Lo Sguardo (Dis)Umano Di Bruno Dumont
Lo sguardo (dis)umano di Bruno Dumont Alberto Scandola «La cinematografia – ha dichiarato Bruno Dumont – è disumana. […] È la materia delle nostre vite, è la vita stessa, presente e rappresentata»1. Sin dagli esordi (L’età inquieta, 1997), Bruno Dumont ha posto al centro della sua attenzione l’umano e soprattutto le sue derive verso l’animale, il selvaggio, il bestiale. Liberi di non significare altro che loro stessi e il loro opaco Dasein, i corpi di questo cinema abitano luoghi dove – penso a L’humanité (1999) – il visibile altro non è che il riflesso dell’invisibile e l’immagine sembra lottare contro il suono. Conflitti come quello tra i volumi e i rumori (l’ansimare dettagliato di un corpo ripreso in campo lunghissimo, per esempio), frequenti soprattutto nella prima fase della produzione, sono finalizzati a evidenziare la testura di un dispositivo a cui l’autore da sempre affida una precisa funziona catartica: Bisogna sviluppare il sistema immunitario dello spettatore, biso- gna mettergli il male. Costui svilupperà naturalmente gli anticorpi. È lo spettatore che deve svegliarsi, non il film. Per me un film non è molto importante. Ciò che è importante è cominciare; poi tocca allo spettatore terminare2. Per poter «terminare», però, bisogna innanzitutto riuscire a guardare. Guardare immagini che, nel disperato tentativo di catturare le vita, offrono 1 B. Dumont in Ph. Tancelin, S. Ors, V. Jouve, Bruno Dumont, Éditions Dis Voir, Paris 2001, p. 12. Nostra traduzione. 2 B. Dumont in A. Scandola, Un’estetica della rivelazione. Conversazione con Bruno Du- mont, in Schermi D’Amore dieci+1, a cura di P.
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