Piano Territoriale Provinciale di (ex art.12 L.R.9/86) RELAZIONE GENERALE DELLO SCHEMA DI MASSINA.

2.2.3. AREA PEDEMONTANA- IONICA.

Comprende 16 comuni che, dal punto di vista della ricerca delle fonti, si possono distinguere in due gruppi: 1. i comuni appartenenti alla Diocesi di (, Castiglione, Fiumefreddo, , , Mascali, e S. Alfio) che in antico fecero parte della contea di Mascali o furono possesso di altri feudatari, come il principe di Fonti per la loro storia si trovano presso l'Archivio Storico di Acireale, della Diocesi di Acireale e nell'Archivio Palagonia conservato presso l'Archivio di Stato di . 2. I comuni appartenenti alla diocesi di Catania (, , Bronte, , ) che appartennero ai Moncada o al demanio regio (Bronte, Maniace, Maletto) e poi ceduti come contea a Nelson. Fonti per la loro storia sono rappresentati dagli Archivi Moncada e Nelson conservati presso l'Archivio di Stato di Palermo e dall'Archivio della Diocesi di Catania. Fonte d'elezione per il territorio e` sempre il Fondo dell’intendenza dell'Archivio di Stato di Catania, nonché Milo, e .

2.2.3.1. ADRANO.

Diodoro Siculo (I secolo a. C.) fa risalire la prima origine di Adrano all'epoca di Dionisio il Vecchio, il quale, intorno al 400 a. C., fece erigere un castello in località prossima all'antico tempio consacrato alla divinità "Adranos". Il rinvenimento di considerevoli testimonianze archeologiche in differenti zone dell'attuale territorio adranita attesta, peraltro, la presenza di insediamenti risalenti all'VIII secolo a. C. Secondo V. Amico, Adernò ebbe una certa fioritura durante il periodo normanno, quando pare sia stata edificata l'imponente torre del maniero, che fu successivamente ampliato. Nel 1286 Adernò passò, per concessione regia, a Luca Pellegrino e da questi, come parte della dote della figlia Margherita, ad Antonio Sclafani. Il suo successore, Matteo Sclafani, fu nominato da Federico II d'Aragona primo conte di Adernò e Centorbi. La conseguente lite fra la famiglia di quest'ultimo e quella dei Peralta, i quali, in virtù dei legami parentali con gli Sclafani, avanzarono pretese sulla contea, fu appianata nel 1397. In quell'anno si giunse ad un accordo, poi ratificato da re Martino, fra Antonio Moncada e Nicolò Peralta Aragona, conte di Caltabellotta, il quale rinunziò ad ogni diritto su Adernò, sancendo, di fatto, il definitivo passaggio di Adernò ai Moncada. Durante il XVI secolo il paese conobbe una notevole crescita urbanistica parallela al progressivo incremento demografico corrispondente ai generali trends del periodo, passando dai 5118 abitanti censiti nel 1569 ai 6714 del 1603. Nel corso del secolo successivo l'epidemia di peste del 1623 e, soprattutto, il disastroso terremoto del 1693, che arrecò notevoli danni all'abitato,

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impedirono, invece, un ulteriore incremento della popolazione, che nel 1714 contava ancora 5181 unità e che riprese la sua crescita a partire dai successivi decenni (5433 abitanti nel 1747, 6623 nel 1798 e 7325 intorno alla metà dell'Ottocento). Dalla fine del XVI secolo, inoltre, la decisa affermazione di alcune famiglie (i Ciancio, gli Spitaleri ed i Guzzardi) nella lotta per il controllo del potere decisionale al livello cittadino conferma il prevalere di alcuni gruppi di interesse nella gestione delle risorse della comunità ed il conseguente consolidarsi degli equilibri interni alla società cittadina. Con le riforme amministrative borboniche del 1816-19 Adernò divenne Comune autonomo, capoluogo del circondario comprendente anche Biancavilla. L'attuale denominazione di Adrano fu sancita, per decreto dell'allora governo in carica, nel 1929.

2.2.3.2. BIANCAVILLA.

Il rinvenimento di numerosi reperti archeologici attesta la presenza di insediamenti umani nel territorio comunale a partire dal neolitico, ma le prime notizie documentate storicamente risalgono soltanto alla seconda metà del XV secolo. E', infatti, del 23 gennaio 1488 l'atto di concessione delle zone di Callicari e Poggio Rosso nel territorio della contea di Adernò ad un gruppo di greci-albanesi, che la conquista dell'Albania da parte dei turchi (1479) e le ripetute incursioni di questi ultimi in Epiro avevano indotto all'emigrazione in Sicilia. Il conte Giovanni Antonio Montecatena consentì ai profughi di creare una comunità autonoma, ma le competenze giurisdizionali del nuovo insediamento, del quale vennero definiti i confini territoriali all'interno dello stato di Adernò, non furono esplicitamente e rigidamente fissate. Soltanto dal 1680 si avviò in parte quel processo di caratterizzazione istituzionale al cui interno i naturali conflitti di competenza sorti con i centri limitrofi provvisti di una già consolidata fisionomia amministrativa furono progressivamente risolti delineando in modo chiaro le pertinenze decisionali biancavillesi. Parallelamente, i dati demografici registrano un considerevole incremento della popolazione (dai 712 abitanti censiti nel 1593 ai 1234 del 1651 ed ai 5645 del 1783), al quale corrispose un deciso sviluppo urbanistico, che si accompagnò a provvedimenti di risistemazione dell'assetto viario del paese. A seguito delle riforme amministrative borboniche del 1816-19, le quali decretarono l'istituzione di Biancavilla a Comune autonomo soggetto all'Intendenza di Catania, la configurazione prettamente borghese che l'élite dirigente locale era andata assumendo nei decenni precedenti si accrebbe ulteriormente, avviando un processo di parziale consolidamento degli equilibri interni alla società biancavillese. L'esistenza di schieramenti fazionari contrapposti ed in lotta per assicurarsi la gestione del potere decisionale al livello cittadino si palesò, tuttavia, in occasione delle crisi politiche del 1820-21, del 1837, del 1848 e del 1860. Gravissime per l'economia della comunità si rivelarono, in particolare, le conseguenze dei moti del 1820-21. Negli anni precedenti, difatti, il crollo del prezzo del grano, congiunto con l'altrettanto rilevante ribasso di quello dei salari, aveva indotto a concentrare gli

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investimenti sulla coltura del cotone. Nel corso della rivoluzione, però, le vicende militari e politiche impedirono la commercializzazione del prodotto nei mercati dell'Italia meridionale che, successivamente, incrementeranno notevolmente la loro produzione interna. Gli effetti maggiormente significativi di tutto questo si videro nella crisi della piccola proprietà e nella bracciantizzazione dei contadini. In questo contesto recessivo la questione della quotizzazione delle terre demaniali e della reintegra di quelle usurpate assunse una particolare pregnanza nel dibattito politico cittadino. La notevole esiguità del territorio comunale, peraltro, spingeva verso una politica di scioglimento dei diritti promiscui su tali terre, che provocò una serie di liti fra l'amministrazione locale e, principalmente, gli eredi del principe di Paternò, che si conclusero, nel 1845, con il definitivo riconoscimento del demanio comunale. Quest'ultimo venne successivamente suddiviso in lotti ed assegnato, previo pagamento di un censo, secondo modalità che contraddicevano in gran parte l'espresso dettato della legge al riguardo del 1839, che prevedeva la quotizzazione delle terre demaniali in favore dei meno abbienti. Ne derivò una forte conflittualità sociale, che perdurò fino agli anni cinquanta del XX secolo, quando le continue rivendicazioni contadine si conclusero con l'assegnazione di alcune terre rimaste, fino ad allora, al demanio.

2.2.3.3. BRONTE.

Il toponimo si lega alla tradizione mitologica della storiografia classica, che voleva l’isola abitata dai Ciclopi, di cui uno rispondeva appunto al nome di Bronte. I numerosi rinvenimenti archeologici nel territorio testimoniano, comunque, l’antichità dell’insediamento probabilmente dovuto ai Siculi e poi passato ai greci. Diversi pure i reperti d’epoca romana. Agli Arabi si deve l’importazione della coltivazione del pistacchio. Dall’epoca normanna la località, ricadente nel Valdemone, fu soggetta a Messina per l’esercizio della giustizia e successivamente a Castrogiovanni. almeno dal 1348 dipese poi da Randazzo come si evince dal testo del privilegio di Federico III che ordina "quod omnes concives ... Brontis in causis criminalis ... conveniri debeant in nostra curia ... Terrae Randacii". Un documento a firma di re Ruggero II del 1094 attesta per la prima volta l’esistenza del casale (agglomerato rurale) col nome "Brontimene". La successiva testimonianza ad oggi ritrovata risale però solo al 1345, quando si menziona il "loci de Bronte" al riguardo di un feudo concesso da re Ludovico a Manfredi Lancia. è comunque dopo quest’ultima data che le citazioni di Bronte appaiono in modo frequente. Divenuto possedimento del monastero di S. Maria di Maniace tra il 1471 ed il 1472, poi, in ragione dell’aggregazione di S. Maria all’Ospedale Grande di Palermo, il casale (agglomerato rurale) ne seguì la sorte. Bronte divenne università (città) demaniale per la riunione di 24 casali concessa con un privilegio di Carlo V probabilmente intorno al 1535 (come attesterebbe la differenza di popolazione riscontrata tra il 1535 ed il rivelo - censimento - del 1548). Essa però rimase dipendente da

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Randazzo, centro a capo della "comarca" (suddivisione esattoriale), per gli affari di giustizia. Nel 1548 contava 2.815 abitanti e la stessa cifra si manterrà - tra una carestia ed un’epidemia - sino al 1595. Nel 1636 i cittadini brontesi, guidati da Matteo Di Pace, insorsero contro gli ufficiali di Randazzo e si ribellarono alla corona di Spagna. I continui bisogni finanziari della monarchia offrirono comunque loro l’occasione di affrancarsi dal controllo di Randazzo e di ottenere, dietro un cospicuo esborso di denaro, il "mero e misto impero" (l’esercizio della giurisdizione). Nel 1639 Bronte attestava la presenza di 9.138 anime. Tra il 1651 ed il ‘54 il suo territorio subì diversi danni a causa delle eruzioni dell’Etna. Nel 1714 la popolazione era costituita da 6.936 abitanti. Durante il XVIII secolo la città si dotò di una propria insegna e si fregiò del motto "Brontis civitas fidelissima" (appellativo per altro comune a molti centri isolani). Nel 1739 "apparve gran fuoco nell’aria ... e si dileguò verso Randazzo, e Bronte, ed ivi si sentì con danno notabile terremoto". Del 1778 è la fondazione del collegio Capizzi, il suo primo istituto scolastico, intorno a cui si convogliarono notevoli interessi culturali. Nel 1799 Ferdinando IV donò l'abbazia di Maniace ed il territorio circostante all'ammiraglio Nelson, nominandolo duca di Bronte, come atto di riconoscenza per le vicende della guerra contro la repubblica napoletana. Nel 1817 compare nella lista dei comuni del neo-formato distretto di Catania. Partecipe dei moti del 1820 e del ‘48, Bronte rimane tristemente nota (anche nella memoria letteraria) per la sommossa del 1860, cui seguì la sanguinosa repressione - storiograficamente controversa - ad opera del Bixio. Nel 1951 una legge regionale scorporò parte del territorio appartenente alla ducea, intanto divenuta Nelson-Bridport. Nel 1981 il castello di Nelson venne acquistato dal comune di Bronte.

2.2.3.4. CALATABIANO.

Le origini del castello di Calatabiano si legano alle vicende della colonia greca di Naxos, e successivamente a quelle di Taormina. Da fortezza, venne trasformato in castello dagli arabi, da cui discenderebbe il toponimo "kalata Bian" vale a dire "castello" e probabilmente "suo signore". Intorno ad esso sorse quindi il borgo. Tuttavia di esso resta memoria documentaria a partire dal secolo XII. I Normanni lo elevarono a baronia e lo concessero, secondo certa tradizione storiografica, ai conti Pagano e Gualtieri de Parisio di Avellino fin dal 1135. Al suo territorio all’epoca apparteneva pure l’odierno Piedimonte etneo. La famiglia de Parisio lo detenne comunque intorno alla fine del XII secolo. Caltabiano pervenne poi per via maritale ad Arnaldo dei Monaldeschi. Questi lo cedette intorno al 1213 al vescovo di Catania, Gualtieri de Palearia e da qui in poi seguirono altre importanti investiture e ritorni al vescovado catanese. Dal 1282 con il Vespro passò al vescovado di Messina e si aprì una lunga contesa col vescovado di Catania. Nel XIV secolo l’abitato

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appare bipartito tra una zona alta (il castello) e quella sottostante (il borgo). Nel 1355 ritornò alla corona aragonese e si consegnò ad Artale Alagona. Nel 1357 la popolazione partecipò alla decisiva vittoria degli Aragonesi sugli Angioini, nel territorio di Aci. Vari e complessi furono i successivi avvicendamenti. Nel 1544, quando era possedimento della famiglia Mirulla, il castello subì un attacco piratesco. Venne acquistato verso la fine del Cinquecento dalla famiglia Gravina e Cruilles, che comprò pure Fiumefreddo.Nel 1593 il borgo di Calatabiano contava 848 anime. Dal 1629 i Gravina divennero principi di Palagonia. Il Seicento segnò fortemente la storia di Calatabiano. Diversi furono infatti i danni causati all’abitato dal terremoto del 1669, si ricordano inoltre gli scontri avvenuti sul suo territorio tra Francesi e Spagnoli nel periodo della ribellione di Messina (1674/78), ma soprattutto resta nella memoria il terremoto del 1693. Esso mandò in rovina il castello e segnò la scomparsa del borgo (vi furono almeno 100 morti), che venne riedificato nelle vicinanze. Calatabiano divenne comune nel 1813 con una popolazione di 1.360 anime. Nel 1837 vi imperversò un’epidemia di colera. Il centro fu partecipe dei moti del ‘48. Nel 1879 fu teatro di una insurrezione popolare, pare derivata dalla pressione fiscale, che causò la distruzione dell’Archivio comunale. Un’altra epidemia di colera nel 1887 fece svariati morti. Nel 1934 il comune si dotò di un proprio gonfalone.

2.2.3.5. .

Il toponimo trae origine dal latino "Castrum leonis", attestato anche nella forma "Castilionum" e si riferisce alla presenza nel sito di un presidio munito risalente, presumibilmente, all'epoca della colonizzazione greca dell'isola. Il castiglionese Antonio Filoteo degli Omodei, autore, nella seconda metà del XVI secolo, di una "Descrizione della Sicilia" e di una "Aetnae topographia", ne afferma l'esistenza sin dal 400 d. C. I successivi ampliamenti conferirono all'insediamento fortificato la configurazione cinquecentesca descritta dallo stesso Filoteo e consistente in tre castelli circondati da pochi caseggiati. Nel 1283 Castiglione, che fino ad allora era stata del demanio regio, fu ceduta a Ruggero di Lauria, passando poi, sotto Federico III, ad Enrico Rosso e, nel 1373, a Perrone Gioeni. Nel 1602 Tommaso Gioeni fu investito del titolo di Principe di Castiglione. Con il matrimonio fra Isabella Gioeni e Marco Antonio Colonna principe di Paliano (1641) il principato di Castiglione divenne possesso feudale della famiglia di quest'ultimo, dalla quale pervenne, nel 1803, a Giulio Rospigliosi Pallavicini, che aveva sposato Margherita Colonna. I dati pervenutici testimoniano un considerevole incremento demografico del centro fra la fine del XVIII secolo e la prima metà del XIX, durante il quale periodo esso passò dai 2847 abitanti censiti nel 1798 ai 3838 del 1831 e ai 4315 del 1852. Attorno alla metà dell'Ottocento l'economia castiglionese verteva principalmente sulla produzione cerealicola votata all'esportazione, oltre che sull'olivicoltura e sull'allevamento bovino ed ovino. Al medesimo periodo risale anche una discreta

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commercializzazione di bozzoli di seta per la produzione tessile artigianale. Con Regio Decreto del I luglio del 1847 il Comune di Castiglione fu elevato a capoluogo di circondario a decorrere dal gennaio 1848, separandosi dal circondario di Linguaglossa.

2.2.3.6. FIUMEFREDDO.

Il toponimo, di origine greca, risalirebbe al XII secolo e deriva dalla vicinanza con il fiume Alcantara, di cui è nota la rigida temperatura delle acque. La chiesa di S. Giovanni, allocata nella zona, fu donata in epoca normanna insieme al territorio circostante al vescovo di Catania e rimase possesso della chiesa catanese fino ai primi anni del XV secolo. Non è chiaro come avvenne il passaggio alla dominazione laica, attestata almeno dal 1408, come recita un documento di quell’anno. Pervenuto alla famiglia Zaccaria di Parisi, passò poi ai Lazari, ed infine venne acquistato, insieme a Calatabiano, da Girolamo Gravina. Restò possesso di quest’ultimo lignaggio - che ottenne il titolo di principi di Palagonia nel 1629 - sino all’eversione della feudalità. Nel 1817 fu incluso tra i comuni ricadenti nel distretto di Catania, appena costituito con la riforma amministrativa borbonica. A seguito dell’unità d’Italia, nel 1862 il centro venne chiamato Fiumefreddo "di Sicilia".

2.2.3.7. GIARRE.

Il toponimo si fa risalire a diverse origini, ma tutte accomunate dalla derivazione "giare": lo si vuole legato alla loro produzione, al ritrovamento fantasioso di una giara colma d’oro, lo si associa ancora ad una imposta vescovile sul commercio dell’olio o del vino, ed altre congetture simili. Al riguardo del periodo classico, vi è chi identifica il sito dell’odierna Giarre con quello della colonia calcidese di Kallipolis, sulla cui ubicazione non vi è tuttavia alcuna certezza. Il centro era ai suoi inizi una piccola borgata che faceva parte della contea di Mascali, di proprietà della mensa vescovile di Catania. Le prime edificazioni risalgono con ogni probabilità alla piena età moderna, circa intorno alla metà del XVI secolo: ne è riprova un lascito testamentario del vescovo di Catania, monsignor Caracciolo, che nel 1567 menziona il fondaco (magazzino) "delli giarri". venutosi a conformare in centro abitato, nel luogo ove oggi sorge la Matrice venne edificata nel 1680 la chiesa di S. Agata e S. Isidoro. Quest’ultima nel 1699 divenne "sacramentale" e ciò rese Giarre indipendente per gli affari spirituali. Lunghe le dispute con Mascali per la supremazia sulla contea, della quale Giarre aspirava a controllare l’amministrazione, anche in ragione della sua posizione assai favorevole ai commerci. Nel 1763 i padri Filippini vi fondarono un educandato (che dopo la confisca dei beni ecclesiastici a seguito dell’unità d’Italia, nel 1870 divenne sede del municipio); nel 1765 venne compiuto il primo passo verso

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l’affrancamento da Mascali: il centro ottenne infatti l’indipendenza giudiziaria. Come segno tangibile della sua crescente importanza, l’antica strada consolare che attraversava le odierne frazioni di S. Leonardello, S. Matteo, Macchia, Tagliaborsa ed il comune di Mascali, venne quindi fatta passare per Giarre nel 1768. le liti con Mascali, da cui il centro continuava a dipendere amministrativamente, ebbero una lunga storia. Nel 1815 Giarre divenne infine comune autonomo, tuttavia per la definizione del suo territorio si dovette attendere ancora qualche anno. Nel 1823 l’Intendente della Valle di Catania (suddivisione territoriale del periodo borbonico) comunicò finalmente al sindaco che "la linea di demarcazione fra i territori dei due Comuni di Mascali e Giarre sia la strada della Cotola ... sino alla intercezione della strada, che prima era consolare". All’epoca il comune ed il territorio di Giarre contavano una popolazione di 15.611 abitanti (comprese le frazioni di Riposto, Torre Archirafi, Macchia, S. Giovanni, S. Alfio, Milo, S. Leonardo, S. Matteo, Dagala e S. Maria La Strada). In seguito, il comune subì lo scorporo di Riposto, che divenne autonomo nel 1841. Successivamente si resero poi indipendenti S. Alfio, Milo e Dagala. Dopo una parentesi in epoca fascista, quando Giarre e Riposto furono dapprima riuniti e poi presero la denominazione comune di Jonia, la separazione tra i due municipi divenne definitiva nel 1945.

2.2.3.8. LINGUAGLOSSA.

Il toponimo Linguaglossa compare per la prima volta in un diploma del 1145 con il quale il re Ruggero stabiliva i confini della diocesi di Messina. Pare sia stata fondata da un gruppo di artigiani genovesi e lombardi che cominciarono a praticare l'estrazione della resina dai tronchi dei pini. L'eruzione del 1169 distrusse parte dell'abitato che la leggenda dice salvato da S. Egidio. Gli aragonesi la assegnarono a Ruggero di Lauria , ma caduto egli in disgrazia torno` ad essere città demaniale. Essa fu dominata per lungo periodo dai Crisafi (1392-1568), dai Cottone e dai Patti. Passata ad Orazio Bonanno(1606-30), quest'ultimo riuscì ad ottenere l'elevazione della terra a principato. Nel 1634 Filippo IV nomina Linguaglossa città libera e le concede il privilegio di nominare i propri ufficiali. La decadenza dei secoli successivi culmina nelle lotte, nel corso del XIX secolo, con i creditori messinesi che riuscirono ad ottenere una parte della pineta che poi sarebbe stata distrutta nel 1865 da un'eruzione. Durante l'impresa garibaldina Linguaglossa si distinse per l'appoggio prestato al generale.

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2.2.3.9. MALETTO.

Risale al 1263 l'atto di fondazione di una costruzione fortificata da parte del cugino del re Manfredi di Svevia Manfredi Malecta o de Malectas nel sito della "rocca del fano", la collinetta rocciosa dominante la vallata sottostante e la cui posizione strategica in relazione alla via che da Palermo conduceva a Randazzo ne determinò presumibilmente, tra il IX ed il X secolo, l'utilizzazione come presidio di avvistamento e di segnalazione da parte degli arabi. Nel 1386, dopo numerosi e complessi passaggi, Maletto passò a Rinaldo Spatafora. Nel 1420 Gerotta Spatafora ottenne l'investitura feudale del Castello e delle terre di Maletto, con la facoltà di popolarlo. Da quel momento inizia l'edificazione delle principali strutture urbanistiche, che vide uno dei suoi momenti maggiormente significativi, nel 1502, nella costruzione, successiva alla concessione rilasciata al riguardo dal vescovo di Messina, della piccola chiesa di San Michele Arcangelo annessa al palazzo baronale allora ancora in fase di allestimento. Nel 1619 Michele Spatafora Bologna venne insignito dal sovrano Filippo III del titolo di principe di Maletto e, nei successivi decenni, il paese fece registrare un deciso incremento demografico, grazie soprattutto ai numerosi privilegi fiscali concessi ai suoi abitanti ed alle considerevoli agevolazioni fornite dal principe a coloro i quali vi si stabilivano per metterne a coltura le terre. A quel periodo risalgono il disboscamento di gran parte del territorio malettese ed il conseguente impianto di vigneti. Il terremoto del 1693 provocò la distruzione delle mura più elevate del castello e di parte della chiesa di San Michele. Nel corso del XVIII secolo e nella prima metà del successivo si ebbe un notevole sviluppo della sericoltura, il cui periodo di maggiore floridità coincise, in parallelo, con un notevole incremento della popolazione malettese, che passò dalle 1.600 unità censite nel 1798 alle 2.130 del 1831 ed alle 2.570 del 1852. A seguito dell'abolizione della feudalità e delle riforme amministrative borboniche, nel 1818 Maletto divenne Comune autonomo. I moti rivoluzionari scoppiati, a più riprese, nella Sicilia della prima metà dell'Ottocento videro gli abitanti di Maletto schierati sempre in appoggio alle posizioni assunte dai vicini brontesi. Negli anni successivi la politica cittadina sarà dominata dalla rilevanza del dibattito sulla quotizzazione e sulla conseguente assegnazione delle terre del demanio comunale, al cui interno le istanze contadine si unirono alle rivendicazioni contro il pagamento dei censi, culminando, nel 1905, in un'aperta sommossa. A partire soprattutto dagli anni trenta del XX secolo il paese ha conosciuto un deciso ammodernamento delle proprie strutture urbanistiche, con il naturale parziale dissolvimento dell'originaria configurazione di borgo rurale.

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2.2.3.10. MANIACE.

Le più antiche notizie storiche pervenuteci sul sito dell'attuale Maniace risalgono all'epoca della dominazione araba in Sicilia (827-1091), quando esso veniva denominato "Ghiran-ad-Daquiq", ossia "Grotte della farina". Il toponimo "Maniace" fa, invece, riferimento al generale bizantino Giorgio Maniace, il quale, nel 1028, su incarico dell'imperatore Michele Paflagone che sperava di trarre vantaggio dai gravi e ricorrenti dissidi interni al popolo arabo, giunse in Sicilia alla testa di un numeroso esercito allo scopo di procedere alla riconquista dell'isola. Dopo essere sbarcato vicino Messina, egli iniziò la sua avanzata nell'entroterra, spingendosi fino al villaggio di Ghiran-ad-Daquiq, in prossimità del quale, nel 1040, le sue truppe riportarono una significativa vittoria sui saraceni. Secondo la descrizione datane dal geografo arabo Abu 'Abd Allah Muhammad al- Idrisi, la Maniace della metà del XII secolo era un villaggio ben popolato dalla florida economia legata all'esistenza di un vivace mercato e di un territorio molto fertile. In quell'epoca essa era retta da proprie istituzioni amministrative, alle quali era soggetta anche la piccola comunità di Bronte. La costruzione di Santa Maria di Maniace, che divenne in seguito uno dei più noti monasteri siciliani, pare sia avvenuta nel 1173 su espressa volontà della regina madre del sovrano Guglielmo il Buono. Nel 1188 l'abbazia basiliana di San Filippo di Fragalà fu aggregata al cenobio, originando una sorta di diocesi alquanto articolata all'interno della circoscrizione messinese. Successive calamità naturali indussero gli abitanti di Maniace, fra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo, a trasferirsi nel vicino casale di Bronte, del quale, pur mantenendo una distinta entità territoriale, essa seguirà per secoli le vicende storiche. L'abbazia venne, invece, ceduta, nel 1491 all'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, che ne divenne "perpetuum commendatarium" ed i cui rettori, esponenti dell'élite cittadina palermitana, iniziarono ben presto ad estendere la propria influenza sulla gestione dell'intera comunità brontese. Il terremoto del 1693 arrecò notevoli danni alle strutture del monastero. A seguito della donazione dell'abbazia e della città di Bronte all'ammiraglio inglese Orazio Nelson, avvenuta nel 1799, iniziarono i lavori di ricostruzione degli edifici annessi alla chiesa di Santa Maria di Maniace, che assunsero la configurazione di dimora dei duchi e la denominazione di "Castello di Maniace". Durante il XIX secolo la popolazione residente nel territorio maniacese fece registrare un considerevole incremento, non tanto in virtù del saldo naturale positivo, quanto grazie all'apporto derivante dalle continue migrazioni di contadini e pastori dalla vicina Tortorici. Nel corso della prima metà del Novecento la storia della comunità appare caratterizzata da una ricorrente conflittualità fra gli amministratori dei Nelson e ed i contadini maniacesi, che portò, fra il 1950 ed il 1966 ad una sostanziale ridefinizione dell'assetto fondiario delle terre della ducea in favore dei contadini e degli ex coloni. Il 19 novembre 1967, con l'elezione di un Comitato Cittadino a cui fu affidata la tutela dei diritti di Maniace, le

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decennali aspirazioni degli abitanti di quest'ultima verso un piena rappresentanza dei propri interessi all'interno dell'amministrazione brontese trovarono una prima realizzazione, il cui successivo passo fu la richiesta di elevazione di Maniace a frazione giuridica con una propria voce di spesa separata all'interno del bilancio finanziario del Comune di Bronte. Nel 1975 una consultazione referendaria conclusasi favorevolmente diede il via all'iter legislativo necessario all'istituzione di Maniace a Comune autonomo che, dopo una serie di dispute con l'amministrazione della città di Bronte, si concluse nel 1981.

2.2.3.11. MASCALI.

Il toponimo, secondo fonti d’età moderna, deriverebbe dall’arabo "Mascar" (campo). Altra tesi è quella della corruzione dell’antico "Macella", che darebbe forza all’ipotesi di un centro abitato almeno dall’epoca romana. La prima fonte di cui si ha notizia in cui viene menzionata Mascali sarebbe una lettera di S. Gregorio Magno, che attesterebbe l’esistenza della "Villa Mascalarum" tra il VI ed il VII secolo. L’insediamento viene comunque fatto risalire ai Normanni, di cui prova testimoniale è il pozzo ancora oggi esistente di S. Maria La Strada. nel 1124 il vescovo di Catania, Maurizio, divenne barone di tutto il territorio per concessione di Ruggero II. Il titolo di contea venne concesso nel 1540 da Carlo V che elevò il feudo a tale rango: il vescovo di Catania era allora mons. Nicola Maria Caracciolo, il quale ottenne il "mero e misto impero" (l’esercizio della giurisdizione). All’epoca Mascali era l’unica "universitas" (città) della contea e godeva di una amministrazione autonoma. La contea occupava una zona assai vasta che andava dal mare alla sommità dell’Etna e dal cosiddetto "Fiume Freddo" al torrente Mangano. Nel 1558 il Caracciolo stipulò un accordo con gli abitanti della contea da cui derivò una riorganizzazione amministrativa e sociale. Fu duramente colpita dal terremoto del 1693. Carlo III di Borbone creò una giunta (consiglio) per studiare l’assetto amministrativo e fiscale da dare alla contea. Nel 1757 la Regia corte la prese in enfiteusi (diritto di utilizzazione) per circa 2.800 onze annue. Nel 1815 il Parlamento siciliano "per le attuali urgenti circostanze ... delibera che si ceda alla detta S.M. la Contea di Mascali", sancendone il passaggio alla corona. Nello stesso anno Giarre, ex casale (agglomerato rurale) di Mascali, divenne autonomo. Tuttavia nella lista dei comuni ricadenti nel distretto di Catania, voluto dalla riforma amministrativa borbonica, Mascali e Giarre comparvero ancora come unica entità. Nel 1825 l’amministrazione della contea passò nelle mani del secondogenito di Francesco I di Borbone, il principe di Capua. Nel 1864 i beni della ex contea passarono infine all’amministrazione del nuovo stato nazionale. Nel 1928 il territorio subì una devastante eruzione vulcanica, che cancellò le antiche vestigia del passato cittadino: il risultato furono ben 5.000 abitanti senza tetto. La ferrovia Messina Catania venne interrotta e

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fu stanziato un milione di lire per i bisogni dei disagiati. Vi furono contrasti al riguardo al sito dove sarebbe dovuta risorgere Mascali, perché l’antica ubicazione non risultava più edificabile. Nel 1935 venne completato il primo simbolo della ricostruzione, la chiesa madre.

2.2.3.12. MILO.

Il toponimo deriva probabilmente dal greco "mela". Si tratta di un antico borgo che pare sia stato fondato da Giovanni d’Aragona, duca di Randazzo, nel tardo medioevo. Questi vi aveva fatto erigere la chiesa di Sant’Andrea prima del 1348 in qualità di priorato (beneficio derivato) della chiesa maggiore di Catania. Milo passò in potere di Simone da Randazzo nel 1391. Secondo quanto riportato da documenti d’archivio, si può affermare con certezza che il priorato di S. Andrea era ancora attivo nel XV secolo. Milo fece parte della contea di Mascali, di cui seguì senza modulazioni originali le vicende storiche. Non ebbe un particolare sviluppo a causa della sua posizione alle pendici dell’Etna, che lo fecero soggetto a svariate eruzioni e terremoti. A seguito dell’autonomia da Mascali, ottenuta da Giarre nel 1815, Milo divenne frazione di quest’ultimo centro. Dal 1923, formatosi il comune di Sant’Alfio, passò nel territorio di quest’ultimo. Venne a sua volta istituito in comune autonomo nel 1955.

2.2.3.13. PIEDIMONTE ETNEO.

Fondato da Ignazio Sebastiano Gravina Amato nel 1687, ebbe dal principe di Palagonia impulso alla crescita urbanistica e commerciale. Nel corso del '700 furono realizzate importanti opere pubbliche, quali la porta S.Fratello. Nel 1862 il consiglio civico aggiunse al nome Piedimonte l'appellativo Etneo.

2.2.3.14. RANDAZZO.

Le fonti documentarie pervenuteci non consentono di accreditare con ogni certezza l'ipotesi tradizionale secondo cui il primo nucleo abitato di Randazzo sarebbero identificabile con l'antica Tissa. Sembra accertata, tuttavia, la presenza di insediamenti umani nel territorio dell'attuale Randazzo a partire dal VI secolo a. C, come testimoniano i numerosi reperti archeologici risalenti a quell'epoca rinvenuti nelle contrade S. Anastasia e Mischi. Gli esiti di ulteriori campagne di scavo attesterebbero la persistenza di agglomerati abitati nelle epoche successive fino all'epoca della dominazione araba dell'isola, durante la quale Randazzo pare abbia assunto un rilevante ruolo strategico, mantenuto, in seguito, durante il periodo normanno, al quale risale l'edificazione del presidio munito e della cinta muraria. E fu proprio alla sua particolare posizione strategica nell'itinerario che, dall'interno dell'isola, portava da Palermo a Nicosia per poi diramarsi nelle due direzioni di Catania o Messina che Randazzo dovette la sua configurazione di città possesso del demanio regio e

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sottratta, per questo, alle infeudazioni. Il toponimo deriverebbe, secondo l'Amari (Storia dei Musulmani di Sicilia), da un patrizio bizantino degli anni 714-745, di nome Randàches. Esso compare per la prima volta in un diploma di Ruggero II del 1144, al quale segue, alla metà del XII secolo, un privilegio dello stesso Ruggero concernente gli abitanti di S. Lucia in territorio di Milazzo, i quali sono equiparati ai "lombardi Randacii". Esso proverebbe il precedente insediamento di una colonia di "lombardi" nel territorio randazzese, che si aggiunse ai preesistenti nuclei greco e latino. Attorno al 1154 il geografo arabo Idrisi descrive Randazzo come un villaggio "del tutto simile ad una cittadina con un mercato che pullula di mercanti ed artigiani", testimoniandone il particolare periodo di prosperità economica che il paese continuò a vivere nei successivi decenni, quando i sovrani aragonesi vi stabilirono, in diversi periodi, la propria dimora. La politica di alienazione dei beni del demanio, a cui i sovrani spagnoli furono indotti dalle pressanti urgenze finanziarie della loro politica internazionale, coinvolse la comunità randazzese in due occasioni, nel 1555 e nel 1630, quando essa scongiurò la minaccia di infeudazione attraverso il versamento di un'ingente somma nelle casse della Corona. I due episodi, pur inquadrabili nel contesto testé delineato, costituiscono evidenti segnali della crisi che la città attraversava da tempo, in conseguenza del declino della sua precedente posizione strategica dovuta allo sviluppo dei traffici costieri e del percorso interno alternativo che passava a sud dell'Etna. A questo si aggiungeva la contemporanea ascesa della vicina Bronte, che sottrasse a Randazzo parte del suo territorio, e la cui vivacità economica indusse molti randazzesi a trasferirvisi. La conseguente decadenza di Randazzo era evidente ancora alla metà del Settecento, quando l'Amico la descrisse come pressoché disabitata. La ripresa demografica dei decenni successivi, quando la popolazione randazzese passò dalle 4.487 unità censite nel 1798 alle 5.220 del 1831 ed alle 5.848 del 1852, provocò l'espansione dell'abitato e la conseguente dilatazione del suo impianto urbanistico, che si estese al di là del tracciato della cinta muraria medievale, e che fu notevolmente danneggiato dalle incursioni aeree alleate dell'agosto del 1943.

2.2.3.15. RIPOSTO.

La storia di Riposto è parte integrante di quella della contea di Mascali, di cui fece parte sino al XIX secolo. Il toponimo pare derivi da "ripostiglio" in ragione dei magazzini di vino presenti nella zona. Una leggenda locale narra del naufragio di un bastimento di Messinesi, i cui superstiti approdarono in un luogo dove ritrovarono il quadro della Madonna della Lettera (devozione assai antica in Messina) scampato all inabissamento della nave. Essi, grati della salvezza, avrebbero quindi fondato la chiesa omonima (1710) ancora oggi esistente. Nel 1819 Riposto contava 3.215 abitanti. Esso divenne comune autonomo con regio decreto del 17 aprile 1841, ma rimase soggetto a Giarre per gli affari di culto sino al 1869, quando la chiesa di S. Pietro divenne parrocchia. Nel

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1861 la sua popolazione raggiungeva le 6.419 anime. Del 1882 è la concessione regia dell’uso dello stemma civico. Dal 1939 al 1945 Riposto fu riunito a Giarre e per qualche tempo prese la denominazione, insieme all’altro comune, di Jonia. Tornò infine al suo stato autonomo ed oggi comprende le frazioni di Altarello, Archi, Carrubba, Quartirello, Torre Archirafi e Zummo.

2.2.3.16. SANT'ALFIO.

Il centro deve il toponimo al leggendario passaggio dei tre santi Alfio Filadelfo e Cirino, in una tradizione comune a quella di . Fece parte del territorio della contea di Mascali di cui seguì le sorti. Per la sua posizione fu fortemente condizionato nello sviluppo da eruzioni vulcaniche e terremoti. Nel XVII secolo lo si ricorda per la presenza di una torre difensiva. Nel 1815, col distacco di Giarre da Mascali, fu aggregato al centro resosi autonomo, di cui divenne frazione. Nel 1860 il suo territorio venne ripartito tra vari proprietari, ed una parte cospicua passò alla chiesa di . Divenne comune autonomo nel 1923 ed inglobò sino al 1955 la frazione di Milo, in precedenza ricadente nel territorio di Giarre.

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