Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in CINEMA, TELEVISIONE E PRODUZIONE MULTIMEDIALE

IL CINEMA INTERATTIVO SCENARI PRESENTI E FUTURI

Tesi di laurea in PRODUZIONE MULTIMEDIALE

Relatore: Chiar.mo Prof. Presentata da:

PIER LUIGI CAPUCCI FRANCESCA BISERNI

Correlatrice: Chiar.ma Dott.ssa

SIMONA CARACENI

Sessione III

Anno Accademico 2006-200

0 INDICE

Introduzione 5 1. L’interattività raccontata dal cinema di fantascienza 15 1.1 Perché la fantascienza? 15 1.2 Cinema di fantascienza e nuove tecnologie 17 1.3 La risposta cinematografica all’interattività 19 1.4 L’esistenza dentro i computer 22 1.4.1 I monti frattali di Tron 22 1.4.2 Il Tagliaerbe: il lato oscuro del virtuale 22 1.4.3 Johnny Mnemonic: “una fiaba per l’era informatica” 24 1.5 Pensare apparecchiature per riprodurre esperienze 26 1.5.1 Brainstorm: nella testa altrui 28 1.5.2 Fino alla fine del mondo: dentro i ricordi 29 1.5.3 Strange Days: una fuga multisensoriale 31 1.6 Essere una simulazione? 33 1.6.1 Nirvana: la simulazione prende coscienza 33 1.6.2 Vivere un’illusione 36 1.7 Gli universi paralleli di Matrix 37 1.8 eXistenZ e Il tredicesimo piano 41 1.9 Alcune chiavi interpretative 44 1.9.1 Corporeità 44 1.9.2 Sacralità 45 1.9.3 Collettività 46 1.9.4 Iper-realismo 46 1.9.5 Sogno/Incubo 47 2. Verso nuove forme cinematografiche 49 2.1 Tecnologia e cultura 52 2.2 Il corpo “simulato” 59 2.3 Expanded Cinema ed interattività 63 2.4 Nanotecnologie e video-sorveglianza 67 2.5 “Dal vivo” 69 2.6 Nuove maniere di raccontare 72 2.6.1 La serialità su Internet 75 1 2.7 Un ritorno al teatro 76 2.7.1 Monsters of Grace: un’Opera virtuale 81 2.7.2 Lo spettatore in azione 82 2.7.3 Dal cinematografo al Teatro 83 2.7.4 Jeffrey Shaw ed il recupero del Panorama 85 2.8 Videogiochi e 3D 85 2.9 Cinema olografico o neurocinema? 89 2.10 Il cinema interattivo: caratteristiche 94 2.11 Il cinema interattivo: esempi 98 2.11.1 Raduz Çinçera 98 2.11.2 Josef Svoboda 99 2.11.3 Peter Weibel 101 2.11.4 Lynn Hershman Leeson 101 2.11.5 Chris Hales 103 2.11.6 Perry Hoberman 104 2.11.7 Wheel of life (1991) 104 2.11.8 Tall ships (1992) 105 2.11.9 Desert Rain (1999) 105 2.11.10 BodySPIN (1999 – 2000) 106 2.11.11 Standing Ovation (2001) 106 2.11.12 Alphawolf (2001) 107 2.11.13 Run motherfucker run (2001 – 2002) 107 2.11.14 Sally or the Bubble Burst (2002) 108 2.11.15 Be Me (2002) 108 2.11.16 So.So.So. (2002) 109 3. Un mercato per il cinema interattivo 111 3.1 Convergenza tecnologica, prima di tutto 111 3.1.2 Il caso Sony 114 3.2 Contenuti convergenti 116 3.2.1 Matrix e il fenomeno di screen bleed 118 3.2.2 Il video musicale: accelerated cinema 119 3.2.3 Peter Greenaway 120 3.2.4 L’interattività sensuale di Hi-Res! 120 3.3 Interattivo e digitale 122

2 3.3.1 Una casa interattiva 123 3.3.2 I generi del digitale 124 3.3.3 Attori virtuali 125 3.3.4 La simulazione 126 3.4 L’interattività a casa propria 127 3.4.1 Il DVD: “Schiaccia play per accedere al futuro” 127 3.4.1.1 Time Code di Mike Figgis 129 3.4.2 Dal videodiario a YouTube 129 3.4.2.1 Le licenze Creative Commons 130 3.5 Dal videogioco al cinema interattivo 131 3.5.1 Il modding e l’interattività “dal basso” 133 3.5.2 Le miniere d’oro dei videogiochi 134 3.5.3 Le potenzialità didattiche del gioco interattivo 134 3.6 Pubblicità interattiva 135 3.6.1 La pubblicità dentro il videogioco 137 3.7 I pubblici dell’interattività 138 3.8 Nuovi media, nuove piattaforme, nuovi contenuti 141 Note conclusive 145 Appendice 151 10 anni di nuove tecnologie 153 A quattr’occhi con Bruce Sterling 159 Questionario 161 Bibliografia 173 Opere consultate 181 Filmografia 183 Sitografia 185 Figure 187

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4 INTRODUZIONE

Questo lavoro prende avvio da una semplice quanto ovvia constatazione riguardo al contesto socio-economico e mediatico che è stato di ispirazione alle pagine che verranno. Apparteniamo, infatti, ad un frangente storico spaventoso quanto strabiliante, in cui l’informazione ha assunto i tratti del bombardamento comunicativo e remote della terra possono essere collegate tra loro nel giro di secondi. Assistiamo quotidianamente ad una proliferazione tecnologica che supera, in taluni casi, le stime dei più lungimiranti futurologi del passato. In tutto ciò, l’agire umano è costantemente mediato da dispositivi ormai talmente integrati al nostro vivere da risultare assolutamente familiari ed indispensabili. La cultura, la socialità, la politica e l’economia sono sfere alle quali partecipiamo in forma rinnovata, grazie ad un ventaglio sempre più ampio di filtri tecnologici. Considerato il panorama globale, sorge dunque spontaneo, tra gli esperti e gli amanti del cinema, il desiderio di interrogarsi su quale sarà il destino della settima arte e quali le modifiche a cui essa andrà incontro. E’ infatti sufficiente prendere brevemente in esame gli ultimi decenni di storia del cinema per rendersi conto dei notevoli cambiamenti che hanno rivoluzionato non solo il testo filmico, ma anche le modalità ed i luoghi in cui avviene la sua fruizione. Artefici di tali mutamenti non sono, come abbiamo anticipato, i soli cambiamenti di ordine culturale, sociale ed epistemologico, ma anche ed inevitabilmente i progressi raggiunti nel campo della scienza e della tecnica, il cui impatto sull’industria culturale ha indubbiamente contribuito a ridisegnare il volto del cinema. Termini quali “multimedialità”, “ipertestualità” ed “interattività” sono divenuti parte integrante del lessico comune, tanto da assumere un significato vago che definisce un’enorme varietà di prodotti e di supporti. L’intento di questo lavoro sarà dunque di portare maggior chiarezza su tali vocaboli e sulla loro accezione nell’ambito cinematografico. Ci occuperemo in particolare di illustrare i risvolti ed i significati del binomio “cinema interattivo”, espressione ricorrente nei discorsi mediatici, ma di cui continua, tuttavia, a risultare oscuro il senso effettivo. Partiamo dunque, con piacere, dal primo termine del binomio: il cinema. Questa la definizione che il dizionario on-line De Mauro Paravia fornisce del cinema e del film:

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cì|ne|ma1 s.m.inv. FO

1a arte e tecnica della cinematografia: invenzione, nascita del c., storia del c., essere appassionato di c., amante del c. 1b industria cinematografica: il mondo del c., crisi del c. 1c produzione cinematografica propria di un paese o di un’epoca: il c. neorealista italiano, il c. degli anni ’30 2 sala in cui si proiettano film su grande schermo: andare al c., c. di prima visione, di seconda visione (accorc. cine)

film s.m.inv. FO

1 pellicola cinematografica o fotografica: f. in bianco e nero, f. a colori, f. a 35 mm 2 opera cinematografica, spec. lungometraggio di genere narrativo: girare, produrre un f., andare a vedere un f., f. comico, drammatico, f. sentimentale, impegnato, f. dell’orrore, d’azione, giallo, poliziesco; un f. di John Ford, di Antonioni | estens., arte cinematografica, cinematografo: storia del f. 3 CO sottile strato, patina | leggera pellicola di plastica per imballaggio, protezione, ecc.

La definizione del De Mauro ci pare piuttosto completa, giacché considera il cinema in quanto arte, industria, prodotto situato spazialmente e temporalmente e, in ultima

1http://www.demauroparavia.it, consultato in data 31/01/2008. 6 istanza, in quanto luogo di fruizione di un testo filmico. Al contrario, dalla descrizione del termine “film” emerge una visione anacronistica di questo, come pellicola cinematografica” o “lungometraggio di genere narrativo”, che si scontra inevitabilmente con le innumerevoli possibilità cinematografiche del contesto attuale. Lo scopo di questo lavoro sarà appunto di esplicitare ulteriormente le direzioni nelle quali il testo filmico si è evoluto, in particolare per quanto riguarda l’acquisizione di una maggiore interattività. A tal fine, passiamo dunque a prendere in esame il lemma aggiuntivo che, nelle pagine seguenti, andrà ad affiancarsi al sostantivo “cinema”:

in|te|rat|tì|vo2 agg.

1 CO di ente, elemento e sim., che interagisce con un altro, interagente: fenomeni interattivi | relativo a un’interazione, che si basa su elementi che interagiscono tra loro: arte interattiva 2 TS inform. ⇒conversazionale | di terminale e di programma, che permettono di richiedere e di modificare dati contenuti in archivi di un elaboratore centrale

in|te|ra|zió|ne s.f.

1 CO azione, influenza reciproca tra due o più fenomeni, elementi, forze, ecc. | TS psic., sociol., relazione fra due persone; i. sociale, in cui ciascun soggetto modifica i propri comportamenti in rapporto a quelli dell’altro, anticipandoli o rispondendovi 2 TS fis., processo per cui due o più campi, corpi, sistemi, ecc. agiscono l’uno sull’altro modificando reciprocamente il proprio stato

2 http://www.demauroparavia.it

7 3 TS chim., azione reciproca tra due molecole o due gruppi chimici che dà luogo a nuovi legami 4 TS genet., cooperazione di geni in grado di far comparire un determinato carattere 5 TS elettr., modificazione di una radioonda da parte di un’altra di frequenza molto diversa

Interattività significa in sostanza la possibilità da parte del fruitore di modificare un costrutto in tempo reale ed è una caratteristica tipica della comunicazione umana, ma non di media tradizionali quali libri, film o quadri. . Un prodotto interattivo consente, infatti, all'utente di muoversi con grande libertà e flessibilità, senza dover rispettare tempi o formati nell'organizzazione e architettura dei contenuti. Ne consegue che il “cinema interattivo”, per potersi definire tale, dovrà presentare elementi che interagiscano tra loro, modificandosi reciprocamente, e che tale interazione avrà luogo, in alcuni casi, per mezzo di un terminale o di un programma che permetta “di richiedere e di modificare dati contenuti in archivi di un elaboratore centrale3”. Il concetto di interattività è, infatti, strettamente legato a quello di multimedialità, ossia una comunicazione tra uomo e macchina, che non avviene più attraverso dispositivi e linguaggi complessi, ma grazie ad interfacce familiari e user- friendly. Al fine di penetrare ancora più a fondo il nostro oggetto di studio, abbiamo di seguito pensato di domandare direttamente alle persone quale fosse la loro idea di interattività applicata al cinema. E’ stato così stilato un questionario di sei domande sull’argomento, affidato poi ai magici poteri della rete e della posta elettronica, in attesa di risposte illuminanti. Non si è trattato ovviamente di una ricerca valida dal punto di vista statistico o scientifico – non essendo quello il vero scopo -, ma piuttosto di una “richiesta di aiuto al pubblico” – come direbbe un presentatore di quiz televisivi – al fine di cogliere in maniera più lucida le idee, le aspettative ed i timori degli individui nei confronti di una cinematografia di matrice interattiva. Le domande sono state distribuite tramite email, ad amici e conoscenti che rientrano in una fascia di età tra i 20 e i 30 anni, ossia appartenenti alla prima generazione ad essere cresciuta in

3 http://www.demauroparavia.it 8 stretta familiarità con tecnologie digitali e nuovi media quali il cellulare, il Personal Computer ed Internet. Probabilmente le persone intervistate apparterranno dunque, almeno in parte, alla prima generazione di genitori che non si porrà alcun problema di natura tecnica nell’accompagnare i propri figli alla visione di un film interattivo in una sala futuristica attrezzata ad hoc, o almeno così mi piace sperare. Dall’indagine sono emerse visioni plurime del cinema interattivo, che possono essere riassunte come segue. a. un cinema navigabile di cui è possibile modificare l’intreccio, secondo un modello simile al DVD e al libro-game :«un esempio potrebbe essere un DVD in cui tu salti alle scene a seconda di ciò che vuoi far fare al protagonista»;

b. un cinema in cui l’utente è coinvolto in tutte le fasi creative, con la «possibilità di “partecipare” in fieri alla costruzione, sia per quanto riguarda la sceneggiatura che l'utilizzo degli attori, e di poter seguire via web la produzione, le riprese e la post- produzione»;

c. un cinema sensoriale «che metta in funzione tutti i sensi, non solo la vista e l'udito, ma anche il tatto, il gusto, l'olfatto»; d. una piattaforma di home entertainment altamente evoluta: «La prima cosa che mi viene in mente e' una nuova concezione di distribuzione di opere cinematografiche direttamente via internet in home theatre casalinghi», oppure «un cinema da casa nel quale tu premi un pulsante e scende uno schermo, si abbassano totalmente le luci e partono gli applausi stile telefilm americano»; e. un cinema basato sulla Realtà Virtuale e vicino al videogioco, i cui film «coinvolgono lo spettatore, il quale può influire sulla trama ed interagire con i personaggi non solo grazie alla sua presenza virtuale, ma semplicemente con il suo stato d'animo».

Vari sono i timori espressi nei confronti di una modifica della fruizione filmica in senso interattivo, secondo l’inevitabile tendenza dell’essere umano a paventare scenari distopici per il vicino futuro. Scrive uno degli intervistati, «l’avvento imminente della

9 realtà virtuale credo possa avere pesanti ripercussioni in ambito “cinematografico”…qualcuno disse al tempo dell’avvento del sonoro “ora mi mancheranno gli odori”… ecco credo che con la realtà virtuale mi mancheranno un sacco di cose!», e un altro nomina il «rischio di degenerare fortemente il concetto di cinema e quindi di film che abbiamo ora». Molto più unanimi risultano invece le previsioni riguardo ai luoghi di consumo del cinema interattivo, che vedono contrapporsi da un lato multi-sale ad alto livello tecnologico e contenuto commerciale e dall’altro ambienti privati e domestici. C’è chi scrive: «Penso che le multisale potranno ancora “specializzarsi” ulteriormente e diventare sempre più tecnologiche. Credo che il luogo d'elezione del cinema del futuro siano proprio loro. Forse i grandi musei potrebbero adibire aree alla proiezione cinematografica di film ad alto contenuto tecnologico. O magari anche i parchi divertimento potranno aprire un'area video» e chi invece ritiene che «lo scenario futuribile della realtà virtuale potrà continuare il processo segregativo degli individui contemporanei, potremo fruire del “film” nelle nostre camerette… per poi parlarne in chat senza allontanarci troppo dalla nostra poltrona». L’interrogazione riguardo alle tecnologie che avranno impatto sul cinema pare risolversi anch’essa nella dicotomia tra ambiente casalingo e commerciale. Le risposte slittano così dal cinema ricevuto via Internet, all’integrazione tra Personal Computer, TV e cinema, per passare invece a sale dotate di «dispositivi che coinvolgano tutti i sensi» grazie al proprio elevato potenziale tecnologico: «ritengo che le tecnologie del suono e dell'immagine si svilupperanno sempre di più al fine di far dimenticare di trovarsi di fronte a proiezioni. Immagino supporti visivi ed uditivi ancora più sviluppati di quelli odierni (maxischermi, proiezioni digitali, 3D, dolby ancora più sofisticati), e postazioni in cui avere la possibilità di vedere l'azione in maniera personalizzabile», e ancora, «non ci sarà più lo schermo, solo le poltrone, ognuna dotata di “occhialoni”, così tutti andranno a vedere lo stesso film, ma ognuno ne vedrà una sfumatura particolare. Il cinema interattivo come lo immagino io è più che altro una nuova forma di divertimento, più simile ad un parco giochi». Tra i generi di cui si sottolinea invece il potenziale interattivo i più gettonati risultano la fantascienza, l’avventura, gli action movies, i fantasy e le ambientazioni tratte da videogiochi. Tra le eccezioni qualcuno sostiene: «mi viene da pensare che il genere sentimentale possa essere quello più facile da sviluppare in ambito interattivo, in quanto permette una maggiore interazione con l'intreccio - ne potrebbero andare pazzi anche

10 gli spettatori di alcune serie televisive tipo Beautiful -» oppure, «certamente quello pornografico, per il quale è maggiormente sentita la necessità dello spettatore di intervenire nella vicenda!». In riferimento agli attori, Johnny Depp, Keanu Reeves e Russel Crowe sembrano riscuotere la fiducia degli intervistati in quanto interpreti di film interattivi, anche se qualcuno esplicita dubbi metafisici: “non so se ci saranno più attori o solo ologrammi”. Tra i registi spopola Tim Burton, seguito da Steven Spielberg, George Lucas, i fratelli Cohen, Ridley Scott, Quentin Tarantino e David Lynch. Per un’analisi più specifica delle interviste rimandiamo in ogni caso ai 12 contributi selezionati, che abbiamo riportato in Appendice a questo lavoro. Ora che i lettori sono stati condotti nel vivo dell’avvincente tematica rappresentata dal cinema interattivo, è giunto il momento di presentare il lavoro di ricerca da noi svolto, che si sviluppa e prende corpo nei seguenti capitoli. Dal momento che l’argomento dell’interattività è preso in esame da un punto di vista specificamente cinematografico, abbiamo scelto di avviare l’indagine con una disamina dell’immaginario e dell’iconografia che il cinema di fantascienza ha prodotto a riguardo delle tecnologie interattive. Tale scelta trova una motivazione precipua nel fatto che i progressi culturali prendono avvio innanzitutto da fantasie e slanci dell’immaginazione: in sostanza l’essere umano raffigura le proprie aspirazioni a livello creativo ed artistico prima ancora di approdare alla loro realizzazione concreta. Inoltre, essendo questo un lavoro che nasce in seno ad un percorso di specializzazione nelle discipline cinematografiche, il patrimonio filmico si presta perfettamente a divenire punto di partenza per le nostre considerazioni. Il primo capitolo, dal titolo “L’interattività raccontata dal cinema di fantascienza”, svolge dunque un’analisi cronologica e contenutistica di film fantascientifici che hanno avuto un impatto determinante nel consolidare l’immaginario di un pubblico di scala mondiale, generando mondi possibili ed universi simbolici riguardanti l’interattività. Nel far ciò si distinguono film fondati su un’esibizione esplicita delle tecniche cinematografiche digitali da altri intesi maggiormente ad una rappresentazione di mondi paralleli, tra reale e virtuale. Particolare attenzione è rivolta ai dispositivi messi in scena come strumenti di accesso all’interattività, senza tralasciare le inquietudini ed i paesaggi distopici che attingono a piene mani dalla letteratura cyberpunk. Tra i film presi in esame quelli analizzati in maniera approfondita sono Tron, Brainstorm, Il Tagliaerbe, Fino alla fine del mondo, Johnny Mnemonic, Strange Days, Nirvana, Matrix, eXistenZ ed Il tredicesimo piano. Dal loro studio emergono mutate concezioni del corpo e del suo

11 ruolo al cospetto dei sistemi tecnologici, che evidenziano il sorgere di una fisicità rinnovata così come il dubbio che anche l’essere umano appartenga all’universo delle simulazioni. Al termine del capitolo si trae infine una visione d’insieme del rapporto tra cinema di fantascienza e interattività, che sembra fondarsi essenzialmente sui concetti di corpo, sacro, collettività, iper-realtà, sogno ed incubo. Nel secondo capitolo, “Verso nuove forme cinematografiche”, ci si addentra invece nelle attuali sperimentazioni volte a coniugare il cinema con modalità fruitive di tipo interattivo. Si amplia il discorso relativo al legame tra il cinema e la tecnologia e al ruolo svolto dal corpo all’interno di un tale sodalizio. Si procede esaminando una ad una le forme espressive e tecnologiche che possono essere integrate al cinema per renderlo più partecipativo. Partendo dalle innovazioni introdotte negli anni Settanta dalla corrente dell’Expanded Cinema, si prendono in considerazione le nanotecnologie, i sistemi di video-sorveglianza, i live happenings, il teatro, i videogiochi, le tecniche 3D, fino ad approdare all’olografia e al neurocinema. Una tale panoramica si conclude con l’illustrazione di alcune opere che appartengono alla categoria del “cinema interattivo” e di alcuni artisti che hanno fornito un apporto fondamentale agli sviluppi in tal senso. Tra questi Raduz Çinçera, Josef Svoboda, Peter Weibel, Lynn Hershman Leeson, Chris Hales e Perry Hoberman. Dopo aver tracciato i contenuti e le tecniche che più si prestano alla creazione di testi filmici interattivi, si è pensato di fornire un inquadramento economico, in grado di dipingere il potenziale mercato per tali prodotti. Il capitolo “Un mercato per il cinema interattivo” tratteggia in prima istanza l’attuale contesto di convergenza dei contenuti mediatici, che, da un lato si espandono su più piattaforme in contemporanea, creando veri e propri universi mediatici, e dall’altro spingono alla creazione di dispositivi tecnologici capaci di integrare moltissime funzioni su di un unico supporto. Emergono così gli attori fondamentali di una tale partita per l’affermazione degli standard, che vede impegnati l’industria dell’elettronica e dell’informatica, gli operatori di telecomunicazioni, i consumatori e le istituzioni pubbliche nazionali ed internazionali. Un approfondimento sul tema della progressiva digitalizzazione serve infine a fare maggior chiarezza riguardo ai giochi di potere e alle possibilità di espansione dell’industria cinematografica. A tale proposito, si è scelto di investigare lo stretto rapporto tra il cinema ed il videogioco, che si delinea come uno dei settori più prolifici e redditizi dal punto di vista commerciale. Dalle prospettive macro il discorso vede poi uno slittamento verso il micro, in particolare per ciò che riguarda le opportunità di

12 interattività cinematografica offerte dall’ambiente domestico, grazie all’home video e ad Internet. In ultima analisi, si esaminano alcuni interessanti processi pubblicitari, che si avvalgono di tecniche interattive e delineano un pubblico di spettatori reali e potenziali per i nuovi prodotti cinematografici. A conclusione di questa ricerca ci è parso utile inserire, infine, alcuni recenti contributi che confermano le ipotesi da noi formulate. Riportiamo, infatti, l’intervento di Matt Aitken della Weta Digital, di Vicki Dobbs Beck dell’Industrial Light and Magic e di Bruce Sterling, interrogati riguardo alle tecnologie dei prossimi 10 anni durante una tavola rotonda presso il Future Film Festival di Bologna nel gennaio 2008. All’interno dello stesso evento abbiamo infine avuto l’onore di rivolgere qualche domanda a Bruce Sterling, uno dei fondatori della corrente letteraria cyberpunk, riguardo al cinema interattivo e alle sue possibili derive. Non intendiamo tuttavia proseguire ulteriormente con le rivelazioni riguardo al contenuto delle molte pagine che seguono. Non vi è, infatti, nulla di peggio che essere privati del gusto e della curiosità della scoperta. A questo punto non ci rimane dunque che congedarci con discrezione, nell’ardente speranza che la vostra sia una lettura quanto meno …interattiva!

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14 1. L’INTERATTIVITA’ RACCONTATA DAL CINEMA DI FANTASCIENZA

La capillare diffusione ed il successo di media interattivi quali i telefoni cellulari, la TV on-demand, le console di gioco e, primi fra tutti, i Personal Computer lasciano senza dubbio ipotizzare un futuro in cui anche il cinema dovrà cimentarsi sempre più da vicino con un maggior grado di manipolazione da parte dei propri spettatori e utenti. Nella pratica queste sperimentazioni risultano ancora limitate a tentativi isolati, spesso confinati all’interno di eventi ed esposizioni rivolti agli esperti del settore, in un dialogo costante tra il cinema e le arti visive, anche se è lecito prevedere incisivi sviluppi per il futuro. A dispetto della scarsa interattività che i testi filmici offrono tuttora sul piano concreto, il cinema sembra, infatti, aver già sviluppato, all’interno dei propri racconti, un immaginario ampio e variegato di quello che potrebbe essere il proprio futuro per quanto riguarda il rapporto tra utente e prodotto audiovisivo. Il nostro interesse si concentrerà a questo punto sull’indagine di quelle forme con cui il cinema ha delineato i propri sentieri a venire e, a tal fine, ci soffermeremo in particolare sul genere fantascientifico, che costituisce uno strumento interpretativo fondamentale nell’esplorazione di scenari meta-cinematografici futuribili.

1.1 PERCHE’ LA FANTASCIENZA? La fantascienza, a partire dalle proprie origini fino ai nostri giorni, sembra del resto distaccarsi in maniera rilevante dagli altri generi classici, partoriti all’interno dello studio system hollywoodiano, rispetto ai quali si afferma in un periodo nettamente successivo. Nel 1968 Stanley Kubrick rivoluziona, infatti, i paradigmi della science fiction con il suo “film-monolito” 2001: Odissea nello spazio, ma è solo nel 1977 che George Lucas e Steven Spielberg la fanno assurgere definitivamente a genere elettivo della New Hollywood, con opere del calibro di Guerre Stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Il cinema di fantascienza, che si consolida dunque in un momento storico concomitante al tramonto del sistema classico hollywoodiano e, soprattutto, in piena Guerra Fredda, sembra investito di un preciso compito di negoziazione tra le istanze di carattere sociale e tecnologico contemporanee alla sua produzione. I suoi racconti contribuiscono di fatto a sviluppare l’immaginario di ciò che potremmo 15 definire il “futuro della scienza”, ci prefigurano scenari socio-tecnologici possibili, generalmente con l’intento di “mettere in guardia dai pericoli cui si sta incamminando la civiltà”4. In letteratura come al cinema, la fantascienza si delinea dunque come luogo di costruzione, evoluzione e cancellazione di quegli archetipi su cui si fondano le nostre previsioni riguardo al futuro, al progresso tecnologico e alle minacce che incombono sul destino dell’umanità, secondo l’impronta teleologica distintiva delle società occidentali. Come sostenuto dall’illustre scrittore Philip K. Dick, la fantascienza è senza dubbio “il genere narrativo più vasto e consente l’uso delle idee più potenti e avanzate a disposizione”, oltre a permettere “lo studio dell’uomo nel contesto di società di tipo e complessità variabili5”. Entro i suoi confini si originano così mondi fittizi, che ci permettono di analizzare per astrazione quello “reale”, sviluppandone una critica che spesso raggiunge una notevole complessità simbolica e teorica. Un’altra ragione dell’enorme potenziale sociale e sociologico di questo genere risiede nella sua collocazione in bilico tra scienza e magia, un tratto determinante nel garantire il fascino delle sue narrazioni. Le evoluzioni tecnologiche ed istituzionali prefigurate dalla science fiction non rimangono infatti incatenate entro i limiti di un razionalismo rigoroso, ma sconfinano liberamente nella fantasia, nel misticismo e nella sacralità, senza l’obbligo di fornire spiegazioni plausibili. Sfruttando l’ambiguità, il mistero ed il complotto come ingredienti fondamentali, la fantascienza si caratterizza così per la sua notevole interattività, ancor prima di cimentarsi con la rappresentazione effettiva di scenari interattivi. Nel racconto fantascientifico la cooperazione del lettore/spettatore svolge infatti un ruolo imprescindibile, in quanto la narrazione mira a produrre in chi la fruisce un iniziale “shock convulsivo6”, immediatamente trasformato in gioia alla scoperta di un nuovo che, per essere compreso, abbisogna di un’interpretazione e di una riflessione brillanti ed attive.

4 Menarini, Roy. Visibilità e catastrofi: saggi di teoria, storia e critica della fantascienza. Edizioni della Battaglia: Palermo e La luna nel pozzo: Bologna, 2001, p. 9.

5 Cit. Dick, Philip K. Mutazioni: scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari. Trad. It. Milano: Feltrinelli, 1997. In Denunzio, Fabrizio. Pieghe del tempo. I film di guerra e di fantascienza da Philip K. Dick a “Matrix”. Editori Riuniti: Roma, 2002, pag. 21.

6 Cit. Dick, Philip K. Mutazioni: scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari. In Denunzio, Pieghe del tempo. I film di guerra e di fantascienza da Philip K. Dick a “Matrix”, p. 28. 16 1.2 CINEMA DI FANTASCIENZA E NUOVE TECNOLOGIE Il cinema di fantascienza costituisce infine una vero e proprio teatro di sperimentazione per le tecnologie e gli apparati che la cinematografia sceglie, di volta in volta, di far propri. Tale dialettica tra cinema e tecnologia risulta evidente sin dagli albori del cinema fantastico, riconducibili ai trucchi di Georges Méliès e al suo Voyage dans la lune, ormai passato alla storia per aver precorso i tempi nell’utilizzo di stilemi e trucchi destinati ad un successo plurisecolare. Dagli anni Novanta in particolare, il carattere magico e meraviglioso del cinema delle origini sembra del resto essere tornato in grande auge tra il pubblico, segnando un ritorno del cinema contemporaneo ad un “cinema delle attrazioni”, come argomenta in maniera sagace e convincente Andrew Darley nel suo libro Videoculture Digitali7. Fortissimo è stato del resto l’impatto esercitato a livello cinematografico dalla “rivoluzione digitale”, che ha offerto la possibilità di produrre immagini prive di referenti reali, sconvolgendo completamente il concetto di realismo ontologico di cui André Bazin e Roland Barthes sono stati i principali sostenitori teorici. Con la conversione a tecniche filmiche digitali, iniziata negli anni Ottanta, il contenuto dell’inquadratura cinematografica ha infatti perso parte del proprio valore indicale di traccia di una presenza, lasciando spazio ad un cinema vissuto soprattutto come spettacolo delle mirabilia messe in scena da un abile quanto creativo impiego dei codici informatici, “un’euforia che potremmo battezzare ‘mouse-stylo’”. Roy Menarini descrive con queste parole il rinnovato panorama cine-digitale:

“[…] l’inquadratura cinematografica diventa una vetrina, un’esposizione universale dei dolciumi digitali, in cui produrre una ricerca sensazionalistica sui colori – ad es. il recupero delle tonalità Technicolor di Titanic -, sull’estetica del mostruoso e del teratomorfo – gli alieni anni Novanta -, sulla digitalizzazione del cinema animato – Disney, Pixar, Dreamworks, PDI – etc. Sembra quindi uno scenario in certo qual modo similare a quello di fine ‘800, durante il quale, alla fine di un lungo processo di sfibramento dell’esperienza artistica classica, si afferma una civiltà ottica, prestidigitatoria e magico-scientifica, con panorami, diorami, lanterne magiche, praxinoscopi e tutto quello che comunemente si definisce ‘pre-cinema’.8”

7 Darley, Andrew. Videoculture digitali: spettacolo e giochi di superficie nei nuovi media. Franco Angeli: Milano, 2006.

8 Menarini, Roy, “L’età della mouse-stylo ovvero gli spazi della postmodernità”. In Menarini, Visibilità e catastrofi: saggi di teoria, storia e critica della fantascienza, p.16. 17 Questo nuovo “stile” cinematografico, strettamente legato all’applicazione della computer graphic, porta del resto traccia del clima culturale che lo vede sorgere. Innumerevoli studiosi definiscono questo periodo con l’epiteto ormai logoro di “postmoderno”, che sta ad indicare, tra le altre cose, un sapere frammentato (in bit?) e una generale eccitazione per il ludico, pienamente espressa da fenomeni quali il gioco ed il quiz. Un tale Zeitgeist è dunque destinato a generare prodotti ibridi, rimodellabili ed interattivi – grazie al digitale è del resto possibile dar vita ad un numero infinito di opere filmiche a partire da una sola -. A mutare è non solo il rapporto tra il cinema ed il computer, ma anche quello più profondo tra l’individuo e il mondo, tra il corpo e le tecnologie, tra organico ed inorganico. Il nuovo apparato tecnologico, fornito di sempre più sofisticati strumenti digitali, lascia dunque intravedere un’ulteriore via che il cinema può imboccare nella sua perenne sfida al fine di esteriorizzare i processi mentali e divenire coscienza pura, immagine del tempo. La diffusione di software informatici per il cinema sembra infatti raccogliere ed interpretare visivamente un tale clima teorico e culturale, che mette in forte crisi i concetti di tempo e di percezione. La possibilità di convivenza tra realtà parallele, concrete e virtuali, indebolisce l’idea di una storicità lineare di matrice platonica, in favore di un concetto di realtà multipla e frammentata o, detto in termini tecnici, multi - windowing. Se il tempo cessa dunque di rappresentare un continuum cronologico, anche le attività mnemoniche risultano inattendibili ed il ricordo assume una natura incerta e dubbia, così come la percezione. Da un lato le tecnologie sembrano costituire la fonte di accesso ad un’allucinazione consensuale che abbandona il corpo dietro di sé, come un guscio vuoto, estraneo, “popolato solo di moltitudini ( batteriche, organiche, plasmatiche, escrementizie)9”; dall’altro il corpo, dotato di nuove protesi digitali, pare acquisire una sensorialità superiore, in grado di superare barriere fisiche e di accedere ad una categoria di emozioni nuove e più complesse. Gli anni Ottanta e Novanta vedono una cinematografia profondamente impegnata a trovare risposta agli interrogativi relativi alla diffusione di realtà virtuali interattive. Nei film di quegli anni si approfondisce in particolare il concetto di “ciberspazio”, coniato nel 1984 dal padre fondatore della letteratura cyberpunk, William Gibson, in riferimento ad uno spazio generato tramite il computer e sperimentato da esseri umani, il cui sistema nervoso è direttamente interfacciato con il processore. Il cyberspace è nella sostanza una materializzazione dell’illusione che si prova davanti ad un computer

9 Denunzio, Pieghe del tempo. I film di guerra e di fantascienza da Philip K. Dick a “Matrix”, cit. p. 141. 18 riguardo l’esistenza di un mondo interno ad esso, la concettualizzazione di quello spazio disgregato, discontinuo e caotico, così accuratamente analizzato dai teorici della post-modernità. L’esigenza di mettere in scena questa nuova categoria spaziale, al tempo stesso virtuale ed interattiva, anima di conseguenza numerose opere filmiche del suddetto periodo, di modo che i temi comuni al movimenti letterario cyberpunk trovano nel cinema una materializzazione del proprio immaginario. “Uomini interfaccia, nuove droghe, tecnologie introdotte nel corpo umano, totalitarismo, mutazioni, riscrittura del passato10” pervengono così ad una trasposizione visiva sempre più realistica nella cinematografia fantascientifica.

1.3 LA RISPOSTA CINEMATOGRAFICA ALL’INTERATTIVITA’ Dal punto di vista figurativo ci sembra lecito individuare due filoni rappresentativi in cui si schierano i film che dipingono le mutate categorie spazio-temporali ed interazionali. Se esiste una serie di opere che tentano, infatti, di raffigurare il mondo dentro i computer sulla base delle tecniche digitali via via disponibili (Tron, Johnny Mnemonic, Il Tagliaerbe), ve ne sono altre che adottano invece, con risultati spesso più efficaci, la strategia di eludere il predominio delle immagini digitali, facendo leva invece sull’idea di realtà parallela, fittizia, ricostruita (The Truman Show, eXistenZ, Il tredicesimo piano). In tale panorama, il film Matrix sembra essere l’unico ad aver realizzato un eccellente connubio tra effetti speciali e profondità descrittiva di mondi paralleli, anche grazie al notevole scarto nelle tecnologie disponibili rispetto ai film precedenti. A dispetto delle molteplici scelte di resa visiva, cui dedicheremo ampio spazio nella seconda parte del capitolo, è importante inquadrare il nucleo tematico che accomuna tutti i film sul virtuale, ovvero la possibilità di produrre uno spazio altro ed artificiale, che mantenga tuttavia un legame – generalmente di natura sia sensibile che intellettuale - con la sfera del quotidiano, un luogo dove il corpo ed il pensiero umano continuano a trovare una propria collocazione, benché digitalizzata. Le fantasie di questo cinema subiscono, come abbiamo già sottolineato, l’influenza della poetica cyberpunk, celebrata nelle opere di autori quali William Gibson, Bruce Sterling, Pat Cardigan, Paul Di Filippo, Ian Mc Donald ed altri ancora: gli spinotti collegati al cranio, i viaggi in mondi virtuali e gli incontri/scontri all’interno della rete divengono parte integrante dell’iconografia fantascientifica. Allo stesso tempo,

10 Caronia, Antonio. Cyberpunk : istruzioni per l'uso. Stampa alternativa: Viterbo, 1995, p.12. 19 secondo un meccanismo simmetrico, un capolavoro delle dimensioni di Blade Runner rappresenta un punto di partenza fondamentale per quegli stessi scrittori, a riprova dell’incessante quanto inevitabile dialettica tra letterario e cinematografico di cui il magistero di Philip Dick costituisce un’evidenza innegabile. Malgrado il sussistere di un immaginario tanto ampio ed approfondito al quale attingere, film quali Johnny Mnemonic o Il Tagliaerbe sembrano tuttavia fallire nel loro intento di mettere in scena il concetto di virtualità e di interazione totale con il computer: a loro sfavore si pongono infatti sia limitazioni di carattere prettamente tecnico e realizzativo, sia un mancato approfondimento teorico del discorso cyberpunk in campo audiovisivo, per cui è lecito in questo caso sostenere un’inferiore qualità del cinema in confronto alla letteratura. Come commentato da Roy Menarini:

“[…] i film che mettono in scena direttamente il mondo della rete e lo spazio virtuale trovano un ostacolo nella natura del cinema, che, d’accordo con Bazin, possiede un’ontologia realista per sua stessa nascita. La rappresentazione di realtà parallele non può che essere, quindi, una rappresentazione che manca a prima vista di luoghi intangibili o paradossali come pretende invece la letteratura cyberpunk. La tecnologia applicata al cinema, seguendo questo ragionamento, è diventata per film come Il Tagliaerbe una specie di “salto di qualità” grafico: si è cioè pensato che il linguaggio digitale, diverso da quello riproduttivo del cinema ma fuso in esso, potesse dar vita a quei micromondi alternativi virtuali che Brian McHale considera come sostituti dei mondi extraterrestri della science fiction classica. I risultati, compromessi da una troppo superficiale riflessione teorica, sono stati deludenti: immagini fantasiose, fasci di luci e colori, ricorso a false tridimensionalità sembravano più che altro ricordare la comune origine psicologica e mistica dei “viaggi” fuori dal proprio corpo.11”

Solo alla fine degli anni Novanta il processo di raffigurazione del virtuale al cinema può considerarsi giunto ad uno stadio di maturazione, grazie anche al definitivo sedimentarsi a livello socioculturale di un’idea di reale smaterializzato di cui il computer è generatore e divinità pagana. Nonostante un atteggiamento più ottimista nei confronti delle tecnologie digitali, l’avvento del virtuale non cessa tuttavia di generare angosce ed inquietudini. Come sostiene Antonio Caronia, l’umanità è messa davanti al

11 Menarini, Roy. “Il magistero di Philip K. Dick e il recente cinema di fantascienza americano”. In Menarini, Visibilità e catastrofi: saggi di teoria, storia e critica della fantascienza, p.65.

20 “conflitto tra un insieme di tecniche e pratiche comunicative a livello planetario che non ha eguali nella storia e la debole capacità di controllo del nostro cervello, ancorato a ritmi più dipendenti dalla biologia che dalla cultura12”. Il timore più diffuso riguarda in particolare il rischio di una perdita di identità e la scoperta della natura illusoria del reale, sensazioni illustrate con successo da narrazioni quali The Truman Show o Dark City, che non a caso riattualizzano temi e racconti di Philip K. Dick. Se il trionfo della schizofrenia incarna una delle ansie più ricorrenti nel contesto fantascientifico contemporaneo, il tradizionale conflitto tra individuo e macchina sembra invece cedere il passo ad una fusione sinergica tra i due poli, suggerita in campo medico dal successo della bioingegneria, lungo un percorso che culmina nella scomparsa di corpi e macchine all’interno del codice binario puro, ossia della “matrice”. Le tecnologie iniziano così a rappresentare un’oasi felice ed un punto di approdo per conservare e addirittura amplificare le emozioni vitali, un luogo in cui si lasciano alle spalle le brutture del reale per accedere ad un piacere mistico e di gran lunga più intenso. In questo senso i mondi virtuali divengono mondi emozionali, in cui l’uomo è in grado di provare sensazioni più pure ed astratte, le quali, benché ottenute per via elettronica, non perdono il loro legame imprescindibile con la natura e l’istintualità umane. Le tecnologie digitali, miniaturizzate e trasformate sempre più in accessori del corpo umano, divengono così l’oggetto di una nuova tipologia di fede da parte dell’umanità, che ad esse si affida per migliorare le proprie condizioni di vita. Le lenti a contatto, i pace maker, i lettori mp3, i telefoni cellulari, i palmari, i navigatori satellitari, i PC e tutte le tecnologie ancora in fase di elaborazione definitiva diventano espressioni imprescindibili della nostra esistenza e della nostra individualità, tanto che a volte sembra impossibile fare a meno di esse. In un tale contesto socioculturale sorto negli anni Novanta, l’evoluzione dei software informatici è approdata alla possibilità di produrre scenari completamente virtuali e movimenti di macchina simulati, all’interno dei quali si inserisce la recitazione degli attori. Lo scarto che gli effetti speciali tradizionali producono su riprese reali viene dunque eliminato ed il trucco perviene ad un grado di creatività pressoché assoluto. Il cinema che ne deriva è un prodotto multiplo, che strizza l’occhio contemporaneamente ad altre forme di rappresentazione visiva, tra cui la pittura, il fumetto, l’interior design, il videogioco, forme che richiedono un alto grado di partecipazione da parte dei propri fruitori, o, detto in altri termini, un elevato grado di interattività. Le pellicole che

12 Caronia, Cyberpunk : istruzioni per l'uso, p.23. 21 nascono da questi processi di contaminazione non solo riescono a ricreare universi futuribili complessi e tuttavia credibili, ma spesso e volentieri si estendono in nuove direzioni, dando vita a prodotti culturali nuovi come videogiochi, attrazioni per i parchi a tema, pupazzi e costumi di vario genere che rendono sempre più “interattivo” il rapporto dello spettatore con i contenuti del film. A conclusione di questa illustrazione delle modalità in cui il cinema fantascientifico si è relazionato con la problematica dell’interattività, sotto forma di inquietudini, così come di aspettative, ci sembra opportuno avviare un percorso al tempo stesso tematico e cronologico, relativo alle tecnologie virtuali ed interattive rappresentate in un insieme di film fantascientifici ritenuti, a tal fine, emblematici.

1.4 L’ESISTENZA DENTRO I COMPUTER Nel dare avvio al nostro meta-racconto sul cinema dell’interattività e della virtualità ci sembra opportuno partire dai primi anni Ottanta, periodo in cui fanno capolino nelle sale i primi tentativi di rappresentazione cinematografica di un’esperienza audiovisiva multisensoriale a cui accedere tramite un dispositivo elettronico. In queste prime opere la visualizzazione di un altrove immateriale risente della fascinazione per la computer graphic, tanto che il mondo “al di là” risulta principalmente una rappresentazione grafica di dati, la visualizzazione di astrazioni matematiche attraverso colori fluorescenti e figure euclidee, che modellano i paesaggi lungo i quali si muovono le proiezioni virtuali degli individui. Queste pellicole non ci mostrano un altro reale, contenuto dentro quello cui apparteniamo e facilmente confondibile con esso, bensì degli enormi database, degli archivi interattivi di “forme geometriche piuttosto semplici, immediate, che acquistano un carattere arcano e misterioso soltanto in rapporto alle straordinarie modalità necessarie per fruirne13”.

1.4.1 I monti frattali di Tron Tron, film di Steven Lisberger del 1982, è una delle prime opere filmiche a portare sullo schermo l’immaginario riguardante la realtà virtuale ed il ruolo attivo dell’individuo che vi accede. In questo caso specifico viene tracciata un’analogia tra i software ed i loro programmatori, indicati dal film con il termine “creativi”. I programmi assumono infatti fattezze e comportamenti equivalenti a quelli umani, al punto da essere identificabili con il loro creatore, vero e proprio alter ego in carne ed

13 Caronia, Cyberpunk : istruzioni per l'uso, p.19. 22 ossa. L’idea di fondo è quella di un’impronta umana incancellabile alla base di ciascun prodotto interattivo, in questo caso il videogioco Space Paranoid così come il Master Control Program. Flynn, uno dei protagonisti dell’avventura, viene letteralmente risucchiato all’interno del software e diviene semplice pedina di un videogioco potenzialmente mortale. Se riesce tuttavia a sfuggire al pericolo, è grazie al fatto di aver creato egli stesso la “prigione” dalla quale è evaso: “Siamo usciti da quel programma perché l’ho creato io14”, dichiara ai propri compagni di sventura. Il film sembra dunque sottolineare che le realtà interattive con le quali ci confrontiamo altro non sono se non un modello mentale umano, una costruzione intellettuale inevitabilmente filtrata da una soggettività, cosicché ciò che, a prima vista, appare come un dialogo tra un individuo ed un programma è in realtà un dialogo tra due individui, che fa semplicemente uso di un linguaggio avanzato, non naturale. Nel caso di Tron l’esperienza interattiva prende avvio tramite un laser che è in grado di digitalizzare il protagonista e trasportarlo all’interno di un elaboratore elettronico, in una scena riecheggiata in moltissimi film di fantascienza successivi, primo fra tutti Matrix. Il mondo digitale cui Flynn accede è un universo sostanzialmente ostile, che raccoglie in gran parte i più tradizionali timori fantascientifici. Si tratta di un ambiente in cui i software, e non più le macchine come accade nella fantascienza classica, hanno acquisito potere e si sono ribellati ai loro creatori; a tale proposito l’anziano scienziato afferma infatti: “prima o poi i computer e i programmi penseranno, mentre la gente smetterà di farlo15”. A dispetto delle tecnologie digitali ancora poco sviluppate, la messa in scena del film, affidata in buona parte alla computer graphic, riesce a ricostruire in modo chiaro e lodevole per i primi anni Ottanta un ambiente virtuale a metà tra un campo di battaglia e una galassia navigabile, in cui carri armati stilizzati si alternano a navicelle ed oggetti volanti. L’architettura minimal, industriale e imponente della fabbrica di videogiochi Encom si rispecchia evidentemente nello scenario digitale ospitato dai suoi calcolatori, secondo la logica precedentemente esposta di una virtualità come proiezione di “architetture mentali” già esistenti: davanti ai nostri occhi prendono dunque vita “monti frattali, canyon di circuiti e deserti di dati”16 cui la fantascienza contemporanea è grandemente debitrice. Su tale sfondo vediamo

14 Cit. Tron, Steven Lisberger,1982.

15 Cit. Tron.

16 Hanson, Matt. Il futuro imperfetto. Il cinema di fantascienza nell’era digitale. Atlante: Bologna, 2005, p.27.

23 contrapporsi le armate istituzionali del sistema operativo ed i programmi ribelli, tra cui Tron che dà il titolo al film, in uno scontro tra elementi rossi e blu che richiama il clima della guerra fredda e preannuncia la vittoria della razionalità e dello spirito d’indipendenza, espressi appunto dal colore blu. Se il mondo elettronico ripropone dinamiche e meccanismi caratteristici della realtà concreta, tra cui programmi antropomorfi, tutti questi elementi si dimostrano tuttavia potenziati dal punto di vista sensoriale e percettivo: la velocità aumenta esageratamente, urti, esplosioni e raggi laser raggiungono un’intensità impensata. Gli stessi esseri umani che accedono a tali spazi vedono le loro potenzialità nettamente incrementate, come ben dimostra il duello finale tra due equivalenti futuristici di Davide e Golia. Come afferma il programma-guardiano: “Tutto ciò che è visibile deve crescere al di là di sé stesso ed estendersi nel regno dell’invisibile17”. Tron è uno dei primi film a cimentarsi con il tema dell’esperienza virtuale interattiva e ad utilizzare in maniera massiccia la computer graphic, senza dubbio su ispirazione di Star Wars, girato anch’esso nell’era dei computer mainframe e dunque prima della rivoluzione del PC casalingo. Malgrado le limitazioni di carattere tecnico, il film si dimostra visionario nel cogliere due elementi fondamentali della “realtà virtuale”: da un lato lo stretto legame che ciascun prodotto interattivo intrattiene con i suoi inventori e dall’altro l’esasperato potenziamento sensoriale che pertiene inevitabilmente a questo tipo di esperienze.

1.4.2 Il Tagliaerbe: il lato oscuro del virtuale Quasi dieci anni dopo l’uscita di Tron, il 6 agosto 1991 il matematico Tim Berners Lee pubblica il primo sito sulla rete internet dando avvio ad un fenomeno destinato a raggiungere una portata globale e presto definito come World Wide Web. L’anno successivo, in un clima che senza dubbio risente dei contemporanei progressi informatici, esce al cinema un film di grande successo, che celebra il trionfo del codice binario e mette in guardia dai suoi poteri occulti, al limite del misticismo: Il tagliaerbe di Brett Leonard. Questa pellicola del 1992 inaugura una lunga serie di opere di Leonard dedicate al virtuale e, benchè i suoi contenuti risultino in parte sorpassati già alla sua uscita, Il Taglierbe diviene ben presto uno dei film culto per gli appassionati del genere, affiancato da un sequel nel 1995. L’opera di Leonard si apre con le parole riportate di seguito, che sembrano riassumere con chiarezza le aspettative riposte

17 Cit. Tron.

24 dall’umanità nelle tecnologie digitali fin dai loro primi sviluppi, in un discorso cinematografico che è sintomo chiaro di una visione culturale generalizzata e tuttora valida:

“All’inizio del nuovo millennio una tecnologia conosciuta come realtà virtuale sarà diffusamente utilizzata, essa permetterà a chiunque di esplorare mondi artificiali generati dal computer e, al pari dell’immaginazione, illimitati. I suoi creatori prevedono per essa milioni di utili applicazioni pratiche, altri temono invece che possa diventare una pericolosa forma di controllo della mente18.”

Il Tagliaerbe racconta in sostanza la trasformazione subita da un giardiniere ebete che cade tra le grinfie di un mad doctor a metà tra il sadico ed il filantropico, il quale aumenta le potenzialità intellettive del giovanotto grazie alle tecnologie cibernetiche, con effetti collaterali devastanti. Numerosi sono gli stereotipi che infarciscono la storia: lo scienziato poco coscienzioso, le istituzioni perverse pronte a trasformare le nuove tecnologie in potenti armi per l’assoggettamento delle masse, l’uomo comune portato alla pazzia dal progresso tecnologico. Al termine del film si ha l’impressione di un’opera tardiva, che si limita a riprendere tematiche e codici già messi in luce da film come Tron o Brainstorm, quasi dieci anni prima: l’ormai vicina frontiera del virtuale, il cui avvento travolgerà completamente il mondo sensibile, il carattere totalitario e dispotico delle tecnologie digitali, il pericolo latente che il contatto col virtuale conduca alla perdita della ragione. La realtà di cui Giobbe diviene divinità tecnologica è fatta di colori sgargianti, forme fluide e astratte, tra cui si aggirano personaggi che sembrano usciti da un quadro di De Chirico, in grado di volare, così come di uccidere. La moglie dello scienziato, esasperata dall’ossessione del marito per il virtuale, gli lancia una provocazione che si rivelerà ben presto realistica: “Caduta, volo, galleggiamento, ma perché non ci fai anche l’amore?”. Le sequenze di gioco migliorano l’immaginario precedentemente introdotto da Tron, del quale riecheggiano lo spirito ludico e guerresco. Dal punto di vista iconografico è interessante prendere in considerazione in particolar modo l’apparecchiatura che permette l’immersione nel virtuale: una tuta completa di guanti e casco integrale,

18 Cit. Il Tagliaerbe, Brett Leonard, 1992. 25 collegata ai cavi di un macchinario, ai fini di una digitalizzazione del corpo nella sua interezza. La macchina a cui ci si collega è una sfera rotante al centro della quale il corpo umano forma una specie di croce, secondo una simbologia che richiama senza dubbio l’Uomo Vitruviano disegnato da Leonardo Da Vinci: il film non intende del resto insinuare la possibilità di una nuova umanità, da vivere interamente all’interno dei circuiti telematici? Tale utopia tecnologica, che trova riscontro nella celebre scena di cyber-sex del film, si sgretola nel confronto con un’umanità ancora impreparata ad un uso proprio e positivo delle tecnologie: un progetto nato a scopi didattici ed umanitari ottiene l’unico risultato di spargere morte e rovina. Pochi anni dopo il tema del virtuale viene ripreso da un’ottica molto più sovversiva in un’opera di altrettanto successo.

1.4.3 Johnny Mnemonic: “una fiaba per l’era informatica” Nello scrivere la sceneggiatura di Johnny Mnemonic, film del 1994, William Gibson, nume tutelare del movimento letterario cyberpunk, aveva in mente “una fiaba per l’era informatica19”, una materializzazione a lieto fine della cultura visiva già consolidata in letteratura. Nel portare a compimento un tale intento fu fondamentale l’intervento di Robert Longo, accreditato realizzatore di video-clip nonchè artista e scultore passato in questo caso alla regia. Longo faceva infatti parte di quella generazione di artisti che nel corso degli anni Ottanta si cimentarono con la “riappropriazione delle arti”, ovvero una rilettura delle immagini provenienti da vari media attraverso materiali e metodi destrutturanti. Ad incarnare ’estetica all’interno del film sono i Lotek, “una classe sociale di reietti che ricicla container abbandonati, cascami industriali metallici, cavi e travature20”, che fa del riciclo di scarti industriali una forma di opposizione all’egemonia delle multinazionali. Il loro capo, J-Bone, definisce non a caso il loro ponte di trasmissione televisiva :“il paradiso con gli scarti del mondo”. Longo trasferisce dunque il concetto di “rielaborazione” del visivo all’ambito cinematografico, dando vita agli ambienti e alle architetture ibride che rendono Johnny Mnemonic un vero e proprio “film-monumento”. Ogni singola inquadratura è riempita dalla presenza di elementi tecnologici, che appartengono, come abbiamo detto, alla junk-technology, spazzatura informatica riutilizzata come forma di resistenza agli apparati istituzionali ufficiali.

19 Cit. Gibson, William. In Hanson, Il futuro imperfetto. Il cinema di fantascienza nell’era digitale, p. 57.

20 Hanson, Il futuro imperfetto. Il cinema di fantascienza nell’era digitale , p. 58. 26 In confronto al decadimento, alla sporcizia e all’industrializzazione incontrollata della “Libera Città di Newark”, il cyberspace nel quale ci si immerge tramite una speciale postazione fatta di cavi, spinotti e caschi, risulta invece astratto e levigato, fatto di geometrie e topografie molto più intelligibili rispetto alla selvaggia realtà. Mentre ne Il Tagliaerbe lo spazio virtuale si presta al delirio di onnipotenza e ad un uso dispotico e psicotico delle reti telematiche, il cyberspace di Johnny Mnemonic cela infatti una possibilità di salvezza per il protagonista e per la società in generale, che potrà trionfare solo grazie ad un uso saggio e filantropico dei mezzi tecnologici. Se il film di Longo rischia infatti di sembrare ad un primo impatto un semplice action movie ad alta concentrazione tecnologica, un agglomerato di violenza e computer graphic, è sufficiente soffermarsi sulle problematiche alla base della storia per scoprire l’esatto contrario. Il protagonista Johnny ha dovuto cedere un blocco consistente della propria memoria, corrispondente alla propria infanzia, per poter lavorare come corriere di dati di contrabbando. L’eccessivo accumulo di informazioni all’interno del suo impianto cerebrale lo sta conducendo ad un esaurimento sinaptico addirittura letale ed egli cerca disperatamente di salvarsi muovendosi attraverso un’umanità altrettanto disperata e moribonda, devastata dalla piaga della NAS (Sindrome di Attenuazione del Sistema Nervoso). In questo clima apocalittico, popolato da cyborg con fattezze messianiche e fantasmi che riemergono attraverso la rete per proteggere i viventi, l’elemento naturale e biologico appare come l’unica fonte di salvezza: soltanto Jones, un delfino addestrato a scopi militari, è in grado di decriptare i codici che racchiudono le vitali informazioni trasportate da Johnny – la cura per debellare la NAS, tenuta nascosta fino a quel momento dalla multinazionale Pharmakon -. Un film che sembra celebrare il virtuale e le potenzialità tecnologiche si trasforma così in un elogio della semplicità della vita, con il trionfo dell’amore, dei ricordi d’infanzia, della natura sotto forma di un delfino prodigioso. Il finale di Johnny Mnemonic non fa dunque che riaffermare quel rapporto carnale e amoroso che si nasconde nel dialogo dell’uomo con le tecnologie di propria invenzione: in un’ottica spiccatamente tecnofila, la creazione di apparecchi interattivi ci serve ad amare più intensamente, a liberarci dalle schiavitù del quotidiano, a “vivere al quadrato”.

27 1.5 PENSARE APPARECCHIATURE PER RIPRODURRE ESPERIENZE Mentre numerosi film si sono dedicati ad esplorare l’interattività come modalità con cui l’individuo si relaziona alle banche dati e agli algoritmi elettronici, attraverso una vera e propria “navigazione” al loro interno, altre opere hanno scelto una strada differente, immaginando strumenti interattivi in grado di far “rivivere” esperienze e ricordi propri o altrui. Il tema centrale di questi ultimi risiede nell’estremo realismo che si ipotizza raggiungibile dalle apparecchiature per il virtuale: l’avventura che si offre all’utente è, nel caso specifico, estremamente voyeuristica, immersiva e, apparentemente, molto meno compromettente e rischiosa di un vissuto reale. Le tecnologie divengono così strumenti che offrono brividi, suspence, piacere, sensazioni che possono essere godute pienamente e liberamente nella consapevolezza che sono, probabilmente, prive di controindicazioni e di effetti dannosi sull’esistenza concreta. E’ inoltre interessante evidenziare come questo immaginario sembri volto a contenere il predominio dispotico della vista sugli altri sensi, a sconfiggere la tirannia della linearità e della sequenzialità, lasciando spazio a modalità percettive e relazionali multisfaccettate e polisensoriali. A questo proposito Antonio Caronia scrive:

“[…]le tecnologie micro-elettroniche si dimostrano straordinariamente adatte alla costruzione di un nuovo e diverso equilibrio tra i sensi e consentirebbero di recuperare, nelle mutate condizioni derivate dall’abbondanza (almeno teorica) di beni di consumo, caratteristiche comunicative e relazionali tipiche di società precedenti.21”

1.5.1 Brainstorm: nella testa altrui La prima pellicola a portare sugli schermi l’idea di poter “registrare” e “rivivere” le esperienze è un film di Douglas Trumbull del 1983, Brainstorm - Generazione Elettronica, il cui soggetto si rivela nettamente anticipatore di quelli che furono i contenuti di altri film di fantascienza successivi, a partire soprattutto dagli anni Novanta, in cui lo stesso tema viene sviluppato con maggior completezza. L’opera parte infatti da un’idea di grande forza: la creazione di uno strumento che permetta al singolo individuo di rivivere con tutti i cinque sensi e in prima persona i sogni o il vissuto di qualcun altro, appositamente registrati su di uno speciale supporto

21 Caronia, Cyberpunk : istruzioni per l'uso, p.25. 28 magnetico. Nell’illustrare le modalità di utilizzo dello strumento ci viene riproposta l’immagine - resa classica dal film Metropolis - di una serie di cavi collegati al cervello umano e in grado di trasmettere informazioni di tipo psicofisico. E’ interessante notare, a questo proposito, come il passaggio dei percetti dalla mente all’esterno – più precisamente ad un supporto audiovisivo multisensoriale -, venga raffigurato tramite dei cavi che collegano le sinapsi cerebrali ad un meccanismo di recording. Tale scelta iconografica, adottata per la prima volta da Fritz Lang nel 1927, sembra a tal punto sedimentata nella nostra immaginazione da essere sfruttata ancor oggi per esprimere concetti analoghi, mentre cambia col passare degli anni il grado di interazione che si spera raggiungibile dagli individui durante l’esperienza “virtuale”: se in Brainstorm ci si limita a rivivere uno spezzone di vita altrui, nei film successivi il grado di azione aumenta e il virtuale pare prendere il sopravvento su un mondo reale ormai alla deriva. Nonostante la sceneggiatura debole e alquanto superficiale, il film di Trumbull rappresenta uno dei primi tentativi del cinema fantascientifico di superare il tradizionale conflitto uomo-macchina in favore di un’integrazione della tecnologia al corpo umano, tentativo che in Brainstorm è destinato al fallimento, dal momento che l’intrusione dell’elettronica nel campo dell’esperienza e degli affetti risulta decisamente traumatica. Nel suo fluire disomogeneo, il film ci porta ad esempio tutta una serie di derive negative dell’immersività, tra cui la strumentalizzazione politica, la morbosità pornografica, l’impiego a scopi bellici e punitivi di contenuti che rappresentano, inevitabilmente, una violazione dell’esperienza del singolo.

1.5.2 Fino alla fine del mondo: dentro i ricordi Se l’inizio degli anni Ottanta vede la diffusione di un generale entusiasmo verso i progressi raggiungibili nel campo dell’elettronica, è negli anni Novanta che le aspettative del decennio precedente trovano tuttavia piena espressione e realizzazione. Ad inaugurare il decennio è il film Fino alla fine del mondo del regista teutonico Wim Wenders, che si può ritenere a tutti gli effetti un’opera meta-cinematografica, ossessionata dal rapporto tra il cinema e le nuove tecnologie. Le scene del film pullulano di schermi di ogni genere, monitor, “videofoni”, attrezzature futuristiche, palmari: è spassoso e allo stesso tempo stupefacente rivedere il film ai giorni nostri e scoprire una fantascienza così arretrata rispetto agli odierni dispositivi, eppure dotata di una tale capacità immaginifica e preveggente. Il film riprende da una nuova angolazione il tema sviluppato a livello superficiale dal precedente Brainstorm, ovvero

29 la creazione di un dispositivo che permetta di rivivere il vissuto di qualcun altro. Se il film di Trumbull si dimostrava lungimirante nel sognare un’apparecchiatura polisensoriale, l’opera di Wenders si concentra unicamente sulla visione, sfera sensibile a cui è attribuita una priorità assoluta secondo una concezione che intende palesemente magnificare e celebrare le potenzialità del cinema stesso. Le tecnologie, in particolare quelle digitali, costituiscono i veri e propri motori della narrazione: permettono di localizzare gli spostamenti dei vari personaggi, servono d inviare messaggi, ad accedere visivamente a spazi remoti, eppure perdono di senso se mancano della memoria e del vissuto dei personaggi. Ad una donna cieca viene infatti restituita la possibilità di vedere, ma solo ed esclusivamente per intermediazione del ricordo di qualcun altro che ha visto per lei. Fino alla fine del mondo è un’opera intrisa di filosofia e di riflessioni sul meccanismo scopico e tuttavia pare rifiutarsi di immaginare una visione ricreata indipendentemente da ogni referente reale ed esperienziale. Wenders indaga l’assuefazione caratteristica del mezzo cinematografico, data dalla possibilità di registrare il proprio passato e di rivederlo un numero infinito di volte, ma non si spinge oltre ad immaginare un reale totalmente creato a priori e forse ugualmente assuefacente. Benchè il film non metta in rilievo la possibilità di un virtuale di derivazione puramente digitale, sembra tuttavia approdare ad una fantasia tra le più attuali nel campo dell’interattività, vale a dire la possibilità di digitalizzare le emozioni, i pensieri, finanche i sogni, di scoperchiare le nostre menti ed aprire al pubblico i loro contenuti. E’ una delle assistenti del mad doctor di turno a pronunciare la fatidica frase: “E credi che ti ci vogliamo dentro i nostri sogni con tutte le tue belle telecamere?”. L’utopia/distopia rivelata alla fine del film si riferisce proprio alla capacità di captare i segnali del cervello umano e di tradurli in immagini su di uno schermo. Se da un lato si può cogliere un omaggio del regista alle sinfonie visive di celebri connazionali anni Venti quali Hans Richter, Walter Ruttman e Oskar Fischinger, dall’altro ci si rende conto che l’immaginario messo in scena da Wenders è molto più inquietante ed attuale e riguarda la ricerca contemporanea di un “intreccio informe di onde cerebrali, trasformato in una sinfonia di colori e forme” che potremmo altrimenti definire “immagine bio-tecnologica”. Come il film dimostra chiaramente, alla base della ricerca scientifica non vi è altro che una naturale, quanto inarrestabile ed umanissima “assuefazione ai sogni”, che ci spinge sempre più avanti nel tentativo di rendere le nostre fantasie via via più abitabili ed interagibili.

30 1.5.3 Strange Days: una fuga multisensoriale A seguire sullo stesso filone “esperienziale”, è un’opera che risale alla metà degli anni Novanta, periodo in cui la subcultura cyberpunk ha ormai raggiunto uno stadio di completa maturazione, con l’inevitabile integrazione di parte della terminologia ed iconografia da essa sviluppata all’interno della cultura di massa. Il film Strange Days diretto da Kathryn Bigelow e sceneggiato da James Cameron, uscito nelle sale nel 1995, reca infatti tracce evidenti della contaminazione tra cultura popolare e cyber- cultura. Quest’opera tratteggia una Los Angeles perennemente notturna, in cui gli individui si spostano in macchina da un club ad un altro, accompagnati da sonorità rock e metal. La corruzione è dilagante ed investe anche le sfere della giustizia, come è reso emblematico dall’omicidio di un rapper nero a capo della rivolta afro-americana per mano di due brutali poliziotti. Un’atmosfera che potremmo definire neo noir, accentuata da una serie di misteriosi omicidi, che ha un debito evidente con il capolavoro di Ridley Scott, ma non manca di caricarsi di un impianto figurativo e contenutistico innovativo ed originale. Gli echi della cultura cyber sono evidentissimi: gli stereotipi di genere vengono ribaltati, con donne forzute e determinate che proteggono uomini fragili e irriducibilmente romantici; la sessualità è promiscua ed onnipresente, benchè realmente vissuta solo come autoerotismo; la realtà sociale che circonda i protagonisti è cupa ed inimica, corrotta nonché altamente militarizzata da forze dell’ordine fasciste e razziste. E’ il 1999 ed il Nuovo Millennio alle porte sembra preannunciare la fine del mondo. Nel generale clima apocalittico e pessimista la tecnologia pare fornire, oltre alle centinaia di armi visibili nel film, una via di fuga dal proprio corpo esanime e dal proprio misero intorno: lo squid (letteralmente “calamaro”, in realtà sigla di Superconducting Quantum Interference Device) altro non è che una gelatina che si applica sul cranio e, collegandosi ai recettori cerebrali e sensoriali, è in grado di registrare un’esperienza per poi farla rivivere a chi lo desideri. Si tratta nella sostanza della medesima idea del Brainstorm di Trumbull, che in Strange Days viene sviluppata con risultati decisamente più brillanti. Lo squid è un’apparecchiatura illegale ed i dischetti che contengono le registrazioni vengono spacciati in un mercato nero di cui il protagonista è una delle figure principali. L’esperienza virtuale, definita playback, è in grado di fornire quel genere di emozioni di cui manca la vita alienata e arida degli individui del film: erotismo, amore, leggerezza, libertà, tenerezza, ma anche suspence,

31 brivido, terrore e, nei casi più estremi, sofferenza e morte (i cosiddetti black jack). Lo spacciatore di piastre e clip virtuali così descrive l’atto di “filo-viaggiare”:

“Questa non è come la Tv, è un po’ meglio, questa è vita reale, un pezzo di vita di qualcuno, puro e integrale, dritto dalla corteccia cerebrale. Insomma, sei lì, lo stai facendo, lo stai vedendo, lo stai sentendo, lo stai provando.22”

La natura di droga e dunque assuefacente della tecnologia virtuale, gia palesata in Fino alla fine del mondo, non sembra inizialmente comportare rischi gravi rispetto ai pericoli e agli orrori della realtà dalla quale si desidera sfuggire. Lo spaccio sembra limitarsi principalmente a materiale pornografico, fino a quando lo squid diviene un vero e proprio strumento di morte nelle mani di un sadico psicotico, che mette in atto una pratica così descrivibile:

“[…]l’assassino si mette in contatto con la propria vittima trasferendole la “gioia” della violenza e determinando un vertiginoso conflitto esperienziale: vittima e carnefice partecipano delle stesse, doppie e contraddittorie, emozioni; la vittima muore nel terrore ma “sente” l’efferata eccitazione del maniaco omicida.23”

Dal primo di questi atroci crimini ha origine quella narrazione incalzante, ricca di esplosioni e peripezie mirabolanti all’americana, che condurrà al finale del film. Ai fini della nostra analisi è tuttavia la parte iniziale a risultare più interessante, in quanto ci illustra con chiarezza la concezione di interattività alla base dell’immaginario del film. Spinotti e caschi vengono in questo caso sostituiti da una leggerissima piastra che, applicata direttamente sul cranio e spesso nascosta sotto una parrucca, invia stimoli ai cinque sensi. Il mondo in cui si viene proiettati non è tuttavia quello elettronico, fluorescente ed astratto di Tron o del Tagliaerbe, bensì un mondo iperrealistico e quotidiano, che da queste caratteristiche trae tutto il suo fascino e la sua capacità affabulatoria. “Lenny, mi dici sempre di portarti la vita di strada, di portarti la vita

22 Cit. Strange Days, Kathryn Bigelow, 1995.

23 Menarini, Roy. “L’età della mouse-stylo ovvero gli spazi della postmodernità.”. In Menarini, Visibilità e catastrofi: saggi di teoria, storia e critica della fantascienza, p.19.

32 reale, che la vita mondana o disperata di un uomo è il technicolor per un altro!24”, dice uno dei fornitori di clip al protagonista che si occupa del loro spaccio. Una simile concezione viene ripresa nel 2000 dal film The Cell di Tarsem Singh, dove una psicologa mette a punto una terapia che le permette di entrare nella mente di un pericoloso serial killer ed interagire con i suoi sogni ed i suoi ricordi. Non è in fondo questo il grado di interattività a cui il cinema pare aspirare, ovvero la possibilità di farci immergere con i cinque sensi in un racconto, a partire da un punto di vista scelto da qualcun altro? Farci assaporare, correre, ascoltare, spiare voyeuristicamente le sensazioni di un altro?

1.6 ESSERE UNA SIMULAZIONE? Nel 1992 lo scrittore Neal Stephenson, presto definito “il nuovo Gibson degli anni Novanta”, pubblica il romanzo Snow Crash, che illustra una rinnovata idea del rapporto tra cyberspace e realtà, traducendo l’angoscia del futuro in un gigantesco e globale videogame. La risposta del mondo cinematografico a questa mutata percezione della realtà non tarda ad arrivare, tanto che la filmografia dell’intero decennio è costellata di opere che leggono il reale come frutto artificioso di una simulazione, spesso a fini cospiratori.

1.6.1 Nirvana: la simulazione prende coscienza In questo percorso di analisi delle fantasie e degli incubi partoriti dal cinema nell’immaginare il proprio futuro e quello della società umana, scegliamo questa volta di cominciare la disamina con un esempio di cinematografia italiana sul tema, che il film Nirvana di Gabriele Salvatores ci fornisce brillantemente. Seppur ambientato in una megalopoli futuristica in cui le differenti etnie si sono auto-ghettizzate nei loro propri quartieri, il film non rinnega infatti la propria nazionalità, inserendo evidenti riferimenti alla cultura locale e regionale italiana, ma soprattutto attraverso un finale non troppo ottimista. Il succo della storia sta nella presa di coscienza di un personaggio appartenente ad un nuovo videogioco che sta per essere immesso sul mercato: il signor Solo, interpretato da Diego Abatantuono, si rende improvvisamente conto della propria natura di simulazione ed entra in crisi, sconvolgendo completamente i meccanismi ripetitivi e automatici che regolano il suo universo. Suo unico interlocutore è Jimi, il creatore del

24 Cit. Strange Days. 33 gioco Nirvana, che assume la funzione di divinità in grado di controllare non solo gli algoritmi del videogame, ma anche la vita o la morte dei personaggi che si muovono al suo interno. A lui Solo rivolge la propria disperazione: “E se tutto quello che vedi non esistesse? Se fosse come qui da me, se tu fossi come me… Sai qual è l’unica cosa che io non posso fare qui dentro? E’ smettere di giocare. Tu invece puoi farlo. Allora smetti di giocare, se riesci a farlo vuol dire che sei libero. Cancellami, Jimi.25” E’ a questo punto che inizia il viaggio catartico di Jimi nei bassifondi, in cerca di hacker spregiudicati che lo aiutino ad infiltrarsi nel sistema della Okosama Starr per cancellare Nirvana insieme alle ingenti somme di denaro sporco in mano all’impresa. Il film esplora l’interattività sotto tre aspetti distinti: i videogiochi, le tecnologie quotidiane e, infine, il mondo virtuale. Il motore del racconto – in questo caso il termine motore è particolarmente adeguato – è infatti un videogioco la cui interattività diventa all’improvviso bidirezionale: non è più soltanto il giocatore che con le sue mosse condiziona l’andamento della storia, ma è il gioco stesso che conquista potere decisionale e si ribella alle imposizioni del programmatore, pretendendo addirittura di essere cancellato. Il videogioco non è tuttavia l’unica tecnologia a dialogare con l’essere umano. Nirvana è infatti permeato di apparecchi di ogni genere in grado di reagire al comportamento dei loro utenti: c’è la casa di Jimi in cui un software invadente non cessa mai di dispensare pedanti suggerimenti sul da farsi, ci sono gli scanner per il riconoscimento degli individui, gli antifurti che minacciano esplosioni, le pompe di benzina che chiamano la polizia. La tecnologia sembra aver preso il sopravvento in mano a governanti e forze dell’ordine che rimangono tuttavia invisibili; ad un tale autoritarismo freddo e asettico si contrappone un mondo underground fatto di individui loschi, prostitute, mistici e abilissimi hacker in grado di inserirsi nelle banche dati dei soggetti forti. La navigazione illecita nella rete è chiamata “volo” e sono “angeli” i suoi praticanti, figure che riprendono in larga misura l’iconografia del “cowboy della console”, concepita da Gibson . Nel racconto “La notte che bruciammo Chrome” leggiamo per esempio:

25 Cit. Nirvana, Gabriele Salvatores, 1997. 34 “Bobby era un cowboy. Bobby era uno scassinatore, un ladro che perlustrava il sistema nervoso elettronico dell’umanità, razziava dati e crediti nell’affollata matrice, lo spazio monocromatico dove le uniche stelle sono costituite da concentrazioni di dati, e in alto bruciano le galassie delle multinazionali e le fredde braccia a spirale dei sistemi militari.26”

Anche Case, protagonista del celebre romanzo Neuromante, appartiene alla schiera di pirati della rete, “capaci di proiettarsi letteralmente nei sistemi informatici, di violare le protezioni delle banche dati e di carpirne le informazioni riservate27”, una tipologia incarnata perfettamente nel film di Salvatores da figure come Joystick e Naima. Ulteriori riferimenti all’immaginario cyberpunk riguardano l’apparecchio con cui Jimi effettua il suo primo volo, totalmente debitore di quello messo in scena in Johnny Mmemonic: una maschera ed una serie di spinotti che riecheggiano cupamente la camera a gas. Nell’accedere alla rete per la prima volta egli la percepisce come una città notturna, per scoprire subito dopo che si tratta di una proiezione della propria immaginazione. L’entrata al sistema della Okosama Starr somiglia ad una lavanderia e al suo interno si dispiegano lunghi corridoi deserti punteggiati di porte chiuse, tra le quali il protagonista deve effettuare con decisione le proprie scelte. Come accade in un semplice videogioco, il percorso di Jimi si popola di pericoli e di ostacoli: il sistema della Okosama Starr attinge alla sua memoria per produrre illusioni visive che lo trattengono dal perlustrare gli archivi digitali. Davanti al protagonista si materializzano i fantasmi delle persone care, che lo intrappolano fino al momento epifanico in cui egli si rende conto della natura mistificatoria di tali incontri; è a quel punto che egli riesce finalmente a penetrare nella directory principale dell’azienda, un database di forme geometriche che fluttuano in aria, in omaggio a Gibson e ai suoi seguaci. Come è logico aspettarsi da un film d’autore del bel paese, il finale di Nirvana non può tuttavia considerarsi completamente positivo. Il personaggio Solo viene cancellato proprio come desidera, anche se rimane nel dubbio riguardo a ciò che gli accadrà poi. Nel frattempo Jimi viene raggiunto dagli scagnozzi della multinazionale, ma nel momento cruciale avvertiamo semplicemente un’esplosione ed un velocissimo flashback che lascia spazio all’ambiguità: forse che la storia di Jimi altro non fosse che un’ennesima sessione di gioco intrapresa dalla giovane Naima?

26 Gibson, William. “La notte che bruciammo Chrome.”. In Gibson, William. La notte che bruciammo Chrome. Trad. It. Mondadori: Milano, 1993, p.33.

27 Caronia, Cyberpunk : istruzioni per l'uso, p.18. 35 1.6.2 Vivere un’illusione Il 1997, oltre ad indicare l’uscita al cinema di Nirvana, inaugura un intero filone di opere cinematografiche dedicate alla raggiunta consapevolezza di vivere dentro una simulazione. L’ormai vicina fine del Secondo Millennio sembra infatti recuperare inconsapevolmente quel clima di paranoia e cospirazione, che aveva impregnato a partire dal secondo dopoguerra le opere di Philip K. Dick così come i decenni della Guerra Fredda. Le scelte nei contenuti cinematografici sono del resto il chiaro frutto delle trasformazioni sociali in atto. L’umanità di fine millennio assiste al trionfo compiuto della globalizzazione e del regime di capitalismo avanzato che ad essa è strettamente collegato: le multinazionali si sono diffuse capillarmente anche nei paesi più chiusi e conservatori dell’Asia e dell’Africa, il progresso tecnologico permette di creare delle reti di comunicazione e controllo che diffondono informazioni tra luoghi fisicamente anche molto lontani, l’aumento delle opzioni di acquisto e di comunicazione è parallelo ad un accrescimento dei sistemi di sorveglianza. La società che si affaccia al nuovo millennio non può che essere travolta da un così endemico proliferare di immagini e di simulacri, dietro i quali si celano istituzioni ed organizzazioni dal volto sconosciuto. Il rapporto tra un oggetto e il suo sistema così come il suo luogo di fabbricazione diventa intangibile, inarrivabile e ci si chiede chi sta dietro al mondo costruito intorno a noi e qual è il suo grado di manipolazione sulla qualità della nostra esistenza. Tale stato di dubbio si complica ulteriormente nel caso delle tecnologie digitali, ovvero della produzione di dati totalmente immateriali, il cui legame con il mondo reale risulta pressoché annullato. In tale contesto si teme che l’interattività permessa dalle tecnologie sia sfruttata per imprigionare gli individui sotto un impercettibile velo di illusioni, ma anche per auto-imprigionarsi volontariamente in un universo che, in quanto funzionale e controllato, risulta più protettivo e familiare, perfetto per adulti che si difendono dagli ostacoli della vita reale preferendo ad essa un videogame fatto su misura. E’ ovviamente il cinema uno dei principali strumenti per dare ancora una volta voce e forma alle angosce del proprio pubblico. Nel 1997 esce The Game – Nessuna regola, un film di David Fincher , in cui un miliardario americano è coinvolto in un gigantesco gioco di ruolo a scatole cinesi che lo conduce all’assoluta perdita della realtà. Nel 1998 a rincarare il clima di panico da simulazione è il film Dark City di Alex Proyas, in cui sono degli alieni invasori ad aver creato una città fittizia per trarre energia dagli umani che dormono inconsapevoli in una lunga notte oscura. Nello stesso anno Peter Weir

36 racconta nel celebre The Truman Show la storia commovente ed appassionante di Truman Burbank, un individuo nato dentro un enorme studio televisivo e lì cresciuto, sotto gli occhi delle telecamere, entro i confini del minuscolo paese artificiale di Seahaven, fatto di attori sempre sorridenti e continui annunci pubblicitari. Andrew Niccol, sceneggiatore di The Truman Show, riprende un tema analogo a distanza di qualche anno, capovolgendone i contenuti nel film S1m0ne del 2002, in cui il pubblico mondiale acclama e venere la giovane e magnifica Simone, cantante e artista dalle potenzialità apparentemente illimitate, in realtà un semplice ologramma digitale. Con questo film la riflessione riguardo all’esistenza dentro una simulazione è portata al suo estremo: artificiale non è l’universo costruito intorno a noi, bensì la nostra stessa presenza che lo abita. Tutti i film citati ad esempio attingono del resto la propria idea di fondo da un irrisolvibile dubbio ontologico: che l’entusiasmo umano per il gioco, la simulazione e la farsa serva ad esorcizzare la paura di essere portatori di quella stessa beffarda finzione?

1.7 GLI UNIVERSI PARALLELI DI MATRIX Il 1999 segna una data importantissima per il cinema fantascientifico dedicato all’interattività e ai mondi virtuali. La riflessione sul tema sembra infatti raggiungere il proprio climax, dando vita ad un’opera che è un vero e proprio sunto delle fantasie e delle elaborazioni precedenti. Matrix, al di là della sua effettiva genialità dal punto di vista tecnico ed effettistico, riesce a combinare in una storia avvincente e credibile universi informatici fatti di numeri e forme geometriche con riflessioni di stampo filosofico riguardo alla natura simulacrale del mondo sensibile. La vicenda emerge da un vero e proprio melting pot di citazioni e stereotipi di genere, che risultano in un perfetto meccanismo di suspence: l’ennesimo conflitto tra uomini e macchine, una società omologata e spersonalizzante in cui operano dei ribelli rivoluzionari, potenziali allucinazioni da droga, fiabe infantili, ma anche romanticismo e una dose elevata di combattimenti e arti marziali. L’azione è frammentata da passaggi incalzanti da una realtà ad altre ad essa parallele, per mezzo di cornette telefoniche che risultano curiosamente obsolete in un universo a così alta concentrazione tecnologica. Al mondo grigio, moderno e totalitario della “matrice”, la cui essenza è completamente digitale e fittizia, si contrappone un pianeta Terra buio e desolato, dove esseri umani addormentati in una sorta di liquido amniotico servono ad alimentare l’Intelligenza Artificiale che li ha soggiogati. Da un lato abbiamo dunque Thomas Anderson,

37 programmatore di software per una multinazionale, dall’altro il suo alter ego reale, Neo, che, finalmente libero dalla schiavitù del virtuale, si unisce ai piani rivoluzionari di un ultimo manipolo di esseri umani. Se nei film precedenti veniva messo in scena il passaggio dal mondo reale a quello virtuale, in questo caso assistiamo infatti al tragitto contrario. Il protagonista viene a conoscenza della propria natura di simulacro digitale, secondo il film una “proiezione residua di sé28”, e recupera così il proprio corpo, che giace addormentato in mano a macchine che ne traggono energia vitale. Il ritorno di Neo alla corporeità è illustrato come una vera e propria nascita: egli si risveglia glabro in una vasca di liquido viscoso per poi attraversare un tunnel buio che lo conduce al risveglio e alla consapevolezza. Durante tale trasformazione il termine “matrice” acquista pieno significato, recuperando la propria accezione etimologica originaria di “utero materno”, un antro rassicurante che ci protegge e ci tiene lontani dalla negatività del mondo, dalla sua durezza, ma anche dalla sua verità. I timori collegati ai risvolti in senso totalitario delle tecnologie virtuali, già espressi da tutta la fantascienza precedente, trovano una spaventosa ed inquietante realizzazione nell’universo del film e, non a caso, il programma Matrix è descritto dall’hacker Morpheus come “una prigione che non ha sbarre, né mura, né odore, una prigione per la mente”. Il tema del controllo e dell’asservimento da parte di una tecnologia che è giunta a dominarci è del resto direttamente collegato ad una concezione secondo cui la realtà percepita altro non è che un’illusione perfettamente orchestrata alle nostre spalle. Sviluppando tale tematica, Matrix rende omaggio a numerose opere della cinematografia degli anni appena precedenti la sua uscita, segnata dall’enorme successo di film come The Game, Dark City e, soprattutto, The Truman Show. La misteriosa verità celata al protagonista, che egli è esortato a scoprire, è avvolta in un alone affascinante, accentuato da frequenti richiami al mondo delle meraviglie dell’Alice di Lewis Carroll (“Segui il bianconiglio, Neo…29”). La metafora fiabesca risulta del resto particolarmente adeguata nel suo riferimento ad un mondo sotterraneo, stupefacente quanto inaspettato, anche se il “paese” che attende Neo assomiglia più ad un incubo senza via d’uscita che ad un sogno picaresco. Prima che egli venga a conoscenza della condizione di inconsapevolezza in cui è tenuta l’umanità, Morpheus gli spiega infatti la natura di “neurosimulazione interattiva” che caratterizza Matrix:

28 Cit. Matrix, Andy e Larry Wachowski, 1999.

29 Cit. Matrix.

38

“Matrix è ovunque,è intorno a noi, anche adesso, nella stanza in cui siamo. E’ quello che vedi quando ti affacci alla finestra o accendi il televisore. L’avverti quando vai al lavoro,quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. E’ il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità. 30”

La composizione binaria della matrice risulta chiara già negli schermi dall’astronave ribelle, tempestati da verdi codici a caduta che ritraggono la vita virtuale nella sua sostanza matematica e algoritmica. Tale struttura programmata e programmabile si rivela in tutta la sua interezza al protagonista durante un combattimento potenzialmente letale; a quel punto egli comprende la natura manipolabile della simulazione in cui è inserito ed inizia a plasmarla a suo piacimento, come un qualsiasi programmatore si comporta nei confronti di un software di cui conosce il codice sorgente. La rappresentazione fluorescente, minimale ed astratta del mondo virtuale di Matrix senza dubbio perfeziona in maniera eccelsa le raffigurazioni del cyberspace già offerte da film come Il Tagliaerbe o Johnny Mnemonic, benché risulti in primo luogo debitrice delle ammalianti descrizioni letterarie ad opera di William Gibson. Nel racconto “La notte che bruciammo Chrome” egli narra infatti l’universo della matrice con riferimenti che ritroviamo puntualmente nell’opera dei fratelli Wachowsksi:

“La matrice è una rappresentazione astratta delle relazioni fra i sistemi di dati. I programmatori autorizzati si inseriscono nel settore della matrice appartenente ai loro datori di lavoro e si trovano circondati da luminose forme geometriche che rappresentano i dati della società. Torri e campi si dispiegano nel non-spazio incolore della matrice, questa allucinazione collettiva elettronica che facilita il trattamento e lo scambio di grandi quantità di dati. 31”

Il lungo percorso dell’immaginazione fantascientifica pare dunque approdare ad una coincidenza quasi simbiotica tra l’universo digitale degli elaboratori elettronici ed il regno interiore dell’essere umano. Non è difficile del resto tracciare un parallelismo tra

30 Cit. Matrix.

31 Gibson, William. “La notte che bruciammo Chrome.” In Gibson, La notte che bruciammo Chrome, p. 33.

39 gli spazi della mente e quelli dell’informatica: in entrambi i casi si tratta di un insieme di dati navigabili, all’interno dei quali è possibile seguire percorsi ogni volta differenti e attingere informazioni secondo un ordine che muta perennemente, in base a quel principio definito in informatica come Random Access. Non è un caso del resto che il termine “memoria” sia sfruttato in riferimento sia all’essere umano sia ai processori da lui progettati: il concetto di memoria fa infatti leva sull’esistenza di elementi e processi non tangibili, ma archiviabili, che possono essere recuperati tramite un percorso individuale e personale come è peraltro la navigazione. Antonio Caronia, studioso di realtà virtuale, scrive su questo tema:

“Oggi la cosa è sotto gli occhi di tutti: il labirinto mentale dell’uomo, lo «spazio interno per eccellenza», si confonde con l’ipotesi di un altro spazio interno, quello della macchina, e il tutto assomiglia sempre più a quel «sistema nervoso elettronico dell’umanità» di cui parlava McLuhan. Non è forse in questa visualizzazione di un’astrazione logica che vivono i «cowboy dell’interfaccia», gli «artisti dello spionaggio industriale»? Non è in questo mondo immateriale che si sviluppano le strategie, gli intrighi, le lotte che influenzano la vita di tutti e che arrivano anche a bruciare il cervello di chi vi si avventura?32”

In Matrix si abbandona dunque il corpo dietro di sé, per accedere a un luogo dove dominano le semplici potenzialità della mente, in cui la forza o la velocità non sono dati fisici, ma pura espressione dell’intelletto. La capacità di manipolazione dei codici diviene così il criterio individuante delle divinità contemporanee – non a caso gli hacker protagonisti si chiamano Neo, l’Eletto, Trinità, Morpheus, l’Oracolo -, nuovi numi dell’informatica in grado di oltrepassare porte ed ostacoli, di volare e di muoversi alla velocità della luce e tuttavia non più immortali ed invulnerabili. Il comando per accedere a Matrix è un semplice LOAD, fatto che richiama immediatamente le modalità di funzionamento del videogame e fa presagire lo sfruttamento commerciale del film anche da questo punto di vista più strettamente dialettico ed interattivo. Da Matrix sono del resto derivati cartoni animati, giochi e videogiochi, fumetti ed ogni sorta di stratagemma per mantenere gli appassionati del film in un costante dialogo economico, ma anche “fisico” con i suoi autori e produttori. Se Matrix sembra infatti dedicato a quelle che il film Brainstorm definiva “attività mentali superiori”, la fisicità non arriva comunque ad essere repressa e riemerge in più

32 Caronia, Cyberpunk: Istruzioni per l’uso, p.26. 40 punti del film. Come abbiamo già accennato, il risveglio di Neo è una metafora evidente del parto, mentre i programmi con cui egli si scontra sono definiti “senzienti” e sono passibili di morte come gli stessi umani. L’istinto sessuale e carnale emerge sia nelle fantasie di Mouse, che crea una prosperosa ragazza in rosso con cui sollazzarsi in programmi virtuali, sia nell’interesse morboso di Cypher per Trinity e infine nella passione di quest’ultima per il nuovo arrivato, Neo. Del resto l’agente Smith spiega con chiarezza i malfunzionamenti derivati dalla creazione di un mondo virtuale ideale privo di sofferenza, che non esercitava sufficiente appeal sugli umani ad esso connessi. Le passioni in tutta la loro varietà, dal gusto di una pietanza particolarmente appetitosa ai tormenti amorosi più struggenti, risultano dunque una caratteristica imprescindibile dell’esistenza umana che trova in esse il proprio nutrimento e la propria ragion d’essere. Ne consegue che è impossibile pensare ad una realtà virtuale che non dia spazio alle sensazioni e alle emozioni corporee , fornendo loro un ruolo di prim’ordine. E Matrix del resto, con i suoi combattimenti strabilianti e le sue azioni ad alta tensione, è un’evidente celebrazione dell’energia vitale, in tutta la sua mutevolezza, velocità e dirompenza.

1.8 ExISTENz E IL TREDICESIMO PIANO Se nel 1999 il pubblico internazionale decreta entusiasticamente il successo mediatico del film dei fratelli Wachowski, nello stesso anno escono nelle sale altre due opere che subiscono fortemente le suggestioni e le fobie legate all’esistenza di mondi virtuali: eXistenZ di David Cronenberg e Il tredicesimo piano di Josef Rusnak. Cronenberg racconta la perdita della realtà indotta dalle tecnologie virtuali in un film che fa un uso estremamente parco della computer graphic. Ad essere messi in scena sono una serie di universi che si contengono l’un l’altro in una costruzione a scatole cinesi in cui i diversi livelli si compenetrano secondo un meccanismo osmotico di varianti ed invarianti. Lo scenario di partenza è una chiesa , secondo il principio già sancito dal romanzo di Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? che mette in stretta relazione religione e religiosità con la fede pagana nel progresso tecnologico. Si inizia con la presentazione di un nuovo videogioco dal nome fortemente evocativo, eXistenz, l’accesso al quale avviene tramite una “bioporta”, un vero e proprio collegamento tra elettronica e sistema nervoso umano, dagli evidenti risvolti erotici. A rendere possibile la navigazione nel virtuale è del resto una creatura ibrida ottenuta a partire da anfibi e DNA sintetico, che attraverso un vero e proprio cordone ombelicale

41 si innesta nel corpo umano e lo proietta all’interno del gioco. Il racconto di eXistenz vede una contrapposizione tra sostenitori e detrattori del realismo, che si combattono a vicenda in un’atmosfera altamente spionistica. Il gioco ad incastro è talmente ben gestito da rendere inafferrabile anche per gli spettatori la distinzione tra realtà e finzione, tra nemici ed amici: gli universi a cui si perviene sono infatti realistici e a poco a poco si rivelano sempre più simili a quello di partenza, ne ripropongono paure, intrighi, complotti, ma anche emozioni, sentimenti, passioni. Le apparecchiature tecnologiche funzionano del resto solo grazie all’energia umana e biologica che le anima e non a caso le loro forme presentano accentuati richiami agli organi sessuali: vi sono pistole fatte di materiale e denti umani, console di gioco di forma vaginale, porte elettroniche innestate nella carne che vanno lubrificate prima dell’uso. Come afferma una delle protagoniste, la navigazione nel gioco serve a contrastare la noiosità della vita reale dove non accade mai nulla di troppo entusiasmante e così quella che è un’esperienza puramente digitale si trasforma in una fonte indispensabile di sensazioni. Le riprese dei giocatori immersi in eXistenZ richiamano del resto rituali di autoerotismo che avvengono in questo caso grazie ad una protesi elettronica, il “GamePod Metacarnale”. Come nel caso di Johnny Mnemonic o di Strange Days la tecnologia non sembra poter fare a meno del biologico, dell’organico, del rifugio uterino, che rimane ancora la prima vera matrice. Come Caronia argomenta brillantemente:

“La tendenza all’immaterialità che è un portato della microelettronica non significa scomparsa del corpo: semmai c’è una disseminazione del coro sotto nuove specie, un dislocamento del confine tra corpo dell’uomo e corpo della macchina, che richiede la definizione di nuove categorie, di nuove pratiche comunicative adeguate alla complessità della vita e alla mutazione del sistema di attese e bisogni in cui viviamo.33”

Su una simile linea conduttrice, Il tredicesimo piano di Josef Rusnak intende, a partire dal titolo, evocare la possibilità di un livello di realtà non considerato e posto al di sopra di quello in cui viviamo, dove l’universo che esperiamo è generato grazie a tecnologie cibernetiche ed i nostri tratti e le nostre caratteristiche sono programmati da altri esseri, la cui stessa natura umana o digitale risulta dubbia.

33 Caronia, Cyberpunk: Istruzioni per l’uso, p.28. 42 Le atmosfere noir dell’ormai classica metropoli notturna e fumosa, popolata di individui che emergono dall’ombra o vi scompaiono, le luci al neon che caricano il buio di raggi fluorescenti rievocano la raffigurazione di un futuro distopico e piovoso inaugurata da Blade Runner, opera di cui almeno in parte vengono ripresi i temi. La paranoia dickiana riguardo ad un complotto ad opera di individui non chiaramente identificabili costituisce infatti il fil rouge della narrazione, anche se in questo caso il conflitto non vede contrapporsi umani e replicanti, bensì entità digitali appartenenti a differenti livelli di realtà e, come nel caso della Rachel di Scott, inizialmente inconsapevoli della propria condizione di artificialità. Interessante da questo punto di vista il dialogo tra un poliziotto e il tecnico informatico: “Tutto questo cos’è? Un gigantesco videogioco?” “No, assolutamente, non ha bisogno di un utente con cui interagire, le sue unità sono esseri cibernetici compiuti ed autosufficienti, persone simulate elettronicamente che popolano il sistema, pensano, lavorano, mangiano, diciamo che sono modellati su di noi…34” Ne Il tredicesimo piano, ispirato al romanzo del 1964 Simulacron 3 di Daniel Galouye, assistiamo dunque ad una sconfitta definitiva del materiale e del tangibile: tutto ciò che vediamo ci è presentato come una sorta di videogioco i cui personaggi si sono animati, hanno cioè acquisito se non un’anima per lo meno una coscienza. Inizialmente la tecnologia messa in scena sembra una semplice apparecchiatura futuristica di intrattenimento interattivo, in grado di proiettare l’individuo all’interno di viaggi nel tempo simulati grazie ad un’accuratissima ricostruzione al computer, situazione che pare un vero e proprio omaggio a Robert Zemeckis e alla saga di Ritorno al futuro. A sancire il passaggio da un “piano” ad un altro è anche in questo caso la solita antidiluviana “cuffia cerebrale”, che rimane, come abbiamo avuto modo di dimostrare, un archetipo intramontabile nel raffigurare l’accesso a mondi virtuali. Con il primo omicidio il panorama da parco dei divertimenti inizia tuttavia a complicarsi e le indagini si estendono alla sfera stessa del virtuale, in un andirivieni psicotropo fatto di bad trip, amnesie e sdoppiamenti della personalità di evidente influenza dickiana. E’ in questo clima al limite della follia collettiva che si perviene all’essenza del film: “Tutto fumo e specchi, non siamo che simulazioni su un computer35”, recita un personaggio, una volta svelato il meccanismo per cui due realtà virtuali o forse più convivono l’una dentro l’altra. L’angoscia che pervade il film è

34 Cit. Il tredicesimo piano, Josef Rusnak, 1999.

35 Cit. Il tredicesimo piano. 43 dunque quella di essere burattini manovrati da un demiurgo crudele, portato alla violenza dalla convinzione di essere Dio, lungo un incubo in cui la vita diventa una semplice partita al videogame, scandita da un cronometro ed inevitabilmente vincolata alla limitatezza dell’universo elettronico in cui si dispiegano i suoi algoritmi programmati.

1.9 ALCUNE CHIAVI INTERPRETATIVE Giungiamo ora al termine di una lunga carrellata sull’immaginario prodotto dalla cinematografia fantascientifica riguardo ad un futuro in cui le tecnologie virtuali ed interattive svolgeranno un ruolo sempre più decisivo e preponderante. Dopo aver illustrato nel dettaglio le scelte stilistiche e contenutistiche adottate dalle principali e più note pellicole sull’argomento, ci sembra quindi opportuno effettuare un riepilogo degli elementi fondamentali emersi dalle riflessioni in campo filmico. Tali concetti chiave, che passeremo ora a esaminare approfonditamente, assumono un’importanza fondamentale per lo sviluppo di un cinema del futuro, che tenga conto di una maggiore vicinanza e interazione tra il prodotto audiovisivo e lo spettatore. La fantascienza ha infatti fornito degli spunti e delle fondamenta per la realizzazione pratica di una cinematografia che sappia rispondere in maniera rinnovata alle esigenze sempre nuove del proprio pubblico. Tali punti di incontro tra immaginazione e produzione risulteranno ancora più evidenti nei capitoli successivi della nostra analisi, dove analizzeremo i tentativi effettivi di realizzazione di prodotti filmici interattivi. Per il momento ci limiteremo invece a tracciare le coordinate di base che, secondo le direttive fantascientifiche, il cinema del futuro dovrà tenere in considerazione ai fini della propria riuscita dal punto di vista estetico e commerciale.

1.9.1 Corporeità Il cospicuo repertorio di film presi in considerazione dimostra come la creazione di realtà interagibili da parte dell’essere umano si fondi in primo luogo sulla proiezione del corpo all’interno di un mondo che lo liberi da vincoli di tipo fisico e materico. Bisogna tuttavia fare attenzione a non considerare questa liberazione “del corpo” come una liberazione “dal corpo”. L’utopia a cui si aspira è infatti un luogo in cui la corporeità raggiunga potenzialità insperate e una sensibilità pressoché illimitata a qualsiasi stimolo percettivo. Tale aspirazione risulta egregiamente raffigurata dalla scena di Matrix in cui Neo si rende conto di poter gestire a proprio piacimento i codici

44 della matrice, raggiungendo un livello di forza, velocità e prontezza che non sarebbe mai stato in grado di concepire. Come nel caso degli ausili tecnologici di cui ci avvaliamo quotidianamente per migliorare il nostro standard di vita (automobili, lenti a contatto, apparecchi acustici, ecc.), i mondi virtuali che ci immaginiamo devono dunque rappresentare una modalità per aumentare l’eccitazione e l’efficacia del nostro vivere. Da essi ci aspettiamo che siano in grado di fornirci un sentire intenso, di restituirci odori, sapori, suoni che spesso divengono indistinguibili nel trambusto del vivere quotidiano. La propensione verso il futuro si traduce così in una spinta verso un ritorno a forme di percezione primordiali, amplificate e riadattate secondo i criteri della società contemporanea. Un cinema che tenga conto di questa ricerca affannosa di una sensorialità dilatata ed espansa, dovrà dunque fare i conti, inevitabilmente, con altri ambiti ludico-ricreativi che hanno attribuito al corpo un ruolo di primo piano. Una delle strade della cinematografia del futuro la vede così in costante dialogo con la rappresentazione teatrale, le attrazioni dei parchi a tema, i videogiochi ed i giochi di ruolo, forme di intrattenimento che richiedono una partecipazione attiva e tangibile da parte dei propri utenti.

1.9.2 Sacralità Un ulteriore elemento emerso in maniera prepotente dalla disamina dell’immaginario sul virtuale è la componente sacrale che si attribuisce a questo genere di tecnologie. Nel romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, lo scrittore immagina un culto, definito Mercerismo e praticato tramite il collegamento ad un dispositivo elettrico (empathy box), che collega tutti i proseliti in un’allucinazione consensuale collettiva, segnata dalle apparizioni di una sorta di profeta tecnologico. La stessa idea viene riesplorata a più riprese in ambito cinematografico, dimostrando il suo valore portante dal punto di vista sociologico. Chi riesce a gestire gli apparati tecnici e a muoversi con destrezza negli universi ricreati è infatti messo sullo stesso piano di una divinità o se non altro di un profeta da seguire. Ciò dimostra come il cinema dei prossimi decenni dovrà confrontarsi con un’umanità bramosa di una nuova fede pagana di matrice tecno-scientifica. Le narrazioni dovranno dunque essere sempre più coinvolgenti, in grado di rendere complici i propri fruitori, di creare un legame di dipendenza, così come una profonda e volontaria “sospensione della credulità”.

45 Esiste già un lungo elenco di film che sono arrivati ad essere veri e propri fenomeni cultuali, mietendo proseliti e generando una feticismo diffuso nei confronti dei propri elementi iconografici. Il cinema degli anni a venire dovrà dunque guardare a questa tradizione e saper proporre nuovi simboli in cui riconoscersi, tenendo in debito conto l’importanza rivestita dalla tecnologia nella costruzione di nuovi altari, reliquie, rituali.

1.9.3 Collettività La fruizione di apparecchiature interattive appartiene ad un immaginario che la associa direttamente con un’esperienza sociale e dunque collettiva. Il fascino esercitato dalle possibilità del virtuale risiede peraltro nell’opportunità di partecipare a pratiche multi- user, in cui a condizionare la vicenda non sia il singolo utente, ma un insieme di individui le cui scelte hanno un’influenza sugli altri “giocatori”. Se già William Gibson descriveva il cyberspace come un’“allucinazione consensuale collettiva”, David Cronenberg mette in scena nel film eXistenz un videogioco iper-realistico in cui decine di attori si combattono tra loro per conquistare la vittoria, mentre nel film Matrix è addirittura l’umanità intera ad essere vittima di una simulazione universale. Dopo ave assistito ad effetti speciali strabilianti, maremoti, uragani ed esplosioni artificiali indistinguibili da quelli proiettati dai telegiornali, le pretese del pubblico sembrano approdare ad uno stadio successivo: si aspira ora ad un effetto speciale talmente raffinato da contenerci al proprio interno, insieme alla nostra famiglia, ai nostri amici, a schiere di sconosciuti.

1.9.4 Iper-Realismo L’attuale applicazione delle tecnologie digitali si rivela particolarmente focalizzata a ricreare personaggi, animali, paesaggi e architetture con un grado di verosimiglianza pressoché assoluto. Gli esperti di computer graphic sembrano infatti concentrare i propri sforzi sperimentali nel riprodurre immagini totalmente digitali così particolareggiate da confondersi con immagini fotografiche di referenti reali. Gli individui non sembrano dunque ricercare tanto o solo simulazioni di mondi fiabeschi, meravigliosi e impossibili, ma tendono piuttosto a voler morbosamente “rivivere”, nella maniera più realistica possibile, storie e situazioni simulate, tratte da vicende del quotidiano. Si spera dunque di scardinare una volta per tutte il buco della serratura e di entrare direttamente nella mente degli esseri che intendiamo, voyeuristicamente, spiare. Il realismo totale non coinvolge più la sola vista, ma si estende a tutte le sfere

46 sensoriali e cognitive: l’ambizione umana sembra spingere le tecnologie in direzione di una penetrazione sempre più efficace dei meccanismi percettivi e cognitivi dell’uomo. Lo SQUID di Strange Days acquista in questo panorama un accresciuto potere semantico e diventa simbolo di una cinematografia possibile, dal carattere psichico e sensuale, ma soprattutto ad alto rischio di assuefazione.

1.9.5 Sogno/Incubo La pellicola di Wim Wenders Fino alla fine del mondo illustra molto chiaramente il bisogno di una cinematografia che offra una corrispondenza efficace ai nostri universo onirici. Il legame tra il cinema ed i sogni è del resto sancito dall’espressione che identifica Hollywood con una “fabbrica dei sogni”, luogo prescelto per la riproduzione delle fantasticherie e dei voli pindarici dell’animo umano. Tale vincolo ha trovato una sua ulteriore conferma nelle numerose opere cinematografiche che hanno fatto da sfondo alle attrazioni dei parchi a tema: da Back to the Future, a Jurassic Park, all’intero repertorio dei film di animazione della Disney. Non sono tuttavia le sole fantasie fiabesche e positive a suscitare il fascino del pubblico, che spesso trae godimento dal vivere veri e propri incubi. Inseguimenti, castelli infestati dai fantasmi, combattimenti marziali, scontri a fuoco, imprigionamenti sono solo alcuni dei brividi che l’essere umano desidera di tanto in tanto affrontare, almeno per interposta persona. L’avanzata delle tecnologie digitali ha del resto provveduto a creare una nuova categoria di scenari inquietanti, direttamente correlati al concetto stesso di virtualità. Il controllo totalitario attraverso le tecnologie, il confine sempre più labile tra realtà e finzione, la crisi d’identità sono i più comuni incubi che affliggono la collettività a partire dalla “rivoluzione digitale” e il cinema a venire dovrà farceli assaporare in maniera sempre più avvolgente, angosciante e realistica.

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48 2. VERSO NUOVE FORME CINEMATOGRAFICHE

Il 20 luglio 1944, in Francia, esce alla sordina un saggio di René Barjavel, scrittore di fantascienza, intellettuale e sceneggiatore, dal titolo Cinema totale, saggio sulle forme future del cinema. Sono gli ultimi giorni dell’occupazione tedesca: Parigi è teatro di bombardamenti ed esplosioni ininterrotte, in un caos che conduce l’opera ad un oblio immediato quanto inevitabile. Neppure al termine della guerra, tuttavia, quando la critica cinematografica rinasce in riviste, settimanali e mensili, il libro riceve la meritata attenzione, tanto da venir brevemente liquidato come un’opera che attribuisce un’importanza assolutamente esagerata al progresso tecnologico. Si dovrà dunque attendere il 1956 perché lo studioso Edgar Morin riporti alla luce, nel suo saggio Il cinema o l’uomo immaginario, il mito del “cinema totale”, illustrato da Barjavel con tanta lungimiranza. Cinema totale non è un semplice insieme di previsioni sui progressi tecnici nel campo dell’immagine cinematografica. Il suo autore non si limita infatti a tracciare scenari più o meno plausibili in riferimento al cinema del futuro, ma svolge una vera e propria analisi delle modalità fruitive del cinema destinate ad affermarsi tra gli spettatori. Da tale disamina emerge la necessità di visioni sempre più immersive e di un consumo cinematografico emozionale, in grado di toccare l’essere umano nella sua consistenza corporea. E’ evidente come Barjavel, già negli anni Quaranta, credesse in un cinema in grado di recuperare i suoi aspetti più stupefacenti e fantasmagorici, capace di coinvolgere a tal punto lo spettatore da generare in lui/lei sussulti, palpitazioni, fremiti, ma anche incubi, paure, proiezioni del doppio. Sulla stessa linea di ragionamento, in un’intervista risalente al 1969, lo scrittore indicò la scomparsa dello schermo come un rivolgimento ulteriore e indispensabile per una cinematografia che rispondesse in maniera adeguata ai bisogni dell’essere umano. Come egli spiega:

“Lo schermo è un handicap, limita la ricezione. Il grande passo futuro sarà la scomparsa dello schermo, la possibilità di ricreare l’immagine nelle tre dimensioni fuori da qualsiasi superficie di ricezione. La registrazione magnetica è già un progresso enorme, ma la ricezione deve ancora compiere un passo fondamentale. L’universo infinitamente grande e infinitamente piccolo, il visibile e l’inimmaginabile, i morti e i vivi, il cielo e i suoi astri, la Terra e i suoi abissi, e l’uomo trionfante o vinto, obbediente alle mani magiche degli artisti, comporranno allora

49 una sinfonia prodigiosa, un balletto vorticoso di colori, di volumi e di suoni, un fiume di bellezza al quale i popoli si disseteranno.36”

Nel prefigurare i cambiamenti futuri e l’importanza sempre più decisiva che l’immagine cinematografica avrebbe assunto, Barjavel fu guidato da una convinzione costante ed irrinunciabile. Egli sosteneva infatti che “là dove va la sua immaginazione segue l’uomo37”, un’idea che alla luce delle rapidissime evoluzioni tecniche dell’ultimo secolo si rivela tutt’altro che azzardata. Si è dunque scelto di analizzare i punti chiave del Cinema totale, che hanno assunto un ruolo decisivo nelle attuali sperimentazioni sull’immagine filmica, fornendo un riscontro concreto alle intuizioni dell’autore francese. E’ d’obbligo evidenziare innanzitutto come Barjavel, nel suo percorso predittivo, abbia esaminato in primo luogo sé stesso in quanto spettatore, cogliendo il bisogno corporeo e sensibile dell’essere umano di modificare e di rivoluzionare la propria posizione nei confronti del film. Egli dà voce nel suo scritto alla necessità di abbandonare la semplice contemplazione di una rappresentazione, per crearne e manipolarne invece una nuova. Il cinema che ne deriva è dunque in grado di strutturare visivamente e rendere abitabile la dimensione mentale e psicologica dell’uomo, ne materializza i desideri e le angosce al confine tra il sogno e l’incubo. Nel suo sforzo immaginativo di un testo filmico sempre più appagante e completo grazie ad un notevole “iper-realismo”, Barjavel sottolinea l’importanza della tridimensionalità nel fornire immagini che restituiscano compiutamente le caratteristiche della visione naturale. Ipotizzando un pieno raggiungimento della volumetria al cinema, lo scrittore adocchia curiosamente la possibilità di trasformare l’immagine in ciò che egli definisce “onde”, un concetto che fa pensare non solo alla televisione e alla radio, ma anche agli attuali codici informatici. “In verità occorrerà trasformare direttamente in onde le immagini degli oggetti reali, poi queste onde in immagini virtuali.”, egli scrive, “Queste immagini saranno materializzate senza lo schermo, o nel riquadro di uno schermo voluminoso e trasparente, forse anche immateriale, costituito, anche lui, da un fascio di onde38.”

36 Cit. Barjavel, René. In Barjavel, René. Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema. Trad. It. Editori Riuniti: Genova, 2001, p. 102.

37 Cit. Barjavel. In Barjavel, Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema , p.101.

38 Barjavel, Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema, p. 59. 50 Dal punto di vista più prettamente economico e politico Barjavel immagina inoltre un cinema trasmesso direttamente nelle nostre case e per il quale lo Stato (o forse una o più imprese di distribuzione audiovisiva?) richieda un contributo economico sulla base del consumo. Un tale panorama è così delineato: «Avremo indubbiamente degli apparecchi riceventi muniti di contatori nei quali si registrerà ogni volta il consumo che avremo fatto di questa o quella lunghezza d’onda. Noi pagheremo la Compagnia esattrice dei diritti cinematografici, come paghiamo oggi la Compagnia del gas o dell’elettricità39». Una descrizione che fa pensare immediatamente agli attuali sistemi di pay-per-view e Tv on-demand . Dopo aver immaginato una struttura economica e sociale in grado di accogliere questa nuova tipologia cinematografica, Barjavel si inoltra ad approfondire le caratteristiche stilistiche ed estetiche del “cinema totale.” Nell’immagine in movimento egli intravede infatti una maniera rinnovata di espressione filosofica e astratta: “i ‘pensatori’ non cercheranno più di esprimersi con frasi aride. Le accompagneranno con immagini, suoni, colori, volumi tridimensionali.40” Egli concepisce film che siano come “cattedrali”, complessi e multisfaccettati, frutto dell’applicazione delle diverse arti, in grado di restituire la bellezza attraverso un uso sinergico della scultura, della poesia, della pittura, dell’architettura. Le descrizioni con cui l’autore ci lascia immaginare questa nuova tipologia di immagine sono estremamente suggestive e richiamano in maniera vivida le istallazioni che al giorno d’oggi sono allestite per celebrare date oppure opere importanti, all’interno di esposizioni o di parchi a tema. Rileggendo le sue parole, seppur a distanza di più di un cinquantennio, ci si accorge di aver in mente un’idea di cinema molto vicina alla sua, che ci coinvolga in maniera sempre più personale e diretta all’interno di un’esperienza allucinatoria e realistica al tempo stesso.

“Le nuove tecniche di trasmissione degli spettacoli saranno utilizzate per insegnare ai popoli la loro storia vivente. I fantasmi dei grandi uomini precederanno i cortei commemorativi. L’immagine della Bastiglia riapparirà ogni quattordici luglio nel cuore di Parigi e i giovani abitanti della capitale si mescoleranno ai loro antenati per prenderla d’assalto […] A domicilio, il cinema totale, prigioniero per un istante dell’apparecchio ricevitore e del suo schermo, evaderà per passeggiare nell’appartamento. Il borghese, ben sazio del suo pasto, sprofondato nella sua poltrona, proietterà l’immagine virtuale ai suoi piedi, sul

39 Barjavel, Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema, p.66.

40 Ivi, p.87. 51 tappeto, o vicino al tavolo, o da qualche parte nello spazio, tra il parquet e il soffitto. […] All’alba un giornale radio farà danzare la sua attualità sul nostro piumino. […]41”

Immersività, virtualità, interazione, tridimensionalità ed emozionalità sono dunque i caratteri indispensabili del “cinema totale” che l’autore delinea. Come emergerà dall’analisi che segue queste stesse peculiarità sono al centro della ricerca relativa a modalità cinematografiche possibili, che sembrano attenderci in un futuro assai prossimo.

2.1 TECNOLOGIA E CULTURA Come mette in luce il saggio Cinema Totale, la storia del cinema procede, fin dai suoi albori, parallela ad un progressiva proliferazione di massa degli apparati tecnologici. Nel corso della loro espansione, le tecnologie hanno assunto un significato ridefinito di volta in volta sulla base dell’esperienza umana, al punto da determinare esse stesse i processi attraverso cui l’uomo attribuisce senso ed interagisce con il mondo intorno a sé. Gli investimenti del complesso militar-industriale, l’emergere dei sistemi cibernetici, lo sviluppo di una rete globale di telecomunicazioni ed il successo raggiunto dal Personal Computer sono solo alcuni dei fattori che dimostrano manifestamente quanto la nostra sia una società fondata sullo scambio tecnologico, dove le scienze sembrano talvolta influenzare il cinema ancor più di fattori di natura sociale. Il 1955 rappresenta a questo proposito una data fondamentale, poiché segna l’adozione quasi simultanea di vari sistemi tecnologici rivoluzionari da parte degli studios hollywoodiani. Nell’arco di un breve periodo il Cinerama, il Colorama, il Cinemascope, il cinema in 3D e il suono stereofonico fecero la loro comparsa nelle sale, dando inizio ad un vero e proprio contrattacco dell’industria cinematografica nei confronti della televisione, entrata prepotentemente in moltissime case americane, privando il cinema di parte del suo pubblico. Sempre nel 1955 Morton Heilig parlò per la prima volta nel suo saggio “The Cinema of the Future”di experience theater, un cinema in grado di coinvolgere i cinque sensi in maniera realistica, immergendo completamente lo spettatore nei fatti narrati. Fu egli stesso, inoltre, a brevettare di lì a poco, nel 1962, il Sensorama, un sistema meccanico che, oltre a stimolare vista e udito,

41 Barjavel, Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema , p. 67. 52 faceva uso del movimento e della vibrazione, emanava odori, risposte tattili e produceva brezze artificiali tramite un ventilatore. L’utente veniva così avvolto da scenari di vario tipo, dalla guida lungo le strade di Brooklyn ad uno spettacolo di danza del ventre. Le invenzioni introdotte in quegli anni sono la dimostrazione del ruolo imprescindibile dell’arte nel trasferire la conoscenza scientifica al reame più profondo delle sensazioni. L’ambito artistico e, nel caso specifico, cinematografico funge per sua natura da vero e proprio ponte tra le capacità tecniche dell’uomo ed il suo mondo percettivo e relazionale. Come abbiamo illustrato, gli anni Cinquanta vedono l’impiego di uno sforzo scientifico e tecnologico sempre maggiore al fine di registrare, combinare e riproiettare elettronicamente gli stimoli che provengono dai cinque sensi, con un grado di precisione e accuratezza che va di pari passo con i miglioramenti tecnologici. Si tratta di una ricerca di sfumature sempre più precise nella resa di dati percettivi quali la visione periferica e tridimensionale dell’essere umano (180° in orizzontale e 150° in verticale), sensazioni tattili di temperatura, texture, pressione, variazioni tonali del suono, gradazioni di colore, etc. Morton Heilig così spiega con entusiasmo la sua idea di “cinema totale”:

“Apri gli occhi, ascolta, annusa e senti – sperimenta il mondo in tutti i suoi magnifici colori, profondità, suoni, odori e superfici – questo è il cinema del futuro! […]Una bobina del cinema del futuro sarà un rotolo di nastro magnetico con una pista separata per ciascun materiale sensoriale: risolvendo questi problemi è facile immaginare il cinema del futuro. Il film non riempirà solo il 5 percento del nostro campo visivo come succede per i film attuali, né il mero 7.5 percento del Wide Screen o il 18 percento del Cinemascope o il 25 percento del Cinerama, ma il 100 percento. Lo schermo s’incurverà sopra le orecchie dello spettatore su entrambi i lati e oltre la sua sfera della visione, sopra e sotto. Il cinema del futuro dovrà tenere conto della visione periferica umana, come nel caso dei planetari.42”

Dalla descrizione di Heilig emerge quella stessa necessità, già espressa da Barjavel nel decennio precedente, di abbandonare la caratteristica planarità e bidimensionalità del cinema, per ricreare una profondità illusoria che non richieda l’utilizzo di occhiali speciali. Entrambi gli autori aspirano ad una visione perfezionata e potenziata, parzialmente raggiunta in quegli anni dal Cinerama. Tale sistema fece la sua prima

42 Heilig, Morton. “The Cinema of the Future”. 1955. In Utterson, Andrew Technology and Culture. The Film Reader. Routledge: Londra e Taylor and Francis Group: New York, 2005, pp. 21-22.

53 comparsa ufficiale al Broadway Theatre di New York nel 1952. Il meccanismo constava di tre pellicole che proponevano immagini simultanee dello stesso soggetto, ripreso da 3 angolazioni poste a 48° l’una dall’altra. L’immagine che ne risultava non solo era tre volte più larga di quella standard, ma copriva un arco di ben 146° e dunque molto vicino al campo visivo umano. Gli spettacoli di Cinerama si tenevano presso teatri con posti riservati, in cui gli spettatori sedevano di fronte ad uno schermo ricurvo, su cui tre proiettori proponevano il film secondo la stessa angolatura delle cineprese con cui era stato girato e lungo una speciale intelaiatura fatta a veneziana, che evitava giochi di luce tra i diversi punti della semisfera. Oltre al notevole impatto visivo di questo sistema, il Cinerama fu uno dei primi processi ad introdurre il suono registrato su più piste magnetiche e a proiettare immagini a 26 fotogrammi al secondo, anziché 24. Altri sistemi ad esso affini, come il Todd- AO, il Cinemascope o l’Imax si possono ritenere semplici tentativi “a basso costo” di avvicinarsi al risultato emblematico raggiunto dal Cinerama, mentre processi come l’Ultra Panavision 70 e il Super Panavision 70 ne furono derivazioni poco soddisfacenti. Oltre al perfezionamento della qualità dell’immagine, la ricerca si è rivolta a tutti gli ambiti del sensibile. Nella sua capacità di movimento, l’agente personificato del cinema (la cinepresa) costituisce infatti uno spazio visivo, così come uno spazio motorio e tattile, che si rivela immediatamente profondo e rugoso, abitabile materialmente e dunque aperto all’integrazione di ulteriori stimoli sensoriali. Il suono stereofonico è servito, per esempio, a racchiudere lo spettatore dentro una sfera di suoni provenienti da ogni direzione, secondo modalità proprie della vita reale. Varie ricerche sono state inoltre condotte al fine di riprodurre odori e cambi di temperatura. Nell’ambito delle sperimentazioni olfattive prevalsero, a partire dagli anni Sessanta, tre sistemi in particolare: l’Aromarama, un sistema che immetteva profumi nella sala attraverso il condotto d’aerazione; lo Smell-o-vision, formato da piccoli tubi attaccati alle poltrone e il più elementare Odorama, un cartoncino da annusare che veniva distribuito ad ogni spettatore, riutilizzato dal regista John Waters in una versione speciale del film Polyester del 1982. Le ricerche in questo campo, che si fanno risalire ai primi decenni del Novecento, proseguono ancora oggi, tanto che la NTT, il più importante operatore delle telecomunicazioni in Giappone, ha installato nel 2006 in varie sale del Sol Levante una tecnologia attraverso la quale è possibile trasmettere gli odori di un film. Il Nuovo Mondo di Terrence Malick (2005) è stata la prima pellicola ad avvalersi di questo sofisticato meccanismo, che permette di annusare fino a sei

54 odori diversi in accordo con i momenti del film, tra cui, nel caso specifico, resina, foglie e terra. Un esperimento ancora precedente riguardava La Fabbrica di Cioccolato di Tim Burton (2005), per cui si predisposero proiezioni accompagnate da un gradevole odore di cacao. Il realismo, o meglio l’iperrealismo al quale si aspira, risiede dunque in un connubio di elementi derivanti sia dal mondo esterno che da quello finzionale, cosicché un determinato odore arriva ad essere associato direttamente alla sensazione che esso genera nel nostro animo o in quello dei protagonisti del film. Un cinema di questo tipo, focalizzato sulla percezione, prevede quindi la possibilità di far slittare spontaneamente la nostra attenzione secondo movimenti interni allo stesso senso o da un senso ad un altro ed è destinato a non essere più un’arte visiva, ma piuttosto un’arte della coscienza, una maniera per vivere esperienze e trarne le debite lezioni e nutrimento spirituale, senza alcuna perdita . Nel 1967 André Bazin teorizza questa possibile svolta della cinematografia all’interno del saggio “The Myth of Total Cinema”. Egli spiega che un cinema “totale” dovrà essere in grado di fornire in primo luogo “la completa illusione della vita43” , e afferma inoltre che “il mito guida ad aver ispirato l’invenzione del cinema è il raggiungimento di ciò che dominava in modo più o meno vago tutte le tecniche di riproduzione meccanica della realtà durante il 19° secolo, dalla fotografia al fonografo, ovvero un realismo integrale, una ricreazione del mondo a sua stessa immagine, un’immagine resa leggera dalla libertà di interpretazione dell’artista o dall’irreversibilità del tempo44”. Pochi anni dopo l’invenzione del Sensorama, nel 1968, Ivan Sutherland con l’aiuto di Bob Sproull, un suo studente, diede vita presso l’università di Harvard a quello che è oggi considerato il primo sistema di realtà virtuale. Tale apparecchio prevedeva un visore talmente pesante da dover essere appeso al soffitto – da cui il nome “La spada di Damocle” - e permetteva all’utente di spostarsi virtualmente tra stanze molto semplici realizzate in wireframe. Il primo sistema di realtà virtuale ad acquisire una certa notorietà fu però l’Aspen Movie Map, realizzato dal Massachussets Institute of Technology nel 1978. Si trattava nello specifico di una simulazione piuttosto schematica della cittadina di Aspen in Colorado, in cui gli utenti potevano camminare per le vie in tre modalità: inverno, estate e poligonale. Nei primi due casi si proponeva una serie di filmati dei luoghi ripresi nelle stagioni indicate, che coprivano ogni

43 Bazin, André. “The Myth of Total Cinema”. 1967. In Utterson (a cura di), Technology and Culture. The Film Reader, p. 34.

44 Ivi, p. 36. 55 possibile percorso all’interno della città, mentre il terzo si riferiva a una grezza ricostruzione poligonale della cittadina. A dispetto di questi esperimenti, il termine virtual reality fu coniato solo nel 1989 da Jaron Lanier, fondatore della Virtual Programming Languages, un’impresa che si dedicava precisamente a questo tipo di sperimentazioni. Le indagini in questo ambito riguardano in concreto la ricerca di un metodo per trasmettere la piena consapevolezza dell’uomo in tutta la sua varietà e vitalità, un’esperienza cinematica interamente immersiva attraverso un coinvolgimento espanso dei cinque sensi. I tentativi in tale direzione si concentrano dunque sulla messa a punto di un ambiente digitale inglobante, costruito attorno all’utente e con il quale egli possa interagire. Finora le ricerche hanno dimostrato la necessità di una serie di periferiche che permettano l’utilizzo delle simulazioni virtuali. Le apparecchiature che hanno ottenuto maggior successo sono in particolare visori, auricolari, wired gloves e data suits. Come abbiamo illustrato nel precedente capitolo, la fantascienza ha dedicato ampio spazio alla rappresentazione di questi dispositivi, traendo di certo spunto dalla sperimentazioni scientifiche effettive e al contempo lasciando volare l’immaginazione. Il visore è generalmente costituito, ad esempio, da un casco o un paio di occhiali che permettano di escludere il mondo reale dalla visuale dell’utente e, al tempo stesso, in grado di rilevare i movimenti del cranio riproducendoli nell’ambiente virtuale. Allo stesso modo la data suit è pensata per trasferire informazioni relative al corpo dell’utente all’interno della realtà virtuale e inviare stimolazioni di tipo tattile a quest’ultimo, in un dialogo costante tra individuo e ambiente. Infine, i wired gloves, che vediamo raffigurati in maniera eccellente nel film Johnny Mnemonic, aspirano a sostituire tutte le periferiche attuali quali il mouse, la tastiera, il joystick o la trackball, nell’interazione con la realtà virtuale: essi sono veri e propri simulacri delle nostre mani, che spostano oggetti, impartiscono comandi, premono pulsanti all’interno della simulazione. Dati i rapidissimi progressi nel campo della bioingegneria e delle nanotecnologie, non si esclude inoltre che gli attuali sistemi di accesso alla realtà virtuale saranno un giorno ridotti a sistemi microscopici, direttamente impiantati nel corpo umano e collegati al cervello dell’utente, secondo il concetto di wetware, tanto caro alla letteratura cyberpunk. Alla nozione di virtual reality si è inoltre affiancata ultimamente anche quella di augmented reality, ovvero una convivenza tra realtà ed immagini generate al computer, che complessifica, filtra e accultura ulteriormente il rapporto dell’individuo con l’ambiente che lo circonda. Si può parlare in questo caso di un ambiente estremamente mediatizzato, dove l’interazione dell’uomo con la realtà

56 avviene esclusivamente tramite filtri e strumenti tecnologici e in cui il confine tra materiale e immateriale sarà sempre più labile. Una panoramica relativa alle innovazioni tecnologiche che hanno reso il cinema maggiormente predisposto ad un’interazione partecipe da parte dello spettatore, non può infine tralasciare quella serie di invenzioni che ha permesso di alterare il ritmo e lo scorrimento effimero del film. Le videocassette a nastro magnetico e i videoregistratori (Video Cassette Recorder), introdotti sul mercato alla fine degli anni Sessanta sono stati il primo sistema ad offrire al grande pubblico la possibilità di manipolare a propria scelta la temporalità del film. Prima della diffusione delle apparecchiature di home video, la costruzione di una temporalità soggettiva era infatti delegata unicamente a scelte stilistiche di regia, fotografia e montaggio. Ancora oggi, concetti come la memoria, il desiderio, l’umore continuano infatti ad essere espressi nei film tramite flashback, flashforward, freeze framing, pixelatura, slow e fast motion, oppure attraverso l’espansione o la compressione del montaggio, nell’intento di descrivere un tempo soggettivo differente da quello lineare e irreversibile, benché simultaneo ad esso. Se le videocassette hanno dunque permesso al singolo spettatore di operare direttamente sul continuum temporale offertogli dal confezionamento del film, un ulteriore passo in avanti nella messa a punto di sistemi di registrazione e riproduzione degli audiovisivi è avvenuto con la digitalizzazione delle pellicole e la sostituzione dei dispositivi magnetici con nuovi supporti di tipo ottico e digitale (DVD e videoregistratori digitali provvisti di hard disk). Un tale passaggio è stato innanzitutto il sintomo di un cambiamento epistemologico e culturale fondamentale: l’adozione di sistemi digitali al cinema segna infatti uno spostamento progressivo della temporalità da flusso cosciente dell’esperienza a trasmissione casuale di informazioni. Il valore fondamentale della temporalità elettronica è infatti il bit o l’istante, che, grazie alle attuali apparecchiature, può essere selezionato, combinato, ripetuto e ripercorso al punto che la direzione ed il flusso del tempo oggettivo sembrano risultarne definitivamente sconfitti. La rivoluzione elettronica segna infatti un nuovo tipo di penetrazione e colonizzazione della natura e dell’inconscio, facendo emergere una strutturazione acentrica e reticolare del desiderio, una temporalità debole e una trasmissione simultanea degli stimoli e dei fenomeni. Tali fattori, di derivazione tecnologica, richiamano però direttamente le natura entropica ed empirica del mondo sensibile, che può essere vissuto solo in maniera individuale, soggettiva ed, in parte, inconscia. La temporalità ricorsiva e discontinua, ristretta e dilatata permessa

57 dall’avvento delle tecnologie digitali ha dunque favorito, almeno in parte, un ritorno a forme meno organizzate e più spontanee di conoscenza e fruizione del mondo, liberando lo spettatore dalle costrizioni di una struttura filmica rigorosamente impostata a priori. Alla luce delle precedenti considerazioni, è d’uopo sottolineare come le sperimentazioni rivolte ad un cinema multisensoriale si siano combinate, a partire dagli anni Settanta, con le ricerche del settore elettronico, informatico e cibernetico. Un tale fatto è spiegabile non solo in base a fattori prettamente tecnici, ma anche strettamente culturali. Jean Louis Comolli, scrive al riguardo:

“E’ così che la variazione storica delle tecniche cinematografiche, la loro comparsa – sparizione, le loro fasi di convergenza, i loro periodi di dominio o di declino sembrano dipendere non da un ordine razional- lineare di perfezionamento tecnologico, né da un’istanza autonoma di ‘progresso scientifico’, ma piuttosto dagli aggiustamenti e dalle decisioni portati avanti dalla configurazione sociale al fine di rappresentare sé stessa, cioè di cogliere sé stessa, identificarsi e riprodurre sé stessa attraverso la propria rappresentazione45.”

L’intellettuale francese prosegue poi la sua riflessione, dimostrando come ben cinquant’anni prima delle invenzioni di Edison e dei Lumière il cinema fosse già stato formalmente inventato, benché non ancora pronto per una sua integrazione nella sfera sociale, economica e ideologica. Per un’effettiva affermazione del cinema c’era bisogno, a suo parere, di un processo di estensione del visibile pari a quello che si verificò nella seconda metà diciannovesimo secolo, non solo grazie alla diffusione di riviste illustrate, stampe e caricature, ma soprattutto grazie alle esplorazioni e alle colonizzazioni che portarono visibilità a zone fino ad allora poco conosciute del pianeta. Da un tale contesto socio-culturale emerse quell’“egemonia dell’occhio” che ci induce ancora oggi ad equiparare il reale al visibile, secondo quell’illusione di specularità e verosimiglianza caratteristica del logocentrismo occidentale, che la profondità di campo in cinematografia non fa che confermare. L’avanzata delle tecnologie digitali nel mondo del cinema altro non è, secondo tale ragionamento, se non la risposta ai bisogni e alle rappresentazioni di un’epoca che si fonda su database di informazioni, rielaborati ogni volta in configurazioni differenti,

45 Comolli, Jean Louis. “Machines of the Visible”. 1980. In Utterson (a cura di), Technology and Culture. The Film Reader, p.37. 58 che dotano di un’apparenza perennemente mutevole la stessa sostanza. Nel suo saggio del 1996 “Cinema and Digital Media” Lev Manovich aveva preannunciato la trasposizione di tutti i media in forma digitale, verificatasi negli anni seguenti, spiegando come fosse stato il cinema stesso a preparare gli individui all’avvento del digitale:

“Gradualmente il cinema ci ha insegnato ad accettare come dati di fatto la manipolazione del tempo e dello spazio, la codifica arbitraria del visibile, la meccanizzazione della visione e la riduzione della realtà ad un’immagine in movimento. Ne risulta che al giorno d’oggi lo shock concettuale della rivoluzione digitale non è percepito come un vero shock – perché eravamo pronti ad esso da lungo tempo46.”

Come abbiamo cercato di dimostrare, esiste nel cinema un’irrefrenabile spinta verso simulazioni sempre più efficaci della realtà. Secondo tale logica, il codice binario è dunque destinato, inevitabilmente, ad essere il principale strumento nel dar vita a universi artificiali infinitamente manipolabili e, finalmente, interattivi.

2.2 IL CORPO “SIMULATO” Il legame tra informatica e cinema, sancito a partire degli anni Settanta, si è consolidato nei decenni successivi fino a divenire un nucleo fondamentale della cultura popolare a partire dai primi anni Novanta. E’ in quegli anni che si è cominciata a concepire un’unione tra esseri umani e tecnologie elettroniche sia all’interno della comunità scientifica sia nei testi di cultura popolare come i film, la televisione, i videogiochi, le riviste, la narrativa cyberpunk e i fumetti. La gran parte dei discorsi di quel periodo concepisce la possibilità di una fusione umana con le tecnologie computerizzate in termini assolutamente positivi, figurandosi un ibrido uomo/computer che manifesti un’intelligenza altamente evoluta e sfugga alle inevitabili imperfezioni del corpo umano. Esaminando nel dettaglio i prototipi visivi e le descrizioni letterarie di questi cyborg, risulta tuttavia evidente il ricorso ad un linguaggio e ad un immaginario inevitabilmente associati al corpo e alle sue funzioni, che intende rappresentare una perfezione umano-tecnologica. Il dubbio che ne sorge è dunque se le tecnologie computerizzate – ed il cinema che ne farebbe uso – rappresentino una

46 Manovich, Lev. “Cinema and Digital Media”, 1996. In Utterson (a cura di), Technology and Culture. The Film Reader, p. 28. 59 sperata fuga dal corpo fisico oppure se esse servano piuttosto a costruire una corporeità altra e più complessa, che conduca alla soddisfazione di un mutato desiderio erotico. J. G. Ballard, scrittore di fantascienza di grande notorietà e di poco successivo a Philip F. Dick, scriveva negli anni Novanta, con toni apocalittici:

“Sono convinto che il sesso biologico, corpo contro corpo, pelle contro pelle, non sia più possibile…Ciò che abbiamo ora è un completo nuovo ordine di fantasie sessuali, che coinvolgono una diversa classe di esperienze, come gli scontri in automobile, i viaggi su jet aerei, l’intera distesa di nuove tecnologie, architettura, interior design, comunicazioni, trasporti, merchandising. Queste cose stanno iniziando ad invadere le nostre vite e a cambiare l’interior design delle nostre fantasie sessuali47.”

Contemporaneamente a tali predizioni, numerose équipe di scienziati cominciavano a progettare modalità di integrazione della coscienza umana all’interno dei computer, in un processo simmetricamente opposto alla creazione di Intelligenza Artificiale, che preannunciava cupamente un futuro in cui il corpo umano ormai obsoleto sarebbe stato rimpiazzato da computer che trattenessero la coscienza umana sui loro software. La nascita del World Wide Web e l’aumento esponenziale della potenza dei Personal Computer contribuirono a diffondere tale fiducia in un’esistenza mistica, astratta e meno dolorosa, vissuta nel grembo dei nuovi sistemi elettronici. La studiosa Claudia Springer così descrive nel 1991 il mutato contesto tecnologico:

“[…]il piacere dell’interfaccia, in termini lacaniani, risulta dall’offerta del computer di trasportarci in un immaginario microelettronico dove i nostri corpi sono cancellati e la nostra coscienza integrata alla matrice. La parola matrice, infatti, trae origine dal latino mater (che significa sia madre che utero)e la prima delle sue definizioni su Websters è ‘qualcosa entro la quale un’altra entità ha origine o si sviluppa’. I computer nell’immaginario cyborg della cultura popolare estendono fino a noi il brivido di una fuga metaforica dentro la sicurezza confortante di un ventre materno, che, come spiega Freud, rappresenta la nostra prima Heim (casa), dove abbiamo esperito i primi momenti di vita nel momento in cui la nostra incoscienza assomigliava alla morte48.”

47 Springer, Claudia. “The Pleasure of the Interface”. 1991. In Utterson (a cura di), Technology and Culture. The Film Reade, p.70.

48 Springer, “The Pleasure of the Interface”. In Utterson (a cura di), Technology and Culture. The Film Reader, p.78. 60

La risposta alla rivoluzione digitale diffusa risultò quindi, inizialmente, in una svalutazione del corpo umano, svilito al cospetto della perfezione e precisione ottenibili grazie alle nuove tecnologie. L’entusiasmo verso l’avanzata dei microchip si manifestò dunque in risposte iperboliche ed isteriche, che esaltavano un trasferimento dell’esistenza all’interno di reti informatiche, mettendo completamente in crisi il corpo vissuto. L’immagine della corporeità che ne risultava era di un corpo pesante, eternamente soggetto alla gravità, mortale e vulnerabile, che aveva perduto il proprio valore vitale e simbolico all’interno di un mondo concreto abitato da altri individui. La docente e critica di cinema Vivian Sobchack scrive nel 1994, in riferimento all’interpretazione di Terminator da parte di Arnold Schwarzenegger e all’iconografia caratteristica di quegli anni:

“Da un lato le immagini in movimento contemporanee ci mostrano un corpo umano incessantemente e fatalmente messo in discussione, crivellato di colpi e fatto esplodere, incapace di mantenere la propria integrità e gravità materiali. D’altro canto l’attuale e ricorrente ossessione con l’aspetto fisico manifestano il desiderio di trasformare il corpo umano in qualcos’altro - una “macchina” asciutta, malvagia e immortale, un cyborg che possa interagire direttamente con le reti elettroniche e mantenere una presenza materiale nell’attuale mondo digitalizzato del soggetto.49”

Una tale crisi materiale della corpo, sprezzantemente chiamato meat o wetware dalla letteratura cyberpunk, svolse tuttavia un ruolo strategico nell’attirare attenzione sull’aspetto sensibile dell’essere umano, al fine della sua persistenza a dispetto della simulazione. Tanto disprezzo è così interpretabile come un vero e proprio grido affinché la presenza dell’uomo nel mondo elettronico non consista semplicemente nell’esistere su di uno schermo o nel “downloadare” la propria coscienza all’interno di reti neurali elettroniche. Ed è così che la digitalizzazione del corpo si rivela chiaramente come l’unica speranza di una civiltà terrorizzata e bisognosa di ignorare problemi contingenti ed incalzanti come l’AIDS, l’accattonaggio, la fame, la torture e tutti gli altri mali di cui la carne è erede. Svalutando il corpo fisicamente vissuto e la

49 Sobchack, Vivian. “The Scene of the Screen: Envisioning Cinematic and Electronic ‘Presence’”.1994. In Utterson (a cura di), Technology and Culture. The Film Reader, p. 139. 61 materialità concreta del mondo, l’esaltazione dell’esistenza virtuale negli anni Novanta serviva dunque innanzitutto a suggerire l’imminente pericolo di divenire meri fantasmi dentro una macchina. Come illustra chiaramente la studiosa, “vivere in un meta-mondo schematico ed intertestuale, ben lontano da referenti al mondo reale libera lo spettatore/utente da ciò che potrebbe essere definita come la gravità fisica e morale di quest’ultimo50”. Non si può infine negare lo stretto legame che da sempre sussiste tra sessualità e tecnologia, a conferma della tesi secondo cui i sistemi informatici divennero in breve funzionali ad una rinnovata esplorazione della sensorialità. Come sottolineato dalla Sobchack, i cyborg della cinematografia anni Novanta manifestavano infatti una sfera sessuale forte, secondo la comune logica per cui la tecnologia fornisce un brivido erotico ai tecnofili, che intravedono in essa la possibilità di un potere enorme da utilizzare per controllare gli altri. La fascinazione per la tecnica, gia palesata in opere come Metropolis o L’uomo con la macchina da presa, viene esplicitata a partire da quegli anni in tutta la sua veemenza. La produzione di un proprio alter ego virtuale assume dunque il carattere di un atto sessuale narcisistico, mentre la perdita di sé stessi nei meandri delle nuove reti informatiche può essere facilmente associata, per metafora, ad un orgasmo. E’ proprio negli anni Novanta che viene coniato il termine teledildonics, in riferimento ad un uso sessuale ed onanistico delle tecnologie che già paventava gli attuali scenari di sesso virtuale. Non è del resto casuale la tendenza ormai consolidata tra gli individui di descrivere il proprio corpo ed i propri processi mentali sulla base dei sistemi computazionali, così come i film ed i computer sono descritti in termini umani. La parola “virus” è solo il più noto di una lunga serie di esempi. Tali riflessioni sugli aspetti sensuali della tecnica ci obbligano dunque a convenire con l’affermazione del filosofo Martin Heidegger secondo cui “l’essenza della tecnologia non ha nulla di tecnologico”.

50 Sobchack, “The Scene of the Screen: Envisioning Cinematic and Electronic ‘Presence’”. In Utterson, (a cura di), Technology and Culture. The Film Reader, p.138. 62 2.3 EXPANDED CINEMA ED INTERATTIVITA’

“The machine is always social before it is technical.” Jean Louis Comolli

Con l’avvento delle tecnologie informatiche a partire dalla fine degli anni Settanta, un impiego sempre più massiccio di effetti speciali digitali all’interno dell’industria cinematografica ha portato alla realizzazione di colossal hollywoodiani di fama universale, tra cui la saga di Star Wars, Jurassic Park, Titanic, fino a successi più recenti come la trilogia di Matrix. A dispetto della considerevole applicazione di sofisticati sistemi tecnologici nel cinema mainstream, sembra tuttavia che le più importanti sperimentazioni orientate all’invenzione di nuove forme filmiche raggiungano il più alto grado di originalità ed inventiva in ambiti che si collocano alla periferia del commercio cinematografico. Con la sua tendenza alla standardizzazione tecnologica e produttiva, l’industria cinematografica tradizionale, in particolare quella statunitense, tende infatti a congelare l’evoluzione dei propri linguaggi espressivi. Da un tale processo di omologazione deriva inevitabilmente una definizione assai rigida e predeterminata delle forme produttive e distributive, degli apparati tecnologici e, naturalmente, delle strutture narrative adottate, che poco si presta a rapidi cambiamenti. Nel contesto attuale la supremazia del modello hollywoodiano risulta dunque minata su più versanti dalle prospettive di flessibilità e dinamismo messe a disposizione dalla tecnologie mediatiche e digitali. La “rivoluzione digitale” non solo ha generato una vera e propria esplosione dei videogiochi e delle attrazioni nei parchi a tema, ma ha anche assicurato una piattaforma appropriata per l’evoluzione del cinema indipendente e sperimentale e, soprattutto, per la rinascita del cinema come mezzo personale ed individuale. Già negli anni Sessanta il sistema cinematografico tradizionale subì una forte scossa ad opera di un insieme di movimenti artistici, raggruppati sotto il termine-ombrello di Expanded Cinema, reso celebre dall’omonimo testo di Gene Youngblood del 1970. Le correnti di quel periodo attuarono vere e proprie modifiche dei codici filmici, avvalendosi di elementi propri del cinema stesso, impiegati in maniera innovativa sia dal punto di vista estetico che contenutistico. Negli anni Settanta la diffusione di

63 dispositivi video elettromagnetici aumentò ulteriormente le possibilità di manipolazione e ricostruzione dell’immagine in fase editoriale, facendo trionfare numerose correnti sperimentali di video art. Infine, la diffusione di sistemi digitali tra gli anni Ottanta e Novanta ha permesso un passaggio ad una nuova tipologia di immagine, quella algoritmica, spalancando le porte a nuove modalità produttive e fruitive del cinema, tra cui l’interattività, la virtualità, il comportamento programmato. La malleabilità del codice binario ha così favorito esperimenti eccentrici ed innovativi da parte di singoli artisti o di team, segnando un parziale ritorno ad una concezione filmica “delle origini”, basata su invenzioni messe a punto grazie alla genialità individuale. Non è del resto un caso che molte delle attuali sperimentazioni ruotino intorno ad una riformulazione creativa e dialettica di tecniche del 19esimo secolo, tra cui la lanterna magica ed il panorama. Nel saggio “Expanded Cinema, Video and Virtual Environments” Peter Weibel approfondisce i tentativi di sovversione che, proprio a partire dagli anni Sessanta, hanno investito la sostanza materiale dell’immagine filmica. L’intento fu innanzitutto quello di far emergere la consistenza fisica, tattile e tangibile del film, attraverso graffiature sulla celluloide (Rohfilm di Peter Weibel, 1968), perforazioni, pittura, applicazione di falene (Mothlight di Stan Brakhage, 1963), impronte digitali (Fingerprint di Birgit e Wilhelm Hein, 1967), oppure tramite la proiezione di pellicole vuote (Zen for Film di Nam June Paik 1962,) o sovraesposte. Se da un lato si attuava una vera e propria alterazione della superficie della pellicola, dall’altro le sperimentazioni erano orientate alla modifica degli schermi e dei supporti di proiezione. Nel 1964 Robert Whitman propose proiezioni su cortine di vapore con acqua corrente in Shower, mentre l’anno successivo sostituì lo schermo con abiti indossati in Prune Flat, presto imitato da Andy Warhol e Jud Yalkut che, nel 1966, proiettarono Exploding Plastic Inevitable direttamente su un audience che si agitava al suono dei Velvet Underground. Negli anni Sessanta lo schermo divenne dunque mobile e variabile e non mancarono innumerevoli esperimenti con schermi multipli, in cui il soggetto dello spettacolo era nuovamente la proiezione stessa. Stan VanDerBeek è l’artista che raggiunse maggior fama nel campo dei real-time multiple projection environment e arrivò a realizzare a Stony Point, New York, un’enorme cupola con volta (Movie Drome), su cui proiettare in contemporanea vari spezzoni cinematografici. Anche Andy Warhol si dedicò alle proiezioni multischermo, come

64 attesta il suo capolavoro del 1966, The Chelsea Girls51. La compresenza di più schermi e finestre, a formare una sorta di matrice, fu dunque un’invenzione filmica ancor prima che informatica: molto in anticipo rispetto al Neoromanzo di Gibson e al film dei Wachowski, la matrice veniva infatti utilizzata in campo cinematografico come metodo di narrazione visiva. Mike Figgis riprende brillantemente questa strategia estetica nel film Time Code in cui assistiamo ad una suddivisione del racconto in quattro parti, ripartite visivamente sullo schermo. Negli anni Novanta i concetti alla base dell’Expanded Cinema vennero ulteriormente ripresi e riattualizzati. Numerosi artisti riuscirono infatti ad intravedere nei giochi stilistici dei loro predecessori un brillante inizio degli ambienti immersivi, dei mondi virtuali e delle relazioni interattive tra spettatori e contenuti, anche se già negli anni Settanta si era fatto uso di telecamere a circuito chiuso per includere immagini dell’utente all’interno della narrazione. A partire dagli anni Novanta l’approccio alla creazione di ambienti virtuali risultò tuttavia molto più metodico rispetto ai decenni precedenti, orchestrato nel dettaglio e spesso orientato alla riflessione sociale o esistenziale. Il diffuso utilizzo di software digitali ai fini di una maggiore interattività si è affermato parallelamente alla ripresa di forme espressive tradizionali, come il teatro, la musica, l’arte di strada, il balletto. La fusione di differenti sfere artistiche con le tecnologie è servita così ad ampliare enormemente le possibilità di intervento dello spettatore ed il suo coinvolgimento nel processo interattivo. Nel 1988 fu ufficialmente istituito presso il Media Laboratory del Massachussets Institute of Technology il Gruppo di Cinema Interattivo, ispirato al lavoro di cineasti storici come Dziga Vertov, Robert Flaherty e, primo fra tutti, Richard Leacock. La ricerca di questo team si è rivolta fin da subito ad indagare le modalità in cui le tecnologie digitali possono influenzare la produzione e la presentazione dell’esperienza cinematografica. Il lavoro si è focalizzato in particolare sull’invenzione di tecnologie appropriate per rendere il cinema accessibile a chiunque desideri comunicare in maniera più complessa e personalizzata rispetto al cinema tradizionale, in un dialogo effettivo con il proprio pubblico. Moltissimi furono gli artisti che, indipendentemente degli ambiti universitari, iniziarono nello stesso periodo a cimentarsi con simili

51 Weibel, Peter. “Expanded Cinema, Video and Virtual Environments”, 2002. In Shaw, Jeffrey e Weibel, Peter (a cura di). Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film. ZKM | Center for Art and Media, Karlsruhe, Germania e The Massachussets Institute of Technology Press, Cambridge, Massachussets, 2003, p. 113. 65 propositi: basta ricordare tra questi alcuni nomi illustri come Chantal Akerman, Tony Oursler, Sam Taylor-Wood, Ute Friederike. Tra il 16 novembre 2002 ed il 30 Marzo 2003 si è inoltre tenuta a Karlsruhe, in Germania, un’esposizione internazionale dal titolo FUTURE CINEMA, sotto la direzione dell’artista e ricercatore Jeffrey Shaw. Tale evento si colloca assolutamente in prima linea nell’investigazione artistica, sociale e tecnologica relativa alle nuove forme di media digitali ed interattivi e pone particolare enfasi sull’espansione dei codici e delle tecniche cinematografiche. Dal catalogo pubblicato nel 2003, a seguito dell’esposizione, abbiamo tratto numerosi esempi di cinema interattivo, che risulteranno utili nelle pagine seguenti ad illustrare questa singolare ipotesi cinematografica. Al centro delle sperimentazioni è il potenziale detenuto dai database digitali di materiali audiovisivi, cui lo spettatore può accedere in maniera interattiva. L’adozione di archivi informatici in cui immagazzinare i testi filmici non comporta infatti l’abbandono di ogni principio narrativo. A partire dai contenuti disponibili l’autore può comporre una o più meta-narrazioni, introdotte da un’interfaccia con cui lo spettatore dovrà relazionarsi. Il processo fruitivo che ne deriva può definirsi in termini di “navigazione”, ovvero di un percorso plasmabile e fluttuante del fruitore all’interno del testo filmico, attraverso una serie di movimenti in più direzioni, che rendono l’utente al tempo stesso operatore e montatore. Le logiche narrative di causa- effetto ne risultano naturalmente indebolite, a favore della costruzione di racconti reversibili e ripetibili, con frequenti asincronie spazio-temporali, rievocate nel cinema tradizionale da film come Memento (2001). Anche il prodotto audiovisivo è così giunto a non poter più essere ricostruito a posteriori nel suo percorso di assemblaggio, come è accaduto precedentemente in campo musicale. Alla narrazione lineare tradizionale si sono affiancate strutture narrative rizomatiche, come gli ipertesti, i MUDs e l’associational indexing, che hanno creato spazi sociali distribuiti e multi-utente, fondamentali per un odierno Expanded Cinema. Il rizoma è, per definizione una rete in cui ogni punto può essere connesso ad ogni altro punto, che descrive inequivocabilmente ambienti come il World Wide Web ed i sistemi illimitati ed infinitamente rielaborabili che ne derivano, in cui algoritmi computazionali generano relazioni e narrazioni, talvolta a rischio di precipitare in un’eccessiva astrazione. La navigazione in ambienti multiformi, al punto di incontro tra cinema, informatica, teatro e performance live, implica direttamente un concetto ulteriore, ben esplicato dal termine immersione. Si tratta di un’esperienza di riposizionamento fisico ed

66 immaginativo, che induce ad un profondo coinvolgimento nel costrutto estetico e drammatico dell’opera. Internet ed i videogiochi, pur utilizzando schermi di dimensioni ridotte, offrono un esempio evidente di immersione, reso manifesto dalla dislocazione che l’individuo esperisce nell’esplorare universi di informazione predisposti. L’ambiente buio ed il silenzio magico della sala cinematografica sono anch’essi immersivi e favoriscono quella sospensione dell’incredulità necessaria al consumo estetico, ma in maniera decisamente meno partecipe e fisica rispetto ad una vera e propria navigazione dei contenuti. Se gli ambienti virtuali percorribili sono già una realtà praticabile, il futuro sembra portare in sé l’ancor più fantascientifica promessa di una scomparsa dello schermo a favore di immagini olografiche prodotte tramite laser o di una diretta generazione di immagini all’interno e all’esterno dei nostri occhi e dei nostri cervelli. A far luce su queste possibilità fantasmagoriche saranno forse ancora una volta quei geni sperimentatori e spesso solitari, che al momento portano avanti l’elaborazione di un cinema interattivo. Come scrive Dixon:

“Congiuntamente alla nuova corrente di video-arte, ai pezzi di performance live - molti dei quali esibizioni di un singolo - e alle nuove traiettorie in pittura e scultura, il cinema del nuovo millennio continuerà a trovare la sua maggior fonte di ispirazione in coloro che operano fuori dal sistema, creando lavori brillanti e originali al di là delle zone di rischio finanziario e corporativo.52”

2.4 NANOTECNOLOGIE E VIDEO-SORVEGLIANZA Un elemento da tenere in grande considerazione nel delineare possibili aperture per il cinema dei decenni a venire sono i progressi ottenuti nel campo delle nanotecnologie. Questo settore di sviluppo tecnologico si occupa nello specifico di riorganizzare strutture atomiche e molecolari in insiemi altamente miniaturizzati. La realizzazione di microsistemi di questo genere ha permesso dunque di rimpicciolire i computer, così come i meccanismi di sorveglianza fino alle dimensioni di uno spillo, con conseguenti benefici soprattutto nel campo medico e delle comunicazioni, ma anche a rischio di un utilizzo distorto e discutibile. L’ipotesi all’ordine del giorno riguarda infatti la fusione

52 Dixon, Wheeler W. The Second Century of Cinema. The Past and Future of the Moving Image. State University of New York Press: Albany, 2000, p.11. 67 di medicina ed ingegneria elettronica ai fine della creazione di biochip che permettano di rintracciare gli esseri umani in qualsiasi punto del globo. Già nel 1995 il film Johnny Mnemonic illustrava chiaramente questa possibilità, dipingendo una società claustrofobica in cui tutti gli spostamenti di un individuo sono tracciati e registrati, congiuntamente a dati di ordine medico, legale e anagrafico. Un pericolo intrinseco alle microtecnologie è dunque quello di creare dei veri e propri panopticon, in cui gli individui risultino soggetti ad una costante ipersorveglianza, dove computer e telecamere miniaturizzati registrino ogni singolo movimento ventiquattro ore al giorno, senza che l’oggetto del controllo sia effettivamente consapevole del perenne scrutinio cui è sottoposto. Il raggio di azione di questi meccanismi di controllo è stato ulteriormente ampliato dalla loro combinazione con le reti virtuali di diffusione dell’informazione. Alla fine degli anni Novanta sono sorti, ad esempio, siti quali Spy 7, che proponevano immagini di ricchi e famosi durante le loro scorribande nei locali notturni newyorkesi, catturate attraverso una videocamera miniaturizzata che utilizzava una lente in fibra ottica delle dimensioni di un chicco di caviale. Il progetto di Spy 7 prendeva il nome di NiteLife Cam e si avvaleva di un gruppo di giovani frequentatori di locali, direttamente collegati via cavo alle telecamere ed in funzione di veri e propri agenti sul campo. A fini prettamente scandalistici si affianca l’onnipresenza di meccanismi di videosorveglianza nella maggior parte dei contesti urbani, al punto che l’intera città risulta spesso virtualmente ricoperta da un’intricata rete di telecamere collocate in cima agli edifici, sui ponti o sulle torri di trasmissione. Il fenomeno è sorto in primo luogo a Londra, dove, a partire dai primi anni Novanta, si è verificato il proliferare di telecamere sistemate agli incroci stradali e innescate da puntatori radar agli infrarossi, in grado di catturare la targa delle auto che violavano il limite di velocità. Il prosperare di questi sistemi è stato successivamente incentivato dagli interessi delle compagnie assicurative, che pretendono una supervisione sempre più accurata dei luoghi pubblici e delle aree ricreative. Ne consegue che i mezzi di videosorveglianza sono destinati ad aumentare, finché anche nella sfera domestica saremo costretti a rinunciare quasi completamente alla privacy. In risposta a tali mutamenti, nel 1990 l’artista Julia Schrer immaginò e costruì un ambiente di sorveglianza domestica rinominato “la casa che restituisce lo sguardo”, che faceva uso di quasi tutte le tipologie di videosorveglianza note fino ad allora (telecamere a circuito chiuso, motion detection, biometria, sorveglianza audio, etc.).

68 Nel contesto da lei messo a punto i partecipanti venivano ripresi da videocamere nascoste, i loro spostamenti misurati e le loro conversazioni registrate. Da una tale archiviazione di dati si ricostruiva così una situazione di spionaggio estremamente vicina a quella interpretata da Jim Carrey nel film The Truman Show53. Oltre ai temibili risvolti totalitari e coercitivi di queste tecnologie, è interessante analizzarne anche l’apporto sul piano artistico e personale. La possibilità di integrare un gran numero di funzioni, di software e di dati all’interno di un dispositivo di dimensioni ridotte si traduce infatti nel concetto in via di sviluppo di digital street device, ovvero un oggetto che sia al tempo stesso telefono, stereo, TV, computer, fotocamera, telecamera, navigatore satellitare e forse anche qualcosa di più. Molte sono le aziende che hanno investito le loro ricerche in questa direzione, prima fra tutte la Apple che, dopo il successo dell’I-pod, ha messo sul mercato nel 2007 l’I-Phone, un supporto che si avvicina molto al prototipo sopra descritto. Inutile dire che sistemi con tali caratteristiche di portabilità, leggerezza e flessibilità ben si prestano alle sperimentazioni e alla produzione di contenuti individuali. Il digital street device così come ce lo immaginiamo sarà sempre al nostro fianco e ci permetterà di creare e modificare contenuti che potremo facilmente condividere con altri individui, ricevendone un feedback quasi immediato, grazie alle reti telefoniche, informatiche o addirittura ai segnali satellitari. In poche parole, il trionfo dell’interattività. Le conseguenze per il settore cinematografico sono evidenti. I microdispositivi di cui abbiamo parlato potranno infatti svolgere un ruolo fondamentale nella messa a punto di scenari interattivi, in cui il posizionamento ed il comportamento dell’utente siano in grado di influenzare l’intreccio e servano all’utente stesso per comunicare con l’ambiente interattivo e arricchirlo di tracce personali, producendo un testo unico ed irripetibile .

2.5 “DAL VIVO” Nell’estate 1998 Guillermo Gómez Peñas presentò a El Museo del Barrio di New York El Mexterminator, un’opera in bilico tra performance live e installazione video, volta a sottolineare le politiche razziste messe in atto dal governo americano nei confronti delle etnie latine. Il lavoro, realizzato anche grazie alla collaborazione di Roberto Sifuentes e Sara Shelton Mann, si interrogava innanzitutto sugli stereotipi dominanti diffusi dai media commerciali nei riguardi della cultura ispanoamericana.

53 Dixon, The Second Century of Cinema. The Past and Future of the Moving Image, p.42. 69 L’ambientazione messa in scena da Gómez Peñas era un 1999 post-apocalittico in cui gli Stati Uniti risultavano frammentati in una miriade di micro-repubbliche, ciascuna governata da un ministro “chicano” (messicano americano). Una serie ben orchestrata di eventi interattivi serviva ad illustrare ai visitatori, ovvero ai confusi ex-statunitensi, il nuovo “ibrido culturale”. L’esibizione si avvaleva di monitor che presentavano gli stereotipi vigenti della cultura messicana, buffi prototipi di mescolanze etniche, insieme a spezzoni di film western e gialli che ben evidenziavano le false immagini della società latina prodotte dalla cultura anglosassone. In aggiunta, una serie di vetrine esponevano giocattoli, maschere, componenti da giardino e artefatti di ogni tipo, mentre un water sul soffitto invitava i partecipanti a sedersi e ad assumere il ruolo della loro minoranza etnica preferita. Per l’occasione furono inoltre sviluppati degli (El Mad Mex, Cyber Vato e La Cultural Transvestite), che incarnavano elementi di ibridazione, iper-sessualità, infettività e violenza immotivata, generalmente attribuiti ai chicani. L’intero progetto includeva infine performance nelle vetrine di alta moda, apparizioni pubbliche inaspettate, annunci, manifesti e trasmissioni radiofoniche ad hoc. La predisposizione di chat su internet e interviste alla radio incoraggiava il pubblico a partecipare attivamente in veste del proprio avatar culturale preferito e a discutere dei propri desideri e delle proprie paure in relazione all’etnia di appartenenza. Il clima di generale movimentazione era continuamente alimentato da azioni di guerrilla metropolitana, che si tenevano in orari ed in zone non specificate della città di New York, con esiti provocatori ma anche giocosi e divertenti. Abbiamo scelto di illustrare il concept di El Mexterminator , in quanto fornisce un ottimo esempio di combinazione di video art, teatro e performance live, la cui riuscita si basa essenzialmente sull’intervento attivo dei partecipanti. La presenza dal vivo così come la telepresenza assumono in questo progetto il preciso scopo di rompere i confini dello spazio museale, espandendo l’universo dell’esibizione oltre i limiti sacri della galleria e incorporando il pubblico in un mosaico collettivo e provocatorio54. Gli ultimi decenni hanno infatti reso manifesto il successo di un genere di intrattenimento definito come location-based entertainment, ricorrente presso i parchi a tema, i complessi fieristici, gli Expo. Questo genere di attrazioni va dalle più sofisticate ed interattive esperienze di realtà virtuale ai più prosaici ride-films dei parchi a tema, fino ai videogame da sala giochi. L’enorme popolarità raggiunta da complessi come DisneyQuest o EuroDisney, ma anche il fascino irresistibile esercitato

54 Dixon, The Second Century of Cinema. The Past and Future of the Moving Image, p. 47. 70 da Las Vegas, così come dai negozi di alta moda o dai musei Guggenheim dimostrano il generale bisogno dei consumatori di essere fisicamente immersi in un mondo di finzione costruito ad arte intorno a sé. Anche il cinema è dunque costretto a rapportarsi con la necessità sempre più palese e contingente di esperienze “dal vivo”, che offrano eventi a tutto tondo e ad alto grado di tangibilità. In ambito museale si parla nello specifico di hands-on exhibits, ossia di esposizioni su cui il visitatore può letteralmente “mettere le mani”. La “visione congelata” caratteristica della sala cinematografica tradizionale, dove l’esperienza visiva costringe ad una presenza passiva, dovrà quindi essere ripensata in funzione di un coinvolgimento materiale dello spettatore nel testo filmico. Come abbiamo illustrato nella sezione del lavoro dedicata alle relazioni tra Expanded Cinema e cinema interattivo, già negli anni Sessanta si era verificata nell’ambito del cinema sperimentale una rotture netta del confine tra lo schermo e lo spazio circostante. Un tale mutamento di ordine concettuale relazionò direttamente il cinema con concetti relativi ad esperienze live, happenings, performances. Chantal Akerman è una delle cineaste che si sono fatte carico di tradurre le sperimentazioni cinematografiche degli anni Sessanta e Settanta in esperienze valide e significative nell’epoca attuale. Nel progetto D’Est del 1993 l’artista allestì, per esempi, un ambiente a metà tra la sala cinematografica ed il museo, popolato di schermi multipli e di televisori. Lo spettatore che assisteva alle proiezioni finiva col rivestire ruoli molteplici di passeggiatore, contemplatore, visitatore. Similmente, in Self Portrait/Autobiography: a Work in Progress (2000) la Akerman sfruttò più schermi per raccontare la propria biografia, permettendo allo spettatore di muoversi nello spazio da una narrazione ad un’altra. Nel progetto Rapture, presentato alla biennale di Lione nel 1999, Doug Aitken e Shirin Neshat avevano già proposto un’idea simile, raccontando una storia dal punto di vista di un uomo e di una donna, grazie ad uno schermo per ciascun genere. Esperimenti successivi sfruttarono il contrasto tra muto e parlato oppure combinarono la proiezione di immagini con parti recitate o musica live. Dalla contaminazione di forme espressive come il cinema, il teatro, il concerto è derivata quella che Raymond Bellour definisce “estetica della confusione55”, un approccio stilistico ibrido in cui il computer si delinea come il sistema ideale per l’utilizzo contemporaneo di più modalità linguistiche ed espressive. Se la diffusione del cinema ha senza dubbio contribuito alla virtualizzazione della fruizione artistica, esperimenti complessi come le istallazioni live ed i mock-museum servono innanzitutto

55 Bellour, Raymond, “Battle of the Images”, 2000. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 57. 71 a demistificare il discorso cinematografico, mettendo in luce la giustapposizione di materiale ed immateriale, realtà ed illusione alla base del cinema stesso. In tale contesto il computer è diventato uno strumento simbolico, che grazie alla sua capacità di far apparire o scomparire oggetti con un semplice click, coglie appieno l’esistenza di un mondo flessibile, di una “rubber-reality56” in costante metamorfosi.

2.6 NUOVE MANIERE DI RACCONTARE Nonostante il consistente intervento del digitale in fase di post-produzione, le pellicole dell’ultimo decennio sembrano innanzitutto orientate a raggiungere livelli insperati di realismo. Ed è così che azioni mirabolanti, ambientazioni fantastiche ed epiche, esplosioni, battaglie, combattimenti e navigazioni spaziali si materializzano sullo schermo nella loro consistenza assolutamente plausibile e puntuale, privi di quella patina artigianale e teatrale che permetteva, fino a poco tempo fa, di indovinare trucchi ed accorgimenti di scena. Il raggiungimento di un realismo impeccabile, che potremmo definire “iper-realismo”, rappresenta dunque uno dei fattori chiave della vendibilità di un prodotto cinematografico, soprattutto nel frangente attuale in cui si è in grado di valutare il successo di un film entro pochi giorni dalla sua uscita nelle sale. Il realismo cui facciamo riferimento non concerne tuttavia in prima istanza l’accuratezza logico-narrativa della trama, ma riguarda principalmente la resa visiva dei luoghi, delle azioni, dei personaggi. Ciò che importa è il grado di dettaglio di un paesaggio, la ricchezza di particolari nella rappresentazione di orchi, gnomi ed elfi o la spettacolarità di uno scontro a fuoco tra gang rivali. Assistiamo così ad un progressivo indebolimento della narrativa lineare convenzionale e dei legami di causa-effetto, a favore del raggiungimento della corretta immagine per manifestare l’atmosfera e le sensazioni di un evento. Un chiaro esempio di questa logica estetico-emozionale è la battaglia con cui Steven Spielberg ha scelto di inaugurare il film Saving private Ryan (1998), che propone immagini confuse, ma estremamente coinvolgenti grazie alla velocità accelerata e alla forte dose di pathos. Vi è inoltre un numero consistente di film che hanno fatto dello smarrimento della linearità narrativa il loro tema centrale. Tra questi ricordiamo innanzitutto il film pioniere di Alain Resnais Smoking No Smoking (1998), una delle prime pellicole a fornire un parallelo funzionale tra realtà multiple, grazie ad una narrativa che mima

56 Bellour, Raymond, “Battle of the Images”, 2000. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film , p. 58. 72 abilmente le possibilità dell’interattività. E’ d’obbligo inoltre citare tentativi successivi come Sliding Doors (1998) o Run Lola Run (1998), che presentano a loro volta versioni molteplici della trama, pur non fornendo allo spettatore la possibilità effettiva di controllare attivamente gli eventi, ma solo quella di assistere alle opzioni e ai racconti sincroni. La tradizionale narrativa aristotelica appare così ripensata in chiave freudiana: l’ordine sequenziale degli eventi passa in secondo piano rispetto alla ricorrenza di elementi significativi la cui presenza, indipendentemente dall’ordine di apparizione, è sufficiente a far emergere una storia, proprio come avviene nei sogni. L’associazione del film al sogno amplifica l’aspetto sensibile, emotivo e corporeo dell’esperienza cinematografica, prestandosi sempre più all’inserimento di componenti interattive. Tecnologie come i sensori, il motion tracking o la speech recognition si rivelano dunque funzionali al coinvolgimento fisico dello spettatore nella narrazione. Ne deriva un mutato concetto di suspence, in cui il guardare o meno dietro una porta non è più riferito ad un personaggio terzo, ma all’osservatore stesso, che sperimenta direttamente su di sé le vacillazioni e le esitazioni che precedono la scelta57. Il cinema interattivo replica così il funzionamento della mente umana e la nostra percezione degli eventi, caratterizzata da continui movimenti tra il presente, il passato e il futuro, un connubio di emozioni ed azioni che è privo di quella linearità che è da sempre uno strumento indispensabile nel racconto di storie. L’essere umano viene colto nella sua essenza fondamentalmente multi-tasking, in grado di fischiettare mentre lavora, fantasticare mentre fa sesso, ascoltare una lingua e parlarne un’altra. Da questa mutata visione della narrazione assistiamo al sorgere di racconti collegati tra loro e navigabili, di singole storie esplorate da più punti di vista, o di racconti scomposti nei loro elementi costitutivi, vicende esplorabili come un ipertesto oppure disseminate di opzioni multiple che lo spettatore è libero di verificare. Non più dunque schermi inalterabili, né storie inevitabili. E’ sufficiente che lo spettatore conosca le sue possibilità di intervento sul testo filmico per essere lui stessi a decidere riguardo ai tempi e alle modalità della propria esperienza esplorativa. Le narrazioni di questo tipo sono infatti predisposte a rimanere aperte, come le sessioni di un videogame che possono essere riprese in momenti differenti della giornata. La chiusura non è tuttavia un elemento bandito dal cinema interattivo: potrà accadere che, giunti ad un certo punto della storia, si venga premiati con il verificarsi di un certo evento, come la

57 Weinbren, Grahame, “The Ocean of Streams of Stories”, 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 266. 73 rivelazione della scena di un delitto o la comparsa di un attore in carne ed ossa sulla scena. L’esplorazione è un concetto chiave nella realizzazione dell’interattività ed è utilissima soprattutto a fini didattici e di apprendimento, offrendo la possibilità di comparare realtà parallele. Grazie alle attuali tecniche di morphing è infatti possibile contemplare luoghi specifici nella loro evoluzione temporale, come il letto di un fiume, un paesaggio urbano o un set cinematografico reso mitico dai film che vi sono stati girati. Nel saggio “Designing a Database Cinema” Marsha Kinder illustra con innumerevoli esempi la possibilità di distribuire informazioni nello spazio offerta dai database informatici. L’autrice spiega come l’opportunità di creare archivi di dati conduca inevitabilmente ad una spazializzazione della narrazione, che rende le storie sempre più navigabili ed in bilico tra documentario e finzione, tra testimonianza individuale e storia. L’importanza del database come concetto-chiave per la comprensione del vivere contemporaneo era già stata evidenziata da Lev Manovich in The Language of New Media (2001). Se Manovich contrapponeva database e narrativa come due differenti tipi di risposta al mondo, i media attuali dimostrano come la combinazione di questi due fattori sia invece cruciale nello sviluppo dei contenuti filmici per il futuro. Sia il database che la narrativa si basano su una selezione di materiali a priori e la loro combinazione fornisce “narrative di database” prive di un inizio e una fine ben definiti, o di una catena precisa di causalità, ma comunque in grado di richiamare la curiosità ed i desideri dei propri utenti. Cineasti illustri come Dziga Vertov e Peter Greenaway, ma anche il surrealista Luis Buñuel sono stati tra i precursori delle “narrative di database”, successivamente imitate da innumerevoli opere commerciali come Natural Born Killers, Pulp Fiction, The Matrix; Memento, Mulholland Drive, Time Code, Fino alla fine del mondo, Y tu mama también e altri ancora. Narrative di questo tipo non sono del resto riscontrabili esclusivamente nel cinema, ma anche in palinsesti televisivi come quello di MTV e prima ancora in ambito letterario con romanzi come La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust o il capolavoro di Italo Calvino Una notte d’inverno un viaggiatore58. Un altro studioso delle caratteristiche strutturali del cinema interattivo, Jean-Louis Boissier, individua infine nel gioco un procedimento assolutamente correlato alla fruizione attiva del cinema. Egli concepisce il gioco in termini di esercizio attivo

58 Kinder, Marsha, “Designing a Database Cinema”. 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p.352.

74 dell’interpretazione, in cui non esiste una verità oggettiva o soggettiva che sia, ma esclusivamente una “performatività ludica59”, espressione che egli adotta per evitare il termine “giocabilità” (playability), generalmente riferito alla sfera dei videogiochi. Un elemento da tenere in grande considerazione nell’esaminare i mutamente stilistici e strutturali del cinema è, del resto, l’evidente passaggio dal “cinema come intrattenimento” a nuove tipologie di intrattenimento che si avvalgono del cinema. L’esperienza cinematografica che ne risulta è svincolata dalle due o tre ore di fruizione al buio di una sala e diventa l’ingranaggio di un passatempo più articolato. Le attrazioni dei parchi a tema, le istallazioni museali, le realtà virtuali sono solo alcuni dei complessi sistemi che utilizzano il cinema per produrre un effetto di “macchina del tempo”. La possibilità di comprimere, estendere e manipolare la durata temporale è una caratteristica del cinema, che facilita il coinvolgimento emotivo e psicologico necessario all’esperienza interattiva. L’immersione che si intende produrre deve essere infatti pienamente coinvolgente, offrendo un’intensificazione percettiva, combinata ad uno stato di alterazione, che è il passo successivo ai livelli di trascendenza già raggiunti nell’ultimo secolo da droghe, medicina, trasporti, comunicazioni e cinema, esempi illustri di questa costante ricerca di uno stato di alterità. Da questa panoramica sulle mutate modalità narrative sono dunque emerse alcune istanze fondamentali con cui il cinema del futuro sarà obbligato a confrontarsi. Abbiamo sottolineato in particolare questioni come l’iper-realismo, la scomparsa della linearità narrativa, l’utilizzo di database informatici e il prevalere di una funzione ludica ed immersiva.

2.6.1 La serialità su Internet A conclusione di questa rassegna ci sembra importante sottolineare come l’intervento attivo dello spettatore si sia ormai esteso alle fasi di produzione dei contenuti stessi, grazie alla diffusione e al basso costo delle tecnologie informatiche. Sfruttando spazi collettivi e gratuiti come il World Wide Web e tecnologie quali videocamere digitali e programmi di montaggio abbastanza intuitivi, lo spettatore è infatti divenuto sempre più partecipe della selezione e della creazione dei contenuti. Uno dei primi esempi in questo senso ci è fornito dalle serie audiovisive per Internet. Dopo la vittoria presso il South by Southwest Festival di Austin, in Texas, nel 1997 uscì in streaming sul web Austin, una serie pensata per Internet, che stabilì

59 Bellour, “Battle of the Images”. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 407. 75 immediatamente il primato delle soap operas tra i generi audiovisivi a debuttare on- line. Nel 1998 gli ideatori di Austin tornarono alla ribalta con una nuova serie notevolmente migliorata, dal nome Chemical Generation. Nonostante l’iniziale staticità delle immagini, dovuta alle inferiori dimensioni del monitor rispetto allo schermo e alle restrizioni di banda, il genere fiorì in fretta in tutti gli Stati Uniti. Nello stesso anno un gruppo di film-maker italiani, i Fratelli Manetti, lanciarono sul web una detective series, Scums, presto proseguita da altri autori che ne girarono episodi successivi. Nel 2000 i Manetti continuarono le loro sperimentazioni con Planet Invasion, serie coprodotta con la compagnia Kataweb, mentre nel 2001 la cineasta londinese Julie Myers raggiunse il successo tra gli internauti con la serie Julie 9, anch’essa sviluppata da vari autori. Grazie a programmi quali RealPlayer, Quicktime, etc. e alla diffusione di strumenti come Flash un nuovo sistema di produzione e distribuzione filmica si era così affacciato sul recente universo del World Wide Web, diffondendo storie in maniera capillare e stimolando la produzione “dal basso” di narrative ad episodi, riunite sotto una cornice comune. Il 2000 vide una vera e propri esplosione del genere nei festival internazionali, in particolare presso il Sundance Film Festival e il Montreal International Festival of New Cinema and New Media. Dopo il 2000 l’entusiasmo iniziò a tramontare negli Stati Uniti. per diffondersi tuttavia ampiamente in Europa, grazie alle aumentate capacità di Internet. In quegli anni sorsero infatti numerosi collettivi come Bechamel e Holott a Parigi, Moccu a Berlino, Submarine a Rotterdam e 8081 a Torino. Di questi formati è interessante l’aspetto collaborativo, democratico e libero, oltre alla brevità, funzionale non solo alla fruizione via computer, ma soprattutto alla generale riduzione del livello di attenzione degli utenti60.

2.7 UN RITORNO AL TEATRO Nel saggio “Technologies of seeing”, Brian Winston spiega come fu proprio l’industrializzazione del teatro a creare un terreno fertile all’invenzione e alla diffusione del cinema come esperienza collettiva e commerciale, dotandolo di una ritualità che lo distinguesse dalle restanti attrazioni fieristiche. Attorno al 1880 si formarono infatti cartelli e maestranze nell’ambiente teatrale, che riflettevano chiaramente l’esistenza di una vasta massa di pubblico disposta ad essere servita da

60 Barry, Nora, “Telling Stories on Screens: A History of Web Cinema”, 2003. In Shaw e Weibel (a cura di). Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 551.

76 un’industria altamente organizzata e di recente creazione. Fu allora che le tecnologie preesistenti ed in qualche modo anticipatrici del cinema si unificarono in un progetto unico. Il legame tra il cinema ed il teatro è, secondo Winston, simile, sotto molti punti di vista, a quello tra il telegrafo e le ferrovie o tra le radio e le navi da combattimento: è il caso di un iniziale bisogno di intrattenimento urbano e collettivo che indusse un bisogno secondario di uno spettacolo fatto di immagini in movimento. Il 9 marzo 1896 il Cinema trovò così spazio a Londra all’interno dell’Empire Music Hall, a dimostrazione che il vaudeville forniva un ambiente ideale per lo sviluppo della cinematografia, garantendo una natura stabile agli spettacoli filmici in rispetto agli ambienti fieristici. A ciò si aggiunse un rapido passaggio del sistema di star dal teatro al cinema, con un relativo slittamento dallo show allo show business61. Anche Grahame Weinbran indaga i legami tra il cinema ed il teatro, non dal punto di vista dell’organizzazione industriale, ma piuttosto stilistica e contenutistica. Nel saggio “The Ocean of Streams of Stories” l’autore spiega che prima dell’effettiva possibilità di registrare performance artistiche su di un supporto, l’interattività costituiva una componente fondamentale dell’espressione artistica, come è dimostrato in campo musicale da variabili quali il pubblico, l’acustica della sala e la presenza di più strumenti. Il rischio della variabilità rappresentava dunque un ingrediente essenziale di ciascuna forma di spettacolo e il recupero di elementi interattivi nell’attuale esperienza filmica riprende dunque tale concezione pre-industriale, che considerava l’influenza del pubblico un dato pressoché scontato62. Nel momento in cui si analizza il coinvolgimento attivo e fisico dello spettatore all’interno di un testo filmico, risulta inoltre evidente come questi processi comportino in qualche modo un riavvicinamento tra il cinema ed il teatro, sia per quanto riguarda le tecnologie impiegabili, sia per gli effetti da loro prodotti sugli spettatori. Nel testo Teatri nella rete leggiamo in proposito:

“L’attore implicitamente comunica allo spettatore che quello spazio e quel corpo devono essere intesi come segni che rimandano a qualcos’altro che è totalmente immaginario. Il messaggio è: “facciamo come se fossi un altro in un altro luogo”. Il gioco tra attore e spettatore

61 Winston, Brian, “Technologies of Seeing”, 1996. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 368 – 375.

62 Weinbren, “The Ocean of Streams of Stories”, 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 265.

77 in teatro è, in definitiva, un gioco di continuo rimando tra reale e virtuale, e nel modo in cui entrambi si offrono alla percezione individuale, nel concetto di virtualità, è nascosto il punto di contatto che cercavamo tra teatro e spettacolo digitale63.”

L’episodio di cronaca noto come “Guerra dei mondi” fu il primo grande esempio di cortocircuito tra il teatro ed un altro mezzo di comunicazione, la radio. Orson Welles è del resto una delle figure che hanno meglio definito il rapporto tra il teatro e gli altri media, proprio grazie al suo intenso lavoro con gli attori del Mercury Theatre, che portò alla messa in onda di Theatre on the air e, conseguentemente, al celebre shock mediatico prodotto dal falso annuncio di un’invasione da parte degli alieni nel 1938. E’ evidente in questo caso l’intento di provocare una reazione che induca gli spettatori ad agire, chiamando i propri cari, impallidendo o manifestando apertamente il panico. Lo slogan degli anni Sessanta più in voga negli ambienti teatrali riguardava del resto la fuoriuscita della spettatore dalla passività e si consumò, in quegli stessi anni, in innumerevoli rituali di happening, body art ma anche in taluni spettacoli di danza, di teatro-immagine e persino nella partecipazione ad azioni teatrali improvvisate guidate da attori. Alla fine degli anni Settanta il concetto di “interattività” fra sala e scena, cioè della partecipazione diretta dello spettatore all’azione teatrale, venne tuttavia progressivamente sostituito da performance in cui l’attore recuperò il suo ruolo creativo come protagonista unico dell’evento. L’avvento di tecnologie elettroniche e digitali sempre più sofisticate ha tuttavia fatto risorgere l’interattività, sfruttando il fatto che lo spettatore teatrale collabora alla fruizione dello spettacolo, non assiste solamente ma partecipa con tutti i suoi sensi, secondo le proprie capacità di decodifica ed esperienze personali. Se nel teatro ordinario lo spettatore agisce così attraverso processi psico-fisici, in esperienze nuove che coinvolgono la rete e la virtualità, egli partecipa ancora di più all’evento, in quanto non può più sedersi al buio, ma deve muovere i vari dispositivi di interfaccia che gli permettono di fruire la rappresentazione. Il teatro è in fondo sempre stato live, proprio come il WWW (dal vivo, in diretta, ma anche vitale, cosciente) e potenzialmente interattivo: esso è infatti una delle prime realtà multimediali a giocare sia su livelli realistici (il corpo dell’attore, gli oggetti di scena, la realtà dello spazio), sia

63 Borelli, Maia e Savarese, Nicola. Teatri nella rete. Arti e tecniche dello spettacolo nell’era dei nuovi media. Carocci editore: Roma, 2004, p. 196. 78 su livelli simbolici, convenzionali o meglio virtuali (il “come se” e le stilizzazioni di scenografie e i costumi)64. Sulla scia di queste considerazioni, gli attori del George Coates Performance Group hanno realizzato The Crazy Wisdom Show, in cui interpretano i testi inseriti in diretta sui monitor che circondano il palcoscenico. I testi sono scelti dalla regia tra quelli inviati via web da partecipanti-spettatori on-line. Il risultato è uno spettacolo tradizionale, ma improvvisato e reso interattivo dall’intervento sostanziale di un pubblico remoto. Anche gruppi come Plaintext Players o Desktop Theatre si dedicano al prolungamento dell’attività teatrale in area digitale. Essi utilizzano in particolare ambienti di realtà virtuale e dispositivi di comunicazione quali avatar, MUDs, HMDs, data suites e data- gloves, che offrono la possibilità di muoversi autonomamente nello spazio virtuale, anche senza conoscere la programmazione informatica. E’ infatti innegabile che “in rete diventiamo tutti burattinai, sapendo che, come dice il burattinaio Otello Sarzi, nella nozione di burattino va compreso ogni oggetto che, prolungando la mano dell’artista, nascosto o visibilissimo, è suscettibile di esprimere l’intenzione. Il guignol, la marionetta a fili, le ombre cinesi, le sagome di Giava, le mani nude, tutto può essere burattino65”. Esperimenti di questo tipo dimostrano che “può essere inteso come spazio d’incontro effettivo anche lo spazio virtuale determinato dalla connessione in rete, che è spazio condiviso attraverso una mediazione, dove si agisce anche senza corpo. Con la strana conseguenza per gli attori di essere ubiqui, cioè di essere anche altrove, di agire contemporaneamente in uno spazio fisico e, attraverso la registrazione video in streaming o l’utilizzo di avatar, in uno spazio virtuale66.”. Tali spettacoli utilizzano dunque tecnologie multiple-user, oppure collegano attori dislocati tra loro grazie a tecnologie quali l’Internet conferencing o Skipe, che permettono una visione in diretta da più luoghi contemporaneamente, cosicchè artisti situati in spazi scenici differenti siano riuniti in un’unica performance. Nello spettacolo The technofobe and the madman, un musical del 2001, i due protagonisti, ovvero il pazzo ed il tecnofobo, si vedevano ad esempio dialogare da due luoghi differenti.

64 Borelli, Savarese, Teatri nella rete. Arti e tecniche dello spettacolo nell’era dei nuovi media, pp. 181- 182.

65 Ivi, p. 186.

66 Ivi, p. 188. 79 Altri tentativi interessano maggiormente la sfera della Realtà Virtuale, in cui la partecipazione dello spettatore all’ambiente immersivo risulta determinante allo sviluppo della storia. La sua azione si realizza in questi casi attraverso l’uso dei dispositivi di interfaccia, che permettono di vivere l'esperienza da solo o condividerla con altri partecipanti. In campo teatrale si è cercato di ricreare tali contesti in particolare grazie all’immersione stereoscopica del pubblico in scenografie in 3-D, proiettate sulla scena in real-time e fruite dagli spettatori grazie a occhiali polarizzati e caschi HMD da indossare67. Fu del resto nel 1992 che Dan Sandin, codirettore dell’Electronic Visualization Laboratory dell’Università dell’Illinois, presentò presso il Siggraph 92 di Chicago, il sistema CAVE, definito altrimenti come virtual reality theatre, sancendo la successiva ricorrenza del termine theatre nel campo del virtuale. CAVE era nello specifico un ambiente virtuale formato da uno spazio chiuso di 3 metri quadri nel quale erano proiettate immagini numeriche stereoscopiche, che reagivano alle azioni dell’utente, dotato di occhiali e mouse. Anche la tecnica del motion-capture è di frequente utilizzata in coreografia, tramite tappeti attrezzati con speciali dispositivi touch sensitive, che controllano e segnalano il movimento di attori e danzatori. Musica e illuminazione vengono in questi casi gestite tramite il movimento del corpo e grazie ad un particolare sistema MIDI. Il gruppo milanese Studio Azzurro definisce “ambienti sensibili” alcune sue installazioni come Coro 1997, dove il pubblico, calpestando il pavimento della sala d’esposizione, provoca il movimento dei corpi che appaiono sotto i suoi piedi, frutto di video-proiezioni controllate dal computer. I dispositivi tridimensionali che permettono di ricevere stimoli visivi, uditivi e tattili, come gli eye-trackings, i data suits e i power gloves, tute e guanti da indossare per sentire sulla pelle le sensazioni che provengono da impulsi dati dal computer, hanno contribuito così all’inserimento del corpo nella sfera del computer, divenendo fonte di estremo interesse anche per il teatro. I tentativi sopra illustrati di inserimento del virtuale all’interno delle discipline teatrali servono dunque a mettere in scena il nuovo corpo bionico, a riflettere e a prendere coscienza sulla condizione di replicante che interessa, almeno in parte, l’essere umano contemporaneo. Tale mutazione non è però vissuta con totale sconvolgimento, ma piuttosto come progressiva accettazione del passaggio ad una “artificialità” naturale, in cui la tecnologia fa parte dell’attore e l’attore della tecnologia.

67 Ivi, p.198. 80 2.7.1 Monsters of Grace: un’opera virtuale Ad ulteriore comprova di tali considerazioni in ambito teorico, nel 1998 debutta a Los Angeles il capolavoro di Philip Glass, Monsters of Grace. Si tratta del primo esempio di opera portatile, in cui attori, scenografie e costumi sono generati digitalmente e poi riportati su pellicole da 70 mm per essere presentati grazie ad un proiettore tridimensionale ad alta intensità. L’intera performance dura 73 minuti e abbisogna solo di una dozzina di musicisti e di uno staff eccezionalmente abile nella proiezione, che maneggi un’animazione stereoscopica su di uno schermo di 40 metri in larghezza e 11 in lunghezza. Philip Glass e Robert Wilson, suo collaboratore, riescono così nell’intento di mettere in piedi un’opera le cui proporzioni sarebbero risultate assolutamente impraticabili e costosissime con l’uso di elementi di scena ed attori reali. Il successo ottenuto da Monsters of Grace dimostra dunque che la diffusione del digitale non solo a contribuito all’affermazione di agglomerati produttivi forti, ma ha, d’altro canto, fornito strumenti a basso costo e di facile reperibilità, che permettono una produzione maggiormente democratica dei contenuti. L’opera, che approda in fretta alla Metropolitan Opera House di New York, mostra un volo di elicotteri su di un terreno montuoso, una mano decapitata che si estende sulla folla sanguinando, una casa che scivola in mare, per poi viaggiare attraverso una giungla lussureggiante, nei pressi di una metropoli distante e monolitica e infine vicino ad un iceberg, mentre un serpente marino minaccia di divorarla. In alcuni punti le immagini divengono astratte ed una serie di linee fluorescenti si distende sullo schermo in un etereo slow motion, che crea effetti luminescenti sulla superficie della performance 3-D. Monsters of Grace segna l’alba di un nuovo stile operativo di performance in cui l’investimento economico non è più in grado di influenzare l’impatto emotivo del lavoro. A rendere avvincente l’opera è soprattutto la sua abilità di mediare tra reale ed simulato, tra recitazione e proiezione. A dispetto del suo universo interamente digitale, il lavoro di Glass risulta ineffabilmente umano, grazie a quell’elemento di casualità e fragilità introdotto sia dalla proiezione del film - un’estensione della lanterna magica o delle ombre cinesi- sia dalla performance dal vivo di musicisti e cantanti, che rende ciascuno spettacolo individuale ed unico. Mentre ciascun vocalist interpreta la propria parte, una luce lo illumina, ricordando costantemente allo spettatore che è l’intervento umano a rendere possibile l’intero costrutto. Verso la fine dello show un enorme corredo da tè cinese viene proiettato sopra le teste degli artisti e si estende verso il

81 pubblico, grazie alla tecnologia stereoscopica. Mentre lo si osserva l’immagine inizia a disintegrarsi in una serie di linee e pixel, affermando la propria natura effimera e fantasmatica. Il pubblico che assiste a quest’esibizione può essere definito post- digitale, in quanto desideroso di reintegrare l’elemento umano all’interno di costrutti numerici, come accade attualmente con i giochi multi-user al computer, in cui gli utenti si parlano tra loro e stabiliscono relazioni di collaborazione e, talvolta, di amicizia. La prima dello show si tenne il 15 aprile 1998 presso la Royce Hall, nel campus della University of California a Los Angeles. Da allora lo spettacolo è stato ripetuto in numerosissimi luoghi di tutto il mondo per audience molto differenti.

2.7.2 Lo spettatore in azione Molto del suo potere di suggestione andrebbe, infatti, perso senza quell’elemento umano e variabile che risiede in tutte le rappresentazioni interattive68. L’inevitabile legame del cinema con il teatro e con la recitazione dal vivo, diviene il nucleo centrale anche nel progetto di Constanze Ruhm, Coming Attraction: X Characters (in search of an author), sviluppato tra 2002 e 2003. L’idea alla base del lavoro riguarda la costruzione di un set di personaggi femminili, liberati dalle proprie sceneggiature originarie. Una serie di improvvisazioni live volte a modificare i personaggi si combina ad altri forum mediatici tra cui chat, chiamate radiofoniche e workshop finalizzati alla costituzione di una sceneggiatura ex novo. Nell’ultima parte del lavoro lo sceneggiatore e la regista intervengono direttamente sul girato per dar vita a nuovi dialoghi e situazioni. Il risultato è una ridefinizione interattiva e sociale di parametri legati alla femminilità, che fa uso della recitazione e del dialogo come strumenti fondamentali. L’ambientazione teatrale era già stata sfruttata anche nell’installazione Playhouse di Janet Cardiff (Fig. 1 e 2), risalente al 1997, in cui si faceva leva sull’illusione di un’esperienza collettiva condivisa. Visitando Playhouse non si era, infatti, certi se la persona al proprio fianco, a sua volta dotata di cuffie, si stesse effettivamente confrontando con il nostro stesso copione. La presenza di cuffie racchiudeva ciascuno nella propria bolla e l’inserimento di due sonorità serviva a ricreare un ambiente avvolgente che ricordava quello reale, cosicché la trama e la storia non rimanessero relegate all’interno dello schermo, ma avanzassero ad assalire lo spettatore. Da un lato c’era un teatro in miniatura adatto ad una Barbie, sul cui palcoscenico veniva proiettato

68 Dixon, The Second Century of Cinema. The Past and Future of the Moving Image, pp. 214 -224.

82 il video di una cantante, dall’altro si udivano le istruzioni di una donna, virtualmente alla nostra destra, riguardo ad un’ipotetica missione che avremmo dovuto svolgere dietro le quinte al termine dello spettacolo, finché questa si alzava per abbandonarci. Una tale strategia comunicativa dirigeva inevitabilmente la consapevolezza dello spettatore sulla propria presenza corporea, anche grazie alla frase conclusiva della visita: “quando questo teatro sarà vecchio e decrepito, con il tetto sgocciolante e ratti che scorazzano tra le rovine, voi ritornerete a sedervi tra queste mura e ricorderete il suo spettacolo e tutto ciò che andò storto quella notte.69 ”

2.7.3 Dal cinematografo al teatro I tentativi di contaminazione tra cinema e teatro non riguardano soltanto la combinazione tra recitazione dal vivo e immagini in movimento, ma si spingono oltre fino alla creazione di un nuovo tipo di teatro in grado di ospitare, contemporaneamente, performance live e schermi cinematografici. La storia dell’umanità è del resto disseminata di esperienze che riguardano la costruzione di teatri multisensoriali e magici. Ne sono un esempio le caverne di Lascaux, le cattedrali gotiche o edifici come l’Alhambra, in cui l’architettura arriva a produrre un’alterazione della percezione, che dà accesso ad un’esperienza estatica e catartica. Le attuali sale cinematografiche sono ancora molto lontane dalla produzione di un contesto illusorio di questo genere, anche se da decenni sono in corso sperimentazioni di situazioni fruitive alternative, in cui le distinzioni tra attori, set, schermo e pubblico risultino dissolte o, per lo meno, confuse. Nel 1965 a Stony Point, New York, l’artista sperimentale Stan VanDerBeek inaugurò Movie-Drome (Fig. 3), una costruzione intesa a generare un’esperienza multisensoriale differente rispetto a quella offerta dalle sale cinematografiche convenzionali. All’entrata dentro una cupola sferica si chiedeva ai visitatori di stendersi ai margini dello spazio circolare, cosicché gli schermi posti sopra ed intorno occupassero la quasi totalità del campo visivo. Ad attenderli era una combinazione di luci, suoni ed immagini, in cui l’uso del suono quadrifonico generava al tempo stesso una sensazione di intimità e di collettività, mentre le alterate condizioni percettive producevano un’immersione psicologica molto differente rispetto all’iper-realismo delle sale IMAX o del Cinemascope. Il computer serviva in tale contesto a ricombinare infinitamente le immagini e a produrre un flusso visivo in costante evoluzione. Da questa

69 Cardiff, Jane, “Playhouse”, 1997. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 455. 83 sperimentazione visionaria risultava un ambiente inglobante, che cessava di essere semplice rappresentazione per divenire vero e proprio teatro ed apparato comunicativo.70 Nel 1966, anno successivo all’invenzione di Movie-Drome, l’ingegnere Fred Waldhauer fondò l’associazione Experiments in Art & Technology, per incoraggiare attività che unissero arte e tecnologia negli Stati Uniti. Il progetto culminante del gruppo fu il Padiglione Pepsi, uno sforzo straordinario che coinvolse più di 75 persone tra ingegneri e artisti, producendo una svolta nell’ambito delle sculture pubbliche e delle installazioni. Il padiglione (Fig. 4, 5, 6) fu commissionato dalla Pepsi per l’Expo del 1970 ad Osaka ed il risultato fu una fusione di interazione sociale, media elettronici, happening e performance artistica, in un ambienti immersivo che aveva tutti i tratti di un “teatro del futuro”. I sistemi messi a punto all’interno del padiglione si basavano su un principio di fiducia nella capacità delle persone di prendere decisioni in contesti democratici, non gerarchici e non coercitivi. Tre anni prima della realizzazione del Padiglione Pepsi, Guy Debord scriveva, infatti, ne La società dello spettacolo: “lo spettacolo non è una collezione di immagini, ma una relazione sociale tra persone, mediata dalle immagini71”. Il progetto del Padiglione Pepsi recepì dunque in pieno l’equiparazione tra l’artista e lo spettatore, che si esplicava nel comportamento attivo e volontario di quest’ultimo. Una cupola a specchio di 33 metri di diametro, gonfiata dentro un guscio geodetico, ospitava immagini tridimensionali e riflessi al contrario dei visitatori e degli attori. Tutto intorno la musica elettronica veniva spazializzata tramite un sistema di sound-surround che permetteva di dirigere il suono nella traiettoria desiderata. Il padiglione era inoltre popolato di sculture galleggianti e in movimento che emettevano suoni ed evitavano i visitatori. Il costante richiamo alla scultura si riferiva alla possibilità di plasmare il mondo, concessa al visitatore da una serie di materiali, processi e strutture presenti sul posto e su cui si poteva operare liberamente, in un vero e proprio invito all’esplorazione. All’esterno del padiglione, una scultura in acqua interagiva con le condizioni meteorologiche, mentre un sistema di luci al laser offriva costanti risposte alle azioni dei visitatori. Il Padiglione della Pepsi, grazie alle sue caratteristiche ibride, multiformi e multimediali incarnava

70 Sutton, Gloria. “Stan VanDerBeek’s Movie Drome: Networking the Subject”. 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 142.

71 Cit. Debord, Guy. La societé du spectacle, 1983. In Randall, Packer “The Pepsi Pavillion: Laboratory fo Social Experimentation”, 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 146.

84 perfettamente l’idea wagneriana di opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), ancor oggi alla base della progettazione dell’intrattenimento per il futuro.

2.7.4 Jeffrey Shaw ed il recupero del Panorama Concludiamo la rassegna di esempi dell’attuale recupero di elementi teatrali, con un riferimento a Jeffrey Shaw, uno dei più attivi sperimentatori nel campo dei teatri immersivi, che ha dedicato anni della propria carriera a progetti basati su schermi multipli, proiezioni ambientali, scene interattive ed esplorazioni virtuali dello spazio. Al centro dell’interesse dell’artista è il raggiungimento di un’atmosfera di complicità con il proprio spettatore/utente. I tentativi di Shaw si sono avvalsi di tutti i tipi di apparati ottici: specchi e periscopi, ma anche simulatori di volo o sistemi di realtà virtuale, in una congiunzione obbligata tra vecchio e nuovo. Al fine di creare ambienti avvolgenti ed immersivi egli attuò nel 1995 una manipolazione del Panorama tradizionale all’interno del progetto Place - a user’s manual. Esperimenti successivi sulla stessa linea lo condussero ad elaborare il concetto di EVE, ovvero di Extended Virtual Environment, uno spazio circolare che ricorda le pareti di Lascaux e Niaux, in grado di riprodurre l’oscurità tipica delle profondità della terra, ma anche i giochi visivi delle cupole rinascimentali, che richiedono un’osservazione necessariamente in movimento per via delle gigantesche proporzioni.

2.8 VIDEOGIOCHI E 3D La visione in 3-D è un elemento ricorrente nel cinema, di volta in volta riproposto in chiave differente e rinnovata. Le tre dimensioni attengono in particolare al reame del gioco, del divertimento, del sogno ad occhi aperti e della leggenda; tuttavia lo scarso successo della tecnica del 3-D sia al cinema che nell’ambito dei videogiochi deriva dal fatto che essa continua ad essere vista come un surplus. All’inizio degli anni Cinquanta, il 3-D iniziò ad essere commercializzato al cinema come un diversivo, che si limitava ad aggiungere una terza dimensione ad una forma di intrattenimento già consolidata. Non serviva in alcun modo a mettere in discussione le strutture filmiche o l’organizzazione commerciale del cinema in quanto spettacolo. La massima efficacia delle tre dimensioni sembrava raggiunta nel momento in cui esse fungevano da vero e proprio principio organizzativo di un medium: è il caso, ad esempio,

85 dell’addestramento dei piloti tramite simulatori di volo e dell’olografia come sistema di sicurezza per garantire banconote e carte di credito72. Se il cinema mainstream ha reso le proiezione tridimensionale una semplice attrazione da parco dei divertimenti, i progressi nell’ambito della realtà virtuale si sono invece pienamente riappropriati della terza dimensione. Possiamo far risalire i primi antenati della realtà virtuale per lo meno al 1420, anno cui risale il castellum umbrarum di Giovanni Fontana, una stanza con muri di cartoncino traslucido, provvista di una retroilluminazione che ricreava un ambiente di figure in movimento. L’invenzione di Fontana proponeva per lo più immagini a grandezza d’uomo di bestie e diavoli, anticipando il gusto per il cinema horror e fantastico. Durante tutto il Rinascimento ampio spazio fu poi concesso alle illusioni ottiche ed architettoniche, come dimostra la vasta serie di trompe l’oeil che si possono contemplare ancora oggi in numerose ville romane, veneziane e fiorentine dell’epoca. A partire da fine Seicento si affermarono infine nuove tipologie di illusioni ottiche, che hanno preparato il cammino alla nascita del cinema, tra cui la lanterna magica, seguita a fine Settecento dal Panorama e nell’Ottocento dal Diorama e dal fenachistoscopio. Fu tuttavia negli anni Sessanta del ventesimo secolo che Morton Heilig propose per la prima volta l’utilizzo di due piccoli schermi davanti agli occhi, ai fini di una visione tridimensionale e di un coinvolgimento più diretto nella storia. La sua idea si concretizzò pochi anni dopo quando, nel 1968, Ivan Sutherland mise a punto, presso l’università di Harvard, uno speciale visore per l’esplorazione di una realtà virtuale piuttosto semplice ed astratta. La sua idea di un particolare sistema per la visione tridimensionale si tradusse nel 1984 nella realizzazione dei primi Head Mounted Displays presso la Nasa, apparati che prendevano direttamente spunto dall’idea di Sutherland. In seguito, nel 1991 una collaborazione tra Stati Uniti e Giappone, con sede presso l’Università dell’Illinois, arrivò a produrre una tecnologia di proiezione immersiva denominata CAVE (Computer Aided Virtual Envirnoment). Si trattava per la precisione di un cubo sulle cui pareti e pavimenti venivano proiettate stereoscopicamente delle immagini digitali, fruite da un utente provvisto di appositi occhiali e ed uno speciale telecomando. A differenza degli HMD, utilizzati per esplorare realtà astratte, gli ambienti CAVE (Fig. 7) proponevano ambientazioni euclidee molto più vicine al mondo cui siamo abituati,

72 Huhtamo, Erkki. “Media Art in the third Dimension: Stereoscopic Imaging and Contemporary Art”. 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 467.

86 benché pensate anch’esse per singoli individui in grado di manipolare l’ambiente tridimensionale73. Dalla fruizione individuale di realtà virtuali si è passati a sistemi attuali come i MUVEs (Multi-User Virtual Environments), che prevedono la presenza di più partecipanti. Le indagini scientifiche sono inoltre giunte a paventare la possibilità di proiezioni direttamente sul nervo ottico, che utilizzino la mente in vece di schermo. Dal 1989 istituzioni come lo Human Interface Technology Lab, fondato da Thomas Furness presso l’Università di Washington a Seattle, stanno dunque lavorando alla realizzazione di microscanner al laser ad altissima risoluzione, in grado di proiettare direttamente sulla retina immagini in 3D generate al computer. Se gli ambienti di realtà virtuale hanno sperimentato in maniera incisiva la terza dimensione, è stato però l’avvento dei videogame, a partire dagli anni Ottanta, ad estendere il campo di azione delle estetiche tridimensionali fino ad abbracciare un più ampio bacino di utenti. L’importanza raggiunta da entrambe le forme, il videogioco e la realtà virtuale, manifesta innanzitutto il mutamento del paradigma spaziale verificatosi nel corso del ventesimo secolo. La metafora modernista della mappa, fondamentale nei secoli precedenti, sembra infatti aver ceduto il passo a quella del percorso, in un passaggio dalla terza alla prima persona. Come Morfeo spiega a Neo in Matrix: “C’è differenza tra conoscere il percorso e camminarci”. Dal concetto di “percorso” ha origine l’idea di una narrazione in fieri, i cui partecipanti interagiscano sia con personaggi virtuali che con avatar controllati umanamente. Il soggetto non è più concepito come passivo osservatore di una rappresentazione, ma come presenza situata e in interazione con l’ambiente, i cui processi cognitivi sono inseparabili dall’esperienza. Il sapere cessa così di essere il frutto di un indottrinamento dall’alto e deriva invece direttamente dalle azioni, secondo la logica tipica del videogame74. Negli anni Ottanta l’enorme successo di videogiochi come Pac Man, Tetris e Super Mario Bros, portò alla rapida comparsa di versioni per Personal Computer. Gli anni Novanta videro invece il boom di sistemi di testo come i MUDs (Multiple User Dungeons), che diedero avvio a giochi reticolari con più utenti. Nel 1994 il videogioco Doom inaugurò la visione in soggettiva, in particolare nei giochi “sparatutto”. A partire

73 Codognet, Philippe.“Artificial Nature and Natural Artifice”. 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 462-465.

74 Himmelsbach, Sabine. “The Interactive Potential of Distributed Networks. Immersion and Participation in Films and Computer Games.” In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 530 – 535.

87 da quel momento la prospettiva in terza persona fu sostituita in numerosi altri giochi da punti di vista multipli, simultanei e frammentati. L’aumento della capacità di trasferimento dei dati su Internet e i nuovi metodi di compressione dell’informazione facilitarono infine l’accesso, tramite la rete, a mondi visivi dettagliati e affascinanti, fatti di una quantità enorme di dati. Doom fu il primo gioco ad approdare su Internet, offrendo ai propri utenti la possibilità di creare essi stessi nuovi livelli e generare armi e nemici. Su ispirazione di questa idea furono sviluppati altri giochi quali Diabolo, Ultima Ondine e Quake, che permettevano un’interazione tra gli utenti in real-time. Dopo almeno tre generazioni di videogiocatori, la richiesta di prodotti interattivi che coinvolgano sempre più anche il piano fisico si è fatta più insistente e ha, solo in parte, trovato risposta in nuove consolle di gioco come Wii della Nintendo. Dal 1999 il mercato dell’home video e quello dei videogiochi hanno sorpassato il cinema negli Stati Uniti, come era accaduto anni prima con i parchi a tema. Ne è derivata la produzione di moltissimi film tratti dai videogame (Tomb Raider, Final Fantasy, Silent Hill, Resident Evil, etc), che si sono spesso rivelati parziali insuccessi a causa del loro limitato potenziale partecipativo rispetto al gioco. Su di un altro versante, alcuni film hanno proposto trame multiple e biforcate che riprendono lo stile del videogioco, come nel caso di Run Lola Run (1998) o di Sliding Doors (1998), mentre un simultaneo aumento della dimensione narrativa coinvolgeva di riflesso l’ambito dei giochi al computer. La serie di Sim City, iniziata nel 1989 ed oggi approdata a The Sims 2, costituisce uno degli esempi più evidenti di ambienti collaborativi ed interattivi, in cui non mancano sistemi di feedback interni al programma. Il sorgere di mondi virtuali su computer, modificabili in real-time ha condotto anche al recente fenomeno di Second Life, in cui i partecipanti possono creare un proprio avatar e farlo interagire con un intero pianeta popolato dagli alter ego di altre persone, un universo che riproduce le attività sociali, culturali ed economiche caratteristiche del vivere umano. La rete Internet ha fornito così una piattaforma ideale per un’interazione non solo con i software, ma soprattutto con altri individui con cui ci si scambia informazioni e supporto tecnico e si stabiliscono contatti personali. L’integrazione a tali sistemi di tecnologie più sofisticate come il motion tracking, i sensori di pressione ed il riconoscimento vocale fanno prevedere un’espansione ulteriore di prodotti sempre più coinvolgenti ed interattivi.

88 2.9 CINEMA OLOGRAFICO O NEUROCINEMA? Spesso ci si domanda come sarà il Cinema tra cinquanta o cent’anni. Nel diciannovesimo secolo una generale ossessione per il movimento e l’illusione del movimento si è sintetizzata in strumenti come la cinepresa ed il proiettore. Nel ventesimo secolo i movimenti di avanguardia degli anni Venti, Cinquanta e Sessanta hanno ripensato il cinema in termini di macchina della visione e non semplicemente di immagine in movimento, mentre le invenzioni del diciannovesimo secolo venivano definitivamente convertite in media di massa. Gli ultimi decenni hanno infine ospitato un ulteriore passaggio dall’occhio che guarda, il Kinoglaz di Vertov, all’occhio che si osserva guardare, dall’opsigrafia all’opsiscopia. Il cyberspazio è l’esempio più evidente di luogo opsiscopico in quanto permette di vedere noi stessi e le nostre azioni come immagini. Dalla simulazione del movimento si è dunque pervenuti alla simulazione dell’interazione, in cui l’immagine acquisisce i tratti di un sistema vivente. Le tecnologie informatiche hanno permesso questa rivoluzione paradigmatica, grazie alla possibilità di immagazzinare un numero pressoché infinito di dati, anch’essi infinitamente modificabili. Questo nuovo orizzonte ha fatto sì che l’osservatore eserciti con il suo comportamento un controllo ed un influenza molto più diretti sull’immagine. Le nanotecnologie hanno contribuito nella produzione di questo nuovo tipo di materialità, in cui l’interazione fisica dell’uomo con schermi, fluidi, mouse o altre interfacce è in grado di generare risultati complessi e vicini al reale. Micro-computer indossabili ci attendono in un futuro vicinissimo, passata l’era dei mainframe e dei pc. Si parla di computer quantici, di computer molecolari o addirittura di DNA computer. Nell’ambito strettamente cinematografico scienziati ed artisti suggeriscono due strade percorribili, che ci proponiamo di illustrare portando ad esempio alcuni esperimenti al confine tra scienza ed arte. Se molti intravedono la realizzazione del “cinema totale” in un cinema direttamente trasmesso al cervello, o “neurocinema”, altrettanti sostengono infatti l’ipotesi del cinema olografico. Il film S1mone di Andrew Niccol è stata forse l’opera che meglio ha reso visibile l’ipotesi di un utilizzo di laser digitali per produrre immagini olografiche in movimento su un palcoscenico virtuale, segnando un ritorno all’arco del proscenio e permettendo, al tempo stesso, infinite modifiche del set. Una tale tecnologia, basata sull’uso di laser ad alta intensità, avrebbe risvolti significativi sia per il cinema che per il teatro, eliminando la necessità di una presenza fisica degli attori e delle scenografie. L’olografia, grazie alla sua consistenza informatica, si presterebbe inoltre alla generazione immersiva ed in tre dimensioni di scenari

89 completamente artificiali, grazie ad algoritmi genetici in grado di produrre universi dinamici e variabili, su imitazione del mondo sensibile. Tramite software che elaborino tali algoritmi si potrà così imitare virtualmente l’evoluzione della vita e far agire persone e oggetti sua sponte. Un primo passo avanti in direzione dell’olografia si sta già verificando con la progressiva sostituzione delle pellicole da 50 o 70 mm con proiezioni digitali finanche nelle sale cinematografiche. Sono già in corso progetti che prevedono di utilizzare le tecnologie satellitari per la proiezione di film a distanza, grazie ad un download direttamente dallo spazio. L’eliminazione della pellicola dal processo filmico è un’idea che ha trovato supporto in figure illustri del mondo del cinema, quali George Lucas, regista e produttore da tempo impegnato nella conversione al digitale. Fu lo stesso Lucas che, il 18 giugno 1999, organizzò in 4 teatri statunitensi la proiezione in digitale del proprio film, The Phantom Menace, avvalendosi del proiettore digitale della Texas Instruments. Nello stesso anno il film The Last Broadcast, realizzato completamente in digitale con un budget di soli 900 dollari, fu mostrato al Festival del Cinema di Cannes per via satellite. La conversione al codice binario è dunque una problematica economica piuttosto che estetica. Il pubblico è già preparato all’avvento dell’immagine digitale, grazie alla diffusione dei DVD e all’uso diffuso dei Personal Computer, ma a porre ostacoli sulla via del cambiamento sembra essere proprio il cinema commerciale che del digitale si serve in maniera massiva e a fini spettacolari. Il caso di The Blair Witch Project del 1999 dimostra infatti che anche progetti a budget ridotto (350.000 dollari in totale) possono raggiungere enormi livelli di successo grazie al potere promozionale e informativo di un mezzo come Internet, dove si è diffuso il tam-tam generale che ha costruito un pubblico curioso e impaziente di vedere il film. La digitalizzazione del cinema concederebbe infatti maggior potere alle produzioni indipendenti e a basso costo, minando l’egemonia delle grandi case di produzione e mettendo a rischio i pachidermici investimenti economici dei colossal. La questione dell’olografia è solo una delle risposte plausibili alla disperata ricerca dell’industria culturale di nuove forme di trompe l’oeil. E’ infatti sempre più difficile ingannare l’occhio umano, al punto che sembrerebbe logico costruire illusioni visive che vengano trasmesse direttamente al cervello. Un’ipotesi di questo tipo fa immaginare immediatamente abusi e distorsioni da parte della propaganda politica e dei mass media, oltre ad evocare veri e propri scenari fantascientifici. Benché non

90 esista ancora, il sopraccitato “cinema per il cervello” ha già ricevuto una propria denominazione nel termine di “neurocinema”. Questa teoria riprende in qualche modo l’idea di experience theater espressa da Morton Heilig nel 1955, in riferimento ad un cinema per tutti i sensi, carico di una notevole componente emotiva e sensoriale. Se Morton Heilig immaginava tuttavia un cinema che andasse a risvegliare ciascun senso separatamente, l’idea attuale prevede una stimolazione diretta del cervello che, attraverso le proprie sinapsi, invierà direttamente informazioni agli organi di senso. La neurofisiologia e la scienza cognitiva, eredi della psicologia della Gestalt, hanno del resto messo in luce da molto tempo i parallelismi tra il funzionamento delle macchine ed il cervello, fornendo il principio base della cibernetica. Gli attuali sistemi tecnologici ispirati a meccanismi cerebrali bastano per comprendere che il cervello, meglio dell’occhio, incarna le attuali modalità conoscitive. L’applicazione della struttura del sistema nervoso umano alle macchine altro non è, infatti, che una risposta all’insopprimibile desiderio di rendere il pensiero umano visibile, come illustra brillantemente il film Fino alla fine del mondo di Wim Wenders. Il passaggio dai visori agli spinotti direttamente collegati alla regione del talamo è verificabile anche nella filmografia fantascientifica, in cui assistiamo ad un’evoluzione dai caschi di Tron o de Il Tagliaerbe alle “prese cerebrali” di Matrix o di eXistenz . Nel frangente attuale il Massachussets Institute of Technology ed il il Neurological Institute di Bonn sono a capo delle principali ricerche sul “neurocinema”, generalmente collegate allo studio di impianti retinici per ciechi. Ne sono risultate per ora delle immagini sfocate, in bianco e nero e tuttavia riconoscibili, benché molto lontane dalla possibilità di addobbare le nostre visioni con oggetti tangibili, udibili e fragranti. Anche in campo artistico sono sorte numerose riflessioni sui legami tra immagine filmica e cervello. Un primo esempio ci è stato fornito nel 2001 da Zoe Beloff, con l’installazione The influencing Machine of Miss Natalija A. Il lavoro riprende la storia di Natalija A., una studentessa di filosofia di Vienna, che nel 1919, si recò da Victor Tausk, ex allievo di Freud, lamentandosi di un bizzarro apparecchio elettrico che, a suo parere, veniva utilizzato da medici di Berlino per manipolare i suoi pensieri. Dopo 3 sedute la paziente abbandonò, dicendo che anche il Doctor Tausk era caduto vittima dell’apparato. Nel 1920 lui si suicidò. L’installazione della Beloff è volta a materializzare le allucinazioni di Natalija, alludendo allo sviluppo effettivo di media coercitivi nella Germania anni Trenta. L’osservatore che vi partecipa assume il ruolo

91 del medico che manipola la mente della donna: interagendo con l’apparato le provoca torture e allucinazioni visibili sullo schermo, ricreate a partire da video domestici della Germania anni Venti e Trenta, unitamente a filmati medici, a interferenze radiofoniche e a canzoni tedesche del periodo. Il meccanismo di proiezione che ne risulta è una vera metafora dello stato mentale della ragazza75. Un ulteriore progetto sul tema è stato realizzato nel 2002 dalla Bios team, formata da Jaanis Garancs, Sven Hahne, Morman Muller e Thomas Tirel. Il gruppo allestì un sistema chiamato BIOS – Bidirectional Input/Output System, che prevedeva un Head Mounted Display, ovvero un casco con 16 elettrodi o sensori da collegare alla testa del visitatore. Il visore mostrava al suo utente immagini sintetizzate dei propri impulsi cerebrali, generati in reazione alle immagini che gli venivano mostrate, in un feedback ciclico e continuo. Si trattava essenzialmente di un prototipo delle ricerche sulla percezione visiva dal punto di vista neurale. I primi esperimenti in questo senso erano crudeli test sugli animali. Uno di questi comportava il mostrare un’immagine ad un macaco per poi ucciderlo con l’elettroshock e studiare la traccia lasciata dall’immagine nel suo cervello. Grazie al liquido radioattivo iniettato al macaco, si poteva rintracciare, tramite i raggi X, una versione distorta dell’immagine nella parte posteriore del cervello. Altri esperimenti invasivi riguardavano invece il collegamento di elettrodi direttamente sulla retina di un gatto. Ne risultava un video in bianco e nero estremamente rumoroso, di cui rimaneva comunque riconoscibile l’origine. Il progetto BIOS si poneva dunque innanzitutto come critica mirata a far sentire il visitatore un po’ come gli animali manipolati ai fini di creare la base teorica per quella macchina. Gli elettrodi trasferivano ad un encefalogramma segnali provenienti da tre zone sensorie della corteccia cerebrale. Un’interfaccia traduceva le curve di voltaggio del grafico in codice binario, cosicché tramite algoritmi si potesse riconvertire il segnale in percezioni audiovisive. Si sviluppava dunque un feedback a partire dagli input generati dal visitatore stesso, in cui la posizione e frequenza di un elettrodo determinavano il colore e la posizione dei pixel nella rappresentazione restituita. L’output finale si esprimeva in pulsazioni colorate e onde luminose, che ricreavano associazioni visive con il fuoco, il fumo e i liquidi, grazie alla tridimensionalità dell’HMD76.

75 Beloff, Zoe. “The Influencing Machine of Miss Natalija A.”, 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 448-449.

76 BIOS team, “BIOS – Bidirectional Input/output System”, 2002. In In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 592 – 593. 92 Nel saggio “The Intelligent Image: Neurocinema or Quantum Cinema?”, Peter Weibel analizza nel dettaglio i quesiti con cui ci si dovrà confrontare nell’effettiva realizzazione del neurocinema, che egli concepisce come un passaggio dal trompe l’oeil al trompe le cerveau. Un cinema che sfrutti i processi di calcolo temporale e di integrazione sensoriale del cervello dovrà infatti fondarsi su una diretta stimolazione delle reti neurali e dunque dotarsi di apparati in grado di manipolare singoli neuroni, cellule e reti neuronali. Secondo Weibel, i computer quantici di cui si discute oggigiorno potranno essere utili in tal senso, poiché in grado di riprodurre le caratteristiche termodinamiche degli organismi viventi, ovvero la loro energia, senza doversi limitare a raffigurarne il movimento. Una rappresentazione inquietante e conturbante di questa possibile svolta ci è già stata offerta nel film Strange Days di Kathryn Bigelow (1995), i cui protagonisti si immergono nell’esperienza di qualcun altro proprio grazie ad uno Squid (Superconducting Quantum Interference Device). Oltre a riprodurre le sensazioni del mondo, le tecnologie virtuali ed immersive in via di sviluppo dovranno inoltre tenere in considerazione la sempre più urgente richiesta di esperienze collettive. Prendendo spunto dagli attuali giochi al computer, che prevedono più utenti collegati e in collaborazione tra loro, anche il cinema dovrà provvedere alla creazione di spazi dislocati distribuiti, sfruttando i sempre più popolari sistemi wireless. Ne conseguirà il proliferare di molti mondi virtuali individuali e tuttavia intrecciati tra loro, come palesato dall’universo virtuale di Matrix. Se dai primi fenachistoscopi ad uso individuale si è giunti a sistemi di realtà virtuale fruibili individualmente, attualmente si stanno dunque mettendo a punto sistemi di percezione simultanea, collettiva e dispersa nello spazio. Tecnologie di grande successo come i MUVEs (Multi-User Virtual Environments), il GPS (Global Positioning System) e l’UMTS (Universal Mobile Telecommunication System) hanno già aperto la via al prevalere di una comunicazione globale e non localizzata, cosicché anybody anywhere anytime pare essere la formula più adatta per prospettare un cinema del futuro. In un tale contesto lo spettatore diventerà egli stesso interfaccia di una interazione bidirezionale tra il mondo delle immagini e quello reale, segnata da continui scambi tra un polo e l’altro77.

77 Weibel, Peter, “The intelligent Image: Neurocinema or Quantum Cinema?”, 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), 2003, pp. 594- 601.

93 2.10 IL CINEMA INTERATTIVO: CARATTERISTICHE Le considerazioni svolte nei paragrafi precedenti riguardo alle strade percorribili dal cinema interattivo, hanno fatto emergere alcuni elementi da tenere in grande considerazione nello sviluppo di nuove modalità cinematografica immersive e partecipative. Riportiamo in maniera schematica gli ingredienti che sembrano indispensabili nel delineare le mutate prospettive di un cinema del futuro.

1. Prima persona/Soggettiva: lo spettatore dovrà poter vivere le vicende direttamente sulla propria pelle, in una focalizzazione interna in cui spazierà dal ruolo di protagonista a quello di mero osservatore partecipante.

2. Interfaccia: dovrà essere il più possibile trasparente e non ostacolare o filtrare eccessivamente l’esperienza. L’interfaccia dovrà quindi risultare avvolgente ed immersiva, senza essere al centro dell’attenzione e distrarre l’utente dalla storia, come accade attualmente nelle proiezioni Imax e Omnimax.

3. Feed Back: le interazioni dello spettatore/utente con oggetti, personaggi ed ambienti della narrazione dovranno produrre sul racconto conseguenze significative e riscontrabili. In un’ottica allargata è augurabile che anche le interazioni tra più spettatori/utenti siano possibili ed abbiano effetti diretti sugli eventi di finzione

4. Risultati/Conclusioni: L’organizzazione della storia dovrà condurre da qualche parte e garantire a chi la fruisce un buon livello di soddisfazione. L’esperienza dovrà terminare con la sensazione di aver compiuto un movimento di progressione, di aver apportato un contributo sia alla narrazione che al proprio livello di conoscenza ed esperienza degli eventi.

Dopo aver riassunto gli elementi chiave per una progettazione cinematografica a fini interattivi, ci soffermeremo ora su alcuni elementi che sono già al centro delle attuali sperimentazioni e che vale la pena di approfondire nello specifico. Si tratta della spazialità, della generazione di “creature virtuali” e del recupero di forme pre- cinematografiche. La spazialità è un elemento chiave nella costruzione di media interattivi, poiché definisce i soggetti in gioco sulla base del loro posizionamento reciproco. Nella

94 produzione di sistemi di coordinate spaziali da tradurre in tre dimensioni in un ambiente virtuale, il GPS (Global Positioning System) si è rivelato uno strumento particolarmente soddisfacente. Il Global Positioning System è una tecnologia sviluppata inizialmente in ambito militare e installata per la prima volta sui carri armati americani durante la guerra del Golfo, per conoscere costantemente il posizionamento dei carri armati alleati. Dal 2000 il GPS ha iniziato a diffondersi anche come tecnologia civile, rivelando presto la sua applicabilità in campo artistico ai fini di una maggiore interattività. A sperimentare le possibilità offerte da questo mezzo è stato per la prima volta l’artista giapponese Masaki Fujihata, che ha realizzato un’affascinante installazione in 3-D presentata nel 2002 presso lo ZKM | Center for Art and Media, di Karlsruhe, con il nome di Field-Work@Alsace. In uno dei progetti successivi di Fujihata vari utenti si collegavano come avatar ad un appartamento virtuale fatto di 18 stanze, dove si incontravano ed interagivano tra loro. In contemporanea, un modellino reale della dimora riproduceva in tempo reale i loro spostamenti, grazie proprio alle coordinate fornite da un GPS78 . Un’altra tecnica affermatasi in maniera diffusa è il morphing spaziale, utile a mostrare non la collocazione di un oggetto, ma la trasformazione di uno spazio in altro. Tale possibilità apre un vastissimo ambito di applicazioni a fini cinematografici e documentaristici, in quanto permette di “viaggiare nel tempo”, contemplando un luogo in vari periodi storici o ripercorrendo la biografia di una persona, scegliendo per di più il punto di vista da cui osservare ed interagire con i fenomeni. Tale modificabilità, ottenuta grazie ai progressi informatici, è da concepirsi dunque come un potenziale enorme ai fini di una migliore comprensione delle relazioni storiche e spaziali, in un’interessante congiunzione tra architettura e cinema interattivo. Nel suo saggio “Evolved Virtual Creatures”, lo studioso Karl Sims illustra la possibilità di generare “creature virtuali”, che simulino con un elevato grado di perfezione le modalità di esistenza di organismi viventi. La creazione di tali entità virtuali è attuata generalmente creando dei genotipi e delle regole evolutive di natura algoritmica, che emulano la selezione naturale secondo cui alcuni individui sopravvivono ad altri. Molti esperimenti procedono dunque con l’accoppiamento e l’ibridazione di popolazioni di individui virtuali differenti, secondo criteri di prestanza

78Fujihata, Masaki, Field-Work@Alsace, 2002. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 416 -427.

95 fisica quali il nuoto, la camminata, il salto o la capacità di seguire fonti luminose79. Algoritmi di simile natura sono utilizzati, ad esempio, per la generazione di piante artificiali. Vi è una raccolta a priori dei parametri numerici di una pianta, come il numero di ramificazioni, l’angolo di ramificazione, etc., grazie ai quali se ne genera un modello geometrico che utilizza dati statistici. Alterando variabili quali età, crescita o posizione geografica l’utente può così osservare i cambiamenti che si verificano sulla pianta. Ciascuna specie richiede naturalmente un proprio tipo di algoritmi, che regolano ogni componente e sono ovviamente legati gli uni agli altri. La generazione di flora virtuale arriva dunque a seguire il principio naturale di crescita della pianta, senza trascurare fattori come la luce e la gravità. Una volta ottenuto un numero consistente di elementi, si può procedere alla costruzione di interi paesaggi, mantenendo presente che la crescita di una pianta dipende necessariamente dalle piante vicine, dalla composizione del suolo, dalla luce, dal vento. Esperimenti di questo tipo hanno permesso l’uso di sfondi sintetici nei film o la costruzione di ambienti totalmente digitali, rivestendo inoltre una grande importanza nell’architettura, nella progettazione urbana e nel design80. Un’ultima considerazione riguardo agli attuali sviluppi del cinema interattivo riguarda infine il recupero, in corso ormai da alcuni anni, di forme appartenenti al cinema delle origini o al periodo pre-cinematografico. Le ragioni di questo “ritorno al passato” risiedono principalmente nella razionalizzazione della vista cui la cultura occidentale è soggetta da secoli. In Occidente lo spazio è infatti percepito secondo consolidati codici di rappresentazione delle superfici piane, di cui la prospettiva rinascimentale è uno degli esempi più evidenti. Le categorizzazioni e le norme cui i nostri sensi si sono abituati a sottostare sono sintomatici di una dipendenza biologica e culturale del concetto del realismo, che si è tradotta nel corso della storia in una serie infinita di correnti e forme espressive, tra cui basta citare i naturalisti in letteratura o gli impressionisti in pittura. Tra le date che hanno segnato le nostre modalità di visione, il 1787 vide l’affermarsi di un’importante schema percettivo, incarnato dall’invenzione del Panorama. Esso fu infatti patentato in quell’anno dal pittore irlandese Robert Barker, che realizzò una

79 Sims, Karl, “Evolved Virtual Creatures”, 1994. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, p. 515.

80 Deussen, Oliver e Lintermann, Nernd, “Artificial Plants”, 2001. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 516 – 519.

96 rappresentazione della città di Edimburgo, da considerarsi senza dubbio una delle prime forme di spazio illusorio e virtuale. Tale tecnica prevedeva un pubblico seduto e circondato da un dipinto iper-realistico di circa 6 metri, accompagnato da un commento e da effetti sonori e luministici. Un’altra invenzione importante in tal senso fu il Diorama, messo a punto da Louis Daguerre e Charles Button ad inizio Ottocento, che poneva il pubblico davanti ad una scena fatta di movimenti, cambiamenti di luci, musica, effetti sonori e commenti con in primo piano modellini di castelli o alberi che servivano a dare profondità alle immagini. Tali invenzioni furono solo il risultato culminante di sperimentazioni che, già a partire dal diciassettesimo secolo, avevano prodotto tecniche e strumenti come la lanterna magica, il fenachistoscopio, o la “ruota della vita”81. Le forme espressive pre-cinematografiche possono dunque considerarsi, per il loro intento illusorio e, soprattutto, per il coinvolgimento attivo ed emotivo del loro pubblico, estremamente vicine a livello concettuale all’ipotesi di una cinematografia virtuale ed interattiva, in grado di coinvolgere fisicamente i propri spettatori. A questo proposito nel 2001 Luc Courchesne realizzò il lavoro The Visitor: Living by Numbers (Fig. 8 e 9), che si concentra sui movimenti del visitatore da attivo a passivo, attraverso una tecnica chiamata Panoscope 360, che prende spunto direttamente dal Panorama di Barker. L’installazione di Courchesne utilizza un contenitore circolare in cui il visitatore inserisce la testa. Aggiustabile in base all’altezza, il casco dà accesso ad un ambiente virtuale in cui è sufficiente esprimere semplici indicazioni dei punti cardinali per spostarsi, avvicinare oggetti e persone ed interagire con loro. Nel percorso si incontrano 6 individui molto diversi che si presentano, proponendosi come possibili partner di conversazione. Secondo la reputazione che l’utente si costruisce all’interno del gruppo si determina infine la possibilità o meno di trovare salvezza collettiva da una vicina catastrofe82.

81 Winston, Brian, “Technologies of Seeing”, 1996. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 368 – 369.

82 Courchesne, Luc,“The Visitor: Living by Numbers”, 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 504-505. 97 2.11 IL CINEMA INTERATTIVO: ESEMPI A conclusione di un’ampia riflessione sulle strade percorribili dal cinema per aumentare il proprio grado di interazione con lo spettatore, proponiamo una presentazione cronologica di alcune sperimentazioni che hanno avuto particolare successo. Il numero di esempi e di artisti che si sono cimentati con l’invenzione di forme filmiche interattive è altissimo ed in continuo aumento; abbiamo dunque selezionato tra questi alcune opere o autori la cui idea ci è parsa particolarmente innovativa, originale e utile ai fini di futuri approfondimenti. Nel 2003 gli intellettuali ed artisti Jeffrey Shaw e Peter Weibel, hanno pubblicato un catalogo estremamente dettagliato dell’esposizione Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film. tenutasi presso lo ZKM | Center for Art and Media, tenutasi a Karlsruhe, in Germania, tra il 16 novembre 2002 ed il 30 marzo 2003. Questa antologia di sperimentazioni interattive rimane ad oggi il testo più dettagliato e ricco sull’argomento e da lì abbiamo selezionato gli autori e le esperienze di seguito trattati.

2.11.1 Raduz Çinçera Raduz Çinçera fu il primo cineasta ad utilizzare una narrativa non lineare che includesse lo spettatore come partecipante attivo alle azioni del film. Egli presentò all’Expo del 1967 a Montreal il progetto Kinoautomat (Fig. 10), da molti considerato come il primo esempio di cinema interattivo. Il lavoro vedeva gli spettatori confrontarsi con una pellicola spesso arrestata dalla comparsa di un attore in carne e ossa. Si trattava di uno degli attori protagonisti, Miroslav Horníçek, con funzione di ponte tra il virtuale e il reale. Egli offriva i propri commenti sulla narrazione, oltre ad illustrare le possibilità di sviluppo per il futuro. Gli spettatori votavano con un sì o un no attraverso due bottoni posizionati sulle loro poltrone, determinando per maggioranza la prosecuzione della trama. Al centro della narrazione erano relazioni estremamente turbolente tra gli abitanti di un condominio assolutamente ordinario. In una scena si vedeva, ad esempio, una ragazza appena uscita dalla doccia e avvolta in un asciugamano, che suonava alla porta del vicino in preda al panico. Si domandava poi agli spettatori se il vicino dovesse o meno permetterle di entrare. Generalmente la risposta era affermativa, eccetto il singolo caso di una presenza notevole di suore alla proiezione. Nel 1968, dopo l’invasione delle truppe del patto di Varsavia,

98 l’esperimento del Kinoautomat fu tristemente concluso, forse per evitare la diffusione del senso democratico alla base del lavoro83. L’operato di Raduz Çinçera continuò anche successivamente, tanto che nel 1990 egli introdusse all’Expo di Osaka il Cinelabirinto, un ambiente in cui gli spettatori seguivano il film spostandosi da una stanza all’altra e determinandone l’andamento in base alla stanza in cui si trasferivano. Rispetto al Kinoautomat lo spettatore del Cinelabirinto arrivava dunque a prendere decisioni individuali. In un progetto vagamente simile, sempre del 1990, la televisione ceca sperimentò con la proiezione di due diverse narrazioni della stessa storia su canali differenti, lasciando liberi gli spettatori di spostarsi dall’uno all’altro grazie allo zapping. A dispetto dell’estremo interesse sperimentale di questi argomenti è al giorno d’oggi quasi impossibile reperire notizie che ne approfondiscano la conoscenza.

2.11.2 Josef Svoboda Josef Svoboda, collaboratore di Çinçera, condusse il progetto Laterna Magika, che proponeva una sintesi di film e teatro, data dalla transizione fluida dal palcoscenico alla proiezione del film e viceversa, che vedeva gli stessi attori protagonisti sia nel film che nella recitazione. Grazie ad un magistrale uso dell’illuminazione e della colonna sonora, tale esperienza arrivava a confondere lo spettatore su ciò che era reale o meno, costruendo un’illusione ottica altamente convincente. Il suono era organizzato in modo da riprodurre una sensazione spaziale per lo spettatore, mentre l’uso di schermi mobili e proiettori rotanti garantiva allo spettacolo il sufficiente grado di dinamismo. Il successo della rappresentazione fu tale che essa è ancora diffusa attualmente nelle rassegne artistiche praghesi. La Laterna Magika (Fig. 11) era un progetto al confine tra film, teatro e una forma completamente nuova di spettacolo mediatico. Il lavoro fu introdotto presso il padiglione ceco dell’Expo di Bruxelles nel 1958 e combinava al proprio interno elementi di balletto, teatro, con la proiezione di un film e un sottofondo sonoro. Un dialogo simulato tra un attore e gli spezzoni di film proiettati, unitamente ad una perfetta sincronizzazione dei ballerini con le immagini del film restituivano l’impressione di una interazione effettiva tra la sfera filmica e quella reale. Lo

83 Havránek, Vit. “Laterna Magika, Polyekran, Kinoautomat. Media Techonolgy and Interaction in the Works of Set Designers Josef Svoboda, Alfréd Radok and Raduz Çinçera, 1958 – 1967” 2003. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 102-109.

99 spettacolo aveva inizio proprio con tale illusione e lo spettatore, incapace di svelare il meccanismo spettacolare, era indotto fin da subito a domandarsi come il film riuscisse a prendere vita e reagire agli eventi. Il segreto risiedeva in uno strabiliante meccanismo di orchestrazione, che stabiliva con esattezza le posizioni degli attori, i tempi dell’azione e la sincronizzazione del dialogo mimato tra attori reali e virtuali. Lo spettacolo era inteso alla ricerca di una reazione emotiva da parte dell’osservatore, attraverso l’intensità data dall’utilizzo congiunto di più forme artistiche fortemente patemiche. L’intero progetto fu frutto di una collaborazione tra Collaborazione tra Alfréd Radok e Josef Svoboda, con l’aiuto di Milos Forman. Artisti come Carolee Schneemann, Michael Snow e Valie Export, colpiti dall’idea, la riproposero in chiave modificata nel settore della video art. Nel 1965 Svoboda disegnò inoltre il set dell’Opera Group di Boston, in collaborazione con il MIT e la Boston Public TV , in occasione dell’opera Intoleranza di Luigi Nono. Il concept si avvaleva di 12 monitor e 2 proiettori televisivi, che mostravano immagini montate in diretta grazie ad una cabina di regia. Il risultato era uno spettacolo complesso in cui il direttore d’orchestra, presente in teatro, dirigeva tramite telepresenza i cori situati altrove, il tutto combinato con immagini della hall del teatro e del pubblico. In occasione della performance di un cantante nero fu mostrata una immagine in negativo del pubblico in sala – cosicché tutti apparivano neri – per poi tornare al colore naturale e rivelare al pubblico l’immagine della propria reazione sconvolta. La rappresentazione sui monitor venivano così collegate in diretta alle reazioni dell’audience84.

Nel 1958 debuttò presso l’Expo di Bruxelles anche il progetto Polyekran, che proponeva collegamenti ritmici tra film, musica e spazio di scena. L’idea si basava su schermi multipli variabili in forma, dimensione, orientamento, posizionamento e contenuto. 8 film venivano proiettati allo stesso tempo, generando una sorta di flusso di coscienza joyciano. Progetti come il Kinoautomat, il Polyekran e la Laterna Magika costituiscono gli esempi più brillanti dell’innovazione e dell’originalità introdotte dalla Nuova Onda ceca degli anni Sessanta. La visionarietà di questi lavori risiede innanzitutto nell’aver colto il passaggio di ruolo da spettatore ad utente, consolidato nei

84 Havránek, “Laterna Magika, Polyekran, Kinoautomat. Media Techonolgy and Interaction in the Works of Set Designers Josef Svoboda, Alfréd Radok and Raduz Çinçera, 1958 – 1967”. In Shaw, e Weibel, (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 102 – 109.

100 decenni successivi dalla nascita dei videogiochi, dei Personal Computer, di Internet, ma anche dalla diffusione dei DVD e dei software per il montaggio di materiale video direttamente sul proprio PC.

2.11.3 Peter Weibel Nel 1968 Peter Weibel propose l’installazione EXIT. Gli spettatori sedevano in sala, aspettando che il film venisse proiettato, quando Weibel fece la sua comparsa sul palco iniziando un discorso. Nel frattempo Valie Export, Hans Scheugl, Kurt Kren e altri artisti del circolo viennese cominciarono a lanciare petardi al pubblico, ricevendone un immediato e prevedibile contrattacco. Un’esperienza di questo genere mirava innanzitutto a generare un tipo di interattività fisica, che sconfinasse al di là della rappresentazione fino ad influenzare in maniera tangibile gli spettatori. EXIT si scagliava, in poche parole, contro il comfort e l’inazione del cinema tradizionale. Nel 1969 Weibel proseguì la sua riflessione con The Endless Sandwich, un lavoro in cui lo spettatore doveva intervenire di volta in volta per risistemare un meccanismo non funzionante dello schermo: anche in questo caso l’intento era quello di svelare al proprio pubblico la natura simulacrale delle immagini. Nel 1970 TV Aquarium mostrava sullo schermo l’immagine di un acquario che diveniva sempre più realistica, grazie ad un gorgoglio di acqua sempre più accentuato e alla vera e propria fuoriuscita dell’acqua dallo schermo, accompagnata dalla presenza di pesci sul pavimento, in una rappresentazione presto censurata dall’intervento delle associazioni ambientaliste. Nel 1991, un’ennesima opera di Weibel, Das Tangible Bild, poneva lo spettatore dinnanzi ad uno schermo di gomma, che egli poteva toccare, producendo variazioni nei contenuti mostrati. I sensori posti dietro lo schermo misuravano infatti la collocazione e la pressione del tocco. Un lavoro di questo genere sottolineava innanzitutto il ruolo imprescindibile giocato dall’interfaccia nella costruzione dell’arte del futuro e, soprattutto, del cinema. L’opera aveva infatti l’obiettivo di rendere il proprio utente consapevole della mediazione dell’interfaccia come elemento di accesso al mondo virtuale.

2.11.4 Lynn Hershman Leeson Tra il 1979 e il 1984 si colloca la parte più consistente del lavoro dell’artista Lynn Hershman Leeson, che si dedicò principalmente all’invenzione di forme espressive e tecnologiche che ampliassero il potere d’azione dell’utente.

101 Lorna era un laserdisc di video art in cui gli utenti potevano operare delle scelte per conto di un personaggio videoregistrato, Lorna, una ragazza agorafobica ed eternamente indecisa. Ogni oggetto nel suo appartamento era numerato e, grazie ad un semplice click, dava accesso ad informazioni sui sogni e sulle paure della giovane, sui suoi conflitti personali e sul suo possibile futuro. Alcuni dei dati sonori e visivi erano ripercorribili all’indietro, in slow o fast motion, o da differenti punti di vista. A causa delle ancora ristrette possibilità di memoria, il disco offriva in tutto 17 minuti di girato, suddivisi in 36 capitoli, che cambiavano continuamente in ordine e contenuto. Esso rendeva inoltre disponibili più colonne sonore e ben tre finali differenti: Lorna che sparava alla propria TV, si suicidava oppure si trasferiva a Los Angeles. Lorna può considerarsi il primo videodisco di arte interattiva e la passività della protagonista, su cui l’utente esercitava la propria azione voleva essere, prima di tutto, una riflessione sul clima di paura generato dai media. Lynn Hershman Leeson proseguì le proprie sperimentazioni con Deep Contact. The first Interactive Sexual Fantasy Videodisk. (Fig. 12). Il disco invitava i partecipanti a toccare la protagonista, Marion, in qualsiasi punto del corpo attraverso un MicroTouch monitor. In base alla parte stuzzicata venivano proposte differenti avventure. Era la stessa protagonista, nell’incipit del video, a chiedere di essere toccata, invitando ad utilizzare lo schermo come estensione della propria mano, in veste di connessione prostetica. La storia offriva inoltre la possibilità di assistere al racconto dal punto di vista di un determinato personaggio, di cambiare personalità per conoscere meglio Marion o di sostituire la propria immagine a quella sullo schermo grazie ad una videocamera. La riflessione sul voyeurismo e sulla costruzione sociale dell’identità femminile fu proseguita dalla Leeson anche in lavori successivi come Peep show o Echo Narcissus. A room of One’s Own. America’s Finest proponeva invece un fucile M16 attraverso il cui mirino si assisteva, premendo il grilletto, ad un flusso di immagini di atti di violenza e uccisione portati a segno da quella stessa arma. In mezzo al flusso visivo compariva ad un certo punto anche l’immagine dell’osservatore con in braccio l’arma, catturata tramite una telecamera in comunicazione diretta con l’istallazione. L’opera serviva sostanzialmente a documentare gli orrori del ventesimo secolo, perpetrati tramite le armi e trasformati in ricordi dai media. Una volta premuto il grilletto per la prima volta l’immagine dell’utente era irreversibilmente incorporata nel flusso mediatico e svaniva per poi

102 riapparire in maniera inquietante e fantasmatica. Premere il grilletto trasformava così l’utente sia in un aggressore, che in una futura vittima delle proprie azioni. Tillie, the Telerobotic Doll era infine un’installazione che vedeva nel ruolo di protagoniste due bambole telerobotiche, con webcam e schermi al posto degli occhi e una testa in grado di ruotare di 180°, incorporando gli osservatori nel loro stesso ambiente. Il concept dell’intero progetto si basava sul fatto che la tecniche di sorveglianza messe a punto nella nostra cultura permettono di prolungare il nostro sguardo molto oltre la nostra collocazione fisica. Gli osservatori si trasformavano così in voyeur tramite Tillie, ma anche in cyborg in quanto utilizzavano i suoi occhi come visione remota ed estesa. Il suo occhio sinistro registrava a colori esattamente ciò che vedeva, mentre l’occhio destro era connesso ad Internet e vedeva una scala di grigi di 320x200. Vi erano così utenti posti di fronte a Tillie, che vedevano la propria immagine riflessa sul monitor e altri utenti su Internet in grado di far muovere la testa della bambole ed esplorare la stanza in cui si trovava, mentre Cyber Roberta interagiva a sua volta, piratando le informazioni della collega85.

2.11.5 Chris Hales Jinxed! è un’opera del 1998 che propone una commedia comica, in cui spezzoni video sono collegati tra loro in una struttura ramificata. E’ un esempio di film in cui le nostre azioni sono volte ad impedire al protagonista di raggiungere i propri obiettivi, attraverso la selezione di oggetti “stregati” al momento opportuno. L’intervento dell’utente è inteso al conseguimento di una soddisfazione umoristica e leggermente sadica nel contemplare la malasorte del protagonista. La selezione degli oggetti avviene attraverso un click su di essi nel caso del disco o grazie ad un urlo emesso al momento giusto nell’istallazione live. Sullo stesso filo conduttore si colloca anche il progetto Messed up, sempre del 1998, in cui lo scopo è invece quello di portare il disordine in un appartamento ordinatissimo, dove il protagonista contrattacca rimettendo le cose al loro posto. Compito dell’utente è scoprire quali oggetti possano creare danno, esplorando un ambiente ricco di digressioni poetiche sugli oggetti e dotato di un’opportuna colonna sonora86.

85 Hershman Leeson, Lynn,“TEKNOLUST”, 2002. In Shaw e Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 220 – 227.

86 Hales, Chris “One-Person Touchscreen Cinema Showing Fourteen Interactive Movies” In Shaw Weibel (a cura di), Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film, pp. 296-301. 103 2.11.6 Perry Hoberman L’artista Perry Hoberman ha dedicato una parte consistente della propria carriera artistica alla realizzazione di ambienti interattivi. Alla base del suo operato risiede principalmente il rifiuto di interfacce utente che si avvalgano dello schermo, che egli concepisce come trappole eccessivamente strutturate e prive di imprevisti. Oltre a questionare l’esistenza dello schermo, Hoberman mette in dubbio l’intera illusione dell’esperienza filmica, così come la solitudine della navigazione. Dalle sue investigazioni sono emersi numerosi lavori che utilizzano un’interfaccia “human machine” e ritraggono un mondo quotidiano in cui macchine familiari e pervasive vengono riciclate e reorientate. L’esempio più noto ci è fornito da Faraday’s Garden, in cui un pavimento sensibile alla pressione cattura i movimenti dell’utente e li sfrutta come energia per l’accensione degli apparecchi elettrici che popolano il giardino (pezzi d’antiquariato, elettrodomestici obsoleti, frullatori, coltelli elettrici, giradischi e proiettori). Il lavoro, inteso come omaggio all’operato di Michael Faraday nel campo dell’elettro-magnetismo, è un sistema aperto basato sulle reazioni dell’utente, che mette in scena una danza perversa della strumentalità, ricordandoci che le nostre vite sono avviluppate da macchine la cui presenza riverbera incessantemente. Let’s Make a Monster (Fig. 13) fa invece riferimento alla creazione di vita artificiale, unendo il girato di vari film fantascientifici alla presenza di Hoberman, che volge le spalle al pubblico e utilizza strumenti informatici che simulano il laboratorio di un qualche scienziato pazzo. Ne consegue una narrazione delirante in voice-over, che assimila Hoberman ad un moderno Dr. Frankenstein e associa il montaggio cinematografico all’assemblaggio di corpi mostruosi87.

2.11.7 Wheel of Life (1991) Nel 1991, presso il Massachussets Institute of Technology. un corso formato da 22 studenti universitari realizzò il progetto Wheel of Life, che dava vita ad un ambiente in trasformazione. A metà tra la caccia al tesoro ed il parco a tema, la realizzazione presupponeva la presenza di un esploratore che si addentrava in un ambiente multimediale e di una guida che facilitava gli spostamenti del primo, grazie ad una collaborazione vocale. Sensori posti lungo il percorso producevano continui feedback rispetto alle azioni dell’esploratore, che doveva confrontarsi più volte con assemblaggi e costruzioni a puzzle, in un continuo sforzo sia fisico che cognitivo. L’uso di

87 Hoberman, Perry, “Let’s Make a Monster”, 2001-2003. In Shaw e Weibel (a cura di), 2003, pp. 228- 235. 104 illuminazione e di messaggi predefiniti in tempo reale permetteva invece alla guida di aiutare la navigazione in un ambiente visivo, tattile e sonoro in grado di simulare elementi naturali come l’acqua.

2.11.8 Tall Ships (1992) Nel 1992 l’artista Gary Hill realizza Tall Ships, un corridoio buio lungo il quale cammina il visitatore, assistendo alla subitanea apparizione di immagini di altri individui. Al soffermarsi dell’osservatore le figure si ingrandiscono a misura naturale e reagiscono ai suoi comportamenti grazie a dei sensori, talvolta andandosene o rimanendo. L’effetto specchio ottenuto da queste immagini nel buio del corridoio confonde il visitatore, inducendolo a porsi domande sulla sua stessa identità. Sono trascorsi quasi vent’anni da questa sperimentazione di Hill e tuttavia essa rimane un ottimo esempio di esplorazione della possibilità di un’interazione diretta tra immagini ed osservatore.

2.11.9 Desert Rain (1999) Nel 1999 il gruppo inglese Blast Theory porta a termine Desert Rain (Fig. 14 e 15). L’ambiente consta di un cubicolo dotato di una piattaforma sulla quale si trova, in piedi, il partecipante. Sono in tutto 6 i membri della squadra che esplora una serie di luoghi virtuali tra cui hotel, bunker sotterranei o zone desertiche nel tentativo di compiere una missione. I mondi virtuali sono proiettati dinnanzi al giocatore su di una cortina di acqua corrente. Si hanno solo 30 minuti per raggiungere il proprio obiettivo. A ciascun partecipante è fornita la tessera identificativa di una persona che deve essere soccorsa in tempo. Ogni effetto personale è abbandonato all’ingresso dell’istallazione per indossare un giacchetto nero con cappuccio. I visitatori si incontrano in più momenti della missione per scambiarsi informazioni utili a raggiungere il loro scopo. Se la persona da salvare viene reperita, un attore in carne ed ossa attraversa lo schermo e consegna al giocatore la tessera identificativa corrispondente. L’ ambiente finale è un hangar di numeri fluttuanti, cui si perviene solo se tutti e sei i visitatori riescono nella loro missione. Il corridoio d’uscita è poi bloccato da pile di sabbia da scavalcare per raggiungere l’ultima stanza dell’installazione. Questa stanza ha alle pareti fotografie in grandezza reale di una camera di albergo inglese. Ogni tessera fa apparire il personaggio nello spazio in cui è inserito un televisore, incavato nel muro in una sorta di trompe l’oeil al contrario. Ciascuno dei superstiti salvati dai giocatori (soldati,

105 giornalisti, pacifisti…) racconta in video la propria esperienza della Guerra del Golfo, illustrando come essa abbia cambiato la propria vita. Quando i visitatori riprendono i loro effetti personali vi trovano nascosto un sacchetto di sabbia, a ricordare loro che anche situazioni mediatiche che ci appaiono nella loro astrazione e virtualità comportano conseguenze tangibili di cui non ci si libera facilmente. Desert Rain è una combinazione armonica e completa di realtà virtuale, installazione artistica e performance dal vivo. Si parte dalla provocatoria affermazione di Baudrillard secondo cui la Guerra del Golfo non ha avuto luogo, per sondare il confine spesso confuso tra reale e virtuale.

2.11.10 BodySPIN (1999-2000) Tra 1999 e 2000 il gruppo Time’s up partorisce BodySPIN (Fig. 16), una realtà virtuale pensata per una sola persona, che garantisce un’esperienza di intensa corporeità. Si tratta di una sfera di 3 metri di diametro, sulle cui pareti traslucide appaiono delle proiezioni, che trasmettono la sensazione di una passeggiata in un mondo virtuale, senza la necessità di alcun comando di forward né di occhiali speciali. Il mondo che si esperisce tramite questo marchingegno è polito ed astratto sullo stile del film Tron della Walt Disney. Appena l’individuo comincia a passeggiare, la sfera acquisisce immediatamente un movimento rotatorio e fluido, restituendo un universo nitido le cui uniche imperfezioni si notano nei punti di congiunzione dell’impalcatura. Elementi fisici come il battito cardiaco, la respirazione e la tensione muscolare influenzano grandemente il mondo virtuale. All’aumentare dello stress o del ritmo di andatura il mondo rappresentato diviene via via più complesso. Si passa così dal gusto di bighellonare oziosamente ad un utilizzo simile a quello di una vera e propria palestra.

2.11.11 Standing Ovation (2001) Oltre alle narrazioni che permettono scelte multiple, alcune artisti si sono dedicati a pensare modalità di influenza sul film, date dalla posizione che lo spettatore assume nello spazio. A tale riguardo, Jakub Moravek produsse nel 2001 l’installazione Standing Ovation. L’opera mostrava essenzialmente il filmato di un gruppo di persone che reagivano al comportamento dello spettatore: applaudivano se egli si avvicinava allo schermo, aumentando l’intensità in base alla riduzione della distanza. Se lo spettatore rimaneva invece fermo in piedi, la scena si faceva più intensa fino ad una vera e propria esplosione di gioia. Dopo un breve test del meccanismo, l’utente

106 risultava in grado di decidere quanto a lungo far durare la scena e a quale grado di intensità, tutto ciò grazie a sensori che, dal pavimento, trasferivano l’informazione direttamente a un computer.

2.11.12 Alphawolf (2001) Il Synthetic Characters Group, operante presso il laboratorio mediatico del MIT realizza nel 2001 un progetto noto come Alphawolf (Fig. 17). Il contesto propone un branco virtuali di lupi dal comportamento autonomo o semiautonomo, in grado di interagire tra loro come lupi reali e con cui gli osservatori possono entrare in contatto. L’interazione dell’utente avviene attraverso la produzione di determinati versi al microfono: ululati, grugniti, abbai e mugolii inducono ad un feed back immediato nel mondo chiuso del branco. Un mouse permette inoltre di selezionare quali lupi far interagire e con chi, restituendo un ambiente sociale molto vicino a quello effettivo. L’interesse di questo lavoro risiede soprattutto nella sua capacità di riprodurre simulazioni complesse e ricche di variabili, che restituiscano il comportamento di un essere vivente nella realtà e creino una memoria sociale e collettiva tra i soggetti in interazione. Alphawolf raggiunge così l’arduo obiettivo di creare entità computazionali che formino vere e proprie relazioni sociali tra loro, secondo concetti alla base dell’intelligenza artificiale. Esperimenti di questo genere lasciano intravedere l’ormai prossima realizzazione di testi interattivi per il cinema, che raggiungano un’intensità drammatica forse anche superiore rispetto al cinema tradizionale.

2.11.13 Run motherfucker run (2001-2002) Marnix de Nijs è autore di Run motherfucker run (Fig. 18), un progetto sorto tra il 2001 e il 2002, che prevede una pedana da corsa collocata dinnanzi ad un enorme schermo su cui vengono proiettate immagini in 3D di una città con strade vuote, incroci, vicoli sinistri e ostacoli. All’aumentare del ritmo di corsa aumenta anche lo scorrere delle immagini, generando un’atmosfera cupa da thriller, da horror metropolitano o da film d’inseguimento. La velocità consentita va da 0 a 25 km l’ora ed il movimento dell’utente risulta indispensabile allo scorrere delle immagini. Ad accentuare la sensazione inquietante della narrazione contribuisce la scelta di un suono atmosferico, che accompagna le proiezioni tridimensionali. Si tratta di un suono quadrifonico a più tracce, che comprende un suono diretto, fatto di passi, discorsi, auto, o proiettili e altri generati al computer, che creano una sorta di sfera intorno al

107 partecipante. Al procedere della storia il visitatore incontra una serie molto varia di personaggi che lo squadrano, facendolo sentire un estraneo. Cartelli lungo il percorso gli indicano strade possibili da imboccare e di cui esplorare le caratteristiche. Uno scanner laser identifica insomma costantemente la posizione spazio-temporale del corridore e permette la gestione virtuale del suo percorso.

2.11.14 Sally or the Bubble Burst (2002) Sally or the Bubble Burst (Fig. 19) racconta la storia di Spectropia, una giovane in cerca dei propri ricordi perduti tramite uno scanner che sonda una cupa metropoli alla Blade Runner. Leggendo gli oggetti, lo scanner riproduce simulazioni degli eventi passati in cui è possibile inserirsi in maniera interattiva. L’esperienza più interessante è il dialogo diretto dell’utente con il personaggio virtuale di Sally Rand, una ballerina della New York Anni Trenta. Tramite il mouse l’utente può influenzare la coreografia della Bubble Dance di cui Sally è protagonista, ma soprattutto gli è possibile dialogare direttamente con lei grazie ad un microfono. Nonostante qualche imprecisione, il personaggio pare infatti avere vita propria. All’utente è concessa una certa dose di controllo, che non raggiunge la totalità per evitare la noia. E’ stata inoltre approntata anche una versione per Internet di Sally or the Bubble Burst, in cui due utenti potevano incontrarsi e rivestire le parti di personaggi della storia, in un meccanismo antesignano di Second Life, che propone elementi narrativi cruciali come lo sdoppiamento dell’identità, il viaggio nel tempo e l’abitabilità della storia, lasciando finalmente l’osservatore libero di “infestare” il testo filmico.

2.11.15 Be Me (2002) Nel 2002 Max Dean e Kristan Horton portano a termine le realizzazione di Be me (Fig. 20), un’installazione interattiva che permette all’osservatore di animare una proiezione gigante del viso di Max Dean, attribuendogli sia la propria voce che le proprie espressioni facciali. Il set risulta composto da uno schermo di quasi 2 metri in altezza, una videocamera, un microfono e due lampade che accolgono il visitatore in un’ambientazione da studio fotografico. All’arrivo dell’osservatore dinnanzi alla proiezione della faccia passiva di Dean, questa si anima, domandando se egli voglia diventare come lui e invitandolo a dire qualcosa. Il processo obbliga così l’osservatore a confrontarsi con le proprie espressioni facciali e vocali amplificate, costruendo una situazione provocatoria attraverso uno spettacolo pubblico potenzialmente

108 imbarazzante, in cui è data la possibilità di manipolare la faccia di un’altra persona. Be me è ispirato al desiderio ricorrente e umano di provare ad essere qualcun altro, senza però perdere noi stessi e ciò che ci caratterizza.

2.11.16 So.So.So. Somebody, Somewhere, Sometime (2002) So.So.So. Somebody, Somewhere, Sometime è il nome assegnato da Maurice Benayoun ad un proprio lavoro del 2002. So.So.So. (Fig. 21) è un’installazione interattiva in cui l’osservatore, grazie ad un visore di realtà virtuale, è immerso in panorami sferici che riportano immagini girate esattamente alle 7.47 del mattino. Il visitatore è presto coinvolto in un’attività di esplorazione visiva, che lo induce a soffermarsi su dettagli specifici. Focalizzandosi per alcuni secondi su di un elemento, egli è infatti rediretto ad un’altra scena, divenendo causa involontaria di un montaggio inaspettato. Fuori dall’istallazione un grande schermo pubblico permette di seguire il percorso soggettivo del partecipante al suo stesso ritmo. L’esperienza particolare è così reinserita in un clima di fruizione collettiva, come specifica la scritta che campeggia sopra allo schermo: “Memoria retinica collettiva”. La narrazione è dinamica e permette una navigazione onnidirezionale e a 360°, costruendo un rizoma lungo il quale lo spettatore cammina al proprio passo.

109

110 3. UN MERCATO PER IL CINEMA INTERATTIVO

A questo punto del nostro lavoro ci sembra opportuno tratteggiare lo scenario socio- economico in cui le diverse forme di cinema interattivo troveranno una propria collocazione. Le caratteristiche distintive di queste nuove tipologie cinematografiche sono, come abbiamo avuto modo di dimostrare, un alto livello tecnologico, un utilizzo consistente di strumenti e formati digitali e una forte ibridazione e contaminazione con media e forme artistiche distinte dal cinema. Tali peculiarità ci autorizzano dunque a supporre che il cinema interattivo nelle sue espressioni molteplici beneficerà della crescente convergenza che ha luogo sia sul piano tecnologico, sia su quello dei contenuti. Il film costituisce infatti, da sempre, un complesso sistema mediale, che si è ulteriormente ampliato grazie alla diffusione di tecnologie digitali. La pellicola è arrivata così a costituire un semplice elemento di un più vasto para-testo che si compone di trailer, cartellonistica, merchandising, siti internet, blog, comunità on-line, serie televisive, videogiochi, interviste, retroscena, riviste, making of e tanto altro. Se a questo variegato paesaggio aggiungiamo inoltre la possibilità di una maggiore interazione dello spettatore con i contenuti, allora risulta evidente la necessità di una convergenza tra gli apparati e gli strumenti di produzione, distribuzione e ricezione dei film, che faciliti il dialogo del pubblico con gli autori ed i produttori.

3.1 CONVERGENZA TECNOLOGICA, PRIMA DI TUTTO. L'epoca attuale è segnata da un utilizzo sempre più assiduo di supporti tecnologici di varia natura, dal cellulare al navigatore satellitare, dal decoder digitale al lap-top. Per lo meno nei paesi industrializzati, la familiarità con i supporti e gli apparati tecnologici è ormai un dato di fatto, tanto da richiedere l'affermazione di standard universali che permettano una più fluida circolazione di qualsiasi tipo di contenuti. Se la diffusione del World Wide Web costituisce un esempio illuminante di convergenza da questo punto di vista, altre sfere come quella del DVD sono ancor oggi teatro di scontro tra varie società. L'affermazione del proprio standard non comporta, infatti, esclusivamente vantaggi di tipo economico, quali l’attribuzione di royalties in base all’uso del formato, ma anche e soprattutto il prevalere dei propri contenuti. Un esempio in questo senso ci

111 è fornito dalla società Apple che, nella figura di Jonathan Ives, ha contribuito senza dubbio a rendere la strumentazione del computer molto più lifestyle-friendly, come è avvenuto nel caso dell'I-pod, che ha rivoluzionato la tecnologia musicale per poi esportare i risultati conseguiti nel campo telefonico e audiovisivo, con la successiva creazione dell’I-Phone nel 2007. Il sorgere di strumenti quali i PVP (Personal Video Player), trasportabili in base ai nostri spostamenti, così come la diffusione di DVD riscrivibili, dei video hard drive recorder e, in contemporanea, di tecnologie quali il wireless e gli infrarossi hanno aumentato in maniera esponenziale le possibilità di scambio dei materiali, già favorite dall’accresciuta velocità di trasferimento delle informazioni e dall’aumento della capacità di storage dei processori. Apparati di questo genere nascono innanzitutto dalla necessità degli individui di una programmazione che sia personalizzata, pratica e ad alta intensità, in breve, maggiormente interattiva. A questo proposito Giovanali preannuncia uno spostamento definitivo dal mass-media al My Media88, che concentrerà su di un unico supporto servizi di stampa, musica, TV, pubblicità, cinema e, naturalmente, shopping. L'affermarsi di un consumo mediatico sempre più individuale pare dunque prossimo a segnare la fine del broadcasting televisivo, soppiantato dal concetto più variegato di home entertainment. L'intrattenimento sembra infatti destinato ad evolversi al punto da essere fruito in maniera compressa, frammentata, non sequenziale, e soprattutto su supporti diversi a seconda del contesto. Da qui la necessità di contenuti digitali, che possano facilmente adattarsi a differenti formati di trasmissione e che creino un reticolo di collegamenti tra le varie piattaforme mediatiche, secondo il ben noto concetto di “iper-media”. Nel testo Multimedialità Giovanali distingue così i quattro gruppi di operatori che, a suo parere, domineranno la multimedialità del futuro89:

1. I fornitori di hardware e l’industria dell’elettronica di consumo e non. Questo gruppo include i produttori di TV, decoder, console, PC, DVD etc.;

2. gli operatori delle telecomunicazioni, che si dedicheranno a far pervenire il

88 Giovenali, Andrea, Multimedialità. Dai nuovi media alla nuova pubblicità. Lupetti: Milano, 1995, p. 204.

89 Ivi, p. 40. 112 messaggio nelle nostre case (progettatori di satelliti, compagnie telefoniche, etc. );

3. i fornitori di servizi digitali, che permetteranno agli utenti di accedere alle informazioni disponibili, tramite canone, abbonamento, carta di credito, etc.;

4. i fornitori e i creatori di software editoriali, quali case di produzione cinematografiche , produttori di videogiochi e computer software, stazioni radiofoniche, case discografiche, etc.

La joint venture sarà dunque la strategia economica più praticata nel collegare tra loro i diversi ambiti della produzione mediatica, come già dimostrano i recenti accordi tra operatori telefonici e canali televisivi per la fornitura di canali tematici attraverso il protocollo IP. Lo scenario attuale mostra infatti come produttori di cinema, aziende informatiche, elettronica e reti televisive abbiano formato agglomerati forti volti alla creazione di enormi imperi mediali. La presenza di uno stesso gruppo in più ambiti contemporaneamente gli garantisce infatti costi competitivi rispetto alla concorrenza, mentre gli investimenti nella ricerca tecnologica della stessa compagnia vanno contemporaneamente a vantaggio di più settori tra loro collegati, come per esempio il cinema, l'home video ed i videogiochi. Ne risulta che le risorse derivate dall'affluenza nelle sale andranno a costituire solo una delle tante voci tra le entrate delle compagnie cinematografiche, costrette a diversificare progressivamente le proprie aree di business. A questo proposito ci pare interessante citare anche l'illustre contributo di Manuel Castells, la cui riflessione si situa proprio in ambito socio-economico. Castells contrappone lo spazio dei flussi, caratteristico dei network, allo spazio dei luoghi e sostiene l'affermarsi di una nuova organizzazione economica, dominata dalla mobilità, dalla flessibilità e dal decentramento delle relazioni economiche e culturali. Nella sua riflessione Castells si preoccupa tuttavia di sottolineare come tale frammentazione delle audience non implichi affatto la dissoluzione dei grandi protagonisti della produzione mediatica, ma anzi favorisca l'espansione dei soggetti forti lungo l'intera filiera culturale e mediatica90.

90 Lughi, Giulio. Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario. Guerini Studio: Milano, 2006, p. 28.

113 A testimonianza della valenza predittiva delle affermazioni di Castells, nel 2005 Rupert Murdoch, uno dei più potenti tycoon del mondo della comunicazione con la sua NewsCorp., ha annunciato l'acquisizione di un portale di grande successo, MySpace, entrando così nel settore web. La diffusione capillare della banda larga ha infatti permesso una canalizzazione dei media tradizionali sul Internet, recuperando quell'utenza soprattutto giovanile che sta progressivamente abbandonando la televisione e prediligendo una scelta personale dei contenuti. La caratteristica fondamentale di My Space risiede nell'assenza della base sociale di utenti su cui si fondano Google o Yahoo: My Space sfrutta infatti modalità comunicative trasversali e personalizzate, tipiche dei nuovi media. La “cultura della frontiera” di matrice americana pare dunque essersi trasferita all'interno della rete, con liberi esploratori, cowboy, cercatori d'oro, seguiti a ruota da speculatori, investitori, multinazionali. In entrambi i casi si tratta di realtà che devono convivere tra loro, quella della purezza originaria (fondata su valori di condivisione, comunicazione totale, libertà trasversale, spinta individuale) e quella delle istituzioni e dell'economia91. I casi di Sony e Microsoft sono ulteriori ed evidenti segnali della crescita e della concentrazione di soggetti mediatici sempre più potenti. Questi attori dominanti del settore tecnologico ricalcano infatti un modello di sviluppo cui si è già assistito nei mass-media tradizionali, dove di fatto sono emersi grandi colossi della comunicazione integrata, come Rupert Murdoch, Silvio Berlusconi o la Time Warner. Il caso di quest'ultima compagnia è particolarmente eclatante: il colosso di editoria Time-Life si fuse, infatti, negli anni Ottanta con la Warner Bros divenendo Time Warner, per poi acquisire l'emittente televisiva CNN ed essere successivamente acquisita da America On-Line, fornitore di accesso e service provider Internet.

3.1.2 Il caso Sony Una riflessione sulle possibilità offerte dal cinema interattivo, non può assolutamente trascurare il ruolo svolta da aziende come la Sony nell'affermare determinate modalità fruitive dei contenuti audiovisivi ed interattivi in particolare. L'azienda Sony, che si occupa della produzione e della vendita di elettronica di consumo (televisori, registratori, hi-fi, computer, fotocamere, etc.), fonda ormai quasi il 30% dei suoi proventi sulle attività di produzione mediatica, in particolare nell'ambito del cinema, della fiction, della musica e dei videogiochi. Sony ha acquisito prestigiose

91 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 78. 114 etichette musicali come la BMG e colossi cinematografici come la Tristar, la Columbia Pictures, la Metro Goldwyn Meyer, al punto che il suo patrimonio cinematografico comprende ormai il 40% della produzione hollywoodiana. Sony sta inoltre attivando una serie di strategie per convogliare tanta ricchezza da un lato verso modalità di fruizione cinematografica tradizionali (sale cinematografiche e vendite di DVD), dall'altro operando su terminali tecnologici e modalità distributive che sono invece peculiari dei nuovi media. Nel 2001 l'azienda ha lanciato il Vaio Digital Studio, un portatile dotato di lettore DVD e sintonizzatore TV, in grado di ricevere il segnale video da antenna o da cavo e di registrare i film o le trasmissioni televisive direttamente su disco. Nel 2003 è invece sopraggiunta l'alleanza di Sony con Ericsson per la messa a punti di uno smartphone in grado di ascoltare musica e navigare sul web. Nel 2004 l'azienda ha fatto il proprio ingresso anche nel mondo della distribuzione di musica on-line e nel 2005 ha immesso sul mercato la Play Station Portable, una console di gioco, che è anche terminale mediatico portatile universale, dotato di connessione a rete fissa e wireless, di audio stereo, di uno schermo ampio per guardare i film e di un lettore di UMD da 1,8 gigabyte. Interessante la manovra per cui ciascun esemplare di Play Station Portable è stato distribuito con un minidisco del film Spiderman in allegato, in un evidente intento di marketing incrociato. Queste le considerazioni di Lughi a proposito della PSP:

“La giunzione simbolica forte operata dalla PSP è soprattutto quella fra cinema e videogioco, settori nei quali la casa giapponese detiene un patrimonio immenso, un patrimonio che ormai sistematicamente viene riutilizzato e mixato in funzione della costruzione di nuovi prodotti. Il possesso di questo patrimonio consente infine alla Sony di adottare una politica proprietaria nel campo dell'hardware e del software, opponendosi in tal modo a quello che sembra essere l'altra possibile competitore globale, e cioè la Microsoft. Sony infatti ha sviluppato un processore non Intel per la evoluzione della console fissa, la Play Station 3. Inoltre, sempre per le sue Playstation, adotta il sistema operativo Linux ed è attiva nella ricerca di nuovi supporti di memorizzazione.92”

Sony è dunque l’azienda che maggiormente sta cercando di convogliare un bacino di utenti che abbiano interesse per il gioco e per l’audiovisivo, come dimostra la sua Playstation 3 che riunisce sulla stessa piattaforma connessione a banda larga e funzione DVD e ha le sembianze di un vero e proprio centro di intrattenimento domestico.

92 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 95. 115 Esempi simili di integrazione tra aziende, in questo caso a livello di software, ci sono forniti dall'acquisizione di Macromedia da parte di Adobe, cosicché software per l'elaborazione di grafica fissa ed in movimento come Photoshop e Premiere sono stati collegati direttamente a prodotti dominanti nel settore del web come Director, Shockwave e Flash, programmi iper-mediali ad alta interattività. Simili processi di integrazione hanno interessato anche l'ambito dei contenuti, oltre che delle tecnologie. Big Brother nel campo della fiction televisiva e The Blair Witch Project in quello cinematografico sono solo due degli innumerevoli esempi di prodotti che hanno tagliato verticalmente la tradizionale divisione dei media, giocando simultaneamente su cinema, TV, stampa, siti web. Un precedente ulteriore è costituito dalla Disney, colosso mediatico dell'entertainment che da sempre ha prodotto film, fumetti, cartoni animati, trasmissioni televisive, oggettistica e gadget, fino a quei “luoghi fisici mediati” ed interattivi che sono i parchi di divertimento a tema93.

3.2 CONTENUTI CONVERGENTI La notevole diffusione del satellite gioca senza dubbio un ruolo di primo piano nel favorire la convergenza nella distribuzione di contenuti audiovisivi su scala internazionale, tanto che questo stesso sistema ha fatto ingresso già da diversi anni in festival cinematografici di rilievo come quello di Cannes, per la proiezione di contenuti in digitale. Il satellite permette infatti la trasmissione su vasti territori senza una rete di ripetitori, facendo venire meno il presupposto della vicinanza geografica e, unitamente ad altre tecnologie quali gli infrarossi e la fibra ottica, apre numerose prospettive per l'espansione dei contenuti filmici. Alla diffusione di contenuti su scala globale si affianca inevitabilmente una decisa affermazione della lingua inglese, in un binomio che incentiva fortemente gli investimenti delle multinazionali ai fini di una sempre più profonda internazionalizzazione della produzione audiovisiva. Tale fenomeno, alla base della convergenza mediatica, è in corso nell’Europa occidentale già a partire dagli anni Ottanta per ragioni politiche, economiche, tecnologiche, sociali e culturali. L’internalizzazione si è resa necessaria per molteplici ragioni, tra cui le esigue dimensioni dei pubblici nazionali, la presenza di numerosi soggetti privati, l'espansione del mercato pubblicitario, il processo socio-politico di integrazione europea e la promozione diffusa di una coscienza comune europea. A garantire un'uniformità ancora

93 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 112. 116 maggiore è stata poi la diffusione a livello globale di prodotti cinematografici ed audiovisivi dell’industria statunitense, che hanno incentivato la globalizzazione linguistica e culturale, così come lo studio delle lingue straniere e l'incremento del turismo verso l'estero. La possibilità di produrre contenuti per un pubblico vastissimo in grado di fruirli, si è così tradotta ben presto in un trasferimento di risorse e di competenze verso ambiti diversi da quello originario. Demattè e Perretti definiscono questo fenomeno in termini di “diversificazione concentrica94”, un meccanismo che si verifica verso settori contigui in termini di prodotto e tecnologie, ai fini di un profitto dato dalla condivisione di informazioni (testi, immagini, suoni, etc.), come nel caso delle catene di contenuti che comprendono film, videogioco, DVD, trailer, etc. Esaminando tali meccanismi di convergenza di contenuti, i due studiosi approfondiscono inoltre il concetto di gruppo multimediale, come risultato dei processi di integrazione verticale e di estensione del prodotto, che servono a collegare produzione e distribuzione e a collegare vari contenuti nel campo dell’intrattenimento e della cultura95. L'espansione del prodotto si realizzerebbe nello specifico tramite operazioni di fusione e di acquisizione tra imprese appartenenti al settore dei media, ma a segmenti diversi: si tratta in sostanza di trasformare o declinare uno specifico contenuto in forme di comunicazione e prodotti diversi, rivolti però allo stesso mercato. Tale processo è così illustrato:

“I passaggi e le trasformazioni possono essere numerosi e il concetto iniziale può avere diversi punti di origine. Un libro, per esempio, può diventare la sceneggiatura di un film, al quale accompagnare in seguito il disco della colonna sonora, oppure ancora il videogioco e il merchandising basato sui personaggi e su cui basare la trama di una serie televisiva o di un cartone animato, o l’attrazione di un parco di divertimenti. Uno stesso concetto può quindi essere trasformato in prodotti diversi, instaurando una sorta di circolo virtuoso di condizionamento e rafforzamento reciproco tra i diversi mercati.96”

Questa logica va ricondotta all’elevato grado di incertezza e di instabilità che contraddistingue la domanda dei prodotti culturali e d'intrattenimento. Gli investimenti

94 De Mattè, Claudio e Perretti, Fabrizio. L’impresa televisiva. Principi economici e variabili strategiche. Etas: Milano, 2002, p.170.

95 Ivi, pp. 174-175.

96 Ivi, pp. 176. 117 sostenuti in uno specifico segmento possono, in caso di successo del prodotto/concetto originario, essere infatti trasferiti sugli altri segmenti e sui prodotti ad essi afferenti, aumentando il grado di previsione della domanda e riducendo così il rischio complessivo. L’esempio più significativo di tali strategie è rappresentato dal gruppo Disney, nel quale, a partire da un film di animazione, vengono sfruttate tutte le opportunità economiche di trasferibilità del concept su più prodotti e segmenti. Ai fini di illustrare meglio i processi di ibridazione, convergenza e contaminazione che coinvolgono i contenuti filmici, prenderemo inoltre in considerazione 4 casi differenti che possono tuttavia essere raggruppati all'interno dello stesso processo. Analizzeremo in primo luogo il fenomeno culturale generato dalla trilogia The Matrix, che ha prodotto narrative secondarie ed interattive volte ad alimentare la propria mitologia. In seconda istanza prenderemo in considerazione i processi di ibridazione tra generi audiovisivi ed, in particolare, le influenze del video musicale sulla produzione filmica contemporanea. Ci rivolgeremo poi ad un artista sperimentale come Peter Greenaway, che porta avanti progetti di cinema interattivo che si mantengono distaccati rispetto alla produzione mainstream, per poi dedicare l’ultimo esempio alle forme pubblicitarie interattive sviluppate on-line dall’agenzia inglese Hi-Res!.

3.2.1 Matrix e il fenomeno di screen bleed Tra il 1999 ed il 2003 si è verificato in campo cinematografico uno dei più rilevanti fenomeni di convergenza multimediale progettati della storia del cinema: The Matrix non è infatti semplicemente una trilogia di pellicole, bensì un intero universo testuale e culturale cui lo spettatore può prender parte in maniera attiva e personalizzata. Come sostiene Matt Hanson nel libro The end of celluloid, la trilogia, la serie di animazione Animatrix ed il videogioco Enter The Matrix sono ambienti ben definiti, “costruiti sulla base di regole prestabilite, che non soggiacciono al caotico stato di entropia del mondo, ma anzi creano delle mitologie alternative97 . La serie non cela infatti precisi riferimenti all'idea di resurrezione o al mito della creazione, concetti così coinvolgenti da dar vita a quel fenomeno che lo stesso Hanson definisce screen bleed98. L'espressione screen bleed sembra essere innanzitutto una metafora riferita al valore che il sangue assume in ambito cristiano, sia come sangue di Cristo versato per la salvezza

97 Hanson, Matt. The end of celluloid. Film futures in the digital age. Rotovision SA: Mies, Svizzera e Hove, Gran Bretagna, 2003, p. 8.

98 Ivi, p. 46.

118 dell'umanità, sia come episodio miracoloso di sanguinamento di una reliquia. Con questo termine Hanson si riferisce al dilagare di un mondo finzionale da una piattaforma ad altre contigue ed al migrare dell'immagine in movimento verso una varietà di formati. Originariamente screen bleed era semplicemente un termine tecnico per indicare il fenomeno di sconfinamento del colore broadcast safe su aree ulteriori dello schermo, solo in seguito utilizzato in riferimento a quell'espansione della messa in scena che si è verificata per opere quali The Matrix, Lord of the Rings o Star Wars, in cui una narrazione principale ha prodotto una miriade di “narrative in capsula99”

3.2.2 Il video musicale: accelerated cinema In termini di convergenza, notevole è l'apporto che il video musicale ha fornito allo sviluppo di nuove forme narrative cinematografiche. La temporalità del cinema sembra infatti essere sempre più scandita dalla velocità e dal movimento, con scontri a fuoco, sesso, violenza, azione, al punto che le nostre vite paiono programmate al fast-forward e ritratte da un “cinema accelerato”, senza pace, sensazionale e diretto.100 Il film di Roger Avary The rules of attraction (2002), adattamento del romanzo di Bret Easton Ellis, fornisce un chiaro esempio di prestito dalla sfera del video musicale sia a livello formale che effettistico. In particolare il “party per farsi scopare” (dresses-to-get- screwed-party) viene raccontato da più punti di vista con inversioni della timeline, continui flashback e flashforward, mentre l'incontro tra i due protagonisti è narrato tramite split-screen ed il viaggio di Victor in Europa prende corpo in 4 intensi minuti di montaggio accelerato che risultano da ben due settimane di riprese effettive. Il successo di figure artistiche ibride come Chris Cunningham, Bill Viola o Michel Gondry non fa che confermare il crescente dialogo del film con le epiche in miniatura e le intense texture visive ed emotive che caratterizzano il video musicale. Senza le innovazioni di ripresa, montaggio e post-produzione introdotte dalla ricerca in ambito musicale, film come Fight Club, Natural Born Killers o The Gladiator non avrebbero infatti raggiunto tali risultati di resa visiva. Parallelamente e spesso internamente al video musicale, assistiamo inoltre ad una progressiva affermazione del cinema di animazione, che pare essere a poco a poco migrato dalla purezza Disney alle fantasie iper-realistiche degli anime giapponesi. Si è giunti dunque al punto in cui l'animazione costituisce ormai parte integrante del

99 Hanson, The end of celluloid. Film futures in the digital age, p.47.

100 Ivi, p.83. 119 racconto mainstream e sta colonizzando generi sempre nuovi, come è dimostrato dal sorgere di festival ed eventi dedicati, quali il Future Film Festival che da ormai 10 anni ha luogo nella città di Bologna.

3.2.3 Peter Greenaway Il film-maker britannico Peter Greenaway è una delle figure che hanno azzardato maggiori sperimentazioni nel campo dell’interattività. The Tulse Luper Suitcases, risalente al 2003, è un progetto multimediale di enormi dimensioni che ha prodotto una miriade di artefatti, tra cui 3 film, una serie televisiva, 92 DVD e un archivio on-line, volti a raccontare l’enciclopedica storia di Tulse Luper, un alter ego di Greenaway la cui storia personale è ricostruibile grazie agli indizi celati in 92 valige virtuali. Greenaway è da sempre un avido sperimentatore, che fa uso di immagini sovrapposte, grafica e testo, modificando e ridipingendo le immagini, come nel film Prospero’s Book (1991). Egli investiga e profetizza la frammentazione del cinema e la dissoluzione del lungometraggio in elementi digitali sui quali sperimentare grazie all’esperienza personale. L'artista crede inoltre fermamente nel potenziale narrativo del film, che va svelato a poco a poco, grazie all'impegno e all'interattività da parte dello spettatore, intento a scoprire i rivolgimenti narrativi e le storie nascoste.

3.2.4 L’interattività sensuale di Hi-Res! La promozione di nuove pellicole tramite Internet è un fenomeno relativamente recente, ma alquanto diffuso. Il WWW permette infatti di ampliare la visibilità del titolo, fornire materiali inediti e gadget digitali, oltre a creare un vasto universo di informazioni e curiosità che gravita intorno al film. Tali peculiarità sono spesso state sfruttate per generare modalità sperimentali di branding per alcuni film, con un superamento della tradizionale concezione della pagina web come semplice veicolo di contenuti attinenti ad un testo filmico altro. Hi-Res è un’agenzia creativa che ha rivoluzionato le modalità tradizionali di promozione e presentazione di contenuti cinematografici sul web. Essa venne fondata nel 1999 da Florian Schmitt e Alexandra Jugovic e assunse nel tempo un ruolo di primo piano tra le new media agency internazionali, “affinando nel tempo un’estetica inconfondibile, fatta di elementi grafici minimali mescolata ad una spiccata attenzione

120 nei confronti della grafica illustrativa e del fumetto, che li ha portati a vincere una nutrita serie di premi internazionali e ad allargare copiosamente la loro lista clienti101”. Nel 2000 essa ha promosso il film Requiem for a Dream, secondo modalità che sfruttavano l’interattività per coinvolgere l’utente in un’esperienza del tutto autonoma rispetto al film. Dopo tale esperimento l’agenzia si dedicò alla promozione web di star della musica (Massive Attack, Amon Tobin, persino i Beatles), dell’industria videoludica nel caso della Sony Playstation2 e della Play Station Portable, e, inoltre, di emittenti e programmi televisivi per diversi network. Opere interattive furono realizzate per il lancio di The Center of the World (di Wayne Wang, 2001), Jump Tomorrow (Joel Hopkins, 2001), Donnie Darko (Richard Kelly, 2001), The Business of Strangers (Patrick Stettner, 2001), The Dreamers (Bernardo Bertolucci, 2003), The Punisher (Jonathan Hensleigh, 2004) e Saw (James Wan, 2004). Cristiano Poian scrive a proposito del sito realizzato per The Dreamers:

“Quello che il navigatore trovava, ad esempio, all’indirizzo www.the- dreamers.com (ora non più attivo) non assomiglia nemmeno lontanamente ad un normale portale verticale prodigo di trailer e di gadget virtuali vagamente collegati alla storia raccontata da Bertolucci: in un periodo in cui usabilità ed accessibilità sono i due termini più in voga che entrano in gioco nella progettazione di un’interfaccia di navigazione, i creativi di Hi-Res! svoltano bruscamente e annullano completamente l’interfaccia stessa. Non si tratta di riduzione, semplificazione o codificazione estrema, ma di totale annullamento, alla ricerca di una nuova forma-cinema aperta alla contaminazione dell’interattività tipica della rete. Il testo di Hi-Res! parla del film di Bertolucci. Ma saperlo ascoltare implica apprendere nuove modalità di approccio nei confronti del testo filmico. Implica il saper toccare, e saper dove toccare. Mouse o trackball si rendono soltanto protesi delle nostre dita: non c’è un cliccare, ci sono piuttosto un tastare, e spesso uno spostare, finanche uno squarciare lo spazio virtuale del monitor”102.

Il cinema interattivo di Hi-Res è privo di riprese filmate: esso è costruito grazie a elementi di grafica vettoriale in movimento, uniti ad immagini statiche ed elementi tipografici. Ne risultano testi fruibili anche da chi ancora non conosce il film di riferimento, che richiedono la capacità di comprensione dell’utente al fine di ricostruire una narrazione, secondo logiche molto vicine a quelle del videogioco. Le strategie

101 Poian, Cristiano, “Hi-Res!. L’interattività sexy del cinema in rete”. In www.poian.org, consultato in data 1/2/2008, p.1.

102 Ivi, p. 4. 121 messe in atto dagli utenti nel far progredire l’opera multimediale coinvolgono la vista e l’udito dello spettatore, ma anche il tatto. Progetti simili si pongono così alla base di nuove forme di cinema, aperte alla contaminazione dell’interattività caratteristica della rete. Le scelte dell’utente fanno leva sul tatto e non sono sempre univoche, ma tracciano anzi un percorso individuale in mezzo ad una varietà di opzioni. La frammentazione, lacunosità e multilinearità di questi prodotti sta alla base del loro fascino e del loro successo. Essi attraggono chi ha già visto il film e lo stimolano ad accettare la sfida di ricostruire la narrazione, tanto che, in alcuni casi, i testi di Hi-Res! si rivelano anche più intriganti dei film da cui traggono origine.

3.3 INTERATTIVO E DIGITALE Digitale ed interattivo sono due aggettivi spesso associati nella definizione degli odierni prodotti multimediali, a sottolineare un legame imprescindibile tra queste due caratteristiche, come se l'essere digitale fosse una conditio sine qua non dell'interattività e viceversa. Le permanenza di questo credo nel senso comune ci induce quindi a dedicare alcune pagine di questo lavoro all'importanza delle tecnologie digitali nell'ideazione e nella realizzazione di un cinema sempre più interattivo, manipolabile e modellabile secondo i desideri dello spettatore. I rivolgimenti tecnologici apportati dalla rivoluzione digitale hanno infatti investito la sfera della produzione (telecamere, apparecchiature di ripresa, effetti speciali), quella della distribuzione (trasmettitori, ripetitori, satelliti, fibra ottica, proiettori, home video) e quella della ricezione (sale, schermi, monitor, Personal Video Players, cellulari). Numerosi sono dunque i soggetti coinvolti in tale processo di riformulazione del cinema e della produzione audiovisiva in generale. Citiamo tra questi le imprese di elettronica, che producono apparecchiature di trasmissione, ripresa o ricezione e che sostengono i più consistenti investimenti di ricerca e di produzione; a seguire troviamo le imprese cinematografiche, gli artisti e i team indipendenti che realizzano i contenuti, e poi gli spettatori, che sostengono i costi materiali ed immateriali legati all’adozione di nuovi standard, fino ad arrivare allo Stato e agli organismi di regolamentazione, che devono approvare tali standard e tener conto degli interessi di tutti i soggetti coinvolti. In particolare, Giappone e Usa sono i soggetti forti che si contendono a livello internazionale l’industria elettronica e complessificano notevolmente i processi di adozione degli standard stessi.

122 Oltre alle forme distributive, anche i contenuti hanno subito fortemente le conseguenze della conversione al digitale. E' infatti quasi ultimata una totale trasposizione delle informazioni di qualsiasi natura (immagini, suoni, testi) in un unico formato rappresentato da flussi numerici, compatibile con il linguaggio del computer e in grado di beneficiare delle sue potenzialità di elaborazione. Anche le reti di trasmissione analogiche sono similmente convertite in reti digitali ad elevata capacità e ad alta velocità, in grado di trasportare i flussi di informazione indipendentemente dalla loro forma originaria, secondo il concetto di information superhighways. Il digitale offre così la possibilità di servizi molto più interattivi, in quanto i dati risultano modificabili in tempo reale e attingibili velocemente da grandi database, come nel caso del video on demand. Grazie al passaggio al digitale e allo sviluppo esponenziale di internet e del WWW, mezzi di comunicazione diversi sono così giunti a possedere un'infrastruttura comune su cui far transitare grandi quantità di informazioni, rendendo possibile l’offerta contemporanea di servizi tradizionalmente separati. Da qui la lotta acerrima per l'affermazione di hardware nel campo delle telecomunicazioni, del videogioco e dell'informatica, e di software, per quanto riguarda i videogiochi, i format televisivi, il cinema, i PC e l'editoria103.

3.3.1 Una casa interattiva Oltre ad abbattere i costi relativi alla pellicola, alla duplicazione e alla distribuzione, il digitale permette una fruizione dei contenuti sempre più personale e domestica, come risulta dalla diffusione dei PC, dei decoder, delle top box e dei lettori DVD. Le tecnologie digitali hanno così avuto accesso con facilità ai luoghi della socialità, tra cui i centri culturali e gli ambienti familiari, grazie soprattutto alla distribuzione on-line, che, oltre a fenomeni di illegalità diffusa, ha anche permesso acquisti legali e ad alta qualità, come nel caso di I-Tunes che vende già il 70% di musica on-line nel mondo. Il ruolo domestico e personalizzato delle tecnologie digitali è ulteriormente confermato dalla popolarità delle serie televisive, caratterizzate da puntate più brevi e dalla risoluzione inferiore, nonché dal successo dei DVD, del cinema on demand mediante protocollo IP o del cinema su cellulare, benchè esso penalizzi estremamente le qualità audiovisive. Enorme è la potenzialità della distribuzione casalinga del film, sia in termini di fruizione collettiva contemporanea del film in un luogo socializzante, sia

103 De Mattè, Perretti, L’impresa televisiva. Principi economici e variabili strategiche, pp.181-184. 123 come fruizione individuale nello spazio privato, secondo un progressivo spostamento dal salotto alla camera da letto, che illustra chiaramente il concetto di home-theatre.

3.3.2 I generi del digitale L'ingresso sempre più prepotente del digitale ha in breve condotto al trionfo di mezzi di ripresa elettronici, con nel caso di film quali Scarlet Diva, The Blair Witch Project, Festen e il movimento Dogma 95. Nel suo recente testo The end of Celluloid, Matt Hanson teorizza un crollo, ormai in atto, delle tradizionali e sicure formule commerciali, troppo riconoscibili e noiose, compensato dal persistente desiderio degli spettatori di perdersi in una storia, di essere sorpresi e intrattenuti. I giganti mediatici rispondono a tale crisi con una nuova generazione di pellicole spettacolari e blockbuster, ma sembra necessario che anch’essi si adattino a nuovi mondi narrativi che siano non-lineari ed estensibili104.

“Tutto, dalle sottili irrealtà alla pura fantasia, dal documentario interiore fino a devastanti nuove forme di racconto può essere ritratto sullo schermo. Per la prima volta nella storia, se qualcosa può essere immaginato, allora può divenire film. La digitalizzazione del cinema significa che il processore può fondere e alterare gli elementi in gioco, rendendo indistinguibili i confini che dividevano le correnti istituzionalizzate e le loro tradizioni corrispettive”105.

Il genere horror sembra così aver beneficiato incredibilmente del video digitale alla portata del consumatore. Si è infatti verificato un cambiamento nell’attrezzatura necessaria e nella maniera di filmare un’azione, di cui il genere horror ha approfittato, ispirandosi innanzitutto a quella lunga serie di reality show televisivi girati velocemente e a basso costo, convincenti proprio grazie all’assenza di un direttore artistico o di una evidente mediazione. L'horror è così divenuto “più reale del reale”, al punto che “si può quasi respirare la paura106”. Ne costituisce un esempio My little Eye di Marc Evans (2002), un film quasi interamente web-cam based. L'ambientazione è una casa infestata, costellata di videocamere a basso costo, cosicché la storia collega direttamente il pericolo all’esperienza quotidiana, assimilandolo all’home video casalingo. Lo sguardo

104 Hanson, The end of celluloid. Film futures in the digital age, p. 9.

105 Ibidem.

106 Ivi, p. 13. 124 della web-cam è inumano e sinistro, con pochissimi movimenti di camera e riprende chiaramente il senso di sorveglianza espresso dalle opere di di Bill Viola, così come da The Blair Witch Project. Il DVD del film fornisce in aggiunta tracce audio alternative e la possibilità di osservare la scena da più punti di vista o di ascoltare la voce delle guardie che sorvegliano la casa. Anche il porno, per il suo forte legame con il corpo e le sensazioni fisiche, si presta all'utilizzo della ripresa e della fruizione in digitale nella scelta della prospettiva di osservazione. Non è infine da trascurare un vero e proprio rinascimento della produzione documentaria, prodottosi con l’affermarsi del Digital Video, una tecnologia che ha offerto la possibilità concreta di documentare “subculture e esperienze fugaci, intime o coinvolgenti, illuminando la poesia dell’esistenza e la verità di ogni giorno107”. Il digitale ha permesso infine un’ampia proliferazione della serialità televisiva grazie ad un'effettistica a basso costo, che ha favorito lo sviluppo dei generi thriller e fantascientifico in particolare, svincolatisi dalla loro categorizzazione di b-movies.

3.3.3 Attori virtuali Uno degli ostacoli al prevalere totale di una cinematografia priva di un referente reale è dato dalla difficoltà di rappresentare la figura umana in maniera realistica, rendendone postura, gestualità, pause, intercalari ed espressioni facciali. Dai vari tentativi di simulazione di un attore reale in digitale (es. Final Fantasy) emerge infatti che l’interpretazione singolare del proprio personaggio fornita da un attore non è affatto ottenibile ex novo. La bravura recitativa non è riproducibile in simulazione, tanto che vi è una necessità continua di integrazione del modello virtuale con dati reali, grazie al motion capture e ad altre tecniche estremamente precise e sofisticate. Le aspettative riguardo all’essere umano risultano così infrante a causa dell'immediato riconoscimento del falso da parte dei nostri sensi. Benché sia enorme il fascino esercitato da personaggi virtuali quali Ling (Legend of Zelda, 1986), Mario (1996), Vibri (Vib Ribbon, 2000), fino a Solid Snake, Lara Croft o Aki Ross di Final Fantasy, non sembra dunque realizzabile un cast di soli attori virtuali, a dispetto della loro convenienza - non gli occorre un catering speciale, né chiedono aumenti – e della loro corrispondenza all'identikit beauty tanto venerata al giorno d'oggi - mascelle squadrate, fossette cesellate, sopracciglia arcuate e così via.- . La non-referenzialità caratteristica del

107 Hanson, The end of celluloid. Film futures in the digital age, p. 27. 125 cinema contemporaneo, così come del pre-cinema, che va in direzione dell’animazione, trova dunque un limite estremo proprio nell'essere umano che ne è artefice. L'attore digitale, definito avatar nel dominio di internet e del multimedia, serve invece a realizzare acrobazie impossibili da ottenere da uno stunt-man o a mettere in scena trasformazioni e metamorfosi. In The Matrix. Reloaded per alcune scene si è dovuto, ad esempio, trasformare i personaggi in veri e propri avatar digitali, per ottenere effetti ancora più estremi del “bullet time” del primo episodio, come la scena Burly Brawl, in cui Neo lotta contro un’intera armata di Agenti Smith. L'avatar di Niobe, interpretato da Jada Pinkett-Smith, è stato inoltre importato nel gioco al computer Enter the matrix, con un’integrazione tra animazione in digitale e pellicola, che unisce i due mondi con un accresciuto effetto di uniformità e fluidità. Se ha trovato un limite nella rappresentazione realistica degli umani, il digitale si è in compenso rivelato assolutamente ideale ai fini di un revival dello spettacolare, dell'epico e del fantasy. Lo dimostrano film come Terminator 3 (2003), The Lord of the Rings (2001-2003), Hulk (2003) o Spiderman (2002) e ancor più il sorgere di nuove sale cinematografiche in cui gli effetti visivi e sonori risultano potenziati, con la conseguente generazione di un flusso di intrattenimento narrativo ad alta intensità, secondo una palese logica del kitsch.

3.3.4 La simulazione La precedente riflessione sugli attori virtuali dimostra come vada tenuto in grande considerazione l'apporto della simulazione nella riproduzione elettronica di situazioni, ambienti, azioni dell'uomo, sia a mezzo computer sia per mezzo di dispositivi di realtà virtuale. All'avanguardia in questo campo sono soprattutto le ricerche di animazione a computer e di VR nel settore militare, che hanno portato alla costruzione di simulatori di volo sempre più sofisticati. La simulazione ha inoltre trovato ampio utilizzo anche nel settore medico/chirurgico, ad esempio nelle sperimentazioni, nel training e nella chirurgia plastica, per lo studio delle possibili soluzioni offerte al paziente. Caratteristica precipua degli oggetti simulati è la mescolanza tra spazio fisico e virtuale – come accade in pittura con l'affresco o il mosaico –, che non si verifica nella semplice rappresentazione – tipica dei quadri rinascimentali post-albertiani – . Se un contesto rappresentativo va infatti osservato da un punto di vista fisso, la simulazione prevede invece un'intrinseca possibilità di spostamento e necessita della mobilità dell'osservatore, che esplora la continuità tra spazio reale e virtuale. Ne deriva uno

126 “spazio navigabile” come forma culturale, una concezione che trova perfetta realizzazione nel computer108 .

3. 4 L’INTERATTIVITA’ A CASA PROPRIA Nell’illustrare l’attuale estensione della narrativa cinematografica verso media a maggior potenziale interattivo, è interessante esaminare a questo punto due casi differenti di azione dello spettatore sul prodotto audiovisivo, rappresentati da un lato dal DVD e dall’altro dalla condivisione di contenuti filmici on-line. In entrambi gli ambiti abbiamo a che fare con una fruizione del testo filmico che avviene entro le mura domestiche e che si avvale di uno spazio personale, se non sempre individuale, per variare le modalità di utilizzo del film. Il piacere della visione non risiede dunque in questo caso nell’enorme schermo che proietta immagini gigantesche su di una sala buia, ma nella possibilità di rivedere una scena, stoppare, esplorare contenuti extra, fino al punto di modificare i film a proprio piacimento e diffondere le proprie immagini audiovisive tra i meandri della rete.

3.4.1 Il DVD: “Schiaccia PLAY per accedere al futuro” L’arrivo dei DVD ha fatalmente cambiato la natura dei film, aprendo la possibilità di nuovi modi di fare cinema e di esserne spettatori. Si tratta infatti di una tecnologia che ben si adatta al vivere contemporaneo: è portatile, leggera personalizzabile, manipolabile e somiglia vagamente all’Esper di Blade Runner, lo strumento che il protagonista usa per la navigazione tridimensionale di un’immagine fotografica109 . “Schiaccia play per accedere al futuro” (“Press play to access the future”) fu infatti lo slogan che accompagnò l’uscita dei primi lettori DVD nelle pubblicità americane. Nel momento della sua ideazione, il DVD venne sostanzialmente concepito come una nuova strategia dei produttori cinematografici al fine di trarre profitti dagli stessi film passati nelle sale e poi venduti o noleggiati tramite il saturo mercato delle videocassette. Fu così che, nella seconda metà degli anni Novanta, la Toshiba Electronics e la Warner Bros, sotto la supervisione del presidente dell’home video, Warren Lieberfarb, si proposero di sviluppare un articolo in formato digitale che avrebbe riprodotto a casa la stessa buona definizione delle sale cinematografiche: un prodotto tecnologico ben fatto,

108 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p.33.

109 Colombo, “Il film come oggetto fantascientifico” In Spanu, Massimiliano. ScienceplusFiction. La fantascienza tra antiche visioni e nuove tecnologie. Lindau: Torino, 2000. p. 35. 127 abbastanza abbordabile dai consumatori (sia nell’acquisto che nel noleggio), quanto remunerativo per i produttori. La spinta definitiva per il progetto fu data dall’avvento della televisione digitale e di internet. In particolare il video on demand rischiava di mettere in pericolo i consistenti guadagni del mercato del videonoleggio, nello stesso modo in cui il download gratis della musica da internet minacciava gli affari delle case discografiche, facendo presagire ulteriori minacce anche al settore cinematografico. Lieberfarb andò dunque all’attacco, accelerando l’ingresso sul mercato dei DVD e convincendo i produttori cinematografici che il nuovo formato, che poteva contare sui vantaggi della tecnologia laser, era più compatto e sofisticato delle videocassette e avrebbe di certo scoraggiato la pirateria. Da una tale scelta di emergenza commerciale derivò poi quel complesso ambiente navigabile rappresentato dall’attuale DVD, in cui ci si sposta letteralmente tra scene inedite, materiali extra, navigazione all’interno del film, speciali appendici con i commenti dei registi, trailer, diari di lavorazione, interviste agli attori, talvolta anche con la possibilità di mettere in paragone sceneggiature e film finiti. Il DVD di Moulin Rouge, film di Baz Luhrmann, propone ad esempio una più completa versione dei numeri musicali del film, ma anche sequenze delle straordinarie coreografie, riprese da differenti angolazioni e scartate nella prima edizione dell’opera. Ed è così che la fruttuosa creazione di un discorso multiforme e interminabile intorno al film ha presto fatto del DVD un vero e proprio paradiso per i cinefili. L’interattività offerta da questo supporto non si limita tuttavia alla possibilità di navigare all’interno di una vastità di contenuti che allargano infinitamente la nostra visione e comprensione dell’opera filmica. Il DVD concede infatti l’opportunità di scaricare il film sul proprio PC e rimontarlo secondo criteri personali, grazie a software specifici ritrovabili anche in rete, spostando e rispostando scene e personaggi. Da questa nuova tendenza di riscrittura “dal basso” del tessuto filmico e di intervento personale e amatoriale dello spettatore su un’opera, è nata la definizione di desktop film-maker. La diffusione di questo formato ha così contribuito a quella nuova forma di cinema assolutamente contemporanea e post-moderna, che nasce dal remake, nella quale si smarrisce il concetto di film come “prodotto finito”. Il DVD, con la sua complessa organizzazione dei contenuti, fatta di director’s cut, materiali extra, scene tagliate e finali alternativi, è infatti testimone di un’autorialità procedurale che non spodesta il regista dal proprio ruolo di autore, ma senza dubbio lo complessifica. I registi ora pensano infatti al DVD già dalla prime fasi di lavorazione per risparmiare le spese della ricerca di extra e rendere organiche le fasi di pre e post-produzione dell’opera. Finali

128 alternativi e scene censurate divengono così parte integrante della progettazione di un film, fin dal suo inizio.

3.4.1.1 Time Code di Mike Figgis Mike Figgis è stato uno dei primi registi ad abbracciare completamente il digitale e a sperimentare le possibilità offerte dal formato DVD. Tra le sue opere più note prenderemo in considerazione Time Code, una storia di 93 minuti in tempo reale, divisa su diversi quadranti che appaiono in contemporanea e apparentemente priva di montaggio. La vicenda esplora il mondo di intrighi dell’industria cinematografica ed è ambientata in un ufficio di produzione di Los Angeles. Una sorta di “matrice visiva” crea un effetto di “montaggio spaziale” secondo il concetto espresso da Lev Manovich nel suo celebre testo110 e richiede una modalità fruitiva che si avvicina nettamente al DVD, ad internet e al game playing, in cui varie finestre risultano aperte in contemporanea. La post-produzione avviene dunque grazie al montaggio e non al taglio, cosicché più realtà presentate simultaneamente favoriscono un’interpretazione variabile da parte dello spettatore. E’ quest’ultimo, con i suoi spostamenti di attenzione, a determinare infatti il montaggio finale. Nel DVD del film l’interazione permessa è ancora maggiore, grazie alla possibilità di scegliere quale audio ascoltare di ciascuna finestra.

3.4.2 Dal video-diario a YouTube Parallelamente alla diffusione dei DVD, sono sorti all’interno della rete, grazie ad un aumento della capacità di banda e della potenza dei processori, numerosissimi fenomeni di condivisione e rielaborazione di audiovisivi. Lo studioso e giornalista Chris Anderson descrive il fenomeno tanto recente quanto strabiliante di Youtube in termini di long tale, sottolineando la nascita di una lunga conversazione collettiva, un commento sul commento, spesso in grado di condurre alcune notizie dal passaparola on-line alla programmazione in prime-time delle più seguite emittenti televisive, come è avvenuto nel caso del documentario sui sacerdoti molestatori di minori. Prima ancora della nascita di Youtube, abbiamo tuttavia assistito al sorgere di una miriade di altri fenomeni audiovisivi on-line non meno interessanti, generalmente relativi alla video-diaristica, al videoblogging e all’autorappresentazione

110 Manovich, Lev. The Language of New Media. The MIT Press: Cambridge, Massachussets e Londra, 2001.

129 tramite web-cam. Famoso fu il caso di lonely girl 15, una quindicenne che si raccontava quotidianamente dalla propria stanza ad un pubblico globale che arrivò fino a 51 milioni di visite. Casi simili furono quello di Lisa Nova, che raccolse un’audience di ben 15 milioni di persone e di Geriatric 1927, un’anziana signora che propagava la propria voce sulla rete, direttamente dal ricovero per anziani in cui risiedeva. Agli esempi di individui singoli si affiancano anche una serie di fenomeni collettivi che sono giunti a produrre enormi quantitativi di materiale video user-generated, come il gioco Second Life o il più nostrano Il mio paese 2.0, un sito in cui Daniele Vicari ha raccolto i racconti filmati degli italiani sulla propria terra, per poi riunirli in un documentario da lui progettato, in una forma intermedia di cinema ad alto potenziale interattivo, in bilico tra programmazione dell’alto e ripresa individuale.

3.4.2.1 Le licenze Creative Commons In un universo come quello di Internet governato dal file-sharing e dai programmi peer- to-peer, migliaia sono gli utenti che si dilettano non solo scaricando film illegalmente, ma sempre più spesso ricostruendo nuove versioni dei successi cinematografici – altra operazione al limite della legalità –. A questo riguardo è interessante la messa a punto di una nuova tipologia di licenze per il copyright, definita in termini di Creative Commons, che riconosce all’autore i propri diritti, ma permette ad altri di conoscere i processi produttivi del prodotto e di espanderlo o modificarlo a proprio piacimento. Si tratta indubbiamente di una forma di diritto proprietario non applicabile a tutti i contenuti, ma che assume una valenza fondamentale nell’ambito del software libero, dei videogiochi e dei prodotti audiovisivi di natura almeno parzialmente digitale. Licenze di questo tipo riconoscono l’autorialità di un testo, senza tuttavia limitare quelli che possono senza dubbio rivelarsi come prolifici processi di miglioramento, rivisitazione e creatività applicati al prodotto. Già dagli anni Ottanta è infatti nota la possibilità da parte dei singoli utenti di bypassare i codici di protezione, tanto che in Giappone si parlava dell’impossibilità di severe leggi contro la pirateria, ostacolate dagli stessi produttori di apparati elettronici. A tale riguardo, le licenze Creative Commons rappresentano una valida alternativa, in grado di far emergere numerosi processi dall’illegalità e metterli a frutto nella contemporanea produzione interattiva e collaborativa di contenuti audiovisivi e mediatici.

130 3.5 DAL VIDEOGIOCO AL CINEMA INTERATTIVO Nel 2001 il mercato dei videogiochi ha superato negli USA quello del cinema, della musica e dei libri, vedendo attori quali Sony, Nintendo e Microsoft contendersi la supremazia nel campo del videogame a console. Nel 2003 si contavano in Europa ben 17, 9 milioni di PlayStation 2, che costituivano il 68% del mercato del videogioco, a cui si univa il 18% in possesso di Microsoft. Dati come questi hanno obbligato gli esperti di media a riconsiderare il ruolo svolto da questa forma di intrattenimento all'interno del panorama culturale complessivo, in cui l'importanza determinante del videogioco è confermata dalla diffusione sempre più capillare di giochi interattivi on-line come i MMOG (Massively Multiplayer Online Game). Anche il pubblico dei videogiochi ha assistito ad un forte mutamento, con un'estensione a categorie quali i maschi in età lavorativa e le donne. La diffusione di piattaforme quali la PlayStation 2 , 3 o la Xbox verso un pubblico sempre più vario per età, genere e caratteristiche socio-demografiche fa prevedere un futuro in cui diventeremo tutti sia spettatori che giocatori, illustrato dal passaggio di star virtuali come Lara e Snake dal videogioco al cinema, per divenire vere e proprie icone culturali. Il videogioco può dunque definirsi sempre più un prodotto generalista, che sta uscendo dalla nicchia di genere e di età per assumere un ruolo centrale nella soddisfazione dei bisogni narrativi e di fiction. Esso è soggetto sempre più spesso a contaminazioni con film, format televisivi, pubblicità ludica e arte digitale. Moltissimi sono i giochi derivati da successi cinematografici come Harry Potter, The Lord of the Rings, James Bond o Blade Runner, ma altrettanti sono i casi di trasposizione dal videogioco al film, come dimostrano Final Fantasy, Halo, Lara Croft o Silent Hill. The Godfather è, ad esempio, un videogioco doppiato dagli stessi attori del film di Francis Ford Coppola, mentre The Final Cut introduce all'universo cinematografico di Hitchcock, lasciando libero il giocatore di spostarsi all'interno di un film interattivo, come avviene anche nel gioco Fahrenheit, in cui il montaggio supera nettamente la grafica. Le similitudini di contenuto si accompagnano generalmente a una mutuazione degli stilemi, per cui i giochi ampliano la dimensione narrativa dei propri inserti cinematografici, mentre i film ricalcano il montaggio caratteristico del videogame ed altri suoi codici grafici peculiari. A ciò va ad aggiungersi lo sviluppo di personaggi come Lara Croft (Tomb Raider), Solid Snake (Metal Gear Solid) o Link (Legend of Zelda), che ha generato veri e propri attori virtuali ad alto potenziale emotivo, grazie alla possibilità di esplorare e manipolare un ambiente digitale nei panni

131 del proprio personaggio preferito, elemento che rende il gioco un’esperienza molto impegnativa ed immersiva. In un tale contesto i Feelies di Aldous Huxley (Brave New World, 1932) e le Televisor Parlor Chambers di Ray Bradbury (Fahrenheit 451, 1953) sono esempi letterari che hanno decisamente precorso l’intrattenimento immersivo digitale. Il più ampio spettro di emozioni rimane però trasmesso dai veri attori le cui performance reali sono spesso trasportate all’interno del gioco, grazie al doppiaggio e al motion capture, come nel caso di The Matrix o di Lord of the Rings. Le influenze del videogioco sul cinema riguardano inoltre una nuova “tattilità dello sguardo”, che dal videogame si trasferisce in ambito filmico, generando un nuovo tipo di osservatore che vede in modo immersivo, avvolgente, penetrante, panottico. Il mutamento nella tipologia dello sguardo è ricalcato direttamente dall'avatar o “info- icona”, secondo la terminologia utilizzata da Cosetta G. Saba:

“L’info-icona nel videogame funziona secondo uno dei principi “estetici” costitutivi della tecnologia informatica: l’interattività. Lo spettatore si sdoppia in attore, è al contempo uno “spettatore-attore”. Non contempla più le immagini tenendole a distanza, ma vi si immerge virtualmente come osservatore-visitatore-giocatore di mondi ludici artificiali o perchè “agganciato” dallo sguardo in soggettiva quale punto di vista che regola il funzionamento del videogame (lo sguardo in soggettiva è un interfaccia tra mondo “reale” e mondo “artificiale”, si pensi a Unreal, 1998) o perché “legato” al corpo dell’avatar che sta per il suo (si pensi al corpo “splendido” di Lara Croft, in Tomb Raider, protesi e strumento per agire nel mondo ludico)111.”

L'ibridazione tra cinema e gioco è illustrata brillantemente anche dal fenomeno Machinima, che deriva il suo nome da una fusione tra i termini machine e cinema e propone audiovisivi d'animazione generati dal motore di un videogame. In questo caso non si tratta di immagini pre-rendered, come gli spezzoni filmici normalmente inseriti nei videogiochi, ma di un cinema costruito grazie agli stessi renderer dei videogiochi, i motori in 3D predisposti alla creazione di ambienti virtuali. Un ri-posizionamento e un ri-orientamente del software forniscono così al regista gli strumenti per creare set virtuali, personaggi e mondi. A risultarne è un'animazione Computer Generated, prodotta a basso costo grazie all’animazione in real-time, che rivoluziona i generi e la realizzazione di tutta l'animazione computerizzata. Machinima illustra in maniera

111 Saba, Cosetta G. “Lo sguardo tecnomorfo del cinema: l’irrealtà come effetto di senso”. In Spanu, Massimiliano. ScienceplusFiction. La fantascienza tra antiche visioni e nuove tecnologie, p. 73. 132 emblematica come l'uso dei motori dei videogiochi sia destinato ad influenzare le scelte cinematografiche dei futuri registi, forse in direzione di una maggiore interattività.

3.5.1 Il modding e l'interattività “dal basso” Un elemento caratteristico del gioco al computer che ci pare interessante esaminare per via della sua componente fortemente interattiva è il modding. Si tratta di un'attività basata sulla modifica degli ambienti ufficiali e sanciti di un gioco al computer, inizialmente utilizzata per estendere il gioco e le sue possibilità. Ancor prima dell'affermarsi del modding si parlava di fenomeni simili, quali il game patching, ovvero la modifica legale del gioco da parte degli utenti grazie a strumenti forniti dalla stessa casa produttrice, o, in alternativa di cheat codes, piccoli programmi illegali ritrovabili su internet che permettono di modificare i videogiochi, eliminando ostacoli, rafforzando taluni personaggi o équipe in gioco e dando origine ad un ambiente di specialisti e giovanissimi hacker, esperti nell’usare sia le macchine che il loro linguaggio. Il modding nasce innanzitutto come sfida a chi riesce a creare l’arena di gioco più pura ed innovativa, anche se modificazioni estreme dei motori di gioco, come in Half Life (1998), Quake (1996) e Unreal Tournament (1999) sono risultate in mondi completamente differenti, che sovvertono l’idea di un gioco spara-tutto in prima persona, action-based e orientato verso un preciso obiettivo. Il gioco al computer è trasformato così, grazie al modding, in un’arena contemplativa, di riflessione e di racconto, fatto che segnala come esso sia ormai divenuto un mezzo narrativo al di là del suo semplice valore di intrattenimento. Assistiamo dunque ad un riposizionamento di alcuni giochi nella sfera del documentario soggettivo, in cui ci si mette nei panni di un essere vivente e si giunge ad una maggiore comprensione e compassione nei suoi confronti112. A dimostrazione dell'enorme potenziale innovativo e creativo detenuto dai modders basti citare il gioco al computer 9 – 11 Survivor, uscito nel 2003, in cui l'utente viene immerso direttamente nel contesto catastrofico della tragedia delle Twin Towers. Il gioco risulta innanzitutto una provocazione verso gli avvenimenti distanti di quel giorno, in cui l'utente si ritrova nei panni di una delle vittime. Ad onor del vero, la narrazione non offre possibilità di trionfo, ma solo uno scenario senza speranza. Il modd serve ad interrogare l’evento ed offre una maniera intensa di riviverlo, in cui ci si ritrova a dover scegliere tra il gettarsi

112 Hanson, The end of celluloid. Film futures in the digital age, p.132.

133 tra le fiamme o il saltare dalla torre. Tale commento è dunque utile a mettere in crisi il concetto di avatar, legato all'illusione di un maggior controllo sul proprio destino e alla promessa di padronanza su di un paesaggio mediale: il modding è un memento mori nei confronti dell’invincibile vita dell’avatar113.

3.5.2 Le miniere d'oro dei videogiochi La diffusione dei videogiochi su console e dei giochi al computer è tale che si è giunti a parlare di pervasive gaming114, ossia della possibilità di giocare in qualsiasi luogo, tramite qualsiasi supporto ed in qualsiasi contesto. Sono, ad esempio, sorti dei giochi on-line su telefono cellulare in cui la posizione del giocatore nello spazio fisico fa sì che egli venga localizzato dai ripetitori telefonici e associato agli altri giocatori che si trovano nel raggio d'azione della stessa cella. Lo spazio circostante diviene immediatamente spazio narrativo e viene visto con occhi diversi dal giocatore- esploratore, in quanto egli sa che potrebbe essere popolato da altri soggetti a lui collegati, ostili o amichevoli. La dimensione fruitiva, attiva, partecipativo-interpersonale del gioco è ulteriormente attivata tramite il sito web corrispondente, che serve proprio a garantire l'effetto community desiderato. Altri fenomeni riguardano l'accesso del commercio tradizionale nella sfera del gioco, come nel caso della Internet Gaming Entertainment, società che fa incetta di oggetti virtuali per venderli in moneta reale a quei giocatori che non sono riusciti a procurarseli durante il gioco normale. Ad essere vendute sono anche identità e password, che servono ad accedere a livelli successivi del gioco e a monetizzare la propria posizione in esso. Sulla stessa linea, Station Exchange è un luogo pubblico di scambi commerciali, nato a fianco del gioco Everquest. Un ultimo esempio giunge invece dal più recente e popolarissimo Second Life, dove si è arrivati al punto di acquistare terreni, ma anche scarpe, borsette e abiti con cui vestire all'ultima moda i propri avatar.

3.5.3 Le potenzialità didattiche del gioco interattivo I videogiochi sono ormai una forma di intrattenimento diffusa tra i bambini, fin dalla più tenera età. Si va dai supporti portatili – Gameboy e macchine-videogiochi per bambini dai 4 a 7 anni, cellulari da cui si può giocare a partire dagli 8 anni – fino alla PlayStation pensata per bimbi dai 7-8 anni in avanti. Attraverso il gioco su questi

113 Hanson, The end of celluloid. Film futures in the digital age, p. 138.

114 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 175. 134 dispositivi il bambino acquista un’abilità manuale e una velocità di riflessi non comune, caratteristiche che favoriscono il passaggio dai giochi di console a quelli in rete, giochi multiplayer che culminano in campionati dal vivo su scala nazionale ed internazionale e in vere e proprie convention dei grandi giocatori115. I videogiochi aiutano lo sviluppo cognitivo dei ragazzi, non solo spingendo al ragionamento, ma attivando ed allenando tutte le parti del cervello: quelle più esteriori come la motricità e la percezione vengono esercitate dai giochi di abilità fisica, mentre le parti più profonde più intellettuali, logiche e simboliche, vengono esercitate dai giochi di strategia, di calcolo, di costruzione. Il videogioco coinvolge dunque tutti gli aspetti dell’intelligenza: senso-motoria, rappresentativa e logica116.

3.6 PUBBLICITA’ INTERATTIVA La rivoluzione del tessuto mediatico ha investito anche l’ambito pubblicitario, che ne rappresenta la maggiore fonte di entrate ed il vero e proprio volano finanziario. Nel settore cinematografico e televisivo in particolare, è sorta un’esigenza di estensione delle strategie pubblicitarie al di là del product placement, della cessione di fondi ai programmi o della sponsorizzazione di film. Gli esperti del settore si sono infatti resi conto della crescente necessità di un’associazione e di un’integrazione della pubblicità all’interno di quella sfera più vasta che è l’intrattenimento; ne è così derivata un’urgente richiesta di artisti in grado di creare contenuti distintivi e collegati ai valori che ciascun brand intende rappresentare. Non basta infatti inserire l’ultimo modello di un’auto nel Bond-movie appena uscito, ma è indispensabile invece costruire una relazione duratura tra i film ed i marchi aziendali. Notevole in questo senso è l’esempio fornito dalla compagnia coreana Samsung, che, grazie ad un battage pubblicitario multidirezionale e pervasivo, riuscì a trasformare il 2003 in “The Year of the Matrix”. Similmente la BMW ha investito in una serie di micromovie diffusi su Internet. Si tratta di una serie di cortometraggi che, a partire dal 2001 ha coinvolto registi come Tony Scott, John Woo, Ang Lee, nella creazione di un’atmosfera e di un impianto visivo altamente stilizzato, volti a generare una forte impatto emotivo nell’utente, trasportandolo al di là dei confini della pubblicità tradizionale.

115 Borelli, Savarese, Teatri nella rete. Arti e tecniche dello spettacolo nell’era dei nuovi media, p. 119.

116 Ivi, p. 122. 135 In campo pubblicitario la crescente diffusione di Personal Video Player ha ulteriormente allargato le opportunità di comunicare direttamente con il consumatore tramite formati brevi – di solito entro gli 8 minuti - e a bassa risoluzione come i micro- movie. E’ ormai provato che forme filmiche di questo genere funzionano infatti meglio in conversazioni one-to-one con il consumatore e non su modello broadcasting o su grande schermo. I micro-movie si adattano infatti ad essere scaricati da Internet, come è avvenuto nelle recenti campagne pubblicitarie del gruppo musicale Radiohead, e servono a vendere una determinata visione – quella del brand, che cessa tuttavia di costituire il centro della narrazione - , producendo contemporaneamente una piacevole esperienza di intrattenimento117. Lo scenario attuale fa dunque presagire una progressiva scomparsa di messaggi promozionali invadenti come il telemarketing o il direct marketing. Diversamente, la pubblicità sarà obbligata a trasformarsi in servizio, a coinvolgere e ad interessare, e dovrà possibilmente rendersi sempre più interattiva. Nel pubblicizzare la nuova Lancia Y presso il Future Film Festival nella sua edizione del 2008, la Lancia ha, per esempio, presentato un enorme touch screen che permetteva al visitatore di impostare le caratteristiche di colore, optional e guarnizioni del proprio modello ideale dell’auto, una trovata che ha attirato molti curiosi, puntando i riflettori sulla marca e sul suo prodotto più recente. La pubblicità è così impegnata in un ruolo trasversale all’interno della graduale integrazione dei quattro generi per eccellenza (news, education, entertainment e fiction). Essa è infatti il luogo deputato alla sperimentazione di soluzioni e tipologie discorsive, strategie comunicative e modalità di approccio all'audience decisamente innovative. I messaggi pubblicitari sono in pratica divenuti il trampolino di lancio di ciò che è destinato a divenire lo scenario di fruizione “normale” dei nuovi media. Ne è un esempio l’uscita dell’album del gruppo musicale dei Coldplay, X&Y, per il quale sono stati affissi nelle stazioni della metropolitana dei particolari manifesti, dotati di un microprocessore, in grado di mettersi in contatto con i telefoni cellulari dei passanti e consentire di scaricare gratuitamente un videoclip della band. Nella realizzazione di messaggi sempre più personalizzati la pubblicità sembra perseguire dunque le strade dell’interattività e del tracciamento del fruitore, adattandosi e plasmandosi sulla base delle frequenti situazioni di mobilità urbana e ai fini di una distribuzione mirata dei contenuti mediatici: lo scenario che ne risulta non è poi così distante da ciò che

117 Hanson, The end of celluloid. Film futures in the digital age, pp. 144-145. 136 prefigurava, pochi anni addietro, il film Minority Report, dove il protagonista veniva riconosciuto da cartelloni pubblicitari che gli rivolgevano automaticamente offerte commerciali ad hoc118. La convergenza tra le molteplici piattaforme di contenuti mediatici ha inoltre favorito le sinergie promozionali e la pubblicità incrociata. La costruzione di universi di intrattenimento che raggruppino più prodotti e più marchi messi in relazione tra loro è diventata una caratteristica preminente dell’industria cinematografica, come dimostra il successo delle scarpe Onisutka Tiger, indossate da Uma Turman nei due episodi di Kill Bill. Tale integrazione del cinema con altri prodotti di consumo, definita dagli esperti in termini di cross-media branding, ha luogo su scala internazionale, per poi assumere derive e sfumature differenziate su scala locale, soprattutto attraverso la sponsorizzazione di eventi. A prevalere è dunque la strategia “think global, act local”, perfettamente incarnata dall’emittente musicale MTV, che è arrivata attualmente a permettere la partecipazione attiva dei propri spettatori anche tramite sms.

3.6.1 La pubblicità dentro il videogioco Gli attuali processi di estensione del brand su nuove piattaforme tecnologiche, attraverso sponsorizzazioni, merchandising e cessioni di licenza ha trovato nei videogiochi un terreno particolarmente fecondo e redditizio. Già a partire dagli anni Novanta si sono diffuse forme di comunicazione pubblicitaria indiretta nei videogiochi, come la comparsa di immagini o marchi nelle fasi del gioco, che fa leva sull’assiduità e l'attenzione riposta dai giovani durante ciascuna partita disputata. Coca Cola e Pepsi sono stati tra i primi marchi ad aderire a tale tentativo e a sfruttare le opportunità di contatto subliminale degli utenti. Il proliferare di console di gioco e di Personal Computer nelle case europee e mondiali ha infine contribuito ad incentivare ulteriormente questo tipo di pubblicità. Lo dimostra ad esempio la Microtime Media, nota agenzia londinese sorta precisamente allo scopo di inserire le pubblicità all’interno dei videogiochi o dei giochi al computer. La società è stata infatti responsabile dell’ingresso dei biscotti Mc Vities e dei lecca lecca Chupa Chups nel mondo virtuale di giochi di successo come James Pond II. Aziende di rilievo come Volvo e Canon hanno invece sponsorizzato il PGA European Tour, un videogioco basato sul golf, sfruttando lo stesso meccanismo che ha portato al successo Braccio di Ferro ed i suoi spinaci.

118 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 113. 137 L'uso pubblicitario dei videogiochi sta inoltre imboccando la strada della creazione di software personalizzati, in cui prende vita un preciso elemento del marchio o agisce un personaggio che incarna i valori del prodotto. Sembra infatti indispensabile l’associazione di personaggi virtuali carismatici con i valori forti dell’azienda, una strategia spesso adottata dai produttori di videogiochi e da imputarsi al ruolo fondamentale che la pubblicità svolge nel ridurre i costi di produzione e di ricerca di nuovi giochi destinati a milioni di utenti119. Un ultimo importante fattore che ci consente di comprendere l’enorme portata della sinergia tra videogiochi e pubblicità è la progressiva trasformazione della casa nel punto vendita finale, luogo in cui il consumatore effettuerà in tutta calma le proprie scelte culturali e gran parte dei propri acquisti, guidato da quei marchi e da quei prodotti che più sono riusciti ad accattivarlo.

3.7 I PUBBLICI DELL’INTERATTIVITA’ Nel testo Multimedialità Giovenali individua le tre aree a cascata nelle quali la comunicazione dovrà, a suo parere, affrontare la sfida del futuro, confrontandosi con le nuove tecnologie e con il mutato comportamento degli individui indotto da esse. Riportiamo di seguito lo schema da lui tracciato120:

DISCONTINUITA’ DI FRUIZIONE

FORTE TARGETIZZAZIONE

VARIETA’ DI LINGUAGGI

119 Giovenali, Multimedialità. Dai nuovi media alla nuova pubblicità, pp. 175-176.

120 Giovenali, Multimedialità. Dai nuovi media alla nuova pubblicità, p. 211.

138 La discontinuità di fruizione è dovuta, non solo alla grande varietà offerta dai nuovi media, ma anche e soprattutto alla possibilità di muoversi con facilità al loro interno. Una tale abbondanza di legami tecnologici consente infatti di guardare per un certo periodo un film, per poi interpellare il proprio conto in banca dopo alcuni minuti, e magari avviare una conversazione elettronica con un amico dall'altra parte del paese, tutto nel giro di pochissimo tempo e con un inevitabile fenomeno di discontinuità nella fruizione dei media ricevibili dalla propria abitazione. Il futurologo americano Alvin Toffler definisce il contesto commerciale a venire in termini di particle marketing121, un complesso paesaggio commerciale in cui ogni particella può rappresentare una singola famiglia o addirittura un singolo individuo a cui indirizzare la promozione di un prodotto. Tutto ciò sarà reso possibile se non ineluttabile dalla nuova “way of life” informatica. Strategie di marketing di successo per gli anni a venire dovranno dunque servirsi in maniera accurata del tracciamento delle attività umane, ossia della possibilità offerta dai media di rintracciare le dinamiche dei nostri comportamenti sociali. Tali tecnica è praticata di frequente tramite il data mining con cui le aziende compilano enormi database di profili dei propri utenti. Similmente il Portable People Meter è uno strumento introdotto negli Stati Uniti, che rileva il contatto con determinate pubblicità audiovisive, al punto che si pensa di integrarlo a sistemi di rilevamento satellitare che permettano di individuare anche la collocazione geografica esatta di una persona nel momento in cui ha ricevuto il messaggio pubblicitario, così da modellizzare le tipologie e le modalità di esposizione mediatica in maniera praticamente totale. Se parliamo tuttavia di nuove tecnologie e della possibilità di un cinema interattivo, dovremo tener conto innanzitutto dei nati tra il 1977 e il 1994, che rappresentano una classe di consumatori, ma anche di soggetti culturali, completamente diversa rispetto alle generazioni precedenti. Si tratta, in parte, di giovani che si affacciano sul mercato del lavoro, e quindi cominciano ad avere una disponibilità economica che li mette in grado di orientare il mondo dei consumi e, in parte, di giovanissimi, estremamente abili nell’utilizzo delle tecnologie e fortemente orientati al consumo cinematografico e all’intrattenimento. Sono nel complesso soggetti su cui sta diminuendo l'influsso della televisione e, in particolare, della pubblicità televisiva, tanto che le loro modalità di fruizione televisiva sono per lo più trasversali, ironiche, disincantate. E’ a partire da queste generazioni che gli studi etnografici rilevano l’evidenza di percorsi sempre più

121 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 290. 139 individualizzati di gestione del tempo libero, lungo i quali gli strumenti tecnologici sono accolti senza fratture nelle pratiche quotidiane e nella gestione del tempo a disposizione. Ci troviamo così di fronte alla prima generazione che convive pacificamente con un gran numero di identità mediate, spesso appartenenti alle rete, che scorrono parallele e contigue a quelle sperimentate nel mondo fisico. Ne consegue che è necessario ripensare le strategie commerciali valide per fare appiglio su questa categoria. Dalle sperimentazioni sembra del resto emergere in particolare il successo del “marketing virale”, che segue le tipiche modalità di funzionamento della rete ed è quindi basato sulla diffusione trasversale, sul passaparola e sul prestigio del singolo all’interno delle proprie reti relazionali. The Blair Witch Project ne costituisce uno degli esempi più noti. E’ dunque chiaro che il potere decisionale relativo ai consumi risiede sempre più in mano alle generazioni più giovani. Bambini ed adolescenti decidono gli acquisti e pilotano le scelte della famiglia, soprattutto a livello tecnologico, non solo perchè più competenti e più aggiornati dal punto di vista tecnologico, ma anche perché si trovano sempre più spesso soli a casa a trascorrere il loro tempo in compagnia delle piattaforme mediatiche. Il sito Geppetto Group stima addirittura che essi costituiscano un mercato di circa 600 miliardi di dollari, per un totale di 40 mila spot televisivi all'anno.122 Grandi imprese quali Disney, Mattel, Crayola si avvalgono inoltre, per i test dei loro prodotti, quasi esclusivamente di focus group composti da giovanissimi. Da tali studi emerge una predilezione contemporanea per oggetti e testi brevi, ma ad alta densità simbolica, come gli sfondi, le suonerie, i pupazzetti ed altri esseri di fantasia. Tali prodotti devono appartenere preferibilmente a universi fantastici, connotati in base al genere, e devono rivelarsi ottimi strumenti di un gioco interattivo che permetta al bimbo stesso di gestire l’intero immaginario. A testimonianza di questa tendenza basti citare il successo travolgente dei Pokemon, così come quello più recente dei Gormiti, che recuperano l’interattività concessa dai giochi di ruolo con le carte. A conclusione di questa panoramica sul pubblico al quale si rivolgeranno in prevalenza i cambiamenti del cinema, non dobbiamo tuttavia dimenticare come questi stessi mutamenti interesseranno anche il mondo degli adulti. L’epoca attuale vede in tal senso una notevole convergenza nella fruizione mediatica tra adulti e bambini, che risulterà accresciuta grazie alla progressiva uniformazione delle conoscenze tecnologiche. Si può dunque prevedere che quell’ampio insieme di forme audiovisive radunato sotto la

122 www.geppettogroup.com, consultato in data 3/02/2008 140 definizione di entertainment, costituirà il comune palcoscenico per lo sviluppo di prodotti orientati a tutte le fasce di età. Parchi a tema, videogiochi, musei interattivi, sistemi di realtà virtuale, giocattoli interattivi e molto altro saranno dunque piattaforme comuni per grandi e piccini.

3.8 NUOVI MEDIA, NUOVE PIATTAFORME, NUOVI CONTENUTI Lo studioso David J. Bolter ha fornito un interessante contributo umanistico nel campo delle teorie sui nuovi media, con testi quali L'uomo di Turing, Lo spazio dello scrivere e Remediation, che approfondiscono l’analisi del computer in quanto terminale mediatico, oltre che semplice strumento di calcolo e di lavoro. Secondo Bolter, la diffusione dei computer ha infatti generato una catena ininterrotta di traduzioni e di riformulazioni dei contenuti presenti sugli altri mezzi di comunicazione. La “rimediazione”, come egli la definisce, avviene secondo due logiche diverse: l'”immediatezza” e l'”ipermediazione”. Nel caso dell’”immediatezza” assistiamo ad una cancellazione del medium, ai fini di un realismo sempre più accentuato e di una presa diretta sulla realtà, come nel caso della pittura figurativa, della fotografia, delle riprese televisive in diretta, e della realtà virtuale123. Al contrario, l'”ipermediazione” esibisce e sottolinea la presenza di un medium: è il caso delle avanguardie artistiche, del teatro sperimentale e, soprattutto, dell’interfaccia del computer. Leggiamo a questo proposito:

“[…]per entrare nella dimensione dei nuovi media infatti non abbiamo bisogno della realtà virtuale immersiva, ma piuttosto di un patto narrativo “laico”e disincantato, grazie al quale nell'ipermediazione la cornice viene vista, mentre nell'immediatezza viene dimenticata.124”

La cornice è dunque concepita come una soglia percettivo-culturale, un confine che segna l'identità del prodotto mediatico, configurato e accettato nella sua verità finzionale. Un oggetto mediatico così concepito non mira dunque a far scomparire la sua essenza di filtro, ma piuttosto a rappresentare un “mondo possibile”, costruito cioè

123 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 9.

124 Ivi, p. 30. 141 con coerenza interna, di fronte al quale il fruitore sia disposto ad attivare la “sospensione dell'incredulità”. Il medium deve in breve possedere parametri forti per cui l'esperienza mediata viene accettata e fatta funzionare all'interno del proprio sistema cognitivo. La riflessione sull’evoluzione dei contenuti ci porta poi a considerare il contributo di Ong, che intravede nelle nuove modalità audiovisive e mediatiche un evidente ritorno alle forme dell'oralità. Secondo tale logica, personaggi piatti come James Bond, Johnny Mnemonic, SuperMario o Batman presentano infatti uno scarso spessore psicologico, presto condito da un proliferare di racconti e contenuti su più piatteforme, in un esteso fenomeno di “oralità di ritorno”, che recupera l’ambiente polidimensionale e modificabile caratteristico del racconto orale125:

“[…]si può pensare, quindi, che nella cultura mediatica audiovisiva, pluricodificata, multimediale e interattiva il personaggio “piatto” trovi una nuova situazione di oralità, un'oralità di ritorno appunto, che gli garantisce quella molteplicità di codici che seppure in maniera illusoria, virtuale, ricrea le condizioni dell'oralità primaria. Libero dai legami profondi con il testo, caratteristici della cultura scritta, il personaggio diventa in questo modo disponibile per i suoi vagabondaggi intertestuali. Ed è così che si spiega la straordinarie capacità dei personaggi dei media di spostarsi da un testo all'altro, di riapparire diversi ma sempre uguali in vari contesti e situazioni.126”

La capacità di movimento degli oggetti e dei personaggi si manifesta, secondo Ong su due dimensioni e lungo due assi diversi: - un'estensione verticale, “paradigmatica”, per cui il personaggio si muove da un medium all'altro restando sé stesso: ad esempio da un libro a un film, o a uno sceneggiato televisivo, come nel caso di Pinocchio, oppure da un film alla serigrafia su di una maglietta, all'immagine sui quaderni e sugli zainetti, ma anche lungo percorsi inversi nel caso ad esempio, dei cartoni animati ispirati alla bambola Barbie; - un'estensione orizzontale, “sintagmatica, per cui il personaggio si estende all'interno dello stesso medium, modificandosi: ne è un esempio il remake (si pensi a Batman, sottoposto prima a profonde trasformazioni nel fumetto ad opera di Frank Miller, e successivamente inserito in una serie cinematografica che ne modifica costantemente il

125 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, pp.133-134.

126 Ivi, p. 134. 142 ruolo narrativo); ma anche la contaminazione, o la citazione intertestuale (come nei film mitologici degli anni Cinquanta, tra cui Ercole e Maciste alla corte del Gran Khan”, ecc), secondo processi di oralità secondaria caratteristici dei mass media. In un tale contesto di consumo esteso su vari media, le tecnologie arrivano a svolgere ruoli di natura simbolica:

“L'elettronica di consumo è un settore economico e commerciale di estrema rilevanza, ma non solo: svolge un ruolo “culturale”, in quanto popola il tempo libero di dispositivi che svolgono un ruolo tecnologico, ma sono anche oggetti simbolici utilizzati per nutrire l'immaginario e dar corpo alle emozioni, alle speranze, ai sistemi di valori. Ascoltando la musica, guardando i film, avventurandosi nei meandri di un videogioco, le persone usano i dispositivi dell'elettronica di consumo come oggetti propiziatori in grado di stabilire un ponte fra la realtà quotidiana e un universo ideale, di “fiction”, destinato a riversarsi poi nelle scelte, nelle aspirazioni, nella vita di ogni giorno.127”

Piuttosto che differenziare i vari contenuti in base al loro supporto di fruizione, è preferibile dunque sottolineare come il sorgere di veri e propri universi tematici determini la necessità di un’unione di più tecnologie in sistemi unici. L’intenzione sembra infatti quella di raggiungere l’immediatezza teorizzata da Bolter, rendendo invisibile ogni artificio. I dispositivi tenderanno pertanto a spostarsi da una condizione di opacità ad una di trasparenza, divenendo sempre più facili da utilizzare, addomesticati, parte integrante dell’ambiente, benché estremamente complessi e sofisticati a livello tecnico e delle componenti. Già Norman nel 1998 teorizzò a questo proposito la “tendenza al computer invisibile128”, che conduce la tecnologia verso una fase di trasparenza, domesticazione, immersione negli oggetti di uso quotidiano. A prevalere saranno dunque, prevedibilmente, sistemi polifunzionali e portatili che permettano di giocare, fare foto, navigare su Internet, ascoltare musica, telefonare, e fungano, magari, anche da navigatore satellitare. Il campo mediatico attuale costituisce infatti un unico tessuto strategico che comprende la potenza, la velocità e l'affidabilità dell'hardware, la facilità d'uso e la versatilità del software, interi magazzini di contenuti da mettere in campo e l'individuazione di nuove forme di entertainment che si articolino in un contesto sociale tanto intricato. In tale panorama si inseriscono esperimenti come il sistema operativo Cell della Sony, finalizzato all'integrazione tra cinema e

127 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p.162.

128 Ibidem. 143 videogiochi, o il Portable Media Center, un sistema operativo Microsoft creato per la fruizione mediatica mobile di immagini, musica, film e video. Fondamentale è anche il caso dell’I-Phone di Apple, che ha integrato all’interno di un telefono cellulare la fruizione di testi scritti, fotografie e video, facilitando l’utilizzo grazie ad un touch screen orientabile secondo il formato portrait o landscape, in base alla necessità di guardare immagini o leggere testi. L’elemento comune di tutti questi dispositivi rimane fondamentalmente il gioco, da sempre collegato in piscologia e pedagogia ai processi di costruzione dell’identità, alla capacità di assunzione di ruolo, al rispetto di regole di comportamento e di rapporto con gli altri. Giocare è, insomma, cosa molto seria. Il cinema così come altre forme espressive, con la loro immersione nel nostro vivere quotidiano, sembrano perseguire attualmente un recupero della leggerezza e della dimensione ludica, reso manifesto dal gusto per la citazione in arte ed architettura, dalla generale de-ideologizzazione, dall’approccio ludico alle macchine e alle telecomunicazioni. Le tecnologie portano una ventata di novità nei rapporti interpersonali e nello sviluppo di comunità e permettono, tramite il gioco, di recuperare la dimensione corporea in una nuova spazialità mediata. Loisir, secondo l’ideale di Morin, tempo libero e gioco convergono così sulle piattaforme mediali più recenti, palesando la sempre più penetrante mercificazione del divertimento. La felicità individuale è divenuta un'esigenza: al disincanto si è sostituito un re-incanto, permesso dalla simulazione, che permea di sé le tecnologie dell'informazione e della comunicazione.129

129 Lughi, Cultura dei nuovi media. Teoria, strumenti, immaginario, p. 192. 144 NOTE CONCLUSIVE

Non è semplice affrontare la conclusione di un lavoro così ampio, che ha toccato sfere apparentemente distanti tra loro, senza rischiare semplificazioni ed inutili retoriche. Cercheremo pertanto di costruire nello spazio che resta un percorso che ci permetta di trarre le fila di un discorso che esamina le realtà e le prospettive del cinema interattivo. Dal primo capitolo è emerso nitidamente come il cinema fantascientifico abbia giocato un ruolo di primo piano tra le arti visive nel fornire un’iconografia solida e rilevante all’immaginario futurista relativo alle tecnologie interattive. Nel far ciò i testi filmici da noi illustrati hanno riesplorato “interattivamente” sia la letteratura fantascientifica, rappresentata in particolare da autori come Philip K. Dick, James Graham Ballard, William Gibson e Bruce Sterling, sia le innovazioni prodottesi in campo tecnico e scientifico, tra cui i sistemi di realtà virtuale, l’utilizzo di sensori e la diffusione di chip informatici sempre più miniaturizzati. Romanzando e favoleggiando intorno agli sviluppi tecnologici, il cinema ha dunque partorito un immaginario che coglie pienamente le derive tecniche e mediatiche cui la società attuale fa fronte quotidianamente. Il cinema rimane insomma saldo nel proprio ruolo di intercettazione dei mutamenti sociali e culturali, grazie alla capacità sua propria di produrre visioni di sintesi riguardo al futuro più prossimo. Distaccandoci poi dalla produzione prettamente cinematografica, abbiamo indagato gli ambiti di sinergia tra testi filmici, secondo una concezione allargata del termine “film”, e forme espressive o tecniche altre. Abbiamo innanzitutto riscontrato i primi segni di una deriva interattiva nei fenomeni cinematografici sorti a partire dagli ultimi anni Sessanta, sotto il nome di Expanded Cinema. Si può parlare di “fenomeni” a causa della complessa natura di tali proiezioni cinematografiche, che prevedevano un uso alternativo e maggiormente fisico del mezzo filmico, attraverso performance live che accompagnavano le pellicole, l’uso di split-screen e l’ideazione di vere e proprie ambientazioni in cui far immergere gli spettatori. Tale tendenza a sfruttare lo spazio fisico di fruizione dell’audiovisivo sembra essere risorta a partire dagli anni Novanta. Ambienti immersivi e multimediali come quelli proposti dalle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta ricorrono infatti attualmente all’interno di musei e di strutture che appartengono al location-based entertainment, quali i parchi a tema, i complessi fieristici, gli Expo. La fioritura di tali strutture è dimostrata dal successo di ride-films come Back to the Future, presente all’interno degli Universal Studios a Hollywood ed

145 in Florida, di luoghi come Las Vegas o di musei di arte contemporanea come i Guggenheim. A livello del racconto, la diversificazione dei contenuti, degli ambienti, nonché delle modalità fruitive del film, ha prodotto un indebolimento della narrativa lineare convenzionale e dei legami di causa-effetto, nonché uno spostamento verso esperienze a carattere maggiormente estetico-emozionale. Le storie si sono così popolate di realtà multiple, versioni molteplici della trama, racconti sincroni, rendendo evidente uno spostamento da una narrativa aristotelica ad una freudiana: la successione sequenziale degli eventi è passata in secondo piano rispetto alla ricorrenza di elementi significativi la cui presenza, indipendentemente dall’ordine di apparizione, è sufficiente a far emergere una storia, proprio come avviene nei sogni. Tecniche come la speech recognition, il motion tracking o il morphing hanno inoltre contribuito all’inserimento del dato fisico e sensorio nei mutati panorami audiovisivi, grazie soprattutto all’immaginazione di artisti sperimentali e ricercatori, molti dei quali emersi dal Media Laboratory del Massachussets Institute of Technology, culla di esperti delle relazioni tra arte e nuove tecnologie. Dopo aver investigato il reame di possibilità interattive offerto dagli happening dal vivo, da installazioni museali multimediali e da nuove forme teatrali, ci si è rivolti all’altrettanto vasto regno del digitale di cui Internet e i videogiochi paiono essere protagonisti. La struttura reticolare, ipertestuale e globale del World Wide Web è infatti ideale per lo sviluppo collettivo e partecipativo di nuove forme audiovisive. I sofisticati sistemi di input e output della rete hanno permesso di creare storie ipertestuali, con sviluppi e alternative molteplici, navigabili da parte del lettore. La diffusione di software per il file sharing e le possibilità di streaming audiovisivo in tempo reale hanno inoltre facilitato la condivisione dei contenuti filmici e la loro elaborazione in forma collettiva: sono nati così prodotti in fieri, estendibili e modificabili attivamente dagli utenti della rete, nonché forme interattive di promozione audiovisiva che hanno sfruttato modalità ludiche ed il tam-tam tipico della rete. A queste realtà sono andati ad aggiungersi gli incredibili progressi nel campo del videogame da console e del computer game, che hanno donato nuovo ossigeno alla visione tridimensionale e applicato su grande scala i principi della Virtual Reality. La fisicità, il punto di vista soggettivo, la navigazione di ambienti tridimensionali sono elementi del videogioco presto migrati verso la sfera filmica, creando interessanti contaminazioni. Il real-time rendering caratteristico dei motori di questi giochi, ovvero la generazione di ambienti in

146 tempo reale, così come il game patching, ossia la possibilità da parte degli utenti del gioco di ampliarlo e modificarlo a proprio gusto, costituiscono senza dubbio delle chiavi di volta nello sviluppo del cinema interattivo, unitamente alla possibilità di esplorare un ambiente in concomitanza con altri utenti a loro volta interagenti, talvolta anche su scala globale. Nel ventaglio di prospettive del cinema interattivo non si sono poi tralasciate visioni più futuristiche come l’olografia o il neurocinema. Se in campo olografico sono infatti stati fatti interessanti passi in avanti – uno dei più recenti discorsi del principe Carlo di Inghilterra ha infatti messo in scena un ologramma del reale britannico - , più remota pare invece l’idea di una trasmissione diretta di immagini alla corteccia cerebrale, anche se, come abbiamo dimostrato, vi sono enti ed istituzioni che lavorano appassionatamente in tal senso. Esistono elementi comuni a cotanta varietà di derive del cinema interattivo. Primo fra tutti la necessità sempre più urgente degli individui di esperire luoghi e vicende da un punto di vista personale e, nel migliore dei casi, corporeo. Sembra infatti essere in atto una trasformazione dei media e delle interfacce in direzione di una sempre maggior trasparenza e di un’osmosi sempre più fluida ed immediata tra il mondo reale e quello simulacrale. Si desidera in pratica accedere con facilità e spontaneità ad universi virtuali su cui poter agire efficacemente, popolati da altri utenti che interagiscono a loro volta con noi e con le tecnologie. In aggiunta, pare necessario che la fruizione interattiva fornisca un’esperienza di accrescimento cognitivo, che ci trasmetta insomma la sensazione di aver contribuito alla creazione o al cambiamento di qualcosa, che ci fornisca un indispensabile senso di appagamento. Non si può tuttavia ragionare sul cinema interattivo, senza fornire un inquadramento economico in grado di spiegare perché queste mutate forme filmiche possiedono delle indubbie chance di successo. A tale scopo abbiamo sviluppato una dettagliata analisi del contesto socio-economico attuale, evidenziando quelle aree di mercato che si prestano particolarmente all’inserimento di “film interattivi”, secondo il concetto multiforme che abbiamo illustrato poco sopra. La crescente convergenza tecnologica incentiva infatti lo sviluppo di contenuti interattivi, da “consumare” su un’unica piattaforma polifunzionale – ne è un esempio il recentissimo I-Phone della Apple - oppure attraverso un approccio che comprende una serie di mass media e nuovi media messi in relazione da temi ed universi condivisi.

147 Il cinema interattivo dovrà in sostanza fare i conti con gli enormi interessi di imperi quali l’elettronica di consumo e non, i fornitori di hardware e software e gli operatori delle telecomunicazioni, in un paesaggio segnato da aspre lotte per l’acquisizione di licenze e l’affermazione dei propri standard, dominato da titani come Microsoft, Sony, Google e Yahoo. Un simile contesto pare dunque ridefinire l’interattività in termini di spostamento dello spettatore all’interno di universi semantici, come quello di StarWars o di Disney, che dilagano su più piani, dal film al merchandising, al gioco on-line, secondo un fenomeno che lo scrittore Bruce Sterling, da noi intervistato, ha definito in tutto affine al Natale. Le forme espressive coinvolte raggiungeranno in pratica un livello sempre maggiore di interattività, come è reso esplicito da U2 3D, un video musicale tridimensionale della band irlandese, che ha scosso il Sundance Film Festival ed è ufficialmente uscito negli Stati Uniti nel gennaio 2008 o dai ride-films attualmente proposti nei Sony Theatres americani. L’incremento delle possibilità di interazione non avverrà solo nella sfera sociale, ma travolgerà anche la sfera domestica e privata. Il concetto di home theatre è ormai stato assimilato nella nostra cultura, anche se ci attendono ampliamenti ulteriori che trasformeranno la casa in un vero e proprio terminale comunicativo, in grado di ricevere qualsiasi tipo di contenuto multimediale. L’incredibile successo del DVD e di YouTube sono solo pallidi segnali di una trasformazione ancor più radicale che è già alle porte e si alimenterà di sistemi come il file-sharing, le licenze creative commons, la fibra ottica e le tecnologie satellitari. La pubblicità, coltivando le aspettative degli utenti/spettatori, sarà il vero motore economico di tali trasformazioni: anch’essa dovrà inevitabilmente adattarsi al nuovo scenario mediatico tramite strategie di cross-media branding, divenendo più personalizzata, creativa ed interattiva, secondo percorsi che evocano il film Minority Report, dove il protagonista veniva riconosciuto da cartelloni pubblicitari che gli rivolgevano automaticamente offerte commerciali ad hoc. Chi sarà dunque il target favorito di queste nuove forme culturali e mediatiche altamente tecnologiche ed interattive? Il dubbio è presto risolto: giovani e giovanissimi, per il loro know-how tecnico nonché la predilezione per attività ludiche intense e socializzanti, rappresentano un pubblico assolutamente ideale, come dimostra la scelta di grandi imprese quali Disney, Mattel e Crayola di avvalersi, per i test dei loro prodotti, di focus group composti da bambini e bambine. A fianco di un giovane pubblico generalista, sono infine probabili mercati tematici che raggiungeranno anche

148 gli adulti sulla base dei loro interessi specifici, secondo il principio di particle marketing teorizzato da Alvin Toffler. Loisir e gioco rappresenteranno quindi il punto di incontro tra pubblici appartenenti ad ogni fascia d’età, a dimostrazione del fatto che il cinema interattivo è prima di tutto una risposta possibile ad un bisogno urgente, endemico e capillare di divertimento.

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APPENDICE

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152 10 ANNI DI NUOVE TECNOLOGIE

Incontro con Bruce Sterling, Matt Aitken (Weta Digital) e Vicki Dobbs Beck (Industrial Light and Magic) presso il Future Village del Future Film Festival 2008 di Bologna, in occasione dell’anniversario decennale dell’evento.

Per festeggiare i primi dieci anni di esistenza del Future Film Festival di Bologna, gli organizzatori dell’evento hanno riunito Bruce Sterling, uno dei fondatori della letteratura cyberpunk, e due maestri degli SFX quali Matt Aitken e Vicki Dobbs Beck, rispettivamente della Weta Digital e dell’Industrial Light and Magic. L’incontro, che ha avuto luogo il 19 gennaio 2008, si è incentrato su quello che sarà il futuro del cinema, delle tecnologie, ma soprattutto degli esseri umani che ne saranno i fruitori. Da un tale scambio dialettico di vedute e previsioni sono emersi spunti interessanti e riflessioni feconde, che vale la pena riportare al termine di questo lavoro, che ha al suo centro proprio gli sviluppi futuri dell’industria cinematografica.

Intervento di Matt Aitken (Weta Digital) Interrogato su ciò che sarà del cinema nei prossimi dieci anni, Matt Aitken della Weta Digital, società realizzatrice della trilogia di The Lord of the Rings , inaugura il suo intervento con uno sguardo retrospettivo sul decennio appena trascorso. Fu del resto il 1997 a segnare l’uscita di opere del calibro di Titanic, Men in black , The lost world e 5th element, che hanno segnato svolte decisive nel campo degli effetti visivi e delle tecniche digitali applicate al cinema. Nello stesso periodo, egli spiega, ebbe inizio il lavoro di progettazione di The Lord of the Rings, che avrebbe fatto tesoro delle lezioni magistrali apportate dai film sopraccitati. L’aumento innegabile e progressivo del potere computazionale favoriva infatti un certo ottimismo ed elevate ambizioni nei confronti della resa visiva delle future realizzazioni in digitale. Gli obiettivi che ci si poneva riguardavano in particolare il design di creature fantastiche, il compositing

153 della pelle, gli effetti della luce sulle superfici e la simulazione del comportamento dell’acqua. Per quanto riguarda la creazione di personaggi-attori digitali, la Weta Digital si è confrontata nello specifico con l’ideazione di Gollum e King Kong, affinando tecniche quali l’animazione facciale e la pre-visualizzazione, ovvero la possibilità di un riscontro immediato della resa di un personaggio su di uno scenario costruito al computer. A dispetto delle sofisticate operazioni raggiungibili tramite i processori, Aitken sottolinea nondimeno il ruolo imprescindibile della recitazione di riferimento di un attore reale, che attribuisce al personaggio quell’intensità emotiva e quella caratterizzazione di cui sarebbe altrimenti privo. Ne consegue che motion-capture e performance-capture sono, secondo Aitken, le tecniche che anche in futuro assumeranno un’importanza sempre più decisiva. Guardando agli anni a venire, l’esperto fa cenno a ciò che viene definita virtual cinematography, ovvero un insieme di possibilità che garantiscano un controllo creativo sempre maggiore al realizzatore di cinema. All’interno di questa dicitura egli include in particolare la possibilità di trasferire in tempo reale ciò che accade sul set fisico all’interno di una rappresentazione virtuale che si avvalga di scenari e personaggi fittizi. Si tratta in sostanza della presenza di videocamere virtuali, puntate sullo svolgimento del motion- capture ed in grado di restituire immediatamente l’effetto in digitale, anche se a bassa risoluzione. La disponibilità immediata dell’immagine finale faciliterebbe infatti la gestione dei personaggi e la fluidità della loro interazione con l’ambiente, divenendo uno strumento utilissimo in mano al regista. Un’altra tecnica che, secondo Aitken, subirà ulteriori e rilevanti sviluppi è la simulazione in 3D, favorita dall’aumento della risoluzione nelle proiezioni digitali. Un sicuro ambito di applicazione in tal senso riguarderà la convergenza tra i film ed i videogiochi e la possibilità di farsi raccontare una storia ed esserne coinvolti in maniera simultanea. E’ ancora incerto, tuttavia, se ciò avverrà in direzione di un cinema più interattivo o di un aumento dei contenuti narrativi interno ai videogiochi. Certo è che la tridimensionalità sarà sfruttata non solo nella computer grafica, ma anche e soprattutto in termini di visione stereoscopica, volta ad aumentare il pathos ed il coinvolgimento nei confronti del film, come dimostra il successo già conseguito da esperienze come Polar Express.

154 Intervento di Vicki Dobbs Beck (Industrial Light and Magic) Vicki Dobbs Beck è una delle figure di maggior rilievo dell’Industrial Light and Magic, società specializzata in effetti speciali digitali, fondata negli anni Settanta grazie alla lungimiranza di George Lucas. Anche la Dobbs Beck non può fare a meno nel suo intervento di ripercorrere con entusiasmo i traguardi raggiunti nel settore dell’effettistica digitale. Tra questi enumera in primis gli altissimi livelli di foto- realismo ottenuti nell’inserimento di personaggi fantastici all’interno di set digitali o reali. La sua carrellata parte dai dinosauri di The Lost World per giungere a successi più recenti come il secondo ed il terzo episodio di Pirates of the Caribbean. E’ interessante notare come i pirati del secondo episodio siano tutti creati digitalmente, eccetto uno, e tuttavia, all’uscita del film, molte riviste abbiano espresso la propria ammirazione per lo straordinario make up dei pirati, realizzato in realtà in forma totalmente digitale. Il personaggio di David Jones nel terzo episodio raggiunge poi l’apice della complessità e della perfezione visiva finora ottenuta dalla ILM in un personaggio digitale. Un’altra delle grandi sfide che segnano l’evoluzione dei colossal digitali rimane invece, secondo la Dobbs Beck, la simulazione dell’acqua. Dopo i primi, incerti tentativi in questo campo, riassunti dal film The Perfect Storm, l’Industrial Light and Magic ha pensato ad una collaborazione con istituzioni pubbliche quali le università, il governo e le stazioni metereologiche. Da questo progetto è derivata la collaborazione con l’università di Stanford che ha portato al making di Poseidon, film che riceverà nel febbraio 2007 un Oscar per le evoluzioni tecnico-scientifiche. Gli obiettivi per il futuro più prossimo riguardano invece un trasferimento degli strumenti classici della post-produzione alle fasi d pre-produzione, con la messa a punto di un director’s tool kit, che garantisca una maggiore maneggiabilità e un ampliamento del raggio d’azione del regista già a partire dalla progettazione del film. Un tale kit di strumenti presenterebbe così un’integrazione di tutte le tecniche emergenti di elaborazione digitale dell’immagine, permettendo di visualizzare il risultato visivo finale già a partire dalle prime fasi di ideazione. Al raggiungimento di una maggiore indipendenza produttiva per il film-maker la Dobbs Beck affianca un’altra tematica di rilievo, messa in evidenza già dal precedente intervento di Matt Aitken, ovvero la convergenza di film e videogiochi. Tale sinergia si verificherà, a suo parere, secondo tre aspetti fondamentali: un allineamento degli strumenti e delle tecniche di realizzazione; un’adozione da parte dei film del real-time

155 rendering caratteristico dei videogiochi e, infine, un’aumentata accessibility, ossia una proliferazione di narrazioni user-generated, sulla stessa linea dei videogiochi, da cui emergeranno come sempre le storie più valide, in grado di farsi strada indipendentemente dalle piattaforme e dai supporti di circolazione iniziale.

Intervento di Bruce Sterling Bruce Sterling può essere considerato, insieme a William Gibson, il fondatore della letteratura cyberpunk e dunque una delle figure che maggiormente hanno contribuito a dar forma all’estetica e all’immaginario degli anni Ottanta e Novanta. Il suo discorso esula in buona parte da quello degli altri due ospiti e mira non tanto a tratteggiare tecniche e strumenti, quanto piuttosto a solleticare l’immaginazione e la riflessione critica sul mondo che ci circonda. Non per nulla la fantascienza è, come ribadito dall’autore, l’ambito deputato a descrivere il presente presentandolo sotto le false spoglie di un futuro possibile. Sterling delinea così 4 scenari futuribili, risultato – guarda caso – di una “matrice” matematica. A costituire i due termini fondamentali della matrice sono da un lato il livello tecnologico e dall’altro il grado di controllo socio-politico. Dall’incrocio di queste variabili, definite in termini di alto o basso, si ottengono così quattro paesaggi molto differenti. Sterling li illustra in questi termini: a. Basso livello tecnologico, basso grado di controllo: Bollywood Si tratta di un caso unico e strabiliante, che ha portato alla più grande industria cinematografica su scala planetaria e ad una situazione demografica in cui il numero di persone impiegate nel cinema all’interno della stessa nazione ha raggiunto cifre impensabili. b. Basso livello tecnologico, alto grado di controllo: il Rinascimento di Sarkozy E’ il modello cinematografico di stampo europeo, in cui ogni aspetto è governato da leggi e regolamentazioni. Un paesaggio in cui le tasse sono salatissime e il copyright è una norma inviolabile. A dettar legge in questo universo sono i razionalisti ed i civilisti.

156 c. Alto livello tecnologico, alto grado di controllo: il mondo di 1984 e delle multinazionali. E’ l’universo della Sony, della Microsoft, dei grandi capitali in grado di garantire la stabilità di pochi giganti dell’intrattenimento. E’ un futuro in cui gli uomini di affari si avvalgono di strumenti costosissimi, ultra-sofisticati e, naturalmente, soggetti a brevetti ben definiti. In un simile contesto il singolo artista risulta irrimediabilmente sconfitto. I film sono soggetti a misure di sicurezza impossibili da raggirare, tanto che la pirateria può costare la vita. I sistemi di videosorveglianza proliferano in ogni dove: i semafori, le insegne, i cellulari ci spiano. Anziché il 2018 pare di trovarsi nel 1984, così magistralmente descritto da George Orwell e, proprio come accade nella società orwelliana, schiere di professionisti lavorano duramente per perpetuarne l’esistenza. d. Alto livello tecnologico, basso grado di controllo: YouTube 3.0 E’ un 2018 in cui chiunque può fare qualsiasi cosa, specialmente per quanto riguarda la produzione di contenuti cinematografici. Le tecnologie sono a portata di mano e praticamente gratis. Chiunque possiede più videocamere, di cui almeno una integrata al proprio telefono. Il mondo si è ormai convertito in un’enorme scuola di cinema, priva di professionisti e di successi del momento. L’industria strutturata come gerarchia ed istituzione è scomparsa, sostituita interamente da strutture reticolari e veri propri network.

Alla domanda su quale dei 4 futuri possibili sia più vicino ad accadere, Sterling risponde che essi si verificheranno tutti contemporaneamente, anche se si assisterà presumibilmente al prevalere di uno o due di essi. La speranza del guru del cyberpunk è che sia il mondo di YouTube 3 a scalzare gli altri e che si giunga ad una costruzione cinematografica “dal basso”, alla portata di tutti e lontano dalle grinfie di pochi detentori di capitale. Tuttavia, anche se quest’ultima utopia dovesse temporaneamente arrivare a prevalere, essa verrebbe presto sostituita da una realtà sociale ancora nuova, che non siamo al momento in grado di prevedere, né di immaginare.

157 Qual è il futuro della distribuzione cinematografica? Vicki Dobbs Beck risponde a questa domanda sottolineando l’importanza crescente della dimensione sociale e comunitaria del cinema. Pensando ai cambiamenti che verranno alla ribalta nei prossimi dieci anni, immagina una trasformazione della sala cinematografica in un ambiente più simile al locale adibito al divertimento o alla discoteca. In alternativa la Dobbs Beck si figura un inserimento ancor più radicato delle sale in contesti ad alto tasso di socialità, quali i centri commerciali, le biblioteche, i musei o gli spazi urbani. Anche Matt Aitken enfatizza il carattere comunitario dell’esperienza cinematografica, prefigurando delle sale sempre più curate, che accrescano il desiderio di prolungare l’esperienza cinematografica. A contribuire alla creazione di sale altamente tecnologiche sarà, a suo avviso, l’adozione progressiva di contenuti digitali e di strumenti di proiezione a loro volta digitali, che ridurranno immensamente i costi del cinema, aumentandone invece le possibilità di distribuzione e di diffusione.

L’aspirazione dell’uomo di sostituirsi a Dio nel dar vita a creature a sua immagine e somiglianza condurrà ad una sostituzione degli attori reali con attori completamente virtuali? La risposta di Vicki Dobbs Beck e di Matt Aitken sembra essere in questo caso un unanime ed intransigente “no”. La Dobbs Beck spiega come la simulazione digitale dell’essere umano risulti utile solo in situazioni estremamente pericolose oppure per rendere evoluzioni e punti di vista fisicamente impossibili. Aitken si addentra invece ad illustrare come la creazione di personaggi digitali risponda esclusivamente ad un desiderio di trasmettere credibilità e coinvolgimento, che per nulla aspira alla cancellazione degli attori reali. E’ del resto comprovato che, dal punto di vista tecnico, l’aumento della perfezione formale nel design di un individuo comporta un’inevitabile diminuzione della sua naturalezza, dando origine a simil-cyborg totalmente privi di emozione.

158 A QUATTR’OCCHI CON BRUCE STERLING

Al termine del suo intervento pubblico presso la decima edizione del Future Film Festival di Bologna, nel gennaio 2007, ho avuto l’onore di scambiare quattro chiacchiere con il co-fondatore del movimento letterario cyberpunk, le cui nozioni ed il cui simbolismo hanno ispirato tanta parte di questo lavoro. Riporto dunque di seguito le risposte che Sterling ha fornito ad alcune mie domande riguardanti il futuro dell’industria cinematografica, in particolare in termini di I-Cinema (Interactive Cinema).

Fenomeni cinematografici come quello di Star Wars hanno generato una serie articolata di prodotti, tra cui soprattutto videogiochi e giochi esplorativi on-line in cui è possibile assumere i panni di un determinato personaggio. Pensa che si arriverà ad una vera convergenza del cinema con queste forme narrative interattive?

Francamente penso che sia impossibile inserire all’interno del cinema le dinamiche interattive caratteristiche del gioco. Entrambe queste forme continueranno ad esistere, e spesso a coesistere, nel senso che si affiancheranno lungo contenuti tematici condivisi, ma ciascuna manterrà le proprie peculiarità. Il cinema serve a raccontare storie che portino da qualche parte e conducano a una sorta di conclusione, mentre il gioco è una forma aperta e dunque inadatta alla rappresentazione cinematografica. Continueranno ad esserci film tratti dai videogames e videogames che si ispirano ai film, ma non le due cose insieme. Anche nel caso della convergenza tra Internet ed il cinema, il fallimento di tale idea è stato dimostrato chiaramente dal tentativo di America On Line di acquisire la Times Warner, presto tradottosi in una perdita di miliardi di dollari.

Che cosa pensa di un cinema interattivo in cui lo spettatore sia in grado di decidere che cosa avviene di seguito, scegliendo tra opzioni multiple e in tal modo esercitando un controllo sulla trama?

Il cinema interattivo così concepito è un bluff, uno stratagemma. Si limita ad applicare la struttura dell’iper-testo, producendo una sorta di gioco presto smascherato. Non ha

159 alcuna possibilità di affermarsi concretamente, perché c’è ancora bisogno di un autore che ci racconti una storia.

In cosa risiederà dunque, a suo parere, il successo della cinematografia del futuro?

Per essere realmente innovativo il cinema dovrà sapersi espandere al di là dei propri confini, verso nuovi testi e nuovi prodotti. Dovrà saper creare un vero e proprio universo intorno a sé, come è accaduto nel caso di Star Wars in cui si è arrivati ad avere il pigiama o la bibita della serie. Un fenomeno significativo in tal senso ci è offerto dai Pokemon, che hanno prodotto una vera e propria rivoluzione culturale e, a partire dallo schermo, hanno invaso tutti gli ambiti del vivere quotidiano dei bimbi loro fan. Per affermarsi la cinematografia del futuro dovrà divenire come il Natale, diffusa, capillare e sociale, riversando su più media contemporaneamente contenuti di cultura popolare.

160 QUESTIONARIO

Il seguente questionario si compone di 6 domande riferite al cinema interattivo e alle previsioni riguardo al futuro della cinematografia. Esso è stato distribuito tramite email a circa 50 utenti di Internet di età compresa tra i 20 ed i 30 anni. Riportiamo di seguito 12 contributi che ci paiono riassumere le principali visioni esposte dagli intervistati. Il questionario è servito infatti a comprendere con maggior chiarezza le aspettative dei giovani nei confronti del cinema e delle nuove tecnologie e non presuppone all’interno di questo lavoro alcuna valenza di tipo scientifico o statistico.

1. A cosa ti fa pensare l´espressione "Cinema Interattivo"?

a. Alle storie a bivi di Topolino, o ai libri game. Un esempio potrebbe essere un DVD in cui tu salti alle scene a seconda di ciò che vuoi far fare al protagonista. b. Alla possibilità di "partecipare" in fieri alla costruzione sia per quanto riguarda la sceneggiatura che l'utilizzo degli attori, e di poter seguire via web la produzione, le riprese e la post-produzione. c. Sinceramente credo che la preservazione della distinzione della dicotomia autore/spettatore sia invalicabile se si vuole restare nella categoria cinematografica, l’interattività è una categoria che meglio si adatta nel mio immaginario all’ambito del videogioco. d. Ad un tipo di cinema in cui lo spettatore non e' solo passivo, ma diventa parte attiva dell'opera cinematografica. e. Ad un cinema nel quale lo spettatore ha l'impressione di vivere la situazione pienamente, cioè di partecipare all'azione che si svolge. Un po' com'era il teatro greco o quello shakespeariano, con gli attori che si rivolgono al pubblico (quello che fa Paolo Rossi nel suo Romeo e Giulietta "serata di delirio organizzato").

161 f. Ad un tipo cinema in cui puoi interagire con il film che stai guardando, tipo libro-game (es. finali multipli), oppure in cui si cerca di stimolare tutti i sensi (es. vengono rilasciate essenze per stimolare l'olfatto) g. Ad un tipo di cinema nel quale si chiede l’interazione del pubblico in sala, che potrebbe quindi influenzare in qualche modo la storia h. "Cinema Interattivo" per me sono film che coinvolgono lo spettatore, il quale può influire sulla trama e interagire con i personaggi non solo con la sua presenza virtuale ma anche solo col suo stato d'animo (ad esempio, se quel giorno sono particolarmente triste o malinconica e voglio sentirmi meglio, pur andando a vedere un film d'azione, questo potrebbe prendere pieghe ironiche o avere sketch divertenti). i. Un cinema che interagisce con lo spettatore. l. Al cinema che mette in funzione tutti i sensi non solo la vista e l'udito ma anche il tatto, il gusto, l'olfatto. Oltre a questo mi fa pensare anche ad un cinema dove il film non viene subito ma dove ogni singolo spettatore può contribuire, un film non a senso unico, ma dove siamo noi a decidere come prosegue la storia che racconta. m. Se con cinema interattivo si intende quel cinema che permette allo spettatore di diventare a sua volta regista del film, modificando a piacere su linee precostruite o meno l'evoluzione dell'intreccio, penso più che altro ad un uso personale del singolo prodotto, film, a qualcosa che difficilmente possa essere prodotto in una sala cinematografica. Sinceramente anche se da un lato per alcuni film io immaginerei delle scene o dei finali diversi, che col cinema interattivo sarebbe possibile adeguare ai gusti personali, dall'altro lato la visione dello "stesso film" da parte di due persone potrebbe generare due prodotti molto diversi, quindi due film, sui quali sarebbe difficile fare un confronto a meno che non lo si faccia solo a livello delle scelte personali. Il cinema interattivo ha in sé delle potenzialità, ma corre il rischio di degenerare fortemente il concetto di cinema e quindi di film che abbiamo ora. Personalmente lo ritengo un tipo di cinema possibile che si affiancherà a quello "classico" senza sostituirlo.

162 n. Senz'altro ad un tipo di cinema super evoluto, che ti può fornire tutta quella serie di agi che ora quelle orride multisale di certo non forniscono...quindi fondamentalmente per me un cinema interattivo è un cinema da casa, che ti esime dall'avere crisi claustrofobiche e di de contemptu mundi tutte le volte che sei costretto ad andare in quei luoghi infernali...e a ricorrere all'auto perchè il concetto di cinema in centro pare essere stato totalmente debellato... quindi un cinema da casa nel quale tu premi un pulsante e scende uno schermo, si abbassano totalmente le luci e partono gli applausi stile telefilm americano "Genitori in blue jeans" o “Arnold” che era l'esecrazione del telefilm negli anni 80.

2. Se provi ad immaginare come cambierà il cinema nei prossimi decenni, come immagini uno spettacolo cinematografico futuro? a. Multisensoriale. Ma il cinema va bene com'è. b. Forse esisteranno film "sensoriali", dove lo spettatore sarò coinvolto non solo con la vista e l'udito, ma anche con gli altri sensi. Forse avrà la possibilità di interagire con lo sviluppo della trama stessa. c. L’avvento imminente della realtà virtuale credo possa avere pesanti ripercussioni in ambito “cinematografico”… qualcuno disse al tempo dell’avvento del sonoro “ora mi mancheranno gli odori”… ecco credo che con la realtà virtuale mi mancheranno un sacco di cose! d. La prima cosa che mi viene in mente e' una nuova concezione di distribuzione di opere cinematografiche direttamente via internet in home theatre casalinghi(speriamo di no ). e. Immagino supporti visivi ed uditivi ancora più sviluppati di quelli odierni (maxischermi, proiezioni digitali, 3D, dolby ancora più sofisticati),e postazioni in cui poter avere la possibilità di vedere l'azione in maniera personalizzabile.

163 f. Sinceramente non riesco a immaginare … direi che me li immagino come sono ora... g. Probabilmente un perfezionamento delle tecniche audio-video per rendere migliore la fruizione del film o anche l’installazione di tecnologie sulle poltrone per rendere il pubblico più partecipe. h. Nel futuro resterà il rito dell' "andare al cinema" inteso come grandi sale che raccolgono gente, ma non ci sarà più lo schermo, solo le poltrone ognuna dotata di "occhialoni", così tutti andranno a vedere lo stesso film, ma ognuno ne vedrà una sfumatura particolare. i. Sempre più immagini, sempre meno dialogo, sempre più a servizio dello spettatore, sempre meno opera singola. l. Spero che si avverino le mie predizioni! (vedi sopra). m. Secondo me il cinema in futuro andrà verso un maggiore coinvolgimento dello spettatore, sia quello interattivo che quello classico, forse dando la possibilità di un coinvolgimento sensoriale maggiore, mi riferisco alla possibilità di ricevere non solo input uditivi e visivi, ma anche olfattivi, tattili e gustativi. Proseguendo in questa direzione forse si arriverà a portare lo spettatore dentro il film. n. Me lo immagino sempre a casa mia senza l'inquietante presenza della vecchia suocera della situazione che racconta all'amica cinquantenne , durante la visione, che da quando è andata in menopausa le caldane le stanno creando seri e grossi problemi, rischiando così di evitare di finire in prigione per un delitto che tutti in tale situazione vorremmo commettere.

164 3. Dove pensi che sarà fruito il cinema fra qualche decennio (tipologia di edificio, posizionamento urbano, vicinanza ad altre strutture culturali e non) ? a. In catacombe dove si riuniranno i pochi sopravvissuti all'olocausto intellettuale. Riuniranno poche e sparute copie di "il settimo sigillo", "Rashomon" e "L'allenatore nel pallone" e si lanceranno in appassionati dibattiti al termine della proiezione. b. Penso che le multisale potranno ancora "specializzarsi" ulteriormente e diventare sempre più tecnologiche. Credo che il luogo d'elezione del cinema del futuro siano proprio loro. Forse i grandi musei potrebbero adibire aree alla proiezione cinematografica di film ad alto contenuto tecnologico. O magari anche i parchi divertimento potrebbero aprire un'area "video".

c. Lo scenario futuribile della realtà virtuale potrà continuare il processo segregativo degli individui contemporanei, potremo fruire del “film” nelle nostre camerette… per poi parlarne in chat senza allontanarci troppo dalla nostra poltrona. d. Come da risposta precedente, immagino che ognuno avrà la sua attrezzatura casalinga per la fruizione dell'opera. Quindi potrebbero scomparire i luoghi "pubblici" per la visione. e. Credo che sarà situato in luoghi preposti a quello scopo. Centri dedicati esclusivamente alla cultura ed allo spettacolo, un po' com'è ora il teatro. Un luogo dove si va a condividere un’esperienza con tanti altri spettatori ma che al tempo stesso rimane personale. f. Multisale dei centri commerciali. g. Immagino ci saranno sempre più multisale subito fuori dalla città con ampi parcheggi, o vicino/dentro centri commerciali. h. I cinema saranno enormi multisale all'interno di grandi centri commerciali e al di fuori dei centri urbani. Da questo punto di vista sarà molto simile a come è

165 già ora negli USA; e purtroppo scompariranno i piccoli cinema d'essai. i. Due tipologie di cinema: commerciale, all'interno di centri commerciali, d'élite e d'arte in cineteche/musei più simili a gallerie. l. Senza dubbio il sistema di multisala sarà solamente ampliato e migliorato, ma nel futuro non credo subirà delle grandi differenze di tipo logistico, come un edificio o un posizionamento urbano differente da quelli attuali, però più tecnologizzati. m. La tendenza odierna è quella di posizionare il cinema soprattutto nella periferia delle città all'interno di più o meno vasti complessi commerciali e/o residenziali, come nel caso del cinema UCI, situato all'interno del complesso commerciale-residenziale-sportivo (in quanto vi è anche una vasta palestra con la possibilità di svolgere al suo interno anche più di uno sport), che si trova a Casalecchio di Reno. Secondo me rispetto a quello che fino ad ora è conosciuto come centro della città vi saranno una maggiore decentralizzazione ed accorpamento delle aree commerciali (negozio e supermercati), culturali (biblioteche, librerie, teatri forse anche musei) e sportive in cui si inserirà il cinema multisala, tutto a guadagno di una maggiore fruibilità di diversi prodotti che potrebbe portare and un aumento del consumo. Ormai la tipologia di edificio in cui si inserisce il cinema non è più quello del singolo edificio con una sola sala, ma la multisala inserita in quel contesto prima descritto perché ora lo spettatore sta acquisendo quasi la concezione di cinema come di un luogo in cui andare anche senza programmare quando, dove e cosa andare a vedere, anzi già adesso si può entrare in una multisala e scegliere al momento ciò che si vuole vedere. n. Sempre da casa!

166 4. Quali sono i mezzi di comunicazione o le tecnologie che pensi saranno integrate al cinema negli anni a venire? a. Al cinema magari no, ma nell'home-entertainment il touch-screen per tra trasformarlo in una specie di videogioco. b. Di certo il web per quanto riguarda i canali di comunicazione. Sulle tecnologie in particolare non credo di saperne abbastanza per fare un vaticinio. c. Pc-tv-cinema e persino il movimento fisico (viaggio per esempio) potranno fondersi in una realtà fittizia, ricostruita da e/o per noi, che circonderà e allevierà le eterne umane malinconie di vivere. d. Internet per la distribuzione, computergrafica avanzata e simulazione 3D per la produzione, e teatri virtuali e/o particolari occhiali per la visione. e. Ritengo che le tecnologie del suono e dell'immagine si svilupperanno sempre di più al fine di far dimenticare di trovarsi di fronte a 'proiezioni'. Inoltre si dovrebbe poter modificare le percezioni con strumenti che rendano lo spettacolo personalizzato, ad esempio con un telecomando per vedere l'immagine da prospettive differenti o agendo sul livello del suono e del colore (poltrone con consolle ed impianto d'ascolto singolo). f. Ancora una volta, non lo so. g. Forse delle tecnologie per stimolare altri sensi, come l’odorato o forse il tatto. h. Non saprei dire il tipo di tecnologie specifico, comunque tutto ciò che ha a che fare col virtuale. i. Tatto gusto ed olfatto integrati alla vista. l. Naturalmente come ho risposto nella prima domanda verranno integrati dei dispositivi che coinvolgano tutti i sensi. m. Al giorno d'oggi esistono già prototipi di apparecchi in grado di diffondere in ambienti previa richiesta software, odori negli ambienti. La realtà virtuale è 167 un settore in forte sviluppo che potrebbe essere utilizzato su larga scala anche in campo cinematografico, per quello che posso immaginare si avrà un'innovazione cinematografica che seguirà l'onda delle innovazioni tecnologiche. E' difficile dire in poche parole quali saranno i mezzi di comunicazione e le tecnologie utilizzate in futuro, anche perché non so quali saranno le innovazioni tecnologiche. Dire quali saranno i mezzi di comunicazione e tecnologie usate al cinema è come fare un film di fantascienza in cui l'attore protagonista diventi il cinema. n. Forse un enorme cyborg robot che fa scendere lo schermo e che puoi utilizzare come finto amico per non essere da solo durante la visione.

5. Quale sarà, a tuo parere, il genere cinematografico che per primo verrà sviluppato nell’´ambito del "cinema interattivo"? Quali i registi e/o gli attori più adatti al passaggio ad un "cinema interattivo"? a. Direi il vasto settore che va sotto il nome di "avventura". Gli attori e i registi adatti devono ancora nascere. Comunque ci vedrei bene i fratelli Coen e Johnny Depp. b. Fantascienza, film d'ambientazione storica, thriller. Su registi e attori non mi pronuncio: forse Tim Burton.

c. Fra i primi certamente quello pornografico per il quale è maggiormente sentita la necessità dello spettatore di intervenire alla vicenda! Per gli autori… magari Lynch potrà finalmente esplicitare il trip che periodicamente mi propone? Condividendolo più in profondità con il mio subconscio! d. Genere:Fantascienza/fantasy/animazione regista:Tim Burton attori: potrei dire banalmente Keanu Reeves, ma non saprei. e. Ritengo che personaggi di videogame e fantasy saranno i primi ad avere un ruolo nel cambiamento. Essendo già presenti piattaforme tipo giochi di ruolo,

168 esse si svilupperanno fino a diventare veri e propri spettacoli. Questo sviluppo poi arriverà a coprire anche altri generi come thriller e action movies e quindi tutti gli altri. Autori sperimentali di fantascienza dotati di un notevole know-how tecnologico potrebbero essere candidati adatti a mettere in pratica questo cambiamento. Credo che lo sviluppo verrà portato avanti da nuove generazioni di autori piuttosto che da quelli già affermati. f. Film d'avventura o fantasy. Sono ignorante in materia quindi dico i primi due nomi che mi vengono in mente: S.Spielberg e G. Lucas. g. Credo sia il cinema d’azione perché si presta meglio all’immersione totale. Non credo che i grandi registi di cinema d’autore si prestino ad essere “manipolati” dal pubblico. Gli attori/registi più adatti : Russel Crowe, Ridley Scott, Quentin Tarantino… (in genere attori hollywoodiani che fanno film molto popolari di intrattenimento/azione/guerra). h. Sicuramente il primo genere a svilupparsi in questo campo sarà il fantasy, un tipo di film che sta avendo un successo sempre crescente e che si presta a lasciar libera la fantasia dello spettatore. Per i registi e gli attori...proprio non saprei; certo è che dovranno essere dei veri e propri professionisti perchè i registi dovranno tenere conto dell'influenza del pubblico nei loro film, così come gli attori. La mia speranza è che in questo modo attori dotati solo di un bell'aspetto fisico e nessun tipo di talento (vedi la Bellucci) si troveranno senza lavoro! i. Sperimentale e di fiction non so se ci saranno più attori o solo ologrammi di immagini o androgini. l. Per quanto riguarda il genere non ho dubbi: fantascienza e fantasy, ma per un problema di motivazioni questi generi sono quelli più adatti alle sperimentazioni. m. Si potrebbe pensare che il primo genere cinematografico esportato nel cinema interattivo possa essere quello fantascientifico per il fatto che la tecnologia è alla base di entrambi, ma secondo me è più facile portare nel cinema interattivo le tipologie cinematografiche: sentimentale, di avventura,

169 d’azione. Mi viene da pensare che il genere sentimentale possa essere quello più facile da sviluppare in ambito interattivo in quanto forse è quello che permette una maggiore interazione con l'intreccio (ne potrebbero andare pazzi anche gli spettatori di alcune serie televisive tipo Beautiful). n. La science fiction sicuramente ma anche il genere fantasy in cui tu puoi cambiare il finale ed intervenire nel film...

6. Come dovrebbe essere, secondo te, uno spettacolo cinematografico ideale, in grado di coinvolgerti nella storia e farti provare sensazioni intense? a. Com'è adesso. Basta che sia un bel film. Altrimenti ci mettiamo il casco virtuale e veniamo sbalzati in mezzo alla spiaggia dello sbarco in Normandia. b. L'idea di un film sensoriale mi incuriosisce molto, ancor di più la possibilità di dialogare con i personaggi stessi, ma forse è troppo futuribile per il momento. c. La domanda posso solo girarla agli autori che mi hanno e spero continueranno ad emozionare…

d. Così com'e' oggi in un cinema d'essai (o qualunque cinema dove son tutti attenti al film). Di più ci potrebbe essere soltanto l'interazione diretta dello spettatore con lo spettacolo, ma non sarebbe piè cinema.

e. A me piacerebbe sentirmi un personaggio della vicenda che vede lo svolgersi degli eventi attorno a sé. Poter scegliere di mettermi nei panni di più personaggi scegliendo in tempo reale la visione che più mi interessa in quel momento. f. Secondo me i film vanno già benissimo così come sono.

170 g. A livello tecnico è abbastanza importante l’audio e la possibilità di poter vedere il film nelle migliori condizioni, però credo che per coinvolgermi conti comunque più di tutto la storia. Il cinema interattivo come lo immagino io, è più che altro una nuova forma di divertimento, più simile ad un parco giochi. h. Dovrebbe trattare temi ed esperienze che ho vissuto o che sto vivendo in quel momento, forse addirittura comprendere come "comparse" persone che fanno parte della mia vita. i. Deve avere una colonna sonora adeguata e coinvolgente. Deve trattare di temi sociali di attualità. Mi deve far riflettere e lasciare in silenzio a pensare alla fine del film. l. Non vorrei essere ripetitiva (Vedi domanda 1). m. Questa potrebbe sembrare quasi una domanda di cucina "Come dovrebbe essere seconde te, una ricetta culinaria, in grado di coinvolgerti nei sapori e farti provare sensazioni intense?" la stessa cosa si potrebbe fare riferendosi all'arte, alla musica e così via. Secondo me non c'è una ricetta unica, certo alcuni ingredienti possono essere gli stessi, il pane ed i pasticcini si fanno entrambi con la farina ma si aggiungo poi ingredienti diversi con diverse lavorazioni che sfruttano tecnologie in parte diverse ed in parte uguali. Quindi la ricetta di come dovrebbe essere uno spettacolo ideale varierebbe anche di molto a seconda del genere, della storia e delle sensazioni, sentimenti ed idee che si vogliono trasmettere nel corso del film. n. Dovrebbe essere uno spettacolo in cui io stessa venga chiamata in causa e possa contribuire anche un minimo al dipanarsi della trama...

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The Game Fincher, David. A&B Producoes Ltd: 1997.

The Last Broadcast Avalos, Stefan e Weiler, Lance. FFM productions: 1998.

The Rules of attraction Avary, George. Kingsgate Film: 2002.

The Truman Show Weir, Peter. Paramount Pictures: 1998.

Timecode Figgis, Mike. Red Mullet Productions: 2000.

Titanic Cameron, James. Twentieth Century-Fox Film Corporation: 1997.

Tron Lisberger, Steven. Lisberger/Kushner : 1982.

Voyage dans la lune Méliès, George. Star Film : 1902.

183 Y tu mama también Cuarón, Alfonso. Alianza Films International: 2001.

184 SITOGRAFIA http://www.cybercultura.it, consultato in data 12/02/2008 http://www.demauroparavia.it, consultato in data 31/01/2008 http://www.geppettogroup.com, consultato in data 3/02/2008 http://imdb.com, consultato in data 3/02/2008 http://www.manovich.net, consultato in data 12/02/2008 http://www.mediamente.rai.it, consultato in data 3/02/2008 http://www.noemalab.org, consultato in data 12/02/2008 http://www.poian.org , consultato in data 1/2/2008

185

186 FIGURE

Fig. 1 e 2 Playhouse di Janet Cardiff (1997)

Fig. 3 Movie Drome di Stan VanDerBeek (1965)

187

Fig 4, 5, 6 Padiglione Pepsi presso l’Expo di Osaka del 1970

188

Fig. 7 Primo ambiente CAVE in Europa

Fig. 8 The Visitor: Living by Numbers di Luc Courchesne (2001)

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Fig. 9 The Visitor: Living by Numbers di Luc Courchesne (2001)

Fig. 10 Kinoautomat di Raduz Çinçera (1967)

190

Fig. 11 Laterna Magika di Josef Svoboda (1958)

Fig.12 Deep Contact. The first Interactive Sexual Fantasy Videodisk di Lynn Hershman Leeson

191

Fig. 13 Let’s Make a Monster di Perry Hoberman

Fig. 14 Desert Rain di Blast Theory (1999)

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Fig. 15 Desert Rain di Blast Theory (1999)

Fig. 16 BodySPIN di Time’s up (1999 – 2000)

193

Fig. 17 Alphawolf di Synthetic Characters Group (2001)

Fig. 18 Run motherfucker run di Marnix de Nijs (2001 – 2002)

194

Fig. 19 Sally or the Bubble Burst (2002)

Fig. 20 Be Me di Max Dean e Kristan Horton (2002)

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Fig. 21 So.So.So. Somebody, Somewhere, Sometime di Maurice Benayoun (2002)

196