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retabloid_fi1_web_13feb19.indd 1 13/02/2018 21:42:27 federico nicola laura armani cordeschi fusconi Intrusi Le olandesi volanti Il carnevale delle cimici 126 38 6

Federico Armani (Verona, Nicola Cordeschi Laura Fusconi (Castel 1992) si è laureato in (Roma, 1978) è dottore San Giovanni, Piacenza, Filosofia all’università di ricerca in Ingegneria 1990) lavora come grafica Cattolica di Milano con dell’informazione e editoriale. I suoi racconti una tesi su Max Stirner. della comunicazione. sono stati pubblicati su È autore di racconti, alcuni Vive e lavora fra Roma «effe», «Verde», «retabloid». tradotti negli Stati Uniti, e Milano e scrive Il suo primo romanzo e di programmi radio. racconti. è in fase di pubblicazione.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 2 13/02/2018 21:42:27 dante jacopo elisa impieri la forgia leoni Dark Room Congedo Berta 92 54 114

Dante Impieri (Torino, Jacopo La Forgia (Roma, Elisa Leoni (Bergamo, 1987) si è laureato a Roma 1990) si è laureato in 1988) è cresciuta a in Lettere moderne. Filosofia estetica con una Ambivere, un paesino Dopo un’esperienza da tesi magistrale su Infinite di duemila anime. Voland, ora è redattore Jest. Lavora come fotografo. Si è laureata in Filologia per minimum fax. Ha pubblicato racconti e moderna a Pavia. un reportage sul Kashmir È redattrice per indiano per Effequ. «Bergamopost».

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 3 13/02/2018 21:42:27 elvis ivan l. filippo malaj polidoro santaniello Legna per l’inverno Cane Trojan 32 140 76

Elvis Malaj (Malësi e Ivan Polidoro (Napoli, L. Filippo Santaniello Madhe, Albania, 1990) 1964), attore e regista, (Lugano, 1983) ha ha pubblicato racconti ha al suo attivo due pubblicato racconti per su varie riviste («effe», lungometraggi, Basta un «Playboy», «Verde» e Nero «retabloid») e nel 2017 niente (2006) e La sorpresa Press. Con la sceneggiatura la raccolta Dal tuo terrazzo (2015). Come scrittore ha di The Slider ha ottenuto si vede casa mia per pubblicato, nel 2011, Le una menzione ai California Racconti edizioni. coincidenze per 66thand2nd. Film Awards.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 4 13/02/2018 21:42:27 Pensavo che la cosa più bella al mondo fosse l’ombra, tutte le forme che si movevano a milioni e i vicoli ciechi d’ombra. —Sylvia Plath

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 5 13/02/2018 21:42:27 «Devi decidere i nomi.» «Li so già.» «Come si chiamano?» «Arianna, mamma e papà.» Il primo a morire fu papà: un mattino lo trovammo rovesciato in superficie. Arianna non pianse, rimase a picchiettare il vetro come se il pesce si potesse risvegliare. «È morto papà» mi disse. «Siamo rimaste solo io e te.»

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retabloid_fi1_web_13feb19.indd 6 13/02/2018 21:42:27 Arianna entra di corsa in camera e si lancia sul lettone. Ha imparato a salirci da sola, e guai se provo ad aiutarla. Si tiene ag- grappata alle coperte e si agita come un animaletto nell’acqua di una fontana. La maglietta del pigiama si arrotola fino a lasciarle scoperta la pancia; mi devo trat- tenere per non allungare le braccia e strin- germela addosso. «Mamma!»

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Riesce a tirarsi su e si siede davanti a me, i piedi neri e i capelli scom- pigliati. Il letto è un tappeto volante. «Non devi camminare scalza qui, non è come a casa.» La mia bambina si nasconde i piedi nelle mani e gonfia le guance prima di avvicinare il viso al mio. Mi soffia l’aria in faccia e io ar- riccio il naso e tengo aperto un occhio solo; sto per farle il solletico, come al solito, ma lei mi richiama all’ordine. «Mamma, è vero che dentro la mia bocca c’è un po’ di buio?» mi chiede, spalancandomela davanti. Tira fuori la lingua come avrebbe dovuto fare dalla pediatra la scorsa settimana. Non aveva ceduto per nessuna caramella o lecca-lecca, neanche per il Chupa Chups originale alla Coca-Cola con la carta a righe blu e azzurre. Guardo i suoi dentini, le gengive, la gola. «Sì, è proprio vero» le dico. Lei chiude la bocca e vedo i suoi occhi piantarsi nei miei, trion- fanti. «Allora non ho paura del buio perché ce l’ho anche dentro» dice, e in un attimo è già scesa dal letto. «Gioco ancora un po’ coi miei piccoli» mi fa, prima di sparire in corridoio.

Dovremmo essere su un aereo per New York e invece siamo a Campremoldo Sopra, nella casa dei miei genitori. Prima che nascessi, i miei vivevano a Piacenza, nella via che dal- lo stadio porta al parco della Galleana. Mia madre era una donna piccolina, coi capelli sempre raccolti e le guance tonde. Si affacciava alla finestra ogni volta che sentiva un’ambulanza. Si sono trasferiti a Campremoldo Sopra perché in città ne passavano troppe, di am- bulanze. Chissà a che ha pensato quando è arrivata quella per mio padre. La deve aver sentita da lontano, perché Campremoldo Sopra è solo un mucchietto di case, buttate alla rinfusa in mezzo ai campi, tra Piacenza e le valli. Le dissi di venire a stare da noi, a Milano. Riccardo era sempre in teatro o in giro per l’Europa a tenere master class e concerti.

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Alla proposta mia madre s’era messa a ridere. «Mi ci vedi me in una casa dove le luci si accendono da sole?» Rimase con la sua bicicletta a Campremoldo Sopra, nella casa do- ve ho imparato a camminare e da cui uscivo ogni giorno alle sei e venticinque per prendere l’autobus. La andavo a trovare tutti i weekend che potevo, con Arianna che scalciava prima nel pancione e poi dal seggiolino più costoso di Angel Baby. Mia madre mi raccontava del mercato di Agazzano e di certi suoi vicini che le portavano le uova e le crostate di more. «Tu la fai meglio la crostata di more.» «Non c’è più nessuno che me lo dice, non ho più gusto a farla.» «Ma ci sono io mamma, c’è Arianna.» «Vedi di tirarla su bene; se non le piacciono le more vuol dire che hai sbagliato tutto.» E se la prendeva sulle ginocchia, le cacciava in testa quelle sue cuffiette di lana dai colori pastello; ogni settimana ne faceva una nuova. «L’ho comprata dalla Mariuccia questa lana, senti com’è mor- bida!»

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«Ma è estate, mamma.» «Che importa? Bisogna stare pronti.» Era una delle sue frasi preferite: bisogna stare pronti. Non ero neanche sicura che fosse corretta grammaticalmente. La diceva in continuazione: quando per andare in paese si portava l’ombrello an- che se in cielo non c’era una nuvola, quando insisteva per farsi gon- fiare le ruote già gonfie della bicicletta, quando leggeva sui giornali che lassù in Groenlandia morivano gli orsi polari. E, soprattutto, quando a luglio cacciava in testa ad Arianna le cuffiette di lana. Arianna le scagliava a terra con le sue dita minuscole tutte arricciate e mia madre le raccoglieva e gliele infilava sui piedi e Arianna rideva e faceva ridere anche noi.

Mia madre è morta una mattina d’agosto mentre stava nell’orto. La trovò il postino, l’ometto grasso che ogni giorno si fermava con lei a fare due chiacchiere. «Mi fa la corte!» rideva mia madre. «Mica si accorge che non sono più una signorina!» La trovò con gli stivali da lavoro e la faccia nella terra. In mano stringeva una pianta di patate. Bisogna stare pronti. Accanto alla poltrona della sala c’era la cesta dove teneva le cuffiette di lana. Ho potuto contare i weekend che non sono andata a trovarla. «Cosa ti ricordi della nonna Giovanna?» «Niente» mi ha sempre risposto Arianna. Ma la settimana scorsa, durante il solito teatrino per convincerla a mangiare la carota, mi ha gridato addosso: «Voglio quelle della nonna Giovanna, erano molto più buone».

«Mamma, è vero che dentro la mia bocca c’è u n p o’ di buio?»

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Cercavi sempre le più piccole, avrei voluto dirle. E volevi tenerle tutte tu, guai se la nonna provava ad aiutarti. Ti piaceva tirar fuori dalla terra quelle contorte, che coi loro nodi sembravano vive. Ma non le ho detto niente, ho preso la carota che le avevo pelato e l’ho mangiata io.

Ho pulito la casa come meglio potevo. Dopo aver aperto le finestre ho lavato il pavimento, cambiato le lenzuola, spolverato i mobili e gli scaffali. Arianna si è fatta legare i capelli e mi ha seguito per tutto il tempo. «Che cosa puliamo adesso, mamma?» Un gioco che non avevamo mai fatto. Non le pareva vero di stare con le mani nella polvere, di potersi sporcare i vestiti senza che io mi arrabbiassi. «Perché non lo facciamo anche a casa?» «Lo fa Luisa a casa.» «Non chiamarla più, voglio farle io le pulizie.» Il mocio è un cagnolino che scivola sulle piastrelle, gli specchi sono lavagne su cui disegnare con le dita. «Questa era la nonna Giovanna?» «Sì.» «Perché sorride così tanto?» «Non riusciva mai a stare seria quando le facevano le foto.» «E questo è nonno Enrico?» «Proprio lui.» «Non l’ho mai visto perché è andato in cielo, vero? Chi è quella bambina?» Io, sono io quella bambina grassa con le orecchie a sventola. Non guardarla, è brutta. Tu sei molto più bella, sei così bella che non ci volevo credere all’inizio che eri proprio mia. Ho raccolto tutte le fotografie sparse per la casa, tutte le cornici dell’Ikea che mia madre mi aveva fatto colorare con le tempere e le ho messe nel primo cassetto della credenza in corridoio. «Perché le nascondi lì?»

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«Per pulire meglio in giro.» «Non vuoi più vedere la nonna Giovanna?» «No, mi fa diventare triste.» Arianna mi si attacca alle gambe. «Non diventare triste, mamma.»

I piccoli sono arrivati il secondo giorno, le cimici anche. Posso accarezzare gli scarafaggi, catturare le cavallette, prendere i ragni con le mani. Ma con le cimici ho un limite. Sarà per la puzza che sparano fuori quando muoiono, o per il rumore insopportabile che fanno mentre volano: sembra sempre stiano per caderti addos- so, perché loro non planano, precipitano. Smettono di sbattere le loro schifosissime ali all’improvviso e plof, giù a peso morto. Il secondo giorno la casa era piena di cimici. Sono entrate dalle finestre che fino a quel momento avevano trovato chiuse. Ne ho pestata una mentre ero in bagno a piedi nudi: ho urlato come se qualcuno mi stesse per sgozzare. Arianna si è precipitata da me piangendo e quando le ho spiegato che era solo una cimice, che doveva star tranquilla, ha giurato guerra a tutte le cimici del mondo. «Ti proteggo io, mamma.» Ha tirato fuori dalla credenza i barattoli Bormioli che mia ma- dre usava per le conserve e ha iniziato a intrappolarci sotto le cimici. Non le ho detto niente. Trovo i barattoli con le cimici ovunque, per casa: sono sul ta- volo, sui comodini, sul ripiano del bagno, sul pavimento. Ieri ne ho trovato uno tra i cuscini del divano, per poco non lo rovesciavo. Quando sono certa che la cimice sia morta la spingo con uno scot- tex in un sacchetto di plastica e la butto via. I piccoli sono cinque e mi arrivano tutti alla vita. Giocano sotto il tavolo mentre cucino, a volte li urto per sbaglio e li faccio cadere. «Mamma, attenta! I miei piccoli!» Non hanno nomi, a parte uno, che è femmina e si chiama Liv. Liv è la più bella e la più dispettosa, è quella che si lamenta sempre, qualsiasi gioco io proponga di fare e qualsiasi cosa io prepari da

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mangiare. Non le vanno bene i libri che leggo, non le piacciono i disegni che faccio e nemmeno i vestiti che metto ad Arianna. Ha gli occhi blu come mia figlia e gli stessi capelli ricci. «Io e Liv siamo come gemelle.» I piccoli vogliono fare il bagno con Arianna e dormire con noi nel lettone. Non mangiano tanto e hanno tutti gli stessi gusti di mia figlia, tranne Liv. Ho convinto Arianna a lasciarli a casa quando andiamo ad Agazzano a fare la spesa, perché non ci starebbero sei seggiolini in macchina. «Può venire con noi solo Liv, lei non ha bisogno del seggiolino.» «Perché?» «Liv è più grande.» Ho provato a chiedere ad Arianna da dove vengono questi pic- coli, ma lei è sempre rimasta sul vago. «Erano qui da tanto tempo.» «Qui in casa?» «Sì.» «Io non li ho mai visti.» «Ma non si facevano mica vedere, mamma, avevano paura!» Ho pensato che forse avrei dovuto prendere ad Arianna il cane che ha sempre voluto. L’anno scorso continuava a chiederlo, ma io non avevo nessuna intenzione di prendere un animale da portar fuori a orari impossibili. Allora passò a volere un gatto, ma non avrei comunque resistito una settimana tra peli e lettiere da pulire. Niente cane, niente gatto, niente coniglio, niente pappagallo, nien- te criceto. Le ho preso tre pesci rossi, mi sembravano innocui nel loro acquario. Scegliemmo quelli più grassi, con le pinne più setose. «Devi decidere i nomi.» «Li so già.» «Come si chiamano?» «Arianna, mamma e papà.» Il primo a morire fu papà: un mattino lo trovammo rovesciato in superficie. Arianna non pianse, rimase a picchiettare il vetro come se il pesce si potesse risvegliare. «È morto papà» mi disse. «Siamo rimaste solo io e te.»

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«Sei sicura che fosse papà?» «Sì.» Mamma morì durante le vacanze di Natale. «Sono rimasta da sola.» E poi una mattina io e Riccardo fummo svegliati da Arianna che, con la faccia lustra di moccio e lacrime, batteva i pugni sul lettone e si tirava i capelli. «Sono morta!» gridava. «Sono morta anch’io!» Ci mettemmo un’eternità a calmarla – e a capire. «Mamma, ricomprami» mi diceva con gli occhi a palla. «Ri- comprami, per favore.»

Fisso lo schermo del cellulare. La foto di un acquerello che avevo fatto anni fa: un albero spoglio al centro di un campo innevato. Sono le venti e trentanove quando Arianna si affaccia alla porta della stanza. «Mamma, devo fare la cacca» annuncia. Appoggio il telefono sul comodino.

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«Adesso?» «Sì, adesso subito.» Mi alzo dal letto e mi infilo le ciabatte. «Andiamo.» «Vengono anche i miei piccoli.» Ho lavato e strofinato le piastrelle del bagno ogni giorno da quando siamo qui, ma resta comunque sporco. Perfino gli specchi sembrano aver mangiato la polvere, e i piedini ad artiglio della va- sca da bagno sono tutti ossidati. Mi hanno sempre fatto senso. Da piccola odiavo fare il bagno, avevo paura che la vasca si richiudesse a cerniera sopra la mia testa e zampettasse via. Faccio per mettere Arianna sul water ma lei si tira indietro e cen- tuplica il suo peso come fa quando non vuole essere presa in braccio. «Prima i miei piccoli!» strilla. «Devono fare la cacca anche loro.» Prendo un piccolo e lo metto sul water. «Così?» «Sì.» «Dimmi quando ha finito.» «Ha finito!» Riprendo il piccolo e lo metto giù. «No! Non l’hai pulito, mamma!» Stacco un pezzo di carta igienica e pulisco il sedere al piccolo di mia figlia. «Adesso va bene?» «Sì, ora gli altri.» Ripeto l’operazione altre tre volte, sotto lo sguardo attentissimo di Arianna. Sto per prendere l’ultimo, ma Arianna mi ferma. «No, Liv non vuole.» «Perché?» «Si vergogna.» «Come si vergogna?» «Non vuole che le vedi il sedere.» «Dille che non guardo.» «Ma poi non vedi dove la metti!»

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«Me lo dici tu.» «Ok.» Chiudo gli occhi e mi lascio guidare da Arianna. «Un po’ più di lì… no!» ride. «Dall’altra parte!» «Qui?» «Nooo!» Faccio il pagliaccio e agito le braccia, ma Arianna lancia un grido. «Sei matta, mamma?» Apro gli occhi. «Scusa, adesso la metto sul water.» «No, le hai fatto passare la cacca.» Non rido solo perché Arianna mi guarda con la stessa gravità che di solito riserva alle sue bambole quando non le ubbidiscono. «Posso aiutare te adesso?» «No, non mi scappa più neanche a me.» «Sei sicura?» «Sì.» La prendo per mano, ma lei me la toglie con un gesto secco e mi precede lungo il corridoio.

A quest’ora dovremmo essere in fila al gate e invece siamo abbrac- ciate nel letto dei miei genitori. La stanza sta dondolando, sento i piccoli che saltano sul materasso. Ho diciassette anni, i miei sono usciti e Riccardo è in piedi accanto alla finestra. «È carino qui.» «Non è vero, non lo pensi.» «Sì invece… è solo—»

«Cosa ci metti nella tua musica?» I suoi autobus, le sue mattine, le medie a Foggia, le litigate a casa. «Voglio suonare il flauto.»

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«È solo cosa?» «Molto silenzioso.» Gli lancio un cuscino. «Torna da dove sei venuto.» «Non ci penso proprio.» Mi leva i vestiti e mi parla del mercato di Stornarella, delle vicine che si gridano addosso per le scale, della madre che rimprovera il rossetto troppo volgare alla sorella e del padre con la televisione alta perché è sordo da un orecchio. «Cosa ci metti nella tua musica?» I suoi autobus, le sue mattine, le medie a Foggia, le litigate a casa. «Voglio suonare il flauto.» «Ma è uno strumento difficilissimo il flauto. E non se lo fila nes- suno. Scegli la chitarra! Vedrai quante ragazze ti correranno dietro, se suoni la chitarra!» «Voglio suonare il flauto.» Stava sempre sui sedili davanti, ché da Stornarella a Foggia ci sono le curve e una volta aveva vomitato la colazione sul finestrino del pullman. A quattordici anni ha lasciato tutto. «La zia Piera vive a Piacenza. Le scuole del Nord sono migliori delle nostre, c’hanno un’altra mentalità là. Ma devi fare il liceo, non andrai da nessuna parte con quel tuo piffero.» Da Stornarella a Piacenza. Piacenza che sembrava l’America, quel Nord tanto sognato, dove la gente andava in giro vestita ele- gante e viveva dei propri talenti. Arrivato qua s’è iscritto al conser- vatorio e ha litigato coi genitori. «Voglio suonare il flauto.» Da Stornarella alla copertina di «falaut». Io l’ho conosciuto all’Irish pub, una mattina che avevo fatto sega a scuola perché c’era il compito in classe di storia dell’arte e non avevo studiato. Se ne stava sul divanetto all’angolo e leggeva spartiti sottovoce, tutto concentrato, coi capelli neri schiacciati sulla fronte. Gli ho fatto un ritratto su un tovagliolo e mi sono innamorata di lui. Non so in che ordine.

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«Ciao» gli ho detto. Lui ha alzato gli occhi dai suoi fogli. Non mi ero accorta che ce li aveva così azzurri. Magrissimo. Con la faccia scarna e l’aria malata che a quell’età mi faceva perdere la testa. Io in piedi coi miei capelli verdi di allora, il chiodo e l’Eastpak pieno di frasi di canzoni tristi e disegni a bianchetto. «Hai fatto sega anche tu?» Aveva l’esame di solfeggio. Sega non l’aveva mai fatta e neanche l’avrebbe fatta mai. Nemmeno quando gli proposi di prendere un treno per festeggiare il suo compleanno a Parma. Passava tutto il giorno al conservatorio. A casa della zia Piera non poteva suonare, per cui rimaneva in un’aula vuota finché il bidello non lo sbatteva fuori. E allora andava all’Irish pub e tirava fuori i suoi libri. Io lo raggiungevo ogni giorno. Una volta ho fatto tardi in classe, dovevo assolutamente finire un disegno, e quando sono uscita me lo sono trovato accanto al cancello, con la sua cartella di seconda mano e la custodia del flauto stretta al petto. Mi disse che non mi aveva vista all’Irish e io gli dissi che ero innamorata di lui. Ci mettemmo insie- me. Aveva diciott’anni, io diciassette. Di musica classica non capivo

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Se ne stava nel divanetto dell’angolo e leggeva spartiti sottovoce, tutto concentrato, coi capelli neri schiacciati sulla fronte. Gli ho fatto un ritratto su un tovagliolo e mi sono innamorata di lui. Non so in che ordine.

niente, ma mi piaceva ascoltarla con lui. Mi piaceva quando suo- nava per me, lui in piedi, io stesa sul letto di casa mia; quando mi parlava di Chaminade e di Prokof’ev, e mi trascinava al Municipale a vedere concerti che non capivo ma che mi facevano sentire parte di una nostalgia più grande. Uscì dal conservatorio col massimo dei voti. Poi i concorsi, le lezioni private e quelle da tutor. Vinse il concorso alla Cherubini: salutò la zia Piera e affittò un bilocale in via Pietro Giordani. Io dormivo da lui, convivemmo senza dircelo per anni. Andavamo d’accordo. Siamo sempre andati d’accordo: i nostri silenzi s’inca- stravano. Dopo il liceo m’iscrissi all’accademia di Brera. Stavo con Riccardo durante la settimana e i weekend, se non c’erano concerti, tornavo a Campremoldo Sopra dai miei genitori. Avrei potuto con- tinuare così per sempre. E poi Jacques Ibert. Un concerto per flauto solo e orchestra che suonò con la Cherubini alla Scala. C’era Raphael Dal Ponte tra il pubblico. «Chi?» «Il direttore dell’orchestra della Scala, Monica!» Un messicano con la pancia e i baffi sottili, che a fine concerto disse a Riccardo: «Sentiamoci». Lo chiamò a Milano per suonare lo stesso concerto con l’orche- stra giovanile della Scala. Andai anch’io, minuscola nel teatro, con gli occhi lucidi che scoppiavo d’orgoglio: avrei voluto gridarlo al

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mondo che ero io, la sua donna. C’erano tutti i musicisti dell’orche- stra principale, Riccardo me li aveva indicati uno per uno. Guardavo le loro espressioni e i loro doppi menti. Finito il concerto andarono in tanti a stringere la mano a Riccardo. Andò anche il primo flauto, sessantacinque anni e un cancro alle corde vocali, che lo prese da parte e gli disse: «Tra qualche mese sarò costretto a ritirarmi. Ci sarà un concorso­. Preparati». E Riccardo andò in tilt. Mollò la Cherubini. La mattina si al- zava con gli occhi sbarrati senza aver dormito. Io iniziai a lavorare all’Irish la sera, per riuscire a pagare l’affitto. Rimasi indietro con gli esami. «Sarà solo per qualche mese» mi disse Riccardo. «Fidati di me.» Uscì il concorso, uscirono i dieci passi d’orchestra da preparare. «Me ne chiederanno tre.» Parlava solo di quello: dell’Orfeo e Euridice di Gluck, della sinfonia numero quattro di Schubert, dell’overture numero tre di Beethoven, del Guglielmo Tell di Rossini. E, soprattutto, del Carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns. «Se mi chiedono quello sono finito.» Era il più difficile di tutti, diceva. Lo provava ogni giorno. A me il nome metteva allegria. Ogni strumento è un animale diverso: il violoncello il cigno, il contrabbasso l’elefante, i pianoforti i canguri, il clarinetto il cuculo. Il flauto deve inseguire gli uccelli che volano impazziti, la massima rappresentazione di libertà. A mano a mano che si avvicinava il giorno, Riccardo divenne sempre più simile a quelle persone di paglia che incontravo sul tre- no delle 7,08. A casa non c’era, viveva al conservatorio, o in giro, per le strade. Andava sull’argine del Po, e non tornava mai prima di mezzanotte. Era gennaio, faceva un freddo cane. «Ho bisogno di un silenzio perfetto per capire cosa devo suona- re» diceva, e lo cercava in mezzo alla nebbia. Arrivò il giorno del concorso: si presentarono in quarantacinque. Avrebbero suonato uno alla volta sul palcoscenico, dietro a un telo, in modo che la commissione non potesse riconoscerli.

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A Riccardo chiesero il Rigoletto e l’Orfeo e Euridice. Ti amerò per sempre. Sì, anch’io ti amerò per sempre. Come ultimo pezzo gli chiesero Il carnevale degli animali. «Com’è andata?» Io ero fuori dal teatro, me lo vidi arrivare con la testa bassa e le guance rosse. Andammo in un locale di Brera e ci ubriacammo di birra e per poco non perdemmo l’ultimo treno per Piacenza. Una volta a casa facemmo l’amore sulle scale del palazzo, ché non ce la facevamo più ad aspettare. Lo richiamarono dopo un mese. Aveva ventisei anni, ciuffi di capelli bianchi sulle tempie e un contratto da settantamila euro. Ci trasferimmo a Milano. Non dissi nulla, piansi solo qualche volta, di nascosto, perché non potevo farmi vedere: avevamo una casa stupenda, con uno di quei giardini che da fuori non diresti mai, e delle vetrate che quando pioveva stare a guardare le strade di Brera era una meraviglia. Avevo il mio studio, i miei acquerelli, un sacco di tempo libero. Era ancora tutto di là da venire, la morte di mio padre, i po- meriggi passati a fissare il muro e le serate dopo i concerti, in pub pettinati che facevano rabbrividire quel poco che era rimasto della me coi capelli verdi e il chiodo. Arrivarono gli articoli su «falaut», le copertine, le critiche. Quando leggeva qualcosa di brutto sul suo conto si chiudeva e non parlava per giorni. «Sono solo gelosi» gli dicevo io. Il primo flauto più giovane di tutti i tempi. Troppo giovane. Troppa poca gavetta. Ne era all’altezza? Riccardo Lo Bianco, il ri- voluzionario. Cos’aveva rivoluzionato? I suoi amici non mi piacevano. A stento mi rivolgevano la paro- la, nelle serate in cui li raggiungevo dopo le prove. «Monica dipinge» diceva Riccardo, e loro annuivano e mi face- vano domande di musica a cui non sapevo rispondere. Scoprii di essere incinta il giorno in cui Riccardo venne chia- mato come ospite solista dalla Berliner Philharmoniker a suonare il concerto di Nielsen opera Fs 119. Era solo l’inizio: lo volle la

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London Symphony Orchestra all’apertura del festival di musica ba- rocca, e lo volle la LA Phil a suonare il concerto per flauto solo di Mozart K313 in sol maggiore. Fu a Los Angeles che conobbe Sophia Donovan. L’arpista della Phil. La invitò a suonare assieme a lui alla chiusura della master class che stava tenendo al conservatorio di Milano. E lei venne, e suonarono il concerto di Mozart per flauto, arpa e orchestra K 299. Lei era d’una bellezza che faceva male guardarla: lo spacco del ve- stito, i riccioli neri tirati su per lasciare che le luci del palco le scivo- lassero sulla schiena, lo smalto che luccicava tra le corde, le gambe tese che stringevano l’arpa. Non sorrise mai: ogni tanto piegava la testa di lato e alzava gli occhi lentamente, come se fosse indecisa se svelarti un segreto oppure no. Nella cadenza del secondo movimento iniziò a mancarmi l’aria. Flauto e arpa, nessun altro strumento. Era talmente perfetto. Mi sarei messa a urlare, solo per interromperli. «Ti è piaciuto?» mi chiese Riccardo, a fine concerto. «Tantissimo.» «Andiamo a bere qualcosa con gli altri, ti va?» Ero solo al terzo mese, ma già mi sentivo ingombrantissima. «Certo.» Sophia Donovan tra la gente aveva la stessa grazia che aveva sul palco. Forse speravo che senza quell’arpa tra le cosce fosse una persona qualsiasi, e invece non riuscivo a smettere di guardare le sue unghie perfette sulla coppa del bicchiere e le sue gambe acca- vallate sotto il tavolo. S’era sciolta i capelli, quando rideva sapeva di shampoo. «Sono stanca» dissi a Riccardo a un certo punto. Ancora non sapevo che l’avrebbe invitata ogni anno, a fine novembre, a suonare sempre lo stesso concerto. Tornammo a casa senza parlare e quando facemmo l’amore quella notte, mi sentii goffa come una cimice che sbatte nell’angolo di una finestra che crede aperta. Arianna nacque a maggio. Riccardo la toccava poco, ma restava a fissarla per ore. I primi mesi si preoccupava per tutto.

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«Non avrà freddo?» «Ha vomitato due volte.» «È pallida.» «Se la portassimo dal medico?» «Non ha mangiato troppo?» Quando Arianna piangeva, Riccardo suonava il flauto e lei si cal- mava. A volte si addormentava di colpo tra le mie braccia. «Saremo capaci?» mi chiedeva Riccardo. Poi morì mia madre e io non riuscii più a sbucciarmi la frutta da sola e nemmeno a zuccherare bene il tè.

Arianna si tira su a sedere, la schiena contro il cuscino e le braccia incrociate. «Non riesco a dormire, voglio un pupazzo.» Chiudo gli occhi per un secondo prima di scostare il lenzuolo: il suo tono è quello di quando vuole essere noiosa apposta. «Quale vuoi?» «La tartaruga.» La tartaruga. Mi alzo e vado nella camera dove abbiamo messo i giochi a prenderle la tartaruga, quella che le ha portato Giacomo Vincini dal Messico. «No! Non questa tartaruga!» urla, non appena mi vede rientrare. «Voglio quella fucsia che perde il pelo!» Quella che l’altro giorno mi aveva detto di buttare perché non le piaceva più; ma alla fine aveva cambiato idea, perché «tutti i pupazzi meritano di essere amati». «A Liv piacciono i pupazzi brutti» aggiunge. Le porto la tartaruga fucsia che perde il pelo e ci rimettiamo a letto. «Mamma» mi dice dopo pochi minuti. «Questa tartaruga puzza, voglio Nemo.» Nemo. Vuole Nemo. «Mamma, hai sentito?» «Sì, la mamma ha sentito. Non lo puoi andare a prendere tu?»

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«No, perché Liv sennò si mette vicino a te.» «Ti tengo il posto io, amore.» «Ma Liv me lo ruba lo stesso, lo sai com’è Liv.» «No, non lo so com’è Liv.» «Come non lo sai?» Mi sento una madre pessima. «Ti vado a prendere Nemo.» «Grazie, mamma.» Quando glielo porto se lo stringe al petto tanto forte che gli occhi di plastica potrebbero schizzarmi contro. Spengo la luce e rimaniamo in silenzio al buio. «Mamma.» «Sì.» «Non riesco a dormire.» Non dico niente per qualche secondo. «Mamma» insiste. «Se chiudi gli occhi vedrai che il sonno arriva.» «Mi canti la ninna nanna?» Nascondo la faccia nel cuscino. «Quale vuoi?» «Una volta A come armatura e cinque volte Ninna nanna, ninna oh.» «Come cinque?» «È cortissima!» Mi giro su un lato, appoggiandomi al gomito. Arianna ha i ca- pelli sparsi su tutto il cuscino, ne ha tantissimi. Mi guarda nella penombra con gli occhi spalancati, stringendo nel pugno la pinna di Nemo. «A come armatura» le inizio a cantare a bassa voce. «B come bravura, C come canaglia che con me verrà in questura, D come diamante, E come elefante.» «Mamma, canti troppo piano! Così non vale, devi ricominciare da capo.» Nella mia testa grido la F, la G, la H, la I. Ninna nanna ninna oh, buongiorno signora befana, questa bimba la preferisce lei una settimana

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o la vado a portare direttamente all’Uomo Nero che è più sfortunato e se la deve tenere un anno intero? Amore, amore, amore. Siamo minuscole, noi due e Nemo. Il letto è un’isola, un deltaplano, un sottomarino. Siamo salve, siamo al sicuro qui. Nessuno ci troverà mai. «Mamma.» «Dimmi.» «Ho sete.» Lo so. Lo so che ha detto così solo perché ha visto che sul como- dino non c’è la brocca dell’acqua, ne sono sicura, sicurissima. «Vai a bere in bagno dal rubinetto.» «Non la bevo l’acqua schifosa del rubinetto.» «Perché non hai bevuto prima?» «Prima non avevo sete.» «Vieni giù con me.» «No, ti aspetto qui.» «Ma non hai paura a restare da sola?» «Non sono da sola: ci sono i miei piccoli.» «Dove sono?» «Si sono messi tutti nel letto.»

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«Digli di lavarsi i piedi.» «Perché?» «Non camminano sempre scalzi?» Arianna ci mette un po’ a rispondere. «Sì, hai ragione.» Scendo le scale. Non uscivo mai dal letto quando ero bambina in questa casa. Neanche se mi scappava la pipì da impazzire. Ricordo che bagnavo il letto, che mio padre mi sgridava e che i mostri ride- vano da dietro gli armadi. «Non è possibile che alla sua età se la faccia ancora nel pigiama.» «Perché non vai in bagno?» «Che cos’hai che non va, Monica?» «Ti portiamo dal dottore dei bambini se non la smetti.» Il dottore dei bambini era peggio dei mostri che ridevano da die- tro gli armadi. Era l’incubo degli incubi, nel suo camice stirato, con la valigetta lisa da cui tirava fuori a uno a uno tutti gli strumenti di tortura. Avevo il terrore di ammalarmi, di sentirlo salire le scale coi suoi passi misurati che avrei riconosciuto tra mille. Il dottor Parietti. Le sue mani fredde e ruvide che mi premevano il collo quando dice- va che avevo le ghiandole infiammate. Ero sicura che avrebbe stretto fino a strozzarmi, là nel mio letto pieno di microbi; immaginavo che mi prendesse le ghiandole tra indice e pollice per schiacciarle come mirtilli. La pediatra di Arianna è una donna. Si chiama Benedetta e ha una voce squillante che rimbalza da una parte all’altra del suo studio ogni volta che parla. Mentre sto versando l’acqua per Arianna nel suo bicchiere di plastica con i pallini rossi, sento il ronzio di una cimice che mi vola sopra la testa. Alzo gli occhi e la vedo sbattere con tutto il peso contro l’anta del frigorifero aperto. Che schifo. Riprende quota a fatica, ma non riesce a fare neanche un metro che precipita sul ta- volo. Sono più veloce di lei: prendo uno dei barattoli che Arianna usa per intrappolarle e glielo rovescio sopra. La cimice pare con- fusa, prova a spiccare il volo ma sbatte contro il vetro e cade a pancia all’aria. Agita le zampette indemoniata. Resto a guardarla per qualche minuto. Non capisce che è in trappola: sbatte contro

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il vetro, si ribalta, zampetta al contrario per un po’, si rimette dritta e ci riprova ancora. Invece di liberarla mi viene voglia di girare il barattolo e di spiaccicarla per mettere fine alla sua fatica inutile, ma poi dovrei pulire il tavolo e aprire la finestra per la puzza; e ne en- trerebbero altre. Torno di sopra, faccio le scale immaginando di essere il dot- tor Parietti con la sua valigetta lisa. Sulla soglia della stanza dei miei genitori mi blocco: chi è che è malato qui? Tira un po’ su la maglietta. Ora chinati in avanti, da brava. Sentirai un po’ freddo. Hai le ghiandole ingrossate. Fai respiri profondi. Cosa sono questi singhiozzi? Più profondi, avanti! Il lenzuolo è tutto appallottolato su un lato e il letto è vuoto. «Arianna?» Non la sento ridacchiare, non vedo la sua testa bionda sbucare da sotto il cuscino. «Arianna? Dove sei?» La voce mi resta incagliata nel petto. Scosto il lenzuolo, come se potesse essere nascosta in una sua piega. «Arianna?» Accendo la lampada sul comodino. Mi sento cento occhi addos- so ma vedo solo quelli di Nemo che mi guardano dal pavimento. Mi siedo sul letto. «Adesso mi bevo tutta l’acqua dal bicchiere con i pallini!» urlo in direzione del corridoio. Mi porto il bicchiere alle labbra, ma poi sento qualcosa che mi afferra per le caviglie. Caccio un urlo e lancio il bicchiere in avanti: tutta l’acqua finisce a terra. E poi la sento ridere, ma è una risata esasperata che mi mette i brividi. «Arianna!» La tiro fuori per le braccia da sotto al letto, non so se provo più sollievo o paura nel vederla tutta sporca di polvere. Lei ride tenen- dosi la pancia. «Hai preso paura, mamma, ci sei cascata!» e giù a ridere. «Hai urlato fortissimo!» «Mi hai fatto prendere un colpo.»

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Le tolgo una ragnatela dai capelli e penso che alla sua età non avrei mai osato ficcarmi sotto il letto: il mostro acchiappacaviglie mi avreb- be trascinato nel suo non-mondo; dormivo rannicchiata al centro del letto, ripetendomi che non dovevo muovermi per nessuna ragione. «Che ti è saltato in testa?» «Liv ha detto di farti uno scherzo.» Smette di ridere e mi guarda triste. «Ho i piedi bagnati» mi dice. Me la tiro sul letto e spengo la luce. «Sistemiamo domattina, adesso dormiamo, non voglio più sen- tire storie.» «Mamma, perché papà non è qui?» «È in giro per i suoi concerti.» Arianna mi struscia i piedi contro le gambe per un po’, poi si ferma e sento dal suo respiro che si è addormentata.

Se in macchina ascoltiamo musica classica Arianna si mette a piangere. Quando Riccardo le aveva chiesto: «Che strumento ti piacerebbe suonare da grande?» lei aveva risposto: «Le pentole». Ma poche settimane fa l’ho sentita che raccontava a Giacomo Vincini di avere un papà straordinario, un papà che gira il mondo sugli aeroplani, il musicista più bravo della storia. E una volta c’era andata pure lei sul palco, e il suo papà se l’era messa sulle spalle e

Il nostro aereo sta per atterrare a migliaia di chilometri da noi. Per un momento penso che Arianna si stia per riaddormentare, ma poi scivola giù e si sporge sul tavolo, fino a toccare il barattolo della cimice.

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tutta la gente del teatro s’era alzata in piedi e aveva battuto le ma- ni fortissimo. Quanti anni fa era successo? Due, tre? La rivedo col suo vestiti- no bianco e le scarpe di vernice che zampetta dritta da Riccardo e lui se l’abbraccia, le sistema il cerchietto e le sussurra qualcosa all’o- recchio davanti a tutti. M’era venuto da piangere: erano bellissimi là sul palco, coi loro occhi blu identici. «Io non l’ho mai visto il tuo papà» le aveva detto Giacomo Vin- cini. «Non t’è mai venuto a prendere a scuola.» Non lo dissi a Riccardo, aveva il suo tour negli Stati Uniti da or- ganizzare. Ci ha messo mesi a incastrare tutto: Chicago, St. Louis, New York, Denver, San Francisco, Los Angeles. «Potete raggiungermi a New York. Passiamo una settimana in- sieme. Poi voi tornate a casa e io prendo un volo per la costa oc- cidentale.» «Vai anche a Los Angeles?» «Sì. La Phil mi vuole là.» «Ok.» «Per New York? Cosa dici?» «È una bella idea.» «Ci divertiremo.» «Sì.»

Mi sveglio presto, nella luce dell’alba. Arianna dorme ancora, tutta in- garbugliata al lenzuolo. Mi alzo senza fare rumore e scendo in cucina. I miei genitori facevano colazione alle sei, ogni giorno. Mi sem- brava sempre che al mattino si volessero più bene: mio padre prepa- rava il caffè americano mentre mia madre tirava fuori dalla credenza le tazze e i biscotti. Si parlavano con dolcezza; a volte li sentivo ridere fin dalla mia camera. Mi siedo al tavolo, al mio posto. Vorrei solo rimpicciolire e tor- nare a correre la mattina incontro a quelle voci. La cimice sotto al barattolo di vetro è morta: è a pancia all’aria, con le zampette immobili.

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Sto per decidermi a buttarla quando sento i passi di Arianna sulle scale e poco dopo me la vedo comparire davanti a piedi nudi, col suo cespuglio di capelli biondi e gli angoli degli occhi incrostati. «Pulce, sei già sveglia?» «Perché non c’eri più nel letto?» Arianna mi si arrampica in braccio. Il nostro aereo sta per atter- rare a migliaia di chilometri da noi. Per un momento penso che Arianna si stia per riaddormentare, ma poi scivola giù e si sporge sul tavolo, fino a toccare il barattolo della cimice. «È morta?» «Sì.» «Ha fatto la puzza?» Alza appena il barattolo e ci annusa sotto. «Bleah» dice, e ride. «Adesso la buttiamo via.» «È andata in cielo?» «Mi sa di sì.» «Ma lei poteva andarci anche da viva in cielo: volava!» Ride di nuovo, ma torna seria un attimo dopo e la cucina diventa ancora più silenziosa di prima. Allungo le mani e stringo il barattolo, per non vedere più la cimice morta. «Mamma.» «Amore mio.» «Io ho un piano.» «Dimmi.» «In realtà me l’ha suggerito Liv.» Arianna si mette a sedere. Mentre parla dondola avanti e indie- tro, come la sera del ventiquattro dicembre quando recita le poesie di Natale che le insegnano alla scuola materna. «Quando sarò grande tu a un certo punto dovrai andare in cielo. Io allora mi sposo con Giacomo Vincini e faccio un bambino e quel bambino sei tu e io ti curo, e poi quando tu diventi grande e vado in cielo io, tu mi rifai. E poi ti rifaccio io e poi mi rifai tu e poi ti rifaccio io e poi mi rifai tu…»

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Resto a guardarla, e mi viene da piangere e non so cosa dire, do- vrei dire qualcosa, dovrei abbracciarla, sorridere, dirle che ha avuto un’idea splendida, un piano geniale, ma rimango ferma, con le dita strette attorno al barattolo della cimice morta. «Così stiamo insieme per sempre, mamma.» Mi si rannicchia addosso e io finalmente la stringo come se fossi venuta al mondo solo per quello. «Me lo prometti che succede così?»

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 31 13/02/2018 21:42:31 Alla fine ho letto il biglietto di Hana, di solito non lo faccio. Una di quelle frasi che non significano un cazzo. Devo dirglielo di farmi almeno la cortesia di scrivere qualcosa di più sensato, io di quella retorica del cazzo non me ne faccio niente. Colpa dei libri che leggeva. Sono tutti lì sulla mensola.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 32 13/02/2018 21:42:31 Non sopporto quando insistono a bussa- re alla porta. Non che fossero le sette del mattino e stavo ancora dormendo, o che fossi con Hana a fare l’amore, o a litigare, e non volevo essere disturbato. Era mez- zogiorno, ero da solo ed ero pure sobrio, ma comunque uno deve capire che se bus- sa e non rispondo è perché non voglio vedere nessuno. In realtà l’aveva capito, così come aveva capito che ero in casa. Chiudo la porta a chiave quando sono in

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casa. Ho afferrato il telecomando e l’ho scagliato contro la porta per mandarlo via. «Porca puttana, apri ’sta porta!» Era la voce di Elton, che aveva cominciato a martellarla. Sapeva di questa cosa che quando esco lascio aperto. È per via di Hana. Hana. Quando prendeva e se ne andava, lasciava le chiavi sul comodino insieme a un biglietto. A volte il biglietto neanche lo lasciava. Poi, quando tornava, e io non c’ero, le toccava aspettare fuori. Seduta sui gradini davanti alla porta non resisteva neanche quindici minuti: prendeva e se ne andava di nuovo. A volte tornavo a casa e manco sapevo che era venuta. Da me almeno si stava al caldo. Avevo comprato una stufa a le- gna – su quella elettrica non si poteva fare affidamento, visto che ogni tanto va via la corrente. Elton continuava a bussare, ma se non voglio vedere nessuno si- gnifica che non voglio vedere nessuno, perché non lo capisce! Come se non avessi già i cazzi miei a cui pensare, dovevo anche rendere conto a lui. Diceva che gli avevo fatto un torto, diceva che ero stato a letto con la sorella. Hana. Okay, adesso va bene l’onore, il rispet- to, la famiglia, il kanun eccetera, ma quello che succede tra noi saranno cazzi nostri o no? «Non posso pretendere che tu sia diverso da ciò che sei.»

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Alla fine ho letto il biglietto di Hana, di solito non lo faccio. Una di quelle frasi che non significano un cazzo. Devo dirglielo di farmi almeno la cortesia di scrivere qualcosa di più sensato, io di quella re- torica del cazzo non me ne faccio niente. Colpa dei libri che leggeva. Sono tutti lì sulla mensola. Mi piaceva tornare a casa dopo una giornata di merda – quando litigavamo le giornate erano di merda – e trovare Hana in canot- tiera, con la stufa a legna a tutta birra che sembrava il forno di un treno a vapore. Hana se ne stava lì, stravaccata sul divano con l’aria di chi non aveva un cazzo da fare. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo dalla cosa che aveva davanti – un libro, una rivista, il tablet –, sapendo benissimo che prima o poi avrei detto «così non arriviamo neanche a metà inverno con la legna», e lei rideva come rideva lei.

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La spreca la legna. Non che io sia uno di quelli che sta lì a rispar- miare, solo che la legna me la taglio da solo, e Hana non si rende conto di quanto ci vuole per spaccare cinquanta chili di legna. Solo che adesso che non la sta più usando è rimasta lì, mentre l’inverno è andato avanti. La stufa l’avevo presa per lei. Io a quello la porta non gliela apro. Perché cazzo mi dice «fai l’uo- mo», mi vuole provocare? Allora è una fissazione di famiglia. «Siamo stati cresciuti con pane e burrni» mi diceva Hana, e che tono che si dava. Io non sono un «uomo». E non ho una briciola di burrni, le ri- spondevo. Mi ignorava. Le coperte le buttava giù dal letto per il caldo e se ne stava lì avvoltolata nel lenzuolo con gli occhi rivolti al soffitto, ma lo sguardo era perso in un altro mondo. Io là a chiedermi se c’ero anch’io in quel mondo, o se quello che c’era ero veramente io. Poi rideva e le riveniva voglia di fare l’amore. Comunque Hana non può far così, deve ritornare, sono più di due settimane che non lo fa. Questa era un’eventualità che non avevo messo in conto. Che almeno me lo avesse detto, cioè sì me l’aveva detto, anzi gliel’avevo detto io di andarsene e di non toccare più la mia legna, però era ovvio che poi doveva ritornare. Io adesso non so che fare, a parte chiudermi a chiave, accendere la stufa, sperare che bussi e star male perché non lo fa.

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Ieri non so che c’avevo, mi era venuto l’affanno, sudavo e c’era- no più pensieri nella mia testa che nei libri di Hana sulla mensola. Non so che pensieri erano ma ribollivano, volevano farmi scoppiare la testa. Allora ho preso secchio, sabbia e cemento e ho preparato la malta, per aggiustare lo sbrego sul muro che mi faceva venire i nervi. Sono rimasto per un po’ a guardarlo, mentre rivedevo Hana e il pezzo di legno che era volato a una spanna dalla mia testa, sbat- tendo contro la parete. Mentre lo rivedevo speravo che mi prendes- se in faccia. Se m’avesse colpito mi avrebbe tamponato l’emorragia strappandosi un pezzo della maglietta, il rachi mi avrebbe bruciato mentre mi disinfettava la ferita, il sangue le avrebbe inzuppato dita, mani, volto e anche capelli perché quando era agitata se li toccava spesso. Ogni dieci secondi mi avrebbe urlato di stare fermo, e for- se m’avrebbe mollato qualche schiaffo; poi mi avrebbe abbracciato forte e mi avrebbe detto che mi amava. Saremmo rimasti per un po’ così, avvinghiati, in silenzio. Invece m’aveva detto solo: «Perché fai così?», ed era uscita. È stata l’ultima volta che se n’è andata. Elton ha sfondato la porta e uno spiffero d’aria fredda ha fatto il giro del salotto. Aveva una spranga in mano. Ho provato a spiegargli che ora non mi scopo più la sorella, e mentre glielo dico mi immagino a bussare alla porta di Hana, a pensare che lei non c’è, a sedermi sulle scale per aspettarla, a scriverle un biglietto da infilare sotto la porta, a dirle che può bruciare tutta la legna che vuole.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 37 13/02/2018 21:42:32 Cara, dissi, ho una strana sensazione, questo terrier è come se fosse sempre stato in ogni istante della mia vita. Se vogliamo anche prima e dopo di te. Non mi pare un buon segno. Mia moglie rise. Probabilmente l’avevo sposata per quello, ma non lo ricordavo.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 38 13/02/2018 21:42:32 Immagino che finimmo per abituarci l’uno all’altro. Il fox terrier era nero e bianco, a pelo ru- vido e aveva un’altezza al garrese di 47 centimetri, notevole per un terrier. La si- gnora col cagnolino l’avevo incontrata a Jacksonville, in una sessione di olande- si volanti, dopo una settimana intensa occupata dal montaggio delle biciclette, complicato se si tiene conto che mi de- dicavo da meno di sei mesi alle volanti

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(problemi, o meglio fastidi di carenatura). Ad ogni modo una volta a Orlando avevo già imparato entrambi i nomi. Ero piuttosto restio alle trasferte soprattutto in terre di cui non conoscevo la lingua, e mentre tornavamo a Roma e la hostess si informava della tolettatura del terrier io già studiavo portoghese in previsione di Lisbona; non potevo sapere, mentre preparavo il mio portoghese; la signora col cagnolino ci sapeva fare; aveva un vestito azzurro con le stelline do- rate, che era indicativo (come capii in seguito, gli elementi religiosi mi sfuggivano), probabilmente perché io avevo appena trentaquat- tro anni; e così sarebbe partito solo il mio socio Ruggiero, che non aveva ancora mai montato volanti e lasciava un foro libero e uno no sulla flangia del mozzo (con conseguente perdita di volatilità e ancoraggio al terreno, che i portoghesi non gradirono), e mi ritrovai sposato in un piccolo borgo in prossimità di Morne-à-l’Eau, subito dopo l’altro giro di olandesi a Richmond, prima di riguadagnare strada per Orlando, volando questa volta da Guadalupe su un aereo degno del nome con sedili assicurati alla carlinga (attraversammo La Romana e Puerto Plata, con un veloce passaggio per Tampa). Cara, dissi in un momento di turbolenza, perché sei vestita sem- pre di azzurro con le stelline dorate? Dovremmo puntare a un at- teggiamento più distinto. Guarda quella statua, mi disse mia moglie, mi sono ispirata a lei. Capisco, dissi ammirando la riproduzione della Nostra Signora di Guadalupe che tirò fuori dalla borsetta. Mia moglie aveva un inventario di vizi verdeggianti che ingial- livano come tigli durante i nostri spostamenti. Io li ignoravo af- fascinato, tanto quanto il fatto che mi fosse moglie, ma riuscivo sempre a riconoscere il valore delle sue stranezze. (Giudicai fossero il prezzo del successo.) Il terrier ci seguiva.

Le olandesi volanti erano la mia vita. L’ho capito, ma non so spiegartelo, diceva mia moglie. Ci trova- vamo da qualche parte tra Manzanillo e Acapulco. Anche se la cosa ha i suoi vantaggi?, dissi io. Che vantaggi può avere?, ribatteva lei.

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retabloid_fi1_web_13feb19.indd 40 13/02/2018 21:42:32 Mia moglie aveva abituato il terrier a piccole sedute di tolettatura, fin dalla nascita. Sospettai lo avesse partorito lei stessa, o avesse partecipato al parto nel ruolo di levatrice.

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Eravamo in effetti in Messico. Immagina una banda di ladri armati di fucili automatici, dissi io. Lei diceva: Ho capito dove vuoi andare a parare. Poi: Questo dialogo l’ho già sentito, facevo io. Di solito finiva così. Ci piaceva riprodurre i dialoghi della let- teratura. Ruggiero tornò con due nuove olandesi. Guarda, mi disse. Nel suo «guarda» riuscivo già a intravedere la mia nuova proposta in te- laio leggero. Cos’è quel cane?, chiese circospetto Ruggiero. Quella è mia moglie, dissi io, sistemando la pivella e rimediando ai soliti erro- ri di Ruggiero, senza dirgli niente per non mortificarlo più di quan- to non facesse suo padre. E quello è il nostro cane, un terrier. Un bell’animale; Ruggiero rimase a contemplarlo. Il terrier lo guardava.

Passarono gli anni. Non molti, quelli che servirono per trasferirci in Honduras con le tasche più gonfie e lasciare a Ruggiero la filiale di Roma, e poi anche quella di Lisbona. Quando mi chiese se per caso potevo rinunciare a Richmond gli dissi di no e i rapporti si incrina- rono. Conservo di Ruggiero un ottimo ricordo. Mia moglie aveva abituato il terrier a piccole sedute di tolettatu- ra, fin dalla nascita. Sospettai lo avesse partorito lei stessa, o avesse partecipato al parto nel ruolo di levatrice. Non chiesi. Per le sedute di stripping si rivolgeva a una professionista di Orlando che avevamo trovato su una rivista sostituendo così la tolettatrice di La Plata (che poi, a essere rigorosi, non era una tolettatrice: era semplicemente sua cugina, o meglio era stata perché era morta in seguito a un im- provviso parto trigemellare… Mia moglie la prese con filosofia). La pubblicità era di quelle frequenti diffuse sulle riviste degli aerei che diceva: La soddisfazione più grande di essere una tolettatrice? Lo sguar- do di ammirazione del cliente quando eccetera eccetera; a mia moglie piacque tanto che mi obbligò a telefonare. La tolettatura comprende il bagno, la pettinatura, la slanatura, la tosatura a macchina, il taglio a forbice, la pulizia delle orecchie, il taglio delle unghie, e lo stripping. Non per tutte le specie è pre- vista l’intera serie di operazioni e non tutte hanno lo stripping (il

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terrier a pelo liscio non ce l’ha; ci vidi un destino). Io non me ne preoccupavo. Mi chiedevo di Ruggiero e se davvero il matrimonio a Puerto Plata avesse inciso sulle costanti dell’universo (e sulla nostra amicizia). Le costanti della fisica riflettono la nostra conoscenza e la nostra ignoranza dell’universo, avevo detto a Ruggiero prima di sposarmi, sui gradoni della chiesa. E Ruggiero aveva risposto di non essere convinto, anzi, credeva fosse errato. Non avrebbe le- gato le costanti alle leggi della natura; le costanti erano numeretti che mettevamo lì a far tornare i conti, lo sapevamo; la forza stava nel fatto che erano costanti; numeri belli a vedersi, strani e basta. Ruggiero si era spostato sulla destra, aveva consultato il telefonino e si era messo ad attendere. Lungaggini, avevo detto a Ruggiero. Poi dissi che volevo riservarmi il diritto di una scelta personale. Questi pensieri di tipo speculativo mi avevano assorbito anche durante le

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retabloid_fi1_web_13feb19.indd 43 13/02/2018 21:42:32 fasi di celebrazione del matrimonio, sottraendomi a problemi di or- dine pratico: tipo la costante di gravitazione; o le costanti dei fluidi, prima che io e Ruggiero ne aggiungessimo una. Ebbi nostalgia e raccontai a mia moglie di quando a pranzo dalla madre di Ruggiero avevamo progettato un nuovo tipo di fusione termonucleare e un dispositivo a base di poliesteri a un più alto potere coibente e poi sedotto una falena per misurarne entusiasmo e temperatura. Mia moglie rideva. Sei il solito sciocco, mi diceva così.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 44 13/02/2018 21:42:32 Brevettai le olandesi e divenni abbastanza noto nel settore. Mi fermavano di continuo, quando passeggiavo tra i banchi dei vari expo. È tuo quel cane?, dicevano. Quella è mia moglie, dicevo io. E quello è il suo cane. Non sapevo che fossi sposato. (Il punto escla- mativo che aggiungevano talvolta era opzionale; e poi qualcuno lo sapeva.) Assumemmo altre segretarie, aprii un laboratorio per lo sviluppo delle olandesi anche a San Diego e ci trasferimmo a San Miguel. Gli ingegneri valevano quanto l’oro che li pagavo.

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Si rincorsero mesi rocamboleschi. Leggevamo le costellazioni disegnate sui soffitti nei duty-free e spostavamo i mobili delle nostre prime case per ritrovarci davanti a prototipi di olandesi per competizioni e frammenti di balconi dalla dubbia utilità. Due paparazzi ci rubarono delle foto mentre eravamo in tenuta domestica e la stampa fece un po’ di clamore. Da un capo all’altro della casa, di pomeriggio, lanciavamo lunghe corde lilla che fuggivano in linea retta mentre il terrier le inseguiva. Tutto questo potrebbe sembrare strano. Ma mia moglie era in- flessibile, per lei esisteva solo il terrier. Le ripetei uno dei nostri primi dialoghi. Mi dimenticai così di un paio di olandesi dissidenti che volarono via incustodite e furono trovate in un villaggio poco lontano da El Salvador, impigliate ai tralicci dell’aranciera di Villa Esperanza, a sud del fiume Goascorán, e dovetti pagare i danni e profondermi in scuse. Mi rimase in mano la costola dell’olandese come uno stelo storto e sfiorito, frastagliato da triangolini di materiale rinforzato a matrice polimerica – sostanzialmente fili di carbonio ad alto modu- lo elastico. Una signora messicana mi guardò e si fece il segno della croce e mi disse in spagnolo che ero un pazzo sfiatato. Non dovresti lasciare i tuoi giocattoli in giro, disse mia moglie sempre in vena di scherzare, mentre faceva costruire una scala in legno e muratura da qualche parte per andare presumibilmente altrove. Mi sentivo smarrito… Della vita conoscevo per la prima volta la pesantezza.

Non dovresti lasciare i tuoi giocattoli in giro, disse mia moglie sempre in vena di scherzare, mentre faceva costruire una scala in legno e muratura da qualche parte per andare presumibilmente altrove.

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Se solo il terrier fosse andato a scuola, e avesse imparato a gioca- re a scacchi, stupendomi con aperture aggressive e innegabilmente accorte, o avessi potuto parlare con lui di cose da maschi (come le gallerie del vento o l’elettronica dei miei nuovi dispositivi), forse saremmo andati d’accordo. Verso fine dicembre mia moglie e io strappammo le pagine di un manuale tecnico sulle olandesi e di un’edizione pirata di Rayuela del 1964 che avevamo comprato in una libreria antiquaria di Phoenix passandocele di mano in mano come petali di mar- gherita, leggendole prima io poi lei; quindi le gettammo via. Mia moglie mi disse che l’argentino ne sarebbe stato felice – era stato un abile strappatore. Io mi chiedevo quali libri avesse mai strappato l’argentino ma non importava, l’importante era che lei avesse le idee chiare sul nostro desiderio di accoppiarci di continuo men- talmente e fisicamente – e poi di separarci in città diverse come amanti turbati e felici attraverso irrilevanti viali di passaggio… Feci qualche errore. Mi sfuggì di mano il modello beta di una seconda olandese che fu ritrovata tra le turbine di una centra- le elettrica senza salvavita di un villaggio vicino a San Miguel e dovemmo cambiare città. Se solo il terrier avesse potuto impara- re lo spagnolo, possedere una formazione umanistica, parlare di «inversione di piani» come faceva mia moglie mentre si godeva da una chaise longue le nuvole che sfregavano contro il cielo giallo, di fianco a un comodino di libri e di coriandoli, subito prima di un aereo o di un vino brillante – tutto questo non sarebbe successo… Furono i momenti più difficili. Le videoconferenze tra me e mia moglie inquadravano nella cornice del monitor il terrier alle sue spalle, incurante di me come io di lui… Di’ ciao alla nostra bestia, dissi a mia moglie. Oh oh, fece mia moglie, e chiuse la conversazione. Io e mia moglie facevamo scalo nello stesso aeroporto ma sce- glievamo di non vederci e ci perdevamo ognuno per conto suo tra i negozi e i fumi che risalivano dalle entrate delle bische come mani- che di camicia flessuose e inebriate. Mi avventuravo per i corridoi, o discorrevo con estranei nei bar.

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I media si accanirono e diffusero immagini di me più giovane e sorridente e io mi guardavo e non mi riconoscevo, pensando sempre che si parlasse di un altro.

Il mercato delle olandesi era in continuo fermento. Mi presentai alla riunione semestrale col mio nuovo prototipo dal telaio rovesciato, che in onore di mia moglie battezzai «Inversione di piani», e gli ingegneri della ricerca e sviluppo sbiancarono temendo un licenziamento o peggio il trasferimento nella sede commerciale di Antofagasta – ma io semplicemente tornai a casa lasciando i det- tagli nelle mani dell’ingegnere capo. Mi organizzai per il brainstorming a Singapore sul cambiamen- to delle politiche economiche nel mercato del Sud-est asiatico, lasciando mia moglie sola col terrier sul bagnasciuga di Curaçao. Avrei voluto portare il terrier con me, ma mia moglie si oppose in modo deciso. Non è certo stupido per prendere un aereo da solo con me, dissi a mia moglie. Lasciamelo, ce lo invidieranno. Lei mi rispose che il nostro terrier non era certo stupido e che era perfet- tamente in grado di prendere un aereo anche da solo in entusiastica

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indipendenza. Solo che non lo gradiva. Nostro terrier di chi?, dissi a mia moglie. Hai detto «nostro terrier». Il terrier stanziava come una sfinge sulla sua chaise longue. Riuscii ugualmente a rapirlo e a portarlo con me a Singapore per dimostrare a mia moglie quanto la amavo. Lo trattai benissimo come le foto poterono comprovare e mia moglie superò lo spavento e mi perdonò dopo due mesi. Il mondo stava decollando come un razzo. La vita si stava però finalmente sedendo sui binari scontati della ciclicità. Me lo portai infatti in un altro viaggio di lavoro sempre per di- mostrarle quanto la amavo. Gli parlai così finalmente di scacchi e di cose da maschi, gallerie del vento e l’elettronica nei nuovi dispo- sitivi. Gli parlai del suo futuro. Gli misi fretta sulle cose della vita e sulla necessità di emanciparsi; fui forse spregevole e gli ricordai che un anno umano valeva per sette dei suoi e anche di come sarebbe stato bello se avesse potuto discorrere dell’inversione dei piani in Cortázar come piaceva fare alla donna della nostra vita. Mi chiesero di lui alla riunione in Cina mentre presentavo il nuovo modello pluripremiato dal telaio inverso insieme al mio in- gegnere dei materiali più brillante. Versai persino una lacrima al pensiero che in un altro mondo davanti ai cinesi saremmo stati io e Ruggiero. Dissi che il nome dell’olandese era in qualche modo merito di questo terrier che non invecchiava mai e ci osservava dal- la mia sedia presidenziale abbaiando ragionamenti felici di odiosa e trasparente spensieratezza – e loro risero altrettanto spensierati prendendomi per un eccentrico. Le sere erano incorniciate da grattacieli silenziosi e freddi come sarebbe diventato l’universo prima o poi. Io mi proiettavo in que- sto futuro sempre più freddo in cui l’universo aveva curvatura quasi nulla e non era più possibile trovare un posto dove conversare. Avrei avuto un vecchio paltò come in una vecchia canzone di Baglioni che ascoltava la madre di Ruggiero in cui Baglioni cantava con nostalgia che aveva perso l’amore e che avrebbe camminato solo per le stra- de dentro questo suo paltò in un clima evidentemente autunnale o anche peggio. Il mio sogno era più o meno lo stesso solo che in più

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ci misi l’universo in dismissione (com’era previsto dalle teorie più ac- creditate). Le videoconferenze tra me e mia moglie erano struggenti e inquadravano il terrier alle mie spalle.

Non chiedetemi come sia possibile ma passarono altri semestri. Stavo sollevando il plastico di un’olandese. Ruggiero mi mandò gli auguri di Natale sopraffatto dal senso di colpa per avermi strappato quasi metà del mercato europeo, sorpre- so dal ricordo della nostra giovinezza trascorsa a montare bulloni in lega di titanio, io orfano ospite a casa sua e lui commissariato dai genitori mentre sognava piuttosto di essere orfano di entrambi. Adoravo Ruggiero e lo avrei adorato sempre, e gli augurai tutto il bene del mondo, e lui mi telefonò e mi disse con la voce vacillante che si ricordava di noi adolescenti e che le sue tedesche valevano meno delle mie olandesi. Io gli risposi che le sue tedesche valeva- no esattamente quanto le mie olandesi, non un dollaro di meno. Ruggiero pianse e si rimproverò per gli anni in cui non avevamo avuto più contatti. Mi disse che sua madre era morta orgogliosa di lui e che nel frattempo si era sposato. Non riuscivo a seguire bene le sue parole dato che il terrier dopo una delle nostre ultime discussioni sul senso dell’esistenza mi stava ringhiando contro con disgusto (o sciatteria, era difficile da decifrare). Un dubbio mi strappò un moto di invidia. Chiesi a Ruggiero se anche sua moglie aveva un terrier, e quan- do disse di no riattaccai. Ritornai a San Miguel e mia moglie nella villetta di fronte. Ci stavamo riavvicinando. C’era qualcosa nell’aria. Alle volte ci scambiavamo le case…

Un giorno mia moglie mi chiese di fare noi la tolettatura. Per le pic- colezze faceva da sola, ma erano quattro mesi che non passavamo da Orlando (dove, lo pensavo con ammirazione imprenditoriale, la tolettatrice, che leggeva negli occhi della gente la soddisfazione di

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essere una tolettatrice, aveva già partorito due figli senza nessuna flessione nell’attività). Mia moglie disse di aver letto come fare lo stripping: Ho capito come lo farai, mi disse guardando il terrier che mi guardava con la solita aria abituata a noi abituati a lui. (In realtà io e il terrier eravamo abituati; mia moglie lo guardava anco- ra con stupefazione.) Cara, dissi, ti ho sposato, dissi, guardando il terrier stopposo che sembrava pronto per essere appiccato come paglia vecchia (che a San Miguel era sempre possibile), ti ho spo- sato, ripetei, comprendendo che il momento era delicato, tu puoi scegliere l’esito mortale o non mortale della storia, con la qualità delle parole. Le parole sono l’esito. Lo so caro, disse lei, ma senza cura, quel che importa è che sia tutto rigorosamente naturalistico. Non mi piacque. È la nostra vita, dissi, potremmo commettere un errore che mette in serio pericolo la bestia. Il terrier ci fissava con in bocca, come al solito, la copertina della rivista bimestrale sulle olandesi. Il tavolo da tolettatura era pronto e mia moglie mi passò il col- tellino apposito per lo stripping. A guardarlo non avresti detto fosse

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Che cosa fai?, disse mia moglie, anche se probabilmente non lo disse, lo urlò; è un po’ come il giorno del matrimonio, non mi ricordo.

pericoloso; lama e pettine. Sei una pazza, dissi, pensando alle no- tizie europee che volevano Ruggiero fornitore di un nuovo model- lo di tedesche, e al mercato variabile di Lisbona. Ovviamente non possiamo tosarlo perché in tal caso il suo pelo diventerà molle e arricciato e il nostro terrier non sarà più tale (cioè bello) prima di tre nuove tolettature (cioè un anno). Le parole di mia moglie avevano un che di didascalico. Le ignorai. Sistemai lo scudetto perineale della bestia con le forbici e la tosatrice. Uno scudetto decisamente minore. Cara, dissi, ho una strana sensazione, questo terrier è come se fosse sempre stato in ogni istante della mia vita. Se vogliamo anche prima e dopo di te. Non mi pare un buon segno. Mia moglie rise. Probabilmente l’avevo sposata per quello, ma non lo ricordavo.

Poi tenni il terrier per il collo e cominciai a strippare. Strippare è gradevole, ci prendi la mano. Dà in effetti soddisfa- zione al tolettatore. Pensai alla tolettatrice di Orlando. Non lo feci apposta. I vasi son tessuti molli e quando sono a vista sembrano tubicini di gomma neanche circolari quanto vagamente ellittici, con un’ec- centricità che mi fece pensare ai primi modelli di olandesi nel ga- rage del padre di Ruggiero a via Tiburtina, quando il padre buttava la madre di Ruggiero giù dalle scale e si sedeva alla televisione col suo grosso pancione peloso e la maglietta bianca tirata alta, mentre la madre di Ruggiero a quel punto si sedeva in silenzio su una sedia quasi certamente vinta dalla vergogna e restava con noi nel garage ad ascoltarci montare biciclette e ragionare di fuochi e di ellissi e di tubi aperti. Il fiotto era denso e fastidiosamente caldo. Che cosa

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fai?, disse mia moglie, anche se probabilmente non lo disse, lo urlò; è un po’ come il giorno del matrimonio, non mi ricordo. Finché poté il terrier mi guardò con uno sguardo arricciato. Poi semplice- mente contrariato. L’ultimo sguardo era soltanto contrariato. Questo scherzo mi è costato un terzo dell’Olandese volante e tutte le azioni di Fresa facce esterne scatola Mc. Sei un mostro, disse mia moglie in tribunale, dietro il suo nuovo terrier. Loro hanno l’oceano Atlantico e sono piuttosto rumorosi, dissi all’avvocato di mia moglie, che non comprese mentre mia mo- glie invece rise. Che bella donna era ancora. Anche il divorzio fece un certo rumore nell’ambiente. Le telefonai dopo che si fu risposata. A volte prendevamo un aereo per il gusto di imbarcarci, e facevamo conversazione, una cit- tà valeva l’altra. Camere separate. Ogni tanto uscivamo insieme, e compravamo caramelle e chiavi inglesi minuscole di acciaio tem- perato e libri stampati sul finire degli anni Sessanta. Sono i ricordi migliori. Anche superiori a quando mi misero sulla copertina del «Times». Immagino fu così che finimmo per tornare ad amarci, e ci abituammo finalmente l’uno all’altra.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 53 13/02/2018 21:42:33 Mi parlava dei suoi viaggi. Per lei erano soprattutto percezione. Esponeva un’ininterrotta serie di fatti senza vera consapevolezza. Senza la minaccia dei significati o il peso delle metafore. Quand’eravamo insieme faceva il censimento del mondo. Di quello passato e di quello presente.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 54 13/02/2018 21:42:33 1. «L’ultimo origami che aveva fatto stava sul tavolo davanti a noi. Le ho detto che era uno dei più belli. Stavamo seduti uno accanto all’altra, sul divano. Lei aveva le mani dietro la testa e mi guardava. Aveva un sorriso inquietante. Poi ha fatto un movimento rapido e mi ha baciato con foga. Non me l’aspettavo, ma è durato pochi secondi. S’è voltata verso il camino e ha smosso la brace con un attizzatoio. Quando si è girata di nuovo verso di me

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aveva ancora quel sorriso. Ho pensato che volesse baciarmi di nuo- vo, invece mi ha appoggiato l’attizzatoio sul braccio» disse Adrian. «Eh?» disse James. «Già.» Poi furono interrotti da un tuono, tre lunghe vibrazioni. Nei mesi che passai a lavorare con Adrian e James non piovve mai. Durante le giornate il cielo si riempiva di nuvole. La sera guardavamo i fulmini che illuminavano la campagna intorno al capannone, convinti che fossero il segno di una tempesta imminente che non arrivò mai. «Ed era stata lei, a baciarmi» continuò Adrian dopo il tuono. «Le ero seduto accanto e la guardavo fare origami. Poi lei ha smesso, mi ha guardato, mi ha detto “credo che dovrei baciarti” e l’ha fatto.» A quel punto Adrian indicò la cicatrice. «La vedi, James? Non mi hai mai chiesto niente.» «Senti Adrian… non è che si noti così tanto, e poi sembra più una macchia o una voglia che una cicatrice.» Stavano seduti uno accanto all’altro su un tavolo di ferro. Al centro del capannone c’era la macchina dell’imballaggio, alta fino al soffitto. Il pacciame da imballare, foglie di lupino mischiate allo sterco di maiale, era accumulato fuori sotto tre tettoie adiacenti. Io ero sul sedile di un muletto che usavamo per spostare i pallet. Fumavo e ascoltavo la storia di Adrian. Avevo appena terminato il mio ultimo giorno di lavoro. Sandra, la segretaria, sarebbe arrivata a momenti col mio stipendio e l’indomani mattina sarei andato via da Wongan Hills. Adrian, come ogni sabato, stava raccontando a James una storia del suo periodo a Perth. Ci aveva passato cinque anni della sua vita, per il resto trascorsa quasi interamente a Wongan Hills, e a quanto pare lì ne aveva viste di tutti i colori. «E tu a quel punto che hai fatto?» chiese James. «Che cosa vuoi che abbia fatto? Sono corso alla doccia e ho mes- so il braccio sotto l’acqua.» Adrian era alto, curvo di spalle. La magrezza lo rendeva spro- porzionato, i movimenti delle rughe sul viso ne cambiavano con- tinuamente l’aspetto, le gambe incurvate gli davano un’andatura

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disordinata. Portava sempre una salopette verde e una maglietta gialla da lavoro (ne aveva molte uguali). Barba, baffi e capelli erano tagliati sempre alla stessa lunghezza. Con la divisa immacolata e il volto curato voleva nascondere la goffaggine. Ma bastavano gli oc- chi, duri e precisi. Quando raccontava, sembrava tutto accadesse di nuovo davanti a lui. Non guardava l’interlocutore ma la sua storia. Ogni dettaglio era descritto in modo interessante, e nulla era inutile o di troppo. Teneva le mani sulle ginocchia e la schiena in avanti, e si piegava all’indietro quando arrivava a un punto importante. Quella sera, per la prima volta, era lui il protagonista della sua storia. «Sì, certo, ma dico: che hai fatto con lei? Perché ha provato ad ammazzarti?» gli chiese James. Stava raccontando di Frances, una ragazza che viveva da sola in una baracca nella periferia di Perth. Anche lei veniva da Wongan Hills e Adrian la conosceva fin da ragazzino. Da piccola viveva con la madre. Abitavano nello stesso isolato; lui ci giocava spesso, le insegnava ad ammazzare serpenti e ragni e la portava sempre con sé nei giri in bici al lago Ninan, in mezzo ai campi di grano e sulle col- line intorno al paese. Poi, quando Frances aveva dieci anni, lei e la madre si trasferirono a Perth, e a Wongan Hills non tornarono più. Adrian l’aveva rincontrata molti anni dopo, in un diner in cui lavorava come cameriera. Lei l’aveva aiutato ad ambientarsi tro- vandogli una stanza e un lavoro da lavapiatti. Frances aveva uno sguardo intelligente, un collo bellissimo. Adrian s’innamorò subito, ma non glielo confessò mai per timore di un rifiuto o di rovinare quell’amicizia tra esuli. Frances lasciava la baracca in cui viveva solo per andare al lavoro e quando pioveva. Il resto del tempo lo passava in casa a fare origa- mi, di solito animali. Li accumulava in una cesta di vimini. Erano centinaia. Andava avanti per ore senza dire una parola, e Adrian la stava a guardare, rapito dalla sua dedizione. «Mi sono infilato nella doccia,» continuò Adrian «e ho messo la ferita sotto l’acqua fredda. Le ho urlato le cose peggiori che mi venivano in mente, ma lei m’ignorava. Ha riattaccato a fare i suoi

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origami come se non fosse successo nulla. Poco dopo ha cominciato a piovere, e allora ha preso il fucile e ha infilato la porta. Io ho be- stemmiato e le sono corso dietro». La casa di Frances aveva un solo ambiente. Cucina, letto, bagno senza muri divisori, tutti lì. In un angolo un camino di mattoni im- pilati. Qualche libro gettato a terra. Il fucile era sul tavolo di fronte al divano, accanto ai fogli per gli origami. Adrian raccontò che la prima volta che era entrato nella stanza si era sentito mancare l’aria, come in montagna. Aveva immaginato che l’ossigeno fosse risucchiato nel collo dell’arma e il suo senso di realtà era diminuito. Ogni volta che pioveva, Frances impugnava il fucile, usciva, si metteva al volante della sua station wagon e guidava verso la cam- pagna alla ricerca di un canguro. Non ho mai saputo se quella volta l’avesse trovato. Proprio nel momento in cui Adrian raccontava del suo viaggio con Frances alla ricerca della bestia, il padrone dell’azienda entrò nel capannone e interruppe il racconto. «Andrea, vieni nel mio ufficio» disse rivolto a me. Non mi aspettavo che sarebbe stato lui a darmi lo stipendio. «Pensavi che t’avrei lasciato andare via senza salutarti?» «Ah, ok… Saluto i ragazzi e arrivo.» «Ti aspetto nel mio ufficio.» Abbracciai entrambi, e a Adrian dissi: «A quanto pare non saprò mai la fine della storia di Frances». «Non si può mai dire, magari te la racconterà qualcun altro.»

2. La notte seguente feci un sogno. Sedevo accanto a strani ceffi ve- stiti di blu, che ridevano. Eravamo a terra, con le gambe incrociate sopra dei tappeti. Mi guardavo le mani; erano umide e odoravano di benzina. Uno degli uomini mi toccava la spalla e m’indicava quello che guardavano attraverso un vetro. Era una stanza con in mezzo due panche di legno; c’erano seduti sette uomini che si davano le spalle, tre su una panca e quattro sull’altra. Erano tutti nella posizione di Adrian

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quando racconta. Un altro uomo era in piedi davanti a loro e li guar- dava attraverso un binocolo, piangendo. Erano condannati a morte, ma ignoravo il modo in cui sarebbero stati uccisi. Erano bendati. Gli uomini intorno a me prendevano a ridere più forte di prima e io tentavo di chiudergli la bocca con le mani, ma quelli mi spin- gevano via ogni volta che mi avvicinavo, facendomi finire più volte per terra; uno di loro mi si sedeva sopra e m’immobilizzava dicendo: «Ora stai fermo e guardi». Da certi fori nel soffitto della camera della morte cominciava a uscire un fumo denso. L’uomo del binocolo non aveva più il bino- colo e aveva smesso di piangere: mi fissava. Fui svegliato da colpi violenti sulla porta della mia stanza. Ero nell’unica guest house del paese, dove avevo abitato per tutti i mesi passati. Era la padrona. Era molto agitata. «Svegliati Andrea, c’è un incendio!» la sentii gridare. «Cosa?» «Il capannone di David! Gesù, muoviti, dobbiamo andare a dare una mano!» Nel giro di pochi minuti eravamo sul pick-up del marito.

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Prima di vedere l’incendio ne sentii il calore, o forse lo immagi- nai, visto che eravamo ancora lontani. Il capannone era l’unico edificio nel raggio di chilometri, e il fuoco che sbucava dal tetto irradiava lo spazio circostante. L’incendio indugiava in quella sua posa straziata, con le braccia roventi tese verso il cielo. Mentre ci avvicinavamo sentii il suo sibilo infernale. Intorno al capannone c’erano molte persone impegnate ad accatastare sacchi di sabbia tra la struttura in fiamme e le tettoie che coprivano il pacciame. Tra loro vidi James, e corsi verso di lui. «Che ci fai qui, già ti mancavo?» fece quando gli fui vicino. Ci dirigemmo verso il suo pick-up. Sul retro erano accatastati dei sac- chi, e ne prendemmo uno a testa. «Fosse stato per me sarei rimasto a dormire» gli risposi. «Capirai se me ne frega qualcosa del pacciame di David…» «…» «Sei stato tu ad appiccare il fuoco?» James fece un lungo fischio. «Lo stronzo s’è addormentato durante una delle sue tirate in soli- taria e la macchina s’è fermata. Si sarà surriscaldata. Lui s’è svegliato che era già tutto in fiamme.» David per risparmiare sulla manodopera lavorava spesso da solo, anche di notte. Un paio di anni prima, durante una di queste nottate era così affaticato che dopo aver riparato un guasto riattivò la mac- china lasciandoci la mano dentro. Ci rimise una falange del pollice.

L’incendio indugiava in quella sua posa straziata, con le braccia roventi tese verso il cielo. Mentre ci avvicinavamo sentii il suo sibilo infernale.

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«Te lo dicevo o no che prima o poi sarebbe successo?» dissi a James indicando con la testa il capannone in fiamme. «E io ti davo ragione…» fece lui, annuendo. «Ma i pompieri?» chiesi. «Ci credi che si è rotta l’autopompa?» «Gesù! Gli è andata proprio male al vecchio.» «Si merita tutto.» David ci trattava male e la paga faceva schifo – io lavoravo per il visto; James per pagare il mutuo –, ma non erano questi i motivi del disprezzo. Dopo aver perso il dito David fu costretto dalla moglie ad as- sumere qualcuno che la notte lavorasse con lui. Prese un aborigeno che pagava pochissimo. Si chiamava Raymond, e fece una brutta fine, schiacciato dagli ingranaggi della macchina. Secondo James e altri abitanti del paese era stato David ad ammazzarlo. James s’era convinto che avesse ri- attivato la macchina mentre Raymond la stava pulendo. David disse che si era trattato di un incidente, e dal processo non venne fuori nulla che smentisse la sua versione, così fu assolto. Raymond e James erano diventati amici. Fu l’unico ad andare al funerale. Agli altri abitanti di Wongan Hills non importò nulla della tragedia: alla maggior parte degli australiani la sorte degli abo- rigeni non interessa. Io, James e gli altri ammassammo rapidamente una pila di sacchi tra il capannone e le tettoie. Intanto pensavo al lavoro dei mesi precedenti. Dovevo impilare su pallet i pacchi prodotti dalla macchina e trasportarli col mulet- to nello spiazzo esterno. Altre volte andavo fuori, mi mettevo alla guida di un trattore, prendevo del pacciame da sotto le tettoie e lo versavo in una tramoggia incassata in una parete del capannone. James controllava quello che facevo. Adrian non c’era quasi mai. Faceva avanti e indietro da Perth con il camion. Nel capannone c’era una radio sempre accesa – cricket, attac- chi di squali, musica commerciale. Durante il lavoro James e io

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parlavamo poco. Lui faceva qualche battuta, ma c’era troppo ru- more e non capivo quello che diceva. Il pacciame aveva un odore dolce e disgustoso, come caramello avariato. Ci ficcavo spesso le mani perché la macchina s’intasava di continuo. Ho ancora tracce marroni sulla pelle. James non mi aiutava, ma dal colore delle sue dita avevo capito che l’aveva fatto per anni. All’inizio era pesante, si lavorava più di dodici ore al giorno. Ma non era difficile e dopo un paio di settimane mi abituai alla routine. Impilavo i pacchi senza sforzo, con il trattore ero diventato velo- cissimo, e i muscoli si erano abituati alla fatica. In fondo si trattava solo di tre mesi. Alla fine della stagione, di me non avrebbero più avuto bisogno. James, invece, il lavoro lo odiava. Il fatto che la macchina s’in- ceppasse così spesso lo mandava in bestia. Ero io a sbloccare gli in- granaggi, lui resettava un computer che gestiva il tutto, ma quell’ir- regolarità lo infastidiva. Tirava calci, sbraitava, oppure si chiudeva in un silenzio rassegnato che durava ore. Alla fine della giornata ci sedevamo fuori e bevevamo, gli davo una pacca sulla spalla e gli dicevo di non stare troppo a preoccuparsi.

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«Altri cinque anni e avrai finito»; era quanto gli mancava per finire di pagare il mutuo. Gli stavo simpatico, quella confidenza me la permetteva. A una sola cosa non mi abituai, i turni di notte. Ogni tanto rima- nevamo indietro con la produzione, David compariva a metà pome- riggio e mi diceva di andare a casa, per riposarmi, e tornare la sera. Alla guest house non riuscivo mai a prendere sonno. Nella mia stanza faceva molto caldo, l’aria condizionata era debole e maleodo- rante. Nel corpo esausto la mente agiva senza tregua. Mentre mi rigi- ravo su me stesso, compariva l’affanno dei giorni precedenti. All’idea della notte che avrei dovuto passare in piedi, si schiariva il ricordo di mille gesti uguali. Solo allora vedevo tutto ciò che avevo fatto. L’ansia mi aggrediva: la paura di non riuscire a portare a termine il turno per la troppa fatica, il fastidio di dover stare per ore sotto gli occhi del capo, esigente e pignolo, il pensiero della morte di Raymond. David, adesso che era tutto in fiamme, camminava avanti e in- dietro con gli occhi iniettati di sangue e balbettando bestemmie. Una volta finito di accatastare i sacchi di sabbia, ci sedemmo tut- ti quanti accanto a lui, che intanto si era placato e stava con la testa fra le mani su una trave di acciaio. Ci mettemmo tutti a guardare la lamiera che fondeva. Un’ora dopo era finita e noi eravamo ancora seduti lì a guardare quello che rimaneva del capannone nella luce dell’alba.

3. Sono sempre stato una persona triste. La felicità non so cosa sia, non l’ho mai provata. La tristezza l’ho sempre tenuta nascosta. Dormivo molto, par- lavo poco, stavo per conto mio. Quand’ero un adolescente ne parlai a uno psicologo e quello mi disse che se avessi trovato «il bandolo dell’angoscia», lo chiamò così, le cose sarebbero andate meglio. «Non riesco, ci ho già provato» feci io. Lui insistette dicendo di perseverare ma io questo bandolo non l’ho mai trovato. Nello stesso periodo iniziai ad avere pensieri di morte. Secondo lo psicologo erano un peggioramento; dal mio punto di vista quelle

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fantasie non erano male. Mi svegliavo molto presto la mattina e mi mettevo a fantasticare di un lungo coltello che calava dal soffitto e mi s’infilava nella pancia. Non faceva male: piantandosi nel corpo diffondeva un gran calore e provocava una sonnolenza invincibile. Riaddormentandomi facevo sogni splendidi, fughe da catastrofi o conquiste amorose. Cominciai a saltare la scuola per andare nel parco vicino casa, dove mi sdraiavo su una panchina e cercavo di nuovo il sonno. Altre volte andavo alla stazione, prendevo un treno qualsiasi e andavo lontano. Poi una volta, tornato a casa, mia madre mi chiese dov’ero stato. Avevano chiamato dalla scuola e le avevano detto delle assenze. «Sono stato con Ginevra» le risposi. «E chi sarebbe Ginevra?» «È una mia amica. Qualche tempo fa ha avuto un’overdose e ora sta cercando di disintossicarsi. Le sto vicino, sta molto male.» Dissi quelle cose senza pensarci. Mia madre fu sbalordita, mio padre lo stesso: non immaginavano che potessi assumermi la re- sponsabilità, alla mia età, di aiutare una tossicodipendente. Ginevra è stata parte della mia vita per molti anni. Dissi che era un anno più grande di me e che all’inizio teneva la sua dipendenza sotto controllo. Aveva cominciato quando aveva quattordici anni. Mi documentai sull’eroina e sui suoi effetti. Il periodo di disintossicazione durò poco. Dopo qualche mese, dissi, Ginevra aveva ricominciato a drogarsi. Ginevra mi rubava i soldi, scompariva e riappariva, era alta, ave- va lunghi capelli castani e occhi a mandorla. Era ricca, viveva da sola con la madre. Era nata in campagna e si era trasferita in città quando aveva dieci anni. La amavo ma non avevo mai avuto il co- raggio di rivelarle il sentimento per paura di un rifiuto o perché in fondo la sua dipendenza mi spaventava. Quando avevo diciannove anni dissi di averla salvata da un’over- dose iniettandole un farmaco in punto di morte. Raccontai che mi aveva chiamato dicendo frasi confuse e che mi ero scapicollato, l’ave- vo trovata incosciente sul pavimento del bagno di casa sua, le avevo fatto l’iniezione e lei si era ripresa.

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Volevo lasciare un segno ben definito nella memoria degli altri, diventare un pensiero importante. E Ginevra fu solo l’inizio. Mi costruii un ampio repertorio di aneddoti, in parte inventati e in parte no. Quelli veri erano tratti da una serie di attività crimi- nali cui presi parte nella mia tarda adolescenza. Avevo sempre una giustificazione, comunque; che so: se avevo rubato, avevo rubato a chi per qualche motivo lo meritava, se avevo picchiato qualcuno, era sempre una persona immorale eccetera. A ventidue anni ho rinunciato a quella vita per giocare la carta della redenzione. La svolta l’avevo progettata da un po’: dissi che ero diventato un’altra persona, che avevo capito i miei errori. L’Australia arrivò un anno dopo. A lavorare il pacciame ci passai tre mesi: il governo australiano concede l’estensione del visto a chi lavora in campagna per ottantotto giorni. Mi trovavo laggiù perché mi servivano i soldi per un’attività di volontariato che volevo mettere in piedi: a quel tempo lavorare in Australia mi sembrò il modo più rapido per racimolare la somma di cui avevo bisogno. Ormai avrai capito che tutta quella fatica non era mossa da un intento umanitario. Lo facevo solo per dire di averlo fatto: il mio scopo, in quell’occasione come nella vita, era essere ammirato per le mie imprese. Forse il mio discorso suona semplicistico, ma voglio essere il più chiaro possibile. Ottenere apprezzamento era il mio unico desiderio. E Ginevra cosa c’entra con l’Australia? L’avevo uccisa poco prima di partire, con un’ennesima over- dose. Dissi che era stato un suicidio e che ero venuto a saperlo da un amico comune una settimana dopo la morte: la madre me l’aveva tenuto nascosto perché mi riteneva responsabile. Era lo

Volevo lasciare un segno ben definito nella memoria degli altri, diventare un pensiero importante.

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stesso periodo in cui mi redimevo dal mio passato criminale. La redenzione e la sofferenza dovuta al senso di colpa si combinarono perfettamente. Alla fine del mio secondo mese a Wongan Hills, un mese prima dell’incendio, ero seduto sul bordo della piscina comunale con i piedi nell’acqua. Era la prima volta che andavo alla piscina. Vidi comparire una ragazza snella e slanciata da un ingresso sulla parte opposta della piscina. Mi guardò incuriosita, forse pensando anche lei come me che in quel pomeriggio freddo non avrebbe incontra- to nessuno. Si incamminò lungo il perimetro della piscina verso le panche accanto alle docce, davanti a grandi vetrate. Appoggiò l’asciugamano, tirò fuori la cuffia e la infilò nascondendo i capelli; poi si voltò, si incamminò nuovamente verso l’acqua e si immerse. Cominciò a nuotare verso di me. A metà vasca si immerse e conti- nuò in apnea, fino a quando non raggiunse il mio bordo. Quando tirò fuori la testa dall’acqua mi guardò per la seconda volta: era uguale a Ginevra.

4. «Ciao. Non ti ho mai visto qui» mi disse in inglese, sorridendo. L’ac- cento era italiano. Guardavo fisso un punto del suo mento per la paura di incontra- re il suo sguardo. Lei socchiuse la bocca, poi le sue labbra s’incre- sparono, si voltò verso le vetrate. «Beh, cos’è, ti sei mangiato la lingua?» «No, è che…» cominciai a risponderle in italiano. La ragazza che avevo davanti era la fonte dei miei ricordi in- ventati. Mi rendo conto che è un discorso assurdo, ma è quello che pensai. «Ecco, è che… somigli molto a una mia amica… cioè, non è che le somigli, sei proprio uguale…» dissi. La ragazza immerse la testa fino a quando l’acqua non le coprì il naso, poi riemerse, sputò un lungo fiotto, si voltò e prese a nuotare. Aveva scapole forti e si muoveva con gesti potenti. Fece due vasche e fu di nuovo da me.

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«Come si chiamava la tua amica?» «Ginevra.» «Io sono Beatrice.» Poi si voltò, spinse con i piedi sulla parete della vasca e riprese a nuotare. Dopo un momento di esitazione decisi di seguirla in acqua. Nuotava veloce e facevo fatica a starle dietro. Sembrava un automa: i movimenti delle bracciate, uno dopo l’altro, erano sempre uguali. Nuotammo ininterrottamente per molto tempo, forse un’ora, fino a quando lei si fermò. Avevamo il fiatone, lei rideva. «Come mai sei qui?» «Qui in Australia?» «No, qui in piscina.» «È il mio giorno libero, lavoro all’azienda di pacciame. È un po’ che non nuotavo e mi è venuta voglia di fare qualche vasca.» «Hai fatto bene… Senti: ti va di andare a mangiare qualcosa in- sieme? Non conosco nessuno qui a Wongan Hills, e sono costretta a mangiare sempre da sola.» Sentii che stavo andando in confusione ma riuscii a controllarmi. «Sì, ok. Vuoi andare adesso?» «Se per te va bene sì, non nuoto mai più di un’ora.» Uscimmo dalla vasca e andammo agli spogliatoi. Dopo poco io ero già in strada, seduto su una panchina accan- to all’ingresso della piscina. Mi accesi una sigaretta e mi misi ad aspettare. Beatrice uscì un momento dopo che mi ero alzato per andarmene. «Andiamo al Gunny» disse, indicando la strada che portava al centro. Il Gunny era il ristorante dell’unico albergo del paese. Si man- giava bene, l’ambiente era ampio e le luci soffuse lo mantenevano in penombra. A me piaceva – spesso ci passavo le serate – e a quanto pare piaceva anche a Beatrice. Ci avviammo sulla strada principale del paese e camminammo per un po’ in silenzio. Poi lei mi disse che era in Australia con il mio stesso visto, ma che al contrario di me lavorava saltuariamente. «Come fai a sapere che lavoro in continuazione?» le chiesi.

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«Hai la faccia stanca» mi rispose lei, e mi appoggiò una mano sulla spalla. «Il mio patrigno è morto qualche anno fa e non avendo figli ha lasciato metà del suo patrimonio a mia madre e metà a me.» Ci co- noscevamo da poco più di un’ora e già mi faceva quelle confidenze. «Così, quando ho compiuto diciott’anni sono partita e me ne sono andata in Asia» continuò. «In Australia ci sono venuta più avanti perché mi mancava il clima secco. Poi mi piace perché è piat- ta. E per il lavoro, beh, se viaggiassi e basta mi annoierei.» Quando entrammo al Gunny gli unici due clienti ci guardarono inebetiti. Il barista, Rick, emerse da sotto il bancone con due botti- glie, le stappò e gliele passò. Ci salutarono. C’era solo Rick a servire: ci seguì al tavolo e ci porse un menu. Io già sapevo cosa mangiare: un hamburger con patate fritte e una birra. Beatrice non disse nulla, così la guardai e lei mi annuì e sorrise. «Fai due, Rick.» Lui alzò gli occhi e mi ripeté: «Quindi due?». «Sì, due» dissi io. Lui prese il menu, disse «come vuoi» e se ne andò.

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Beatrice si alzò, frugò nelle tasche dei suoi pantaloni, tirò fuori una moneta da un dollaro e andò verso un vecchio jukebox che stava accanto al bancone. Nel locale risuonarono le prime note di un disco che conoscevo. Beatrice tornò al tavolo, si sedette e ascoltammo il primo pezzo in silenzio. Mi voltai e feci un gesto a Rick, chiedendo se potevo fu- mare, e lui piegò la testa di lato; non c’erano problemi. Mi rollai una sigaretta e fumai per tutta la durata del pezzo. Mi ricordai di quando ero bambino e rubavo i dischi nel negozio di musica del mio quartiere. Una volta mi scoprirono con lo zaino pieno. «Il prossimo edificio a cui darò fuoco è la fabbrica dove lavori» disse a un tratto Beatrice. «Come hai detto?» Ero concentrato sul mio ricordo e credetti di non aver capito. «Sì, la vera ragione per cui sono in Australia è che con questo clima è molto facile appiccare fuochi.» Stava giocando con il mio accendino, che avevo appoggiato vi- cino al posacenere. «Mi faresti una sigaretta?» Annuii e tirai fuori il tabacco dalla tasca, rollai una sigaretta e gliela passai. Lei la accese, fece una boccata profonda, appoggiò un gomito sullo schienale e si voltò a guardare il soffitto. Espirò il fumo verso l’alto. Aveva un collo bellissimo, forte; pensai che avreb- be potuto reggere qualsiasi peso. «Non è troppo semplice, perché non devo farmi beccare» comin- ciò a dire. «Non è che posso cospargere tutto di benzina e buttare un fiammifero. È più complicato. Finora ho incendiato tre edifici, qui in Australia.» «…» «…» «Perché lo fai?» «Erano tutti vuoti. Mica sono un’assassina. Voglio punire—» «Cosa?» «Quelli che se lo meritano.»

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Mi rollai una sigaretta e fumai per tutta la durata del pezzo. Mi ricordai di quando ero bambino e rubavo i dischi nel negozio di musica del mio quartiere. Una volta mi scoprirono con lo zaino pieno. «Il prossimo edificio a cui darò fuoco è la fabbrica dove lavori» disse a un tratto Beatrice.

«Fammi capire, bruci le proprietà dei criminali?» «Diciamo che do fuoco ai luoghi che conservano ricordi perico- losi» rispose battendo il dito indice sul legno del tavolo come a voler marcare quanto aveva detto. «E come fai a sapere quali sono gli edifici giusti?» «Diciamo che ho un sesto senso… e poi raccolgo più informa- zioni possibili.» «Perché lo racconti proprio a me?» Lei spense la sigaretta e prese a strofinarsi le mani sulle cosce. «Da un po’ sento il bisogno di parlarne con qualcuno e tu mi sei sembrato il tipo adatto.» «Ah.» «La verità è che è un po’ che ti tengo d’occhio.» «Mi tieni d’occhio?» «Beh, sì, qualcosa del genere. Ho dovuto fare diversi sopralluo- ghi alla tua fabbrica. Ti ho visto lavorare e parlare con gli altri ope- rai, Adrian e James. Mi sei sembrato uno che apprezza le cose per quello che sono, che si prende il tempo giusto prima di formarsi un’idea su qualcuno.» La immaginai ad ascoltarci acquattata fuori dalla porta del ca- pannone. «Non credo di essere tanto speciale.»

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A quel punto arrivò Rick con i piatti e le birre, che appoggiò dalla mia parte del tavolo. Lo ringraziai e spostai un piatto e una birra davanti a Beatrice. «Quando incendierai il capannone?» le chiesi. Lei mi guardò a lungo in silenzio, poi disse: «Presto».

Ci incontrammo ancora. Sulle colline intorno al paese, sul lago Ninan che in quel periodo era una distesa di fango rappreso, nei boschi radi che c’erano a nord. Un fine settimana camminammo vicino all’oceano, sulla spiaggia più grande che abbia mai visto. Era per fare qualcosa insieme, per evitare di stare sempre soli. Credevo di conoscere il segreto della solitudine ma in quel perio- do ricominciavo a subirne la forza. Probabilmente per lei era lo stesso. Mi parlava dei suoi viaggi. Per lei erano soprattutto percezio- ne. Esponeva un’ininterrotta serie di fatti senza vera consapevo- lezza. Senza la minaccia dei significati o il peso delle metafore. Quand’eravamo insieme faceva il censimento del mondo. Di quello passato e di quello presente. «Guarda il lago, è asciutto» diceva. «L’asfalto qui ha un colore che non avevo mai visto», «sei dimagri- to», «quello è un cespuglio di lupino, quello che usate per il paccia- me». La ascoltavo e non facevo domande. Forse Ginevra si sarebbe espressa diversamente. Ma non posso esserne sicuro, non mi sono mai soffermato troppo a immaginare come parlava. Con i gesti era diverso. In Beatrice ritrovavo spesso quelli di Ginevra. La camminata veloce, l’agilità, guidare con una mano sola stretta alla base del volante, succhiarsi le pellicine delle dita, scroc- chiare le ossa delle mani. Mentre camminavamo accanto all’oceano, le chiesi di nuovo per- ché avesse deciso di bruciare la fabbrica di David. «Quando mi verrà voglia andrò lì e appiccherò il fuoco.» «Ho capito, ma perché proprio questo capannone, e non un altro? Ce ne sono molti qui intorno.»

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«Ho scelto quello perché è isolato. Non voglio rischiare un in- cendio troppo grosso. E poi tu ci lavori e mi darai una mano.» «Non ho nessuna intenzione di aiutarti a bruciare il capannone. Non sono un criminale.» «Non hai capito. Mi ci devi portare per fare un sopralluogo.» «Per questo ti sei avvicinata in piscina?»

Al capannone ci andammo quella stessa notte. Sapevo che non ci sarebbe stato nessuno. Alzai la saracinesca sul retro il tanto che ba- stava per passarci. Beatrice illuminò il soffitto con una torcia, alzò la testa verso l’alto e si mise a guardarlo, come se fosse in una cattedra- le e volesse ammirare gli affreschi. Rimase così per un po’, muoven- do la luce lungo le pieghe della lamiera. Poi esplorò il resto dell’am- biente. Sollevava gli oggetti, li analizzava e poi li rimetteva dove li aveva trovati. Lo faceva piano, con delicatezza. Ginevra avrebbe fatto lo stesso: era una tossica, ma ci metteva cura nelle cose. Mi sedetti sul muletto e attesi che Beatrice finisse. Spariva die- tro le pile di pacchi di pacciame e mi lasciava nel buio. Quando volle aprire la macchina per vedere com’erano fatti gli ingranaggi la aiutai. Passò un’ora buona. Quando andammo via mi strinse forte il polso, come faceva Ginevra quand’era felice. «È perfetto» disse.

5. La mattina dopo l’incendio tornai a piedi alla guest house, presi il mio bagaglio e mi diressi alla fermata degli autobus. Tornavo a Perth, e a metà strada avrei dovuto prendere una coincidenza, ma alla fermata del cambio trovai Beatrice che mi aspettava. Era appoggiata al tronco di un albero morto. Le andai incontro e ci abbracciammo prima di entrare nella sua station wa- gon e avviarci sulla statale. Il paesaggio intorno era sporco e scuro. «Il capannone è andato completamente in cenere» dissi. Beatrice guidava con il petto vicino al volante. Ogni tanto si sporgeva ancora

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più avanti e alzava lo sguardo per scrutare le nuvole; poi tendeva la mano all’esterno della macchina attraverso il finestrino spalancato e apriva il palmo verso l’alto. «È inutile che speri nella pioggia,» le dissi «non arriverà mai». Lei m’ignorò e chiese: «E l’idea di mettere fuori uso l’autopompa?». «Mi chiedo come hai fatto.» Si voltò verso di me e sorrise orgogliosa. Poi le chiesi cosa avrebbe fatto una volta arrivata a Perth e lei si rabbuiò. «Credo che rimarrò per qualche tempo in città e poi volerò da qualche altra parte. Non puoi venire con me.» «Lo so Beatrice, me l’hai già detto…» feci io a bassa voce. Che a Perth ci saremmo dovuti dividere me lo aveva detto più di una volta. «Eccola che arriva» fece a quel punto, mentre ero assorbito dai miei pensieri. «Cosa?» le chiesi. «La pioggia.» La sua voce risuonò come se provenisse dal fondo di una caverna. Beatrice ritrasse la mano all’interno della macchina e me ne mostrò il palmo: era bagnato. Lo portò vicino alla bocca e lo leccò, emise un verso di piacere. Fuori, a poche centinaia di metri di distanza da noi, un fulmine si abbatté sulla strada emettendo un tuono brevissimo. Mi parve spezzare l’aria in due per poi risucchiarla violentemente e scaricarla a terra nel punto in cui colpiva l’asfalto. Beatrice inchiodò e la mac- china sbandò leggermente. Poi si slacciò la cintura, aprì la portiera e uscì. Non riuscendo a capire cosa stesse succedendo, decisi di se- guirla. Andò verso il bagagliaio e lo spalancò.

«È inutile che speri nella pioggia,» le dissi «non arriverà mai».

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«Eccola che arriva» fece a quel punto, mentre ero assorbito dai miei pensieri. «Cosa?» le chiesi. «La pioggia.»

«Cosa stai facendo?» chiesi. Non rispose e si piegò verso l’inter- no della macchina per aprire il vano della ruota di scorta. Lì sotto c’era un vecchio fucile. Lo impugnò e riemerse. «Che ci devi fare con quello?» insistetti, ma lei continuò a ignorarmi. Tirò fuori un proiettile dalla tasca e caricò l’arma. Poi sì voltò e si diresse verso la campagna con il fucile in spalla. Aveva un’espressione seria. Io cercai di fermarla stringendole una mano intorno al braccio ma lei mi strattonò e si liberò. Accelerò il passo. «Si può sapere dove vai?» le urlai ancora. Ero confuso, zuppo di pioggia. Lei si fermò di botto, appoggiò il fucile a terra. «Possibile che non l’hai ancora capito?!» Riprese a camminare, ma io smisi di seguirla e rimasi dov’ero. La vidi sparire nell’acqua. Tornai verso la macchina, misi in moto e mi allontanai velocemente da lì.

La mattina dopo mi svegliai vestito nella stanza di un ostello di Perth. Ero solo. Qualcuno bussava con insistenza, ma non avevo voglia di alzarmi. Misi le mani sul punto della mia pancia in cui stava penetrando il coltello che poco prima aveva attraversato il soffitto. Il calore si stava diffondendo all’interno del mio corpo ma il rumore dei colpi sulla porta non s’interrompeva. «Sì?» Mi rispose una voce di donna, probabilmente la portiera del- l’ostello.

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«C’è la polizia che vuole parlare con lei. La stanno aspettando nella hall.» «Parlare con me?» «Lei è Andrea Landes, no?» «Sì, sì, sono io, gli dica che arrivo.» Udii i suoi passi allontanar- si e mi diressi verso il bagno. Bevvi dell’acqua dal rubinetto e mi sciacquai la faccia. Quando la sollevai, mi vidi nello specchio sopra al lavandino. Ho una faccia strana, se muovo la bocca le rughe che si formano mi invecchiano di dieci anni. Fa un po’ paura. Di me mi piacciono solo gli occhi: hanno una forma insolita; dicono che sono duri e precisi. Mi sono toccato il segno che avevo sul braccio, e sono uscito.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 75 13/02/2018 21:42:34 Nessun rumore. Dovevano essere tutti a letto. Accese la torcia del cellulare e si fece luce fino all’armadio. Fermo. Dove cazzo vai senza cartuccia? Tornò indietro, la prese dallo zaino, custodita tra le mutande, e con immensa gioia la inserì nel caricatore.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 76 13/02/2018 21:42:34 Angela era sorpresa. Per la prima volta da quando stavano insieme, Davide non aveva messo su la solita faccia da uxoricida quando lei gli aveva proposto di trascor- rere il weekend a casa dei suoi, a Pinzolo. Davide non sapeva sciare. Odiava il fred- do. Gli faceva cacare la polenta. Normale che detestasse la montagna. Soprattutto se l’alloggio era una mansarda di cin- quanta metri quadrati in affitto dove era impossibile andare in bagno senza che gli

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altri sapessero cosa stessi facendo. Tuttavia, mentre mangiavano un pollo al curry troppo piccante che Angela aveva rinfrescato con lo yogurt rendendolo una bomba acida, Davide era di buonumore come chi non vede l’ora di partire. Mi ama, pensò lei, e quella sera lo premiò infilandosi nuda nel letto. Non scopavano da tredici giorni.

Partirono da Milano di venerdì sera. I genitori di Angela passarono a prenderli sotto casa dopo il lavoro. Il bagagliaio della Rover strari- pava, e il poco spazio disponibile era occupato da Bruto, un bulldog francese dall’intestino gassoso. Davide viaggiò insaccato sul sedile posteriore con lo zaino sulle

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ginocchia e il culo del cane in faccia. Non potendo muoversi non riuscì a togliersi la giacca e se la tenne addosso iniziando a sudare sotto la maglia termica. A Trento il padre di Angela mise un cd di Amedeo Minghi, e su Vattene amore duettò con la moglie affron- tando i tornanti a novanta all’ora. Per non vomitare Davide dovette abbassare il finestrino, paralizzandosi il collo con l’aria gelida delle Dolomiti. Arrivati a Pinzolo era d’un pallore spettrale e non appena fu a casa, dopo aver aiutato i genitori di Angela a portare dentro i bagagli – valigie Roncato mostruosamente pesanti –, si chiuse in bagno e vomitò due volte. «Come stai?» chiese lei ritrovandoselo davanti. «Alleggerito» rispose lui pulendosi la bocca con la manica del Napapijri. «Ti preparo un tè?» «Volentieri.» Lei lo guardò al limite della commozione. «Grazie che sei qui, lo so che per te è uno sforzo.» Davide minimizzò e, mentre Angela andava ai fornelli, si chiuse in camera per controllare che la ragione per cui aveva accettato di trascorrere il weekend a Pinzolo fosse ancora lì. L’hanno spostato…, pensò angosciandosi. Peggio ancora, l’hanno venduto a un collezionista vintage facendosi fottere sul prezzo. Non si sarebbe dato pace. Difficilmente avrebbe avuto un’altra occasione. L’ansia fluttuò dallo stomaco alla trachea, chiudendola, ma svanì quando, aprendo l’armadio, lo vide al suo posto vicino a un vecchio plaid a scacchi.

Rimase incantato ad ammirarne l’intramontabile design: grigio, squadrato, copiatissimo ma mai uguagliato, poi sollevò lo sportelletto immaginando l’attimo in cui l’avrebbe caricato.

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L’aveva trovato un mese prima, ospite durante il Natale, e non se l’era più tolto dalla testa, tanta la delusione per non averlo potuto utilizzare. Non c’erano cartucce. Stavolta però si era organizzato. Aveva pagato la cartuccia ot- tanta euro, settanta solo di spedizione dal Giappone. L’avrebbe usata quella notte senza che nessuno potesse interferire. Era emo- zionato. Quasi commosso al pensiero di sfogare i suoi impulsi repressi. Rimase incantato ad ammirarne l’intramontabile design: grigio, squadrato, copiatissimo ma mai uguagliato, poi sollevò lo sportel- letto immaginando l’attimo in cui l’avrebbe caricato. Chiuse l’armadio quando Angela, dalla cucina, disse che era pron- to il tè.

A cena pizzoccheri alla valdostana. Due forchettate e Davide era intoppato come dopo un All you can eat. Chiese del Geffer ma gli arrivò una fettazza di strudel. La mangiò per educazione ignorando i pinoli ai quali era intollerante, e dopo un quarto d’ora iniziò a pru- dergli la faccia.

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Non ne poteva più. Voleva solo andare a letto e attendere il mo- mento in cui sarebbe entrato in azione, ma dopo cena fu impossibi- le sottrarsi al solito «burrachino veloce». La partita a carte si protrasse mentre la legna diventava brace nel camino. Davide giocò in coppia col padre di Angela che, affrontando la partita con l’impeto di un guerriero acheo, fumò venti sigarette e consumò mezza bottiglia di grappa all’asperula, rimproverandolo ogni volta che sbagliava mossa. Vinsero le donne con uno scarto di cinquanta punti.

Alle undici il padre di Angela era fuori combattimento davanti al televisore. Davide aveva giocato di merda. Sovrappensiero, aveva addirit- tura scartato una pinella guadagnandosi una gragnuola d’improperi. Oltre a non saper sciare, a odiare il freddo, a disprezzare la polen- ta, gli faceva schifo giocare a carte. Ma non c’è traguardo senza un prezzo da pagare, e nel giro di poco, nel silenzio della notte, tutto ciò che aveva tollerato fino a quel momento sarebbe stato ricompensato. Oh sì, ci sarebbe stato da divertirsi!

Angela andò in camera e quando tornò indossava un pigiama di Oysho coi fiocchi di neve. Diede la buonanotte e prese Davide per mano. Lui si alzò e salutò educatamente. Gli rispose solo la madre di Angela. Il padre non gli rivolse la parola, incupito per la sconfitta davanti a un western su Retecapri.

Angela non si addormentò finché Davide non le ebbe scaldato il letto sdraiandosi accanto a lei. Letti del cazzo, duri da bestia, stretti e freddi come celle frigorifere. E troppo corti. Gli sbucavano i piedi dal piumone. S’immaginava le unghie viola dal freddo.

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Quando fu certo che lei dormisse si alzò e, immobile al centro della stanza, auscultò le palpitazioni della casa. Nessun rumore. Dovevano essere tutti a letto. Accese la torcia del cellulare e si fece luce fino all’armadio. Fermo. Dove cazzo vai senza cartuccia? Tornò indietro, la prese dallo zaino, custodita tra le mutande, e con immensa gioia la inserì nel caricatore.

Su Amazon c’erano milioni di titoli. Avrebbe potuto scegliere un classico. Super Mario, Zelda, Donkey Kong… ma l’unico videogioco che da piccolo l’aveva ossessionato fino all’esaurimento era Trojan, un hack’n’slash dalla grafica primitiva ideato da Takashi Nishiyama, artefice di titoli storici come Street Fighter e Fatal Fury. Nonostante ci giocasse tutto il giorno e si svegliasse la notte con l’ansia di fare una partita, non l’aveva mai finito. Una volta, aveva

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otto anni, ci era andato vicino. Dopo un intero pomeriggio attac- cato al videogioco era arrivato al boss finale, l’insormontabile King Shriek, e si stava apprestando ad affrontarlo al culmine dell’ecci- tazione quando sua madre, con spietata lucidità, aveva spento la console perché erano in ritardo per la lezione di judo. Davide aveva avuto una crisi isterica. Aveva scagliato il joystick contro il televisore, si era gettato a terra e aveva iniziato a rotolare sul tappeto urlando come un’aqui- la. La madre, sgomenta, aveva cercato di tranquillizzarlo. Ma era stato inutile e anche doloroso poiché aveva ricevuto una gomitata in faccia, e allora aveva chiamato il pediatra che gli aveva prescritto calmanti e vietato l’utilizzo di giochi elettronici. Trojan era sparito il giorno stesso insieme al Nintendo e a tutte le cartucce. Per Davide era stato come morire. Aveva digiunato, aveva detto che se non poteva giocarci si sareb- be fatto bocciare. A farlo rinsavire ci aveva pensato il padre con una scarica di legnate. Il Nintendo era diventato tabù, e quella maledetta partita a Trojan avrebbe avuto un impatto devastante sullo sviluppo della personalità insicura e fragile di Davide.

Il Nintendo non sopravvisse alla nascita di nuove console, e le pos- sibilità di finire Trojan diminuirono fino a scomparire. Tuttavia Davide non smise di pensarci. In cuor suo ci aveva sempre cre- duto e la certezza era arrivata anni dopo quando aveva trovato un Nintendo in ottime condizioni.

Trojan era sparito il giorno stesso insieme al Nintendo e a tutte le cartucce. Per Davide era stato come morire.

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Ce l’avrebbe fatta. Avrebbe superato il trauma ritrovando l’auto- stima perduta durante l’infanzia. Come? Rompendo il culo a King Shriek.

Portò la console in soggiorno ma si pietrificò quando vide il padre di Angela addormentato davanti a Retecapri. Il volume era al minimo. Al posto del western c’era un troione che si massaggiava le tette. Nemmeno per un attimo Davide fu sul punto di rinunciare. Posò il Nintendo su una sedia e la accostò al tavolo affinché non si vedesse, poi aprì l’acqua del lavello e la fece scorrere sperando che il rumore svegliasse il vecchio. Niente da fare. Russava a bocca aperta con la bottiglia di grappa accanto. E allora Davide tornò in camera, prese il cellulare, e lo chiamò con l’anonimo finché lo vide boccheggiare sul divano spu- tacchiando saliva. Si fece trovare davanti al lavandino col bicchiere in mano, bevve un sorso d’acqua e disse: «Che sete quei pizzoccheri…». Rincoglionito dal sonno e dall’alcol, il padre di Angela bo- fonchiò qualcosa, e si svegliò del tutto quando vide cosa offriva a quell’ora il palinsesto di Retecapri. Il troione era passato dal massaggiarsi le tette a ciucciare un caz- zo di gomma. Armeggiò col telecomando e spense imbarazzato il televisore. Si alzò e passando davanti a Davide disse trucemente: «Se non scartavi la pinella avevamo vinto». Ciabattò verso le camere chiudendo la porta. Coglionazzo, pensò Davide. Finalmente solo, collegò il Nintendo al televisore.

Anni d’inattività l’avevano reso una pippa. I nemici spuntavano a frotte massacrandolo senza pietà. Se li ricordava tutti: soldati a petto

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nudo armati d’accetta, lottatori con protesi metalliche al posto delle braccia, cecchini nei tombini, guerrieri con corazze d’armadillo. Li affrontava impavido, crepava subito e ricominciava da capo. La frustrazione cresceva col susseguirsi dei game over, fomenta- ta dal ritmo ossessivo della musica che, anche a volume bassissimo, rendeva Trojan un gioco di culto. Negli anni Novanta la Capcom aveva pubblicato l’audiocassetta della colonna sonora. Davide l’ave- va comprata di nascosto dalla madre per ascoltarla di notte quando nessuno poteva vederlo. Era una musica elettronica inquieta e ner- vosa con la quale era struggente rievocare al buio i duelli coi nemici e lo scorrere dei livelli. Livelli che adesso scorrevano davvero! Aveva ingranato. Sul joystick le dita erano veloci come quelle di Keith Emerson su un sintetizzatore Moog. Ma aveva male alle dita. A furia di pigiare gli si erano infiam- mati i polpastrelli. Vietato mollare! Afferrò la grappa e lenì il dolore bevendo a canna dalla bottiglia.

Memorizzando le zone d’appostamento nemiche e contrattaccando efficacemente era arrivato al terzo livello. Tra dirupi e paludi infestate da piranha, i nemici aumentarono considerevolmente: truppe di Smasher, Slasher e Skyrogyros, un Armadillon e un Goblin armato di shuriken. Ucciderlo era diffici- lissimo. Saltava troppo in alto. Ci voleva il bonus jump, e incredi- bilmente, scavando nella memoria, si ricordò dov’era: dentro una fogna satura di liquami tossici. Lo prese, saltò in alto quanto il

Sul joystick le dita erano veloci come quelle di Keith Emerson su un sintetizzatore Moog.

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Goblin e riuscì a saccagnarlo fino alla morte e ad accedere al quarto livello. Poi sentì una gran puzza di merda. Mise il gioco in pausa e an- nusò l’aria disgustato. Vicino al camino vide Bruto con le orecchie all’indietro in atteggiamento colpevole. Aveva mollato una bomba malefica appestando la mansarda. Si alzò e trascinandolo per il collare lo chiuse fuori, sul balcone. Tornato davanti al televisore si attaccò alla grappa e fece un sorso d’alpino. Si sentiva invincibile. In scioltezza superò quarto e quinto livello.

Il sesto livello era un edificio di tredici piani dove avrebbe combat- tuto su una pedana che fungeva da ascensore. Ogni piano presen- tava una differente combinazione di nemici tra Smasher, Slasher, Mamushi e Armadillon. Utilizzò con efficacia lo scudo e la spada e, dopo essersi sbarazzato di un altro Goblin, si presentò al cospetto di Muscular: un energumeno che con ogni colpo di mazza toglieva due punti d’energia. Erano necessari ottimi riflessi, ma la grappa giocava a sfavore. Vedeva sfocato, tuttavia aveva accumulato quat- tro vite extra ed ebbe il tempo di adottare una strategia: colpire il nemico con la spada nell’attimo in cui sollevava la mazza e saltare velocemente indietro prima che gliela calasse in testa. Questione di tempistica. Approccio, affondo, salto indietro… approccio, affondo, salto indietro… Contro Muscular sprecò tre vite e a un’ora dall’alba iniziò la scalata all’ultimo livello nelle medesime condizioni di ventiquattro anni fa: occhi arrossati, palpitazioni da stress e una sola possibilità di sconfiggere King Shriek.

…il boss raspava la porta con le sue dita adunche. Un rumore or- rendo. Il suono della disfatta. Sarebbe entrato ingobbito e drizzan- dosi di colpo avrebbe sfondato il tetto della mansarda. Gli avrebbe strappato le gambe, le braccia, l’avrebbe strizzato come una spugna

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e bevuto il suo sangue caldo perché nessuno, dall’alba dei tempi, aveva osato sfidare King Shriek… Davide si svegliò con un grido in gola. Era giorno e il raspare si era interrotto. Si alzò dal divano e col naso schiacciato contro la finestra con- trollò che davanti alla porta non ci fosse nessuno. Il terrazzino era sgombro. A bordo pista invece c’erano il padre e la madre di Angela con gli sci e le racchette in mano. Erano usciti in silenzio per non svegliarlo. Panico. Quanto ho dormito?

Prima d’affrontare King Shriek aveva deciso di riposare perché gli facevano troppo male gli occhi per resistere un minuto in più. Temendo che gli spegnessero il Nintendo, l’aveva nascosto dietro il televisore e aveva spento lo schermo lasciando il gioco in pausa. Avrebbe sonnecchiato mezz’ora, il tempo di ricaricare le pile, invece era crollato fino alle sette del mattino. La luce del sole entrava forte dall’abbaino illuminando il sog- giorno. Presto si sarebbe svegliata anche Angela. Sbrigati!

La reggia di King Shriek era scavata nella roccia con arcieri appo- stati tra le stalattiti e fiumi di sangue da guadare controcorrente. La battaglia finale si sarebbe svolta in un atrio di granito, e dall’esito sa- rebbe dipeso il suo destino e quello degli oppressi di tutto il mondo. Seduto sul trono con una corona d’ossa in testa, King Shriek sem- brava dormire, ma non appena avvertì una presenza a pochi passi da lui, afferrò un mazzafrusto e si fece avanti roteandolo vorticosamente. Swosh… swosh… swosh… Di punto in bianco il rumore aumentò d’intensità ricordando quello di una turbina.

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retabloid_fi1_web_13feb19.indd 87 13/02/2018 21:42:35 Che cazzo è? Quel rumore era così realistico che non sembrava provenire dal videogioco. Davide mise in pausa e restò in ascolto. Il phon… Angela aveva acceso il phon. Fermala! Se salta la luce è finita! Era già successo. A Natale stavano guardando un film mentre la madre si asciugava i capelli e l’impianto era andato in tilt. Nella foga d’alzarsi Davide staccò il joystick dal Nintendo por- tandoselo dietro. Cosa cazzo si lava la testa alle sette di mattina quella stronza?

Quando entrò in bagno la vide accovacciata per terra. Stava phonando Bruto. Il cane sgocciolava sul pavimento e la vasca era piena d’acqua calda. «Ce l’hai messo tu sul terrazzo?» chiese acida Angela sfregandogli il pelo. Davide si accorse che tremava tutto. Angela urlò: «L’hai chiuso tu il cane sul terrazzo?!». Aveva trascorso la notte a meno due gradi. Era un miracolo che fosse vivo. Dopo aver raspato alla porta d’ingresso per farsi aprire, aveva fatto il giro del balcone e si era messo a guaire alla portafinestra di Angela.

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Stronzo di un cane… Cercò di evitare la scenata: «Non sono stato io, sarà uscito da solo». «Non può essere uscito da solo!» «Allora ce l’avranno messo i tuoi visto che scoreggia senza pietà. Spegni il phon per favore!» «Cosa?» «spegni il phon cazzo!» Angela vide il joystick: «Cos’è quello?». Ma Davide era già scattato in avanti. Afferrò il phon e cercò di strapparglielo dalle mani. Angela tirava dall’altra parte arricciando coi piedi il tappetino del bagno. «Che cazzo fai?» «ho detto spegni il phon!» Spaventato dal trambusto, Bruto iniziò a ringhiare. Se Davide l’avesse sentito avrebbe mollato la presa, ma il rumore del phon era assordante e, quando Bruto reagì per difendere la padrona, il morso fu inaspettato. Lo aveva attaccato alla coscia, un po’ più su, e gli avrebbe bucato una palla.

L’avrebbe soffocata. Si sarebbe sbarazzato di quella vacca per sempre e, quando i suoi sarebbero tornati dalla sciata, ad attenderli davanti alla tv avrebbero trovato uno psicopatico con in mano un joystick sporco di cervello di cane.

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Davide urlò di dolore e iniziò a dimenare il bacino sbatacchian- do di qua e di là Bruto, che aveva la resistenza di un toro e conti- nuava a stringere come una ganascia. Un male atroce! Lo colpì col joystick in mezzo agli occhi, violentemente, prima di piatto e poi di taglio a mo’ di pugnale immaginando uno scontro corpo a corpo con King Shriek. L’osso cedette e il joystick affondò con tenerezza nel cranio. Alla vista del sangue, Angela iniziò a urlare e si scagliò contro Davide che la respinse con una manata. Cadde a terra e gattonò fino alla trousse. Davide la vide prendere qualcosa e si accorse che erano forbici solo quando gliele conficcò nella ciabatta. «troiaaa!» La prese al lazo col filo del joystick. La tirò a sé come un gau- cho. L’avrebbe soffocata. Si sarebbe sbarazzato di quella vacca per sempre e, quando i suoi sarebbero tornati dalla sciata, ad attender- li davanti alla tv avrebbero trovato uno psicopatico con in mano un joystick sporco di cervello di cane. Lui non avrebbe detto una parola, avrebbe atteso che trovassero il corpo della figlia solo per

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ammirare lo stupore sulle loro facce e poi, coi ferri del camino, avrebbe proseguito la mattanza. Nessuno sarebbe tornato vivo da quel weekend a Pinzolo. Nessuno. Nemmeno lui… Angela afferrò il filo del joystick e diede uno strattone. Davide era troppo impegnato ad ammirare i suoi occhi rovesciarsi mostran- do le sclere giallastre per aspettarsi una reazione. Inciampò sul tap- petino e cadde faccia avanti trascinando Angela, phon e cane nella vasca.

È in voga la convinzione per cui un impianto elettrico a norma sia a prova d’incidente. Non è così: anche se interviene l’interruttore differenziale, la corrente che si propaga nell’acqua causa danni ir- reversibili al sistema cardiocircolatorio e la morte per folgorazione.

game over

Racconto dedicato con stima e affetto al game designer giapponese Takashi Nishiyama.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 91 13/02/2018 21:42:35 L’ombra mi raggiunge; ho il terrore di scoprire che il suo volto è un triangolo, i suoi occhi fessure nella plastica. Ho il terrore di sentire la sua voce da stampante, il suo sbadiglio da caldaia. Sono tutte cose che so già e che voglio evitare.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 92 13/02/2018 21:42:35 Le luci si sono spente tutte insieme ed è calato un silenzio calmo. Amo principal- mente questo dello spettacolo: il silenzio prima. Trenta secondi fa tutti parlotta- vano o tossivano o sbadigliavano; adesso sarebbe una bestemmia. Nel buio poi sono nascosto; nessuno po- trebbe vedermi neanche se colpissi la nuca della donna seduta davanti a me. Potrebbe avere solo il sospetto, che sia stato io. Non fosse per il profumo direi di

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essere solo. Sprofondo nella poltrona, il sipario illuminato ondeggia stanco e tiepido. Una nota di basso. Prima di questo paragrafo ce n’era un altro in cui io non c’ero, e ringrazio chiunque l’abbia can- cellato. Va bene, dài, partiamo.

Un fumo azzurro sale sbuffando dal pavimento, lo inghiotte con cura. Le sue spire muoiono l’una nell’altra per risorgere appena più chiare e scomparire. La nota di basso continua sempre uguale, soli- taria dal diaframma del teatro. Il fumo striscia sulle pareti, raggiun- ge un soffitto incompiuto.

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Un riflettore del palco punta verso gli spettatori, ma la sua luce bianca si arresta sul sipario senza illuminare la platea. Un’ombra altissima spalanca piano le braccia, che si allungano sul pubblico: scompare e riappare dall’altra parte del palco, levita come uno spettro, le sue dita puntano verso di me. Sono schiacciato contro lo schienale, per starle il più lontano possibile. Di che colore è lo schienale? Nessuno ha deciso se è sof- fice, o se mi fa male la schiena. Quella nota è insopportabile, non la sento neanche più ma so che è lì perché mi torce lo stomaco. Mi sento malato, un fantasma che si è accorto di esser morto. Mi alzo in piedi sulla sedia ma le ginocchia non mi reggono, e cado sbattendo la nuca. Zoppicando e tenendomi la testa mi dirigo verso il palco; mi sembra di correre, ma non ne sono sicuro. Non so perché voglio avvicinarmi all’ombra. Riesco ad arrampicarmi sulla ribalta e la musica si affievolisce, per poi tacere quando arrivo sotto al riflettore. Il fumo mi avvolge il collo, il riflettore mi acceca, chiudo gli occhi e mi riparo con le braccia correndo verso l’ombra.

Avevo detto «partiamo».

«C’è poco da scherzare.» «Guarda che c’è poco da scherzare.» Mi volto e vedo due uomini stravaccati su due seggiole alle estre- mità di un tavolo. Alcune pile di copioni non gli permettono di vedersi, devono torcere il collo. Fumano sigarette e tossiscono. «Dove rifugiarsi? “Guarda che c’è poco da scherzare” dice il—» «Ma aspetta, però, di che scena stiamo parlando? Perché all’ini- zio—» «Atto terzo, quella della—» «Perfetto.» «L’illusione di aver bla bla» l’uomo sfoglia uno dei copioni.

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«Trovato. Atto quarto, era l’atto quarto. “C’è poco da scherzare” disse la—» «Uff, guarda che eccetera.» «Mi rifugerò dove non scorrono… non scorrono i fiumi? Cosa vor- rebbe dire? È stato aggiunto?» I due uomini si gettano i fogli alle spalle e si guardano negli occhi. Uno appoggia i pugni sul tavolo e ci schiaccia sopra il mento. «Potrebbe essere questa sera, c’è la prima dello spettacolo.» «La prima dello spettacolo non ha alcun significato. Non è la prima di niente. Quante volte bisogna riscrivere un dialogo per ren- derlo spontaneo? Per dare l’impressione che non sia riscritto? Te lo dico io: più volte lo riscrivi, meno sembra riscritto. Più te lo studi, meno sembra studiato. La scienza delle emozioni. Il trionfo di—» «Oh, che palle. Allora sarà questa sera. Ma sei sicuro di stare bene? Gli attori—» «No, ma no, ma no, ma non è adesso che devi sanguinare…» L’altro uomo emette un breve urlo soffocato, si porta le mani al viso e cade a terra, dove inizia a contorcersi e a sibilare «pietà, pietà». «Va bene, dài. Adesso partiamo sul serio» continua l’altro, grat- tandosi un orecchio. «Pietà, pietà, e poi?» «Pietà, mio dio, pietà, dio aiutami…» «Dio… Di… oh. Vabbè, ma poi? Niente?» Scrive su un bloc- chetto, poi alza lo sguardo verso di me. «Beh? Ti sembra che quelli aspettino te? Sono esigenti, lor signori.» Si alza, drizza la schiena, si copre la bocca da un lato e si china sul mio orecchio. «Si dice che ci siano critici importanti. Potrebbe essere stasera. C’è la prima dello spettacolo.» «Mio dio ti prego» continua l’altro. La platea, adesso, è abbastan- za illuminata da lasciar vedere i volti, ma non c’è nessun volto; solo una distesa di sagome di cartone uguali e immobili. L’addetto alle pulizie trascina il suo bidone tra le file e spazza il tappeto. Ogni tanto borbotta qualcosa e bestemmia. L’uomo mi guarda di nuovo e sbuffa. «Ah… D’accordo, allora possono aspettare.» Mi sorride, mi met- te una mano sulla spalla, poi si avvicina di nuovo al mio orecchio.

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«E scommetto che i critici non ci sono.» Mi strizza l’occhio. «Pietà, pietà» si contorce l’altro. Il primo uomo lo prende per un brac- cio e lo trascina fuori; a mano a mano che si allontanano le luci si abbassano e comincio a sentire qualche voce dalla platea. Il basso riprende inesorabile; non posso sopportarlo. Deve smettere adesso.

Apro un occhio. È tutto sfocato e non riesco ad aprire l’altro. Guar- do alla mia destra, lentamente mi abituo alla luce lontana ma inten- sa del palco, sento di nuovo il profumo: a proposito, qui c’è scritto che è di mia moglie. Faccio finta di niente e riprendo a guardare lo spettacolo. Penso alla lingua del sogno, alla mia lingua intorpidita dal sonno. Agli errori che fanno. Non mi è dato di sapere niente. Non ho una destra né una sinistra. Sul palco un poveraccio è legato a una sedia, si guarda attorno con gli occhi socchiusi senza badare all’uomo in piedi di fronte a lui, vestito di bianco, che scuote la testa alzando le mani per coprirsi il volto e urla «perché, perché, che ho fatto», o qualcosa di simile. Un terzo uomo, che indossa un completo marrone e ha i capelli imbril- lantinati, spara in fronte all’uomo in bianco. L’assassino si siede, tira un lungo sospiro e si gratta il collo con la canna della pistola; poi si volta verso l’uomo legato e gli sorride. «E quindi puoi fare ciò che vuoi» gli dice, continuando un dialogo che non ho ascoltato. Se mia moglie sapesse che ho dormito, qualcuno dovrebbe decidere come farla reagire. Le accarezzo la mano nel buio; è gelida e le ricade sulle gambe. Le scuoto un braccio, magari per rim- proverarla di essersi addormentata a teatro; la testa le cade sulla spalla. Le prendo il viso e lo guardo più da vicino. Gli occhi guardano in alto e la bocca è serrata in un’espressione di dolore. Il corpo mi scivola pian piano addosso, senza vita. Insomma, qui tecnicamente dovreste capi- re che è morta, perché ci sono indizi sempre più evidenti fino a quel «senza vita» eccetera. L’intera platea scoppia in una fragorosa risata. Scuoto il corpo di mia moglie, quasi posso sentirlo reagire, ribel- larsi come fosse vivo. Poi sento delle voci, viene azionato un motore elettrico, mi sembra di vedere un fulmine.

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«Ma che stai facendo? Sei pazzo?» mi sussurra stizzita. Allento la presa, rimango con le mani a mezz’aria, provo a chiudere gli occhi ma non riesco neanche a muovere le labbra per parlare. «Ma tu non stai bene» dice toccandomi la fronte. «Cos’è, ti eri addormentato e sei anche riuscito ad avere un incubo? A teatro? Non ho parole…» La sua voce ora è dolce come quella di una specie di madre. Balbetto qualcosa. «Mio dio, hai la febbre. Torniamo a casa, stai tremando… Gui- do io.» Ho solo la forza di annuire. Ci dileguiamo in silenzio lungo le file di poltrone dicendo «scu- si» e «permesso» e ben presto siamo all’aria aperta. Inizio a riordi- nare i pensieri: ho visto male, era buio, qualcosa del genere. No, non mi va. Qui, credo, ci dovrebbe essere una parte in cui cerco di razionalizzare quanto appena visto/creduto di vedere. Dovrei usare verbi tipo «trasalire» e «dipanarsi», dovrei dire «perdifiato» (fida- tevi). Allora: «Inizio a riordinare i pensieri» presupporrebbe una spiegazione almeno accennata, per tener viva la sospensione dell’in- credulità, ma forse è meglio lasciar perdere. Lo vedete da voi che tutto vacilla. Quello che ha tirato su questa roba è un insicuro con una brutta faccia. Quindi: mi volto verso il teatro. Non mi ricordo qual è la mia macchina. Se ho una macchina. «È che la storia è iniziata quando eri già lì.» Mia moglie ride e prende un mazzo di chiavi, a colpo sicuro, dalla tasca destra della mia giacca. La seguo lungo i corridoi del parcheggio: le automo- bili mi sembrano tutte uguali, grandi station-wagon grigie con un aggeggio che penzola dallo specchietto. Guardo in alto: dire che il cielo è coperto di nuvole è un cliché, quindi riabbasso subito lo sguardo, metto le mani in tasca e mi accorgo che in quella destra c’è un foglio piegato.

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Spettacolo in sei atti Regia: Principali interpreti:

Al nuovo teatro di Franklin Delano Roadevelt Abbiate sete. Sete. Pregiate.

Non dimenticate il pendolo.

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Scuoto la testa, lo strappo e lo getto alle mie spalle. L’aria della notte mi spinge lungo un percorso già deciso da qualcuno che però non si aspettava di vedermi qui adesso. Qualcuno di losco, con una brutta faccia. Saliamo in macchina: una station-wagon grigia con un aggeggio che pende dallo specchietto. Il motore si accende e qualcuno alla radio mi chiede di aiutarlo a occupare il cervello. Qualcun altro dice che va bene, possiamo partire. Mi piacerebbe capire cosa c’è intorno a me, o almeno cosa c’è lungo la strada, dopo i fanali dell’auto. È troppo buio. Vorrei rima- nere così: vedere dove sono ma non dove sto andando. Sapere dove sono ma non cosa c’è intorno. Se mi venisse voglia di scoprirlo potrei svoltare bruscamente, ma non credo mi sia permesso. Abbasso lo schienale e mi tormento le mani, il riscaldamento fa soltanto rumo- re. Mia moglie mi sorride. «Ma eri molto stanco?» «No… non lo so, non mi sembrava, non lo so.» «Avevi una faccia…» Mi accarezza. «Ho dormito, credo.» «Credi? Guarda che c’è poco da scherzare. Magari sei narcolet- tico.» Ridacchia come una deficiente. Il mio carattere, il modo in

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cui si dovrebbe giudicare la mia morale e quindi reagire a ciò che mi capita, l’empatia e l’immedesimazione e tutto ciò che fa funzionare un personaggio può essere facilmente sbilanciato e messo in discus- sione anche da una sola parola. «Beh sì, ero interessato, ci ero venuto apposta,» mento «e non so proprio come sia potuto accadere. Insomma, non avevo neanche sonno». «Quindi non è che tu creda di aver dormito.» «Credo che—» «Hai dormito, insomma.» Alzo le sopracciglia. Adesso il rombo del motore dovrebbe ricor- darmi la nota di basso, creando così uno stentato parallelismo con la parte del racconto dov’ero a teatro. «Beh sì» dico senza convinzione. «Ma allora devi aver sognato tutto. Se hai dormito, allora non c’è pericolo. Lo diceva anche il libretto.» Avendolo strappato dopo aver letto quella stupida intestazione annuisco sulla fiducia. Dev’essere una battuta venuta male. Qualcuno tira una riga a matita e qualcun altro gli dice che no, era meglio can- cellare la parte prima.

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«Già» sbadiglio. Mi sorride ancora. Non ha mai smesso. Ha smesso, invece, di guardare la strada. «Ma guarda dove vai, che cazzo!» urlo tirandomi su di scatto. «Va bene ma abbassa la voce, che cazzo!» Ridacchia di nuovo, facendomi il verso. «Adesso ce ne andiamo a casa» ondeggia la te- sta. «Mmm… beh andiamo da qualche parte dove faccia caldo.» Ho appena il tempo di notare la curva di fronte a noi. I suoi occhi, fissi nei miei, ignorano ancora la strada. D’istinto la spingo via con una gomitata e sterzo tirando il freno a mano. Un fumo azzurro ci avvolge nello stridore delle gomme, sollevato dal ter- riccio e illuminato dai fari. Mi sembra di vedere un’enorme mano nel fumo. Prego di aver chiuso bene le porte e che non ci arrivi addosso qualcuno, stringo gli occhi e trattengo il fiato. La mac- china si ferma quasi subito, appena oltre la carreggiata. Il fumo si dirada. Ci dev’essere una mano da qualche parte. Forse c’è una mano nel cielo.

Spengo il motore e mi preparo a urlare qualcosa verso mia moglie, ma quando le punto un dito in faccia vedo che piange e si tasta le costole. «Fammi scendere da qua» si lamenta. Si slaccia la cintura di si- curezza e apre la portiera.

Mi sembra di vedere un’enorme mano nel fumo. Prego di aver chiuso bene le porte e che non ci arrivi addosso qualcuno, stringo gli occhi e trattengo il fiato.

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«Ti fa molto male? Stai bene?» Non pronuncio le parole come vorrei, suonano cariche di rabbia. In realtà non suonano affatto, ma c’è questo tacito accordo che sappiamo. «Fammi scendere da questa merda» insiste lei quando è già fuo- ri, e si accovaccia sul ciglio della strada. Si sistema il vestito e si guarda le scarpe. Oltre il guardrail non ci sono luci, nessuna città in lontananza, non si vedono case né il mare o l’orizzonte. C’è solo un sipario nero, con qualche venatura blu scuro. Mi sposto sul sedile destro e siedo con i piedi fuori dall’auto.

«Quand’ero piccola» dice tirando su col naso «mia nonna aveva una casa di mattoni in mezzo al bosco, come nelle favole. Al cen- tro della casa c’era una stanza con quattro porte, ed era una stanza tutta di legno, le pareti, il pavimento, anche il lampadario, e il lampadario aveva quattro lampadine di legno, cioè quattro spor- genze a forma di lampadina. Bisognava passare da quella stanza se si voleva andare dalla cucina al bagno, o da una camera da letto all’altra, o da una camera alla cucina eccetera, insomma era pro- prio al centro della casa e le altre stanze non comunicavano tra loro. Adesso, non ti so dire se ho sognato questa cosa, o se magari ne ho un ricordo distorto perché ero troppo piccola, ma un giorno sono entrata in quella stanza perché dovevo andare in bagno… Cavolo, mi sembra ieri, ne ho un ricordo così vivido che è difficile credere di averlo corrotto. Quest’ultima frase non è realistica, non se vuoi rendere i dialoghi verosimili, è scritta male. Mi ricordo che stavo sbucciando le patate in cucina, sul tavolo grande, il tavolo di marmo, e a un certo punto volevo lavarmi le mani perché non sopportavo l’odore delle bucce. Allora, ascoltami: quando ho mes- so la mano sul pomello, spingendo la porta come avevo sempre fatto, mi sono accorta che bisognava invece tirare. Ed è strano, perché su quel lato della stanza, cioè quello dove alla porta sarebbe servito lo spazio se ci fosse stato bisogno di tirare per aprirla, c’era una cassapanca, quindi la porta non si poteva aprire più di tanto, così. Dopo una ventina di centimetri c’era la cassapanca che mia

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nonna aveva messo lì proprio perché non intralciava la porta che, appunto, si apriva spingendola. Comunque, ho tirato la porta e mi sono infilata nello spazio, lì, insomma, per passare dalla stanza di legno, e mi ricordo che ero scalza. Appena ho messo il piede sul pavimento…».

Questa non è notte, la notte è un’altra cosa. Di notte la realtà non si esaurisce, c’è solo meno rumore, meno luce. Vorrei spegnere i fari, ma sono sicuro che smetterei di sentire la voce di mia moglie. Se poi dovessi riaccenderli scoprirei che lei non c’è più. Non so neanche dove finirei io. So solo che non rimarrei qui al buio. Questo non è buio. Sono sicuro che qui sia nera anche la neve, e spero che non nevichi. Prego che non nevichi, almeno non su di noi, non adesso. Nevicherà forse a maggio, quando non saremo più qui, e il nero cadrà sul nero. Ripetere le parole, se lo si fa con giudizio, è una validissima richiesta di aiuto. Ma devono essere parole evocative eccetera. Mi sembra di sentire, da lontano, il frinire dei grilli. Sulla si- nistra dell’auto, dalla parte opposta al guardrail, c’è un prato, un vero prato. Vorrei voltarmi per scoprire che in realtà ci sono anche le stelle, le luci, altre auto, una collinetta, magari una spiaggia in lontananza. Vorrei accertarmi che mia moglie sia ancora lì e non altrove, ma sarebbe stupido, adesso. Mi accontento di quello che c’è. Questo prato è vero, inizia dopo il catrame della strada; non è curato, l’erba è giallognola, ma è un prato. Camminandoci sopra mi accorgo che le mie scarpe si impolverano. Il prato termina in un bosco, dopo un sentiero. Mi incammino lungo il prato e scorgo qualcosa con la coda dell’occhio, distante, alla mia sinistra. È l’ombra. Non tocca il terreno. Le sue braccia sono rami. La aspetto con rassegnazione. Senza dubbio ho già visto quest’uomo. Ho pensato uomo? Non voglio che mi raggiunga. Non deve sapere che ho paura. Avanzo, e lui rallenta. Cammino verso gli alberi senza guardare dove vado:

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se distolgo lo sguardo lui si avvicina. Se mi allontano, lui abbassa i rami e indietreggia a capo chino. Corro all’indietro per non per- derlo di vista e pochi secondi dopo sono steso per terra e sbatto la nuca su una pietra. Cerco di alzarmi: so che se non lo guardo ne approfitta per avvicinarsi, quindi cerco di alzarmi anche in fretta, ma non ci riesco. L’ombra mi raggiunge; ho il terrore di scoprire che il suo volto è un triangolo, i suoi occhi fessure nella plastica. Ho il terrore di sentire la sua voce da stampante, il suo sbadiglio da caldaia. Sono tutte cose che so già e che voglio evitare. L’ombra mi sovrasta, ma non è triangolare. Non è triangolare.

«Ma che cazzo, hai deciso di morire?» È un uomo che mi sembra di aver visto da qualche parte, ma se continuo a cadere all’indietro presto non riuscirò a ricordarmi neanche come sono arrivato qui. «Se tu lo guardi,» dice tirandomi su per un braccio «lui se ne va, guardalo. Guardalo». Lo indica, e quello adesso mi appare impacciato, indifeso, con i rami lungo i fianchi e la testa china come un bambino. L’uomo non ha capelli, è alto e magro, è vestito di bianco. Io mi tengo la testa lamentandomi. Lui mi strattona. «Adesso ci nascondiamo, ci nascondiamo e vedrai. Se tu lo guar- di, lui—» «Lo so, lo so.»

Questa non è notte, la notte è un’altra cosa. Di notte la realtà non si esaurisce, c’è solo meno rumore, meno luce.

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«Oh…» risponde secco, forse deluso dal non poter continuare a spiegare; smette di parlarmi e allenta la presa. Poco distante c’è una piccola capanna, con una finestrella. Sembra precaria, fatiscente. L’ombra, in lontananza, apre le braccia. L’uomo calvo mi si avvicina: ha occhi celesti che ora fissano i miei. Sui suoi zigomi sono dipinte due lacrime nere. Non so se sia

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una simbologia, il bianco, il colore degli occhi, le lacrime eccetera. Se vi va di analizzare certe cose fatelo, ma c’è sempre il rischio che siano state scelte a caso. «Vuoi fermarti qui?» mi sussurra, abbassando lo sguardo e so- spirando. Sento il rumore di una cascata, mi volto in ogni direzione per capire da dove provenga. «Non è acqua, sono applausi. Non è prevista acqua. Qui non scor- rono fiumi.» Scuoto la testa, confuso, e lo fisso, ma lui sembra non rispondere più agli stimoli; la sua espressione ebete e fiduciosa è rimasta immu- tata. Lo spingo via, lui vacilla. «C’è poco da scherzare» continua. «Dove, dove rifugiarsi ora? Qui non scorre nessun fiume, e la creatura non può nuotare. Ahahah! Dài, torna qua, dove vai?» Mi allontano verso la capanna, mandandolo al diavolo con un gesto della mano. L’ombra, ancora distante, fa spallucce e scuote la testa. L’uomo in bianco si volta, l’ombra si toglie il cappuccio. Si guardano, poi guardano me con aria confusa. Quando raggiun- go la porta e giro il pomello, l’uomo in bianco si precipita verso di me. «Ma che cazzo stai facendo?» mi sorride. Lo spingo via ed entro; lui entra con me. Ci sono due sedie e un tavolino illuminato da una lampada. Le pareti sono nere, come il soffitto e i pavimenti. All’interno, questa catapecchia sembra molto più grande e solida; pare di essere in un altro posto, forse una stanza d’albergo. Solo la finestrella è la stessa. In piedi, vicino al tavolino, c’è l’uomo del mio sogno, quello che annotava qualcosa mentre l’altro si contorceva. Discute con l’attore che interpretava l’assassino, quello con il completo marrone. «Ma tu mi porti un’arma carica in scena? Questa è una pistola! Qui andiamo tutti quanti in galera! Ma tu sei scemo! Tu sei tutto scemo!» «Sei tanto, tanto stressante» risponde l’attore. «Guarda che ne riparliamo, di questa cosa. Allora, scena numero?»

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L’attore sfoglia un copione. Noi aspettiamo davanti alla porta. Finora non ci sono battute di dialogo introdotte dai due punti, ma usandole la struttura simulata di una discussione non dovrebbe cam- biare molto. Il primo uomo si schiarisce la voce: «Il tizio non ha dormito. Ma no, questa parte togliamola. Facciamo vedere che dor- me, non che è convinto di non aver dormito. Poi facciamo finta di niente. Ma il tizio ce l’ha un nome?». «Ma se non dorme» incalza l’attore. «No niente, voglio dire, in realtà però ha dormito, quindi hai ragione.» «Ah poi nell’atto quarto» dice l’altro, senza badargli. Punta il dito su un foglio, l’attore si china per leggere. «Ecco qua. Il pendolo… vediamo, dov’è il pendolo?» «Me lo sono completamente dimenticato, scusami…» «Ma no, ma no, ma non si può lavorare così… Ecco, allora, per- ché qui c’è scritto aggeggio. Se te lo sei dimenticato…» «Rifacciamo la scena della fidanzata.» «Rifare nel senso di provarla o di riscriverla?» «Rifacciamola.» «Rifare nel senso di provarla di nuovo?» Entrambi sfogliano carte. «Il marito è sconvolto perché la moglie è morta, e così sconvolto, appunto, non può guidare. Quindi lei guida al posto suo. Ma è la moglie o la fidanzata?» «Quand’ero piccola mia nonna era una vecchia stronzahahahah, chi è stato qua?» «Considera che in questa scena non ci dev’essere la scenografia. Poi più avanti i ragazzi portano il prato.»

Entrambi si voltano verso di noi. Il primo uomo guarda l’attore storcendo la bocca e poi si rivolge a me. «Io mi chiedo cosa te ne freghi, cioè che c’entri tu qui adesso e tu, invece, tu,» si rivolge nuovamente all’attore «tu sei un incapace. E io non ho più intenzione, mai più, di…».

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L’attore prende la pistola dal tavolino e gli spara all’inguine. Quello si accascia subito, dopo un solo breve lamento, come una femmina. Basta una sola parola. Una macchia di sangue gli si apre tra il cavallo dei pantaloni e la camicia, rantola, cerca di arrampicarsi sulla sedia. «Allora, uno: ho preso male la mira. Due: questa cosa, con la pistola a salve, non si sarebbe potuta fare e,» di nuovo lo scroscio di applausi «tre: grazieheheh». L’attore si volta verso di noi e punta la pistola verso l’uomo in bianco accanto a me. «Legalo alla sedia» gli dice e indica con la pistola prima me e poi la sedia vicino alla quale giace il cadavere. L’uomo in bianco, tremando, esegue l’ordine: prende la corda che l’altro gli porge e mi lega a una sedia con i polsi dietro la schiena. Non so quanto sia stretto il nodo, forse potrei ribellarmi, ma sono troppo confuso per fare qualunque cosa, la botta in testa mi ha lasciato un forte capogi- ro; e poi sono stanco. L’attore trascina il cadavere fuori dalla porta. «In questa stanza buia la colpa non esiste. Non è sempre un bene, non sto dicendo questo, ma è la verità. Il sangue si lava via molto facilmente.» Punta la pistola verso l’uomo in bianco. Quest’ultimo alza le braccia, trema, chiede «perché, perché, che ho fatto, per- ché», prima di beccarsi un proiettile in fronte. L’attore prende posto sull’unica sedia rimasta, sbuffa e si gratta il mento con la pistola. Poi mi sorride. «E quindi puoi fare ciò che vuoi.» Applausi e risate mi riempiono la testa, mi riaprono gli occhi che avevo appena chiuso. L’attore mi sta ancora fissando, abbandonato sulla sedia, con la pistola in mano. Si allenta la cravatta e mi sorride con aria di suffi- cienza. Mi sento osservato. «Ci sarà un motivo per cui mi hai legato» provo a iniziare, mi sento farfugliare come se dovessi trattenere in bocca un liquido. Davanti a me sta scorrendo un testo molto diverso. L’attore con- tinua a sorridere e a guardare nella mia direzione annuendo. Poi, come avesse sentito un cattivo odore, scuote la testa e arriccia il

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«Siamo antagonisti e rivali, uomini, animali, maschi e femmine, tip e tap, ma insomma che cazzo è?»

naso. Mi si avvicina, sorridendo a una parete, e mi sussurra «ma che cazzo dici?» cercando di non muovere le labbra. Poi tossisce e torna al suo posto. «Immagina adesso un mondo così. Dove puoi fare tutto. Lo so che ti sembra grandioso; le possibilità sono infinite. La realtà non è più limitata, si estende fin dove può arrivare la tua mente. Pensa alla letteratura, alla filosofia, al teatro. La mente umana è grandiosa. Insondabili, inesplorati territori di… ehm… consapevolezza, di… intuizione…» Annuisco. Dice un sacco di cazzate ma ha una pistola. «Non è così, sai» continua strizzando gli occhi per leggere me- glio il gobbo e sussurrando «così come?». «Abbiamo inventato nomi per le cose, per le persone, per noi stessi» riprende, guardandosi attorno. «Siamo in certe situazioni in determinati momenti. Una volta che ci si rende conto dell’eterna possibilità del cambiamento è come essere limitati soltanto a questo. Così la… teoria magnifica… che ehm, ti sfila sotto al naso perde di significato, perché non ci sono più desideri che tu non possa soddisfare. Desideri che tu non possa… Non, non esistono cose che tu non possa sapere all’istante. Non c’è più niente. Crediamo fino all’ultimo che esista sul serio il nostro posto, il nostro ruolo nel… mondo? E così finiamo per darci dei compiti, in ogni situazione, e limitarci a quelli. Siamo antagoni- sti e rivali, uomini, animali, maschi e femmine, tip e tap, ma insom- ma che cazzo è?» Piega le labbra all’ingiù, sospira «boh», poi sbuffa e continua: «Deve succedere… qualcosa. E prima erano successe altre cose, e ne succederanno altre. Quando si scopre che essere governati dal caso non è essere governati, che non abbiamo nessun compito e nessun destino, e… che la filosofia? Che la filosofia… È come dare consigli all’amica che si fa maltrattare dal… fidanzato, ma non

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riuscire ad attuare quegli stessi consigli per sé stessi. Troppo, troppo difficile… Dove… dico, difficile. Dico, dove sei?». Mi guardo attorno. «In una stanza buia?» sbuffo, alzando gli occhi al soffitto. «Esattamente!» si batte le mani sulle ginocchia, si alza, si avvi- cina al tavolino e, alla luce della lampada, riprende a sfogliare delle carte. Ogni tanto mi getta un’occhiata e, con il collo, sembra farmi cenno di avvicinarglisi. Poi mi fissa rabbioso. «Era oscura, la stanza!» Picchia sui fogli con il dorso delle dita e poi li sbatte a terra; si siede dov’era prima e si prende la testa tra le mani. «Non finiremo mai, così» si lamenta a bassa voce, poi mi sussurra qualcosa, ma riesco a cogliere solo qualche parola che tecnicamente devo inventarmi adesso, quindi: sangue, cranio, composizione, for- se riscrittura, gomma, sbavature. «Questo amo, dello spettacolo, bla, bla… mamma mia, compli- menti a chi ha scritto ’sta merda eh?» Si alza, riprende i fogli. «Sì, allora: dare consigli all’amica che… vabbè» mormora, sfogliando il plico che ha in mano. Mi sporgo per guardare cosa fa. Si avvicina al cadavere dell’uo- mo in bianco. «Poi qui sono io che devo ridare la vita a lui, ma tutti devono credere che prima lui mmm, va bene, ma secondo me si poteva tagliare almeno metà di ’sto monologo bruttissimo che non va a parare da nessuna… La pistola, dov’è? Ah ecco. Dunque.» L’uomo afferra l’arma, osserva la ferita del morto: prende le mi- sure a spanne dal naso alla ferita, si preme la canna sulla fronte, tira il grilletto. Mentre l’attore muore, l’uomo in bianco si alza, il volto pallido, gli occhi ancora spalancati e la bocca mezza aperta. Sputa un po’ di sangue per terra e raccoglie la pistola, poi sistema il nuovo cadavere nella posizione in cui lui stesso si trovava poco prima e si avvicina alla sedia. «D’accordo,» mi dice sorridendo e mostrandomi i palmi in segno di resa «ammetto che ci sono un paio di cose ingarbugliate e poco

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originali, ma stammi a sentire. Stammi a sentire, adesso,» disegna un triangolo nell’aria, blu e terribile «è importante. Prima di esprimere giudizi frettolosi, prima di uscire di qui, prima anche solo di sbircia- re dalla finestrella, dammi retta: ascoltami, prima. Ascolta questo».

Le risate coprono la voce dell’uomo, che gesticola spiegandomi qualcosa. I fischi gli fanno perdere ogni tanto il filo del discorso, costringendolo ad alzare la voce. Il fumo blu di cui la stanza si sta riempiendo sembra tingere le pareti. Non è solo una questione di fotografia; sul soffitto si formano chiazze blu che si uniscono tra loro e gocciolano. Anche il vetro della finestrella si appanna e as- sume una colorazione azzurrognola che diventa sempre più scura. Io vi giuro che adesso ricominciamo da capo. Non appena il fumo si sarà diradato (ecco, mi sembra che la capanna non sia proprio ben piantata nel terreno, quindi ci sono spifferi tra il pavimento e le pare- ti: probabilmente a chi è fuori deve sembrare che stia andando a fuo- co tutto), non appena avrò capito se sia possibile respirare quest’aria così spessa, allora vi dirò di me. Non esattamente io, ma qualcuno vi dirà qualcosa di me, immagino. Non sono sicuro che saprete mai qualcosa di me, quindi ascoltatemi adesso, finché sono in tempo. Ascoltate questo. Da dove inizio? Avrei voluto, per esempio, avere una moglie, andare a teatro, andare a teatro con mia moglie, mi pia- cerebbe che la mia fidanzata diventasse mia moglie ma vorrei anche che non parlasse troppo, se capite cosa intendo. A volte vorrei che mia moglie fosse la mia fidanzata. Non sto blaterando, cercate di ca- pire, fatelo adesso perché non credo che avrò altre occasioni di spie- garmi. Ho un sacco di cose da dire e ne ho almeno una da spiegare. Chiudo gli occhi ma non sto dormendo, ve lo giuro, è che comincio a vedere tutto blu, me lo sento colare sulle ciglia, nel naso. Non di- straetevi, ascoltatemi, potete farlo solo adesso. Non distraetevi, per- ché certe volte ci si distrae, altre ci si isola addirittura, così quando qualcuno ci parla è possibile essere talmente assorti, talmente con- centrati su qualcos’altro, su un pensiero ossessivo, per esempio, che si può non soltanto non prestare più attenzione a quello che ci viene

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detto, ma addirittura non sentire più nulla al di fuori del nostro pen- siero. Vi sarà capitato che qualcuno richiamasse la vostra attenzione, no? E che questo qualcuno vi stesse parlando, ma voi foste immersi in un silenzio tutto vostro, come una nota di basso. Ecco, allora forse capite ciò che non dovete fare ora. Devo dirvi di me, della mia casa, di come sono arrivato qui. Devo dirvi come sono vestito. Sapete, a volte, se quello che qualcuno ci dice non ci interessa proprio, si può passare anche a un livello più profondo di noncuranza: allora non soltanto non prestiamo più attenzione a ciò che dice, non soltanto non sentiamo più le sue parole, ma la sua stessa presenza comincia a sembrare incerta. I contorni del suo viso, il suo odore, il calore del suo corpo, diventano effimeri come vapore, o al massimo come un fumo capace di tingere ma fondamentalmente innocuo. Nel fumo della vostra sigaretta, che non è affatto azzurrognolo come sembrano vederlo molti scrittori, si può intravedere, con un po’ di fantasia, un volto umano, una striscia di stoffa strappata da un sipario, un’ombra che danza, un personaggio. Non si può, però, dire che quel fumo, o meglio quella particolare forma assunta in quel momento dal fumo, sia cosciente di sembrare un volto e magari si convinca di esserlo, e inizi a parlarvi, e magari cerchi di farvi del male. Riesco a spiegarmi? Avete un’espressione confusa? Com’è la vostra faccia? Occhi, bocca, qui sono solo segni grafici, ci siamo messi d’accordo per capirci, al- trimenti ciò che sto per dirvi vi risulterebbe indecifrabile. Abbiamo rimestato nel nulla per cavarne qualcosa, come idioti, senza avere idea di cosa avremmo ottenuto. Però forse non è stato tutto inutile. Sto divagando, d’accordo: ma seguitemi. Ci siamo, ora posso rac- contarvi di me perché, ne sono certo, avete afferrato il senso delle mie parole. Lo so che non siete stupidi. Va bene, dài, partiamo.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 113 13/02/2018 21:42:36 Potrebbe immaginare quello che sarebbe stato. Invece si inginocchia e dice: «Grazie, Signore, per quello che ho avuto».

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 114 13/02/2018 21:42:36 Sedici bocche, una di fronte all’altra. Da un lato i giovani, con le unghie smozzica- te a grattare terra e pelle morta dai lobi, il sudore unto sulle punte dei capelli. I loro gomiti sono disordinati, le loro risate bre- vi. Dall’altra parte gli uomini, con i palmi callosi sulle ginocchia, le occhiaie secche. I loro cappelli stanno appesi agli schienali delle seggiole, i toraci si gonfiano in un si- bilo pieno a ogni passo di donna. Le don- ne, in piedi alle loro spalle, si muovono

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leste come spolette sul telaio, tra il fuoco e i mestoli appesi al muro. I bambini sono tutti fuori in cortile, tranne Berta, che ha già sei anni. Nessuno parla. Berta accomoda le ciotole davanti al petto degli uomini, quello è il suo compito. Con le scodelle strette contro la pancia si infila tra un braccio e l’altro, si alza in punta di piedi e si sporge sul tavolo stri- sciandoci contro. Suo padre è l’unico che le dice: «Grazie, Bertina». Gli altri la guardano andare avanti e indietro dalla credenza quattro volte, quattro tazze per volta. Devono essere in tavola prima che le donne portino la minestra nella zuppiera. La tengono sollevata con due strofinacci, la adagiano al centro. La zia serve prima gli uomini, poi i ragazzi. Ogni tanto qualcuno tossisce. «In nomine patris et filii et spiritus sancti, ringraziamo» dice la madre. Sedici bocche si aspettano. Insieme si chinano sui cucchiai, non badano al fumo. Nelle scodelle la minestra impallidisce a poco a poco, per ultimi rimangono i pezzi di carne, scivolosi di grasso. Berta va al lavello: sotto ai piedi mette una cassettina di legno rove- sciata, prepara l’acqua calda. Il rumore dei cucchiai sul fondo delle scodelle è il segnale che la richiama indietro. Scende dalla cassetti- na, sparecchia, il padre le tocca appena la testa: ha mani impacciate sopra ai suoi capelli ricci. «Mezz’ora e poi tutti pronti» dice lo zio più vecchio. Poi esce e si siede sulla panca di legno a destra della porta, accascia le spalle e la nuca contro il muro, posa il cappello sulla fronte e il mento, coprendo occhi, naso e bocca. Gli altri lo seguono a distanza di qualche passo, poi prendono la scala, fanno scricchiolare i tallo- ni sul legno, si stendono di sopra, nel fienile, all’ombra delle assi. Solo il padre resta in casa. Sposta indietro la seggiola, incrocia le braccia sul tavolo, posa l’orecchio sul legno. Per qualche minuto i suoi occhi ribaltati guardano Berta, il fiocco del grembiule in fondo alla schiena stretta. Il gomito gli copre la bocca: nessuno lo vede sorridere. Chiude le palpebre. Mezz’ora dopo, la mano di Berta batte sulla sua spalla: «Papà,» sussurra «papà, vanno». Lui si solleva di scatto, si strofina gli occhi schiacciandoli con le dita, stringe per un momento la nuca di Berta, esce. Berta spinge la sedia in avanti,

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con lo strofinaccio asciuga la piccola pozza di saliva che il padre ha lasciato sul tavolo. Suo padre lavora la terra, come i suoi zii e come i suoi cugini e come un giorno faranno anche i suoi fratelli minori. Si svegliano all’alba, mangiano la polenta con il latte, si asciugano la bocca con la mano aperta e partono. Coltivano i campi che furono del bisnonno, poi del nonno, unico maschio. Ora che sono di tutti loro non bastano più. Per questo lo zio, il più giovane, ogni volta che suona la campana a morto ha il benestare degli altri: ficca la zappa nella prima zolla e si avvia verso la chiesa. Le donne dietro le bare hanno bisogno di braccia salde, per lavorare i campi rimasti vedovi con loro. Ogni tanto, se è giornata benedetta dal Signore, lo zio torna con un pezzo di carta che non sa leggere ma che dice: nuovi terreni. Sempre per questo un altro zio, quello di mezzo, è tanto amico del sindaco. Il sindaco sa annodarsi il fazzoletto al collo e lui no; porta scarpe lucide, il sindaco, e lui zoccoli rammendati tre volte. Lui fa su e giù con la testa per dire sì e no, il cappello in mano, il sindaco ha braccia larghe per salutare e sontuosi «venga, venga, mio caro». Ma si piacciono. Il loro affetto si misura in ettari che, come per miracolo, da un giorno all’altro diventano terra di famiglia, vita da dissodare. Non è soltanto terra piatta, ma sono colline, boschi da ripulire, legna da fare. Allora i suoi zii, i suoi cugini, suo padre non tornano a casa fino a sera. Perciò a pranzo le donne dicono: «Bertina, sta’ pronta qua, che è già mezzogiorno». Bertina allarga un tovagliolo sul tavolo e sopra ci mette una pila di piatti. Li conta una volta, poi li riconta per non sbagliare. Sui piatti la madre appoggia la polen- ta fumante e, per tenerla al caldo, una pentola a pancia in su. Poi prende gli angoli del tovagliolo e annoda in cima la pila di rame e ceramica. «Teh, va’ Bertina, di corsa che si fredda.» Berta stringe il fagotto tra gli avambracci, chiude la porta con il dorso del piede. Costeggia il lato della chiesa e poi scarta nelle stradine che salgono, senza passare per il paese. Fischia due volte al cane che abbaia all’ingresso del bosco. I piatti le schiacciano la

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pancia, le tirano le spalle verso il basso. Sente la pentola scaldarle il petto, il sentiero che sale tirarle i muscoli delle gambe, e lei non vede dove sta appoggiando i piedi. Ma ha buona memoria: la radice alla terza curva, la scaletta di pietra sotto il carpine minuto, a sini- stra la pozza d’acqua gialla in cui non cascare. Ogni tanto un rovo le graffia la guancia e il bruciore le fa dimenticare la fatica. Alla fine sente gli occhi pungere nella luce, gli zoccoli posare sulla radura che si allarga. «Brava la mia Bertina» dice suo padre. Poi la guarda sollevare sul tavolo il fagotto, sciogliere con le dita bianche di sforzo il nodo del tovagliolo, tagliare la polenta col filo, sedersi dietro di loro. Nessuno le chiede: «Ne vuoi?».

«Corpus Christi» dice il prete, e guarda le labbra di Berta aprirsi, la lingua schiacciarsi verso il basso. Berta la guardano in tanti mentre avanza verso l’altare, in tanti pensano alla sua bocca. «Magari non è buona a far figli, magra com’è, però come cucina lei… Fortunato chi la sposa.» Chi la sposa potrebbe essere Giovanni, il figlio del fornaio, che ha da offrire un mulino e una casa già pronta sotto il

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colle del bosco. O Leone, con la sua barba lunga e la sua borsa da dottore con le cerniere dorate. Il padre spera sia Alfonso, il signo- rino che ogni estate viene dalla città, e che dal suo primo banco con inchiodata la targhetta di famiglia inclina la testa per guardarle l’orlo della gonna. «Sciur, avrei piacere… Io avrei piacere di venire a trovare la vo- stra Berta, magari oggi pomeriggio che è domenica, se voi siete d’accordo, se voi, intendo…» Angelo è lì in piedi, nei suoi ventun anni appena compiuti, ha gli occhi trasparenti e le gambe lunghe, forti contro le pietre del sagrato. Se solo uno dei suoi figli lavorasse la terra come lui, pensa il padre di Berta. «Non mi dite mica di no, per piacere.» Il collo bruno di Angelo è chinato in avanti, in attesa di una sentenza, mentre le pupille cercano Berta, che è già sull’an- golo della piazza. Il padre di Berta si accarezza i baffi: la sua mano nasconde un sorriso. «Ne riparliamo a Natale, Angelo, d’estate non va bene ragionare di queste cose. Se siete ancora convinto a Natale, allora vi aspetto» dice. E gli volta le spalle, lasciandolo così, un po’ sbilanciato in avanti e un po’ contento. Nell’angolo della piazza Berta sorride. E lei sì, tutti la vedono. A Natale Angelo è seduto al lungo tavolo della casa di Berta. Gli altri sono a riposare di sopra. Lui è lì, la schiena dritta, di fronte a lei. Le bocche sono chiuse, da un lato all’altro del legno, ma lei ha occhi morbidi, tra gli zigomi stretti. Il padre dice: «Vi lascio soli un’oretta. Teh qui, leggete questo insieme, e quando torno devo trovarvi come vi ho lasciato». Tra loro adesso c’è il giornale che tutti hanno preso in chiesa. «È nuovo,» ha detto il prete «è il primo numero, bisogna leggerlo». Angelo si alza per mettersi dall’altro lato, vicino a Berta. «Non c’è bisogno, Angelo: state pure lì, leggete ad alta voce un po’ per uno» dice il padre di Berta. Poi stringe il bavero del mantello ed esce. «“Famiglia Cristiana”» scandisce Berta «“per le donne e per le figlie”. Leggo la prima pagina poi tocca a voi, vi va bene?». «Non so mica leggere io, Bertina.» Lei lo guarda con il mento basso: «Mangiare, invece, vi piace mangiare?». «Quando ce n’è, Berta, quando ce n’è.» «Ce ne sarà, vedrete.»

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Quando la bicicletta si ferma Berta lo vede inclinarsi da un lato, po- sare un piede in terra. Il quaderno legato sul portapacchi oscilla con lui. «Sta’ attento, Piero, non rovinare la bici di tuo padre» gli grida dalla finestra della cucina. Allora Piero dà un colpo di reni, per non far raschiare il pedale contro lo sterrato. «Svelto, che è già qui» grida di nuovo. «Ma lui c’ha la Guzzi, fa prima» dice Piero. La moto di Angelo è appoggiata al muro della casa, Piero ci passa vicino, accarezza la vernice rosso pomodoro: «Lo sai che cosa vuol dire il nome?». Angelo non ha voglia di parlare; ha in gola il caldo dell’acciaieria, gli rimane sempre addosso, anche quando dor- me. Ma si sforza: «Guzzi? È un nome e basta, cosa devo sapere». «No, mica Guzzi: dico Airone, lo sai cosa vuol dire? Oggi ce l’ho chiesto alla maestra.» Berta avvolge il filo attorno ai pollici, stacca un pezzo di polenta grande per Angelo e uno più piccolo per Piero. Poi dice alle altre due figlie che rotolano vicino al divano e a quel- la nella culla: «Voi avete già preso il latte prima, neh». Pensa che Angelo c’ha visto giusto, quando ha mandato Piero a scuola anche dopo la terza elementare, pensa che diventerà ragioniere di banca e che ci sarà sempre pane tondo e caldo, a casa sua. Si avvicina alla stufa bianca e blu: «Piero, dillo a me che cos’è l’aione». «Airone, mamma, con la erre. È un uccello con le gambe lunghe, che sta sempre coi piedi nell’acqua.» «E cosa mangia?» Piero resta con la forchetta a mezz’aria: «Non lo so, se vuoi ce lo domando alla mae- stra». Angelo ride, chino sul piatto: «Ma la moto non ha le gambe lunghe». «La moto no, ma tu sì, papà!» Berta apre la stufa e soffia sulla brace, poi ci appende sopra lo strofinaccio bagnato. Angelo dice: «Allora se ho le gambe lunghe però c’ho anche le ali: stai at- tento che un giorno volo via e ti lascio qui da solo con la mamma e le tue sorelle!». Piero ride, Angelo ride, e Berta guarda le loro spalle tremare di felicità. «Domani vediamo chi arriva prima a Ponte San Giovanni, se tu con la bicicletta o il mio uccellaccio con le gambe lunghe, va bene?» dice Angelo. La mattina dopo Angelo e Piero escono insieme, Angelo sulla vernice fiammante, già stanco ma ancora sorridente, Piero in sella alla sua bici, storto da un lato, fiero. Partono insieme, in un rombo

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di polvere e alba che lascia indietro la sagoma minuta di Piero. Là in fondo, davanti a loro, si alza il campanile di Ponte San Giovanni, che fa ombra sulla scuola o sull’acciaieria, a seconda delle ore del giorno. Alle dieci, finiti i rintocchi del campanile, Berta sente un fischio comparire nel cielo. Qualcosa cade su Ponte San Giovanni: sembra- no pentole senza manico. Nelle orecchie le arriva il grugnito di qual- cosa che rovina a terra. Strizza gli occhi: il campanile non è più lì. «I bombardieri» grida Maria, che abita nel cortile vicino al suo, mentre attraversa il portone. Berta prende la bimba più piccola in braccio, lascia che le altre due la seguano oltre l’uscio, attaccate alla gonna. A una cerca di coprire un orecchio con la mano, senza riu- scirci. Maria dice: «Sono là tutti e due?». Maria l’accompagna al campo, dove inizia il paese: quel bordo di terra è l’ultimo pezzo sicuro, oltre il quale non è mai andata. Maria le dice: «Volete che vi accompagni a Ponte San Giovanni?». «Li aspettiamo qui, Maria, grazie» risponde Berta. Dal paese arrivano le donne coi bambini. Una dice: «Siamo venute a casa vostra, Berta, a cercarvi: non sono tornati?». Berta tiene lo sguardo fisso sulla stra- da che sbuca nei campi, carezza la nuca alla piccola in braccio. Fa segno di no con la testa. Le donne dicono: «Berta, se dobbiamo aspettare qui conviene che ci sediamo». Lei stringe le guance sotto gli zigomi: no. Il campanile batte due volte l’ora piena, il corpicino della bimba le schiaccia la pancia, le sue spalle sono indolenzite, non può muoversi. Nel punto preciso in cui la strada incrocia l’orizzonte compare un segno rosso. Viene avanti piano, ma senza fermarsi. «Signore,

Alle dieci, finiti i rintocchi del campanile, Berta sente un fischio comparire nel cielo. Qualcosa cade su Ponte San Giovanni: sembrano pentole senza manico.

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grazie» dice Maria. Berta gli va incontro. Non è Angelo, è troppo basso per essere Angelo. Un altro passo, la bimba in braccio fa un verso contro la sua spalla. «Non è Angelo» dice ad alta voce. Poi riconosce l’inclinazione delle ruote: Piero. Sente i piedi correre, non sa dove li sta appoggiando. «Piero!» gridano le donne dietro di lei. Piero ha le mani impastate di polvere sopra il manubrio della Guzzi, gli occhi spalancati chiari sopra le guance grigie di calcinac- ci. Dice: «È suonata la sirena, la maestra ha detto di correre a casa. Alla scuola non ci hanno fatto niente, ma il campanile e la fabbrica erano tutti sassi sulla strada». Piero stringe i muscoli, tiene su la moto: «C’era la Guzzi in terra. Il Tone ha detto “sei matto, lasciala lì”, ma a me mi dispiaceva». Berta sente una lacrima sulla guancia, precisa come un rovo. «Tranquilla, mamma, al papà quando esce stasera gli ho lasciato là la bici, capito?»

Il ricordo di quel giorno di ventisei anni fa dice questo: aveva lavato le bambine una dopo l’altra nella stessa tinozza, accolto il direttore dell’acciaieria, scelto l’unica foto di Angelo per la croce bianca che gli avrebbe fatto da casa, aperto il comò e messo tutti i soldi sul letto, venduto la Guzzi al marito di Maria. Piero quel giorno aveva lasciato la scuola, il direttore aveva pro- messo che l’avrebbero assunto all’acciaieria, nei reparti rimasti in piedi, quando avrebbe avuto l’età. Berta era andata da suo padre, gli aveva detto: «Me la date una mano, papà?». Il padre aveva guardato gli occhi d’acqua del bambino, gli aveva sollevato il mento e misu- rato le gambe: «Viene con noi nei campi domani, torna a casa solo la domenica». Berta aveva detto: «Grazie. E le altre?». Suo padre aveva alzato le spalle. La più grande l’aveva mandata in collegio, le due più piccole erano rimaste con lei. Ogni settimana, per quattro anni, mentre gli altri dormivano nel fienile, Piero era tornato all’acciaieria, si era alzato sulle pun- te dei piedi e al bancone d’ingresso aveva chiesto: «Sono il figlio dell’Angelo, non me lo date un posto?». Il giorno che gli avevano

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consegnato il libro paga era andato da suo nonno col cappello in mano, la fronte bassa. Il nonno aveva detto: «Ci morirete tutti, den- tro quelle scatole di muri e lamiera».

Berta divide un uovo sodo in quattro parti come faceva allora, quando due erano per Piero, una per ciascuna delle bambine. La memoria le dice di sgolati pianti infantili, calzini rammendati a lume di candela per risparmiare sulla corrente, donne che bisbiglia- vano «poverina». Di com’era bello Piero che si faceva grande, fino al giorno in cui la bicicletta gli era diventata troppo piccola. Berta scende le scale della casa vuota, si mette il fazzoletto in testa e si china sui pollastrelli: una goccia per narice, perché non si ammalino, solo una basta a farli sopravvivere. Si avvia verso il por- tone del cortile, dove tiene i gladioli: li raccoglie e li compone con cura, sono i fiori per Angelo, che nella foto sulla croce non invec- chia e le conta le rughe nuove con i suoi occhi di vetro. Quando vede i figli, le nuore e i nipoti sedersi tutti insieme nel banco di chiesa, Berta ripensa a quel signorino che le sbirciava le caviglie alla comunione. Potrebbe immaginare quello che sarebbe stato. Invece si inginocchia e dice: «Grazie, Signore, per quello che ho avuto». Alla fine della messa il prete le raccomanda: «Allora, Berta, vi aspetto sabato». Al sabato mattina lei prende farina, acqua e olio e cuoce nella larga padella di sempre sottili fogli d’ostia. Poi li porta in sagrestia e li appoggia delicatamente sullo stampo: ventiquattro particole per ogni ostia. Stacca piano il bordo d’avanzo, lo spezza tra le dita e lo fa scivolare in un sacchetto di carta da portare a casa. Il ricordo le dice: «Ai bambini piaceva così tanto».

La malattia è una morte di cui non è morto nessuno, nella sua fa- miglia. Il padre, per esempio, se n’era andato travolto da una slavi- na mentre raggiungeva la cima del bosco. L’avevano trovato giorni dopo, rigido nel ghiaccio, impastato di foglie e neve. Berta prende

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l’uvetta e la carne e le trita insieme, sperando che anche a lei tocchi la stessa sorte. Adagia palline rotonde e precise nel centro dei dischetti di pasta già preparati. Alla tv le fa compagnia un nuovo gruppo che piace tanto a Piero e a sua moglie: hanno capelli lunghi e gonfi, visi puliti, quello che suona il piano guarda verso di lei e sorride. Ha gli stessi occhi di Piero. Intanto ripete il gesto del polso che faceva sua madre, che sua madre le aveva raccomandato: «Non così, schiaccia bene o si aprono tutti nell’acqua che bolle». Ormai è un movimento a cui non pensa più, non ha paura di sbagliare: i ravioli saranno perfetti per la comu- nione del figlio di Piero, domani. Il gruppo alla tv comincia a cantare un pezzo nuovo. «Quando senti questa pensa che io te la dedico, mamma» ha detto Piero qual- che giorno fa. Berta si volta in fretta verso la stufa bianca e blu, prende lo strofinaccio per asciugarsi le mani, fa scivolare la levetta del volume verso l’alto. La canzone riempie la cucina: «Sul tuo viso stanco un sorriso spento è quel che resta di una vita mai vissuta,

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sempre attesa». Piero le ha raccomandato di ascoltare il lungo pezzo di pianoforte, di stare ferma in silenzio fino a quando entrano gli archi, e poi qualche secondo dopo la batteria, piano piano. Berta non sa cosa siano gli archi e vede ora per la prima volta, alla tv, una batteria, ma aspetta e ascolta, mentre le sue mani continuano a flettere la pasta. Il ragazzo le sorride in bianco e nero mentre ciondola la testa sopra la tastiera, ed è lì, quando i loro occhi si incrociano di nuo- vo, che un pugno d’aria la colpisce in mezzo al petto, così forte da farla accasciare sulla sedia. Un raviolo le scappa dalla mano sinistra, rotola dall’altro lato del tavolo, lo vede allontanarsi dietro la patina delle iridi. Prova a respirare, ma più preme meno riesce. Il dolore sale caldo fino al collo e le fa piegare la testa sul tavolo, in mezzo alle braccia. Berta inspira ancora una volta, con tutta la forza che può, l’orec- chio schiacciato nella farina. Pensa: qualcuno asciugherà la mia sa- liva? «Come posso adesso risvegliarti dal dolore dei ricordi, dalla nostalgia dei giorni persi ormai» dice la canzone. Se solo potesse sentirla, sorriderebbe, ma senza farsi vedere.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 125 13/02/2018 21:42:36 Gli alberi lassù sono diversi dagli altri. «Da quanti anni viviamo qui?» disse. «Da sempre.» «E allora? Perché non siamo mai saliti più di così?» «…» «…» «Saliamo.»

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 126 13/02/2018 21:42:36 Giordano si fermò al centro del sentiero. Tese l’orecchio. Il bosco aveva gridato. Si voltò di scatto solo per ritrovare il pae- saggio sotto di lui, i corsi d’acqua che sci- volavano verso la pianura. Più in alto, oltre i tronchi e le fronde, Marcello si sbracciava nella sua direzione. Giordano gli fece un segno con la mano, si asciugò il sudore e ripartì. Cercava di smorzare il rumore dei passi per adattarlo al silenzio. Le pareti di roccia e

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alberi si ergevano su entrambi i lati del sentiero. Scrutò Marcello e Il Bianco, avanti di un centinaio di metri, impegnati nella ricerca di una radura o un canyon ombroso, come avevano fatto ogni estate prima di quella. I loro campi base. Quel pomeriggio, però, Giordano vedeva i suoi compagni fer- marsi e ripartire: i loro posti preferiti di volta in volta occupati da gruppi di ragazzini e liceali coi piedi a mollo nei laghetti di acqua ferma: maschi attorniati da femmine in rapporto due a uno; un’uma- nità che durante l’inverno sembrava non esistere. Marcello odorava l’aria come un lupo, per capire se il fumo che sentiva attraversando i gruppi di intrusi fosse migliore di quello che aveva in tasca. Dietro di lui, Il Bianco seguiva il sentiero cercando di non ba- gnarsi i piedi nei torrenti che correvano verso il fondovalle. Scar- pinava con la mitezza di un monaco, lasciando ogni tanto il passo agli escursionisti che scendevano. Nessuno sale più, a quest’ora.

Studiava timidamente i fisici duri degli adolescenti, gli zaini aperti, le merendine smangiucchiate e le cartacce abbandonate sulle rocce, spe- rando nell’arrivo di qualche cinghiale che gli guastasse la festa. Agli sguardi divertiti delle ragazzine abbassava gli occhi domandandosi se, l’anno successivo, sarebbe riuscito ad essere un bravo insegnante. Sollevò la testa solo quando il fischio inconfondibile di Marcello li avvisò che la ricerca era finita. Avevano trovato una radura, molto più in alto di quanto non fossero mai stati.

Marcello teneva i piedi in ammollo in una pozza. Nella radura la quiete era trafitta di tanto in tanto dalle risate dei bivacchi più a valle. Intorno a loro, le zanzare si ammassavano. Chi sono questi intrusi che hanno rubato i posti migliori? Ci volle un po’ per accendere la canna. «Questi stronzetti» disse dopo il primo tiro. «Mai visti tanti pa- lestrati in vita mia.»

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«Mi auguro che se li mangino vivi» disse Giordano, scacciando le zanzare. «…a me di apparire non me ne fregava un cazzo.» «Ma smettila.» «Imitano i modelli che hanno…» fece Il Bianco. La maglietta iniziava a aderirgli alla pelle. «Non so se ti ricordi com’eri tu, che volevi imitare Bruce Dickinson.» «…che era comunque un modello molto più fico dei finocchi sulle buste di Abercrombie» disse Marcello allungando la canna. «Abercrombie sta chiudendo, lo sai?» «Che cazzo dici?» «Non fai in tempo a imparare qualcosa sulla civiltà occidentale che subito ti sfugge. Sparita. Puff.» Giordano intercettò la canna. Il Bianco iniziava ad avere freddo. Dalla tasca dei pantaloncini da trekking estrasse il cellulare. Non c’è campo, naturalmente. Lo rimise in tasca guardandosi attorno. Osservò i suoi amici fu- mare, divertiti, e inspirò dal naso l’aria umida e fresca. Non avrebbe

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detto che iniziava a essere tardi, e che salire fino a quell’altezza era stato stupido. Trasalì, quando alle loro spalle si sentì un frusciare di foglie. Da un sentiero sbucarono prima una bambina, poi una giovane coppia. Portavano scarpe tecniche e zaini ben allacciati. Una volta nella ra- dura, la bambina avanzava verso Il Bianco. «Hello!» disse, sventolando la manina. Giordano nascose la canna come poté. La madre, giovane e bel- lissima, sorrise al gruppetto. «Da dove venite?» chiese. «Da qui. Sempre vissuti qui» rispose Marcello. I genitori si guar- darono. «Non ho capito…» «Stavamo salendo anche noi. Ci siamo fermati qui» disse Giordano. «Possiamo raggiungere… Molina?» chiese il marito con accen- to inglese. Giordano ci pensò su. «Credo… sì. Continuate da questa parte.» La coppia sorrise. La bambina, intanto, si rinfrescava le mani nell’acqua. «Grazie mille. Kate, let’s go!» disse la mamma. Dopo pochi secondi erano ripartiti, lasciandosi dietro l’odore del sapone di Marsiglia. «Non siamo mai saliti più in alto di così» disse Giordano, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Certo che potevi lasciarmi parlare…» «Accendino.» «Uh?» «È finito.» Giordano tentava di riaccendere il mozzicone. Scosse l’accendi- no vicino all’orecchio e guardò gli amici. «Non abbiamo altro. Dobbiamo chiederlo.» «Vado io» disse Marcello. «Dove vorresti andare, scusa?»

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Gli schiamazzi sotto di loro risposero alla domanda del Bianco. «Lì.» «Da quelli là?» Marcello sbuffò, come se quella non fosse stata una sua idea. Poi, nel modo più plateale possibile, balzò giù dalle rocce, tagliando il sentiero, e sparì.

Giordano guardava verso l’alto, sperando di intravedere quella mamma bellissima. Il Bianco pensava alla bambina, a come sarebbe stata da grande. «Sai,» disse «le cose successe al liceo. Ci stavo pensando». «Cosa?» rispose Giordano, con gli occhi ancora fissi verso il sen- tiero in ascesa. «Dài, lo sai.» «…» «…» «I suicidi?» «Sì.»

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Giordano abbassò lo sguardo. Se li ricordava. Quattro anni dopo il suo diploma. Uno si era impiccato nel cortile; un altro si era ucci- so gettandosi da una spelonca, non molto lontano da lì. «Pensavo che, se l’anno prossimo dovrò iniziare con le supplen- ze, non lo so—» Il Bianco aspettò un po’ prima di continuare. «Credi che tutta la questione della tecnologia c’entri qualcosa?» «Ti prego, fermati» disse Giordano. «Volevo solo dire—» «Non sappiamo cos’è successo.» Il Bianco si sedette su una roccia. «Aspetta. Non mettiamoci a dire cose come “i giovani d’oggi non riuscirebbero a sopravvivere in un bosco, mentre noi sì”.» «Beh, in effetti tu hai fatto gli scout» disse Il Bianco, scherzando. Giordano sorrise. «Ma dimmi una cosa» disse Il Bianco. «Se fossi costretto a vivere qui, come sopravvivresti?» «Non sopravvivrei un secondo qui» rispose Giordano. Una folata sollevò il telo sottile su una roccia vicino al torrente. Il telo fluttuò per qualche secondo sopra le loro teste per poi preci- pitare più a valle, verso il bivacco dei liceali.

Marcello raccolse il telo. Lo riconobbe e si voltò verso l’alto, prima di lasciarlo scivolare di nuovo a terra. Gonfiò impercettibilmente il petto, e fece qualche passo verso i ragazzini. Li osservò per qualche secondo, mentre tentavano di evitare che le loro cose venissero sparpagliate via, finché un pitbull non comin- ciò ad abbaiare. Indietreggiò.

«Ma dimmi una cosa» disse Il Bianco. «Se fossi costretto a vivere qui, come sopravvivresti?» «Non sopravvivrei un secondo qui.»

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«Giù!» urlò una ragazza, separandosi dagli amici. Prese il cane per il collare e lo tirò a sé. Ad uno ad uno, i ragazzi si voltarono verso di lui. «Volevo solo chiedervi da accendere» disse. La ragazza gli sorrise mentre provava a calmare il cane. «Lo scusi,» disse «non si abitua mai agli estranei». Marcello la osservò frugare nello zaino, piegata sulle gambe, con la salopette che le si tendeva attorno al culo. Gli altri erano tornati alle attività abbandonate prima della folata: due si erano sdraiati sui teli, uno cambiava la musica, mentre altri due valutavano se tuffarsi in una pozza d’acqua limpida scavata nella roccia. Marcello l’aveva fatto mille volte. «Può prendere questo» disse la ragazza. Mentre afferrava il pac- chetto di fiammiferi, Marcello cercò una malizia che non riuscì a scovare. Voltandosi si accorse che nessuno faceva più caso a lui. Il cane s’era accucciato accanto ai piedi della ragazza. «Sei molto gentile» le disse. Poi, senza sapere come congedarsi, si abbassò per accarezzare il cane. «Io non lo farei.» Aveva già estratto il cellulare, e si stava av- viando verso i suoi amici. Uno dei due ragazzi si lanciò nel laghetto con un tuffo perfetto, gridando fortissimo. Anche Marcello avrebbe voluto farlo. Gridare.

Raggiunse gli altri mentre il tramonto allungava le sue ombre nella radura. Trovò gli amici accucciati, uno di fronte all’altro. «Che cazzo state facendo?» «Il Bianco dice che può benissimo accendere un fuoco senza ac- cendino» disse Giordano. Guardò i suoi amici e li vide per ciò che erano, due studenti universitari, mantenuti dai genitori, senza alcuna possibilità di ac- cendere un fuoco. «Si sta facendo tardi» disse. «Abbiamo ancora mezz’ora di luce buona» ribadì Giordano. «L’accendino c’è?»

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«No, abbiamo questi.» Quando Marcello estrasse il pacchetto, al Bianco si illuminarono gli occhi. «Questo non viola nessuna regola!» disse, strappandoglielo dalle mani. Estrasse due fiammiferi che iniziò a sbriciolare su una capan- nina fatta di tronchetti e parti di foglie secche. «L’argomento è, se ti può interessare,» disse Giordano a Marcello «sopravvivere nei boschi». Si guardarono negli occhi per diversi secondi mentre Il Bianco preparava il fuoco. «Si è acceso!» «…come?» Il Bianco si scostò leggermente, rivelando lo scoppiettare delle capocchie sotto le foglie. Una fiammella faceva capolino tra i ramo- scelli, mentre una colonna di fumo iniziava a salire verso le fronde degli alberi. Il Bianco lasciò che il fuoco prendesse, prima di voltarsi verso gli altri due. «Marci,» disse «qual è la prima cosa che faresti se ti trovassi a sopravvivere nel bosco?». «Un orto.» «Un orto?» «Sì, un orto. Mi assicurerei il cibo prima di tutto.» «Forse ti sfugge una cosa» disse Giordano. «Penso che lui inten- desse una cosa di pochi giorni.»

Il Bianco si fermò a osservarli dall’alto, quei due, accovacciati nella posizione che poco prima era stata la sua. Guardò le mani di Giordano e di Marcello che si incrociavano nella penombra quando, all’improvviso, sentì l’urlo esplodere sopra di lui.

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«Marcello è uno che guarda lontano» fece Il Bianco, ridendo. «Sta già pensando al futuro nella natura selvaggia. Una casa, una famiglia, la scuola giusta per i figli…» Risero tutti e tre. Dalla radura sotto di loro, probabilmente i li- ceali potevano sentire le loro risate, così adulte e profonde. Marcello la prese come una rivincita e con la coda dell’occhio guardò verso la fiammella. Aspettò pochi secondi prima di prendersi un’altra picco- la vittoria: «Lo sapevo che si spegneva». Il Bianco osservò il fuoco che moriva. Le poche foglie umide avevano prodotto più fumo che altro. C’era ancora una decina di fiammiferi nella scatola. «Questa la prendo sul personale» disse Marcello. «Togliti, fam- meli sistemare. Paralleli, così.» Marcello spazzò via il cumulo di foglie e iniziò a ricomporlo, mentre Il Bianco si alzava lentamente da terra. Se non si è acceso con me, non si accenderà neanche con lui. Il Bianco si fermò a osservarli dall’alto, quei due, accovacciati nella posizione che poco prima era stata la sua. Guardò le mani di Giordano e di Marcello che si incrociavano nella penombra quan- do, all’improvviso, sentì l’urlo esplodere sopra di lui. Si voltò. Il sentiero si perdeva nel buio. Lo sentì di nuovo, ovat- tato. Alle sue spalle. «Fuoco di merda!» urlò Marcello, gettando un ramo nel fiume. Tremava guardando gli amici, che sembravano non aver sentito. Gli sembrava di vederli per la prima volta: la faccia contrita di Marcello, che prendeva la vita come una sfida; quella rilassata di Giordano, che passava la vita a zittire le conclusioni a cui arriva- va. L’anno seguente il suo amico avrebbe iniziato a lavorare chissà dove. Avevano finito di studiare. Lui avrebbe iniziato le supplenze; Marcello avrebbe accettato un lavoro qualsiasi. Un impiego, pen- sò. Mentre li osservava buttare l’ultimo fiammifero nell’ammasso di ramaglie, Il Bianco si accorse che ormai era buio, e che non si sentiva alcun suono dai bivacchi in basso. Eppure, gli sembrava di aver sentito un urlo. «Ehi…» disse. Gli altri non lo sentirono.

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«Dovremmo provare a spruzzare il gas sulle foglie» gridava Giordano. «ehi!» Giordano e Marcello si voltarono nella penombra. «S’è fatto buio» disse Il Bianco, mentre iniziava a raccogliere i teli e a rimettere le cose nello zaino. Giordano fissava l’amico che raccattava la loro sporcizia nel buio.

«No» disse. «No cosa?» «Non scendiamo.» Marcello si voltò verso Giordano. Nell’attesa delle parole, lo scrosciare dei ruscelli sembrava essersi fatto più forte e impetuoso. Diede un calcio all’ammasso di foglie che poco prima era stato fuo- co, pensando che la bella liceale se ne fosse andata da un pezzo, con tutti i suoi amici e il cane. Altro che orto. Avrei mangiato carne di cane, nella natura selvaggia. Non l’avrebbe più vista. Meglio così. «Ha ragione lui, Giordi» disse. «Scendiamo.» «Te la fai addosso? Dimostraci che sei cazzuto come dici» disse Giordano. «Ma che cazzo ti prende?» disse Marcello senza trovare gli occhi dell’amico. Giordano era di nuovo rivolto verso il sentiero che si inerpicava, ma non pensava quasi più alla famiglia. Gli alberi lassù sono diversi dagli altri. «Da quanti anni viviamo qui?» disse. «Da sempre.» «E allora? Perché non siamo mai saliti più di così?» «…» «…» «Saliamo.» La voce del Bianco li spaventò. Improvvisa e roca, fusa col buio. Era certo che gli altri non riuscissero a vederlo, così come lui

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non vedeva più loro. Scendere o salire, erano la stessa cosa. E poi aveva iniziato a piovere. Nessuno disse nulla. Non Giordano, né Il Bianco, né Marcello. Agghiacciati dalla paura del futuro, rincuorati dalla tregua che la notte gli concedeva, capirono tutti insieme ciò che dovevano fare. Smisero di pensare, ascoltando la pioggia e il respiro della valle che li richiamava a sé.

*

Ci guardiamo, e non ci vediamo più. Finalmente. Tutto vibra, gli animali corrono a nascondersi presagendo il rombo del tuono. Ascoltiamo il silenzio senza pensare, senza parlare. Riprendiamo le posizioni, in fila indiana. Ci palpiamo le mani per sentirci vicini. Ogni passo è nuovo, ogni passo è il pericolo. Ci stringiamo. E se la natura ci vedesse, si stupirebbe del nostro sguardo spento, nel nostro incedere marziale verso il ventre nero della montagna. Scompariamo nel buio, senza lasciare tracce che la natura non possa cancellare. Il sentiero è lungo, ma saliamo.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 139 13/02/2018 21:42:37 «Le spiego, c’è stato un incidente sulla provinciale. All’incirca a quell’ora. Lì dove diceva il mio collega, in quel tratto di strada. Ora non voglio dire sia stato lei, ma due più due, dalle mie parti, fa quattro.»

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 140 13/02/2018 21:42:37 Il cane fu travolto da una Saab 9-3 grigio antracite sulla provinciale che porta a I Villini – così la chiamano quella zona. I fari della macchina illuminavano poco, la strada era buia, a malapena si vedevano le strisce. Chi era alla guida frenò, le ruote si bloccarono, e lo stridio dei freni fu for- te. Era sbucato dal bosco, come se si fosse lanciato su una preda. Marcello ci mise un po’ a scendere, aveva picchiato contro lo sterzo – si era tolto la

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cintura per raccogliere il pacchetto di mentine, questa la verità – e ancora era intontito. Inserì le quattro frecce, nel caso fosse passato qualcuno. Aprì la portiera e appoggiò il piede. Una ventata d’aria gelida gli si sparò in viso. Era quello che ci voleva. Avvertì il sapore del sangue in bocca, si toccò, i denti erano a posto, ma il labbro era spaccato. La strada attraversava una parte di bosco, la conosceva bene, erano anni che la percorreva per tornare a casa. Diede la colpa a quelle stupide mentine. Le gambe gli tremavano, si toccava il fianco sinistro. Provò a camminare, si vedeva poco o nulla, i larici oscuravano tutto fin dalle prime ore del pomeriggio, giusto la zona illuminata dai fari, ma non era lì che doveva cercare. C’erano nuvole di moscerini, e non capiva come fosse possibile, in quel periodo dovevano essere morti. Tirò su la zip del piumino e girò intorno all’auto. Si accorse che il fanale destro era rotto, doveva aver preso una brutta botta quell’animale. E dove- va anche essere grosso, pensò. Quindi prese la torcia dal cruscotto. Cercò dietro i cespugli per un centinaio di metri. Per come imma- ginava fossero andate le cose doveva essere lì. Attraversò la strada e ispezionò l’altro lato, tornando indietro fino alla macchina. Si adden- trò nel bosco, magari si era riparato tra gli alberi. Guardò tronco per tronco, sia da un lato che da un altro, delimitando un’area entro la quale stare e non perdendo mai di vista la strada, e si rese conto per la prima volta di quanto fossero grandi quei larici. Vedeva il suo respiro cristallizzarsi nell’aria, il lampeggiare degli indicatori. Andò convin- cendosi che la bestia non si era fatta poi così male e se n’era andata. Ciononostante setacciò i due lati del bosco per altre due volte, non trovò nulla. Tornò alla macchina, ora sentiva dolore al ginocchio sini- stro. Aspettò ancora, poi aprì la portiera e salì. Si assicurò che la cintura fosse ben messa, prese una mentina, spense le frecce e girò la chiave. Quando fu a casa raccontò tutto alla moglie. Lei gli premeva con la borsa del ghiaccio sul fianco. Il labbro aveva smesso di sangui- nare, cominciavano a gonfiarsi anche la guancia e parte dell’occhio. «Ti ricordi Bibi? L’abbiamo abbandonato quando è nata Mira» disse. Imma piegò la testa e lo guardò. «E allora?»

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«Io penso che sia lui.» «Ma come ti viene in mente una cosa del genere?» «Che c’è di strano?» «È successo anni fa.» «Non molti.» «Sarà morto.» «Bibi era giovane. Quei cani campano fino a diciotto anni.» «Anche Molly è un cane» disse Mira. «Sì, ma uno yorkshire, tesoro. Bibi era uno spinone. Bello grosso.» «Era enorme, e tutto pelo» la voce di Imma era ironica. «Argento. Come le posate. Ecco, così.» «Solo che lui non luccicava.» «Certo.» «Era carino» disse la bimba. «Sì, molto.» «Se non fosse che si rotolava nella cacca.» «Cosa?» «Sì, Mira, si rotolava nella cacca, proprio così» disse la mamma. «Non è che si rotolasse.» «No, si rotolava proprio.» «Che schifo!» Mira fece una smorfia di disgusto. «Alcuni cani lo fanno» disse lui «per mimetizzarsi». «Rimane il fatto che si rotolava nella merda.» La medicazione era conclusa, Imma si lavò le mani e passò un asciugamano umido al marito. «Ti dovresti far vedere, hai preso una brutta botta.» «Non è niente, due giorni e passa tutto.» «Però lì sei tutto viola, papà», Mira indicava il fianco. «Non è niente, tesoro.» Marcello si alzò. «Vedi? È tutto a posto.» «Io mi farei vedere» disse Imma. «Se tra due giorni non si sgonfia mi faccio vedere. Contente?» Dopo cena Imma mise a letto la piccola, le lesse la fiaba di Molly e torno giù. «Dorme?» «Mmm.»

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«La febbre?» «Passata. Lunedì torna a scuola.» Si spostarono in giardino. Il tempo di fumarsi una sigaretta e bere l’amaro. Era autunno pieno e da quelle parti l’umidità si avvertiva. Imma prese una coperta e ci si avvolse dentro. «Perché te ne sei uscito con questa storia di Bibi?» «Non lo so, mi è venuto in mente che potesse essere lui e l’ho detto. Tutto qua.» «Assurdo.» «Potrebbe essere, però. Magari non si è mai allontanato e vive nel bosco.» «Sarebbe tornato a casa.» «Allora stava tornando. È questo che pensi?» «Io non penso a niente, sei tu che te ne sei uscito con questa storia.» «Perché se stava tornando, io, insomma, l’ho investito.» «Non stava tornando. Sono certa che sta da qualche altra parte, lontano da qui. Era un bel cane, qualcuno l’avrà trovato e se l’è portato a casa.»

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«Spero proprio che sia come dici tu, altrimenti non mi darei pace.» «Non mi stai mentendo, vero?» «Cosa?» «È solo una domanda.» «Te l’ho detto, sono stato lì non so quanto tempo. Se fosse stato qualcuno l’avrei trovato, non credi?» «Sì, certo.» «È sbucato all’improvviso. Perciò ho pensato a Bibi, magari ha riconosciuto la macchina e voleva fermarla. Che ne so.» «Lascia perdere Bibi, dimenticalo.» Gli passò la sigaretta. Marcello fece altri due tiri e la gettò via. «Non era lui. Non poteva essere lui. Non Bibi.» «Mmm.» «Vuoi dell’altro amaro?» «Sì, grazie.» «Poi andiamo a letto.» «Va bene.» Versò dell’altro amaro nei bicchieri. C’era un silenzio particolare quella sera, e pure loro non dissero niente. La mattina Marcello telefonò in ufficio. Parlò con Andrea, il suo vice. «Spero non sia nulla di grave» disse Andrea. «No, te l’ho detto, è solo una botta.» «Hai preso un antidolorifico?» «No, voglio sentire il dottore.» «Bene, allora riposati e vedi di curarti. Qua ci penso io.» «Immagino.» «È da un po’ che ci penso. C’è bisogno di un cambiamento. De- dicati un po’ alla famiglia, gioca a golf, fai delle passeggiatine nel bosco, distraiti.» «Hai ragione.» «Come è possibile che non hai visto un cinghiale? Cristo santo.» «Se non la finisci ti mando a fare il cronista di nera.» «Forse hai bisogno di un buon paio di occhiali. Te li regalo.»

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«Ciao e tienimi informato» bloccò. Rideva e si teneva il fianco. Pensò che forse era davvero il caso di andare in ospedale. Imma finì di preparare le borse: portava Mira dalla nonna, sarebbero rimaste fuori fino al tardo pomeriggio. «Avvisami se hai bisogno di qualcosa.» «Va bene.» «E chiama l’ospedale, non metterti in macchina.» «Sì.» «Non fare di testa tua.» «Va bene.» «Ho visto la botta. Potevi rimanerci secco.» «Già.» «Secondo me era un cinghiale.» «Può essere.» «La settimana scorsa il camioncino del panificio ne ha preso uno in pieno, quello si è rialzato come se niente fosse. Zoppicava un po’, ha detto la signora, ma poi è scomparso nel bosco. In compenso il camioncino aveva tutto il davanti ammaccato. Da non crederci. Mira, andiamo?» Mira trascinava un grosso peluche. «Posso portare Joy da nonna?» «Certo, tesoro. Nonna sarà contenta.» Salutò il papà con un bacio, e uscirono. Marcello rimase ancora un po’ sulla poltrona, chiamò il suo dottore e gli spiegò l’accaduto. Anche il dottore era convinto si trattasse di un cinghiale. «Bisogna far qualcosa, ce ne sono dappertutto» disse. «Sono pe- ricolosi. E poi distruggono le coltivazioni, entrano nei giardini delle case, una mia paziente se n’è trovato uno nel garage la settimana scorsa. Dovrebbe scriverne sul giornale, non ne parla nessuno.» «Sì, magari sì.» «Comunque si prenda un Oki o del Nurofen, meglio, e se non passa vada in ospedale così le fanno una lastra.» Prese un Nurofen e aspettò che facesse effetto. L’idea di farsi ve- nire a prendere da un’ambulanza non lo entusiasmava. Era ancora in pigiama, andò in camera da letto e si coricò, non aveva chiuso occhio quella notte.

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Si svegliò due ore dopo. Sentiva dei guaiti fuori la porta. Andò a vedere. Era ancora mezzo intontito, ma non avvertiva dolori né al fianco né al ginocchio. Aprì e guardò fuori. C’era una bella luce, do- vevano essere le due del pomeriggio. I coniugi Felatti discutevano. Sentiva nitidamente le loro voci, era la prima volta che si trovava a casa a quell’ora, durante la settimana. Indossò un cardigan e si diresse alla macchina e analizzò il punto di impatto. Nella calotta del faro notò qualcosa, un ciuffo di peli grigi. Stava per prenderlo, poi si fermò, corse dentro, andò in bagno e prese le pinzette. Poi andò in cucina e cercò i sacchetti di plastica per congelare gli alimenti. Imma dove li metteva? Voleva fare come aveva visto tante volte in tv: prendere quel pelo, metterlo in una bustina e farlo analizzare dalla scientifica. Fece il numero di Imma. «Ehi, che succede?» «Tesoro, dove metti i sacchettini per il freezer?» «Cosa?» «Hai capito, quei sacchettini dove metti la roba per il freezer.» «Sto in tribunale e tu mi chiami per questo?» «Mi dici dove li metti, per favore?» «A che ti servono?» «Te lo dico dopo.» «Ti facevo in ospedale, non dovresti essere lì?» «Sto meglio. Ho preso un antidolorifico.» «E cerchi dei sacchettini di plastica.» «Già.» «Guarda nel cassetto sotto al forno, dovrebbero essere lì. Altri- menti nella camera di Mira, ci mette i pastelli a cera.» «Grazie, sei un tesoro» e attaccò. Trovò i sacchetti. Corse fuori con le pinzette e si chinò vicino al faro. Afferrò il ciuffo di peli e lo infilò con cura nel sacchetto e lo sigillò. Era convinto fosse di Bibi. Vide muoversi qualcosa dietro un cespuglio, un gatto probabil- mente. Mise bustina e pinzette in tasca e andò a vedere. Notò che alla base del bosso, a mezzo metro dal barbecue, c’era un buco bello

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grosso. Collegò la grandezza, i guaiti che aveva sentito e pensò a Bibi. Non era certo roba da gatto quella. Aprì il cancello e uscì in strada. Percorse il marciapiede a passo svelto e si fermò in corrispon- denza del buco. Si guardò intorno nella speranza di vedere qualche traccia. Scrutò ogni angolo del marciapiede, poi si incamminò verso la rotonda, finché non si rese conto di una volante della municipale che lo osservava. «Tutto bene?» «Sì.» Marcello abbozzò un saluto. «Abita qui?» l’agente lo guardava. «Sì, al trentasette.» «Mmm. Ha un livido sotto all’occhio, è caduto o cosa?» «Un piccolo incidente ieri sera, ma niente di grave.» «Che tipo di incidente?» «Con la macchina. Perché tutte queste domande?» «Sa, non è normale vedere uno che cammina per strada in pi- giama.» Marcello scosse la testa, sorrideva. «È che sono uscito perché qualche animale ha fatto una buca nel mio giardino.» «Già.» «Non è reato.» «No, ma è strano. Se vuole l’accompagniamo a casa.» «No, grazie. Faccio due passi.» «Così magari vediamo anche la buca.» «Non c’è bisogno, sto bene.» L’agente non era molto convinto, scese dalla macchina e aprì lo sportello posteriore. «Meglio se l’accompagniamo» disse. «Ma io non voglio essere accompagnato.» «Salga su, da bravo.» «Sono un giornalista.» «Non lo metto in dubbio, ora salga.» Marcello salì, l’altro agente sorrise. «Dove ha detto che abita?» «Al trentasette.» Erano davanti casa, lui mostrava ai due la buca. Quello che era alla guida si accese una sigaretta.

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«E sì, è proprio grossa. Potrebbe essere un procione.» «Un procione?» disse l’altro. «Non ce ne sono da queste parti.» «Beh, qualcuno potrebbe averne preso uno. La gente è matta.» «Le è già capitato altre volte?» «No, mai.» «Le dispiace se entriamo?» «Senta questa storia è assurda, sono uscito per dare un’occhiata, solo questo.» «Sì, certo, però il nostro dovere è controllare. Perciò se ci fa en- trare, noi controlliamo che è tutto a posto e ce ne andiamo. Che ne dice?» «Potremmo chiederle i documenti» fece l’altro. «E non credo ce li abbia con sé. Se vediamo circolare un sospetto, lo fermiamo.» «Un sospetto?» «Lei è in pigiama.» «Va bene.» Marcello scosse la testa. Si avviò al cancello, aveva un brutto presentimento. I due lo seguivano senza fretta. Mise le

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mani sull’inferriata e spinse. «No, dio santo, no, non è possibile. È chiuso» disse. «Vedo.» «E non ho le chiavi.» «Questo è un problema.» «Un bel problema» aggiunse l’altro. «Ma la porta di casa è aperta» Marcello la indicava. «E allora?» «Voglio dire, è evidente. Ero in giardino, sono uscito e nella fret- ta non le ho prese. Il cancello l’ho accostato, si sarà chiuso da solo. Succede.» Forse li aveva convinti, muoveva soltanto gli occhi, da una parte all’altra in cerca di consenso. «C’è qualcuno in casa?» «Mia moglie è in tribunale. È avvocato.» «Mmm.» «Scavalco, prendo le chiavi e vi apro.» I due lo fissavano, sorridevano. «Il fatto è che non sappiamo se la casa è sua.» «È un bel problema.» «Possiamo chiedere a qualcuno» disse Marcello. «Mi conoscono tutti qui.» «Sì, è un’idea.» La strada era deserta. Aspettarono un po’. L’agente più giovane si accese un’altra sigaretta. «Potremmo chiamare sua moglie» disse. «Non so il numero a memoria. Ce l’ho sul telefono.» «Tipico» scosse il capo. «Con quei dannati aggeggi non metti a memoria più nulla. Se rimani fuori sei fregato. È una dannazione. Però, il numero dell’ufficio se lo ricorda, quello lo ricordano tutti.» «Sì, quello sì. Ma preferirei non fare sapere.» «Certo, capisco. Allora, che ne dici Paolo se chiamiamo in cen- trale?» «Sì, credo sia l’unica cosa da fare.» Il più giovane andò in macchi- na. «Io sono Paolo e lui Pietro, come gli Apostoli, lavoriamo insieme da sei mesi, non è male, è che è giovane. E poi fuma troppo, per i miei

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gusti. Ha visto no? Non è solo un problema di salute, è che se non stai attento, ti distrai e potrebbe succedere. Capisce cosa intendo? Vada a dare le generalità, così entriamo e finiamo il lavoro, mi sto stufando.» Marcello sorrise, andò verso la macchina e diede le sue generalità. Ci misero poco. «Ehi Paolo, il signore è ok. Tranne il pigiama, si intende. È dav- vero un giornalista.» «Allora che facciamo, scavalca?» «Sì.» «Non la vedo convinto. Cos’ha? Mi sto davvero stufando.» «Gliel’ho detto, ho avuto un incidente con la macchina ieri sera e mi fa male dappertutto. Mi sta tornando il dolore. Avevo preso un antidolorifico, mia moglie mi aveva detto di andare in ospedale, ma poi non l’ho fatto.» «Ho capito, ci vado io» disse Pietro. «Sta’ buono. Ma tu guarda che giornata.» Paolo scuoteva il capo. «Come ti viene in mente una cosa del genere, eh, me lo dici?» «Qualcuno deve scavalcarlo questo cancello» fece l’altro. «Sì, ma non tu. Lo capisci questo, vero?» «Ci metto due secondi, chi vuoi che mi veda?» Nemmeno lo ascoltò. «Allora, vediamo, dov’è il pulsante? È au- tomatico, avrà un pulsante, un telecomando.» «No, nessun pulsante. Ha solo le chiavi» disse Marcello. «Le chiavi.» Paolo si aggiustò il berretto, guardò la strada, voleva essere sicuro che non ci fosse nessuno nei paraggi. «È che non po- tremmo farlo, capisce? Ma vista la situazione, se lo fa lei, chiuderò un occhio. O se preferisce possiamo chiamare sua moglie, ma non mi sembra il caso di disturbarla per così poco.» «Vado, vado.» «Bene.» «È semplice, basta che mette un piede lì e un altro su. Le do una mano» Pietro lo sorreggeva. «Stia attento a non cadere.» «Possibile che non stai mai zitto? Fumati un’altra sigaretta, ok?» «L’ha fatto innervosire, visto? Se non la fermavamo non stavamo qui. A quest’ora di solito siamo al bar a farci uno spuntino. Ecco,

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ora metta un piede lì. Conosce quel bar lungo la strada? Poco prima del bosco. Un bar piccolo, niente di che, ma mi creda fanno degli ottimi panini. Di tutti i tipi. Ecco, ora scavalchi, bravo. Prosciutto e formaggio, tonno e pomodoro, salsiccia e broccoletti. Il mio prefe- rito è hamburger e senape. Dovrebbe fermarsi una volta di queste, se non l’ha già fatto intendo. È lì che c’è stato l’incidente. Giusto?» Stava per accendersi un’altra sigaretta, quando Marcello entrò in casa. «Vedi la macchina? È una Saab.» «Beh, corrisponde.» «Sì, potrebbe essere. Anche se il colore è un po’ più chiaro.» «Non dimenticarti che era notte. Insomma quello ha detto che era una macchina grande nera. Magari era grigia.» Marcello uscì con le chiavi. «Eccole. Ora vi apro.» «Ok, ce l’abbiamo fatta» disse Paolo. Andarono subito alla macchina. Paolo annuiva, Pietro lo guar- dava, non diceva una parola. Intanto ispezionava la vettura. «Ha preso proprio una bella botta. Ieri sera, giusto? A che ora?» «Tornavo dal lavoro, potevano essere le nove. Nove e mezza.» «Fa così tardi?» «Alle volte anche di più.» «Le spiego, c’è stato un incidente sulla provinciale. All’incirca a quell’ora. Lì dove diceva il mio collega, in quel tratto di strada. Ora non voglio dire sia stato lei, ma due più due, dalle mie parti, fa quattro.» Marcello non capiva, Pietro era muto.

«La gente si ferma per bere un goccio, prima di tornare a casa, magari compra delle mentine per l’alito, così la moglie non se ne accorge, fa per prenderle e… È una strada buia quella.»

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«Scusi, non capisco. Che significa?» «C’è stato un morto. Ieri sera intorno a quell’ora, sulla provinciale c’è stato un morto.» «Tra quel bar e l’ingresso del bosco» aggiunse Pietro. «La gente si ferma per bere un goccio, prima di tornare a casa, magari compra delle mentine per l’alito, così la moglie non se ne accorge, fa per prenderle e… È una strada buia quella.» «Ma io non c’entro, io ho solo tamponato un animale.» «Non ho detto che è stato lei, ho detto che a quell’ora c’è stato un incidente mortale.» «Certo. Io ho investito un animale.» «Che animale?» «Non lo so, non ho visto molto.» «Non ha visto molto. E come fa ad essere così sicuro che si tratti di un animale?» «Perché… Dio mio non ho investito una persona, non c’era nes- suno. Sono sceso dalla macchina e non c’era nessun uomo steso, l’avrei soccorso.» «Come fa a sapere che è un uomo? Io non l’ho detto.» «Cristo santo, lei non mi crede. Io ho solo investito un animale, una grossa bestia. Sarà fuggita nel bosco, magari è ferita, se andia- mo lì sono sicuro che la troviamo.» «È questo che voleva fare stamattina? Trovare questa bestia che dice?» «Sì, non lo so. C’era la buca e mi sono detto forse è lei.» «Perché doveva essere la stessa bestia che ha investito?» «Perché sono convinto che sia Bibi, il mio cane. Uno spinone.» «Ha uno spinone. Quindi ha fatto la buca ed è scappato.» «No, non ce l’abbiamo più da quando è nata Mira, l’abbiamo abbandonato.» «Avete abbandonato un cane.» «Sì, purtroppo sì.» «Bibi, giusto?» «Sì, giusto.» «E secondo lei, Bibi era lì quando è passato.»

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«Già.» «E perché?» «È solo una sensazione. Noi lo abbiamo abbandonato e lui si ri- presenta. Mia moglie dice che non può essere, che era un cinghiale. Anche il mio dottore l’ha detto. E così in ufficio. Tutti dicono che era un cinghiale. Mi hanno persino chiesto di scrivere un pezzo, dicono che ce ne sono a centinaia. Io credo sia Bibi. Sì. Ho trovato anche un ciuffo di peli, guardi» tirò fuori la bustina con il ciuffetto di peli color argento. «Stamattina, l’ho trovato nel fanale. Bibi era di quel colore, argento. Aveva il pelo grigio argento.» «Sicuro che è un pelo?» «Sì. Diamine.» «Potrebbe essere altro.» «Cioè, cosa?» «Non lo so, capelli per esempio.» «Capelli?» «Senta, la scientifica ce lo dirà. Per ora se vuole essere così gentile da venire con noi in centrale, dovremmo fare un verbale, così ci dice come sono andate precisamente le cose. Il punto esatto e tutto quello che le viene in mente.» «Ma io le ho detto tutto quello che sapevo.» «Scusi la domanda, lei beve?» «No. Cioè un bicchiere la sera, con mia moglie.» «Ci sono parecchie bottiglie in casa.» «Sì, ma…» «Si è fermato a quel bar? C’erano delle mentine sul sedile» disse Pietro. «Il bar?» «Il bar prima del bosco.» «Faccia il bravo, mi stia a sentire, due ore e la riportiamo a casa. Magari se si mette qualcosa è meglio. Noi l’aspettiamo qui.» «Io non ho ucciso nessuno, signor agente, mi creda. Era solo un animale, un grosso animale.» «La credo, però ora si metta qualcosa, così andiamo e la facciamo finita.»

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Marcello entrò in casa, non sapeva cosa aspettarsi da quella giornata. «E avvisi sua moglie» Paolo agitò il capo. «Per oggi è andata, niente bar» disse Pietro. «Possibile che tu pensi solo a questo?» «Era per dire. Non c’è bisogno che ti scaldi.» Paolo tirò su col naso. «Senti come pizzica l’aria, aria di neve.» «Ormai ci siamo, tra poco sarà inverno.» «Già. E la sai una cosa? Non vedo l’ora che finisca.» «A me non dispiace.» Pietro si accese la sigaretta. «Ehi, dimmi una cosa. Tu l’abbandoneresti un cane?» «No, mai.» «Neanche io.»

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 155 13/02/2018 21:42:37 retabloid_fi1_web_13feb19.indd 156 13/02/2018 21:42:37 Le illustrazioni Ansel Adams: p. 129. Sylvie Contoz: p. 78. Walker Evans: p. 41. Famiglia Leoni: pp 114, 118, 124. Marco Mazzucchelli: pp 9, 14, 18, 25, 31. Alice Mestriner: pp 59, 62, 68. Alfredo Patera: pp 34-35, 36, 144, 149. Alexsandro Pereira: pp 134-135. Juan Antonio Torrent Almela: p. 131. Félix Vallotton: copertina.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 157 13/02/2018 21:42:37 retabloid_fi1_web_13feb19.indd 158 13/02/2018 21:42:37 retabloid fiction issue #1 © Oblique Studio, 2018. Le opere contenute in questo volume sono proprietà dei rispettivi autori. Composizione tipografica: Bodoni Mt, Adobe Caslon Pro, Georgia, Letter Gothic.

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 159 13/02/2018 21:42:37 …la percezione si chiude verso l’interno del corpo, le palpebre si appesantiscono, il sangue prende coscienza di sé, una lenta fosforescenza si disperde in tutta la struttura della carne, dei nervi e delle ossa; l’organismo ha la sensazione di essere intatto e infrangibile, e soprattutto inviolabile. —Alexander Trocchi

retabloid_fi1_web_13feb19.indd 160 13/02/2018 21:42:37 fiction issue #1

Federico Armani Dante Impieri Elvis Malaj Nicola Cordeschi Jacopo La Forgia Ivan Polidoro Laura Fusconi Elisa Leoni L. Filippo Santaniello

Senza titolo-1 158 07/02/18 08:36