Silvano Vinceti

IL FURTO DELLA GIOCONDA

Un falso al ?

ARMANDO EDITORE Sommario

Capitolo primo Una nuova avventura 7 Una telefonata inaspettata 7 6 giugno. L’incontro con Ballinari in un piccolo bar 11 alle porte di Varese Il ritorno a Roma 16 Inizia la ricerca storica 19

Capitolo secondo Alla scoperta dei primi protagonisti 23 Il marchese di Valfierno 23 Il pittore Yves Chaudron 32 I giorni a venire: l’attesa dei documenti fiorentini 37 Il ritorno a Cadero 42

Capitolo terzo Peruggia, “l’eroe italiano” millantatore 51 Finalmente Firenze risponde: i primi ostacoli 51 Le basi della ricerca 56 L’interrogatorio a Peruggia e la mia interpretazione 61 Il Peruggia spogliato di autorevolezza: quel quadro “rottolato” 84 Capitolo quarto Una diversa versione del furto 93 La lettura degli interrogatori francesi e dell’articolo di Karl Decker 93 Il sodalizio tra Peruggia e i fratelli Lancellotti 108 Le infelici novelle 127 L’inaspettato bussa alla porta 129

Capitolo quinto La Gioconda vera o falsa? 139 La perizia sulla Gioconda 139 Si apre il sipario sui falsari 150 Il Salai 180 Un finale con il botto 191 Capitolo primo Una nuova avventura

Una telefonata inaspettata

L’intreccio imprevisto di eventi che formano l’ordito su cui si sviluppa buona parte della nostra vita, è imbevuto di casualità. Un gioco misterioso e indecifrabile di accadimenti che ci attraversano e travalicano i nostri tenui e caduchi tentativi di previsione. Essi danno scacco matto al nostro bisogno di governare e controllare razionalmente il futuro prossimo. Dovremmo avere il coraggio del funambolo senza rete di accettare e vivere l’imprevedibile, di svi- luppare la virtù del precario e dell’inaspettato. Erano questi i pensieri che frullavano nella mia mente dopo aver ricevuto una telefonata da un certo Ballinari di Varese. Era riuscito ad avere il mio numero di telefono da un amico di Milano. Nella telefonata, mi riempì di complimenti per aver tentato di far rientra- re la Gioconda in occasione della ricorrenza dei cento anni dal suo rinvenimento, avvenuto a Firenze nel 1913. Un breve ritorno, che acquisiva però un significato simbolico, storico e di riconoscenza da parte del governo francese per il ritrovamento realizzato dalle au- torità italiane. Era altresì un’occasione per permettere di ammirarla a tutti gli amanti di Leonardo che, per età avanzata o scarsi mezzi finanziari, non potevano recarsi a Parigi. Completata questa prima parte, di sinceri ed entusiasti apprezzamenti, il Ballinari mi chiese la disponibilità per un incontro ove m’avrebbe narrato alcuni impor- tanti episodi inerenti il furto della Gioconda. Ricordo bene questa

7 telefonata avvenuta nel 2016, il tono fluente e squillante della sua voce, le vibrazioni appassionate che emanava. Trascinato dall’en- tusiasmo del mio interlocutore, diedi la disponibilità a incontrarlo. Il Ballinari mi anticipò alcuni fatti che mi colpirono assai: rispet- to alla versione del furto commesso da , raccontò un’altra storia di contenuto completamente diverso. Il vero artefi- ce del furto era un certo Vincenzo Lancellotti, amico del Peruggia, come lui emigrato in Francia in cerca di fortuna e proveniente dalle valli della provincia di Varese. Al fine di cogliere eventuali frammenti d’inautenticità, ascoltai molto attentamente le sue parole, il modo in cui le esponeva, il tono della voce. Sospettare e dubitare delle testimonianze faceva parte del mio metodo di indagine storiografica. Questo atteggiamento si acuiva maggiormente nei riguardi di testimonianze orali fatte da persone sconosciute, prive di alcun riscontro oggettivo. Fui molto colpito quando disse che secondo alcune prove in suo possesso, il quadro della Gioconda, poco dopo il furto avvenuto al museo del Louvre, aveva preso la via dell’Italia per giungere a Cadero, un piccolo paesino collinare in provincia di Varese. Lì era rimasto per circa due anni, poi, il Peruggia lo portò a Firenze e qui venne recuperato. Ascoltare queste notizie lievitò enormemente la mia curiosità, che sgorgò spontaneamente in una serie di domande. Il Ballinari, con tono fermo e pacato, mi disse che nel nostro incontro mi avrebbe esposto tutto dettagliatamente. Avrebbe raccontato le testimonianze che la cognata di Vincenzo Lancellotti, Maria Monaco, aveva rila- sciato a suo padre. Maria si era sposata giovanissima con Michele ed era emigrata in Francia per seguire i suoi impegni lavorativi; negli anni del furto e della scomparsa del dipinto, aveva avuto, insieme al marito, quotidiani rapporti con il cognato. Non nascosi che le affermazioni del Ballinari mi produssero una ridda di vibranti emozioni, una spontanea spinta a interessarmi alla vicenda. Conoscevo bene la narrazione ufficiale del furto, dove si identificava nel Peruggia l’unico protagonista. A tal riguardo, avevo letto alcuni libri, tutti concordi nella narrazione sulla centralità del

8 protagonista. Dei fratelli Lancellotti non vi era traccia, se non mar- ginale e secondaria. In quegli anni, avevo concentrato il mio impegno di ricercatore sulla scoperta dei resti mortali della prima modella usata da Leonar- do: la Lisa Gherardini, detta Monna . Insieme al Comitato di cui ero e sono presidente, agli inizi del 2011, avevo ini- ziato un’avventurosa ricerca nel convento di Sant’Orsola a Firenze, il luogo dove Lisa Gherardini era stata sepolta. Era stata un’indagine archeologica e antropologica molto impegnativa, che mi aveva assi- duamente occupato sia nelle ricerche storiche che nel coordinamen- to dello staff scientifico del Comitato. Oltre a questa ricerca, altre strade legate alla Gioconda mi avevano completamente assorbito, e ora arrivava questa inaspettata telefonata, i cui contenuti potevano delineare una diversa storia del furto. Il mio carattere impulsivo, l’attrazione fatale per il mistero, il fascino indiscreto emanato dalla Monna Lisa e dal furto avvenuto nel 1911, crearono un effetto esplosivo. Da quel momento, preso da una permanente eccitazione, cuore e mente vennero monopolizzati dal desiderio di rivisitare la storia del furto. Il primo passo era incontrare il Ballinari per acquisire tutte le testimonianze storiche che gli erano state trasferite dall’anziano pa- dre, amico della moglie di Michele Lancellotti, che visse il suo ul- timo periodo a Cadero in Val Veddasca. Sapevo che immergermi in questa avventura storica mi avrebbe totalmente coinvolto e avrebbe richiesto una lunga, rigorosa, documentata ricerca storica. Ero con- sapevole che in quest’ultimo secolo erano stati scritti molti libri sul furto ed erano stati realizzati documentari televisivi, film, articoli e saggi giornalistici. Alcune vibranti domande mi attraversavano la mente: nei libri scritti, nei documentari realizzati, la storia del furto era sempre la stessa? Possibile che gli storici che avevano raccolto i materiali e fatto ricerche di eventuali testimonianze trasmesse a voce o scritte non avessero trovato traccia dei Lancellotti? Era verosimile che que- sto Ballinari non avesse scoperto nessuna notizia di quel passato? In- formazioni che, se verificate, avrebbero modificato completamente

9 la dinamica del furto. Se, come lui stesso mi ripeté più volte, ha cercato di raccontare questa storia senza essere creduto o preso sul serio, io, attribuendogli ora una certa credibilità, non correvo il peri- colo di cadere nella trappola di un mitomane o di un personaggio in cerca di notorietà e di fama? Anche se le incertezze erano molte, dentro di me avevo preso la decisione di dedicarmi alla storica ricostruzione. Era una scelta di sentimento e di emozione, prima ancora che di ragione. Una scelta non sufficientemente ponderata, fondata su alcuni dati certi o su do- cumenti che avevo a disposizione; nulla di tutto questo, il cuore era sovrano e giustificava la scelta irrazionale. Un paradosso rispetto al mio modo razionale d’operare ma, nell’intimo, sentivo e sapevo che molte scelte importanti della nostra vita procedono in tal guisa. Dopo quella telefonata, i giorni a seguire furono caratterizza- ti da onde di incertezza e ripensamenti. Giorni psicologicamente fluttuanti e attraversati da idee che occuparono il mio palcosceni- co mentale. Un’emozione in particolare ricalcava una parola usata spesso da Leonardo nei suoi scritti: passione. Senza passione non si realizza nulla di grande. Senza il forte sentimento non si offre alla ragione e alla volontà il coraggio di osare, di rischiare, di zittire la stessa ragione con le sue domande, i suoi dubbi e incertezze. Alla fine, fu la passione a vincere. Era il mese di maggio, un periodo dove il Sole romano si pre- senta già addobbato delle sue vesti estive, ove la primavera inoltrata amoreggia con i primi rintocchi dell’estate. In quel mese, iniziava un’altra cavalcata intellettuale alla ricerca di una verità, forse, persa e deformata. Chiamai il Ballinari e fissai per la prima decade di giugno un incontro a Varese. Poi, chiamai un mio collaboratore Roberto e gli diedi una ricca lista di ricerche, libri da recuperare, documentari te- levisivi e film sul furto da visionare. Per dirla con una frase celebre: “il dado era tratto”. Il viandante del passato iniziava il suo cammino. L’argonauta era alla ricerca del Vello d’oro. Una nuova storia poteva venire alla luce per scacciare quella precedente pervasa d’oscurità e deformazione.

10 6 giugno. L’incontro con Ballinari in un piccolo bar alle porte di Varese

Nei giorni a venire, richiamai il Ballinari e concordammo di in- contrarci il 6 giugno. Nel frattempo, cominciai a visionare i primi documenti che il mio collaboratore aveva acquisito e, in particolare, il libro Ho rubato la Gioconda1. Iniziai con questa pubblicazione perché l’autore era lombardo, delle zone dove erano nati sia il Pe- ruggia che i fratelli Lancellotti. L’opera, inoltre, era ricca d’estrapo- lazioni di documenti originali presenti nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Diversi furono i contenuti che ritenni interessanti, in par- ticolare, alcuni stralci dell’interrogatorio di Peruggia realizzato dal determinato e solerte ispettore di polizia francese Vignolle, e altri conseguiti dal pronto ed efficace Barisone, comandante della sta- zione di Luino, nella cui giurisdizione cadevano il paese natale del Peruggia (Dumenza) e dei fratelli Lancellotti (Cadero). Altrettanto significative furono alcune estrapolazioni di lettere che il Peruggia scrisse al padre nel periodo tra il 1911 e il 1913. Sussultai nel leggere i risultati della perizia d’accertamento dell’autenticità della Gioconda, realizzata da due presunti esperti. L’impressione che ne trassi era la debolezza delle prove a sostegno dell’autenticità dell’opera e, a questa fragilità, si aggiungeva la man- canza di un reale fondamento. Tale giudizio si fondava sull’esperien- za maturata dal nostro Comitato nelle perizie sulle opere d’arte di cui si stava dedicando da qualche anno. Secondo l’attuale metodo d’a- nalisi, la Gioconda ritrovata poteva essere tranquillamente un falso. Il libro si rivelava un’ottima fonte di richiami storico-documentari e mi indicava la strada da seguire per l’indagine storica. Dovevo con- centrare le ricerche nella città di Firenze, dove si trovava tutta la docu- mentazione inerente al processo del Peruggia, tenutosi nell’anno 1914. Lentamente, stavo entrando nel suo passato fatto di articoli di giornali pubblicati dopo il furto, stralci di documenti del proces- so, lettere scritte dai possibili protagonisti. Analogamente, partendo

1 Pietro Macchione, Ho rubato la Gioconda. Storia di Vincenzo Peruggia e del più celebre furto d’arte, Varese, Macchione Editore, 2010.

11 dalla bianca tela, si raffiguravano nella mente i primi schizzi di un dipinto, le tracce di un contenuto: i primi tratteggi dei personaggi, alcuni episodi della loro vita, aneddoti, comportamenti e vicende narrate. La bianca tela interiore si riempiva di figure, componendo dettagli e arabeschi in cui il passato prendeva forma, contorni, colori e sfumature. In tale farsi graduale, in questo passato lontano da noi, risiede il fascino, la magia, l’attrazione del già stato. Immergersi in esso, immedesimarsi in quel periodo, cercare di sentirsi parte di quegli avvenimenti, mi produceva una momentanea metamorfosi, una sospensione del presente, un volo nel passato, una nuova vita, un’immersione in un mondo che si manifestava tramite parole scrit- te e immagini scolorite e sciupate. In tale processo di immedesi- mazione risiede l’atteggiamento fondamentale di chi si rivolge al passato, sia come ricercatore, sia come semplice lettore. In tal modo, si può cogliere o rivivere stati d’animo analoghi ai personaggi su cui si indaga, facendo danzare, dentro il corpo e dentro la coscien- za, emozioni, conflitti, slanci, idee, desideri e fantasie che possono avere tratti comuni con quelli vissuti dalle persone di quel periodo. È grazie a questo metodo empatico e simpatetico che possono emer- gere elementi nuovi, non segnalati nei documenti a disposizione. La veloce lettura del libro era propedeutica all’incontro con il Ballinari. Ero ben consapevole che sapevo poco della storia del fur- to, dei suoi personaggi e dei molti accadimenti che lo caratteriz- zavano. La lettura di un libro di rivisitazione storica rappresentava l’iniziale pietra per ricostruire, o meglio, per tentare di ricostruire quanto era accaduto. Partii da Roma verso le 7,00 e, grazie all’alta velocità, arrivai alle 10,40 circa a Milano, poi, un treno locale mi portò a Varese. Davanti a un bar, nella prossimità della stazione ferroviaria, mi stavano aspettando due persone. Una piccola, dalla corporatura ro- busta, pochi capelli, un paio di occhiali da vista e l’età avanzata, era sicuramente il Ballinari. L’altro, molto più giovane, poteva essere un conoscente. Il primo impatto si rivelò avvolto da un’atmosfera di cordialità, spontaneità e sincero entusiasmo. Ci sedemmo in un tavolino all’interno del bar e, dopo alcuni convenevoli, il Ballinari,

12 come un fiume in piena, iniziò a raccontarmi delle confidenze che la moglie di Michele Lancellotti aveva gelosamente trasmesso a suo padre. Le parole uscivano intrise d’emozioni, colorate e bisognose di essere ascoltate e accettate. I suoi occhi, velati da un alone di vi- vacità adolescenziale, accompagnavano le parole e le rendevano più forti e vigorose. Nella sua esposizione, il Ballinari non seguiva un discorso logico ma zigzagante. Tale modalità espositiva richiedeva la massima concentrazione ma, nonostante le difficoltà iniziali, il Ballinari iniziò ad articolare un racconto lineare, comprensibile, con richiami coerenti e organici. Le testimonianze che uscirono dalle sue labbra si rivelarono stupefacenti, in netto contrasto con le versioni ufficiali del furto e del ruolo del Peruggia. La moglie di Michele Lancellotti frequentava la locanda del pa- ese assieme al padre di Ballinari. Erano compagni di bevute di buon vino delle valli varesottine. Maria era una preziosa depositaria del- le confidenze del marito Michele, fratello di Vincenzo Lancellotti. Stando alle confidenze del Ballinari, la donna raccontò un’altra sto- ria del furto. L’appropriazione del famoso dipinto non fu idea del Peruggia ma di un sedicente mercante d’arte d’origine argentina, rispondente al nome e cognome di Eduardo di Valfierno, un per- sonaggio ambiguo e doppio che faceva la spola tra Los Angeles e Parigi. La sua principale attività di mercante d’arte consisteva nel piazzare falsi d’autore e, infatti, secondo la narrazione di Maria Mo- naco, fu per questo che contattò Vincenzo Lancellotti e il fratello Michele che lavoravano al Louvre come decoratori. Il Peruggia, al contrario, riceveva appalti da parte del famoso museo francese solo occasionalmente. Osservavo il viso del Ballinari, ascoltavo con attenzione le sue parole, ero colpito e affascinato da quest’altra possibile storia. Udi- vo il caldo, vivace, acceso fluire delle testimonianze riportate. La possibilità che i contenuti che stavo scoprendo potessero vestire gli abiti di una verità mai sgorgata alla luce del giorno, mi eccitava e aumentava la mia curiosità. Dentro di me, ero convinto che Ballina- ri credeva fortemente alla testimonianza trasmessagli dal padre. Il suo sguardo, la mimica facciale e il tono che veicolava le parole si

13 intrecciavano come corporei indicatori della sua sincerità. Vi fu un passaggio del discorso che mi colpì in modo particolare, quando, a più riprese, sottolineò con accenti diversi, che quanto riportato su questo sfuggente personaggio argentino e sul ruolo che avrebbe avu- to nel furto della Gioconda, era noto grazie a Maria Monaco. Questa testimonianza era precedente a un’intervista realizzata a Eduardo di Valfierno e riportata in un articolo di una rivista statunitense nel 1932, una confessione-verità dove l’ambiguo mercante d’arte rac- contava la storia del furto da lui ideata con il coinvolgimento del Peruggia. Si trattava di un particolare di grande importanza: se la dichiarazione della moglie di Michele Lancellotti asseriva il vero, ne era venuta a conoscenza anni prima dell’articolo uscito sul periodico americano, dando una certa credibilità alla sua testimonianza. Ma come potevo verificare la fondatezza di questa dichiarazione? Come potevo accertare che le affermazioni della signora erano autentiche? Lei era morta da anni. Questo accadimento risaliva agli anni Cin- quanta-Sessanta e anche il padre del Ballinari era morto: rimaneva solo la serietà e onestà intellettuale del figlio. Poco, molto poco, per dare un fondamento oggettivo alla vicenda. Dal punto di vista del metodo della ricerca storica, si trattava di un fatto possibile; possibile nella sua veridicità ma anche nella sua falsità. Per adesso disponevo di una traccia, una possibile direzione verso cui indirizzare la ricerca di un’altra verità inerente al furto. Mentre questi pensieri ronzavano nella mia mente, mi venne spon- taneo chiedere al Ballinari se i suoi ricordi, inerenti alla confidenza di Maria al padre, fossero nitidi o se fosse possibile che il padre avesse frainteso, o vi avesse costruito una storia fantastica o, ancora, se Ma- ria Monaco poteva soffrire di mitomania. Notai un rapido mutamento nella mimica facciale del Ballinari, un irrigidimento dei lineamenti, uno sguardo freddo a tinte minacciose. Respirò profondamente, stette qualche secondo in silenzio, poi, cadenzando e rimarcando le parole, mi rispose che era sicuro dei ricordi, che il padre era una persona retta e sincera e che Maria Monaco era conosciuta in paese come una don- na riservata, onesta e corretta. Di fronte a una tale risposta, non potei che ricordare al Ballinari il mio mestiere di storico e ricercatore, della

14 necessità di compiere tutte le verifiche possibili sulle testimonianze a disposizione. Dopo questa breve parentesi chiarificatrice e dopo aver sorseggiato un fumante caffè, il Ballinari proseguì il racconto. La moglie di Michele, complice lo stretto rapporto di amicizia che univa i tre varesotti, confidò a suo padre altri interessanti episodi: dopo il furto, il dipinto venne trasferito a Cadero, paese dei due fra- telli, luogo sicuro e lontano da quella Parigi dove le forze di polizia e i servizi segreti francesi erano assiduamente impegnati nella ricerca del dipinto di Leonardo; inoltre, l’antiquario pataccaro, di presunta nazionalità argentina, aveva coinvolto un pittore francese conosciuto per la sua abilità nel riprodurre fedelmente opere pittoriche del pas- sato. Gli avrebbe commissionato la realizzazione di sei dipinti della Gioconda, rigorosamente compiuti su legno di pioppo, mentre l’ori- ginale sarebbe rimasto ai tre amici varesotti. L’interesse del sedicente aristocratico argentino riguardava la vendita dei falsi ad altrettanti facoltosi americani, all’insaputa l’uno dell’altro. Ne avrebbe ricavato un’ingente somma di denaro e un lauto contributo al pittore contraf- fattore. Ognuno ne avrebbe ottenuto un relativo vantaggio e non si poteva escludere che i presunti ladri della Gioconda potessero aver ricevuto una somma da parte del Valfierno per il rischio che avrebbe- ro corso rubando il dipinto. In questa seconda fase del nostro colloquio, chiesi al Ballinari chiarimenti e precisazioni. In particolare, gli rivolsi una domanda inerente alla presenza della Gioconda in questo piccolo centro col- linare. L’interrogativo concerneva la possibilità di disporre di do- cumenti o testimonianze da parte delle persone che vivevano nel paese. La risposta di Ballinari non si fece attendere: con fare sicuro e perentorio, mi comunicò che tutti gli attuali abitanti del centro potevano confermare il fatto. Si trattava di una vicenda trasmessa oralmente da genitori e parenti ai figli e ai nipoti, molti dei quali ancora vivi e residenti nel vecchio borgo. Aggiunse che, se fossi stato interessato, si poteva fare una capatina a Cadero in modo da parlare direttamente con le persone depositarie di questo passato. La mia risposta fu immediata e rimarcai l’importanza di raccogliere le loro testimonianze.

15 Nella parte finale del nostro incontro, il Ballinari fece altre asser- zioni che mi lasciarono basito: sostenne che il Peruggia venne pagato dal padre dei fratelli Lancellotti per portare il dipinto a Firenze e attri- buirsi la responsabilità del furto. Il padre, maresciallo della finanza, sapeva che la polizia francese e italiana stava indagando sui suoi figli e avrebbe potuto arrestarli. Per lui sarebbe stato uno smacco e una perdita di dignità, credibilità e autorevolezza. Era un servitore dello Stato e svolgeva un ruolo delicato, richiedente probità e assenza di scandali familiari. Sicuramente, uno dei motivi che lo avrebbe spin- to a pagare il Peruggia risiedeva nel suo cuore di padre, di difesa e salvaguardia dei propri figli. Poi, vi furono le ultime dichiarazioni, esplosive e fiammeggianti, rumorose e coinvolgenti, simili al finale di uno spettacolo pirotecnico: per il Ballinari, al Peruggia venne data una copia della Gioconda, mentre l’originale rimase a Cadero o forse, venne venduto segretamente in Inghilterra a un’importante antiqua- rio. Probabilmente, il dipinto si trovava ancora a Cadero nascosto in qualche luogo di cui si potevano essere perse le tracce. Il botto finale delle dichiarazioni del Ballinari mi fece sobbalzare dalla sedia. Lo guardai fisso negli occhi e gli chiesi se queste ultime parole erano state pronunciate per gioco, per uno scherzo bonario, un arabesco fantastico. Mi guardò di nuovo con tono torvo e mi giu- rò e spergiurò che egli aveva maturato questa convinzione sulla base dei racconti che circolavano nell’ameno paesino varesotto e mi an- ticipò che, durante l’incontro con i testimoni di quel passato, quanto da lui detto mi sarebbe apparso meno fantastico o campato in aria.

Il ritorno a Roma

Durante il viaggio verso Roma, le nuove informazioni che avevo acquisito dispiegavano un nuovo possibile campo d’indagine. Si sta- gliava, nell’interiore orizzonte, una diversa versione del furto della Gioconda. Versione che cozzava contro quella ufficiale e consoli- data negli anni. Nuovi possibili protagonisti entravano in scena per prefigurare una diversa storia dai contorni ancora indeterminati e

16 fragili: Eduardo di Valfierno; il pittore falsario francese che rispon- deva al nome di Yves Chaudron; i fratelli Lancellotti e Maria Mona- co. La narrazione precedente cessava di essere l’unica versione del furto e un altro racconto prendeva corpo. In me si intrecciavano gioia ed entusiasmo, misti a timore e pre- occupazione. Gioia ed entusiasmo originati dalla possibilità d’ini- ziare un avventuroso cammino di ricostruzione storica che avrebbe potuto evidenziare la pochezza, l’inadeguatezza e il pressappochi- smo della precedente; timore e preoccupazione per un’impresa che si rivelava difficile, complessa e irta di ostacoli. Si trattava di procedere in diverse direzioni: verificare l’esistenza di questo mercante d’arte che rispondeva al nome di Eduardo di Val- fierno e che si spacciava come nobile; accertare che il pittore Chau- dron fosse autentico e raccogliere notizie sulla sua vita e la sua attività d’artista fuori-legge; tentare di recuperare l’intervista che il Valfierno rilasciò al giornalista americano nel 1932; tornare a Cadero per incon- trare tutte le persone che potevano confermare quanto riferitomi dal Ballinari; cercare di creare un profilo esistenziale di Maria Monaco e, infine, acquisire aneddoti e storie sui due fratelli Lancellotti. Se questa era la nuova pista da seguire, occorreva approfondire l’al- tra vicenda, quella così detta ufficiale e storicamente consolidata. Mi sarei dovuto recare a Firenze agli archivi di Stato per raccogliere tutta la documentazione presente e leggere attentamente il materiale origi- nario. Stando a quanto riportato nel libro che avevo rapidamente letto, in quegli archivi dovevano trovarsi tutti gli atti del processo, l’interro- gatorio che l’ispettore francese Vignolle fece al Peruggia e le lettere che quest’ultimo scrisse all’antiquario fiorentino Alfredo Geri per pro- porgli la vendita della Gioconda. Ancora, avrei trovato il documento originale della perizia eseguita sul dipinto ritrovato e altri documenti che lo scrittore di questo libro aveva ritenuto poco significativi. Mentre il treno sfrecciava rapido e pimpante verso Roma, mi posi alcune domande inerenti al metodo di indagine da seguire. Avrei pro- ceduto seguendo due ricerche separate. Da una parte, avrei vagliato attentamente la veridicità o verosimiglianza della storia narrata al fine di verificare la fondatezza delle dinamiche del furto e avrei setacciato i

17 comportamenti attribuiti al Peruggia, le sue dichiarazioni ed eventuali contraddizioni e incongruenze. Parallelamente, avrei posto costante- mente a confronto e verifica le due diverse versioni al fine di accertar- ne la loro maggiore o minore fondatezza, congruità e verosimiglianza. Un confronto costante dove potevano emergere due diverse rappresen- tazioni del Peruggia, delle sue presunte azioni, intenzioni, relazioni e dichiarazioni, e rendere inconsistente lo stereotipo affermatosi dell’o- nesto patriota che voleva riportare in Italia il quadro “rubato” da Napo- leone. Al suo posto, poteva materializzarsi un personaggio mosso dal desiderio di arricchirsi, semplice esecutore di un furto commissionato dal Valfierno sotto la regia di Vincenzo Lancellotti. Una persona che, per un po’ di denaro, era pronta ad accollarsi qualche mese di prigione. Al Peruggia consegnato alla storia come una specie di eroe semplice e dalla scarsa cultura, pronto a subire un processo e la galera per amore di un ideale di giustizia e per compiere il suo dovere di italiano model- lo, si sostituiva un personaggio intriso di mitomania, bugiardo e recidi- vo, pronto all’azione per riempiere il portafoglio. Due diverse versioni dello stesso furto dove, in quest’ultima ipotesi, poteva emergere un Vincenzo Peruggia brillante, scaltro, dotato di malizia contadina e di quell’intuito creativo italico messo al servizio di Valfierno, pronto a ricambiare con moneta sonante i suoi servigi. Tutta la documentazione presente negli archivi fiorentini avreb- be rappresentato la fonte più importante per cercare di impostare le prime risposte ai vari quesiti sollevati. Oltre ai documenti originali relativi al processo e agli interrogatori eseguiti dal Vignolle e dal co- mandante della stazione dei carabinieri di Luino, nutrivo la speranza di acquisire altre importanti notizie scritte a nutrimento della doppia ricerca, ma avevo anche molta fiducia sul valore delle testimonianze che avrei raccolto nel mio viaggio a Cadero. Nella ricerca storica si è spesso sottovalutata l’importanza che rivestono certe confessioni, specialmente quando convergono fra loro e riguardano eventi storici recenti. Non mi nascondevo la difficoltà di trovare lettere o scritti ri- guardanti il patto scellerato fra il Valfierno e i tre compari varesotti; sapevo, per studi compiuti, libri letti e personale esperienza, che fatti criminosi commessi nel passato raramente lasciano tracce.

18 Inizia la ricerca storica

Rientrato in una Roma dal Sole dolce e carezzevole, immersa in una luminosità sensuale e penetrante, mi misi subito all’opera. Le due direzioni della complessa ricerca richiedevano il coinvolgimen- to di alcuni esperti. L’aiuto era indispensabile per iniziare la faticosa e preziosa ricerca di documenti storici al fine di verificare l’effettiva esistenza del marchese Eduardo di Valfierno, del pittore Yves Chau- dron e per recuperare l’articolo scritto dal giornalista americano Karl Decker. Occorreva inoltre cercare ulteriori informazioni sulla presenza a Parigi di Peruggia, dei fratelli Lancellotti di Maria Mo- naco, i personaggi che rientravano nella ricostruzione della diversa narrazione del furto. Il Ballinari mi diede il contatto di una signora di sua fiducia di nome Nadia Zanelli, una persona appassionata della storia, e nello spe- cifico di questa vicenda, e amante dei luoghi collinari lombardi: lei mi avrebbe aiutato a raccogliere le testimonianze degli anziani di Cadero. Per quanto ineriva la versione ufficiale del crimine artistico, di- ventava fondamentale recarsi a Firenze dove erano custodite tutte le importanti informazioni storiche sul processo. Nel frattempo, Roberto proseguiva nell’acquisizione di articoli di giornali, saggi, pubblicazioni, libri o altro che si poteva recuperare nel magmatico mondo di Internet. Per quanto concerneva la ricerca dei presunti protagonisti della diversa versione del furto, dovevo partire dall’attore principale: il sedicente aristocratico argentino. L’impresa si rivelava ostica, era indispensabile recuperare uno storico argentino che si rendesse disponibile a verificare l’esistenza del presunto pataccaro mercante d’arte. Ogni passaggio, da uno scopo pensato alla sua traduzione pratica, si rivelava arduo e ricco di imprevedibilità, poiché dovevo fare i conti con mezzi finanziari, organizzativi e collaborativi decisamente esigui. Nei giorni seguenti, mi dedicai con solerzia e tenacia all’indivi- duazione delle persone da coinvolgere. Spesso nelle mie ricerche, in mancanza di risorse monetarie, trasmettevo l’entusiasmo per le

19 storiche avventure: evidenziare l’importanza dell’impresa, lievitare l’amore per la verità, far emergere lo spontaneo slancio vitale della sfida e la personale gratificazione derivata dal contributo dato. In passato, questa pratica psicologica aveva sempre dato buoni frutti, ma ora si trattava di coinvolgere ricercatori di altre Nazioni, un’ul- teriore difficoltà. Furono giorni dedicati a vagliare le conoscenze di storici dell’ar- te di altre Nazioni, ma nessuno di loro era argentino. Poi, mi ricordai di uno storico d’arte brasiliano a cui avevo fatto l’introduzione a un suo libro su Leonardo. Atila Soares era una persona solare, spumeg- giante, disponibile e di facile entusiasmo. Decisi di inviargli una email per chiedergli se avesse riferimenti in Argentina e se fosse disponibile a entrare nell’équipe scientifica. Atila rispose dopo po- chi giorni, era affascinato dalla proposta e mi comunicò che aveva ottimi rapporti con un suo collega universitario che insegnava nella capitale argentina. L’avrebbe contattato e mi avrebbe fatto sapere. Un ottimo inizio, il primo tassello dell’indagine era posto. Po- tevo passare al successivo: contattare telefonicamente il restaura- tore e ricercatore francese Sylvain Thieurmel, con cui avevo un rapporto consolidato. Anche lui trovò la ricerca molto fascinosa e mi diede il suo “sì” convinto. Sylvain era un francese atipico, for- se per la sua lunga permanenza in Spagna, dove aveva assorbito la sensibilità, la passionalità e la spontaneità dell’anima spagno- la. Conosceva molte lingue, ma la sua particolarità era quella di mescolare vocaboli spagnoli con francesi, facendo emergere una miscela linguistico-verbale divertente e con tratti goliardici. Non so se questa sua composizione terminologica fosse una scelta per aumentare il nostro livello di comprensione comunicativa, il mio francese è sempre stato claudicante e il suo italiano anemico, e con tale eclettica composizione siamo riusciti a migliorare la nostra re- ciproca capacita di dialogo. D’altra parte, per non essere da meno, anche io azzardavo nell’impresa di intrecciare espressioni italiane e francesi. Nel mio caso, si trattava di una necessità. Tale interazione ci ha arricchiti entrambi, lui ha migliorato il suo italiano e io il mio francese, farcito da espressioni spagnole.

20 Spiegai a Sylvain che si trattava di raccogliere notizie su un pit- tore francese vissuto a cavallo fra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento. Accertata la sua concreta esistenza, avrebbe dovuto verificare se vi erano informazioni sulla sua attività di copista-falsa- rio, se avesse avuto delle difficoltà con la giustizia francese e se si conoscevano notizie sulla sua vita dopo il 1912-1913. Sempre come aiuto richiesto all’amico francese rientrava una visitina agli archivi di Stato nazionali per verificare che vi fossero fascicoli inerenti al furto della Gioconda, notizie su interrogatori eseguiti dalla gendar- meria francese o da altri organismi consimili. Inoltre, gli anticipai l’invio di alcune notizie sul luogo dove avevano vissuto Peruggia, Vincenzo Lancellotti, il fratello, la moglie ed eventuali altre per- sone legate da parentela o amicizia, direttamente o indirettamente coinvolte nella vicenda del furto. Tale istanza era motivata da alcuni documenti riportati nel libro Ho rubato la Gioconda, che avevo letto e stavo approfondendo. Sylvain, con tono sarcastico e ironico, mi disse che il suo servi- gio mi sarebbe costato parecchio. Gli risposi che avrei contraccam- biato con cose concrete: qualche chilo di Parmigiano Reggiano e dell’ottimo aceto balsamico prodotto da mio fratello. Sul fronte fiorentino, mi rammentai di un architetto della provin- cia di Firenze, uomo del Sud, solido, preparato, disponibile e capa- ce: Gianfranco Romandetti, incaricato dalla provincia di Firenze di coordinare con il nostro Comitato e la sovraintendenza archeologica le ricerche sui resti mortali della Lisa Gherardini, aveva svolto il suo compito con passione, coerenza e generosità e tra noi si era istaurato un rapporto di reciproca simpatia e stima, tanto che, in varie occa- sioni, si era reso disponibile, ben oltre il compito istituzionale a cui era stato delegato, a porgermi il suo aiuto. In passato aveva realizza- to le ricerche storiche per il Convento di Sant’Orsola ed erano state compiute con metodo e rigore. Lo chiamai e gli esposi il motivo della telefonata. All’inizio, ma- nifestò alcune perplessità concernenti la mole di impegni che dove- va disbrigare, ma colsi immediatamente il fremito sottile tipico di chi ama strappare verità e notizie dal passato. Non senza un certo

21 mestiere, feci leva sulla birichina emozione serpeggiante nelle sue parole e, alla fine, emerse la sua disponibilità alla collaborazione. Era suo abito mentale non assumere impegni che non poteva onorare e questo rappresentava una virtù altamente condivisa. Per tale at- teggiamento, prudenziale e responsabile, insistette sulla difficoltà di acquisire rapidamente notizie negli archivi di Stato. Lo tranquilliz- zai non spingendo il pedale sull’acceleratore. Gli avrei inviato una email con riportato in dettaglio quanto mi serviva. Ci salutammo cordialmente. Un altro passo in avanti era stato fatto.

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