questo insieme. Nel nostro sistema penale, ma anche in molti altri, c’è un solo insieme di questo tipo e il suo nome è “parte speciale”.

3. È importante sottolineare subito, e sul punto torneremo oltre, come la so- miglianza funzionale con il “nome proprio” si realizzi nell’essere il sintagma “parte speciale” comunemente usato più per “indicare” che per “significare”. Sembra una distinzione complicata; proviamo a spiegarla semplicemente: quando usiamo il termine per alludere alla “parte speciale del diritto penale”, non ci importa tanto quello che “speciale” vuol dire semanticamente; ci interes- sa piuttosto ciò che esso “indica”. Questa distinzione tra la pregnanza semantica del nome e la sua funzione indicativa è chiara nel caso dei nomi propri: pen- siamo a nomi quali Bruno, Allegra, Bianca, ecc.; di tali nomi non interessa tan- to il contenuto semantico (e cioè il significato degli aggettivi: bruno, allegro, bianco), quanto piuttosto la capacità di denotazione e cioè l’abbinamento con- venzionale tra il nome e l’oggetto indicato (cioè la persona che porta quel no- me). Tale abbinamento si realizza, nella stragrande maggioranza dei casi, a pre- scindere dal fatto che le persone nominate (Bruno, Allegra, Bianca) abbiano, rispettivamente, colorito scuro, umore gioioso o pallido incarnato.

3 D. Pulitanò, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Torino, 2010, 1 e 3; analo- gamente, A. Cadoppi-P. Veneziani, Elementi di diritto penale, parte speciale, 4a ed., Padova, 2012, 1. Altre definizioni omettono di sottolineare la presenza delle previsioni sanzionatorie: se- condo G. Flora (Manuale per lo studio della parte speciale del diritto penale, I, 4a ed., Padova, 2014, 1), la parte speciale «è costituita dalle norme che prevedono le singole fattispecie incrimi- natrici, i singoli reati». Tra i volumi introduttivi alla parte speciale, segnalo anche D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, 2a ed., Torino, 2013.

4 Allo stesso modo, nell’uso comune (e salvo ciò che diremo tra qualche pagi- na) l’espressione “parte speciale” indica, come abbiamo ricordato, “il catalogo dei reati e delle pene”, “l’insieme delle norme incriminatrici e delle corrispon- denti previsioni sanzionatorie”. E ciò a prescindere da ciò che il termine “spe- ciale”, letteralmente inteso, effettivamente significa. Come diremo, si tratta di un approccio molto riduttivo, che sottovaluta e sottoutilizza la potenza dei nomi.

4. Per completare questa rapida ricognizione del terreno circostante l’in- gresso del nostro viaggio, è necessario ricordare che, quando si parla in termini introduttivi della “parte speciale del diritto penale”, il discorso procede spesso affrontando la questione del rapporto tra la “parte speciale” e la “parte genera- le” del diritto penale ed analizzando come le due partizioni si distinguano e si integrino. Il termine “speciale” trova così una precisazione in senso relazionale: “speciale” si definisce in relazione ad un altro termine: “generale”. Come nelle coppie alto-basso, destra-sinistra, madre-figlio, ecc. l’aggettivo è usato dunque 4 come indicativo di una posizione all’interno di un rapporto . La prospettiva che definisce la nozione di parte speciale con riferimento a quella generale e che poi si sofferma sullo studio delle fattispecie incriminatrici, viste anche come sistema e per le caratteristiche comuni che queste presentano, è comunque di sicuro interesse. Non a caso, molti testi introduttivi allo studio della parte speciale del diritto penale si occupano proprio della “parte speciale” così intesa. È una prospettiva che merita attenzione perché coinvolge importanti questioni sul piano dei principi e delle scelte interpretative e perché presenta importanti risvolti pratici e di politica criminale.

5. Occorre infine ricordare come l’idea di “specialità” compaia, nel discorso penalistico, anche in ulteriori contesti: ad esempio, quando si parla di “principio di specialità” a proposito del concorso apparente di norme. È questo principio di specialità (previsto anche dall’art. 15 c.p.), come noto, a governare il traffico delle fattispecie convergenti sul medesimo fatto. Ad esempio, quando la fatti- specie di infanticidio (art. 578 c.p.) ricorre assieme a quella dell’omicidio (art.

4 In tale contesto, tuttavia, conviene segnalarlo sin d’ora, la relazione tra parte speciale e la parte generale del diritto penale non costituisce una relazione di tipo rigoroso e formale tra “spe- cie” e “genere”. Il rapporto riguarda due insiemi di norme abbastanza eterogenei, due insiemi che non stanno tra loro negli stessi termini in cui, nella zoologia, l’insieme dei gatti sta a quello dei mammiferi. Nel caso delle due parti del diritto penale non si può certo dire, infatti, che le norme della parte speciale possiedano tutte le caratteristiche delle norme di parte generale più alcune loro proprie.

5 575 c.p.). Il principio di specialità sancisce in questi casi la prevalenza della lex specialis, scongiurando così l’indebita duplicazione della valutazione giuridica (e della sanzione). Di specialità si parla anche, e anche di questo argomento ci occuperemo, nella problematica concernente le “leggi speciali” extra codicem, cioè le leggi penali che, si pensi alla disciplina penale degli stupefacenti, si collocano – ed in numero crescente – fuori dal codice penale, dando corpo al fenomeno della c.d. decodificazione. Sono, come dicevamo, tutte prospettive di sicuro interesse. Ne parleremo tra qualche pagina.

6. Ma il nostro viaggio non comincia da qui.

7. Torniamo un poco indietro; spostiamoci dal significato del termine “spe- ciale” al suo significante: lasciamo per un momento da parte l’insieme delle fat- tispecie incriminatrici (e i riferimenti collegati agli altri usi linguistici sopra elencati) e concentriamoci piuttosto sul “corpo” della parola “speciale”. Non accade spesso di riflettere sul corpo delle parole. D’altronde, nell’uso quotidiano, una ossessiva, analitica, attenzione per le singole componenti del linguaggio porterebbe ad un’impasse funzionale, come quella del millepiedi che pensasse analiticamente al movimento di ciascuna gamba. Non si presta dunque molta attenzione alla individualità, all’unicità semanti- ca, alle radici etimologiche della singola parola. Ciò accade massimamente nel caso dei nomi propri, nell’uso dei quali non pensiamo quasi mai, lo si diceva 5 sopra, “a ciò che il nome vuol dire”, cioè al suo aspetto semantico . Se cer- chiamo Bianca in una stanza affollata, di certo non procediamo scartando men- talmente le persone di colorito scuro, ma cerchiamo piuttosto l’oggetto (oggetto in senso logico: ovviamente è una persona che cerchiamo) che convenzional- mente sappiamo, o ipotizziamo, corrispondere a quel nome. Trascuriamo, in- somma, il “corpo” specifico di quel nome, la sua pregnanza semantica, ed an- diamo direttamente a ciò che esso indica. Il corpo della singola parola – sul quale, dicevamo, così raramente si riflette – è invece un autentico strumento di rivelazione: esso consente di cogliere ap- pieno il “senso” del riferimento agli oggetti denotati; esprime la “connotazione” del significato, cioè individua le proprietà che gli oggetti indicati devono pos-

5 È appena il caso di notare come tale superficiale rapporto con i nomi propri precluda pro- fondissimi ambiti di conoscenza, soprattutto per chi li porta.

6 sedere per entrare nel cono di luce del significato; esprime ciò che sta a cuore vedere nella finestra che la parola apre sul mondo.

8. Il corpo di ogni parola è costituito dal suo etimo, dalla sua storia, dalla sua capacità espressiva, dal suo suono, e perfino dalla individualità delle sue singole lettere. Questi elementi definiscono quella che potremmo chiamare la “personalità” di ciascuna parola; grazie alla “personalità” delle singole parole, possiamo esprimere, di volta in volta, la nostra “presa di posizione” nei con- fronti della realtà, il nostro particolare modo di intendere gli oggetti indicati. Come ben segnala un celebre esempio della linguistica, il pianeta Venere può essere chiamato sia “Vespero” (stella della sera) che “Fosforo” (stella del mattino); esso appare difatti, come noto, sia nel cielo del mattino che della sera. È sempre lo stesso pianeta, ovviamente, ma l’alternativa lessicale fa differen- 6 za . A seconda del termine prescelto, è possibile sottolineare un certo aspetto essenziale dell’oggetto indicato, lasciandone in ombra un altro: è come se spo- stassimo la luce di una lampada da un punto di una stanza ad un altro: gli ogget- ti sono sempre gli stessi, ma il variare del fascio di illuminazione ne rivela ed esalta aspetti diversi. Talora, la scelta della parola può essere, rispetto al classico esempio appena riportato, ancora più precisa e infungibile: pensiamo alla creazione poetica, at- tività nella quale ogni parola viene scelta non tanto perché interessa denotare la nuda materialità di un oggetto. Quando Giacomo Leopardi scrive: «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea …»; oppure: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? ...», non intende certo indicare stelle e pianeti come farebbe un astronomo. Le parole sono scelte, evidentemente, per la loro capacità di evocare una visione dal forte impatto emotivo. Altre volte, all’uso di una determinata parola o di una formula lapidaria, e solo alla loro esatta declamazione verbatim, consegue ineluttabilmente un effet- to: pensiamo al sistema processuale delle legis actiones nell’antico diritto ro- 7 8 mano o alle conseguenze del giuramento nel processo civile contemporaneo .

6 Per tutti, P. Casalegno-P. Frascolla-A. Iacona-E. Paganini-M. Santambrogio, Filosofia del linguaggio, Milano, 2003, 4 ss. 7 Come si ricorderà, la più antica procedura romana era regolata da un esasperato formalismo che imponeva di agire in giudizio secondo forme minuziosamente determinate. Il formalismo orale e gestuale era massimo. I privati si presentavano davanti al magistrato, che presiedeva il rito assicurandosi che venissero pronunciate le parole esatte e compiuti i gesti precisi stabiliti dal diritto. In presenza del minimo errore, la procedura si arrestava, a scapito della parte che aveva sbagliato parole o gesti. Gli inconvenienti di tale antica procedura sono ben sintetizzati dalla pa- role di Gaio, che spiega come (4.30): «tutte queste legis actiones a poco a poco vennero in odio:

7 Altre volte ancora, l’uso di una parola è lo strumento segreto per agire nella realtà invisibile: con la magia di una formula si può chiedere un miracolo; evo- care uno spirito; scacciare un demone; compiere un incantesimo. Ma di questo non parleremo qui.

9. Parlare senza prestare attenzione al corpo delle parole, è un po’ come gui- dare la macchina sovrappensiero: una serie di automatismi dispensa dal concen- trarsi “consapevolmente” sul mezzo che usiamo. Quando parliamo senza attenzione per la microfisica corporea delle singole parole, ne utilizziamo certamente la potenza indicativa, approfittiamo della loro capacità di denotare concetti e cose; ma perdiamo l’opportunità di riflettere su “come” quella realtà viene indicata, di capire in che modo guardiamo quello che viene indicato. Perdiamo la possibilità di accedere ad una conoscenza più profonda di ciò a cui i termini linguistici rimandano. Nell’uso inconsapevole, le parole sono meri strumenti, una “forza lavoro” inchiodata al remo di una funzione servile e meccanica: quella di indicare le co- se. Sfruttando le parole come bruta manovalanza, ne opacizziamo la superficie, oscurando l’individuale personalità di ciascuna; le parole divengono opache e per ciò stesso fungibili: se è solo la fisicità del pianeta Venere che ci interessa indicare, possiamo usare i suoi nomi in modo assolutamente equivalente. Ma se vogliamo esprimere come e perché quel pianeta ci interessa, dovremo proba- bilmente significare, attraverso uno dei suoi nomi, qualcosa di più pregnante e cioè, ad esempio, se il pianeta appare come prima stella del mattino o ultima della sera.

10. La parola, ogni parola, ha dunque da offrire molto di più della sua fun- zione indicativa, della sua capacità “di stare al posto di un oggetto”. Quale simbolo unico e singolarmente determinato, la singola parola è dotata di una potenza rivelatrice che va ben oltre la denotazione estensionale, cioè ap- punto la sua capacità di indicare singoli concetti o cose. Questa capacità signi- ficante che va oltre la denotazione di un oggetto è chiamata, nella scienza lin-

infatti per l’eccessiva pignoleria degli antichi, che forgiarono il diritto, la cosa arrivò al punto che chi avesse commesso un minimo errore perdeva la lite» («Sed istae omnes legis actiones paulatim in odium venerunt: namque ex nimia subtilitate veterum, qui tunc iura condiderunt, eo res perducta est, ut vel qui minimum errasset litem perderet»). 8 Secondo l’art. 2738 c.c.: «Se è stato prestato il giuramento deferito o riferito, l’altra parte non è ammessa a provare il contrario, né può chiedere la revocazione della sentenza qualora il giuramento sia stato dichiarato falso».

8 9 guistica, “senso”, oppure “intensione” o “connotazione” del termine . Quanto la connotazione sia importante, lo si coglie riflettendo sul fatto che se io dico “Vespero è Vespero”, oppure “Superman è Superman” suscito indubbiamente meno interesse rispetto al caso in cui dica “Vespero è Fosforo”, oppure “Su- perman è Clark Kent”. Eppure, trattandosi sempre dello stesso pianeta e della stessa persona, dal punto di vista della denotazione le due espressioni dovrebbero essere equivalen- ti. Il fatto è che la seconda serie di enunciati è più interessante perché aggiunge qualcosa: un ulteriore contenuto di conoscenza su cui riflettere. Questo “di più” che viene aggiunto è il confronto tra due modi di vedere la stessa cosa. La diffe- renza che ci incuriosisce e ci fa riflettere è proprio la differenza di “senso” tra i due termini.

11. Sulla storia di ogni parola potremmo scrivere un libro intero. Farebbe piacere leggere biografie di singole parole. Di un superficiale ricorso all’etimologia bisogna tuttavia fortemente diffida- re. Fuori dagli appropriati contesti scientifici, ove si studia veramente lo spesso- re storico delle parole, l’etimologia è spesso invocata malamente. Prevalgono scopi “antagonisti”: snob o faciloni a seconda dei casi. L’etimologia sarebbe – secondo questa deprecabile visione – la porta d’accesso al “significato colto” di un termine; un vero significato da contrapporre – ecco il tratto di snobistica suppo- nenza – al significato d’uso che il termine ha assunto nella pratica quotidiana. Ma il significato d’uso, essendo democraticamente determinato dalla pratica linguistica quotidiana di una comunità, vince sempre; non va guardato dall’alto in basso. Anche quando si è del tutto allontanato dall’etimo, e anche se ne costi- tuisce un grossolano fraintendimento, il significato d’uso giustamente prevale. Si pensi, ad esempio, al termine “repulisti”: il significato che tutti conosciamo (“fare un repulisti”) l’ha stabilito l’uso; che l’etimo latino significhi tutt’altro (repulisti è il perfetto di repellere, che vuol dire “respingere” e non “pulire”) è del tutto irrilevante. Prevale, e a buon diritto, il latinorum da orecchianti: usus vincit omnia. Dunque, se spenderemo qualche energia nella trivellazione del termine “speciale” non è certo per “ristabilire la verità” sul suo corretto uso. Ma è uni- camente per chiarire, attraverso l’attenzione per il corpo, per la personalità, di “questa parola”, un collegamento profondo e, crediamo, illuminante con la real- tà che essa denota.

9 Per tutti, P. Casalegno-P. Frascolla-A. Iacona-E. Paganini-M. Santambrogio, Filosofia del linguaggio, cit., 3 ss.

9 Insomma, come si è capito, l’approccio qui prescelto più che dirsi etimolo- 10 gico esprime un affascinato interesse per il “potere dei nomi” , per la misterio- sa forza significante che sta nel corpo individuale di ciascuna parola, “codice 11 genetico nell’individualità degli esseri” .

12. Torniamo dunque al termine “speciale”. Anch’esso può essere letto – in una logica di indifferenza per il “corpo” della parola – come parola opaca e senza individualità. Agevolmente sostituibile, a secondo dei contesti, con altri termini o descrizioni. Al posto di “speciale”, possiamo usare gli aggettivi “par- ticolare”, “caratteristico”, “tipico”, “singolare”, “proprio”, “individuale”, “pri- vato”, “personale”, “esclusivo”, “peculiare”. Parlando della parte speciale del diritto penale possiamo dire: la «parte del diritto penale che contempla i singoli reati». Ancora, nel contesto dello studio universitario, possiamo cambiare nome all’esame di “Diritto penale, parte spe- ciale” e chiamarlo “Diritto penale II”. Che l’uso dei sinonimi faccia o meno la differenza, lasciamo che sia il lettore a giudicarlo.

10 Il problema concernente il potere dei nomi e la loro capacità di esprimere l’essenza delle cose denominate trova, come noto, la sua prima compiuta elaborazione nel Cratilo di Platone: i nomi sono pure convenzioni o rispecchiano veramente la realtà cui si riferiscono? Questa è la domanda fondamentale, cui nominalisti (cioè i sostenitori della natura meramente convenzionale del nome) e realisti (cioè i sostenitori del nesso sostanziale tra nome e nominato) hanno dato, nel corso dei secoli, risposte opposte. Secondo i realisti, che costituiscono i più diretti interpreti del pensiero platonico, i nomi non sono dati “per autorità”, ma “secondo natura” e costituiscono una autentica enunciazione di ciò che è proprio della cosa nominata. Essi sono l’annuncio delle cose che celano. Sul tema del “potere del nome”, i riferimenti bibliografici sarebbero innumerevoli. L’idea che la parola, e il nome in particolare, possiedano un potere misterioso e talora terribile è presen- te da sempre nella cultura umana. Basti pensare alla questione del nome di Dio, così come svi- luppata nella tradizione ebraica della Bibbia, nella cultura islamica che professa i 99 nomi di Al- lah (interrogandosi sui misteri del centesimo), o nel cristianesimo di rito ortodosso; oppure ai tanti tabù collegati ai nomi, tabù ampiamente rilevati e discussi dagli antropologi [v. già J.G. Frazer, Il ramo d’oro (1922), trad. it., Roma, 1992, 286 ss.]. Tra le mie letture “impreviste”, ma davvero illuminanti (cui facevo riferimento nella prefazione), c’è l’opera di Pavel Florenskij, filosofo e scienziato russo vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento (1882-1937). Florenskij è ispirato dalla filosofia platonica, dal misticismo religioso ortodosso e dal simbolismo. Il tema del nome, come quello dell’icona, sono centrali nella sua riflessione, v. ad esempio, le raccolte di saggi pubblicate negli ultimi decenni anche in Italia con i titoli: Il valore magico della parola, Milano, 2003; Realtà e mistero, Milano, 2013; Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano, 1977. Segnalo anche, per chi ha voglia di decifrarne il complicato eloquio, J. Derrida, Il segreto del nome, a cura di G. Dalmasso e F. Garritano, Milano, 1997. 11 G. Semeraro, Le origini della cultura europea, vol. II, Dizionari etimologici, Basi semitiche delle lingue indoeuropee, Dizionario della lingua greca, Firenze, 1994, XIX dell’Introduzione.

10 Spesso è tuttavia evidente come le varie opzioni lessicali siano tutt’altro che fungibili. Ciascuna parola o descrizione della realtà (anche sintetica, come quel- la di brevi enunciati) getta una luce particolare sugli oggetti indicati e ne rivela, esalta o nasconde talune caratteristiche.

13. Entriamo dunque, ridotti a creature microscopiche, dentro il corpo della parola “speciale”. Per orientarci in questo mondo sconosciuto, guardiamo da vicino il filamen- to sgranato dei tessuti in cui ci siamo calati … proviamo a comprendere, con le possibilità di una visione microscopica, la chimica delle molecole che ci stanno attorno; confrontiamo queste strutture e questa biologia con quella di entità si- mili con cui il nostro pensiero può avviare un confronto: con la parola “specie”, in primo luogo, ma, assieme ad essa, con una lunga sequenza di altre parole collegate: spia, speculazione, specchio, specola, spettacolo, sospetto, aspetto, dispetto, rispetto, ispettore, spettro, ecc. Cosa hanno in comune queste parole? Cosa le affratella? Il codice genetico comune, la radice semantica che le lega è riconducibile al verbo latino specio/spicio (infinito: specere/spicere) che vuol dire: guardare, osser- 12 vare , osservare con attenzione, guardare (verso un oggetto). Volendo rimanere fedeli all’etimo latino, potremmo tradurre con “spiare”, se non fosse che tale verbo, nell’italiano corrente, è più spesso usato nel significato di “osservare di nascosto” piuttosto che in quello, pur esistente, di “osservare attentamente”. A seconda delle varianti, grammaticali e lessicali, espresse dai termini men- zionati, muta ovviamente la rilevanza e la modalità del “guardare”, dell’“os- servare”. Il significato può oscillare tra un polo attivo e uno passivo, concen- trandosi ora sull’atto dell’osservare attentamente, ora sull’oggetto dell’osserva- zione e sul suo darsi alla visione/conoscenza: se i verbi esprimono in genere la prima prospettiva (guardare attentamente, rispecchiare, spiare, speculare, ispe- zionare), sostantivi e aggettivi, a cominciare proprio dal termine “specie”, han- no per lo più una accezione passiva, facendo riferimento alla forma esteriore dell’osservazione, alla figura, all’apparenza, alla sembianza, all’immagine delle cose che si offrono alla nostra vista. “Speciale” è dunque, innanzitutto, ciò che ha un aspetto, un’apparenza, una sembianza. Specie è l’immagine delle cose, la forma esteriore tramite cui esse 13 si presentano .

12 F. Calonghi, Dizionario Latino-Italiano, 3a ed., Torino, 1972, ad vocem. 13 Il termine “specie”, e la sua matrice latina species, corrispondono semanticamente (non in- vece etimologicamente, come si dirà oltre) al greco antico εἶδος (eidos), che pure vuol dire

11 I verbi latini spicio/specio trovano corrispondenza etimologica, nella lingua greca, con i verbi skopeo e skeptomai. Da essi scaturiscono, anche in italiano, parole come: scopo, microscopio, periscopio, scettico, episcopo. L’apparentamento tra le due radici, latina e greca, collegate ai verbi spe- cio/spicio-skopeo/skeptomai ed espressive del “guardare attentamente”, viene ricondotta ad una comune derivazione sanscrita: “Spaҫ”, che, appunto, vuol di- 14 re vedere, guardare . Nella profondità abissale di tale parola c’è il riferimento, comune peraltro ad altre lingue antichissime come l’accadico, alla “vetta” (skopia in greco antico), alla cima, all’alto scoglio da cui si guarda, si osserva per fare la guardia, per 15 custodire, per sorvegliare .

14. Sintetizziamo il senso di quanto si è detto: l’esplorazione effettuata all’interno del termine “specie/speciale” e dunque nel sintagma “parte speciale” che a noi interessa, consente di leggere nel significato della parola qualcosa di più rispetto alla mera indicazione di una serie di oggetti denotati. “Specie”, e dunque l’aggettivo “speciale”, sono parole che … parlano: prima di indicare, di significare estensionalmente qualche cosa (l’insieme delle norme incriminatrici) esse comunicano “con il loro corpo”. Il body language dalla pa- rola “specie” esprime l’idea di una visione avente ad oggetto le forme, le sem- bianze attraverso cui la realtà si manifesta. La parola “specie” e l’aggettivo “speciale” gettano dunque una luce partico- lare sulla natura di questa parte del diritto penale: interessa la “forma”, la sem- bianza, l’immagine fenomenica dell’accadere; l’osservazione, la descrizione ha

aspetto, sembianza, forma. Deriva peraltro dalla stessa radice di εἶδος la parola ἰδεῖν cioè “idea”; entrambe si collegano ad un verbo fondamentale della semantica visuale: εἶδω (eido), verbo ir- regolare che usa solo alcuni tempi e che, come noto, svolge funzione supplente delle forme man- canti del verbo ὁράω (orao), un altro importantissimo verbo del vedere, da cui, ad esempio, vie- ne la parola “panorama”. Il termine “idea” si collega, in particolare, al tempo aoristo εἶδoν (eidon). L’aoristo è un tempo verbale privo di corrispondenza in italiano; esso esprime l’azione nel suo compimento: l’“idea” si collega dunque al: “vidi!” ma con un carattere di maggiore, esaurita, puntualità del compimento; potremmo dire anche: “ho visto!”, cioè: possiedo dentro di me la forma della visione e dunque della conoscenza. Questa forma è l’idea, la specie. Il verbo εἶδω (eido) condivide la stessa radice del latino “video”, una radice diversa da quel- la di specio/spicio che, come si dirà subito nel testo, in greco antico corrisponde invece, etimo- logicamente, a σκοπέω (skopeo) e σκέπτομαι (skeptomai). 14 F. Rendich, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, 2a ed., Roma, 2010. 15 G. Semerano, Le origini della cultura europea, vol. II, Dizionari etimologici, cit., 269.

12 natura visiva, iconografica, morfologicamente figurabile. Azioni, soggetti, eventi sono oggetto di una significazione che ha come essenziale veicolo di comunica- zione la forma, la sembianza, l’aspetto attraverso cui quei dati sono presenti nel mondo. Ripetiamolo ancora: “parte speciale” del diritto penale significa molto più che “l’insieme delle fattispecie incriminatrici” o “il catalogo dei reati”. L’ag- gettivo speciale allude alla (possibile, autentica?) natura di questa parte del di- ritto penale e la significa come: visuale, immaginativa, pittorica, iconografica, rappresentativa, figurativa della realtà.

15. Individuata la potenzialità illuminante di cui è dotato il termine “specia- le”, si tratta di stabilire che farne. Questo significato che abbiamo rinvenuto nel profondo della parola ha natu- ra meramente dichiarativa, rivelatrice dell’essenza ultima di ciò che denota, op- pure è in qualche modo vincolante, ha cioè un’attitudine prescrittiva? Una volta scoperto che “speciale” vuol dire visuale, iconografico, ecc., dobbiamo capire se tale aggettivazione descriva l’attuale fisionomia della “parte speciale del di- ritto penale” oppure indichi come essa dovrebbe essere. Insomma, si tratta di comprendere se, nel nostro caso, l’aggettivo “speciale” fotografi l’esistente o se indichi un progetto che impegna, ad esempio il legislatore, ad una particolare modalità costruttiva delle norme penali. La riflessione sul termine “speciale” e la “scoperta” dei significati concer- nenti la visualità, l’iconicità, la figuratività ha consentito di cogliere una carat- teristica storicamente persistente nella descrizione dei fatti penalmente illeciti. Il termine è dunque certamente descrittivo di un modo di essere molto fre- quente delle norme incriminatrici: gli antichi reati nascono e si sviluppano se- condo questo modello e ad esso si ispirano anche reati di oggi: dal furto al dan- neggiamento, dalla violenza carnale (intendo lo stupro di cui all’abrogato art. 519 c.p.) alla violazione di domicilio. Quello della specialità iconografica non è tuttavia il solo modo di descrivere i presupposti della responsabilità penale. Come vedremo, si tratta anzi di un tratto decisamente recessivo della recente legislazione penale. In che misura dobbiamo auspicare che la scrittura delle fattispecie incriminatrici torni ad esse- re figurativa, realistica, iconica? Ne parleremo.

16. Una risposta potrebbe venire dall’antica teoria dei nomi propri, quella secondo cui il nome costituisce sempre per il nominato un canone spirituale cui conformarsi. La parte speciale dovrebbe dunque, tendenzialmente, conformarsi

13 al destino del suo nome e provare sempre a strutturarsi come “speciale” nel senso detto. Al tempo stesso, tuttavia, proprio la teoria menzionata ci ricorda che il nome non può mai risultare indifferente al nominato. E ciò in quanto il nominato non si limita ad “imitare” il nome, a darvi compimento; ma partecipa inevitabilmente alla sua conformazione; contribuisce in qualche modo a ripla- smarlo attraverso la interpretazione e l’attuazione storica del canone spirituale che dal nome promana. Nonostante il fascino di questa visione delle cose, è difficile pensare che, nell’ambito del diritto penale contemporaneo (e della narrativa condivisa che attorno ad esso si sviluppa), si possa proporre la mistica del nome come criterio guida della politica criminale e delle scelte di tecnica legislativa. Occorre dunque provare a dare una risposta che sia accettabile secondo le categorie morali del nostro tempo. Una risposta che richiami, ad esempio, il principio di legalità in materia penale. Il rispetto del canone della “specialità iconografica, realistica” sarà, insomma, più o meno imposto al legislatore a se- conda di quanto risulti importante per il rispetto dell’istanza di garanzia e di certezza che sta alla base del principio di legalità.

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