Fantastic Voyage Nell’Infinitesimale, Simile a Quello Degli Esploratori 2 Miniaturizzati Che Vagano Dentro Il Corpo Umano

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Fantastic Voyage Nell’Infinitesimale, Simile a Quello Degli Esploratori 2 Miniaturizzati Che Vagano Dentro Il Corpo Umano Premessa Al fine di rendere più agevole agli studenti il ricordo delle lezioni introdutti- ve al corso di diritto penale II che insegno a Firenze, pubblico, in questa ver- sione ancora interlocutoria, alcune riflessioni che sto maturando sul concetto di “specialità” nel diritto penale. Come si comprenderà leggendo le pagine che seguono, nel testo c’è qualcosa di più e di diverso rispetto a quello che può essere detto, ragionevolmente, in un corso di lezione del III anno di Giurisprudenza: nonostante tutto, ho ancora ben presente che l’insegnamento istituzionale, come le canzoni di Natale, va cantato secondo canoni tradizionali e senza indulgere nelle stranezze. Oltre a qualche cosa in più, nel libro c’è anche tanto di meno rispetto a ciò che si è detto a lezione. Manca la voce diretta degli studenti, ed è un peccato perché, negli ultimi anni, anche da noi gli studenti hanno imparato a parlare: con tutti gli altri e non solo con il vicino di posto. Questo consente a chi insegna, se lo vuole, di smettere, a sua volta, di declamare la lezione come farebbe una radio. Forze prima contrapposte possono essere, ora, utilizzate sinergicamente: questa feconda interazione è una bella novità, tra le tante cose che non vanno. Alcune delle riflessioni qui sviluppate hanno radici antiche; mi accompagna- no almeno da quando, nell’estate del 1986, tornai da Chicago con una sedicente (e molto rozza) “teoria delle norme invisibili”. Altre idee, maturate negli anni recenti alla luce di nuove ispirazioni e impreviste letture, si sono concretizzate in occasione di alcune esperienze d’insegnamento. Non solo quelle fiorentine, che ricordavo in apertura; penso ai corsi “Images of Evil in Criminal Law”, che ho tenuto dapprima alla Columbia Law School di New York (2011), poi alla Stan- ford University in Florence (dal 2014 ad oggi), e, da ultimo, a Miami Law School. Il discorso sulla natura iconografica della tipicità penale è stato centrale anche nei seminari che ho insegnato a Buenos Aires (2012), ancora a Columbia (2013) e a Osaka (2014). Non dico tutto questo per esibizionismo accademico, ma, al contrario, per confessare subito un difetto: la varietà del vissuto apre la mente, ma complica indubbiamente le idee e talora le confonde. Fossi stato chiuso in una stanza, tutto IX mi sarebbe, probabilmente, più chiaro. (Quale “tutto”, però, … non saprei dire). Ha scritto Pascal che i guai dell’essere umano derivano proprio dalla sua in- capacità di stare chiuso in una stanza 1; chi scappa da lì e vaga sino ai confini estremi del mondo, non trova altro che quello che portava con sé dall’inizio del viaggio: i limiti della sua condizione umana 2. Nella Lettera sull’Ascesa al Monte Ventoso, Francesco Petrarca racconta una simile esperienza. Faticosamente arrivato in vetta, egli contempla la bellezza della natura; ha con sé le Confessioni di S. Agostino e, aprendo il libro, tuttavia, legge: “E gli uomini vanno ad ammirare le alte cime dei monti, gli ingenti flutti del mare, gli estesissimi corsi dei fiumi, la distesa dell’oceano e i moti delle stelle, e trascurano se stessi”. Conclude: “[...] chiusi il libro, adirato con me stesso, poiché ancora ammiravo le cose terrestri, proprio io che già in preceden- za avrei dovuto imparare dai filosofi pagani stessi che nulla è ammirabile ad eccezione dell’animo, alla cui grandezza non c’è niente di paragonabile”. È vero: la meta che importa raggiungere non sta nelle pietre lontane, ma nel mondo dello spirito. Per arrivarci, tuttavia, non è detto ci si debba chiudere den- tro una cella. Giunto pure io, all’alba del 1 gennaio 2015, in cima al mio monte ventoso, il Kilimanjaro, ho pensato che un’aria così fina ed un cielo così celeste attivassero molti più neuroni di quelli che ruminano solitamente nella mia stanza a Novoli. L’esperienza del mondo, e specie quella dei suoi confini remoti o addi- rittura del finis terrae, sveglia risorse dello spirito diverse e nuove. Vissuta con la concretezza dei sensi, l’esperienza è alla base della nostra capacità di produrre pensiero metaforico, potentissimo tra gli strumenti cognitivi: senza essere andati davvero da qualche parte, senza l’“ascesa” faticosa e l’arrivo sulla “vetta”, non ci sarebbero né l’alto né il basso, la destra e la sinistra, il prima e il dopo. Guar- deremmo dappertutto senza vedere niente e non sapremmo neppure se collocare il futuro “davanti” o “dietro” di noi. Anche questo libro, come dice il titolo, è il racconto di un viaggio, un viaggio fantastico: non parla dell’ascesa verso una vetta, ma di una discesa: quella den- tro l’infinitesimo di una parola, la parola: “speciale”. La stesura del racconto, iniziata verso la fine del 2015, si è concretizzata, ab- bastanza rapidamente, nell’Erlebnis primaverile del 2016 ed è certamente segna- ta da quella cornice. Il testo fu subito pubblicato in versione elettronica. È pas- sato un anno e ora lo si rende disponibile anche in cartaceo. Ci sono integra- zioni e correzioni, ma è sostanzialmente quello d’allora: un ibrido necessitato, 1 Pensieri, (1670), trad. it., Torino 1984, 348, p. 151. 2 Sono più o meno le parole con cui P. Hazard, (La crisi della coscienza europea, trad. it, To- rino, 1946, 3) descrive lo spirito dell’“età classica” (intesa, alla francese, come tempo che va dall’inizio del Seicento ai primi del Settecento). X che mette fianco a fianco un’esperienza di studio molto personale e un conco- mitante impegno didattico. Questa prima versione è una fermata prima del bi- vio. Da tempo non sono più lì: ho seguito il lato fantastico della forza, immagi- nando creativamente un cammino. Bisognerebbe saper pensare con lo spirito tagliente del Candide; liberarsi dalle parole perdute, dai discorsi sulla finta vi- ta delle foglie morte; progredire leggeri, dimenticare le valigie, lasciandole a girare in tondo sul nastro bagagli dell’aeroporto; portare solo l’indispen- sabile, cioè, tendenzialmente, nulla. Nel sequel di questo libro ci saranno, dunque temi nuovi: quello delle meta- fore, viste come strumento espressivo dell’invisibile; poi quello dell’estetica co- me strumento di controllo sociale. Tratterò anche, più diffusamente, del nesso profondo che esiste tra le parole e l’esperienza della visualità: nesso epistemo- logico fondamentale della cultura umana e dunque anche del diritto penale. Nesso di cui è ponte la natura simbolica del linguaggio, e da cui discende la possibilità di partorire metafore con valore cognitivo. Attorno alla visualità orbitano, in tutti gli idiomi, una congerie di verbi dalle sofisticate sfumature semantiche: osservare, vedere, guardare, spiare, mirare, scorgere; per restare solo ad alcuni termini della lingua italiana. Questi verbi dal- le intrecciate e profonde radici descrivono interazioni emotivamente molto pre- gnanti tra soggetto e realtà: c’è la preoccupazione di chi guarda e fa la guardia; il compiacimento di chi è guardato; l’entusiasmo di chi vede e comprende; il turba- mento di chi getta la vista lontano, penetrando il futuro come fosse trasparente. La diversità esperienziale è colta, si diceva, da una molteplicità di verbi. Ma accanto ai verbi che descrivono i modi di vivere la visualità, vi sono le parole che ogni giorno riproducono pittoricamente, dentro di noi, l’esperienza stessa della realtà: si combinano in frasi, enunciati, sequenze capaci di animare, con gestaltica efficacia, l’immaginazione mimetica del mondo. È un discorso che tocca profondamente il diritto penale, dal momento che la sua “parte speciale” contiene uno dei più ricchi e concentrati giacimenti di tali formule, offrendo a chi le legge una vera e propria imagerie du mal. *** Queste riflessioni sono dedicate al mio amico Mario Coloretti, medico e lette- rato dei suoi tempi. Voleva scrivere il più lungo romanzo della storia, ma un aneurisma si è messo di mezzo ed è in coma dal 2011. Ora sta lì: Lazarus se ipsum curans; con il solo ricordo delle parole tiene in scacco sia la vita che la morte. Firenze, maggio 2016+1 XI XII Capitolo I Sono parole, diciamo spesso, sono solo parole 1. Dentro ogni parola c’è un pozzo profondo e insondabile; un abisso di si- gnificati: evidenti, riflessi, criptici. La parola, ogni singola parola, è un non-luogo d’insospettabile immensità: come il microcosmo atomico che sta dentro alla materia. Meno ordinato, ha energie esplosive ancora maggiori. La parola è una realtà che è molto più di se stessa: è un simbolo dalla forza 1 incontenibile; «è il più potente strumento di creazione» . Esplorare il mondo che sta dentro una parola è dunque una meravigliosa av- ventura; un fantastic voyage nell’infinitesimale, simile a quello degli esploratori 2 miniaturizzati che vagano dentro il corpo umano . Anche per entrare nella struttura atomica della parola occorrono motivazioni, strumenti, preparazione e abilità particolari, e non si improvvisano; ma quando il corpo semantico è ricco, anche una breve escursione, come quella che faremo nelle prossime pagine, può schiudere panorami illuminanti. “Speciale”: è questa la parola che vogliamo esplorare. È dentro questo corpo che proveremo a viaggiare. 1 A. Belyj, La magia delle parole (1909), in Id., Il colore della parola, (raccolta di saggi), Napoli, 1986, 259. In linea con una antica tradizione di pensiero, Belyj sostiene che «Ogni co- noscenza discende già dalla denominazione, ed è impossibile senza la parola». Sul “realismo” mistico delle parole, cioè sulla loro capacità di fondare la conoscenza profonda del mondo dire- mo brevemente anche nel seguito di questa parte introduttiva. 2 Fantastic Voyage (titolo italiano: Viaggio allucinante) è un film del 1966, diretto da Ri- chard Fleischer e basato su una storia di O. Klement e J. Bixby. È dello stesso anno il romanzo omonimo di Isaac Asimov (edito in Italia da Mondadori, Milano, 1966). Insolitamente, fu pro- prio il libro ad essere concepito dopo il film.
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