UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE

XXIV CICLO DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE UMANISTICHE, INDIRIZZO STORICO E STORICO ARTISTICO

AL SERVIZIO DEGLI ASBURGO: CARRIERE, FAMIGLIE E PROPRIETÀ DI NOBILI FRIULANI IN AUSTRIA TRA SEICENTO E SETTECENTO

Settore scientifico-disciplinare: M-STO/02 - Storia moderna

DOTTORANDA VANIA SANTON

DIRETTORE DELLA SCUOLA PROF. GUIDO ABBATTISTA COORDINATORE DELL’INDIRIZZO PROF. GIUSEPPE TREBBI

RELATORI PROF. GIUSEPPE TREBBI PROF. ANDREA ZANNINI

ANNO ACCADEMICO 2010 / 2011

Sommario.

Introduzione ...... p. 7

Capitolo 1. Corteggiare la corte. I nobili friulani in Austria tra Cinquecento e Seicento. Porcia, Colloredo, Della Torre: dalle origini ai primi spostamenti in Austria ...... p. 17 1.1. Felix Austria: meta d’attrazione per la nobiltà friulana ...... p. 17 1.2. I Porcia del Colonnello di Sotto ...... p. 25 1.2.1. Ermes Porcia ...... p. 28 1.2.2. Giovanni Sforza Porcia ...... p. 38 1.2.3. Giovanni Ferdinando Porcia ...... p. 45 1.3. I Della Torre Valsassina ...... p. 62 1.4. La famiglia Colloredo-Mels ...... p. 68

Capitolo 2. Le carriere ...... p. 72 2.1. Hannibal Alphons Emanuel, Fürst von Portia ...... p. 72 2.2. Il cursus honorum dei Della Torre Valsassina ...... p. 100 2.3. La tiepida carriera di Camillo Colloredo ...... p. 110

Capitolo 3. Famiglie ...... p. 114 3.1. I Porcia ...... p. 114 3.1.1. La rete di parentela ...... p. 114 3.1.2. Il matrimonio di Annibale Alfonso Porcia e l’affaire Lodron ...... p. 128 3.1.3 Figli e discendenza del principe Annibale Alfonso Porcia ...... p. 138 3.2. La famiglia Della Torre Valsassina ...... p. 143 3.3 Il lignaggio di Giambattista di Colloredo-Mels ...... p. 153

Capitolo 4: Proprietà ...... p. 156 4.1. I possedimenti dei Porcia da Giovanni Ferdinando al principe Annibale Alfonso ... p. 156 4.2. La Signoria di Duino e l’eredità di Luigi Antonio Della Torre ...... p. 168 4.3. I possedimenti austriaci di Camillo Colloredo ...... p. 175

Conclusione ...... p. 179 Appendice ...... p. 186 Bibliografia ...... p. 190 Stemmi ...... p. 203 Alberi genealogici ...... p. i

Introduzione.

«La grande et haute noblesse […] consiste dans une tradition de vertu, de gloire, d’honneurs, de sentiment, de dignité et de biens, qui s’est perpetué dans une longue suite de races».

La citazione, tratta dal volume Mémoire sur la noblesse du roïaume de France, è attribuita allo storico delle istituzioni francesi, il conte Henri de Boulainvilliers, vissuto tra il 1658 ed il 1722, nella stessa epoca di Luigi XIV. Secondo la sua teoria, la nobiltà francese discese dal popolo franco stabilitosi in Francia alla caduta dell’impero romano. A quell’epoca, i signori erano liberi ed avevano il diritto di amministrare la giustizia. Il sovrano, primus inter pares, li coadiuvava come un semplice magistrato civile, eletto per arbitrare le controversie popolari. Tutti i nobili erano posti sullo stesso piano, nessuno eccettuato. Per il Boulainvilliers, questa condizione paritaria venne meno a partire dalle crociate, ossia quando degli «ignobili», plebei agiati, acquistarono il titolo nobiliare iniziando un processo di corruzione di valori. Questa nuova nobiltà, indicata con la comune espressione di noblesse de robe, venne etichettata dallo storico come una «mostruosità»1. Per il Boulainvilliers la vera nobiltà si basava invece sulla nascita e sulla trasmissione biologica dello status. Nel trattato Essais sur la noblesse de France, risalente agli inizi del Settecento, ma pubblicato nel 1735, il conte francese difese la teoria razziale sostenendo che la condizione nobiliare era garantita dalla conservazione della specie mediante una perpetuazione genetica del sangue aristocratico. Il carattere nobiliare era inoltre qualificato dalla manifestazione di virtù che si esplicava soprattutto nel carisma politico e militare della classe privilegiata. A sua volta la virtù riluceva solo mediante la fortuna, ossia il ruolo sociale assegnato dal destino ad un uomo, in questo caso la nobiltà di nascita: «Une naissance noble est donc le moien le plus commun de

1 D. VENTURINO, Le ragioni della tradizione. Nobiltà e mondo moderno in Boulainvilliers (1658-1722), Università degli Studi di Torino, Casa Editrice Le Lettere, 1993, p. 291.

7 faire valoir et de faire honorer la vertu»2. Dunque è la nobiltà di nascita unita ad una precisa coscienza del proprio rango, che permette la differenziazione dei veri nobili dagli altri uomini3. Solo la nobiltà di razza è infatti in grado di portare e trasmettere i valori della tradizione, del proprio casato e delle gloriose gesta degli avi. Tale congenita naturalezza consente al ceto privilegiato di comprendere intimamente i meccanismi della propria storia politica e sociale: i nobili divengono così gli unici soggetti in grado di amministrare correttamente lo stato e la comunità di appartenenza. L’elevata politicizzazione della nobiltà crea il presupposto per la formazione di una classe dirigente in grado di formare una «monarchia nobiliare» che possa penetrare ogni organo istituzionale ed equilibrare la direzione politica del sovrano, altrimenti soggetta al rischio di una degenerazione dispotica4. Henri de Boulainvilliers non fu l’unico teorico della nobiltà a difendere i valori della tradizione e dell’origine biologica del ceto aristocratico. Altri esponenti della cosiddetta nobiltà di spada – noblesse d’épée – perorarono le virtù del sangue e della trasmissione genetica dello status nobiliare5. Secondo l’analisi di Claudio Donati, fu proprio nel corso del Seicento che sedimentò un modello di nobiltà tendente a sottolineare la superiorità della nobiltà di sangue rispetto alle famiglie di recente cooptazione. In particolare la polemica della noblesse d’épée si cristallizzò contro la politica monarchica che troppo facilmente concedeva titoli nobiliari come compenso per i servizi prestati alla corona6.

2 R. ASCH, Europäischer Adel in der Frühen Neuzeit. Eine Einführung, Köln, Böhlau Verlag, 2008, p. 14. 3 Ibidem. 4 VENTURINO, Le ragioni della tradizione, cit., p. 274 e segg. 5 Un autore schieratosi a favore della nobiltà di spada fu il giureconsulto e poeta francese Florentin de Thierrat, nato a Mirecourt nel 1509. Nel trattato De la noblesse civile scrisse: «I contadini nella cernita scelgono il grano più bello per seminare, e quale è il grano più bello tale lo raccolgono. Noi cerchiamo la razza nelle giumente e nei cani, per avere puledri e levrieri di buona indole e adatti al servizio. E se aggiungiamo un po’ di nutrimento e di cure nell’allevare la prole, questa segue facilmente la bontà e la destrezza della razza dalla quale è derivata. Ma se sono bestie di razza bastarda, o che nutriamo coi resti di cucina senza addestrarle, danno luogo soltanto a bastardi indegni della caccia e delle prestazioni delle prime. Analogamente il gentil – homme nato da una buona e antica razza, ben nutrito e educato, mostra le sue virtù con ben altro splendore dei nuovi nobili. Per acquistare gloria e reputazione è un gran vantaggio essere annoverati nei ranghi della nobiltà fin dalla nascita: è molto più facile fare azioni virtuose quando si ha questa base sotto i piedi che quando bisogna farsi strada con mezzi diversi e con l’aiuto dei beni che si possiede […] la nobiltà di razza è un bene della natura, è un ornamento che rende tutte le azioni del gentil – homme piacevoli, mentre la nobiltà civile […] è un sole d’inverno che si nasconde ai nostri occhi a causa delle nebbie che si sono levate con lui». G. GLIOZZI, Le teorie della razza nell’età moderna, Torino, Loescher, 1986, p. 265. 6 C. DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 93 e segg; J. P. LABATUT, Le nobiltà europee dal XV al XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, pp. 53-78.

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Le rivendicazioni della nobiltà di spada nei confronti di quella di toga veicolarono soprattutto attraverso la pretesa della noblesse d’épée di dimostrare l’antichità e l’onorabilità delle proprie radici. La maggior parte dei casati nobiliari commissionò pertanto degli studi genealogici finalizzati a riportare alla luce le gesta dei propri avi e il lustro della propria famiglia, anche se tali studi non si fondavano sempre su documentazione tangibile bensì molto spesso sul semplice stravolgimento di fatti storici. Risultava di frequente che molti casati vantassero una discendenza tanto mitologica quanto improbabile. Tuttavia le ricostruzioni rispondevano alla necessità di coronare con gloria la storia della nobiltà di sangue7. Il Settecento pose fine alla contrapposizione tra queste due anime della nobiltà e, con la rivoluzione francese, venne definitivamente messo in discussione il primato del ceto aristocratico nella società. La nobiltà non declinò affatto ma si vide ridimensionare privilegi e vantaggi conservati e rafforzati durante l’età moderna8. Il cambiamento epocale venne sancito dall’opera dell’abate Emmanuel Sieyès, intitolata Qu’est-ce que le Tiers Etat?, e scritta nel 1789. Il pamphlet auspicava un superamento dei privilegi nobiliari poiché gli aristocratici erano «parassiti che non forniscono alcun contributo alla società godendo in compenso di gran parte delle ricchezze e degli onori che questa dispensa»9. Secondo l’abate francese, un più ampio riconoscimento di un ruolo politico al terzo stato era l’unico modo per permettere alla Francia di riprendersi e «rinvigorire»10. La rivoluzione democratica e l’esperienza repubblicana consacrarono il successo dell’opera, mentre nell’Ottocento maturò una pessimistica e stereotipata visione della nobiltà protrattasi fino al ventesimo secolo. L’ascesa della borghesia incoraggiò un’opposizione culturale e politica all’antico ceto privilegiato aristocratico, denunciando aspetti ed atteggiamenti negativi. La nobiltà d’ancien régime si caratterizzava cioè per ozio, inettitudine e incapacità. Nella mentalità collettiva si andò imprimendo un’immagine negativa e avvizzita del nobile signore, chiuso nel proprio castello a godere di vasti privilegi, sfruttando al

7 R. BIZZOCCHI, Genealogie incredibili: scritti di storia nell’età moderna, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 74-78;193-219. 8 J. DEWALD, La nobiltà europea in età moderna, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001, p. 269. 9 Ibidem. 10 Ibidem.

9 contempo il lavoro e la manodopera dei sudditi. Ricco o povero, di antico lignaggio o di recente acquisizione, il nobile era colui che viveva di rendita, sfoggiando titoli e onori11. Se nell’immaginario comune la classe nobiliare era in decadenza e contrassegnata da un inesorabile spoglio di «prerogative e responsabilità», allo stesso tempo essa non si arrese ad una perdita di potere politico che conservò anzi per tutto l’Ottocento. Pur con vari livelli e gradazioni di grandezza e ricchezza, la nobiltà si conservò riuscendo ad evitare un processo di «degenerazione, corruzione, o consunzione» e mantenendo la supremazia sulle altre classi sociali12. La corte, luogo di gravitazione naturale della nobiltà, fu concepita solo come spazio di ostentazione, di sfarzo e vizio. La storiografia non concedette attenzioni alla corte se non per liquidarla come una prospettiva effimera e poco significativa della vita d’antico regime. Bisognò attendere il Novecento affinché la corte potesse riottenere attenzione13. Lo studioso da cui scaturì un rinnovato interesse per questi studi fu il sociologo tedesco Norbert Elias. La sua opera, Über den Prozess der Zivilisation, uscita in tedesco nel 1939 ma comparsa in italiano solo a partire dal 1982, è un’analisi minuziosa della corte come «organo» rappresentativo della società europea di età moderna. Il modello cui lo studioso si ispirò fu l’organizzazione della reggia di Versailles nell’epoca di Luigi XIV (1643-1715). Oggetto di accurata osservazione furono tutti gli aspetti della vita quotidiana, gli appartamenti regali, l’etichetta di corte e soprattutto il cerimoniale da cui emerse un sistema sociale in cui gli individui erano interdipendenti gli uni agli altri, in particolar modo alla figura del monarca. Il mondo dorato della corte, ammantato da lusso e magnificenza, era soprattutto caratterizzato da un’acerrima contrapposizione tra aristocratici per primeggiare gli uni a danno degli altri. La Società di Corte di Elias è stata definita come il tentativo di creare un connubio tra «l’ottocentesca interpretazione del processo di creazione dello stato nazionale con l’altrettanto classica idea di una civilisation des moeurs»14. Lo sforzo storiografico di Elias mirava cioè a sottolineare l’importanza della corte nel processo di formazione dello stato moderno per cui il potere della nobiltà era annientato e confinato a quella

11 ASCH, Europäischer Adel, cit., pp. 1-2. 12 A. J. MAYER, Il potere dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 73-78. 13 J. DUINDAM, e Versailles (1550-1780). Le corti di due grandi dinastie rivali, Roma, Donzelli editore, 2004, p. 15. 14 DUINDAM, Vienna e Versailles, cit., p. 15.

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«gabbia dorata», in cui le fazioni aristocratiche si provocavano in una continua sfida per l’accesso al favore sovrano15. L’opera di Elias ebbe una vasta risonanza in tutta Europa, tanto che molte pubblicazioni successive si ispirarono agli studi del sociologo tedesco. Fu però a partire dagli anni Novanta del ventesimo secolo che si andò affermando la necessità di affrontare gli studi sulla corte in maniera più obbiettiva, lontano dai condizionamenti della vecchia storiografia e anche dall’impianto sociologico di Elias. La nuova storiografia europea sulla nobiltà propone una revisione della storia delle élites nobiliari partendo da analisi più accurate e approfondite di una vasta documentazione archivistica, insieme alla riconsiderazione dei modelli proposti dalla letteratura più datata. In questo nuovo processo storiografico è stata pertanto messa in discussione la contrapposizione tra sovrano e ceto aristocratico, per cui sono state smantellate le rigide categorie nelle quali la nobiltà doveva essere incasellata: talvolta come vittima del potere regale, talvolta come carnefice manipolatore di sudditi inermi. Il cerimoniale di corte è stato smacchiato da quell’alone di triviale imbroglio in cui far cadere la nobiltà per allontanarla dal centro di potere e permettere così il compimento dell’autorità assoluta sovrana. Ciò che la nuova storiografia tenta invece di porre in luce è al contrario una compenetrazione di ruoli per cui la nobiltà ha bisogno della corte e del favore reale per potersi affermare ma, a sua volta, il re integra la propria nobiltà negli apparati di potere per sollecitare il processo di formazione dello stato moderno. La nobiltà pertanto non viene relegata nella «gabbia dorata», ossia lo spazio cortigiano lontano dall’amministrazione dello stato e del potere ma, al contrario, è inquadrata in ogni struttura dello stato, dall’esercito, alla corte, fino alla burocrazia16. Tale spirito revisionista ha stimolato l’interesse a verificare l’attendibilità delle tendenze storiografiche al fine di appurare, ovvero smentire, la capacità aristocratica di adattamento alle contingenze e al ruolo sociale confacente ai tempi. Il desiderio di sondare il terreno della mentalità nobiliare in uno squarcio d’età moderna ha incoraggiato lo studio di alcune famiglie della nobiltà friulana che vissero ed operarono

15 J. DUINDAM, The Keen Observer versus the Grand-Theorist: Elias Anthropology and the Early Modern Court, in Höfische Gesellschaft und Zivilisationsprozess. Norbert Elias’ Werk in kulturwissenschaftlicher Perspektive, a cura di C. Opitz, Köln, Böhlau Verlag, 2005, pp. 87-91. 16 R. ASCH, Hof, Adel und Monarchie: Norbert Elias‘ Höfische Gesellschaft im Lichte der neueren Forschung, in Höfische Gesellschaft und Zivilisationsprozeß, cit., pp. 119 segg; DUINDAM, Vienna e Versailles, cit., pp. 20-22.

11 in territorio austriaco tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo. La scelta è stata riposta su alcune biografie, poco note alla letteratura, ma testimoni di una certa volontà di cambiamento e di affermazione sociale che ben si adatta alla discussione sulla malleabilità aristocratica. Il lavoro è stato circoscritto a tre casati che condivisero certe peculiarità, esperienze e caratteristiche comuni: Porcia, Colloredo e Della Torre, tre famiglie di antiche origini e profondamente radicate nel tessuto politico friulano, che condivisero il proposito di allargare le prospettive di affermazione del proprio casato anche al di fuori delle strutture istituzionali della Patria del Friuli, entrando al servizio delle corti asburgiche. La caduta dello stato patriarcale (1420) cristallizzò infatti il potere della Repubblica di Venezia che ruppe gli equilibri preesistenti, concentrando la gestione dello stato nelle mani della propria nobiltà lagunare e relegando la nobiltà suddita di Terraferma alla gestione dei soli affari locali. Molte famiglie aristocratiche considerarono pertanto l’opportunità di allontanarsi dai territori friulani controllati da Venezia, per cercare affermazione sociale presso gli Asburgo. L’Austria, così vicina al Friuli veneto e così disponibile ad accogliere funzionari stranieri, si presentava dunque come un concreto approdo per la nobiltà in cerca di ascesa sociale. Il trasferimento e il radicamento dei tre casati presso i territori imperiali ha lasciato ampia traccia presso gli archivi austriaci, dove sono custoditi i fondi famigliari, vero ricettacolo delle imprese nobiliari d’età moderna. La difficoltà dell’accesso agli archivi, la necessità di ricorrere a una documentazione in gran parte manoscritta, e finora poco studiata dalla storiografia, hanno indotto una circoscrizione del lavoro a tre particolari rami delle famiglie, offrendo spunti di riflessione su molteplici aspetti sociali, politici ed economici. Sono state pertanto identificate le linee del Colonnello di Sotto dei Porcia, dei Della Torre Valsassina (con particolare attenzione per la linea gradiscana di Filippo Giacomo di Raimondo Della Torre) e dei Colloredo-Mels (delimitando le riflessioni sul ramo austriaco di Camillo di Giambattista Colloredo, discendente di Bernardo). Su questi rami è stato orientato tutto il lavoro di ricerca cercando di diramare le indagini verso tre tematiche, ossia la ricostruzione delle carriere nobiliari presso le corti austriache, la gestione delle politiche famigliari e la descrizione delle proprietà che i casati disponevano in territorio imperiale. La tesi risulta organizzata in capitoli, di cui ciascuno corrisponde a ogni argomento affrontato, e in sottocapitoli che si dedicano alle argomentazioni riguardanti ogni famiglia. In particolare, l’attenzione è rivolta ai Porcia,

12 vero pilastro di questo lavoro, mentre Colloredo e Della Torre fungono da termine di paragone. Il primo capitolo “Corteggiare la corte: i nobili friulani in Austria tra ‘500 e ‘600” si presenta come una disamina delle origini dei tre casati friulani e dei loro trasferimenti in Austria a partire dal Cinquecento. Il secondo capitolo, Carriere, si prefigge invece l’obbiettivo di analizzare il percorso formativo ed il cursus honorum della generazione nobiliare vissuta tra la fine del Seicento ed i primi quarant’anni del Settecento, nel periodo che precedette le grandi riforme dell’epoca teresiana (1740-1780). Il capitolo si basa essenzialmente su documenti archivistici quali conferimenti di incarichi e titoli, nonché carteggi di carattere privato che testimoniano la professionalità dei feudatari, le formalità ottemperate per ottenere gli incarichi e le modalità con cui vennero adempiute le mansioni. Il terzo capitolo “Famiglie” si propone di indagare i rapporti di natura privata all’interno di ciascun casato per tentare di definire la percezione di “famiglia” intesa dai nobili. Tali osservazioni si basano sulle missive informali e confidenziali intrattenute tra congiunti, mentre lo scopo dell’indagine è il rilevamento delle figure parentali più vicine al capofamiglia. Oggetto di studio di questa sezione è inoltre l’analisi diacronica delle carriere all’interno di uno stesso casato: l’interesse è cioè rivolto alla comparazione dei cursus honorum tra diverse generazioni che, pur tenendo conto dei cambiamenti epocali, esprime il disegno di una politica famigliare nell’ambito dell’ascesa sociale di tutto il casato. La stessa attenzione viene anche dedicata al network intessuto attorno ai nobili, con speciale attenzione per le strategie matrimoniali: i legami nuziali erano sinonimo di opportunità politiche e sociali, di nuove alleanze, di consolidamento di conoscenze e affetti, di assestamento patrimoniale e di perpetuazione del buon nome del casato. Il quarto capitolo, “Proprietà”, è dedicato alla descrizione dei beni che i tre casati detenevano in Austria, con l’eccezione della famiglia Porcia i cui possedimenti sconfinavano anche nella bassa Baviera. Si tenterà inoltre di capire quale fosse la natura del potere esercitato dai nobili in questi territori e la qualità del legame che li univa a quelle terre. Il lavoro di tesi è stato principalmente basato sull’analisi di fondi famigliari, situati sia in Italia sia all’estero. Di fondamentale importanza è stato il Kärntner Landesarchiv di Klagenfurt, ove si trova il fondo Porcia. Riordinato tra il 1929 ed il 1934 dal dr.

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Martin Wutte, aiutato da Emerich Zenegg-Scharfffenstein, questo Privatarchiv consta di tre parti: la più significativa, Familie und Kommissarchiv, comprende materiale che riguarda la storia della famiglia, i titoli onorifici e gli incarichi, carteggi privati, contratti nuziali, testamenti e lasciti. Questa sezione è composta da 51 buste (Karton), che ricoprono un arco cronologico dalla seconda metà del Cinquecento fino all’inizio del Novecento. Ciascuna busta è suddivisa in fascicoli (Faszikeln) contrassegnati da una indicazione alfanumerica corrispondente a una precisa tematica. Sebbene questa parte del fondo sia stata fondamentale per la stesura della tesi, è bene ricordare che l’archivio Porcia consiste di altre due parti, ossia l’Herrschaftsarchiv, relativo all’amministrazione delle proprietà, ed Urkunden, ossia atti sciolti di argomento vario che riuniscono 865 fascicoletti (dal XVI al XVIII secolo). L’Archivio della Signoria (Herrschaftsarchiv) concerne la gestione della contea di Ortenburg, ossia la vasta proprietà carinziana con sede a Spittal an der Drau, che i Porcia rilevarono nel 1661. Il fondo, costituito da 478 fascicoli che vanno dal 1662 alla fine dell’Ottocento, si basa prevalentemente su registri con annotazioni di spese ed entrate. Sono inoltre conservate le corrispondenze con i Vicedomini, luogotenenti investiti dai Porcia ad amministrare i beni e tutte le attività economiche, legate al settore primario, che vi si svolgevano. Un secondo importante archivio Porcia si trova a Vienna. Il materiale è qui suddiviso in due fondi, di cui il primo è l’Archiv Porcia collocato allo Haus Hof und Staatsarchiv. Questo consta di undici buste, suddivise in incartamenti (Konvolut), per un totale di 108 fascicoli contenenti ciascuno uno o due documenti soltanto (in genere lettere di carattere privato) per un arco cronologico dal 1346 al 1838. Il secondo fondo si trova presso lo Allgemeines Verwaltungsarchiv di Vienna, nel fondo Familienarchiv, Familie in specie, Porcia, contenente due sole buste settecentesche. A seguire sono stati compiuti degli studi anche presso l’Archivio di Stato di Trieste, e nello specifico è stato visionato l’Archivio Della Torre e Tasso. L’acquisizione del materiale archivistico dei Della Torre Tasso terminò nel 1997, mentre prima giaceva presso il castello di Duino. L’ammontare è attestato a 710 buste per un arco cronologico che va dal 1282 al XX secolo. Per la presente ricerca è stato sufficiente visionare la quarta parte dell’archivio, riguardante la storia della famiglia in età moderna (dalla busta 68 alla busta 178). All’Archivio di Stato di Udine si trova invece l’ampio fondo Colloredo-Mels che

14 raccoglie materiale dal XIII al XIX secolo. L’archivio comprende la documentazione sopravvissuta e recuperata in seguito al sisma del 1976 che fece crollare una parte del castello di Colloredo, dove erano originariamente conservati i manoscritti. Il fondo venne in seguito acquistato e così smembrato da antiquari di Venezia e Padova che solo successivamente lo rivendettero all’Archivio di Stato di Udine. Non è nota l’entità del materiale manoscritto andato perduto. I documenti rimasti sono divisi in due parti, di cui la prima concerne gli atti relativi all’amministrazione della giurisdizione come lettere e proclami, processi e sentenze, atti patrimoniali e contabili, dati sulle rendite dei terreni. Le buste sono complessivamente 176. Il presente lavoro si è basato sulla consultazione della terza parte del fondo famigliare, ossia dalla busta 1 alla busta 110. Tuttavia le buste non risultano sempre in perfetto stato di conservazione, e l’intero fondo si presenta piuttosto frammentario. Nonostante sia stata data rilevanza a tutti gli incartamenti, la consultazione ha prodotto risultati del tutto esigui ai fini della ricerca sul ramo Colloredo-Mels, discendente da Bernardo. Più proficua è invece stata l’indagine condotta presso lo Haus Hof und Staatsarchiv di Vienna, dove vi sono sette buste contenenti materiale sulla famiglia di Camillo di Giambattista Colloredo, del ramo Colloredo-Mels. Altrettanto interessante si è rivelata la visita presso l’Archivio Storico Diocesano di Pordenone, dove viene conservato il nuovo fondo Porcia-Ricchieri, contenente materiale sulle due omonime famiglie nobili pordenonesi. Messo in pericolo dalle vicissitudini della prima guerra mondiale, l’archivio Porcia–Ricchieri è entrato in possesso della Biblioteca dell’Università di Binghampton (USA) da cui è stato rivenduto a privati solo negli ultimi anni17. Per il presente lavoro è stata sufficiente la consultazione di una sola busta. Nell’archivio stiriano di Graz (Steiermärkisches Landesarchiv) sono custoditi sia il fondo Colloredo sia l’archivio Porcia. Gli incartamenti sono piccoli e soprattutto concernenti la storia ottocentesca delle due famiglie. Ciononostante è stato possibile rinvenire qualche lettera utile alla ricostruzione delle biografie nobiliari e al consolidamento di una visione d’insieme di ciascun casato. Similmente anche l’Archivio

17 G. CRUCIATTI, Il fondo Porcia-Ricchieri, in «Atti Accademia San Marco di Pordenone», 12, 2010, pp. 589-607.

15 di Stato di Venezia non è stato utilizzato se non per sporadiche informazioni ricavate dal fondo degli Inquisitori di Stato. Forieri di notizie si sono dimostrati, infine, due archivi riguardanti la storia settecentesca delle famiglie Porcia e Colloredo, ossia lo Schloßarchiv presso lo Staatsarchiv Landshut (Niederbayern, Germania) comprendente sette buste sui possedimenti bavaresi purliliensi, e - a St. Pölten, in Austria – il Niederösterreichisches Landesarchiv, dove invece si trovano alcune informazioni inerenti il ramo di Camillo di Giambattista Colloredo. Il presente lavoro deve il suo compimento ai consigli e alla supervisione dei miei relatori (prof. Giuseppe Trebbi e prof. Andrea Zannini), nonché alle stimolanti osservazioni del prof. Silvano Cavazza e del prof. Guido Abbattista. L’interessamento espresso dall’ufficio della Soprintendenza Archivistica per Friuli Venezia Giulia (e in particolar modo del dott. Paolo Santoboni), nonché la cordiale disponibilità del dott. don Renato Martin, mi hanno concesso di prendere visione dei manoscritti contenuti nel fondo Porcia-Ricchieri presso l’Archivio Storico Diocesano di Pordenone. I suggerimenti del dr. Waltraud Winkelbauer (Niederösterreichisches Landesarchiv), e del dr. Martin Rüth (Staatsarchiv Landshut) hanno offerto vari spunti di riflessione, nonché la possibilità di un eventuale ampliamento della ricerca. Ringrazio tutto il personale del Kärntner Landesarchiv per la gentile accoglienza e la professionalità con cui mi hanno pazientemente assistita durante la permanenza in Carinzia; in particolar modo vorrei esprimere profonda gratitudine a Joachim e Marlies per l’affetto e l’amicizia dimostratami in questi anni. Molte riflessioni non avrebbero trovato spazio senza i costruttivi dialoghi con il dr. prof. Guido Hausmann, dr. prof. Wladimir Aichelburg, il dr. Stefan Sienell e il dr. Antonio Conzato. Rivolgo infine un pensiero di riconoscenza alla mia famiglia cui è dedicato questo lavoro.

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Capitolo 1: Corteggiare la corte. I nobili friulani in Austria tra Cinquecento e Seicento. Porcia, Colloredo, Della Torre: dalle origini, ai primi spostamenti in Austria.

1.1 Felix Austria: meta d’attrazione per la nobiltà friulana.

«Nominai all’Eccellenze Vostre nella passata lettera la famiglia Colloreda, Pace, Strassolda e Porcia perché siano le sole che abbiano attinenze in Germania mà perché sono le più conspicue. Del rimanente in generale tutti questi feudatarij sono congionti di sangue, e di parentela con quelli di Goritia, e Gradisca e però che habbino cominciato à deponere li antichi odij, uno di questi sudditi della Casa Colloreda, e Pace fatte, ricchissime per le pingui eredità havute dai suoi cugini, che havevano trapiantate le case in Germania, li soggetti, che qui dimorano, sono d’altissimi et esemplari costumi, dediti alla pietà et alla religione, e di un ottimo cuore verso dell’Eccellenze Vostre. Della Porcia non vi è qui che un solo cadetto, essendo passato il Primogenito al godimento della riccha eredità del suo Principato in Germania. […] Per queste conspicue case, e per quelle tutte della città posso assicurare, esservi verso dell’Eccellenze Vostre un ottima disposizione, per quelle poi, che lontane da questa Città stanno di continuo ne loro castelli non saprei fermarne un certo giuditio. Non si può negare che alle nuove più frequentemente capitano de tedeschi, e francesi non ne traspiri il genio essaltando sempre le vittorie de primi et inculpando le procedure delli altri. Non potrò mai à bastanza ridire quanto giovi all’Eccellenze Vostre havere impiegato in queste militie della Patria le feudatarie famiglie, che prendevano un nuovo impegno di servire al suo Prencipe; onde Io ne preliminari di mia Reggenza quando le ho sentite à proponere ho fatto un grandissimo applauso acciò fossero promosse come seguì nel generale Parlamento. […] Non devo pure tacere all’Eccellenze Vostre come in questi difficili et ardui tempi ho stimato bene con tutti questi signori et ancora con quelli della città per pubblico vantaggio il deporre il rigore et il sussiego usando verso di loro della cortesia, quasi superiore alla carica, acciò abbino sempre più ocasione di benedire il suo Prencipe e d’inamorarsi della soavità del governo»1.

Il dispaccio, scritto nel 1701 dal Luogotenente della Patria del Friuli, Bernardo Corner, venne destinato agli Inquisitori di Stato, il temuto tribunale veneziano2. Il Luogotenente, in qualità di rappresentante in loco del potere veneziano, aveva il dovere di aggiornare le magistrature centrali sull’amministrazione della provincia ed eventualmente sui problemi insorti durante il mandato3. In questo caso l’attenzione

1 Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi ASV), Inquisitori di Stato, b. 344, dispaccio del 16 ottobre 1701. 2 Sul funzionamento del Supremo Tribunale veneziano, si vedano i volumi: R. CANOSA, Alle origini delle polizie politiche. Gli Inquisitori di Stato a Venezia e Genova, Milano, Sugarco, 1989, pp. 38-48; P. PRETO, I servizi segreti di Venezia, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 55 segg., G. MARANINI, La costituzione di Venezia, Firenze, La Nuova Italia, vol. 2: Dopo la serrata del Maggior Consiglio, 1974, pp. 473-490. 3 A. TAGLIAFERRI, L’amministrazione veneziana in Terraferma: deroghe e limitazioni al potere giudiziario dei rettori, in «Memorie storiche forogiuliesi», 56, 1976, pp. 111-134; G. TREBBI, 1420-1797. La storia politica e sociale, Udine, Casamassima, 1997, pp. 31 segg; A. BATTISTELLA, La quinta ruota del

17 venne rivolta ad alcune famiglie nobili che, originarie dal Friuli sottoposto all’autorità veneta, si erano trasferite in territorio imperiale. Era pertanto necessario monitorare la situazione, cercando di mantenere questi nobili sotto la sfera di influenza veneziana, prima di doverne rassegnare la perdita a favore dell’impero asburgico. Il controllo sull’emigrazione castellana verso l’impero non fu un fenomeno prettamente settecentesco. Un consistente flusso di famiglie nobiliari si poté registrare anche nei secoli precedenti: importanti casati come i Colloredo, i Della Torre, gli Strassoldo che vantavano origini friulane, possedimenti e forti legami con la Patria del Friuli, scelsero di allontanarsi dai luoghi di origine per trasferirsi al servizio della casa d’Austria. Un esempio fra tanti è costituito dalle biografie dei principi Colloredo Mannsfeld, discendenti del ramo friulano di Vicardo. Questa importante linea si radicò in Austria a partire dal diciassettesimo secolo, annoverando importanti incarichi e onorificenze. Girolamo Colloredo di Ferdinando, vissuto tra il 1674 e il 1726, fu ad esempio Governatore della Lombardia mentre suo nipote, Girolamo Colloredo di Rodolfo Giuseppe, venne eletto Principe Vescovo di Salisburgo. Il canonico, vissuto tra il 1732 e il 1812, non è noto alla storiografia solo per la carriera ecclesiastica, ma soprattutto per aver tenuto al suo servizio il musicista Wolfgang Amadeus Mozart. Il Colloredo, molto caro all’imperatrice Maria Teresa, avrebbe perfino tentato di ostacolare gli albori professionali del grande compositore austriaco alla corte di Vienna4. L’emigrazione castellana verso gli adiacenti territori asburgici può essere ricondotta a molteplici ragioni. La prima di queste si innestava nel clima di diffusa violenza che dilagò nella Terraferma veneta a partire dagli inizi del Cinquecento. Le tensioni, inizialmente localizzate nelle campagne e poi distribuitesi in città, presero le mosse dalla bramosia castellana di acquisire e consolidare il proprio potere all’interno delle istituzioni locali. La rivalità tra feudatari generò un sanguinoso contesto di criminalità e faida, difficile da estirpare: omicidi, vendette, agguati erano all’ordine del giorno. Si dovette pertanto ricorrere all’intervento di Venezia: il Consiglio dei Dieci, massimo

carro, in «Atti dell’Accademia di Udine», 1924-1925, pp. 3-31; A. GIUMMOLÈ, I poteri del Luogotenente della Patria del Friuli nel primo cinquantennio 1420-1470, in «Memorie storiche forogiuliesi», 45, 1962- 64, pp. 57-124. 4 M. SOLOMON, Mozart, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, vol. 1, 1996, pp. 5-6; 108-110; G.C.CUSTOZA, I Colloredo: una famiglia e un castello nella storia europea,Udine, Gaspari, 2003, pp. 245- 253.

18 organo giudiziario della Repubblica veneta, emanò una sistematica attività legislativa che però non si rivelò efficace nella lotta alle violenze. A quel punto la Serenissima adottò un altro strumento di contrasto alla faida, ossia la pena del bando5 che mirava all’allontanamento fisico del condannato per uno spazio che poteva andare dalle quindici miglia (bando ordinario) fino ad un’espulsione totale da tutti i territori dello stato veneto (bando definitivo). Il periodo della condanna variava poi da tre fino a vent’anni, oppure poteva essere perpetuo6. Sebbene molti condannati non si curavano delle sentenze di bando subite e giravano indisturbati per il territorio veneto, molti altri colsero l’opportunità della pena e rispettarono i verdetti giudiziari, uscendo molto spesso dai confini dello stato marciano per recarsi altrove. I territori imperiali erano i più vicini e lo stesso Friuli era in parte governato dagli Asburgo. La posizione dello stato imperiale consentì pertanto ai castellani colpiti da bando di rispettare la condanna ricevuta, senza allontanarsi troppo dai luoghi natii. Il fuoriuscitismo quindi portò come conseguenza un consistente movimento migratorio nobiliare verso l’Austria che, da parte sua, seppe assimilare e utilizzare le risorse feudali espulse dallo stato limitrofo. L’Austria rappresentava pertanto l’occasione di un rilancio sociale, non solo per quei castellani inibiti dalla sentenza di bando, ma anche per tutti i feudatari, sudditi di Venezia, che non avevano potuto trovare una collocazione politica nelle strutture dello stato marciano. Dal momento della conquista veneziana in Terraferma (1420), la Serenissima mise infatti il bavaglio alla nobiltà suddita relegandola all’amministrazione locale. La politica dello stato e il potere vennero interamente spartiti dalla nobiltà lagunare, mortificando le risorse feudali di Terraferma. L’Austria, al contrario, non si fece scrupoli nell’assorbire

5 C. POVOLO, L’intrigo dell’onore: poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona, Cierre Edizioni, 1997, pp. 163-164. 6 Il bando ordinario poteva essere a tempo oppure perpetuo, mentre il bando definitivo era solo perpetuo. B. MELCHIORI, Miscellanea di Materie Criminali, Volgari e Latine composta secondo le Leggi Civili e Venete da Bartolomeo Melchiori assessore, Venezia, nella Stamperia Bragadina presso Pietro Bassaglia in Merceria al Segno della Salamandra 1741, pp. 231 segg.

19 nei propri meccanismi di direzione politica la nobiltà straniera7, anche perché disponeva di strutture con cui Venezia non poteva competere. In primo luogo la corte. La Serenissima era una Repubblica e quindi – almeno formalmente – non sussistevano cortigiani. Inoltre l’accesso alle magistrature, rigidamente permesso alla sola nobiltà veneziana, non concedeva deroghe, ad eccezione dei casi di cooptazione, ossia l’assimilazione di nuove famiglie nel patriziato lagunare previo pagamento di una cospicua somma di denaro. Ma le cooptazioni erano rare e non smuovevano quella ristretta élite che controllava le cariche più influenti8. In Austria era diverso, se non altro perché la corte si eleggeva e dimetteva ad ogni elezione imperiale, offrendo così l’opportunità di un rimescolamento delle nomine9. La corte, lungi dall’essere una gabbia dorata in cui il principe addomesticava la nobiltà tenendola lontana dal centro del potere10, si presentava piuttosto come uno spazio complesso dove la coesistenza e la cooperazione di diverse linee di potere consentivano il processo di consolidamento dello stato moderno. La corte era un «interrelated system», ossia uno spazio in cui interagivano persone, relazioni, spinte sociali, spazi, poteri che offrivano e al contempo creavano servizi. La corte quindi non è solo residenza del principe o location di feste ma si attestava come luogo di potere, spazio di discussioni, decisioni, frequentazioni sociali e formazione11. Analizzata in questo senso, la corte offriva dunque un insieme di possibilità per giovani rampolli in cerca di affermazione sociale. In Austria la corte principale, nonché centro del potere, era a Vienna: gli Asburgo fecero della capitale il centro del loro mondo12 già a partire dal tredicesimo secolo.

7 G. TREBBI, Tra Venezia e gli Asburgo: nobiltà goriziana, nobiltà friulana, in Gorizia barocca. Una città italiana nell’impero degli Asburgo,Catalogo della Mostra tenuta a Gorizia nel 1999-2000, Monfalcone, Edizioni della Laguna, 1999, p. 39. 8 F.C.LANE, Storia di Venezia, Torino, Einaudi, 1991, p. 9 J. DUINDAM, Vienna e Versailles. Le corti di due grandi dinastie rivali (1550-1780), Roma, Donzelli Editore, 2004, p. 417. 10 N. ELIAS, La civiltà delle buone maniere: la trasformazione dei costumi nel mondo aristocratico occidentale, Bologna, Il Mulino, 1982. 11 La citazione è tratta dall’intervento tenuto da Marcello Fantoni in occasione del convegno Les cours en Europe: bilan historiographique tenutosi al castello di Versailles dal 24 al 26 settembre 2009 ed organizzato dal Centre de recherche du Château de Versailles in collaborazione con The Court Study Forum e l’associazione Europa delle Corti. Gli atti del convegno sono in corso di stampa. Si veda inoltre M. FANTONI, The city of the prince: space and power, in The politics of space: European Courts, ca. 1500-1750, a cura di M. Fantoni, G. Gorse, M. Smuts, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 39 – 57. 12 Il primato di Vienna venne perso solo alla fine del sedicesimo secolo durante il regno di Rodolfo II che portò la propria sede a Praga. La rivalità tra Praga e Vienna fu molto forte in quel periodo ma rimase solo

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La residenza asburgica per eccellenza era la Hofburg, che consta di una serie di edifici risalenti a epoche differenti: questa massiccia struttura composita suggeriva l’immagine della solidità dell’impero, sempre nel rispetto della tradizione. Gli Asburgo vivevano alla Hofburg solo nei periodi invernali, mentre in primavera si spostavano nel castello di Laxenburg e in estate alla Favorita, nel sobborgo viennese di Wieden. Quest’ultima raggiunse particolare splendore tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, poiché Leopoldo I e i suoi figli vi dimostrarono una particolare attenzione. Con l’avvento al trono di Maria Teresa, il castello venne lasciato in disuso e venduto ai gesuiti nel 1746. Maria Teresa era infatti più legata ad un’altra residenza che fino a quel momento era servita come riserva di caccia: Schönbrunn. Il possedimento, appartenente agli Asburgo già dal Cinquecento, venne ristrutturato una prima volta sotto Ferdinando III (prima metà del Seicento), anche se il vero e proprio rinnovamento avvenne solo alla fine del diciassettesimo secolo con il progetto dell’architetto Johann Bernhard Fischer von Erlach che diede al castello un’impronta barocca. Con l’ascesa al potere di Maria Teresa e la commissione all’architetto Nicolò Pacassi, Schönbrunn fu nuovamente ritoccato prendendo la forma attuale13. Nel corso del diciottesimo secolo gli Asburgo rilevarono anche il castello Belvedere che nella prima metà del Settecento era stata la dimora del comandante militare Eugenio di Savoia. Oltre alle residenze viennesi, gli Asburgo poterono annoverare una serie di dimore cittadine: Graz, Innsbruck, Praga, così come le piccole corti delle imperatrici vedove, centri minori di discussione politica14. Un tale dispiegamento di castelli e residenze imponeva l’impiego di personale adeguato a servire la Casa d’Austria. Già nella prima età moderna l’impiego di cortigiani di estrazione nobiliare era relativamente numeroso: tra la fine del quindicesimo secolo e l’inizio del sedicesimo, l’imperatore dispose di circa seicento funzionari. Cinquant’anni più tardi, ossia con il regno di Rodolfo II, la corte aumentò passando dalle circa settecento alle milleduecento presenze. L’imperatore Mattia, nel 1615, approvò una riforma che mirava a ridurre le dimensioni della corte, portandola

una breve parentesi nella storia degli Asburgo. K. VOCELKA, Die Familien Habsburg und Habsburg- Lothringen. Politik-Kultur-Mentalität, Wien, Böhlau Verlag, 2010, p.161; J. DUINDAM, Palace, city, dominion: the spatial dimension of Habsburg Rule, in The politics of space: European Courts ca 1500- 1750, a cura di M. Fantoni, G. Gorse, M. Smuts, Roma, Bulzoni Editore, 2009, pp. 59-87. 13 E. IBY, A. KOLLER, Schönbrunn, Wien, Verlag Christian Brandtstätter, 2007, pp. 32 segg. 14 VOCELKA, Die Familien Habsburg und Habsburg –Lothringen, cit., pp. 159-165.

21 così a ottocento elementi. Tale corpo si mantenne numericamente stabile fino all’inizio del Settecento, ossia fino alla morte di Leopoldo I, dopodiché i numeri iniziarono a lievitare, anche grazie al conferimento di molti titoli onorari. Alla morte di Carlo VI (1740) la corte constava di quasi duemila presenze. Se la fase riformatrice del governo teresiano tentò di ridurre i cortigiani di parecchie unità, il numero complessivo durante il governo del figlio, Giuseppe II, si attestò a superare nuovamente le duemila unità, creando occupazione per i giovani nobili15. La corte non era però l’unica risorsa d’impiego per castellani in trasferta oltralpe. In tutta l’età moderna, anche l’esercito poteva rivelarsi un magnete dalla forte capacità attrattiva. Ha scritto a tal proposito Geoffrey Parker nell’introduzione a La rivoluzione militare: «è difficile trovare un decennio prima del 1815 in cui non ebbe luogo almeno una battaglia. […] nel XVIII secolo vi furono solo dodici anni nel corso dei quali il continente fu completamente in pace. Eppure, nel mezzo di questa tendenza costante, spicca per il suo spirito eccezionalmente bellicoso il periodo che segna l’inizio dell’età moderna. Nel Cinquecento vi furono meno di dieci anni di pace completa e nel Seicento soltanto quattro. […] Nel Cinquecento la Francia e la Spagna conobbero a stento la pace, mentre nel Seicento l’Impero ottomano, l’Austria asburgica e la Svezia furono in guerra due anni su tre, la Spagna tre su quattro e la Polonia e la Russia quattro anni su cinque»16. La frequenza delle guerre imponeva la necessità di mantenere gli eserciti pingui di reclute. I dati relativi all’Austria sembrerebbero confortare tale ipotesi in quanto nell’epoca che va dal 1700 al 1815, solo il 40% del tempo può essere qualificato come pacifico, mentre i dati sul Seicento rivelano che solo il 29% del secolo non venne segnato da bellicismi: insomma, la guerra per gli austriaci fu un «Naturzustand», ossia uno stato naturale con il quale dovettero convivere17. In realtà la guerra si conformava alla politica assolutista che ideologizzava e giustificava i conflitti a scopi espansionistici, di difesa del territorio ed anche di prestigio sul piano internazionale. Gli

15 Queste oscillazioni numeriche tengono conto del solo personale di corte, da cui è escluso il conteggio del personale afferente all’apparato burocratico le cui presenze rimasero più esigue. Duindam ha calcolato che durante il regno di Leopoldo, il personale burocratico aumentò da 225 a 400 unità. DUINDAM, Vienna e Versailles, cit., pp. 97-125. Si veda inoltre H. CH. EHALT, La corte di Vienna tra Sei e Settecento, Roma, Bulzoni Editore, 1984, pp. 46-69. 16 G. PARKER, La rivoluzione militare, Bologna, Il Mulino, 1990, p.1. 17 K. VOCELKA, Glanz und Untergang der höfischen Welt: Repräsentation, Reform und Reaktion im habsburgischen Vielvölkerstaat: 1699-1815, Wien, Ueberreuter, 2001, p. 135.

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Asburgo, ad esempio, sfruttarono ripetutamente il pretesto della salvaguardia del proprio stato, dell’Europa e della cristianità come casus belli contro gli Ottomani. Tale indottrinamento militare, nonché la frequenza con cui l’Impero si trovò coinvolto in conflitti, offriva costantemente l’opportunità a molti nobili di entrare a far parte dell’esercito asburgico18. Per tutto il diciassettesimo secolo e fino alle riforme teresiane di metà Settecento, inoltre, le milizie imperiali erano prevalentemente organizzate proprio dalla nobiltà che si assumeva la responsabilità del finanziamento delle proprie truppe, nonché dell’addestramento e dell’armamento dei soldati19. Nonostante l’impegno monetario che il ceto aristocratico si sobbarcò per sostenere le spese di guerra di uno stato – l’Austria – in costante deficit, la domanda di arruolamento tra le fila militari imperiali non mancò mai, nemmeno da parte della nobiltà friulano- veneta che vedeva delle opportunità professionali nella milizia asburgica, piuttosto che in quella nativa. In controtendenza con la politica bellicistica austriaca, Venezia aveva assunto un atteggiamento più pacato e prudente dopo gli sforzi per la difesa di Candia alla metà del Seicento. Gli impegni militari potevano anche essere simbolo di prestigio e competitività internazionale ma avevano un costo che non poteva più essere ignorato: la briglia dei debiti rallentò la corsa agli armamenti, permettendo alla Repubblica marciana di ottemperare una politica militare più misurata, scegliendo la neutralità. Il fiacco militarismo veneziano, ancora più sfibrato nell’ultimo secolo di vita della Repubblica, mise la nobiltà feudale nelle condizioni di arruolarsi altrove, magari proprio nella vicina Austria che, se non garantiva copiosi ed immediati emolumenti, lasciava sperare in ricompense e onorificenze future20. Per tutte queste ragioni, l’Austria si trovò nelle condizioni di valorizzare delle risorse feudali che nella Patria del Friuli si stavano invece sciupando. I castellani, dal canto loro, misero a disposizione tutti i mezzi pur di elevarsi socialmente e dare lustro al casato. Le energie sociali e finanziarie, i capitali, l’ambizione di queste famiglie nobili venivano accolte dall’impero ed utilizzate come «Kitt», cioè come «mastice» di una

18 Ivi, pp. 135-136. 19 Ibidem. 20 TREBBI, Tra Venezia e gli Asburgo, cit., pp. 39; 50-53; TREBBI, Il Friuli dal 1420 al 1797, pp. 322-323.

23 antica «monarchia composita», da sempre aperta alla commistione di elementi diversi ma anche bisognosa di un collante che tenesse insieme le parti21. La nobiltà seppe mettersi in gioco, entrando in un meccanismo di do ut des, per cui i castellani investivano nello stato asburgico ma si aspettavano in cambio favori per la loro riverenza. L’ambizione sociale non trovava appagamento nella mera fedeltà al principe: una certa attenzione era infatti richiesta anche nelle relazioni sociali che si intrattenevano a corte. Era cioè necessario sapersi spianare un fertile terreno sociale in cui coltivare amicizie, alleanze e parentele di un certo spessore. La corte cioè andava corteggiata. Il network doveva essere selezionato accuratamente e frequentato poiché era anche mediante solide relazioni che si conquistava la fiducia della casa d’Austria. La promozione di sé e del proprio casato non erano però delle conquiste scontate: molto spesso l’impegno e i mezzi messi a disposizione non garantivano un riscatto sociale immediato. Bisognava perseverare, anche a costo di investire più generazioni di una stessa famiglia. La costante alacrità fu il motore di molti castellani che si mossero dal Friuli veneto nella prima età moderna alla ricerca di promozione. Se gli esordi in territorio austriaco non furono sempre segnati da celeri successi, la perseveranza di questi nobili permise loro di compiere una carriera che nelle terre natie sarebbe stata preclusa a priori. Queste prerogative accomunano alcune delle famiglie provenienti dal Friuli, come i Porcia, i Colloredo e i Della Torre, le cui radici affondano nella storia medievale della Patria del Friuli.

21 T. WINKELBAUER, Ständefreiheit und Fürstenmacht. Länder und Untertanen des Hauses Habsburg im konfessionellen Zeitalter. Teil 1, Wien, Verlag Carl Ueberreuter, 2003, pp. 191-196. Il concetto di «monarchia composita», tradotta in tedesco con il sintagma zusammengesetzte Monarchie si riferisce alla particolare situazione del Sacro Romano Impero che era formato da una congerie di stati diversi, riunificati politicamente sotto un’unica corona. Tedeschi, austriaci, ungheresi, slavi e romani facevano parte di un impero basato su una unione personale – incarnata nella figura dell’imperatore – di stati diversi che mantenevano, in parte, delle prerogative proprie: lingua, diritto, amministrazione locale. WINKELBAUER, Ständefreiheit und Fürstenmacht, cit.,p. 25.

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1.2 I Porcia del Colonnello di Sotto.

«Im Schlosse des Fürsten Porcia zu Spittal an der Drau ist nach rauschenden Festen wieder die Ruhe des Alltags eingekehrt. Verstummt ist das Lachen und Lärmen, das die weiten Prunksäle und die Gästezimmer durchklang, erloschen die heitere Musik, und entschwunden sind die schönen Frau, die tagelang die Erinnerung an die reichen, mächtigen Porcia und Salamanka von einst wachgehalten hatten»22.

Le origini della famiglia Porcia affondarono nel Basso Medioevo e si intrecciarono con la storia dei conti Prata, provenienti dall’omonima località del Friuli occidentale. Le prime documentazioni del casato risalirono al 1112, ossia quando Gabriele di Prata venne nominato Avvocato della Chiesa di Concordia. Lo stesso titolo fu in seguito conferito al figlio Gueccelletto (1140), anche ricordato come Podestà di Treviso tra il 1174 ed il 1181: la Marca Trevigiana era allora controllata dalla famiglia degli Ezzelini, cui il Prata si legò anche grazie al matrimonio con Gisla, figlia di Ezzelino, signore locale. Il patto nuziale e l’incarico assunto nel trevigiano misero il Gueccelletto nelle condizioni di schierarsi militarmente a favore degli Ezzelini23 e contro il Patriarca d’Aquileia che governava sul territorio friulano come «principe dell’Impero ed appart[tenente] al Regno d’Italia»24. Lasciata la magistratura trevigiana, il Prata ricevette da Sigisfredo, vescovo di Ceneda, nell’agosto nel 1181 l’investitura della torre e del castello di Ceneda25, mentre sette anni più tardi il Patriarca Godofredo gli conferì il titolo di conte di Prata e Porcia, nonché del «distretto» di Brugnera. Il territorio si estendeva cioè «dall’una e dall’altra parte della Livenza sino alla fossa detta Cigana, con tutte le giurisdizioni, garrito e comitato». Secondo la versione di Pio Paschini, nessuna famiglia nobiliare dell’epoca poté vantare tali ampli diritti26. Mentre il Gueccelletto era ancora in vita, i figli, Gabriele

22 «Nel castello del principe Porcia a Spittal an der Drau è tornata la tranquillità della vita quotidiana dopo magnifiche feste. Sono cessate le risate e i rumori, che risuonavano nelle ampie sale del palazzo e nelle camere per gli ospiti, si è spenta la piacevole musica, e sono sparite le belle donne che un tempo avevano mantenuto vivo il ricordo dei ricchi e potenti Porcia e Salamanca» M. STEURER, Herr auf Schloß Porcia, Wien, Verlag Kreymayr & Scheriau, 1951, p. 5. 23 G. PUJATTI, Prata Medioevale, Sacile, Tipografia Editrice E. Bellavitis, 1928, pp. 26-28. 24 P.S. LEICHT, Parlamento friulano, Bologna, Forni Editore, volume primo, 1968, parte prima, p. XXII. 25 PUJATTI, Prata Medioevale, cit., pp. 29-30. 26 P. PASCHINI, Storia del Friuli, Udine, Istituto delle dizioni accademiche, volume II, 1935, p. 60.

25 e Federico, spartirono i possedimenti paterni cosicché Gabriele mantenne Prata con le relative giurisdizioni e l’avvocazia di Ceneda, mentre il fratello ereditò il territorio di Porcia e l’avvocazia di Concordia27. I diritti sull’avvocazia cessarono comunque a partire dal tredicesimo secolo28. I due casati, entrambi influenti per la politica patriarcale, seguirono da allora due corsi distinti e mai più tangenti. Una traccia significativa dell’attività politica dei Porcia in età patriarcale è costituita dalla documentazione sul Parlamento friulano che rappresentava nello stato aquileiese l’organo politico più importante, il cui ventaglio di competenze si estendeva dalla politica estera a quella giudiziaria, dal potere legislativo all’organizzazione e difesa militare del territorio. I membri del parlamento erano divisi in tre voci, ossia i rappresentanti della nobiltà feudale, degli ecclesiastici e delle comunità. Fra i membri castellani, i Prata e i Porcia erano qualificati come fideles, cioè «liberi», così come poche altre casate quali i Polcenigo, i Castello, i Villalta, gli Strassoldo, i Caporiacco e i Castellerio29. Con la qualifica di fideles, i conti Porcia si presentarono alle sedute parlamentari di cui rimane traccia nei regesti pubblicati da Pier Silverio Leicht. Risulta pertanto che i Porcia presero ripetutamente parte ad importanti decisioni riguardanti lo stato patriarcale. Anche in seguito alla caduta dello stato patriarcale e alla presa del potere da parte di Venezia (1420), il Parlamento – seppur con ridotte competenze – mantenne la composizione cetuale tripartita (nobiltà, comunità ed ecclesiastici) dell’epoca precedente. I Porcia, designati come «nobiles», erano posti in cima all’elenco delle voci parlamentari, anche se nemmeno il Leicht è stato in grado di spiegare i motivi di questa precedenza30.

27 Ivi, pp. 34-36; E. DEGANI, La diocesi di Concordia, Brescia, Paideia, 1977, p. 131. 28 PASCHINI, Storia del Friuli, cit., p. 70. 29 LEICHT, Parlamento, cit., volume primo, parte prima, p. CLXXI. In epoca patriarcale l’ordinamento sociale castellano era suddiviso in tre categorie nobiliari: Arimanni, Feudi d’Abitanza e Liberi. I primi risalivano all’epoca longobarda ed erano diffusi in tutto il territorio, soprattutto attorno ai castelli dove trovavano difesa. Erano obbligati a pagare tributi (detti fodro, placito, albergaria) al signore della giurisdizione cui appartenevano. Nel corso del tredicesimo secolo l’istituto degli arimanni decadde gradualmente. I Feudi d’Abitanza comportavano per i feudatari vari obblighi tra cui la residenza, la fedeltà al patriarca, la partecipazione alla difesa militare del territorio. I Liberi erano costituiti dalla libera proprietà del feudo e dal solo onere di contribuire alla milizia cavalleresca nell’esercito aquileiese. I Liberi erano in genere di provenienza straniera e non sempre di origini nobiliari: venivano loro conferite le libere proprietà come premio o risarcimento per qualche azione compiuta a favore dello stato patriarcale. Molte delle famiglie originarie di Liberi andarono estinguendosi nel corso del Trecento. PASCHINI, Storia del Friuli, cit. volume II, pp. 136-139. 30 LEICHT, Parlamento, volume secondo, parte prima, pp. XXXIX-XLIII.

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L’importanza della famiglia Porcia non si manifestò solo con le partecipazioni alle sedute del Parlamento, bensì anche con la capacità di influenzare l’andamento politico ed economico dell’area friulana nel corso del Basso Medioevo. Paolo Cammarosano sostiene infatti che l’area pordenonese fosse agli inizi del Duecento un coacervo di tensioni sobillate da una molteplicità di poteri diversi che, coesistendo, confliggevano gli uni contro gli altri. Cammarosano individua queste espressioni di egemonia nel «potere dominante aquileiese, i diritti episcopali di Belluno su Polcenigo ed Aviano, le antiche influenze carinziane, le emergenze autonome signorili (Polcenigo, Prata e Porcia) e comunali (Sacile, Caneva) e la nuova spinta dei trevigiani»31. La compresenza di questo complesso tessuto giurisdizionale era all’origine di scontri continui ma, allo stesso tempo, un fattore di riequilibrio socio-politico che tentava di limitare la debordante crescita di potere di un’autorità politica a discapito di un’altra. Nel corso del XII secolo, ad esempio, questa funzione di contrappeso spettò alla comunità di Sacile la cui consolidata importanza compensava «i molti vicini, scomodi e potenzialmente pericolosi, insediati ai margini occidentali del patriarcato: i potenti castellani di Prata e Porcia, il comune di Treviso […] e il duca d’Austria […]»32. Le fortune della famiglia Prata declinarono però irreversibilmente nel corso del primo Quattrocento, con la conquista veneziana della Terraferma. La Serenissima infatti si appoggiò alle forze locali per fronteggiare e sconfiggere il governo patriarcale ma, mentre la maggior parte dei domini locorum manifestarono il proprio sostegno alla Repubblica marciana, i conti Prata si sottrassero alla chiamata alle armi. Ultimato l’assoggettamento della Terraferma, la Dominante punì i Prata con l’esilio e lo scorporamento dei loro domini che vennero assegnati alle podesterie di Motta e Portobuffolé. I conti lasciarono la Patria del Friuli e almeno una parte della famiglia si recò in Ungheria. Solo un secolo più tardi, nel 1514, Venezia infeudò nuovamente la giurisdizione di Prata e tutti i beni ad essa attinenti a favore di un nobile, il conte Daniele Floridi, che si assicurò l’ampio territorio, e i relativi diritti, per una somma di 4.500 ducati33.

31 P. CAMMAROSANO, L’Alto Medioevo: verso la formazione regionale, in Il Medioevo, a cura di P. Cammarosano, Tavagnacco, Storia della Società friulana, Casamassima, 1988, p. 111. 32 D. DEGRASSI, L’economia del tardo medioevo, in Il Medioevo, cit., p. 376. 33 S. ZAMPERETTI, I piccoli principi. Signorie locali, feudi, e comunità soggette nello stato regionale veneto dall’espansione territoriale ai primi decenni del Seicento, Treviso, Il Cardo, 1991, pp. 201;221.

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Il destino dei Porcia fu invece più prospero. Venezia aveva infatti assicurato il rispetto delle prerogative e dei privilegi a tutti quei castellani che le avessero dimostrato lealtà e dedizione al momento della conquista della Terraferma. I conti purliliensi erano tra quei nobili che consacrarono la propria fedeltà a Venezia, riscuotendo dunque la possibilità di governare la propria giurisdizione friulana con il diritto di istruire processi di prima istanza e d’appello, di sedere in Parlamento e occuparsi dell’amministrazione degli affari locali34. Se nel Quattrocento il rapporto di fiducia con la Repubblica marciana non venne messo in discussione, i Porcia dovettero però fare i conti con una faida interna che corrose la pace di famiglia già a partire dal tredicesimo secolo. Le lotte sconvolsero gli equilibri interni del casato sino a provocare una spaccatura della parentela in due linee. Fu così che i figli del conte Guido, vissuto alla metà del Duecento, spartirono l’eredità paterna dando inizio a due discendenze distinte e sovente in conflitto tra di loro. In particolare, il conte Gabriele fu il capostipite di un ramo della famiglia, il cosiddetto Colonnello – ossia ramo – di Sopra, mentre Artico fondò il Colonnello di Sotto35. La progenie di Artico non rimase nel Friuli veneto a lungo, poiché nella seconda metà del Cinquecento uno dei suoi successori, il conte Ermes Porcia di Antonio, investì le proprie risorse finanziarie in territorio asburgico, lasciando in eredità alla famiglia l’opportunità di far carriera presso le corti imperiali.

1.2.1 Ermes Porcia.

Il primo significativo tentativo da parte di un membro della famiglia Porcia di fare carriera nei domini asburgici provenne dal conte Ermes. I suoi predecessori avevano infatti affastellato delle sporadiche comparse alle corti asburgiche, con incarichi di durata limitata che spesso tradivano però il proposito di rientrare al servizio dello stato

34 Ivi, pp. 221-222. 35 G. PROBSZT-OHSTORFF, Die Porcia. Aufstieg und Wirken eines Fürstenhauses, Klagenfurt, 1971, pp. 52- 53.

28 marciano, non riuscendo così a consolidare la propria presenza presso l’impero. Al contrario dei suoi avi, il conte Ermes si mosse invece sostenuto da ambizione e lungimiranza che, se non gli assicurarono una celere e ben rimunerata carriera, gli permisero comunque di gettare solide basi per l’ascesa politica dei suoi eredi. Uno dei primi passi compiuti da Ermes fu il tentativo di rafforzare la propria rete sociale mediante il matrimonio con un’esponente della nobiltà carniolina, la nobildonna Maddalena von Lamberg, appartenente ad una «casata oltremodo prolifica»36. La sposa era figlia di Johann Balthasar von Lamberg e di Justina von Lodron. Il matrimonio, celebrato nel 1571, fu preceduto da un contratto nuziale che contemplava un’assegnazione dotale a vantaggio del Porcia di 1000 fiorini37. Alla festa nuziale presenziò l’Arciduca Carlo II (1540-1590), nonché diverse autorità quali il Gran Siniscalco di Carlo II, Giovanni Khisl di Kaltenbrunn proveniente dalla contea di Gorizia38, Wolfgang della Torre, barone di Santa Croce e maresciallo ereditario della Contea di Gorizia, il barone Ludwig von Eck und Hungersbach39. Ma fra gli ospiti, vi erano anche numerosi parenti delle case Porcia e Lamberg e dalla lista emerse inoltre il nome del barone Dietrich Theodor von Auersperg, tutore di Maddalena e secondo marito di Justina von Lodron, madre della sposa. Le seconde nozze della Lodron non erano state feconde, ma la famiglia Auersperg risultò assai prolifica, tanto che lo stesso Barone Theodor von Auersperg aveva avuto dei figli da un precedente matrimonio. La Lodron ritenne allora opportuno di mettere le cose in chiaro e, al fine di evitare eventuali diatribe giudiziarie con gli eredi del suo secondo marito, stillò un atto notarile con cui intestò alla figlia ed al genero il territorio di Senosecchia. Il documento, datato 28 agosto 1598, designava infatti la «figliuolla» come erede di tutti i suoi «beni presenti, et futturi, così dottali come mobili, stabili et usufrutuali […] senza, che io, ò qual si voglia altro erede mio la possa impedire […] et li do ampia autorità, ch’ella possa andar contra gl’eredi del signor Dietrich libero Baron di Auersperg di buona memoria mio carissimo consorte, cioè contra gli figliolli del signor Leopoldo d’Auersperg miei nipoti, da quali pretendo, et devo havere una buona

36 R. J. W. EVANS, Felix Austria. L’ascesa della monarchia absburgica. 1550-1700, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 229. 37 Kärntner Landesarchiv Klagenfurt (d’ora in poi KLA), Familienarchiv Porcia, k. 9, f. 28 I. 38 C. MORELLI DI SCHÖNFELD, Istoria della contea di Gorizia, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2003, vol. 1 p. 114. 39 KLA, Familienarchiv Porcia, k.9, f. 28 I.

29 somma di denari, così per vigor delli miei patti dotali, come per vigor dell’accordo fatto con il signor Erbardo d’Auersperg avo delli predetti miei nipoti […]»40. Se in queste poche righe Justina chiarì i diritti della figlia Maddalena rispetto ai parenti di casa Auersperg, nello stesso documento la Lodron si rivolse anche al genero, Ermes Porcia, che risultò parimenti beneficiario dell’eredità della suocera. Justina infatti precisò: «hò voluto con questa mia scrittura liberarli da ogni molestia che da me ò dalli miei heredi potesse esser datta, così in vitta mia, come doppo la mia morte alli detti miei figliuolla, et genero e talli suoi figliuoli et heredi»41. L’eredità consisteva dunque nel castello e territorio di Senosecchia (in tedesco Senosetsch, oggi località situata nella parte nord-orientale del Carso sloveno) che la Lodron ha «goduto, governato et amministrato […] per il spatio di anni 24 continovi con tutte le sue intrade, utili, et rendite senza haver ricevuto affittatione alcuna delli detti miei figliuola, et genero, li quali sono soli proprietari di detto castello, et pegno à loro concesso da Sua Altezza Serenissima l’Arciduca Carlo di buona memoria»42. Senosecchia era dunque stata ottenuta in dono dall’Arciduca Carlo il cui legame con la coppia Porcia-Lamberg venne testimoniato anche dalla presenza dell’Asburgo al matrimonio dei due nobili. Secondo gli studi di Antonio Conzato la cessione di Senosecchia sarebbe un pegno concesso dall’Arciduca, in seguito ad un prestito che Ermes avrebbe devoluto al sovrano in un momento di necessità43. Questa transizione sarebbe dunque all’origine del radicamento dei Porcia in territorio asburgico, e il legame è confermato inoltre dall’esercizio dell’ufficio di Kämmerer (Cameriere) che Ermes esercitò alla corte di Graz – di cui Carlo II era il monarca - per 200 fiorini annui44. Senosecchia rappresentò dunque un fattore fondamentale per l’ascesa del Porcia presso gli Asburgo, un passaggio obbligato per poter ambire all’affermazione di sé e della propria famiglia. Non bastava che Maddalena von Lamberg ne divenisse la proprietaria esclusiva, ma occorreva che anche il nome di Ermes figurasse nel testamento della suocera in modo da non rischiare alcuna rivalsa da parte di lontani

40 Ibidem. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 A. CONZATO, Dai castelli alle corti. Castellani friulani tra gli Asburgo e Venezia. 1545-1620, Verona, Cierre Edizioni, 2005, p. 210. 44 PROBSZT-OHSTORFF, Die Porcia, cit., p. 118.

30 parenti Auersperg. Ermes necessitava certezze che probabilmente trovò nella complicità della suocera e della moglie. La storica ed archivista Béatrix Bastl sospetta a tal proposito che Justina von Lodron fosse stata caldamente incoraggiata dai due sposi a redigere quel documento testamentario che certificava inequivocabilmente il possesso di Senosecchia da parte dei coniugi Porcia e dei loro discendenti45. Sempre nel manoscritto infine, la Lodron diede alcune informazioni relative al valore delle proprietà costruite a Senosecchia nel torno di venticinque anni, per cui la nobildonna aveva speso 2300 fiorini per l’erezione del castello e altrettanti soldi -«et più et similmente»- per la costruzione di una casa. La Lodron confessò infine di aver lasciato alla figlia e al genero un debito ammontante ad una imprecisa cifra di «qualche miara di fiorini» che sarebbero stati estinti dai due coniugi di certo «mossi da puro amore»46. Ermes Porcia non visse a Senosecchia, anzi già negli anni Settanta del Cinquecento rientrò in Friuli insieme a moglie e suocera47, incaricando il gentiluomo Maurizio de Miriz di Trieste della gestione della proprietà carniolina, con tanto di diritto di amministrazione della giustizia48. Ritornato nelle terre natali, il conte Ermes non si ritirò a mera vita privata, perché aveva un complesso di beni da gestire e di cui rispondere a Venezia49. Nel 1586 infatti

45 B. BASTL, Tugend, Liebe, Ehre. Die adelige Frau in der Frühen Neuzeit, Wien, Verlag Böhlau, 2000, p. 290. 46 KLA, Familienarchiv Porcia, k.9, f. 28 I. 47 A Justina von Lodron, di religione luterana, fu intimato dal Sant’Uffizio un ordine di allontanamento dalla comunità friulana in seguito ad atteggiamenti non ritenuti conformi ai buoni costumi previsti dalla religione cattolica. A. DEL COL, Eterodossia e cultura fra gli artigiani di Porcia nel secolo XVI, in «Il Noncello», 46 (1978), pp. 29-30, 37. 48 KLA, Familienarchiv Porcia, k.9, f. 28 I, documento 8 marzo 1599. 49 Nella seconda metà del Cinquecento, i conti Porcia ospitarono nel castello friulano personaggi influenti del panorama politico internazionale: nel 1574 venne ospitato Enrico di Valois, allora re di Polonia e poi re di Francia con il nome di Enrico III. Ad un legame con la corte francese aspirò soprattutto il ramo collaterale dei Porcia, detto Colonnello di Sopra. Di questa linea fece parte anche il condottiere Silvio Porcia (1526-1603), figlio del conte Federico Porcia e della contessa Degnamerita Collalto. La carriera militare di Silvio Porcia si compì interamente nei territori veneziani, ottenendo fra l’altro l’incarico di Colonnello durante la guerra di Lepanto. Due dei cinque figli avuti dalla moglie Camilla Torelli, Ottavio e Fulvio, intrapresero invece la carriera militare al servizio dei sovrani francesi Enrico III e Enrico IV. Enrico di Valois non fu però l’unico reale ad essere ospitato a Porcia: anche l’arciduchessa Maria, madre dell’imperatore austriaco Rodolfo II, sostò nella località friulana nel 1581. A. DE PELLEGRINI, Personaggi illustri nel castello di Porcia, Pordenone, Arti Grafiche, 1924, pp. 163;167-168; G. ZOCCOLETTO, Il cursus honorum del conte Silvio di Porcia, in I Porcia. Avogari del vescovo di Ceneda, condottieri della Serenissima, principi dell’Impero, Atti del Convegno 9 aprile 1994, Castello Vescovile di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto, Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche, Edizioni Grafiche De Bastiani, 1994, pp. 37-59; PROBSZT- OHSTORFF, Die Porcia, cit., pp. 103-109.

31 la Dominante emise una legge che riordinava la materia feudale50 richiedendo a tutti i feudatari della Repubblica di certificarsi e di annotare le investiture che avevano ottenuto sino a quel momento. Questa mossa era per la Serenissima un modo per poter controllare i propri sudditi, costringendoli a registrarsi presso il Provveditore sopra i Feudi, ossia la magistratura veneziana competente in materia feudale. Per i castellani era invece l’occasione di mettersi al più presto in regola con la capitale per poi tornare ai propri affari, magari anche in territorio asburgico. Il conte Ermes si dimostrò ligio al dovere poiché presentò subito domanda ed ottenne l’investitura sette anni più tardi, nel 1594. La richiesta del Porcia risultò però articolata in quanto il nobiluomo inoltrò un’istanza di investitura comprendente duecento beni, di varie dimensioni, che contavano anche i beni alienati da suo padre Antonio e dai di lui fratelli, nonché da un agnato, Guido, la cui linea si era estinta e di cui Ermes si riteneva l’unico erede. Non fu semplice poter dimostrare il legittimo legame con i duecento beni dichiarati, tanto che la Dominante si pronunciò a favore dell’investitura ma solo per i beni allodiali, cioè i beni di cui era stata assodata la proprietà da parte della famiglia, senza includere le ricchezze precedentemente alienate51. Di quali beni fosse composto il patrimonio purliliense ce lo rende noto un altro Porcia, il letterato e Consigliere Segreto di Papa Pio V (1504-1572): Girolamo Porcia, autore della Descrizione della Patria del Friuli. L’opera, indirizzata a Giovanni Antonio Facchinetti, vescovo di Nicastro e nunzio apostolico presso Venezia, venne datata al 1567 e si prefisse l’obbiettivo di spiegare «il sito, confini, costumi, ed il modo del governo della Patria del Friuli, la qualità delli luoghi, ed abitanti in essi, con l’utilità di quello ne cava il Serenissimo Dominio, e la spesa, che sua Serenità fa nel mantenerla, governarla, e diffenderla, e finalmente ogni altra sua circostanza, e condizione». Il Girolamo Porcia esplorò inoltre le giurisdizioni appartenenti alla famiglia, mettendo in rilievo le modalità con cui i conti Porcia esercitavano il potere giudiziario. Secondo il letterato, il patrimonio di famiglia avrebbe incluso le seguenti comunità: «Ha sotto la sua giurisdizione le infrascritte Ville. Fontanafredda, Palsa, Ronche, Roveretto

50 Sulla legge e la politica feudale della Repubblica marciana si veda G. GULLINO, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-XVIII). Materiale per una ricerca, in «Quaderni storici», 43(1980), pp. 163-193; ID., Un problema aperto: Venezia e il tardo feudalesimo, in «Studi veneziani», 7(1983), pp. 183-196. 51 CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 297-311; 324-325.

32 di là, Rovai picciolo, Zuccolo, Sidran, Spinacetto, Talponetto, Villa d’Olt, Cevolini, Villa Scura, Taiedo è giurisdizione del Co: Antonio, Sugnan è del Co: Girolamo, fratelli, e del Co: Antonio: Orsera è del Co. Silvio, e nipote: S. Avocato sola del Co. Antonio: Castion di là del Co. Girolamo, fratelli, e di quelli di Brugnara. Corte appresso Sacile è delli Conti Felice e Pamfilio […]»52. Quella dei Porcia era dunque un’amministrazione complessa da gestire e questo non risultava di sicuro l’unico onere di Ermes: la prerogativa più importante restava la famiglia e il prestigio dei suoi successori. A tal proposito, Ermes Porcia ospitò nel 1598 Girolamo Porcia, non il letterato bensì il nipote, diventato nunzio apostolico alla corte di Graz. Il chierico era di passaggio nei territori friulani per accompagnare l’arciduca Ferdinando (1578-1637) – figlio del sovrano dell’Innerösterreich Carlo II – nel suo viaggio in Italia53. La cortese visita palesava in realtà un rapporto già ben assodato sia con gli Asburgo sia con il nunzio apostolico che si diceva legato allo zio da un amore filiale: «non havendo si puol dire conosciuto altro Padre che Vostra Signoria et risolutomi d’essergli più obediente che mai ne voler ch’altri disponga ne di me ne della robba mia […]»; fu con queste parole che il giovane Porcia esordì in una lettera scritta a Padova il 4 agosto 1579 ed indirizzata allo zio che gli stava sovvenzionando gli studi nella città veneta. Ciò suggerisce l’ipotesi che l’interesse del capofamiglia non si limitava esclusivamente ai figli legittimi ma anche ai legami consanguinei più prossimi, in modo che il nome della famiglia fosse sempre onorato54. A tal proposito, è evidente che anche dalla quiescenza

52 G. PORCIA, Descrizione della Patria del Friuli fatta nel 16. Secolo dal conte Girolamo di Porcia, Udine, Tipografia del Patronato, 1897, p. 37. Per l’amministrazione della giustizia, ogni anno i conti Porcia eleggevano un podestà del luogo e quattro giurati che istruivano processi sia in campo penale, sia nel civile. Gli appelli spettavano invece ai Porcia che rinviavano la terza istanza al luogotenente di Udine. A. DE PELLEGRINI, Cenni storici sul castello di Porcia, 1925, p. 16. 53 Girolamo (1569-1612) divenne nunzio apostolico alla corte di Graz nel 1590, succedendo così al mandato del marchese Germanico di Malaspina (nominato nel 1580) e di Giovanni Andrea Caligari (eletto nel 1584). La costituzione di un rappresentante pontificio era stata caldeggiata dal sovrano Carlo II, impegnato in tutto il suo regno (1564-1590) ad estirpare la religione luterana la cui professione dilagò nei suoi domini. Fu papa Gregorio XIII ad accogliere l’invito dell’Asburgo creando la nunziatura apostolica a Graz. Il Porcia venne anche nominato vescovo di Adria nel 1606. J. RAINER, H. KOBENZL, Nuntiatur des Girolamo Portia und Korrespondenz des Hans Kobenzl 1592-1595, Wien, Verlag der Ősterreichischen Akademie der Wissenschaft, 2001, pp. XIII-XV. 54 Girolamo Porcia terminò la lettera menzionando alcune tensioni sorte in seno ai vari rami della famiglia e ad alcune malelingue che avrebbero voluto infangare il nome di Ermes. Dalla scrittura del giovane Porcia, si evince l’imbarazzo ed il tentativo di rabbonire il turbamento dello zio. Purtroppo l’archivio famigliare di Klagenfurt non dispone della lettera di risposta del conte Ermes, sicché la faccenda rimane in sospeso. Tuttavia appare interessante una delle espressioni con cui Girolamo Porcia conclude la

33 purliliense, il conte Ermes lavorò al fine di esaltare le fortune del casato e, in particolar modo, dei figli. Il Porcia ebbe infatti da Maddalena von Lamberg almeno otto figli, di cui cinque femmine e tre maschi. Lucia ed Emilia ebbero un destino comune, essendo entrambe maritatesi con due fratelli Colloredo, Orazio e Giambattista Colloredo, figli di Curzio. Questi, appartenenti alla linea di Bernardo, fecero entrambi carriera presso i territori asburgici: il primo fu nominato Barone di Waldsee dall’Imperatore Ferdinando III nel 1646 ed elevato al grado di Conte del Sacro Romano Impero nel 1624, mentre il secondo ricoprì l’incarico di tenente colonnello nell’esercito di Rodolfo Colloredo durante la Guerra dei Trent’anni55. Una terza figlia, Anna Julia, era diventata dama di corte della Granduchessa Maria Magdalena di Toscana (1589-1631), figlia di Carlo II d’Asburgo e moglie di Cosimo II de’ Medici (1590-1621)56. L’Arciduchessa si prodigò al fine di trovare marito alla dama di corte che, dopo lunghe trattative con svariati pretendenti57, convolò a nozze con il vicentino Conte Ascanio Valmarana, cameriere alla corte di Graz e in seguito capitano

scrittura del documento in cui esterna un giudizio sul casato: «prego Iddio mi dia grazia finir li miei studi, et andar alla volta di Roma parendomi mill’anni à fugir questi paesi dove è tanto sbatuta la facoltà et reputation di Casa Nostra […]» KLA, Familienarchiv Porcia, k. 8, f. 28E, 4 agosto 1579. 55 G. BENZONI, Giovan Battista Colloredo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Società Grafica Romana, 1982, vol. 27, pp. 80-82. Da un accordo dotale tra Ermes di Porcia (padre di Lucia ed Emilia) e di Curzio Colloredo di Giambattista si legge che il Porcia aveva consegnato al consuocero una rata parziale di duemila ducati per il matrimonio tra «Lucia figliola dell’Illmo signor Conte Hermes di Portia, e il S. Horatio figliolo dell’Illmo Signor Curtio Coloreto» ricordando che già «esser convenuti fra loro Signori nel ditto negotio di matrimonio nel modo medesimo, ché altre volte già anni 13 convennero li medesimi Signori Padri per la Signora Emilia figliola del Signor Conte Hermes et per il Signor Giobatta figliolo del Signor Curtio» KLA, Familienarchiv Porcia, k. 9H. 56 A. WANDRUSZKA, Maria Magdalena, Erzherzogin von Ősterreich, in Neue Deutsche Biographie, volume 16, Berlino, Duncker und Humblot, 1990, (edizione online), p. 206. 57 Un carteggio inviato dall’Arciduchessa Maria Magdalena a Giovanni Sforza Porcia, fratello di Anna Julia, si scoprono i laboriosi tentativi di trovare marito alla giovane contessa Porcia. Un primo pretendente dovette essere il Marchese Manfredi Malaspina disposto a sborsare una buona dote ma la contessa Porcia non era «in niun’modo inclina» al matrimonio quel nobiluomo. Fu poi la volta di Nicolò Guigni, «Camariero del Granduca, et gintilhuomo honorato, figliolo del Cancelliere Vincenzo Guigni, Guardaroba Maggiore di mio Signore, et fedele servitore fu da 138 anni di questa Casa». Anche questo negozio, nonostante stesse «molto à cuore» all’Arciduchessa, andò a monte. Quindi fu la volta di un non meglio identificato Barone von Oppersdorf con il quale per «il trattato di questo maritaggio [furono usate] tali dappocaggini» che alla fine non se ne fece nulla. Infine avanzò una proposta anche il Conte Claudio di Collalto, disposto a pagare diecimila fiorini. Anche questo invito venne declinato. KLA, Familienarchiv Porcia, k. 9, f. 29 G, lettere indirizzate a Giovanni Sforza Porcia del 12 dicembre 1610 e del 26 luglio 1614.

34 di Trieste58. La dote versata per questo matrimonio fu in totale di seimila fiorini, di cui tremila vennero anticipati dall’Arciduchessa Maria Magdalena59. Oltre ad essere degli ottimi investimenti, i contratti nuziali rischiavano talvolta di creare crucci notevoli ai contraenti come nel caso di Ginevra Porcia, un’altra figlia di Ermes. Nel 1598, la giovane era stata promessa in sposa a Morando Porcia, figlio del conte Silvio, fedelissimo condottiere della Serenissima e noto esponente del Colonnello di Sopra. L’unione coniugale fra i due rampolli sarebbe servita a dipanare la tensione sorta in seno ai due rami del casato purliliense. Ma Ginevra era diventata dama di corte dell’Arciduchessa Margherita (1584-1611), figlia di Carlo II, che si era accasata proprio nel 1598 con il sovrano spagnolo Filippo III (1578-1621), trasferendosi così a e portando con sé la contessa Ginevra. L’occasione di questo viaggio era appetibile anche perché «si schiudevano per i Porcia nuove possibilità parentali in un arcipelago nobiliare inesplorato, la Spagna imperiale»60. Infatti, nel giro di un paio d’anni, l’Arciduchessa Margherita propose alla sua dama di corte l’eventualità di sposare il nobile Rodrigo de Orozco, mastro di campo e governatore di Alessandria61. I Porcia non si lasciarono sfuggire tale opportunità e diedero subito il loro consenso. L’unica a non essere stata interpellata era la futura sposa, Ginevra, chiusa in un convento di Barcellona: la giovane ricevette la visita del vescovo di Tarragona che verificò la volontà e i sentimenti della contessina rispetto al matrimonio. Secondo gli studi di Antonio Conzato, tale unione giovò soprattutto alla carriera dell’Orozco che, grazie al matrimonio con la Porcia, ottenne riconoscimento e una promozione dal duca di Lerma, valido di Filippo III, al punto da dover dichiarare «che sua moglie era diventata più potente del Lerma»62. Alla fine il matrimonio ebbe luogo nel 1603 e vi presenziò anche

58 S. CASTELLINI, Storia della città di Vicenza di Silvestro Castellini ove si vedono i fatti e le guerre de‘ vicentini cosi esterne come civili, dall’origine di essa città sino all’anno 1630, Vicenza, Tipografia Parise edit., 1822, p. 177; K. KELLER, Hofdamen. Amtsträgerinnen im Wiener Hofstaats des 17. Jahrhunderts, Wien, Böhlau Verlag, 2005, p. 335. 59 Da un accordo stipulato a Graz nel 1615 tra Giovanni Sforza Porcia e Karl, fratelli di Anna Julia, è reso noto che i due fratelli ottennero un prestito da Anna Maria Raunach, moglie di Giovanni Sforza, e che in seguito decisero di vendere «della robba paterna» per risarcire le due nobildonne creditrici. KLA, Familienarchiv Porcia, k. 9, f. 29 I. 60 CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., p. 218. 61 A REDAELLI, Governatori cittadini e castellani nello Stato di Milano: un rapporto poco noto nell’ambito del potere locale lombardo, in Lombardia borromaica, Lombardia spagnola 1554-1659, a cura di P. Pissavino e G. Signorotto, 2 voll., Roma 1995, vol. 1, pp. 457-476. 62 CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., p. 219.

35 il fratello della sposa, Giovanni Sforza, che in seguito scrisse una lunga lettera al padre rassicurandolo sulle qualità e i meriti del genero63. Se il Colonnello di Sotto dei Porcia si dichiarava soddisfatto delle nozze, il conte Silvio e suo figlio non la pensavano allo stesso modo, tanto che si sentirono traditi per la rottura dei patti matrimoniali. Il nervosismo che turbava i rapporti fra i due rami del casato, venne temporaneamente placato dall’intervento del nunzio apostolico a Venezia, Offredo Offredi. Questi però favorì solo una momentanea cessazione dei contrasti, poiché di lì a poco nuove e più violente resistenze andarono maturandosi, tanto che si temette un regolamento di conti. Questa volta fu il Luogotenente della Patria del Friuli a frapporsi fra le parti in conflitto, ponendo fine all’agitazione. Intanto, anche il Consiglio dei Dieci aveva avviato un’inchiesta per fare luce sulla faccenda ma il caso venne ben presto insabbiato: i conti Fulvio e Morando furono invitati a Venezia al cospetto del tribunale lagunare che li condannò ad una reclusione forzata presso le loro case. Nel 1607 venne infine patteggiata e conclusa una pace tra le parti64. In tutta questa faccenda, resta però ancora irrisolta una questione molto importante legata all’identità della sposa di don Rodrigo Orozco. Sia dalle fonti spagnole consultate dal Conzato, sia dalla documentazione custodita presso il Kärntner Landesarchiv di Klagenfurt, non sembra esserci pressoché alcun dubbio in merito al matrimonio tra la contessa purliliense e il governatore di Alessandria, se non fosse però per un manoscritto redatto in lingua spagnola da un notaio, Galcera Francisco Calopa, in cui questi trattava le condizioni del matrimonio: nel documento venne infatti ufficializzata una richiesta di nozze, non riguardante Ginevra bensì Vittoria65, sua sorella. Il documento, che riporta la data del 1603, induce al pensiero che ci potrebbe essere stata una precedente manovra famigliare atta a concludere da un lato l’affare con il Mastro di Campo spagnolo dandogli per sposa Vittoria, e a salvaguardare così dall’altro lato gli

63 KLA, Familienarchiv Porcia, k. 8, f. 23. Si veda l’intera descrizione di don Rodrigo Orozco in Appendice, documento 1. 64 CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 219-220; E. DEGANI, Episodi della vita friulana del 1600, in «Memorie storiche forogiuliesi», 7(1911), pp. 33-37. 65 «Lo que se assienta y capitula entro el Seńor Rodrigo de Orozco del Consejo Secreto de su Mag. Governador de Alexandria y el Seńor Don Francisco Alvares de Ribera Regente del Consejo Supremo de Italia sutio de la [?] parte y la Seńora Dona Vitoria de Portia Dama de la Reyna ma Seńora Dońa Margarita Daustria y Don Joan Sforzia de Porcia su hermano, en nombre del los Seńores Condes sus padres de la otra sobre el casamento que con gratia de Dios licentia orden y mandato de sus Magestades se ha effectuado del dicho Seńor Rodrigo de Orozco con la dicha Seńora Dońa Vitoria de Porcia […]». Nel documento segue quindi il contratto nuziale che prevedeva in primo luogo il versamento di una dote pari a diecimila scudi d’oro. KLA, Familienarchiv Porcia, k.9, f. 28 J

36 accordi presi con Morando, offrendogli in moglie Ginevra. Prestando fede a siffatto ragionamento, questo stratagemma non andò probabilmente a buon fine, tanto che Ginevra divenne la moglie dell’Orozco, mentre Vittoria finì in convento66. I figli maschi del conte Ermes e di Maddalena von Lamberg erano invece tre: Antonio, Carlo e Giovanni Sforza. Del primo non si conoscono molte note biografiche, ad eccezione di una patente rilasciata a Milano il 20 giugno 1610 con cui gli venne offerto l’incarico di guidare una compagnia di duecento fanti italiani «del Serenissimo Messer Bernabé Barbo67». Carlo invece è una figura più presente nelle carte famigliari e venne citato per la prima volta in due lettere di Girolamo Porcia, nunzio apostolico di Graz e vescovo di Adria, che si definiva favorevole alla sua formazione scolastica in Germania68. Nel 1620 venne citato nel testamento del fratello Giovanni Sforza che lo designava tutore dei suoi figli, fino al raggiungimento della maggiore età del primogenito, Giovanni Ferdinando, che avrebbe quindi provveduto alla formazione e al mantenimento dei fratelli minori69. Carlo prese alla lettera l’ingiunzione testamentaria del fratello e della genitrice, in quanto il legame con i nipoti, ma soprattutto con Giovanni Ferdinando, furono testimoniati da una capillare corrispondenza in cui lo zio paterno si figurava come assiduo consigliere del nipote.

66 Si esclude anche la possibilità che Ginevra avesse un secondo nome (cioè Vittoria), perché nel testamento della madre, Maddalena von Lamberg, redatto il 28 novembre 1624, la nobildonna distinse le due figlie lasciando a Vittoria, monaca, trecento ducati (oltre alla dote pagata al convento) e pregando i suoi fratelli di donarle, ciascuno, dodici ducati all’anno, mentre «per la Signora Genevra, Marchesa di Mortara» non destinò nulla poiché la famiglia si era già sufficientemente spesa per il matrimonio con il nobiluomo spagnolo: «per la Signora Genevra Marchesa di Mortara pur mia figliuola, si sij speso della facoltà mia, qual tuttavia resta impegnata per buona summa di fiorini, solo per mandarla et mantenerla in corte di Spagna, et essendo stato necessario far viaggio, et molte spese per causa sua dal Conte Gio: Sforza qm. suo fratello, si che si sono spesi di gran lunga più danari tanto della robba Paterna, quanto della mia, che non importano le pretensioni sue dotali. Et havendo nel tempo della sua spedizione da quella corte havuto gratia dalla Regina sua padrona di felice memoria non solo delli tremille scudi ordinarij, che soleva assegnare alle Dame; ma anco di sette mille altri estraordinarij, à contemplazione et per rispetto delle sudette spese, viaggi, patimenti di casa et servitù del sudetto Signor Conte Gio: Sforza, et aciò la Casa fosse in parte sollevata, li quali scudi sette mille legittimamente di ragione potevano esser riscossi da noi Padre et Madre et assegnare à lei tanta dote quanta ne è stata assegnata alle altre, non essendo ancora maritata; con tutto ciò poiché il mio Signor consorte et io ci contentassimo; che il conte Gio: Sforza predetto in nome nostro li costituisse al tempo del suo sposalitio, seguito in Barcellona, tutti li sudetti diece mille scudi in dote, et per nome di dote quali anco ha ricevuti, deve esser, come voglio, che sij tacita et contenta, et che non possa pretender cosa alcuna di più dalli miei heredi infrascritti per non dar maggior danno alla casa» KLA, Familienarchiv Porcia, k. 9, f. 29 I. 67 KLA, Familienarchiv Porcia, k.9, f.30. 68 Ibidem. 69 Quattro anni più tardi il nome di Carlo apparve anche nel testamento della madre, Maddalena von Lamberg, quando venne indicato – insieme ai figli di Giovanni Sforza – erede universale «per la giustà mità» dei beni materni Ibidem.

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Il rapporto tra i fratelli Porcia e la loro madre venne regolato da una scrittura privata risalente al primo ottobre 1609, in cui Giovanni Sforza, Carlo e Antonio si impegnavano al rispetto dell’armonia famigliare e alla conservazione del buon nome del casato, così come il padre prescrisse loro prima della morte. In questo documento furono anche citate le ultime volontà di Ermes che designò la moglie, Maddalena von Lamberg, come erede universale ed usufruttuaria di tutti i suoi beni. Un simile onere doveva risultare alquanto gravoso se il testatore indicò il primogenito Giovanni Sforza come «Procuratore et Amministratore» per conto della madre che «per esser in ettà e per li molti imbrogli nei quali si ritrova la facoltà d’esso qm. Signor Conte Hermes, per le molte et importanti spese fatte, non li sia possibile portar né sostener peso si grande senza, che ne segua qualche danno»70. Dall’accordo pertanto risultò che Giovanni Sforza Porcia divenisse il vero timone della famiglia, badando agli interessi del casato sia nel territorio asburgico, sia in quello veneto, sempre tenendo alto l’onore dei Porcia.

1.2.2 Giovanni Sforza Porcia.

Dell’infanzia di Giovanni Sforza Porcia non si conosce ancora molto, se non che venne tenuto a battesimo a Senosecchia da Carlo II, sancendo così fin dalla nascita un forte legame con la corte di Graz. Ottenne il primo significativo incarico nel 1605, quando fu inviato a Venezia come ambasciatore per ordine dell’Arciduchessa Maria di Baviera (1551-1608), vedova di Carlo II. Le tensioni politiche di fine Cinquecento e la costante instabilità economica dell’impero avevano convinto l’Arciduchessa a usare la carta del Porcia per rimettere in gioco l’Austria e ottenere l’interesse internazionale. Gli Asburgo erano infatti stati vessati su più fronti ed occorreva reagire: nel 1606 si era conclusa la Guerra dei Tredici anni contro i turchi che ottennero la Transilvania; nel 1603 il principe ungherese Istvan Bockskai aveva guidato una nuova ribellione in Ungheria contro i regnanti. A Praga

70 KLA, Familienarchiv Porcia, k.8, f. 28G, 1 ottobre 1609.

38 intanto la politica dell’imperatore Rodolfo II (1552-1612) era sempre più in stallo e gli Arciduchi Massimiliano (1583-1616) e Mattia (1557-1619) lavoravano con cautela per indebolire la corona del fratello, mentre le tensioni tra cattolici e protestanti crescevano in quell’escalation di violenza che di lì a due decenni avrebbe fatto scoppiare la guerra dei Trent’anni71. In quel 1605, comunque, ciò che impensieriva maggiormente l’Arciduchessa Maria era la dilagante rivolta ungherese di cui si temeva il contagio anche nei territori ereditari limitrofi. Bisognava pertanto agire e frenare i ribelli. Ma per porre fine al sovversivo Bockskai, era necessario un significativo sostegno politico ed economico all’Austria. L’Arciduchessa profilò pertanto l’intenzione di rivolgersi a Venezia, stato confinante agli Asburgo e quindi ipoteticamente più sensibile all’ondata di violenze che si stavano diffondendo. Una volta localizzato il possibile sovvenzionatore, a Maria di Baviera non restava che individuare l’ambasciatore più idoneo alle trattative con il governo marciano e, fra gli uomini presenti alla corte arciducale, il giovane Cameriere Segreto di Sua Altezza, Giovanni Sforza Porcia, sembrava essere la persona adatta: il conte era infatti suddito degli Asburgo e, allo stesso tempo, feudatario di Venezia. Nell’estate del 1605, il conte Giovanni Sforza si presentò alle autorità veneziane almeno quattro volte nel corso delle quali non diede sempre dimostrazione di accortezza e preparazione in campo diplomatico. La Serenissima, dal canto suo, ascoltò le richieste dell’ambasciatore arciducale ma temporeggiò prima di consegnargli una risposta: era necessaria una riflessione sull’opportunità o meno di appoggiare il governo di Graz in un frangente - la ribellione ungherese – in cui era probabilmente più utile neutralizzare l’Austria lasciandola in difficoltà. Inoltre, dopo aver compreso che la sommossa non sarebbe stata così aggressiva da invadere tutta l’Austria e i territori limitrofi, Venezia fece un passo indietro e, senza acconsentire ad un sostegno agli Asburgo, licenziò il Porcia che fece ritorno a Graz72.

71 WINKELBAUER, Ständefreiheit und Fürstenmacht, cit., pp. 434; 444-447; R.J.W. EVANS, Rodolfo II d’Asburgo. L’enigma di un imperatore, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 75 segg. 72 Il volume di Antonio Conzato tratta nel dettaglio l’ambasciata di Giovanni Sforza a Venezia. Il Porcia si recò senza credenziali nella capitale lagunare una prima volta il 6 giugno 1605 e qualche giorno più tardi venne ricevuto dal Collegio: in questa circostanza l’inviato dell’Arciduca si limitò ad illustrare ai magistrati veneziani i vantaggi di un’alleanza con gli Asburgo contro l’orda sovversiva ungherese che avrebbe potuto travolgere anche i domini veneziani. Nonostante le motivazioni del Porcia, il Collegio prese tempo. Qualche giorno più tardi Giovanni Sforza fece una mossa azzardata e andò a parlare direttamente con il doge Marino Grimani che, attenendosi alla costituzione, non si sbilanciò anzi, registrò

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Il parziale insuccesso in laguna non precluse però al conte Giovanni Sforza la possibilità di ottenere nuovi incarichi presso gli Asburgo, tanto che pochi anni più tardi venne nominato Capitano della Contea di Gorizia. La Contea faceva parte dell’Innerösterreich, ossia l’Austria Interna, territorio comprendente Stiria, Carinzia, Carniola, Trieste, Fiume e Gorizia che, pur rientrando nei territori asburgici, costituì dal 1564 al 1619 un regno autonomo con un proprio monarca ed una propria capitale (Graz), confacendosi così alla disposizione testamentaria dell’imperatore Ferdinando I (1503-1564), stilata alla metà del Cinquecento73. I primi due conti purliliensi, il conte Ermes e Giovanni Sforza Porcia, furono indissolubilmente legati a questa autorevole corte. Terminata però l’esperienza di autonomia del regno dell’Innerösterreich con la presa del potere di Ferdinando II (1578-1637), i territori del Sacro Romano Impero vennero riunificati sotto un’unica corona imperiale, la cui sede principale ritornò ad essere Vienna. Da quel momento la capitale del Sacro Romano Impero divenne il luogo più ambito per tutta la nobiltà in cerca di collocazione, conferendo alle altre corti un’aurea di minor importanza. A inizio Seicento la carica di Capitano di Gorizia era un incarico di indubbio valore poiché governava la provincia e rappresentava l’autorità regale di Graz. Svariate erano le competenze spettanti a questa istituzione: dall’amministrazione della giustizia e dell’esercito, alla difesa del territorio; da numerosi oneri in campo fiscale, giurisdizionale ed economico al mantenimento di buoni rapporti con il confinante stato veneziano e l’autorità patriarcale. Il Capitano doveva poi interagire con altri organismi

in Senato il colloquio avuto con il nobile friulano. Il 16 giugno il Collegio rese pubblica la propria decisione di non voler aiutare Graz, mentre l’8 luglio il Porcia si ripresentò in Collegio. Quando le trattative sembravano essersi avviate, la Serenissima comprese che non vi era alcun pericolo per la Terraferma e –tutto sommato – nemmeno per l’Austria, dove la rivolta si stava riassorbendo. Il Collegio dispose quindi lo scioglimento della seduta ed il licenziamento dell’ambasciatore Porcia. CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 211-220. 73 Ferdinando I dispose la divisione dell’impero tra i suoi tre figli in modo che Massimiliano II ricevesse la Boemia e l’Ungheria, i ducati di Alta e Bassa Austria, nonché la corona imperiale; a Ferdinando spettò il Tirolo, mentre l’Arciduca Carlo ottenne l’Austria Interna. La prescrizione entrò in vigore solo alla morte di Ferdinando I, ossia dal 1564. Da quel momento Carlo divenne il sovrano dell’Austria Interna e la governò come uno stato indipendente, sebbene facesse parte del Sacro Romano Impero. Nel 1619 divenne imperatore Ferdinando II (figlio di Carlo II) che riunì sotto la sua corona anche i regni dell’Innerösterreich e del Tirolo, ridando coesione ed unità all’impero. S. CAVAZZA, L’esperienza dell’Austria Interna (1564-1619), in Divus Maximilianus: una contea per i goriziani, 1500-1619, a cura di S. Cavazza, Monfalcone, Edizione della Laguna, 2002, pp. 183-195; ID., Prospettive sull’Austria Interna, in «Quaderni Giuliani di Storia», anno XXVIII, 2, 2007, pp. 369-386; F. EDELMAYER, L’Arciduca Carlo e l’Austria Interna, in Divus Maximilianus, cit., pp. 213-216.

40 di potere locale, in primis con gli Stati Provinciali74, mentre era coadiuvato nell’espletamento del proprio incarico da magistrati quali il Luogotenente, sostituto del Capitano quando questi era assente, il Colonnello delle Cernide, il Maresciallo Ereditario che aveva il compito di vigilare sul corretto funzionamento della Convocazione, e infine da tutta una serie di burocrati di nomina regia. Giovanni Sforza Porcia venne eletto Capitano nel 1610. Leggendo alcuni commenti di storiografi sei-settecenteschi, l’attività compiuta dal castellano fu così positiva da essere definito «cavaglier pronto et sagace d’ingegno et molto ben instrutto delle arti più avvantaggiose ne’ civili governi»75. Se Faustino Moisesso non aveva risparmiato elogi, nemmeno Carlo Morelli di Schönfeld, un secolo più tardi, si astenne dal tessere lodi76. Salvo poi smentirsi con giudizi altrettanto pesanti e negativi: lo stesso Moisesso infatti avanzò accuse contro la caotica amministrazione della contea. Da uno studio di Donatella Porcedda sui primi decenni del Seicento goriziano si evince uno dei grevi giudizi del Moisesso: «un paese sì di piccola dimensione, come è la nostra Contea, più dal caso che da una Provvidenza diretto». La riflessione voleva cioè sintetizzare lo stato di emergenza in cui versava la Contea, dilaniata dalla criminalità e da un corpo amministrativo poco attento alle necessità della provincia. Le critiche del Moisesso si riferivano cioè a capitani – tra cui anche il Porcia che governò la contea per quattordici anni – assenti e poco attenti nella gestione della

74 Sulla storia degli Stati Provinciali goriziani non si sa molto fino alla metà del Cinquecento. L’assemblea riuniva membri rappresentanti nobiltà e clero; inoltre sedevano nella Convocazione anche i rappresentanti delle comunità di Gorizia e Aquileia, sebbene quest’ultima fu progressivamente esautorata. All’interno del ceto nobiliare, molti membri provenivano dal Friuli veneto dove detenevano numerosi beni e giurisdizioni. Gli Stati provinciali si riunivano una volta l’anno in occasione della Dieta provinciale, previa chiamata del monarca. Trattavano questioni legate all’andamento politico, militare, finanziario ed istituzionale dello stato. La Dieta diventava spesso unicamente la sede di richiesta di nuove contribuzioni a favore degli Asburgo e delle frequenti campagne di guerra. La Dieta nominava infine le cariche adibite all’amministrazione della provincia. Le sedute erano presiedute dal casato Luegg che, una volta estintosi, lasciò la presidenza ai Della Torre di Bleiburg, ramo carinziano, in base ad un decreto dell’imperatore Ferdinando I. Oltre alla Dieta provinciale, gli Stati si riunivano una volta al mese per occuparsi di affari prettamente goriziani, quali la gestione della Contea e l’ammissione di nuovi membri. D. PORCEDDA, La Contea e la città: le istituzioni e gli uffici, in Gorizia barocca, cit., pp. 151-154. 75 F. MOISESSO, Historia della ultima guerra nel Friuli di Faustino Moisesso, Venezia, appresso Barezzo Barezzi, 1623, p. 76 «Le saggie misure prese da lui in vari e difficili incontri fanno fede dei lumi, ch’ei portò seco al suo impiego, e della vigilante attenzione ch’ei prestò pel corso di quattordici anni per bene esercitarlo. Resse la nostra provincia nelle più critiche circostanze della guerra coi Veneti, in cui precedeva a tutti gli altri coll’esempio de’ suoi generosi soccorsi, come li precedeva colla maturità delle sue deliberazioni. Vigilante custode della pubblica e privata giustizia nulla trascurò, perché fosse l’una e l’altra ben amministrata nei territori a lui sottoposti. […]» MORELLI DI SCHÖNFELD, Istoria della contea di Gorizia, cit., vol. 2, pp. 97-98.

41 pubblica sicurezza. In particolar modo, le deliberazioni del Porcia in materia di difesa pubblica non si rivelarono decisive per contrastare la malvivenza e un diffuso malessere popolare77, aggravato dalla generale depressione in seguito alla guerra degli Uscocchi (1615-1617)78. La lontananza del Porcia non era dettata da mero disimpegno nei confronti della carica, bensì dalla nomina ad altri incarichi istituzionali che lo portarono lontano dalla sede goriziana. Come ad esempio nel 1611, quando venne incaricato dall’Arciduca Ferdinando di recarsi alla corte spagnola per porgere le condoglianze a Filippo III per la scomparsa della consorte, l’Arciduchessa Margherita. La missione era più significativa di una formale visita di cortesia, poiché celava fini esigenze di stato. In quegli anni infatti si faceva pressante la richiesta asburgica d’aiuto alla Spagna cattolica nella lotta contro il protestantesimo: i rapporti tra cattolici e protestanti erano sempre più tesi, soprattutto in Boemia da dove sarebbe partito nel 1618 l’embolo della guerra dei Trent’anni79. Non solo. Il Porcia venne inviato alla corte madrilena anche per discutere della successione al trono imperiale di Mattia poiché l’Asburgo non aveva figli. Era necessario pertanto neutralizzare possibili pretese da parte degli spagnoli, assicurandosi così una successione tutta austriaca. Antonio Conzato ha analizzato nel dettaglio l’ambasciata del Porcia in Spagna, sottolineando l’incapacità del feudatario friulano di addossarsi una tale gravosa responsabilità. Sbrigata la visita di condoglianze, il Porcia fece rientro a Graz e la delicata faccenda venne invece affrontata e risolta dal successore

77 D. PORCEDDA, «Un paese sì di piccola dimensione, come è la nostra Contea, più dal caso che da una Provvidenza diretto», «Annali di storia isontina», 2, 1989, pp. 9-29. 78 La guerra di Gradisca si combatté tra il 1615 ed il 1617 tra la Repubblica di Venezia e l’impero asburgico. Il casus belli furono le scorribande dei pirati uscocchi che, spalleggiati dagli Asburgo, danneggiarono i commerci veneziani nell’Adriatico. Nonostante i tentativi diplomatici, gli attacchi pirateschi non ebbero fine e scatenarono l’apertura delle ostilità. In realtà vi erano anche altri motivi favorevoli alla guerra, come la costruzione della fortezza veneziana di Palma (1593) che, se formalmente era stata eretta per proteggere la Terraferma veneta da eventuali attacchi turchi, era in realtà un baluardo marciano anti-asburgico. I contrasti tra Austria e Venezia si consumarono in Friuli e nella vicina Istria, anche se il cuore della guerra si localizzò attorno alla fortezza austriaca di Gradisca che la Repubblica marciana tentò, invano, di espugnare. La guerra di Gradisca terminò nel 1617 con la stipula di uno stato quo ante che non avvantaggiò territorialmente nessuna delle parti in causa. Sulla guerra di Gradisca si vedano i volumi: MOISESSO, Historia della ultima guerra, cit.; «Venezia non è da guerra»: l’Isontino, la società friulana e la Serenissima nella guerra di Gradisca (1615-1617), a cura di M. Gaddi, A. Zannini, Udine, Forum, 2008; R. CAIMMI, La guerra del Friuli 1615-1617 altrimenti nota come guerra di Gradisca o degli Uscocchi, Gorizia, Leg, 2007; M. VIGATO, La guerra veneto-arciducale di Gradisca (1615-1617), in «Ce fâstu», LXX, n.2, 1994. 79 K. J. MACHARDY, War, Religion and Court Patronage in Habsburg Austria. The social and cultural dimensions of political Interaction, 1521-1622, Basingbroke and New York, Palgrave Macmillian, 2003, pp. 66 segg.

42 del Lerma e nuovo favorito di Filippo III, Baltazar Zúńiga che nel 1617 fece sottoscrivere un accordo tra il sovrano iberico e l’Arciduca Ferdinando, nel quale la Spagna rinunciava a qualsiasi diritto sul trono del Sacro Romano Impero e, allo stesso tempo, prometteva una politica più severa contro il protestantesimo80. In quegli anni l’Austria si era anche trovata coinvolta nella Guerra degli Uscocchi contro Venezia (1615-1617) che mirò, invano, alla conquista della fortezza di Gradisca. A guerra già iniziata, la Serenissima aveva preteso da tutti i suoi feudatari in servizio presso corti estere di rientrare e presentarsi al Provveditore Generale delle Armi, pena la condanna al bando e la confisca di tutti i beni, sia feudali, sia allodiali. Questo proclama, emanato all’inizio dell’estate del 1616, riguardava anche il conte Giovanni Sforza Porcia che, pur essendo un servitore degli Asburgo, restava un suddito di Venezia. Nonostante il rischio di condanna per fellonia, il castellano valutò più opportuno mantenere saldo il proprio incarico presso Gorizia, tentando però di patteggiare con Venezia: a tal fine donò al fratello Carlo Porcia la propria quota di feudo e lo invitò a fare le sue veci presso il campo veneziano. La Serenissima non apprezzò il raggiro e il conte Giovanni Sforza venne condannato al bando. Alla fine della guerra Venezia ravvide le intenzioni iniziali e dispose di concedere la grazia a tutti quei feudatari disposti a presentarsi a Venezia giurando fedeltà. Secondo Antonio Conzato, non ci sarebbero manoscritti a testimonianza di una formale dedizione del Porcia allo stato marciano, tuttavia è certo che la sua famiglia non perse né i beni feudali, né quelli allodiali81. Dopo la guerra di Gradisca, la carriera del Porcia non fu più coronata da uffici significativi o, almeno, le carte archivistiche tacciono qualsiasi successo. Il manoscritto più interessante del periodo rimane il testamento, in cui il conte diede disposizioni relative alla sua famiglia e al futuro del casato. Il nobile friulano scrisse una prima versione del testamento a Graz, nel 1620. Quattro anni più tardi il Porcia si trovava a Venezia dove redasse un secondo lascito, totalmente

80 A. CONZATO, Opportunismi nobiliari e opportunità perdute da Venezia. Servire Venezia servendo gli Asburgo? Il caso di Giovanni Sforza Porcia, in «Venezia non è da guerra.», cit., pp. 156-159. Nonostante si possa avere un’impressione fallimentare delle citate ambasciate di Giovanni Sforza Porcia a Venezia e in Spagna, da alcune lettere inviate dal principe Eggenberg di Graz al conte friulano si evince invece la soddisfazione dell’Arciduca Ferdinando per il fedele operato del feudatario. Steiermärkisches Landesarchiv, (d’ora in poi SLA), k.10, H184, lettere dell’8 maggio 1609 e del 2 novembre 1613. 81 CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 268-276; 324-325.

43 conforme alla prima stesura. Dall’analisi del documento emerge una particolare preoccupazione per i figli che, ancora in tenera età, non erano completamente in grado di provvedere a se stessi. A tal fine, il conte Giovanni Sforza nominò quattro tutori, indicati nelle persone del fratello Carlo Porcia, dei cognati Orazio Colloredo e Giorgio von Raunach, nonché un suo fedele servitore, Messer Pietro Stael. L’attività tutoria sarebbe durata fino a quando il primogenito, Giovanni Ferdinando, non avesse compiuto ventuno anni e «quasi come Padre degl’altri fratelli, e sorelle»82 si fosse preso cura di loro, così come di tutti gli affari di famiglia. Giovanni Sforza Porcia si dimostrò poi molto preciso anche nelle istruzioni sull’educazione dei figli, disponendo che: «In oltre ordino, et voglio ch’i miei figlioli sijno lasciati à Graz ò in Germania à continuare li loro studij pregando li tutori et la mia signora madre à volermi in questo compiacere et perché il mio primogenito figliolo Gio: Ferdinando da in questa tenera età segni di futura prudenza, però ordino, et voglio che arrivato al vigesimo primo anno, ch’egli sia con gl’altri tutore de’ suoi fratelli, sino ch’usciranno delle sue età pupillari»83. Assicurata la tutela dei figli, Giovanni Sforza si preoccupò del patrimonio e della spartizione dei beni tra gli eredi. Particolare premura fu rivolta a Senosecchia, feudo indivisibile, sul quale venne istituita una primogenitura. A scanso di equivoci e «per livar qualche dubio che potesse esser mosso da gente cavillosa, intendo, e voglio ch’il mio figliolo primogenito Ferdinando s’intenda il primogenito, ch’ha da succidere dopo di me, supplicando sua Maestà Cesarea che voglia in memoria della fidele servitù da me fattale corroborare questa investitura di primogenitura con la sua mano il Sigillo Imperiale»84. Oltre a Senosecchia, anche Prem – località carniolina ricevuta in dote dalla moglie Maria von Raunach85- venne sottoposto a primogenitura, quindi andò in favore del figlio maggiore Giovanni Ferdinando. Il Porcia dispose inoltre che ciascuna figlia femmina ricevesse cinquemila fiorini per la dote, mentre i gioielli vennero assegnati e distribuiti alle sorelle. Per tutti gli altri beni presenti sia in territorio veneto, sia asburgico, decise di nominare eredi universali i soli figli maschi, con totale esclusione delle femmine.

82 KLA, Familienarchiv Portia, k. 9, f. 29 N. 83 Ibidem. 84 Ibidem. 85 KLA, Familienarchiv Portia, K. 9, f. 29 O

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Nel concludere le disposizioni testamentarie, Giovanni Sforza si rivolse ai figli maschi e in particolar modo a Giovanni Ferdinando esortandolo a provvedere alle fortune del casato e a contrarre un matrimonio adeguato alle aspettative del rango. Ma ciò che risulta più chiaro è l’esplicita volontà del conte Porcia di lasciare in eredità al primogenito un legame fedele e duraturo con la casa d’Austria:

«esorto come padre amorevole siguendo li vistige di quello à voler continuare nel vassallaggio della Serenissima Casa d’Austria, procurando d’aumentare i beni in queste parti, et anco di maritarsi si li verrà voglia poiché io gli avviso, che per le cose passate, per le presenti et per le future non li starà bene far altra deliberazione, et particolarmente esorto il mio primogenito Fernando à maritarsi quanto prima se gli sarà in caso di poterlo fare, e gli commetto come padre, che in ciò si deva reggere conforme al Consiglio di Sua Maestà Cesarea di suoi Padroni, et dell’Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Barone Giovanni Olderico d’Ecchemberg»86.

Giovanni Sforza Porcia morì nel 1624 a Venezia. Le basi per la futura fortuna dei Porcia in territorio asburgico erano state ampiamente gettate. L’eredità del Porcia venne raccolta dal primogenito, Giovanni Ferdinando, che si distinse fin da subito presso gli Asburgo guadagnandosi la profonda e cieca fiducia dell’allievo Leopoldo Ignazio, in seguito imperatore con il nome di Leopoldo I.

1.2.3 Giovanni Ferdinando Porcia.

La vita del conte Giovanni Ferdinando Porcia è uno dei pochi profili biografici del casato purliliense cui la storiografia ha riservato una speciale attenzione. Pur non essendo mai stata pubblicata una monografia su di lui, molti storici si sono soffermati a tracciare un ritratto di questo aristocratico, affermatosi alla corte di Vienna nel momento di transizione tra il regno di Ferdinando III ed il figlio Leopoldo I (1657). Gli articoli e i brevi saggi dedicati al Porcia risultano spesso sommari e indefiniti, a tratti encomiastici, viceversa denigratori o tendenti a sottolineare che la fortuna del conte e del suo casato dipesero essenzialmente da uno stretto rapporto personale intrecciato con Leopoldo I, di

86 Ivi, k. 9, f. 29 N.

45 cui Giovanni Ferdinando fu precettore. Se il legame con la casa asburgica è innegabile, la storiografia ha però sino ad ora ignorato quel solerte ed industrioso lavorio grazie al quale il Porcia si adoperò al fine di dare lustro sia alla persona, sia all’intero casato87. Giovanni Ferdinando nacque a Venezia, probabilmente nel 1605. Non si conosce pressoché nulla della sua infanzia e il primo documento archivistico che lo riguarda risale al 1624, poco prima della morte del padre, quando il giovane si trovava a Roma presso il Cardinale Eitel Friedrich von Hohenzollern che plausibilmente si occupò della formazione del giovane aristocratico: in una lettera del 6 gennaio 1624, inviata a Giovanni Sforza, il cardinale espresse stima e rispetto per tutto il casato, nonché la ferma volontà di adoperarsi per aiutare il ventenne Giovanni Ferdinando: «A me non mancarà mai la voluntà di servire à Vostra Signoria Illustrissima, perché so quanto sia il suo merito, et quanti anco i rispitti per i quali ho da notificarle sempre la corrispondenza, et prontezza dell’animo mio. Di che vorrei ch’ella havesse chiaro testimonio nelle opere, come vedo io hora i segni della sua cortese confidenza in occasione che hà mandato qua il Conte Ferdinando suo figliolo, quale hò accolto con quel buon affetto, che richiede la sua qualità, et la gratitudine che conservarò sempre verso tutti di sua Casa: Così havesse io occasione di oprarmi per suo servitio, come son desideroso di testificar con l’opera la mia sincera disposizione di questa mia Casa, come dilla sua propria»88. Il cardinale Hohenzollern morì però nel 1625, quindi non ebbe modo di occuparsi a lungo di Giovanni Ferdinando89. Dai carteggi famigliari, si apprende comunque che il Giovanni Ferdinando studiò a Roma almeno sino al decesso del porporato. Dalle costanti corrispondenze con i tutori, si evince infatti che sia Carlo Porcia (zio paterno di Giovanni Ferdinando), sia Pietro Stahel (fedele servitore della famiglia Porcia) furono ripetutamente interpellati per

87 Di seguito verranno date alcune indicazioni bibliografiche sui saggi pubblicati sul Porcia. Ulteriori informazioni saranno di volta in volta citate in nota nel corso del capitolo. Porcia Johann Ferdinand, in Deutsche Biographische Enzyklopaedie, vol. 8, München 1998, p. 37; Porcia, in Biographisches Lexicon des Kaiserthum Oesterreichs, vol. 2., Wien 1870, pp. 117-123; T. MAYER, Gli splendori dei Porcia. I privilegi di una famiglia principesca, in I Porcia, cit., pp. 107-113; A. BENEDETTI, Giovanni Ferdinando conte di Porcia e Brugnera. Principe del S.R.I, in «Il Noncello», 31, pp. 3-40; ID. La famiglia Porcia a Gorizia e a Trieste, in «Studi goriziani», 33, 1963, pp. 13-43; G. PRIORATO, Vite et azzioni di Personaggi militari, e politici, descritte dal conte Gualdo Priorato, Vienna, appresso Michele Thurnmayer, 1674. 88 KLA, Familienarchiv Portia, k. 9, f. 29 I, lettera 6 gennaio 1624. 89 T. PENNERS, Eitel Freiderich, in Neue Deutsche Biographie (NDB), Band 4, Duncker & Humblot, Berlin, 1959, p. 424; KLA, Familienarchiv Porcia, k. 12, f. 38, lettera del duca Alberto di Baviera a Girolamo Porcia, 7 ottobre 1625.

46 pagare conti e debiti contratti dal giovane rampollo90. Il 30 marzo 1625, Carlo Porcia scrisse da Vienna al nipote per incoraggiarlo a perseverare negli studi: «non trovo necessita che Vostra Signoria si muova di Roma, che continui ne suoi studij assicurandola ch’io non mancherò di assister alle cose sue»91. Le stringate righe di Carlo Porcia sottendevano un tono rassicurante, quasi volesse tranquillizzare il nipote sul suo avvenire. Giovanni Ferdinando stava infatti maturando da tempo la convinzione che servissero incarichi di un certo rilievo per potersi promuovere a corte e portare lustro e denaro alla famiglia. In una missiva del 9 ottobre 1624, il giovane Porcia scrisse allo zio paterno incoraggiandolo a investire tutte le sue forze per ottenere un incarico in Carniola. Tale mandato, unito nel migliore degli auspici al Generalato presso la fortezza di Carlstadt, avrebbe fruttato – secondo gli ambiziosi progetti dell’erede Porcia – denari e onori al casato, al punto che «è certo che con tremille fiorini Vostra Signoria Illustrissima staria da Prencipe»92. A seguire, Giovanni Ferdinando prospettava allo zio la possibilità di vivere insieme poiché questo avrebbe messo in buona luce la famiglia: «Et io mi contenterei di sottomettermi a qualsi voglia incommodo per vedere questa onorevolezza della persona di Vostra Signoria Illustrissima. Et mi accomodarei o di viver seco, et dar a suoi commandi, o di viver separatamente come a quella meglio paresse. Se poi Vostra Signoria havesse qualche altro pensiero, oltre la percossa che ne riceverebbe la casa, et particolarmente io»93. Il giovane nipote proseguiva quindi la lettera ricordando allo zio che il prestigio ottenuto da tali incarichi esigeva un comportamento morale all’altezza della situazione: «Vostra Signoria Illustrissima non si potrebbe mantenere con quella reputazione che Vostra Signoria Illustrissima ben sa, li quali crescendo gl’honori et le condizioni degl’homini fanno anco crescere l’obbligationi, che se non si ha buon nome non si potrebbe riuscirne»94. Il messaggio di Giovanni Ferdinando terminava infine con una esortazione di aiuto al fine di poter ottenere l’incarico di Landesverweser in Carniola, ufficio che riteneva di meritare senza alcun dubbio: «Ma per non tralasciare il domestico per il selvatico voglio sperare che Vostra Signoria Illustrissima porterà la mia

90 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 31. 91 Ivi, lettera 30 marzo 1625. 92 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 31, lettera 9 ottobre 1624. 93 Ibidem. 94 Ibidem.

47 persona per l’ufficio di Landtverbesser, perché di essere proposto per la provincia non ho dubio»95. Il Landesverweser, anche noto con il termine di Praetor Provinciae, era l’amministratore della giustizia nella provincia slovena in nome del Principe96. È sicuro che il Porcia ricoprì questo incarico poiché alcune lettere, conservate presso il Landesarchiv carinziano, vennero destinate tra il 1637 e il 1647 al Landesverweser di Carniola, nella persona di Giovanni Ferdinando Porcia97. L’obbiettivo di emergere socialmente e di ottenere un incarico a corte erano argomenti prioritari nello scambio epistolare tra zio e nipote alla fine degli anni venti. In questo carteggio il giovane Giovanni Ferdinando appariva insicuro e turbato, contrastato tra lo smanioso desiderio di fare carriera e l’angosciante timore di non evolvere socialmente. Il 21 novembre 1628 scrisse a Carlo Porcia di avere «volontà di servire in quella corte, mentre con gran brogli bisogna acquistare quest’honore; […] Io attenderò al negotio mio, et procurarò di avantaggiarlo al possibile; ne spero effetti conformi al desiderio nostro»98. Qualsiasi occasione diventava appetibile al fine di mettersi in luce come quando il Porcia si adoperò per «acertar[si] circa l’esser mandato fuori alle noze del Re, cosa da me molto desiderata et stimata di grand’honore»99. In altre occasioni invece, il tono del ventenne Porcia si faceva volubile e cupo. Il 29 novembre 1628 scrisse allo zio che «le speranze della corte sono inaridite per me. Io poi non mi curo, manco di Cameriere non haverei accettato servitio alcuno; però mi resolverò d’incaminar la mia fortuna in questo paese, et spero che al Signor Dio ci aiutarà ancora noi»100. Ogni mezzo diventava lecito quando si trattava di sostenere il proprio cursus honorum: il supporto finanziario e morale di Carlo Porcia, così come degli altri tutori, era sicuramente di fondamentale importanza ma insufficiente ad assicurarsi vantaggi professionali ed economici. Bisognava guardarsi attorno e consolidare i legami sociali. A tal proposito, nelle corrispondenze di fine anni venti spuntò più volte il cognome

95 Ibidem. 96 A. DIMITZ, Geschichte Krains von der ältesten Zeit bis auf das Jahr 1813. Mit besonderer Rücksicht auf Kulturentwicklung, dritter Teil, Laibach, Druck und Verlag von Ig. v. Kleinmayr & Fed. Bamberg, 1875, pp. 69-70. 97 KLA, Familienarchiv Porcia, k. 10, f. 32A. 98 Ivi, f. 32H, lettera 21 novembre 1628. 99 Ibidem. 100 Ivi, lettera 28 novembre 1628.

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Auersperg. Presso il Kärntner Landesarchiv non esistono lettere manoscritte dell’Auersperg, ma le missive inviate a Carlo Porcia bastano a comprendere che la persona in questione era Andrea von Auersperg, nobile appartenente alla omonima famiglia carniolina101, nonché futuro suocero di Giovanni Ferdinando. Questi auspicava che la vicinanza, l’influenza e «la grand’inclinatione alla persona mia»102 dimostrata dall’Auersperg, diventassero determinanti nella delicata fase di accostamento alle alte sfere del potere asburgico. Questo legame andava sfruttato e così anche il giorno delle nozze con Maria Elisabetta Auersperg divenne un possibile strumento di ascesa sociale: la celebrazione era infatti l’occasione più propizia per invitare ospiti illustri che, nella migliore delle ipotesi, avrebbero dimostrato in seguito una certa benevolenza per il casato purliliense. L’8 febbraio 1629 infatti, Giovanni Ferdinando scriveva così allo zio paterno: «Mandai le lettere di invitatione, per […] il Principe d’Eggenberg così anco per l’Arcivescovo di , con una particolare anco, però Vostra Signoria farà bene mandar subito persona a posta come haveva intentione, et raccomandarli caldamente casa nostra, che non potrà far di meno di non aiutarci»103. Se la festa nuziale rappresentava un’opportunità di consolidamento della rete sociale, anche gli eventi luttuosi potevano capovolgersi in favorevoli circostanze di promozione di sé. Se non altro perché il defunto, qualora avesse rivestito in vita incarichi rilevanti e ottimamente remunerati, creava con la propria dipartita un vuoto professionale che andava integrato con la nomina di nuovi uffici. A quel punto gli ambiziosi dovevano agire con accorta rapidità per accaparrarsi una carica. A tal proposito, il 2 settembre 1637, Giovanni Ferdinando diede notizia a Carlo Porcia della morte improvvisa del suocero: il decesso risultò talmente fulmineo che persino il caro estinto non s’aspettava di morire. Ciò significava che Andrea von Auersperg non aveva fatto in tempo di scrivere un testamento e che i suoi incarichi erano così tornati sulla piazza104. Giovanni Ferdinando agì alla svelta e pensò di assicurarsi un colloquio a Graz con il Principe Giovanni Olderico Eggenberg per valutare la disponibilità di qualche ufficio. Si mormorava però che il Principe fosse gravemente malato e quindi non in grado di

101 EVANS, Felix Austria, cit., p. 229. 102 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32H, lettera 21 novembre 1628. 103 Ivi, lettera 8 febbraio 1629. 104 Ivi, lettera 2 febbraio 1637.

49 ricevere visite. Il Porcia allora svicolò il problema avvicinando il confessore dell’Eggenberg e tentando così di perorare ugualmente la propria causa. Almeno in apparenza, il religioso sembrò favorevole alla sorte del conte purliliense, come traspare dal resoconto inviato allo zio: «mi ha promesso di far l’officio da homo da bene et mi ha dichiarato seco, che compiacendosi Sua Eccellenza di honorare Vostra Signoria Illustrissima mi sara tutto l’istessa gratia, come si eleggesse la mia persona»105. In particolar modo, Giovanni Ferdinando Porcia mirava al mandato di Landesverwalter, ossia Capitano della Provincia carniolina106. Chiese e pretese dallo zio circospezione e prudenza per non indispettire gli Asburgo e, allo stesso tempo, impegno solerte per procacciarsi finalmente una mansione che avrebbe dato lustro a sé e a tutto il casato:

«Il carico di Landtverelter depende immediate dal Prencipe come capitano del paese il quale ha dichiarato di volerne nominare uno avanti la sua partenza. Ma perché potrebbe essere che il Dio non voglia, che Sua Eccellenza venisse a mancare avanti che partire di qua, Vostra Signoria Illustrissima potrebbe far officij la fuori per tale caso, ma molto cautamente, perché Sua Maestà tutto si alterarebbe, intendendo che il Prencipe sta in pericolo della vita, et anco il Prencipe misurandosi non havarà gusto che si havesse fatto fondamento sopra la sua morte. A quello di Landtverhalter, vengono da questa Provincia proposti alcuni soggetti, et di questi Sua Maestà ne ellegge uno. Io spero di esser proposto, et farò broglio anco per Vostra Signoria, et però potrà Vostra Signoria Illustrissima far officio con Sua Maestà et altri si come farò io con Sua Eccellenza. Quanto alla mia persona questo officio saria molto a proposito per gl’interessi di casa nostra, et non disonorerebbe alla mia età, per quanto Vostra Signoria Illustrissima non ne habbia gusto per se Vostra Signoria Illustrissima si meta al forte per havere la volontà di Sua Maestà»107.

Sicuramente il Porcia non riuscì ad ottenere l’incarico di Landesverwalter, ma quello stesso anno si assicurò l’ufficio di Landesverweser. Gli impegni in Carniola non furono comunque gli unici: a partire dagli anni Trenta, la carriera del Porcia cominciò a consolidarsi con i più disparati incarichi. Nell’archivio famigliare di Klagenfurt ci sono vari documenti che attestano i progressi professionali del conte; nella maggior parte dei casi, però, i manoscritti sono costituiti da lettere di poca importanza che non consentono né di seguire minuziosamente la scalata al potere del conte purliliense, né di cogliere la qualità del suo servizio per conto degli Asburgo.

105 Ibidem. 106 DIMITZ, Geschichte Krains, cit., p. 70. 107 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32H, lettera 8 febbraio 1629.

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Al 1634 risaliva ad esempio un incarico di acquisto di sale a Venezia, onere che accettò ed eseguì anticipando le spese. Dovette però poi attendere il 6 novembre 1660 per essere risarcito con una ricevuta di trentamila fiorini108. In seguito, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, Giovanni Ferdinando fu incaricato di compiere almeno due ambasciate: la prima in Spagna109, la seconda a Venezia110. Le peculiarità richieste ad un buon ambasciatore erano una solida educazione, modi raffinati, una stabile rete sociale e uno stretto legame con il sovrano. Diventare un rappresentante del Principe presso corti e stati stranieri implicava per l’inviato la disponibilità a viaggiare e ad essere sempre all’altezza della situazione. Ciò significa che l’ambasciatore non si doveva solo attenere al disbrigo degli affari di stato imposti da una precisa istruzione regia; gli era infatti implicitamente richiesta la partecipazione ad incontri ufficiali o informali per i quali doveva garantire sempre la più adeguata toletta e la disponibilità ad offrire pranzi e cene sontuosi. Talvolta il salario non bastava e pertanto l’ambasciatore si manteneva attingendo al patrimonio personale e della famiglia. Ma se gli obblighi di un messaggero erano pesanti, gli offrivano anche l’occasione di promuovere se stesso, sfruttando le conoscenze e i legami che di volta in volta riusciva ad allacciare. La carica di ambasciatore era pertanto un trampolino di lancio per accedere «alle alte cariche dello stato, e un mezzo efficace come pochi altri per ottenere quegli onori, quei titoli e quei privilegi che costituivano la prova tangibile del favore regio»111. Non solo. La carica di ambasciatore deve essere letta anche come un momento di pubblica visibilità che, se ben amministrata, consente di accrescere il prestigio, il consenso personale e della propria famiglia, fornendo cioè «una sorta di credito da spendere poi nei meccanismi di scambio con il sovrano sul piano dell’influenza a corte o per accedere ad altri favori regi»112. Sicuramente non ci si può aspettare un perfetto automatismo nella carriera di un cortigiano, per cui dal mandato di ambasciatore non si arrivava sempre e direttamente ad uno scatto sociale coronato da sontuosi privilegi e ricchi incarichi. Purtroppo la

108 Ivi, k. 10, f. 31I, documenti del 14 dicembre 1634 e del 6 novembre 1660. 109 Ivi, k. 10, f. 32D 110 Ivi, k. 10, f. 32B. C. LACKNER, Johann Ferdinand Portia als kaiserlich Botschafter in Venedig 1647- 1652, in Historische Blickpunkte, a cura di S. Weiss, J. Rainer, Innsbruck, Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck, 1988. 111 D. FRIGO, Principe, ambasciatori e «Jus Gentium». L’amministrazione della politica estera nel Piemonte del Settecento, Roma, Bulzoni editore, 1991, p. 122. 112 Ivi, p. 123.

51 frammentaria documentazione archivistica non ha consentito di ricostruire ogni segmento della vita del nobile, determinando così la mancanza di documenti che chiarirebbero molti aspetti della vita del nobile. Lo ritroviamo perciò solamente agli inizi degli anni Cinquanta, quando si era già assicurato un aggancio importante alla corte asburgica di Vienna. Il 3 settembre 1652 venne nominato Obersthofmeister, ossia principale ministro di Leopoldo I113. Questa era la carica più importante presso la corte imperiale. Le origini dell’ufficio sono attestate in epoca medioevale e risalgono al regno dell’Arciduca Alberto I (1282-1298). Solo a partire dal quattordicesimo secolo, l’Obersthofmeister andò acquisendo sempre più importanza fino a gestire interamente la corte: controllo, rappresentazione, coordinamento e organizzazione erano le mansioni attribuite a questo funzionario. Aveva innanzitutto il compito di dirigere tutti i servitori, detti Kämmerer. Tutti i cortigiani gli dovevano rispetto poiché incarnava l’interlocutore privilegiato del sovrano cui doveva garantire costantemente protezione, aiuto e consiglio. Con l’imperatore discuteva tutto, persino eventuali misure disciplinari da prendere contro cortigiani che avessero manifestato noncuranza verso il loro ruolo o la trasgressione di qualche regola. Spettava infatti all’Obersthofmeister il controllo di tutti gli ufficiali di corte, e le modalità di svolgimento delle loro mansioni. Al ministro del re competeva anche la rendicontazione delle spese di corte e la stesura di almeno quattro relazioni annuali su spese e bilanci. Di fede cattolica, doveva garantire la celebrazione quotidiana della messa e l’assidua partecipazione della corte. Organizzava nei minimi dettagli i viaggi dell’imperatore di concerto con gli altri ufficiali (cuochi, guardarobieri, camerieri etc.) affinché tutto si svolgesse senza incidenti114. Se l’Obersthofmeister di un imperatore si qualificava di norma come un ministro tuttofare, non si può altrettanto affermare che il maggiordomo maggiore di un arciduca asburgico godesse del medesimo prestigio. E, in sostanza, Giovanni Ferdinando Porcia svolgeva la mansione di precettore del giovane Leopoldo Ignazio d’Asburgo.

113 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32C. 114 M. SCHEUTZ, J. WÜRER, Dienst, Pflicht, Ordnung und “gute policey”. Instruktionsbücher am Wiener Hof im 17.und 18. Jahrhundert, in Der Wiener Hof im Spiegel der Zeremonialprotokolle (1652-1800). Eine Annäherung, a cura di I. Pangerl, M. Scheutz, T. Winckelbauer, Wien, Studien Verlag, 2007, pp. 40- 43.

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A favore del Porcia, va tuttavia precisato che l’incarico di Obersthofmeister di un Arciduca non era affatto deprezzabile, anzi: molto spesso questa funzione combaciava con quella di aio che aveva il compito fondamentale di plasmare il giovane allievo asburgico alla vita di corte e al ruolo di comando. Per un nobile questo incarico era sovrastimato poiché questi acquisiva l’onore di interagire con la vita più intima di corte e, soprattutto, perché forgiava un futuro sovrano, o un Arciduca. Pochi uffici erano più quotati e la controprova sta nel valore che la casa regnante attribuiva sia al mandato, sia alla ricerca di figure idonee all’esercizio dell’incarico115. Nell’archivio famigliare carinziano sussiste, a tal proposito, un fascicolo di istruzioni destinato al nuovo Obersthofmeister-Aio Giovanni Ferdinando Porcia che si apriva con una dichiarazione di stima e fiducia dell’imperatore Ferdinando III, il quale raccomandava al nuovo precettore una solida formazione per il figlio. Il giovane Arciduca doveva essere istruito sulla base di disciplina, studio e principi morali: «und demnach vorderist an guter Zucht, Lehrung, hund Tugentlicher Auferziehung gedachtes Unsers freundtlich geliebten Sohns»116. Un ruolo particolare dovevano ricoprire gli esercizi spirituali e la partecipazione alla Santa Messa che andava rispettata quotidianamente117. Il Porcia era incaricato di seguire di continuo il proprio allievo aiutandolo, consigliandolo, e proteggendolo da situazioni imbarazzanti. Erano banditi giochi e qualsiasi forma d’ozio. A Leopoldo Ignazio non era consentito di ricevere visite – ad eccezione del padre – durante le esercitazioni quotidiane; persino gli orari dei pasti dovevano essere regolamentati e rispettati senza eccezioni118.

115S. SIENELL, Die Wiener Hofstaate zur Zeit Leopolds I, in Hofgesellschaft und Höflinge an europäischen Fürstenhöfen in der Frühen Neuzeit (15.-18. Jahrhundert), a cura di C. Grell, K. Malettke, Internationaler Kongreß vom 28. bis 30. September 2000 in Marburg, Münster-Hamburg-London, Forschungen zur Geschichte der Neuzeit, 2001, pp. 89-111; ID., Die Ersten Minister Kaiser Leopolds I: Johann Ferdinand von Portia und Wenzel Eusebius von Lobkowitz,in , Der zweite Mann im Staat. Oberste Amtsträger und Favoriten im Umkreis der Reichsfürsten in der Frühen Neuzeit, a cura di M. Kaiser, A. Pečar, Berlin, Zeitschrift für Historische Forschung, Beiheft, 2003, pp. 317-330. 116 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32 C. 117 L’attenzione all’educazione religiosa del giovane Arciduca era motivata dalla carriera ecclesiastica che Leopoldo avrebbe dovuto intraprendere. E comunque, anche una volta diventato imperatore, mantenne l’abitudine di far celebrare un elevato numero di messe, obbligando i cortigiani a seguirle. Tuttavia va ricordato che tutti gli Asburgo dovevano avere una solida formazione religiosa, poiché la loro devozione era considerata una qualità peculiare della famiglia, una «Familieneigenschaft». VOCELKA, Die Familien Habsburg, cit., p. 127; A. WHEATCROFT, Gli Asburgo. Incarnazione dell’impero, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 167. 118 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32 C.

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L’incarico di Aio permise al conte Porcia di consolidare con l’Arciduca Leopoldo Ignazio un profondo e duraturo rapporto di fiducia che perdurò sino alla morte del conte purliliense. Il legame con la casa imperiale non sarebbe mai più stato messo in discussione anzi, negli anni successivi, andò rafforzandosi ancora di più. Nella prima metà degli anni Cinquanta, il conte Giovanni Ferdinando ricevette diversi inviti da parte dell’imperatore Ferdinando III che lo rese partecipe della vita di corte e delle sue più ampie manifestazioni. Il 31 maggio 1653, ad esempio, il Porcia venne invitato alla celebrazione di una messa di ringraziamento presso il duomo di Santo Stefano a Vienna: la liturgia era dovuta alla nomina di Ferdinando IV, primogenito dell’imperatore, a Re dei Romani. Il Porcia non ebbe solo l’onore di partecipare alla cerimonia ma fu anche precettato come cantore del Te Deum119. Le feste, soprattutto quelle che riguardavano la casa asburgica (matrimoni, incoronazioni, omaggi di vassallaggio, battesimi, fidanzamenti, funerali) erano sempre un momento di affermazione del potere regale. Il lusso, lo sfarzo degli abiti, i sontuosi banchetti erano lustrini superficiali sotto i quali si celava una precisa e razionale attestazione di autorità. Soprattutto le celebrazioni religiose, accompagnate dall’esecuzione musicale del Te Deum, in caso di vittoria militare oppure di un’incoronazione (come nel caso di Ferdinando IV), erano uno strumento che gli Asburgo utilizzavano per evidenziare la dignità sacrale della carica imperiale. Per un nobile, la partecipazione e il coinvolgimento nell’organizzazione di tali eventi, era l’occasione per mettersi in luce120, per il Porcia significava una piena appartenenza alla vita di corte121. Il legame venne suggellato un paio d’anni più tardi, nel 1655, quando il

119 Ibidem. 120 VOCELKA, Glanz und Untergang, cit., pp. 185-187. Si veda inoltre il volume di E. GROSSEGGER, Theater, Feste und Feiern zur Zeit Maria Theresias, 1742-1776: nach den Tagesbucheintragungen des Fursten Johann Joseph Khevenhüller – Metsch, Obersthofmeister der Kaiserin. Eine Dokumentation, Wien, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 1987. Lo studio in realtà riguarda le feste e il cerimoniale di corte al tempo dell’imperatrice Maria Teresa (1740-1780) ma è ancora oggi una pietra miliare per gli studi sulla corte viennese in quanto si basa sull’analisi dei diari dell’Obersthofmeister di Maria Teresa, il principe Johann Joseph Khevenhüller-Metsch. Le testimonianze del primo ministro teresiano ricoprono il lungo lasco di tempo che scorse tra il 1742 e il 1776, sottolineando peculiarità e mutamenti del cerimoniale di corte. Il protocollo di corte viennese, già assai austero perché basato sul rigido regolamento spagnolo, divenne infatti ancora più severo dopo il 1765, anno del decesso dell’imperatore Francesco Stefano di Lorena. La vedova, Maria Teresa, osservò sistematicamente il lutto riducendo all’indispensabile le feste di corte. 121 Sempre in occasione dell’incoronazione di Ferdinando IV a Re dei Romani, Ferdinando III scrisse al Porcia anche per incaricarlo di rispondere alla missiva dell’ambasciatore veneziano, Girolamo Giustiniani, che – a sua volta – aveva amichevolmente espresso le congratulazioni della Serenissima

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Re dei Romani Ferdinando IV morì inaspettatamente. Nel 1657 si spense prematuramente anche Ferdinando III, lasciando tutto il potere nelle mani del secondogenito Leopoldo. Questi abbandonò pertanto l’abito talare per indossare la corona imperiale. Fu a quel punto che Giovanni Ferdinando Porcia divenne una figura di primo piano alla corte di Vienna, condividendo e consigliando il nuovo Kaiser su ogni mossa politica da compiere. La stima che Leopoldo I nutriva nei confronti del Porcia non era però condivisa dagli altri cortigiani che, al contrario, non intravvedevano nel primo ministro alcuna buona qualità. Anzi, il conte Porcia era comunemente considerato un inetto, un debole senza alcuna capacità di governo che aveva fatto fortuna solo grazie al rispetto e alla cieca fiducia che l’Asburgo gli portava122. Il favore di Leopoldo I verso il suo primo ministro è innegabile. Tuttavia non è l’unico caso seicentesco in Europa di profondo legame tra un monarca ed il proprio primo ministro. Molti sovrani contavano sul valimiento, ossia quella pratica di «affidamento della potestà regia nelle mani di un unico ministro»123: il caso di Giovanni Ferdinando Porcia e di Leopoldo I non era dunque affatto un caso isolato. Un certo stereotipo ottocentesco sarebbe infatti alla base di quella fosca immagine addossata ai primi ministri che spesso si caratterizzavano con peculiarità perverse e losche: di prevalenti gusti omosessuali, il primo ministro era in genere un prevaricatore sociale senza scrupoli che approfittava della fiducia di un sovrano debole per pilotare la politica di corte secondo i propri interessi. I recenti studi di Francesco Benigno invece mirano a scardinare questa vecchia immagine del potente favorito per coglierla nell’ottica del processo di consolidamento dello stato moderno. In tal maniera il valido, che gode pur sempre di una pressoché illimitata fiducia da parte del sovrano, diventa un mezzo di coordinamento «degli apparati burocratici che la crescita delle funzioni e delle prerogative dello stato rendono insieme gravosa ed urgente»124. Questo significa che il

Repubblica di Venezia per l’incoronazione di Ferdinando IV. Una corretta ed adeguata risposta del Porcia gli avrebbe valso nuovamente il favore e il riconoscimento da parte della casa asburgica: «Dene du rechst zu thun wissen würdest, Verbleiben dir benebens mit Kayserlichen hundt Landtfürstlichen Gnaden wolgewogen». KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32H, lettera 23 giugno 1653. 122 PROBSZT-OHSTORFF, Die Porcia, cit., pp. 124 segg; G. TREBBI, Tra Venezia e gli Asburgo, cit., pp. 34- 35. 123 F. BENIGNO, L’ombra del re. Ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Venezia, Marsilio, 1992, Introduzione, p. X. 124 Ibidem.

55 sovrano, gravato da un potere che si parcellizzava in una miriade crescente di incarichi ed attribuzioni, alleviava il proprio onere delegandolo parzialmente ad un ministro, abile amministratore della vita di corte e del suo cerimoniale. In questo senso va anche reinterpretato il complesso rapporto con il mondo cortigiano che, spesso, guardava al valido con sdegno ed invidia. Il primo ministro, come primo funzionario di corte, diveniva pertanto anche un «filtro» attorno al quale si addensavano fazioni, amicizie, parentele e reti sociali che cercavano di aprirsi un varco per accedere alla grazia principesca e quindi a quella sfera di privilegi, incarichi, favori che avrebbero assicurato una scalata gerarchica. Per usare le parole di Benigno, il primo ministro sarebbe pertanto il «cavallo di Troia dell’aristocrazia nella conquista pacifica della direzione dello stato»125. Lungi dal voler tessere apologie sull’attività del Porcia alla corte viennese, l’Obersthofmeister seppe effettivamente muoversi in un’epoca segnata dalle tensioni internazionali, quali le profonde rivalità con la Francia che tentò di ostacolare l’elezione imperiale di Leopoldo I e il di lui fidanzamento con la nipote, l’Infanta di Spagna Margherita Teresa (che ebbe luogo nel 1666). Inoltre le guerre del Nord (terminate nel 1660) e l’apprensione per il degenerante rapporto con i turchi che portò allo scoppio della guerra nel 1663, furono motivo di nervosismo politico. In tutte queste circostanze, se l’assidua e diplomatica laboriosità del Porcia non fu determinante per il mantenimento della solidità imperiale, è invece certa la fedeltà e la devozione con cui difese la causa asburgica126. Le luttuose contingenze del 1657, l’elezione di Leopoldo I e l’incalzare degli eventi internazionali, posero l’imperatore nelle condizioni di circondarsi degli elementi più stimati e fidati che fossero in grado di coadiuvarlo negli importanti affari di governo. Tra le persone considerate più leali, vi era anche Giovanni Ferdinando Porcia che ottenne subito il titolo di Geheim Rat, Consigliere Intimo. Il decreto risaliva al 17 giugno 1657 e l’imperatore non perse occasione per sottolineare la considerazione e il rispetto che provava per il suo diligente servitore: «Wann dann hierauf Er Herr Graff von Portia solche seiner Function bishero zu Ihren Kayserlich: May: gdister Satisfaction, hundt Liebe, rühmlich abgewartet, dieselbe auch

125 Ibidem; ID, Favoriti e ribelli. Stili della politica barocca, Roma, Bulzoni editore, 2011, pp. 103-108; 145 seg. 126 PROBSZT- OHSTORFF, Die Porcia, cit, pp. 133 segg.

56 diese seine gdste Bezaigung und fleissiges Dienen, in König hundt Landtfürstliches gnade Vermerkh». Infine l’imperatore conferì al ministro l’incarico di Consigliere Intimo che sarebbe durato per tutto il tempo che la Cesarea Maestà avrebbe ritenuto opportuno: «durch schrifftliches Decret gdst auftrage lassen, dass Er seiner gelaiste Pflicht mach in Bedingung seiner Gehaimb Rathes Stöll, bis auf weitere Ihrer Kayserl: May: gdst Verordnung, provvisorio modo continuiren wolle»127. Il consiglio del Geheim Rat era stato istituito durante il regno di Massimiliano I (1459-1519) al fine di riunire attorno al re pochi e fidati consiglieri che fossero in grado di indirizzare il sovrano nelle intricate maglie della politica imperiale. I Consiglieri avevano l’obbligo di riunirsi per leggere la corrispondenza degli ambasciatori e tutte le missive provenienti dalle altre corti europee. Le riunioni erano quotidiane, anche se di fatto non veniva fissato alcun ordine del giorno da discutere. I Consiglieri dovevano inoltre presenziare a tutte le feste indette dal sovrano e godevano di svariate prerogative, tra cui anche il diritto di amministrare la giustizia. Nel diciassettesimo secolo l’ufficio del Geheim Rat era considerato troppo lento e ormai privo di quel prestigio che aveva goduto un secolo prima. Tuttavia, i componenti del Geheim Rat continuarono a riunirsi per tutto il Seicento, quando il consiglio evolse nella Geheime Konferenz128. Attorno al Porcia si strinsero pochi altri consiglieri, ossia Hannibal von Gonzaga129, Johann Adolf von Schwarzenberg130, Johann Weikhard von Auersperg131, Ernst von

127 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32 C. 128 S. SIENELL, Die Geheime Konferenz unter Kaiser Leopold I. Personelle Strukturen und Methoden zur politischen Entscheidungsfindung am Wiener Hof, Frankfurt am Main, Peter Lang Europäischer Verlag der Wissenschaften, 2001, pp. 26-30; ID. Editionsvorhaben I: Briefe Kaiser Leopolds I an Johann Ferdinand von Portia (1657-1665); II Verzeichnis der Sitzungen der Geheimen Konferenz unter Kaiser Leopold I, in Umgang mit Quellen heute. Zur Problematik neuzeitlicher Quelleneditionen vom 16. Jahrhunder bis zur Gegenwart, a cura di G. Klingenstein, F. Fellner, H.P. Hye, Wien Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaft, 2003, pp. 70-73; H. F. SCHWARZ, The Imperial Privy Council in the Seventeenth Century. The social structure or the Imperial Privy Council, 1600-1674, Cambridge Harvard University Press, 1943. 129 Hannibal Gonzaga visse tra il 1602 e il 1668. Dopo aver ricoperto vari incarichi a corte, venne nominato capo delle guardie della città di Vienna (Oberster Stadt-Guardia), ufficio che rivestì per venticinque anni. Fu Obersthofmeister dell’imperatrice Eleonora, ambasciatore a Dresda e a Berlino, Presidente del Consiglio di Guerra (Hofkriegsrat) e in particolare diresse l’ufficio che amministrava i rapporti con l’Impero Ottomano SIENELL, Die Geheime Konferenz, cit., pp. 82-84. 130 Johann Adolf von Schwarzenberg nacque nel 1615, secondogenito del conte Adam von Schwarzenberg e Margarete Freiin von Pallant. Studiò a Parigi e, una volta terminata la sua formazione, prese a viaggiare per l’Europa con Franz Hartard, il fratello maggiore: tra il 1631 e il 1637, i due conti Schwarzenberg soggiornarono in Francia, Italia, Olanda e Germania. Il conte Adam von Scharzenberg pensò per il suo secondogenito ad una carriera ecclesiastica e così Johann Adolf entrò nel 1635 nell’ordine gerosolimitano. Nel 1640 venne nominato Reichshofrat, nel 1656 Obersthofmeister dell’arciduca Leopoldo Guglielmo. Nel 1670 venne promosso allo stato principesco e un anno più tardi

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Oettingen132, Wenzel Eusebius Lobkowitz133, i cui rapporti con il Porcia furono spesso complessi e segnati da profonde rivalità. La competizione più forte si consumò però tra il Porcia e l’Auersperg il quale sperava, invano, di esercitare l’ufficio di Obersthofmeister per l’imperatore. La fitta rete di rapporti presso la corte di Vienna non si esauriva certamente a questi cinque Geheim Räte ma era bensì più complicata; come ha precisato lo storico Jeroen Duindam, esistevano infatti due tipi di alleanze: quelle orizzontali che si intrecciavano tra diverse famiglie, e quelle verticali che avvicinavano i cortigiani con uffici parigrado134. Le amicizie di corte si alimentavano inoltre di interrelazioni come la celebrazione di matrimoni, parentele di sangue e spirituali che si servivano a vicenda per far prevalere la propria fazione sulle altre135.

anche il possedimento di Schwarzenberg fu elevato a contea principesca. Johann Adolf von Schwarzenberg ottenne anche il diritto di coniare moneta; morì a Laxenburg nel 1683. Ivi, pp. 84 – 87. 131 Johann Weikhard von Auersperg nacque nel 1615. Figlio di Dietrich von Auersperg e della contessa Sidonia Galler von Gravenweg, frequentò il collegio dei Gesuiti a Monaco di Baviera. Nel 1637 entrò al servizio di Ferdinando III. Nel 1640 fece parte del Reichshofrat. Venne quindi nominato aio e Obersthofmeister di Ferdinando IV: vi erano pertanto tutte le premesse per compiere una importante scalata di potere alla corte di Vienna. Se non fosse per la morte inaspettata del Re dei Romani che frenò in parte la sua carriera. Ciononostante le esperienze dell’Auersperg proseguirono sotto i migliori auspici: nel 1653 venne elevato allo stato principesco e nel 1655 fu nominato Obersthofmeister di Ferdinando III, in seguito al decesso del predecessore e primo ministro, il principe Maximilian von Dietrichstein. Lo stesso anno fu anche nominato primo Geheim Rat. La carriera dell’Auersperg sembrava però orchestrata da un alternarsi di glorie e sfortune, poiché nel 1657 venne a mancare anche l’imperatore Ferdinando III. La corona imperiale venne indossata dal secondogenito, il sedicenne malaticcio Leopoldo I, che aveva già il suo primo ministro nella persona di Giovanni Ferdinando Porcia. Quando questi morì (1665), l’Auersperg sperò ancora una volta di poter diventare Obersthofmeister dell’imperatore ma rimase nuovamente deluso, in quanto il titolo venne portato dal Lobkowitz. Anche se apparentemente la carriera dell’Auersperg sembra costellata più da amarezze che da gioie, egli poté comunque vantare uno straordinario carisma che lo fece uno degli uomini più influenti presso la corte viennese. Morì nel novembre del 1677. Ivi, pp.87-91. 132 Ernst von Oettingen (1594-1670) fu l’unico figlio del conte Wolfgang von Oettingen. Studiò a Roma, quindi venne subito integrato a corte con varie nomine. Fra i più importanti uffici, bisogna ricordare la presidenza di alcuni Consigli di corte quali l’Hofrat e il Kammerrat. Fu ambasciatore a Parigi tra il 1642- 1645. Ivi, pp. 84-85. 133 Wenzel Eusebius von Lobkowitz nacque nel 1609, figlio di Zdenko Adalbert von Lobkowitz e di Polyxena von Pernstein. Nel 1624 venne eletto principe. La sua famiglia possedeva importanti proprietà in Boemia, Moravia, e nel Palatinato superiore. Studiò presso il collegio gesuitico di Praga, dove completò la sua formazione con la laurea in legge. Fece viaggi in tutta Europa, soggiornò in Italia, Germania, Paesi Bassi Spagnoli, Inghilterra. Fece esperienza e carriera militare nell’esercito del Wallenstein. Fu ambasciatore a Monaco di Baviera, Dresda e in Boemia. Nel 1644 venne nominato vice presidente del Hofkriegsrat, mentre la nomina a Geheim Rat risaliva al 1645. Morì nel 1677. Ivi, pp. 91- 93. 134 DUINDAM, Tra Vienna e Versailles, cit., p. 339. 135 Il dipartimento di storia dell’Università di Vienna sta portando avanti in questi ultimi anni un progetto di ricerca sulla storia della corte tra il 1637 ed il 1657. L’oggetto dello studio sono i cortigiani e le loro biografie: le carriere, le amicizie e i matrimoni celebrati durante i regni di Ferdinando II e del figlio Ferdinando III mirano alla riscoperta dell’intero corpo aristocratico che animò la vita di corte nella prima metà del Seicento. In particolar modo, il progetto dedica una trasposizione schematica dei rapporti tra cortigiani mettendo in luce quanto il disegno delle alleanze fosse fitto e microscopico. L’epoca analizzata

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Nel caso di Giovanni Ferdinando, l’appoggio più influente fu quello di Leopoldo I. La fiducia che il Kaiser ripose nel suo primo ministro venne testimoniata dagli incarichi del Porcia ed anche dalla frequenza dei loro incontri. D’altra parte, in quanto Obersthofmeister imperiale, il Porcia doveva essere in grado di amministrare tutta la vita di corte in ogni singolo dettaglio, senza lasciare nulla al caso. Così, ad esempio, il Porcia dovette premurarsi nel 1660 di organizzare il viaggio dell’imperatore nella Contea di Gorizia. Lo spostamento di un sovrano non era cosa di poco conto poiché presupponeva il trasloco di una buona parte dei servitori: guardarobieri, cuochi, coppieri, tutti dovevano seguire il monarca e tutto si doveva svolgere nella massima sicurezza e sfarzosità. Il viaggio di un Asburgo simboleggiava infatti la potenza e l’indiscutibile sovranità del regnante: in tali frangenti non si badava a spese, né si poteva rischiare di far apparire la casa d’Austria sotto una luce modesta, così nei territori sudditi come all’estero. I preparativi del viaggio di Leopoldo I verso Gorizia cominciarono i primi giorni del luglio 1660, con tre mesi d’anticipo rispetto alla data d’arrivo dell’imperatore. Tutto venne curato con acribia, a cominciare dall’alloggio dell’Asburgo cui venne messo a disposizione un appartamento del castello cittadino. In un appartamento attiguo venne alloggiato anche il Porcia, accompagnatore del sovrano. Durante la permanenza goriziana, Leopoldo I si informò sulle condizioni della Contea, concesse udienza ai sudditi e tenne consigli sulla situazione militare in Transilvania e presso i confini ungheresi, posti sotto la minaccia di un attacco turco136. Tutto questo doveva essere svolto alla presenza del primo ministro che annotava e consigliava l’imperatore sul da farsi. La carriera di Giovanni Ferdinando Porcia conobbe però l’apice solo due anni più tardi con l’elevazione allo stato principesco (1662). Da quel momento il Porcia non era più un semplice conte, bensì un Principe del Sacro Romano Impero. Tale prestigio – come recita il decreto imperiale – venne goduto dal Porcia, così come dai suoi discendenti maschi. Il titolo sarebbe stato trasmesso di padre in figlio, seguendo la sola primogenitura maschile. Nel caso in cui fosse mancata la discendenza, il titolo sarebbe

dagli storici viennesi precede la scalata al potere di Giovanni Ferdinando Porcia, tuttavia resta esemplificativa di quel complesso tessuto di appoggi che un nobile doveva vantare per potersi fare strada. http://www.univie.ac.at/Geschichte/wienerhof/wienerhof2/grafiken/familie1.htm 136 D. PORCEDDA, La visita imperiale di Leopoldo I a Gorizia nel 1660, in «Memorie Storiche Forogiuliesi», vol. LXXVI, (anno MCMXCVI), pp. 89-113.

59 passato alla linea di sangue più prossima. Le femmine di casa Porcia restarono escluse dalla qualifica di principesse137. Insieme al decreto di nomina principesca, Giovanni Ferdinando Porcia acquisì anche il diritto di battere moneta138, nonché tutta una serie di diritti e privilegi, segni inequivocabili di distinzione sociale139. Come è già stato sottolineato, il consolidamento del potere personale e di una famiglia si veicolava anche attraverso gli appoggi interpersonali. Una delle reti socio- economiche più autorevoli era infatti quella del matrimonio che si presentava più sotto le spoglie di un contratto finanziario che non di un sacro vincolo. Giovanni Ferdinando Porcia convolò a nozze tre volte. Il primo matrimonio venne contratto con Anna Elisabetta von Auersperg, figlia del conte Andrea, nel 1629. Dal fitto scambio epistolare tenuto con lo zio paterno, Carlo Porcia, si evince che l’unione matrimoniale aveva lo scopo di risollevare le condizioni economiche del casato Porcia che, evidentemente, risultavano alquanto preoccupanti. Sosteneva il Porcia che «sarà fattica sollevare il stato di casa nostra […] ma poiche conosco il stato di casa più che bisognoso d’assistenza, […] per bene di tutti son rissolto di applicarmi»140. Le trattative con il suocero per concludere i patti dotali erano già in corso da mesi. Il Porcia si riteneva fiducioso e sperava nella magnanimità dell’Auersperg:

«subito hebbi occasione di abboccarmi con il signor Vicidomo, et discorsi su ogni particolare. Et quanto alla dote, dice così, che il signor d’Auersperg ha dichiarato seco, di volersi mostrare da Prencipe, et che mentre io pretenderò cose ragionevoli, che egli procurerà di darmi ogni sodisfattione. Et perché mi assicura il signor Vicidomo, che io haverò più avantaggio, che non si crede, perché alla dama molte cose si vengono per raggione, et non li possono esser tenute. Si ha messo ordine, di venir a concludere questi patti dotali, et far le promesse, alla fine di Carnevale. Et per far tutto una spesa ha consigliato il signor Vicidomo che a quel tempo, soto forma delle promesse, s’invittino li parenti, et che con quella occasione segua il sponsalitio, a che il signor d’Auersperg si ha finalmente contentato altramente haveva animo di

137 «Haben Uns Ursach, hund Anlass gegeben Ihme aus selbst aigener bewegens in dem Reichs fürstenstandt, mit allen der Zugehörigen Praerogativen, sambt seiner Khünffige Eheliches, Männliches Leibs Erbes zuerheben, dergestalt dass allezeit der Primogenitus, dem fürstlich Stands, hund Namben führen, da Er uber Ihme Männliche Leibs Erbe hinterliesse, als dan aus seiner Geschlechte, hund zwar der jenige, welchen Er zu jenige Erbe aufnemben, oder in Ermanglung der Institution dem Rechtmesiger Erb, aus den Graffen von Portia geschlecht sein wird und dessen Eltister Sohn, hund also forth und forth, den Primogenitus in dem Fürstenstand succediren. Die anderen erbe in dem Graffen Standt verbleiben sollen, wie solchen der Khayserliche Fürstenbrief mit mehreren exprimiren wird» KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32F, decreto 17 febbraio 1662. 138 Ivi, k. 10, f. 32G, decreto 17 febbraio 1662. 139 T. MAYER, Gli splendori dei Porcia, cit., pp. 107-113. 140 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32 H, lettera 18 giugno 1629.

60 far cose grandi, ma io mi son lasciato intendere, che quello s’haverebbe consumato in un paro di noze fuori di proposito»141.

Dalle missive inviate a Carlo Porcia si apprende che il matrimonio ebbe luogo di lì a poco e gli sposi vissero – almeno per qualche tempo – nella casa a Lubiana, intestata loro dal conte Auersperg142. In seconde nozze, il Porcia sposò Maria Katharina von Althann. La giovane era figlia del conte Michael Adolf von Althann che si era distinto come comandante militare e diplomatico alla corte dell’imperatore Ferdinando II. La von Althann divenne dama di corte dell’imperatrice Maria Anna. Sposò il Porcia nel 1642 ma morì poco dopo aver dato alla luce il loro primo figlio, Johann Karl143. Nel suo testamento, datato 8 febbraio 1643, designò il marito come erede universale144. In terze nozze, il Porcia sposò Benigna Beatrix Kavka z Rican145 ma morì poco dopo il matrimonio (17 febbraio 1665) e trovò sepoltura nella Schottenkrypta di Vienna, chiesa dislocata nel cuore della capitale austriaca. Dalle lettere personali dell’imperatore si evince il profondo cordoglio che colpì la casa imperiale per la scomparsa del favorito. Lo stesso Leopoldo I confessò la necessità di portare il lutto per quella morte così tragica ed insostituibile. Ciononostante, qualche giorno più tardi si avvertì un certo fermento a corte. Erano soprattutto i Geheime Räte a dimostrarsi inquieti: Johann Weikhard von Auersperg, sbarazzatosi del suo acerrimo antagonista a corte, sperò finalmente di accedere alla carica di Obersthofmeister, incarico che non riuscì mai ad espletare in quanto era già stato nominato primo ministro di due Asburgo, l’imperatore Ferdinando III e il Re dei Romani Ferdinando IV, scomparsi prematuramente. D’altra parte c’era poi Wenzel Eusebius von Lobkowitz che

141 Ivi, lettera 4 gennaio 1629. 142 Ibidem. 143 Neues preussisches Adels-Lexicon oder genealogische und diplomatische Nachrichten von den in der preussischen Monarchie ansässigen oder zu derselben in Beziehung stehenden fürstlichen, gräflichen, freiherrlichen und adeligen Häusern, mit der Angabe ihrer Abstammung, ihres Besitzthums, ihres Wappens und der aus ihnen hervorgegangenen Civil-und Militärpersonen, Helden, Gelehrten und Künstler, bearbeitet von einem Vereine von Gelehrten und Freunden der vaterländischen Geschichte unter dem Vorstande des Freihernn L.v. Zedlitz-Neukirch, Erstes Band A-D, Leipzig, Gebrüder Beichenbach, 1836, pp. 99 segg. 144 KLA, Familienarchiv Portia, k. 11, f. 32Q, 8 febbraio 1643. 145 Figlia di Johann Kavka (circa 1570-1645) e di Beatrix Popel v. Lobkowitz (1569-1625), provenne da una famiglia boemo-morava. I suoi genitori si convertirono al cattolicesimo nel 1601, dopodiché andarono in pellegrinaggio a Loreto. Beatrix Kavka z Rican, dopo un lungo servizio a corte, accompagnò nel 1636 l’incoronazione della regina a Regensburg. http://www.univie.ac.at/Geschichte/wien erhof/wienerhof2/hofdamen/hf4.htm

61 negli anni del valimiento Porcia aveva preferito farsi da parte per non restare coinvolto negli intrighi di corte. Adesso invece sembrava ben disposto a proporsi per qualche incarico di un certo peso. Dopo breve riflessione, Leopoldo I sospese il lutto e designò il Lobkowitz come nuovo Obersthofmeister146. Prima di morire, Giovanni Ferdinando Porcia redasse un testamento nel quale designò il primogenito, Johann Karl, come suo erede universale147 lasciandogli un patrimonio stimato, per difetto, attorno al milione di fiorini. L’eredità da gestire era cospicua, non solo per l’entità dei beni ma anche per le difficoltà in cui incorse la famiglia: a soli due anni dalla morte del Principe Giovanni Ferdinando, anche il figlio Johann Karl si spense lasciando un figlioletto di quattro anni, Franz Anton. Gli interessi di famiglia vennero pertanto curati dalla vedova nonché madre del piccolo, la nobildonna Anna Helena von Lamberg, che fu tutrice di Franz Anton fino al compimento della maggiore età. Ma oltre alla complessità dell’amministrazione patrimoniale, i successori del principe Giovanni Ferdinando dovettero cogliere l’eredità più ardua: una prestigiosa continuità del casato in un ambiente sociale, quello della corte viennese, più ostile che familiare, dove si dimenticavano in fretta i fasti, e si additavano facilmente gli errori. Dopo un secolo di investimenti personali ed economici iniziati con perspicacia dal conte Ermes, la famiglia si trovava elevata allo stato principesco tra i più illustri casati del Sacro Romano Impero. Ma poteva bastare il solo titolo di principe per mantenere alto il nome della famiglia?

1.3 I Della Torre Valsassina.

I Della Torre Valsassina sono anche noti come Signori di Duino, poiché vissero nel castello eretto nell’omonima località carsica poco distante da Trieste. Oggi Duino rimane una splendida meta turistica, nonché punto di partenza di un sentiero che porta il

146 H. KÖRBL, Die Hofkammer und ihr ungetreuer Präsident. Eine Finanzbehörde zur Zeit Leopolds I, Wien, Böhlau Verlag, 2009, pp. 151-152. 147 KLA, Familienarchiv Portia, k. 11, f. 32P.

62 nome del poeta Rainer Maria Rilke. Il letterato austriaco visse infatti al castello in un breve periodo a partire dal 1912 in cui scrisse le Elegie Duinesi148. In un’epoca ben più remota alle composizioni poetiche del Rilke, a Duino si affacciarono i primi Della Torre le cui origini erano lombarde. La famiglia detenne infatti la Signoria di Milano tra il 1240 e il 1277, e successivamente tra il 1302 e il 1311, anno in cui vennero deposti dai Visconti. I primi Della Torre, detti anche Torriani, giunsero in Friuli al seguito di Raimondo Della Torre, patriarca dal 1273 al 1299; Raimondo detenne il primato di essere il primo patriarca aquileiese italiano dopo una lunga serie di metropoliti stranieri149. La famiglia diede in seguito i natali a tre successori di Raimondo, ossia i vescovi Gastone, Pagano e Lodovico Della Torre150. Già dall’epoca medievale il fortunato e prolifico casato si differenziò in varie linee che non restarono radicate nel solo Friuli ma conobbero un’espansione in tutto il territorio asburgico. Uno dei contributi che Silvano Cavazza ha dedicato alla storia della famiglia sottolinea proprio l’ampia diffusione che i Della Torre promossero all’interno dell’impero: la loro propagazione sarebbe infatti testimoniata dalle molteplici versioni con cui il cognome – Della Torre – venne tradotto ed impiegato dagli stessi signori. Della Torre, von Thurn, z Thurnu, ossia rispettivamente la lingua italiana, e le trasposizioni in tedesco e ceco riflessero l’allargamento della famiglia nell’Europa centrale151. Secondo lo studio ottocentesco di Rodolfo Pichler, i Della Torre Valsassina discesero da Alemanno (o Ermanno) che, figlio di Pagano II e fratello del patriarca d’Aquileia Raimondo, giunse per primo in Friuli dando origine alla stirpe152. Le fortune della famiglia furono però successive e si consolidarono solo a partire dalla metà del Cinquecento, quando i fratelli Francesco e Febo Della Torre vennero nominati Baroni del Sacro Romano Impero, con decreto imperiale del 7 agosto 1554153. I due fratelli erano figli di Giovanni Febo, sposatosi in seconde nozze con Orsina

148 R.M. RILKE, Elegie duinesi, Milano, Feltrinelli, 2006. 149 S. CAVAZZA, I Della Torre di Santa Croce, in Divus Maximilianus, cit., p. 226. 150 Il castello di Duino. Memorie di Rodolfo Pichler, Cameriere d’onore di S.S.I.R. Consigliere Scolastico e Direttore del Ginnasio Superiore di Trento. Membro di varie Accademie scientifiche e letterarie, Trento, Stabilimento Tipografico di Giovanni Scissi, 1882, pp. 18 segg. 151 CAVAZZA, I Della Torre di Santa Croce, p. 226. Nonostante una così significativa espansione, la documentazione archivistica più interessante è quella relativa al ramo dei Della Torre di Valsassina, custodita presso l’Archivio di Stato di Trieste, e base fondamentale di ricerca per il presente lavoro. 152 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 308. 153 D. PORCEDDA, I Della Torre di Valsassina, in Gorizia barocca, cit., p. 219 segg.

63 d’Orzone. Febo intraprese la carriera ecclesiastica, mentre Francesco fu Consigliere di Reggenza dell’Austria Interna dal 1550 al 1556; scaduto il mandato, venne inviato a Venezia come ambasciatore nel 1557 e due anni più tardi fu incaricato di una delicata missione presso la curia romana dove si stava riunendo il conclave per l’elezione del nuovo papa, in seguito al decesso di Paolo IV. L’ambasciatore straordinario ebbe cioè il compito di suggerire ai cardinali un nome favorevole alla politica asburgica154. Francesco Della Torre sposò Laura D’Arco con la quale visse a Venezia. Dal loro matrimonio nacque nel 1556 a Vienna un unico figlio, Raimondo155, che però crebbe a Venezia insieme alla famiglia. Undici anni più tardi Francesco Della Torre e la consorte morirono a pochi mesi di distanza, lasciando il loro erede alle cure del cugino duinese Mattia Hofer. Secondo Rodolfo Pichler, l’infanzia del Torriano non fu segnata da una brillante formazione scolastica, in parte a causa del primo precettore – un certo Teobaldo Theobaldus – in parte per l’indifferenza dell’Hofer verso il giovane cugino. Più obbiettiva invece è la posizione di Antonio Conzato, il quale attribuisce la vacillante istruzione di Raimondo Della Torre in parte all’indolenza del fanciullo e in parte alla noncuranza dell’Hofer156. La carriera di Raimondo Della Torre iniziò nel 1571, quando Mattia Hofer lo presentò all’Arciduca Carlo II, sebbene l’incontro non suscitò alcuna impressione da parte dell’Asburgo. Due anni più tardi però ci fu l’occasione del riscatto sociale poiché l’Hofer venne invitato al matrimonio di Carlo II con l’Arciduchessa Anna di Baviera ma non vi poté presenziare. Per questo motivo inviò in sua rappresentanza il cugino Della Torre. Da quel momento Raimondo beneficiò di vari uffici che gli consentirono la frequentazione della corte di Graz: nel 1577 accompagnò il feretro di Massimiliano II da Praga a Vienna, nel 1590 assistette Carlo II al suo capezzale, mentre qualche tempo prima aveva fatto da padrino ad una delle figlie del sovrano dell’Innerösterreich. Fu però a partire dagli anni Novanta che ottenne gli incarichi di maggior rilievo, con la nomina ad ambasciatore imperiale a Venezia (1592). L’incarico gli venne assegnato per trattare con la Serenissima la delicata questione dei pirati uscocchi che disturbavano i

154 Ivi, p. 222. 155 La biografia di Raimondo della Torre è stata accuratamente esaminata da G. BENZONI, Della Torre Raimondo, in Dizionario Biografico degli Italiani (d’ora in poi DBI), vol 37, Roma, 1989, pp. 660-666. 156 PICHLER, Il castello di Duino, cit., pp. 347-348; CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 163-164. Sui rapporti tesi tra Raimondo Della Torre e Mattia Hofer si veda anche PORCEDDA, I Della Torre di Valsassina, cit., pp. 222-223.

64 commerci veneziani nell’Adriatico. Questo fu uno dei nodi nel rapporto politico austro- veneto di inizio Seicento che sfociò poi nella Guerra di Gradisca (1615-1617). Sei anni più tardi venne nuovamente incaricato di un’ambasciata per conto degli Asburgo che lo inviarono alla corte pontificia a perorare la causa imperiale chiedendo un supporto finanziario: serviva infatti denaro per sostenere la guerra contro i turchi scoppiata nel 1593157. Negli anni Ottanta Raimondo intrecciò alla corte di Graz delle relazioni sentimentali sconvenienti, cosicché l’Hofer lo richiamò a Duino. Qui si legò a Ludovica, figlia di Mattia, e la chiese in moglie. Il Capitano di Duino negò inizialmente il consenso ma dovette ben presto rivedere la sua posizione. Nello stesso torno d’anni infatti, l’altra figlia dell’Hofer, Chiara Orsa, stava trattando un accordo matrimoniale con Germanico Savorgnan, figlio di Marcantonio. Il nobiluomo, noto per la sua indole violenta, era stato condannato dalla giustizia veneziana al bando a causa di un omicidio commesso ai danni di un suo famigliare158. Alla fine gli accordi nuziali saltarono a causa di una controversa clausola sulla controdote, ma il giovane Savorgnan non dovette prenderla bene tanto che mise a ferro e fuoco alcuni villaggi di pertinenza del castello di Duino. Intervenne l’Arciduca Carlo II e fece da paciere: pose una grossa taglia sulla testa del Savorgnan e indusse l’Hofer a dividere l’eredità tra le due figlie, rimettendo così in gioco anche la quota spettante a Lodovica. D’un tratto, innanzi alle brutalità del Savorgnan, una eventuale successione di Raimondo Della Torre non era più così aborrita159. L’Hofer diede il consenso alle nozze tra Lodovica ed il Torriano che, grazie alla quota di eredità della moglie, ottenne il castello e la Signoria di Duino, nonché la nomina a Capitano di Duino (26 aprile 1587). Dal momento della stipula dell’atto il casato prese il nome di Della Torre – Hofer - Valsassina160, consolidando un già solido

157 Il castello di Duino, cit., p. 349; CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 167-168. 158 Chiara Orsa era stata inizialmente promessa sposa a Germanico di Marcantonio Savorgnan Del Monte che, anche a causa dei suoi guai giudiziari nello stato veneziano, venne allontanato da Duino e perse così l’occasione di impalmare la figlia dell’Hofer. I fatti vogliono che Ascanio Savorgnan del Monte, figlio di Girolamo e fratello di Marcantonio, fosse convolato a nozze contro la volontà della famiglia con Bianca Giustinian dalla quale ebbe un figlio, Girolamo. Forse per questioni di eredità o, piuttosto, per le difficoltà famigliari ad accettare il matrimonio Savorgnan-Giustiniani, il nipote Germanico uccise brutalmente Ascanio. Il Consiglio dei Dieci bandì l’assassino con bando perpetuo, mise sulla sua testa una taglia di 3000 ducati e confiscò tutti i suoi beni che furono devoluti all’orfano Girolamo. L. CASELLA, I Savorgnan. La famiglia e le opportunità del potere, Roma, Bulzoni Editore, 2003, pp. 159-160. 159 PICHLER, Il castello di Duino, pp. 357-359. 160 Ivi, p. 359.

65 legame parentale161. Dall’unione con Lodovica Hofer nacquero quattro figli (Francesco Febo, Giovanni Filippo, Raimondo e Giovanni Mattia) ma le nozze non ressero a lungo a causa della precoce dipartita della giovane consorte. Nello stesso periodo rimase vedova anche Chiara Orsa, andata in sposa al Barone Leonardo von Harrach. Rimasta sola e senza eredi, la Hofer si avvicinò al cognato Torriano con il quale convolò a nozze. Anche questa volta l’Hofer si diceva contrariato dalla situazione ma la figlia non intese ragioni, scappò di casa e si rifugiò a Vipulzano nel 1580 da dove inviò al pontefice una richiesta di «dispensa dall’impedimento di consanguineità»162. Mattia Hofer accusò il genero di avergli sequestrato la figlia e contemporaneamente escluse Chiara dall’eredità, lasciandole solo la legittima. I due cognati riuscirono comunque a sposarsi ma solo nel 1612. Anche questa volta, per Raimondo Della Torre il matrimonio assumeva un significato assai prezioso in quanto si assicurò anche l’altra metà dell’eredità Hofer, incamerando quarantotto villaggi del Carso, incluse le comunità di Ranziano, e le ville di Castagnavizza, Raunizza e Novella163. Se una vasta giurisdizione era simbolo di prestigio e potere, allo stesso tempo era anche un grosso onere da gestire. Dal 1604, Raimondo Della Torre aveva infatti ottenuto ulteriori prerogative nell’amministrazione di Cormons. Tali competenze giurisdizionali gravarono in particolar modo sulla nobiltà locale che non accettava la subordinazione al Torriano. Ne seguirono conflitti intensi e una sanguinosa faida che si protrasse per quasi un ventennio, coinvolgendo persino gli Stati Provinciali goriziani. Intervenne la Reggenza dell’Austria Interna e lo stesso Ferdinando II che nel 1623 prese le parti di Raimondo Della Torre confermandogli i diritti e i privilegi acquisiti sulla comunità di Cormons164. Nel 1623 il Torriano redasse il proprio testamento nel quale spartì il patrimonio tra i figli, lasciando al primogenito la legittima. Dispose inoltre che qualora uno degli eredi

161 Il legame di sangue tra Mattia Hofer e Raimondo Della Torre risaliva alla metà del Cinquecento, ossia quando Giovanni Febo della Torre impalmò Orsina d’Orzone. Come è già stato citato, dal matrimonio nacque Francesco Della Torre, padre di Raimondo. Ma Giovanni Febo si sposò in seconde nozze anche con Paola Savorgnan dalla quale ebbe altri due figli, Lodovico e Chiara. Quest’ultima, ottenuta una cospicua eredità da parte della madre, venne data in sposa a Giovanni Hofer, capitano di Duino, dal cui matrimonio nacque Mattia. PICHLER, Il castello di Duino,cit., p. 356. 162 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 356. 163 PORCEDDA, I Della Torre di Valsassina, cit., p. 224. 164 Ivi, p. 225.

66 fosse morto senza prole, avrebbe dovuto consegnare ai fratelli la propria porzione dei beni di famiglia165. Il primogenito Francesco Febo e Gianmattia vennero mandati in tenera età a Graz per apprendere l’etichetta di corte. Raimondo Della Torre concepiva l’inserimento nella cerchia cortigiana come un investimento per il futuro dei figli, sicché non badò a spese per l’alloggio e il mantenimento dei bambini nella capitale stiriana, confidente che la loro presenza presso gli Arciduchi avrebbe giovato anche al prestigio del casato166. Il Della Torre non sbagliava, infatti Francesco Febo divenne colonnello nell’esercito austriaco, consigliere dell’imperatore Mattia e capitano di Trieste. Raggiunta l’età adulta sposò la nobildonna Polissena di Heisenstein che però morì prematuramente. Il Torriano non fu più in grado di riprendersi dal lutto, gettò gli abiti laicali e si fece sacerdote167. Il fratello Gianmattia, ottenuta in base al testamento paterno la signoria su Cormons, Vipulzano, Ranzano e Prestau, si trasferì in Moravia dove sposò in prime nozze Giovanna Lantieri e in seconde nozze la principessa Massimiliana di Liechtenstein, duchessa di Troppau e Iagerndorf. Ebbe un solo figlio maschio, Carlo Massimiliano che fu consigliere intimo di Leopoldo I, vicecancelliere di Boemia, capitano di Moravia, Obersthofmeister dell’imperatrice Eleonora e insignito del prestigioso Toson d’Oro. Impalmò la contessa Anna de Souches dalla quale ebbe tre figli maschi – Giovan Battista, Francesco e Antonio Maria – che morirono però senza discendenza, e due figlie femmine – Giovanna e Maria Rosalia – unitesi in matrimonio con rampolli della nobiltà austriaca locale168. Un terzo figlio nato dal matrimonio tra Raimondo della Torre e Lodovica Hofer – Raimondino – scelse la carriera ecclesiastica divenendo canonico preposito di Trento e abate mitrato di Peris in Alsazia169. Mentre questi tre figli di Raimondo non assicurarono una discendenza al casato, fu Giovanni Filippo a garantire la continuità della stirpe. Giovanni Filippo Della Torre nacque a Ferrara, quando il padre si trovava nello Stato Pontificio in veste di

165 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 378. 166 CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 168-170. 167 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 374. 168 Ibidem. 169 Ibidem.

67 ambasciatore presso il Santo Padre. Il giovane Torriano fece carriera militare al servizio degli Asburgo raggiungendo il grado di Colonnello durante la Guerra dei Trent’anni. Dopodiché si ritirò nelle sue terre d’origine per occuparsi dell’amministrazione del patrimonio di famiglia. Nel 1635 affrontò la rivolta del contado di Piuca, sommossa sedata anche grazie all’intervento e alla collaborazione del conte Giovanni Ferdinando Porcia170. Sposatosi con la marchesa Eleonora Gonzaga del ramo di Castiglione, il Torriano diede alla luce sette figli maschi, alcuni dei quali onorarono la nomea del casato con un’illustre carriera al servizio degli Asburgo.

1.4 La famiglia Colloredo-Mels.

«Io vissi i miei primi anni nel castello di Fratta, il quale adesso è nulla più d’un mucchio di rovine donde i contadini traggono a lor grado sassi e rottami per le fonde dei gelsi; ma l’era a quei tempi un gran caseggiato con torri e torricelle, un gran ponte levatoio scassinato dalla vecchiaia e i più bei finestroni gotici che si potessero vedere tra il Lèmene e il Tagliamento»171.

Con queste parole Carlino Altoviti, voce narrante de Le confessioni di un italiano, cominciò a descrivere gli ambienti del castello in cui dimorò, Fratta, località nei pressi di Portogruaro che alla fine del Settecento era ancora una piccola podesteria veneziana. In realtà, grandezza e sontuosità dei vani hanno suscitato il sospetto che il racconto fosse ispirato da un altro maniero, molto più grande e noto, come il castello di Colloredo di Montalbano dove Ippolito Nievo, autore del romanzo, trascorse una parte della sua infanzia. Il Nievo era infatti figlio del magistrato mantovano Antonio e di Adele Marin, a sua volta figlia della contessa friulana Ippolita Colloredo e del nobiluomo veneziano Carlo Marin172.

170 Ivi, pp. 376-378. 171 I. NIEVO, Le confessioni di un italiano, a cura di S. Romagnoli, Venezia, Marsilio, 2000, p. 6. 172 E. CHAARANI LESOURD, Ippolito Nievo: uno scrittore politico, Venezia, Marsilio, 2011.

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La rocca friulana apparteneva al casato Colloredo ed era situata su di un’altura non lontana da Udine, vantando originariamente una funzione difensiva. Venne in seguito adibita dai castellani a residenza di famiglia, anche se la storia dei Colloredo non interessò il solo Friuli, bensì concerneva altri territori italiani ed europei. Possedimenti dei Colloredo vennero infatti attestati in Boemia, Stiria, Bassa Austria e Toscana. Così come il patrimonio di famiglia, anche le prestigiose carriere di questi nobili friulani diedero lustro all’intero casato. Fu in particolare un evento a segnare l’esigenza di questi castellani di rivangare le origini e le biografie dei propri membri, dandone una sfumatura tutta europea: il 19 marzo 1588 l’imperatore Rodolfo II titolò infatti i fratelli Lodovico e Lelio Colloredo del ramo di Asquino baroni di Waldsee, ossia discendenti dell’antica stirpe sveva estintasi nel XV secolo. I baroni si avvalsero allora del riconoscimento imperiale per rileggere la storia del proprio casato, attribuendole un’origine tedesca risalente al IV secolo173. Secondo il genealogista ottocentesco, Giovan Battista di Crollalanza, i Colloredo ambirono a dimostrare la loro genesi a partire da Enrico e Liabordo di Waldsee, appartenenti alla nobiltà sveva. A loro volta i Waldsee avrebbero attribuito gli albori del loro casato al mitico Emerico di Marpaco, cavaliere oriundo di Treviri che, intorno al Trecento, avrebbe importato in Occidente parecchie reliquie per volontà dell’imperatrice Elena, madre di Costantino. Da Emerico discese Albano, capostipite dei Waldsee-Mels che edificò nei pressi del lago di Costanza il castello e la chiesa di Mels. La linea di Albano si estinse all’inizio del sedicesimo secolo, non senza aver ottenuto innumerevoli privilegi e possedimenti in Germania. Il ramo collaterale dei Waldsee-Mels, ossia quello di Liabordo, sopravvisse e si trasferì in Friuli principiando il ramo dei Colloredo - Mels. Lo spostamento dalla Germania al Friuli si spiegava con la ricompensa che il Patriarca d’Aquileia Popone conferì alla famiglia del Liabordo per il fedele servizio prestato al Patriarcato. Il riconoscimento consisteva nell’attribuzione del feudo di Mels, posizionato a poche miglia da Udine, e nell’assegnazione a Liabordo e a tutti i suoi discendenti del titolo di visconte. La famiglia ottenne inoltre anche il diritto a sedere nel

173 CUSTOZA, Colloredo, cit., p. 39.

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Parlamento friulano, detenendo ripetutamente incarichi rilevanti come Deputati e membri del Consiglio Segreto del Patriarca174. Agli inizi del Duecento, uno dei discendenti di Liabordo – Duringo II- ebbe cinque figli maschi. Mentre due di questi – Variendo e Mattiusso – non ebbero discendenza, gli altri tre poterono vantare una prole numerosa al punto da principiare tre nuove linee: Enrico diede origine ai Mels Albana, Anzuto ai Mels di Prodolone e Glizoio ai Mels Colloredo. Guglielmo, primogenito di Glizoio, ottenne dal Patriarca nel 1303 l’autorizzazione ad erigere il castello di Colloredo e l’adiacente chiesa dei Santi Andrea e Mattia. Non essendo riuscito a completare l’opera, addossò ai quattro figli maschi (Mattiusso, Asquino, Vicardo e Bernardo) la responsabilità dell’edificazione. I quattro eredi non vissero insieme nella giurisdizione di Colloredo ma si divisero creando tre ulteriori nuove linee. Asquino si trasferì in Boemia e la sua linea si estinse nel sedicesimo secolo. I discendenti di Vicardo si divisero in due rami, ossia i Colloredo Marchesi di Santa Sofia, residenti in Toscana, e i Principi Colloredo – Mannsfeld. I figli di Bernardo rimasero invece a Colloredo, anche se nel corso del diciottesimo secolo si verificò una divisione dei beni tra i successori di Bernardo che in parte si trasferirono a Mantova e in parte emigrarono in Austria175. Tra tutti i Colloredo, è proprio la linea austriaca di Bernardo a costituire un interessante argomento di analisi, al fine di verificare la capacità e le chances che i feudatari friulani seppero sfruttare nell’inserimento socio- politico viennese. Fino alla metà del Cinquecento i discendenti di Bernardo rimasero in Friuli al servizio dello Stato patriarcale prima e, dal 1420, della Repubblica di Venezia. Dalla metà del sedicesimo secolo, furono i figli di Curzio di Giambattista a tentare la svolta entrando al servizio degli Asburgo, anche se alla fine fecero tutti marcia indietro e ritornarono al cospetto di Venezia176.

174 G.B. DI CROLLALANZA, Memorie storico-genealogiche della stirpe Waldsee-Mels e più particolarmente dei Conti di Colloredo con documenti, Pisa, presso la direzione del Giornale Araldico, 1875, pp. 6-7; CUSTOZA, Colloredo, cit., p. 51 segg. 175 Mattiusso non ebbe prole. CROLLALANZA, Memorie storico-genealogiche, cit., pp. 22 segg. 176 Anche il fratello di Curzio Colloredo, ossia Marzio Colloredo di Giambattista, era entrato al servizio dell’imperatore Massimiliano. Intraprese la carriera militare e divenne tenente colonnello nello Stato di Milano. L’apice della carriera venne raggiunta con l’incarico di Governatore di Siena, esercitato fino all’anno della morte (1591). Per approfondimenti sulla figura di Giambattista Colloredo si veda CONZATO, Dai castelli alle corti, cit., pp. 122-131.

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Il primogenito Orazio Colloredo, vissuto tra il 1568 e il 1648, nacque a Gorizzo. Compì la sua formazione diplomatica al servizio del Cardinale Cinzio Aldobrandini e una volta ultimata ritornò nella patria friulana dove prese in moglie Lucia Porcia, figlia del conte Ermes del colonnello di sotto. La nobildonna gli portò in dote una parte del possedimento di Fratta. Dal matrimonio nacquero almeno sei figli maschi, di cui tre compirono una rilevante carriera. Il primogenito, Giambattista, nacque nel 1609 a Colloredo. Studiò a Bologna per poi entrare nell’esercito di Ferdinando II. Nel 1634 divenne Sergente Maggiore nel reggimento di Rodolfo Colloredo, del ramo di Asquino, quindi fu nominato Colonnello della Guardia dell’Arciduca Leopoldo. Nel 1648, mentre Venezia era in guerra contro i turchi per la difesa di Candia, Giambattista si fece arruolare nell’esercito della Serenissima con il titolo di Generale dello Sbarco, mentre il 6 maggio 1649 ottenne a Candia il grado di Comandante Generale delle Armi. Morì solo qualche mese più tardi177. Camillo nacque nel 1612 e venne ricordato per il titolo di Cavaliere di Malta. Fu al servizio degli Estensi a Ferrara, quindi venne inviato a Roma e in Francia come ambasciatore imperiale. Fu infine nominato Maestro di Camera presso la Corte di Toscana. Morì nel 1685178. Il terzo fratello, Erme s, nacque nel 1622 a Colloredo. Compì la sua formazione letteraria in Toscana e poi servì in qualità di paggio alla corte granducale. Nel 1644 divenne gentiluomo di Camera del Granduca. Dopo un fugace reclutamento volontario tra le fila dell’esercito veneziano, si ritirò a vita privata in Friuli dedicandosi soprattutto alla poesia. Sposò la Contessa Giulia Savorgnan dalla quale non ebbe figli. Morì nel 1692179. Le biografie appena citate, costituirono i primi approcci dei Colloredo - Mels alle corti asburgiche. Se le loro fatiche non furono coronate da una radicale affermazione del casato in territorio imperiale, fu piuttosto la generazione successiva che non si accontentò più di un servizio sporadico agli Asburgo ma cercò di rendere imperituro il sodalizio con la casa d’Austria.

177 CROLLALANZA, Memorie storico-genealogiche, cit., pp. 190-193. 178 Ivi, p. 193. 179 G. BENZONI, Colloredo Ermes, in DBI, vol. 27, Roma, 1982, pp. 72-78.

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Capitolo 2: Le carriere.

2.1: Hannibal Alfons Emanuel, Fürst von Portia.

Il principe Giovanni Ferdinando di Giovanni Sforza Porcia assicurò la discendenza al proprio casato grazie al matrimonio con Maria Katharina von Althann che gli diede un figlio maschio, Johann Karl. Questi sopravvisse al padre solo per due anni, morendo prematuramente nel 1667. Johann Karl Porcia sposò la contessa Anna Helena von Lamberg, figlia del conte Johann Maximilian, signore di Ortenegg e Ottenstein1 e di Judith Rebecca Eleonore, contessa von Wrbna2. Prima delle nozze, il Porcia siglò un accordo con la famiglia della sposa che contemplava la cessione di seimila fiorini renani di dote al principe carinziano, e l’assicurazione di una controdote per la contessa von Lamberg pari a tremila fiorini renani3. Dal matrimonio nacque nel 1663 un figlio maschio, Franz Anton, che rimase orfano di padre a soli quattro anni. Tuttavia, prima di morire, Johann Karl

1 Johann Maximilian von Lamberg visse tra il 1608 ed il 1682. Dopo essersi laureato in diritto all’università di Vienna ed aver compiuto un tour formativo attraverso Italia, Spagna e Francia, entrò al servizio dell’imperatore Ferdinando II come cameriere. Nel 1634 ottenne il comando delle truppe imperiali durante la Guerra dei Trent’anni. Ferdinando III lo nominò membro del Consiglio Aulico con specifiche competenze nel campo feudale e in materia di privilegi concessi dalla casa asburgica. Il Lamberg accompagnò Ferdinando III all’incoronazione imperiale a Regensburg nel 1637. Vent’anni più tardi fu designato per l’ambasciata a Madrid dove operò al fine di neutralizzare eventuali pretese di Luigi XIV sul trono spagnolo, in seguito al matrimonio del sovrano francese con l’Infanta di Spagna Maria Teresa. Allo stesso tempo cooperò con altri rappresentanti imperiali alfine di consolidare la linea asburgica spagnola, attraverso le nozze tra il Kaiser Leopoldo I e una figlia di Filippo IV, l’Infanta Margherita Teresa. Terminata la missione madrilena, il Lamberg tornò a Vienna dove venne nominato primo Cameriere di Leopoldo I. In questo ruolo, accompagnò l’imperatore in Tirolo nel 1665 per l’omaggio di fedeltà degli Stati locali alla Casa d’Austria. Successivamente prese parte all’organizzazione e alla celebrazione del matrimonio di Leopoldo I con Margherita Teresa (5 dicembre 1666). Negli stessi anni, ampliò i propri possedimenti: oltre al fidecommesso su Amerang (Baviera), Stockern (Bassa Austria), Kitzbühel (Tirolo), Moll (Alta Austria) e le comunità di Raming e Ternberg (presso Linz), ottenne da Leopoldo I l’investitura della signoria austriaca di Steyr. Nel 1705 la carriera del Lamberg raggiunse l’apice con la nomina a Obersthofmeister, Geheim Staats und Konferenzminister, Oberst- Erblandhofmeister nell’Alta Austria. Maximilian Graf von Lamberg, in Grosses vollständiges Universallexicon aller Wissenschaften und Künste, a cura di J.H. Zedler, Band 16, Leipzig 1737, pp. 284- 286. 2 BASTL, Tugend, Liebe, Ehre, cit., p. 129. 3 KLA, Familienarchiv Porcia, k. 11, f. 34H, contratto nuziale del 23 aprile 1661.

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Porcia redasse un testamento, nel quale designava il figlioletto come erede universale, non appena avesse raggiunto la maggiore età. Durante l’infanzia venne inoltre affiancato da un tutore identificato nella persona della madre, Anna Helena von Lamberg. La parte più interessante del testamento rimaneva il terzo punto, cioè il paragrafo in cui il Principe stabiliva la normativa successoria, qualora il proprio primogenito non fosse stato in grado di garantire la discendenza maschile. In questo caso il titolo principesco e tutto il patrimonio di casa Porcia sarebbe passato alla linea di sangue più vicina che, allora, dimorava nella originaria comunità friulana. Il principe Johann Karl precisò inoltre che, in caso di estinzione di questo ulteriore ramo, l’eredità sarebbe stata trasmessa alla linea femminile4. Della carriera di Franz Anton Porcia non si conoscono molti dettagli, se non il conferimento del titolo di Geheim Rat5, Consigliere Intimo, nel 1696. Sposò Maria Antonia Josepha von Zinzendorf, figlia di Albrecht von Zinzendorf e Pottendorf6. Dal loro patto nuziale, firmato il 17 aprile 1667, si evince che la dote ammontava a seimila fiorini renani, mentre la controdote fu fissata a tremila fiorini renani7. Le nozze non furono coronate dalla nascita di un erede, cosicché il principe Franz Anton dovette contrattare la successione con la linea di sangue più vicina: i lontani cugini purliliensi, successori di Ferdinando Guidone Porcia. Nel redigere le ultime volontà, il terzo principe Porcia designò dunque come erede universale il conte Geronimo8 di Porcia che, a causa dell’età avanzata, rinunciò al titolo principesco in favore del suo primogenito, Annibale Alfonso Emanuele. Questi divenne pertanto il beneficiario di tutte le fortune di famiglia: dal titolo principesco all’amministrazione delle proprietà carinziane,

4 «»Ivi, k. 11, f. 34H, testamento del 27 aprile 1667. 5 Ivi, k. 12, f. 35B, 8 settembre 1696. 6 Albrecht VII von Zinzendorf und Pottendorf nacque a Karlsbach il 24 agosto 1619. Fu Obersthofmeister, Cavaliere del Toson d’Oro, Geheim Rat. Sposò Maria Antonia contessa Khevenhüller. Ludwig und Karl Grafen und Herren von Zinzendorf: ihre selbstbiographien nebst einer kurzen Geschichte des Hauses Zinzendorf: mit zwei Porträts und zwölf Stamm –Tafeln, a cura di Gaston Grafen von Pettenegg, Wien, Wilhelm – Brautmüller, 1879, pp. 4; 21-23;41. 7 KLA, Familienarchiv Portia, k. 12, f. 35G, patto nuziale 17 aprile 1667. 8 La rinuncia del conte Geronimo Porcia a favore del figlio Annibale Alfonso Emanuele venne formalizzata solo in seguito alla morte del principe Franz Anton. Ivi, k. 12, f. 36G, atto notarile con data Wien, 3 settembre 1698.

73 slovene e friulane, compreso persino il consistente monte di debiti che il casato stava accumulando9. I primi documenti sul ramo friulano dei Porcia, conservati presso il Kärntner Landesarchiv, risalgono all’agosto del 1659, in occasione di un carteggio famigliare tra discendenti di Alfonso di Alfonso Porcia (?-1621), ossia il figlio Massimiliano (?-1679) ed un nipote, Girolamo Ascanio di Ferdinando Guido Porcia10. Mentre il secondo dimorò stabilmente nella comunità friulana di Porcia, il primo si trovava al servizio del principe elettore di Baviera, Ferdinando Maria di Wittelsbach (1636-1679). I due parenti Porcia intrattennero un’assidua corrispondenza informandosi a vicenda sulla situazione famigliare e sulle condizioni di salute dei rispettivi congiunti. In particolare, in quell’estate di metà Seicento, il conte Girolamo si sfogò con lo zio Massimiliano Porcia descrivendogli lo stato della sua famiglia: «li miei figliuoli Maschij sono deboli, et poco naturale [sic?], il maggiore secco sempre come un Crocifisso, il minore stropiato in un piede, et con una fistola nell’occhio, et di poca complessione eziandio. Le figliole sane come un pesce, all’ordinario, che le Donne sempre hanno più ventura et l’anima à traverso, come si suol dire. Faccia però Iddio quello vuole, ch’io sono rimesso»11. In realtà, la progenie purliliense venne assicurata proprio dall’unione matrimoniale tra il conte Girolamo di Ferdinando Guido Porcia e la contessa Dorotea Valmarana che gli diede almeno una dozzina di figli. Il loro primogenito fu il conte Annibale Alfonso Porcia della cui infanzia non si hanno notizie. Il primo documento

9 Il seguente documento è la descrizione di un estratto del testamento di Franz Anton Porcia che designò come erede universale il conte Girolamo Ascanio Porcia. Alla morte di quest’ultimo, tutti i beni mobili e immobili, il patrimonio attivo e quello passivo di casa Porcia sarebbero stati trasmessi al conte Annibale Alfonso di Girolamo Ascanio Porcia: «Beschliesslichen. Die Erb Einsizung eines Jeden lezten Willens grund [?] ist, als Benenne, und ordne hiemit vor meinen Majorats – Sucessorem auf die graffschafft Spittall und Ortenburg, die häuser zu Klagenfurth, und Laybach / titl/ Herrn Hyeronimo Grafen von Portia, dann nach seinen Todt in ermelten Majoratu, wie auch sonsten in meinen Allodial Vermögen zu meinen Universal Erben meinen Lieben Vettern /titl/ Herrn Hannibal grafen von Portia, Graff dieser Erb Einsezung nun derselben sich mit gueten Fug Rechtens anmassen könne, solle, und möge, sonderlich der Wir von Rechts wegen gebührenden Legitima, und Trebellianica aus dem von meinen hl: Vattern Weyl. Herrn Johann Carl Fürsten von Portia seel: aufgerichten Fideicommisso, Majoratu so ich hiemit auf die Herrschaffen Prem, und Senosetsch, daß haus zu Wien, und auf das übrige Majorat in soweit die ersten hierzu nicht Erklecten möchten, Hypotecario Jure ausweissen, dan alles allodial – Vermögens, so über die schulden Legata, Clag, und Conducts = unkosten übrig Verbleiben möchte, es mag um dasselbe einen Nahmen haben, wie es wolle, unter seinen gewalt bringen möge, […] Ivi, k. 12, f. 35 G, 10 aprile 1698. Nello stesso testamento, al punto 5, il principe Franz Anton assicurava alla moglie un vitalizio pari a millecinquecento fiorini renani che la vedova avrebbe ricevuto annualmente fino alla morte. Ibidem. 10 I conti Massimiliano e Ferdinando Guido Porcia erano fratelli, ossia entrambi figli del conte Alfonso di Alfonso Porcia. Girolamo Ascanio era il figlio primogenito di Ferdinando Guido Porcia. 11 KLA, Familienarchiv Porcia, K. 13, F.40B, lettera inviata da Venezia, 20 agosto 1659.

74 archivistico che lo riguarda risale al 31 luglio 1693, quando ottenne l’attestato di laurea in diritto e filosofia, presso l’università di Ingolstadt12. Gli studi furono portati a termine con somma lode, prospettando così i migliori auspici per una futura amministrazione del casato. Alla morte del principe Franz Anton di Johann Karl Porcia, il conte Annibale Alfonso venne nominato principe13 (1698). Da quel momento, il Porcia si assunse la responsabilità della famiglia e, da vero principe carinziano, cominciò a firmare tutti i documenti con la traduzione tedesca del proprio nome: Hannibal Alfons Emanuel, Fürst von Portia. Ottenne il primo incarico il 14 marzo 1703 con la nomina a Erblandhofmeister nella contea di Gorizia. Come dimostra il decreto di nomina, l’incarico era molto probabilmente solo un titolo onorifico senza una specifica mansione. Tuttavia, tale mandato assicurò al principe l’onore di una prebenda14. Un anno più tardi, il 18 agosto 1704, Annibal Alphons Porcia ottenne l’incarico di ambasciatore straordinario in Russia al fine di proporre allo zar Pietro il Grande (1672- 1725) l’ipotesi di un’alleanza militare con l’impero austriaco durante la Grande Guerra del Nord (1701-1721)15. Il conflitto si era acceso all’inizio del Settecento, con lo schieramento svedese (alleato a cosacchi e turchi) da una parte e la Russia dall’altra (insieme al regno di Danimarca-Norvegia, la Polonia-Sassonia, la Prussia e l’Hannover). La contesa nacque per il controllo del Mar Baltico che, dalla metà del XVII secolo, gravava nell’orbita d’influenza svedese, disturbando le mire espansionistiche russe. Nel 1697 salì al trono di Svezia il giovane Carlo XII (1682- 1718) che la politica internazionale reputava troppo debole ed inesperto per regnare. Per

12 Ivi, K. 15, f. 42 A1. 13 Ivi, f. 42 A2 (3 settembre 1698) 14 «Demnach Wür auf hiebey ligende Unterthst. anlagen und bitten Hanibalis Alphonsi fürsten von Portia das in dem Fürst Portjschen Majorat de Dato 17 febbraio 1662 mit inferierte und von Ihme supplicierenden fürsten lauth Vergleichs de dato 28 July 1698 ordentlich cedirte Obrist Erbland Hoffmeister Ambt in Unserer Gefürsten Graffschaft Görz. Sambt denen davon dependieren prarogativen recht und emolumenten lauthe Unseres Unterem 3 Settembris berührten 1698 Jahres Euch hinein intimirten Diplomatis gdt. Confirmirt. Als ist Unser gdt. Befehl hiemit an Euch, das Ihr Ihme Suplicirenden Fürsten hiernach gebührendt Verschreiben und das erreichthere allgehörigen orthen dahin Verfügen sollet. Damit derselbe bey dieser Unserer gdst. Confirma Erst Vorermeltes seines Obristen Erblandt Hoffmeister Ambts in Unserer gefürsten Graffschaft Görz [?] geschuzt und manuteniert werde deme Ihr dan und [?]» Ivi, k. 15, f. 42 A3, 14 marzo 1703. 15 Österreichisches Staatsarchiv (d’ora in poi OeSta), Allgemeines Verwaltungsarchiv, Finanz- und Hofkammerarchiv (d’ora in poi AVA), Familienarchiv Harrach, FA Familie 811.27.

75 lo zar Pietro era questo il momento più opportuno per tentare di sottrarre il Mar Baltico al controllo svedese. Nonostante le aspettative dello zar russo, la guerra cominciò con una vittoria del «re fanciullo» che piegò l’esercito nemico a Nava (1700), costringendo la Danimarca alla resa. Il Romanov allora ripiegò in patria dove avviò la riforma dell’esercito e, contemporaneamente, cercò di assicurarsi l’alleanza di altre potenze europee per far fronte all’avanzata di Carlo XII in Polonia e Sassonia. Nonostante un iniziale interesse da parte europea, la Grande Guerra del Nord rimase un evento bellico circoscritto all’Europa settentrionale, poiché negli stessi anni gli sforzi militari del vecchio continente guardavano alla penisola iberica, dove nel 1702 si era aperta la guerra di successione spagnola16. Fatta eccezione per la sonora sconfitta di Poltava (27 settembre 1709) in cui l’esercito svedese riportò gravissime perdite tentando invano di assediare l’omonima cittadina ucraina17, Pietro il Grande non riuscì a virare a suo favore le sorti del lungo conflitto almeno fino al 1718, anno del decesso sul campo di battaglia di Carlo XII. In seguito alla scomparsa del monarca svedese, le parti in causa cominciarono a trattare la pace. Il trattato di Nystad, firmato da Russia e Svezia nel 1721, assicurò al Romanov vari ampliamenti territoriali18, cedendo in cambio una parte della Finlandia e un risarcimento in denaro. In tutta questa vicenda, il ruolo del Porcia sarebbe stato di estrema importanza se l’Austria non avesse deciso di sottrarsi all’alleanza con la Russia ancora prima di sottoscriverla. Il governo di Vienna infatti non reputò conveniente stringere un accordo con lo zar, rischiando di inimicarsi la Svezia, in un’epoca in cui gli sforzi militari e finanziari asburgici erano diretti a scardinare le pretese francesi sul trono spagnolo. Il Porcia non partì più, dunque, per Mosca. Ciononostante, in quello stesso anno (1704) gli venne offerta una grande occasione professionale, ossia l’acquisto dell’ufficio di Generale della fortezza croata di Karlstadt che il conte Franz Karl von Auersperg19 liquidava per 40.000 fiorini. Il Porcia non ebbe esitazioni ed accettò subito l’affare, anche perché l’incarico gli avrebbe fruttato un vitalizio di 3.500 fiorini all’anno. Pagò

16 L. HUGHES, Pietro Il Grande, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, pp. 78-83. 17 Ivi, pp. 104-108. 18 Pietro il Grande ottenne una parte dell’Ingria, l’Estonia, la Livonia e parte della Carelia. Ivi, pp. 197- 201. 19 Franz Karl von Auersperg (1660-1713) era figlio di Johann Weikhard von Auersperg, l’acerrimo nemico del principe Giovanni Ferdinando Porcia alla corte di Vienna alla metà del Seicento. SIENELL, Die geheime Konferenz, cit., pp. 87-91.

76 immediatamente in contanti 20.000 fiorini mentre promise di saldare in un secondo momento il resto della somma (altri 20.000 fiorini), riscattando un equivalente ammontare di debiti che l’Auersperg aveva contratto20. Il 2 maggio 1705 l’imperatore Giuseppe I (1678-1711) ufficializzò la nomina del Porcia21, mentre il 30 maggio dello stesso anno il Kaiser consegnò al principe carinziano il fascicolo di istruzioni che regolavano il mandato presso la fortezza croata. Dalla prescrizione imperiale si evince come il compito fondamentale del Colonnello di Karlstadt fosse un’attenta sorveglianza del territorio, al fine di evitare possibili attacchi nemici: «wachten gegen oder vor dem feindt, nach anderst wohin, was möglichen zuthuen ist, hund die Notturff erfordert, bey Tag und Nacht, mit abschlagen wöllet». Secondo le istruzioni imperiali, l’identità di questi temibili assaltatori sarebbe appartenuta ai turchi – nemici giurati della Cristianità: «in diser unfridtzeitein zu vordrist gegen den allgemeinen Erz und Erbfeindt des christlichen Namens und Glaubens […] welcher massen der Erbfeindt Christlich Nambens und glaubens der Türck, unserer Erbkönigreich, fürstenthumb hund Lande […] So solle derowesen Er fürst von Portia, als ein getreuer diener herwidernemben Tag und Nacht gedenkhen: hund betrachten, wie Er hier einen dem jenigen, so Er seiner Pflicht nach, huns hund dem geliebten Vatterlandt auch in gemein, der ganzen Christenheit zu guetten»22. Il fascicolo di istruzioni assicurava inoltre al Porcia anche degli aiutanti e degli agi che gli avrebbero facilitato la permanenza in Croazia: il principe cioè ricevette un contributo mensile di 851 fiorini e 20 Kreuzen al mese, ai quali si aggiungevano 200 fiorini mensili per le necessità personali («sein Leib») a cui, infine, si sommava il diritto su tutte le rendite della giurisdizione sottoposta a Karlstadt23. In cambio, il servizio richiesto non era certo dei più semplici. La fortezza di Karlstadt (in croato Karlovac) è attualmente una cittadina della Croazia centrale, situata a circa cinquantaquattro chilometri a sud-ovest di Zagabria. In età moderna rappresentò il baluardo più importante di un vasto distretto militare che l’Austria dispiegò per proteggere il proprio impero dai frequenti scontri con gli ottomani. L’intero presidio bellico portava il nome di Militärgrenze, cioè frontiera militare, ed era costituito da

20 KLA, Familienarchiv Porcia, k.15, f. 42A5, 24 gennaio 1705. 21 Ibidem, 30 maggio 1705. 22 Ibidem. 23 Ibidem.

77 numerose piccole circoscrizioni militari dislocate nel Regno di Croazia. Quest’ultimo, comprendente le attuali Croazia e Slovenia, faceva parte della corona d’Ungheria con cui costituiva un’unione personale di più territori che rientravano nei confini del Sacro Romano Impero. Benché ci fosse unità politica, il regno di Ungheria era tormentato da frequenti tensioni etniche e da ribellioni: non di rado infatti i Militärgrenze furono impiegati dalla corte di Vienna per sedare le agitazioni dei sudditi ungheresi24. Non esiste una data fondatrice dei presidi militari, ciononostante è possibile risalire all’epoca in cui si rese necessario un rafforzamento della frontiera. Nel 1521 i turchi conquistarono Belgrado, roccaforte antiottomana situata nella parte meridionale del Regno d’Ungheria. Per il governo di Vienna suonò un campanello d’allarme non sottovalutabile. L’Arciduca Ferdinando, fratello di Carlo V nonché duca d’Austria, si assunse la responsabilità di fortificare la regione croata per non rischiare gravi perdite. Di conseguenza vennero costruiti case, villaggi e torri di vedetta abitati da soldati che, trasferitisi con le proprie famiglie da luoghi di confine, diedero un grosso contributo all’edificazione dei presidi e alla salvaguardia del territorio. Molte famiglie erano in realtà emigrate dai Balcani già a partire dalla metà del XV secolo, in seguito all’avanzata turca nell’Europa orientale. Un primo insediamento militare venne localizzato nel 1535 in una cittadina completamente distrutta, Sichelburg, circa a venti miglia a ovest di Agram. Due anni più tardi venne infeudata ad un altro consistente gruppo di fuggiaschi la comunità di Zengg (Segna), mentre nel 1538 Ferdinando d’Asburgo (1503-1564), ormai Re dei Romani, insediò un numeroso gruppo di coloni nei pressi di Varaždin, cittadina ottantasei chilometri a nord di Zagabria. Sempre nel 1538, l’insieme dei presidi venne suddiviso in base a una ripartizione geografica per cui i distretti dislocati attorno a Varaždin furono nominati Slawonische Grenze, mentre quelli più a meridione facevano parte della Kroatische Grenze. Ciascun raggruppamento, dipendente dal Consiglio di Guerra (Hofkriegsrat) di Vienna, doveva provvedere alla propria preparazione ed efficienza, nonché ai rifornimenti bellici25. Alla morte di Ferdinando I d’Asburgo (1564), la direzione dei Militärgrenze passò al sovrano dell’Innerösterreich Carlo II (1540-1590) che investì il Consiglio di Guerra stiriano dell’amministrazione delle frontiere militari. In occasione della Dieta Generale

24 WINKELBAUER, Ständefreiheit und Fürstenmacht, Teil 1, cit., pp. 428-429. 25 F. VANÍČEK, Specialgeschichte der Militärgrenze aus Originalquellen und Quellenwerken geschöpft, Wien, aus der Kaiserlich-Königlichen Hof-und Staatsdruckerei, 1875, I. Band, pp. 25-35.

78 degli Stati dell’Innerösterreich, presieduta dallo stesso Carlo II a Bruck an der Mur nel 1578, vennero discusse alcune migliorie da apportare ai presidi croati. La decisione più importante si dimostrò la costruzione di una fortezza al centro della Kroatische Grenze che portò il nome del sovrano asburgico: la piazzaforte si chiamò infatti Karlstadt e divenne il centro di raccordo di tutte le iniziative imperiali concernenti le Militärgrenze. A sostegno delle Kroatische e Slawonische Grenze venne inoltre fondato un nuovo insieme di distretti meridionali, nominati Meergrenze con base militare a Karlobag sulla costa dalmata26. Uno dei temi di discussione emersi alla Dieta Generale di Bruck an der Mur, riguardò la distribuzione dei finanziamenti ai presidi militari. Fino a quel momento, infatti, non esistevano delle disposizioni che regolamentavano il sostegno economico da parte degli Stati dell’Innerösterreich ma è certo che sia la Stiria, a partire dal 1522, sia Carinzia e Carniola, dal 1536, avevano sempre garantito degli aiuti in denaro. Con la Dieta del 1578, il Consiglio di Guerra di Graz dispose che la Stiria finanziasse la frontiera slovena, mentre Carinzia e Carniola quella croata. Le contribuzioni erano devolute all’edilizia all’interno dei presidi, all’acquisto di rifornimenti militari, al vitto e alloggio dei soldati, al finanziamento delle truppe; una specifica voce fissava inoltre una rata destinata al mantenimento del Consiglio di Guerra di Graz. L’ammontare dei contributi venne attestato a 548.000 fiorini annui, anche se quasi mai si raggiunse il versamento dell’intera cifra. Gli Stati dell’Innerösterreich si erano spartiti l’onere dell’esborso in modo che la Stiria investisse la maggior parte della cifra27. Tale gravame consentiva per contro al Land stiriano di far valere la propria voce nell’amministrazione dei presidi e, di conseguenza, anche a Karlstadt. Molteplici furono i conflitti di competenza portati innanzi al Consiglio di Guerra di Graz, o a Consigli straordinari creati appositamente per correggere situazioni transitorie di emergenza coinvolgenti gli Stati dell’Innerösterreich da una parte e gli ufficiali delle circoscrizioni militari dall’altra. Anche i rapporti tra Hannibal Alphons Porcia e gli Stati furono offuscati da soventi malumori, causati in parte dall’atteggiamento irriverente del

26 Ibidem. 27 Il pagamento totale venne garantito solo nel periodo della guerra dei tredici anni contro la Turchia (1593-1606). Il versamento era spartito tra Stiria, Carinzia e Carniola che corrispondevano rispettivamente il 56,2% (Stiria), il 26,6 (Carinzia), il 17,2% (Carniola). WINKELBAUER, Ständefreiheit und Fürstenmacht, cit., p. 432.

79 principe. Il Porcia, appena acquistato l’incarico e assicuratosi il vitalizio annuo, si insediò a Karlstadt scambiando, come si vedrà, la fortezza per una Signoria ed impartendo ordini che spettavano ad organismi militari superiori, come lo stesso Consiglio di Guerra di Graz. Gli Stati, turbati dalla condotta principesca, inoltrarono una mozione a Graz dove si avviarono i lavori di una Commissione al fine di punire e smorzare la tracotanza del Porcia. In realtà dalla Commissione non sembrano essere emersi dei provvedimenti disciplinari speciali a sfavore del Generale di Karlstadt, tuttavia l’ufficio cominciò a subire un ridimensionamento delle competenze che sino ad allora aveva conservato28. Una delle azioni che maggiormente screditò le competenze militari del Porcia fu un documento, detto «Carlstattische Patent», che il Generale diffuse il 15 dicembre 1705: in questo atto, incorniciato da tutti i titoli onorifici del principe carinziano, si rendevano note alcune disposizioni destinate ai soldati e alle famiglie dimoranti nella circoscrizione militare di Karlstadt: le reclute furono cioè incaricate di lavori agricoli straordinari, consistenti nella coltivazione delle terre e nella piantagione di vigneti che appagavano i gusti culinari del principe29. Inoltre il Generale issò presso la fortezza di Karlstadt una «Teutsche Fähndl», ossia una bandiera tedesca, che onorava i 266 soldati di lingua teutonica al servizio del principe Porcia30. Con lo scorrere dei mesi, l’atteggiamento del Generale si rese sempre più opinabile. Nel corso del 1706 ci furono dei dissapori con il Capitano di Zengg (Segna), conte Antonio Coronini, accusato dal principe Porcia di aver permesso la diserzione da Karlstadt di alcuni soldati e punito quindi con una multa di cento ducati31. Molto probabilmente il Consiglio di Guerra di Graz sottovalutò la questione in quanto i soldati

28 A parziale discolpa del Porcia, è bene sottolineare che già dai primi anni del Settecento si mossero una serie di riforme amministrative delle Militärgrenze che cambiarono interamente la gestione della compagine militare. Uno dei più significativi interventi si rivelò il passaggio della direzione delle frontiere croate dall’Hofkriegsrat di Graz a quello centrale di Vienna, smorzando così anche l’autorità che gli Stati dell’Innerösterreich avevano esercitato sin dai tempi del sovrano Carlo II d’Asburgo. La riforma militare fece parte di quel più vasto e lento meccanismo di centralizzazione del potere che sfociò nelle riforme teresiane a partire dagli anni Quaranta del Settecento G. E. ROTHENBERG, Die österreichische Militärgrenze in Kroatien. 1522 bis 1881, Wien-München, Verlag Herold, 1970, p. 67 e segg. 29 KLA, Familienarchiv Porcia, k. 15, f. 42A5, 15 dicembre 1705. 30 Franz Türk, autore di una breve biografia del principe Porcia, sobillò l’ipotesi che questo corpo armato (per la maggior parte composto da uomini originari della contea di Ortenburg) altro non fosse che una guardia del corpo voluta dal Generale. Supposizione non del tutto sconfessabile in quanto, allo stato attuale della ricerca, non è stato trovato un documento che chiarisca i compiti di questi soldati. F. TÜRK, Fürst Hannibal Alphons Porcia, in «Carinthia I», 1955, Band 145, p. 701. 31 KLA, Familienarchiv Porcia, k. 15, f. 42A5, Karlstadt, 18 agosto 1706.

80 furono incarcerati e non vennero ascoltate le proteste del conte Coronini. Tuttavia, un anno più tardi, uno dei soldati, un certo moschettiere Motzi, scrisse una lettera al Consiglio di Guerra di Graz in cui implorò la grazia per non aver commesso il fatto. A sua discolpa, il Motzi adduceva l’enorme esperienza militare che aveva maturato partecipando a ben diciotto campagne militari e il senso di responsabilità sempre mantenuto nell’esercizio della professione32. Più che una supplica, la missiva del Motzi apparve come un sapiente confronto tra la concreta pratica militare di un semplice moschettiere contro l’inetta presunzione di un Generale. Dieci giorni più tardi, il Consiglio di Guerra di Graz inviò un documento al Principe Porcia invitandolo ad organizzare per sé un paio di mesi di vacanza presso la contea di Ortenburg dove avrebbe potuto curare la febbre e rigenerarsi33. I documenti archivistici purtroppo non chiariscono se la piressia del principe fosse reale o semplicemente un pretesto del Consiglio stiriano per allontanarlo dalla fortezza. Certo è che alla fine del luglio 1707, l’Hofkriegsrat di Graz spedì una lettera al Motzi condonandogli qualsiasi pena inflitta perché innocente34. La vicenda si concluse così, senza altri strascichi. Nel 1709 il Porcia decise di alienare il Generalato al conte goriziano Giuseppe Rabatta. L’accordo tra i due nobili prevedeva un contratto di vendita ammontante a 40.000 fiorini, la stessa cifra sborsata cinque anni prima dal Porcia per assicurarsi il mandato. Nell’atto non vi è alcun rinvio alle motivazioni che spingevano il principe Hannibal Alphons alla resa35 ma è probabile che le sue frivole stravaganze avessero contribuito all’avvelenamento di molti rapporti intrecciati in quegli anni. È altrettanto vero che il contesto politico e militare in cui operò il Porcia non era affatto semplice, soprattutto per un aristocratico laureato in diritto e filosofia con scarsa preparazione sul campo bellico. Assumersi l’incarico di Generale della fortezza di Karlstadt significava addossarsi molte responsabilità che richiedevano accortezza e celerità d’azione nelle situazioni più disparate. Le Militärgrenzen erano infatti località tormentate da continue violenze tra popoli di confine: le aggressioni tra sudditi imperiali e sudditi ottomani non

32 Ivi, Karlstadt, 16 luglio 1707. 33 Ivi, Graz, 26 luglio 1707. 34 Ivi, Graz, 29 luglio 1707. 35 Ivi, Karlstadt, 30 giugno 1709.

81 venivano mai meno, sebbene lo stato di guerra non fosse permanente36. Le emergenze non scattavano però solo tra comunità appartenenti a stati diversi, ma anche all’interno dello stesso regno d’Ungheria-Croazia dove non mancavano tensioni etniche e rivendicazioni contro il potere centrale. Alla fine del Seicento infatti, erano giunti nelle Meergrenze nuovi coloni che si installarono complicando i rapporti con la comunità preesistente. Nello stesso periodo (1692), la Camera Aulica di Vienna (Hofkriegsrat) decise di vendere al conte Adolf von Sinzendorf i possedimenti di Lika e Krbava (Croazia centrale) per 80.000 fiorini renani. Il nobile li amministrò per un breve periodo ma, trovandosi in difficoltà finanziarie, li rivendette al governo centrale nel 1695. Nel 1701 la Camera Aulica di Vienna stabilì che Krbava sarebbe divenuta un distretto militare sottoposto al Consiglio di Guerra di Graz, mentre Lika doveva essere amministrata civilmente dal governo dell’Innerösterreich. Inoltre, fu ordinato il trasferimento di tutti i soldati da Lika a Krbava. I coscritti rifiutarono di rispettare il comando e istigarono un lungo stato di rivolta nel quale persero la vita anche due ufficiali di Graz. La calma tornò definitivamente solo nel 1712, quando tutto il distretto (Lika-Krbava) fu sottoposto all’autorità del Generalato di Karlstadt37. Gli attriti presenti nel territorio furono provocati anche dai croati che mal sopportavano la presenza dei presidi militari e dei sistematici arrivi di coloni. Non a caso, a partire dagli anni Ottanta del Seicento, le autorità croate avevano fatto pressioni sulla corte viennese affinché l’imperatore Leopoldo I sciogliesse il distretto militare di Varaždin per riconsegnarlo alla popolazione croata. Nel 1687 il Kaiser, in occasione di una seduta al Parlamento di Bratislava, assicurò il dissolvimento di Varaždin e l’assegnazione del territorio ai sudditi croati. In realtà la popolazione dovette attendere il 1695 per veder nominata una commissione imperiale che si occupasse dei lavori di smantellamento del presidio. Di fatto, non se ne parlò più: lo scoppio della Guerra di Successione Spagnola all’inizio del Settecento obbligò l’imperatore a mantenere coesa e immutata la compagine della Militärgrenze, per far fronte all’importante urgenza bellica. Il nodo di Varaždin tornò alla ribalta qualche anno più tardi (1704) con la rivolta antiasburgica dell’Ungheria, ordita dal principe Franz Rákócksi che venne sostenuto

36 Nel periodo in cui Hannibal Alphons Porcia fu Generale non vi furono guerre tra Austria e Impero ottomano. ROTHENBERG, Die österreichische Militärgrenze, cit., p. 76 e segg. 37 Ivi, pp. 78-82.

82 dalla Francia. Mentre la sollevazione ungherese si protrasse fino al 1711, i sudditi croati restarono fedeli a Vienna, sperando di poter avanzare successivamente delle pretese in merito alla restituzione di Varaždin. In realtà, tutti gli imperatori asburgici avvicendatisi al trono imperiale in quel torno d’anni (Leopoldo I 1658-1705, Giuseppe I 1705 – 1711, e Carlo VI 1711 - 1740) si ripromisero di affrontare la questione del presidio croato settentrionale ma senza giungere mai ad una risoluzione definitiva: Varaždin rimase ai Militärgrenze38. L’attenzione dell’Austria nei primi anni del Settecento non fu infatti tanto focalizzata sui presidi militari croati, quanto sull’evolversi delle tensioni internazionali dovute alla scomparsa del sovrano spagnolo (1700). Re Carlo II (1661-1700) era infatti morto senza prole ma designando come erede universale Filippo d’Angiò, il nipote del re di Francia Luigi XIV (1638-1715). Tale successione avrebbe comportato un avvicinamento tra Parigi e Madrid con uno sbilanciamento del potere a favore della Francia e soprattutto il pericolo di unione delle due corone. Le altre potenze europee, benché attratte dalla possibilità di rivendicare diritti sul trono madrileno, aborrirono l’avanzata del Re Sole in nome di un maggior equilibrio politico internazionale. Sulla base di queste riflessioni, venne stretta all’Aia la Grande Alleanza, che vide nascere la coalizione tra Inghilterra, Olanda e Prussia in funzione antifrancese. Immediatamente cominciarono anche le prime operazioni belliche con l’invasione dei Paesi Bassi ad opera dell’esercito di Luigi XIV mentre, quasi contemporaneamente, il comandante supremo dell’esercito austriaco – Principe Eugenio di Savoia (1663-1736) – avviò la campagna militare in Italia riportando due vittorie (Carpi e Chiari, 1701)39. Il teatro di guerra per la successione spagnola fu molto complesso e mise in gioco svariati interessi europei che non si esaurirono solo nel passaggio della corona ispanica da un Asburgo, a un Borbone, ma sfociarono in una serie di contrasti e lotte sia per l’egemonia politica sul vecchio continente, sia sulle colonie americane. In questo lungo e articolato conflitto (terminato nel 1713-1714 con le paci di Utrecht e Rastatt) per il predominio internazionale, il principe Hannibal Alphons – in qualità di Generale della fortezza di Karlstadt – non risultò certamente uno dei protagonisti. Non tanto per mancanza di disciplina, quanto perché gli interventi della Militärgrenze furono

38 Ivi, pp. 82-83. 39 F. HERRE, Eugenio di Savoia. Il condottiero, lo statista, l’uomo, Milano, Garzanti, 2005, pp. 83-93.

83 ridotti al minimo dal potere centrale. Una prima azione militare venne organizzata agli inizi del 1702, quando il Principe Eugenio di Savoia, uscito vittorioso dalla battaglia di Chiari, progettò la discesa delle truppe verso Napoli. In caso di attacco, il comandante avrebbe preteso il supporto di molti contingenti austriaci, tra cui anche quello di Karlstadt. Tuttavia la città partenopea era saldamente nelle mani degli spagnoli, tanto che Inghilterra ed Olanda dissuasero il Savoia da un intervento troppo periglioso ed azzardato. Come conseguenza, il contingente croato non si mosse dal presidio di Karlstadt40. La seconda occasione di intervento militare si presentò nel 1706, quando venne ventilata l’ipotesi di un attacco francese alla costa orientale adriatica: Trieste, Fiume, Buccari erano le città più minacciate. Se in quell’anno le truppe di Luigi XIV riportarono due importanti sconfitte (la prima a Ramillies nel maggio del 1706 e la successiva a Torino nel settembre dello stesso anno) ad opera degli eserciti alleati, è pur vero che il Re Sole continuava a finanziare la rivolta ungherese del Rákóczi nella parte orientale del Sacro Romano Impero. Il timore di uno sbarco francese nell’Alto Adriatico e quindi la chiusura della Militärgrenze nella morsa nemica, spinse gli ufficiali dislocati nei presidi croati ad una acuta sorveglianza del territorio41. Il Porcia preparò un contingente composto da 500 cavalieri e 800 fanti da inviare verso Trieste e Fiume. Tuttavia, mentre i soldati si accingevano a partire, giunse il contrordine di sospendere la missione. Con ogni probabilità la notizia dell’intimidazione francese era del tutto infondata42 e anche questa volta l’operazione del Porcia venne scongiurata dagli eventi. In base a tutti gli elementi trattati, la sensazione provata innanzi al primo incarico del Porcia non è certo delle più positive. L’atteggiamento altezzoso, nonché l’assenza di qualunque significativa operazione militare, inducono giudizi critici sull’operato del Generale di Karlstadt. In parte è stato evidenziato come la difficoltà dell’incarico possa

40 PROBSZT, Die Porcia, cit., p. 168. 41 Con ogni probabilità, la situazione richiese frequenti contatti fra gli ufficiali dei presidi per poter agire con rapidità in caso di attacco nemico. Nel fondo Porcia di Klagenfurt c’è però solo una lettera risalente a quell’anno. La missiva, inviata dal capitano di Segna – conte Coronini – al Porcia, rivela lo stato di profondo allarme del periodo: «Barcha capitata da Venettia riferisce, che da 7000 francesi fossero già in camino verso Padova, anzi che al tempo della di lui partenza da Venettia fossero stati distanti da detta Citta di Padova solo tre lege; e però figurandomi che voglino intraprender l’meditato loro disegno verso l’Friuli, sono ad insinuarmi al All. V. se in caso detti Cotarani fossero slogati ho da se stessi o con la Forza, io dovessi con quelle barche armate che havro incaminarmi per Mare verso le parti di detto Friuli, a fine di procurar per haver la pratica di quei Canali, d’impedir l’avanzarsi de Nemici». KLA, Familienarchiv Porcia, k. 16, f. 42D, Fiume, 1 marzo 1706. 42 PROBSZT, Die Porcia, cit., p. 168.

84 aver messo in difficoltà il nobile, il quale tuttavia doveva semplicemente essersi adattato ad una situazione generale. Dagli studi di Gunther Rothenberg si evince infatti un’innegabile propensione della nobiltà carinziana ad assicurarsi un posto da ufficiale in qualche presidio della Militärgrenze per motivi principalmente economici. Tale costume derivava in parte dal sostegno finanziario che gli Stati carinziani garantivano annualmente ai presidi croati: in sostanza l’assemblea degli Stände sovvenzionava le circoscrizioni ma in cambio premeva affinché propri candidati ottenessero l’incarico. Accadeva spesso, come nel caso del Porcia, che l’ufficio fosse colto da personale inesperto ma bisognoso di denaro: in questo modo, i nobili carinziani ottenevano un emolumento senza spendersi con scrupolo nell’esercizio della professione militare. Inoltre la Militärgrenze era distante dalle autorità centrali e verteva in una condizione di caos amministrativo per cui sia il Consiglio di Guerra di Graz, sia gli imperatori, raramente accettavano l’onere di porre mano ai presidi per attuare delle riforme efficaci e necessarie. I nobili pertanto regnavano indisturbati e «wurde di Grenze zum Tummelplatz des beschäftigungslosen Adels Innerösterreich», e la frontiera croata divenne il covo della nobiltà disoccupata dell’Austria Interna43. Dopo l’esperienza alla fortezza di Karlstadt, il principe Porcia ottenne la nomina a Geheim Rat a Graz, presso la corte arciducale44. Tuttavia dovette attendere tre anni prima di assicurarsi un incarico di un certo prestigio, come il mandato a Governatore della Carinzia (Landeshauptmann). Nel 1716, in seguito alla morte del predecessore conte von Göess, l’imperatore Carlo VI gli conferì infatti la nomina: «durch Absterben des Herren Graffens von Göess vacant worden Lands Hauptmannschaft in Kärnthen allergnädigst verlyhen»45. Le origini di questo incarico affondano nella seconda metà del Duecento (4 dicembre 1268), quando il re Ottocaro II di Boemia investì il cugino Ulrico III Spannheimer del titolo di “capitanei terrae”. Con tale nomina, il duca di Carinzia veniva incaricato di rappresentare e amministrare politicamente e militarmente la provincia in assenza

43 Questo costume si conservò almeno sino al 1729 quando Carlo VI cominciò un piano di riforme della Militärgrenze, ROTHENBERG, Die österreichische Militärgrenze, cit., p. 87. 44 KLA, Familienarchiv Portia, k. 15, f. 42A6, Laxenburg, 20 maggio 1713. 45 Ivi, f. 42A7, Laxenburg, 16 maggio 1716.

85 dell’autorità regale boema. L’ufficio prevedeva l’esercizio del potere giudiziario, la presidenza alle assemblee degli Stati, la tutela e sicurezza del territorio46. A partire dal 1335, il Landeshauptmann venne affiancato da uno o più luogotenenti (detti Stellvertreter, Pfleger o Verweser) che facevano le veci del Governatore quando questi era assente o impossibilitato nell’esercizio dell’incarico47. In seguito all’estinzione dei duchi di Carinzia della schiatta Spanheimer (1279), successe alla guida del ducato la famiglia Meinhardiner. Questi, signori di Gorizia, risedettero in Tirolo, e considerarono la Carinzia solo come un’appendice di un più vasto potere. Nel 1500, l’ultimo conte della dinastia Meinhardiner, Leonardo, morì senza figli e l’imperatore Massimiliano I (1459-1519) conglobò tutti i suoi possedimenti, dalla contea di Gorizia al Tirolo48. Per i carinziani, il passaggio dall’autorità ducale a quella imperiale significò la riaffermazione della perifericità del Land austriaco rispetto agli interessi del potere centrale. Per questo motivo, gli Stati della Carinzia cercarono di promuovere delle figure governatoriali carismatiche che fossero in grado di far anche valere le esigenze della provincia carinziana49. La nomina del Landeshauptmann spettava all’imperatore che sceglieva il nominativo sulla base di una rosa di candidati elaborata dagli Stati carinziani. L’assemblea degli Stände godeva dunque dell’onere ed anche dell’opportunità di designare aspiranti con competenze adeguate, nonché propensi a soddisfare le esigenze del Land. Nella maggior parte dei casi, invece, l’imperatore eludeva la volontà espressa dagli Stati per favorire candidati congeniali alla casa d’Asburgo50. Tra Seicento e Settecento, le esigenze politiche della casa d’Asburgo ricaddero su due membri Porcia. Nel 1666 l’imperatore Leopoldo I nominò Governatore della

46 W. DEUER, Das Landhaus zu Klagenfurt, Klagenfurt, Verlag des Kärntner Landesarchivs, 1994, pp. 15- 17; E. WEBERNIG, Der Landeshauptmann von Kärnten. Ein historisch-politischer Űberblick, Klagenfurt, Verlag des Kärntner Landesarchivs, 1987, pp. 11-12. Evelyne Webernig sottolinea tuttavia che la prima ed ufficiale nomina a Governatore della Carinzia – registrata e conservata presso il Kärntner Landesarchiv – risale al periodo tra il 27 marzo e l’8 aprile 1270 in cui il conte Ulrich von Heunburg venne designato “Carinthiae Capitaneus”. 47 Il Landeshauptmann non era necessariamente carinziano: molti stiriani furono infatti chiamati a ricoprire questo incarico. Di conseguenza accadeva con una certa frequenza che il Governatore si allontanasse dalla Carinzia e, al suo posto, fosse necessario nominare un luogotenente. Dal 1446 fino alla nomina imperiale di Massimiliano I (1493) non venne più designato nessun luogotenente: si avvicendarono alla carica solo dei Luogotenenti che detenevano poteri speciali in materia militare e di difesa del territorio da possibili attacchi turchi. WEBERNIG, Der Landeshauptmann, cit., pp. 15-16. 48 TREBBI, 1420-1797. La storia politica e sociale, cit., pp. 67 segg. 49 WEBERNIG, Der Landeshauptmann, cit., p. 18. 50 IVI, pp. 26-27.

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Carinzia il principe Johann Karl quondam Giovanni Ferdinando Porcia. Il nobiluomo esercitò l’incarico per un solo anno, in quanto venne colto da morte precoce nel 1667. Tuttavia, il tempo destinato all’esercizio dell’incarico fu ancora più ridotto se si considerano le difficoltà di insediamento del giovane principe. In seguito alla designazione imperiale e al giuramento innanzi a Leopoldo I (1 gennaio 1666), il Porcia si rifiutò infatti di prestare il secondo giuramento davanti agli Stati carinziani, considerandolo un atto di sottomissione non adeguato al proprio rango. L’imperatore ignorò l’incidente – avallando così la scelta del principe e denotando tensioni con gli Stände – e concesse comunque al principe la presa di possesso della carica. Gli Stati mantennero il pugno di ferro, ricorrendo alla corte arciducale di Graz affinché sollecitasse l’imperatore al rispetto del protocollo di insediamento. Le fonti manoscritte dell’archivio famigliare Porcia tacciono la lunga diatriba con gli Stati carinziani, ciononostante – secondo gli studi di Evelyne Webernig – il Porcia, incalzato dall’assemblea cetuale carinziana, si decise a fare giuramento il 29 luglio del 1666, mentre ottenne ufficialmente la nomina il 25 agosto dello stesso anno. La primavera successiva morì, senza aver attuato alcun provvedimento di qualche rilevanza a favore del proprio Land51. I motivi che indussero Leopoldo I ad esporsi così scopertamente a favore del Porcia non sono noti, tuttavia è ipotizzabile che l’imperatore avesse favorito il principe Johann Karl in quanto figlio del suo valido, il principe Giovanni Ferdinando con il quale, come si è visto nel primo capitolo, si era consolidato un rapporto di estrema fiducia e complicità. Se le competenze e l’atteggiamento capriccioso di Johann Karl Porcia lasciarono alquanto a desiderare, ancora più oscuri appaiono i motivi che spinsero l’imperatore Carlo VI a formalizzare nel 1716 la nomina a questo importante ufficio territoriale di Hannibal Alphons Porcia, soprattutto dopo un non inappuntabile ufficio svolto da questi alla fortezza di Karlstadt. Il Porcia aveva inoltrato la richiesta di nomina all’imperatrice Eleonora già nel 1711, tuttavia ricevette il mandato solo cinque anni più tardi. Come Governatore si occupò di un progetto di potenziamento dell’industria bellica carinziana ma il programma –

51 Ivi, p. 30.

87 sostenuto dal fratello del Capitano e Vicedomo della Contea di Ortenburg, Franz Adam von Größing – naufragò immediatamente in un mare di debiti52. Successivamente il Porcia si vide coinvolto in una delicata questione di natura politica e religiosa che lacerava il Sacro Romano Impero da quasi due secoli: la lotta al protestantesimo. Già dalla seconda metà del Cinquecento, l’azione della Controriforma aveva mirato a stanare i protestanti e ad attuare un programma di riconversione al cattolicesimo destinato a tutte le classi sociali dell’impero. Nonostante i tentativi di ricattolicizzazione dello stato, ampie frange della popolazione erano però rimaste ostinatamente evangeliche, professando la religione riformata in modo più o meno segreto. Ancora nel XVIII secolo, estesi focolai luterani erano radicati nei territori meridionali dell’impero e sia le autorità religiose cattoliche, sia quelle politiche si impegnarono in una costante lotta di estirpazione. Questo risoluto e celato fenomeno di adesione alle chiese riformate prese il nome di Geheimprotestantimus (o anche Kryptoprotestantismus). Nell’Innerösterreich, l’azione controriformatoria fu attuata a partire dagli anni Sessanta del Cinquecento, in seguito all’ascesa al trono di Carlo II d’Asburgo (1564). Le più importanti misure prese dal sovrano furono la convocazione dei Gesuiti a Graz e la fondazione di un’università cattolica diretta nella capitale stiriana dalla Compagnia di Gesù. L’Asburgo inoltre fece pressioni sulla Santa Sede affinché gli fossero concessi degli strumenti efficaci nella lotta all’evangelismo. Nel 1580 il papa Gregorio XIII accolse l’appello d’aiuto e istituì una nunziatura apostolica a Graz in cui venne inviato, come primo ambasciatore pontificio, il Monsignor Alessandro Stradella. Nel 1578 si tenne a Bruck an der Mur la Dieta Generale degli Stati dell’Innerösterreich, presieduta da Carlo II d’Asburgo. All’ordine del giorno fu fissata la discussione sulle misure difensive da adottare in caso di attacco militare turco e, fra le richieste sovrane, era preventivata anche un’istanza di aumento del prelievo fiscale per poter sostenere le campagne belliche dello stato. Gli Stände non disdegnarono la richiesta d’appoggio finanziario al monarca, a patto però di veder riconosciuti dei diritti di libero esercizio della professione religiosa protestante, di cui vi era rappresentanza nell’assemblea degli Stati. Carlo II si vide costretto ad acconsentire promulgando il Brucker Libell con il quale sottoscrisse delle concessioni ai luterani in materia religiosa.

52 TÜRK, Fürst Hannibal Alphons, cit., p. 703

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Il patteggiamento con gli Stati non resistette a lungo: un anno più tardi (1579) venne convocata a Monaco una conferenza, indetta dal Principe Elettore di Baviera Guglielmo V il Pio (1548-1626), che invitò il sovrano dell’Innerösterreich insieme al pontefice Gregorio XIII (1502-1585) e all’Arciduca del Tirolo Ferdinando d’Asburgo (1529- 1595), a discutere le modalità con cui combattere il proliferare del protestantesimo. In quell’occasione la conferenza intimò a Carlo II l’adozione di una ferrea applicazione delle norme tridentine e un intransigente atteggiamento nei confronti degli aderenti alle chiese riformate. Nel 1587, l’Asburgo aveva già creato una commissione con l’obbiettivo di attuare un piano di rieducazione cattolica del territorio a partire dalle scuole, fino a coinvolgere i più ampi strati della popolazione, inclusi gli ecclesiastici. Vennero inoltre accesi dei roghi per bruciare i libri protestanti. La direzione politica e religiosa di Carlo II fu vantaggiosa tanto che alla sua morte (1590) l’emergenza luterana sembrava rientrata. Tuttavia, quando Ferdinando II d’Asburgo divenne imperatore (1619), ossia subito dopo lo scoppio della Guerra dei Trent’anni, gli eventi bellici che inizialmente avevano contrapposto la casa imperiale ai protestanti boemi si riverberarono in tutto il Sacro Romano Impero con conseguenti azioni nella politica locale. Così, anche nell’Innerösterreich si assunse il metodo dell’aut aut, per cui ai protestanti venne imposta la conversione al cattolicesimo, ovvero l’emigrazione dai territori asburgici. In realtà la rigida disciplina cattolica di Ferdinando II vacillò nel Land carinziano dove si erano annidati consistenti nuclei luterani: la lontananza dal potere centrale, nonché la scarsa preparazione culturale di un ridotto manipolo di sacerdoti, spesso moralmente corrotti, non riuscirono a dominare la situazione permettendo l’espansione del protestantesimo53.

53 La bibliografia sulla Controriforma e il Kryptoprotestantismus in Austria è sterminata e in costante aggiornamento. Per il presente capitolo sono stati utilizzati i contributi di: W. BRUNNER, Kryptoprotestantismus in der Steiermark und in Kärnten im Zeitalter der Gegenreformation, in Katholische Reform und Gegenreformation in Innerösterreich 1564-1628, a cura di F.M. Dolinar, M. Liebmann, H. Rumpler, L. Tavano, Klagenfurt, Verlag Hermagoras/Mohorjeva, 1994, pp. 249-263; T. WINKELBAUER, Ständefreiheit und Fürstenmacht. Länder und Untertanen des Hauses Habsburg im konfessionellen Zeitalter, Teil II, Wien, Ueberreuter, 2003, pp. 43-63; R PÖRTNER, Die Gegenreformation in der Steiermark (Innerösterreich), in Staatsmacht und Seelenheil. Gegenreformation und Geheimprotestantismus in der Habsburgermonarchie, a cura di R. Leeb, S. C. Pils, T. Winkelbauer, Wien-München, Verlag Oldenburg, 2007, pp. 376-385; R. LEEB, Widerstand und leidender Ungehorsam gegen die katholische Konfessionalisierung in den österreichischen Länder, in Staatsmacht und Seelenheil, cit., pp. 183-201; G. TREBBI, Francesco Barbaro, patrizio veneto e Patriarca d’Aquileia, Udine, Casamassima, Collana di Storia della società friulana, 1984.

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Nel Settecento la Carinzia dovette ancora fare i conti con il Geheimprotestantismus che, seppur senza destare particolare allarme, continuava a sedurre sudditi. Per far fronte alle contingenze, la corte di Vienna impose alle autorità del Land di prestarsi ad un vigile controllo del territorio per rintracciare e debellare la Ketzerei, l’eresia. Il sollecito imperiale era rivolto a tutte le cariche carinziane e quindi soprattutto al Governatore. Dal 1716 pertanto, Hannibal Alphons Porcia venne precettato a scovare i sostenitori del Kryptoprotestantismus che, guidati dai noti luterani della zona Hanns Kofler e Christian Ainether, continuavano a far circolare libri proibiti. Innanzi alla richiesta imperiale, il principe Porcia non sembrò colpito da particolare apprensione, tanto che disonorò l’impegno senza troppi scrupoli: a fronte degli obblighi ufficiali, egli preferì ritirarsi nella rinascimentale residenza di Spittal, dove gli riusciva di condurre una «Leben eines großen Herrn, dem seine Offiziere (Beamten) und Domestiken die täglichen Sorgen abnahmen», una vita da gran signore, sgravata delle fatiche quotidiane, assunte invece dai propri domestici e ufficiali54. La corte di Vienna reagì deputando una commissione di gesuiti con il compito di annichilire i protestanti dall’Alta Carinzia: i commissari della Compagnia di Gesù si rivelarono lo strumento più efficiente, tanto che anche i ricercati Koffler e Ainether vennero acciuffati nel 172355. Nel frattempo molti luterani scelsero la via dell’emigrazione, il cui flusso fu diretto in particolare verso le regioni protestanti della Germania. A partire dagli anni Trenta (1734-1736), l’imperatore Carlo VI (1685-1740) attuò un programma di deportazione verso la Transilvania che colpì tutti i protestanti non ancora convertiti al cattolicesimo. Tale decreto colpì con particolare durezza il tessuto sociale della signoria carinziana di Paternion dalla quale partirono almeno 3.500 abitanti56. Dopo l’ennesima deludente prestazione, il principe Porcia rassegnò le dimissioni da Governatore della Carinzia nel 1724. Successivamente, l’imperatore Carlo VI nominò un luogotenente nella persona del conte Wolf Sigmund von Orsini-Rosenberg, esponente della nobiltà più elitaria della Carinzia57.

54 TÜRK, Fürst Hannibal Alphons, cit., p. 704. 55 WEBERNIG, Der Landeshauptmann, cit., p. 35. 56 S. STEINER, Auf und davon. Die vergessene Massenflucht aus der Herrschaft Paternion (Kärnten) und ihre Spätfolgen, in Staatsmacht und Seelenheil, cit., pp. 202-212. 57 WEBERNIG, Der Landeshauptmann, cit., p. 35.

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Bisognò attendere il 1726 per l’elezione di un nuovo Governatore che ricadde sul conte Sigmund Rudolf von Wagensberg. Tuttavia, è ipotizzabile che il pessimo mandato del Porcia avesse gettato una luce fosca sull’incarico o, perlomeno, lo avesse destituito di prestigio, poiché dopo la nomina dello Wagensberg si rese necessario l’invio di un commissario imperiale che ne controllasse le corrette manovre. Il nuovo Landeshauptmann venne infatti nominato «untern dem Namen und Titul eines landtsfürstlichen Commissarii»58. Prima di ottenere l’incarico a Landeshauptmann, il Principe Porcia aveva cercato altre vie per potersi costruire una carriera di un certo rilievo sociale. Dopo la formale richiesta all’imperatore, il principe carinziano era infatti rimasto in attesa cinque anni prima di ottenere la nomina a Governatore della Carinzia. Si rendeva pertanto necessaria l’individuazione di un ufficio, degno del suo rango, che gli garantisse degli emolumenti adeguati per mantenere un certo livello di vita. Dopo l’insoddisfacente esperienza alla Militärgrenze, il principe Porcia ebbe scarse opportunità di mettersi in buona luce presso la corte di Vienna; inoltre l’apatia che caratterizzava il suo atteggiamento lo rendeva sempre più chiuso nei propri possedimenti carinziani59. Eppure in quel torno d’anni il Porcia cercò effettivamente di farsi strada, non tanto alla corte di Vienna, quanto presso il Principe Elettore di Baviera, Maximilian Emanuel II Wittelsbach (1662-1726). Non si sa quale sia stato l’evento (o il mediatore) che mise in connessione il Porcia con il Wittelsbach, tuttavia è ipotizzabile che il principe carinziano si fosse anche avvalso della parentela di linea paterna per poter accedere alla corte bavarese: il prozio di Hannibal Alphons, Massimiliano di Ferdinando Guido Porcia, era stato infatti al servizio di Ferdinando Maria von Wittelsbach, padre di Maximilian Emanuel. Quest’ultimo nacque nel 1662 a Monaco di Baviera, e prese il potere alla morte del padre nel 1679. Cercò subito un’alleanza con l’impero asburgico, sposando una delle figlie di Leopoldo I, Maria Antonia, dalla quale ebbe tre figli maschi, tutti morti prematuramente60. Supportò militarmente Vienna, assediata dai

58 Il conte von Wagensberg rimase in carica per due anni, dopodiché venne eletto Luogotenente in Stiria. Al suo posto, fu nuovamente il conte Wolf Sigmund von Orsini –Rosenberg ad ottenere la carica di Governatore della Carinzia Ibidem. 59 TÜRK, Fürst Hannibal Alphons, cit., p. 704. 60 Dopo un breve fidanzamento con Leopoldine Eleonore del Palatinato, figlia del Principe Elettore Wilhelm, il Wittelsbach si sposò nel 1695 con la principessa Therese Kunigunde di Polonia, figlia del re

91 turchi nel 1683, e cinque anni più tardi riuscì a strappare Belgrado agli invasori ottomani. La coalizione con gli Asburgo tuttavia non resistette a lungo, in quanto le vicende che comportarono lo scoppio della Guerra di Successione Spagnola indussero la Baviera a ricercare il sostegno francese, voltando così le spalle all’Austria. Carlo II di Spagna aveva inizialmente designato come erede al trono il primogenito del Principe Wittelsbach, Joseph Ferdinand, che però morì in tenera età nel 1699. In seguito al decesso del giovane rampollo, l’Asburgo ispanico nominò erede universale Filippo d’Angiò (1683-1746), nipote di Luigi XIV. L’appoggio bavarese alla Francia era stato offerto in cambio della Luogotenenza dei Paesi Bassi, già di pertinenza del casato bavarese. Le performance militari del Wittelsbach però non onorarono l’alleanza, anzi si rivelarono persino catastrofiche nella battaglia di Höchstädt (1704), a nord-ovest di Monaco di Baviera, dove il contingente franco-bavarese subì la perdita di circa tredicimila soldati61. In seguito a questa umiliante sconfitta, il Wittelsbach fu obbligato all’esilio, mentre le truppe austriache occuparono la Baviera. La popolazione organizzò una rivolta per difendere il proprio territorio ma la sollevazione venne repressa nel sangue nella notte di Natale del 1705 dal generale austriaco Kriechbaum. L’evento prese il nome di «Natale di Morte di Sendling» («Sendlinger Mordweihnacht»). Fu solo con la pace di Rastatt (1714) e la mediazione del vecchio Re Sole che il Wittelsbach poté fare ritorno in Baviera e riottenere nuovamente il titolo di Principe Elettore. Tuttavia la guerra era persa, così come l’opportunità di riconquistare il titolo di Luogotenente dei Paesi Bassi. Lo smalto bavarese aveva perso prestigio62. Fu in questo frangente, alla fine della Guerra di Successione Spagnola, che cominciarono i primi contatti epistolari tra Maximilian Emanuel von Wittelsbach e Hannibal Alphons Porcia. Le poche lettere conservate nel fondo Porcia risultano tutte firmate dal Principe Elettore di Baviera mentre mancano le risposte del destinatario carinziano. Nonostante la corrispondenza sia dunque parziale, è comunque possibile enucleare alcune delle

Giovanni III Sobieski. M. JUNKELMANN, Kurfürst Max Emanuel von Bayern als Feldherr, München, Herbert Utz Verlag, 2000, p. 18 segg. 61 G. TAUSCHE, W. EBERMEIER, Geschichte Landshuts, München, Verlag C.H. Beck, 2003, p.76. 62 H. SCHILLING, Corti e alleanze. La Germania dal 1648 al 1763, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 222-227; 307-310.

92 tematiche di discussione tra l’illustre mittente ed il nobile purliliense. Inoltre, altrettanto chiaramente, risalta la familiarità con cui il principe bavarese si rivolgeva al feudatario. Il Porcia non sembrava però avere una precisa collocazione nelle corti tedesche del Wittelsbach, anzi dalle lettere sembrava fungere da mediatore tra Vienna e Monaco. Nettamente percepibile è invece l’ambizione e il desiderio di riscatto internazionale che il Wittelsbach agognava. Il bavarese stava infatti congetturando con Vienna il matrimonio tra suo figlio, il principe Karl Albrecht, e Maria Josepha (1699-1757), figlia dell’imperatore Giuseppe I: «ich gibe himitt dem Herzen Fürsten von Portia, völligem gewalt, in Meinem Namen, in der Heyrath zwischen der Kaisertöchter Josephina erst geboren Erzherzogin, hund meinem Sohn dem Churprinzen zu Tractieren hund zu fliessen. Zu Volge meiner ihme comunicierten intention, hund der hierüber weites Volgenden instruction»63. La mossa di Massimiliano Emanuele Wittelsbach sottintendeva cioè grandi ambizioni. L’imperatore Giuseppe I era morto nel 1711 senza figli maschi e la corona imperiale era passata al fratello Carlo VI che all’epoca non aveva prole. Carlo VI emanò nel 1713 la Prammatica Sanzione, ossia una legge che introdusse il diritto di successione al trono imperiale al solo primogenito in linea maschile prima, in linea femminile poi. Una clausola della legge precisava inoltre che i diritti imperiali sarebbero stati trasmessi alle figlie femmine di Giuseppe I, qualora il Kaiser Carlo VI fosse morto senza eredi64. Il Wittelsbach dunque aveva intuito quale grande opportunità risiedesse nelle nozze tra suo figlio con una delle eredi di Giuseppe I. Tuttavia, nel 1715 l’imperatrice Elisabetta Cristina (1691-1750) rimase incinta di un maschietto, Leopoldo Giovanni, che però morì nell’anno seguente, poco dopo la nascita. All’epoca del carteggio però, il Principe Elettore di Baviera non poteva sapere come sarebbe terminata la gravidanza, pertanto si ostinò a portare avanti il progetto, anche quando la «grossesse de l’Imperatrice» faceva temere lo sfumare dei suoi piani65. Il Principe Elettore di Baviera non aveva tempo da perdere: nel dicembre 1715 chiese un colloquio con il Porcia in una località bavarese segreta, in modo da poter riflettere pacatamente sul da farsi. Lo stato interessante di Elisabetta Cristina von Braunschweig

63 Ivi, Ninfenburg, 27 settembre 1715. 64 J. BÉRENGER, Storia dell’impero asburgico, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 48. 65 OeSta, Haus, Hof und Staatsarchiv, HA, Porcia, K1, 20 settembre 1715.

93 assottigliava le speranze sull’ascesa al trono viennese, ciononostante il legame con la casa d’Asburgo era saldo grazie ai preparativi delle nozze principesche. Si poteva pertanto sfruttare l’occasione anche per ottenere dell’altro, come ad esempio la luogotenenza nei Paesi Bassi per cui il Wittelsbach chiese al Porcia di «concerter avec Vous tout ce, qui je reste à faire, et des mesures à prendre pour achever notre ouvrage deja si bien encheminé par vos soins et negotiations. Il est d’un coté mieux, ques vous avez eu plus de temps de concerter cette affaire avec nos Partisans, et principalement de sçavoir les intentions del’Imperatrice Amalie, particulierment sur l’article des Pays – Bas, que le regarde à present come l’unique, et principale affaire, la Declaration del’Empereur étant deja doné en faveur du Mariage in quaestion»66. Il Wittelsbach chiese al Porcia rigore e celerità nell’espletamento delle sue funzioni, spiegandogli quanto gli stesse a cuore quell’incarico nei Paesi Bassi. L’occasione era propizia, poiché l’imperatrice si era espressa a favore ma era necessario carpire informazioni sullo stato reale della faccenda. Il Principe Elettore di Baviera intravvedeva in questo delicato affare la possibilità di rilancio sul piano internazionale del proprio stato, gettando così le basi per realizzare tutti i propri progetti67. Con l’avvento del 1716, il progetto matrimoniale tra Karl Albrecht e la figlia di Giuseppe I passò in secondo piano. In realtà, le nozze non erano altro che un espediente per assicurare all’erede bavarese la Luogotenenza dei Paesi Bassi, ufficio esatto agli Asburgo come dote:

«Le Mezzo termine que vous dites Monsieur que l’on a trouvé pour ne pas [?] tout d’abord la parole de l’Empereur, engagée sur l’article du Traicté de la Baviere de ne plus aliener ou ceder les Pais Bas, est une pansée qui est bonne, en la tournant autrement, et si a ma place lon donne le Gouvernement des Paibas, au Prince Elettoral mon fils. La chose paroitra bien plus Naturelle puisque les Paibas doivent etre donne au dit Prince, mon fils, en dotte, avant que se luy face, la cession en eschange, celon mon projet au lieux qu’il servit contre ma Gloyre et dignité, davoir et porter la camise de gouverneur des Paisbas, apres avoir eité reset de celuy de solverai et […] de quelques Provinces des dits Paisbas. Sa Majeste Imperiale aura touiours le meme effect puisque ce mottive de faire le premier ministre a mon Fils pour tout regler en ce Paisla, et detre le General de l’Armée en question pour porter pur cet expedient mon project a lexecution celon qu’on en conviendra par un timide secret qui de mon coté sera touiours Reliegieusement observé. Je vous prie donc Monsieur d’agir sur ce pied la, avec le méme zéle, soyer […] assecure de mon amitié aussi bien que de mon réele reconnaisance, et ne voulant pas etre à present plu»68.

66 Ivi, Starnberg, 11 dicembre 1715. 67.Ibidem. Sulle ambizioni di Massimiliano Emanuele von Wittelsbach si veda Appendice, documento 2. 68 Ivi, Monaco di Baviera, 26 maggio 1716.

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Il Wittelsbach guardava con ardore al compimento dei suoi piani e contava sulla mediazione del principe Porcia che spesso risultava poco propenso alla collaborazione. In una lettera, il Principe Elettore di Baviera asserì di non poter concepire il comportamento del Porcia poiché quest’ultimo manteneva «une espece d’inquietude, qui m’offeuse, et Vous fait tort à Vous méme»69. In realtà, il principe Porcia si dimostrava prudente poiché dalla corte di Vienna gli veniva imposta una certa cautela. Nel maggio del 1706, il Wittelsbach dichiarava che le «refroidement dans votre Correspondance et en suite le peu de seureté, que Vous me donnez par votre lettre sur tous les articles de votre negotiation me cause de l’inquietude, et me fait faire des reflexions sur bien des choses»70. Con ogni probabilità, la ritrosia purliliense si giustificava con la volontà di mantenersi imparziale nella mediazione tra la politica di Vienna e quella di Monaco di Baviera. Il Principe Elettore sembrava però concitato ed esigente nel pretendere sia il matrimonio con la casa d’Austria, sia una certa sicurezza sulla Luogotenenza nei Paesi Bassi. E l’alterazione del Wittelsbach verso il prudente silenzio del Porcia lo rendeva ancora più schietto, lasciando nelle lettere preziosi dettagli sui suoi progetti: Massimiliano Emanuele II era infatti appena riuscito a riottenere titoli e diritti sulla Baviera ma aveva bisogno di altre certezze. Le nozze del figlio non bastavano e nemmeno la Luogotenenza: ciò cui ambiva era il titolo di Re dei Paesi Bassi che avrebbe sfoggiato in vita e tramandato poi al figlio Karl Albrecht e alla nuora asburgica. Il lungo sfogo con il Porcia terminava con la richiesta di un nuovo incontro per definire i dettagli della questione71. Successivamente a questa lettera non è stato possibile individuare nei fondi archivistici austriaci altre tracce della corrispondenza tra il castellano friulano e il Principe Elettore di Baviera72. Nonostante la pressante insistenza del Wittelsbach, è ipotizzabile però che nei mesi successivi il carteggio si fosse smorzato d’intensità e d’interesse, in quanto venne ufficializzata la nomina del Principe

69 Ivi, Monaco di Baviera, 24 marzo 1716. 70 KLA, Familienarchiv Portia, k.16, f. 42E, Monaco di Baviera, 26 maggio 1716. 71 Ibidem. Si veda Appendice, documento 3. 72 Circa il rapporto di Hannibal Alphons Porcia con la corte bavarese, le fonti carinziane e viennesi si sono rivelate insufficienti per poter definire con efficacia i contatti del Porcia con la famiglia regnante Wittelsbach ed il ruolo del castellano presso la corte bavarese. A tal proposito sono stati presi recentemente dei contatti con il Bayerisches Hauptstaatsarchiv per verificare la consistenza dei fondi in cui eventualmente reperire altro materiale archivistico. In base ad una prima ricerca, l’indagine si potrebbe ampliare ad almeno quattro fondi presenti presso l’archivio centrale di Monaco di Baviera. I fondi in questione sono: Adelsmatrikel, Heroldenamt Bände, Personenselekt, Hofamtsregistratur.

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Eugenio di Savoia a «tenente, governatore e capitano generale dei Paesi Bassi», incarico che esercitò da Vienna fino al 172473. La questione del matrimonio con la casa d’Asburgo andò invece diversamente. Karl Albrecht von Wittelsbach non sposò Maria Josepha, citata nella lettera del 27 settembre 1715 dal Principe Maximilian Emanuel74, bensì la sorella minore Maria Amalia. La primogenita fu infatti impalmata da Augusto, Principe Elettore di Sassonia e re di Polonia (1696-1763): lo sfarzoso matrimonio venne celebrato a Dresda nel 1719. Il Principe ereditario bavarese invece convolò a nozze a Monaco di Baviera nel 1722: per l’occasione i principi von Wittelsbach misero a disposizione il castello di Schleißheim, in parte utilizzato come riserva di caccia, in onore della sposa, grande appassionata di arte venatoria. La festa di matrimonio costò in totale quattro milioni di fiorini75. A corroborare l’ipotesi di una riduzione dei rapporti epistolari tra il Wittelsbach e il Porcia fu la nomina di quest’ultimo a Governatore di Carinzia, ufficio conferitogli dall’imperatore Carlo VI e mantenuto fino al 1724. Nella fase del governatorato, il Porcia intrattenne spesso corrispondenza con il conte von Marburg, consigliere factotum, che istruiva il feudatario sulle novità di corte e lo esortava sulle mosse politiche da compiere. Anche in questo caso, l’epistolario è unilaterale per cui il fondo Porcia conserva le sole lettere destinate al principe carinziano, senza le risposte del Porcia. Il plico di missive risale al 1722, anno in cui il principe Hannibal Alphons dava decisivi segnali di stanchezza nei confronti del proprio incarico e del mondo cortigiano circostante. A Vienna si provava insoddisfazione per l’operato del Porcia, mentre da tempo circolavano insistenti voci diffamanti che volevano escludere il principe dai circuiti nobiliari più altolocati. Il Marburg, fedele corrispondente del purliliense, incoraggiava instancabilmente il suo interlocutore alla strenua resistenza: «Comprendo molto bene, le sciagure, che Vostra Altezza patisce alla Corte, per li di lei buoni servitij prestati à Cesare, ciò l’unica causa sono li più propinqui, mentre prossimi vostri, Inimici vostri, che dolendo vedere esaltati li meriti di Vostra Altezza, scansano l’occasioni di promuoverla, e quel che più è, per tenirla eternamente bassa, hanno voluto discreditarla

73 HERRE, Eugenio di Savoia, cit., p. 172. 74 OeSta, Haus, Hof und Staatsarchiv, HA, Porcia, K1, Ninfenburg 27 settembre 1715. 75 VOCELKA, Glanz und Untergang, cit., pp. 189-190.

96 per tema di vederla superiore; il unico che io desidererei fosse commandato à Vostra Altezza cui la di lei propria conservazione, et cotesto Capitaniato della Carinthia»76. La pressione nobiliare attorno al Porcia non accennava a diminuire, così il Marburg consigliò al principe di guardarsi attorno per cercare nuovi sbocchi. In particolare, si stava profilando l’opportunità di presentare candidatura per il Capitanato di Carniola, ufficio per cui il Marburg garantì il giusto impegno al fine di assicurarsi importanti alleanze: «concernente il Capitaniato del Cragno, non hò mancato fare li dovuti passi, che pure continuo giornalmente meglio stabilirli, per il che non ci mancavano anco Patroni, et amici»77. La buona volontà del Marburg fu tuttavia ostacolata dai numerosi nemici, l’ostruzionismo dei quali rallentava le procedure per la candidatura: «per Vostra Altezza tutto è in silentio, anzi intendo haver li Stati di Cragno spedita alla Corte un potestà contro l’Altezza Vostra mi imagino sulli fomenti del Conte Cobenzl e Gallenberg»78. Nel torno di qualche mese, secondo il Marburg, sfumarono le possibilità di candidare il Porcia al Capitanato: troppi rivali si opponevano alla sua designazione, mentre nomi ben più influenti erano ormai ad un passo dalla nomina. Il Marburg suggerì pertanto al Porcia di non dimenticare le conoscenze e i legami stretti anni addietro con la corte bavarese, presso la quale avrebbe potuto trovare collocazione: «dunque conviene attaccarsi per ogni verso alla Baviera, perche […] è megliore conditione il commandare collì, che quivi servire»79. Nelle lettere inviate dal Marburg al Porcia in quell’estate del 1722 ritornava di frequente e con una certa fermezza l’invito del Consigliere a vivificare i rapporti con la corte bavarese, quasi non ci fossero più speranze di successo nei territori asburgici austriaci. I memoranda del Marburg finivano molto spesso per pungolare il Porcia, passivo e reticente, ad un atteggiamento più energico, in un contesto sociale ostile80. Il principe carinziano, anziché affrontare con zelo la situazione, tentennava, si presentava confuso e insicuro sulle decisioni da prendere. Sembrava un automa in balia degli eventi.

76 KLA, Familienarchiv Porcia, k. 17, f.42H, Senosecchia, 18 novembre 1720. 77 Ivi, k. 16, f. 42E, Vienna, 27 maggio 1722. 78 Ivi, Vienna, 22 luglio 1722. 79 Ivi, Villacco, 12 agosto 1722. 80 «Non si meravigli Vostra Altezza, se io vado perdendo la pacienza, in questa corte, perche vedendo le inconvenienze, che si praticano, et il riguardo che si ha delle premure, è convenienze dovute all’Altezza Vostra oltre conoscendomi abbandonato da tutti, devo per forza, con tutta la fermezza del mio animo crollare, et se Iddio, che conosce le mie passioni! Ben presto non rimedia, vedo annichilato me stesso, et la mia fameglia» Ivi, Vienna, 27 agosto 1722.

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Alcune lettere del Marburg, lasciano fondatamente credere che nei mesi estivi del 1722, il Porcia prese contatti con il conte Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre (1662-1723), del ramo di Duino. Questi mirava al Capitanato di Carniola, come il principe Hannibal Alphons. La convergenza degli interessi per il medesimo incarico spinse i due nobili a pesanti alterchi, senza concludere alcunché di ragionevole. Il Marburg mediava i contrastati rapporti con il Signore di Duino, mirando alla desistenza dell’avversario per favorire una candidatura Porcia. Quest’ultimo, tuttavia, con serafica arrendevolezza, incontrò il Della Torre con cui concluse un accordo verbale: il purliliense avrebbe rinunciato alla nomina di Capitano in cambio di una designazione al Burgraviato di Klagenfurt81. L’intesa venne raggiunta all’insaputa del Marburg che, nel contempo, operava per l’ascesa politica carniolina del suo principe, in un clima sociale teso e avverso. Nell’agosto del 1722 il Consigliere scoprì il sotterfugio del Porcia e perse le staffe: in una gelida missiva, il Marburg riprovò l’operato del principe, accusandolo di avergli arrecato del pubblico disonore: «doppo fatti i passi comandatimi da Vostra Altezza devo restare un stivale, in modo, che venendo io ad esser ricercato sull’affare proposto, devo vedermi discreditato, e nella fede, e nelli maneggi e mi condoni Vostra Altezza, et per il avenire, nella faccenda del Burgraviato, mi spoglio totalmente d’ogni manegio, è ciò per non esser deriso nell’Anticamera de Ministri, appresso li quali sin hora sono passato per uomo sodo, et osservante delle mie parole»82. In realtà, dopo aver biasimato l’atteggiamento superficiale del proprio principe, il Marburg non gli fece mancare sostegno e consiglio. Tuttavia, la frequenza dei rimproveri del factotum per le negligenze del Porcia denota quanto il purliliense trascurasse i propri affari: «Votre silence me met en des inquietudes, qui ne sont pas croyables, je ne sai, si vous etes malade ou si vous m’avez oublié, car il y a presque deux mois, que je n’ai reçu le moindre mot de votre part: si je n’avois moin de respect, et d’afflition pour vous, j’aurois moin d’impatience dans la privation des vos lettres, mais comme je suis tout à vous, ainsi je ne pense, que de recevoir vos cheres nouvelles, les quelles, je vous supplie tres humblement de m’en donner plus souvent»83.

81 Il Burgravio di Klagenfurt aveva compiti civili e amministrativi sulla città di Klagenfurt: presiedeva le sedute della comunità e amministrava la giustizia, l’economia e la difesa della cittadina. DEUER, Das Landhaus zu Klagenfurt, cit., p. 15. 82 Ibidem. 83 Ivi, k. 17, f. 42H, Modena, 16 maggio 1721.

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Mentre le speranze di conquistare il Capitanato di Carniola si affievolirono del tutto84, il Marburg pregò nuovamente il Porcia di tessere buoni rapporti con la Baviera, in modo da assicurarsi la collocazione in una corte lontana e scevra da pesanti pregiudizi nei suoi confronti. Nell’approccio al Wittelsbach lo pregò di usare circospezione, per evitare di attirare sospetti a Vienna ed ulteriori maldicenze sul suo conto. Gli suggerì pertanto di avvalersi di un mediatore da inviare a Monaco per sondare il possibile inserimento nella società di corte bavarese: «Se Vostra Altezza potesse spuntare appresso il Elettore il suo intento hora sarebbe tempo, ma conviene portare le cose con tanta circospezione per non irritare questa corte, e quindi rimanere tra due scagni, per terra. Se vi fosse qualche confidente che si insinuasse appresso il Elettore? Et assicurate colà le cose, allora si potrebbero intraprendere li messi quindi per trovare sodisfatione: se io potessi abbandonare questi presenti miei maneggi quivi, certo è che, rischiarei la andata mà mancandomi mezzi et obbligato alla terminazione delli affari di Vostra Altezza quivi; devo lasciare che V. Altezza trovi altri modi, per promovere li di lei interessi, che devono premerla perché fronte capilata, post hoc occasio calva»85.[sottolineato nell’originale manoscritto]. Non è dato sapere se il Porcia inviò un emissario alla corte bavarese; è invece certo che il principe rimase in Carinzia almeno fino al 1724, anno delle dimissioni da Governatore. Gli incartamenti archivistici lasciano tuttavia presupporre che il nobiluomo abbia preferito concludere la propria vita ritirandosi nella residenza di Spittal an der Drau, piuttosto che inoltrarsi nella selva cortigiana tedesca. Mentre Hannibal Alphons Porcia abbandonava la carriera, il suo secondogenito, Alphons Gabriel, era invece agli albori del cursus honorum: un documento risalente al 1729 dimostra che il rampollo venne inviato in Baviera a servire Karl Albrecht von Wittelsbach (1697-1745), succeduto nel 1726 al padre Maximilian Emanuel II. Il giovane Porcia venne nominato in quella circostanza Cameriere del Principe Ereditario: «Demnach Ihr Churfürstl: in Bayern unser gnadigster Herr, dem wohlgeborne Alphons Gabriel Graf von Portia zu dero Cammerer, gnädigst ernente»86. La carriera di Hannibal Alphons Porcia si era pertanto conclusa con il Governatorato di Carinzia. Nei trentacinque anni di vita che intercorsero tra la laurea ad Ingolstadt

84 Ivi, k. 16, f. 42 E, Vienna, 30 agosto 1722; Vienna, 19 settembre 1722; Vienna 23 settembre 1722. 85 Ivi, Vienna, 7 giugno 1722. La sottolineatura è nell’originale. 86 Ivi, f. 42D, 20 febbraio 1729.

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(1693) e la morte (1738), il Porcia aveva ottenuto e svolto solo due incarichi: il Generale della fortezza di Karlstadt e il Landeshauptmann. In entrambi i casi si dimise anche per l’incapacità di portare avanti le proprie mansioni e per errori personali che avvelenarono il clima sociale in cui operava. Innanzi a questi dati oggettivi, il bilancio professionale del Porcia risulta assai deludente, soprattutto se paragonato con la vivace carriera di uno dei suoi predecessori, il principe Giovanni Ferdinando Porcia, neppure al quale, comunque, i contemporanei avevano risparmiato le critiche, anche pesanti. Escludendo la possibilità di imputare semplicemente al fato gli esigui successi di Hannibal Alphons Porcia, ancora molte sono le dinamiche sociali ed umane che occorrerebbe esplorare per chiarire la biografia del nobiluomo carinziano ed il contesto socio-politico in cui agì.

2.2. Il cursus honorum dei Della Torre Valsassina

Mentre il ramo Porcia del principe Giovanni Ferdinando si estinse alla seconda generazione, permettendo così al ramo collaterale friulano di subentrare nel titolo principesco, i Della Torre di Valsassina seppero garantire una vasta progenie che non mise in discussione l’autorità della famiglia sui possedimenti duinesi. Giovanni Filippo di Raimondo (1598-1650) si sposò infatti con Eleonora di Federico Gonzaga, del ramo di Castiglione, ed ebbero insieme sette figli maschi. Mentre Federico, Nicolò, e il primogenito Luigi Leopoldo morirono giovani e senza figli87, i restanti fratelli Della Torre lasciarono tracce biografiche più consistenti che permettono di ricostruire con maggior precisione il mosaico degli incarichi e delle dignità della famiglia. Senza dubbio, il nobile che diede maggiore lustro al casato nel corso del XVII secolo fu Francesco Ulderico della Torre, nato a Sagrado nel 1629. Fu tenuto a battesimo dal principe Ulderico di Eggenberg, da cui prese il suo secondo nome, e da Elisabetta di

87 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 380.

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Rabatta, moglie di Riccardo Strassoldo, capitano di Gradisca durante la guerra degli Uscocchi (1615-1617). Francesco Ulderico della Torre fu destinato alla carriera ecclesiastica e per questo inviato presso il Collegio dei Gesuiti a Roma. A causa di una salute cagionevole, il percorso formativo del giovane Della Torre fu interrotto per permettergli un salutare soggiorno nei pressi di Napoli. Mentre la condizione fisica tardava a ristabilirsi, obblighi famigliari gli impedirono la prosecuzione degli studi ecclesiastici: nel 1650 erano già mancati sia suo padre, Giovanni Filippo di Raimondo della Torre, sia il fratello maggiore, Luigi Leopoldo. I due lutti lo costrinsero ad abbandonare la carriera religiosa e ad accettare il ruolo di guida del suo casato, intraprendendo pertanto un cursus honorum prettamente politico. Entrò subito al servizio dei principi d’Eggenberg che acquistarono la contea di Gradisca nel 1647, elevata a contea principesca secondo il decreto imperiale di Ferdinando III. Il Della Torre venne nominato Maresciallo Ereditario e Capitano della Contea, anche se di fatto esercitò una ben maggiore influenza politica su tutto il territorio gradiscano, godendo dell’ampia fiducia degli Eggenberg, spesso assenti dalla Contea. Francesco Ulderico della Torre amministrò Gradisca con acribia e passione. A lui si dovettero molte opere di ammodernamento della comunità e di investimenti infrastrutturali che permisero riforme alla viabilità, l’incremento di attività commerciali e manifatturiere, una riorganizzazione militare ed amministrativa della Contea. Il Della Torre mise mano ai conti pubblici cercando di attenuare il debito che gravava sulla comunità, si premurò di assicurare scorte alimentari in caso di carestia o attacchi bellici, irrobustì gli argini dei fiumi, aprì una scuola pubblica e istituì nel 1670 un Monte di Pietà. Sempre al Della Torre si deve una riforma della giustizia che consentì lo snellimento delle lunghe pratiche processuali, mediante l’adozione di procedimenti più rapidi con sentenze altrettanto celeri ma inflessibili. Tale operato del Della Torre gli assicurò prestigio ed un ampio consenso presso la comunità gradiscana, tanto da mettere in ombra molti altri nobili suoi contemporanei. Godeva di rispetto non solo presso i principi stiriani Eggenberg, ma anche alla corte di Vienna, tanto che nel 1665 riuscì a convincere l’imperatore Leopoldo I a non lasciar sottomettere la Convocazione gradiscana agli Stati di Gorizia. Tanto zelo celava tuttavia una certa malsana pratica dell’esercizio politico locale. Silvano Cavazza ha riconosciuto in Francesco Ulderico della Torre una sorta di

101 attitudine al clientelarismo che ebbe una buona parte nell’intossicazione dei rapporti tra fazioni gradiscane. Approfittando del chiaro consenso degli Eggenberg, il Della Torre si comportò come un signore assoluto conferendo incarichi ai suoi più stretti congiunti, nonché alla nobiltà lui fedele. Nonostante da più parti si sollevassero critiche e contestazioni, il Capitano e Maresciallo Ereditario persistette fieramente nella politica di sostegno dei suoi fautori. Siffatto atteggiamento indispettì però ben presto molti esponenti della nobiltà locale, tra cui membri delle famiglie Gambara, Wasserman, Andriani, Novelli, preparando il campo ad una futura e sanguinosa faida locale. La carriera del Della Torre non si limitò solamente all’amministrazione della contea di Gradisca, ma ottenne anche altri incarichi e titoli onorifici. Nel 1660 ospitò l’imperatore Leopoldo I che si trovava in visita nei domini asburgici friulani. Fu inoltre nominato Cameriere Segreto e Consigliere Aulico di Leopoldo I. A partire dagli anni Settanta, si assicurò invece delle importanti e delicate missioni diplomatiche. Nel 1674 venne inviato da Leopoldo I in Polonia dove viveva la vedova del sovrano Michele Korybut-Wisniowiecki (1640-1673), destituito dal suo incarico. La consorte, Eleonora, sorellastra dell’imperatore austriaco, era negli ultimi tempi invisa al popolo polacco, soprattutto in seguito al decesso del consorte. L’Arciduchessa navigava inoltre in pessime acque finanziarie avendo contratto pesanti debiti che non era più in grado di estinguere. La missione del Della Torre servì a saldare (di tasca propria) i conti in rosso della nobildonna e a riportarla a Vienna al sicuro da pericolose rivendicazioni. Il conte di Valsassina portò felicemente a compimento l’ambasciata restituendo a Leopoldo I la sorellastra, nonché lasciandogli testimonianza del forte senso di ostilità nutrito dai sudditi polacchi nei confronti degli Asburgo. Dopo il viaggio in Polonia, seguirono le due ambasciate di Mantova e Milano. Nel 1680 arrivò invece l’incarico per una missione a Venezia dove il Della Torre dovette sostenere serrate discussioni su molteplici argomenti tra cui i più importanti furono la delineazione di esatti confini tra lo stato veneto e quello asburgico e la definizione di un’alleanza militare anti-turca. In quegli anni fu fondamentale per Francesco Ulderico della Torre l’amicizia con il frate cappuccino Marco D’Aviano, nato nel 1631 nell’omonima comunità (Aviano, oggi in provincia di Pordenone). Il legame tra l’ecclesiastico e il nobiluomo di Valsassina è testimoniato da una fitta corrispondenza (almeno 237 lettere) in cui vennero trattati temi

102 legati alla politica asburgica secentesca con particolare riguardo allo scottante problema turco. Nel 1683 si verificò infatti il temutissimo assedio ottomano di Vienna che fece tremare le sedi politiche del vecchio continente. L’opera del D’Aviano, ispirata soprattutto da profondi principi religiosi, si concretizzò nello sforzo di cooperazione europea al fine di combattere il comune nemico turco e trovò nell’ambasciata veneta del Della Torre un valido strumento di collaborazione internazionale. Francesco Ulderico Della Torre non si sposò mai in virtù di una disposizione che prevedeva il matrimonio per i soli figli più giovani, in modo da non intaccare il patrimonio della famiglia. Il testamento del nobiluomo destinò tutto il lascito al fratello Filippo Giacomo e, di conseguenza, al suo unico figlio, Luigi Antonio, precisando che in caso di estinzione di questa linea, soprannominata Gradiscana, tutta l’eredità sarebbe stata incamerata dall’altro fratello Della Torre, Raimondo Bonifacio, e dalla di lui prole88. E in effetti, Raimondo Bonifacio Della Torre, maresciallo di campo nell’esercito del Principe Elettore di Baviera, ebbe quattro figli maschi da Paolina di Caporiacco, assicurando così la discendenza alla famiglia89. Un altro fratello di Francesco Ulderico Della Torre, Turrismondo Paolo, visse ritirato a Duino, accudendo l’anziana madre e la famiglia. Sposò Sulpicia Florio nel 1699 ma il matrimonio rimase sterile. Designò pertanto come eredi il fratello Raimondo Bonifacio Della Torre e il nipote Luigi Antonio di Filippo Giacomo, figlio dell’altro fratello90. Il capostipite di quella che venne definita linea Gradiscana dei Della Torre Valsassina fu l’ultimo figlio di Giovanni Filippo, ossia il conte Filippo Giacomo. Nato a Villesse nel 1639, la sua carriera stentò a decollare, in quanto venne messo in ombra dalla statura professionale del fratello Francesco Ulderico Della Torre. Sposò la contessa Teresa di Antonio Rabatta a Gorizia nel 1661 e insieme ebbero un solo figlio, Luigi Antonio. Il Della Torre ebbe vari incarichi ma esordì come Luogotenente generale dell’armata imperiale durante la guerra d’Olanda contro la Francia (1672-1678), anni in

88 Francesco Ulderico Della Torre morì a Venezia il 14 dicembre 1695. G. BENZONI, Francesco Ulderico Della Torre, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 37, Roma, 1989, pp. 545-552; S. CAVAZZA, Una società nobiliare: trasformazioni, resistenze, conflitti, in Gorizia Barocca, cit., p. 212; ID, Francesco Ulderico Della Torre e Marco D’Aviano, in Gorizia Barocca, cit., pp. 229-235; ID, Profilo di Francesco Ulderico Della Torre, in Marco D’Aviano, Gorizia e Gradisca. Dai primi studi all’evangelizzazione dell’Europa, a cura di W. Arzaretti, M. Qualizza, Gorizia, Fondazione società per la conservazione della Basilica di Aquileia, 1998, pp. 176-183; PICHLER, Il castello di Duino, cit., pp. 380-406 89 Ivi, pp. 416-417. 90 Ivi, p. 406.

103 cui rimase prigioniero per un certo periodo dell’esercito del Re Sole. Successivamente, nel corso della Grande Guerra Turca (1683-1699), ottenne prima il titolo di Tenente Maresciallo e in seguito l’intero comando dell’armata asburgica in Croazia. Esercitò inoltre le funzioni di Luogotenente di Gradisca, e venne nominato Consigliere di Stato di Leopoldo I. La sua carriera quindi si interruppe a causa di precarie condizioni di salute, nonché per la morte del fratello Francesco Ulderico Della Torre. Il decesso costrinse il conte Filippo Giacomo ad occuparsi maggiormente della famiglia e a questioni legate all’eredità ed alla gestione patrimoniale del casato. Intanto a Gorizia il cattivo stato dell’amministrazione della giustizia comportò un accrescimento della delinquenza. La criminalità era diffusa a tutti gli strati sociali e parte della colpa ricadde nel clima di conflittualità generato tra i feudatari del luogo. Fra gli elementi che fomentarono maggior disturbo vi era anche Turrismondo Della Torre che aveva trasformato la residenza duinese in un ricettacolo di banditi e malviventi. L’atteggiamento del nobile, millantatore e provocatorio, era spesso rivolto al capitano di Gorizia, Johann Kazianer, che al contrario si sforzava di reprimere le violenze nella Contea. La giustizia goriziana sembrava però inefficiente, tanto che spesso si rese necessario l’intervento dei tribunali superiori nella Reggenza di Graz. Un fatto però segnò in modo particolare la quotidianità di Duino e del Friuli orientale, in quegli anni sul volgere di fine secolo (XVII). Un omicidio per il quale fu implicato Filippo Giacomo Della Torre: l’assassinio del conte Giambattista Novelli. Innanzitutto è opportuno ricordare che le frizioni tra i Della Torre e i Novelli erano già insorte nella seconda metà del Seicento, quando il Capitano e Maresciallo di Gradisca, Francesco Ulderico Della Torre, si era arrogato la consuetudine di favorire alle cariche pubbliche i propri congiunti ed amici, svilendo le risorse castellane locali. Tale clima comportò l’irritazione nobiliare e una certa tensione tra fazioni. Nella corrente nobiliare anti-torriana vi erano già allora anche i Novelli, protagonisti alla fine degli anni Novanta di un efferato omicidio. Giambattista Novelli fece una discreta carriera alla corte di Vienna: prima intitolato barone e poi conte, venne designato come inviato straordinario dell’elettore palatino a Madrid tra il 1690-1692, e inoltre come ambasciatore residente a Magonza tra il 1692-1693. Un certo antagonismo tra Novelli e Torriani era germogliato già intorno al 1695 a Vienna, molto probabilmente perché il primo si era fidanzato con

104 una nobildonna ungherese promessa a Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre. Il giovane rampollo duinese tentò allora di sfidare a duello l’avversario ma un diniego imperiale scongiurò il pericoloso confronto armato. In quell’anno seguirono ingiurie e calunnie rivolte scambievolmente da entrambe le famiglie. Tuttavia, qualche tempo dopo, Filippo Giacomo Della Torre incontrò a Venezia il Novelli e, in seguito all’ennesimo diverbio, lo gambizzò. Non soddisfatto dell’agguato, e temendo una rappresaglia nemica, il conte torriano incaricò un sicario di finire il rivale con un colpo d’arma da fuoco. L’occasione si presentò a breve, nel febbraio del 1697: Giambattista Novelli aveva appena lasciato la propria dimora friulana per recarsi a Vienna quando, nei pressi di Venzone, un assassino lo braccò e uccise. L’imperatore Leopoldo I pretese una punizione esemplare per il Della Torre a monito di tutta la popolazione, affinché si riducesse la criminalità. Da più parti, intanto, si alzavano richieste di grazia a favore del torriano: persino padre Marco D’Aviano si assunse la responsabilità di scrivere all’imperatore cercando di piegare la ferma volontà dell’Asburgo. Il 29 agosto 1699 Filippo Giacomo Della Torre venne condannato sulla base della legge Cornelia de sicariis che prevedeva la caduta sia dell’accusa di Lesa Maestà, sia di confisca dei beni. Tuttavia non venne graziato della pena di bando perpetuo. Non ci fu speranza di ottenere la remissione della pena e così il condannato fu costretto all’esilio per tutta la vita, vagando tra Venezia, Ravenna e Fano. Il conte morì a Venezia nel maggio del 1704 e venne quindi sepolto nella chiesa di Santa Maria dei Servi91. L’unico figlio di Filippo Giacomo Della Torre, Luigi Antonio, nacque nel 1662. Compì la sua formazione presso il Collegio dei Gesuiti di Parma tra il 1670 ed il 168092. Durante la Grande Guerra Turca (1683-1699) partecipò all’assedio di Buda come soldato nel contingente del Principe Elettore di Baviera Maximilian Emanuel II, che faceva parte dell’esercito alleato per la liberazione della città ungherese dai turchi93. Alla fine degli anni Novanta rimase coinvolto e sospettato di complicità con il padre per l’omicidio di Giambattista Novelli, tuttavia ne uscì esente da condanne. Quindi cominciarono a fioccare i titoli onorifici presso la corte di Vienna dove fu accreditato

91 G. BENZONI, Filippo Giacomo Della Torre, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 37, cit., pp. 533- 536; PICHLER, Il castello di Duino, cit., pp. 407-409; CAVAZZA, Una società nobiliare: trasformazioni, resistenze, conflitti, in Gorizia Barocca, cit., p. 222. 92 G. BENZONI, Luigi Antonio Della Torre, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 37, cit., p. 611. 93 JUNKELMANN, Kurfürst Max Emanuel, cit., pp. 50 e segg.

105 come Gentiluomo di Camera e Consigliere Intimo di Stato94. In particolar modo, per quest’ultimo titolo si spese anche Domenico Montanari, segretario del Principe Eggenberg, affinché si creasse un clima politico incline alla nomina del torriano95. I primi anni del Settecento furono un periodo di grande concitazione per Luigi Antonio Della Torre che era, evidentemente, alla spasmodica ricerca di un incarico di tutto rispetto. I titoli onorifici non bastavano e venne pertanto ritenuta opportuna la promozione di percorsi professionali alternativi. Lo testimonierebbe una lettera, risalente al febbraio del 1702, in cui Carlo Massimiliano di Giovanni Mattia Della Torre di Valsassina, scrisse una missiva al cugino Luigi Antonio Della Torre per assicurargli tutto l’impegno possibile atto a garantirgli il Capitanato di Gorizia96. Un mese più tardi anche il Montanari consigliò al Della Torre di puntare alla Contea di Gorizia, mentre l’ipotesi di ottenere il titolo di Consigliere di Stato si stava facendo più flebile: «confidente del signor Cancelliere di Corte, che lo trova adattato favorevolmente e ben inclinato tanto per l’Eccellenza Sua […] non sarà facile di spuntare il Consiglierato di Statto quivi: a spuntarvi una cosa […] dificile ci vuol ingegno, e appoggio, perché non despero, perché non mancherà ne l’uno, ne l’altro […] forse che fra tanto si risolverà anco la carica di Capitano di Goritia, Dio voglia, che la corte non succeda per un estero»97. Al Montanari fu risparmiata l’apprensione di veder nominato un «estero» al Capitanato di Gorizia, tuttavia non provò nemmeno la gioia di assistere al conferimento dell’incarico al suo protetto, in quanto l’ufficio fu attribuito al conte Gian Gasparo Cobenzl, figlio del precedente capitano defunto Giovanni Filippo conte di Cobenzl98. Nonostante fosse sfumata l’occasione goriziana, è invece certo che il Della Torre ottenne il titolo onorifico di Consigliere di Stato. Tuttavia, ciò sembrò non bastargli. Intorno al 1708, il torriano iniziò a sondare il terreno carniolino per sincerarsi sulle possibilità di assumere il titolo di Capitanato presso Lubiana. Anche in questo caso

94 BENZONI, Luigi Antonio Della Torre, cit., p. 612. 95 Archivio di Stato di Trieste (d’ora in poi ASTS), Archivio Della Torre e Tasso, b. 129, fascicolo corrispondenze con Domenico Montanari, fascicolo dell’anno 1702, Vienna, 11 marzo 1702. 96 Ivi, b. 131, fascicolo corrispondenze con Carlo Massimiliano Della Torre, Brunn [dal tedesco Brünn, si tratta di Brno, oggi in Repubblica Ceca] 15 febbraio 1702. Allo stesso mese di febbraio risale un’ulteriore lettera, il cui mittente si firmò come «Cardinale von Lamberg», che prometteva ogni sforzo per collocare il Della Torre al Capitanato di Gorizia, in seguito al decesso del predecessore, il conte Giovanni Filippo di Cobenzl. Ivi, b. 132, Passavia, 25 febbraio 1702. 97 Ivi, b. 129, fascicolo corrispondenze con Domenico Montanari, fascicolo dell’anno 1702, Vienna, 25 marzo 1702. 98 MORELLI, Istoria della contea di Gorizia, cit., vol. III, pp. 106 -107; vol. IV, p. 175.

106 l’impresa non sembrava delle più semplici, anche perché si trovò a confliggere con un avversario di gran eccezione: il principe Hannibal Alphons Portia. Nel 1708, infatti, il Porcia fiutò l’opportunità di vendere al conte Rabatta di Gorizia il Generalato di Karlstadt per 40.000 fiorini. Tuttavia, restando senza incarico e rinunciando agli emolumenti, necessitava di una nuova copertura finanziaria e così anch’egli puntò alla Carniola. Una serie di lettere risalenti agli anni 1708 e 1709 riflette l’ampio lavoro del Della Torre al fine di infangare e mettere fuori gioco l’avversario che, con tutta evidenza, temeva più d’ogni altro. In primo luogo, il torriano mise in guardia il Montanari chiedendogli ragguagli sulle decisioni da prendere. Il Consigliere degli Eggenberg, per tutta risposta, si mise a disposizione del conte di Duino promettendogli ogni sforzo per «levare le consapute speranze al signor Prencipe Porcia»99. Il tempo scorreva ma le notizie sul Porcia si facevano sempre più fosche e vaghe. Il Montanari andò a Vienna per sbrigare le sue faccende e, con l’occasione, cercò di indagare sulla rete sociale del Porcia, per comprendere su quali e quante fazioni di corte potesse contare. L’esito delle sue ricerche fu tanto sconfortante quanto inutile poiché non riuscì a percepire «se poi il signor Prencipe Porcia possa havere qualche maneggio occulto qui alla Corte»100. Intanto si doveva essere sollevato a Vienna un gran ciarlare su questo incarico a Lubiana, su cui ciascuno interveniva con commenti e pettegolezzi più o meno autentici. Il Montanari riferì che «il sig. Prencipe Portia trati per il Capitaneato di Lubiana con speranza di conseguirlo verso l’esborso di qualche summa»101, mentre la sua consorte «s’attrova qui, onde tenterà l’estremi per spuntare cio per il sig. Prencipe suo»102. Qualche giorno più tardi il Montanari organizzò un pranzo per tastare il livello di gradimento del Porcia nella società nobiliare viennese. In base al resoconto del Consigliere, uno dei commensali, un certo principe Schwarzenberg, si sarebbe alzato da tavola scommettendo «1.000 ongari contro una suma d’Ottinghe, che esso signor Principe Portia sarebbe stato l’Anno venturo capitano di Lubiana, e che alle pretocate sicurezze non vi era da fare fondamento racontandomi qualche caso dove dopo certe

99 ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 129, fascicolo corrispondenze con Domenico Montanari, fascicolo dell’anno 1708, Graz, 26 novembre 1708. 100 Ivi, fascicolo dell’anno 1709, Vienna, 12 gennaio 1709. Di nuovo intervenne anche il Lamberg, il mittente «cardinale von Lamberg» che promise al Della Torre di mettere una buona parola a Sua Maestà circa il Capitanato di Carniola. Ivi, b. 132, Vienna, 25 gennaio 1709. 101 Ivi, b. 129, corrispondenze con Domenico Montanari, corrispondenze dell’anno 1709, Vienna, 21 febbraio 1709, 102 Ibidem.

107 cose stabilite furono poche hore dopo cambiate, è fata tanta altra diposizione»103. In sostanza si trattava solo di chiacchiere senza alcun fondamento. Ciononostante, pur di non lasciar nulla al caso, il Montanari consigliò al Della Torre di scrivere al più presto alla principessa Eggenberg di Graz esponendole con estrema chiarezza il desiderio di ottenere l’incarico a Lubiana104. Questa fu l’ultima lettera inviata dal Consigliere Montanari sull’argomento, per cui non è possibile sapere se il Della Torre abbia in seguito scritto alla principessa stiriana e, eventualmente, la risposta della stessa Eggenberg. Tuttavia il torriano doveva aver già tentato questa soluzione in quanto esiste nel fondo Della Torre e Tasso conservato presso l’Archivio di Stato di Trieste una missiva risalente all’anno precedente, 1708, in cui la principessa Eggenberg replicò attonita a Luigi Antonio Della Torre rassicurandolo sulle scarse chances del Porcia per l’acquisizione del Capitanato di Carniola, anche perché il feudatario carinziano si era espresso per il Burgraviato di Klagenfurt: «Je suis fort estone que le prince de Portia pense au Capitaniat de Lubiana puis que lon dit quil veut havoire la suivance du Burgrairat a Klangfort»105. La realtà seguì un altro corso poiché né il Porcia, né il Della Torre ottennero l’incarico carniolino. Al contrario, anziché vedersi conferire uffici presso le corti asburgiche, ripiegarono entrambi verso i propri possedimenti, curando molto di più la sfera privata e l’amministrazione delle proprietà che non il cursus honorum. L’ultimo incarico del Della Torre fu la nomina a Maresciallo Ereditario della Contea di Gradisca106. Non fu solo la competizione professionale a mettere in contatto il torriano con il Porcia, ma anche le necessità imposte dalla guerra di successione spagnola e il timore di un attacco francese sulle coste dell’Alto Adriatico. Nel 1703 al Della Torre fu infatti commissionata la guida di un contingente verso Aquileia, devastata da un fulmineo assalto francese durante la guerra di successione spagnola107. Ad eccezione di questo violento episodio, l’Alto Adriatico non fu in quegli anni teatro di altre guerre, tuttavia la vigilanza duinese rimase comunque molto elevata. Diverse lettere testimoniano infatti i

103 Ivi, Vienna, 25 febbraio 1709. 104 Ivi, Vienna, 27 febbraio 1709. 105 Ivi, b. 132, Vienna, 5 gennaio 1708. 106 Ivi, b. 131, fascicolo lettere proprie, 3 novembre 1714. 107 BENZONI, Luigi Antonio Della Torre, cit., p. 612.

108 contatti del Della Torre con soldati ed ufficiali che lo ragguagliavano sull’avvistamento di navi francesi al largo dell’Adriatico. Alla fine i vascelli nemici si rivelarono solo delle presenze moleste ma non bellicose, tuttavia l’ampia corrispondenza rispecchiò l’apprensione per l’eventualità di nuovi scontri, soprattutto perché la qualità delle armi e delle munizioni dislocate nel Friuli austriaco lasciavano alquanto a desiderare: «qui da noi non si può star di peggio non avendo la città [Trieste] di 9 cannoni miserabili de qualli 5 sono buoni senza munitione; consideri Vostra Eccellenza in qual diffesa si potiamo metersi»108. Nell’estate del 1702 la premura maggiore del torriano era però rivolta alla protezione della propria famiglia e, in particolar modo, a trovare un rifugio per la zia Eleonora Della Torre, al secolo contessa Laura Teresa di Giovanni Filippo Della Torre, badessa del monastero benedettino di San Cipriano in Trieste109. Il conte duinese prese accordi in quell’occasione con lo zio paterno, Raimondo Bonifacio Della Torre, al fine di dare ospitalità e soccorso a tutte le religiose nella casa torriana di Sagrado110. Passata l’emergenza francese il Della Torre si occupò solamente di amministrare la giurisdizione di Duino: in particolar modo, nel secondo decennio del Settecento si ripropose il rilancio del porto di San Giovanni di Duino, corroso dal tempo e dal disuso. Evidentemente mosso dall’amore per i luoghi natii, il torriano si convinse di poter riqualificare l’area portuale lanciandosi in una squilibrata sfida con Trieste, quasi come se la portata della propria baia, a lungo trascurata, fosse paragonabile alle capacità dello scalo triestino. Disposto ad investire ingenti capitali per il rilancio di San Giovanni, il Della Torre si prodigò innanzitutto nel dimostrare la vivacità commerciale della zona

108 ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 136, fascicolo 1, Trieste, 4 agosto 1702; sugli avvistamenti di vascelli francesi si veda ugualmente Ivi, fascicolo 1, Trieste, 5 aprile 1702; Trieste, 10 aprile 1702; Trieste, 11 aprile 1702; Ragusa, 8 luglio 1702. Ivi, b. 129, fascicolo corrispondenze con Domenico Montanari, Vienna, 29 aprile 1702. 109 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 411. 110 «L’invio le chiavi della mia abitazione di Sagrado, per comodo delle Madre Monache di Trieste, benche se li Francesi tentassero il disbarco, per infestare il stato Austriaco, come senza ostacolo lo possono fare, per il Territorio e Corso Veneto, non le stimarei sempre. Mentre l’inimici si risolvettero bombardare Duino, farrebbero tanto poch’effetto, […] e sarebbe un accidente se in così pocho spatio facessero cascare una Bomba, quale anco non fa altro dano che far cadere un pezzo de muraglia, mentre lo homini facilmente si possono guardare da quelle havendo tempo sufficiente di ritirarsi avanti schiopi, e farvi il suo effetto, dovendo anco la [?] del castello avisare dove sij cascatta per meglior sicurezza, come di giorno e di notte facilmente puol conoscere [?] la notte, […] canone recano più spavento che danno mentre de canto e trenta tre bombe tirate in Trieste, non vi è restata alcun morto, che solo alcune case offese, come scrive il signor Conte Vido Strassoldo Capitaneo, onde tanto meno effettuarebbero in Duino, tenute non credo si risolvino a questo». ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 131, fascicolo lettere di parenti Della Torre, fascicolo corrispondenze con Raimondo Della Torre, 20 agosto 1702.

109 per cui: «si pretendeva che il Porto di S. Gioanni fosse Porto morto, benche ad immemorabili è stato sempre Porto vivo»111. Tuttavia, le pretese del Della Torre rimasero inascoltate e dal 1719 tutte le speranze torriane furono disattese poiché l’imperatore Carlo VI, in un ampio contesto di riforme atte alla modernizzazione della città di Trieste112, celebrò l’apertura dei porti franchi di Fiume e Trieste. L’atto segnò la fine per il porticciolo di San Giovanni, così come delle aspirazioni di Luigi Antonio Della Torre. La scottante frustrazione lo convinse a ritirarsi totalmente a vita privata, trascorrendo gli ultimi anni nel castello di Duino, dove morì il 17 gennaio 1723113.

2.3: La tiepida carriera di Camillo Colloredo.

Mentre la generazione Colloredo della prima metà del Seicento rimase soprattutto ancorata alle origini friulano-venete, a partire dalla seconda metà del XVII secolo si può constatare un concreto interesse da parte di alcuni rami del casato per le carriere presso i territori asburgici. In particolar modo, furono gli eredi di Giovanni Battista di Camillo Colloredo–Mels, della linea di Bernardo, a dimostrare una certa propensione ad entrare in servizio presso il Sacro Romano Impero. Giovanni Battista Colloredo, nato nel 1656 nell’omonimo castello friulano di Colloredo, ottenne in giovane età il favore dell’Arciduca Carlo (divenuto imperatore Carlo VI nel 1711) che gli fece avere l’incarico di ambasciatore prima presso la corte inglese e poi in Portogallo. Gli fu quindi conferita la nomina a Maresciallo di Corte, e venne infine insignito del Toson d’Oro. Morì nella capitale austriaca nel 1729 ma la salma venne trasportata nel maniero natio

111 Ivi, b. 136, fascicolo 1, Duino, 19 aprile 1716. 112 G. KLINGENSTEIN, Europäische Aufklärung zwischen Wien und Triest. Die Tagebücher des Gouverneurs Karl Graf Zinzendorf 1776-1782, Wien, Böhlau Verlag, 2009, pp. 83 segg. 113 BENZONI, Luigi Antonio Della Torre, cit., p. 611.

110 di Colloredo, dove la vedova – una certa baronessa von Burgstall – fece erigere un monumento funebre marmoreo in ricordo del marito114. Il Colloredo ebbe due figli maschi, Carlo Lodovico e Camillo. Il primo, tenuto a battesimo dall’Arciduca Carlo, sposò la principessa Eleonora Gonzaga, ramo Vescovato, dalla quale ebbe tre figli (Antonio Teodoro, Francesco e Carlo Ottavio). Negli anni venti del Settecento, questo nucleo famigliare si trasferì nel mantovano per amministrare le proprietà ereditate dalla moglie115. Diversa invece fu la carriera del primogenito, Camillo Colloredo, che nacque nel 1712 e rimase in Austria fino alla morte. Sulla carriera di Camillo Colloredo non si hanno molte notizie, ad eccezione della nomina a Cavaliere di Malta e della appartenenza al Toson d’Oro. Al 1749 risaliva la nomina a Consigliere Intimo (Geheim Rat) dell’Imperatrice Maria Teresa:

«Dem Kayl: und Königl: Obristen Hoff Marschallen wird hiermit in freundschafft erinnert. Demnach von Ihr Kayserl: und Königl: Mayl: dero Cammerern, Herrn Camillo von und auf Colloredo, des Heyl: Röm: Reichs Graffen von Wallsee, Herrn deren Herrschaft Dymokur, Sindär, Hluschiz, Libenau, Walperstorf, Hausenbach, Aynodt, Abbtstorf und Kottingbrunn uhralten Geschlechts vorforderen am Päbstlichen Rom: Kay: und anderen ansehelicheren fürstlichen Hoffen in Kriegs und fridens zeiten, zumahlen auch umb die Heyl: Kirchen sich erworbene grosse Verdienste, sonderheitlich die jenige welche Weyl: dessen Hl Vatter Seel Johann Baptist in Ispanien als Cammerer, zu Venedig als Bottschafter und als Obrist Hoff Marschall, zumahlen als Ritter des goldenen Vliesses am giesigen Kayserl: Hoff sich gesamblet; dann nicht weniger sein hl. graffens von jugend auff anfänglich als Kayserl: Edelknab, und dann als Haubtmann unter dem Locatellischen Regiment neun Jahr bezeugte Devotion, erlangte Kriegs erfahrenheit, und ausnehmende gemuths Eygenschaftten in gnädigsten betracht genohmen werden; Als haben Allerhöchst dieselbe aushöchsteygener Bewegens zu dero Würck geheimen Rath denselben bereits unteren 26ten Jenner des leztabgewiechenen 1749 Jahrs allergnädigst bestimmt, ernennet und gewürdiget. So man mithin Ihme Herren Obristen Hoffmaschallen zur wahrheit und Vormerckung in freundschafft ohnverhalten wollen. Ohne diese geheime Hoff und Staats Canzley zu all angenehmer dienstweisung willig und beflissen Verbleibet»116.

La struttura del decreto imperiale è costruita in modo da ricordare chi fosse il nobile insignito di un titolo (o di un ufficio) e da quale famiglia provenisse. Se a primo acchito questa documentazione può risultare stereotipata, ad un esame più approfondito può invece rivelarsi utile per inquadrare la biografia e la carriera del destinatario. È bene

114 CUSTOZA, Colloredo, cit., p. 228; CROLLALANZA, Memorie storico-genealogiche, cit., pp. 158; 196- 199. 115 CROLLALANZA, Memorie storico-genealogiche, cit., pp. 158-159. 116 OeStA, Haus, Hof und Staatsarchiv, HA OMaA Akten 601 – 90.

111 sottolineare però che i decreti imperiali contenevano molto spesso degli errori, anche se generalmente si trattava solo di imprecisioni ortografiche. In questo caso, non essendoci documentazione archivistica su cui fondare un riscontro, ci si affida solamente allo scritto teresiano. Nella ricostruzione, viene inizialmente fatto riferimento al padre di Camillo Colloredo, il conte Giambattista, e agli sviluppi del suo cursus honorum, da cui si apprende che il castellano fu anche ambasciatore a Venezia, Maresciallo di Corte a Vienna, nonché Cameriere. Per quanto riguarda il primogenito, Camillo Colloredo, risulta invece che sia stato Cameriere, come il padre, nonché paggio alla corte viennese durante l’infanzia. Viene infine citato il fedele e prolungato servizio (per nove anni) nel Reggimento Locatelli, lasciando intendere che il Colloredo avesse preso parte alle varie fasi della guerra di Successione per austriaca, consumatasi tra 1740 e il 1748. Ad eccezione di questo documento, presso lo Haus, Hof und Staatsarchiv di Vienna non ci sono altri documenti che attestano ulteriori progressi del cursus honorum del conte Colloredo. Anche l’Archivio di Stato di Udine tace le vicende di questo ramo castellano, lasciando presupporre che il conte si fosse ritirato a vita privata. A corroborare questa ipotesi vi sono alcuni documenti, risalenti alla metà degli anni Sessanta, compilati nella giurisdizione di St. Pölten (Niederösterreich), in cui sembra che il nobile si fosse rifugiato per occuparsi dell’amministrazione delle sue proprietà austriache117. È invece certo che il Colloredo morì nel 1797 e venne sepolto nella cappella di famiglia Colloredo-Montecuccoli, situata a Walpersdorf (Niederösterreich). Allo stato attuale della ricerca, si può affermare che la carriera del Colloredo non fu segnata né da prestigiosi incarichi, né da azioni memorabili. Come nei casi precedentemente analizzati di Porcia e Della Torre, dopo qualche fugace apparizione alla corte viennese, anche i Colloredo registrarono la tendenza a ritirarsi nei propri possedimenti per occuparsi dell’amministrazione locale o di questioni prettamente famigliari. Dalla documentazione archivistica esaminata sino ad ora la maggior parte delle cariche ottenute fu di basso profilo e coronata solo da numerosi titoli onorifici. Se si fermasse la riflessione solamente ai dati relativi a queste carriere, sorgerebbe quasi il dubbio che le famiglie studiate non avessero investito poi molte risorse per la gloria del casato. Tuttavia, prima di giungere alle conclusioni, è bene analizzare anche altri aspetti,

117 Ivi, Walpersdorf 333, Amtsberichte.

112 sociali ed economici, che consentono una ricostruzione più precisa delle politiche famigliari tra Sei e Settecento.

113

Capitolo 3: Famiglie.

3.1: I Porcia. 3.1.1: La rete di parentela.

Il principe Franz Anton di Johan Karl Porcia, nipote del primo principe Giovanni Ferdinando Porcia, morì senza figli nel 1698. Prima del decesso, redasse un testamento che designava come erede universale il conte Girolamo di Ferdinando Guido Porcia, un lontano parente che viveva nell’omonima località friulana. Ormai anziano, il successore preferì però rinunciare al titolo per lasciarlo al figlio, il conte Annibale Alfonso Emanuele Porcia1 che accettò, divenendo il quarto principe della schiatta nonché il capostipite di una nuova linea. Così, dalla fine del Seicento, Annibale Alfonso Porcia ereditò tutte le proprietà, le qualifiche, gli onori ed i privilegi che da quasi un cinquantennio spettavano al ramo carinziano del casato, subentrando così a pieno diritto nell’amministrazione delle fortune e nella perpetuazione del buon nome di famiglia. L’eredità, che vantava possedimenti dal Friuli alla Slovenia dalla Carinzia alla Baviera, si qualificava tanto cospicua, quanto complicata da gestire. Un simile compito gravava sulle spalle del principe al quale non bastò unicamente dirigere le proprie terre, ma si impegnò anche nel tentativo di affermarsi socialmente sia a corte, sia con l’acquisizione e l’espletamento di uffici al servizio degli Asburgo. Accanto agli impegni di natura professionale ed economica, vi era anche la famiglia che, lungi dal caratterizzarsi come un sicuro focolare, si qualificava piuttosto come un coacervo di equilibri e autorità. «Das adlige Haus stellte tatsächlich […] eine durch Verwandtschaft, Herrschaftsbeziehungen und wirtschaftliche Aufgaben gleichermaßen begründete Einheit dar», cioè la casa nobiliare si raffigurava come unità grazie alla parentela, ai rapporti di potere e alle problematiche di carattere economico2. Non si distingueva pertanto una linea di demarcazione tra l’esperienza pubblica ed il tentativo di ascesa sociale del capostipite da un lato, e la quotidianità domestica dall’altra. Anzi, sembra

1 KLA, Familienarchiv Portia, k. 12, f. 35G, 10 aprile 1698. 2 ASCH, Europäischer Adel, cit., p. 99.

114 piuttosto che nella famiglia si innestasse un processo di affermazione di tutto il casato, al punto che da ciascun membro ci si aspettava una totale subordinazione agli interessi della casa, al fine di promuoverla e ricoprirla d’onore. Ciò non preservava il clima famigliare da tensioni, e contrasti relazionali ma il fine indiscutibile rimaneva sempre e comunque la gloria del casato3. In questo complesso meccanismo relazionale, diventa pertanto utile indagare la natura dei rapporti parentali, al fine di comprendere quali fossero le figure sociali che più strettamente ruotavano attorno al capofamiglia e come questi contribuiva al mantenimento del buon nome del casato. L’indagine è stata quindi avviata sulle fonti archivistiche e, in particolar modo, sui carteggi privati per sondare quale fosse la rete parentale più prossima al principe Porcia e in quale modo i consanguinei purliliensi interagissero per difendere gli interessi della famiglia, qualora ve ne fosse l’intenzione. La ricerca non si è soffermata pertanto sulla sola generazione di Annibale Alfonso di Girolamo Porcia, bensì anche sulle due generazioni precedenti che, benché non fossero ancora salite agli onori principeschi, esibirono una certa attitudine alla celebrazione della propria schiatta. Le prime notizie su questo ramo dei Porcia risalgono alla prima metà del Seicento e riguardano i figli del conte Alfonso di Alfonso Porcia, ossia Massimiliano e Ferdinando Guido. Mentre quest’ultimo nacque e risiedé per buona parte della sua vita nella Patria del Friuli, il fratello si allontanò dalle terre natie, trasferendosi in Baviera. Non si conoscono molti dettagli della biografia di Massimiliano Porcia e nemmeno del cursus honorum compiuto in Germania, tuttavia è assodata la fedeltà mantenuta nel servizio alla corte del Principe Elettore Ferdinando Maria Wittelsbach (1636-1679). In particolar modo, il Porcia si distinse per l’incarico di Obersthofmeister4, Maggiordomo Maggiore, dell’Arciduchessa Enrietta Adelaide di Baviera (1636-1676), consorte del Wittelsbach, nonché nipote del re di Francia Enrico IV5.

3 Familienbande – Familienschande. Geschlechterverhältnisse in Familie und Verwandtschaft, a cura di E. Labouvie, R. Myrrhe, Köln-Weimar-Wien, Böhlau, 2007, pp. 1-9. 4 KLA, Familienarchiv Portia, k. 13, f. 40B. Sebbene il conte Massimiliano Porcia si affermò alla corte bavarese dove visse fino alla morte, gli albori professionali sono però riconducibili alla corte di Vienna, al tempo in cui era imperatore Ferdinando II (1619-1637). Da una lettera del conte Massimiliano al fratello Ferdinando Guido si evince infatti che il primo esercitava l’incarico di «Commissario» per conto dell’Arciduca Leopoldo Ignazio (poi imperatore Leopoldo I dal 1657 al 1705). Ivi, lettera scritta a Monaco di Baviera in data 23 settembre 1631. 5 SCHILLING, Corti e alleanze, cit., p. 224.

115 La vita privata del conte Massimiliano Porcia venne suggellata da almeno due matrimoni, di cui però si hanno solo lacunose notizie. Lo stralcio di un contratto nuziale risalente al 1 gennaio 1627 rivela che il feudatario di origini friulane impalmò la nobildonna Katharina Sidonia Fugger, figlia di Konstantin Fugger, signore di Kirchberg e Weissenhorn. La dote ammontò a cinquemila fiorini renani, mentre non è stato possibile decifrare la somma della controdote6. È certo che il Porcia non rimase unicamente legato a questa dama, in quanto un altro manoscritto riporta il contratto di acquisto di un loculo presso la cappella Schwarzenberg, a Monaco di Baviera, per un’altra moglie, probabilmente la seconda, una certa Magdalena Maria von Spirring7. Nel fondo Porcia, custodito presso il Kärntner Landesarchiv di Klagenfurt, la nobildonna von Spirring non è nemmeno menzionata se non per un minuscolo taccuino in pelle verde, contenuto nella busta 14, che ha le fattezze di un diario intimo della giovane contessa. In realtà, questo Tagebuch è composto di sole cinque pagine, ciascuna delle quali riporta una data con un evento. I fatti registrati sono strettamente personali e con ogni evidenza scandiscono delle cesure fondamentali nella vita della Spirring8. Dai due matrimoni, il conte Massimiliano di Alfonso Porcia ebbe vari figli. Dai carteggi con il fratello, Ferdinando Guido, si apprende ad esempio la nascita del terzogenito avvenuta nel settembre del 1631: il bambino prese il nome di Leopoldo Ignazio, in onore dell’Arciduca d’Austria, poi imperatore Leopoldo I (1657-1705), che lo tenne a battesimo9. Dall’epistolario famigliare, si evincono scarne informazioni relative ad un altro figlio, Alfonso, che intraprese la carriera militare al servizio degli austriaci, divenendo Tenente Colonnello10.

6 KLA, Familienarchiv Portia, k. 13, f. 40G, contratto 1 gennaio 1627. 7 Ivi, k. 13, f. 40C, contratto 21 giugno 1673. 8 I cinque fatti messi in evidenza sono: 2 aprile 1638 la morte del padre; 13 febbraio 1649 la morte della madre; 4 aprile 1643 giorno in cui Magdalena Maria von Spirring è entrata al servizio dell’Arciduchessa Anna Maria di Baviera, figlia dell’imperatore d’Austria Ferdinando II, nonché moglie del Principe Elettore di Baviera Massimiliano I Wittelsbach; 12 febbraio 1651 giorno del fidanzamento tra il principe Elettore Ferdinando Maria von Wittelsbach e l’Arciduchessa Enrietta Adelaide di Savoia; 18 giugno 1651, giorno delle nozze con il conte Massimiliano Porcia. Con questa data si chiuse il diario della contessa Magdalena Maria von Spirring. Ivi, k. 14, f. 40H2. 9 Ivi, k. 13, f. 40B, lettera del 23 settembre 1631. In quel periodo, il conte Massimiliano Porcia esercitava l’incarico di «Commissario» al servizio dell’Arciduca Leopoldo. 10 Ivi, k. 13, f. 40B, lettera di Ferdinando Guido Porcia scritta a Venezia, 20 agosto 1659; Ivi, k. 13, f. 40B, lettera di Ferdinando Guido Porcia scritta a Porcia il 10 novembre 1661. È plausibile supporre il conte Massimiliano Porcia sopravvisse a tutti i figli, in quanto nessuno di loro venne citato nel testamento paterno. Ivi, k. 13, f. 40E, testamento 28 luglio 1679.

116 Nonostante i dati su questo lignaggio risultino lacunosi, è comunque possibile ipotizzare un forte senso di attaccamento e di valorizzazione della famiglia, come era consueto nello spirito nobiliare dell’epoca. In età moderna infatti i casati aristocratici manifestarono una tendenza all’esaltazione delle proprie antiche origini e all’encomio di gesta memorabili compiute da avi, spesso più mitici che reali. La volontà di dare lustro alla propria storia glorificandone l’immagine, era un veicolo di competizione e contrapposizione con altri casati dal quale dovevano essere messi in risalto prestigio ed onore. Raramente una dinastia si sottraeva allo studio della propria genealogia: dalle case regnanti come gli Asburgo o i Borbone, alle famiglie nobili più modeste, i nobili si sfidavano a suon di araldica e alberi genealogici, al fine di provare credito e reputazione. Gli studi non garantivano sempre risultati veritieri ed affidabili: gli alberi genealogici rischiavano cioè spesso di sfociare in discendenze improbabili e leggendarie; i capostipiti risultavano talvolta personaggi storici dell’antichità, eroi di guerra, condottieri, magistrati, oppure delle figure mitologiche e favolose che non trovarono nessun riscontro nella realtà11. Da questa rincorsa al prestigio, non riuscirono ad esimersi neppure i Porcia che ripetutamente tentarono di dimostrare gloriosi natali. Nell’archivio carinziano di famiglia sono infatti raccolti disparati alberi genealogici che presentano la storia della famiglia dall’antichità alla fine dell’età moderna. Le ricostruzioni si palesano spesso nella loro totale fallacia, con errori di compilazione, trascrizione e lacune. Non vennero poi dissimulati gli sforzi di offrire al casato un’illustre genesi, facendola scaturire da eroi dell’antichità, oppure da un altrettanto famoso censore quale Marco Porzio Catone12. I tentativi di ricostruzione genealogica abbracciarono tutte le epoche dell’età moderna e quindi riguardarono anche gli interessi del conte Massimiliano di Alfonso Porcia che, insieme al fratello Ferdinando Guido Porcia, cercò di mettere a punto un esaustivo resoconto della discendenza famigliare13. Il carteggio tra fratelli presenta le sole missive inviate da Ferdinando Guido Porcia che stava evidentemente aiutando il consanguineo in un lavoro di ricomposizione delle parentele. L’impegno di Ferdinando Guido Porcia scopre un certo orgoglio per il proprio casato quando asserisce che «Casa Nostra non tiene bisogno di mostrare la nobiltà sua […] poiché cadauno deve ben sapere

11 BIZZOCCHI, Genealogie incredibili, cit., pp. 74-78. 12 KLA, Familienarchiv Portia, k.1. 13 T. MAYER, Il conte Massimiliano di Porcia scrive la storia della famiglia da un manoscritto finora sconosciuto, in I Porcia, cit., pp. 115-119.

117 che la nostra Famiglia hà bene discapitato in facoltadi, et similia, ma non nella Nobiltà del sangue che passa da mille anni conosciuta conspicua et preferenti ai altri di Italia»14. Una frase apparentemente tiepida ma fortemente allusiva alle fortune del casato che non sembravano più solide a causa «de perdite fatte […] dalli Principi da capricci»15. Nonostante la situazione economica avesse perso solidità, Ferdinando Guido Porcia si dimostrò intransigente nell’attribuire un’antica origine alla propria stirpe, annoverandola dunque tra quelle famiglie che si potevano definire appartenenti alla «Nobiltà di sangue»16. La redazione dell’albero genealogico purliliense dovette tenere occupati a lungo i due conti in quanto due anni più tardi Ferdinando Guido scrisse nuovamente al fratello precisando ulteriori dettagli sulla storia del lignaggio. La missiva esordiva con un’espressione di sollievo per il buon esito delle ricerche tanto che Ferdinando Guido Porcia provava «gusto che à Vostra Signoria Illustrissima sia riuscito l’Arbore, con l’antichità della Nostra Famiglia». L’epistola continuava con alcune precisazioni circa le ascendenze femminili: Massimiliano Porcia aveva probabilmente richiesto nomi e cognomi delle consorti maritate a conti e principi Porcia. La risposta del fratello incespicò invece tra dubbi e omissioni che denotavano una scarsa preparazione in materia genealogica. Nonostante le competenze del conte difettassero, non venne meno però quella sorta di fierezza per la storia del proprio casato che gli doveva apparire più importante di altre17. I contatti tra i due fratelli Porcia si estesero a vari ragionamenti il cui interesse focale rimase la famiglia e il futuro del casato. Forse anche per questo, Ferdinando Guido e Massimiliano Porcia si incontrarono a Gaiarine, località appartenente alla giurisdizione purliliense in territorio veneto (oggi in provincia di Treviso) per rogare un atto notarile sancente la divisione dei beni tra fratelli: dal documento si evince che il conte Massimiliano, ormai definitivamente stanziatosi in Baviera, mantenne il controllo sui

14 Ivi, k. 13, f. 40B, lettera di Ferdinando Guido scritta a Porcia, 17 giugno 1657. 15 Ibidem. 16 LABATUT, Le nobiltà europee, cit., pp. 53-78. 17 «Delle Donne havute in Casa nostra, è impossibile ritracciare il vero, basta però solo, che di continuo per avanti in Nobilissime Famiglie s’hanno li nostri Progenitori maritati, quello ch’io potrò havere, li farò pervenire, si dell’uno, che dall’altro Collonello, parte di quali sii la sua medema carta ne ho segnato, eccetto di Prosdocimo, del quale io non so per anco la moglie, et di Antonio Padre del Conte Ermes so che era Valvasona, mà non si ho il nome, so ben dire io questo, che si sa che la Nobiltà delli Conti di Portia, antiquitura in qua sij Nobilissima, et non interrotta, anzi chi bene cerca, trovarà, che la casa Lodrona et la Casa di Palfi, (si come si dice) viene dalla nostra Famiglia». KLA, Familienarchiv Portia, k. 13, f. 40B, lettera di Ferdinando Guido scritta a Venezia, 18 dicembre 1659.

118 possedimenti tedeschi, mentre al congiunto spettò la supervisione delle proprietà dislocate nel Friuli veneto. Massimiliano Porcia sovvenzionò inoltre al fratello dei contributi in denaro per alleviare la situazione delle campagne friulane, devastate dalla Guerra dei Trent’anni18. L’atto divisorio stabiliva così una disgiunzione dei beni di famiglia che, da quel momento in poi, furono amministrati autonomamente dai discendenti di ambo i contraenti. Circa quarant’anni più tardi, il conte Massimiliano Porcia redasse il proprio testamento che sovvertì le sorti dei possedimenti bavaresi. Non avendo avuto figli, il Porcia destinò il patrimonio in terra tedesca ai congiunti più prossimi e, in primo luogo, alla moglie Magdalena Maria von Sperring, designata erede universale19. Il secondo successore fu poi il conte Annibale Alfonso Emanuele di Geronimo Ascanio Porcia20, beneficiario del fedecommesso istituito sui beni bavaresi21. Con quell’atto si cassò la separazione dei beni all’interno del lignaggio e quasi tutto il patrimonio venne incorporato dal conte Annibale Alfonso Porcia, prossimo al conferimento del titolo principesco e dei beni carinziani, in seguito all’estinzione della linea purliliense di Giovanni Ferdinando di Giovanni Sforza Porcia. Massimiliano Porcia fu molto preciso nel redigere le clausole che limitavano la successione al fidecommesso bavarese, destinando l’eredità ai soli discendenti maschi del conte Annibale Alfonso Porcia: solo in caso di estinzione della linea maschile sarebbe allora potuta subentrare quella femminile. E qualora malauguratamente non ci fossero stati eredi, i beni tedeschi sarebbero passati ai discendenti del Colonnello di Sopra22, escludendo perciò dal lascito i successori del conte Brazzalea Porcia, ultimo

18 Ivi, k. 13, f. 40B, atto notarile, Gaiarine, 25 febbraio 1636. 19 Ivi, k. 13, f. 40E, testamento del 28 luglio 1679. A sua volta, la contessa von Spirring redasse un testamento in data 4 ottobre 1680 in cui dispose la spartizione di alcuni beni mobili tra i figli (avuti da un precedente matrimonio) e le sorelle. Ivi, k. 14, f. 40H2, testamento, Monaco di Baviera, 4 ottobre 1680. 20 Girolamo Ascanio Porcia era infatti figlio del conte Ferdinando Guido, fratello di Massimiliano Porcia. 21 «Neuntens instituire ich obgedacht meinen Lieben hl: Vetteren Hannibal Alphonsen Grafen von Portia zu meinem fidei – commis – Erbe also und dergestalten, daß er, und alle von Ihm herstammende, Männlich Ehelich und Weibliche Descendenten, und Agnaten, wie fidei – Comiss Rechtens ist, succediren, und mithin obspecificirte Güther, und Stück bey diesen Männlichen Stammen der Grafen von Portia und endlich, ungeschmählert conferirt, und erhalten werden. Würde aber diese meines instituirten fidei – commis Erbens Eheliche Succession und Descendenz nach dem und endlichen Willen Gottes abgehen, so solle» KLA, Familienarchiv Portia, k. 14, f. 40H2, testamento, Monaco di Baviera, 4 ottobre 1680. 22 Ibidem. Il documento originale sulla successione di Massimiliano Porcia alla linea di Girolamo Ascanio Porcia si trova in Appendice, documento 4.

119 esponente del terzo ramo dei Porcia di Sotto23. Con quest’ultimo lignaggio si erano cristallizzate così forti tensioni che il conte Massimiliano Porcia preferì pensare all’alienazione o al pignoramento di tutti i beni bavaresi, piuttosto che lasciarli amministrare agli eredi del consanguineo Brazzalea24. Qualche anno più tardi, nel 1683, anche Ferdinando Guido di Alfonso Porcia dettò le sue ultime volontà. In questo caso non fu istituita una primogenitura, bensì i beni di famiglia furono infatti spartiti tra tutti i figli maschi. Questa volta erano in gioco i possedimenti friulani, nella fattispecie le giurisdizioni purliliensi stanziate in territorio veneto. La parte più interessante del testamento riguardò il primogenito, ossia il conte Girolamo Ascanio. Questi infatti si assicurò il «Palazzo novo» di Porcia, di recentissima acquisizione, che suo padre definì «di minor comodo, et non perfezionato», ma che gli garantiva tutte «le sue habenze, et […] tutti gli addobbamenti, mobili, pitture, et tutto quello che in esso di presente si attrova»25. Oltre alla residenza, il conte Girolamo Ascanio si assicurò anche delle proprietà terriere che «sono state perticate et con l’assistenza de colloni stimate da M. Stefano Segato Pubblico Agrimensore con suo

23 La distinzione tra Colonnello di Sopra e di Sotto risale alla seconda metà del Duecento con la divisione del patrimonio tra i fratelli Artico e Gabriele di Guido Porcia, entrambi deceduti nel 1288. Gabriele Porcia fu il capostipite dei Porcia di Sotto, e i suoi due figli, Bianchino e Ludovico, generarono due differenti lignaggi. Dal ramo di Ludovico discese Brazzalea Porcia, ossia il conte citato dal testamento di Massimiliano Porcia. Questo ramo si estinse nel diciottesimo secolo. L’altro ramo, ossia quello derivato da Bianchino, si divise nel Cinquecento tra i conti Antonio e Prosdocimo, di cui il primo fu progenitore del conte Alfonso Porcia (nonno dei conti Ferdinando Guido e Massimiliano), mentre il secondo – Prosdocimo Porcia – fu trisavolo del principe Giovanni Ferdinando di Giovanni Sforza Porcia. Quest’ultima linea si estinse nel 1698 con la morte del principe Franz Anton di Johann Karl Porcia che non ebbe figli maschi. Il fidecommesso bavarese, dunque, istituito dal conte Massimiliano fu destinato al parente più prossimo, ossia al conte Annibale Alfonso di Girolamo Ascanio Porcia. Se quest’ultimo fosse morto senza eredi, i consanguinei più stretti sarebbero stati i Porcia del Colonnello di Sotto, discendenti da Brazzalea, che vennero però esclusi dal testamento. In base alle ricerche di Therese Mayer, il conte Massimiliano dimostrò sempre un vivo disprezzo nei confronti del lontano parente Brazzalea, considerato un «bastardo». Egli infatti fu l’erede di un ecclesiastico, un certo Brazzaia, che prima di morire convolò a nozze con la concubina dalla quale aveva concepito e legittimato almeno un paio di figli. La Repubblica di Venezia in seguito riconobbe sia il matrimonio, sia la legittima discendenza che si stabilì a Brugnera (comunità di pertinenza dei conti Porcia). Disturbato dalla disonorevole vicenda, il conte Massimiliano estromise dal lascito questo ramo del Colonnello di Sotto, favorendo il lignaggio dei Porcia di Sopra. MAYER, Il conte Massimiliano, cit., p. 117. 24 KLA, Familienarchiv Porcia, k. 13, f. 40E, testamento 28 luglio 1679. 25 Ivi, k. 14, f. 41,1, testamento, Porcia, 29 marzo 1683.

120 giuramento come dalle perticationi et stime» per un totale di ducati 35.94826, insieme alla casa dominicale di Gaiarine27. Girolamo Ascanio sposò la nobildonna Ludovica di Antonio Polcenigo e Fanna28 dalla quale ebbe una consistente figliolanza. Mentre il primogenito, il principe Annibale Alfonso Porcia, risiedette sempre in Austria, Girolamo Ascanio visse nel palazzo nei pressi di Pordenone insieme alla moglie. Si occupò dell’amministrazione dei beni di famiglia e non lasciò traccia nella documentazione archivistica famigliare almeno fino all’autunno del 1710, quando cercò con insistenza di corrispondere per lettera con il figlio maggiore. Dalle missive traspariva un sentimento di disagio che l’anziano genitore provava verso gli altri figli, poco amorevoli nei suoi confronti. Per tal ragione, Girolamo Ascanio Porcia stimolò un assiduo contatto con il primogenito, ritenuto più sensibile dei fratelli: «Anco l’istesso mio figliolo l’ordinario ante passato con sua mi certificò del suo filiale animo in sovenirmi nelle presenti mie angustie quali non puonno havere altro suffragio che dalle sue buone viscere che ancora dimostra verso di me, quando tali non le scorgo negl’altri miei figlioli, che proveranno tenermi così oppresso con tanto ingiustizia, quanta è statta la mia bontà in spogliarmi di tutto per dar tutto a loro, Dio non voglia, che la sua giustitia vendicatrice non fulmini quale impensato castigo sopra di loro perché al certo la mia Principessa et io siamo trattati in maniera tale, che peggio d’un servo attuale»29. A partire da questa lettera, ne seguirono altre otto, scritte nei successivi dodici mesi, in cui il conte Girolamo Ascanio non omise dettagli sugli infelici rapporti intrattenuti con la prole e le difficili condizioni di vita in cui versava. Il castellano lamentava con particolare affanno la precaria condizione economica in cui viveva e una crudele disattenzione da parte dei figli che non esitavano ad esporre i genitori al pubblico

26 Ibidem. 27 È certo che Ferdinando Guido Porcia ebbe altri figli di cui sono giunte esigue notizie. Almeno uno, Giovanni Antonio, morì senza prole e nel suo testamento devolse la sua quota patrimoniale ai nipoti, figli di Girolamo Ascanio, tra cui anche il principe Annibale Alfonso Porcia. Ivi, k. 15, f. 42C, testamento, Ragogna, 1 marzo 1728. 28 La nobildonna venne ricordata nel testamento del suocero, Ferdinando Guido Porcia, che le assegnò in punto di morte dei beni per un valore totale di mille ducati correnti ai quali si sommavano mille ducati in contanti, come segno di riconoscenza per «l’affetto sempre professato [e] la bontà incomparabile di detta Signora Contessa Lodovica mia Nora». Ivi, k. 14, f. 41,1, testamento, Porcia 29 marzo 1683. 29 Ivi, 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Porcia 4 ottobre 1710.

121 ludibrio30. Stando alle parole del conte non si trattava solo di negligenza, bensì di maltrattamenti verbali cui i due attempati genitori erano di continuo sottoposti31. Per Girolamo Ascanio Porcia e Ludovica di Polcenigo il contesto famigliare era diventato insostenibile, al punto che abbandonarono il palazzo purliliense per cercare riparo presso più ospitali parenti32. Nelle lettere, Girolamo Ascanio Porcia ricercò ripetutamente consiglio e aiuto dal primogenito che dimostrò una certa estraneità al problema, evitando di rispondere33. Soprattutto, all’anziano feudatario premeva assicurarsi la riscossione di una certa somma di denaro che – a suo dire – gli spettava di diritto e gli era stata sottratta dai figli. Insistette di continuo con il figliolo principe affinché questi correggesse le mancanze fraterne e, non riscontrando replica, lo minacciò: gli intimò di intervenire con gli altri fratelli, ovvero sarebbe ricorso ad influenti conoscenze nelle magistrature veneziane per riottenere tutto il suo patrimonio34. Oltre alle lettere del conte Girolamo Ascanio, l’archivio Porcia di Klagenfurt conserva alcune missive dei figli del feudatario che, per svariate ragioni, scrissero a Spittal al fratello Annibale Alfonso Porcia. Anche in questo caso, non esiste un copialettere con le epistole del principe “carinziano”, per cui sono state visionate le sole

30 «Dunque volevano costoro che mi vestivo solo, ma chi tremava di freddo tacesse, quello e un trattamento da cane, et da barbaro dishumano, goder et ridersi de loro genitori laceri, et patienti ad oggetto di più presto sbrattarsi, aciò mutino il mondo col cielo avanti la loro hora, altro argomento non si può fare Dio lo sa il freddo patito, et tutti lo sanno come sono vestito mentre a loro confusione con mio però sommo rossore, mi pongo alla vista de huomini, perche commiserino il mio statto et si stupischino dell’innumano trattamento che ci fanno questi arrabatti cani, et ne esigo dal mondo con mio contento un giusto compatimento al statto pezzente che m’attrovo. […] Alla mia Principessa devono pure ducati 100, ancor questa lacera et priva di riparo alla rigida staggione, pare, che cadda il mondo, et la reputano peggio d’una spazza […] oltre un odio così intenso, et rabbioso, che ne meno la possono vedere, finalmente e Madre, li hà concepiti, et partoriti, mà a sua sventura, cani arrabbiati contro di lei, che se il precetto di Dio non facesse ostacolo, credo avanti di quella hora la haverebbero fatta vittima, et sacrificio cruento alla loro arrabbiata volontà». Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Porcia, 7 dicembre 1710. 31 «Per stabilire poi una quiete costante cui si ricerca, che Voi caldamente incarichiatte li vostri Fratelli, et Sorella al maggior rispetto verso la Principessa loro Madre et che la lingua sattinica di vostra sorella sia tenutta in freno, mentre per verità sdruciola molte volte a certi concetti, che se tali per l’avenire saranno sentiti, si passarà alla correttione con fatti, perche quella frescona oltrepassa troppo sprezzantemente verso la Madre, et io stesso molte volte l’ho sentita con parole proprie oltraggiarla, perche se non seguirà emendazione non mi potrò tenere dal correggerla, mentre non è di dovere, che la figlia si prenda tanta licenza contra la madre, et può ne essa, ne li vostri fratelli puonno mai credere le cose loro felicitatte per il poco rispetto portano a loro genitori, quali non sono ben veduti, et ciò l’osserva visibilmente, si che questo punto deve da Voi essere saggiamente a loro inculcato di gravami». Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Porcia, 1 dicembre 1711. 32 Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Savorgnano 11 ottobre 1711. 33 Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Ragogna, 5 ottobre 1711. 34.Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Ragogna, 2 novembre 1711. Si veda Appendice, documento 5 sui rapporti tra il conte Girolamo Ascanio Porcia e i suoi figli.

122 lettere inviate dai fratelli. In questi manoscritti non si fa mai accenno alla questione patrimoniale, né ai maltrattamenti inflitti ai genitori, e neppure alle condizioni economiche del lignaggio friulano. L’unico accenno alla famiglia risale all’aprile del 1712, in cui il conte Guido Porcia, fratello di Annibale Alfonso, comunicò al principe l’improvvisa e inaspettata scomparsa dell’anziano genitore che complessivamente aveva goduto di buone condizioni di salute fino al giorno del decesso35. È essenziale ribadire la lacunosità della corrispondenza famigliare nell’archivio carinziano, per cui tale difetto potrebbe celare discussioni domestiche essenziali alla comprensione dello stato reale nei rapporti intergenerazionali fra congiunti Porcia. Attualmente rimane solo la percezione di un profondo divario tra il tono delle missive di Girolamo Ascanio Porcia, furente verso la prole e tormentato dalle questioni patrimoniali, e quelle dei figli che non menzionano neppure il nome del padre, se non per il disbrigo della cerimonia funebre. La fotografia di questa particolare condizione relazionale potrebbe indurre alla semplice illazione per cui l’anziano padre, nell’ultimo anno di vita, si torturò con angosce inconsistenti e fissazioni prive di fondamento, visto che non riuscì a provocare nessuna replica, tantomeno l’interesse dei figli. È però altrettanto plausibile che il conte Girolamo Ascanio Porcia si fosse trovato in una situazione economica difficile non tanto per la negligenza dei figli, quanto per dei debiti contratti dallo stesso conte: in una lettera al figlio Annibale Alfonso Porcia si lasciò infatti scappare un commento circa «li debiti da me fatti», di cui però non si conosce né l’entità, né la causa36. In quegli anni inoltre il conte Girolamo Ascanio Porcia doveva aver redatto un «Publico Instromento» (1709) in cui designò tutti i figli come «Signori assoluti» del patrimonio famigliare. Nel documento, il conte pose però un codicillo che impegnava ciascun erede a versare rate mensili per provvedere al mantenimento di entrambi i genitori finché fossero rimasti in vita. In base al resoconto paterno, i versamenti previsti non furono quasi mai effettuati, cioè non furono mai rispettate le quote prefissate, lasciando padre e madre sul lastrico37. A partire dall’invio di questa missiva, il conte

35 Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Guido Porcia, Porcia, 16 aprile 1712. 36 Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Ragogna, 2 novembre 1711. 37 «L’anno 1709 annellando la vostra Fratellanza al dominio assoluto, et indipendente di tutto ciò, che doppo la mia mancanza le perveniva, volend’ovi essere anzi avanti tal caso li consoli, et giratto Publico Instromento, che in copia vi invio, fù stipulato con li capitoli, che leggerate. Fatti Signori assoluti, il primo anno senza veruna corresponsione, mi fecero sempre con un mendico [?] di sol 70 ducati, consideratte il tratto cagnesco. Tenutto li anno corrente 1710, d’Aprile mi si dovevano ducati 83 hebbi

123 Girolamo Ascanio Porcia premette di continuo sul principe suo figlio affinché gli venissero riconosciute e concesse le rate previste dalla disposizione notarile: si susseguirono perciò varie epistole nelle quali il feudatario friulano pretese la quota di capitale per il proprio sostentamento e quello della moglie38. L’invio delle lettere persistette fino alla fine del 1711, mentre con l’inizio dell’anno successivo mancò qualsiasi riferimento alla questione patrimoniale che probabilmente si risolse – di lì a quattro mesi – con la scomparsa del conte Girolamo Ascanio Porcia. Oltre alle conversazioni con il padre, il principe Annibale Alfonso Porcia mantenne corrispondenza anche con i numerosi fratelli di cui, la maggior parte, visse nella Patria del Friuli. Uno di loro, il conte Carlo Porcia – che nelle fonti viene talvolta citato anche come Johann Karl Portia – tentò la carriera militare per conto dell’esercito asburgico, conseguendo discreti risultati. L’esito di maggior successo fu probabilmente la partecipazione alla battaglia di Luzzara, nel corso del secondo anno della Guerra di Successione Spagnola. Nel 1702, infatti, Filippo d’Angiò (futuro re Filippo V di Spagna) capeggiò un contingente giunto in Italia in difesa dei possedimenti spagnoli. Nei pressi di Cremona, unì il proprio esercito a quello francese del generale Vendôme e alle truppe del governatore di Milano, il principe di Vaudemont. La coalizione premette affinché gli austriaci, capeggiati dal principe Eugenio di Savoia, abbandonassero l’assedio a Mantova. Nell’agosto del 1702 gli alleati franco-spagnoli avanzarono verso Sailetto e lì infuriò la guerra nei pressi di Luzzara. La battaglia non determinò né vinti, né vincitori, bensì solo un elevato numero di caduti e feriti in ambo gli eserciti. Nella lista dei contusi finì anche il conte Johann Karl Porcia che allora combatté in qualità di General - Feldwachtmeister (Mastro di Campo Generale) di un reggimento di fanteria39.

soli ducati 50, che apena mi servirono a farmi un vestito […] per l’estate, […]. E poi venuta la ratta d’ottobre, che dovevasi nuovamente a me ducati 163, et li ducati 33 restanti d’Aprile, e passato novembre siamo alli 7 di dicembre, niente affatto, et sollecitando più volte credendomi ancor hoggi di al dispeto della stagione ne vestito d’estate, la barbarie inhumana era passata al segno, che volevano rompere il stabilito instrumento, et pretendevano invadere li m/4 annui che a me solo aspetavano, et appropiarseli per loro, consideratte l’ingiustitia di que animi ferini verso li loro genitori, che potiamo ben dire con ragione di costoro […] Dunque questi cani havevano divisatto niente darmi, et fossimo suo Padre, et sua madre perche sole spese». Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Porcia, 7 dicembre 1710. Nella lettera Girolamo Ascanio fa riferimento al «Publico Instromento» avvisando il figlio, Annibale Alfonso Porcia, di aver allegato una copia alla missiva sopracitata. Tuttavia nel fondo Porcia di Klagenfurt non è presente questo documento, né è stato possibile rintracciare il testamento originale in una delle buste dell’archivio famigliare. 38 Ivi, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Porcia, 4 aprile 1711; Savorgnano, 18 ottobre 1711; Ragogna, 2 novembre 1711; Porcia, 7 dicembre 1711. 39 PROBSZT, Die Portia, cit., p. 170; HERRE, Eugenio di Savoia, cit., pp. 95-96.

124 Prima di partire per la spedizione italiana, Johann Karl Porcia aveva inviato sue notizie al fratello principe a Spittal per aggiornarlo sulle circostanze belliche. Nonostante siano rimasti solo dei frammenti del carteggio originale, l’impressione è che sia intercorso uno sistematico scambio di lettere tra fratelli, soprattutto da parte del soldato che informava di continuo il principe sui suoi spostamenti40. Il Mastro di Campo Generale mantenne dunque un atteggiamento di rispetto e obbligo verso la famiglia, il cui onore restava il fine ultimo di ogni azione: «il mio Generale per via delle mie preghiere mi ha impromesso Una Bandiera per uno de’ miei Fratelli, donda adesso puol vedere Per Excellenza vostra, che ale miei dimande che ho fatto al mio Generale sono esaudito et di questo veda Vostra Excellenza che io cerco l’avantaggio per li miei Fratelli, e di tutta la Casa»41. L’ufficiale partecipò anche ad altre operazioni militari come, ad esempio, il quarto assedio alla fortezza di Landau in Baviera che, nel 1713, cadde in mano ai francesi42. Sebbene le fonti manoscritte non registrino altre partecipazioni del Porcia ad imprese militari, le ricerche di Günther Probszt attribuiscono al conte di origini friulane anche lo sbarco in Sicilia (1719) insieme al contingente austriaco scontratosi con la Spagna di Filippo V decisa a riprendersi i domini italiani persi con il trattato di Utrecht (1714). La battaglia di Milazzo, cui partecipò il Porcia, fu infruttuosa per l’esercito imperiale e la stessa carriera del Mastro di Campo Generale era ormai sulla fase del tramonto, in quanto morì solo un anno più tardi (1720)43. Oltre a Carlo Porcia, anche un altro fratello del principe di Spittal si fece strada in territorio asburgico; si tratta di Ermes Porcia, arciprete a Villacco44. Nelle corrispondenze mancano riferimenti alle modalità con cui il religioso amministrò

40 «Hoggi Ricevuto ordine del mio Regimento che io devo marciare con la mia Compagnia alli dieci di questo verso Italia, et avanti partire dal mio quartiere non voglio far di meno di venire con queste quattro righe servire Vostra Excellenza, et prender Congetto de Tutta la Casa, et recomendarmi nel Loro orationi et gratie, et quando Vostra Excellenza mi vorrà favorire degli suoi graziosissimi Caratteri, l’attrappimento lò puol fare al Secretario Rettinger à Vienna, che lui gli darà al nostro Generale, acciò che à me vengano secure». KLA, Familienarchiv Portia, k. 15, f. 42C, corrispondenze con Carlo Porcia, 8 febbraio 1701. 41 Ibidem. 42 Anche in questa occasione il Mastro di Campo Porcia non tralasciò di fornire dettagli ad Annibale Alfonso Porcia sui preparativi dell’attacco militare in Baviera: «il faut que j’avertisse Votre Altesse que les enemie font toutes les praeparatifs d’attaquer nos lignes pour s’ouvrir le passage de Baviere et l’on veut meme s’assurer qu’ils ont deja assemble un corps renforce par des autres trouppes qu’il arrivent de la Loraine et Dauphiné cet pourquoi pour sobpasser aux desseins de francois et lon n’ous a deja ordone de nous tenire pret de pouvoir m’archer a la premiere l’ordre» KLA, Familienarchiv Portia, k. 15, f. 42C, corrispondenze con Carlo Porcia, Waldshut, 11 febbraio 1713. 43 PROBSZT, Die Portia, cit., p. 171. 44 KLA, k. 21, fascicolo Ermes, insediamento a Villach 1726.

125 l’ampia parrocchia, tuttavia il purliliense incontrò delle grosse difficoltà nell’adattarsi alla lingua tedesca, troppo complessa per le sue conoscenze45. Ad eccezione dunque dei due conti, Carlo ed Ermes Porcia, che provarono a costruirsi una carriera presso i territori imperiali, gli altri fratelli del principe rimasero nella Patria del Friuli. Dalle corrispondenze non è semplice ricostruire le loro biografie poiché gli accenni alle vite private e alle occupazioni furono sporadici e superflui. Al contrario, il tema che ricorre continuamente nell’epistolario riguarda aspetti prettamente economici poiché i fratelli Porcia scrissero con regolarità a Spittal per domandare denaro. I sei fratelli Porcia (Vittoria Celeste, Carlo, Guido, Ermes, Massimiliano e Pileo) non mancarono mai di avanzare richieste di soldi per sopperire al loro mantenimento, a quello dei loro figli, per maritare decorosamente le figlie e, più in generale, per tenere saldo il prestigio e la dignità di tutto il casato46. Ad una prima lettura, le continue pretese di denaro possono apparire come una prevaricazione ingiustificata da parte di parenti che esigevano di vivere sulle spalle altrui. In realtà, in età moderna vi era la consuetudine da parte dei figli cadetti di appoggiarsi al consanguineo socialmente più riuscito per poter mantenere uno stile di vita adeguato al proprio rango. Tale atteggiamento dipendeva in parte anche dal sistema successorio in uso nello stato di residenza. Nel caso austriaco, ad esempio, era in auge l’abitudine di mantenere indiviso il patrimonio, cedendolo in eredità ad uno solo dei figli. Il sistema andava in genere a beneficio del primogenito che, a sua volta, conferiva tutto il capitale al proprio figlio maggiore. In questo modo, il lascito non solo garantiva ad uno degli eredi di assicurarsi la maggior parte dei beni del lignaggio, ma gli conferiva anche l’onere di provvedere al benessere degli altri congiunti. Questi ultimi avevano comunque il diritto di partecipare alla riscossione dell’eredità ma in misura minore, godendo cioè di limitate porzioni del patrimonio. L’assegnazione di quote inferiori rischiava però di essere fonte di tensione e rivalità in famiglia, nonché di una dipendenza economica dal fedecommesso: come rivalsa alla percezione di essere stati posti in secondo piano, i congiunti si stringevano attorno all’erede avanzando la richiesta di contributi in denaro, vitalizi ed altri beni materiali. Ma non solo. L’eredità e la posizione sociale spesso assunta dal beneficiario del fedecommesso diventava un richiamo per tutti i congiunti desiderosi di migliorare la propria condizione

45 Ivi, k. 21, fascicolo Ermes, Porcia, 19 novembre 1757. 46 Ivi, k. 15, f. 42C, fascicolo corrispondenze Carlo Porcia, lettera 20 aprile 1715.

126 professionale e di vita. E dunque, vantando un solido legame con l’epicentro del casato, i parenti speravano in qualche miglioramento nel proprio stile di vita47. I rapporti tra congiunti e, nel caso specifico tra fratelli, non vanno però esaminati esclusivamente alla luce della conflittualità. Le relazioni parentali potevano anche dipendere dalla vivacità del legame e dalla vicinanza, ovvero distanza geografica tra parenti. Un’altra caratteristica emersa dalla lettura dei carteggi Porcia riguarda infatti la struttura del casato, ossia la composizione del nucleo famigliare e le relazioni fra membri. Nel caso purliliense, i vincoli parentali possono essersi complicati anche in conseguenza della lontananza tra fratelli per cui, mentre il principe Annibale Alfonso risedette stabilmente a Spittal, i suoi fratelli ed il padre erano dislocati in molteplici comunità della Patria del Friuli. Questa separazione si identifica nel modello famigliare detto nucleare, ossia «formato da una sola unità coniugale (marito, moglie, con o senza figli)» e contrapposta al sistema delle famiglie multiple «caratterizzate [cioè] da due o più unità coniugali» conviventi sotto lo stesso tetto48. Per quanto riguarda i Porcia, la loro frantumazione residenziale in famiglie nucleari fu dovuta ai numerosi possedimenti dislocati non solo nella Patria del Friuli, ma anche in Carinzia, Slovenia e Baviera49. Le forze famigliari si stanziarono pertanto nei vari territori, al fine di poter amministrare i propri beni e tentare da più parti l’affermazione sociale. Sebbene la spaccatura in più famiglie nucleari fosse stata per i Porcia quasi un obbligo, questo costume rispecchiava però una tradizione particolarmente acclarata nei paesi dell’Europa occidentale, tra cui vanno inclusi anche quelli di lingua tedesca. Con la formazione di una nuova coppia, si determinava cioè il distacco degli sposi dal nucleo patriarcale e la creazione di una nuova famiglia, in cui il marito assumeva la responsabilità di divenire il nuovo capofamiglia. In questo senso, anche il principe Porcia rifletté gli usi e la cultura europea del tempo.

47 L. A. POLLOCK, Il rapporto genitori-figli, in Storia della famiglia in Europa. Dal Cinquecento alla Rivoluzione Francese, a cura di M. Barbagli, D.I. Kertzer, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 294-296. 48 M. BARBAGLI, D. I. KERTZER, Introduzione, in Storia della famiglia in Europa, cit., p. XIII. 49 All’inizio degli anni Quaranta del Settecento (ossia a tre anni di distanza dalla morte del principe Annibale Alfonso Porcia), i fratelli Porcia si trovarono in tribunale a Lubiana per una causa relativa al fedecommesso istituito sul possedimento sloveno di Senosecchia. La proprietà era infatti contesa tra i fratelli del defunto principe Annibale Alfonso Porcia che si recarono in tribunale a Lubiana per risolvere la diatriba e stabilire chi godesse di reali diritti di dominio. Archivio Storico Diocesano Pordenone, Fondo Porcia-Ricchieri, XI.3.5; XI.3.6; XI.3.7.

127 Nonostante la lontananza geografica, i Porcia intrattennero comunque una stretta corrispondenza. Da questa si evince la rete di comunicazione che legava i congiunti e la percezione che essi avevano del concetto di famiglia. I conti purliliensi si strinsero cioè attorno ad un limitato contesto famigliare che includeva il padre (il conte Girolamo Ascanio di Ferdinando Guido Porcia), il principe Annibale Alfonso di Girolamo Ascanio Porcia e i fratelli. Se si interpretano le epistole, dunque, ne deriva che i Porcia si riconobbero solo attorno al proprio lignaggio, ossia «a un gruppo che riconosce solo un’unica linea di discendenza da un antenato e quindi non include rami separati; essa [cioè] insiste sul concetto di chiaro vincolo di consanguineità»50. Nelle corrispondenze famigliari non si sono infatti riscontrati interlocutori estranei al lignaggio in questione e neppure i Porcia manifestarono interesse per lontani consanguinei, o parenti acquisiti. Gli affari della famiglia erano di responsabilità del principe Annibale Alfonso Porcia su cui gravava anche l’onere di sistemare i propri famigliari e di provvedere in parte anche al loro mantenimento.

3.1.2: Il matrimonio di Annibale Alfonso Porcia e l’affaire Lodron.

La complessa vicenda del matrimonio celebrato nel primo Settecento da Annibale Alfonso di Porcia ci pone di fronte, in modo davvero esemplare, alle principali difficoltà di introduzione ed applicazione nell’Europa cattolica del decreto tridentino sul matrimonio. Come è noto, nel Medioevo il matrimonio si fondava sul consenso degli sposi e la celebrazione del rito si basava sulla teoria elaborata dal teologo Pietro Lombardo, professore presso l’Università di Parigi nel corso del XII secolo, che formulò la dottrina consensualista. Lo studioso teorizzò cioè il rituale del consenso per verba de futuro e per verba de praesenti che consistevano, rispettivamente, nella formulazione di una promessa (passibile di scioglimento) e, viceversa, in un impegno di indissolubilità del

50 D. GAUNT, Parentela: una sottile linea rossa oppure uno stretto vincolo di sangue blu, in Storia della famiglia, cit., pp. 357-358.

128 matrimonio. Tale cerimonia non pretendeva solennità religiose, né pubbliche. Non richiedeva il consenso dei genitori, né la benedizione di un ecclesiastico poiché, generalmente, era un notaio a rendere regolare la cerimonia. Requisiti necessari erano tuttavia l’età degli sposi, per cui la donna doveva aver raggiunto i dodici anni, mentre il futuro marito almeno i quattordici. Insieme, i due promessi sposi potevano convolare a nozze in ogni luogo ed in ogni momento, purché ci fosse il consenso de praesenti. Questa normativa rimase in vigore in tutta Europa fino alla metà del Cinquecento, ossia sino al Concilio di Trento. Nel corso dei secoli, la Chiesa fece vari tentativi per conferire maggiore sacralità al vincolo matrimoniale, nonché per attribuire una dimensione pubblica al cerimoniale. In questo senso il Concilio Lateranense IV (1215) impose ai futuri coniugi un annuncio ufficiale in chiesa delle nozze, in modo che si potessero scongiurare forme di dissenso alla celebrazione da parte di terzi. In particolar modo, l’unione doveva essere resa pubblica per evitare le nozze tra consanguinei51. Con il Concilio di Trento (1545-1563), la normativa matrimoniale cambiò radicalmente, sancendo il totale controllo della chiesa sul rito. Il decreto Tametsi stabilì infatti che la teoria consensualista non poteva più avere fondamento. Per officiare un matrimonio diveniva necessaria la celebrazione in chiesa o almeno in facie ecclesiae, al cospetto del parroco o di un sacerdote autorizzato e con almeno due testimoni. Inoltre, venne imposta la pubblicazione dei bandi per almeno tre domeniche consecutive prima delle nozze, in modo che vi fosse ampia divulgazione dell’evento52. Al di là del carattere sacramentale imposto dalla Chiesa romana, il matrimonio era un’occasione di fondamentale importanza sia per gli sposi, sia per le loro famiglie. Le nozze sommavano cioè varie opportunità per il consolidamento sociale delle famiglie interessate che traevano dal sacro vincolo linfa per tutto il lignaggio. Il matrimonio era infatti concepito e trattato come un vero e proprio affare, sia dal punto di vista sociale,

51 D. LOMBARDI, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 33-35. 52 EAD., Fidanzamenti e matrimoni dal concilio di Trento alle riforme settecentesche, in Storia del matrimonio, Storia del matrimonio, a cura di M. De Giorgio, C. Klapisch Zuber, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 215-216; I. FAZIO, Percorsi coniugali nell’età moderna, in Storia del matrimonio, cit., p. 161. Il decreto conciliare della sessione XXIV del Concilio di Trento, Canones super reformatione circa matrimonium, è edito in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, curantibus J. Alberigo, J. A. Dossetti Perikle, P. Joannou, Bologna, Istituto per le scienze religiose, 1973, pp. 753-759. Sugli aspetti giuridici, cfr. soprattutto Arturo Carlo Jemolo, Riforma tridentina nell’ambito matrimoniale, in Contributi alla storia del concilio di Trento e della Controriforma, Firenze, Quaderni di Belfagor, 1948, p. 48; Id., Il matrimonio nel diritto canonico dal Concilio di Trento al Codice del 1917, Bologna, Il mulino,1993.

129 sia economico53. L’incontro e l’unione tra due giovani sposi rappresentava innanzitutto la possibilità di intrecciare delle relazioni tra le famiglie, i parenti e i loro amici, intessendo e rafforzando così una notevole rete sociale. In questo modo, rinsaldare legami esprimeva il vantaggio di creare alleanze e coalizioni spendibili politicamente per assicurarsi una certa visibilità, acquisire incarichi, o difendere uno status già acquisito. Il matrimonio però costituiva anche una circostanza di consolidamento del patrimonio e del prestigio economico di un casato: anche se non esclusivamente di natura endogamica, i matrimoni nobiliari tendevano a essere celebrati all’interno di un consesso molto elitario, in modo che il capitale di famiglia non rischiasse di essere scalfito, semmai rinvigorito. Importanti erano pertanto le doti, primo tangibile assaggio della ricchezza di un casato e risorsa al servizio delle necessità più impellenti come l’estinzione di un debito. Ma il matrimonio era soprattutto il motore di una famiglia perché doveva garantire la continuità del casato54. Se il matrimonio si configurava principalmente come un affare, allora il vincolo nuziale stipulato dal principe Annibale Alfonso Porcia fu una faccenda ben congegnata. All’inizio del Settecento, il nobile di origini friulane sposò Dorothea Constantia contessa di Daun, figlia di Maria Magdalena von Althan e Wilhelm Johann von Daun, la cui famiglia aveva reso all’esercito imperiale valorosi condottieri. Alla famiglia von Daun era stato conferito il titolo di conte nel 1643, portando così l’appellativo di Grafen und Herren von und zu Daun, località nei pressi di Coblenza55. Nel 1657 Wilhelm Johann von Daun entrò al servizio dell’esercito austriaco e, successivamente, anche i suoi figli, tra cui Wirich Philipp Lorenz von Daun ed il più noto Leopold Joseph von Daun. Il primo (1669-1741) fu feldmaresciallo, cavaliere nell’Ordine del Toson d’Oro, Consigliere Intimo imperiale e Cameriere. Il fratello, Leopold Joseph von Daun (1705- 1766), divenne feldmaresciallo nell’esercito imperiale e condottiero durante la guerra dei Sette Anni (1756-1763). Secondo le volontà paterne, sarebbe dovuto diventare ecclesiastico, ma il giovane si decise poi per la carriera militare partecipando alla guerra in Sicilia contro la Spagna (1718). In seguito si guadagnò il grado di generale di brigata nel corso del conflitto anti-turco (1737-1739), per partecipare più tardi alla guerra di

53 J-L., FLANDRIN, La famiglia: parentela, casa, sessualità nella società preindustriale, traduzione italiana, Milano, Edizioni di Comunità, 1979. 54 G. DELILLE, Strategie di alleanza e demografia del matrimonio, in Storia del matrimonio, cit., p. 286. 55 KLA, Familienarchiv Portia, k. 19, f. 42S, copia dell’elevazione al titolo di conti, anno 1643.

130 successione austriaca in qualità di Feldmaresciallo. Leopold von Daun fu però soprattutto ricordato per il tentativo di riforma dell’esercito austriaco contenuto nell’ambizioso progetto che prese il suo nome, ossia il Daunsche Reglement. Sempre risalente all’epoca teresiana fu l’istituzione, a lui attribuita, dell’Accademia militare presso Wiener Neustadt56. Dorothea Constantia von Daun era la sorella maggiore di questi valorosi soldati e, sebbene al tempo del matrimonio con il Porcia il lignaggio von Daun non avesse ancora raggiunto l’apice del prestigio, vi erano comunque tutti i presupposti per una ascesa sociale e politica della famiglia. Nel 1700 venne pertanto stipulato l’accordo matrimoniale tra le famiglie degli sposi e si sancì il conferimento di una dote pari a 6.000 fiorini renani, con una controdote di 3.000 fiorini renani57. In quello stesso periodo però, il principe Annibale Alfonso Porcia non era stato insensibile al fascino delle giovani nobildonne con cui intrecciò vari legami sentimentali. In particolar modo, è rimasta traccia della relazione con la contessa Juliana Constantia von Lodron, con la quale doveva essersi solidificata una conoscenza che andava ben oltre a romantiche espressioni sussurrate all’orecchio. Nel 1699 un amico di Annibale Alfonso Porcia, Virgilius Freiherr von und zu Weichs, consigliò al principe di Spittal di assumersi le proprie responsabilità con la Lodron che stava per dare alla luce un bambino, con ogni probabilità figlio del Porcia. Come vedremo, esaminando gli aspetti giuridici della complessa vicenda, una simile richiesta era, nell’Impero, meno facilmente eludibile che non, per esempio, in Italia. Tuttavia il Porcia non volle sentirsi obbligato, rifiutò le nozze con la Lodron e avviò gli accordi matrimoniali con la famiglia della contessa Dorothea Constantia von Daun. Amici del principe, i conti Johann Quintin Jörgen von Mannsfeld e Guido Starhemberg, assoldarono un parroco e gli intimarono di sposare alla svelta il Porcia con la sua amata von Daun. Il religioso accettò e il rito venne celebrato in fretta e furia il 7 febbraio 1700. Successivamente, il principe si ritirò insieme alla moglie nella residenza di Spittal. Nel frattempo le famiglie degli sposi avevano avviato le procedure regolari per l’organizzazione del matrimonio, incontrandosi il 6 febbraio 1700 per stipulare gli accordi dotali e la data di una seconda, più solenne, funzione religiosa. Questa si tenne il 6 marzo 1700, officiata dal parroco Georg Knaffel. Testimoni degli sposi furono il

56 VOCELKA, Glanz und Untergang der höfischen Welt, cit., p. 46. 57 KLA, Familienarchiv Portia, k. 19, f. 42S, contratto 6 febbraio 1700.

131 capitano della contea di Ortenburg, Peter Perlinger, e il già capitano del tribunale di Spittal, Johann Jakob Kaschutnig. La faccenda pareva essersi normalizzata e la contessa von Lodron doveva ormai rappresentare ormai solo un ricordo del celibato. Tuttavia, mentre il principe Porcia calcolò abilmente ogni mossa, anche la sua amante non lasciò scorrere passivamente gli eventi. Sedotta ed abbandonata, la Lodron riuscì ad assoldare due avvocati con i quali tramò la vendetta e intentò una causa contro il Porcia. Le lunghe traversie giudiziarie da lei avviate si basavano su una duplice ambiguità della riforma tridentina del matrimonio. Uno degli aspetti più importanti fu che non tutta l’Europa cattolica aveva riconosciuto come direttamente applicabili i decreti tridentini di riforma, compreso quello sul matrimonio. Questo era stato subito recepito in Spagna e negli Stati italiani, ma non in altri Stati. Sicché, spiega Jemolo «per circa tre secoli e mezzo, fino al decreto Ne temere del 2 agosto 1907, perdurò la distinzione tra Paesi dove avevano vigore le norme tridentine ed erano invalidi i matrimoni non celebrati dinnanzi al parroco ed a due testimoni, e Paesi dove non vigevano quelle norme e lo scambio del consenso poteva seguire come per l’innanzi senza alcuna formalità»58. Nell’Impero il Concilio non fu promulgato, ma la sua applicazione fu promossa da sovrani cattolici, come in Baviera e, a partire dalla fine del Cinquecento, nei domini ereditari degli Asburgo59 generando però situazioni dubbie. Nel caso Porcia quindi, entrambi le parti in causa potevano difendere le proprie ragioni: da una parte la Lodron, le cui pretese matrimoniali sarebbero state accolte nella Germania protestante60, dall’altra parte il Porcia che, aderendo al decreto conciliare, considerò nulle le promesse di matrimonio, e quindi si sentì libero di convolare a nozze con un’altra donna. In questo caso, dal punto di vista tridentino, la prima cerimonia di nozze con la contessa von Daun poteva anche aver rispettato i minimi dettami, ma è significativo che

58 JEMOLO, Riforma tridentina nell’ambito matrimoniale, in Contributi alla storia del concilio di Trento, cit., p. 48. 59 H. JEDIN, Il papato e l’attuazione del Tridentino, in Riforma e Controriforma. Crisi-consolidamento- diffusione missionaria (XVI-XVII sec.), a cura di E. Iserloh, J. Glazik, H. Jedin, Milano, Jaca Book, 1975, pp. 631-645, 757 segg., 765 segg. 60 La Lodron avrebbe cioè potuto forzare il Porcia alle nozze mediante la coercibilità della promessa di matrimonio, la cosiddetta Eheklage (azione per obbligare a contrarre il matrimonio), ancora presente nei territori protestanti della Germania nel XVIII secolo. Si veda tesi di dottorato di M. DI CIANO, Le arrhae sponsaliciae in diritto romano e comparato, Università degli Studi di Ferrara, dottorato di ricerca in "comparazione giuridica e storico-giuridica", ciclo XXI, relatori prof. D. Manfredini Arrigo, prof, Alfons Bürgos, anno accademico 2006/2008.

132 la cerimonia fosse stata ripetuta una seconda e, come vedremo, anche una terza volta. Il principe purliliense potrebbe aver solo solennizzato la cerimonia, ma la ripetizione dell’officio fa nascere il sospetto di un vizio formale di fondo. Innanzitutto, se le prime nozze vennero considerate valide, potrebbe essersi trattato di un matrimonio segreto, senza pubblicazioni. I casi di matrimonio celebrati con il parroco ma senza l’espletamento di alcune formalità previste, è infatti una delle materie più controverse dal Concilio di Trento sino all’inizio del Novecento: «anche dopo il Concilio di Trento […] si parla di matrimoni clandestini, ma in un senso diverso. Non più come dei matrimoni celebrati mediante un semplice scambio di consensi, senza l’intervento del parroco, bensì come di quei matrimoni celebrati dal parroco o dal vescovo o da un loro delegato, ma non trascritti nei registri parrocchiali, circondati da segreto, ché il celebrante, i testi, e persino ciascuno dei coniugi, ove l’altro non consenta alla propalazione, è tenuto al segreto»61. Nel frattempo la nobildonna Lodron sperava evidentemente di portare i suoi trascorsi amorosi con il principe Porcia innanzi alle autorità ecclesiastiche e dimostrare così la nullità del matrimonio con la contessa von Daun62. I legali intervennero tempestivamente rendendo nota la vicenda alle cariche religiose viennesi, quali il concistoro e il legato apostolico che iniziarono a vagliare gli incartamenti prodotti dalla parte offesa. Per contro il Porcia si recò a Roma, chiedendo di essere ricevuto dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica per dimostrare la propria innocenza e soprattutto la regolarità delle proprie nozze con la Daun. La Lodron, invece, non ottenendo risposta dai consigli ecclesiastici viennesi, accelerò le pratiche rivolgendosi al Sant’Uffizio di Roma al quale presentò denuncia contro il principe Porcia63. Il ricorso della Lodron al Sant’Uffizio non fu affatto privo di senso perché, essendo il matrimonio un sacramento e la bigamia un reato prossimo all’eresia, non sono mancati fino al primo Novecento casi di coinvolgimento del S. Uffizio in cause matrimoniali64.

61 Solamente con l’Enciclica Satis Vobis di Benedetto XIV (risalente al 17 novembre 1741 e destinata a tutti i vescovi) si regolamentò una volta per tutte questa tipologia matrimoniale. Dunque Il matrimonio di cui ci occupiamo cade in una fase confusa di questo istituto, dopo Trento ma prima dell’enciclica chiarificatrice di Benedetto XIV. Cfr. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico cit., p. 387. 62 TÜRK, Fürst Hannibal Alphons, cit., p. 697-698. 63 KLA, Familienarchiv Portia, k. 20. La busta contiene materiale relativo alla causa Porcia – Lodron. Non ben inventariato, i manoscritti non si presentano sempre in buono stato e non permettono una ricostruzione puntuale degli eventi. Gli incartamenti sono in lingua italiana, tedesca e latina. 64 Alcuni esempi in JEMOLO, Il matrimonio nel diritto canonico, cit., pp. 169, 204-205, 450.

133 La Lodron giunse a Roma con grande sete di rivalsa e come una «torbida dama» si aggirava per la capitale dello Stato Pontificio ingiuriando il Porcia e mettendo in giro la voce di essere in procinto di riscuotere un risarcimento esorbitante, ammontante almeno a centomila fiorini65. Nonostante le ferme convinzioni della contessa von Lodron, il Sant’Uffizio si espresse a favore del Porcia, riconoscendo la validità delle nozze con la Daun e rigettando ogni pretesa della denunciante, intimandole di non inficiare più la vita coniugale del suo seduttore66. La vicenda era dunque conclusa e il Porcia poté fare ritorno in Austria dove organizzò un terzo matrimonio per suggellare l’unione con la moglie legittima67. Mentre i festeggiamenti nella residenza di Spittal an der Drau sottolineavano il ritorno alla normalità, la Lodron, in viaggio per Vienna, non si riteneva ancora soddisfatta e ordì nuove rivendicazioni alle spalle del principe purliliense. Rimasta inascoltata dalle magistrature ecclesiastiche, la nobildonna pensò allora di rivolgersi alla corte di Vienna, dove avrebbe ricevuto maggiore attenzione e, soprattutto, dove avrebbe potuto colpire ed affondare la già esile posizione politica del Porcia. Nel cuore nobiliare della capitale austriaca si formò una commissione atta a valutare il fondamento delle pretese «lodroniane» convenendo alla fine sulla piena colpevolezza del principe purliliense che offese l’onorabilità della contessa, seducendola e lasciandola sperare in un conveniente matrimonio. Per tutte queste ragioni, il castellano di origini friulane venne condannato ad un’ammenda di 40.000 fiorini renani da devolvere alla giovane disonorata68. Quanto al fatto che il matrimonio venisse giudicato valido da Roma e da Vienna e che tuttavia il Porcia fosse condannato in Austria a risarcire la Lodron, vi è in ciò una logica. Se il Porcia poté far valere anche in Austria il principio secondo cui la semplice promessa non realizzava un matrimonio, poteva però essere accusato di avere ingannato la Lodron, giocando volutamente sull’equivoco derivante dal lungo radicamento nella opinione comune - anche dopo Trento - della validità della prassi pretridentina, e ciò anche sull’esempio di quelle parti della Germania in cui la promessa ancora valeva, in quanto obbligava a contrarre successivamente matrimonio. E infatti alla fine la Lodron raggiunse il proprio scopo e si assicurò una consistente dote. La nobildonna non rappresentava però un caso isolato, in quanto nel corso dell’età moderna capitava

65 Ivi, k. 16, f. 42D, corrispondenze con il Cardinale Grimani, Vienna, 21 aprile 1701. 66 Ivi, k. 16, f. 42D, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Roma, 15 gennaio 1701. 67 Ivi, k. 16, f. 42D, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Roma, 23 marzo 1701. 68 TÜRK, Fürst Hannibal Alphons, cit., p. 701.

134 sovente che avvenenti fanciulle pretendessero di essere risarcite da lusinghieri damerini per il discredito gettato sulla reputazione femminile. In genere accadeva che la giovane ingannata ricorresse alle autorità giudiziarie per denunciare il misfatto69. Il tribunale competente si assumeva allora la responsabilità di vagliare la causa e decidere se ci fosse la possibilità di ravvedimento del seduttore, imponendogli di sposare la vittima. Viceversa, nel caso in cui non si verificassero le circostanze per officiare un matrimonio regolare, il foro imponeva al colpevole il pagamento di una dote, come indennizzo per l’onta subita da parte dell’oppressa. L’assegnazione della rendita non aveva però solo una mera valenza morale, ma soprattutto un significato economico. La dote era cioè lo strumento per permettere alla fanciulla infamata di reintrodursi nel mercato matrimoniale da cui era stata esclusa per la violenta deflorazione. In genere, questa forma di risarcimento doveva essere di entità maggiore rispetto all’assegnazione dotale garantita dal padre della fanciulla, in quanto la donna moralmente screditata incontrava consistenti difficoltà nel trovare marito70. Dorothea Constantia von Lodron aveva dunque agito pensando alla propria riabilitazione sociale ma l’insistenza con cui approcciò le magistrature ecclesiastiche e, in seguito, anche la corte di Vienna lasciano presupporre che la dama avesse anche dei secondi fini: in primo luogo la nobildonna mirò al proprio risarcimento economico, ma contemporaneamente si può ipotizzare il tentativo di affossamento politico del Porcia presso la corte imperiale di Vienna, dove la sua persona non godeva di ampi consensi. La Lodron seppe sfruttare la situazione a proprio vantaggio, e cercò allo stesso tempo di minare le precarie condizioni finanziarie del principe di Spittal che non riuscì facilmente a liquidare le pretese della nobildonna. Nel 1720, infatti, la Lodron non era ancora stata risarcita e ai 40.000 fiorini di dote imposti dalla commissione di corte, si aggiunsero altri 5.000 fiorini di interesse. I conti del Porcia erano in rosso e non vi era modo di risollevare la situazione. La nobildonna infierì facendo pressioni a corte, affinché fossero presi dei provvedimenti contro il seduttore insolvente. Una nuova commissione si riunì decretando un sequestro di beni nel palazzo di Spittal per un valore corrispondente alla dote della Lodron. La famiglia purliliense era soffocata dai debiti e

69 Il reato di stupro in età moderna veniva valutato e distinto in «stupro violento» e «stupro non violento». Nel primo caso la denuncia era inoltrata ad un tribunale laico e l’accusato poteva essere punito anche con la pena di morte. Nel secondo caso, la querela poteva essere accolta sia da un tribunale laico, sia da una magistratura ecclesiastica e in genere si imponeva al condannato il risarcimento della parte offesa con una dote. LOMBARDI, Fidanzamenti e matrimoni, cit., p. 234. 70 Ivi, pp. 233-234.

135 non si poteva certo concedere anche questa ennesima perdita. Il principe Annibale Alfonso si decise a scrivere una lettera all’imperatore, Carlo VI, per convincerlo a sospendere la confisca71. Intanto a Vienna il fedele consigliere del principe Porcia, il conte Giovanni Giuseppe Marburg, si dava da fare per sistemare le controversie del nobile ma la vicenda era molto faticosa da dirimere. Il factotum del Porcia notò infatti che alla corte imperiale si andavano condensando fazioni avverse che avrebbero agevolato le pretese «lodroniane», piuttosto che sostenere le ragioni del principe. Inoltre la casa Porcia, già gravata da un pesante debito, si trovava in quel frangente sopraffatta anche dall’onere di liquidare la vecchia amante del principe che non gli dava tregua72. Il Marburg era piuttosto intimorito dall’ostinazione di quella «torbida dama» che non si accontentò di guastare la fragile reputazione del Porcia presso la corte di Vienna, poiché correva voce che la donna, accompagnata da una sua figlia, si stesse mettendo in viaggio per la Baviera dove avrebbe tentato di avvelenare anche la rete sociale tedesca del principe purliliense73. Nel marzo del 1723 la supplica che il Porcia aveva inviato l’anno precedente a Carlo VI venne archiviata e, anzi, la commissione istituita a corte deliberò un ulteriore sequestro dei beni Porcia per pareggiare il debito contratto con la nobildonna Lodron. Inoltre il caso era stato inoltrato alla Cancelleria Aulica di corte che avrebbe preso aggiuntivi provvedimenti. Il Marburg scriveva lettere accorate al proprio principe, manifestandogli un rassegnato dispiacere per una situazione divenuta ormai

71 TÜRK, Fürst Hannibal Alphons, cit., pp. 703-704. 72 «In risposta delle Gratiosissimi fogli di Vostra Altezza delli 31 decorso sono humilmente à dire; che in me non mancarà ne petto, ne fermezza à resistere, à quante aversitadi mi potrebbero occorrere nell’affare dell’Altezza Vostra, considerando però li torti, l’ingiustitie, le machinationi, et le prattiche che si tengono contro Vostra Altezza, non posso che perdermi d’animo, nel considerarle, è nel vedere oppresso il merito et innocenza senza rimedio; oltre che tutte l’attioni dell’Altezza Vostra vengono consumate e diversamente interpretate ita ut bonum ex integra causa, malum ex qualitet minimo deffectu censumetur. [ sottolineato nel manoscritto originale]. Comunque sia soffrirò il tutto, et mi sacrificherò, pure che Vostra Altezza se senta il sollievo si come al incontro mi despererei quando la vedessi frustrata delle di lei Serenissime sodisfationi. Io esclamo, io strido sino à cieli; cioè li debiti s’ingrossano, li interessi da pagarsi alla Lodrona si aumentano, essa patisce in arresto li Creditori restano defraudati li beni vano in malhora li sequestratori s’impinguano, li fattori si lamentano, li sudditi si rendono alieni col animo, il credito d’un Principe si prostituisce, il di lui Carattere si vilipende, li Figli patiscono in honore è nel mantenimento? È con tutto, che si offerisce il pagamento? Che si è in strada di dare sodisfatione à Creditori? Non si distingue mezzo, non si vuole capire la raggione». KLA, Familienarchiv Portia, k. 16, f. 42D, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Vienna, 5 agosto 1722. 73 Ivi, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Vienna, 16 settembre 1722.

136 incontrollabile: «Iò non so che fare, mentre con le dilationi, hò fatto la perdita, e della fede, e del credito»74. Per un periodo le corrispondenze del Marburg tacquero la vicenda, lasciando quasi supporre che la questione fosse stata insabbiata o conclusa con l’assegnazione dotale alla Lodron. In realtà, due anni più tardi, non si era ancora trovata soluzione e il consigliere del Porcia stava ancora trattando con i consigli di corte a Vienna per sgravare la pesante situazione finanziaria purliliense da nuove e ponderose ammende. Nel gennaio del 1725, il Marburg era convinto di esser riuscito ad alleviare le pene pecuniarie del suo principe, nonostante i maligni si adoperassero di continuo per rovinare la gracile figura cortigiana del Porcia75. Ma ogni sforzo era ormai del tutto inutile: la Lodron era riuscita ad assicurarsi un ampio credito a corte, mentre il Porcia rischiava ormai l’emarginazione politica e sociale con drammatiche ricadute economiche. Il fedele Marburg si ostinava a garantire al feudatario il proprio aiuto ma nel contempo gli consigliava di prendere le distanze dalla corte imperiale dove, con tutta evidenza, non c’era più posto per lui76. Secondo il Marburg, la meta più probabile per il Porcia doveva essere la Baviera, dove deteneva dei possedimenti e dove aveva prestato servizio per conto del Principe Elettore Massimiliano Emanuele Wittelsbach. Con ogni probabilità, il principe Porcia non accolse l’invito del suo factotum e rimase asserragliato nella residenza carinziana di Spittal. La corrispondenza con il Marburg terminò con l’agosto del 1725 e l’ultima lettera del factotum suonò come un congedo dal principe Porcia e dagli affari legati alla sua famiglia. Ormai il lignaggio dei Porcia si

74 Ivi, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Vienna, 20 marzo 1723. 75 «finalmente Giovedì decorso stato sottoscritto il Referato sul’affare di Vostra Altezza e di cotesta Provintia da Sua Maestà Cesarea, ad votum Cancelaria Intima, onde si va formando la Risolutione, che consisterà in 40 fogli, et inanzi, che si spedisca, sarà letta di parola in parola nel Conseglio della Canceleria Aulica, per poi essere spedita all’esequtione mediante Sua Eccellenza il Signor Conte di Wagensperg. Questa Resolutione quanto posso riccavare è molto favorevole agli interessi di Vostra Altezza, è sarebbe anco riuscita à maggiore suo contento, quando la perfidia di qualche inimico, non havesse postovi entro la sua malvagità: basta comunque sia Vostra Altezza almeno sarà stabilita per il avenire à quel segno che permetterà la convenienza; protestandomi di haver fatto tutto ciò. Che conveniva à un fedel Ministro». Ivi, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Vienna, 20 gennaio 1725. 76 «In risposta delli Gratiosissimi fogli di Vostra Altezza delli 10 corrente sono à dire, che Sua Eccellenza il Signor Conte Cancelliere risente di bel nuovo questi intrighi, che costà vengono fatti nell’affare della Commissione, et Vostra Altezza è di bel nuovo indicata d’esser il principal motore. Onde in gratia si risolva di partire da costà, se non vuole ricever maggiori mortificazioni, che sin’hora le convene provare per cotesti torbidi. Io so, che Vostra Altezza, è inocente, mà sappi Gratiosamente che altri se ne vagliono dell’occasione, et in simili congieture vogliono prendere la bissa con altrui mani: si come è seguito in passato con pocco gusto, e sodisfatione dell’Altezza Vostra. Io haverei molto, che da scrivere su quest’affare, mà perche non fido alla carta, devo riservarmelo con mio ramarico ad altro tempo, in tanto prego Vostra Altezza quanto posso, et voglio stii lontano per hora da questi imbrogli». Ivi, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Vienna, 14 luglio 1725.

137 trovava in un totale dissesto finanziario aggravato notevolmente anche dalla faccenda con la Lodron. In quel periodo, inoltre, il Marburg si accingeva a salutare il suo principe poiché ormai si sentiva «discreditato, vecchio, incapace più a regolare un Governo […] reso totalmente confuso negli antecedenti pochi anni»77. Abbattuto, sconfitto e abbandonato anche dal suo più fido consigliere, il Porcia si ritirò a vita privata già nella seconda metà degli anni venti del Settecento, lasciandosi definitivamente alle spalle sia la contessa Juliana von Lodron, sia l’esperienza alla corte imperiale di Vienna. Resta però ancora molto da approfondire sull’affaire Lodron: dietro le spoglie di una consueta storia di seduzione settecentesca, si radicò invece una più probabile macchinazione cortigiana finalizzata alla soppressione politica del Porcia dai circuiti più elitari della capitale austriaca. I carteggi conservati negli archivi famigliari di Klagenfurt, così come quelli viennesi, non consentono di permeare la materia in maggior profondità, lasciando grosse lacune circa la ricostruzione biografica della stessa Lodron, nonché della ricomposizione identitaria di quella inafferrabile «fazione avversa» che potrebbe aver determinato la caduta del Porcia innanzi agli Asburgo. In seguito a questa vicenda il principe Annibale Alfonso Porcia rimase con la moglie legittima, la contessa Dorothea Constantia von Daun che gli diede cinque figli, quattro maschi ed una femmina, Theresia, futura moglie del conte Camillo di Giambattista Colloredo-Mels, del ramo di Bernardo. Annibale Alfonso Porcia morì a Spittal nel 1738, anche se le redini della famiglia erano già da un decennio in mano agli eredi.

3.1.3: Figli e discendenza del principe Annibale Alfonso Porcia.

Nonostante gli scandali cortigiani, il matrimonio di Annibale Alfonso Porcia con la contessa Dorothea Constantia von Daun fu alquanto prolifico. A partire dal 1702, anno di nascita del primogenito, Johann Anton, nacquero altri cinque figli: Alphons Gabriel,

77 Ivi, corrispondenze con Giovanni Giuseppe Marburg, Vienna, 1 agosto 1725.

138 Karl, Alois e Theresia. Sull’infanzia dei bambini e sui loro rapporti famigliari non si conoscono notizie, ad eccezione di un dispaccio risalente al 1712 da cui si apprende che il principe purliliense era alla ricerca di un precettore qualificato per i propri figli. Un parente Polcenigo, probabilmente consanguineo della madre del principe, dirottò la scelta verso un certo Baron Marcello, di origini italiane e perfettamente idoneo per il ruolo di educatore78. Ad eccezione di Theresia, sulla cui educazione non sono state rinvenute tracce archivistiche, è invece noto che i figli maschi del principe Porcia furono formati presso il Collegio San Carlo di Modena. Istituito nel 1625, e intitolato a San Carlo Borromeo, il Collegio vantava la capacità di educare e plasmare il giovane aristocratico dall’infanzia fino a tutto il tempo della giovinezza. L’istituto teneva alti i valori nobiliari tanto che era ritenuto uno dei massimi luoghi di «circolazione della gloria aristocratica»79. Gli allievi erano sottoposti ad una rigida disciplina che non consentiva loro di ricevere visite da parte di famigliari e nemmeno di trascorrere lunghi periodi di vacanza nei luoghi natii. Le materie cui i

78 «Egli è in età di circa 40 Anni et con la Moglie la quale sa direggere perfettamente la Cucina et il detto Barone sa spendere molto bene il suo denaro et non è niente stiracchiato piacendo anco a lui di viver bene; Lui parla ben Francese, et Italiano a tutta perfetione, come pure il Tedesco essendo nato in Inspruch di Padre Gentilhuomo Romano […].questo signore oltre alle lingue possiede anco le virtù cavalleresche di cavaliere, tirar la spada, et suona il liuto a perfetione sopra la musica, in somma io gli lo do per sogetto di tutta perfetione et che haverà a cuore che li figli di Vostra Altezza siano ben educati, tanto quanto havrà il suo maggiordomo et d’avantaggio». Ivi, k. 16, f. 42D, corrispondenze italiane, Vienna, 3 dicembre 1712. 79 A. BIONDI, I secoli del San Carlo, in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo a Modena, a cura di D. Benati, L. Peruzzi, V. Vandelli, Modena, Banca popolare dell’Emilia, 1991, p. 42; G.P. BRIZZI, Un' istituzione d' antico regime tra rivoluzione e restaurazione sociale: il collegio di Modena, in Reggio e i territori estensi dall' antico regime all' età napoleonica, a cura di Marino Berengo e Sergio Romagnoli, Parma, Pratiche editrice, 1979, 557-582; Il Brizzi ha inoltre osservato che «se in età moderna la nobiltà rappresentò la classe sociale economicamente e politicamente privilegiata, i Gesuiti attraverso le proprie istituzioni educative, le fornirono uno degl’istrumenti indispensabili per perpetuare lo status quo. I contenuti politici della loro pedagogia consistono proprio nell’aver concepito e attuato un programma educativo asservito a un’ideologia aristocratica. Il disprezzo per le arti meccaniche, il culto dell’onore, la passione per la genealogia e l’araldica, l’aspirazione al modello ideale del gentiluomo, furono alcuni degli aspetti che caratterizzarono profondamente la “cultura nobiliare”: i collegi d’educazione riservati ai nobili ,e in primo luogo quelli gestiti dalla Compagnia di Gesù, operarono egregiamente nella trasmissione di tali contenuti culturali attraverso le generazioni, caratterizzandoli in senso fortemente cattolico» G.P. BRIZZI, La formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento I seminaria nobilium nell'Italia centro-settentrionale, Bologna, Il mulino, 1976, pp. 22-23. Il Brizzi osservò inoltre che in alcuni casi, tra cui anche Modena, tali seminaria nobilium non vennero gestiti dai gesuiti. Ma anche in questo caso «i loro reggenti intesero rifarsi a quelli, consapevoli dell’innegabile superiorità organizzativa e dell’alto livello di esperienza che affidava ai collegi d’educazione della Compagnia un incontrastato ruolo guida». Fino al Settecento il numero dei convittori superò raramente le cento presenze, ma successivamente ci furono anche delle oscillazioni fra i 143 e i 184 allievi (in particolare fra il 1710 e il 1760) e molto spesso questi erano membri dell’alta nobiltà, mentre le presenze di sudditi asburgici rappresentavano i due terzi degli allievi stranieri. La direzione del Collegio era affidata a sacerdoti secolari e quindi non ai gesuiti. Ivi, pp. 24; 31; 34; 46;49.

139 giovani dovevano applicarsi erano diverse e comprendevano corsi di scrittura, abbaco, grammatica latina e greca, retorica, logica, matematica, filosofia naturale e morale, giurisprudenza. Oltre a questi insegnamenti, i rampolli nobiliari si dovevano applicare alle discipline cavalleresche di cui la caccia occupava un posto di gran privilegio. Il giovane iscritto doveva imparare nozioni comportamentali e di preparazione alla vita di corte che per il Collegio si presentava come un manifesto «di pubblicità per il Collegio [che pretende di] disegnare quasi un’osmosi tra vita di Collegio e vita di corte»80. Questa concezione dell’educazione nobiliare era però ancora saldamente ancorata all’epoca della Controriforma. Verso la fine dell’età barocca invece, le famiglie aristocratiche avvertirono la necessità di iscrivere i propri figli in altri istituti, più esclusivi ma, allo stesso tempo, più aperti ad un rinnovamento culturale che rispecchiasse le trasformazioni sociali del tempo81. La nobiltà infatti non era più soltanto la classe sociale legata alla signoria fondiaria che reclamava una formazione esclusivamente cavalleresca, bensì era divenuta un ceto più burocratizzato che esigeva una preparazione adeguata per affrontare carriere politiche e militari82. C’era cioè bisogno di una istruzione rinnovata che non abbracciasse solo discipline classiche, come la retorica e la filosofia, ma che offrisse anche delle conoscenze e dei risvolti pratici per giovani allievi aristocratici che si affacciavano alla scena politica internazionale. Nel 1718 furono iscritti al Collegio San Carlo i primi due figli del Porcia, ossia i conti Johann Anton e Alphons Gabriel Porcia, mentre la data di ingresso degli ultimogeniti non è nota. Diversi riferimenti nei carteggi paterni lasciano supporre che Annibale Alfonso Porcia fosse alquanto attento all’istruzione dei propri figli che, sebbene in modo discontinuo83, sembravano tuttavia applicarsi agli studi84. Fra i due

80 BIONDI, I secoli del san carlo, cit., p. 42. 81 G. KLINGENSTEIN, L’ascesa di casa Kaunitz. Ricerche sulla formazione del cancelliere Wenzel Anton Kaunitz e la trasformazione dell’aristocrazia imperiale (secoli XVII e XVIII), Roma, Bulzoni Editore, 2003, p. 159. 82 O. BRUNNER, Vita nobiliare e cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 367-369. 83 In particolar modo, il primogenito, Johann Anton Porcia, sembrò dare qualche preoccupazione al padre. Alcune lettere del consigliere principesco, Giovanni Giuseppe Marburg, risalenti al 1721 informarono la famiglia dei disperati tentativi di fuga dal Collegio architettati dal giovane Porcia, intenzionato a lasciare gli studi. «Questo Cavagliere studia giorno e notte per trovar mezzi d’uscir dal Collegio, ed io le assicuro, che se presto il Signor Principe non lo manda à levar, egli cercarà di sortire con disonore di tutta la sua casa. Carissimo signor Padre le procuri che una volta essi siano letterati, perche il Signor Conte Antonio è capace di far de spropositi, che già à me hà il tuto confidato». KLA, Familienarchiv Portia, k. 17, f. 42H, fascicolo corrispondenze, Modena, 16 maggio 1721. È bene sottolineare che la vicenda destò preoccupazione nel Marburg, che si prestò per l’ennesima volta ad appianare tensioni che avrebbero potuto gettare una nuova ombra sulla nomea di casa Porcia. I tentativi di fuga del rampollo principesco proseguirono tuttavia almeno sino all’estate dello stesso anno (1721), dopodiché i carteggi famigliari non

140 fratelli Porcia, le migliori prestazioni scolastiche vennero assicurate da Alphons Gabriel che nel 1726 venne sottoposto ad un tour di presentazione alle autorità politiche modenesi, di cui l’introduzione al Serenissimo Duca costituì l’evento più rilevante85. Nonostante i turbolenti trascorsi al Collegio San Carlo di Modena, Johann Anton di Annibale Alfonso Porcia prese le redini della famiglia alla morte del padre, avvenuta nel 1738. L’eredità ottenuta era molto complessa e soprattutto gravata da pesanti debiti, non solo nei territori austriaci ma anche in Baviera. Proprio qui, il principe Johann Anton Porcia aveva iniziato la propria carriera, mettendosi al servizio del Principe Elettore Karl Albrecht (1697-1745), figlio di Massimiliano Emanuele II von Wittelsbach. Il Porcia, al momento dell’elezione allo stato principesco, svolgeva infatti l’ufficio di Gran Ciambellano alla corte bavarese86 che, nel periodo di regno di Karl Albrecht von Wittelsbach, conobbe particolare splendore. Mentre esercitava i propri incarichi in Germania, il Porcia ebbe modo di legarsi affettivamente ad una delle amanti dello stesso Wittelsbach, ossia la contessa Maria Josepha di Theodor Heinrich Topor von Morawitzky, un generale di origini polacche al servizio della corte bavarese87. Nel 1737 le famiglie von Morawitzky e Porcia strinsero i patti matrimoniali prevedendo che i genitori della sposa avrebbero dovuto consegnare al futuro marito una dote pari a 9.000

menzionarono più la vicenda. «[…] habe ich die Abreis nacher Modena vernembe, es selbe Jener wenig Tag dahin zu gehe, und den hhl graffe Antoni heraus zu Intentioniert sein». Ivi, k. 19, f. 42G, lettera Klagenfurt, 19 luglio 1721. 84 «Mi consoli grandemente nel vedere, che questi Signori Conti Figli di Vostra Altezza sieno più applicati del passato alle virtuose loro professioni, e spero che, se continuavano sieno per approfittarsi. […] Si conservano ambedue in prosperosa salute» KLA, Familienarchiv Portia, k. 17, f. 42H, corrispondenze, Modena, 2 dicembre 1718; si veda anche: «[…] benche qualche volta il Signor Conte Gabriele si vada dolendo della sua solita strettezza di petto. Studiano pure con lodevole applicazione, e profitto; e si vanno esercitando nelle professioni cavalleresche principiate assistiti in tutto colla dovuta premura, e riguardanti con tutta attenzione. Si mostrano pure docili, lasciandosi dirigere dal zelo, che tengo ben discinto del suo avanzamento». Ivi, corrispondenze, Modena, 6 aprile 1719. Dieci anni più tardi venne iscritto al Collegio di San Carlo a Modena anche Alois, il figlio maschio più giovane di Annibale Alfonso Porcia. Il precettore si diceva soddisfatto anche del suo rendimento: «Umilio a Vostra Altezza il sempre distinto mio ossequio, nel mentre mio do l’onore di porgerle avviso dello stato del Signor Contino Luigi di Lei Figlio. Questi, […] gode continuata una ottima salute, e va proseguendo lo studio suo di grammatica, nullameno che gli altri esercizi di scienze con profitto non mediocre, e in maniera, che io mi dichiaro di Lui sodisfatto, né dispero di rilevarne un buon riuscimento». Ivi, k. 17, f. 42H, corrispondenze, Modena, 29 aprile 1728. 85 Nella stessa occasione, fu esplicitamente disposto di lasciare il fratello Johann Anton Porcia in Collegio. Ivi, k. 17, 42H, lettera Modena, 25 marzo 1726. 86 KLA, Familienarchiv Portia, k. 23, fascicolo corrispondenze, Spittal, 28 ottobre 1737. 87 H. WANDERWITZ, Theodor Heinrich Graf von Topor Morawitzky, in Neue Deutsche Biographie, vol. 18, p.89.

141 fiorini, cui corrispondevano altri 6.000 fiorini di controdote88. Nel giro di breve tempo, il Porcia impalmò la contessa Morawitzky con cui visse nel palazzo di Monaco di Baviera, dono del principe Elettore Karl Albrecht alla sua amante. La coppia principesca ebbe un figlio che però morì subito dopo il parto. Il Porcia non ebbe altra prole e alla sua morte (1750) il titolo principesco, nonché tutto il patrimonio di famiglia, vennero ceduti al fratello, Alphons Gabriel Porcia, vissuto sino al 177689. Anche il principe Alphons Gabriel Porcia fece carriera presso la corte del Principe Elettore Karl Albrecht von Wittelsbach divenendo membro della Geheim Konferenz bavarese90. Ad eccezione di questo titolo91, le carte archivistiche carinziane tacciono ulteriori sviluppi professionali del giovane rampollo purliliense, dipingendolo piuttosto come un signore ritirato a vita privata nella residenza di Spittal e dedito soprattutto al finanziamento di rappresentazioni teatrali nella comunità carinziana92. Il Porcia sposò la contessa Maria Beatrix Freiin von Rechbach dalla quale ebbe però un’unica figlia femmina, Franziska Porcia. Il sistema successorio purliliense che prevedeva la trasmissione ereditaria al solo primogenito maschio, era dunque messo in pericolo dalla nascita di questa sola bambina. Il principe Alphons Gabriel Porcia redasse allora un testamento in grado di garantire tutto il lascito al proprio lignaggio. Intestò dunque il fidecommesso al genero, nonché nipote, il conte Joseph Johann Porcia, che era figlio di suo fratello, il conte Alois Porcia. Il principe Alphons Gabriel aveva infatti volutamente escluso i propri fratelli maschi (i conti Alois e Karl Porcia) dall’asse ereditario perché, dopo aver intrapreso la carriera militare, dimostrarono maggiori attitudini verso i vizi dell’alcol e del gioco, che non per le questioni famigliari93. Il principe Alphons Gabriel morì nel 1776, anno in cui il timone della famiglia venne assunto dal genero, il principe Joseph Johann Porcia. Questi non poté vantare un matrimonio prolifico e morì nel 1785 senza eredi. La vedova, Franziska Porcia, convolò a nozze due anni più tardi con il conte Franz Anton von Aichelburg che ebbe dalla

88 KLA, Familienarchiv Portia, k. 23, fascicolo Maria Josepha Morawitzky, contratto nuziale 7 gennaio 1737. 89 PROBSZT, Die Porcia, cit., p. 185. 90 KLA, Familienarchiv Portia, k. 16, f. 42D, nomina 20 febbraio 1729. 91 Il Porcia divenne anche membro dell’Ordine bavarese di Sant’Uberto. Ivi, k. 25, fascicolo Bayerischer Hubertusorden, anno 1751. 92 PROBSZT, Die Porcia, cit., p. 192. 93 Ivi, p. 193.

142 moglie quattro figli ed ottenne in dote una casa a Hermagor e un vitalizio94. L’eredità purliliense venne conferita al fratello del principe Joseph Johann Porcia, Franz Seraphin (1785-1827)95, che si trovò ad amministrare un debito sempre più pesante nonché un complesso di proprietà dislocate in Austria, Istria, Germania e nella Patria del Friuli.

3.2: La famiglia Della Torre Valsassina.

Il conte Luigi Antonio Della Torre (1662-1723) fu l’unico figlio nato dal matrimonio tra Filippo Giacomo Della Torre e Teresa Rabatta. Nell’ultimo rampollo del lignaggio gradiscano furono riposte tutte le speranze del casato, affinché l’erede assicurasse una forte e numerosa discendenza. I suoi più stretti congiunti, ossia gli zii paterni Francesco Ulderico e Turrismondo Paolo di Giovanni Filippo Della Torre, redassero un testamento nel quale designavano, in quanto unico nipote maschio, come erede di tutti i loro beni. Le ultime volontà dei conti torriani prevedevano però che, qualora il nipote designato non fosse stato in grado di provvedere alla discendenza della stirpe, la successione venisse trasmessa alla prole del loro terzo fratello, Raimondo Bonifacio di Giovanni Filippo Della Torre, qualora il nipote designato non fosse stato in grado di provvedere alla discendenza della stirpe96. Luigi Antonio Della Torre convolò a nozze con la contessa Silvia Rabatta, vedova di Lucio di Carlo della Torre, del ramo udinese. Questo lignaggio torriano fu molto noto alla storiografia per il clima di efferata violenza che riuscì ad instaurare nella Patria del Friuli, tra XVII e XVIII secolo. In particolare modo, la letteratura ha sottolineato la malvagità di Lucio di Sigismondo Della Torre, nipote del primo marito della vedova Rabatta97.

94 W. AICHELBURG, Herren, Freiherren und Grafen, von und zu Aichelburg. 1500-2010. Ein halbes Jahrtausend einer europäischen Familie in ihren Höhenpunkten und Tiefen. Versuch einer Familiengeschichte,Wien, Selbstverlag, 2004, p. 268-269. 95 PROBSZT, Die Porcia, cit., p. 193 segg. 96 PICHLER, Il castello di Duino, cit., pp. 405-406. 97 Il ramo torriano udinese venne ricordato per i numerosi delitti compiuti dai loro membri nel corso di tre generazioni. Carlo di Sigismondo Della Torre, vissuto alla metà del Seicento, fu Capitano di Trieste e

143 Dal matrimonio tra Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre con Silvia Rabatta, nacquero quattro figli maschi e due femmine. Per quanto riguarda la discendenza maschile (Giovanni Filippo, Federico Luigi, Francesco Annibale e Turrismondo Paolo), è stato possibile ricostruire una buona parte della loro infanzia e formazione, suddividendola in tre periodi: il soggiorno a Graz, il viaggio a Salisburgo e

Gorizia, dove si attestò come capo di una violenta fazione di malfattori. Si macchiò dell’omicidio di un suo rivale, un certo conte Petazzi triestino e, successivamente, venne incarcerato nella fortezza Schloßberg (Graz) nel 1671 per essersi congiunto carnalmente con la moglie di un ufficiale imperiale. Carlo Della Torre ebbe tre figli maschi (Carlo, Sigismondo e Girolamo) che seguirono le orme paterne seminando terrore e violenza nella Patria del Friuli. Sigismondo fu Ciambellano e Consigliere Intimo di Leopoldo I, Maresciallo Ereditario della Contea di Gorizia e di Gradisca, Maggiordomo della provincia carniolina, nonché credenziere del ducato di Carinzia. Venne condannato al bando dal Consiglio dei Dieci veneziano per aver compiuto numerosi e svariati delitti. La pena inflittagli prevedeva il bando con l’aggravante del taglio della testa, qualora fosse stato catturato dalle autorità della Serenissima nei territori veneti, in piena trasgressione della pena. Il fratello Girolamo fu colpevole dell’assassinio di un contadino, dopodiché si ritirò impunito nel castello di Spessa (Gorizia). Il terzo fratello, Lucio (primo marito della contessa Silvia Rabatta che poi andò in sposa a Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre) morì precocemente, tuttavia ebbe la sfrontatezza di sobillare un fatale antagonismo tra i suoi due fratelli per la spartizione dell’eredità paterna. La competizione tra Girolamo e Sigismondo Della Torre divenne incontrollata, al punto che nel 1699 Girolamo entrò di soppiatto nel castello di Villalta dove colse di sorpresa il fratello e gli sparò un’archibugiata mortale. Un anno più tardi, il Consiglio dei Dieci veneziano bandì l’assassino aggiungendo l’aggravante della pena consistente nella confisca dei beni. Il figlio della vittima, Lucio, nacque in questo clima di torbidi e violenti rapporti famigliari. Nato a Villalta nel 1696 da Sigismondo di Carlo Della Torre e da Cecilia Mocenigo, venne allontanato per volontà materna dalla terra natia, insieme al fratello Carlo. I due bambini furono ricevuti dai gesuiti a Venezia. La formazione del giovane Lucio Della Torre non fu affatto brillante, tanto che fece presto ritorno a Villalta. Qui si prodigò nelle più efferate angherie a danno di sudditi e villani. Nel 1712 impalmò la contessa Eleonora di Giovanni Enrico Madrisio di San Martino del Friuli, ma il matrimonio fu tormentato da violenze domestiche e dall’infanticidio del primogenito, che fu accidentalmente colpito a morte dal Della Torre durante una colluttazione con la moglie. La vita pubblica del torriano era altrettanto temibile: scorribande con la propria cricca di criminali, contrabbandi, omicidi, stupri e delitti vari erano all’ordine del giorno. Inutili risultarono le sistematiche condanne al bando inflittegli dal Consiglio dei Dieci veneziano, poiché il conte continuava a girare indisturbato nei territori veneti. Nel 1722 ordì l’ultimo drammatico misfatto. Il torriano aveva dato scandalo con le numerose relazioni carnali, contratte sia con nobildonne, sia con giovani fanciulle di estrazione popolare. La liason di gran lunga più indecorosa fu quella intrecciata con due donne di casa Strassoldo (rispettivamente la moglie e la figlia di Rizzardo Strassoldo). I nobili di Farra pretesero dal Della Torre un matrimonio riparatore con la giovane deflorata Marianna Strassoldo ma il torriano era già sposato con Eleonora Madrisio. Gli Strassoldo allora non si fecero pregare e misero in piedi una piccola banda guidata dal conte Lucio Della Torre con l’obbiettivo di eliminare la contessa Madrisio. Questa venne brutalmente uccisa nel febbraio del 1722 mentre dimorava nella propria abitazione di Noale. Un mese più tardi, il Consiglio dei Dieci sentenziò il bando capitale a carico del Della Torre. Ma le autorità venete non erano le uniche ad essere risentite per le scorribande del castellano: in Austria, si avvertiva lo stesso livore poiché il feudatario friulano era noto per aver stuprato la figlia di un barone di Klagenfurt. Inoltre, la stessa Eleonora Madrisio era nipote di un ambasciatore cesareo a Venezia, Giambattista Colloredo. L’avversione per il Della Torre spinse Austria e Venezia a collaborare chiudendo il pluriomicida in una morsa giudiziaria: il Capitano di Gradisca, coadiuvato da un contingente di 150 uomini, cinse d’assedio il castello di Farra, riuscendo a catturare sia il Della Torre, sia i suoi complici. Il torriano venne posto sotto processo e condannato alla decapitazione a Gradisca il 3 luglio 1723. G. BENZONI, Lucio Della Torre, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 37, cit., pp. 593-597; G. VERONESE, Violenza e banditismo nobiliari in Friuli tra Seicento e Settecento: il conte Lucio Della Torre, in «Ce fastu?», a. 71(1995), vol. 2, pp. 201-221; D. MOLFETTA, Lucio Della Torre, in «Sot la nape», a. 31, n.2-3 (aprile – settembre 1979), pp. 59-72.

144 la permanenza presso il Collegio gesuita dei Nobili di Parma98. Ciononostante è opportuno sottolineare che la ricomposizione degli anni puerili dei quattro conti Della Torre è interamente basata sui carteggi ricevuti dal padre Luigi Antonio Della Torre che seguiva con discreta attenzione i progressi dei figlioletti. Nelle missive però la prole è spesso indicata da espressioni quali «i conti», «i figli di Vostra Eccellenza», non permettendo dunque sempre di comprendere se le esperienze educative coinvolgessero sistematicamente tutti e quattro i figli, oppure solo alcuni di loro. All’inizio del Settecento, i piccoli torriani furono iniziati all’esplorazione del mondo nobiliare mediante un viaggio a Graz. Nella capitale stiriana furono introdotti nei migliori salotti aristocratici con la prospettiva di far loro allacciare legami con importanti casate locali. Un certo Martinesio, in qualità di maggiordomo del conte Luigi Antonio Della Torre, inviava epistole a Duino per informare il suo signore circa i progressi dei figlioletti. Già all’inizio del 1703, ossia quando i conti erano appena giunti in Austria, il Martinesio ragguagliò il suo nobile destinatario spiegandogli: «lo stato di buona salute degli Illustrissimi Signori Conti figliuoli colla presente, e che li medesimi giovedì furono appresso li giovani Conti Trauttmansdorf e ieri appresso la signora Principessa e Principino e Principesse figlioli d’Eggenberg, ne furono con tutt’amorevolezza ricevuti, parzialità ed espressioni singolari di Sua Altezza»99. Il contatto con il casato dei principi di Graz, gli Eggenberg100, era un indiscutibile successo sociale, sostenuto dalla regolare partecipazione a tutti gli eventi pubblici in cui avrebbero potuto mettersi in luce, farsi conoscere e, a loro volta, parlare della propria famiglia101. Di straordinaria importanza rimase probabilmente un evento organizzato a

98 Sul collegio di Parma, si veda BRIZZI, La formazione, cit. pp. 27 segg. In queste pagine il Brizzi ricorda le origini del Collegio, alla fine del Cinquecento, sotto Ranuccio I Farnese, e il successivo intervento dei gesuiti. Il convitto dei nobili passò definitvamente ai gesuiti nel 1604. Ebbe il suo apogeo sotto Ranuccio II Farnese (1646-1694), mentre intorno al 1710 si era in realtà avviata una fase di decadenza e calo delle iscrizioni, quando stavano crescevano le fortune del seminarium nobilium di Modena. 99 ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 134, fascicolo lettere Martinesio, Graz, 23 ottobre 1703. 100 Sugli Eggenberg e la principesca contea di Gradisca si veda S. CAVAZZA, D. PORCEDDA, Le contee di Gorizia e Gradisca al tempo di Marco d’Aviano, in Marco d’Aviano Gorizia e Gradisca. Dai primi studi all’evangelizzazione dell’Europa, a cura di Walter Arzaretti e Maurizio Qualizza, Geap. Fiume Veneto (Pordenone), 1998, pp. 81-119. 101 Nel marzo del 1710, Giovanni Filippo Della Torre scrisse una lettera al padre, il conte Luigi Antonio Della Torre, per informarlo della partecipazione a cene e balli presso famiglie della nobiltà stiriana: «Noi fratelli portiamo li nostri figliali rispetti à Vostra Signoria Illustrissima, come facciamo all’Illustrissima Signora Madre. Godiamo tutti buona salute. Lunedì furono i cavallieri e dame intorno la piaza nel Wurst: il Signor Conte Auersperg si fece l’onore di venir qui in Casa à vederli nel quale dopo andassimo nella Casa della Provincia e cenassimo ivi, e dopo cena fù il Ballo. Il giorno seguente fossimo dal Signor Conte Wildenstein parimente al Ballo, e dopo si fece una merenda. Procureremo d’approfittarci più, che potiamo

145 casa Leslie, importante lignaggio che aveva dato i natali all’allora vescovo di Graz, Wilhelm von Leslie (1657-1727), presso la cui proprietà «ieri godessimo la vista d’una slittada come anco mercordì la caccia dell’orso e del toro102». Le relazioni pubbliche non erano però gli unici aspetti della formazione nobiliare dei rampolli Della Torre, che richiedeva anche una certa costanza nello studio e nell’apprendimento di diverse discipline. In particolar modo, Luigi Antonio Della Torre aveva preteso che i figlioletti si dedicassero con acribia allo studio delle lingue straniere e, specialmente, del tedesco. Non solo. Il piano educativo prevedeva anche altre materie come la grammatica e la musica. Il Martinesio non mancava mai di far giungere notizie a Duino sul rendimento scolastico dei piccoli conti: «Gli Illustrissimi Signori Conti s’avanzano nel parlar Francese quasi à misura del Tedesco; nella Musica à me pare per il tempo, che vi attendono, non piccolo il profitto; nella Grammatica lo studio riesse più tardi, ed ogni poca d’indisposizione impedisce l’avanzamento, ed induce del passato che perciò bisogna ripetere»103. Tutti questi insegnamenti, però, non parvero particolarmente utili se non accompagnati dalla presenza di un precettore in grado di dedicarsi completamente al consolidamento culturale degli eredi torriani. Il Martinesio si adoperò per trovare a Graz la persona più qualificata, finché un giorno rese noto a Luigi Antonio Della Torre di aver individuato un potenziale educatore in un certo signor Ballarino, formatosi presso i gesuiti di Graz. Il maggiordomo duinate non era certo rimasto con le braccia conserte e, anzi, aveva condotto indagini in proprio per verificare le referenze del precettore. Rassicurato sull’onestà della persona presso i gesuiti, si decise a proporlo al Della Torre avvisandolo che il mantenimento dell’aio e della sua signora sarebbe costato all’incirca 900 fiorini annui104.

negli studj, come nelle lingue e nel Ballo». ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 131, fascicolo lettere parenti Della Torre (1675-1715), Graz, 10 marzo 1710. 102 Ivi, b. 131, fascicolo lettere parenti Della Torre (1675-1715), lettera di Francesco Annibale al padre Luigi Antonio Della Torre, Graz, 27 gennaio 1710. 103 Ivi, b. 134, fascicolo Martinesio, Graz, 21 luglio 1703. Negli esercizi musicali, i tre conti Della Torre avevano inoltre dimostrato propensione per alcuni strumenti particolari, ossia Giovanni Filippo e Turrismondo Paolo Della Torre scelsero di suonare il flauto, mentre Francesco Annibale prediligeva il liuto. Ivi, b. 134, fascicolo Martinesio, Graz, 7 aprile 1710. 104 «Il Signor Ballarino viene à dar la lezione ogni giorno, eccetto le feste, e li giovedì. Il Precettore mostra diligenza mà in quanto alla Grammatica non riuscirà coll’italiano perfettamente: ma in ciò supplirò io con le mie debolezze, quanto potrò. In resto pare di buoni costumi, ed avendo qui studiato avanti due anni, non s’hà trovato nel catalogo dè Padri Giesuiti mancamento nessuno: tuttavia hò voluto, che vadà à vienire il Padre Rettore, con cui primà mi ero abboccato, e che mi disse, che non si potrà dargli meno di sessanta fiorini al mese […]. Detto Signor Ballarino è senza figlioli con la consorte di Parigi, che sempre è stata in casa di Cavalieri distinti, e che farebbe il tutto con polizia e civiltà». Ivi, b. 134, fascicolo Martinesio, Graz, 4 novembre 1709.

146 Dalle lettere non è possibile stabilire se il Della Torre accettò i servigi e la parcella del Ballarino, in quanto non c’è alcun riscontro documentario dell’assunzione del precettore. Tuttavia, in quel periodo i torriani stavano già pianificando la seconda tappa del viaggio formativo dei giovani conti Della Torre che si sarebbero trasferiti a Salisburgo. L’organizzazione del nuovo soggiorno dovette occupare un lungo periodo e il Martinesio si prodigò affinché i rampolli duinati potessero alloggiare in una residenza confacente al loro rango. Nella ricerca di una dimora adatta, venne coinvolta anche la principessa Eggenberg che si adoperò affinché i conti avessero «un bon adresse, ce que je fairay tous volontier»105. Nel mese di novembre i torriani giunsero a Salisburgo e il primogenito, Giovanni Filippo Della Torre, non mancò di darne notizia al padre: «Grazie à Dio, che dopo un pennoso viaggio di sette giorni siamo giunti tutti noi fratelli in buona salute dà quella della Stiria in questa Capitale; e ne porto col nostro figlial umilissimo rispetto à Vostra Signoria Illustrissima la buona nuova come anco del contento nostro di dimorare in sì bella Residenza»106. I primi giorni di permanenza furono concitati, in quanto si pretese dai giovani torriani di porgere visita in numerose famiglie nobili della città e soprattutto di rendere omaggio a Franz Anton von Harrach (1665-1727), Arcivescovo di Salisburgo. Luigi Antonio Della Torre aveva infatti consegnato al primogenito, Giovanni Filippo Della Torre, una lettera da consegnare al primate salisburghese107. Non è noto il contenuto della missiva, tuttavia qualche giorno più tardi l’Arcivescovo rispose al Signore di Duino rassicurandolo di aver ricevuto l’epistola. Con ogni probabilità il Della Torre chiese protezione per i propri figli, in quanto l’Harrach rispose: «Mi è stato reso l’umanissimo foglio di Vostra Signoria Illustrissima in cui mi raccomanda la cara sua Figliolanza inviata qua alli studij. Io dunque, che sempre ho bramato l’occasioni di comprovare à Vostra Signoria Illustrissima il mio affetto, accetto la medema che mi riuscirà di molto piacere d’haver qualch’incontro di favorire la detta sua amabile gioventù»108. Dai carteggi si evince che il Principe Vescovo di Salisburgo ebbe un occhio di riguardo almeno per uno dei figli del torriano, il secondogenito Federico Luigi, che raccomandò a Wolfgang Hannibal

105 Ivi, b. 132, Vienna, 18 gennaio 1710. 106 Ivi, b. 136, fascicolo lettere 5,1a, Salisburgo, 20 novembre 1710. 107 Ibidem. 108 Ivi, b. 132, Salisburgo, 28 novembre 1710.

147 cardinale von Schrattenbach, vescovo di Olomouc dal 1711, per assicurargli il canonicato nella comunità ceca109. Il terzo passaggio del percorso formativo dei giovani torriani si consolidò a Parma, presso il Collegio dei Nobili. Prima di iscrivere i figli, Luigi Antonio Della Torre contattò un cugino di primo grado, l’ecclesiastico Nicolò di Raimondo Bonifacio Della Torre, che aveva insegnato per un periodo nella nota località emiliana e dove sarebbe tornato nel torno di breve tempo. Nicolò Della Torre si dimostrò soddisfatto per l’interessamento del consanguineo verso il Collegio gesuita e si prestò a fornire indicazioni circa le modalità di ammissione e di pagamento delle rette scolastiche. L’insegnante spiegò che occorrevano circa 92 ducatoni pro capite per le spese di «mantenimento comune e […] mobilia» di ciascun figlio. Nel caso però in cui il conte Luigi Antonio Della Torre pensasse all’inserimento nel Collegio di tutti i suoi figli maschi, allora le spese si sarebbero ridotte a 84 ducatoni annui per ciascun allievo110. Alla fine, il duinate si addossò la responsabilità delle spese e iscrisse tutti e tre i figli al Collegio di Parma. Anche in questo caso, una delle principali premure del Della Torre fu l’apprendimento del tedesco111 che, con ogni evidenza, venne studiato dai conti torriani con sistematica assiduità112.

109 Ivi, b. 132, Salisburgo, 16 giugno 1712. In realtà non risulta che Federico Luigi Della Torre intraprese la carriera ecclesiastica. Molto probabilmente l’Arcivescovo Harrach faceva riferimento ad un altro figlio di Luigi Antonio Della Torre, ossia Francesco Annibale che rinunciò all’eredità di famiglia e divenne Canonico e Vicario Generale di Passavia. PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 415. 110 ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 131, fascicolo corrispondenze con i parenti Della Torre (1675- 1715), Parma, 5 settembre 1711. Oltre alla retta pattuita vi erano anche altre spese di cui però non si conosce l’ammontare. «Il restante delle spese che riguarda la particolarità degl’esercitii cavallereschi, Mesate, Mancie, Abiti etc. lo potrà Vostra Eccellenza intendere dall’Informazione stampata diretta à quei cavalieri, che vogliono mettere i loro Signori Figliuoli nel Collegio di Parma». Ibidem. 111A proposito dell’insegnamento del tedesco, introdotto nei seminaria nobilium molto dopo il francese, il Brizzi osserva che a Bologna «l’insegnamento del tedesco viene attivato in concomitanza con l’espansione del dominio della Casa d’Austria nell’Italia settentrionale». Come osserva ancora il Brizzi, «Motivi di carattere utilitaristico e pratico dovettero spingere quei giovani ad apprendere la lingua tedesca: infatti la quasi totalità di costoro risulta risiedere in città o zone dell’Italia settentrionale confinanti con territori posti sotto il diretto dominio asburgico […]. Non si può infine ignorare la forte attrazione rappresentata dalla corte di Vienna sulla nobiltà delle regioni centro-orientali dell’Italia settentrionale». Quanto ai testi utilizzati, gli studenti di tedesco utilizzavano, almeno nel collegio bolognese, il dizionario quadrilingue di Giovanni Veneroni, cioè il Dittionario imperiale, nel quale le quattro principali lingue dell'Europa; Cioe 1. L'italiana con la francese, tedesca e latina, 2. La francese con l'italiana, tedesca e latina, 3. La tedesca con la francese, latina e l'italiana, 4. La latina con l'italiana, francese e tedesca si dichiarano e propongono colli loro vocaboli[…] hora con particolar fatica accresciuto, accentuato per tutto, e da infiniti errori purgato da Nicolo di Castelli, In Francoforte sul Meno, li eredi Zunneri, e Gio. Adamo Jung, 1714. BRIZZI, La formazione, cit., pp. 241-242. 112 «Accompagno volentieri con la presente due altre de signori Cugini in idioma tedesco, acciò Vostra Eccellenza conosca quanto io sia sollecito per il loro profitto in questa lingua, mancandomi solo quella del Conte Pippo, che per haver tardato à consegnarmela la riceverà separata». Ivi, b. 136, fascicolo 1,

148 Nicolò Della Torre seguiva i cugini con zelo, riportando al castellano di Duino sia notizie riguardanti il merito scolastico, sia informazioni sulle attitudini comportamentali dei giovani conti113. Nel periodo della formazione parmense, Nicolò Della Torre non fu l’unico congiunto a preoccuparsi per il futuro del lignaggio gradiscano: anche la nobildonna Silvia Rabatta, nonché la sua famiglia, diedero il proprio contributo per arrecare vantaggi sociali ai conti Della Torre. In particolar modo fu Raimondo Rabatta, fratello della contessa Silvia Rabatta nonché vescovo di Passavia, a tentare di muovere qualche pedina nello scacchiere nobiliare al fine di assicurare una buona sistemazione ai parenti di Duino. Nel 1713, ad esempio, Raimondo Rabatta scrisse al Collegio Clementino a Roma dove si trovava il fratello di un Canonico suo amico con il quale aveva contratto «delle obbligationi infinite». Il Rabatta pensò dunque di sfruttare quel legame per raccomandare il nipote, il conte Francesco Annibale Della Torre, che benché non «habia ancora l’età richiesta», ma «essendo meci di strettamente congiunto»114, sarebbe probabilmente stato accettato ugualmente nell’istituto romano. Non si conosce esattamente il momento in cui i torriani lasciarono il Collegio dei Nobili di Parma, tuttavia è rimasta qualche traccia della prosecuzione degli studi di Turrismondo Paolo e di Francesco Annibale della Torre che conseguirono il Magistero in Filosofia115. Alla morte di Luigi Antonio Della Torre (1723), il diritto successorio favorì il primogenito Giovanni Filippo Della Torre che consolidò una discreta carriera al servizio degli Asburgo. Oltre ad ottenere i titoli di Ciambellano e Consigliere Intimo di Stato, il

corrispondenze, lettera di Nicolò Della Torre, Parma, 14 dicembre 1711. Il ripetuto interesse di Luigi Antonio Della Torre per l’apprendimento della lingua tedesca fa presagire la volontà paterna di agevolare l’inserimento professionale dei figli nell’impero asburgico. Inoltre era stato lo stesso Nicolò Della Torre a sollecitare il cugino torriano nell’indicargli un preciso percorso scolastico per la formazione culturale dei conti: «la pregherò altresì à farmi separatamente consapevole dell’età, de studj, e di qualunque disposizione desidera Vostra Eccellenza sopra ciascheduno». Ivi, b. 131, fascicolo corrispondenze con parenti Della Torre, Parma, 5 settembre 1711. 113 Nicolò Della Torre inviò a Luigi Antonio Della Torre delle relazioni circa il comportamento dei figli. Sul primogenito, Giovanni Filippo annotò che «migliori il caratere da lui l’ano passato migliorato, e poi trascurato. La seconda che non stij tanto ritirato al proprio camerino [rinunciando alla] conversazione, come haveva incominciato à patirne, non essendo questa la maniera di coregere il suo Naturale un pocco timido, e biglioso, mà bensì il provar di […] con saper tratare con tutti, e destreggiarsi con genij à se contrarj e tanto mi ha procurato di fare. Il Conte Turismondo è tutto il rovescio, poiché è spiritoso, e si fa ogni giorno più accorto e svelto e benché non cresca molto hà però una ciera molto buona. Questi è riuscito ultimamente Prencipe nella sua Schuola». Ivi, b. 131, fascicolo corrispondenze con i parenti Della Torre (1675-1715), Parma, 1 maggio 1713. 114 Ivi, b. 132, Passavia, 20 gennaio 1713. 115 Ivi, b. 131, fascicolo corrispondenze con i parenti Della Torre (1675-1715), Vienna 26 novembre 1718; ivi, b. 135, miscellanea lettere, Passavia, 10 novembre 1717; ivi, b. 136, lettere, fascicolo 2, Vienna, 18 ottobre 1721.

149 rampollo torriano fu anche Maresciallo Ereditario e Commissario nelle Diete di Gorizia e Gradisca116. Sposò la nobildonna Maria Costanza dei duchi Serbelloni di Milano, famiglia che aveva dato i natali a illustri membri quali il cardinale cinquecentesco Gian Antonio Serbelloni, il Generale dei Paesi Bassi austriaci Gabriele Serbelloni ed il soldato Giovanni Serbelloni che militò nella fila dell’esercito dello Spinola117. Dal matrimonio con la nobildonna lombarda, nacque un unico figlio maschio, Francesco Ulderico, che morì in età giovanile a causa di un incidente equestre. La madre, rimasta vedova nel 1747, si occupò esclusivamente del figlio e della sua educazione, assumendosene la tutela118. Alla morte del figlioletto la nobildonna Serbelloni si ritirò definitivamente a vita privata, rinunciando anche alla dote a favore dei congiunti Della Torre: la Serbelloni devolse così alla famiglia del marito defunto una somma pari a 130.000 fiorini imperiali, in cambio di un vitalizio annuo ammontante a 4.160 fiorini imperiali annui119. Estintosi questo ramo della linea gradiscana, l’eredità di famiglia passò al secondogenito di Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre, ossia a Federico Luigi. Questi divenne membro della Dieta di Carniola120 e Consigliere Intimo dell’Arciduca Giuseppe d’Asburgo nel 1767121. Sposò la cugina Eleonora di Giovanni Battista Della Torre, per il cui matrimonio fu necessario l’ottenimento di una bolla di dispensa matrimoniale122. Dall’unione matrimoniale nacquero quattro figli (Antonio, Silvia, Francesco e Luigi) che scomparvero però in tenera età. Allo stesso modo, anche gli altri due fratelli maschi di Federico Luigi Della Torre non ebbero prole, in quanto dedicarono le proprie vite ad altri interessi. Mentre Francesco Annibale Della Torre intraprese la carriera ecclesiastica divenendo Canonico e Vicario Generale di Passavia, il fratello Turrismondo Paolo si dedicò all’amministrazione delle proprietà duinesi e soprattutto a interessi di carattere prettamente culturale: oltre al Magistero in Filosofia, il torriano conseguì anche una laurea in diritto presso l’Università di Pavia123.

116 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 414. 117 Ivi, p. 415. 118ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 162, fascicolo tutela assunta dalla contessa Maria Costanza Serbelloni (1749-1772). 119 Ivi, b. 162, Vienna, 12 marzo 1758. 120 Ivi, b. 163, fascicolo 2, fascicolo 1730. 121 Ivi, b. 163, fascicolo 2, Vienna, 17 febbraio 1767. 122 Ivi, b. 163, fascicolo 2, anno 1756. 123 Ivi, b. 163, fascicolo diploma di laurea e decreti governativi (1731-1754), diploma di laurea 1731.

150 Oltre ai quattro figli maschi Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre e Silvia Rabatta ebbero anche una figlia femmina, la contessa Marianna Della Torre che scelse di seguire la vocazione monastica. Rinunciando all’amore terreno124, la contessa torriana scelse di prendere i voti a Trieste nel 1721125, dopo aver trascorso un costoso periodo di preparazione a Vienna126. Dalla capitale austriaca Marianna Della Torre scriveva lettere ai famigliari per rassicurarli sulla profondità della propria vocazione e sul desiderio di poter rientrare in breve tempo nel Friuli imperiale dove avrebbe voluto fondare un ordine monastico127. Il secondo decennio del Settecento rappresentò per la linea gradiscana dei Della Torre un investimento per il futuro della famiglia, attraverso la formazione e le carriere dei giovani torriani. Il capofamiglia, Luigi Antonio Della Torre, cercò di non trascurare nessun aspetto al fine di non scalfire lo smalto della schiatta. Intorno al 1716 il castellano prese contatti anche con il teologo agostiniano, Carlo Giuliano Ferrucci, che si occupò di redigere l’albero genealogico della famiglia128, divenuto poi l’Albero

124 Marianna Della Torre ebbe un corteggiatore che venne rifiutato per fedeltà ai voti monastici: «Già che non veggo mai qui comparire Vostri Signori Illustrissimi come tanto tempo fa mi andava lusingando, risolvo notificarle come la mia volontà è risoluta di monacarmi in questo Monasterio. Onde Vostri Signori Illustrissimi mi faranno gratia di far sapere al Signor Conte Liberale che hò stabilito di non uscir più fuori di questo Chiostro, non perche non stimassi la sua Nobilissima Casa, et persona in particolare, mà perche Iddio Signore mi chiama per altra via, à cui ogni un deve cedere per grande che sia. Haverà tutta la libertà di eleggersi altra Sposa più degna di me, à cui io auguro ogni felicità, havendo io già trovato un Sposo più bello, ricco et immortale come è Giesù Christo, riconoscendomi io indegna d’esso». Ivi, b. 136, fascicolo 5, lettere, 1a, Trieste, 10 maggio 1721. 125 Ivi, b. 136, fascicolo 2, lettere, Vienna, 18 ottobre 1721. 126 Ivi, b. 131, fascicolo corrispondenze con i parenti Della Torre (1675-1715), Vienna, 15 giugno 1716. La lettera citata non menziona esattamente l’ammontare delle spese sostenute dalla famiglia per il mantenimento della figlia Marianna Della Torre. Tuttavia un esplicito riferimento della cugina, Eleonora di Giovanni Battista Della Torre, che ragguagliava Silvia Rabatta sui costi sostenuti, lascia intendere il grosso onere a carico della famiglia: «Vostra Eccellenza riceverà questo ordinario, la lista della spesa fatta […] veramente tutto insieme è assai, ma qui à Vienna è tutto caro, particolarmente i sarti con la loro fattura, ma la contessa Marianna tutto questo gl’era necessario e io non sapevo fare altrimenti però per adesso non gli bisognerà più d’un anno à fare un habito cossi la spesa non sarà più cossi grande». 127 «Pour ce qui regarde ma vocation de Religieuse je vous dis avec la sincerité la plus soumise que je tacherai de la suivre autant qu’il me sera possible et si je souhaite de sortir de ce convent c’est seulemet pour aller fonder a Gradisca un ordre de St. Augustin des Chanoinesses Regulieres avec quatre Religieuses de ce Convent. J’espere que dans peu de temp beaucoup de mes cousines seront ravies de venir dans notre convent et de vivre en compagnie avec nous». Ivi, b. 131, fascicolo corrispondenze con i parenti Della Torre (1675-1715), Vienna, 30 gennaio 1716. 128 «Trasmetto all’Eccellenza Vostra l’Albero Genealogico Turriano elineato da me con quell’attenzione, e diligenza, che hà saputo somministrarmi il mio povero intendimento. L’umilio quall’è con tutto me stesso in ossequio tributo à Vostra Eccellenza vivamente supplicandola volersi degnare onorar l’opera d’un benigno gradimento, e me del suo alto, et autorevole Patrocinio. Prendo l’ardire supplicarla del sicuro ricapito delle altre due annesse copie, e con tutto lo spirito mi riprotesto inalterabilmente sino alle ceneri». Ivi, b. 136, fascicolo 1, lettere, Macerata, 30 luglio 1716.

151 genealcronologico della descendenza […] De la Torre129 le cui ricerche si allargarono anche a tutti gli altri lignaggi torriani. In realtà, all’epoca Luigi Antonio Della Torre non poteva immaginare che la sua linea si sarebbe estinta alla generazione successiva. I suoi figli sarebbero tutti morti senza discendenza, pertanto il patrimonio, i titoli e i riconoscimenti di casa Della Torre furono conferiti al ramo consanguineo più vicino, ossia ai discendenti di Raimondo Bonifacio di Giovanni Filippo Della Torre. Ammogliatosi con la contessa Paolina di Caporiacco, il Della Torre ebbe quattro figli maschi, di cui due (i conti Nicolò e Carlo Della Torre) seguirono la carriera ecclesiastica. Il primogenito Giuseppe Della Torre, invece, consolidò un cursus honorum presso la corte di Vienna dove divenne Cameriere degli imperatori Giuseppe I (1705-1711), Carlo VI (1711-1740) e Francesco Stefano di Lorena (1745-1765). Tentò anche la carriera militare ma non ottenne che pallidi successi. Ritiratosi in età senile nel proprio palazzo di Sistiana, Giuseppe Della Torre non ebbe figli, lasciando tutta la propria eredità al fratello, il conte Giovanni Battista Della Torre. Questi convolò a nozze in due battute, di cui la prima volta fu con la contessa Marianna Rabatta, mentre la seconda con Cecilia Strassoldo. Dalle due mogli ebbe numerosa prole, di cui sopravvissero cinque figli: i conti Raimondo, Francesco, Giuseppe, Teresa e Eleonora Della Torre. Mentre quest’ultima, come abbiamo visto, andò sposa all’erede dell’attigua linea gradiscana, Federico Luigi di Luigi Antonio Della Torre, e la sorella Eleonora si maritò con il conte Pompeo Brigido, i fratelli, Raimondo e Francesco Della Torre giunsero ad un accordo nel 1783 che stabilì la divisione dei beni di famiglia tra i due torriani, determinando così la genesi di due distinti lignaggi ottocenteschi130.

129 C. G. FERRUCCI, Albero genealcronologico della discendenza degl’Incliti Principi, Eroi De La Torre de conti di Valsassina, Venezia, Appresso Biasio Maldura, 1716. 130 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 417.

152 3.3: Il lignaggio di Giambattista Colloredo-Mels.

Giambattista di Camillo Colloredo-Mels, della linea di Bernardo, ebbe due figli maschi: Camillo, il primogenito, e Carlo Lodovico. Quest’ultimo prestò servizio alla corte di Vienna come Gentiluomo di Camera, incarico che gli fruttò un vitalizio di 7.000 fiorini. Le fonti documentarie non ricordano altri uffici rilevanti attribuibili al Colloredo, tanto che l’occasione sociale più importante fu il suo matrimonio con una nobildonna mantovana, Elena Gonzaga del ramo Vescovado, impalmata nel 1721. Le nozze furono architettate dal padre, Giambattista Colloredo (1656-1729), che aveva dimostrato maggiore perspicacia del figlio nel relazionarsi nella società nobiliare. In quegli anni il Colloredo si stava infatti ritirando a vita privata, dopo aver terminato con onore la propria carriera per gli Asburgo con un discreto palmares di titoli onorifici ed incarichi, di cui l’ambasciata cesarea a Venezia aveva costituito un passo fondamentale del cursus honorum del feudatario. Non appena convolò a nozze con la Gonzaga, Carlo Ludovico Colloredo spostò i propri interessi professionali in territorio lombardo, ottenendo già nel 1721 l’aggregazione alla nobiltà lombarda. Ciononostante trascorse parecchi anni a Venezia dove la moglie diede alla luce a sette figli, tre maschi e quattro femmine. Il primogenito, Carlo Ottavio Colloredo, nacque a Venezia nel 1723 ma studiò a Modena, presso il Collegio dei Nobili. Ultimata la formazione scolastica, si trasferì a Vienna, dove ottenne il titolo di Gentiluomo di Camera (1748). In seguito, dopo un breve soggiorno a Venezia, traslocò a Mantova dove impalmò la prima cugina, la nobildonna Ippolita, figlia del marchese Bentivoglio d’Aragona e di Marianna Gonzaga, zia materna del Colloredo. Erede di un consistente patrimonio della famiglia Gonzaga Vescovado, Carlo Ludovico Colloredo si assicurò un palazzo nella cittadina lombarda e una importante proprietà fondiaria nel mantovano. Esaurì la propria carriera a livello locale, ricoprendo molteplici incarichi a Mantova, ma dimostrando una particolare propensione al sostegno della politica asburgica nel territorio. Il Colloredo morì nella città lombarda d’adozione nel 1786, lasciando al primogenito Giambattista Colloredo le redini della

153 famiglia131. Non sono noti particolari successi professionali di questo nobile, tuttavia il suo nome è piuttosto legato a quello della figlia Ippolita, che sposatasi con il nobiluomo veneziano Carlo Marin, è ricordata per essere stata la nonna materna dello scrittore Ippolito Nievo132. Meno longevo fu invece il lignaggio di Camillo di Giambattista Colloredo, fratello primogenito del conte Carlo Lodovico Colloredo. Camillo Colloredo convolò a nozze due volte, la prima con la contessa Maria von Wolfstahl e la seconda con la contessa Teresa di Annibale Alfonso Emanuele Porcia. Dalla prima moglie ebbe il conte Francesco di Paola che beneficiò del vasto patrimonio di famiglia133. L’erede universale fu membro del Toson d’Oro e dell’Ordine di Santo Stefano d’Ungheria, nonché Cavaliere di Malta. Oltre ai numerosi titoli e privilegi, riuscì ad attestare un discreto successo alla corte viennese di fine Settecento, divenendo Cameriere e Consigliere Intimo di Leopoldo II (1790-1792), e Obersthofmeister dell’Arciduca Francesco. Ma fu soprattutto il lascito famigliare di una lontana congiunta, Maria Antonia di Ludovico Colloredo del ramo di Asquino morta senza eredi, che consolidò le ricchezze del giovane Colloredo e il suo prestigio sociale nel mondo nobiliare austriaco134. Francesco di Paola convolò a nozze con una nobildonna vedova, la contessa Vittoria di Grenville appartenente ad una importante famiglia

131 P. CABRINI, Carlo Ottavio, Conte di Colloredo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 27, pp. 70- 72. 132 CUSTOZA, Colloredo, cit., p. 30. 133 Camillo Colloredo ebbe altri sette figli: i conti Johann Baptist, Joseph, Anton e Karl Colloredo, nonché le contesse Maria Franziska Colloredo sposata von Kufstein, la contessa Theresia Colloredo sposata von Nadaseli, e la contessa Franziska Katharina Colloredo. AT-OeStA, Haus, Hof und Staatsarchiv, SB, HA Walpersdorf 132b, testamento Camillo Colloredo, 22 dicembre 1797. 134 Un passaggio tratto dal testamento di Camillo di Giambattista Colloredo permette di comprendere il consolidamento della posizione sociale del primogenito ed erede universale Francesco di Paola Colloredo. La carriera alla corte viennese, l’amore e la devozione paterna, nonché l’eredità della contessa Maria Antonia Montecuccoli, lo misero in luce nel parterre politico asburgico: «[…] meinem heilgeliebten Sohn Franz de Paula grafen von Colloredo, Ihro Röhmisch. Kayserl Königlic Apostol may: wirkl: Kämmerer geheimen Rath, und Obristhofmeister S. Königl Hochzeit des Erzherzogs Franz von Toskana zu meinem wahren und rechtmeistige alleinigen Universalerben ein als welcher nicht nur der Älteste von meinem Söhnen, und mit meinem Willen verheuerathet ist, sondern auch wegen besitzenden [geiten] Eigenschaften, dann durch seyen dem durchlauchtigsten Landes Fürsten und vom publico geleistete, und noch leistende Treueneifrigste Dienste einen väterliche Gnad und Neigung sich zu erworben befließen genossen. Dieser mein eigensetzter Universalerb solle demnach die ihm von mir gegendachte Verlassenschaft so überkommen, daß er damit frey und ungehundert disponiren könne und möge, doch aber ersuche anbei denselben, daß er nebst tragender Absorg die erfindliche Schulden ehemöglichste zu bezahlen, auch allezeit das von Wayland der hochgebohrenen Frauen Maria Antonia Josepha Fürstin von Montecuccoli gebohren Gräfin von Colloredo hinterlassenen Testament von 5ten Jänner 1738, als welches ich gleichfalls allzeit besorget auf das genaueste beobachte mithin auch die in diesene Testament enthaltene Stiftung erreichtig halte und vollige […]». Ibidem.

154 originaria della Normandia135. Dal matrimonio nacquero tre figli: il primogenito, il conte Giovanni Colloredo, ricoprì gli incarichi di Ciambellano e Consigliere Aulico. Sposatosi con la contessa Caterina di Krezmahr, non ebbe figli, trasferendo così l’onore di assicurare la discendenza alla famiglia del fratello, Francesco Colloredo. Tenuto a battesimo dall’imperatore Francesco II (1792-1835), il secondogenito di Francesco di Paola Colloredo, fu Gran Bailo dell’ordine Gerosolimitano, Consigliere Intimo e incaricato di numerose ambasciate presso le corti europee. Si sposò con la contessa Severina Potoka, dalla quale non ebbe figli, causando l’estinzione del lignaggio136.

135 Ivi, Archiv Folliot – Crenville, 32. 136 Il patrimonio passò dunque alla famiglia di Carolina di Francesco di Paola Colloredo. La nobildonna sposò il conte Francesco di Falkenhayn da cui ebbe un figlio maschio, erede dei beni austriaci e boemi di casa Colloredo. Le proprietà friulane furono invece trasmesse al conte Pietro di Colloredo-Mels, congiunto più prossimo degli eredi di Camillo Colloredo. CROLLALANZA, Memorie storico-genealogiche, cit., p. 160.

155 Capitolo 4: Proprietà.

4.1: I possedimenti dei Porcia da Giovanni Ferdinando al principe Annibale Alfonso.

Il sodalizio tra la famiglia Porcia e gli Asburgo fu sancito a partire dalla seconda metà del Cinquecento, quando il conte Ermes di Antonio Porcia intraprese la carriera a servizio dell’Arciduca asburgico di Graz. Il legame con gli Asburgo non fu suggellato solo dagli incarichi che il conte purliliense riuscì ad assicurarsi, ma anche dalla duttilità dimostrata nel farsi strada in mezzo ad intricate relazioni aristocratiche. Il Porcia era cioè consapevole dei vantaggi che avrebbe tratto dall’inserimento nella società blasonata asburgica, sia accrescendo il proprio prestigio sia rinsaldando il legame della sua famiglia con le terre asburgiche. Per tali ragioni nel 1571 convolò a nozze con una nobildonna esponente di un importante casato carniolino, la contessa Maddalena di Johann Balthasar von Lamberg. Grazie al matrimonio, il Porcia si assicurò il controllo su castello e territorio di una località nel carso sloveno, Senosecchia1, ottenuti in eredità dalla suocera, la contessa Justina von Lodron2. Nella redazione delle sue ultime volontà, la Lodron aveva manifestato l’intenzione di garantire la gestione del patrimonio, comprensiva di tutti i valori mobili, al genero e alla figlia, che avrebbero goduto anche del possesso del castello, per la cui erezione la suocera aveva investito almeno 2.300 fiorini3. Per evitare la dispersione dei beni fra tutti gli eredi di casa Porcia, venne in seguito istituita una primogenitura che stabilì la successione di Senosecchia a beneficio di ogni primogenito maschio del casato4. Il figlio di Ermes Porcia, il conte Giovanni Sforza Porcia, non esitò ad assimilare le strategie paterne, tanto che anche il suo matrimonio si rivelò un efficace mezzo di consolidamento patrimoniale. La moglie, la contessa Maria von Raunach, portò in dote

1 Sul possesso purliliense di Senosecchia (e anche di Primano) si veda J. W. VALVASOR, Die Ehre dess Hertzogthumbs Crain, 4 vol., Laybach, zu finden bey Wolfgang Moritz Endter, Buchhandlern in Nurnberg, 1689, vol. 3, pp. 377; 523-524. 2 KLA, Familienarchiv Portia, k.9, f. 28I, testamento 28 agosto 1598. 3 Ibidem. 4 Ivi, k. 9, f. 29N, testamento di Giovanni Sforza Porcia, luglio 1620.

156 il castello di Primano (Prem in tedesco e sloveno. Località slovena, oggi frazione del comune Villa del Nevoso)5. La località era in origine controllata dai signori di Duino, vassalli del Patriarca di Aquileia, ma quando la linea dei conti duinesi si estinse (1395), gli Asburgo avocarono a sé il diritto di recuperare il feudo che venne poi conferito ai signori di Walsee6, dando così origine quindi in una serie di infeudazioni che portarono all’amministrazione dei conti Raunach prima e dei Porcia poi. Se i conti Ermes e Giovanni Sforza Porcia gettarono le basi per un lungo connubio con i regnanti asburgici, fu il loro erede, il conte Giovanni Ferdinando Porcia a saldare gli investimenti compiuti dai predecessori in Istria con una gestione maggiormente oculata. L’attenzione del conte purliliense per i beni carniolini si rivelò in un’epoca- gli anni venti del Seicento – in cui il Porcia tentò strenuamente di affermarsi politicamente in Carniola. Una volta compiuti gli studi ed un importante viaggio formativo a Roma, il Porcia si adoperò infatti con lo zio paterno – il conte Carlo di Ermes Porcia – per ottenere qualche incarico carniolino. È certo che gli venne conferito l’ufficio di Luogotenente, mansione che svolse certamente tra gli anni trenta e quaranta del Seicento. Lo zelo con cui il Porcia cercò di farsi strada nella regione asburgica non bastò tuttavia a garantirgli l’affermazione sociale agognata. Il giovane conte purliliense si aggrappò inizialmente all’esperienza dell’attempato zio paterno, cercando di servirsi delle relazioni sociali che questi aveva consolidato nel corso degli anni. I primi risultati concreti si notarono però solo a partire dalla celebrazione del primo matrimonio, con la contessa Elisabetta di Andrea Auersperg. Il suocero, che aveva dimostrato una «grand’inclinatione alla persona mia» cercò di aiutarlo nella progressione della carriera, inserendolo nell’ambiente sociale di appartenenza7, finché al purliliense riuscì di ottenere il bramato incarico di Luogotenente. Tale ufficio non soddisfò però completamente l’arrivismo del Porcia, i cui progetti famigliari contemplavano ben più vasti successi. Le mire del conte andavano cioè focalizzandosi all’estensione sulle competenze professionali sia a livello locale che presso la corte imperiale di Vienna, ma anche sulla dilatazione dei beni intestati alla famiglia. Difatti, come ha rilevato l’Evans, la presenza nobiliare sul territorio venne marcata anche dal consolidamento

5 Ivi, k. 9, f. 29O, Castello di Prem, 21 novembre 1602. 6 M. LANNES, Il castello di Primano, Trieste, Zuculin, 1936, pp. XXXIII-XXXIV;XXXVII-XXXVIII. 7 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32H.

157 patrimoniale dei casati che, mantenendosi presenti sia nelle periferie dell’impero asburgico sia a corte, contribuirono all’affermazione sociale del proprio lignaggio8. Tra gli anni venti e gli anni trenta del Seicento l’azione del Porcia mirò all’assestamento dei beni istriani, anche come conseguenza delle sue lunghe permanenze in terra slovena per ragioni professionali. Il primo passo contemplò il riscatto del castello Primano, bene feudale su cui gravavano parecchi debiti. L’intento del Porcia consisteva nell’annullamento del deficit e nell’acquisto della giurisdizione di Prem che sarebbe così stata affrancata dal vincolo feudale per divenire un bene allodiale. L’operazione non fu però delle più semplici, in quanto la liquidità a disposizione del giovane Porcia non era delle più copiose. Ad aiutare il Luogotenente di Carniola era, ancora una volta, lo zio Carlo Porcia, recatosi in udienza alla Camera Aulica di Vienna per discutere gli ultimi dettagli dell’acquisto. Se i progetti di acquisizione del bene erano stati ben intavolati con le autorità viennesi, non si può certo affermare che i Porcia fossero in grado di versare l’ammontare dovuto con la stessa prontezza. Al castellano era infatti stato imposto un prezzo totale di 75.897 fiorini, di cui 39.767 fiorini erano stati pignorati dalla Camera Aulica, mentre il restante denaro (36.130 fiorini) dovette essere riscosso in più rate9. Nonostante le pressioni dei massimi consigli finanziari viennesi, i Porcia faticavano a raccogliere i fondi necessari per rilevare la proprietà di Primano. Due anni più tardi, nel 1626, fu ancora Carlo Porcia a recarsi a Vienna per ottenere una nuova dilazione nell’estinzione del debito. Il Porcia venne ascoltato e anche grazie al «favore di tanti […], Sua Maestà […] ha fatto la grazia di dieci milla fiorini, si che la Camera andrebbe creditrice secondo il conto mandatomi […] ancor di cinque in sei mille fiorini»10. Se la concessione imperiale si manifestò come un soccorso rilevante per le instabili finanze di casa Porcia, i feudatari friulani non erano però ancora usciti dall’impasse della mancanza di fondi. Il conte Carlo Porcia aveva infatti colto l’occasione del viaggio nella capitale austriaca per sottolineare «il infelice stato di nostra casa», per cui era «impossibile per adesso il far questo esborso»11, ma – convinto della necessità dell’affare – propose alla Camera Aulica di «bonificare» il debito accumulato attingendo il credito necessario dagli stipendi di tutti i

8 EVANS, Felix Austria, cit., p. 227. 9 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 31, Vienna, 30 novembre 1624. 10 Ivi, Vienna, 27 giugno 1626. 11 Ibidem.

158 Porcia in servizio presso gli Asburgo12. In questo modo avrebbero concluso alla svelta la faccenda senza infierire sulle deboli casse di famiglia. Mentre lo zio Carlo Porcia si indaffarava per far quadrare i conti, Giovanni Ferdinando Porcia elaborava già un nuovo investimento. All’inizio di gennaio 1629, nel pieno dei preparativi nuziali tra il rampollo friulano e la contessa Elisabetta Auersperg, egli fantasticava sui vantaggi sociali che il matrimonio con la nobildonna carniolina gli avrebbe garantito. Ai piedi dell’altare, infatti, l’affezione del Porcia non sembrava tanto rivolta alla sua futura sposa quanto al suocero, il conte Andrea von Auersperg, e alle possibilità di carriera che questi gli avrebbe aperto in Carniola: in una lettera allo zio Carlo Porcia, il conte Giovanni Ferdinando invocava il potere della famiglia acquisita, sperando che la «parentela, habbia quelli effetti, che si spera»13. Il Porcia contava sulla fiducia che il suocero riponeva nei suoi confronti, anche perché gli aveva garantito «che se Idio li da vita, ch’io lasci far a lui, che haverà gl’interessi miei così a petto, come de suoi figlioli»14. Mentre il feudatario covava le speranze di una buona riuscita, trattò l’acquisto di una casa a Lubiana, «perché anco dopo fatte le noze io non posso menar la sposa a Senosechia così per la staggione, come per esser la casa così mal aspettata, che mal si potrebbe habitarci d’inverno»15. Per la nuova spesa mise in preventivo di corrispondere una somma massima di mille fiorini. Egli non riuscì però a trovare un modo per realizzare i propri desideri, in quanto «la miseria di quest’anno tanto crudele [1629], mi ha guasto tutti li disegni»16. Le condizioni di vita dei sudditi dai quali «non ho potuto scoder quasi niente» e le cattive entrate non permisero al castellano di accumulare del capitale per l’estinzione dei debiti di famiglia e nemmeno per l’acquisto di una dimora nella capitale carniolina17. Questa situazione accentuò quindi ulteriormente il divario tra le aspirazioni sociali del Porcia e la difficile realtà economica della propria famiglia: tuttavia è bene non imputare l’ambizione del conte ad

12 Ibidem. 13 Ivi, k. 10, f. 32h, Lubiana, 4 gennaio 1629. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ivi, k. 10, f. 32h, Lubiana, 25 aprile 1629. Sul 1629, anno di grande carestia, si veda per il vicino Friuli, egualmente colpito, L. MORASSI, 1420/1797. Economia e società in Friuli, Udine, Casamassima,1997, pp. 98 segg 17 Nel 1629 la cattiva situazione finanziaria non consentì al Porcia di acquistare la casa a Lubiana, ma l’affare si concretizzò sicuramente negli anni successivi. Infatti da un registro riguardante lo stato delle proprietà istriane, stilato dal principe Johann Karl di Giovanni Ferdinando Porcia, risulta il possesso di una dimora nella capitale carniolina per un valore di 4.000 fiorini. Ivi, s. 15, f. 42b, 28 luglio 1698.

159 una mera tendenza alla dissipazione quanto, piuttosto, alla necessità di marcare il rango sociale mediante «consumi cospicui»18. Dopo l’esperienza come Luogotenente di Carniola, e man mano che gli interessi professionali del conte Porcia si focalizzavano alla corte di Vienna, anche i progetti di ampliamento patrimoniale si centrarono maggiormente sul territorio austriaco. In particolar modo, in seguito all’elevazione allo stato principesco (1661), Giovanni Ferdinando Porcia colse l’occasione di rilevare una grossa porzione di territorio carinziano, ossia la contea di Ortenburg. Il contratto d’acquisto di tale possedimento non si configurava solo come l’opportunità di un poderoso investimento ma assolveva anche ad una funzione simbolica di prestigio e potere. Il legame con la terra rappresentava infatti il massimo status symbol, veicolo di conseguimento di credito e di riconoscimento sociale diffuso. Oltre ad emanare un’immagine di agiatezza, il possesso della terra esalava anche un valore allegorico di connubio con l’ambiente circostante e la propria storia, di legame con le proprie origini e di un volontario radicamento in un preciso contesto politico e sociale19. La rappresentatività del legame con la terra era un argomento che nemmeno il principe Porcia poté trascurare al punto che, quando la Camera Aulica di Graz diede l’assenso all’acquisto della contea di Ortenburg, il Porcia non si ritrasse dall’affare20. Prima dei feudatari friulani, la contea di Ortenburg era stata posseduta dalla famiglia Salamanca21 che, originaria di Burgos (Spagna), si era trasferita in Austria al seguito di Gabriel Salamanca, tesoriere dell’imperatore Ferdinando I (1556-1564). Alla morte dell’ultimo esponente del casato ispanico la contea era tuttavia ritornata alla corona asburgica la quale, per far fronte a impellenti necessità finanziarie, la rivendette ai membri della famiglia Widmann discendenti da un commerciante originario di Villach, Hans Widmann, morto a Venezia22. L’ultimo beneficiario del fedecommesso istituito sulla contea fu il cardinale Cristoph Widmann che morì nel settembre 1661. Il decesso

18 P. BURKE, Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 169-189. 19 DEWALD, La nobiltà europea in età moderna, cit., p. 91. 20 KLA, Familienarchiv Portia, k. 10, f. 32E, Graz, 12 agosto 1662. 21 P. RAUSCHER, Gabriel de Salamanca, conte di Ortenburg e Capitano di Gorizia, in Divus Maximilianus, cit., pp. 157-159. 22 I Widmann furono ascritti al patriziato veneziano mediante l’esborso di 100.000 ducati durante la guerra di Candia. R. SABBADINI, L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia, Udine, Istituto Editoriale Veneto Friulano, 1995; D. RAINES, L’Invention du mithe aristocratique. L’image de soi du patriciat vénitien au temps de la Serenissime, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 2006, p. 773, 777.

160 fu tanto inaspettato quanto repentini furono i cambiamenti che ne conseguirono: i fratelli dell’ecclesiastico defunto, Martin e Ludwig Widmann, liquidarono la contea e il nuovo acquirente fu il principe Giovanni Ferdinando Porcia che l’8 ottobre 1662 si assicurò tale importante bene per un valore complessivo di 365.000 fiorini renani. La proprietà comprendeva una giurisdizione ampia che controllava numerose terre carinziane, ossia St. Paternion, Sommeregg, Pittersberg, Goldenstein, Oberdrauburg, Grünburg, Flaschberg, nonché i feudi di Roseheim e Reinbald. Successivamente venne anche rilevata la comunità di Möderndorf. La capitale amministrativa della contea era la cittadina di Spittal an der Drau, dove venne eretto anche il palazzo, sede e dimora dei principi Porcia. La residenza, in stile rinascimentale, fu edificata da Gabriel Salamanca tra il 1527 ed il 1537 e, ancora oggi, mantiene la struttura originaria. La residenza rimase in possesso della famiglia Porcia fino al 1918, quando fu liquidata al barone Klinger von Klingerstorff il quale la rivendette nel 1930 alla municipalità di Spittal, che ancora oggi la gestisce, dopo averla trasformata in un museo di storia, cultura e tradizioni locali23. Titolare di un palazzo principesco e di una contea che vantava il controllo su buona parte del Land carinziano, il primo principe Giovanni Ferdinando Porcia non arrestò la corsa all’ampliamento dei possedimenti famigliari, riportando nuovamente l’attenzione alle terre istriane. Già verso la fine degli anni Cinquanta del Seicento, rumors parentali lasciavano trapelare indiscrezioni su un certo interesse del principe purliliense per la contea di Pisino, nell’Istria asburgica. In particolar modo si fecero osservatori interessati due conti di un ramo collaterale dei Porcia, ossia i fratelli Ferdinando Guido e Massimiliano di Alfonso Porcia, che in un carteggio famigliare risalente al 1659 pronosticarono ciò che sarebbe accaduto nel torno di pochi anni: «uno di questi giorni, havarà la Contea di Pisino, di grave consequenza, in Dono da sua Maestà, libera, et assoluta, et verà forsi ereta in Principato»24. I due conti non sbagliarono affatto la previsione, poiché nel 1664 il principe Giovanni Ferdinando Porcia rilevò anche la contea di Pisino25. Questo territorio, e più in generale tutta l’Istria austriaca, venivano offerti ai sudditi come ricompensa per il fedele servizio dedicato all’impero, ma anche

23 Si veda il volume Spuren europäischer Geschichte. Spittal 800 (1191-1991), a cura di B. Grünwald, T. Mayer, B. Oberhuber, H. Prasch, Spittal an der Drau 1991. 24 KLA, Familienarchiv Portia, k. 14, f. 41.1, lettera di Ferdinando Guido Porcia al fratello Massimiliano Porcia, Venezia, 19 settembre 1659. Si veda inoltre E. SESTAN, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, a cura di Giulio Cervani, Udine, Del Bianco, 1997, pp. 57-58, 68, 72, 77. 25 Ivi, k. 10, f. 32K, Vienna, 22 agosto 1664.

161 per finanziare le spese militari o amministrative che gli Asburgo dovevano sostenere. Ne risultò una totale frammentazione identitaria della regione, che assunse più la fisionomia imposta da ciascun possessore che non l’omogenea direzione del potere centrale26. All’inizio degli anni Sessanta del Seicento il principe Giovanni Ferdinando Porcia divenne l’ennesimo acquirente della contea di Pisino, acquistando anche notevoli diritti e privilegi come, ad esempio, la facoltà di giudicare nei processi d’appello indipendentemente dall’assenso del tribunale di Lubiana, giusdicente competente sull’Istria imperiale. Le peculiari autonomie assunte dalla contea di Pisino scatenarono le suscettibili reazioni della Dieta di Carniola che assisteva di malincuore alla ascesa di potere del Porcia. I nobili carniolini guidarono pertanto una protesta, capeggiata da un principe di casa Auersperg, che nel 1663 riuscì a bloccare le velleità di comando del Porcia. Nello stesso anno, il feudatario di origini friulane cedette alle pressioni di contrarietà nei suoi confronti e vendette la contea al casato degli Auersperg27, abbandonando definitivamente la scalata di potere in Istria e concentrandosi maggiormente sulla gestione dei possedimenti carinziani. Alla morte del principe Giovanni Ferdinando Porcia (1664), subentrò nel titolo principesco e nella gestione degli affari di famiglia il primogenito Johann Karl Porcia. Oltre ai beni detenuti in Carinzia e in Carniola, il giovane principe rilevò anche una proprietà nella città di Vienna, ossia un palazzo nella Herrengasse, viale nel centro della capitale situato a pochi passi dalla Hofburg, quartiere simbolo del potere asburgico. La dimora cittadina rimase in possesso dei Porcia per sessant’anni, dopodiché il principe Annibale Alfonso Porcia, oppresso dai debiti fu costretto a liquidarla. All’inizio degli anni venti del Settecento, infatti, la carriera politica e sociale del quarto principe Porcia aveva imboccato un irreversibile declino, essendo caduto in disgrazia alla corte di

26 La contea di Pisino venne amministrata da numerosi possessori: dal 1444 al 1532 furono dei capitani, inviati dagli Asburgo, ad occuparsi della gestione del territorio. Successivamente, dal 1533, la famiglia Mosconi, mercanti di Pettau ma originari di Bergamo, pagarono 26.000 fiorini per l’acquisto della contea e del titolo nobiliare. I Mosconi però caddero in disgrazia nel giro di breve tempo in quanto si macchiarono del reato di malversazione nell’acquisto di terre. Tra il 1558 e il 1570, Pisino fu gestita da Adamo Schwetkowitz, mentre a partire dagli anni Settanta appartenne ai fratelli Flangini, mercanti veneziani, che sborsarono 350.000 fiorini per l’acquisto. Tuttavia i nuovi possessori esagerarono con il prelievo fiscale causando una rivolta contadina nel 1653 poiché i sudditi, già stremati dalla carestia, non poterono più accettare la pesante tassazione loro imposta. I Flangini decisero pertanto di sbarazzarsi della contea, rivendendola a Giovanni Ferdinando Porcia. Istria nel tempo: manuale di storia regionale dell’Istria con riferimenti alla città di Fiume,a cura di E. Ivetic, Rovigno, Centro di ricerche storiche, 2006, pp. 322-325. 27 Ibidem.

162 Vienna e avendo aggravato le precarie condizioni finanziarie della famiglia. Egli entrò allora in contatto con il barone Bartolomeo von Tinti che gli offrì una somma pari a 39.900 fiorini per rilevare l’immobile28. Il Porcia fu costretto ad accettare l’offerta sobbarcandosi però anche l’onere di costosi restauri29. Infatti, oltre alla casa viennese e alla contea di Ortenburg, il peso patrimoniale di casa Porcia si era sovraccaricato dell’amministrazione di altri beni, dislocati in Germania. I possedimenti tedeschi risalivano all’inizio del XVII secolo ed erano entrati a far parte del patrimonio del casato attraverso una linea collaterale dei Porcia di Sotto. Il conte Alfonso di Alfonso Porcia, fratello del nunzio apostolico Girolamo Porcia, si trasferì già nell’infanzia presso la corte bavarese al cospetto del duca Guglielmo (1597- 1598), dove frequentò con assiduità il giovane duca Massimiliano von Wittelsbach (1598-1651), futuro principe Elettore di Baviera. Una volta compiuto un grand tour europeo30, il conte Alfonso Porcia ritornò in Germania dove sposò la contessa Elisabetta Gazzolo Viehhauser che gli portò in dote le signorie di Lauterbach, Horneck e Meilenhofen nella Bassa Baviera31. Dal matrimonio nacquero tre figli, ossia i conti Massimiliano, Ferdinando Guido e Elisabetta Porcia. Mentre della figlia Elisabetta non è stato possibile raccogliere notizie biografiche, gli altri due rampolli trascorsero l’infanzia al servizio della corte bavarese. Ma, mentre Ferdinando Guido preferì poi in età adulta trasferirsi nella Patria del Friuli e risiedere lì fino alla morte, il conte Massimiliano Porcia rimase in Baviera, occupandosi anche dei beni ereditati dalla madre. Massimiliano Porcia convolò a nozze due volte ed ebbe diversi figli che però non gli sopravvissero. Ormai anziano, il conte purliliense dovette redigere un testamento con cui definire la successione: mentre una parte del patrimonio venne conferito alla seconda moglie, la contessa Magdalena Maria von Sperring, la gestione di tutti i beni bavaresi fu affidata al parente più prossimo, ossia il nipote Geronimo di Ferdinando Guido Porcia, del Colonnello di Sotto32. Anche il beneficiario del fedecommesso bavarese era però ormai in età molto avanzata, tanto che non si assunse la responsabilità di amministrare le comunità tedesche conferitegli. Per questo motivo rinunciò al

28 PROBSZT, Die Porcia, cit., pp. 152-153. 29 KLA, Familienarchiv Portia, k. 16, f. 42E, Vienna, 7 luglio 1728. 30 MEYER, Il conte Massimiliano di Porcia, cit., p. 116. 31 KLA, Familienarchiv Portia, k. 12, f. 39, testamento anno 1602. 32 Ivi, k. 13, f. 40E, testamento 28 luglio 1679.

163 patrimonio a favore del figlio, il conte Annibale Alfonso Porcia, e di tutti i discendenti primogeniti maschi che fossero nati dopo di lui. Nell’atto di rinuncia, Girolamo Porcia mantenne però la gestione di una casa a Norimberga che aveva acquistato negli anni Trenta del Seicento33. Cedette invece agli eredi la dimora edificata a Landshut negli anni Cinquanta che rimase in possesso dei Porcia solo per una decina d’anni34. Dopo la morte del principe Annibale Alfonso Porcia (1738), il figlio primogenito, principe Johann Anton Porcia, riuscì ad ampliare il patrimonio bavarese grazie ad una accorta politica matrimoniale. Il nobiluomo sposò infatti la contessa Maria Josepha di Theodor Heinrich Topor von Morawitzky, affermatosi alla corte bavarese come generale nell’esercito del Principe Elettore Karl Albrecht von Wittelsbach. Quest’ultimo, oltre ad aver accettato i servigi del nobile di origini polacche, gradì con benevolenza anche la presenza della figlia, la contessa Maria Josepha Morawitzky che ne divenne amante e madre di un figlioletto, il conte di Helfenberg. Quando la nobildonna accettò di maritarsi con il principe Porcia, il Wittelsbach le fece un dono di nozze intestandole il palazzo nell’attuale Kardinal Faulhaber Straße di Monaco di Baviera, realizzato originariamente nel 1693 da Enrico Zuccalli per i Fugger di Augusta35. La Morawitzkty portò in dote la residenza che da quel momento assunse il nome dei Porcia. In meno di un secolo le proprietà dei Porcia si erano dunque espanse non solo nei territori asburgici ma anche nella vicina Baviera. Un siffatto numero di unità, così lontane le une dalle altre, esigevano oculatezza e prudenza nella loro gestione. Il primo principe impegnato nell’amministrazione di tutti questi territori fu Annibale Alfonso Porcia. Trovatosi quasi per caso a cogliere un’immensa eredità proveniente da rami famigliari collaterali estinti, doveva dare prova di capacità dirigenziale, trattando con sudditi e villaggi dalle caratteristiche molto differenti. Il principe Porcia, il cui cursus honorum era stato ripetutamente segnato dagli insuccessi, culminati con l’amara caduta in disgrazia alla corte di Vienna, amava investire il proprio tempo nel più rassicurante clima agreste della contea di Ortenburg, piuttosto che impegnarsi nel governo della proprietà. Alcune lettere di Giovanni Giuseppe Marburg, consigliere principesco, esplicitano quale fosse il giudizio del factotum sul rapporto tra il Signore e i suoi

33 Staatsarchiv Landshut (d’ora in poi StArchiv LA), Schloßarchiv Lauterbach, Rep. 161/4, nr. 112. 34 Ivi, Schloßarchiv Lauterbach, Rep. 161/4, nr. 111. 35 N. DE CARLO, I possedimenti della casata di Porcia e Brugnera in Austria e Germania, in, I Porcia, cit., pp. 134- 136.

164 territori; nel 1722, il Marburg indirizzò infatti una lettera al Porcia nella quale sfogò la propria costernazione per la totale incapacità purliliense nel provvedere all’amministrazione delle proprietà e alla situazione generale dei conti del casato: «Io esclamo, io strido sino à cieli; cioè li debiti s’ingrossano, li interessi da pagarsi alla Lodrona [cioè la nobildonna Dorothea Constantia von Lodron] si aumentano, essa patisce in arresto li Creditori restano defraudati li beni vano in malhora li sequestratori s’impinguano, li fattori si lamentano, li sudditi si rendono alieni col animo, il credito d’un Principe si prostituisce, il di lui carattere si vilipende, li figli patiscono in honore e nel mantenimento»36. La situazione non migliorò se due anni più tardi il Marburg scrisse una nuova missiva al Porcia cercando di farlo ragionare sullo stato della propria casa, la caduta in disgrazia innanzi agli Asburgo e la necessità di porre rimedio al pesante indebitamento che gravava sulla famiglia purliliense: «è vero, che la Casa Portia resto sin adesso sepolta nella oblivione di Cesare, mà altri tempi, altre cure […] l’unico è, che usciamo dalli intrighi de debiti, et aggiustiamo li odiosi affari»37. La situazione di casa Porcia non doveva essere delle più floride. Un memoriale, risalente al 1712 e redatto dal capitano della Contea di Ortenburg, Johann Paul von Größing, fotografa le spese del Porcia a quattordici anni dalla sua elevazione principesca. Nel 1698, anno di ingresso a Spittal di Annibale Alfonso Porcia, il patrimonio ammontava a 3.513.000 fiorini e sommava sia i beni carinziani nonché la casa viennese, sia i beni istriani38. Dal computo erano stati pertanto esclusi i beni bavaresi (di cui, al momento, non è stato trovato un dettagliato resoconto economico)39. Le entrate annuali dei possedimenti austriaci ammontavano a 26.250 fiorini, di cui i proventi della contea di Ortenburg costituivano l’introito più sostanzioso (12.000 fiorini annui)40.

36 KLA, Familienarchiv Portia, k. 16, f. 42E, Vienna, 5 agosto 1722. 37 Ivi, Vienna, 21 aprile 1724. 38 Nel dettaglio, i beni del Porcia ammontavano al seguente valore: contea di Ortenburg 3.060.000 fiorini; comunità di Möderndorf 24.000 fiorini; capitale disponibile in Carinzia 100. 000 fiorini; signoria di Primano 150.000 fiorini; signoria di Senosecchia 100.000 fiorini; capitale disponibile in Carniola 18.000 fiorini; casa di Vienna 50.000 fiorini; fienile e giardino a Vienna 4.000 fiorini; casa di Klagenfurt 4.000 fiorini; casa a Lubiana 3.000 fiorini. Ivi, k. 18, f. 42K, memoriale 1712. 39 La prima dettagliata stima dei debiti accumulati in Baviera risale alla seconda metà del Settecento, sotto l’amministrazione del principe Alphons Gabriel di Annibal Alphons Porcia. Starchiv LA, Schloßarchiv Lauterbach, Rep. 161/4, nr. 109. 40 Nello specifico, la contea di Ortenburg fruttava 12.000 fiorini annui, Senosecchia 4.000 fiorini, Primano 5.000 fiorini. Il restante denaro era raccolto da altre fonti di entrata come gli interessi percepiti sugli immobili di Spittal, Vienna e Lubiana. KLA, Familienarchiv Portia, k. 18, f. 42K, memoriale 1712.

165 Nel 1709, quindi dopo un decennio di amministrazione Porcia il totale delle entrate annuali era salito a 288.750 fiorini41, ben più elevato risultava il dato relativo alle spese compiute nello stesso arco di tempo. In uno schematico resoconto, il capitano Größing aveva annotato pazientemente tutte le uscite del principe Porcia cercando anche di rendere nota la causale degli importi, fornendo così un interessante sunto dei movimenti finanziari del feudatario. Nella relazione, il capitano di Ortenburg volle introdurre il capitolo relativo all’analisi delle spese pruliliensi con un preambolo tanto veritiero quanto allarmante: dal 1698 al 1712, il Porcia era riuscito a sperperare gran parte del patrimonio ereditato42. A seguire, il memoriale offre il resoconto delle spese che ammontavano a circa 2.800.000 fiorini. La voce di spesa più incisiva appare quella destinata all’abbellimento delle case di Spittal, Klagenfurt e Vienna, nonché a imprecisate spese personali che erano gravate sul bilancio di famiglia. Altri pesanti spese erano state causate da necessità professionali, come i 10.000 fiorini sborsati a Vienna a inizio Settecento, quando il principe stava in attesa di inserirsi nella società di corte e di ottenere quindi un incarico di tutto rispetto. In quegli anni, il Porcia dovette mantenersi attingendo dal patrimonio del casato e cercando di mettersi in luce, offrendo feste e banchetti, provando a vivere in maniera confacente al proprio rango ma, allo stesso tempo, al di sopra delle proprie possibilità. Esagerata la somma versata per il suo «Einstand», ossia i festeggiamenti per l’entrata in servizio alla corte di Vienna, per la quale non badò a spese: 70.000 fiorini. Incisivi furono inoltre i costi di accredito dell’eredità purliliense del lignaggio di Giovanni Ferdinando Porcia, nonché tutta la procedura burocratica di conferimento dei titoli e dignità aristocratiche (in totale 50.000 fiorini). Annibale Alfonso Porcia aveva poi concesso una importante somma di denaro anche alle funzioni religiose per i defunti della propria famiglia e in primis per l’anima del suo predecessore, il principe Franz Anton di Johann Karl Porcia, cui aveva pagato le esequie funebri (5.000 fiorini). Il Größing terminò il resoconto con un severo richiamo

41 Questo dato è infatti aggiornato al 1709 e non al 1712, anno in cui il Größing stilò il memoriale. Ibidem. 42 «Damit die Weldt erkhenne, dass diese Einkunffe von Ihor hochlfürstl Iden zu Conservation dero Hochfürstl: familien, und Abstattung der Ererbten Schulden rechst appliciert, mit aber wie mannicher appassionierter Vorgibet, verschwendet, und Dilapitert worde, als folges solche hernach». Ibidem.

166 all’indisciplina del principe di Spittal e con un monito di maggiore oculatezza nella gestione patrimoniale, anche per rispetto delle generazioni future43. Annibale Alfonso Porcia non seguì il consiglio del Capitano e negli anni successivi le spese lievitarono. Evidentemente la situazione uscì dal controllo del feudatario che si trovò invischiato in una ripetuta serie di insuccessi professionali e sociali, anche in seguito al costoso affaire Lodron e alla caduta in disgrazia alla corte di Vienna. All’inizio degli anni Venti del Settecento una commissione di corte impose un sequestro di beni nella Contea di Ortenburg a causa dell’insolvenza del debito contratto con la contessa Dorothea Constantia von Lodron, ex amante che aveva trascinato il Porcia in lunghe e dispendiose diatribe giudiziarie per vendicarsi di essere stata sedotta ed abbandonata in stato interessante. La Lodron chiese, come risarcimento, una dote di 40.000 fiorini che il Porcia non riuscì mai a pagare, fino alla confisca imposta dalla corte di Vienna. A quel punto il Porcia inviò una supplica di grazia all’imperatore Carlo VI (1711-1740) che, però, rimase inascoltata44. Il principe Porcia si trovò con l’acqua alla gola e prese a chiedere crediti ovunque, compromettendosi sempre più45. Nel 1729 il governo dell’Austria Interna con sede a Graz richiese una commissione per esaminare lo stato dei conti del Porcia. L’ispezione fu immediata e venne relazionata in un documento nominato Fürst Portysche Classification. I risultati dell’inchiesta furono inquietanti: il Porcia aveva completamente dilapidato l’intero patrimonio e ipotecato tutta la casa di Spittal, compresi mobili, servi e cibo, accumulando debiti per 328.272 fiorini. Nella contea di Ortenburg il feudatario moroso doveva denaro a chiunque: ai domestici restavano da

43 «Nun zu ansechung allen dessen so lasset man Einen eiden der nur ein Liect der Vernunft hat, judicieren, ob dieser gdiste fürst hund herr könne vor einen verschwender Divamiret, od vill mehrers vor einen guethes Wür hund vermehrer seines Hoch fürstl Hauses gennant und gehalten werden welches ohne einziger […] hiemit hundt gemacht wird, hund wäre in der Warheit sich mit zu Vernomben wann das völlige Portia Vermögen bey solchen Last der Schulden, hund nöthigen Ausgaben ad conservanda Sarta Tecta so durch diesen Ihr so hoch nehmblcihen bis hero bewahret worden exerciert alieniert, hund totaliter yber den Haussen geworffen worde wäre allein weillen Gott einen solchen herr aus erkohren durch welchen dieses hochfürstl: Haus erhalten werde solle, als ist zu hoffe es selbe mit der zeit solchs hochestammen Haus beföstigen die etwo Unordnungen moderieren seinen feindten, welche villeicht wegen seines hochen aufnemben Ihme Verlass gewaxen hund entlichen hochfürstl: familie hund Descendenz ein Vermehrer grössen Wohlfahrt hund Herrligkeit sein wierdt, welches Gott allmachtige Verleye wolle. 1712 Johann Paul von Grössing Haubtmann». Ibidem. 44 F. TÜRK, Hannibal Alphons, ein „absoluter Fürst“ in Spittal (1698-1738), in Vom Markt zur Stadt. Festschrift der Stadt Spittal zum Kärntner Gedenkjahr 1960, a cura di E. Nussbaumer, Spittal an der Drau, 1960, pp. 110-112. 45 KLA, Familienarchiv Portia, k. 18, ff. 42K-L-M.

167 pagare stipendi arretrati per un totale di 48.873 fiorini, il parroco di Spittal esigeva 3.000 fiorini, l’ospizio della comunità 2.058 fiorini, mentre altri 1.551 fiorini erano pretesi da nobili e sudditi del circondario46. Dal 1729 il Porcia visse ritirato nella propria residenza di Spittal e le fonti archivistiche tacciono qualsiasi altro dato biografico fino alla morte, avvenuta nel 1738. Le lettere e i memoriali non consentono di conoscere l’andamento finanziario della casa negli ultimi anni di vita del feudatario ma è del tutto probabile che egli non fu in grado di risanare le condizioni patrimoniali. Al figlio primogenito, Johann Anton Porcia, e ai suoi posteri, trasmise una pesante eredità macchiata dai debiti e da un disonore sociale che compromise anche i futuri accessi ai consessi politici ed elitari della società di corte viennese.

4.2: La Signoria di Duino e l’eredità di Luigi Antonio Della Torre.

I conti della Torre Valsassina a Duino ci mostrano il caso di una signoria retta in modo meno assenteista. Emergono anche qui seri problemi, specie nei rapporti coi sudditi, ma non mancano tentativi di miglioramento della condizione contadina e addirittura progetti arditi. Le origini della rocca duinate affondano nell’antichità, ossia all’epoca romana di cui rimase a lungo traccia in una remota fortezza collocata sull’omonimo dirupo. Nella seconda metà del quattordicesimo secolo, il signore di Duino Ugone VI avviò dei lavori di restauro della rocca e di costruzione di un adiacente castello, oggi ancora visitabile. Non è certo se prima del conte Ugone, altri feudatari avessero popolato il maniero diroccato, tuttavia è ipotizzabile che vi fossero degli stanziamenti, considerato che nel 1139 venne stipulato un atto di confinazione tra Trieste e Duino47. Pur mantenendo la struttura originaria, il castello di Duino accolse nel corso dei secoli molteplici ristrutturazioni che rispecchiavano l’anima e le esigenze dei propri

46 Ivi, k. 18, f. 42N, Graz, 11 maggio 1729. 47 PICHLER, Il castello di Duino, cit., pp. 84-85.

168 dominatori. Un periodo di particolare potenziamento dello spazio duinate si riferisce all’epoca del conte Raimondo di Francesco Della Torre Valsassina. Il torriano, figlio unico dell’ambasciatore cesareo e della nobildonna Laura D’Arco, rimase orfano di entrambi i genitori nel 1567 a soli undici anni. Rimasto solo, venne accudito dal lontano cugino, il capitano e signore di Duino Mattia Hofer che, in cambiò della protezione al giovane congiunto, sperava di ottenere accesso all’amministrazione dell’eredità torriana. L’Hofer pertanto aiutò Raimondo Della Torre e lo introdusse alla corte arciducale di Graz dandogli così l’occasione di farsi conoscere dagli Asburgo. Ultimato un viaggio formativo nella capitale stiriana, il torriano fece ritorno a Duino dove pretese la mano della giovane cugina Lodovica di Mattia Hofer. Il matrimonio gli assicurò una consistente quota del patrimonio duinate, comprendente il castello, l’ufficio di Capitano (a partire dal 26 aprile 1587), nonché il titolo di Signore di Duino. Con la celebrazione delle nozze il casato prese il nome di Della Torre – Hofer – Valsassina. Rimasto ben presto vedovo con quattro figli, Raimondo Della Torre non perse tempo e convolò a nozze con la cognata Chiara, la secondogenita di Mattia Hofer, che aveva perso il marito qualche tempo prima. Nonostante il diniego del suocero, oppostosi fermamente alla celebrazione di un secondo matrimonio tra il torriano ed una sua figlia, le nozze ebbero ugualmente luogo: Raimondo Della Torre ottenne così in dote la quota patrimoniale della Signoria di Duino spettante alla contessa Chiara Hofer, ossia la giurisdizione su 48 villaggi del Carso, comprese le comunità di Ranziano, Castagnavizza, Raunizza e Novella, nonché importanti località quali Vipulzano, Sagrado e Cormons, teatro di sanguinosi scontri a inizio Seicento tra Raimondo Della Torre contro la nobiltà locale48. Nel 1604 Raimondo Della Torre ottenne ulteriori prerogative sulla comunità di Cormons, conseguendo il diritto di istruire processi di prima e seconda istanza, sia in campo civile, sia in campo criminale. La nobiltà cormonese, membro degli Stati provinciali goriziani, si oppose ai nuovi privilegi del feudatario insorgendo per il timore di un esautoramento di potere e di un allontanamento dalla Convocazione goriziana. Il torriano però non si dimostrò disposto a cedere, provocando un inasprimento dei rapporti con la nobiltà locale e un conseguente violento conflitto protrattosi nel corso degli anni. Alla fine della Guerra di Gradisca (1615-1617), gli scontri non erano ancora

48 PORCEDDA, I Della Torre di Valsassina, cit., pp. 224-225; BENZONI, Della Torre Raimondo, cit., pp. 660-666; PICHLER, Il castello di Duino, cit., pp. 347-348.

169 stati sedati e gli Stati Provinciali ritennero opportuno un proprio intervento finalizzato alla sospensione delle ostilità. Entrambi i contendenti però approfittarono dell’intromissione del Consiglio goriziano per cercarne il favore ed avere la meglio sull’avversario, affermando la propria supremazia. A quel punto, gli Stati Provinciali ricorsero alla più imparziale Reggenza di Graz, interpellando lo stesso imperatore Ferdinando II (1619-1637) come arbitro della situazione. Questi valutò insindacabile la pretesa di Raimondo Della Torre sulla nobiltà cormonese e gli confermò tutti i diritti giurisdizionali sulla comunità ponendo fine alle resistenze aristocratiche ed avvalorando il potere signorile torriano49. Prima di morire (1623), Raimondo Della Torre spartì i beni del casato assegnando la quota patrimoniale più consistente al primogenito, Francesco Febo Della Torre che, rimasto vedovo e senza eredi, scelse l’abito talare devolvendo la propria eredità all’unico superstite dei quattro fratelli torriani, Giovanni Filippo Della Torre, colonnello nell’esercito asburgico durante la guerra dei Trent’anni50. Sposatosi con la marchesa Eleonora Gonzaga del ramo Castiglione, il castellano ebbe sette figli, fra cui il più noto conte Francesco Ulderico Della Torre, Capitano e Maresciallo della contea di Gradisca. Francesco Ulderico Della Torre, insieme al fratello, il conte Filippo Giacomo Della Torre, amministrò la Signoria di Duino in un periodo profondamente segnato dai debiti che rischiarono di condannare il castello carsico e tutte le comunità pertinenti al pignoramento. Nonostante qualche vendita, sembra che Filippo Giacomo Della Torre sia comunque riuscito a riottenere tutta la Signoria, cosicché nel 1632 venne interpellato a Graz per certificare la propria autorità sull’intera Signoria duinate51. Nel proprio testamento, Giovanni Filippo di Raimondo Della Torre mantenne fede al fedecommesso istituito sulla Signoria di Duino con i pertinenti villaggi, concedendolo così al primogenito, il conte Luigi Leopoldo. Agli altri figli spettarono invece diversi beni, ossia la comunità di Sagrado assegnata a Francesco Ulderico Della Torre, Gradisca destinata a Turrismondo Paolo, mentre Piuma, Salcano e Piedimonte del Calvario andarono al conte Raimondo Della Torre. Le ultime volontà del torriano non tennero però conto dell’imperscrutabilità del fato, per cui mentre il primogenito morì prematuramente, altri due figli gli nacquero postumi. L’eredità venne ridiscussa fra i

49 CONZATO, Dai castelli alle corti, cit. pp. 175-177; PORCEDDA, I Della Torre di Valsassina, cit., pp. 224- 225. 50 PICHLER, Il castello di Duino, cit., p. 374. 51 Ivi, p. 379.

170 fratelli superstiti per cui fu indicato come successore l’unico figlio di Filippo Giacomo Della Torre, il conte Luigi Antonio Della Torre, che dovette accettare la postilla di conferimento dell’intera eredità alla prole dello zio paterno, il conte Raimondo di Giovanni Filippo della Torre, qualora il suo matrimonio fosse risultato sterile52. Luigi Antonio Della Torre (1662-1723) divise la propria carriera tra i tentativi di affermarsi alla corte di Vienna e la ferma volontà di occuparsi dell’amministrazione della propria Signoria. Mentre nella fase giovanile della sua esistenza ebbe modo di fregiarsi di titoli e modesti incarichi per conto degli Asburgo, fu nell’età più matura che preferì rivolgere le proprie cure nel governo di Duino e di quei 48 villaggi carsici che costituivano il dominio famigliare. Il feudatario dimostrò in particolare una campanilistica propensione per lo sviluppo del piccolo villaggio di San Giovanni, il cui porto sul Timavo sarebbe stato oggetto indiscusso delle attenzioni del conte. Questi tesseva l’ambizioso progetto di rivalutare tutta l’area portuale per renderla concorrenziale con il limitrofo scalo triestino. L’eccessiva aspirazione del piano non collimava però con le reali condizioni della degradata area marittima di San Giovanni che non sarebbe mai stata in grado di pareggiare le capacità di Trieste, che dal 1719 diventò – insieme a Fiume – porto franco53. Nel secondo decennio del Settecento, Luigi Antonio Della Torre dovette però fare i conti con un’emergenza ancora più preoccupante, che infiammò tutto il Carso nel corso del 1713: una rivolta contadina. Alla base di questo cruento episodio di insubordinazione villica ci fu un inasprimento della condizione fiscale a danno dei sudditi che, già gravati da pesanti tasse, non accettarono l’introduzione di nuovi prelievi né tantomeno di corvées. La ribellione prese avvio nella comunità di Tolmino (oggi Tolmin in Slovenia) dove, all’inizio del secolo, la popolazione aveva manifestato disapprovazione nei confronti dei signori Coronini, giusdicenti nel territorio, che pretendevano opere di trasporto gratuito al di fuori dei confini del capitanato. Sedata

52 Ivi, pp. 380; 405-406. 53 BENZONI, Luigi Antonio Della Torre, cit., p. 611. Ad essere precisi però, il progetto del Della Torre non sembrava del tutto infondato poiché all’inizio del Settecento il porto di Trieste era così piccolo e i suoi traffici così asfittici da non rendere di per sé assurda la proposta concorrenziale di concentrare i commerci austriaci a Duino, o ad Aquileia,o a Portorè o a Buccari . Fu però decisiva, a favore di Trieste e Fiume, l’intuizione della corte di Vienna, così sintetizzata da Roberto Finzi: «le aree di porto franco sono da scegliersi in luoghi connessi a una realtà urbana», che significa preesistenti vie di collegamento, cultura mercantile ed anche (a Trieste) la presenza di una piccola comunità ebraica. R. FINZI, Trieste, perché, in Storia economica e sociale di Trieste, vol. I, La città dei gruppi, 1719-1918, a cura di Roberto Finzi e Giovanni Panjek, Trieste, Lint, 2001, pp. 17-24.

171 questa prima protesta, nel 1713 ne montò una seconda finalizzata alla contestazione di nuovi e pesanti tributi. L’esempio di Tolmino dovette apparire esemplare per tutti i sudditi delle signorie carsiche in quanto, sulla scia degli insorti nella giurisdizione del Coronini, anche altrove si manifestarono rapidamente dei focolai di protesta. A differenza di Tolmino, però, dove la ragione del movimento era di natura prettamente antifiscale, nelle altre comunità la matrice delle rivolte assunse una fisionomia antisignorile, in quanto gli obbiettivi delle proteste villiche erano soprattutto i feudatari e i loro castelli. Si segnalarono in tutto il Carso infatti numerosi saccheggi e aggressioni ai manieri dei castellani, nonché razzie nelle cantine e il sequestro degli urbari, ossia i registri in cui veniva protocollato l’elenco dei sudditi e le contribuzioni loro spettanti, nonché tutti i beni formanti la Signoria54. Il malcontento dilagò in tutto il Carso, mentre la nobiltà si sentiva minacciata e chiese a Vienna l’invio di truppe in suo supporto. Dal maggio del 1713, i sudditi delle signorie di Reiffenberg, Schwarzenegg, Dornberg, Duino, San Daniele del Carso e Santa Croce del Vipacco agirono di comune accordo per sottrarre gli urbari ai propri castellani, rifiutandosi inoltre di sottostare alle corvées. Si poterono contare molteplici attacchi a castelli e poderi signorili, con qualche vittima. A Vipulzano, il conte Giuseppe della Torre chiese l’intervento delle proprie guardie che spararono ad alcuni sudditi ferendoli mortalmente. Intanto il movimento di protesta si era esteso anche alla vicina Carniola, mentre gruppi di sudditi proposero di presentare le proprie lamentele all’imperatore. Contemporaneamente i nobili sparsero la notizia di una probabile aggressione da parte dei villici alla cittadina di Gorizia, temendo per l’incolumità della popolazione e soprattutto dei suoi aristocratici. Venne pertanto avanzata una richiesta d’aiuto di contingenti militari alla fortezza di Karlstadt che si precipitò in soccorso dei feudatari. La milizia croata forzò la resistenza dei sudditi, arrestando anche molti responsabili dell’insurrezione. In quell’occasione però si segnalarono anche molti abusi delle forze dell’ordine sulla popolazione che cominciò a sospettare una collusione di intenti tra la nobiltà goriziana e i soldati croati. La vicenda non fece altro che inasprire ulteriormente la tensione, con rappresaglie dei convillici sulle milizie. La comunità di Gorizia nel frattempo interpellò la Reggenza di Graz affinché ponesse rimedio alla grave situazione sociale: una commissione venne inviata dalla capitale stiriana nel

54 A. PANJEK, Terra di confine: agricolture e traffici tra le Alpi e l’Adriatico: la contea di Gorizia nel Seicento, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2002, pp. 227-228.

172 Carso per dirimere la questione. In quella circostanza la delegazione austriaca seppe porre fine all’insubordinazione grazie a numerose incarcerazioni e processi che comportarono una decina di condanne a morte, eseguite nel 171455. Anche la signoria di Duino venne coinvolta in questa ondata insurrezionale che preoccupò estremamente il conte Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre, spintosi fino a Vienna per comprendere quale fosse la percezione degli Asburgo sulla rivolta carsica. Nella capitale austriaca si discuteva infatti della necessità d’invio di diversi contingenti, provenienti dalla Croazia, dall’Italia e dalla Germania, al fine di estinguere i focolai d’insubordinazione nel territorio giuliano. Il conte torriano aborrì la decisione imperiale e scrisse immediatamente una missiva al proprio degano a Duino, allo scopo di informarlo sulle notizie raccolte in Austria. Il feudatario temeva particolarmente l’ingresso di un così grosso contingente militare in Friuli – si parlava di un corpo di 15 mila soldati almeno – perché avrebbero prodotto più danni che benefici. Comprendeva le motivazioni asburgiche e il loro desiderio di riportare la pace nei propri territori, cercando di colpire i colpevoli in maniera esemplare: «si deve fare un esempio che faccia terrore à tutti li Paesi dicendo che questo tumulto è una Cancrena, che bisogna tagliare ed bruggiare un dito per conservar il resto del Corpo»56. Il conte Della Torre però criticava le posizioni asburgiche ritenendole deleterie e pericolose per tutto il territorio: nelle disposizioni imperiali infatti vedeva una minaccia per cui si sentì «mosso dalla compassione di tutto il Paese, ed delli miei sudditi, come non meno del mio interesse perche ruinati li miei sudditi sono ruinato ancora io»57. Calcolati i propri interessi il Della Torre si definì «avvocato delli villani» e si ripromise di scusare «la loro Ignoranza ed promettendo che si sottometteranno tutti alli clementissimi voleri di Sua Maestà Cesarea ed per questo effetto io prenderò udienza dal nostro Augustissimo Padrone, ed mi metterò à suoi piedi supplicandolo voler sospendere il Castigo sino almeno ch’io arrivi in Friuli dove procurerò farli capire quello che hanno fatto, ed che non lo conoscono»58. Luigi Antonio Della Torre proseguì la propria missiva al degano esprimendogli ansia e preoccupazione per le possibili conseguenze che avrebbe provocato la sollevazione dei sudditi in tutta la giurisdizione torriana qualora non fosse

55 A. PANJEK, Stato, nobiltà, cittadini e contadini nella rivolta del 1713, in Gorizia barocca, cit., pp. 204- 208. 56 ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 135, Miscellanea Lettere, Vienna, 17 giugno 1713. 57 Ibidem. 58 Ibidem.

173 stata placata con la dovuta considerazione per le reali condizioni di vita dei contadini. Gli raccomandò quindi di cercare una mediazione con gli insorti provando a trasmettere loro l’indulgenza del Signore: «fatte capire alli poveri miei sudditi questa verità, fatteli conoscere, che li sono Padre, ed se faranno à modo mio, ed haveranno confidenza nella mia bontà spero di farli avere il perdono ed li prometto di sollevarli in quello che sarà giusto»59. Il Della Torre si trovava stretto in una morsa in cui da un lato percepiva la cieca rabbia dei villici che mal sopportavano i soprusi signorili, mentre dall’altro intuiva la necessità degli Asburgo di debellare il germe della rivolta. La primavera del 1713 fu effettivamente molto problematica nel Carso asburgico e i danni dei rivoltosi si cominciarono a contare anche nella Signoria duinate. Mentre Luigi Antonio Della Torre era a Vienna, interlocutore dei consigli asburgici per porre rimedio alle insorgenze locali, la moglie, contessa Silvia Rabatta, teneva una memoria sugli oltraggi subiti dai propri sudditi negli ultimi tempi. Dalla metà di maggio, infatti, i villici di Tomai cominciarono a radunarsi e sull’esempio della contigua signoria di Reiffenberg, mirarono alla sottrazione dell’urbario dei della Torre, nonché istigarono i sudditi della Signoria ad unirsi ed insorgere contro il potere dei feudatari. In quell’occasione, i sudditi attentarono anche alla vita del fattore di Goriansco, Pietro Pagliuzza, con bastonate e maltrattamenti. Ormai il contagio insurrezionale si era sviluppato anche nelle comunità di Tomai, Satturiano, Goriansco e San Pelagio contando almeno tremila partecipanti. Gli insorti fecero razzie di cibo ed appiccarono il fuoco alla casa torriana di San Giovanni, fermi nella volontà di creare un unico movimento insieme a tutti i rivoltosi del Carso e della Carniola60. Di lì a due mesi, l’intervento temuto – e allo stesso tempo invocato- degli Asburgo fu in grado di mettere fine alle tensioni, riportando la quiete nei territori sudditi. Il conte Luigi Antonio Della Torre aveva così scongiurato la distruzione della propria Signoria. Tuttavia in quegli anni di turbolenza il torriano aveva avanzato delle promesse alla popolazione che dovette poi in seguito mantenere. Qualche anno più tardi, in un comunicato del 1718, il signore di Duino emanò una disposizione atta a migliorare almeno parzialmente la condizione di vita dei villici. Nel documento non venivano abolite le tasse da pagare e nemmeno le corvèes obbligatorie, tuttavia il feudatario puntò

59 Ibidem. 60 Ivi, b. 136, fascicolo 1, Gradisca, 14 maggio 1713.

174 ad un’azione più trasparente che regolava gli urbari in modo che ogni suddito potesse controllare in qualsiasi momento la propria situazione fiscale. Il pagamento delle imposte doveva essere fissato sulla base di ciò che il suddito disponeva, mentre contribuzioni e servizi vennero ridotti per le donne ed i bambini61. Con tutta probabilità, le condizioni dei villici sottomessi alla signoria dei Torriani non dovettero uscire migliorate da questa vicenda: ulteriori aggravi fiscali e personali, però, furono forse scongiurati.

4.3: I possedimenti austriaci di Camillo Colloredo.

Camillo di Giambattista Colloredo (1712-1797) condusse una modesta carriera alla corte di Vienna, senza particolari riconoscimenti né singolari successi. Una lunga lista di privilegi e titoli onorifici vennero affiancati agli incarichi svolti di Cameriere e Consigliere Segreto per l’imperatrice Maria Teresa (1749), senza lasciare alle fonti reperite altre tracce di sé. Già a partire dagli anni Sessanta del Settecento il Colloredo ripiegò infatti nei propri possedimenti austriaci, la cui amministrazione divenne l’occupazione più importante del nobile nella sua età senile. I beni del feudatario erano parte di un’eredità ricevuta da una lontana congiunta, Maria Antonia di Ludovico Colloredo (1631-1693) del ramo di Asquino, morta nel 1738 senza aver avuto prole. La nobildonna era stata sposata con Leopoldo Filippo Montecuccoli, esponente di un importante casato di origine modenese, nonché figlio del politologo e fautore della riforma dell’esercito asburgico, il conte Raimondo Montecuccoli (1609-1680). Questa famiglia fu titolare di feudi nell’area emiliana di Frignano, già a partire dal XII secolo; sudditi estensi, i Montecuccoli si affermarono anche grazie alle importanti reti sociali intessute sia alla corte degli Este, sia presso tutto il territorio dell’Italia settentrionale. Raimondo Montecuccoli prestò servizio alla corte di Vienna come Cameriere imperiale e Consigliere segreto, ma soprattutto dedicandosi

61 Ivi, b. 187, fascicolo 4, Duino, 25 giugno 1718.

175 alla carriera militare di cui percorse tutti i gradi, divenendo anche presidente del Consiglio Aulico di Guerra di Vienna. Si sposò con la principessa Maria Margherita di Massimiliano von Dietrichstein, principe e Maggiordomo maggiore dell’imperatore Ferdinando II (1619-1637). Dalla loro unione nacque Leopoldo Filippo Montecuccoli, futuro sposo della contessa Colloredo, che intraprese la carriera militare al servizio degli Asburgo e occupò anche incarichi di corte come Cameriere imperiale e Consigliere Intimo. Il giovane rampollo Montecuccoli venne elevato allo stato principesco nel 1698 dall’imperatore Leopoldo I che lo aveva tenuto a battesimo62. Maria Antonia Colloredo poté consolidare la propria posizione sociale grazie all’importante matrimonio contratto, beneficiando inoltre del titolo principesco. La sterilità delle sue nozze la costrinsero però a lasciare ad un erede non naturale i suoi possedimenti, che insieme al lascito paterno costituivano un importante patrimonio. Prima di morire, il conte Ludovico di Girolamo Colloredo stilò il proprio testamento che prevedeva la trasmissione all’unica figlia di alcuni beni acquisiti nel 1689, ossia le comunità di Walpersdorf, Hausenbach e Einöd nella Niederösterreich63, concessi a Maria Antonia Colloredo nel 169164. Oltre a questi possedimenti, la nobildonna ottenne con il matrimonio anche altri beni sempre dislocati nella giurisdizione austriaca di St. Pölten e consistenti nella signoria di Walpersdorf, con il villaggio di Absdorf, e le signorie di Dymokur e Smidar (in Boemia). La contessa di origini friulane redasse il proprio testamento nel 1735, tre anni prima di morire, istituendo Camillo di Giambattista Colloredo, in veste di parente più prossimo, della successione di tali beni65. Il castellano era inoltre riuscito a entrare in possesso di un palazzo residenziale nel centro cittadino di St. Pölten, dove finanziò a metà Settecento anche l’erezione di due nuovi conventi66. Oltre ai beni ottenuti dai Montecuccoli, il Colloredo poté vantare anche dei possedimenti in Stiria dove fu necessario giungere ad un accordo con i fratelli, i conti

62 R. GHERARDI, F. MARTELLI, La pace degli eserciti e dell’economia. Montecuccoli e Marsili alla corte di Vienna, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 25 segg; pp. 77 segg. 63 Niederösterreichisches Landesarchiv (d’ora in poi NÖ Landesarchiv), Alte Gülteinlagen, OW 67, fol. 300f. 64 Ivi, fol. 302-305. 65 Ivi, Alte Gülteinlagen, VOWW 67, fol. 307-308, estratto del testamento datato 5 gennaio 1735. Alla morte della principessa Montecuccoli, Camillo Colloredo, in qualità di beneficiario dell’eredità, inoltrò istanza al governo della Niederösterreich di essere inserito nel registro tributario del Land (19 gennaio 1739). Ivi, fol. 306; 309. 66 K. GUTKAS, St. Pölten. Werden und Wesen einer österreichischen Stadt, St. Pölten, Veröffentlichung der Kulturamtes der Stadt, 1970, p. 39.

176 Carlo Ludovico e Teresa Colloredo per la spartizione del patrimonio concesso loro dal padre, il conte Giambattista Colloredo. Nel 1731 infatti i fratelli Colloredo si riunirono per formalizzare la divisione che vedeva il primogenito, Camillo Colloredo, beneficiario della signoria stiriana di Liebenau, su cui gravava un debito di 13.000 fiorini67. L’atto notarile rinviava anche all’amministrazione dei territori friulani, dislocati sia nel goriziano sia nel territorio sottoposto all’autorità veneta, su cui si erano cristallizzate delle diatribe giudiziarie68. Mentre gli archivi austriaci tacciono la vicenda, l’Archivio di Stato di Udine conserva un lungo documento che consente una parziale ricostruzione di quanto successe nella Patria del Friuli in quel 1731. All’inizio degli anni Trenta, gli eredi di due linee Colloredo – Mels (linea di Viccardo e linea di Bernardo) erano spettatori del probabile tramonto di una terza linea dell’omonimo casato, ossia quella discendente da Asquino, di cui la principessa Maria Antonia Montecuccoli era l’unica testimone, destinata però a morire senza figli. I lignaggi superstiti discussero probabilmente sulle sorti dell’eredità friulana della linea d’Asquino, senza poter giungere ad un accordo. Il manoscritto rinvia però ad una «proposta di convenzione», risalente al 5 dicembre 1731, in cui i successori delle linee Colloredo-Mels di Viccardo e Bernardo, si spartivano l’amministrazione delle comunità di Muzzana, Colloredo e Felettis, vero nodo del contendere nobiliare. Secondo il presunto accordo gli eredi – ossia i conti Carlo Lodovico e Camillo Colloredo esponenti della linea di Bernardo, e Cesare Colloredo come rappresentante della linea di Viccardo – convennero sulla opportunità di amministrare le giurisdizioni alternativamente, ossia assegnando il controllo del territorio in modo alterno, ora ai successori di un ramo dei Colloredo ora all’altro69. La «Convenzione» concordata dai Colloredo venne stilata nel 1731, ossia quattro anni prima della redazione del testamento della Montecuccoli. Le ultime volontà della principessa però non menzionarono questo accordo famigliare, ponendo invece l’attenzione alla gestione dei beni austriaci che vennero indiscutibilmente assegnati al conte Camillo Colloredo.

67 L’atto notarile cita anche i beni conferiti al fratello, Carlo Ludovico Colloredo consistenti nella signoria di Mitrowitz (oggi Sremska Mitrovica in Serbia) e la signoria di Obermayrhoffen in Stiria. SLA, Schranne und Landrecht, 104, Colloredo 2. 68 Ibidem. 69 Archivio di Stato di Udine, Colloredo-Mels, III’ parte, b. 44.

177 Alla fine del Settecento, il Colloredo nominò il primogenito, il conte Franz de Paula Colloredo, erede universale di tutti i suoi beni e quindi anche della fortuna presente nella Niederösterreich70. Il beneficiario fece stimare tutto il patrimonio che ammontava a 994.265 fiorini71, su cui gravava però un debito di 355.571 fiorini, tolto il quale rimase quanto dovuto da egli ai fratelli, 319.346 fiorini, rispettando così la volontà paterna72. Sebbene il patrimonio ereditato dalla principessa Montecuccoli non rimase integro ma, al contrario, il conte Camillo Colloredo ne indebitò una buona parte, i figli poterono comunque godere di un importante capitale. A differenza del principe Annibale Alfonso Porcia che scialacquò tutti i suoi averi, costringendo i posteri a gestire una pesante situazione finanziaria, i Colloredo seppero amministrare le proprie sostanze con minor azzardo. pensando anche all’eredità futura.

70 NÖ Landesarchiv, Gültanschreibungen, OW 52. 71 In particolare, il patrimonio venne così quantificato: Walpersdorf valeva 138.560 fiorini, Absdorf 18.588 fiorini, la casa di St. Pölten 7.000 fiorini, la signoria di Dymokur 200.000 fiorini e Smidar 60.892 fiorini. OeSta, Haus, Hof und Staatsarchiv, Walpersdorf 132b, Camillo Colloredo Verlassenschaft. 72 Ibidem.

178 Conclusione.

Il presente lavoro si è occupato dell’analisi biografica di alcune famiglie nobili friulane che fecero carriera presso i territori asburgici nel corso del Seicento e Settecento. La ricerca si è basata sulla disamina di tre aspetti principali, utili a sondare quale fosse la capacità di adattamento aristocratica alla società di corte asburgica in età moderna. In primo luogo sono state studiate in maniera approfondita le carriere nobiliari, cercando di mettere a fuoco i percorsi professionali intrapresi, nonché le modalità con cui i nobili gestirono gli incarichi loro conferiti. Un secondo aspetto della ricerca ha riguardato l’analisi delle politiche sociali intessute dalla nobiltà, con particolare riguardo per le scelte matrimoniali, la rete di parentele e le opportunità da essa offerte, nonché l’attenzione eventualmente manifestata dal capofamiglia nei confronti dei propri congiunti allo scopo di mantenere sempre in auge l’onore del lignaggio. Il terzo argomento è stato infine indirizzato alla descrizione delle proprietà dislocate in territorio asburgico e all’abilità di tali famiglie nobili nell’amministrare il patrimonio loro intestato. I casati su cui è stata avviata l’indagine sono i Porcia, con particolare attenzione per la linea del Colonnello di Sotto, i Colloredo-Mels discendenti da Bernardo e i Della Torre Valsassina, con un interesse specifico per la linea gradiscana di Luigi Antonio di Filippo Giacomo Della Torre. Tutte le biografie analizzate di Porcia, Della Torre Valsassina e Colloredo hanno messo in evidenza sia degli aspetti comuni, sia delle caratteristiche discordanti. In primo luogo, l’atteggiamento dei feudatari purliliensi sembrò più propenso a cercare una collocazione presso la corte imperiale: gli investimenti, le reti sociali, gli incarichi ambiti dimostrano una maggiore inclinazione alla vita di corte che gli altri due casati fuggirono. I castellani discendenti da Bernardo Colloredo e i signori di Duino si adoperarono in modo contenuto per assicurarsi uno spazio cortigiano, mentre dalle fonti analizzate appare con più evidenza la dimestichezza negli affari di famiglia e la dedizione alla vita privata.

179 Anche all’interno dello stesso casato purliliense è bene sottolineare indiscutibili differenziazioni. Se infatti da un lato la carriera di Giovanni Ferdinando Porcia subì un’accelerazione nell’ultima fase della sua esistenza, lo stesso non si può di certo affermare per i predecessori e per i posteri che faticarono, spesso con esigui risultati, a tenere alto il nome dei feudatari friulani. Va inoltre ribadito che gran parte delle fortune purliliensi si dovettero al particolare legame di fiducia creatosi tra l’imperatore Leopoldo I e il suo Aio, divenuto primo ministro, nonché membro del più importante gabinetto di corte di metà Seicento, la geheime Konferenz, nonostante i giudizi dei contemporanei lo liquidassero come un inetto asceso ai più importanti onori solo in virtù del rispetto che l’Asburgo gli portava. Al di là della particolarità biografica del primo principe Porcia, i tre casati presentarono almeno una caratteristica comune, costituita dalla netta divergenza tra la qualità e l’impegno delle carriere nobiliari della generazione tardo seicentesca e, al contrario, il faticoso perseguimento di un elevato stile di vita che i figli stentarono ad eguagliare. I nobili vissuti nella prima metà del Settecento sembrarono infatti annaspare alla ricerca di una prestigiosa collocazione sociale, limitandosi infine a ripiegare nella sola vita privata. Il principe Annibale Alfonso Porcia a Spittal, Luigi Antonio Della Torre a Duino, Camillo Colloredo a Walpersdorf: tutti e tre i personaggi esaminati presero le distanze dalla società di corte per ripiegare nel bene nobiliare per eccellenza, la terra1. Il distacco dalla capitale austriaca e il rifugio nei più lontani possedimenti di famiglia non devono però essere semplicemente interpretati come l’arrendevole condotta di una stanca nobiltà che preferì abbandonare le incognite di una instabile vita di corte, per saggiare la semplicità della vita domestica e godere delle rendite fondiarie, senza mettersi socialmente in gioco. Al contrario, il disinteresse per la corte e la rinnovata congiunzione con i beni rurali potrebbero rappresentare una spia di alcune oggettive ed insuperabili difficoltà incontrate nei tentativi di ascesa sociale. L’opportunità di fare carriera a corte, nonché il vantaggio di assicurarsi incarichi importanti e cospicue prebende non dipendeva di certo unicamente dalle capacità e ambizioni personali di colui che tentava un approccio con il centro del potere. Nella scalata professionale a Vienna, si manifestavano piuttosto delle dinamiche politiche e

1 DEWALD, La nobiltà europea in età moderna, cit., p. 91.

180 sociali che potevano porre un freno a cursus honorum in fase di avanzamento. La corte, infatti, lungi dal presentarsi come una gabbia dorata in cui rinchiudere la nobiltà per allontanarla dagli affari di stato, donandole in cambio sontuose feste e lauti banchetti, si stagliava invece come il luogo d’eccellenza per l’interazione politica, dove relazioni, spazi e poteri interagivano offrendo e creando al contempo servizi per la nobiltà2. Molti limiti ruotavano tuttavia attorno alla disponibilità di incarichi destinati alla nobiltà di corte ed una delle restrizioni dipendeva dalla capacità di alcune ricche famiglie di fare quadrato intorno alle cariche di maggior rilievo, ostruendone l’accesso ad altri casati di minor pregnanza politica. La rotazione degli uffici era cioè controllata sempre dagli stessi individui che riuscivano ad accaparrare una occupazione per sé, per i propri congiunti o per gli appartenenti ad una medesima fazione cortigiana3. Quando un nobile aveva accesso a corte sperava di poter accrescere le fortune del proprio lignaggio, ottenendo incarichi, favori e cercando anche di contrarre matrimoni convenienti. Senza la benevolenza sovrana era difficile potersi affermare, ma altrettanto indispensabili erano anche gli appoggi di altri blasonati disposti ad allearsi per difendere interessi comuni, colpire i nemici e soprattutto quegli avversari che godevano di eccessiva fiducia da parte della casa reale. Una delle tattiche sociali più studiate dalla storiografia è la conclusione dei matrimoni all’interno di una costituita cerchia cortigiana: non solo la nobiltà, ma anche gli stessi Asburgo incoraggiavano la formazione di queste alleanze familiari nella speranza di accrescere la coesione aristocratica e la fedeltà nei confronti dell’imperatore. Tuttavia le nozze tra membri di partiti cortigiani, soprattutto quando erano coinvolti rampolli dell’aristocrazia più affermata, non devono essere intese solo come un mezzo di integrazione nella politica imperiale, bensì anche come il sintomo di un consolidamento sociale già compiuto che comportava quindi l’opportunità di un’ulteriore integrazione a tutto vantaggio della fazione più forte4. L’alleanza con potenti casati costituiva quindi una prerogativa indispensabile per un avanzamento professionale e, al contrario, il rischio di divenire bersaglio di un partito antagonista poteva costituire una minaccia per la propria carriera. Infatti, pur non verificandosi

2 FANTONI, The city of the prince, cit., in The politics of space, cit., p. 39. 3 SIENELL, Die geheime Konferenz, cit., pp. 82 segg. 4 WINKELBAUER, Ständefreiheit und Fürstenmacht, cit., pp. 192-194;

181 quotidianamente, intrighi e dibattiti fra fazioni ostili erano frequenti e rappresentavano una causa concreta di emarginazione cortigiana5. Gli intralci in una carriera cortigiana erano numerosi e anche il consenso poteva facilmente vacillare. Talvolta però non era nemmeno necessario cadere apertamente in disgrazia presso gli Asburgo per rischiare l’esclusione da un qualsiasi consesso nobiliare di qualche rilevanza, poiché la prassi politica imperiale era sufficiente per complicare la permanenza a corte. Ad esempio, la consuetudine asburgica di “licenziare” la corte al momento del decesso di un imperatore era una discriminante di un certo peso poiché molti individui si ritrovavano espropriati delle loro funzioni senza nemmeno aver mai osato infrangere l’etichetta di corte6. Allo stesso tempo, se questa prassi comportava dei notevoli vuoti professionali, creava anche delle aspettative per la nobiltà in attesa di occupazione. Del resto le possibilità di introduzione a corte non erano affatto circoscritte alla sola capitale austriaca: è infatti assodato quanto il Sacro Romano Impero pullulasse di corti e residenze arciducali: Graz, Innsbruck, Praga erano ad esempio altre ambite opzioni, senza contare poi i palazzi delle imperatrici vedove. Spesso però la nobiltà più ambiziosa si serviva delle corti periferiche come trampolino di lancio per accedere a quella più importante e prestigiosa: Vienna7. Ma il passaggio da una corte minore a quella centrale non era né semplice né scontato. Un buon cursus honorum presso una corte minore poteva risultare cioè insufficiente per effettuare quel salto di qualità che la nobiltà percepiva come occasione di prestigio per tutto il proprio casato. Occorrevano spesso tempo, impegno, fedeltà ai regnanti, cospicui investimenti, la tessitura di una solida rete sociale prima di assicurare a sé ed al lignaggio una rilevante posizione. Tra le famiglie studiate nel presente lavoro, il caso dei Porcia risulta emblematico poiché rispecchia le difficoltà, gli indugi e il gravoso onere sostenuto da più generazioni di una stessa famiglia, prima di aver acquisito un certo status alla corte di Vienna. Dal trasferimento in terra austriaca del primo purliliense, il conte Ermes di Antonio Porcia, all’elevazione allo stato principesco del nipote trascorse infatti un secolo in cui si avvicendarono le biografie di tre generazioni e dei loro congiunti, impegnati su più fronti ad assecondare le volontà politiche e militari della casa d’Asburgo.

5 DUINDAM, Vienna e Versailles, cit., pp. 340-343. 6 Ivi, p. 149. 7 VOCELKA, Die Familien Habsburg, Habsburg-Lothringen, cit., pp. 159-165.

182 I fattori che determinavano il successo, ovvero il fallimento, di una carriera erano dunque molteplici e spesso non dipendevano né dalla volontà del singolo, né dalle alleanze, o dalle inimicizie, strette con altri nobili. La politica imperiale riusciva ad incidere sul percorso professionale della nobiltà in modo altrettanto rilevante. La corte viennese si presentava infatti come una grossa opportunità occupazionale, in quanto il numero dei possibili impieghi fu in costante espansione a partire dal XVI secolo, durante il regno di Ferdinando I (1556-1564). All’epoca si registrò un livello di personale che toccava circa le 600 unità in persistente aumento. Spostando l’attenzione al periodo che concerne il presente lavoro e quindi durante i regni di Leopoldo I (1658- 1705), Giuseppe I (1705-1711) e Carlo VI (1711-1740), si assistette ad una oscillazione tra i 1.500 e i 2.000 individui in servizio: una cifra che non accennò a diminuire nemmeno nella successiva epoca teresiana8. Il processo di consolidamento dello stato asburgico era in pieno divenire e la nobiltà si inserì quindi perfettamente nel marchingegno della maturazione statale occupando gli uffici e coadiuvando gli Asburgo nell’ampio ventaglio delle funzioni politiche imperiali9. La notevole cifra occupazionale nascondeva però una grossa insidia per le casate nobiliari di minor spicco in quanto le cariche di massimo grado erano generalmente controllate da un ristretto numero di casati importanti che, pur rispettando i gradi gerarchici di un normale cursus honorum, cominciavano la carriera ricoprendo incarichi inferiori ma ritrovandosi poi celermente a dominare i vertici del potere10. Il percorso dei lignaggi minori poteva quindi rimanere maggiormente in balia degli eventi e risultare schiacciato dalla prevedibile ascesa di candidati più referenziati e potenti. Un nugolo di nobili quindi, dalle mansioni specifiche, si assumevano delle responsabilità limitate restando alle dipendenze della nobiltà meglio piazzata. Per molti di questi nobili non era così scontato potersi elevare da questo livello di subordinazione che, ad un certo punto, congelava la carriera nobiliare senza possibilità di intravvedere avanzamenti di grado. Dobbiamo inoltre tener conto del fatto che a corte vi era anche un terzo strato, di inservienti che incarnavano lo status più umile esercitando le professioni di lacché, cocchiere, addetto alle scuderie. Tali servitori, di estrazione non nobiliare, costituivano il numero prevalente degli

8 EHALT, La corte di Vienna tra Sei e Settecento, cit., pp. 59 segg; DUINDAM, Vienna e Versailles, cit., pp. 113-125. 9 BENIGNO, Favoriti e ribelli, cit., pp. 103-108. 10 DUINDAM, Vienna e Versailles, cit., pp. 147-148

183 impiegati di corte, contribuendo così per buona parte a quell’esorbitante cifra di 1.500- 2.000 componenti la corte asburgica11. L’ambizione di fare carriera per un nobile di media importanza e senza particolari mezzi finanziari, né stretti legami sociali, aveva quindi a disposizione spazi relativamente ridotti. Porcia, Colloredo e Della Torre sembrarono effettivamente riflettere le difficoltà di immissione in un contesto politico complesso ed estraneo ai loro territori di provenienza. Le differenze culturali e linguistiche furono degli ostacoli aggiuntivi, ma non secondari, che emergono facilmente anche dai documenti archivistici analizzati. La quantità di errori commessi, sia formali sia grammaticali, nella redazione di manoscritti in lingua tedesca e scrittura gotica, testimoniano la difficoltà di adattamento dei nobili nella società di adozione; allo stesso tempo, però, i preziosi incartamenti decantano la ferma volontà di queste famiglie di essere assimilate all’Austria e di imparare usi e costumi locali. Le generazioni dei padri erano infatti sempre molto severe nell’imporre ai precettori dei figli l’apprendimento costante e corretto della lingua tedesca12, anche se talvolta i risultati tardavano ad arrivare. Una lettera del sacerdote Ermes di Girolamo Ascanio Porcia, riporta infatti la disillusa tensione dell’ecclesiastico, arresosi innanzi alle difficoltà linguistiche che gli parevano insormontabili. Ermes Porcia, fratello del principe Annibale Alfonso, conduceva una vita tutt’altro che ritirata e oziosa, essendo divenuto arciprete della parrocchia di Villach. In una lettera, il parroco si sfogò così con un amico: «Perché vedendo scritta la medesima in lingua tedesca, ne potendo io rillevare parola per non esserne o niente o poco pratica, non sapevo neppure dove ricorrer per farmela interpretare, e spiegare»13. Le difficoltà nell’inserimento alla vita di corte erano quindi molteplici e di non semplice soluzione. Alcuni nobili, come i casi studiati nel presente lavoro, preferirono pertanto ritirarsi a vita privata, occupandosi di affari personali. Questo atteggiamento di rifiuto per la corte imperiale non deve però essere liquidato come una rinuncia alla carriera per un’esistenza votata all’ozio e allo sfruttamento del patrimonio famigliare. Ad eccezione infatti della biografia di Annibale Alfonso Porcia, i cui errori professionali, finanziari e sociali comportarono l’isolamento a corte e un necessario allontanamento dalla capitale austriaca, gli altri nobili studiati invece scelsero di

11 Ivi, p. 151. 12 ASTS, Archivio Della Torre e Tasso, b. 134, fascicolo Martinesio, Graz 21 luglio 1703. 13 KLA, Familienarchiv Portia, k.21, fascicolo Ermes Porcia, corrispondenze, 19 novembre 1757.

184 mettersi da parte per occuparsi di una dimensione più domestica. Sia Luigi Antonio Della Torre, sia Camillo Colloredo fecero una modesta carriera a Vienna ma abbandonarono i fasti di corte in una fase matura della propria esistenza, ossia quando le nuove leve di famiglia avevano completato la formazione ed avevano raggiunto l’età per potersi inoltrare nella massa cortigiana. La vecchia generazione quindi sembrò ritirarsi solo per amministrare le terre e le proprietà di famiglia, dando così l’occasione ai giovani rampolli di mantenere vivo a corte il nome dei rispettivi casati. I discendenti ebbero modo di fare esperienza nell’Austria teresiana (1740-1780), ossia in quella fase della storia asburgica contrassegnata dall’avvio di una importante stagione di riforme, ampiamente maturata durante l’epoca dell’imperatore Giuseppe II (1780-1790). Superato quindi lo stallo politico della corte barocca di Carlo VI (1711- 1740), sarebbe auspicabile l’approfondimento delle generazioni nobiliari successive per verificare quale fosse la nuova posizione di questi casati friulani e come difesero la loro ascesa innanzi alla costruzione della nuova «burocrazia austriaca»14.

14 BÉRENGER, Storia dell’impero asburgico, cit., p.95.

185 Appendice.

Documento 1, nota 62 del Capitolo 1: descrizione di don Rodrigo Orozco, marito della contessa Ginevra di Ermes Porcia. KLA, Familienarchiv Porcia, k. 8, f. 23.

Il «signor Don Rodrigo d’Orozco huomo d’anni 40 di buona presenza et di costumi singolarissimi. Stimato per il suo valore dal Re et da tutta Ispagna, perché non c’è nella soldatesca huomo di maggior valore doppo il Conte di Fuentes. È di natione castigliano d’una Città, che si chiama Aremadura discende per il ramo paterno dalla casa di Riviera nobilissima in Spagna. Cappo della quale è il duca di Alcalà per il materno d’Orozco ha pigliato il nome, che così si usa in Castiglia. Vive suo padre vecchio, et si chiama Don tale di Riviera, et si ritrova al governo d’una provincia nelle Indie, tiene un zio Abbate, che serve nella corte castigliana il quale agente del Supremo Consiglio d’Italia huomo stimato assai et ricco, li carichi, che tiene lo sposo sono Governator d’Alessandria della paglia, che è il miglior governo di Lombardia, eccettuato Milano nel qual officio li colleghi suoi sono il Principe d’Ascoli, il Conte Renato Boromeo, il Signor Ercole Gonzaga amico di Vostra Signoria et altri cavaglieri di questa qualità. Il terzo carico, che tiene, et è quello ch’importa et quello similmente che SS Serenissima Maestà in questa ocasione l’hanno voluto honorare in considerazione et merito della sua servitù, et di quella di mia sorela è di Maestro di Campo Generale nel Stato di Milano carico perpetuo, et che li da sei altri mille ducati, l’ano […] et non s’è mai proveduto da 50 anni fin qua de questo carico se non hora et l’ultimo che lo hebbe fu il marchese di Pescara. In questo carico tiene in Italia per collega il Don Pietro de Medici fratello del Gran Duca. Doppo la morte del Padre et di un suo zio, et d’una sorela del Padre, et hormai l’ha fatto herede del suo. […] E’ huomo molto stimato, et di gran opinione. Cortesissimo, affabile e […] la nostra casa spera […] bene di questa parentela. Il sposalitio si fece il luni di doppo la prima dominica di Pasqua. Il Vescovo di Terragona fu in nome del Re padrino, et in nome della Regina la duchessa di Cardona. Non si fecero feste, ne tornei per la morte dell’Imperatrice, però tutte quelle dimostrazioni di grandezza ch’in sposalitij di principi si sogliono usare si viddero in questo perché oltre li cavaglieri tutti, e dame tutte del loco, che polposissime vennero agl’accompagnamenti et al bancheto. Il populo minuto mostrò tanto affetto et curiosità con cridi, et voci come se fosse stata festa di Re».

Documento 2 dalla nota 68 del Capitolo 2: Massimiliano Emanuele von Wittelsbach scrive al principe Annibale Alfonso Porcia circa i suoi progetti di ottenere la Luogotenenza dei Paesi Bassi. Il Principe Elettore di Baviera sperava infatti che il suo progetto si potesse concretizzare facilmente, grazie al matrimonio tra suo figlio, Karl Albrecht von Wittelsbach, e una figlia dell’imperatore Giuseppe I (morto nel 1711), Maria Amalia. OeSta, Haus, Hof und Staatsarchiv, HA, Porcia, K1, Starnberg, 11 dicembre 1715.

«Je vous prie donc, Monsieur, et Vous recomende particulieremt de venir bien instruit sur ce, qu’on veut faire pour moy à l’egard des Pays – Bas, car c’est sur cela, que je dois prendre mes mesures. Comme l’Imperatrice méme, Vous a confié, qu’on est porté à le donner, il faut sçavoir, sur quel pied et titre. Vous etes à present au fait de tout pour m’en aporter une decision, e projet en forme. Vous sçavez les veües, qu’on a la dessus du coté de la cour, ou vous etez, vous avez formé vos idées, de Vous ay mandé les facilités, que j’y aportay, le desavantageux Trité de la Baviere est un grand Article, en fin les choses sont venues à un point, ou l’on peut decider, vous pouvez m’en aporter le plan, pourque Nous fassions icy un Ovrage parfait, et c’est sur ce pied là que je regleray avec Vous l’employe de huit Cent Mille Florins, et Vous montrez le […] payement. Vous dites fort bien, Monsieur, qu’il faut donner du temps, et faire les choses peu à peu l’une auprés l’autre, j’en conviens quant à la negotiation à faire, mais aupres la grossesse del’Imperatrice ce point de Pays – Bas doit étre conclù egalement avec le mariage, et mon desir est, que le Conditions en soyant anche en secret par votre Negotiation, et le plein povoir, que je vous ay donné avec l’assistence de nos Amys moyenant les recompenses, que j’ay promises. Je vous explique par

186 celle si bien clairement mes sentiments, et tout ce, qu’il faut pourque votre voyage icy ait le fruit, que je m’en promets, et je serois très faché, que vous vous donniez cette peine de venir iusques icy dans une saison aussi rude quelle celle cy, si vous n’etiez pas muny de tout ce, que je demandé cey, affinqué à votre retour vous soyez en état de finir, et conclure ce gran ouvrage par Vous méme, le mettant absolument entre vos mains».

Documento 3 dalla nota 72 del Capitolo 2: Massimiliano Emanuele von Wittelsbach scrive al principe Annibale Alfonso Porcia confessandogli le sue mire sui Paesi Bassi. KLA, Familienarchiv Portia, k.16, f. 42E, Monaco di Baviera, 26 maggio 1716.

«Vous sçavez, que je Vous ay donné mon plein pouvoir de negotier, et conclure le mariage en question non obstant que Sa Majesté Imperiale ait succession. Je me suis aussi expliqué sur les intentions, que l’on doit avoir en cas de la succession pour l’Etablissement de l’Archiduchesse, Je Vous confié mon dernier secret par le projet, que Je Vous ay envoyé, et pour la facilité du quel Je Vous ay méme fait voir les ressorts, que Vous devez employer, et faire agir par les Engagements de la realité de ma reconnoisance, que Je Vous ay donnés écrits de ma main, et dont j’ay actuellement aquité une partie par manière de Galanterie. La succession est à present établie et l’Archiduc est d’une Constitution non seulement à Luy augurer une bonne santé, que je Luy souhaite de tout mon Cœur mais aussi à devoir encore esperer d’autres successeur. Vous ne me dites pourtant rien de ce, que Vous avez fait en cette Conionchture pour mes interets, et si Vous avez fait usage de toute les lumieres, que je Vous ai données pour profiter de la situation presente; Vous ne parlez pas non plus de mezzo Termine, que Vous avez fait tant valoir de Gouvernement des Pays-Bas pour le Prince Electoral mon Fils du moins pour le Commancement, et je dois Vous avouer, Monsieur, que j’ay atendu la dessus quelque nouvelle positive, puisqu’il est à present autant de l’interet de l’Imperatrice Amalie que du mien, de voir d’abord l’Archiduchesse sa fille etablie, et en quelque manière dans le rang de souveraine. J’ay detaillé dans mon dit projet toutes mes veües, et j’ay clairement expliqué la manière et le moyens par les quels l’on pourroit parvenir à cette dignité à l’avantage de deux Maisons, et sans que cela se fasse de mes depouilles pensant ma vie, Chose à laquelle l’on ne doit songer nullement, car je ne le feray jamais, faites donc, que l’Imperatrice Amalie y reflechisse serieusement, et qu’Elle pense à Cœur l’importance des suites, qui en dependant; il est plus que temps, que Vous y travailles, et que je scache, quelles sont la dessus les intentions, si l’on souhaite veritablement que le Prince Electoral à son retour d’Italie aille à Vienna, et se presente devant Leurs Majestés. C’est sur quoy j’atends avec impatience votre reponse, et que je souhaite d’etre eclairé avec la satisfaction pour l’Electeur Palatin etoit une partye du Pays-Bas, et mon rang et dignité d’Electeur et [?]. je suis à present rentré en possession de ma dignité e de tous mes etats; si on vouloit renouver le Traité du Trocq sur le pied de l’année passée, le Cas est different à present, et le mariage n’a rien de commun avec cela, et ce ne saroit poin le Chemin d’avantager l’Archiduchesse, et son futur Epoux. Vous me parlez, que c’est moy, qui auroit les Pays – Bas, avec le titre. Je suppose que Vous voulez dire de Roy come Vous l’avez ecrit en Latin dans vos lettres precedentes, d’un autre coté Vous me mandez avoir dit à l’Imperatrice Amalie que vous travaillez à mettre une couronne sur la tete à l’Archiduchesse sa Fille. Je ne scaurois pas bien demeler cela, et sans scavoir, en quoy consiste la satisfaction de l’Electeur Palatin, et sur quel pied l’on voudroit renouver le Traicté de l’années passée, et l’accomoder à ma situation presente je ne sçavois Vour parler avec fondement sur une affaire aussi important, ny y apporte mes facilités, come je vous l’avois écrit. Je vous disay pourtant, que mon plan étoit de former un Etat, et Territoire au Prince Electoral avec la dignité et Titre d’Electeur, que je Luy aurois cedé, si j’auvois ou le Pays-Bas avec le titre de Roy; de cette façon l’Archiduchesse auroit été Electrice pendant ma vie, et Reine apres ma mort […]. Je voudrois que Vous poussiez vous donner la peine de venir iusques à [icy] et traiter cette affaire selon l’importance, qu’elle est, et le merite».

Documento 4 dalla nota 22 del Capitolo 3: il conte Massimiliano di Ferdinando Guido Porcia, senza figli, destina il suo patrimonio alla discendenza maschile del fratello, il conte Girolamo Ascanio Porcia. In caso di estinzione del lignaggio, tutti i beni

187 sarebbero stati trasmessi ai conti Porcia del ramo di sopra, escludendo così i parenti più prossimi, ossia gli eredi di Brazzalea Porcia. KLA, Familienarchiv Portia, k. 14, f. 40H2, testamento, Monaco di Baviera, 4 ottobre 1680.

«Zehentens dieses fideicommis aufgemelt meines instituirt freundlich geliebtes herrn Vetters ältere hl: Brud: Grafen von Portia und Brugnera, und nach deßen Absterben auf deßen Männliche, Eheliche, weltliche Leibs – Erben, fort und fort so lang einer von seiner Descendenz ein Beben fallen und es also in diesen, wie obigen fall damit gehalten, und darwie nichts gehandlet werde: dahere aber auch diese meines hl: [Grunder] Linea und Ehelich Männlich Weiblich Succession Absterben, und mithin die Alphonsische Portiasche Linea auch die übrige grafen del Colonello di Sotto genant, abgehen würde dabey aber die Grafen Brazai zu Brugnera die mit von der legitima Successione herkomme noch von muß grafen Ehelichen Descendenz, dafür erkennet werden, durchgehends und ewig ausgeschlossen seye sollen: so substituire Ich Eylfftens die ander Linie der Grafen von Portia del Colonello di Sopra genant also und dergestalten, daß es damit der Männlichen Succession eben, wie schon in obigen beeden fällen gemelt, und Verordnet werde denen fidei – commiss Rechten gemaßgehalte werden solle, maßen dann auch solches alles auf die Ehelich Männliche und zwar Weltliche und mit nichten geistliche Descendenten und Agnaten zu verstehen ist. Zum fall aber der graf Portiasche Nahmen und Stammen wie verhoffen völlig abgehen, und also keiner mehr dies Nahmens und Geschlechts, so von Ehelicher Geburth ist, verhanden seye würde, so will Ich Zwölftens, daß dieses fidei – commis mit abgemelter ausschlißung der grafen Brazaia, auf die grafl: Portiasch Eheliche Weibs – Erben fallen, zwar dergestalt, daß die Linien in abgesezter Ordung observiert werden, und vorder ist meines hl: Bruders, als dem Alphonsischen Linie folgends die andere nechst Befreundte del Colonello di Sotto, als dann erst der andere Lini del Colonello di Sopra Eheleiblische Weibliche Leibs Erben succedire».

Documento 5 dalla nota 34 del Capitolo 3: il documento descrive i dissapori tra Girolamo Ascanio di Ferdinando Guido Porcia ed i figli che – a detta dell’anziano conte – dimostravano eccessiva noncuranza nei confronti di entrambi i genitori. KLA, Familienarchiv Portia, k. 15, f. 42C, corrispondenza con Girolamo Ascanio Porcia, Ragogna, 2 novembre 1711.

«Che l’andata di costui [Carlo, uno dei figli] a ritrovarmi, non ha altra mira, che quella di invadere il mio denaro gia maturatto, et cavarlo dalle nostre mani per appropiarselo. […] protesto sollenemente, che io non intendo, che lui habbia un piciolo Bagatino di tal denaro, perche protesto sarà mal datto, et ne pretenderò il riffacimento da Voi, mentre la mia volontà risoluta e, che con li vostri Fratelli io non voglio più starci, et sopra tal dinaro hò destinato vivere, et intendo, che di ratta in ratta sia a me consegnato, et risolutamente ne meno un quattrino a loro, perche veghi [?] hò da vivere sopra tal dinaro assieme con la vecchia mia moglie, et fenire così la nostra vita in pace, et quiete, assicurandovi, che mai sarà più buon sangue ne intelligenza con li acennatti, essendo che, quel capitale, che coloro fanno di me, l’istesso hò rissolto fare di loro, et se vorrò ricevere qualche debito della Casa a pagare, intendo farlo di mia sola cortesia, et non d’obligo, perche li debiti da me fatti, sono statti fatti per loro, et a mia gloria, anco senza frutto, che quello di essermi reso loro vilipendio, et scherno, et scorno, mai in vita mia mi scorderò, et tanto basti, et se farette altrimenti ricordatevi, che ricorrero ancor jo al mio sovrano, perche col mezzo del di lui Ministro in Vienna parli al vostro sovrano perche vi obbligi alla mia giusta, pattuita, et obligatta corresponsione di tal dinaro, et sino ad esercitar gli atti di Giustitia verso li vostri beni, ne vi lusingatte, che loro possino havere molti e potenti Padroni in Venezia per pervertire tali miei ricorsi, perche potete credere, et lo dovette credere, che tutti li potenti li vostri fratelli non hanno, onde resta a me ancora qualche senatore da supplicare gl’intrapresa della mia prottetione in cosa mia tanto giusta, et che non può patire eccettion alcuna perche quello dinaro è totalmente mio, egli è mio et fenisce con me. Questi sentimenti in altre mie vi ho scritte, ne li replico perche non possiate ignorarli, et vi giuro da Padre che sono immutabili, perche a coloro non intendo più prestar fede, perche indegni, et da aborrirsi, mentre le loro procedure non hanno che del Parricida, se non nella vita, almeno nella mia riputatione. Lode a Dio sento il Mondo, et tutto il Paese rimbombare a mia diffesa, perche di lungo informatto del passato

188 contegno meco, et quello solo mi consola mentre verso di loro mi sono per il passato più contenuto da Fratello, che da Padre, et la mia rassegnazione mi hà compratto il ripudio, et la poca [?] di mia persona. La robba gia e nelle loro mani dico li miei stabili tutti salve altre mie ragioni, quali se mi verrà levatto tal dinaro, doverò prenderle per le mani per mio vivere, et queste sovvertirebbero tutta l’identità della povera Casa, perciò andasse guardingo con tal mio denaro, se non volesse sentire l’ecidio della Casa. Vi serva l’avertimento ancora, che può essere che costui habbia incontrato il commesso col dinaro, et nascosto in un bosco, levo al commesso il contante, perche e capace d’ogni infamità, et ne hò molto sospetto, che costui siate appiattato in qualche luoco, per fare tal bottino, perche sempre per malus, semper malus in unoquoque genere, et credetemi che e di tal natura».

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202 Stemma dei principi Porcia

Stemma dei conti Colloredo-Mels

Stemma dei conti Della Torre Valsassina R.,PICHLER, Il castello di Duino. Memorie di Rodolfo Pichler, Cameriere d’onore di S.S.I.R. Consigliere Scolastico e Direttore del Ginnasio Superiore di Trento. Membro di varie Accademie scientifiche e letterarie, Trento, Stabilimento Tipografico di Giovanni Scissi, 1882.

Kärntner Landesarchiv, Familienarchiv Portia. p. i

Albero Genealogico Della Torre Valsassina R.,PICHLER, Il castello di Duino. Memorie di Rodolfo Pichler, Cameriere d’onore di S.S.I.R. Consigliere Scolastico e Direttore del Ginnasio Superiore di Trento. Membro di varie Accademie scientifiche e letterarie, Trento, Stabilimento Tipografico di Giovanni Scissi, 1882.

Albero genealogico Colloredo-Mels, linea discendente da Bernardo. G.C., CUSTOZA, I Colloredo: una famiglia e un castello nella storia europea,Udine, Gaspari, 2003, TAV. VI. OeSta, Haus, Hof, und Staatsarchiv, Walpersdorf 132b, Camillo Colloredo Verlassenschaft.

Abstract.

Obbiettivo della tesi è la ricostruzione delle biografie di alcuni nobili friulani che fecero carriera presso le corti asburgiche tra Seicento e Settecento. Le riflessioni si sono concentrate in particolar modo su tre famiglie, ossia i Porcia di Sotto, i Colloredo-Mels discendenti da Bernardo e i Della Torre Valsassina. La ricerca si è basata sulla disamina di tre aspetti principali, utili a sondare quale fosse la capacità di adattamento aristocratica alla società di corte asburgica in età moderna. In primo luogo sono state studiate in maniera approfondita le carriere nobiliari, cercando di mettere a fuoco i percorsi professionali intrapresi, nonché le modalità con cui i nobili gestirono gli incarichi loro conferiti. Un secondo aspetto della ricerca ha riguardato l’analisi delle politiche sociali intessute dalla nobiltà, con particolare riguardo per le scelte matrimoniali, la rete di parentele e le opportunità da essa offerte, nonché l’attenzione eventualmente manifestata dal capofamiglia nei confronti dei propri congiunti allo scopo di mantenere sempre in auge l’onore del lignaggio. Il terzo argomento è stato infine indirizzato alla descrizione delle proprietà dislocate in territorio asburgico e all’abilità di tali famiglie nobili nell’amministrazione del patrimonio loro intestato. Il pilastro della tesi è costituito dalla ricerca sui Porcia, cui è stata dedicata la maggiore attenzione, mentre i casati Della Torre e Colloredo costituiscono un interessante metro di paragone. Dei Porcia sono state ricostruite le vite dei conti tra la seconda metà del Cinquecento fino alla metà del Settecento, con maggior interesse per le esperienze del primo principe Giovanni Ferdinando (1604-1664) di Giovanni Sforza Porcia e il quarto principe Annibale Alfonso Emanuele (morto nel 1738) di Ferdinando Guido Porcia. Accanto alle vicende purliliensi, il presente lavoro ha tentato di ricostruire anche i profili biografici dei conti Della Torre Valsassina, vissuti tra la seconda metà del Cinquecento e i primi quattro decenni del Settecento. Il contesto sociale torriano di partenza fu radicalmente diverso rispetto ai Porcia e anche ai conti Colloredo, poiché i signori di Duino erano già residenti in quella parte di Friuli sottoposta all’amministrazione asburgica. Nonostante fossero sudditi naturali del Sacro Romano Impero, la tesi intende dimostrare l’impegno assunto dai torriani nel tentativo di affermarsi nella società di corte asburgica. L’ultimo casato analizzato è quello dei Colloredo-Mels, con specifica attenzione alla linea di Bernardo. In questo caso le osservazioni si sono accese a partire dalla generazione di metà Seicento, ossia quando si compirono i primi tentativi nobiliari di farsi strada presso gli Asburgo. La tesi, composta di quattro capitoli, presenta anche un’appendice con alcuni dei più significativi documenti archivistici analizzati, nonché una bibliografia generale, gli stemmi e infine gli alberi genealogici delle famiglie nobili studiate.