«Sinestesie» RIVISTA DI STUDI SULLE LETTERATURE E LE ARTI EUROPEE
fondata e diretta da Carlo Santoli
Carlo Goldoni: riscritture e giochi scenici dalla poesia alla musica
ANNO V II QUADERNO 2007 «SINESTESIE» Rivista di studi sulle letterature e le arti europee issn 1721-3509
Fondatore e Direttore scientifico: © Associazione culturale internazionale «Sinestesie» CARLO SANTOLI (Proprietà letteraria) (direttorescientifi[email protected]) c/o centro studi Yuri Grasso Via Iannacchini, 10 83100 Avellino Direttore responsabile Casella postale 123 83100 Avellino centro PAOLA DE CIUCEIS Registrazione presso il Tribunale di Avellino n. 398 del 14 novembre 2001. Caporedattore www.rivistasinestesie.it - [email protected] ALESSANDRA OTTIERI ([email protected]) Rivista «Sinestesie» - Direzione e Redazione c/o la Dott.ssa Alessandra Ottieri Via Giovanni Nicotera, 10 – 80132 Napoli Comitato di lettura Il materiale cartaceo (libri, copie di riviste o altro) va EPIFANIO AJELLO indirizzato al suddetto recapito. La rivista ringrazia MICHELE BIANCO e si riserva, senza nessun impegno, di farne una re- ROSA GIULIO censione o una segnalazione. Il materiale inviato alla ALBERTO GRANESE redazione non sarà restituito in alcun caso. Tutti i ALESSANDRA OTTIERI diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. CARLO SANTOLI Condizioni d’acquisto e d’abbonamento Coordinamento di redazione LAURA CANNAVACCIUOLO 50,00 (Italia) 70,00 (estero) Redazione 40,00 (Italia) 60,00 (estero) LOREDANA CASTORI 40,00 DOMENICO CIPRIANO 0,50 cent. a pagina MARIA DE SANTIS PROJA Per sottoscrivere l’abbonamento (specificando GERARDA DEL GAISO l’annata richiesta) o per acquistare singoli numeri ROBERTA DELLI PRISCOLI della rivista occorre effettuare il versamento sul c/c GIANFRANCO MARTANA postale 74638016 intestato a: Associazione Culturale FERNANDO RUOCCO Internazionale «Sinestesie», c. p. 123 – 83100 – Avellino GIUSEPPE RUSSO centro. La copia della ricevuta di versamento va in- ANTONELLA SANTORO viata per fax al numero 081.415764 (previo avviso). COMITATO SCIENTIFICO
Letteratura EPIFANIO AJELLO (Università di Salerno) ANNAMARIA ANDREOLI (Università di Potenza) MICHELE BIANCO (Università di Bari) BIANCA MARIA DA RIF (Università di Padova) VITTORIO GATTO (Università di Napoli “L’Orientale”) ROSA GIULIO (Università di Salerno) ALBERTO GRANESE (Università di Salerno) LINA IANNUZZI (Università di Lecce) FRANÇOIS LIVI (Università di Parigi IV “Sorbonne”) MILENA MONTANILE (Università di Salerno) ALESSANDRA OTTIERI (Università di Napoli “L’Orientale”) ANTONIO PIETROPAOLI (Università di Salerno) GILBERTO PIZZAMIGLIO (Università di Venezia) GIOVANNA SCARSI (Salerno)
Musica BRUNO GALLOTTA (Conservatorio “G. Verdi” di Milano) PIERO GARGIULO (Conservatorio “L. Cherubini” di Firenze) PIERO MIOLI (Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna)
Teatro, Cinema, Arti figurative MARIA DE SANTIS PROJA (Milano) ETTORE MASSARESE (Università di Napoli “Federico II”) PAOLO PUPPA (Università di Venezia) MATILDE TORTORA (DAMS, Università di Cosenza) La rivista «Sinestesie aderisce al programma di valutazione della MOD (Società italiana per lo studio della modernità letteraria)
RINGRAZIAMENTI
Desideriamo ringraziare Maria Bove, Alfonso Caracciolo e Filomena Scala, Domenico Ci- priano, Bianca Maria Da Rif, Maurizio De Chiara, Giuseppe Di Bari, Antonio Elefante, Emilio Fattorello e Virginia Canzolino, Tommaso Fusco e Gaetana Ricciardelli, Fernando Ruocco. Ringraziamo anche gli amici dell’Università degli Studi di Salerno (docenti, ricercatori, dottorandi; il personale tecnico-amministrativo: Dott.ssa Maria Concetta D’Alessandro, Pasquale De Chiara, Vincenzo Della Morte, Maurizio Nobili e Santa Passaro), in particolar modo, il Prof. Sebastiano Martelli, direttore del Dipartimento di Letteratura, Arte, Spet- tacolo; i Professori Epifanio Ajello e Carlo Chirico, le Professoresse Rosa Giulio, Antonia Lezza e Milena Montanile; lo staff redazionale, in particolare Laura Cannavacciuolo, e il Direttore responsabile Paola de Ciuceis. Rivolgiamo uno speciale ringraziamento ai Professori Alberto Granese e Gilberto Pizzamiglio e al Direttore della Biblioteca di “Casa Goldoni”, che ha cortesemente auto- rizzato la riproduzione delle seguenti immagini: di Giuliano Zuliani: La Banca rotta ossia Il mercante fallito; L’amore paterno o sia La serva riconoscente; di Giovanni De Pian: Il bugiardo; di Giuseppe Dianotto: Chi la fa l’aspetta o sia La burla vendicata nel contraccam- bio fra’ i chiassetti del Carneval; di Pietro Antonio Novelli e Antonio Baratti: I Rusteghi, Antiporta tomo I, Antiporta tomo XV, Antiporta tomo V, Antiporta tomo IX; Baseggio – Il bugiardo; Eleonora Duse nella ‘Locandiera’ di Carlo Goldoni; Locandina Theater a. d. Wien (Teatro della Sirena) del 27 ottobre 1904; Eleonora Duse e la sua drammatica compagnia ne ‘La locandiera’ di Carlo Goldoni; Autografo Goldoni; da Passatempi in villa: Il ballo, Il concerto, La colazione in villa, La cucina. Ai due sponsor – “Studio De Santis” della Dott.ssa Laura de Santis (Como) e “Gruppo Cassetta” di Nicola Cassetta – va la nostra più fervida riconoscenza. Esprimiamo anche vivi sensi di gratitudine al Prof. Marco Santoro, alla Dott.ssa Antonella Orlandi (Direzione e redazione di “Italinemo”), al Sac. Prof. Michele Bianco (Università degli Studi di Bari), alle Dott.sse Nuccia Acanfora e Annalisa Pontis (Uni- versità degli Studi di Salerno). Ringraziamo la Dott.ssa Serena Lucianelli della Biblioteca Nazionale di Napoli che ha autorizzato la riproduzione delle immagini tratte dal periodico «Minerva» (art. X, n° XXVI; art. XV, n° XXIX), su concessione del Ministero per i Beni e le Attivita Culturali, la direzione e redazione del periodico «Nuova informazione bibliografica», per aver autorizzato la pubblicazione dell’articolo di Piero Mioli dal titolo Cantar Goldoni. Poeta per musica al centro della librettistica settecentesca (a. IV, n. 4, ottobre-dicembre 2007, pp. 679-704). Ringraziamo infine il Prof. Angelo R. Pupino – Presidente della MOD (Società per lo studio della modernità letteraria) – che in accordo con i membri del consiglio direttivo e del comitato scientifico, ha ammesso dal 2007 la rivista «Sinestesie» al programma di valutazione dell’Associazione. Il Direttore, Carlo Santoli Il Caporedattore, Alessandra Ottieri SOMMARIO
GILBERTO PIZZAMIGLIO, Prefazione
NOTE, RILETTURE, CONFRONTI
EPIFANIO AJELLO, Carlo Goldoni, una biografia per immagini tra Venezia e Parigi
BARTOLO ANGLANI, Il cantiere infinito della ‘Casa nova’
MICHELE BIANCO, Il realismo goldoniano. Aspetti sociali, economici ed espressivi
PAOLA RANZINI, Le tentazioni romanzesche del vecchio Goldoni: l’‘Istoria di Miss Jenny’ fra traduzione e rifacimento
LOREDANA CASTORI, Le Novelle Letterarie del Settecento. Goldoni nella «Minerva»
EMMA GRIMALDI, Se Goldoni corregge Stendhal: un Pantalone «in ritardo» nelle ‘Confessioni d’un Italiano’
E. MASSARESE, D. MIGLIARDI, D. LEVANO, Goldoni in scena. Tracce e percorsi di riscritture possibili tra conflitti intellettuali e giochi scenici
GUIDO NICASTRO, Pirandello e Goldoni
CARLO SANTOLI, Visibile e verisimile: note sulla scrittura teatrale di Carlo Goldoni
PADRONE, MASSERE, SERVETTE, LOCANDIERE: VANNO IN SCENA LE DONNE
FRANCA ANGELINI, Donne goldoniane e commedie esotiche nel teatro dell’Il- luminismo
GIORGIO CAVALLINI, Breve postilla sul linguaggio di Mirandolina
ILARIA CROTTI, «Del re di spade, o del re di coppe?». Strategie sociali e pro- iezioni simboliche ne ‘La locandiera’
PAOLO PUPPA, Notturno per attrice goldoniana. Donne di vapore e donne di spirito 6 INDICE
GOLDONI TRA MUSICA E POESIA
PIERO MIOLI, Cantar Goldoni. Il grande commediografo (1707-1793) come poeta per musica al centro della librettistica settecentesca
ANGELA OSTER, Goldoni petrarchista? Sulla funzione della lirica nel ‘Poeta fanatico’ e nei ‘Componimenti poetici’
RECENSIONI
Lirica contemporanea (a cura di DOMENICO CIPRIANO)
A.A, V.V., New Italian Poetry (An Antology) (Domenico Cipriano); ANNA MARIA CARPI, E tu fra i due chi sei (Enzo Rega); ALESSANDRO CARRERA, I poeti sono impossibili. (Come fare il poeta senza diventare insopportabile) (Domenico Cipriano); OTTAVIANO DE BIASE, Autunno (Domenico Cipriano); STELVIO DI SPIGNO, Formazione del bianco (Pippo Ruiz); ASSUNTA FINIGUERRA, Scurije (Maria Pina Ciancio).
Narrativa, saggistica e varia (a cura di LAURA CANNAVACCIUOLO)
BENEDETTA CRAVERI, Maria Antonietta e lo scandalo della collana (Luigi Zammartino); AA. VV., Prospettive sui ‘Malavoglia’ (Ilaria Accardo); AA. VV., L’enigma degli avori Medievali da Amalfi e Salerno (Paola de Ciuceis); REMO BODEI, Piramidi di tempo. Storie e teorie del déjà vu (Paola de Ciuceis); MARCO TESTI, Altri piani, altre valli, altre montagne. La deformazione dello spazio narrato in ‘Con gli occhi chiusi’ di Federigo Tozzi (Alessandra Ottieri).
Rassegna goldoniana (a cura di PAOLA DE CIUCEIS) Libri ricevuti Notizie sui collaboratori di questo numero Gilberto Pizzamiglio
PREFAZIONE
Calato da qualche mese il sipario sulla fitta sequenza di appuntamenti convegnistici e momenti celebrativi che ha accompagnato tra il 2007 e il 2008 il terzo centenario della nascita di Carlo Goldoni, è venuto ora il momento di consegnare alla carta stampata i risultati critici di tali incontri, attraverso la pubblicazione dei relativi Atti e, accanto, di volumi miscellanei o di un singolo autore, nonché di corposi fascicoli di rivista che, pur non riconduci- bili direttamente a quei simposi, sono comunque significativa testimonianza di sintonizzate ricerche e di discussioni motivate o rafforzate dalla stesso anniversario. Proprio nel settore dei numeri speciali monograficamente dedicati a Car- lo Goldoni – che già ne annovera almeno uno della «Rivista di letteratura italiana» (XXV, 2007, 1, Carlo Goldoni in Europa, a cura di Ilaria Crotti), uno de «La Rassegna della letteratura italiana» (serie IX, 2007, 2, luglio-dicembre, a cura di Roberta Turchi) incentrato su “mestieri e professioni” del teatro goldoniano e sull’ “avvocato” Carlo Goldoni, e uno di «Esperienze letterarie» (XXXII, 2007, 3-4, Per Carlo Goldoni, a cura di Franco Fido e Marco Santoro) – viene ora ad inserirsi quanto mai opportuno questo volume di «Sinestesie», che fin dall’indice mostra subito, per tutte e tre le parti in cui è suddiviso, la perfetta assonanza tematica con quanto in molteplici sedi, accademiche e teatrali, in Italia, in Francia, in Spagna, negli Stati Uniti e altrove, si è andati dibattendo intorno al commediografo veneziano. Così nella prima e più nutrita sezione, sotto il titolo di Note, riletture, confronti trovano posto interventi sul legame tra testo e immagine nelle Memorie italiane, sulla scrittura teatrale di Goldoni, sui suoi rapporti con la scena e con “generi” letterari settecenteschi quali il romanzo e il giornalismo, o sul punto, cruciale nella storia della critica goldoniana novecentesca, del suo “realismo”: tutti argomenti toccati anche e diffusamente nei convegni ad esempio di Venezia, alla fine del 2007 (12-15 dicembre: Parola, musica, scena, lettura. Percorsi nel teatro di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi), o di Roma (Goldoni 8 GILBERTO PIZZAMIGLIO e i generi teatrali del suo tempo, 7-9 febbraio 2008) e di Padova (Goldoni e la modernità, 29-31 ottobre 2008) nell’anno successivo. La seconda parte invece, con le sue Padrone, massere, servette, locandiere che vanno in scena, sembra intonarsi precipuamente con un incontro d’oltreoceano dedicato a Le donne di Goldoni (Madison, 25-26 aprile 2008), mentre la terza, proponendo un Goldoni tra musica e poesia, ribadisce una delle principali e innovative linee d’indagine affermatasi in questi anni: la rivalutazione del suo teatro per musica, lo stesso che, in chiave europea, è stato al centro dell’attenzione, nel novem- bre del 2007, a Barcellona, di quattro giornate di studio dedicate appunto a Goldoni, la musica, la scena, Europa, o che, su altro versante, è oggetto dei tomi, ricchi di inedite acquisizioni, che si vanno ora pubblicando con cadenza annuale all’interno dell’Edizione Nazionale delle sue opere. Quella offerta ora da «Sinestesie» è dunque un’altra importante tessera di una grande e davvero corale impresa di riflessione sul Veneziano, riletto nell’attuale occasione centenaria a tutto tondo, a partire dal suo tempo e fino al nostro, guardando alla storia e alla fortuna del suo teatro nelle di- verse direzioni comiche, tragiche e melodrammatiche in cui si espresse: con la felice e non ultima peculiarità di accostare in queste pagine saggi di noti e illustri goldonisti a quelli di più giovani studiosi, e sempre con analoghi, soddisfacenti risultati. NOTE, RILETTURE, CONFRONTI Anonimo incisore del XVIII secolo. Ritratto di Carlo Goldoni. Venezia, Casa di Carlo Goldoni Epifanio Ajello
CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI*
Prima di dare avvio al mio intervento, credo sia corretto mostrare, letteral- mente, l’occorrente, anche se parziale, che più avanti andremo ad esaminare ed usare. Ci muoveremo, infatti, un po’ per quesiti e un po’ per illustrazioni, gironzo- lando a cavallo degli anni 1761 e 1762 e dintorno a due eventi straordinari nella vita di Goldoni che, in qualche maniera, si tengono tra loro: il viaggio definitivo, amaro quanto felice, verso Parigi e la nascita dell’edizione delle sue commedie affidata alla tipografia veneziana di Giovambattista Pasquali1 (diciassette volumi editi tra il 1761 e il 1778). (Immagine 1) La nostra attenzione si fermerà intorno a tre essenziali zone dell’edizione Pasquali che sono: a) «l’autore a chi legge» o Prefazione. Diciassette in tutto, una per volume, dove Goldoni narra un «pezzo» della sua vita, dal 1707 al 1742 (Immagine 2); b) i «Rami istoriati». Illustrazioni, incise su rame, in tutto anch’esse diciassette e che compaiono, come le prefazioni, ad inizio di ogni volume: rappresentano, ciascheduna, un momento saliente della vita del commediografo (Immagine 3); c) infine, poiché in ogni volume della edizione sono raccolte quattro commedie (Immagine 4), per ognuna di esse, è inserito un «Rame istoriato» che ne rappresenta una scena (Immagine 5). Sono questi i tre luoghi, illustrati e non, intorno ai quali, cercheremo, in- cautamente, di addentrarci.
* Conferenza letta al Convegno internazionale, Zum 300. Geburtstag Carlo Goldonis: ein europäischer komödienautor, Universität Frankfurt, 23 – 24 November 2007. 1 Tutte le citazioni delle opere goldoniane sono tratte da C. GOLDONI, Tutte le opere, a c. di G. ORTOLANI, Mondadori, Milano 1935-1956, 14 voll., e saranno indicate con Opere, ad esclusione dei Mémoires, le cui citazioni sono riprodotte in traduzione italiana. Per quest’ultima ci si è valsi dell’edizione tradotta a cura di F. PORTINARI, Garzanti, Milano 1993. Nel testo, in prosieguo, le citazioni saranno rispettivamente precisate con Pasquali, e l’indicazione dei tomi, per le Prefazioni della edizione veneziana, e con Memorie, con l’indicazione delle parti e dei capitoli, per i passi relativi a quest’ultima opera. 12 EPIFANIO AJELLO
* * * La prima indicazione ufficiale della nascita dell’edizione Pasquali l’abbiamo dalla petizione del 29 settembre 1760 quando Goldoni «supplica ossequio- samente» il Serenissimo Principe di Venezia, per «la clementissima grazia di un privilegio [...]». Privilegio (un particolare ‘diritto d’autore’) che gli sarà accordato dalla «Serenissima Dominante» l’8 febbraio 1761.2 Trascorre poco più di un mese, ed ecco correre, per le calle di Venezia, una lettera-volantino di Goldoni (1 aprile 1761), indirizzata «a’ suoi amorosissimi mecenati, padroni, amici ed amatori delle opere sue teatrali».3 È l’invito, sua- dente, all’acquisto della «voluminosa e novella edizione», con «adornamenti di Rami» che, a differenza delle precedenti, conterrà, almeno nelle intenzioni, «tutte le sue Commedie, tragedie, tragicommedie, Drammi seri, Drammi buffi, Farse, Introduzioni, Intermezzi, e di più tutte le di lui poetiche composizioni volanti, stampate in varie occasioni, e non stampate».4 Sembra, per Goldoni, realizzarsi l’antico sogno di andare definitivamente «dalle scene al torchio» e di vedere tutte le opere «nobilmente stampate». Nell’autunno dello stesso anno accade un altro evento clamoroso. Il com- mediografo scrive all’amico Albergati (5 settembre 1761): «Oh che bella novità le recherà questa lettera! Goldoni va a Parigi e partirà, a Dio piacendo, nella ventura quaresima […]» e, aggiunge, darò «un moto grandissimo alla mia edizione, che sola meriterebbe ch’io intraprendessi un tal viaggio».5 Ma non ci sarà, purtroppo, nessun «moto grandissimo» per la sua Pasquali. Goldoni stesso confesserà, nei Mémoires, essere stato proprio il trasferimento a Parigi una delle cause del fallimento dell’edizione: «mi sbagliai; quando a
2 Opere, XIV, pp. 418-19. In coincidenza con questa data, ovvero con la fine del Carnevale di quell’anno, Goldoni situa nel capitolo 42° della seconda parte dei Mémoires, l’«origine dell’edizione Pasquali» in un contesto e in una atmosfera molto ‘goldoniana’ in occasione di una festosa convivialità: «Il giorno successivo, quello delle Ceneri, mi trovavo a uno di quei pranzi di magro coi quali i buongustai veneziani danno inizio ai loro pasti quaresimali. C’era tutto il pesce che possono fornire il mare Adriatico e il lago di Garda. [...] Vini e liquori ave- vano rallegrato gli spiriti, ma si fece silenzio e fui ascoltato con molta attenzione». Dopo di che Goldoni, da par suo, subito approfitta della situazione favorevole in cui versa l’estasiato uditorio dopo l’abbondante libagione: «Fui applaudito e incoraggiato, furono fatti portare carta e inchiostro. Il gruppo era composto da diciotto persone, me escluso. Si preparò, seduta stante, un foglio di sottoscrizione ed ognuno sottoscrisse per dieci esemplari. In un sol botto ebbi centottanta sottoscrizioni» (Memorie, II, 42). Sembra di vedere la scena come in un quadro del Longhi, con l’autore che frettolosamente scostate le stoviglie fa posto alle sottoscrizioni per la sua edizione. 3 Opere, XIV, pp. 469-475. Per una silloge dei paratesti goldoniani mi si consenta di rinviare a C. GOLDONI, Storia del mio teatro, intr. scelta e note di E. AJELLO, Bur, Milano 1993. 4 Ivi. 5 Opere, XIV, pp. 243-244. CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 13
Venezia incominciai questa edizione di Pasquali, in ottavo con illustrazioni, non potevo immaginare che il mio destino fosse di valicare le Alpi. Chiamato in Francia nel 1761, continuai a fornire i cambiamenti e le correzioni che mi erano richiesti per l’edizione di Venezia, […] (ma) io non vivrò abbastanza a lungo per vedere terminata questa edizione» (Memorie, Prefazione). Difatti, il ritmo della stampa non sarà, come previsto, di due tomi per anno, ma di uno soltanto; per ulteriormente poi diradarsi6 e cessare del tutto, nel 1778, col diciassettesimo volume contro i trenta inizialmente previsti7. E nell’incipit della Préface ai Mémoires la storia della Pasquali, ritorna a intrec- ciarsi, emblematicamente, con Parigi. Così la racconta, un Goldoni ottuage- nario, nel mentre la trascrive e la diluisce nella prima parte dei Mémoires, nel freddo abbaino in rue Pavée Saint Sauveur 1: «Incomincio col riunire e tradurre in francese tutto quello che c’è nelle prefazioni storiche dei dicias- sette volumi di Pasquali.8 Con questa idea, nel 1760, vedendo che […] il mio teatro era saccheggiato dappertutto, che se ne erano fatte quindici edizioni senza il mio consenso […] e, quel che è ancora peggio, tutte mal stampate, concepii il progetto di farne una seconda edizione a mie spese e di collocare in ogni volume al posto della prefazione, una parte della mia vita, immagi- nando così che alla fine dell’opera la storia della mia vita, e quella del mio teatro, avrebbero potuto essere complete» (Memorie, Prefazione). Nascono così quelle «memorie» che l’Ortolani chiamerà «italiane» per differenziarle da quelle scritte in francese nei Mémoires. Ma la Pasquali, ideata dall’autore, in brossura, «per quelle persone che amano i libri nobilmente stampati, e che non guardano a spesa per il piacere
6 Come è evidente dalla lettera indirizzata all’editore (15 luglio 1772) dove, nello scusarsi per i ritardi, Goldoni gli invia «un pacchetto contenente dodici commedie inedite, rivedute, corrette, e delle loro prefazioni fornite», terminando con una frase più rivolta a se stesso che al Pasquali: «l’edizione deve certamente essere terminata» (in Opere, XIV, pp. 367-368). 7 Data che, il caso vuole, coinciderà con quella paradigmatica del 1742, anno di grazia della composizione della Donna di garbo (dic. ’42 - gen. ’43), prima commedia interamente scritta. 8 Nascono così due testi autobiografici apparentemente simili ma profondamente diversi, i cui quasi analoghi accadimenti, ovviamente nella prima parte dei Mémoires assumono, a pa- ragone, riflessi e smerigliature lessicali e sintattiche differenti. Le «memorie italiane» risentono della vicinanza degli accadimenti narrati; la scrittura è più dettagliata, fredda, incisiva; l’altra, quella, in lingua francese, è una prosa più distante, sinuosa, preoccupata di consegnare una definitiva (e apologetica) storia della riforma teatrale ad un pubblico, ora, più vasto; ha una funzione testamentaria che ne accresce naturalmente l’aura. Il racconto, soprattutto nella prima parte, è avvolto in una scrittura avvincente, in una sintassi che riprende il piglio della teatralità mescolando, a volte, e meravigliosamente, dialogo e racconto, «piacendo» e «istruendo». Va detto, infine, che la scrittura è condotta in una lingua non sua e in un furibondo lavoro sui ritrovati e odiati canovacci per gli attori francesi e nello spossante «sfadigar» per tradurli in testi «di carattere», da inviare al Vendramin per i teatri veneziani. 14 EPIFANIO AJELLO d’averli»,9 inizialmente in dodicesimo (poi, invece, stampata in un ottavo più grosso) «da mettere in saccoccia» come un tascabile, al costo di sei paoli per volume, conterrà un’altra caratteristica importante ovvero «Cinque Rami per Tomo, disegnati e intagliati dagli ottimi Professori, che non mancano in questa Serenissima Dominante».10 Nasce così questa particolare, se vogliamo, «terza (incompleta) autobio- grafia» per immagini di Goldoni11 collocata accanto alle «memorie italiane»; il che sembra costituire una novità assoluta almeno nell’editoria veneziana. È ovvio pensare che i temi delle incisioni, «un qualche pezzo della mia vita», siano stati scelti da Goldoni, che avrà, a suo tempo, indicato la scena da rappresentare al disegnatore veneziano Pier Antonio Novelli;12 scena suc- cessivamente riprodotta dall’incisore bellunese Antonio Baratti. Come è facile dedurre che il commediografo, risiedendo ancora a Venezia durante la stampa dei primi quattro tomi (agosto 1761 – aprile 1762), ha avuto la possibilità di controllare di persona il disegno già ultimato dei suoi Frontespizi. E avendoli sotto gli occhi, gli sarà stato facile soffermarsi sull’immagine, commentandola nella prefazione ad essa connessa. A questo punto c’è un’osservazione da fare. I passi di commento alle il- lustrazioni delle prime cinque prefazioni scritte a Venezia, sono decisamente più lunghi e dettagliati di quelli presenti nelle successive, inviate dal com- mediografo, da Parigi. In queste ultime, infatti, Goldoni cita le vignette in maniera succinta, quasi di sfuggita, sviando subito dall’immagine e allargando la narrazione verso altri contesti.13 Quale il motivo? – ci chiediamo. Sono le distrazioni, «la vita movimentata» di Parigi? «Le mie nuove attività, – scriverà – le distanze, hanno diminuito il lavoro da parte mia e rallentato la stampa» (Memorie, Prefazione); oppure sarà stata la decisione di articolare diversamente le sue memorie? o piuttosto perché non aveva, sotto le dita, le illustrazioni disegnate e incise a Venezia. In
9 «Una edizione – scriverà Goldoni – tanto colta e magnifica, quanto esser possano le migliori edizioni forestiere, e nella forma del libro, e nella scelta della carta e caratteri» (in Opere, XIV, pp. 418-19). 10 Ibid. 11 Sempre a Parigi, Goldoni si farà anche traduttore e riscriverà ampiamente riducendo a «due tometti», i tre volumi del romanzo l’Histoire de Miss Jenny Level di Mme Riccoboni (Venezia, 1791). Il romanzo si trova nel tomo XIV delle Opere ed è stato ristampato a c. di F. VAZZOLER, Franco Muzzio editore, Padova 1993. 12 R. GALLO, L’incisione nel ’700 a Venezia e a Bassano, Libreria Serenissima, Venezia 1941: «le commedie del Goldoni in 17 volumi con 89 tavole disegnate quasi tutte dal Novelli ed incise da Antonio Baratti», p. 36. 13 Cfr. F. FIDO, I Mémoires e la letteratura autobiografica del Settecento, in ID., Da Venezia all’Europa. Prospettive sull’ultimo Goldoni, Bulzoni, Roma 1984, pp. 119-157. CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 15 quest’ultimo caso, ritiene prudente non commentare in maniera approfondita un’immagine che non conosce nei dettagli. Avanziamo, allora, una cauta congettura ovvero che l’illustratore Pier Antonio Novelli, una volta Goldoni a Parigi, ricavi il soggetto delle immagini proprio (e soltanto) dalle singole prefazioni, in cui il commediografo appun- ta brevemente la scena di riferimento. Sarà quella, soltanto quella, lì messa tra le righe, l’unica indicazione da parte del commediografo al disegnatore dell’immagine da riprodurre: «Miratemi al tavolino, sotto la dettatura di un Procuratore» (Pasquali, VI); «Osserva il tuo Goldoni nel frontespizio di questo Tomo, e vedilo colla toga forense» (Pasquali, X). Prefazioni che il Nostro invia da Parigi, insieme alle commedie, al Pasquali che le passa al Novelli. «Me- todo» del tutto evidente nella lettera inviata da Parigi all’editore, il 15 luglio del ’72: «Se continuate il metodo finora osservato, eccovi provveduto per altri dodici tomi, e a quest’oggetto vi invio nel pacchetto medesimo i ragionamenti preliminari, ne’ quali mi sono fatto lecito di parlare di me, delle mie opere e delle mie avventure»;14 e di questi, sappiamo, cinque andranno perduti. Dunque, nel mentre rimane indiscussa la volontà dell’autore di indicare per ogni «autore a chi legge» il soggetto della relativa illustrazione, resta compito del Novelli disegnarla e farla incidere nel frontespizio; incisione che Goldoni vedrà soltanto successivamente. La scrittura, dunque, delle prefazioni non nasce più a commento del disegno realizzato ma ne diventa soltanto l’indicazione. Si spiegherebbe, così, perché tutte le parti delle prefazioni scritte a Parigi relative a ciascun «rame istoriato», siano molto stringate, talvolta soltanto delle semplici didascalie, rispetto alle più generose, dense di particolari delle prime cinque scritte a Venezia quando Goldoni aveva sotto gli occhi i bozzetti. Non a caso, in queste ultime, la scrittura stende una straordinaria rete di rapporti con l’immagine; vi è come sopra, si intrufola, la ripercorre, la spiega, la commenta, in una sorta, quasi, di mise en abîme di quanto narra. Immagine e scrittura si rafforzano vicendevolmente, consegnando più sorpresa all’evento e imprimendo, insieme, una maggiore memorizzazione (una maggiore memorabilità) di quanto narrato. Altro discorso meritano i «Rami» dedicati alle illustrazioni delle scene delle commedie, dove Goldoni avrà lasciato più libero il disegnatore di scegliere il soggetto «adatto» da ritrarre, almeno stando a quanto scrive da Parigi al Pasquali il 14 febbraio 1763: «fate che dal bravo Novelli e dal valoroso Baratti sia disegnato ed eseguito il rame adatto».15 È evidente che a causa della lon-
14 Opere, XIV, p. 368. 15 Opere, XIV, 93, pp. 274-276. 16 EPIFANIO AJELLO tananza da Venezia, Goldoni necessariamente debba affidarsi (con forse una supervisione dell’editore) all’abilità e all’estro del Novelli, oltretutto abituale collaboratore della bottega tipografica, nonché libreria, «Felicità delle lettere», questo il suo nome, del Pasquali a Venezia.16 Ad essere attenti, infatti, è facile notare come il Novelli faccia ricorso, nel concepire le immagini delle comme- die alle relative didascalie; oppure, quando questo non è possibile, affidandosi a valutazioni del tutto personali nello scegliere il «principale argomento» da istoriare. E qui poniamo una seconda ma decisiva domanda: perché Goldoni decide di illustrare la sua edizione con momenti della sua vita? Una risposta, immediata, ce la offre l’autore stesso: «Muse, Apolli, tibie, Teatri, Satiri, Scimie sono cose fatte e rifatte, e si veggono da per tutto im- presse, dove trattisi di Commedie; ed i Pittori su tal proposito non sanno che inventare […]. Pensato ho adunque a qualche cosa di nuovo, per quell’amore di novità, che è stato sempre il mio scopo e che diletta, più che altro l’uni- versale» (Pasquali, II). Ma non è probabilmente soltanto un desiderio di originalità a muovere il nostro autore. Sarà lui stesso a ribadire la permeabilità tra gli episodi della sua vita e quelli del palcoscenico: «la mia vita medesima è una commedia, e qualor mi manchino argomenti o soggetti per nuovi intrecci, un’occhiata ch’io dia alla mia vita passata, trovo materia da lavorare […]» (Pasquali, V) e si pensi, ad esempio, all’Avvocato veneziano, L’Impostore, L’Avventuriere onorato, ecc. Ed è proprio questa contiguità ad essere resa anche visiva nelle pagine della Pasquali. Infatti, a sfogliarle velocemente, le figure delle prefazioni e i disegni di scena, l’autore e i suoi personaggi, sembrano mescolarsi in una sequenza unica, come carte da giuoco rapidamente mischiate, riuscendo non semplice il distinguerle, anche perché, evidentemente, unite dallo stesso tratto artistico del disegnatore; e consegnando alla fine l’impressione di un tutto unico. Valga, per tutte, la vignetta relativa alla commedia del Teatro comico, (Im- magine 6) dove balza centrale nell’immagine il capocomico Orazio dietro cui si identifica, nel testo teatrale, Goldoni stesso; e sembra proprio di vederlo, lì al centro della scena a dare direttive ai suoi attori, in una sorta di ipotetico, diciottesimo Frontespizio. L’illusione di avere sotto gli occhi un unico racconto di immagini deriva, inoltre, dalla stessa mise en scène di interni nei disegni. Soltanto due vignette
16 Su questo aspetto, si veda il dettagliato articolo di M. ARNAUDO, La scena muta. Le illu- strazioni settecentesche di Goldoni nel loro rapporto con i testi, in «Intersezioni», 3, 2003, pp. 467-498, nonché il volume C. GOLDONI, Il teatro illustrato nelle edizioni del Settecento, a c. di C. MOLINARI, Marsilio, Venezia 1993. CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 17 della vita di Goldoni rappresentano esterni, a Padova, una darsena (Pasqua- li, XI) e a Verona, l’Arena, (Pasquali, XII), mentre tutte le rimanenti sono concepite all’interno di camere. Questo agevola il sovrapporsi, senza sbava- ture, delle tre pareti delle stanze in cui si muove Goldoni con gli analoghi appartamenti veneziani, la maggioranza, rappresentati nei disegni di scena. Tratteggiati, questi ultimi, appunto, senza alcun fondale o quinta teatrale e dove, ogni volta, a girar la pagina, sembra, per davvero, scriverà Goldoni, che «nella commedia della mia vita, si cambia scena» (Pasquali, IX).17 Questo accade nonostante che nei disegni delle commedie viene tratteg- giato, in alto, un drappo di sipario e in basso una soglia limita un immaginario palcoscenico; mentre nelle vignette autobiografiche, c’è, nella parte superiore, un fregio architettonico, in cui campeggia la scritta «Opere di Carlo Goldoni» e, in basso, dotte citazioni in latino tratte da autori classici (Virgilio, Orazio, Ovidio, ecc.) inscritti in bassorilievi.18 Ma perché Goldoni acconsente, agevola che i frontespizi della sua vita si leggano come una sorta di scene teatrali? La risposta è forse nascosta nell’incipit della dodicesima prefazione: «Ho intrapreso a scrivere la mia Vita, niente per altro che per fare la storia del mio Teatro», entrambi con le iniziali debitamente maiuscole. E aggiunge: «Avrei materia per fornire di me medesimo maggior copia ancora di Frontespizi, ma sceglierò i più essenziali, unicamente per rimarcare per quali vie e con quali mezzi mi sono fin qui condotto». Essenziale sta per indispensabile, insostituibile, centrale. Difatti, l’insieme dei Frontespizi con annesse figure, documentano la storia «essenziale» della sua riforma teatrale, il lento crescere del suo genio comico (senza zigzag o ritorni all’indietro, come di fatto avvenne) attraverso un piccolo romanzo di formazione per immagini, senza balloons, beninteso, ma con le didascalie dei «Rami» messe sempre bene in vista nelle prefazioni e annodati puntualmente dintorno a nuclei tematici attentamente scelti: il genio comico, lo studio, le difficoltà, la professione di avvocato, il matrimonio, l’incontro-scontro con gli attori.
17 Disegni coniugati tra loro dallo stesso Goldoni: «Tutti i Tomi saranno decorati con cinque Rami […] de’ quali cinque Rami il primo servirà al frontespizio, e gli altri quattro precederanno le rispettive Opere istoriandone nella migliore forma il principale argomento» (Manifesto, cit., p. 471). Ed è il tempo verbale del gerundio, quell’«istoriando», a tenere unite le singole vignette che illustrano il «principale argomento» di ogni commedia (ma questa non era affatto una innovazione, basti sfogliare le raccolte delle commedie di Racine con le incisioni di F. Chauveau o di J. Punt per Molière) con le singole ‘scene’ della vita dell’autore (il che, invece, sembra essere una novità assoluta nell’editoria veneziana del Settecento). 18 Con l’intento, probabile, di inserire, almeno visivamente, il suo teatro in un canone se non classico almeno colto. 18 EPIFANIO AJELLO
Tutto è raccontato in fermo-immagine, in una lenta pantomima, come in un documentario; con l’autore sempre lì, al centro della figura, nel mentre la prosa delle prefazioni lo racconta come un “eroe” nella sequenza delle immagini; mentre convergono su di lui, gli sguardi dei lettori come delle comparse. È una scenografia del tutto teatrale ma senza il suono, i fruscii, le tossi, le voci di sala. Ed è così che se le prefazioni in prosa sembrano anticipare i migliori feuilletons ottocenteschi, illustrazioni comprese, nello scandire le puntate precedenti: «Voi mi vedeste, Lettor carissimo, al principio del Tomo V»; nell’accompagnare la trama: «Proseguisco, Lettor carissimo a intrattenerti col racconto delle mie avventure», o nelle brevi anticipazioni: «come mi riserbo a dire nel Tomo sesto». Le immagini, d’altro lato e insieme a quelle, assumono un compito ulteriore: marcano un memorabile dato autoriale. Documentano l’esistenza visibile, concreta, lì nella figura, anche di una funzione autore:19 la mostrano nella sua evoluzione. Ma anche presi singolarmente i «Frontespizi in rame» assolvono un compito testimoniale, quasi fotografico; ogni immagine ha una sua ragione nell’occupare il suo posto, e ne basta una, ogni volta, per sintetizzare una vicenda «essenziale» della vita di Goldoni. Il che richiama, d’altro lato, la stessa funzione e ruolo dei ritratti in pittura del commediografo (anche qui nella Pasquali ce n’è uno riprodotto e collocato nel primo tomo: un disegno del Tiepolo, inciso dal Pitteri) (Immagine 7), ovvero l’uso insistente che ne fa nel situarli sempre nelle sue edizioni, dalla Bettinelli alla Zatta e fin negli stessi Mémoires. Un uso autoriale, testimoniale, come a dire: «eccomi, sono io, l’autore». Si guardi il frontespizio del suo matrimonio (Immagine 8) ad esempio; sembrano istantanee come immesse in una lanterna magica (allora già ben funzionanti) o da incollare, eventualmente, in un album fotografico. Vien da pensare che per poco più di trent’anni non abbiamo un dagherrotipo di Gol- doni. La prima fotografia, «la veduta di Graz» scattata da Joseph Nicéphore Niepce è del 1826 (se non consideriamo le sperimentali proto-fotografie, i «disegni fotogenici» di Thomas Wedgwood di fine Settecento) e il nostro commediografo muore nel 1793.20
19 Cfr. M. FOUCAULT, Che cos’è un autore?, in ID., Scritti letterari, a c. di C. MILANESE, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 1-21. 20 Sir Joshua Reynold, nel suo Journey to franders and Holland (1781), scrive: «Vista di una chiesa, di van der Heyden, il suo quadro migliore: due frati neri salgono gli scalini. Benché il quadro sia rifinito, come sempre, con molta accuratezza, egli non ha dimenticato di lasciare, nello stesso tempo, una grande fascia di luce. I suoi quadri hanno lo stesso effetto della natura CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 19
Come per i ritratti, i «rami istoriati» ribadiscono la stessa funzione, in- dicativa, deittica, nell’insistenza di un «io» che sta lì, sempre in posa, come a confermare il suo ruolo principe e la sua funzione di autore (di contro all’autonomia dell’attore) in quella «identificazione, – come scrive Lotman – non soltanto mistica ma anche giuridica, tra l’individuo e il suo ritratto»,21 in quel suo costante dire «torniamo a me, dal momento che sono io l’eroe della commedia» (Mémoires I,1). Ed è così che, d’altro lato, anche ogni posa, presa al di fuori del suo “movimento”, è in grado di riassumere una storia singolare. Non a caso, Goldoni, insistente, invita, dai brani delle prefazioni, a guardare singolar- mente le immagini: «Vedetemi ora nel frontespizio di questo Tomo, in età di anni sedici», (Pasquali, VII) «ecco ora si cambia scena. Miratemi al tavolino» (Pasquali, VI); «Eccomi dunque a Verona» (Pasquali, XII); «Eccomi in una nuova carriera» (Pasquali, XVI). Se prendiamo, ad esempio, l’incisione ad apertura del primo tomo vi leggiamo un racconto, sin dall’inizio, già del tutto ordinato che sembra trat- tenere tutta la storia che seguirà. Vediamo un giovanissimo Goldoni seduto alla scrivania alle prese con la sua prima commedia (Immagine 9). Nella Prefazione che l’accompagna, si legge:
In età d’anni otto, in cui il genio comico principiava in me a svilupparsi, composta avendo in sì tenera età una Commedia, di quel valore che aspettar si potea da un bambino. Non mi sovviene ora né il titolo, né l’intreccio, ma vive tuttavia un testimonio di tal verità nella persona del Signor Abate Valle; Bergamasco, amico di casa mia fin da allora. Egli è indicato nel rame del Fron- tespizio suddetto, e vi è mia madre, che compiacevasi infinitamente del mio genio ch’ella chiamava talento, e vedesi delineato un certo di lei Compare, cui pareva impossibile ch’io sapessi far tanto, perché nell’età sua provetta sapeva forse assai meno. Io sono raffigurato nel fanciullo che pel Compare incredulo si adirava, e vedesi la mia libreria di quel tempo, consistente in Commedie di quel genere che in allora correva (Pasquali, I).
E sui dorsi dei libri riposti in bell’ordine sulle mensole della libreria, avvi- cinando lo sguardo, è possibile scorrere finanche i nomi degli autori teatrali, dal Gigli al Fagioli, a cui Goldoni si riferisce nella storia della sua riforma. È quasi un elenco di dramatis personae dove sono presenti tutti i personaggi
vista in una “camera oscura”» (cit. in S. ALPERS, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, Bollati Boringhieri, Milano 1984, pp. 1-2). 21 J. LOTMANN, Il ritratto, in ID., Il girotondo delle muse, Moretti & Vitali, Bergamo 1998, pp. 63-96. 20 EPIFANIO AJELLO utili per un breve atto di una possibile commedia: un evento straordinario (un «bambino» che compone un testo teatrale), una meraviglia amorosa (la «madre»), un ostacolo (l’incredulità del «Compare»), lo scioglimento felice (la testimonianza dell’«Abate»). L’evento è sintetizzato e memorizzato (come in una posa fotografica) in quella serie di braccia parallele tutte tese a indi- care, a portare al centro della scena il giovinetto Goldoni apparentemente in disparte. Ma non è soltanto un artificio teatrale. Il «Frontespizio istoriato» sembra legittimare il racconto della prefazione che l’accompagna e viceversa. Anche la prefazione, a sua volta, assicura una funzione testimoniale all’immagine, come a dire: “questo è sicuramente accaduto”, o, come direbbe Roland Bar- thes, «è stato».22 Quale, se non altro, la ragione del testimone Signor Abate Valle presente alla scena, di cui per poco, il nostro commediografo, non ci comunica anche l’indirizzo. Questo medesimo aneddoto, ad essere esaustivi, era già stato raccontato, quasi con le stesse parole (Signor Abate Valle compreso) da Goldoni nella Prefazione all’edizione Bettinelli di dieci anni prima (1750)23 ed è anche pre- sente nella stessa Pasquali, con modifiche; e sarà di nuovo raccontato con uno splendido «movimento scenico del periodare»24 (Folena), nel primo capitolo della prima parte dei Mémoires. Dove, se il passo della Pasquali potrebbe essere accostato ad un canovaccio da commedia dell’arte, nei Mémoires, la commedia è già un microscopico copione da consegnare agli attori per una recita.25 Le illustrazioni, per concludere, sembrano, dunque, possedere una autonoma capacità di racconto autobiografico e insieme assumere una funzio-
22 R. BARTHES, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980. 23 «mi sovviene, che sul solo esemplare di quelle del Cicognini in età di ott’anni in circa, una Commedia, qual ella si fosse, composi, prima d’averne veduto rappresentar alcuna in sulle Scene, di che si può render testimonianza ancora il mio carissimo amico Signor Abate Don Jacopo Valle» (Prefazione all’edizione Bettinelli (1750), in Opere, I, pp. 761-774). 24 Cfr. G. FOLENA, L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni, in ID., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Einaudi, Torino 1983, p. 111. 25 Ascoltiamo il Goldoni, circa quindici anni dopo, narrare la stessa vicenda: «All’età di otto anni ebbi l’ardire di abbozzare una commedia. Me ne confidai per primo con la bambinaia, alla quale parve graziosa; mia zia si fece beffe di me; mia madre mi sgridò e insieme mi abbracciò; il mio precettore sostenne che c’era più spirito e più buon senso di quanto comportasse la mia età; ma la cosa più strana fu che il mio padrino, uomo di legge, più ricco di denaro che di cognizioni, non volle mai credere che fosse roba mia. Sosteneva che il precettore l’aveva riveduta e corretta; costui reputò offensivo quel giudizio. Il litigio stava per inasprirsi, quando per fortuna sopraggiunse una terza persona che li pacificò. Era il signor Valle, poi abate Valle, di Bergamo. Codesto amico di casa m’aveva visto lavorar alla commedia: era stato testimonio delle mie fanciullesche spiritosaggini. L’avevo pregato di non farne parola con nessuno: m’aveva tenuto il segreto; e in quest’occasione, chiudendo la bocca all’incredulo, rese giustizia alle mie buone disposizioni» (Memorie, I,1). CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 21 ne testimoniale, e verrebbe da aggiungere testamentaria. Si forma una sorta di “fuori campo” dove l’immagine dipana da sola una rapidissima fabula; dove i dettagli, le figure come le prospettive e anche gli oggetti stessi assumono, in questo senso, una voce narrativa del tutto indipendente, simbolica, memo- rabile, ancora una volta. Se, come scrive Goldoni «esaminiamo un poco la scena»,26 l’illustrazione raccoglie quattro personaggi ma accanto a costoro, campiscono la figura anche tre cose: la penna d’oca levata in aria, la scrivania e la libreria. Oggetti reali, consistenti nella loro funzionalità. La “morale” laica, il verisimile del teatro goldoniano è fatto di cose, di “sostanze”: lavoro, denaro, relazioni, impegno. Centrale, nell’illustrazione, è quel gesto dello scrivere. Ogni sguardo conduce lì, indica la passione della scrittura ma anche il lavoro. La genialità e lo studio. «L’uomo coll’ingegno e con la pazienza fa tutto quello che vuole» (Pasquali, XVI), scrive Goldoni. La penna levata in alto, il calamaio, il testo e l’illustrazione muovono insieme verso il luogo passionale della letterarietà, fatta non soltanto di «genio comico» ma anche di costanza e dello «sfadigar» (la scrivania), di tradizione (la libreria) e «della fretta con cui parecchie volte ho dovuto scrivere». Questo luogo concreto e le sue cose, la camera, il tavolo, la penna, la carta, gli sguardi dei personaggi come spettatori, sembrano avvolgere e suggellare, in un disegno, e rendere, perché no, indimenticabile, la onorata «professione di Scrittor di commedie» dell’Avvocato Goldoni, di un autore, nella sua solitudine e nei suoi travagli, nostro contemporaneo.27
26 Nei «Rami istoriati» è come presente una sorta di “effetto Ventaglio”. Mi riferisco alla commedia (1764) che, secondo la didascalia dettata da Goldoni, a sipario sollevato, offre allo sguardo degli spettatori una scena soltanto da guardare, una sorta di pantomima silenziosa: «Alzata la tenda, tutti restano qualche momento senza parlare, ed agendo come si è detto, per dar tempo all’uditorio di esaminare un poco la scena» (in Opere, VIII, cit., p. 733). 27 Mi si lasci concludere con un’ultima citazione, perché se qui stile sta anche per linea grafica, tratto che lascia sgusciare una significazione, una volontà, ebbene questi piccoli car- toon goldoniani, queste istantanee, azzarderei dire, possono anche suggerire quanto già Jean Starobinski ha osservato a proposito della scrittura autobiografica: «Toute autobiographie – se limitat-elle à une pure narration – est une auto-interpretation. Le style est ici l’indice de la relation entre le scripteur et son propre passé, en meme temps qu’il révèle le projet, orienté vers le futur, d’une manière spécifique de se révéler à altrui» (cfr. J. STAROBINSKI, L’oeil vivant II. La relation critique, Gallimard, Paris 1970, p. 80). 22 EPIFANIO AJELLO
Immagine 1 CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 23
Immagine 2 24 EPIFANIO AJELLO
Immagine 3 CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 25
Immagine 4 26 EPIFANIO AJELLO
Immagine 5 CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 27
Immagine 6 28 EPIFANIO AJELLO
Immagine 7 CARLO GOLDONI, UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI TRA VENEZIA E PARIGI 29
Immagine 8 30 EPIFANIO AJELLO
Immagine 1 Bartolo Anglani
IL CANTIERE INFINITO DELLA «CASA NOVA»1
Ricordando la composizione della Casa nova nella vecchiaia parigina, com’era suo costume, Carlo Goldoni non solo banalizzò e immiserì la sua opera ma ne distorse alcune caratteristiche non secondarie. Innanzitutto ricondusse la genesi della commedia a un aneddoto privato, ricordando che proprio in quell’epoca egli aveva appena finito «de changer de logement» e che, essendo come sempre alla ricerca «des arguments de Comédies», era stato lieto di trovarne uno «dans les embarras» del suo «particulier»: anche se aggiunse, un po’ contraddittoriamente, che non solo dal suo «privato» egli aveva preso l’argomento dell’opera, ma che «la circonstance» gli suggerì il titolo «et l’imagination fit le reste».2 Integrazione troppo debole, questa dell’«imagination», che se fosse stata sviluppata avrebbe forse permesso di sottrarre in parte la commedia alla reductio banalizzante del racconto. Ma il danno era fatto, come si rileva dal commento di Giuseppe Ortolani:
Gran da fare diede al G. nell’autunno del 1760 il cambio di casa: dalla Corte San Zorzi, a San Gallo, dove abitava forse dal ’48, si trasferì in calle delle Ballotte, a San Salvatore. «Son pur stufo ogni zorno aver da far – Col pitor, col murer, col marangon» scriveva, scherzando, a un amico. Da quel modesto avvenimento il nostro autore trasse motivo per un graziosissimo e originalissimo Capitolo veneziano in onore della monaca Cecilia Milesi e per la commedia che s’intitola appunto La Casa nova, recitata la sera dell’11 dicembre di quell’anno e replicata poi undici volte [...]. In un altro Capitolo, composto per nozze in quello stesso dicembre, candidamente confessava: «In tre zorni e in tre notte
1 Della Casa nova non esiste ancora l’edizione critica. Uso il testo edito da Giuseppe Or- tolani in C. GOLDONI, Tutte le opere, vol. VII, Mondadori, Milano 1946, pp. 835-917. Le note di Ortolani sono alle pp. 1397-405. Delle citazioni do l’atto e la scena; mi sembra superfluo indicare anche il numero della pagina. Ortolani pubblica il testo dell’ed. Pasquali (vol. X, 1767). Questo saggio è la trascrizione (riveduta e corretta) di una conversazione tenuta alla Madison University (Wisconsin) nell’aprile 2008 su invito di Stefania Buccini. 2 C. GOLDONI, Mémoires de M. Goldoni pour servir à l’histoire de sa vie et à celle de son théâtre, Introduction et notes par Norbert Jonard, Aubier, Paris 1992, p. 417. 32 BARTOLO ANGLANI
ho butà zo – Anca el mese passà la Casa nova.» Cosa che par invero a noi, tardi nipoti, miracolosa; e che dimostra l’affinità del G. con alcuni grandi maestri del colore, e la mirabile spontaneità del suo genio poetico.3
Se in generale gli scrittori non sono i critici migliori di se stessi, Goldoni batte ogni altro suo collega non solo per l’incapacità di cogliere le ragioni dei suoi capolavori ma soprattutto per la tenacia con cui li riassume in ter- mini banali e casuali. Ortolani, che collegando la commedia ai due Capitoli autobiografici e ricordando i litigi con gli artigiani segue la stessa linea, alla fine non può non ricorrere al ‘miracolo’ per spiegare come da fattori così modesti sia potuta nascere un’opera come la Casa nova. L’influsso negativo del riassuntino goldoniano è così forte da impedire al critico di rilevare una deformazione vistosa della fabula:
La scene s’ouvre par des Tapissiers, des Peintres, des Menuisiers qui travaillent à l’appartement: une Femme-de-charge des nouveaux Locataires vient par ordre de ses Maîtres gronder les Ouvriers qui ne finissent pas; je lui fais dire tout ce que j’avois dit moi-même à mes Ouvriers, et leur mauvaises raisons sont à-peu-près les mêmes qui m’avoient impatienté pendant deux mois.4
Tralasciamo il resto del riassunto, che comunque non offre chiavi di lettura adeguate alla complessità e alla grandezza della commedia, e concentriamoci su questa deformazione. Perché, sì, è vero che alla levata del sipario la dome- stica Lucietta comincia a sgridare gli operai:
Xe debotto do mesi che sè drio a sta gran fabbrica, e no la xe gnancora fenìa? [...] Xe do zorni che no fazzo altro che scoar, che forbir, e costori, siei maledetti, no i fa altro che far polvere e far scoazze. (I.1)
Ma è anche vero che, come chiarisce sùbito il tappezziere Sgualdo, non sono gli operai i responsabili del ritardo, e la colpa è tutta di Anzoletto, il nuovo locatario:
Averessimo fenìo che sarave un pezzo. Ma sior Anzoletto, el vostro patron, ogni zorno el se mua d’opinion. L’ascolta tutti. Chi ghe dise una cossa, chi ghe ne dise un’altra. Ancuo se fa, e doman bisogna desfar. (I.1) Anemo, fioi, vegnì qua tutti, e femo sto bel travaso. Andemo a desfar de là, e po desferemo de qua. (I.4)
3 Commento alle pp. 1397-8 del vol. VII cit. di Tutte le opere. 4 GOLDONI, Mémoires, cit., ibid. IL CANTIERE INFINITO DELLA «CASA NOVA» 33
Sono fuori luogo, dunque, i riferimenti fatti dall’autore alle proprie di- savventure di traslocatore e alle nefandezze degli operai, visto che nella sua commedia i rapporti fra locatario e artigiani sono esattamente rovesciati, e la sola responsabilità di questi ultimi è quella di cedere ogni volta ai cambia- menti imposti da Anzoletto. Lasciamo agli psicoanalisti la fatica di indagare le ragioni inconsce di tale rimozione, o meglio di tale inversione operata dal vecchio Goldoni. A noi basta osservare che, rovesciando questo particolare non secondario, l’autore dimenticava o nascondeva il lato più inquietante della commedia: il leitmotiv del fare e del disfare, del lavoro inutile che riporta ogni cosa al punto di prima (tema che ritroveremo orchestrato con raffinatezza anche maggiore nella trilogia della Villeggiatura). Possibile che Goldoni non si rendesse conto della valenza esplosiva o per lo meno cor- rosiva che tale tema poteva avere nei confronti della ideologia mercantile alla quale egli stesso riteneva di ispirarsi? Possibile che non si accorgesse che quel tema introduceva nella logica della società mercantile e borghe- se – fondata sul fare, sul lavorare, sul produrre, sul continuo procedere in avanti – un nucleo negativo? Purtroppo (o per fortuna) era possibile, poiché una delle caratteristiche del genio goldoniano (come di quello mozartiano) è appunto quella di ignorare o di fingere di ignorare i lati oscuri e inquietanti di se stesso e della sua stessa opera, e di seminare veleni con il sorriso sulle labbra. La critica più recente non ha mancato, come si sa, di scavare sotto l’ottimismo banalizzante dell’autore per rilevare temi e grumi contrastanti con l’immagine solare del buon papà Goldoni. Non sempre, però, questi scavi sono andati nella direzione giusta. I critici che per brevità chiamerò ‘sociologici’, in particolare, hanno ritenuto di intravedere dietro lo schermo della bonomia goldoniana la messa in scena della «crisi» della borghesia (e, in particolare, della borghesia veneziana). Di fronte alle difficoltà del povero Anzoletto, quei critici proclamano che Anzoletto è il simbolo (l’allegoria, la metafora: fate voi) della borghesia in crisi. Purtroppo nel testo non c’è nulla che autorizzi tale conclusione. Che Anzoletto sia incapace, dominato da una «novizza» prepotente e mai «contenta» (ibid.) è vero. Ma che il ragazzo abbia le spalle tanto larghe da poterle caricare di tanta rappresentatività, a me pare assai discutibile. Se Goldoni esagera nella riduzione banalizzante, certi critici esagerano nell’attribuire al testo un valore sociale che esso non ha e non può avere. Con questo non voglio insinuare che il tema della società sia estraneo alla commedia, ma solo affermare che in questo modo esso è mal posto, pri- gioniero com’è dello schematismo vetero-marxista che fa del personaggio il ‘rappresentante’ della classe, dimenticando che l’arte (quando è arte) è sempre rappresentazione di individui e non di ceti o di classi. Anzoletto è infatti un 34 BARTOLO ANGLANI individuo che non possiede i mezzi per realizzare i suoi desideri, o meglio quei desideri che la società gli impone come naturali. Di qui la sua nevrosi. La casa che egli sta cercando di arredare è infatti (sempre secondo Lucietta) una «maledetta casa» (ibid.). Questa immagine risveglia in noi quella della «fottuta villa di Longone» che rattristò la giovinezza di Carlo Emilio Gadda: la casa, figura dell’ordine e della sicurezza «borghese», diventa figura infernale del disordine, dello spreco e della rovina. Ma le analogie verbali non devono indurci a sottovalutare la differenza essenziale secondo cui, mentre in Gadda la crisi individuale e familiare può anche essere vista come metafora della crisi della società e del tramonto di un’epoca, per Goldoni la crisi di Anzoletto è la crisi di un individuo incapace di mettersi all’altezza di una società che non solo non è in crisi ma impartisce ordini perentori e contraddittori agli individui che ne fanno parte. La casa è necessaria all’individuo perché egli possa essere considerato uomo sociale, ma il modello troppo impegnativo che Anzoletto deve realizzare finisce per ridurre ed annullare la socialità dell’individuo medesimo. La casa dove Anzoletto abitava prima era meno imponente (e dunque, borghesemente, meno gratificante) ma era posta in un luogo che agevolava lo scambio umano; mentre la casa nuova (sempre secondo Lucietta) è «una casa sepolta» da dove «no se vede a passar un can». Costretto a cambiar casa per apparire meglio nella società, Anzoletto ha scelto una casa che segrega lui e la sua famiglia in un isolamento irreparabile. Nella casa vecchia «se chiaccolava, se rideva, se contevimo le nostre passion» e si facevano i «pettegolezzi»: «Qua, mi no so, in ste case darente, che zente rustega che ghe staga» (ibid.). Che bel progresso! L’oggetto di questa commedia (come di altre grandi commedie degli ultimi anni veneziani) è dunque non certo la crisi di una intera società ma la crisi di alcuni individui, deboli e fragili di fronte alle pretese contraddittorie della società. Il problema non è dunque di classi, ma di individui. Per i critici so- ciologici, e in particolare per coloro che si potrebbero definire ‘catastrofici’, i poveri borghesi (e soprattutto quelli veneziani) non hanno fatto in tempo ad assaporare le delizie dell’egemonia che già piombano in una crisi tenebrosa. Storicamente falso parlare di borghesia egemonica per la società mercantile di metà Settecento: ma ancora più infondato far precipitare questa borghesia ancora balbettante in una «crisi» totale. Per i registi, poi, tutte queste crisi sono un invito a nozze: ed ecco infatti certe messe in scena illuminate (si fa per dire) da luci basse o più spesso immerse nel buio, ed ecco attori che parlano e gesticolano nevroticamente ed attrici che si aggrappano alle tende come le dive del cinema muto, ecco sapori e odori di disfacimento; ed ecco le malin- conie strazianti di un mondo che va in frantumi... Uno va a teatro credendo IL CANTIERE INFINITO DELLA «CASA NOVA» 35 di vedere Goldoni e, quando gli va bene, è un Cechov rifritto che gli servono. Ai registi inclini a tanto catastrofismo consiglierei di rivedere (e riascoltare) l’ultimo limpidissimo atto della Traviata, in cui il destino di morte di Violetta si consuma mentre nelle vie di Parigi impazza il carnevale. Ma anche registi sensibili, poco inclini a seguire le mode, si impigliano in schemi ideologici che rischiano di rovinare le loro molte intuizioni geniali: e così la messa in scena curata da Luigi Squarzina, all’inizio degli anni Settanta, fu guidata dalla convinzione che quella commedia «disastrosa» fosse dettata dalla «coscienza della inarrestabile decadenza del microcosmo veneziano».5 Eppure, se uno legge e rilegge il testo senza schemi prestabiliti non può non constatare che non vi si trova traccia di crisi sociale, né microcosmica né macrocosmica. Allo spirito del regista (uno dei più cólti e preparati registi teatrali del secolo scorso) non passava per la mente che la «crisi» potesse investire un individuo o una serie di individui sottoposti a un meccanismo sociale perfettamente funzionante. L’ideologia impediva a Squarzina (capace di fare nonostante tutto uno spettacolo bellissimo, al contrario di ciò che perpetrarono e conti- nuano a perpetrare altri meno bravi e geniali) di comprendere che la società entra nell’opera d’arte solo attraverso il destino degli individui, e lo spingeva a pensare che la crisi dell’individuo potesse avere dignità artistica solo se rimandava alla crisi, se non di una società, almeno di una classe. Nel carteg- gio intrattenuto con Mario Baratto, il regista interpretò la commedia nella chiave della mobilità sociale («una classe che è salita e ora vuole conservare e riformare con giudizio ne affronta un’altra che vuole agitare le acque per salire, nel modo sbagliato»), e parlò di «un popolano salito dalla borghesia commerciale» che «fronteggia un rappresentante della borghesia burocratica che vuol salire alla aristocrazia»: finendo per strappare allo stesso Baratto la definizione della «vera “crisi” della borghesia veneziana» come «incapacità a definirsi come classe, a esprimere una cultura e una civiltà che abbia un minimo di capacità totalizzante».6 Non voglio dire che non ci sia «crisi», anche perché senza una qualche crisi
5 L. SQUARZINA, «La Casa nova» [1973], in Da Dioniso a Brecht. Pensiero teatrale e azione scenica, Il Mulino, Bologna 1988, p. 125 e p. 132. 6 Ivi, p. 142 e p. 144. I corsivi sono di Squarzina. D’altra parte, il regista che ha voluto in- novare rispetto alla lettura di Baratto-Squarzina, Massimo Castri, ha indotto la critica a parlare di «frustrazioni di bottegai», insistendo sì sulla luce «livida» della commedia ma sottolineando altresì «il senso di soffocamento, di angustia» di un dialogo dal quale «gronda la miseria, il calcolo, la frustrazione da mancanza di soldi», sì che «il testo sembra il resoconto steso da un ragioniere di banca» (R. ALONGE, «La Casa nova»: frustrazioni di bottegai, in Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Garzanti, Milano 2004, p. 132 e p. 136). O borghesi in crisi, o bottegai frustrati, mai i personaggi sono individui, ma sempre allegorie, fantocci di categorie generali. 36 BARTOLO ANGLANI non esiste conflitto teatrale. Il problema sta nel vedere di quale crisi si tratti. Il povero Anzoletto è «in crisi», ossia sull’orlo del precipizio, perché non paga né il fitto arretrato della casa vecchia né quello della casa nuova. È assediato da una moglie megalomane che si dà arie da gran signora, da ospiti affamati e cinici, da una sorella smaniosa di matrimonio, da operai che pretendono il loro salario: che cosa si vorrebbe di più per parlare di crisi generale, di decli- no e rovina di un’intera società? Peccato che, a mettere «in crisi» lo schema, si presenti lo zio Cristofolo, i cui affari vanno benissimo e che non si trova sull’orlo del precipizio. Nulla, nel testo, autorizza a credere che nel microco- smo veneziano esistano molti altri scriteriati incapaci di pagare il fitto di casa. Fra tanti che in vari modi (dai più onesti ai più criminali) riescono a fare i loro interessi, pare che l’unico fesso sia lui, Anzoletto. Ingenuamente mi chiedo: se tutta la società fosse sull’orlo del burrone, come potrebbe zio Cristofolo passarsela così bene? e perché mai Anzoletto dovrebbe essere più ‘rappre- sentativo’ di suo zio? Che cosa rende Anzoletto «tipico» (per citare il vecchio Lukács) della borghesia del suo tempo, e relega lo zio al rango di eccezione? A ben leggere, nulla: ed anzi, se si legge ancora meglio, ci si accorge che, se vogliamo attribuire a un personaggio dei caratteri di generalità, è proprio a zio Cristofolo che ci tocca pensare. È lui che ‘rappresenta’ non tanto i borghesi veneziani in tutte le loro sfumature sociali e culturali, ma il modello e la logica profonda dell’accumulazione mercantile. Il guaio (per gli ostinati sociologi, non certo per l’estensore di queste pagine) è che, in tale rappresentatività, Cristofolo ‘rappresenta’ anche la negazione dei valori tipicamente borghesi e illuministici della conversazione, del dialogo, della tolleranza, dell’apertura alla modernità. L’unico borghese che non sia in crisi è quello che nega i valori diffusi della civiltà borghese. È una bella contraddizione, che dovrebbe farci passare per sempre la voglia di trovare nelle opere d’arte la nomenclatura e il conflitto delle classi. Il più ‘borghese’ è anche il più antimoderno, il più antilluminista, il più conservatore. Questo accade perché la sensibilità di poeta consente a Goldoni di mettere in scena la contraddittorietà intrinseca alla società mercantile, che può reggersi e continuare ad avere i bilanci in attivo solo quando nega i valori che essa stessa elabora e diffonde creativamente sul piano culturale. Il valore eminentemente borghese della socialità è veleno per la quadratura dei bilanci borghesi. Dunque il contrasto non è fra qualcosa che è borghese e qualcosa che non lo è o che spinge la realtà borghese ad entrare in crisi e dunque ad uscire da se stessa, ma fra pulsioni tutte perfettamente interne al meccanismo della società mercantile. Anzoletto, forse che non è ‘borghese’ anche lui? La sua propensione alla rovina nasce dalla necessità (o da una spinta che egli interpreta come necessità) di adeguarsi alla moda, di IL CANTIERE INFINITO DELLA «CASA NOVA» 37 grandeggiare, di far bella figura, di vestir bene la moglie, di darle una bella casa nuova e così via. E non sono caratteristiche borghesi anche queste? E gli artigiani che vogliono esser pagati, non esprimono anch’essi una delle facce essenziali della società borghese, fondata appunto sullo scambio delle merci e in questo caso della merce-lavoro con il denaro? Non mi si venga a dire, per carità, che le rivendicazioni degli operai esprimono una aurorale coscienza proletaria che addirittura guarda oltre la società borghese e al comunismo, perché tutto ciò che accade nella Casa nova è espressione, manifestazione, epifania della società mercantile. Nessu- no, né gli operai né i nobili, si trova all’esterno di tale logica strutturalmente contraddittoria, e perciò distruttiva degli individui: la distinzione rigida delle classi e al tempo stesso la pulsione a passare da una classe all’altra, o meglio ad ‘apparire’ di una classe diversa rispetto a quella nella quale si è nati; la regola della modestia che tiene le donne sottomesse all’uomo e il desiderio che spinge le donne a guardar oltre; il decoro e il pettegolezzo: insomma ogni singolo meccanismo rimanda alla logica contraddittoria e al tempo stesso implacabile del mondo mercantile. Ma in questo rimando si esprime non già l’organicità, ossia la rispondenza perfetta tra modelli economico-sociali e comportamenti umani, bensì proprio il sistema delle contraddizioni sempre più violente tra di essi. Ogni pulsione è contraddetta da una pulsione uguale e contraria. I personaggi della Casa nova sono infelici, irrequieti, scontenti, tristi, spesso cattivi, non perché vivano in una società in crisi ma anzi perché credono che la sventura di essere infelici tocchi a loro soli mentre intorno tutti se la cavano egregiamente. Anzoletto è in rovina non già perché la so- cietà sia in crisi ma, al contrario, perché essa funziona secondo la sua logica e stritola gli individui che si lasciano traviare dalle passioni e dai desideri che la stessa società ha suscitato in loro. Anche il pettegolezzo, la cui musica Goldoni sa eseguire con maestria infinita, è manifestazione di questo squi- librio fra il dentro e il fuori, tra il desiderio e la realtà. E lo zio Cristofolo, a sua volta, non è esente da contraddizioni, poiché la sua autonomia finanziaria l’ha pagata rinunciando ai valori ugualmente borghesi del matrimonio, dei sentimenti, della paternità. Pensando alla lucidità con cui Goldoni mette in scena questi meccanismi, comprendiamo fino a qual punto la sua visione fosse lontana dall’apologia unidimensionale delle «condizioni» fatta da Diderot nei suoi stentatissimi drammi. In questo mondo, regolato dai «bezzi», tutto ha un prezzo. O ci si adegua al meccanismo, e allora si deve rinunciare alla vita; o si pretende di vivere la vita, e allora ci si avvita in una crisi che può solo illusoriamente essere arrestata da quel lieto fine che Goldoni appiccica alle commedie, ma che non è mai tanto convincente da occultare la fuga di 38 BARTOLO ANGLANI un meccanismo che si riproduce all’infinito. Anzoletto non smetterà mai di vivere al di sopra delle sue capacità; Cecilia riprenderà a indossare i vestiti lussuosi incongrui con la sua condizione sociale; Meneghina resterà sempre con il complesso della sorella tenuta in secondo piano rispetto alla moglie del primogenito e dopo aver sposato Lorenzino comincerà a capire presto che l’amore del giovanotto non era poi tanto spontaneo e disinteressato come lei aveva creduto; il Conte e Fabrizio andranno in cerca di altri borghesi velleitari da pelare; Checca e Rosina vivranno al piano di sopra, nel decoro della loro vita anch’essa borghese, sempre curiose e impicciate dei fatti altrui: e Rosina in particolare sarà sempre più avidamente attratta dalle cose dell’amore fino a che non riuscirà a trovar marito, avviandosi poi anch’essa verso il destino comune a tutte le maritate. La «casa nuova» sarà sempre teatro di scontri, di conflitti, di odî, di gelosie, di curiosità, agitata forse non più da veri e propri traslochi ma da irrequietezze violente e prive di sbocco. Il trasloco possiede un valore simbolico che va oltre l’episodio materiale. Nella società mercantile fondata sul lavoro fattivo, sugli scambi e sulla circolazione delle merci e del denaro, il ‘lavoro’ della casa nuova è inutile: un fare e disfare, un cambiare continuamente sito, un essere sempre scontenti dell’essere senza mai trovare un altro essere e così via. La «crisi» c’è, dunque, ma non è quella crisi di classe immaginata dai critici sociologici, bensì una crisi che coinvolge gli individui nelle loro rela- zioni reciproche e con il sistema. E poi, a pensarci bene, il termine «crisi» è inadeguato a descrivere la condizione di questi personaggi, dal momento che la crisi presuppone uno scioglimento (sia pure in peggio), un mutamento, una catastrofe. Non si può essere sempre in crisi: o si guarisce o si muore. L’esodo della tragedia classica lascia un mondo diverso da quello del prologo. Invece nel mondo della casa nuova niente si distrugge davvero e tutto ricomincia. Il sistema è un meccanismo perfetto e insieme contraddittorio. Genera aspirazio- ni, desideri, voglie, contrastanti. Per questo bisogna dare tutto il peso che gli spetta all’immagine iniziale del tempo circolare che, negando la produttività del lavoro borghese, dà la tonalità e il ritmo alla partitura drammatica. Da un lato, il sistema mercantile si fonda sul progresso, e dunque su un tempo che avanza secondo una linea retta; ma dall’altro genera continuamente la tentazione e il pericolo del tempo circolare che non porta da nessuna parte. Precorrendo di duecento anni l’immagine buñueliana del fascino discreto della borghesia, Goldoni mette in scena la contraddizione fra l’ideologia del progresso e del tempo lineare da una parte, e la realtà del tempo circolare e della stagnazione dall’altra: solo che per lui il tempo circolare e la stagnazione non sono manifestazioni di una fase discendente della società bensì figura del IL CANTIERE INFINITO DELLA «CASA NOVA» 39 suo essere in quanto tale. Buñuel è convinto (a torto o a ragione) che il tempo della borghesia sia agli sgoccioli, mentre Goldoni non vede altro mondo che quello mercantile. Altro che crisi: per lui un mondo che non sia ‘borghese’ è assolutamente inimmaginabile. Aveva certo ragione Mario Baratto nel dire che Goldoni si serve «dei suoi strumenti di analisi e di espressione per rappresentare integralmente il mondo borghese», e soprattutto che nelle ultime grandi com- medie veneziane il suo «scatto vitale» stava nella «totale “assunzione” di un mondo», e che insomma per lui il teatro era divenuto «trascrizione completa del mondo borghese», ma finiva per disperdere il senso della sua intuizione quando aggiungeva che ciò che più stava «a cuore» allo scrittore era «il ceto mercantile»,7 lasciando credere così che lo scopo reale dell’arte goldoniana (al di là delle affermazioni esplicite, che come s’è visto occorre prendere con le molle) fosse quello di analizzare i rapporti fra le classi e non piuttosto quello di inscenare il meccanismo totalitario e contraddittorio della società mercantile medesima rispetto alla fragilità degli individui. In questa logica, il «far e desfar» degli operai non esprime una valenza critica antiborghese, del tutto incongrua rispetto alla mens goldoniana, ma la logica stessa di un mondo governato dai «bezzi», senza i quali «l’orbo no canta»:
ANZOLETTO Sièu maledetto; se no ghe n’ho. SGUALDO E mi come vorla che fazza? ANZOLETTO Doman ghe ne troverò. (I.2)
Il «doman» di Anzoletto non è il ragionevole futuro del mercante laborioso ma il domani indefinito del velleitario, un domani che non giungerà mai e che tuttavia, nella sua distorsione, esprime la stessa logica mercantile che non può funzionare se tutti lavorano, guadagnano e ‘vincono’. Al grande tavolo da gioco della società mercantile, qualcuno deve perdere perché qualcun altro vinca. E comunque, quand’anche tutti i giocatori perdessero, il banco vincerebbe sempre. È necessario che gli Anzoletti commettano delle sciocchezze, perché i Cristofoli accumulino i loro capitali. Se non c’è spreco da una parte non può esserci risparmio dall’altra. Se per un verso Goldoni ha fondato la sua riforma teatrale sull’apologia del mercante onesto che attraverso lo scambio realizza onesti profitti ed elabora valori di buon senso e di moderazione, per un altro verso nella pratica concreta del teatro non ha mancato di approfondire la doppia faccia del mondo mercantile in cui il ruolo degli imbroglioni, degli avventurieri, dei ciarlatani e degli sciocchi, degli ingenui, dei giocatori, dei
7 M. BARATTO, «Mondo» e «teatro» nella poetica del Goldoni, in Tre studi sul teatro (Ruzante, Aretino, Goldoni), Neri Pozza, Venezia 1964, p, 221. I corsivi sono dell’autore. 40 BARTOLO ANGLANI bugiardi è quello di contribuire al funzionamento del sistema, anche se con le ultime commedie veneziane la visione goldoniana si allontana dagli schemi abbastanza semplici degli anni Cinquanta e si fa più sottile e più ambigua. La parte dei ciarlatani e degli imbroglioni, per esempio, è trattata in maniera molto diversa rispetto a quella svolta da personaggi di questo tipo nelle commedie degli esordi e del decennio precedente (come si può vedere analizzando la figura di Ferdinando nella Trilogia). Il mondo mercantile appare ormai chiu- so, totalitario, insuperabile, e al tempo stesso articolato su contraddizioni sempre più laceranti. Se si riduce questo mondo alla dialettica delle classi, distinguendo tra personaggi borghesi, nobili, proletari, operai eccetera, si perde di vista il valore totalitario di quel mondo in cui tutti sono ‘borghesi’ perché tutti sono parti di un meccanismo che ripete incessantemente se stes- so. Se il fine di Goldoni fosse quello di ricostruire sulla scena i conflitti tra le classi, noi assisteremmo a processi progressivi, capaci di condurre le vicende oltre il punto di partenza (come avrebbe voluto il Diderot teorico del drame bourgeois); oppure a processi regressivi e nostalgici (come avveniva nel teatro di Carlo Gozzi). Invece nel mondo goldoniano tutti i contrasti riconducono al punto di partenza e gli scioglimenti son sempre affrettati ed illusori. Esi- stono infatti due tempi paralleli destinati a non incontrarsi: il tempo lineare e progressivo, per il quale dopo l’oggi viene il domani, e quello circolare per il quale domani è un tempo mitico privo di identità. Ma il tempo lineare e progressivo non può essere rappresentato: esiste come pietra di paragone, è un luogo ideologico e morale ma non è (come potremmo dire parafrasando Alfieri) ‘commediabile’. Sta sullo sfondo ed ha il solo scopo di far risaltare il tempo immobile che è il solo entro il quale, paradossalmente, le storie possano prender forma e svolgersi. La «casa nuova» di Anzoletto è collocata in un luogo che non è luogo, in un tempo che non è tempo. Tempo sospeso, vita sospesa: e infatti «la roba» sta mezza nella casa vecchia e mezza nella casa nuova, come osserva con la sua consueta lucidità (nomen omen?) Lucietta («Anca la biancheria da tola xe in casa vecchia»), introducendo altresì il tema della follia («el pan dei matti xe el primo magnà») (I.2) che accomuna anch’esso la Casa nova alle altre grandi commedie di quegli anni. Anzoletto non è una figura sociale, o meglio è un personaggio che indossa le vesti sociali per dare forma alle sue ossessioni e alle sue pulsioni. La sua caratteristica principale è quella di non avere una vera personalità, di non essere un «io» ma una funzione subalterna ai desideri e alle influenze altrui. Il fare e disfare che egli imprime al lavoro della casa non è dettato da convin- zioni certe e sicure ma dalla propensione a cedere alle volontà altrui. L’ultimo arrivato ha sempre ragione: «Aponto, me l’ha dito dei altri», risponde alle IL CANTIERE INFINITO DELLA «CASA NOVA» 41 sollecitazioni di Sgualdo su come sistemare lo «specchio» e «la tapezzaria colle so soazette d’oro» (I.3). Com’è lontano il Truffaldino che nel Servitore disponeva con «abilità» i cibi sulla tavola! Quando egli esclama: «Mi posso far quel che voggio mi. Son paron de casa; nissun me comanda» (I.6), si sente benissimo che la verità è proprio l’opposto. Al precipizio, sempre per bocca della lucidissima Lucietta, egli è stato spinto dalla «boria», dal «mal- governo», dal bisogno di «secondar quella cara zoggia de so muggier» (III.1). Lo ribadisce lo zio Cristofolo, il quale come una specie di Dio-mercante sa tutto: «So tutto. Crédela che no sappia tutto? So tutto», e sa soprattutto che «dopo che l’ha scomenzà a praticar in quella maledetta casa» il nipote «nol xe stà più elo» (III.3). Mentre negli altri personaggi serpeggia una fortissima voglia di «spionar», di indagare, di conoscere i dettagli delle vite degli altri, egli sa tutto senza muoversi. Ma, di fronte all’apparire improvviso del nipote scapestrato, non vuol sapere più nulla: «no so gnente, no vôi far gnente, no ghe ne voggio saver» (III.4). L’analisi completa del testo, che per mancanza di spazio non posso fare, mostrerebbe però che La Casa nova, a dispetto di ciò che si potrebbe inferire da ciò che ho detto fin qui, non è una tragedia né un dramma ma una com- media, divertente e godibilissima. Per questo Goldoni è grande: alla fin dei conti finisce per aver ragione lui nello sdrammatizzare i suoi drammi; e male farebbe il regista che mettesse in scena l’opera facendo pesare sugli spettatori il retroscena che in queste pagine ho tentato di schematizzare, cancellando le mille sfumature di una partitura musicale di altissima qualità. Ma d’altra parte, procedere senza tenere sott’occhio questa realtà strutturale significhe- rebbe tradire il testo (e le intenzioni reali dell’autore) in modi irrimediabili. Dal momento però che il mio mestiere non è quello di regista, mi limito qui a sollevare il sipario sul cantiere infinito della Casa nova. Per il resto, caveant consules. Giuliano Zuliani, La Banca rotta ossia Il mercante fallito, Atto I, scena XI (Commedie buffe in prosa del sig. Carlo Goldoni, Venezia, Zatta, 1791, tomo ottavo) (Venezia, Casa di Goldoni – Biblioteca)
Giuliano Zuliani, L’amore paterno o sia La serva riconoscente, Atto I, scena VI (Commedie buffe in prosa del sig. Carlo Goldoni, Venezia, Zatta, 1790, tomo Secondo) (Venezia, Casa di Goldoni – Biblioteca) Michele Bianco
IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI
1. Premessa La vecchia commedia d’intreccio, improvvisata, dell’arte – diffusa in Europa nel Seicento1 – s’era in seguito logorata ed era pervenuta a motivi volgari, a sguaiataggini plebee e buffonesche (con tanto di frizzi e lazzi), a intrighi e a sorprese inverosimili e paradossali. Dopo i tentativi di Girolamo Gigli, di Jacopo Angelo Nelli e di G.B. Fagiuoli, il veneziano Carlo Goldoni,2 senza l’ausilio di poetiche o di trattati, vivendo nel e per il teatro, seppe ap- prendere l’inimitabile e squisita arte comica nella quale fissò i princìpi della sua riforma. Si propose di sostituire ai melodrammi svenevoli e strampalati e alle sgangherate Commedie dell’Arte un tipo di commedia nuova, in guisa di
1 Per l’approfondimento del teatro comico italiano prima di Carlo Goldoni si rinvia a I. CIAMPI, La Commedia Italiana. Studi storici, estetici e biografici, Galeati in Imola Editore, Roma 1880, soprattutto alle pp. 113-114. L’autore esamina, dianzi (pp. 3-50) le rappresentazioni sacre nel Medioevo in Italia, considerate nel loro aspetto comico, e la Commedia italiana nel Cinquecento (pp. 51-112). All’arte comica goldoniana dedica, invece, le pp. 155-306. 2 Le commedie scelte a campione risultano così siglate nelle citazioni: BTG/CFF = La Bottega del Caffè (1750); CAV/DAM = Il Cavaliere e la Dama (1752); LA/LOC = La Locandiera (1753); CVL/SPR = Il Cavaliere di Spirito (1755); BRB/BNF = Il Burbero Benefico (1771); e sono state citate da C. GOLDONI Commedie scelte vol. 2°, 6a ediz., Sonzogno, Milano 1897, tranne che CAV/DAM, tratta invece, da G. PETRONIO, Il cavaliere e la dama di Carlo Goldoni, www.liberliber.it, Rizzoli, Milano 1958; nelle citazioni il primo numero (ordinale) rimanda all’atto; il secondo (romano) alla scena ed il terzo (arabo) alla pagina dei libri menzionati. Delle edizioni moderne delle opere di Goldoni, v. C. GOLDONI, Opere, con appendice del teatro comico nel Settecento, a c. di F. ZAMPIERI, Ricciardi, Milano – Napoli 1954; ID., Commedie, a c. di N. MANGINI, Utet, Torino 1971; ID., Tutte le opere, a c. di G. ORTOLANI, Mondadori, Milano 1935 e ss. Delle Mémoires de Monsieur Goldoni pour servir à l’histoire de sa vie et à celle de son théâtre, si veda l’edizione – con prefazione e note – a c. di G. MAZZONI, Barbera, Firenze 1907, e quella più recente, Memorie, a c. di F. PORTINARI, con ottima traduzione, Garzanti, Milano 1993. L’Autore curò le edizioni Bettinelli (poi accantonata), Venezia 1750-1755, Pitteri, Venezia 1757-1763, G. B. Pasquali, Venezia 1761-1768 e Zatta, Venezia 1788-1795. Per quanto concerne la prefazione del Goldoni alle sue Commedie si veda, nella citata edizione veneziana Bettinelli del 1750, la Prefazione dell’Autore alla prima raccolta delle Commedie, in «Storia del mio teatro», a c. di E. AJELLO, Rizzoli, Milano 1993. 44 MICHELE BIANCO quelle di Plauto, di Terenzio e Molière; ma non li imitò passivamente, bensì attinse la materia dalla diretta osservazione della natura e si rifece alle vicis- situdini quotidiane purché fossero veritiere e sincere. E, così, la Commedia dell’Arte, ad opera del Nostro, si trasformava in commedia di carattere, nella quale, su una semplice trama, sono rappresentate concrete vicende umane e introdotti sentimenti e affetti di personaggi ben individuati e delineati; o in quella d’ambiente, in cui la spiaggia marina o lagunare, il canale, il ponte, la calle, l’osteria, la bottega, la piazzetta, il campiello, ecc. – dipinti al naturale – generano, guidano, coloriscono l’azione, le scene e i personaggi. Ma lo scrittore procedette nella riforma gradualmente e con prudenza, per l’opposizione del pubblico, degli attori, dei commediografi e dei critici del tempo, tra cui ricordiamo l’abate Chiari, Carlo Gozzi, il Baretti; e fu per questa ragione che sostituì progressivamente la commedia scritta ai canovacci e, molte volte, conservò anche le maschere. Goldoni seguì la tradizione tea- trale semplicemente nella parte esteriore dei suoi lavori, nella sceneggiatura. E riguardo all’elaborazione delle commedie, egli dice:
Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno, qualunque ei si sia, di miglior senso, col mezzo di un assiduo metodico studio sull’opere o precettive o esemplari in questo genere de’ migliori antichi e recenti scrittori e poeti, o greci, o latini, o francesi, o italiani, o d’altre egualmente colte nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e cele- bri autori, da’ quali, come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempi: con tutto ciò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro.3
Egli perciò «fissando la vetta della verità e della ragione» si lascia guidare dalla natura e s’ispira alle sue stesse vicende, a persone vedute, ad aneddoti veri; e nel portare direttamente sul palcoscenico i casi della vita, così come li ha còlti nella realtà, li rappresenta con discrezione dopo averli trasfigurati con la fantasia – ma senza alterarli nella loro sostanza – in modo che possano riuscire decorosi, umani e piacevoli. Rifugge, perciò, dalle violente passioni e dalle oscenità, e si compiace di presentarci uomini virtuosi nell’atto di ricevere premi. In ogni avvenimento lieto o triste, egli è sempre autore comico,4 ma la sua comicità presenta un innegabile aspetto realistico, anche
3 C. GOLDONI, Prefazione alle Commedie, in Opere (ed. cit. di Zampieri), p. 191. 4 La bibliografia goldoniana è amplissima e s’accresce quotidianamente vieppiù: per il presente saggio mi sono attenuto ad una lectura per verba delle opere del commediografo, lasciandomi solo in parte suggestionare da I. CIAMPI, La Commedia Italiana, cit.; A. D’ANCONA, Origini del teatro in Italia, Le Monnier, Firenze 1877; O. MARCHINI - CAPASSO, Goldoni e la Commedia dell’arte, Perrella, Napoli 19122; I. SANESI, La Commedia, Vallardi, Milano 19544; A. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 45 quando della vita vede il lato gaio e festoso, né tenta di modificarla secondo una sua concezione. Riguardo al carattere sociale pone accanto al vecchio il mondo nuovo, persuaso che le classi privilegiate non abbiano più ragione di primeggiare. Ma, pur sentendo simpatie per i mercanti e gli umili, non rende questi ultimi protagonisti della storia, come farà il Manzoni, e cerca di limitare le antitesi esistenti tra la società decadente e la nuova emergente, risolvendo- le con un dialogo divertente tra vecchi e giovani e guardando con sorriso benevolo le loro piccole vicende, i loro contrasti, con la certezza del lieto fine. In genere, il Goldoni porta sulla scena gli avvenimenti della vita quoti- diana della mediocre società popolare o borghese, le debolezze, le passioni, il carattere, la mentalità dei contemporanei, le conversazioni del vicinato, i pettegolezzi del caffè o del salotto, i piccoli dissidi della vita familiare, i vecchi che la pensano all’antica, i pregiudizi delle classi aristocratiche, e via enumerando. La commedia del Veneziano è un grande documento della vita settecentesca: ci passano davanti agli occhi i rappresentanti di tutti gli ordini sociali, nobili, servi, paggi, parassiti, cicisbei, cerusici, notai, mercanti, poeti, impresari, cantanti, ballerini, bravi, soldati, gondolieri, pescatori, serve, ecc.; tutti tipi portati dalla vita sulla scena con il colore dell’ambiente a cui appartengono e col sorriso non sguaiato, ma temperato e spesso ma- lizioso. Il commediografo non è un pensatore profondo come Molière (o forse sceglie di non esserlo, a motivo della tipologia della sua commedia), ma rivela singolare abilità nel disporre gli atti e le scene e naturalezza nei trapassi narrativi; non cura le tre unità, specie quella di luogo; non è ligio alla lingua toscana e spesso la sua prosa è impropria e tende ai modi dialettali. «Quanto alla lingua ho creduto – egli scrive – di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle città lombarde dovevano rappresentarsi le mie commedie. Ad alcuni idiotismi veneziani, ed a quelle di esse che ho scritto apposta per Venezia mia patria, sarò in necessità di
MOMIGLIANO, La comicità e l’ilarità del Goldoni, in «Giornale storico della letteratura italiana» (LXI), 1913; E. RHO, La missione teatrale di Carlo Goldoni. Storia del teatro goldoniano, Laterza, Bari 1936; E. DE TROJA, Goldoni, la scrittura, le forme, Bulzoni, Roma 1997; E. AJELLO, Carlo Goldoni. L’esattezza e lo sguardo, Edisud, Salerno 2001; G. FOLENA, Il linguaggio di Goldoni in Il teatro di Goldoni, a c. di M. PIERRI, il Mulino, Bologna 1993; M. BARATTO, La letteratura teatrale del Settecento in Italia. Studi e letture su Carlo Goldoni, Neri Pozza, Vicenza 1985. Per un approccio esaustivo alle più recenti bibliografie goldoniane si rinvia a N. MANGINI, Bibliografia goldoniana (1978-1987), Istituto per la collaborazione culturale, Venezia – Roma 1987, che integra A. DELLA TORRE, Saggio di una bibliografia delle opere intorno a Carlo Goldoni (1793-1907), Alfani e Venturi, Firenze 1908. 46 MICHELE BIANCO aggiungere qualche noterella, per far sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica».5 Egli rivendica, perciò, a sé stesso di non essere un accademico della Crusca, ma un poeta comico che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lombardia e a Venezia, principalmente. Scrive anche in francese e in dialetto veneziano, che non usa nella rozzezza plebea, ma in periodi scorrevoli, vivaci, veloci, armoniosi; e la maggior parte delle sue commedie sono in prosa, solo poche in versi martelliani. «Lo stile poi l’ho voluto qual si conviene alla commedia, vale a dire semplice, naturale, non accademico o elevato. Questa è la grand’arte del comico poeta, di attaccarsi in tutto alla natura, e non iscostarsene giammai».6 Dei duecentocinquanta lavori, che costituiscono il teatro del Goldoni, diversi per argomento, forma e pregio, solo venticinque o trenta sono oggi letti dai più. Volendo semplificare e far sintesi, il teatro goldoniano si può dividere in quattro tipi: commedie d’intreccio, comprendenti quelle anteriori al 1748, anno della riforma, oltre alle commedie scritte a Parigi, tra cui il Ventaglio; commedie romanzesche/ esotiche, con temi sentimentali e lacrimosi, come la Pamela nubile (e forse sono le meno riuscite); commedie istoriche, come il Molière, il Tasso, il Te- renzio, in cui la storia non è ricostruita, ma serve di contorno, quasi a mo’ di Sitz im Leben; commedie di carattere e di costume, le più importanti, tra cui troviamo i veri capolavori del poeta, come la Bottega del caffè, il Campiello, le Baruffe Chiozzotte, le commedie della Villeggiatura, il Sior Todero Brontolon, la Locandiera e i Rusteghi. Il presente saggio naturalmente non ha la pretesa di indagare l’intero teatro galdoniano; ma, pur nella consapevolezza del carattere affatto zetetico d’ogni ricerca, tenterà d’esaminare il realismo del commediografo nella sua dimensione sociale, economica ed espressiva, per cogliere l’aspetto fondamentale della sua riforma, stabilendo anche qualche confronto letterario al fine di ottenere un quadro più esaustivo.
2. Il matrimonio Non possiamo pronunciarci sul matrimonio di Angelica con Valerio, preannunciato nella commedia Il Burbero Benefico, ma non celebrato nelle sequenze narrative del dramma, né su quelli sedimentati della commedia La Bottega del Caffè, dove sia Placida con Flaminio, che Vittoria con Eugenio sono presentate con un legame nuziale già contratto con i rispettivi uomini, in epoca precedente all’azione drammatica che si svolge nelle vicende rap- presentate nella commedia.
5 C. GOLDONI, Prefazione alle Commedie, ed. Zampieri, cit., p. 195. 6 Ibid. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 47
Ma, per quanto riguarda le nozze di Donna Florida e di Mirandolina, sappiamo che la prima con Don Flavio e la seconda col cameriere Fabrizio, celebrano matrimoni nel corso delle sequenze narrative delle due commedie: ne Il Cavaliere di Spirito, la prima e ne La Locandiera, la seconda. Ecco come si svolge il rito nuziale di Donna Florida: il [conte Roberto] prende ad entrambi le mani e le unisce (in didascalia), poi proclama, sempre il medesimo conte: «Eccovi destra a destra, ecco il nuziale innesto./ Siete sposati al fine, è spento ogni timore».7 Relativamente più snello si rivela, poi, lo sposalizio di Mirandolina: «Gra- zie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo»;8 e semplicemente subito dopo: «Fabrizio, vieni qui, caro, dammi la mano» .9 Come risulta, si tratta di matrimoni laici, contratti alla presenza di testi- moni: il conte Roberto per il primo; il conte d’Albafiorita, il marchese di Forlipopoli ed il cavaliere di Ripafratta per il secondo, senza un rito religioso, né in chiesa. A prescindere, in ogni caso, dal tipo di rito nuziale, se laico o religioso, una cosa è certa, e cioè che in genere nella classe aristocratica i matrimoni sono combinati, mentre in quella borghese essi sono emancipati. Cioè, i contraenti le nozze, tra i nobili non esprimono esplicito consenso, ma accettano il partito loro imposto dai grandi; tra i borghesi, invece, è necessario che essi manifestino liberamente la propria volontà a legarsi in un rapporto coniugale. Ne Il Burbero Benefico è, per esempio, il nobile Geronte che decide. Infatti GERONTE: «Venite qui. Vorreste maritarvi?»; «Io penserò a trovarvi un marito»10 e dispone della ragazza, anche contro il parere del fratello; infatti ANGELICA rivela: «Mio fratello»; «Vorrebbe chiudermi in un ritiro»11 e il fratello DALANCOUR: «[Mia sorella] la marita mio zio [Geronte]»,12 il quale zio, come osserva MADAMA: «[vostro zio] Vi ha chiesto il vostro consenso?»,13 «...vostro zio non vi ha detto nulla».14 Lo stesso zio Geronte rivela, allora, il partito che lui stesso ha concepito per la nipote Angelica: «[...] sua sorella [Angelica] sola m’interessa, ella sola
7 CVL/SPR, 5°, VI, 118. 8 LA LOC., 3°, XVIII, 65. 9 LA LOC., 3°, XIX, 65. 10 BRB/BNF, 1°, VIII, 251. 11 BRB/BNF, 1°, VIII, 250. 12 BRB/BNF, 2°, IX, 266. 13 BRB/BNF, 2°, IX, 266. 14 BRB/BNF, 2°, IX, 267. 48 MICHELE BIANCO merita la mia tenerezza, i miei benefizj... Dorval è mio amico, Dorval la spo- serà; io le darò la dote, le donerò tutte le mie facoltà».15 Nella classe borghese questo non avviene. Mirandolina, per esempio, è lei che prende l’iniziativa, perché è convinta che il matrimonio sia una preroga- tiva personale, per di più da lasciare in gestione alla componente femminile. Annuncia, perciò, MIRANDOLINA: «Sì, caro Fabrizio, a voi, in presenza di questi Cavalieri, vo’ dar la mano di sposa»,16 e però, dichiara sempre MI- RANDOLINA: «Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo».17 Non avvengono imposizioni neppure nel caso di Dorval, il quale condiziona il matrimonio al consenso personale della ragazza, anche se lo zio gliela ha già decisamente proposta. Infatti precisa DORVAL: «Volete ch’io l’accetti?»; «Eb- bene, io l’accetto», «Ma, a condizione...» «Che Angelica v’acconsentir».18 Caratteristica aristocratica è, poi, quella di considerare il matrimonio legato alla dote. Infatti esclama GERONTE: «Sì, darvi una figlia saggia, one- sta, virtuosa, con cento mila scudi di dote e cento mila lire di regalo alle sue nozze; forse vi fo un affronto?»;19 ed ancora: «Io mariterò mia nipote senza dote? Non sarò forse in istato di formarle la dote? [...] Sì, egli avrà la dote, e le cento mila lire che ho promesse ad Angelica».20 Svincolare, invece, il matrimonio dal corredo finanziario della dote è precipua prerogativa della classe borghese. Infatti la prima a disgiungere le nozze dalla dote è la stessa MIRANDOLINA: «Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo».21 In secondo luogo occorre menzionare la giovane coppia Valerio-Angelica, in cui VALERIO prima rassicura l’innamorata con queste parole: «Calma- tevi, mia cara Angelica; l’interesse non formerà giammai un ostacolo [alle nozze]...»,22 e poi in seguito proclama: «Sì; voglio parlare con tutti [...] Amo Angelica; vengo ad offrirgli di sposarla senza dote, e dividere seco lei il mio stato e la mia fortuna»,23 il quale programma viene confermato più tardi pure
15 BRB/BNF, 3°, VI, 281. 16 LA LOC., 3°, XVIII, 65. 17 LA LOC., 3°, XVIII, 65. 18 BRB/BNF, 2°, I, 263. 19 BRB/BNF, 2°, I, 263. 20 BRB/BNF, 3°, X, 284. 21 LA LOC., 3°, XVIII, 65. 22 BRB/BNF, 1°, I, 247. 23 BRB/BNF, 2°, XV, 270. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 49 da DORVAL: «Voi conoscete Valerio; egli [...] è venuto ad offrire [...] la sua mano ad Angelica. Egli l’ama, è pronto a sposarla senza dote, e ad assicurarle una contraddote di dodici mila lire di rendita».24 Valerio, dunque, emargina l’interesse dal legame sentimentale, conferman- do di offrire gratuitamente il proprio amore ad Angelica.
3. La considerazione femminile La donna da parte dei nobili è oggetto di contesa, pure armata, sia ne La Locandiera, come risulta dalle seguenti battute del CAVALIERE: «Datemi quella spada»; «Lasciatemi provveder d’una spada»; «Ho cuore di farvi fronte anche con questo pezzo di lama»; «Sì, con questa lama! [e s’avventa]»,25 sia ne Il Cavalier di Spirito, dove il pretendente è sempre pronto al duello con i rivali; per esempio DON FLAVIO minaccia: «Né di sottrar pensate la vita alla mia spada»; «Di vendicar mi accingo la sua riputazione / [...] / Ne pagherete il fio col sangue e colla morte»,26 ed ancora: «Ma chi ardirà sposarvi, morrà per le mie mani».27 Ne La Bottega del Caffè addirittura il conte Leandro, vedendo la moglie Placida, da lei sorpreso, mostra di volerla uccidere: CONTE LEANDRO: «Li- berate il passo. Voglio entrare in quella locanda [dove è rifugiata Placida]»,28 dopo averla inseguita con la spada. Ne Il Burbero Benefico è, poi, il nobile Geronte che decide. Infatti GERON- TE: «Venite qui. Vorreste maritarvi?»; «Io penserò a trovarvi un marito»29 e dispone della ragazza, anche contro il parere del fratello; invero ANGE- LICA rivela: «Mio fratello»; «Vorrebbe chiudermi in un ritiro»30 e il fratello DALANCOUR: «[Mia sorella] la marita mio zio [Geronte]»,31 il quale zio, come osserva MADAMA: «[vostro zio] Vi ha chiesto il vostro consenso?»,32 «...vostro zio non vi ha detto nulla».33 Nella società borghese la donna riscuote maggiore considerazione. Per esempio DALANCOUR loda la moglie: «Mia moglie, signore?... Ah, voi non la conoscete; tutto il mondo s’inganna sopra di lei, e, mio zio, il primo di tutti.
24 BRB/BNF, 3°, X, 284. 25 LA LOC., 3°, XVII, 63. 26 CVL/SPR, 2°, III, 85. 27 CVL/SPR, 4°, IX, 110. 28 BTG/CFF, 2°, XXIII, 223. 29 BRB/BNF, 1°, VIII, 251. 30 BRB/BNF, 1°, VIII, 250. 31 BRB/BNF, 2°, IX, 266. 32 BRB/BNF, 2°, IX, 266. 33 BRB/BNF, 2°, IX, 267. 50 MICHELE BIANCO
Fa d’uopo ch’io le renda giustizia»,34 giustificandola: «...ella m’ha creduto più ricco che non lo era», «[ma]... s’ella avesse saputo il mio stato, sarebbe stata la prima a proibirmi le spese che ho fatte per lei»;35 pertanto: «...non soffrirò mai che le si diano dei torti, cui non ha»,36 così come EUGENIO apprezza l’operato della moglie: «Mia moglie, povera disgraziata, che mai dirà? [...] Vedo [...] che se facessi a modo di mia moglie, le faccende di casa mia andrebbero meglio. Bisogna poi risolversi, e metter giudizio. Oh quante volte ho detto così».37 La donna borghese, inoltre, è lei che prende l’iniziativa. Ne La Locandiera MIRANDOLINA si rivolge all’uomo, dicendo: «Fabrizio, vien qui, caro, dammi la mano»38 e poi rivela: «Era fanciulla, non aveva nessuno che mi comandasse. Quando sarò maritata, so io quel che farò».39 E le due mogli ne La Bottega del Caffé sono loro che vanno in cerca dei mariti. In realtà VITTORIA: «Signor Don Marzio», «avreste voi veduto mio marito?»;40 «Mi sapreste dire dove presentemente egli sia?»;41 «Da quando in qua?»; «Dubitava che gli fosse accaduta qualche disgrazia».42 Così anche PLACIDA: «Sono arrivata in questo punto a Venezia», «A vedere se trovo quel disgraziato di mio marito»;43 «Mio marito mi ha abbandonata»; «Era scritturale di un mercante»; «[È] Piemontese»;44 ed ancora PLACIDA: «... voglio ritrovare quell’indegno di mio marito»; «...ditemi dove si trova quel traditore»; «...V.S. sa qualche cosa di mio marito?».45 Una signora borghese è, poi, lei che si interessa degli affari, pure finanziari, di famiglia. Per esempio MADAMA: «...il fratello di Angelica lo siete voi. La dote è fra le vostre mani, il più od il meno dipende soltanto da voi»;46 «Bisogno di lui! Noi? Come? Non abbiamo noi del nostro quanto basta per vivere con decoro? Voi non fate disordini. Io sono ragionevole... Continuiamo con la medesima moderazione, e non avremo bisogno di nessuno».47
34 BRB/BNF, 1°, XII, 253. 35 BRB/BNF, 1°, XII, 253. 36 BRB/BNF, 1°, XII, 254. 37 BTG/CFF, 1°, XII, 194. 38 LA LOC., 3°, XIX, 65. 39 LA LOC., 3°, XIX, 66. 40 BTG/CFF, 1°, XVII, 199. 41 BTG/CFF, 1°, XVII, 199. 42 BTG/CFF, 1°, XVII, 200. 43 BTG/CFF, 1°, XIV, 197. 44 BTG/CFF, 1°, XIV, 197. 45 BTG/CFF, 3°, III, 229. 46 BRB/BNF, 1°, XVI, 258. 47 BRB/BNF, 1°, XVI, 257. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 51
Parimenti ella si impensierisce per i rovesci economici del marito. Sempre MADAMA, infatti, esclama disorientata: «Che lessi!...Che intesi!... Mio marito... indebitato... in pericolo di perdere la libertà!... Ma come mai è possibile?... Egli non giuoca. Egli non ha cattive pratiche. Egli non è amante d’un lusso eccedente...».48 Ella, ancora, vuole entrare in merito alle sue questioni patrimoniali, come VITTORIA: «Spero che [mio marito] non sia in istato di andar in rovina»;49 «Vi prego dirmi che cosa ha impegnato. Può essere che io non lo sappia»; «Mi volete dire che cosa ha impegnato?».50 A buon diritto, inoltre, una moglie borghese rivendica la sua proprietà, alla stessa maniera di VITTORIA: «... mio padre... saprà farsi render ra- gione... della mia dote»; «... impegnare la roba mia; prendermi un pajo di orecchini...?»;51 «uno di questi giorni sarete rovinato del tutto; ed io, prima che ciò succeda, voglio assicurarmi della mia dote».52 La donna borghese, infine, nelle commedie goldoniane è una femminista ante litteram, perché persegue la propria emancipazione. Emblematica è la battuta di MIRANDOLINA: «La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno»;53 prerogative, queste, confermate peraltro in seguito dalla stessa MIRANDOLINA: «Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non sono bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà».54 Con una punta di narcisistica autostima, sempre MIRANDOLINA intavola un apprezzamento manifesto del sesso femminile: «...voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi [donne], che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura»,55 più o meno in guisa di DONNA FLORIDA: «Vo’ in me, che si sostenga l’onor del nostro sesso»,56 solo che in questa commedia
48 BRB/BNF, 2°, XII, 268-269. 49 BTG/CFF, 1°, XVII, 200. 50 BTG/CFF, 1°, XVII, 200. 51 BTG/CFF, 1°, XX, 202. 52 BTG/CFF, 1°, XX, 203. 53 LA LOC., 1°, IX, 14. 54 LA LOC., 1°, XV, 19. 55 LA LOC., 1°, IX, 14. 56 CVL/SPR, 4°, IX, 111. 52 MICHELE BIANCO l’espressione è resa in chiave polemica, perché si tratta semplicemente di un puntiglio nobiliare, come conferma la stessa DONNA FLORIDA: «Ma no, ch’esser non voglio a ceder la prima».57
4. Il valore del denaro La ricchezza dei nobili è generalmente consistente in beni immobili, quali per esempio terre e castelli, ma se si tratta di capitale mobile come il denaro, allora bisogna saperlo conservare senza perderlo. L’idea dell’investimento finanziario, cara ai borghesi, è qui del tutto assente. Da questo punto di vista si comprende il rimprovero di DORVAL per Dalancour, che ha dilapidato il patrimonio: «Come avete fatto a rovinarvi in sì poco tempo? Sono quattr’anni soli dacché è morto vostro padre; vi ha lasciata una facoltà considerabile, e dicesi che voi l’abbiate tutta consumata».58 Condannabile è, dunque, chi non sa conservare il capitale finanziario, ma sciupa il denaro, contraendo debito, come Dalancour, rimproverato pure dallo zio GERONTE: «Sciagurato!... meriteresti… Alzati, traditore, io pagherò i tuoi debiti, e ti porrò forse per tal guisa in istato di farne degli altri».59 I nobili si arroccano, pertanto, sul congelamento del capitale, come rivela GERONTE: «Per la dote, mio fratello ha avuto la debolezza di lasciarla fra le mani di suo figlio; […] la dote non può perire, e in ogni caso io me ne fo mallevadore»60 e VITTORIA: «... mio padre... saprà farsi render ragione... della mia dote»; «... impegnare la roba mia...?»;61 «voglio assicurarmi della mia dote».62 Di conseguenza, il ricco responsabile trema di timore, se perde il capitale, alla maniera di EUGENIO: «S’ella mi porta via la dote, son rovinato»63 e DALANCOUR: «Per la dote, vi è noto attualmente il mio stato [fallimentare]».64 Occorre, pertanto, ringraziare la buona sorte, se per fortuna giunge inaspet- tato un sussidio esterno, che cava d’imbarazzo l’aristocratico DALANCOUR: «Ecco un legame, cui dovrò la mia felicità. Io ne aveva il più grande bisogno. Sono stato a casa del mio procuratore, e non l’ho trovato»;65 qualcuno, infat-
57 CVL/SPR, 4°, IX, 111. 58 BRB/BNF, 1°, XII, 254. 59 BRB/BNF, 3°, VII, 281. 60 BRB/BNF, 2°, XVIII, 273. 61 BTG/CFF, 1°, XX, 202. 62 BTG/CFF, 1°, XX, 203. 63 BTG/CFF, 1°, XX, 203. 64 BRB/BNF, 2°, VII, 265. 65 BRB/BNF, 2°, VII, 265. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 53 ti, bravo ed interessato, come VALERIO: «ritorno in questo momento dal procuratore del signor Dalancour; io gli ho offerta la mia borsa, ed il mio credito»,66 perché «Io veggo con pena il disordine del signor Dalancour […] Amo Angelica; vengo ad offrirgli di sposarla senza dote, e dividere seco lei il mio stato e la mia fortuna»,67 offre sovvenzioni, siccome viene in seguito confermato pure da DORVAL: «Voi conoscete Valerio; egli ha saputi i disa- stri di questa famiglia; è venuto ad offrire le sue facoltà al signor Dalancour, e la sua mano ad Angelica. Egli l’ama, è pronto a sposarla senza dote, e ad assicurarle una contraddote di dodici mila lire di rendita».68 È importante per un aristocratico avere i soldi e in tale disponibilità finan- ziaria essi fanno consistere il proprio onore. Questo è il senso della battuta del CONTE LEANDRO: «Questi sono quei gran soggetti, che si piccano d’onoratezza. Non ha un soldo, e pretende di fare il grazioso»,69 per cui, punto sull’onore, allora, EUGENIO si dispone a versare i quattrini dovuti, reclamando: «I trenta zecchini ve li darò»: «Questi sono danari, questi sono trenta zecchini, e queste facce quando non ne hanno, ne trovano. Tenete i vo- stri trenta zecchini, e imparate a parlare coi galantuomini della mia sorta».70 Per manifestare, poi, in pubblico la propria ricchezza finanziaria, un nobile si induce pure alla pratica dell’elemosina, come DON MARZIO: «Volete quattro castagne secche?»;71 «Veramente al vostro merito quattro castagne sono poche. Se Volete, aggiungerò alle castagne un pajo di lire»; «Non si degna di due lire, e l’anno passato si degnava di meno»,72 anche se talvolta si tratta di una elargizione interessata, come quella di EUGENIO: «Cara pellegrina, se volete un mezzo ducato, ve lo posso dare. (Tutto quello che mi è avanzato dal giuoco)».73 Addirittura, poi, esclama risentito GERONTE nei confronti del servo: «Come! tu rifiuti il mio denaro?... lo rifiuti per orgoglio, per dispetto, e per odio? [...] Prendi questo denaro, prendilo. Animo, non mi far arrabbiare».74 In definitiva il rapporto aristocratico con i soldi non è di tipo imprendi- toriale, come quello di un borghese, ma di consumo, pure velleitario, fino a sciupare il capitale. E poiché i nobili non sanno apprezzare il valore produttivo
66 BRB/BNF, 2°, XV, 269. 67 BRB/BNF, 2°, XV, 270. 68 BRB/BNF, 3°, X, 284. 69 BTG/CFF, 1°, XIII, 196. 70 BTG/CFF, 1°, XIII, 196. 71 BTG/CFF, 2°, XI, 215. 72 BTG/CFF, 2°, XI, 215. 73 BTG/CFF, 1°, XIV, 197. 74 BRB/BNF, 2° XXI, 275. 54 MICHELE BIANCO del denaro, non esitano a giocarselo nella bisca. Di conseguenza si indebita- no, alla maniera del ricco EUGENIO: «Per dirgliela, ho perso sulla parola trenta zecchini»,75 dopo un’altra perdita, già pubblicizzata pure dal padrone della bisca PANDOLFO: «[Il signor Eugenio ha perduto] cento zecchini in contanti, e ora perde sulla parola» 76 e finiscono sotto i capricci degli usurai, sempre al pari di EUGENIO: «Uno zecchino di usura alla settimana?».77 I borghesi, invece, consapevoli del valore del denaro, non arrischiano i loro soldi al giuoco; infatti, dice il caffettiere RIDOLFO: «Per me non vi sarà mai pericolo, che tenga giuoco».78 Anzi l’atteggiamento borghese per il denaro è di accortezza, nel modo in cui si evince dalle seguenti due battute di RIDOLFO: «Amico, il caffè ho da notarlo? [o me lo pagate subito?]»;79 «(Questa barzelletta [una facezia] mi costerà due soldi)»80 e contemporane- amente di prudente salvaguardia, come emerge dai negoziati del caffettiere RIDOLFO: «V.S. sa pure che le ho prestati trenta zecchini»; «[...] e la mi vuol fare aspettare? Anch’io, o signore, ho bisogno del mio»; «Con questi dieci zecchini non vuol pagare il signor Don Marzio?»; «questi sono dieci zecchini, e quando viene il signor Don Marzio, io ricupererò gli orecchini»;81 sempre RIDOLFO: «Spenda quelli, e poi qualche cosa sarà; ma badi bene di spenderli a dovere, di non gettarli»;82 ancora RIDOLFO: «Mi chiamerò bastantemente ricompensato, se di questi danari [...] se ne servirà per profitto della sua casa, per risarcire il suo decoro e la sua estimazione»;83 di nuovo RIDOLFO: «Que- sta che V.S. tiene, è la vera strada di andare in rovina. Presto presto si perde il credito, e si fallisce. Lasci andare il giuoco, lasci le male pratiche, attenda al suo negozio, alla sua famiglia, e si regoli con giudizio».84 È, quindi, necessario difendere proficuamente il denaro, perché è un bene che produce altra ricchezza, se amministrato avvedutamente negli affari, come fa RIDOLFO: «Le due pezze di panno le ho vendute a tredici lire il braccio, ed ho tirato il denaro, ma non [...] glieli voglio dar tutti, perché se gli ha nelle mani, li farà saltare in un giorno»; «mi regolerò con prudenza».85 I borghesi sono quelli che sanno investire il denaro negli affari e nei nego-
75 BTG/CFF, 1°, VIII, 190. 76 BTG/CFF, 1°, II, 183. 77 BTG/CFF, 1°, VIII, 190. 78 BTG/CFF, 1°, II, 184. 79 BTG/CFF, 1°, II, 184. 80 BTG/CFF, 1°, VI, 188. 81 BTG/CFF, 2°, II, 205. 82 BTG/CFF, 2°, II, 206. 83 BTG/CFF, 2°, II, 206. 84 BTG/CFF, 1°, XI, 194. 85 BTG/CFF, 2°, I, 204. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 55 ziati, grazie alla propria intraprendente iniziativa. Ecco RIDOLFO in azione: «Che qualità di panno è quello che vorrebbe esitare?»; «Vuol ella che veda io di farglielo vendere con riputazione?»; «Venga qui, favorisca, mi faccia un ordine, che mi sieno consegnate due pezze di panno, ed io medesimo le presterò i trenta zecchini»; «Non pretendo nemmeno un soldo»,86 così come, retrospettivamente, sempre RIDOLFO rievoca, nel passato: «Finora sono stato a servire, e ho fatto il mio debito onoratamente. Mi sono avanzati quattro soldi, e coll’ajuto del mio padrone di allora [...] ho aperta questa bottega, e con questa voglio vivere onoratamente, e non voglio far torto alla mia professione».
5. Il mondo del lavoro È scontro tra borghesia e nobiltà sul valore sociale del lavoro, in particolare la mercatura. Radicale risulta, infatti, la divergenza tra il mercante Anselmo ed il cava- liere Flaminio: ANSELMO: «Le dirò, i cavalieri onesti e propri, che conoscono il loro grado e san trattare da quei che son nati, non hanno bisogno di apprendere a trattare civilmente da chi che sia; ma i cavalieri di nome, e che si abusano unicamente del titolo, non son degni di stare a fronte d’un mercante onorato, come son io».87 DON FLAMINIO: «Olà, temerario che siete. Vi farò pentire di tanta audacia. Io sono cavaliere e voi siete un vile mercante, un uomo plebeo». ANSELMO: «Un vil mercante, un uomo plebeo? Se ella sapesse cosa vuol dir mercante, non parlerebbe così. La mercatura è una professione industriosa, che è sempre stata ed è anco al dì d’oggi esercitata da cavalie- ri di rango molto più di lei. La mercatura è utile al mondo, necessaria al commercio delle nazioni, e a chi l’esercita onoratamente, come fo io, non si dice uomo plebeo; ma più plebeo è quegli che per avere ereditato un titolo e poche terre, consuma i giorni nell’ozio e crede che gli sia lecito di calpestare tutti e di viver di prepotenza. L’uomo vile è quello che non sa conoscere i suoi doveri, e che volendo a forza d’ingiustizie incensata la sua superbia, fa altrui conoscere che è nato nobile per accidente, e meritava di nascer plebeo».88
86 BTG/CFF, 1°, XI, 193. 87 CAV/DAM, 2°, XI, 31. 88 CAV/DAM, 2°, XI, 32. 56 MICHELE BIANCO
I nobili sono senz’altro dei veri parassiti. Lo dimostra se non altro la battuta di LISAURA: «Quant’era meglio ch’io seguitassi a ballare, e non concepissi la malinconia di diventar contessa. Piace un poco troppo a noi altre donne il viver senza fatica»,89 che rimpiange il lavoro remunerato, a fronte del di- simpegno nobiliare. Essi non lavorano, ma giuocano. Giuoca innanzitutto a scacchi GERON- TE: «Ma, che diamine fa questo Dorval che non vien mai? io muojo di voglia di tentare un’altra volta questa maledetta combinazione che mi fece perdere la partita [...] Vediamo un poco... Ecco la disposizione de’ miei scacchi; ecco quella di Dorval. Io avanzo il re alla casa della sua torre. Dorval pone il suo matto alla seconda casa del suo re. Io... Scacco; sì, e prendo la pedina. Dorval... egli ha preso il mio matto, ed io... doppio scacco col cavaliere. Per bacco! Dorval ha perduta la sua dama. Egli giuoca il suo re, io prendo la sua dama. Questo sciagurato col suo re ha preso il mio cavaliere. Ma tanto peggio per lui; eccolo nelle mie reti; eccolo vinto con il suo re. Ecco la mia dama; sì, eccola; scacco matto; questa è chiara; scacco matto, questa è gua- dagnata... Ah! se Dorval venisse, gliela farei vedere»;90 abitudine confermata pure dalla cameriera MARTUCCIA: «... il mio padrone...» «... in questa sala, ben lo sapete, egli passeggia, egli si diverte. Ecco là i suoi scacchi. Egli vi giuoca spessissimo. Oh! non conoscete voi il signor Geronte?»91 e dal suo stesso pressante invito a giuocare: GERONTE: «Andiamo a giuocare, e non me ne parlate più»;92 «Finitela; giuocate; giuochiamo, o ch’io me ne vo»;93 «Giuochiamo»94 «Scacco al re».95 Giuoca d’azzardo a carte anche il CONTE LEANDRO: «Ho un sonno, che non ci vedo: Son sicuro di non poter tenere le carte in mano; eppure per questo maledetto vizio non m’importa di perdere, purché giuochi»,96 ed ancora lo stesso CONTE LEANDRO: «Giuochiamo almeno una cioccolata»; «Una cioccolata per servizio»; «Una cioccolata sola, e chi parla di giuocar di più, perda un ducato».97 Un altro ricco, pure lui giocatore incallito, è Eugenio, come ci riferisce il biscazziere PANDOLFO: «[Il signor Eugenio ha giuocato questa notte e]
89 BTG/CFF, 2°, XXVII, 226. 90 BRB/BNF, 1°, IX, 252. 91 BRB/BNF, 1°, I, 245. 92 BRB/BNF, 2°, I, 261. 93 BRB/BNF, 2°, I, 261. 94 BRB/BNF, 2°, I, 262. 95 BRB/BNF, 2°, I, 262. 96 BTG/CFF, 2°, III, 206-207. 97 BTG/CFF, 2°, III, 207. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 57 giuoca anche adesso. Non ha cenato, non ha dormito, e ha perso tutti i danari»; «[Ha perduto] cento zecchini in contanti, e ora perde sulla parola».98 E se non giuocano, i nobili coltivano hobby e passatempi, come quello del giardiniere, svolto dal CONTE ROBERTO: «Fra i miei piaceri usati, che non son pochi in vero,/ Piacemi il delizioso mestier del giardiniero;/ Ed or che primavera alle delizie invita,/ Di fiori peregrini ripiena ho la Fiorita»,99 oppure impiegano il proprio tempo in vani corteggiamenti a gara, come fa il MARCHESE: «Ehi! mostrate al Conte il fazzoletto»100 con MIRANDOLI- NA, che accondiscende e dice: «Osservi, signor Conte, il bel regalo, che mi ha fatto il signor Marchese», suscitando l’ironia del rivale CONTE: «Oh me ne rallegro. Bravo, signor Marchese!»,101 nonché la sua reazione: «Osservate questo piccolo giojello di diamanti», «È compagno degli orecchini, che vi ho donato»; «Ora, perché abbiate il fornimento compagno, ecco ch’io vi dono il giojello»,102 che sortisce il riconoscimento da MIRANDOLINA: «Bello assai!».103 I nobili, in definitiva, non lavorano, né guadagnano, ma vivono, in ogni caso, di rendita. La dimensione del lavoro, invece, è precipua prerogativa della classe borghese e servile. PICCARDO, per esempio, al servizio di Geronte, dichiara di aver rag- giunto l’autosufficienza economica, grazie al proprio impegno costante e alla dedizione al lavoro: «... grazie al cielo, non ho bisogno di nulla»;104 ed ancora PICCARDO:«Non sono ricco; ma ho un padrone che non mi lascia mancar nulla. Ho moglie, ho quattro figliuoli; dovrei essere l’uomo più im- barazzato del mondo; ma il mio padrone è sì buono che li mantengo senza difficoltà, ed in casa mia non si conosce la miseria».105 Tant’è vero che egli dichiara in seguito di non aver bisogno di soldi, neppure per le necessarie medicazioni occorrentigli per curarsi le ferite di una caduta. Dice, infatti, PICCARDO: «Sì; vado un po’ zoppicando, ma non è nulla. La paura è stata più grande del male: ciò non meritava il danaro che mi diede il padrone per farmi curare».106 Autosufficienza proclama soddisfatto, parlando del proprio lavoro, pure
98 BTG/CFF, 1°, II, 183. 99 CVL/SPR, 1°, VII, 81. 100 LA LOC., 1°, XXII, 26. 101 LA LOC., 1°, XXII, 26. 102 LA LOC., 1°, XXII, 27. 103 LA LOC., 1°, XXII, 27. 104 BRB/BNF, 1°, XIV, 255. 105 BRB/BNF, 1°, XIV, 255. 106 BRB/BNF, 3°, I, 277. 58 MICHELE BIANCO
RIDOLFO: «... fo il caffettiere...», «... e non iscambierei il mio stato con tanti altri, che hanno più apparenza e meno sostanza. A me nel mio grado non manca niente. Fo un mestiere onorato, un mestiere nell’ordine degli artigiani pulito, decoroso e civile. Un mestiere che, esercitato con buona maniera e con riputazione, si rende grato a tutti gli ordini delle persone. Un mestiere reso necessario al decoro delle città, alla salute degli uomini e all’onesto divertimento di chi ha bisogno di respirare»107 e si augura di non perderla: «Prego il cielo di non aver bisogno di nessuno»,108 perché capisce che è una condizione, questa, di emancipazione e di libertà, che si conquista col decoro e l’onestà del lavoro. Il lavoro, infatti, rende liberi, come nel caso di MIRANDOLINA: «Che voglio fare io dei forestieri, che vanno, e che vengono? Se gli tratto bene, lo fo per mio interesse, per tener in credito la mia locanda. Dei regali non ne ho bisogno».109 Ed ancora, dopo essersi assicurata il guadagno con l’onesto lavoro, occorre salvaguardare la propria libertà, con esso conseguita, da parte della stessa MIRANDOLINA: «Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda. Non ci sarebbe altri, che quel buon uomo di Fabrizio [...] con un tal matrimonio posso sperar di metter al coperto il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà».110 Il lavoro nella classe borghese richiede solerzia ed operosità, in vista del guadagno, come risulta dalle seguenti battute di RIDOLFO: «Animo, figliu- oli, portatevi bene; siate lesti e pronti a servire gli avventori, con civiltà, con proprietà: perché tante volte dipende il credito di una bottega dalla buona maniera di quei che servono», ed ancora: «... bisogna levarsi presto. Bisogna servir tutti. A buon’ora vengono quelli che hanno da far viaggio: i lavoranti, i barcaruoli, i marinaj, tutta gente che si alza di buon mattino»; inoltre sem- pre RIDOLFO: «Or ora verrà della gente; non è poi tanto di buon’ora. Non vedete? Il barbiere ha aperto, è in bottega lavorando parrucche. Guarda: anche il botteghino del giuoco è aperto».111 Esso, perciò, non ammette distrazioni, né dissipazioni. Infatti, all’invito di EUGENIO: «Ridolfo, verrete anche voi a mangiare un boccone con noi»,112 RIDOLFO risponde: «Le rendo grazie; io ho da badare alla mia bottega».113
107 BTG/CFF, 2°, II, 206. 108 BTG/CFF, 3°, VI, 231. 109 LA LOC., 1°, X, 15. 110 LA LOC., 3°, XIII, 59. 111 BTG/CFF, 1°, I, 181. 112 BTG/CFF, 2°, XV, 217. 113 BTG/CFF, 2°, XV, 218. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 59
Occorre sempre vigilare sugli strumenti di lavoro, come suggerisce RIDOLFO: «Si lascia la bottega sola, eh?»; «Possono rubar le chicchere. So io, che vi è qualcheduno che si fa l’assortimento di chicchere, sgraffignandone una alla volta a danno dei poveri bottegai».114 Per giunta il lavoro rappresenta pure un deterrente al vizio. Alle dichiarazioni del biscazziere messer PANDOLFO: «... anch’io ho tagliato un poco»; «Ho buscato due zecchini, e non ho voluto altro»; «[li ho vinti] Ad un garzone d’un orefice»,115 il caffettiere RIDOLFO replica: «Male, malissimo; così si dà mano ai giovani perché rubino ai loro padroni».116 Praticamente non con l’arte del giuoco della bisca, ma con l’onesto lavoro si educano i giovani a procurarsi di che vivere. Infatti il caffettiere RIDOLFO non giuoca, ma con la propria intraprendente attività si è creata una posizione economica: «Non terrei giuoco se credessi di farmi ricco»,117 perché «Finora sono stato a servire, e ho fatto il mio debito onoratamente. Mi sono avanzati quattro soldi, e coll’ajuto del mio padrone di allora [...] ho aperta questa bottega, e con questa voglio vivere onoratamente, e non voglio far torto alla mia professione»;118 del resto: «[...] col caffè si guadagna il cinquanta per cento, che cosa voglianmo cercar di più?».119
6. Il realismo psicologico I personaggi delle commedie goldoniane sono delineati con straordinaria coerenza psicologica e con efficace plastica concretezza. Si tratta di personaggi viventi e comunicativi, come quelli del nostro quotidiano vicinato. Il realismo dell’autore si nota nelle battute cariche di saggezza popolare, che nascono da una esperienza vissuta a contatto con la gente, il cui com- portamento viene magistralmente attinto mediante intuizioni psicologiche e morali. In particolare GANDOLFO: «E sogliono le vedove, per arte o per virtù,/ Piangere il loro sposo tre o quattro giorni al più»;120 sempre GANDOLFO: «Le donne più costanti nei buoni sentimenti/ Hanno, per esser vinte, dei facili momenti: / Resistono negli anni, ma poi giunge quel dì,/ Che trovansi
114 BTG/CFF, 2°, I, 204. 115 BTG/CFF, 1°, II, 183. 116 BTG/CFF, 1°, II, 183. 117 BTG/CFF, 1°, II, 183. 118 BTG/CFF, 1°, II, 184. 119 BTG/CFF, 1°, II, 184. 120 CVL/SPR, 1°, I, 71. 60 MICHELE BIANCO disposte, e dicono di sì»;121 ancora GANDOLFO: «Ora che per il primo d’amore ha il sen fecondo,/ Potrà più facilmente arrendersi al secondo./ Tutte le azioni umane [...] / Rassembrano difficili all’uom la prima volta; / E poi [...] si fan più facilmente,/ E poscia [...] rossor più non si sente»;122 di nuovo GANDOLFO: «A fronte di un vicino si scorderà il lontano [rivale] / Si vede, che il star sola principia avere a tedio;/ Ed amerà di avere più prossimo il rimedio»123 esprime gnomicamente il contenuto di proverbi popolari: «Un’a la fossa,/ n’at’a la kossa» (in rima baciata); «La donna è mobile/ qual piuma al vento» (in versi quinari); «Quant’è bello il primo amore,/ il secondo è più bello ancora» (con iterazione e consonanza); «Lontano dagli occhi,/ lontano dal cuore» (con l’anafora). Ma pure DON CLAUDIO: «Ah quanto mi par bella, ancorché disadorna!»,124 incalzato dallo stesso GANDOLFO: «Guardate se non pare, così da pastorella,/ Diana cacciatrice»,125 esprime in versi doppi settenari un altro proverbio: «La donna, quand’è bella di natura,/ più trascurata va, più bella pare» (in endecasillabi e consonanza). Questa praticità popolare realistica emerge pure non solo nella con- siderazione di GANDOLFO: «Quel che le donne attrista, d’amanti è la mancanza»,126 ma anche nella valutazione dei correnti costumi operata dal bizzarro cavaliere CONTE ROBERTO: «Se donna fedelissima trovar vi lusin- gate,/ Senza difetto alcuno, amico, v’ingannate [...] Un po’ di debolezza in lei s’annida, il veggio,/ Ma trovereste alfine in altre ancora il peggio./ Ella volea lasciarvi, temendovi imperfetto,/ Quant’altre fan lo stesso con vago giovinet- to?/ Quant’altre non si trovano, che lasciano il marito?»127 e nella seguente valutazione morale, operata sempre dallo stesso CONTE ROBERTO: «Prima di vendicarsi di un torto, di un disgusto,/ Esaminar conviene, se il sospettar sia giusto;/ [...] E far che sia la spada quell’ultimo cimento/ [...] Pensiamo che la vita nel mondo è il primo bene;/ Per ogni lieve incontro sprezzarla non conviene»,128 nonché nel seguente suggerimento pratico, porto a Donna Flo- rida ancora dal CONTE ROBERTO: «Fra noi che non si osservi la legge del puntiglio;/ [...] Lasciam d’esaminare chi ha torto, e chi ha ragione./ Tutto in oblio si ponga; quello ch’è stato, è stato./ Chi dà la mano il primo è quel che
121 CVL/SPR, 1°, I, 72. 122 CVL/SPR, 1°, I, 73. 123 CVL/SPR, 1°, I, 73. 124 CVL/SPR, 1°, I, 73. 125 CVL/SPR, 1°, I, 73. 126 CVL/SPR, 5°, II, 112. 127 CVL/SPR, 4°, III, 106. 128 CVL/SPR, 4°, III, 107. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 61 ha men fallato./ [...] O abbiate più fiducia nel cuor di vostra moglie/ Perché d’esser fedeli le donne non si pentano,/ Si vive in buona fede, con arte non si tentano./ È un torto il diffidare».129 Che poi quest’onda di saggezza popolare sia pure espressa con un linguag- gio figurato ed immaginoso, per risultare alla fine più incisivo nella mente degli ascoltatori, emerge chiaramente dalle seguenti battute di GANDOLFO: «La biscia, questa volta, beccato ha il ciarlatano»;130 «E non credete mica facesse come quelli,/ Che fanno, per esempio, montoni degli agnelli»;131 «È il solito costume del can dell’ortolano / [...] E che all’incontro il vostro rivale fortu- nato/ Abbia il terreno al grano simpatico trovato»;132 «Convien dir che vi sia del dolce in quantità,/ Se tanti calabroni si aggirano per qua».133 La medesima origine popolare si deve attribuire, inoltre, a quelle battute che veicolano più propriamente introspezioni, come quella di VITTORIA: «Mi avete restituito il mio caro consorte, l’unica cosa, che ho di bene in que- sto mondo. Mi ha costato tante lagrime il perderlo, tanto me ne ha costato il perderlo, e molte me ne costa il riacquistarlo; ma queste sono lacrime di dolcezza, lacrime d’amore, e di tenerezza, che m’empiono l’anima di diletto, che mi fanno scordare ogni affanno passato»,134 e quella di DONNA ELE- ONORA: «Ahimè! Crescono fieramente i turbamenti del mio cuore. No, no, don Rodrigo non giunga mai a scoprire l’interna guerra cagionata dal di lui merito nel mio seno»,135 oppure intuizioni, specie delle donne, in guisa di quelle di MIRANDOLINA: «L’impresa è fatta: Il di lui cuore è in fuoco, in fiamma, in cenere»;136 «Uh è cotto, stracotto, e biscottato!»137 e di DONNA FLORIDA: «Misera! Non mi resta, che la vergogna e il pianto./ Ma perché [...]? Se per provarmi il fece, fu la menzogna ardita./ Fosse di me pentito? [...] Al fine è ver, ch’io son volubile di cuore,/ Ma anche don Flavio istesso fu ingrato e mentitore»,138 ma ancor di più delle mogli sui propri mariti, per esempio come quella di MADAMA: «Ma voi mi sembrate inquieto, pensoso; avete qualche cosa... voi non siete tranquillo».139 Realismo psicologico, dunque, confermato altresì dalle seguenti battute,
129 CVL/SPR, 5°, VI, 118-119. 130 CVL/SPR, 4°, I, 102. 131 CVL/SPR, 1°, IV, 76-77. 132 CVL/SPR, 1°, I, 72. 133 CVL/SPR, 5°, II, 113. 134 BTG/CFF, 3°, XVIII, 237-238. 135 CAV/DAM, 2°, VII, 30. 136 LA LOC., 2°, XIX, 47. 137 LA LOC., 3° III, 50. 138 CVL/SPR, 3°, IX, 101. 139 CVL/SPR, 3°, IX, 101. 62 MICHELE BIANCO cariche di tanta esperienza, di GANDOLFO: «Le donne hanno per uso, [...]/ Quando una cosa bramano, a dire: io non ne voglio./ Fan per provar talvolta, fan per esser pregate»; «Le donne, che son timide per lor temperamento,/ Si arrendono tremanti talor per lo spavento [di un suicidio inscenato]»; «Le nostre contadine, che han ruvida la scorza,/ Si vincono talora coi pugni e colla forza:/ E quando han superato la prima resistenza,/ Ci vengono d’intorno con tutta confidenza./ Sono le cittadine assai più delicate,/Ma come l’altre femmine anch’esse son formate [...]/ E gioveria con esse la rustica lezione;/ Non dico con i pugni, ch’è cosa troppo vile,/ Ma con qualche altra cosa, che avesse del virile»; «La donna col cavallo io metto in paragone,/ La rende assai più docile chi adopera lo sprone./ Una bacchetta in mano fa che il puledro impari,/ La donna colla sferza si domina del pari./ Chi troppo la seconda, chi troppo l’accarezza/ Non speri ch’ella soffra al collo la cavezza»140 e di DONNA FLORIDA: «E foste voi medesimo cagion del vostro affanno./ [...]/ Voi di rispetti pieno, timido amante e saggio/ Forse il mio cuor perdeste, mancan- dovi il coraggio / [...]/ La vostra timidezza fè’ il peggio di voi stesso»; «Eh son donna... Sapete quai sieno i riti nostri?/ [...]/ Mostriam d’avere a sdegno l’ardire e la baldanza;/ Ma a chi [...] pietà non chiede/ Donna arrossisce in volto nell’offerir mercede»; «... amor... richiede.../ Ardire».141
7. La morale borghese Pure in questo campo si assiste ad uno scontro tra nobiltà e borghesia. La nobiltà, infatti, resta irretita nei codici di comportamento cavallereschi, di medioevale retaggio. Per esempio: MARCHESE: «Fra voi e me vi è qualche differenza»; «Io sono il Marchese di Forlipopoli»; CONTE: «Ed io sono il Conte d’Albafiorita»; MARCHESE: «Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto».142 Ed ancora: DON CLAUDIO: «Son cavalier, lo sdegno di femmina rispetto»;143 DONNA FLORIDA: «Giovan di bello aspetto, pieno di leg- giadria,/ Mi fa vezzosi inchini, non so ancor chi egli sia»;144 MERLINO: «Signore, il mio padrone le fa umil riverenza,/ E d’essere a inchinarla, le chiede la licenza»;145 GANDOLFO: «A un cavalier, che viene per visitar la
140 CVL/SPR, 2°, I, 82-83. 141 CVL/SPR, 1°, II, 74-75. 142 LA LOC., 1°, I, 7. 143 CVL/SPR, 4°, VI, 108. 144 CVL/SPR, 1°, III, 76. 145 CVL/SPR, 1°, V, 77. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 63 dama,/ chiuder la porta in faccia, inciviltà si chiama»;146 CONTE ROBERTO: «Andiam, signora mia, porgetemi la mano», DONNA FLORIDA: «Eccomi ad ubbidirvi».147 Pure sul versante bellicoso: CONTE ROBERTO: «Come! Avventar la spada contr’un uomo disarmato?»;148 DON FLAVIO: «Non è, ferir chi cad- de, azion da cavaliere»;149 DON FLAVIO: «Vorrei colla mia spada trargli dal seno il fiato...[ad]/ Un uomo menzognero, un empio traditore»;150 DON FLAVIO: «Lo sosterrà la spada»; «Provvedetevi tosto di un ferro, e qui vi aspetto»; «O armatevi di ferro velocemente il braccio,/ O disarmato ancora con voi mi soddisfaccio»;151 DON FLAVIO: «Ma contro il mio rivale di vendicarmi io giuro./ Cadrà il conte Roberto vittima del mio sdegno»; «Sì, morirà l’indegno»; «Cadrà sugli occhi vostri; cadrà lo giuro al cielo»; «An- drò di qua lontano; ma non invendicato./ Mi pagherò col sangue i scorni, i danni e l’onte:/ Sì, lo protesto, il giuro. Ha da morire il Conte»;152 DON FLAVIO: «Per chieder dell’insulto da me soddisfazione/ Esciam da queste mura, andiamo in sulla strada!»; «Escite, e colla spada provatemi ch’è infida»; «Né di sottrar pensate la vita alla mia spada»; «Di vendicar mi accingo la sua riputazione/...Ne pagherete il fio col sangue e colla morte»;153 EUGENIO: «Siete un barbaro contro la vostra moglie, ed io la difenderò [con la spada] fino all’ultimo sangue».154 Più calato nella realtà sociale del suo tempo è, invece, il borghese, che si onora di essere civile, come si vanta di riflesso il mercante EUGENIO: «Confesso d’esser anch’io uomo di mondo; ma mi picco insieme d’esser un uomo civile, ed onorato»;155 onesto, alla pari del caffettiere RIDOLFO, che rivela: «Ha necessità di danari? ecco i danari: questi sono venti zecchini e [...] senza pagare un soldo di senseria; subito, alla mano, un sopra l’altro, senza ladronerie, senza scrocchi, senza bricconate da truffatori»; «Per dirgli la verità, [i denari] gli avevo in tasca sin dalla prima volta; ma io non glieli voleva dar tutti subito, acciò non gli mandasse a male sì presto»;156 morale, in guisa di RIDOLFO: «A me che ho fatto tanto per lui, che vede con che
146 CVL/SPR, 1°, VI, 78. 147 CVL/SPR, 1°, VII, 81. 148 CVL/SPR, 4°, III, 104. 149 CVL/SPR, 4°, VI, 108. 150 CVL/SPR, 4°, IV, 107. 151 CVL/SPR, 4°, IV, 107. 152 CVL/SPR, 4°, IV, 107. 153 CVL/SPR, 2°, III, 84-85. 154 BTG/CFF, 2°, XXIII, 223. 155 BTG/CFF, 1°, XV, 198. 156 BTG/CFF, 2°, VII, 211. 64 MICHELE BIANCO cuore, con che amore lo tratto, corrisponde così? Mi burla, mi fa degli scher- zi? Basta: quel che ho fatto, l’ho fatto per bene, e del bene non mi pentirò mai»;157 ancora RIDOLFO: «Eccolo lì, pazzo più che mai. A tripudiare con donne, e sua moglie sospira, e sua moglie patisce. Povera donna! Quanto mi fa compassione»;158 un’altra volta RIDOLFO: «Caro signor Eugenio, la prego, badi al sodo, lasci andar il giuoco; non si perda dietro alle donne; giacché V. S. ha una moglie giovine, bella, e che le vuol bene; che vuol cercare di più?»;159 di nuovo RIDOLFO: «Questa che V.S. tiene, è la vera strada di andare in rovina. Presto presto si perde il credito, e si fallisce. Lasci andare il giuoco, lasci le male pratiche, attenda al suo negozio, alla sua famiglia, e si regoli con giudizio»;160 urbano, come risulta dalla valutazione che della città operosa, da cui nostalgicamente è costretto a partire, fa DON MARZIO: «Anderò via di questa città; partirò a mio dispetto; e per causa della mia trista lingua mi priverò d’un paese, in cui tutti vivono bene, tutti godono la libertà, la pace, il divertimento, quando sanno essere prudenti, cauti ed onorati»161 e umanitario, come risulta dalle seguenti battute di RIDOLFO: «Beva un poco di rosolio»; continuando: «Eh no acqua; vuol esser rosolio. Quando gli spiriti sono op- pressi, vi vuol qualche cosa che li metta in moto. Favorisca, venga dentro»;162 ancora RIDOLFO: «Questa povera donna innocente non ha nessuno che la difenda, ma finché avrò sangue la difenderò io [...] Signora, venga con me, e non abbia timor di niente».163 Contrariamente il nobile è invidioso, specie per i guadagni altrui, come lascia intendere EUGENIO: «Credo di sì, che [il conte] possa mantenerla [la ballerina], vince gli zecchini a centinaja»;164 DON MARZIO: «Ella [la ballerina] è protetta da quella buona pezza del conte Leandro, ed egli, dai profitti della ballerina ricava il prezzo della sua protezione. In vece di spendere, mangia tutto a quella povera diavola; e per cagione di lui forse è costretta a fare quello che non farebbe. Oh che briccone!»165 e perfino, come portavoce dell’opinione dei ricchi e delle proprie personali aspirazioni, il garzone TRAPPOLA: «A quel cane [biscazziere] frutta sempre bene; guadagna sulle carte, guadagna negli scrocchi, guadagna a far di balla coi barattieri. I denari di chi va là dentro
157 BTG/CFF, 2°, XX, 221. 158 BTG/CFF, 2°, XIX, 220. 159 BTG/CFF, 2°, VII, 212. 160 BTG/CFF, 1°, XI, 194. 161 BTG/CFF, 3°,XXVI, 242. 162 BTG/CFF, 2°, XXII, 222. 163 BTG/CFF, 2°, XXIV, 224. 164 BTG/CFF, 1°, IX, 191. 165 BTG/CFF, 1°, VI, 188 IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 65 sono tutti suoi»;166 il nobile è, poi, volubile, come DONNA FLORIDA: «È vero, lo confesso, pur troppo sono avvezza/ gli affetti, le passioni cangiar per debolezza»,167 che ammette valida l’osservazione del CONTE ROBERTO: «E il merto [...]/ Perduto già l’avete volubile di cuore [...]/ Piango [...] che caduta siate nel vergognoso eccesso/ Di debole incostanza comune al vostro sesso »;168 e dichiara introspettivamente di pentirsi della sua prima decisione: DONNA FLORIDA: «Stelle! Ne son pentita. Ricuperarlo [il foglio] io voglio»,169 per cui alimenta la valutazione del CONTE ROBERTO: «Dal ceto delle donne assai vi distinguete;/ Ma un poco, come l’altre, volubile voi siete»;170 il nobile è ancora vizioso, come risulta dall’ironica battuta di TRAPPOLA: «(Fra il signor don Marzio, ed io, formiamo una bellissima segreteria)»;171 il nobile è, d’altra parte, presuntuoso, come DON MARZIO: «(A un par mio? Non vi anderà?... Porti rispetto?...A un par mio? E sto cheto? E non parlo? E non lo bastono? Briccone! Villanaccio! A me? A me?)»,172 traditore, sempre al modo di DON MARZIO: «[Questa bottega] è un ridotto di ladri»; «[Messer Pandolfo] è dentro in bottega che nasconde le carte»; «Le nasconde in un ripostiglio sotto le travature»,173 informazioni, queste, che aveva promesso di mantenere segrete; è il nobile pure sleale, alla maniera del conte Leandro, smascherato da LISAU- RA: «Ah conte briccone! Ha moglie e mi lusinga di volermi sposare! In casa mia non lo voglio mai più»,174 avaro, come DON MARZIO: «Scommetterei che è quella che veniva ogni sera al caffè a domandar l’elemosina. Ma io però non glie ne ho mai dati, ve’! I miei danari, che sono pochi, gli voglio spender bene»,175 venale, sempre come DON MARZIO, il quale, avendo saputo da TRAPPOLA che «[il giojelliere] dice che [gli orecchini] saranno stati pagati più di dieci zecchini, ma che non glieli darebbe»,176 si rivolge a Vittoria escla- mando: «Vedete le belle baronate che fa vostro marito? Egli mi dà in pegno questi orecchini per dieci zecchini, e non vagliono nemmeno sei»,177 disonesto, in guisa di Eugenio, rimproverato dalla moglie VITTORIA: «... impegnare la roba mia; prendermi un pajo di orecchini, senza dirmi niente. Sono azioni da
166 BTG/CFF, 1°, I, 182. 167 CVL/SPR, 3°, VIII, 100. 168 CVL/SPR, 3°, IV, 98. 169 CVL/SPR, 3°, IV, 98. 170 CVL/SPR, 3°, VII, 100. 171 BTG/CFF, 1°, VI, 187. 172 BTG/CFF, 3°, X, 233. 173 BTG/CFF, 3°, XI, 234-235. 174 BTG/CFF, 2°, XXVII, 226. 175 BTG/CFF, 1°, XVI, 198. 176 BTG/CFF, 1°, XVIII, 200. 177 BTG/CFF, 1°, XVIII, 200. 66 MICHELE BIANCO farsi ad una moglie amorosa, civile e onesta, come sono io?»,178 bugiardo, come il già noto DON MARZIO: «Non so nulla»,179 mentre invece sapeva tutte cose ed, infine, spione, come è pure Don Marzio, contro il quale nobile, in maniera solidale e compatta, tutti, uomini e donne, padroni e servi, scagliano le proprie accuse, a cominciare da TRAPPOLA: «spia»,180 per continuare con RIDOLFO: «spione»,181 con un GARZONE: «spione»,182 con un CAMERIERE: «spia»,183 con LEANDRO: «spia»,184 con PLACIDA: «soffione»,185 con VITTORIA: «esploratore»,186 con EUGENIO: «confidente»187 e, per finire, di nuovo con TRAPPOLA: «referendario».188
L’ESALTAZIONE DELLA BORGHESIA Dell’illuminismo Carlo Goldoni ha coltivato una sfaccettatura che era consona all'evoluzione economica e socio-politica dell'epoca in cui visse. Per questo egli ha esaltato i valori borghesi del lavoro operoso e dell'onesto guadagno, di contro al parassitismo ozioso e vuoto della classe aristocratica.
178 BTG/CFF, 1°, XX, 202. 179 BTG/CFF, 3°, XIII, 235. 180 BTG/CFF, 3°, XXIV, 241. 181 BTG/CFF, 3°, XXIV, 241. 182 BTG/CFF, 3°, XXIV, 241. 183 BTG/CFF, 3°, XXVI, 241. 184 BTG/CFF, 3°, XXVI, 241. 185 BTG/CFF, 3°, XXVI, 241. 186 BTG/CFF, 3°, XXVI, 241. 187 BTG/CFF, 3°, XXVI, 241. 188 BTG/CFF, 3°, XXVI, 241. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 67
NOBILE BORGHESE arrogante assennato corrotto attivo cristallizzato dignitoso LO S C ONTRO F RA L E C L ASSI SOCIALI Ecco, allora, che nelle commedie dilapidatore dinamico goldoniane si assiste con evidenza alla disonesto impegnato contrapposizione tra la borghesia e l'ari- stocrazia e la comparazione avviene in ozioso laborioso campo economico, sociale e morale, con l'ovvia sconfitta del ceto nobiliare. parassita morale prepotente onesto sperperatore onorato ridicolo operoso scialacquatore prudente uniforme responsabile vacuo serio vendicativo vitale
8. L’espressione goldoniana Il teatro comico del Goldoni utilizza dei canali espressivi che lessicalmente appartengono ad un genere che si può definire: 1) serio, nel senso con cui lo adoperavano in quegli anni gli illuministi francesi, cioè realistico e civilmente impegnato nella divulgazione quasi ‘pedagogica’ della cultura, a tutto vantaggio dell’accresciuta esigenza cognitiva sul mercato di consumo culturale della emergente classe borghese; 2) medio, secondo il significato medioevale di comico, cioè quotidiano e familiare, equidistante tanto dall’astrattezza aristocratica dello stile tragico, quanto dalla comicità farsesca dello stile umile e popolare, di ciceroniana memoria, definito da Dante: elegiaco. La sottostante tabella, nonché l’attergato grafico, suddiviso in quattro campi semantici, ne offrono un modesto esempio. 68 MICHELE BIANCO
Il lessico goldoniano di frequenza 1752 1753 1756 Lemmi CAV/DAM LA LOC. L’Avaro camera 28 26 3 denaro 64 20 15 donna 36 98 33 dote 10 1 129 fortuna 16 3 27 impegno 16 10 9 libertà 20 14 12 lusinga 2 3 9 mano 18 38 45 merito 16 16 57 moglie 26 5 15 onore 28 7 12 pace 8 2 0 ricchezza 0 2 6 rispetto 12 7 15 roba 6 5 9 sentimento 2 0 12 serio 2 4 21 sposa 20 13 75 zecchini 2 12 0 Non si tratta di forme, ma di lemmi, selezionati a campione in tre com- medie e trattati con il criterio della proporzionalità al numero delle pagine. Più comune è il lemma, più si ripete. Ma il Goldoni sa essere anche “poeta di teatro”; infatti, ecco di seguito un campione di versi: I doppi settenari La commedia intitolata: Il Cavaliere di Spirito è costruita in versi doppi settenari. Infatti: 1 2 3 4 5 6 7 1 2 3 4 5 6 7 Siam tut ti due del pa ri, e in or di ne al l’a mo re Non dee chi ha più for tu na chia mar si tra di to re Chi muor pe r u na don na, sa pe te co sa ac qui sta? Quel la i scri zion gra zio sa, che in la pi de fu vi sta V’in ti ma la par ten za un che no n è il pa dro ne La gio ven tù è in ci vi le per ma la e du ca zio ne E voi te ne ra spo sa sa re te il bel con for to D’un spo so af fa ti ca to, fe ri to e mez zo mor to Tutti con la cesura al mezzo e con la rima accoppiata, per ben cinque atti. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 69
Il lessico goldoniano di frequenza (Grafici)
CAMPO FEMMINILE CAMPO ECONOMICO
CAMPO RELAZIONALE CAMPO PSICHICO
9. Ancora sulla riforma goldoniana del teatro
L’artista ha mostrato il pregio di imboccare una strada nuova, equidistante tanto dalla Commedia dell’Arte, quanto dalla tragedia, di stampo nobiliare. Il suo genio ha compreso gli errori e le inadeguatezze delle forme teatrali a lui contemporanee, le ha corrette e le ha aggiornate al gusto della sua epoca, in pratica alla mentalità borghese. Proprio per quanto concerne l’antiquata Commedia dell’Arte, ecco la sua diagnosi:
Era in fatti corrotto a segno da più di un secolo nella nostra Italia il comico teatro, che si era reso abominevole oggetto di disprezzo alle oltramontane na- zioni. Non correvano sulle pubbliche scene se non sconce arlecchinate, laidi e 70 MICHELE BIANCO
scandalosi amoreggiamenti e motteggi; favole mal inventate e peggio condotte, senza costume, senza ordine, le quali, anziché coreggere il vizio, come pur è il primario, antico e più nobile oggetto della commedia, lo fomentavano, e ri- scuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata, e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene, le quali se frequentavan talvolta un così cattivo teatro, e vi erano strascinate dall’ozio, molto ben si guardavano dal condurvi la famugliuola innocente, affinché il cuore non ne fosse guastato, giacché questi per verità erano quegli spettacoli da’ quali abbiamo visto il pudore fatto a pezzi, sempre scosso...molte donne tornare a casa dai teatri impudiche, diverse, perplesse: certamente nessuna più casta.189
La correzione di questa maniera di fare teatro il commediografo l’ha operata attingendo suggerimenti ed esperienze dai «libri del Mondo e del Teatro»:
…il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, [...] mi rappresenta i segni , la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’istruisce de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ saggi; e al tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi coi quali la virtù a codeste coruttele resiste [...] Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggior rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo in somma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ‘l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo [...] Ecco quanto ho io appreso da’ miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie commedie sono principalmente regolate, o almeno ho creduto di regolarle, co’ precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, peraltro, che soli certamente [...] daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest’arte. La Natura è una universale e sicura maestra a chi l’osserva. Quanto si rappresenta sul Teatro [...] non deve essere se non la copia di quanto accade nel Mondo. La commedia [...] allora è quale esser deve, quando ci pare di essere in una compagnia del vicinato, o in una familiar conversazione, allorché siamo realmente al teatro, e quando non vi si vede se non se ciò che si vede tutto giorno nel mondo.190
189 C. GOLDONI, Prefazione alle Commedie, ed. cit., p. 187. La parte in corsivo nel testo originale è in latino, qui, da me tradotta. 190 Ivi, pp. 191-192. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 71
Forte di questi convincimenti, il Goldoni si è dato a rinnovare le forme teatrali settecentesche con tre interventi graduali, per non perdere subito il favore della critica. Innanzitutto egli si è preoccupato di assicurare il primato del testo teatrale scritto rispetto alla casualità lasciata ad attori talora rozzi e tutti protesi al facile consenso del pubblico, per ridare dignità di scrittura e autenticità di messaggio all’opera teatrale. Le compagnie professioniste della Commedia dell’Arte, invece, erano composte da artisti e acrobati girovaghi, che non mettevano in scena veri e propri testi di autore ma, basandosi su un canovaccio, rappresentavano vicende arricchite con numeri acrobatici, danze e canti…Le commedie si basavano su personaggi dai caratteri stereotipati, un’esagerata gestualità, dialoghi basati sull’improvvisazione, interludi musicali e buffonerie, elementi, questi, in grado di soddisfare un vasto pubblico di diversa estrazione sociale e culturale. In pratica la Commedia dell’Arte veniva recitata a braccio da attori che improvvisavano battute e movimenti, attingendo a repertori via via arricchiti dai predecessori, sulla base di canovacci sostanzialmente ripetitivi, ma di collaudata efficacia. In secondo luogo rispetto ai canoni espressivi della Commedia dell’Arte, Goldoni sentiva pure la necessità di rendere più dinamica l’azione delle ma- schere, liberandole da ruoli fissi e immutabili. L’operazione riuscì in parte già nella prima commedia scritta per intero, La donna di garbo (1743), all’interno della quale la struttura scenica conferisce nuovi impulsi all’intreccio e alla caratterizzazione psicologica e sociale dei personaggi. La mimica facciale, infatti, che si modifica, lascia meglio esprimere sul volto tutte le dinamiche emotive dell’attore. Invece nella Commedia dell’Arte i personaggi stessi avevano caratteristiche standardizzate, che si esprimevano negli abiti, nella maschera e, soprattutto, nello stile della recitazione, nelle movenze come nel tono della voce. Alcune delle maschere più popolari nell’interpretazione degli attori professionisti erano: Pantalone, Arlecchino, Colombina, Brighella. L’intervento goldoniano più significativo e pregiato della sua riforma del teatro riguarda, infine, il linguaggio. Egli lo ha purificato rispetto alle laide espressioni della Commedia dell’Arte, rendendolo adeguato ai gusti di un pub- blico medio borghese, di modo che un padre di famiglia qualunque avrebbe potuto portare a teatro la propria figlia o la propria moglie, senza il pericolo di corromperle. Naturalmente il gusto borghese si distanziava pure dallo stile tragico dei nobili e pertanto il Goldoni si è guardato bene dall’imitare l’arido formalismo lessicale del galateo dei “cavalieri”, per venire incontro 72 MICHELE BIANCO alle esigenze ricreative e culturali della classe borghese a lui contemporanea, che proprio nel Settecento registrava una ascesa economica e politica. Distanza, dunque, dal linguaggio plebeo e dai lazzi della Commedia dell’Arte, da una parte, e ugualmente dallo stile di una conversazione ari- stocratica elevata, dall’altra, tanto più che la classe nobiliare, dall’umanità impoverita, produceva sempre più un’espressione sterilmente etichettata e meccanica. Nel portare avanti il progetto di riforma Goldoni, poi, non si è limitato soltanto ad un semplice lavoro da tavolino, ma l’ha innestata nel vivo delle rappresentazioni teatrali, nel contesto degli attori e nel mondo degli spettatori; essa non è stata magica, ma si è chiarita gradualmente, nonostante le polemi- che con Gaspare e Carlo Gozzi, oltre che con Pietro Chiari, ed è diventata operativa all’interno del mestiere di “poeta di teatro”, perché «la commedia è poesia da rappresentarsi».
10. Confronti Che il Goldoni sia uno scrittore realista, non è una novità. Se non altro lo dimostra l’inizio della commedia I Rusteghi (1760), le cui prime due scene presentano un ambiente assolutamente dipinto con naturalezza straordinaria: le donne attraverso i balconi della casa con i loro pettegolezzi e la loro ansia del mondo esterno; il costante ed intransigente richiamo al mondo del lavoro operato da Lunardo, il più duro dei “rusteghi”, ed una sua valutazione delle cose con una misura decisamente concreta. Con questo stesso approccio realistico degli ambienti prende forma, già dalle prime scene di un’altra commedia: Le baruffe chiozzotte (1762), il mondo plebeo, che diviene oggetto di rappresentazione integrale, anche qui esaminato con straordinaria naturalezza: la strada “calle”, dove le donne, sedute innanzi agli scanni che reggono i cuscini, lavorano di merletto, [come DONNA ELEONORA: «Questo tulipano non risalta come vorrei. Bisogna dargli un’ombra un poco più caricata. Vi vogliono due o tre passate di seta scura. Colombina, dammi quel gomitolo di seta bleu»: Camera in casa di donna Eleonora. DONNA ELEONORA ricamando ad un piccolo telaio],191 ma con il cuore e l’epidermica attenzione ad ogni minimo mutare del vento, che potrebbe compromettere la sorte dei loro uomini in mare; il canale con le barche del pesce in arrivo, lo scarico e la vendita del pesce; i costumi delle donne, specie quelli delle ragazze da marito; l’uso del tabacco e della zucca arrostita; la discussione sull’istituzione pubblica delle doti; ed infine la rassegna
191 CAV/DAM, 1°, I, 8. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 73 dei vari gradi di mestiere, dai braccianti del mare ai padroni delle barche. Se non che sul fronte del realismo pure il Manzoni ha tenuto presente la condizione della gente comune, quella del villaggio popolare, degli sposi promessi, non solo dal punto di vista sociale, ma anche paesaggistico, con la notazione puntuale delle percezioni acustiche e visive: «C’era [...]quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno».192 E fra tutte le realtà spicca quella delle preghiere delle mamme cristiane e quella del suono della campana della chiesa del villaggio: dimensione tra- scendentale che in Goldoni è completamente assente, perché il suo “libro del mondo” è laico ed immanente. Parimenti sul fronte nuziale, del resto, Goldoni si discosta da Manzoni, in quanto, mentre Renzo e Lucia ne I Promessi Sposi,193 contraggono matrimonio in chiesa, sia pur con un ritardo di ventiquattro mesi, le spose goldoniane, sia Florida (con Flavio), che Mirandolina (con Fabrizio) contraggono matrimonio in maniera laica, con l’esclusiva presenza dei testimoni: il conte Roberto; il conte d’Albafiorita, il marchese di Forlipopoli ed il cavaliere di Ripafratta. Realismo “sistematico” è, dunque, quello delle commedie goldoniane, come è il dubbio nella filosofia dello scetticismo, perché non riesce a travali- care i perentori confini del mondo reale. Realismo “metodico” è, invece, quello di Saba, per definirlo con un para- metro di cartesiana memoria, nella cui filosofia il dubbio mantiene appunto un carattere “metodico”, vale a dire non è fine a se stesso, ma è un procedimento finalizzato alla ricerca di un fondamento incontrovertibile di tutto il sapere. Ecco, dunque Città vecchia:
Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada.
192 A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. VII. 193 Cap. XXXVIII. 74 MICHELE BIANCO
Qui tra la gente che viene e che va dall’osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore. Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via.194
Il circostanziato mondo della realtà nella poesia del Saba, benché abietto, rimanda, dunque, in direzione verticale ad una soprannaturale dimensione divina, il che risulta, invece, improponibile nelle tematiche del teatro goldo- niano. Da notare che Umberto Saba aveva un padre cattolico ed una madre di religione ebraica. Soltanto con un altro autore, pure lui illuminista, cioè l’Alfieri, scrittore tragico, Goldoni si può porre in parallelo, se si esamina la seguente battuta: DON FLAVIO: «... non curo della vita/ Morasi una sol volta, facciamola fi- nita/ Mi liberi il mio ferro dall’orrido strapazzo/ Di una tiranna ingrata».195 Infatti Alfieri raccomanda il suicidio, piuttosto che soggiacere al tiranno. Questo è il suo convincimento espresso in due suoi scritti. Poiché «il tempio è la reggia; il tiranno n’è l’idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtù, l’onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dì vi s’immolano»,196 diventa allora necessario per uno spirito libero ed insofferente di ogni costri- zione, animarsi di una «nobile ira [che] è la superba e divina febbre dell’in- gegno e del cuore, dalla quale sola può nascere il vero bello ed il grande» e tentare «o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla».197 Titanicamente
194 U. SABA, Tutte le poesie. 195 CVL/SPR, 4°, IX, 111. 196 Della Tirannide, I, 3. 197 Del Principe e delle Lettere, III, 6. IL REALISMO GOLDONIANO. ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI ED ESPRESSIVI 75
Alfieri alimenta il culto della libertà individuale smisurata, dell’odio smisurato, del coraggio smisurato, più o meno come il Goldoni in questa scena, soltanto che nella commedia il suicidio è solo inscenato e non consumato. Da notare, inoltre, che in entrambi la concezione della libertà non è quella socio-politica, come andavano proclamando gli illuministi, ma individuale e solitaria, fino all’eroismo del suicidio. Giovanni De Pian, Il bugiardo, Atto I, scena I (Commedie buffe in prosa del sig. Carlo Goldoni, Venezia, Zatta, 1790, tomo terzo) (Venezia, Casa di Goldoni – Biblioteca)
Giuseppe Daniotto, Chi la fa l’aspetta o sia La burla vendicata nel contraccambio fra’ i chiassetti del Carneval, Atto III, scena X (Commedie del sig. Carlo Goldoni, Venezia, Zatta, 1789, tomo quinto) (Venezia, Casa di Goldoni – Biblioteca) Paola Ranzini
LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI: L’ISTORIA DI MISS JENNY FRA TRADUZIONE E RIFACIMENTO
les traductions n’ont jamais été de mon goût, et le travail me paraissait même dégoûtant sans l’agrément de l’imagination1
1. Potrebbe apparire strano che, ad onta dei giudizi sulla traduzione espressi da Goldoni nei Mémoires e delle dichiarazioni del medesimo quan- to al proprio disinteresse per la pratica traduttiva, la carriera dello scrittore culmini in un lavoro che dalla traduzione prende le mosse: la «traduzione arbitraria»2 del romanzo Histoire de Miss Jenny di Madame Riccoboni,3 pub- blicata dall’editore veneziano Curti nel 1791.4 Le ragioni di ordine economico- pratico (il vecchio Goldoni si fece traduttore del romanzo della Riccoboni per guadagnarne un compenso da elargire in favore di un altro sfortunato
1 C. GOLDONI, Mémoires, III.X, in Tutte le opere di Carlo Goldoni, a c. di G. ORTOLANI, vol. I, Mondadori, Milano 1935, p. 481. 2 La definizione si legge nel frontespizio del volume. 3 Histoire de Miss Jenny, écrite et envoyée par elle à Milady, comtesse de Roscomond, par Madame Riccoboni, Brocas et Humblot, Paris 1764, 4 tomes in-16, gravures d’après Gravelot (un’altra edizione in due volumi in-12 nel medesimo anno presso il medesimo editore). Il romanzo della Riccoboni (Marie-Jeanne Laboras de Mézières, moglie di Antoine-François Riccoboni) ebbe numerose riedizioni: 1767 (Brocas et Humblot, Paris), 1772 (Brocas et Humblot, Paris), 1775 (Humblot, Paris), quindi 1781 nelle Œuvres de Mme Riccoboni (t. IV, Humblot, Paris), 1783 nella Collection complète des œuvres de Mme Riccoboni (t. IV, Impr. de la Société Typographique, Neuchâtel), 1786 nelle Œuvres complètes de Mme Riccoboni (t. III, Volland, Paris), 1792 nelle Œuvres de Mme Riccoboni (tt. IV-V, Belin, Paris). Quindi, nel secolo successivo, oltre che nelle varie edizioni delle Œuvres complètes, il romanzo fu edito singolarmente nel 1835 (A. Desrez, Paris). Escludendo ovviamente le edizioni posteriori al 1790-1791, non è possibile affermare su quale edizione del romanzo Goldoni conducesse la propria traduzione-rifacimento. 4 Istoria di Miss Jenny, scritta a addirizzata dalla medesima a milady Contessa di Rosco- mond, ambasciatrice della corte di Francia. Opera di Madama Riccoboni celebre autrice francese. Traduzione arbitraria del sig. Avvocato Carlo Goldoni, in Venezia, A. Curti, 1791, 2 tomi. 78 PAOLA RANZINI italiano a Parigi)5 se sono da considerarsi in primo piano, non sono tuttavia le sole a presiedere a tale scelta. La carriera goldoniana non appare priva di momenti e occasioni che suggeriscono l’attrazione dell’autore verso il genere del romanzo. L’opera cronologicamente più vicina alla traduzione-rifacimento dell’Histoire de Miss Jenny è l’autobiografia goldoniana che appare, in lingua francese, nel 1787. I Mémoires, pur registrando una chiara tendenza alla teatralizzazione della scrittura, come è stato ampiamente dimostrato dagli studiosi di tale opera, testimoniano l’interesse per una scrittura che si avvicini a quella del romanzo. Occorre poi ricordare che, quando, nel suo teatro, ha affrontato tematiche quali l’amore indagando la psicologia femminile, Goldoni ha optato per i tempi lunghi, da romanzo appunto: si pensi alla trilogia della Villeggiatura (1761) e, quindi, alla trilogia di Zelinda e Lindoro (1764-1765). Ben prima di tali trilogie, il teatro goldoniano incontra il romanzo con La Pamela (1750)6 che trova l’ispirazione e il soggetto nella fortuna europea del romanzo inglese del Richardson e, più in generale, del romanzo patetico e lacrimoso. La traduzione-rifacimento dell’Histoire di Miss Jenny offre a Goldoni la possibilità di farsi ‘autore’ di un romanzo, ben più che traduttore di un’ope- ra altrui. L’analisi del lavoro goldoniano mostra come il nostro non fosse assolutamente interessato né a discutere in sede teorica né a porsi nella sua pratica di traduttore questioni che pure, essendo usuali nel dibattito sette- centesco sulla traduzione, non dovevano certo essergli ignote. Le questioni di lingua e di stile rimangono lontane dal suo lavoro, teso piuttosto a una riscrittura razionalizzante, se non proprio moralizzante,7 del romanzo della Riccoboni. Del disinteresse da parte di Goldoni nei confronti delle questioni teoriche poste dall’attività traduttiva, che egli vede piuttosto quale operazione di trascri- zione passiva, quasi meccanica, si hanno innumerevoli prove in quei passi dei Mémoires in cui il commediografo esprime il suo giudizio su talune traduzioni francesi delle proprie opere. Prima occasione in cui si trova a esprimersi sullo statuto e sul merito di una traduzione è il passo in cui il memorialista ricorda di avere assistito a Parma a una rappresentazione della Famiglia dell’antiquario data dalla compagnia Delisle: Goldoni, pur facendo notare la diversità dello
5 Sulla questione, cfr. almeno F. VAZZOLER, Prefazione in C. GOLDONI, Istoria di Miss Jenny, Franco Muzzio Editore, Padova 1993, part. pp. XVI-XVII. 6 A essa farà seguito nel 1759 la Pamela maritata. 7 Sugli interventi finalizzati a una generale moralizzazione, cfr. VAZZOLER nella Prefazione citata, pp. XVII-XVIII. LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 79 scioglimento rispetto al suo originale, continua a considerare che si tratti di una traduzione8. Nel 1761, secondo il racconto dei Mémoires, Goldoni scoraggiò una traduzione francese progettata da Poinsinet de Sivry, infastidito dall’intrapren- denza del traduttore e ponendo a pretesto la difficoltà data dal plurilinguismo delle proprie opere.9 Ancora la «difficoltà delle traduzioni»10 è sottolineata nel momento in cui Goldoni riferisce di avere tentato di farsi traduttore di se stesso per dimostrare il proprio valore come autore di teatro nei circoli intellettuali parigini. Il termine ‘difficoltà’ è però utilizzato in tale occorrenza come sinonimo di ‘fastidio’, il fastidio che un simile lavoro gli suscita.11 Goldoni mai superò tale fastidio, che lo portò a una incapacità di autotra- duzione, di cui sono prova evidente gli esperimenti approdati nella prosa dei Mémoires e cioè i lacerti delle Memorie italiane (le Prefazioni Pasquali), che ven- gono sottoposti a una duplice operazione («je commence par fondre et mettre en François tout ce qu’il y a dans les Préfaces historiques des dix-sept volumes de Pasquali»),12 e le citazioni di passi delle sue opere teatrali, disseminate nella seconda parte, che subiscono una riscrittura creativa, cui non si sottraggono nemmeno i titoli.13 A Parigi, Goldoni cercò di dissuadere, come egli dichiara, i molti letterati desiderosi di tradurre il suo teatro insistendo ancora una volta sulla difficoltà di una simile impresa: «je tâchai de les dégoûter tous également d’une entreprise, dont ils ne connoissoient pas les difficultés».14 Fra i primi traduttori francesi del suo teatro, nei Mémoires è citato l’ano- nimo autore (Charles Sablier) del Théâtre d’un inconnu15 che, nel volume
8 GOLDONI, Mémoires, II.VIII: «cet Auteur
25 Choix des meilleures pièces du théâtre italien moderne, trad. en françois, avec des disser- tations et des notes, par M. E.B.D, Morin, Paris 1783. 26 GOLDONI, Mémoires, III.X: «Il est vrai que l’Actrice principale de cette Pièce est intri- gante et adroite; mais elle paroît aux yeux des personnages de la Comédie une brave femme, et c’est d’après cette apparence que, par une espèce d’ironie, je lui ai donné le titre de brave femme» (ed. cit., p. 483). 27 Ibid.: «j’aurois mieux aimé qu’il se donnât plus de liberté dans sa traduction pour la rendre plus lisible et plus supportable en François; mais ayant rendu le texte mot pour mot, il est tombé dans l’inconvénient d’une diction triviale et insipide». 28 Ibid.: «on ne peut faire connoître le génie de la littérature étrangère que par les pensées, par les images, par l’érudition; mais il faut rapprocher les phrases et le style du goût de la nation pour laquelle on veut traduire». 29 Ivi, III.XXXVII: «Je trouvai la traduction exacte, le style n’étoit pas coupé à ma manière, mais chacun a la sienne; le Traducteur avoit changé le titre […], je n’en étoit pas mécontent» (ed. cit., p. 591). 30 Ibid. 82 PAOLA RANZINI
Non è un caso se, accanto ai tanti fallimenti altrui di traduzioni per il te- atro, Goldoni ricordi nei Mémoires il successo ottenuto dalla ‘sua’ Scozzese, adattamento (e non traduzione!) della volteriana Le Café ou l’Ecossaise. Scopo dichiarato del suo lavoro è quello di fare conoscere ma altresì apprezzare l’opera a un pubblico italiano, di qui la scelta obbligata dell’adattamento:
J’eus grande envie de traduire l’Écossoise pour la faire connoître et goûter à ma Nation; mais en relisant la Pièce avec des réflexions relatives à l’objet que je m’étois proposé, je m’apperçus qu’elle ne réussiroit pas telle qu’elle étoit sur les Théâtres d’Italie. […] Mais j’avois promis que l’Écossoise paroîtroit sur le Théâtre Saint Luc, et regardant l’exacte traduction comme dangereuse, je ne pensai plus qu’à l’imiter; je fis une Pièce Italienne d’après le fond, les caractères et l’intérêt de l’original François.31
Goldoni riferisce che la ‘sua’ Scozzese, ultima a essere rappresentata sulle scene veneziane dopo altre due versioni della commedia volteriana date ri- spettivamente al Sant’Angelo e al San Samuele, di cui la seconda presentata quale traduzione letterale dell’originale, fu la sola a incontrare un successo di pubblico. Si sofferma quindi sui principali cambiamenti di ordine strutturale (anticipazione dell’entrata in scena di uno dei personaggi, Milord Murrai, cambiamento di statuto, da giornalista impertinente a chiacchierone perdi- tempo, di un altro personaggio) che egli ha apportato. Per il vero, oltre agli interventi ricordati nei Mémoires, si deve segnalare una capillare revisione condotta su un piano più propriamente di stile, come si vede nella costru- zione dei dialoghi e nell’attenzione impiegata a far sì che momenti patetici si alternino con momenti comici;32 ne risulta, come ha scritto Marzia Pieri, una «minuziosa riscrittura meno ideologica e più teatrale».33 Nell’Autore a chi legge che precede la commedia nell’edizione Pasquali (tomo XIII, 1775), Goldoni definisce il lavoro condotto sull’originale volteriano un’imitazione in vista di un adattamento al gusto italiano. Il successo a teatro del rifacimento goldoniano non solo è una prova del fatto che l’autore sia uscito vittorioso dalla «sfida di riscrivere sulla scena una storia inventata da altri»,34 ma di- mostra altresì che il giudizio di Goldoni sulla preferenza da darsi, a teatro, all’adattamento (in funzione del pubblico e del gusto della nazione) piuttosto che alla traduzione, considerata operazione scontata e facile, è condiviso dal
31 Ivi, II.XLIV, ed. cit., p. 427 (mio il corsivo). 32 M. PIERI, Introduzione, in C. GOLDONI, La Scozzese, a c. di M. PIERI, Marsilio, Venezia 2006, p. 23. 33 Ibid. 34 Ivi, p. 21. LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 83 pubblico stesso: «Ha compreso il Pubblico la difficoltà di far piacere le sem- plici traduzioni […] e che un’imitazione discreta, e sensata può far gustare le Opere degli Autori stranieri».35 Non stupisce allora che, destinando a un pubblico italiano le proprie commedie francesi e «alla francese», il Bourru bienfaisant e l’Avare fastueux, Goldoni ne presenti un vero e proprio rifacimento.36
2. Da tale rapida rassegna si può vedere che i termini e i concetti chiave attorno ai quali ruotano i giudizi goldoniani sulla traduzione sono: la ‘dif- ficoltà’, l’‘esattezza’ (termine questo usato in accezione negativa), la ‘tradu- zione’ opposta all’‘imitazione’, il binomio ‘fare conoscere e gustare’ assunto costantemente a finalità, la resa stilistica e l’adeguamento culturale considerati come esigenza prima del lavoro del traduttore, e in particolare del traduttore di teatro. Ai fini di inserire la critica e la pratica goldoniana della traduzione entro il nutrito dibattito settecentesco37 si impone qualche osservazione preliminare. Va anzitutto sottolineato che, anche se nel Settecento proliferano le traduzioni da lingue moderne, e specialmente dal francese, grazie alla moda del romanzo, le discussioni teoriche, spesso tanto vivaci da trasformarsi in polemica lette- raria, prendono le mosse piuttosto dalla traduzione dei classici greco-latini. Del resto, solo le traduzioni dei classici sono accompagnate da prefazioni critiche che espongono argomentazioni relative alle questioni di traduzione. La spiegazione più ovvia di tale fenomeno va ricercata nel diverso pubblico che le une e le altre traduzioni presuppongono: un pubblico di eruditi per le traduzioni dei classici, un pubblico borghese, specialmente femminile, per la traduzione di opere moderne, dei romanzi in particolare. Ma la diversità di atteggiamento del traduttore dei classici greco-latini e del traduttore di lingue moderne poggia altresì su una base teorica, in quanto soltanto la traduzione «verticale»,38 a partire dalle lingue antiche, consente ai traduttori di ricondurre il loro lavoro alle discussioni coeve della filosofia delle lingue.
35 GOLDONI, La Scozzese, ed. cit., p. 70 (mio il corsivo). 36 Sulla questione, si veda almeno l’introduzione di Paola Luciani in C. GOLDONI, Le bourru bienfaisant, a c. di P. LUCIANI, Marsilio, Venezia 2003. 37 Sulle teorie della traduzione, cfr.: C. FANTI, Teorie della traduzione nel Settecento italiano, Tipografia Compositori, Bologna 1980; E. MATTIOLI, Storia della traduzione e poetiche del tra- durre (dall’Umanesimo al Romanticismo), in ID., Studi di poetica e retorica, Mucchi, Modena 1983; M. MARI, Momenti della traduzione fra Settecento e Ottocento, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1994. 38 Cfr. G. FOLENA, Volgarizzare e tradurre: idea e terminologia della traduzione dal Medioevo italiano e romanzo all’umanesimo europeo, in AA. VV., La traduzione. Saggi e studi, Lint, Trieste 1973. 84 PAOLA RANZINI
Termini e concetti chiave del dibattito teorico sulla traduzione sono, nel Settecento, l’‘inerenza’ (termine utilizzato in luogo di ‘fedeltà’), il ‘compenso’ (oggi si direbbe ‘compensazione’), il ‘genio della lingua’,39 la finalità dichiarata delle traduzioni essendo una sorta di ‘gara con l’originale’ insieme al rinno- vamento linguistico considerato quale necessità improrogabile per la lingua letteraria italiana.40 Una definizione del concetto di inerenza si deve, all’inizio del secolo, a Scipione Maffei:
Non bisogna intendere quest’inerenza, e quest’esattezza per un parlar Greco, o Latino in volgare, ma per un lasciar il suo Autore tal quale sta, e solamente trovar le parole, e le forme corrispondenti, se di quelle stesse il genio dell’altra lingua non è capace.41
L’inerenza evita dunque il rischio di una esatta, ma piatta riproduzione dell’originale, esigendo dal traduttore il rispetto del genio della propria lingua, in nome del quale si impone il ricorso a termini e a espressioni corrispondenti (e non identici) a quelli dell’originale. Contro la tendenza all’abbellimento, alla «copia del dire», l’inerenza implica però la resa dello stile e del registro dell’originale.42 Grazie al sensismo, nel corso del secolo, il concetto di ine- renza diviene il fondamento della teoria secondo cui scopo della traduzione è la riproduzione dei medesimi effetti dell’originale mediante un diverso
39 Cfr. la definizione di Condillac nell’Essai sur l’origine des connoissances humaines, II.I.5 e quella di Jaucourt alla voce Langue dell’Encyclopédie. Sulla questione, cfr. L. ROSIELLO, Analisi semantica dell’espressione «genio della lingua» nelle discussioni linguistiche del Settecento ita- liano, in., AA. VV., Problemi di lingua e letteratura italiana del Settecento, Franz Steiner Verlag, Wiesbaden 1965, pp. 373-384. 40 Cfr. per esempio Melchiorre Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue: «Un tradut- tore di genio prefiggendosi per una parte di gareggiar col suo originale, e sdegnando di restar soccombente: temendo per l’altra di riuscire oscuro e barbaro ai suoi nazionali, è costretto in certo modo a dar la tortura alla sua lingua per far conoscere a lei stessa tutta l’estensione delle sue forze, a sedurla accortamente per vincer le sue ritrosie irragionevoli e ravvicinarla alle straniere, a inventar vari modi di conciliazione e d’accordo, a renderla infine più ricca di flessioni e d’atteggiamenti senza sfigurarla o sconciarla.» (M. CESAROTTI, Saggio sulla filosofia delle lingue, in ID., Opere scelte, a c. di G. ORTOLANI, 2 voll., Le Monnier, Firenze 1945-1946, I, pp. 3-115 [107-108]). 41 S. MAFFEI, Osservazioni letterarie che possono servir di continuazione al Giornal de’ Letterati d’Italia, 3 tomi, Vallarsi, Verona 1737-1738, t. I, Articolo XII, pp. 259-260 (mio il corsivo). 42 Cfr., per esempio, le osservazioni di Scipione Maffei su una traduzione di Girolamo Tagliazucchi da Cicerone: «Causis gravioribus si rende adunque di molt’importanza e rilievo; commoveri si rende agitare, e commuovere poi [afferat] anima, e affida. […] [fides facultatis] l’uficio, e il debito; […] [inusitatum] sì strano, e sì nuovo. La copia del dire e la ricchezza dei sinonimi, fa ottimo effetto per l’eloquenza alle volte, ed in certi luoghi; ma poiché Cicerone in questo non se n’è valso, parrebbe, non dovesse farsi lecito di valersene quel traduttore, che vuol rappresentarlo con le sue fattezze medesime». (MAFFEI, Osservazioni letterarie, cit., t. I, Articolo XII, pp. 261-262). LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 85 strumento linguistico, il che implica l’utilizzazione di una gamma di espres- sioni, proprie e metaforiche, differenti perché riflettono le diverse condizioni storico-geografiche all’origine delle diverse nazioni e delle diverse lingue.43 Sullo scorcio del secolo, Melchiorre Cesarotti biasima le
traduzioni fredde ed esangui che ci presentano un cadavere in luogo d’un corpo animato, […] lavorate con quella infedelissima fedeltà che sacrifica ad una parola arbitraria o ad una frase inconcludente tutti i pregi e le qualità dello stile, o con quella pedanteria scolastica che per mostrar d’intendere l’etimolo- gia d’una voce, stempera un’espressione viva e rapida come un lampo, in una fredda perifrasi grammaticale, o finalmente con quella goffa e servil timidezza per cui l’interprete sembra uno schiavo cogli abiti del suo padrone.44
La traduzione deve produrre nel nuovo fruitore le medesime sensazioni che suscita l’originale grazie alle varie figure di stile e ritmo impiegate. In virtù dell’«arte dei compensi»,45 il traduttore espliciterà le idee accessorie che le espressioni utilizzate nella lingua d’arrivo non sanno più evocare; d’altro canto egli cancellerà qualche idea espressa in modo esplicito nell’originale quando la lingua d’arrivo possa renderla implicitamente per allusione, grazie alle metafore o alle figure di stile e di ritmo: «l’autor originale, se non conserverà sempre le sue identiche bellezze troverà nella traduzione un equivalente e talor per avventura potrà far guadagno nel cambio».46 Nonostante nel Settecento la teoria della traduzione conti molti contributi di strabiliante modernità, il traduttore dalle lingue moderne, interessandosi a opere appartenenti a generi ancora poco codificati e quindi liberi da una normativa troppo costrittiva, può oscillare fra traduzione, adattamento e ri- facimento senza nemmeno sentirsi in dovere di giustificare le proprie scelte. Propria del secolo (in ambito italiano si pensi almeno al Beccaria) è, del resto, la convinzione dell’esistenza di uno stile medio comune a tutte le lingue, che ha come modello la lingua universale per eccellenza, in quanto lingua della
43 Cfr. CONDILLAC, Essai sur l’origine des connoissances humaines (1746), in ID., Œuvres philosophiques, par G. ROY, P.U.F., Paris 1947, 3 voll., I. In ambito italiano, l’esposizione della concezione sensistica della lingua si deve a Cesare Beccaria, negli articoli pubblicati nel «Caffè» (il Frammento sugli odori, 1764 e il Frammento sullo stile, 1764) e nelle Ricerche intorno alla natura dello stile (1770). 44 M. CESAROTTI, Ragionamento preliminare al corso ragionato di Letteratura greca, in ID., Opere scelte, a c. di ORTOLANI, cit., II, pp. 301-322 [318-319]. 45 Cfr. l’utilizzazione di tale espressione, ripresa dal Delille, in CESAROTTI, Ragionamento storico-critico
47 Ha scritto Folena: «l’italiano del Goldoni apre, pur con tutti i suoi impacci e le sue difficoltà, una nuova tradizione di lingua media e colloquiale». (G. FOLENA, Una lingua per il teatro, in ID., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Einaudi, Torino 1983, ora in M. PIERI (a c. di), Il teatro di Goldoni, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 189-216 [199]). LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 87 e fraseologici, come si vede nella riproduzione di costruzioni sintattiche poco idiomatiche e, quand’anche coincidenti con forme latineggianti, desuete in lingua italiana. Qualche esempio:48
garda le lit (p. 108) guardò il letto (p. 7) elle gardoit un morne silence (p. 146) ella guardava un pensieroso silenzio (p. 33) il gardoit un profond silence (p. 154) egli guardava […] un profondo silenzio (p. 38) soins caressans (p. 108) attenzioni carezzanti (p. 7) regards caressans (p. 174) sguardi carezzanti (p. 51) sortir, sortant (molteplici occorrenze) sortire, sortendo les incommoder (p. 109) incomodarli (p. 8) davantage (molteplici occorrenze) di avvantaggio de quel prix étoient à ses yeux […] di qual prezzo erano a’ suoi occhi […] (p. 147) (p. 35) j’ai donné […] des larmes (p. 156) donai […] delle lacrime (p. 40) entreprises (ex. p. 125) intraprese (p. 18) armée (ex. p. 136) armata (p. 26) un journal (p. 140) giornale (nel senso di diario) (p. 29) pavillon (p. 216) paviglione (p. 83) l’extrême politesse (p. 286 e numerose l’estrema politezza (p. 132) altre occorrenze) ses obligeantes expressions (p. 286) le sue espressioni obbliganti (p. 132) le lendemain il fut exact (p. 287) il giorno dopo fu esatto (p. 133) sa jeunesse, ses qualités aimables, sa la di lei gioventù, le di lei amabili qualità, tendresse, son malheur, intéressèrent la sua tenerezza, la perdita dolorosa che vivement le coeur sensible de milord. fatta aveva, interessarono vivamente il (p. 144 e numerose altre occorrenze del cuor del Conte (p. 32) verbo) vous nommer ma fille (p. 145) nominarvi mia figlia (p. 33) d’un air si poli (p. 158) in una maniera sì polita (p. 41) rejetée (p. 197) rigettata (p. 69) je parus à la toilette de vingt femmes comparvi alla tavoletta di venti donne (p. 197) (p. 69) que devint-elle (p. 120) che divenne ella (con posposizione del soggetto) (p. 15) en le voyant (p. 120) in vendendolo (p. 15) la fuyoit-il? (p. 120) la fuggiva egli (con posposizione del soggetto) (p. 15)
48 Qui e di seguito i riferimenti al romanzo della Riccoboni e alla traduzione goldoniana sono da ricondursi alle seguenti edizioni: Histoire de Miss Jenny, in Œuvres de Madame de Riccoboni, Foucault, Paris 1818, t. I, pp. 97-437, documento riprodotto e liberamente consultabile in linea: 88 PAOLA RANZINI
puis-je vivre (p. 121) poss’io vivere (con posposizione del soggetto) (p. 16)
aux regrets les plus vifs (p. 145) al dolore il più vivo (p. 33) sans rien perdre de leur force (p. 147) senza niente perdere della loro forza (p. 35) dans la crainte qu’un legs trop considé- temendo che un legato troppo consi- rable ne m’attirât de puissans ennemis derabile non mi attirasse troppi nemici (p. 154) (pp. 38-39)
La valutazione della presenza di francesismi deve essere, tuttavia, assai circospetta perché in Goldoni, come ha esemplarmente spiegato Gianfranco Folena, il francese e i francesismi sono attivi ben prima della frequentazione assidua della lingua francese e, aggiungiamo noi, ben al di là dello spazio di una traduzione dal francese. Del resto, nell’Istoria di Miss Jenny i francesismi sono disseminati anche in frasi che non provengono dall’originale, in quei passi che vengono originariamente scritti in italiano da Goldoni.49 Certo è che l’inerzia del traduttore nei confronti del proprio originale, conduce a qualche errore:50 www.bnf.fr, Bibliothèque numérique Gallica (nella trascrizione opero una modernizzazione della grafia limitatamente all’uso degli accenti, in particolare per il circonflesso); GOLDONI, Istoria di Miss Jenny, scritta da Madama Riccoboni, Prefazione di VAZZOLER, cit. Per isolare ed evidenziare singoli termini o espressioni all’interno delle citazioni, farò ricorso al corsivo. Gli eventuali tagli operati dal traduttore saranno segnalati dalle parentesi quadre, le aggiunte da quelle unicinate. 49 Cfr. per esempio la frase seguente che sostituisce tutto il brano dell’originale su Milord Edmond Clare: «Di tutto questo fummo esattamente istruite; ma indovinare non si poteva chi fosse il giovane che ci aveva colmate di politezze» (p. 42). 50 Si noterà che in un caso almeno, l’errore si cela piuttosto dietro la creatività, in quanto la rielaborazione di un passo fa sospettare una mancata comprensione dell’insieme:
mais la crainte du plus triste événement tenoit mon ma la tema d’ingannarmi non mi permise di cercare cœur dans un trouble continuel, et ne me laissoit di chiarirmi (p. 132) point assez de tranquillité d’esprit pour m’occuper long-temps d’une recherche si frivole (p. 286) Nella versione goldoniana cade, come si vede, l’allusione al «triste evento»: il traduttore non ha compreso che il timore della protagonista è per la morte sentita come imminente di Lidy. Altre volte gli errori apparenti sono in verità refusi della princeps (da emendarsi in un’edi- zione critica moderna). Es.:
s’abandonna à la noire mélancolie (p. 278) si abbandonò ad una vera melancolia (p. 127)
elle le pria de me faire part du sujet de leur entre- ella lo pregò […] di farmi noto il soggetto che ci tien (p. 283) aveva occupati (p. 129) LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 89
ces points furent long-temps débattus questi punti furono lungamente com- (p. 117) battuti (p. 13) où la querelle venoit de s’élever dove la rissa terminato avea di scoppiare (p. 119) (p. 14) l’affaire […] vous regarde; elle est pres- l’affare […] riguarda voi particolarmen- sante (p. 120) te; la cosa è interessante (p. 15) dans la crainte qu’une passion si vive ne temendo che una passione sì viva ne lo le conduisît (p. 125) conducesse (p. 18) regarder dans sa bonté cette malheureuse riguardar colla sua protezione quest’or- orpheline (p. 149) fana sventurata (p. 36) qu’il m’eût été plus doux de passer seule che mi sarebbe stato piu dolce passarli (p. 237) da sola (p. 99) dont je ne pouvois me défendre (p. 335) di cui non poteva disfarmi (p. 167) le service qu’il me demande avec tant il servigio che istantemente mi chiede d’instances (p. 384) (p. 195) nous étions revenus […] depuis un mois dopo un mese di assenza (p. 207) (p. 411) sérieusement (ex. p. 415 e altre occorrenze) seriosamente (p. 210)
In altri punti della traduzione, invece, il traduttore si distacca dalla riprodu- zione meccanica delle espressioni utilizzate nell’originale mostrando la propria consapevolezza nell’utilizzazione degli strumenti linguistici di cui dispone ai fini di una resa stilistica efficace nella lingua d’arrivo. In talune battute dialogiche, il tono assunto per scelta è quello teatrale, come si vede nella concentrazione del discorso in formule lapidarie o nelle ripetizioni ad effetto:
milord, tout est rompu j’espère que tutto è finito. Addio… per sempre vous voulez bien recevoir mes adieux (p. 14) (p. 119) il a rompu sans retour (p. 124) tutto è finito, senza riparo... (p. 18) je me suis tu (p. 207) all’opposto ho creduto dover tacere, e ho taciuto (p. 77) tant que je respire, vous avez un père, sin che il cielo mi lascia in vita, voi avrete [son pouvoir est foible, mais son af- in me un padre (p. 135)51 fection est grande, et jamais elle ne se démentira.] (p. 291)
Taluni passi contenenti descrizioni di azioni divengono vere e proprie scene teatrali grazie ai tagli che subiscono le esplicitazioni dei pensieri e dei moti interiori del personaggio agente, o grazie a oculate aggiunte:
51 La soppressione della seconda parte della frase in traduzione non soltanto opera una mag- giore concisione, ma ha altresì l’effetto di fare terminare il discorso con il termine ‘padre’. 90 PAOLA RANZINI je fixai le portrait de Ladi Sara. [Sa vue fissai gli occhi nel ritratto di lady Sara, me toucha vivement.] Je tombai à ge- caddi a ginocchio, le braccia stese verso noux, les bras étendus vers cette image quell’effigie: «Oh mia madre» […] [; et la regardant comme si je l’apercevois (p. 51) pour la première fois]: ô ma mère […] (p. 173) J’instruisis Lidy et M Peters du don
Tendenti alla teatralizzazione sono anche altre scelte stilistiche del tradut- tore, per esempio la resa di un verbo mediante l’utilizzazione di un diverso tempo, una sostituzione che provoca nella frase italiana bruschi cambiamenti di tempo verbale (quanto presenti nella prosa francese dei Mémoires!). Si noterà in particolare il passaggio dal passato remoto o dall’imperfetto indicativo al presente indicativo (una scelta mirante alla riproduzione dell’‘istantaneità’ dell’azione, in quanto l’azione viene mostrata nel momento stesso del suo svolgersi).52 Qualche esempio opposto (sostituzione, nella traduzione, di un presente con un passato remoto) si spiega parimenti con la visualizzazione dell’azione. Per esempio nella frase: «au sort funeste qui nous l’enlève» (p. 146) tradotta: «il destino funesto che ce lo rapì» (p. 34), il cambiamento consente di rendere concreto (e visibile) l’istante stesso della morte del personaggio, anziché soffermarsi, come si fa nell’originale, sulle conseguenze nel presente della morte del personaggio avvenuta in un passato recente. Nei rari esempi in cui si attua la sostituzione del passato remoto con l’imperfetto si nota, invece, la volontà di trasformare quella che è presentata come un’azione in un’attitudine psicologica che fornisce una motivazione dell’agire.53 In un caso, ritroviamo in traduzione l’indicativo imperfetto del verbo potere in luogo del condizionale passato per esprimere
52 Es.: le Comte De Revell rechercha son amitié, apprit à Il conte di Revell domanda ad Alderson la sua ami- l’amant de Sara l’art […] (p. 107) cizia, insegna all’amante di Sara l’arte […] (p. 6) en parlant, il le menoit vers son carrosse (p. 120) così parlando, lo conduce verso la sua carrozza (p. 15) 53 Es.: il n’osa rompre le silence (p. 120) non ardiva rompere il silenzio (p. 15) In traduzione si perde la sottolineatura di istantaneità nella prima azione della serie seguente: elle joignit ses mains, les levoit vers le ciel, et s’écrioit giungeva le mani, le alzava al cielo, esclamando (p. 278) […] (p. 127) LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 91 potenzialità: una sostituzione che provoca un abbassamento di registro.54 Altrove è la posterità rispetto a un tempo passato di un verbum dicendi che sfugge alle regole grammaticali e viene resa con un futuro indicativo, come se si trattasse di un discorso diretto:55
je répondis à Sir James que […] je me risposi a sir James che […] mi confermerò conformerois à ses volontés (p. 236) sempre alle di lui disposizioni (p. 98) il me dit qu’il verroit Miladi D’Anglesey, mi aggiunse che vedrà miledy d’Anglesey, et lui communiqueroit un projet dont il e le comunicherà un progetto di cui non n’osoit me parler avant de savoir si cette ardisce parlarmi prima di sapere se questa dame l’approuveroit (p. 287) dama l’approverà (p. 132)
Un ruolo di grande importanza svolgono nell’architettura generale del romanzo la citazione in extenso degli scambi epistolari dei vari personaggi. Nell’italiano di Goldoni tali passi tendono a distaccarsi dal corpo della narra- zione esibendo uno stile marcato dall’uso di ridondanze retoriche ed espressioni enfatiche (assenti nell’originale), come si vede negli esempi che seguono:
Puis-je vivre et penser! (p. 121) Poss’io vivere, poss’io respirare (p. 16) mon désespoir, mes larmes ne me laissent la mia disperazione, le mie lacrime inter- pas la liberté d’écrire (p. 121) rompono i tratti della mia penna (p. 16) demain viendra et je ne vous verrai come! vedrò sorger domani la novella point! (pp. 122-123) aurora, e non vedrò più meco il mio bene (p. 17)
Un tratto stilistico, proprio del traduttore, che domina la prosa italiana dell’Istoria di Miss Jenny è la predilezione accordata alla costruzione bimem- bre: dittologie sinonimiche (formate da sostantivi, aggettivi, verbi) rendono un solo termine dell’originale o sostituiscono una costruzione trimembre:
le naturel tendre (p. 104) l’indole sua portata sempre alla bontà e alla dolcezza (p. 5) je suis téméraire, hardi, condamnable sono temerario, condannabile (p. 10) (p. 111) en vous servant (p. 147) e le cure e le attenzioni che mi propongo di aver per voi (p. 34)
54 Cfr.: quelle idée de bonheur auroit flatté (p. 147) quale idea di felicità poteva lusingare (p. 34)
55 Altro tratto stilistico che accomuna la prosa dell’Istoria di Miss Jenny a quella dei Mémoires con i suoi continui e quasi impercettibili passaggi dal discorso indiretto alla trascrizione di un discorso diretto o all’indiretto libero. 92 PAOLA RANZINI
par les plus tendres caresses (p. 175) colle più tenere e le più sincere carezze (p. 52) dépendante de lui, de son amour, de ses schiava del suo affetto e delle sue bene- bienfaits (p. 202) ficenze (p. 73) sa rencontre, son amour et sa générosité il suo amore e la sua generosità (p. 74) (p. 203) je ne crus pas devoir en montrer
In qualche caso la costruzione bimembre introduce la figura del paralle- lismo e dell’anafora:
puis-je vivre et penser (p. 121) poss’io vivere, poss’io respirare (p. 16) je ne puis aller gémir à vos pieds non posso raggiungervi, non posso ge- (p. 122) mere ai vostri piedi (p. 16) c’étoit pour Edouard une peine insup- quest’era per Edoardo una pena insop- portable (p. 127) portabile,
56 La frase aggiunta sfoggia una duplice costruzione bimembre (parallelismo e anafora). 57 Come si vede Goldoni non mantiene il parallelismo con variatio, ma ricorre a un’anafora (assente nell’originale) aggiungendo qualche riga dopo «voglia il cielo». LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 93
Tale caratteristica della prosa goldoniana dell’Istoria di Miss Jenny si deve interpretare quale inutile sfoggio di eleganza, quale ‘copia del dire’?58 A mio parere, il traduttore ha voluto qui creare clausole che conferiscano un ritmo alla prosa. I casi di duplicazione di un termine in una coppia sinonimica mo- strano, invece, una tendenza (tutta razionale) alla massima precisione. Taluni passi della traduzione goldoniana mostrano una timida, e del tutto particolare, applicazione (inconsapevole?) dell’«arte dei compensi»: un ter- mine (o un’idea) presente nell’originale in una frase o in un sintagma cassati serve a tradurre, impropriamente o comunque in modo approssimativo o arbitrario, un altro termine di una frase o di un sintagma adiacenti alle parti soppresse. Qualche esempio:
il s’exprima avec tant de hauteur, [se mon- egli si espresse con tanto orgoglio, che il tra si déterminé à rompre si l’on contestoit Conte alla fine s’impazientò (p. 13) ses volontés, il sembloit faire tant de grâces à Edouard], que le comte, [fatigué d’un or- gueil si déplacé], s’emporta enfin (p. 117) les gens d’Edouard […] furent enfin i servi di Edoardo […] furono finalmen- obligés de lui avouer la triste situation te obbligati ad isvelare la malattia di lady de Ladi Sara. La connoissance de son Sara. Lo stato di Sara […] (p. 19) mal (p. 125) questo prezioso biglietto, […] che poteva son billet […] rassurant Edouard sur des sperare la conservazione della vita di jours si chers (pp. 126-127) Sara (pp. 19-20)
en vous servant madame, que j’en don- e le cure e le attenzioni che mi propongo nerai des preuves constantes. Daignez di aver per voi, madama, ne saranno una me regarder comme un homme unique- prova sicura. Degnatevi riguardarmi ment occupé du désir de vous obliger come uomo unicamente occupato dal (p. 147) desiderio di servirvi (p. 34)
[Il ne cherchoit point à m’inspirer de la ascoltando un uomo
In traduzione, in virtù di taluni termini introdotti in alcuni passi, la visio- ne religiosa o almeno teleologica della vita umana appare insistita: si pensi
58 Cfr. supra nota 42. 94 PAOLA RANZINI all’«espiazione» del proprio errore cui fa cenno Lady Sara morente,59 o alla «Provvidenza» che, pur presente in taluni passi dell’originale, nella traduzione appare impiegata a rendere tanto lo «hasard» del caso (e persino di un caso avverso!)60 quanto il «droit naturel».61 Per quel che riguarda le metafore, il traduttore tende a evitare la resa letterale delle immagini create dall’autrice preferendo l’esplicitazione delle medesime o, almeno, il ricorso all’equivalenza che ne cancelli i tratti concreti, come si vede negli esempi che seguono: on m’a peint le monde sous des couleurs mi fu fatto di questo mondo un ritratto étranges (p. 209) disaggradevole (p. 78) jetant en vain de sombres regards autour mi trovai senza modi e senza speranza de moi, je n’apercevois plus rien dont alcuna (p. 127) j’eusse le pouvoir de disposer (p. 280)
La catalogazione delle tipologie degli interventi del traduttore su un piano stilistico e formale che ho qui tracciato non deve fare dimenticare che nell’Istoria di Miss Jenny gli interventi più significativi sono, tuttavia, quelli che riguardano la ristrutturazione e la ridistribuzione della materia romanzesca, i tagli e le aggiunte di interi passi, volti a conferire una nuova architettura e un nuovo senso al romanzo, conformemente alla volontà di realizzare un’imi- tazione dell’originale, di comporre cioè un romanzo italiano condotto sulla falsariga di quello francese. Nell’Istoria di Miss Jenny, la struttura dell’originale viene completamente riveduta. La trama del romanzo della Riccoboni è condotta sullo svelamento progressivo di un duplice segreto, tanto che qualche critico ha scritto che tutta la storia potrebbe dirsi un giallo ante litteram: attraverso il racconto- confessione della protagonista, che ha come scopo quello di fornire spiegazioni al destinatario fittizio (la contessa di Roscomond), il lettore deve scoprire a poco a poco perché Miss Jenny rifiuti la proposta di matrimonio da parte
59 Cfr.: ma faute vous est connue […] je l’ai cruellement il mio fallo vi è noto […] io l’ho crudelmente sentie (p. 149) espiato (p. 36) 60 Difficile pensare alla Provvidenza che porta Sir James Huntley sul cammino di una disperata Miss Jenny: quand le hasard m’offrit un moyen de changer ma ma la Provvidenza mi aprì la strada per cambiare situation (p. 197) la mia situazione (p. 69) 61 Cfr.: qu’un droit naturel leur donne à sa fortune (p. 288) che la Provvidenza loro ha destinata (p. 133) LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 95 di Milord Danby (alias Sir James Huntley) e l’adozione di Milord Alderson. La struttura del romanzo poggia sull’espediente del manoscritto indirizzato alla contessa di Roscomond e, anzi, vengono precisati il tempo e l’occasione della scrittura di tale manoscritto (il periodo di rifugio di Miss Jenny presso il reverendo Peters a Londra). Il romanzo (e, nella finzione, il manoscritto) si apre appunto su una prima formulazione delle giustificazioni espresse alla contessa di Roscomond (che non approva il duplice rifiuto) e si chiude sulla trascrizione di una lettera indirizzata alla medesima, posteriore al manoscritto del racconto-confessione e contenente la comunicazione della decisione, già posta in atto, del ritiro di Miss Jenny nella campagna francese insieme con la notizia dell’avvenuto matrimonio di Milady d’Anglesey con Milord Clare (Edmond). In virtù di tale decisione, l’eroina protagonista del romanzo della Riccoboni rivendica per sé lo statuto di donna sola e di figlia illegittima: si tratta di una scelta e non di una condizione subita per l’accanirsi del destino. Nella traduzione-rifacimento di Goldoni, il primo taglio significativo riguarda l’incipit stesso del romanzo ed è diretta conseguenza delle modifica- zioni apportate alla vicenda: Miss Jenny non scrive, infatti, la propria storia, indirizzata alla contessa di Roscomond, per giustificare il rifiuto a concedere la propria mano a Milord Danby, il partito che Milord Alderson vorrebbe imporle in cambio del suo riconoscimento come erede legittima perché figlia della di lui figlia, Lady Sara. Contrariamente a quanto avviene nel romanzo originale, Milord Danby è, infatti, nella versione goldoniana, fatto perire in duello insieme con il proprio rivale, Milord Arundel, promesso sposo di Miss Jenny. Di qui discendono i tagli di tutte le allocuzioni al destinatario dissemi- nate nel romanzo che fanno allusione a tale duplice rifiuto. Ma, soprattutto, tale cambiamento implica il venire meno della struttura medesima del roman- zo fondata sul duplice svelamento, in favore dell’adozione dello schema del racconto autobiografico-confessione, ‘inverato’ da citazioni di testimonianze epistolari.62 Dalla revisione della struttura e della trama consegue altresì lo smorzarsi della carica trasgressiva del romanzo nella rivendicazione della protagonista del proprio statuto di donna sola e di figlia illegittima. Della struttura dell’originale, Goldoni mantiene la costruzione a incastro delle storie delle tre eroine: la storia di Miss Jenny che fa da filo conduttore, la storia di Lady Sara, presentata quale premessa, e la storia di Milady d’An- glesey, presentata quale storia parallela e inserita (con un’analessi narrativa)63
62 Goldoni lesse probabilmente le Confessions di Rousseau (1783) che egli cita nei Mémoires. Quanto alla moda settecentesca dei romanzi epistolari, basterà ricordare il successo europeo delle numerose versioni delle lettere di Abelardo ed Eloisa. 63 Segnalata nello stesso modo in cui sono segnalate le inserzioni di lettere: «Lisez donc 96 PAOLA RANZINI nel momento in cui appare il personaggio, la cui vita è destinata a convergere con quella della protagonista. Alle due storie complementari la traduzione accorda il medesimo spazio che esse hanno nell’originale. La prima variante macroscopica è nella dispositio, nella divisione del ro- manzo in tre parti anziché in quattro come invece è nell’originale francese. Si ha qui una “spia” dell’interferenza del teatro sulla scrittura romanzesca goldoniana: tre parti, come tre sono le commedie entro le ricordate trilogie “romanzesche” che affrontano il tema dell’amore e scandagliano la psicologia femminile, o, ancora, come tre sono gli atti di una commedia. Si noterà poi che la scansione nelle tre parti è data dal cambiamento di luogo oltre che di situazione della protagonista. Il passaggio dalla prima alla seconda parte coincide con la partenza di Miss Jenny, la quale, consapevole ormai delle proprie origini sventurate e perduto ogni bene con la rovina di sir Humfroid, si reca, accompagnata da Mistriss Hammon, a Windsor in una delle proprie- tà di Milord Alderson, sperando che questi la riconosca come sua nipote.64 Quanto al passaggio dalla seconda alla terza parte, Goldoni non tiene conto della divisione che trova nell’originale (in cui la seconda parte si arresta con il ricovero forzato di Miss Jenny e della fedele Lidy presso i Palmer a Londra). Un’ampia sezione della terza parte dell’originale passa dunque, in traduzione, nella seconda parte, che termina ancora una volta con una partenza volontaria, e cioè con il viaggio destinato a condurre Miss Jenny nella dimora di Milady d’Anglesey a Suttoncourt e, quindi, con il nuovo statuto di donna sola (perduta anche Lidy) e il recupero almeno della libertà dal bisogno. Nell’originale, il passaggio dalla terza alla quarta parte si ha con un colpo di scena: l’arrivo presso Milady d’Anglesey di Milord Arundel che si rivela essere il sedicente reverendo Jennison e uno dei ministri del falso matrimonio che ha unito Miss Jenny a Sir James Huntley (Milord Danby).65 La quarta parte si apre appunto con il discorso di spiegazione di Milord Arundel, personaggio che, da negati- vo, si trasforma in personaggio positivo, fino a divenire pretendente di Miss Jenny e, sfidato in duello, vittima della pistola di Milord Danby. Nella traduzione goldoniana è proprio la quarta parte dell’originale a su- bire i maggiori tagli: molti brani cancellati riguardano le allusioni all’amore ici, madame, le récit sincère qu’elle me fit; elle parle elle-même, et je vous prie de l’entendre avec indulgence. histoire de miladi, Comtesse D’Anglesey […]» (p. 301). 64 La scansione prima/seconda parte coincide essenzialmente con quella dell’originale: si noterà semmai che nella traduzione sono cassati il passo finale della prima parte che contiene una descrizione paesaggistica, mentre il passo iniziale della seconda parte risulta notevolmente abbreviato. 65 Nel rifacimento goldoniano, invece, il riconoscimento è graduale e avviene in due mo- menti successivi (cfr. p. 175). LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 97 non ancora confessato di Milord Arundel per Miss Jenny, non senza una preoccupazione moraleggiante.66 L’amore ‘illecito’ che Miss Jenny prova per Milord Edmond è ricondotto entro una misura razionale: i tagli e le corre- zioni si moltiplicano a partire dalla lettera di Milord Arundel in cui viene comunicato a Miss Jenny il progetto di fidanzamento di Milady d’Anglesey e Milord Edmond Clare.67 L’incontro di Miss Jenny e della contessa di Surrey (zia di Milord Edmond Clare che sospetta che l’oggetto dell’amore del nipote sia Miss Jenny e non Milady d’Anglesey) subisce tagli e rimaneggiamenti,68 mentre nell’episodio che vede il ritorno di Milord Arundel al cospetto di Miss Jenny cadono da un lato tutti i cenni alla di lei passione proibita e d’altro lato le descrizioni dei di lui trasporti affettivi. I passi che narrano la permanenza a Suttoncourt delle due coppie di fidanzati (Miss Jenny e Milord Arundel, Milady d’Anglesey e Milord Edmond Clare) sono riassunti e riscritti in tra- duzione, non senza il ricordo teatrale della Giacinta e del Guglielmo della Trilogia della villeggiatura (e anzi tale termine appare significativamente nella descrizione della situazione di Miss Jenny, stretta tra la promessa di matrimo- nio di Milord Arundel e l’amore di Milord Edmond Clare):
non lasciava di darmi di quando in quando degli indizii evidenti… Mi applicai con il maggiore studio ad evitare il pericolo di riaprirla, e sostenni corag- giosamente l’interno combattimento sino al fine della nostra villeggiatura (p. 207).69
Anche il colpo di scena creato dall’arrivo del cappellano inviato da Mi- lord Alderson per convincere Miss Jenny ad accettare un matrimonio da lui proposto in cambio dell’adozione appare abbreviato in traduzione: Goldoni preferisce rinunciare a imbrogliare le piste, non lascia trapelare nel dialogo il sospetto che sia Milord Arundel a chiedere la mano di Miss Jenny per tramite
66 Per esempio laddove, in luogo di un lungo sfogo patetico, la Miss Jenny goldoniana osserva con esemplare razionalità: «Le bontà di Milord Arundel per la mia persona sono state sin ora generose e innocenti; ma lady Sofia puo riacquistare il senno, come riacquistata ha la salute del corpo, e l’attaccamento di Milord per me macchierebbe il di lui onore ed il mio» (p. 191). 67 La reazione passionale è subito frenata dalla ragione: «Confesso il vero, madama […] rinvenuta ben presto in me stessa […] rendendo giustizia alla verità e all’amicizia» (p. 202). Così la narratrice protagonista può chiudere la storia d’amore impossibile affermando: «il nuovo fuoco erasi estinto in me con quella stessa facilità colla quale si era acceso» (p. 203). 68 Nella traduzione goldoniana Milord Edmond Clare non si mostra, inoltre il dialogo trascritto nel discorso diretto è anticipato. Le domande della duchessa e l’impedimento di vedere Milord Edmond conducono Miss Jenny a sospettare di essere da lui amata: «[…] e credetti, non senza fondamento, ch’elle voluto avesse impedire una vista che le pareva essere pericolosa […]» (p. 205). 69 Il termine ‘villégiature’ non appare nell’originale. 98 PAOLA RANZINI di Milord Alderson, mentre nella lettera di questi riportata in seguito, in cui è svelata l’identità del vero pretendente (Milord Danby) viene cancellata l’odiosa ingiunzione di lasciare la casa di Milord Arundel e scompare ogni cenno al pro- gettato matrimonio con tale nobil uomo. Completamente diversa la reazione di Miss Jenny, che non mostra alcun segno esteriore di indignazione, preferendo fingere per guadagnare tempo, allontanare il cappellano e rispondere a Milord Alderson per lettera. Tutto quel che segue nell’originale è, nell’Istoria di Miss Jenny, riassunto per fare giungere più rapidamente alla catastrofe. Una breve frase annuncia il nuovo colpo di scena (la sfida a duello),70 che è narrato e visualizzato nella forma di una vera e propria scena teatrale:
[La surveille du jour destiné en appa- Trovandomi in giardino, vidi appressarsi rence pour rendre quatre personnes si un uomo che, tirando in disparte Milord heureuses], Milord Arundel reçut une Arundel, gli presentò una lettera; la lettre; il la déchira soigneusement après lesse Milord non senza qualche leggera l’avoir lue, même il en jeta les morceaux commozione; dopo letta, la lacerò destra- dans une pièce d’eau où nous regardions mente, ne gettò i pezzi in una peschiera; ensemble des cygnes qui s’y jouoient. parlò piano al portator della lettera, e Je vis de l’émotion sur son visage; il me ritornò ad unirsi alla compagnia con quitta, et fut parler à l’homme qui atten- un’aria d’indifferenza che mi parve af- doit sa réponse. Je le suivis des yeux, je fettata (p. 212) me sentis inquiète; quand il revint, je l’examinai avec attention, il me parut tranquille, et j’imaginai m’être trompée en supposant que cette lettre avoit excité en lui un mouvement extraordinaire (pp. 419-420)
Il ritmo del racconto (in traduzione) si fa sempre più serrato: Milord Arundel parla a Miss Jenny «con una ilarità forzata» e le annuncia che sta per partire per Londra con Milord Edmond Clare. La narrazione segue quindi i movimenti della protagonista che, scritta una lettera in risposta a Milord Alderson, consegnata al di lui cappellano, dopo essersi riposata, si reca da Milady d’Anglesey e, dal mormorio percepito nel cortile, capisce che è accaduto qualcosa di terribile. La duchessa di Surrey in lacrime la informa dell’avvenuto duello in cui Milord Danby è morto e Milord Arundel è rimasto ferito gravemente. La scena della morte di Milord Arundel è resa in modo
70 «Determinata era ad abbandonarmi intieramente alla gioia; ma il destino che cessato ancor non aveva di perseguitarmi, fece cambiare in un tratto l’apparato festoso in una scena lugubre» (p. 212). LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 99 assai più succinto.71 Del resto, da questo punto la traduzione non fa più ricorso all’originale e diviene narrazione indipendente.72 Milord Danby, si è detto, è perito in duello, Milord Alderson si fa allora fautore del matrimonio di Miss Jenny con Milord Edmond Clare. L’azione si concentra verso il finale a sor- presa: la rinuncia all’amore da parte di entrambe le eroine (Milady d’Anglesey e Miss Jenny) e la decisione di fare una vita comune secondo un disegno di solidarietà fra donne.73 Il nuovo finale è giustificato da Goldoni, nella lettera dedicatoria posta in apertura della sua «traduzione arbitraria», con la volontà di dare alla vicenda un happy end in cui la virtù risulti premiata.74
3. Da segnalare, tra le varianti strutturali, la trasformazione di dialoghi o episodi narrati in eventi contenuti in testimonianze epistolari trascritte dalla narratrice. L’originale si avvale di tale espediente narrativo in molteplici occasioni: cinque lettere riguardano la storia d’amore Sara/Edoardo,75 due quella passata di Milady d’Anglesey,76 undici la vicenda centrale dell’eroina protagonista,77 una lettera si riferisce, infine, all’espediente narrativo utilizzato
71 Tutti i racconti di morte subiscono in traduzione una riscrittura mirante a una maggiore essenzialità. Sulla tendenza dell’Istoria goldoniana a evitare l’eccesso di patetismo nel racconto di morte, cfr. VAZZOLER, Prefazione in GOLDONI, Istoria di Miss Jenny, cit., pp. XXI-XXII. 72 Nell’originale Milord Danby non muore nel duello e continua a perseguitare la povera Miss Jenny, appoggiato da Milord Alderson. Miss Jenny prova amore per Milord Edmond Clare, ma preferendo la felicità dell’amica Milady d’Anglesey alla propria, sacrifica i propri sentimenti (ricambiati da Milord Edmond). Miss Jenny fugge e si rifugia dal reverendo Peters e, di qui, parte infine per trovare pace nella campagna francese, dove finisce la sua vita in solitudine. Il manoscritto indirizzato alla contessa Roscomond è immaginato come scritto proprio durante la permanenza presso il reverendo Peters. Il romanzo è chiuso da una lettera posteriore in cui si accenna all’avvenuto matrimonio di Milady d’Anglesey con Milord Edmond Clare. 73 Franco Vazzoler ha fatto notare l’analogia di un simile finale con le vicende biografiche dell’autrice francese la quale, rimasta vedova, visse l’ultimo periodo della propria vita in so- dalizio con Marie-Thérèse Biancolelli, un’altra ex-attrice del Théâtre Italien di Parigi. Per tale finale, il critico evoca altresì la socialità delle donne contro il sistema chiuso degli uomini nei Rusteghi: «proprio attraverso la traduzione di un romanzo così lontano dai propri interessi […] Goldoni riscopre la sottile trama che lega il patetismo, d’ascendenza romanzesca, dei suoi personaggi femminili. È sorprendente, infatti, il modo con cui egli conclude la propria tradu- zione arbitraria del romanzo trasformandolo in un itinerario […] attraverso la propria memoria teatrale» (VAZZOLER, Prefazione in GOLDONI, Istoria di Miss Jenny, cit. pp. XXV-XXVI). 74 Al chiarissimo signor abbate Giammaria Manenti, in GOLDONI, Istoria di Miss Jenny, ed. cit., p. 2 : «ho creduto far cosa grata alla mia nazione presentandole una catastrofe degna della femmina virtuosa, che dopo aver fatto tremare il lettore, trovasi in grado di consolarlo». 75 Lettre de Milord Edouard à Ladi Sara (p. 121); Milord Edouard à Ladi Sara (p. 122); Ladi Sara Alderson à Milord Edouard (p. 123); lettre de Milord Edouard à Ladi Sara (p. 127); Ladi Sara à Milord Edouard (p. 129). 76 Lettre de milord, Comte D’Anglesey, à Miss Adeline Hymore (p. 308); lettre de Milord D’Anglesey, à Miss Adeline (p. 322). 77 Lettre de Sir James Hantley, à Miss Jenny Glanville (p. 160); lettre de Milord Danby, à Miss Jenny Glanville (p. 267); Miladi D’Anglesey à Miss Jenny (p. 287); lettre de Milord Arun- 100 PAOLA RANZINI per strutturare la vicenda del romanzo.78 La traduzione goldoniana opera alcuni cambiamenti: elimina, come si è detto, la lettera finale, posteriore alla redazione del manoscritto contenente la storia di Miss Jenny; elimina tre let- tere contenute nella quarta parte del romanzo riferite a vicende posteriori al duello,79 ma aggiunge in tale sezione del romanzo due lettere assenti nell’ori- ginale.80 Tali cambiamenti si giustificano con la revisione apportata alla trama nella parte finale del romanzo da cui discende altresì, come si è spiegato sopra, la diversa architettura generale. In un caso, tuttavia, l’inserzione di una lettera non si giustifica in tale modo: si tratta della lettera che Sir James, novello sposo, lascia a Miss Jenny, con il pretesto di dover partire, per dare una spiegazione credibile al proprio comportamento.81 Nell’originale, Sir James fornisce invece a Miss Jenny un racconto orale delle proprie peripezie. La trasformazione del dialogo, in cui i due interlocutori possono interagire, nella lettura che Miss Jenny e Lidy fanno della lunga lettera di Sir James trova forse una spiegazione nel tentativo di una razionalizzazione strutturale (per cui tutti gli eventi che riguardano il passato di un personaggio, comportando una interruzione del racconto, vengono segnalati quale narrazione alla seconda potenza), o di una razionalizzazione della vicenda ai fini di una maggiore credibilità.82
4. I numerosi tagli operati nell’originale si spiegano con la tendenza alla razionalizzazione che interessa tanto l’azione quanto la psicologia dei per- sonaggi. Nel ritratto di Milord Alderson, uno dei personaggi negativi del romanzo, scompaiono alcuni tratti che insistono sulla di lui spregevolezza, sull’incapacità di amare in modo disinteressato persino i figli, sul disprezzo che egli suscita negli altri.83 Per Sir James Huntley alias Milord Danby, biga- del, à Miladi D’Anglesey (p. 370); lettre de Milord Comte Danby à Milord Comte D’Arundel (p. 382); lettre de Milord Danby à Miss Jenny De Salisbury (p. 382); lettre de Milord Arundel à Miss Jenny (p. 395); lettre de Milord Alderson à Miss Jenny De Salisbury (p. 416); Milord Arundel à Miss Jenny (p. 422); lettre du Comte D’Arundel, à Miss Jenny (p. 423); lettre de Milord Danby, à Miss Salisbury (p. 426). 78 Lettre de Miss Jenny à Miladi Roscomond (p. 436). 79 Milord Arundel à Miss Jenny (p. 422); lettre du Comte D’Arundel, à Miss Jenny (p. 423); lettre de Milord Danby, à Miss Salisbury (p. 426). 80 Lettera di Milord Edmond a Miss Jenny Glanville (p. 218); Lettera di Milord Alderson a Miss Jenny Di Salisbury (p. 220). 81 Cfr. pp. 84-85. 82 La lettura ‘passiva’ spiega da un lato l’assenza di domande da parte di Miss Jenny e, d’altro lato, rende più plausibili le menzogne di Sir James. 83 Qualche esempio (fra parentesi quadre le parti cassate): «[Il devint l’objet de l’entêtement de ces femmes, toujours passionnées, jamais sensibles, dont le cœur froid et l’imagination vive voudroient couvrir du nom de tendre foiblesse le goût qui les détermine à chercher le plaisir. Moins condamnables, peut-être, si son attrait seul les guidoit; et plus heureuses, si elles ne le cherchoient pas souvent en vain]. Milord fut quelque temps à la mode; mais il cessa de plaire, LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 101 mo, traditore e profittatore della situazionze di Miss Jenny, si riscontra invece una maggiore insistenza sulla trivialità del personaggio, sulla di lui scarsa eleganza e sulla mancanza di finezza e di educazione.84 Sir James appare in Goldoni un personaggio negativo, senza sfumature, cui non si accordano neppure gli sfoghi dell’amore85 o di quello che potrebbe fare pensare a un pentimento.86 Né sfuggono alla revisione i ritratti dei personaggi positivi, in particolare delle tre eroine del romanzo (Lady Sara, Miss Jenny e Milady d’Anglesey), di cui sono fatte risaltare in maniera più efficace le doti. Per esempio, nella presentazione della giovane Lady Sara, la nuova formulazione sottolinea i termini (assenti nell’originale) «natura» e «studio ed educazione» a esemplificare la completezza delle qualità della fanciulla.87 Quanto alla di et rien ne put l’en consoler. [Il arrive assez ordinairement à ceux qui se sont fait un mérite de l’espèce du sien, de n’en acquérir jamais de plus solide, de se voir bientôt rebutés par un sexe, et méprisés par l’autre. Milord l’éprouva: sa naissance ni sa fortune ne le mirent point à l’abri de ce sort]» (pp. 102-103). «Milord Alderson regretta beaucoup son fils, [non qu’il l’aimât avec tendresse]» (p. 104). 84 Si veda, per esempio, come, nella prima lettera indirizzata a Miss Jenny, il rispettoso «Madame» (p. 160) dell’originale divenga in traduzione «Miss vezzosa ed amabile […] ama- bile miss» (pp. 42-43). In occasione del nuovo incontro a Londra, scoprendo che Miss Jenny è rovinata, Sir James dichiara nell’originale: «Heureux de mettre à vos pieds ma fortune» (p. 202), e in traduzione, assai meno generosamente: «di potervi offrire una parte di quel ch’io possedo» (p. 73). 85 Per esempio, sono cassate le seguenti dichiarazioni di Sir James novello sposo a Miss Jenny: «Quand j’ai craint de vous ouvrir mon âme, je ne connoissois pas toute la noblesse de la vôtre. Aimable et chère Jenny! Tes larmes ont déchiré mon cœur, mais ta complaisance le pénètre de plaisir. Puisse-je t’en payer dignement. Ah! Que le ciel me punisse dans sa colère, qu’il nous sépare, me prive à jamais de toi, si tes moindres désirs trouvent en moi la plus lé- gère résistance, si je ne les préviens pas, si ta satisfaction n’est pas toujours le premier de mes soins, et si j’envisage dans l’avenir un autre bonheur que celui de combler le tien». De tendres caresses suivirent ces expressions de sa reconnoissance; ensuite il commença à détailler les mesures qu’il avoit cru devoir prendre pour assurer le secret de notre union. la nécessité de me montrer presque tous les jours à Londres, dit-il, et l’envie de n’en passer aucun sans vous voir, m’ont forcé de choisir votre demeure près de la ville» (p. 234). 86 «Des pleurs, d’horribles imprécations contre lui-même, interrompoient ses discours: ensuite il se plaignoit d’elle, de sa défiance, de la mienne. Si, disoit-il, j’avois accepté l’établisse- ment qu’il m’offroit, ma complaisance sur ce seul point lui eût fait trouver en lui-même la force de résister à ses désirs; d’attendre son bonheur du temps et des événemens. Miladi Rutland, deux fois attaquée de ce mal prompt et terrible qui enlève au milieu d’une santé florissante, lui laissoit entrevoir une liberté prochaine. Tout étoit fini, s’écrioit-il; il ne lui restoit que le regret de s’être attiré ma haine, la honte d’avoir manqué à l’honneur, et le reproche amer que son ingratitude et sa trahison excitoient sans cesse dans son âme» (p. 262). 87 Ladi Sara joignoit aux grâces de la figure charmante Aggiungeva ella, vivendo, ai doni della natura qu’il offre à la vue, des sentimens nobles et géné- quelli che collo studio e coll’educazione aveva reux (p. 104) acquistati (p. 5) 102 PAOLA RANZINI lei reazione di fronte allo sposo destinatole dal padre, secondo la pratica dei matrimoni combinati dalle famiglie, in Goldoni scompare ogni ridondanza polemica.88 E ancora, i sentimenti confusi e spesso contrastanti che ella prova nei confronti del futuro sposo, già oggetto del suo amore, vengono razional- mente spiegati con la timidezza e il rispetto delle convenienze,89 mentre il suo cedimento al desiderio dell’amante appare conseguenza della passività e della remissione di tale personaggio. Completamente riveduto è il racconto della morte di Lady Sara: i tagli consistenti rendono essenziale, e meno patetico, il momento del trapasso.90 Così vengono cassate le osservazioni lamentose della figlia della scomparsa che seguono il racconto che essa fa della morte della madre,91 come anche dettagli che provocano qualche lungaggine nel proseguire dell’azione.92 Il personaggio di Miss Jenny, eroina centrale del romanzo, è rielaborato nella traduzione goldoniana che insiste sul fato avverso dei di lei natali,93 ma
88 Cfr. l’espressione «se soumit sans résistance à l’ordre de l’aimer» (p. 107), che diviene in traduzione «si sommise senza difficoltà ad accordare il suo consentimento» (p. 7). 89
Ladi Sara, prête à jouir d’un bonheur que rien ne vicina a godere di una sorte felice che aveva de- sembloit devoir troubler, confuse, inquiète, osoit à siderata tremando, e non avrebbe osato sperare peine lever les yeux sur celui dont les droits alloient cosi vicina, non ardiva ancora fissar gli occhi con être si décidés. Elle l’évitoit sans pouvoir démêler le sicurezza sopra l’oggetto dell’amor suo. obbligata mouvement qui la portoit à le fuir. (pp. 108-109). di corrispondere alle finezza con cui l’amante la trattava, e temendo di sorpassare i limiti permessi ad una onesta giovine promessa in isposa, ma non ancora col matrimonio legata (p. 8) 90 Cfr. quanto osservato sopra, nota 71. Sostanziosi tagli avevano già subito i lamenti patetici di Lady Sara per la morte di Edoardo. 91 «Combien de fois la mienne y a cherché la trace de ses pleurs. ô Sara! ô ma mère! Vous avez souhaité que la mémoire d’Edouard me fût chère et respectable; vous n’osâtes exiger mon respect pour vous-même, puissé-je mourir malheureuse, et méprisée à l’instant où la mémoire de Ladi Sara cessera de m’être chère et respectable! ... pardonnez, madame, ah! Pardonnez à une fille attendrie des détails tristes et longs, qui peut-être auront ému votre coeur trop sensible. Emportée par un sentiment vif, je n’ai pu passer légèrement sur un sujet si intéressant pour moi. Hélas! Je ne mettrai sous vos yeux que des sujets d’amertume. La douleur est le sentiment habituel de mon âme; une passion vive et tendre sembloit devoir y exciter des mouvemens plus doux. Condamnée par la bizarrerie de mon sort à n’en connoître que les peines, déterminée à ne jamais rendre ma tendresse heureuse, si je n’ose m’en occuper, je me plais au moins à m’applaudir du sacrifice que j’en fais» (pp. 150-151). 92 In particolare i dettagli che riguardano la lettera che la morente ha scritto al padre e che ella consegna a Milord Revell. 93
Je vis le jour, […] mes premiers cris se mêlèrent Io venni al mondo in questo fatal momento, […] i aux gémissemens de son coeur; elle les entendit, ils miei gridi primieri si meschiarono coi gemiti del di pénétrèrent jusqu’au fond de son âme (p. 145) lei cuore; ella gl’intese, e penetrarono sino al fondo dell’anima sua dolente (p. 33) LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 103 cancella le eccessive lamentazioni sulla sua sorte di essere privo di radici e le- gami, di essere solo al mondo.94 Miss Jenny esce senza macchia dal matrimonio fasullo con Sir James Huntley, dato che non ha mai provato alcun trasporto amoroso nei di lui confronti. Per converso, viene taciuta, in traduzione, l’assenza di amore nei confronti di colui che ella è pronta ad accettare come sposo, Milord Arundel,95 mentre la rinuncia all’amore di Milord Edmond appare assai meno sofferta, frutto di una decisione razionale in cui la passione non interferisce.96 Quanto alla terza eroina, Milady d’Anglesey, significativo è che nel suo
94 Per esempio, quando Miss Jenny scopre di essere orfana: «Apprendre que je n’étois rien, que je ne tenois à personne, que tant d’êtres respirans autour de moi pouvoient tous me rejeter sans que j’eusse le droit de m’en plaindre, sans qu’aucune créature fût dans l’obligation de soulager mes peines, même de s’y intéresser! […] Je me vis dans la position d’un voyageur qui sentiroit la terre manquer tout-à-coup sous ses pas» (p. 173). Miss Jenny a Milord Alderson rivelandogli di essere la di lui nipote: «ne détournez point vos regards d’une fille pauvre, abandonnée, plus sensible à vos mépris qu’à ses malheurs» (p. 192). La similitudine che Miss Jenny utilizza per esplicitare a Sir James la propria condizione di orfana appare, in traduzione, meno insistita e meno pateticamente ridondante: je m’y vois comme un jeune oiseau qui, tombé du parmi di essere come un tenero augello che non ha nid de sa mère, étend en vain ses foibles ailes vers forza per rientrar nel suo nido (p. 78) l’asile où il ne peut rentrer (p. 209) Nell’autopresentazione di Miss Jenny a Milady Rutland, sposa di Milord Danby, cade la similitudine che insisteva sull’assenza di radici e di legami: «je ne suis rien, madame, lui dis-je; [telle qu’une plante arrachée de la terre, négligée comme inutile, on peut me fouler aux pieds sans craindre qu’il s’élève une seule voix pour prendre ma défense]» (p. 249). 95 Così, viene tagliato l’ampio passo che nell’originale segue la dichiarazione di milord Arun- del, in cui Miss Jenny confessa di non essere mai stata innamorata di lui: «et son éloignement me livra à de nouvelles réflexions. Je ne connoissois point ces mouvemens vifs et involontaires, dont la force nous détermine malgré nous pour l’objet qui les excite. La tendresse que l’on inspire sans la partager, donne-t-elle de justes idées de l’amour? Nos propres sensations nous apprennent seules à démêler ses véritables impressions de celles de l’estime, de la reconnois- sance et de l’amitié. L’ardeur de Milord Danby n’avoit offert à mes tranquilles contemplations, qu’un désordre de l’âme, un sentiment intéressé, un désir cruel, puisqu’il le portoit à se trouver malheureux de ne pouvoir faire passer dans mon sein les pénibles agitations du sien. Sensible pour Milord Arundel, occupée de lui, cherchant sans cesse les moyens de l’amuser, de lui plaire, ses vertus, l’agrément inexprimable de sa conversation, la noblesse de ses procédés, ce que je lui devois, me paroissoient former les liens de mon attachement à sa personne; je souhaitois son bonheur, je le souhaitois ardemment; mais sans désirer d’en être l’arbitre. Capable de séparer ses intérêts des miens, j’aurois adopté tous les moyens de le rendre heureux, même les plus indépendans de moi. Pourtant Miladi D’Anglesey m’assuroit que j’aimois, que j’aimois depuis long-temps. Incertaine de mes sentimens, je n’osois combattre ses idées; mais peu de jours après le départ de Milord Arundel, j’appris, aux dépens de tout mon repos, à distinguer le feu des passions de la douce chaleur de l’amitié» (pp. 389-390). 96 Cfr. le pagine 394-396 dell’originale, completamente rielaborate nella traduzione, in cui Miss Jenny, nel momento medesimo in cui ammette la propria debolezza ha già un rimedio per superarla: il matrimonio di Milord Edmond e Milady d’Anglesey (p. 201 della traduzione). 104 PAOLA RANZINI ritratto l’«humeur complaisante et l’esprit agréable» (p. 288) divengano in traduzione «l’onestà de’ costumi e la solidità dello spirito» (p. 134). I tagli che riguardano passi che vengono a comporre il ritratto di Edoardo, personaggio positivo ma colpevole della seduzione di Lady Sara, indicano che la volontà del traduttore è di insistere di meno sulle di lui doti97 e di farne un personaggio quasi inconsapevole.98 L’episodio della seduzione contiene signi- ficativi cambiamenti: omessa, senza ragioni evidenti, la precisazione del tempo primaverile, cancellati i ripetuti dubbi reciproci sulla sincerità dell’amante, il «désir offensant» (p. 111) di Edoardo diviene piuttosto i «sentimenti ingiu- riosi» (p. 10) e il «feu» (p. 112) che Lady Sara cerca di moderare è, si precisa, «nel sen dell’amante» (p. 11), con l’evidente volontà di ricondurre alla sfera sentimentale le espressioni che fanno invece allusione al desiderio di possesso fisico. Va però precisato che anche le allusioni a situazioni scabrose presenti in altri punti del romanzo vengono accuratamente eliminate o rivedute e corrette in traduzione.99 Oltre alla razionalizzazione che si riscontra nel ritratto psicologico dei vari personaggi, si deve notare qualche significativa variante nel sistema dei personaggi, nella funzione da essi svolta nella vicenda o nel disegno generale della trama. Tali varianti riguardano il reverendo Peters e Milord Edmond Clare. Il personaggio del reverendo Peters ha un rilievo che, in traduzione, risulta ingiustificato: in effetti tale personaggio esaurisce il proprio ruolo nel rappresentare una mera ipotesi di alternativa di ricovero di Miss Jenny (che, invece, finisce per preferirgli l’ospitalità di Milady d’Anglesey).
97 L’eccellenza scompare nel suo ritratto, come si vede dalla cancellazione del seguente passo: «Docile et reconnoissant, Edouard profita si bien d’une excellente éducation, qu’à l’âge de dix-huit ans personne en Angleterre ne l’égaloit» (p. 106). 98 Così, all’opposto di Lady Sara, Edoardo è indenne da tristi presentimenti: Edouard […] dans cette suspension d’esprits curioso d’intendere di qual novità si trattava causée par l’étonnement et l’attente d’une nouvelle (p. 15) fâcheuse (p. 120) Cassato è quindi il passo che rivela un Edoardo reo confesso a Milord Revell: «Tout ce que disoit Edouard, lui paroissoit l’effet d’une imagination blessée, dont les idées erroient sur mille objets» (p. 148). 99 Cfr. nella storia di Milady d’Anglesey: je passois […] les nuits à compter les momens qu’il […] a riflettere sui disordini della sua condotta donnoit à ses plaisirs (p. 330) (p. 164) il prit une maîtresse (p. 330) si attaccò piu particolarmente ad una di queste don- ne che i francesi chiamano lor maîtresses (p. 164) [et le vil essaim de ses nouveaux amis, sembla gagner beaucoup en le voyant m’abandonner pour se livrer à ce commerce libre, autorisé par la mode et lié par leurs conseils] (p. 330) LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 105
Nell’originale, l’insistenza su tale opzione alternativa si giustifica con il finale del romanzo che fornisce dettagli sull’architettura del romanzo stesso in quanto è precisato che il periodo passato presso il reverendo Peters corri- sponde al tempo della scrittura del manoscritto di Miss Jenny:
C’est dans la retraite agréable et paisible de M Peters, que j’ai écrit ce long détail des événemens de ma vie, que j’ai formé le projet d’en sacrifier toute la douceur à l’amitié. Un ami si sage, si éclairé, si mais l’heure me presse, M Peters m’attend, il remettra ce manuscrit à votre courrier (p. 434).
Quanto a Milord Edmond Clare, in traduzione vengono cancellate (o almeno passano in secondo piano) le coincidenze che ne fanno il personaggio destinato a essere amato da Miss Jenny, primo fra tutti l’incontro mancato nella dimora del di lui fratello in occasione della prima rovinosa entrevue con James Huntley. Così, quando il nuovo personaggio entra in scena, il tradut- tore lo presenta, con un ritratto completamente riscritto (cfr. pp. 200-201), quale Milord Edmond e, anche in seguito, tende a evitare di chiamarlo con il nome di famiglia (Clare). Del resto, molti tagli dell’ultima parte del romanzo riguardano, come si è accennato, passi che lo vedono protagonista. Nella razionalizzazione della materia e del racconto rientra anche l’elimi- nazione massiccia di numerose riflessioni moraleggianti che, nell’originale, sono presentate nella forma di sentenze generali, quasi che il traduttore non approvi nel romanzo l’emergere di un interesse morale e didascalico a danno dell’interesse puramente narrativo.100 Scompaiono così anche talune punte
100 Numerosi sono gli esempi. Ne citerò alcuni: «principes si nécessaires pour conserver de la dignité dans les divers événemens de la vie. C’est par eux seuls que nous pouvons souffrir beaucoup, et ne pas nous trouver tout-à-fait malheureux. On nous épargneroit bien des peines, si on nous apprenoit à ne rougir que du reproche de notre cœur». (pp. 153-154); «Une exces- sive vanité peut seule faire trouver du plaisir à inspirer des sentimens que l’on ne partage pas» (p. 161); «Je jugeois alors de l’intérieur de tous les hommes par les seules sensations de mon âme. Pouvois-je imaginer qu’il existât dans la nature des êtres insensibles au plaisir si pur, si satisfaisant, de tendre une main secourable aux malheureux, de ranimer un cœur flétri par la tristesse, d’entendre retentir à ses oreilles les douces expressions de la reconnoissance. Je l’avois senti ce plaisir si vrai; ma propre expérience me persuadoit que pour se faire un bonheur de répandre la joie autour de soi, il suffisoit de posséder ces biens dont une belle âme se plaît à corriger le partage inégal. Je me trompois, madame! Les cris douloureux de l’adversité touchent rarement le cœur d’une personne heureuse; c’est dans un état borné, c’est dans la médiocrité qui nous laisse des besoins, nous accoutume à nous gêner, à sentir une continuelle privation, que nous jetons des regards compatissans sur celui qui souffre d’une privation plus grande. Si pour le soulager il ne faut que nous gêner davantage, l’habitude de nous refuser beaucoup à nous-mêmes, nous conduit à le secourir généreusement, nous fait trouver de la douceur à bannir du cœur d’un autre cette peine, si souvent renouvelée au fond du nôtre» (p. 178); «De tous les malheurs, celui d’avoir causé la ruine d’un obligeant ami, est le seul dont le temps n’adoucit jamais l’amertume» (p. 183); «La reconnoissance ouvre rarement le cœur à l’amour, 106 PAOLA RANZINI polemiche sui figli naturali101 e sulla crudeltà degli uomini nei confronti delle donne.102 Nella lettera dedicatoria che precede la traduzione, Goldoni sottolinea, del resto, la «rapidità» che egli ha voluto dare a «fatti, immagini e riflessioni» ai fini di una maggiore essenzialità103. mais elle y fait naître un sentiment réfléchi, moins vif et plus fort peut-être. Il nous porte vers la complaisance, nous rend attentifs aux intérêts de l’objet qui nous l’inspire, augmente à nos yeux le prix des grâces reçues, et nous conduit à craindre sans cesse de lui nuire ou d’abuser de sa bienveillance» (p. 211); «Vaine puissance des hommes, que vous êtes bornée! Eh, de quel prix sont tous les biens du monde? Hélas! Ils ne peuvent ni nous conserver, ni nous rendre l’objet précieux d’une tendre affection!» (p. 284); «L’objet d’une forte haine, comme celui d’un tendre attachement est toujours présent à notre idée» (p. 285); «En perdant ces dispositions paisibles qui portent une personne heureuse vers l’indulgence, nos yeux s’ouvrent trop sur les désagrémens de la société, et pas assez sur ses avantages» (p. 297); «Capable encore de sentir toutes les peines que l’amour peut causer, je ne l’étois plus d’en goûter les douceurs; il faut être toujours préférée pour conserver l’illusion nécessaire au bonheur; si l’interruption des amuse- mens rend leur attrait plus fort et plus piquant, par un effet contraire, celle des plaisirs du cœur en détruit pour jamais les charmes» (p. 334); «j’éprouvai au moins qu’une continuelle attention pour les autres, nous arrache insensiblement à nos propres idées, et nous rend enfin capables d’éloigner de notre esprit les réflexions affligeantes qu’entretiennent la retraite et l’habitude de s’occuper de soi-même» (pp. 341-342); «L’exemple de Ladi Sara et le sien, m’apprenoient que la tranquillité, le bonheur, n’étoient point attachés à une naissance distinguée, aux égards que le rang et la fortune pouvoient attirer. En voyant tous les états assujettis à la douleur, je cessai de me regarder comme une créature marquée par le destin pour éprouver des peines, pour être seule malheureuse. Si dans une situation brillante on baissoit les yeux sur des infortunés, afin de mieux sentir son bonheur, ce seroit être cruel; mais les arrêter, quand on souffre, sur des objets plus dignes de pitié que nous-mêmes, c’est un moyen, non de se consoler, mais au moins de se soumettre et de supporter patiemment ses peines» (pp. 342-343). 101 Per esempio: «Ah! Madame, quel préjugé faux et barbare soumet au mépris tant d’inno- centes créatures, et laisse jouir de l’estime publique les auteurs du crime dont elles subissent la honte! Nos pères ont établi des lois bien injustes. L’intérêt les conserve en vigueur, l’amour du plaisir les enfreint sans cesse. Quelle contrariété dans nos principes et nos moeurs! Comment un homme libre, déterminé à ne point s’engager, ou déjà lié, ose-t-il se livrer à l’ardeur de ses sens, s’abandonner à leur ivresse, quand, pour contenter ses désirs, il doit en déshonorer l’objet, et risquer de faire un malheureux?» (p. 196). 102 Per esempio: «Ils aiment, disent-ils! Tromper l’objet de ses désirs, lui préparer de longs regrets, l’avilir, le livrer à la douleur, à la honte! Est-ce aimer? Eh, que feroient-ils donc s’ils haïssoient?» (p. 252); «Les hommes, attirés près de nous par le désir, par l’amour-propre, se proposent de nous rendre foibles, s’occupent avec plaisir des moyens d’y réussir. Ils nous ont fait une vertu de la résistance, mais cette vertu les rebute loin de les attacher» (p. 330). Altre sentenze sono presenti in traduzione, ma in forma attenuata o abbreviata: que les hommes sont inconséquens et cruels (p. 252) oh quanto gli uomini sono qualche volta fallaci! (p. 109) Ils ne veulent pas admirer une femme, ils veulent la non curansi la più parte degli uomini di una donna séduire; celle que la sagesse et la décence gardent che sappia farsi ammirare, ma cercan quelle che si contre leurs attaques, perd à leurs yeux tous les lascian sedurre (p. 164) charmes dont sa sévérité leur ôte l’espérance de jouir (p. 330)
103 Al chiarissimo signor abbate Giammaria Manenti, in GOLDONI, Istoria di Miss Jenny, ed. cit., p. 2: «Di molte bellezze ho privato quest’opera […] poiché la penna erudita di questa donna immortale sa rendere interessanti le cose meno essenziali […]». LE TENTAZIONI ROMANZESCHE DEL VECCHIO GOLDONI 107
Dall’analisi comparativa del romanzo della Riccoboni e della «traduzione arbitraria» goldoniana appare evidente che lo spazio di libertà che il traduttore rivendica per il proprio lavoro gli consente di mettersi alla prova come scrit- tore di un romanzo. La forma adottata, la revisione dell’architettura generale dell’opera come anche la riscrittura della vicenda mostrano in Goldoni un romanziere particolarmente sensibile al ritmo della narrazione: una narrazione essenziale, che segua l’azione senza perdersi in digressioni extranarrative e che segnali, anzi, tramite l’espediente della scrittura epistolare ogni digressione narrativa. Ciò che anima il Goldoni traduttore dell’Histoire de Miss Jenny è il piacere di raccontare. Pietro Antonio Novelli, Antonio Baratti I Rusteghi, (Carlo Goldoni, Delle commedie di Carlo Goldoni Avvocato Veneto, Venezia, Pasquali, 1762, tomo III) (Venezia, Casa di Goldoni – Biblioteca) Loredana Castori
LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA»
Nell’ambito del progetto di ricerca Giornalismo letterario e testimonianze culturali inedite nel Settecento tra Europa e Mezzogiorno, studiando le Novelle Letterarie, comparse su più giornali (di Venezia, Roma, Firenze e Pisa) nel corso del Settecento, una maggiore attenzione si è concentrata sul «Giornale de’ letterati d’Italia», pubblicato a Venezia nel 1710, da Gio. Gabriello Ertz, fino al 1740. Nel giornalismo veneto particolare interesse rivestono anche le pagine della «Minerva, o sia nuovo giornale dei letterati d’Italia», dedicata a Ferdinando IV, re delle due Sicilie, pubblicata dal marzo 1762 all’agosto 1767 (66 numeri), da Domenico Deregni, poi da Giambattista Novelli. Dopo un’ampia ricognizione e la completa compilazione degli indici delle Novelle contenute nei periodici, è stata svolta una particolareggiata indagine, sui contributi critici dei compilatori, provenienti da ogni parte dell’Italia e dell’Europa, come studio basato sulle pubblicazioni dei letterati, con alcuni imprescindibili raffronti testuali. Le Novelle Letterarie sono state analizzate tenendo conto dei loro contesti geografici, culturali, religiosi e filosofici. La «Minerva», giornale diretto da Ribellini e Calogerà, fu particolarmente ostile ai gesuiti, ma anche e più violentemente, alle mode oltramontane e agli innovatori. L’articolo X del numero XXVI (1764) è dedicato alle Commedie di Carlo Goldoni, e, in maniera specifica, all’edizione del Tomo V, uscito a Venezia nel 1761, presso Giambattista Pasquali, e successivamente richiamato nelle Novelle letterarie di Brescia (articolo XV- n.XXIX), in cui si discute del periodico «Il Caffè». La prospettiva del lavoro, da cui sono emersi questi articoli, è di proporre, secondo un progetto editoriale moderno, testi con supporto informatico, che consenta lo spoglio, attraverso gli indici – per città, per autore, per opere – delle Novelle letterarie dei periodici. La ricerca, infatti, abbraccia un’importante produzione periodica del Settecento, con particolare riferimento alle Novelle Letterarie: una miriade 110 LOREDANA CASTORI di istituzioni letterarie sparse per tutto il territorio, che rappresentano la fondamentale testimonianza storica della rigorosa erudizione settecentesca, tesa a offrire continuamente notizie sistematiche delle attività e delle inizia- tive scientifiche. Il lavoro, pertanto, ha l’ambizioso obiettivo di fornire allo studioso, ma anche al lettore interessato, gli opportuni ragguagli sulle culture regionali, la possibilità di ricercare direttamente, e velocemente, soprattutto i testi delle Novelle Letterarie.
Le immagini riprodotte dal periodico «Minerva» (art. X, n° XXVI; art. XV, n° XXIX), di seguito pubblicate, provengono dalla Biblioteca Nazionale di Napoli su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 111 112 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 113 114 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 115 116 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 117 118 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 119 120 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 121 122 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 123 124 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 125 126 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 127 128 LOREDANA CASTORI LE NOVELLE LETTERARIE DEL SETTECENTO. GOLDONI NELLA «MINERVA» 129
Emma Grimaldi
SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL: UN PANTALONE “IN RITARDO” NELLE CONFESSIONI D’UN ITALIANO
Subito una citazione; a titolo di incipit, per entrare in argomento:
L’abdicazione del doge Manin potrebbe entrare come incidente in una com- media del Goldoni senza tema di derogare alla propria gravità.
Siamo nel capitolo XI delle Confessioni d’un Italiano; il discorso del racconto sta ripercorrendo un segmento cruciale, nel lungo declino della Serenissima repubblica Dominante1. Alla sola presenza di un procuratore e del droghiere Zorzi, si è infatti consumato, da parte dell’ultimo doge, l’atto di formale abdicazione. Il pensiero di Carlo Altoviti va a «due secoli prima», quando l’identico gesto da parte del doge Francesco Foscari, di fronte all’intero Consiglio dei Dieci, aveva dato vita alla «ultima scena terribile e solenne d’un dramma misterioso», tanto che, a distanza di pochi giorni, il Foscari stesso ne era morto di dolore. Ora, invece, tutto si è svolto in sordina, e soprattutto alla svelta: coerente contrappunto, alle cure ansiose dei due inviati della costituenda municipalità provvisoria, è stata la fretta di Sua Serenità, ben lieto di spogliarsi di una carica divenuta ormai, con i Francesi in città, quanto mai inopportuna e pericolosa. Non ci sono stati né misteri, né drammi; la replica farsesca, di un originario episodio tragico, si è appunto elaborata in termini di scena comica. Una scena che in un teatro/mondo veneziano, quale quello ritratto dal Goldoni, neppure sarebbe stata reputata de- gna di assurgere a scena/madre, in qualche modo risolutiva di un ipotetico plot. L’estro teatrale goldoniano l’avrebbe infatti elaborata in termini minimi, come semplice «incidente», o intermezzo libero, la cui «gravità» tutta di superficie, affidata ad un’enfasi mimica e verbale tanto più ridondante, quanto ormai priva di senso, a null’altro avrebbe dovuto servire, se non a divertire gli spettatori. Si potrebbe certo considerare a questo proposito, in quale ampia misura,
1 Per tutte le citazioni dal testo del romanzo, cfr. I. NIEVO, Le confessioni d’un Italiano, a c. di M. GORRA, Mondadori, Milano 1988. 132 EMMA GRIMALDI in termini di pacato racconto anziché di «monologo tragico»,2 l’eroe autodie- getico del Nievo elabori qui, come in tante altre pagine dello stesso tenore, quella precisa vocazione ortisiana, che tutta si condensa nella desolata presa d’atto dell’impossibilità del tragico: o piuttosto, di quella sua destituzione a mera latenza virtuale, destinata ormai, in tempi vili e degradati, a realizzarsi solo per antitetico ribaltamento. Ma è questo, per Carlo Altoviti, solo un obbligato punto di partenza; per ben altro e più lungo cammino lo condurrà il percorso delle sue Confessioni. Maggiormente interessa dunque, ora come ora, fissare il riferimento ad «una commedia del Goldoni», quale implicito campo semantico, a cui il lettore è allusivamente rinviato per meglio entrare nel cuore e nel senso di un avvenimento riguardante un estremo segmento di storia veneziana. Nelle pagine che verranno, proprio questo cercherò di mettere a fuoco: se per Nievo goldoniano è semplicemente, in senso lato, tutto quanto può dirsi veneziano per antonomasia, o se invece, in più ristretta e propria pertinenza, a trasparire da alcuni tratti delle Confessioni sono, del teatro del Goldoni, spunti e momenti precisi, direttamente individuabili. Ed è per altro cosa nota che fissare i termini di una possibile alternativa non necessariamente significa scioglierla, con l’apporto di una soluzione davvero dirimente.
* * * È probabile, o almeno a me piace pensarlo, che una battuta di comme- dia inscrivibile in una più antica maniera del teatro goldoniano, risalente ad un primo stadio della Riforma, sia tornata alla mente di Ippolito Nievo, nel corso dell’anno 1858, durante la veloce stesura delle sue Confessioni di un Italiano. La battuta, che suona precisamente,
Son zentilomo da Torzelo. Mio sior pare xe stà marcante, i mi parenti i xe tutti marcanti, ma mi m’ho volesto nobilitar; ho volesto comprar la nobiltà de Torzelo … appartiene infatti al Tonin Bellagrazia, composta da Goldoni nel 1748 – su misura per Cesare D’Arbes, Pantalone nella compagnia di Girolamo Mede- bac – e contenente ancora alcune parti all’improvviso, portate a piena stesura nell’edizione Bettinelli del 1750, dove verrà titolata Il frappatore.3 Il passo
2 A. JACOMUZZI, Il monologo tragico di Jacopo Ortis, in «Sigma», IX, 1/2, 1976, pp. 152-169. 3 Trattando sostanzialmente la commedia le grottesche disavventure di uno sciocco vene- SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 133 del romanzo, ove essa sembra fare da sottofondo alle riflessioni di Carlino, coincide, ancora una volta, col capitolo XI, con una sua zona iniziale, in cui del padre appena incontrato, del quale sino a poco prima ignorava la permanenza in vita, l’eroe del Nievo considera con bonaria indulgenza una debolezza caratteriale, rivelante la sua appartenenza ad una tipologia sociale ben distinguibile nel mondo veneziano:
Il signor padre sbruffava in tali parole tutta la boria proverbiale della povera nobiltà di Torcello…
Davvero “povera” la nobiltà di Torcello, se il goldoniano Sior Tonin poteva dire di averla pagata «diese ducati», tanto da indurre subito un altro interlo- cutore a commentare che davvero un simile prezzo è inferiore a quello di un asino. Così come del tutto risibile, immediatamente declinabile in direzione grottesco/caricaturale è, secondo Goldoni, la dignità che essa comporta, per gli arricchiti dell’ultima ora, convinti di averla fatta propria, ad un tanto modico prezzo,
Me piase sentirme a dar del lustrissimo. Sentirme a dir, co passo per strada: lustrissimo sior Tonin, bondì a vussustrissima, vussustrissima sarà servida. Ma sgionfo; vegno tanto fatto.
Tanta ingenua ridicolaggine non appartiene più, di certo, al padre di Car- lino che, ponendosi giusto agli antipodi, rispetto a quello sciocco esemplare di una nobiltà di nuovissimo acquisto, ha appena espresso quella sua «boria proverbiale», ricordando al figlio, della nobiltà degli Altoviti, l’antica origine romana – «della stirpe Metella» – la provenienza da Aquileia, che consente di annoverare il casato degli Altoviti tra i fondatori di Venezia. Ed anche questa apparente contraddizione, o palese divergenza, rispetto al modello probante, può sciogliersi alla luce del testo goldoniano, dove volendo innanzi tutto spiegare ai propri divertiti ascoltatori che cosa sia Torcello – l’azione scenica è infatti collocata in Roma – al posto del più confuso Tonin, così si esprime Ottavio: ziano a Roma, a rintuzzare eventuali malanimi dettati dalla cattiva figura di un concittadino in trasferta, Goldoni ritiene necessaria una simile spiegazione: «…Non era già necessario che per dipingere un giovane di poco spirito fuori del suo Paese, lo scegliessi della mia stessa nazione, da dove escono tutto dì delle persone di spirito, che sanno brillare anche fuori del loro centro. Ma siccome fu la Commedia da me composta per compiacere con tal carattere sciocco un bravo comico Veneziano, eccellente in simili caricature, non ho pensato che a soddisfarlo.» (C. GOLDONI, Il Frappatore, L’autore a chi legge, in Tutte le opere, a c. di G. ORTOLANI, 14 voll., Mondadori, Milano 1956-1964, p. 95). 134 EMMA GRIMALDI
Torcello è una città antichissima, poche miglia distante da Venezia: distrutta quasi del tutto dalle guerre dei barbari, ma che conserva ancora alcuno de’ primi suoi privilegi, e specialmente un’immagine dell’antica sua nobiltà.
Parlando prioritariamente dall’interno di un contesto veneziano, è dunque evidente come Nievo sfrutta in pieno, legittimato dal precedente del Gol- doni, la duplice valenza che, per vecchia tradizione municipale, alla nobiltà di Torcello di frequente si associa, soprattutto nell’uso proverbiale di un parlato icastico, pronto a definirla in un senso iperbolico/caricaturale: un po’ come succedeva per i conti Guidi, a Firenze, già al tempo del Boccaccio. Un senso implicante sia i fumi della boria dell’antico lignaggio, sia un’attuale perdita di credito e d’importanza, essendo venuto meno il potere d’incidenza economico/finanziaria di quei nobili di antico conio, all’interno degli statuti oligarchici veneziani.4 Anzi, visto che a parlare nel romanzo è Carlo Altoviti, mi sento di aggiun- gere che la valenza irridente o autoironica, dell’essere diventato gentiluomo di Torcello, è quella che Carlino riserva a se stesso, ad integrazione di quel suo understatement, o attitudine a non prendersi troppo sul serio, che della cifra espressiva delle Confessioni costituisce uno dei tratti più peculiari e innovativi; deferendo invece, all’eloquio paterno, l’opposta coordinata di senso di una sussiegosa importanza, di una «boria proverbiale». Senz’altro «proverbiale», la boria del vecchio Altoviti, ma pure non poco pragmatica, se è vero che, una volta deciso ad innalzare il proprio figlio al rango che gli spetta, egli saprà adoperarsi fattivamente perché a Carlino capiti qualcosa di più e di meglio, che non il sentirsi dare del lustrissimo ad ogni passo. Ecco infatti come continua la breve sequenza dell’XI capitolo, prima richiamata nel segmento iniziale:
… ma le dobbie levantine s’adoperarono tanto che il mio diritto all’iscrizione nel Libro d’Oro fu riconosciuto immantinente, ed io comparvi per la prima volta come patrizio votante al Maggior Consiglio nella seduta del 2 aprile 1797.
4 A proposito della nobiltà di Torcello, si può richiamare quanto osservato da F. FIDO, Nuova guida a Goldoni, Einaudi, Torino 2000, pp. 14-15, circa «l’esistenza a Venezia di un’ari- stocrazia impoverita: i Barnaboti (nobili abitanti la parrocchia di San Barnaba) che, esclusi dal Senato, e quindi dal potere rigidamente monopolizzato dalle famiglie senatorie, erano ridotti a vendere all’asta il loro voto in Maggior Consiglio» e la conseguente conclusione secondo cui «A parte il probabile riferimento a patrizi veneziani depauperati, la satira della nobiltà oziosa e povera rientra indubbiamente nella condanna borghese dell’ozio, dei gruppi sociali che non si inseriscono nella generale attività produttiva […] Così se da un lato il ridicolo colpisce la nobiltà d’antica data ridotta alla rovina […] al polo opposto la polemica è condotta contro i ricchi che hanno comprato la nobiltà da poco…». SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 135
Se pur sempre di privilegi comprati a suon di dobbie si tratta, mi sembra evidente che, da parte del Nievo, la caratterizzazione di questa singolare figura paterna fa leva sulla possibilità, tra gli echi goldoniani numerosi e trasparenti, di operare una sintesi ardita. I fumi della più antica nobiltà – solitamente, nel settecento veneziano ritratto dal Goldoni, ceto impoverito, parassitario, di fatto emarginato, perché estraneo al vero circuito produttivo – sono per il padre di Carlino, non l’ultimo retaggio di una grandeur irrecuperabile, bensì il giusto privilegio a cui un’avventurosa e redditizia carriera mercantesca, svoltasi tutta in terra di Levante, gli dà diritto di aspirare. E di una giusta aspirazione, si tratta, che il signor padre manifesta non per sé, che fiero e largamente appagato di tutto quanto si è conquistato lavorando – dal momento che, Goldoni docet, ne Il cavaliere di buon gusto, «… el negoziar no tol gnente alla nobiltà»5 – non aspira ad altri lussi o pubbliche rappresentanze. Bensì per il proprio figlio, erede del suo nome, del suo patrimonio, e giusto rinnovatore dei fasti di casa Altoviti. Anche perché, per sua diretta ammissione, Carlino è dotato di quelle qualità ‘civili’, propriamente confacenti agli obblighi del rango, che il maturo mercante, a dispetto del primo lignaggio, sente difettargli, o magari essergli venute meno, in tanti anni di fortunoso commercio in partibus infidelium. Per sé, egli non chiede di meglio che una vita quieta e ritirata – verrebbe da aggiungere, «E a casa soa; senza strepiti, senza sussuri», nonché con il pronto rincalzo, «E senza nessun che v’intriga i bisi» – magari, con una certa abbondanza alla ‘turchesca’, di pipe e sofà, giusto per rendere un po’ più esotica e trasgressiva la selvatichezza di Lunardo e degli altri Rusteghi.6
* * * Possono certo annoverarsi, simili risonanze goldoniane, fra le tessere indi- ziarie volte a supportare un sistema referenziale che Ippolito Nievo non tende certo a velare o a confondere, solo per lasciare al lettore delle Confessioni, magari proprio nella ricorrenza del loro centocinquantesimo anniversario, il piacere dell’intuizione intelligente. Al contrario, che la sequenza del capitolo
5 «Altrettanto indicativo Il cavaliere di buon gusto, dove si dimostra che non solo è lecito a un nobile occuparsi del commercio, ma anzi un intelligente investimento del capitale nella mercatura fa onore a un cavaliere […] Tipico tratto del nostro moderato illuminismo, questo tentativo di scuotere i nobili dall’inerzia e di riportarli alla dignità di un vita attiva, ricordando loro la funzione sociale degli antenati: presentare cioè un’esigenza riformistica come ritorno a un sano passato.» (ivi, p. 7). 6 Non per niente, proprio in Goldoni, la scena I del III atto de L’impresario di Smirne, si apre con la didascalia indicante, nella stanza d’albergo di Alì, «un gran sofà nel mezzo», su cui lo stesso subito siede «con lunga pipa fumando»; così come, alla sua prima visita alla casa del padre, Carlino la vede ‘addobbata’ «quasi alla turchesca con tappeti divani e pipe a bizzeffe». 136 EMMA GRIMALDI
XI che si sta cercando di rileggere, debba interamente ascriversi nell’orbita della costellazione Goldoni, è qualcosa che, a questo punto del racconto, Nievo ha già esplicitamente dichiarato, prestando a Carlino, a concludere l’ampia e articolata definizione di espressioni, mosse, atteggiamenti e guizzi caratterizzanti il signor padre, questa inequivocabile nota segnaletica:
Perfino una certa barbetta rada grigia e stizzosa accostava la fisionomia di mio padre alla maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo…
Ancora a conferma del registro autoironico, si potrebbe intendere il cenno al tardivo ingresso del padre sulla scena del mondo, e del romanzo, quale au- tomatico rinvio all’assoluta esiguità della carriera nobiliare di Carlino, iniziata nell’aprile 1797, nello stesso anno in cui, nel mese d’ottobre, Campoformio spazzerà via non solo libri d’oro o altre istituzioni nobiliari, bensì la stessa repubblica veneziana. Ma se una simile evidenza certifica altresì l’effimera fragilità del sogno/progetto paterno, velandosi di lieve malinconia, l’accen- no al ritardo storico dell’entrata in scena può anche farsi accorta prolessi di un successivo epilogo doloroso, in cui questa estrema incarnazione della maschera antonomastica veneziana e goldoniana pagherà, con la vita, il suo sogno anacronistico di una rinascita della Serenissima, avulsa e disgiunta da un più ampio processo di unificazione nazionale. Ma se di malinconia si tratta, eccola, per ora, subito stemperarsi nel successivo enunciato, in cui dalla barbetta caprina, l’occhio si sposta sulle ampie vesti orientaleggianti, che del patrizio/mercante, Sior Todero Altoviti, sembrano fare
…uno di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mammalucchi che dopo calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l’indomani.
Dove l’accenno ai mamalucchi potrebbe anche far pensare alla velocissima memoria di un estro comico, oltre che contestualmente pertinente, quale quello del Bourgeois Gentilhomme di Molière, evocato dal Nievo di striscio, magari proprio in vista di un minimo effetto distraente, all’interno di un sistema di riferimenti di cui Goldoni è indiscusso nume tutelare. Con quest’ultima affermazione non intendo affatto non mettere in conto, pur in un ruolo relativamente satellitare o subordinato, l’eco a strascico di Ge- orge Byron, del suo Beppo, o Storia veneziana. Una storia centrata sull’avven- turosa partenza di un marinaio-mercante, imbarcatosi «correndo l’Adriatico e altri mari», verso Aleppo e le coste del vicino Oriente, del quale per molto SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 137 tempo non si sono più avute notizie, finché dato ormai per morto, nei panni irriconoscibili di «un turco dal volto color mogano», ricompare a Venezia una sera, nel bel mezzo di una festa di carnevale. Riconosce la moglie che si è nel frattempo stabilmente consolata con un conte, suo cavalier servente, si rivela infine a lei, che non poco sgomenta di fronte ai suoi «buffi» vestiti, alla sua lunga barba e al grigio dei suoi capelli, ma certo non insensibile alle sue abbondanti ricchezze, accetta di tornare con lui.
Che cosa Beppo rispondesse a tante domande non so bene. Aveva fatto naufragio sulle coste dove un tempo sorgeva Troia, e oggi non c’è nulla; ovviamente era stato fatto schiavo, […] e a un certo punto si era unito a una banda di predoni sbarcati in quelle baie, prosperando in vesti di un qualunque rinnegato.
Ora era ricco, e a forza di arricchirsi gli si era acutizzato il desiderio di rivedere il suo paese, tanto da farsene un autentico dovere e smettere i continui ladronecci. Gli capitava di sentirsi solo come Robinson Crusoe; e prese a nolo un vascello spagnolo destinato a Corfù: una notevole polacca, con sei uomini e un cargo di tabacco.
S’imbarcò con un mucchio di denaro raccolto dio sa come, e a grave rischio; ma dall’azzardo era sortito incolume; la provvidenza, lui diceva; io non dico nulla, a scanso di contrasti; fatto sta che la nave era in buon ordine, che alzò le vele e tenne i tempi, tranne, a Capo Bonn, tre giorni senza vento.
Una volta a Corfù, spostò su un altro legno se stesso, il bestiame e le merci; si finse un commerciante turco, in traffici di vario tipo, che non mi ricordo; come che sia, riuscì nell’espediente, altrimenti rischiava una pallottola. 138 EMMA GRIMALDI
Scese a Venezia, per recuperare nome, moglie, dimora, religione.
La moglie lo riprese, il patriarca lo battezzò di nuovo (fra parentesi, dietro una donazione a Madre Chiesa); lui si tolse i vestiti troppo esotici e, per un giorno, si infilò le brache del conte; i vecchi amici lo apprezzarono tanto più per l’assenza prolungata in quanto aveva i mezzi per distrarli, con cene e storie adatte a farli ridere di lui; per conto mio, ci credo poco.
Le sofferenze della giovinezza le riscattò l’età matura, a forza di benessere e chiacchiere; e sebbene Laura ogni tanto lo mandasse in collera so che al conte rimase molto amico. […]
Ho voluto citare le strofe conclusive del poemetto di Byron,7 per meglio mettere in luce quanto poco prima intendevo dire parlando del ruolo subordi- nato o satellitare, che esso svolge rispetto alla costellazione Goldoni. Un ruolo riempitivo può infatti dirsi quello giocato dall’eco delle recenti memorie di un passato avventuroso, funzionale a dotare di un suo specifico spessore un tassello narrativo non di poco conto, nel complessivo impianto romanzesco, dando al personaggio, appena entrato in scena, un potenziale indiziario che lo perfezioni in quanto esistente, nella sua lunga precedente assenza, nella sua improvvisa entrata in scena, così come nella sua prossima nuova partenza per l’Oriente.8 A potenziarsi dall’interno, sfruttando l’effetto Byron, è una sequenza d’intreccio che di fatto si è venuta delineando, e intende per ora mantenersi tale, sulla falsariga di uno spaccato scenico, che in una commedia del Gol- doni potrebbe coerentemente inserirsi. Non per niente, se è anche possibile annotare una traccia alquanto marginale, come alcune minime somiglianze tra
7 G. BYRON, Ma zeppa. Beppo. La visione del giudizio, a c. di L. KOCH, RCS Libri s.p.a., Milano 1997, strofe 94/99, pp. 167-169. 8 Nel rinvio alla distinzione che S. CHATMAN, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Pratiche Editrice Parma 2003, opera fra piano dell’esistente – il sistema indiziario determinante lo statuto tipologico di un personaggio, o l’equilibrio di una certa situazione – e piano dell’evento – la catena sequenziale o successione di funzioni determinante il plot – Nella coerenza fra i due piani del discorso narrativo consiste naturalmente il verosimile di ogni racconto. SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 139 l’Altoviti padre, ed il goldoniano Alì, Impresario di Smirne, più rilevante è il modo in cui alla prioritaria dualità padre/figlio, intenti alla reciproca scoperta, si affianca e si alterna quella più propriamente classista, che contrappone due opposti campioni, rappresentativi della società veneziana, alquanto di casa nel mondo goldoniano. Un nobile che si è fatto mercante accorto e sagace, che ha saputo rischiare vita e capitali sui mari e in terra di Levante, ed ora all’estro della ritrovata boria, antepone il suono delle monete tintinnanti nella sua borsa. La zia contessa, che di boria nobiliare si è costantemente nutrita, e che trova quel suono piacevolissimo – tanto da colmare di melliflue gentilezze il cognato sempre aborrito – ora che, schiava del vizio del gioco, ha comple- tamente dilapidato, tra la bassetta e il faraone, gli ultimi resti di una rendita fondiaria sempre più esigua, col progressivo impoverirsi del feudo di Fratta.9 Il confronto ravvicinato fra due mondi, conviventi nella stessa realtà storico/ sociale, è notoriamente tratto costitutivo del miglior teatro del Goldoni maturo, del Goldoni che ha già fatto sua la convinzione della piena dignità letteraria del testo teatrale. Viene allora da chiedersi, (pura domanda retorica), ove mai, se non in Goldoni, il Nievo avrebbe potuto trovare elementi scenici con cui sostanziare – riempire di echi socio/economici fondati e credibili – quel tratto delle sue Confessioni concernente la giovinezza, ancora tutta ‘veneziana’, di un futuro Italiano che ben presto, nella scomparsa di quel mondo, e dell’ancien régime di cui esso è parte, si troverà direttamente coinvolto.
* * * Credo però che a questo punto, meglio convenga verificare se e quanto la definitiva e direi meditata assimilazione dell’immagine paterna alla masche- ra/archetipo Pantalone, residuo di un teatro/mondo goldoniano, al quale Nievo – al di là degli obblighi di fedeltà documentaria – intende comunque rendere omaggio, possa dirsi invenzione immediata, che senza tentennamenti ed ombreggiature emozionali, si contraddistingue da subito nella sua preci- pua marca segnaletica. Intendo riferirmi a quella che, nella zona iniziale del capitolo XI, è appunto la scena del primissimo incontro tra l’avventuroso patrizio/mercante e Carlino, chiamato di gran premura a Venezia da una lettera della zia. In un sol colpo, Carlino ha dunque appreso non solo che suo padre non è affatto morto o disperso, come sempre aveva sentito dire, ma che
9 Su quanto la tematica del gioco sia stata rilevante nella vita e nell’opera del Goldoni, tra i Mémoires e soprattutto due delle sedici ‘commedie nuove’, come La bottega del caffé e Il giuocatore, cfr. F. FIDO, La poetica del gioco fra ‘vraisemblance’ e ‘verité’, in «Nuova guida a Goldoni», cit., pp. 89-101. 140 EMMA GRIMALDI
è tornato, e lo attende per fargli «riprendere nella società il posto concesso ad un rappresentante del patrizio casato degli Altoviti». Collocandosi auto- maticamente il lettore nell’ottica del personaggio, protagonista/narratore, va da sé che sia un calibrato dosaggio di meraviglia ed emozione a predisporre le attese per quella che si annuncia come una topica scena madre. Ma con una di quelle rapide virate di cui è maestro, guardando il misterioso nuovo venuto cogli occhi di Carlino, Nievo provvede subito a gettare acqua, sul fuoco di un pathos virtuale:
… un ometto rubizzo, sciancato d’una gamba, mezzo turco e mezzo cristiano al vestito, entrò saltabeccando nell’anticamera.[…] mi abbandonai fra le braccia del nuovo arrivato versando fra le pieghe della sua zimarra armena le prime lagrime di gioia che spargessi mai …
Ancora, più oltre, a confermare la messa a frutto dell’effetto Byron, non tanto la vera e propria descriptio figurae, ma la somma delle impressioni esotiche che quell’«ometto rubizzo» suscita nel figlio ritrovato, si viene così evolvendo:
Io non mi stancava di osservare quei suoi occhietti bigi un po’ sanguigni un po’ loschi, che per tanti anni avevano guardato il sole d’Oriente, e quelle rughe capricciose e profonde formatesi sotto il turbante al lavorio di Dio sa quali pensieri, e quei gesti un po’ autorevoli un po’ marinareschi che armeggiavano sempre per commentare la zoppicante oscurità di un gergo più arabo che veneziano.
E sono tutte impressioni funzionalmente decisive al fine dell’inserimento della figura paterna in un’atmosfera alla Goldoni, pur se vivacizzata da un’ul- tima mano di vernice byroniana,
Mi pareva che tali dovessero essere stati que’ vecchi mercatanti veneziani della Tana o di Smirne, che a furia di furberia, di chiacchiere e d’attività facevano perdonare o dimenticare dai Tartari la differenza di fede. Turchi a Costan- tinopoli, cristiani a San Marco, e mercanti dovunque, avevano essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d’allora.
Un’atmosfera poi confermata e perfezionata dalla già considerata chiusa dell’inserto descrittivo, sull’assimilazione del mercante, mezzo turco e mezzo cristiano, alla maschera di Pantalone. Ma cercando di designare una possibile modalità operativa, inerente tutta la conduzione di questo ampio tratteggio, ho prima parlato di acqua sul fuoco SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 141 di un pathos virtuale: vale a dire, di una sensibile e consapevole divergenza effettiva, rispetto alle attese predisposte; e provo ora a renderne conto. Il fattore sorpresa accomunante il lettore a Carlino, di fronte alla improv- visa e imprevista comparsa in scena, si avvalora certo sul piano propriamente emozionale/affettivo, come su quello delle speranze o ambizioni connesse ad un cambiamento di stato, ad una sensibile promozione sociale, del giovane orfano allevato per carità, per il quale la carica di cancelliere nel piccolo feudo di Fratta è sinora sembrata il massimo dono che il destino potesse concedergli. Riconoscimento e reintegrazione in un legittimo ruolo onorifico, sull’onda di una remota, quanto persistente eco fiabesca, costituiscono appunto l’ovvio orizzonte d’attesa – nonché, testualmente, l’oggetto di un’esplicita promes- sa/dichiarazione epistolare – che potrebbe dirsi davvero convenientemente saturato ove mai, ad attendere il giovane, per ricompensarlo del precedente abbandono, fosse un vero “padre nobile”, ammantato di una grave dignità, magari anche un po’ enfatica e sussiegosa. Se invece, proprio all’opposto, il misterioso genitore si rivela «un ometto rubizzo», sciancato e saltabeccante, un ulteriore, diverso, ma non meno forte, effetto sorpresa spiazza, in gran parte, le attese predisposte, rendendo addirittura lecite le perplessità di chi legge riguardo al radioso futuro che dovrebbe attendere Carlino. D’altronde – e questo un lettore minimamente acculturato non può non saperlo – Campoformio è alle porte: a nulla potrà servire, all’eroe protagonista, l’iscrizione nel libro d’oro dei patrizi votanti, di fronte alla cessione all’Austria della Serenissima. Così come è vero che ancora ben dodici capitoli di romanzo si aprono davanti a Carlino e ai suoi lettori; che è ancora lunga la strada che un giovane, nato veneziano, dovrà percorrere, per diventare un ottuagenario che si attende di morire italiano. Insomma, una scena quale idealmente ci si poteva aspettare, in un suo idoneo contesto virtuale, che è quello, tutto ipotetico, del romanzo settecentesco, avrebbe avuto, comunque, un tono ed un carattere stabilmente conclusivi. La scena di commedia, alla cui resa teatrale è sufficiente abbassare la figura paterna, depauperarla di tutta la sua topica solennità, sino a farne una maschera, lascia invece aperta la strada di un consistente percorso narrativo, in tutte le alterne possibilità di ramificazioni binarie che esso comporta.
* * * Al di là delle opportunità d’impostazione stilistica, omologhe e conse- quenziali al posizionamento sintattico di ogni scena o funzione, sull’asse di un intreccio narrativo, è vero che, per unanime convincimento critico, sono 142 EMMA GRIMALDI riconosciute e lodate come componenti forti caratterizzanti, della scrittura di Nievo, quei guizzi estrosi, quelle virate spiazzanti sovente giocate a fini di understatement, per dissolvere in ironica leggerezza un momento di racconto che sul grave o sul patetico pareva indirizzato. Una loro probante esemplifi- cazione mi sembra dunque qui debitamente da segnalarsi, proprio nel rapido cambio di registro che in una perfetta scena di commedia, e di commedia goldoniana, o se si preferisce, ‘veneziana’ tout court, rovescia, in effettuale parodia, la scena virtuale, da romanzo di formazione, che pareva annunciarsi come imminente. Detto questo, all’ipotesi appena accennata, di un abbassamento comico che proiettandosi sul modello paterno più ovviamente attendibile, finisce per riverberarsi sullo stesso protagonista, con un innegabile «effetto Sterne»,10 inficiando la solennità di un momento del suo vissuto, che più solenne che mai avrebbe invece dovuto essere, provo ora ad affiancarne un’altra. Intendo riferirmi alla possibilità che vero schermo referenziale, su cui nella suddetta circostanza l’understatement del Nievo si esercita, non sia tanto un virtuale e/o ipotetico modello di romanzo, quanto un romanzo effettivo e compiuto, un capolavoro dell’Ottocento francese, di grande risonanza nel coevo panorama europeo, come Il Rosso e il Nero di Stendhal. E a titolo di legittimo corollario a quanto cercherò di dire, credo di potermi comunque avvalere della ben nota frase di Borgese, nella sua Introduzione, guarda caso, ad un altro celeberrimo romanzo stendhaliano, La Certosa di Parma, a proposito di quei libri «che la storia e la tradizione lessero per noi», anche se «noi non abbiamo avuto il tempo o l’opportunità di legger(li) in persona».11 Per apportare comunque una qualche verifica, è necessario un altro passo all’indietro, sino alla pagina conclusiva del capitolo X delle Confessioni. Di un capitolo, si tratta, modulato su ritmi alquanto vivaci, così da imprimere perfettamente alla pagina il senso del rapido scorrere di un tempo vorticoso, foriero di mutamenti sorprendenti, per la loro stessa rapidità, nell’intero asset- to europeo. Ad inaugurare tale capitolo sono infatti le chiacchiere abituali del capitano Sandracca e di monsignor Orlando, intorno al camino della cucina di Fratta, riguardanti questa volta la figura del generale Bonaparte, dato che
10 Ovvio, quanto dovuto, il richiamo al ben noto titolo coniato da G. MAZZACURATI, in merito al campo variegato e spesso non adeguatamente riconosciuto dell’umorismo in letteratura. 11 Ho ritrovato la frase di Borgese, in A. PALERMO, A proposito della novellistica rusticane, dentro e fuori Nievo, in AA. VV., Ippolito Nievo tra Letteratura e Storia, Università degli Studi di Firenze,Atti della Giornata di Studi in memoria di Sergio Romagnoli, Bulzoni, Roma 2004, p. 41. SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 143 il fiero comandante di guarnigione è pronto a giurare sulla sua inesistenza, sull’essere il suo nome una pura invenzione dei signori del Direttorio. Sin- tonizzandosi sulla celere avanzata dell’Armée d’Italie nella pianura padana, l’incalzare del racconto fa sì che l’imminente conclusione porti invece Na- poleone direttamente sulla scena del romanzo, in qualità, sia pure per pochi minuti, di per sé alquanto deludenti, di diretto interlocutore di Carlino. Senza troppo dilungarsi sulla loro legittimità, interessano ora le fantasti- cherie, le velleità di gloria a cui per un momento decisamente eccezionale, data la sua costante dimensione di un’assoluta e antieroica normalità, questi si abbandona dopo quel capitale incontro:
I Francesi mi frullavano pel capo; sognava di diventare qualche coso d’im- portanza; […] Quel tal general Bonaparte di poco era più attempato di me. Perché non poteva anch’io mutarmi di sbalzo in un vincitore di battaglie, in un salvatore di popoli? L’ambizione mi adescava a braccetto dell’amore…
Leggendo queste righe, immediato e quasi automatico si fa infatti il ri- chiamo a quanto Stendhal, diluendolo in termini di attitudine costante, fa oggetto, ne Il Rosso e il Nero, dei sospiri del suo Julien Sorel. Fatto salvo, naturalmente, il mutarsi delle coordinate temporali: l’eccezionale istantaneità di uno stato d’animo perfettamente connaturato ad un momento storico in cui il corso stesso del tempo pare velocizzarsi, e rendere plausibile anche il sogno più avventato, va a sostituire, sulla pagina di Nievo, quella che, in Stendhal, era invece l’abitualità protratta, pertinente i tempi grigi e inerti dell’età della Restaurazione. Ma appunto, al di là di tutto questo, diventa difficile pensare alla casualità della pura coincidenza, idealmente ravvicinando lo stralcio appena citato, anche ad un solo, paradigmatico, frammento stendhaliano12, quale quello rintracciabile nel capitolo I,5 de Il Rosso e il Nero:
Da parecchi anni, Julien non passava forse neanche un’ora della sua vita senza dire a se stesso che Bonaparte, da oscuro sottotenente privo di mezzi, era divenuto padrone del mondo con la sua spada. Questa idea lo consolava delle sue sventure, che gli sembravano grandi, e raddoppiava la sua gioia, quando ne aveva.
Incarnando sempre e comunque, Napoleone, «il trionfo della giovinezza e dell’energia sull’età, la tradizione e la gerarchia», l’esempio vivente della «possibilità di una carrière ouverte aux talents: promozione e avanzamento
12 Si cita da STENDHAL, Il Rosso e il Nero, trad. di M. CUCCHI, Mondadori, Milano 2003. 144 EMMA GRIMALDI legati al merito, legittimazione della mobilità sociale, usurpazione autorizzata in tutti i campi»,13 lo scarto d’ordine storico fa sì che il protagonista/narratore di Nievo, anche per un solo istante, possa vivere nel suo presente, o proiettare nell’immediato futuro, tutto ciò che, per inveterata abitudine, l’eroe sten- dhaliano deve collocare nell’anteriorità, in un tempo delle grandi occasioni irrimediabilmente ‘perduto’, che l’età della Restaurazione fa sentire come ormai del tutto irrecuperabile. Da qui, apportatrici di un ulteriore rapporto a contrasto, altre ipotesi possono generarsi. Sino alla chiusa del X capitolo delle Confessioni, Carlino è davvero, a tutti gli effetti, un orfano o un trovatello, che a dire il vero, non sembra troppo dolersi di un simile stato, delle condizioni oggettivamente umilianti che esso comporta, come il dover vivere relegato fra la servitù del castello, godendo in pieno, al contrario, della mancanza di vincoli e restrizioni, della grande libertà o opportunità d’esperienza, che lo indurranno poi a definire l’infanzia, l’età fondamentale dell’intera esistenza umana. Se di lì a poco, con la caduta dell’ancien régime, il mondo dovrà cambiare, proprio la mancanza di tutti i condizionamento precostituiti dal vincolo familiare – quel vuoto alle spalle che è traccia mitica di ogni eroe fondatore – garantisce, volendo sognare la gloria, la possibilità di adesione al modello di mediazione interna, tutto a portata di mano, che Napoleone rappresenta. In una cronaca del 1830, in un tempo in cui aborrito e forzosamente ri- mosso il fantasma Napoleone, nulla conta più il talento individuale, fagocitato dal vigente immobilismo e/o rispetto delle gerarchie, un giovane d’ingegno e di umili natali, a priori socialmente emarginato, oltre che marcato dalla sospettosa diffidenza pronta a cogliere in lui il virtuale sovversivo o rivolu- zionario, può naturalmente innestare sul proprio destino familiare la radice del suo malessere. Sentirsi, nella propria famiglia un estraneo, un orfano o trovatello misteriosamente adottato in seguito ad una nascita clandestina, fantasticare su un proprio carnale “padre nobile”, magari un aristocratico esiliato da Napoleone fra i monti della Franca Contea, sognare, quale unica rivalsa compensativa, una tardiva agnizione, che possa reintegrarlo nel ruolo onorifico che sente spettargli di diritto, legittimando al tempo stesso quelle sue ambizioni, che se non celate costantemente, da un’impeccabile copertu- ra ipocrita, rischiano di fare di lui, agli occhi del mondo, il portatore di un pericoloso ribellismo, l’ipotetico sovvertitore dell’ordine sociale. Insomma, Julien Sorel, nel 1830, ha bisogno di un “padre nobile” – ipotetico
13 P. BROOKS, Il romanzo e la ghigliottina, in Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino 2004, p. 69, p. 74. SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 145 padre vero, radicalmente opposto a quello reale che il mondo gli attribuisce – molto più di quanto, per ciò che Nievo racconta nel 1858, non ne abbia Carlino nel 1797. Sta di fatto che assecondando una precisa risonanza stendhaliana, l’autore delle Confessioni associa, o immediatamente posticipa, rispetto a quella estemporanea mania di grandezza del suo protagonista, l’ingresso in scena di un padre, davvero determinante, per Carlino, un pur breve, cursus honorum. Qualcuno che, sia pure per pochi mesi, farà di lui – nelle ridotte proporzioni che Venezia può avere rispetto a Parigi – qualcosa di simile a ciò che, in analoga direzione, sarebbe potuto diventare Julien Sorel, una volta che l’astuta diplo- mazia del marchese de La Mole – inventandogli un perfetto fantasma paterno – aveva fatto di lui il cavaliere de La Vernaye. E come si sa, il condizionale è d’obbligo, perché intendendo nel corretto valore conclusivo, la funzione sin- tattica di un ideale riconoscimento o reintegrazione, Stendhal preferisce, subito dopo, deviare a sorpresa il racconto verso un epilogo imprevedibile: spezzare bruscamente la brillante carriera del suo eroe, ghigliottinarlo, e tagliare così la testa al suo stesso romanzo.14 Come Stendhal, ne Il Rosso e in Nero, allude, per operarne poi il brusco capovolgimento, a loci consacrati del romanzo settecen- tesco, anche Nievo ha certo letto Tom Jones. Anche Nievo conosce dunque la comprovata validità di un percorso romanzesco «con un trovatello per eroe destinato a scoprire nel finale le sue origini aristocratiche, giustificando così retrospettivamente il suo desiderio di scalata sociale, e riscattando le sue tra- sgressioni come prova di una naturale affinità».15 Un simile percorso interessa Stendhal, solo per quanto concerne un adeguamento simulato, o piuttosto aper- tamente parodico, da cui rilanciare, fortemente potenziato, un finale spiazzante, addirittura illogico rispetto alle premesse saldamente poste. Interessa Nievo, in misura ancora minore, solo come serbatoio di tracce allusive, utili ad allargare il respiro europeo delle sue Confessioni, nonché, in più ristretta contingenza, come materiale di riporto per ricostruire, su ridottissima scala, quel nesso fra mania di grandezza (e/o sindrome napoleonica), e paternità legittimante, che proprio nella sua trasparentissima matrice stendhaliana, allude ad una topica stagione romanzesca, che ben può chiamarsi Waterloo Story,16 ma che per altro, almeno per le finalità ultime che il Nievo si prefigge, può riguardarlo solo en passant. Solo, per tutto ciò che, nel bene come nel male, Napoleone ha rap- presentato al di qua delle Alpi, per una generazione che, ormai ottuagenaria, attende, sentendola finalmente prossima, la tanto sospirata unità nazionale. È
14 Ivi., p.71. 15 Ivi, p. 72. 16 F. MORETTI, Waterloo Story, in Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999, pp. 83-141. 146 EMMA GRIMALDI senz’altro giusto dire che «senza Napoleone anche la storia letteraria sarebbe stata tutt’altra»,17 è però anche vero, purtroppo per noi, che Le confessioni d’un Italiano, l’unico romanzo del nostro ottocento che tenta di darsi un’allure di stampo europeo, ponendosi a priori un traguardo risorgimentale, garibaldino, deprimono le opportunità della Waterloo story a materiale riempitivo di un solo breve segmento nella giovinezza dell’eroe. Un segmento che in sincronia con la fine di un microcosmo glorioso, quella repubblica di San Marco di cui Goldoni è nume tutelare, scandisce il concludersi di una precisa fase d’esistenza, entro la quale l’incontro a sorpresa col padre – fosse pure il semplice pretesto per un commemorativo medaglione goldoniano – s’inserisce comunque come decisivo punto di snodo, modernamente umoristico,18 recuperando in un’autoctona tra- dizione di commedia, contestualmente più che pertinente, il giusto antidoto al campo ‘alto’, di pertinenze allusive, ad arte evocato, proprio per essere poi così teatralmente dissolto. Credo bene, che a questo punto, sia superfluo chiedersi che cosa Le confessioni sarebbero potute diventare, se riequilibrando il plot ed eliminando quei tre ultimi capitoli alquanto infelici,19 senza farne per forza
17 Ivi, p. 84. 18 Il versante umoristico si riversa sovente, a caratterizzare il personaggio Todero Altoviti, su quei fantasiosi sogni di grandezza, che più contrastano col suo pragmatismo mercantile. Esemplare (pp. 512-513, ed. cit.) una simile sequenza: «…Ti cedo tutto pel maggior lustro di casa Altoviti. Cosa vuoi? È la mia idea fissa! Avere un doge in famiglia! […] - Ottimamente Carlino, tu pigli le cose di volo […] Il mestiere del doge diventerà tanto più proficuo, quanto meno seccante e pericoloso. Tu guadagnerai ducati, io li farò fruttare. Dopo sei anni compre- remo tutto Torcello, e la famiglia Altoviti diventerà una dinastia». Una sequenza indicante, nel contesto veneziano del 1797, un’assoluta mancanza di senso di realtà, eppure contrappuntata, poche righe dopo, da questa lucida professione di realismo: «– Ma già – egli riprese – e non c’è da stupirsene. Coi nuovi ordinamenti che ci incastreranno, ognuno che ha meriti dovrebbe soverchiare chi non ne ha. Questo in via d’astrazione. Ma nel concreto colle vostre abitudini coi vostri costumi credi tu che il più ricco ed il più furbo non abbia ad esser giudicato il più meritevole?... ». Circa poi la diffusione, nella narrativa borghese ottocentesca, del sogno di una grandezza/nobilitazione postuma, che un padre mercante intende realizzare attraverso il successo mondano del proprio figlio, si potrebbero ricordare le fantasticherie del vecchio Osborne, in W. M. THACKERAY, La fiera delle vanità, cap. XXI, trad. ital. di A. BANTI, Newton Ccompton, Roma 2008, p. 196: «Anche il vecchio Osborne pensava che la ragazza sarebbe stata per suo figlio un buon partito. George avrebbe lasciato l’esercito, sarebbe entrato in Parlamento, si sarebbe acquistata una fama nel bel mondo e nella politica. Il suo sangue bolliva di onestà mentre egli vagheggiava il nome degli Osborne nobilitato nella persona di suo figlio e si vedeva progenitore di una gloriosa stirpe di baronetti». 19 A questo proposito si ricorda come F. PORTINARI, in Le parabole del reale, Einaudi, Torino 1976, p. 96 conclude il saggio su Le confessioni d’un Italiano, dal titolo Un grande romanzo inglese affermando categoricamente: «Ed elegia è la morte di Pisana, nel ventesimo capitolo, il lungo dialogo con Carlino prima di spirare, tinto appena di melodramma, ma nel senso migliore e più popolarescamente genuino. Lì terminano veramente Le confessioni di un Italiano. Il resto è stucchevolmente superfluo». Sulla stessa lunghezza d’onda si potrebbe allora affermare che anche I promessi sposi terminano veramente con le nozze mistiche di Renzo e Lucia, celebrate da padre Cristoforo nel lazzaretto, al capitolo XXXV, anche se Manzoni protrae la narrazione SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 147 un ottuagenario con lo sguardo volto all’indietro, Nievo avesse esaurito in età napoleonica, magari con una chiusa tragica, o problematica, la biografia del suo Carlino. Facendo di lui un suo coetaneo, non sarebbe incorso nel fatale paradosso di una longevità d’invenzione, compensatrice di una vita vera troppo breve. Allora, però, non di autobiografia à rébours si sarebbe trattato, bensì di un Bildungsroman, o magari di un Entwicklungsroman. In evidente riferimento a quelle gloriose tipologie del romanzo europeo sette/ottocentesco, rispetto alle quali la coeva stagione narrativa italiana nutre, a ragione, qualche ben giustifi- cato complesso d’inferiorità, che Le Confessioni ripagano almeno in parte. Non fosse per altro, almeno per quell’iniziale assunto programmatico, dichiarante la convinzione dell’essere sempre e comunque ogni vicenda esistenziale, pur se non ricca di avvenimenti straordinari, passibile di mutarsi in racconto, perché sempre dimostrativa della «azione dei tempi sopra la vita d’un uomo»,20 sempre dunque cronaca e/o testimonianza storico/documentaria. Né più né meno di quanto, il ben più drammatico corso di destino di un perfetto ‘anti/Carlino’, quale l’ultra/problematico Julien Sorel, si attesta, sullo sfondo/contesto delle vicende storiche francesi, quale ineguagliato, canonico paradigma di una più che verosimile Cronaca del 1830.
* * * Pur volendo riconoscere una qualche legittimità all’ipotesi che Nievo ricorra ad un travestimento alla Goldoni dell’immagine paterna, in funzione comico/destrutturante – rispetto ad un modello alto di romanzo, virtuale o reale che esso sia – mi rendo comunque conto, salvo alcune sporadiche cita- per altri tre capitoli, proprio per reintrodurre definitivamente i due sposi nell’anonimato del prosaico quotidiano, da cui l’avventura romanzesca li ha temporaneamente avulsi. Non mi sembra da escludere che proprio sulla scia del modello manzoniano, Nievo abbia voluto far seguire tre ‘brutti’ capitoli, di una grigia e prosaica vecchiaia, al concludersi dell’epos roman- zesco, inequivocabilmente scandito dalla morte edificante della sua straordinaria eroina. 20 Come è ben noto, alcune righe dopo Nievo/Carlino aggiungerà di non aver vissuto nulla «di strano o degno da essere narrato, se la mia vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana», ma di essere comunque convinto di come «L’attività privata di un uomo […]debba in alcun modo riflettere l’attività comune e nazionale che la assorbe; come il cader d’una goccia rappresenta la direzione della pioggia» istituendo un nesso logico/metonimico su cui risultano interessanti le osservazioni di C. GAIBA, La ‘goccia’ e la ‘pioggia’: l’utopia del romanzo, in Il tempo delle passioni, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 69-90. È con l’intento di una rapidissima chiosa a tali osservazioni che mi sento di rilevare in quale ampia misura Nievo potrebbe definirsi un lukàcsiano ante litteram; ovvero il consapevole autore di un vero romanzo storico, animato dalla coscienza dell’essere la storia un’«esperienza vissuta dalle masse», «un processo ininterrotto di trasformazioni», che «agisce direttamente sulla vita di ogni singolo individuo», secondo il preliminare dettato di G. LUKÁCS, Il romanzo storico, Einaudi, Torino 1970, pp. 14-15. 148 EMMA GRIMALDI zioni nelle prime pagine, di aver un po’ troppo sin qui privilegiato, delle due ipotesi inizialmente formulate, quella più ampia e generica, volta ad assimilare un preteso referente propriamente goldoniano, a tutto ciò che, in senso lato, più semplicemente ‘veneziano’ potrebbe definirsi. A titolo di parziale ammenda, provo ora ad enunciare un’ulteriore possi- bilità: appunto quella che, almeno per certi aspetti, nel tratteggio di questa singolare figura di padre, ad un tempo patrizio e mercante, borioso e prag- matico, Nievo abbia tenuto ben presente non tanto, o non solo, un archetipo goldoniano in senso lato, ma una precisa e alquanto celebre figura teatrale dell’ultimo Goldoni, risalente più precisamente al 1762. Il nome stesso che lo designa, Teodoro, Todero nella dizione veneziana, è infatti, non certo per caso, quello del celeberrimo Brontolon: perfetto esemplare, già nel mondo/ teatro di sua diretta pertinenza – richiamando le parole di Nievo – proprio di un Pantalone venuto in scena troppo tardi. A meglio chiarire che cosa intendo, nulla mi sembra più appropriato del rinvio alle pagine in cui Franco Fido, a proposito dell’intera opera del Goldoni, assume a punto di partenza del suo brillante excursus storico/ interpretativo – prendendo a pretesto una commedia del 1741, Il mercante fallito, stampata nel 1757 col titolo La bancarotta – la radicale metamorfosi per cui il «vecchio Pantalone vizioso, prodigo, donnaiolo, dei comici dell’arte» diventa gradualmente «il personaggio interamente goldoniano dell’abile e onorato mercante, che presto si fisserà, invecchiando, nella figura costante di un nuovo e umano Pantalone».21 Un carattere di lunga e fedele permanenza in scena, al quale puntualmente il suo autore affida l’encomio di quelle virtù in grado di salvaguardare ad un tempo etica e profitto, prosperità dell’im- presa privata e dell’intera repubblica: schiettezza, moderazione, puntualità, economia; tutte virtù la cui professione garantisce credito e reputazion, e fa del mercante onorato un omo civil .22 Ciò detto, sempre Franco Fido costeggia, in termini di mirabile sintesi, il percorso involutivo disegnato da Goldoni per questa sua straordinaria inven- zione, segnandone l’esordio nel progressivo calo di ottimismo, già avvertibile «nelle commedie scritte per il Teatro di San Luca», nel cui novero è La buona famiglia, del 1755, ad offrire probante esemplificazione delle «crepe che si vanno aprendo nell’edificio borghese della mercatura come attività ideale, fonte sicura di prosperità, quando sia esercitata onestamente».23 Viene così a distinguersi una successiva tappa all’insegna del «ritorno alla campagna»,
21 F. FIDO, op. cit., pp. 9-10. 22 Ivi, pp. 11-12. 23 Ivi, p. 31. SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 149 conseguente il crescente abbandono delle attività commerciali e marittime,24 in cui l’inadeguatezza della nobiltà veneziana ad una corretta gestione del patrimonio fondiario trova, in Goldoni, appropriata espressione satirica in commedie come Il cavaliere di spirito o La donna di testa debole. Da qui, l’attenzione di Fido passa a fissarsi su un ulteriore momento, in cui «para- dossalmente, la crisi politica del patriziato veneto si ripercuote sul sistema di vita dei mercanti goldoniani, che appare improvvisamente superato»; così che «gli ultimi eroi del particulare borghese – Sior Todero, i Rusteghi – diventano ora veramente dei personaggi da commedia».25
* * * A proposito del Sior Todero Brontolon, pressoché automatico suona per me il ricordo – risalente ai tempi di una mia prima adolescenza in anni lontani, quando la televisione di stato non subordinava alle leggi dell’audience l’im- pegno di una corretta divulgazione culturale – dell’interpretazione offertane da Cesco Baseggio. Un’interpretazione a suo modo magistrale, anche se, col senno di poi, decisamente fuorviante, perché volta a caricare Sior Todero del fondo di un’umana simpatia, di una larga bonomia arguta. Tratti umani pertinenti l’essere dell’attore, ma non certo quello del personaggio. Tali da spingere quest’ultimo nell’orbita semantica di un eventuale bourru bienfaisant, ma non certo in quella del vecchio fastidioso, che per Sior Todero Goldoni ha espressamente costruito, indicandolo a chiare lettere, già nel sottotitolo della commedia. E su cosa si debba intendere per vecchio fastidioso, su come, per il suo autore, Sior Todero rappresenti un carattere inaccettabile: tirannico paron che sull’unica coordinata di un egocentrismo presuntuoso e dispotico, è ve- nuto inasprendo la pragmatica saggezza dei padri/padroni suoi predecessori, conviene ora lasciare la parola allo stesso Goldoni:26
24 In termini di corsi e ricorsi storici si potrebbe pensare a qualcosa di simile a quanto accade nel Decameron, vera e propria «epopea dei mercatanti» in una distinzione nettissima dei due piani storico/temporali, fra mondo del racconto o della storia - la realtà interna alle novelle, testimoniante una fase di economia mercantile in ascesa/espansione, dove la campagna è luogo di emarginazione subordinato alla città - e mondo della narrazione o del discorso, in cui già si è consumata la crisi o il riflusso del modello socio/economico, assunto a privilegiato referente narrativo. I dieci giovani componenti «la laudevol compagnia» possono quindi vantare la «gran copia» di possedimenti terrieri, i beni rifugio in cui già sono stati riconvertiti i frutti dei trascorsi investimenti commerciali, e vivere una nuova stagione in cui la ‘villa’, forma ingentilita e raffinata della campagna, che ha in sé gli agi e i lussi cittadini, si è fatta categoria socio/spaziale alternativa e fortemente concorrenziale rispetto alla città e alle forme di vita e di economia urbane, su cui la peste del 1348 ha agito come spietato evidenziatore di una crisi irreversibile comunque già in atto. 25 F. FIDO, op. cit., p. 40. 26 La citazione che segue è tratta da C. GOLDONI, Sior Todero Brontolon o sia Il vecchio 150 EMMA GRIMALDI
Todero è il nome proprio della persona, e vuol dir Teodoro; Brontolon non è il nome di famiglia di Todero, ma un adiettivo che deriva da brontolare, soprat- tutto datogli dalle persone che lo conoscono a fondo e che spiega e mette in ridicolo il di lui carattere inquieto fastidioso, indiscreto […] Todero, se fosse anche della famiglia Brontoloni, per poco che conoscesse il proprio carattere non soffrirebbe esser così chiamato, e cambierebbe di nome. Non vi è niente di più fastidioso, di più molesto alla Società, di un uomo che brontola sempre; cioè che trova a dire su tutto, che non è mai contento di niente, che tratta con asprezza, che parla con arroganza e si fa odiare da tutti. […] Tutta la morale di questa Commedia consiste nell’esposizione di un carattere odioso, affinché se ne correggano quelli che si trovano, per loro disgrazia, da questa malattia attaccati. E in fatti qual maggiore disgrazia per un uomo, che rendersi l’odio del pubblico, il flagello della famiglia, il ridicolo della servitù? Eppure non è il mio Todero un carattere immaginario. Pur troppo vi sono al mondo di quelli che lo somigliano…
È senz’altro vero – e lo si è già distesamente considerato – che il patrizio/ mercante Todero Altoviti svolge nei confronti del figlio la funzione di un munifico Donatore, con una generosità, sia pur determinata da un narcisismo di riflesso, che è cifra caratteriale del tutto estranea al goldoniano vecchio fastidioso di cui porta il nome. Ferma restante questa capitale inversione, non si può però non riconoscere che, almeno nel breve segmento dei capitoli XI / XIII delle Confessioni, sullo sfondo di una Venezia più che mai desolata e attonita, mentre Campoformio segna l’epilogo di una tragedia da tempo annunciata, il tratteggio ravvicinato di questa singolare figura paterna mostra di tener conto di alcuni tratti caratterizzanti, che al suo omonimo e celebre predecessore possono, almeno in parte, assimilarlo. Come se, con quella sapienza astuta che gli viene dall’essere «avvezzo alla vita», volesse saggiare la pazienza del figlio appena ritrovato, o piuttosto, in vista dei grandi progetti che ha in mente per lui, la sua capacità a padroneggiare se stesso, a non abbandonarsi a reazioni emotive inconsulte, ecco infatti il sior To- dero Altoviti assumere spesso su di sé, della parte del vecchio fastidioso, il tratto peculiare segnalato dal Goldoni nel trovare a dire su tutto, o nel non essere mai contento di niente. Nel frequentissimo uso espressivo di una certa arroganza fatta di sarcasmo, disprezzo degli altri, per sottinteso eccesso di autostima, le sue reprimende si orientano così sui più diversi referenti. Sulla Pisana, sui
gran corteggiatori che aveva a Venezia, e (sul) suo torto marcio di non appigliar- si al più ricco per ristorarne la dignità della casa e la fortuna della mamma. fastidioso, L’autore a chi legge, in Sior Todero Brontolon, Le baruffe chiozzotte, Il ventaglio, a c. di G. ORTOLANI, Mondadori, Milano 1978, p. 3. SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 151
Poi, sin troppo facile bersaglio, per le sue evidenti debolezze, su Giulio Del Ponte, che
…soprattutto gli pareva, per usar la sua frase, un saltamartino. […] l’era un cantastorie pieno di tossi, di miserie e di melanconia. […] (uno di) quei mezzi omiciattoli (che) in Levante si mandano a vender bagiggi per le contrade.
Ed ancora, sugli sperperi della cognata contessa,27 e sull’inettitudine del virtuale capo di casa,
… narrava le dilapidazioni della Contessa, e la ruinosa indifferenza del Conte Rinaldo che si perdeva a far lunari nelle biblioteche, mentre la bassetta e il fara- one strappavano di mano a sua madre le ultime razzolature del loro scrigno.
Per dare poi, dichiarandosi di fronte al figlio, del quale non può non aver intuito i sentimenti per la cugina, artefice del fidanzamento fra Pisana e il vecchio Navagero, un’estrema prova di odiosità, comparabile negli effetti – il lasciare «nauseato» il pur sempre affabile e accomodante Carlino28 – a quella che offrirà, commentando la notizia del suicidio di Leopardo Provedoni:
Mio padre m’attendeva infatti da un’ora e si spazientiva di non vedermi tor- nare. Mi scusai raccontandogli l’atrocissimo caso, ed egli mi tagliò le parole in bocca sclamando: – Matto, matto! La vita è un tesoro; bisogna impiegarlo bene sino all’ultimo soldo! – Rimasi nauseato alquanto di una tale pacatezza, e non ebbi voglia alcuna di farmi incontro ai suoi desideri …
27 Alla generosità/magnificenza, il padre di Carlino alterna del resto momenti di «guardinga taccagneria», come appunto a questo proposito: «Mi confessò con maligna compiacenza che la Contessa aveva cercato di sentir il peso delle sue doble, ma che non avea potuto vederne neppure il colore; e in questo batteva la mano al taschino sulla solita sonagliera di monete. Tale guardinga taccagneria non mi andò a’ versi affatto, e son quasi certo ch’egli se ne avvide. Ma non usò per questo la cortesia di cambiar registro…». 28 Razionalizzato nel testo come indiscutibile rispetto che Carlino sente di dovere al proprio padre, pur in quegli eccessi sporadici che lo rendono odioso, oltre che esemplifi- cazione ad hoc di ciò che si sa essere il tratto caratteriale prevalente di Carlo Altoviti, la sua vocazione alla normalità o ad un’aurea mediocritas, un simile atteggiamento in un virtuale conflitto generazionale è in fondo non poco goldoniano. Ed ancora una volta è proprio Sior Todero brontolon ad offrire probante riferimento, ricordando come se la nuora Marcolina è colei che in modo più radicale incita al conflitto e alla rottura con la tirannia del vecchio fastidioso, suo vero vincitore è il giovane Meneghetto che non intende affatto metterne in discussione l’autorità di capofamiglia, dichiarando di non voler spingersi al matrimonio con la nipote di lui, della quale pure si dice innamorato tanto da rinunciare alla dote, senza averne prima ottenuto il consenso. Se in ciò è stata vista la prova del cauto riformismo goldoniano, è indubbio che anche in Nievo i modi del dialogo, della conciliazione dialettica, prevalgono su quelli apertamente rivoluzionari. 152 EMMA GRIMALDI
Ma proprio a quest’ultimo segmento, che la cronologia interna alle Confes- sioni colloca subito dopo Campoformio, o almeno, in quel clima di allucinato day after, conseguente il diffondersi della notizia del trattato, provo ora ad agganciarmi – pur se in modo apparentemente incongruo – per ritornare, molto brevemente al Sior Todero goldoniano. E si tratterà, questa volta, di in- quadrarlo non nell’ottica esterna o intenzionalmente propositiva, resa esplicita dal suo autore, bensì in quella, tutta interna all’azione scenica, così come la esprime la più diretta antagonista del vecchio fastidioso, la nuora Marcolina, al cui giudizio, caustico quanto perspicace, Goldoni affida il senso compiuto del ritratto, in cui ha inteso fissare la fisionomia del suo ultimo antieroe. Mi riferisco – è evidente – alla celebre battuta della scena 14 dell’atto II:
I xe cussì sta zente: co no i roba, co no i zoga, co no i fa l’amor, ghe par de esser oracoli de bontà. Da resto all’avarizia i ghe dise economia, alla superbia i ghe dise ponto d’onor, e all’ustinazion parola, puntualità. Poveri alocchi! Ghe vol altro per esser zente da ben! Ghe vol bon cuor, sora tutto bon cuor. Amar el so prossimo, voler ben al so sangue, giustizia con tutti, carità per tutti …
Oltre che di una punta di diamante, in termini di minimo assolo, della vis interpretativa necessaria a definire al meglio la figura femminile più in vista nel testo, si tratta per certo di una battuta/chiave, ai fini di una plausibile decifra- zione ideologica. Rivelatrice di che cosa sior Todero è davvero, agli occhi del mondo, del suo rappresentare – in compagnia dei Rusteghi – il punto terminale di un processo degenerativo, del progressivo disseccarsi, sino alla totale inver- sione di segno, di tutti quei tratti pertinenti il prototipo del mercante accorto e sagace, quanto fondamentalmente onesto, a lungo proposto da Goldoni, come esemplare eroe positivo. Ha certo ragione Franco Fido nell’osservare che le statutarie virtù della tipologia sociale ritenuta depositaria della grandezza veneziana, agli stessi occhi di chi ne era stato cantore entusiasta, all’altezza del 1762, non sono più virtù, ma soltanto «astinenza dall’eccesso che tende all’eccesso opposto», così che «I principi dell’uomo prudente sono diventati fissazioni da rustego ».29 Proprio in questo diventare, nella dinamica di un metamorfosi degenerativa, si è infatti consumato, in tutta la sua ampiezza, lo iato fra il personaggio/campione e le istanze, pratiche e ideali, di un’ulteriore, diversa, stagione storica. Un nuovo spirito del tempo, reclamante nuove virtù, che è venuto di fatto ad instaurarsi senza che quell’uomo prudente fosse in grado di recepirlo e di adeguarvisi, mentre il suo restare sempre uguale a se stesso l’ha di fatto trasformato in un rustego. Non a caso, sior Todero è in assoluta
29 F. FIDO, op. cit., p. 42. SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 153 buona fede, sinceramente convinto, quando definisce e vive, come economia, quella che per il mondo è ormai avarizia, come ponto d’onor quella che gli altri chiamano superbia, come parola, puntualità, la sua oggettiva ustinazion. Il mondo è cambiato, lui non se n’è accorto ed è rimasto sempre uguale a se stesso: a tutti gli effetti, sior Todero è dunque, in primo luogo per il suo autore, un Pantalone, venuto troppo tardi sulla scena del mondo.
* * * Giusto in termini d’incolmabile ritardo storico, nel capitolo XIII delle Confessioni, nella sequenza successiva all’epilogo della tragedia di Leopardo, Nievo/Carlino pare voler offrire, di quella capitale definizione dell’immagine paterna data due capitoli prima, un senso più ampio e pregnante, che trascen- da, e nello stesso tempo avvalori, quei tratti di una descriptio estrinseca che, in pura pertinenza iconica, alla maschera di Pantalone parevano assimilarla. E lo fa appunto, presentando il patrizio/mercante sior Todero Altoviti nelle vesti sinora inedite, così richiamate nella rubrica d’apertura del capitolo, di un Macchiavelli veneziano,30 pronto ad esporre al figlio, almeno per accenni fugaci, un progetto politico in grado – egli se ne dichiara convinto – di risol- levare le sorti di Venezia, nonostante la vergogna di Campoformio. Se al racconto della morte di Leopardo, egli ha dato prova di una «pacatez- za» tale da lasciare, almeno sul momento, Carlino letteralmente «nauseato», poche righe sono sufficienti a che quella prima reazione, apparente sintomo d’indifferenza o d’insensibilità, possa invece più distesamente ascriversi allo stato d’animo di chi, di fronte alla rovina della patria, che pure non poco lo addolora, risparmia il tempo del compianto. Preferisce non darsi ancora per vinto, e passare subito ad un’eventuale riscossa, all’elaborazione e alla messa in pratica di un progetto alternativo. Un progetto quale solo a lui, al suo es- sere mezzo turco e mezzo cristiano, potrebbe venire in mente, così che la sua prossima uscita di scena, una più che celere partenza per Costantinopoli, dia coerente ragione ai modi pittoreschi, allusivamente byroniani, che ne avevano caratterizzato l’ingresso. Sui particolari di tale progetto, in realtà, almeno per ora, Nievo non si dilunga; sceglie la via di una concinnitas velata di mistero, quale cifra espressiva più consona al consueto pragmatismo del personaggio: – In Oriente vado, in Oriente a intendermela coi Turchi, giacché qui non ebbi voce da farmi capire. Fra poco, se anche non udrai parlare di me, udrai parlare dei Turchi. Di’ pur allora ch’io vi ebbi le mani in pasta. Di più non ti posso dire, perché sono ancora fantasmi di progetti.
30 Così nel testo. 154 EMMA GRIMALDI
Se poi, come ha detto in rubrica, l’attuale performance del suo sior Todero Altoviti deve tradurre in veneziano modi e attitudini pertinenti, nel senso più banalmente vulgato, la forma mentis del segretario fiorentino, il patrizio/ mercante, ora futuro stratega, deve opporre una ragione ‘machiavellica’ a Carlino, che dei suoi «disegni», e delle sue «fatiche», vorrebbe essere parte- cipe, e quindi partire con lui:
– Ti dirò, figliuol mio: tu non sei abbastanza turco per approvare tutti i miei mezzi, […] Non dico per insultarti; ma te lo ripeto, non sei abbastanza turco: questo può ridondare ad onor tuo; per me ci perderei la libertà d’azione che sola dà fretta alle cose di questo mondo. E un uomo di sessant’anni, Carlino, ha fretta ha fretta assai!
Non dimenticando di aggiungere che quanto rende Carlino non abba- stanza turco, inadeguato alla conduzione di trattative politiche in partibus infidelium, è proprio quel suo essere ‘ben pensante’, che lo rende invece – se, come Campoformio insegna, «si ha da imparare a far da noi» – quanto mai necessario, «qui», «in questi paesi». E quest’ultima vaghezza geografica vuol bene indicare come, nel colorito parlare del sessantenne sior Todero Altoviti, non ricorra mai il toponimo Italia, come la sua coscienza politica esaurisca se stessa unicamente in una dimensione municipale. E proprio a Venezia guardano le sue parole di congedo, di chiaro sapore testamentario, degne del più ‘nobile’ dei padri, a dispetto della sagoma sciancata e saltabeccante che fa di lui un Pantalone:
Guarda il fatto tuo; e pensa sempre a Venezia; non lasciarti abbagliare né da fortuna né da ricchezze né da gloria. La gloria c’è quando si ha una patria; stima la fortuna e le ricchezze quando siano assicurate dalla libertà e dalla giustizia.
Coniugando equamente idealità e pragmatismo, potrebbe certo, un simile discorso d’addio, elevarsi a più che idoneo viatico, in dotazione ad una pur singolare figura paterna, ai fini di una sua decorosa e conveniente uscita di scena. Un’uscita tale da riconsegnarla definitivamente all’ignoto da cui, due capitoli prima, è tutto d’un tratto, balzata fuori, non senza che si sia nel frat- tempo alquanto affinato l’originario tratto comico. Quello che in un più topico o ovvio, campo di attese, normalmente ci si aspetterebbe, è invece quanto, abbastanza spesso, Nievo ama disattendere. Conviene pertanto passare, nel romanzo, al capitolo XVII, al punto in cui coinvolto nelle vicende della re- pubblica partenopea, Carlino si trova in Puglia con la legione di Ettore Carafa, SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 155 mentre ancora, per tante anime belle, è vivo il sogno di un’unica forma di governo repubblicana, da Milano a Napoli, nonostante le illusioni sugli aiuti francesi siano già andate rapidamente dileguandosi:
Pareva come, che, costituiti in repubblica da Milano a Napoli, volessero o fosse intendimento d’alcuni di dare il ben servito ai Francesi, e fare da sé. Perciò si voleva indurre la Porta Ottomana a collegarsi colla Russia e a dare addosso a Francia nel Mediterraneo; da potenze così lontane non temevasi una diretta preponderanza; si intendeva anzi di opporle all’influenza di governi più vicini ed opportuni a stabili signorie.
Relatore, per dovere di cronaca, di un progetto che non si sente di condi- videre, il protagonista non si accontenta di rilevare il suo dissenso con l’uso della forma verbale impersonale o della terza persona plurale; non esitando ad esprimere un giudizio, su ciò che gli appare azzardato, quanto altamente improbabile:
Ma cosa volessero cavarne, allora appunto che i Francesi sembravano disposti più a ritirarsi che a spadroneggiare, io non lo vedeva davvero. Pareva al mio debole giudizio che la nostra indipendenza appoggiata ai Turchi e ai Russi avrebbe fatto pessima prova della propria solidità.
Tali riserve non escludono però il montare del ricordo del suo ultimo colloquio col padre, prima di vederlo prendere il mare, e con esso, se mai, di una certa meraviglia nel ritrovare in forma di progetto politico condiviso, quanto all’indomani di Campoformio, nelle parole del sior Todero Altoviti, gli era suonato come una serie di frammenti confusi, quasi al limite del far- neticante:
Da ciò venni in sospetto che mio padre si fosse affaccendato in fin allora in quell’alleanza turco-russa che avea fatto meravigliare il mondo per la sua prestezza e mostruosità.
Dedotto «qualche lume» sull’argomento, «da qualche mezza parola di Lucilio», Carlino può ben nutrire il «sospetto» di un possibile nesso con le misteriose faccende del proprio padre, il cui ricordo è così richiamato alla memoria del lettore, che non si troverà del tutto impreparato, di fronte al suo eventuale reingresso in scena. Rallentando subito dopo il ritmo del racconto, Nievo sembra voler sfrut- tare al meglio l’opportunità di un resoconto straniato sulla realtà pugliese/ meridionale, da parte di un giovane veneziano. Ed affidare così, al suo ottua- 156 EMMA GRIMALDI genario narratore, due considerazioni chiaramente postdatate rispetto alla cronologia interna al racconto, quanto del tutto coerenti, con un pieno spirito risorgimentale, col tempo ‘vero’ della scrittura romanzesca. Suggerita da una festa paesana, la prima di queste intende infatti richia- mare quei tratti comuni che, al di sopra delle culture regionali, possono dirsi costitutivi, in un canone romantico, dell’identità di un popolo:
… quella sera si ballò di lena, sicché molte volte mi tornò in mente il mio buon Friuli, e quelle famose sagre di San Paolo, di Cordovado, di Rivignano […] Anche i Napoletani e i Pugliesi saltano peraltro la loro parte; e dal sommo all’imo di questa povera Italia non siamo poi tanto diversi gli uni dagli altri come vorrebbero darci a credere.
Meno semplicistica, o banalmente oleografica, la seconda, in cui Nievo trova il modo di enunciare i termini di una problematica ancor oggi attuale, nell’ambito di una secolare questione meridionale; l’assenza di una cosiddetta società civile nelle terre del Sud d’Italia, o almeno la sua incapacità a farsi classe dirigente :
A quei giorni mi potei convincere di quello strano fenomeno morale che nel Regno di Napoli concentra una massima civiltà e una squisita educazione in pochissimi uomini per lo più di nobili o egregi casati, e lascia poltrire le plebi nell’abbiezione (sic) dell’ignoranza e delle superstizioni. Difetto di governo as- soluto geloso e quasi dispotico all’orientale, che tenendo lontane da sé le menti meglio illuminate, le avventa senza freno alle più strambe teorie, e per riparo poi deve appoggiarsi allo zelo fanatico e accarezzato d’un volgo vizioso.
A volersi chiedere se Nievo abbia o meno avuto coscienza della più cor- retta consonanza di tali riflessioni col tempo reale della narrazione/scrittura delle Confessioni, anziché col tempo fittizio interno al racconto, la risposta sarebbe molto probabilmente negativa. O magari, l’inventio di un ottuagenario narratore autodiegetico, scusabile per la sua stessa età, se attribuisce ad un se stesso remoto pensieri pertinenti piuttosto il suo tempo attuale, proprio a parare simili anacronie, potrebbe aver voluto contribuire. È noto però, come al di là di quanto un autore può consapevolmente progettare, l’autonomia di una logica oggettiva di intrinseca coerenza, ciò che può continuare a dirsi «ideologia esplicita», finisce col farsi prevalente e marcare realmente di sé il prodotto artistico. Se questo è tanto più constatabile in un romanzo di ampio respiro come Le Confessioni, non sarà troppo azzardato sostenere che proprio simili considerazioni inattuali, tali nel loro essere chiaramente postdatate, SE GOLDONI CORREGGE STENDHAL. 157 rilanciano non poco l’inattualità di segno opposto, del prossimo segmento di racconto, richiamante fugacemente in scena il vecchio Altoviti, solo per fargli riconoscere, in punto di morte, il proprio, tragico, ritardo storico.
* * * Ascritto nelle coordinate di un colore locale, in cui tra storia e leggenda la coscienza collettiva elabora il terrore delle frequenti, sanguinose incursioni costiere di turchi o saraceni, l’episodio si colloca infatti a Molfetta, dove ri- chiamato dalla notizia di uno «sbarco», a cui la popolazione sta tentando di opporsi, Carlino, capitano dell’esercito repubblicano, irrompe prontamente, con pochi e valorosi compagni, nel momento in cui «lo scompiglio era al colmo. Turchi e Albanesi sbarcati con qualche scialuppa s’eran messi a sac- cheggiare a massacrare…». Di fronte alla «barbarie» di «quei mostri», per la prima volta nella sua vita, Carlino confessa di aver goduto «barbaramente di veder il sangue dei suoi simili spillar dalle vene, e i loro corpi sanguinosi am- mucchiarsi boccheggianti», così da rapidamente calarsi, una volta sterminati gli invasori, nell’ebbra frenesia che pervade la folla, salvo provarne poi una profonda malinconia. Immerso in uno stato d’animo tanto contraddittorio, si vede avvicinato da «un vecchio prete curvo e quasi cencioso», che assicura- tosi del suo essere il capitano Altoviti, sostiene di dovergli comunicare «cose importantissime» riguardanti una persona, vicina a morire, a lui legata «con vincoli sacri di parentela». Se per un primo istante, Carlino pensa «a qualche stranezza della Pisana», alla possibilità che colta dal «ticchio» di raggiungerlo in Puglia, sia potuta rimanere coinvolta nel massacro, il passo frettoloso con cui si è mosso dopo quel primo annuncio, non decelera affatto quando il prete gli dice trattarsi di suo padre: «un vecchio piccolo e sparuto», da lui salvato poco prima in mezzo all’assalto di quei «furibondi». Sarà poco dopo lo stesso interlocutore a spiegargli che avendo visto «tutta la scena da un finestrello del campanile», si era affrettato a trafugare il vecchio Altoviti, colpito da una «tremenda ferita di scimitarra alla gola», mentre tentava invano di «opporsi alle violenze che gli Ottomani commettevano appena sbarcati», e quindi «rimasto sul lastrico (dove) quelli del paese lo avrebbero certamente fatto a brani». Se sull’arco del tempo trascorso dalla sua ultima partenza, nonché sull’ulti- ma tragica circostanza, può comprendersi la metamorfosi dell’«ometto rubiz- zo» in un «vecchio piccolo e sparuto», approssimandosi il doloroso epilogo, l’ambiguità ‘comica’ della figura paterna – il suo essere mezzo turco e mezzo cristiano – ancora ha comportato il giocarsi di un estremo atto di commedia degli equivoci. Come un martire cristiano egli è stato ferito a morte da una 158 EMMA GRIMALDI scimitarra ottomana, come un invasore turco, egli è stato a malapena sottratto al linciaggio cristiano. E proprio di aver fondato su un unico grande equivoco, o su un macroscopico ritardo storico, tutta la sua avventurosa esistenza, il patrizio/mercante sior Todero Altoviti si mostra, prima di morire, del tutto consapevole, e come nel rito di una laica confessione, dichiara a Carlino il suo errore, in una cadenza che vuol essere quella dell’ultima ammonizione,
Senti, figlio mio, un ultimo ricordo voglio lasciarti […] Mai, mai, mai, per cambiar d’uomini o di tempi, non appoggiare la speranza d’una causa nobile ge- nerosa imperitura, all’interesse all’avarizia altrui. […] Oh, i Turchi, i Turchi!... Ma non biasimarmi, figliuol mio, perché io avessi riposto le mie speranze nei Turchi. Per noi son tutti gli stessi … Credilo! … Io aveva creduto di adoperar i Turchi a cacciare i Francesi, e così dopo saremmo rimasti noi … Sciocco che era! ... Sciocco … Oggi, oggi vidi cosa cercavano i Turchi …
Di fronte ad una simile ritrattazione/palinodia, le possibilità di lettura possono essere molteplici. Più superficiale, quella di un ravvedimento tardivo alla luce dell’espe- rienza diretta. Un po’ più complessa, riprendendo il filo delle discordanze fra tempo della narrazione e tempo del racconto, quella dell’anacronismo strategico – nel sotteso registro di un discorso politico elaborato nel 1858 – che accredita come profferite nell’anno 1799, idee che, per fare un unico autorevole esempio, Manzoni formulerà all’incirca solo venti anni dopo, nel primo coro dell’Adelchi. Idee che Carlino in proprio avrà ben ragione di esprimere, e di ribadire più volte nel suo lungo cammino; ma solo dopo che avrà imparato a fondarle sulla meditata convinzione di come libertà e indipendenza spettano ai popoli e alle nazioni, non alle città. Ed è proprio quest’ultima convinzione a non appartenere ancora al patrizio/mercante sior Todero Altoviti, ad essere del tutto estranea ad un Pantalone venuto troppo tardi sulla scena del mondo. A testimoniarlo sono le sue estreme parole nel romanzo, come Nievo le modula, a titolo di commosso omaggio alla Venezia settecentesca e goldoniana, plasman- dole – lui maestro d’ironia e di understatement – nella forma del più solenne epicedio. Un epicedio che Goldoni stesso, morente a Parigi, magari con parole diverse, ma di eguale significato, avrebbe forse potuto formulare:
… Ricordati di Venezia … e se puoi rivederla grande, signora di sé e del mare … cinta da una selva di navi, e da un’aureola di gloria… Figlio mio, che il cielo ti benedica!... Ettore Massarese – Dario Migliardi – Dora Levano
GOLDONI IN SCENA. TRACCE E PERCORSI DI RISCRITTURE POSSIBILI TRA CONFLITTI INTELLETTUALI E GIOCHI SCENICI
Premessa Nell’incipit dei suoi Memoires Goldoni ‘ricorda’ uno spettacolo di mario- nette cui il nonno e il padre, all’età di quattro anni, lo avrebbero fatto assistere, e ciò per fornire al lettore della sua biografia il segnale d’una coordinata ludica e infantile che avrebbe costituito la suggestione d’inizio del suo teatro:
Mia madre mi mise al mondo quasi senza soffrire: per questo mi amò ancora di più; non mi feci certo annunciare da urla quando vidi la luce per la prima volta; tale dolcezza sembrava rendere evi- dente, fin da allora il mio carattere mite che in seguito non si è mai smentito. Io ero il gioiello della casa: la governante diceva che ero sveglio, mia madre ebbe cura della mia educazione, mio padre di farmi divertire. Fece costruire un teatro di marionette: le faceva muovere egli stesso con tre o quattro amici e io, a quattro anni, trovavo che fosse un divertimento delizioso [...].1
Il maturo Goldoni che, negli ultimi anni di vita, a Parigi, si dedica alla ricostruzione delle tappe della sua vicenda ha a cuore designare l’aura d’un immaginifico mondo ludico, un’aura d’allegria garantitagli dal munifico nonno Carlo che avrebbe segnato per sempre la sua attrazione per la scena. Eppure gli anni in cui Goldoni scrive la sua biografia sono anni amari, anni di disillusione, segnati da un senso di impotenza a far passare le sue idee di innovazione sul teatro. Istinto ludico e disillusione, ecco la diade di umori in cui si muove la vita e l’opera di Goldoni. Questo punto m’è capitato di segnalarlo, con forza, quando sono stato chiamato a coordinare, lo scorso anno, un ciclo d’incontri in collaborazione con il Teatro Nuovo di Napoli. L’occasione era data dal dover costruire una riflessione intorno alla presentazione di alcuni rilevanti allestimenti goldoniani posti in opera in occasione del tricentenario della na-
1 C. GOLDONI, Memorie, a c. di P. BOSISIO, trad. it. di P. RENZINI, Mondadori, Milano 1993, p. 28. 160 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO scita; in particolare, gli allestimenti della Trilogia della villeggiatura da parte di Servillo e del Molière da parte di Moscato.2 Il gioco di equilibrio e squilibrio tra disincanto morale e senso ludico della scena fu la provocazione proposta ai due registi per ragionare intorno alla possibilità ed ai modi di proporre oggi, in scena, l’opera goldoniana. Sul filo di questa provocazione ho proposto ai miei collaboratori, Dora Levano e Dario Migliardi, di scovare territori che ponessero in luce da un lato la sensibilità ai temi del ludus teatrale, dall’altro la fondatezza del pensiero ‘nuovo’, propriamente settecentesco, presenti nei materiali goldoniani. Ne sono nati così due saggi che, per vie diverse, ben si in- tegrano nella funzione di dissodare le vene che percorrono temi drammaturgici e senso della scena. Se, infatti, nella riscrittura di Milloss, il balletto Mirandolina del 1957, il gioco scenico delle porte e l’uso diffuso della pantomima richia- mano apertamente il brio dinamico insito nell’opera goldoniana, le riflessioni intorno al confronto-conflitto tra Diderot e Goldoni riportano in attualità la consapevolezza d’appartenenza del nostro drammaturgo alle questioni teoriche e alle aporie di una scena chiamata ad allestire un interno borghese. Chiuso/aperto, gioco/disillusione, non a caso, sono le coppie ermeneutiche d’approccio che hanno accompagnato i più significativi allestimenti del No- vecento, soprattutto quelli, a mio avviso, di Giorgio Strehler e con il mitico Arlecchino servitore di due padroni, e con l’indimenticabile allestimento della Trilogia della villeggiatura.3 Un caso a parte, con cui fare i conti, è costituito,
2 Riportiamo un frammento della brossure di presentazione del progetto: «Il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in collaborazione con Università Federico II di Napoli e l’Assessorato Cultura e Sviluppo del Comune di Napoli, presenta Percorsi Creativi, un percorso di incontri-dibattito sul Teatro nella contemporaneità, che nasce dall’esigenza di approfondire la conoscenza dei testi, degli autori, il lavoro degli attori e dei registi, la realizzazione di uno spettacolo, dalla musica alla scenografia. Quattro incontri, da dicembre 2007 a febbraio 2008, per altrettanti segmenti di analisi (linguaggio, parola, suono, segno), che mirano ad offrire una conoscenza consapevole del teatro, creando occasioni di confronto costante e costruttivo tra ‘chi fa’ il teatro e chi, da spettatore, lo ‘riceve’. Il primo appuntamento, Incontro su Goldoni, è previsto per venerdì 21 dicembre 2007 alle ore 17.30 presso l’Academy Astra (Via Mezzocannone, 109 - Napoli), con Toni Servillo (già in scena al Teatro Mercadante con La trilogia della vil- leggiatura), Letizia Russo e Pierpaolo Sepe (per Il Feudatario, al debutto martedì 25 dicembre al Nuovo Teatro Nuovo), Enzo Moscato (in scena dall’8 gennaio, al Teatro Mercadante, con Le doglianze degli Attori a Maschera), e l’intervento di Antonia Lezza, docente di Letteratura teatrale italiana presso l’Università degli Studi di Salerno. L’intero progetto, a cura di Igina Di Napoli (direttore artistico del Nuovo Teatro Nuovo, direttore artistico del Nuovo Teatro Nuovo) e di Ettore Massarese (docente di Storia del Teatro Moderno e Contemporaneo presso l’Università Federico II di Napoli), realizza un’ipotesi di lavoro volta a (in)formare il pubblico, ponendo, come obiettivo, lo stimolo alla riflessione, alla crescita ed allo scambio culturale, in una dimensione reale, viva e tangibile». 3 Il Servitore di due padroni inaugura la prima stagione del Piccolo Teatro di Milano ed ha come protagonista Marcello Moretti nei panni di Arlecchino, famoso per aver scelto di dipingere il volto per mascherarsi. A partire dall’allestimento del 1963 la maschera sarà assunta da Fer- GOLDONI IN SCENA. 161 senz’altro, dall’allestimento viscontiano de La locandiera.4 Perché ricordare qui questi veri e propri ‘modelli forti’ della regia novecentesca? Forse perché essi stabiliscono le coordinate filologiche ineludibili per la rappresentazione d’una geografia/antropologia borghese. Non è certo questo scritto il territorio per riaprire un approccio critico a questi spettacoli,5 qui si richiamano per alcuni aspetti, per cosi dire, storici; la collocazione a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’60, come ricorda la Levano nel citare Trezzini, in uno con l’occorrenza del 250° della nascita, diedero la stura a una rivisitazione a tutto campo dell’opera goldoniana, una rivisitazione che produsse, appunto, spettacoli d’eccellenza e un significativo rilancio degli studi.6 Bisogna però dire che se sul piano degli allestimenti venne restituita a Goldoni la piena legittimità d’appartenenza al dibattito culturale settecentesco, l’illuministica disillusione sulle sorti della borghesia nascente, bisognerà aspettare gli studi di Dieckmann, negli anni ’70 perché si metta a fuoco la piena parità culturale di Goldoni con personaggi quali Baretti, i Verri e, soprattutto Diderot. È questo il territorio di ricerca acutamente sondato da Dario Migliardi nel suo saggio che pone in luce una sintonia che concerne proprio la diade chiuso/aperto cui prima facevo cenno. Ora, in occasione del tricentenario, nel momento in cui si dà luogo a nuovi rilevanti allestimenti, non si può venir meno, a mio avviso, all’evidenziazione, sul terreno della regia, degli strati di critica ideologica, con una rilevante ricaduta poetica, che si intessono sotto il brio dei dialoghi goldoniani. Il quotidiano borghese che ha smarrito il senso della festa, splendidamente significato nell’andamento claustrofobico de I rusteghi, è già avvertibile nella ‘fine del gioco’ che Mirandolina segnala all’inizio del terzo atto: ruccio Soleri. Il primo allestimento della Trilogia ha luogo nella stagione 1954-55, con le scene di Mario Chiari, le musiche di Fiorenzo Carpi e con Fulvia Mammì nel ruolo di Giacinta. 4 L’allestimento viscontiano de La locandiera è del 1952 (con un importante ripresa nel 1956); Visconti firma anche le scene insieme a Piero Tosi. Protagonista, nei panni di Mirandolina fu Rina Morelli, un’interpretazione che si è fatta modello ineludibile della rappresentazione al femminile del gioco seduttivo quale strategia ‘razionale’ del vivere sociale. 5 Si può consultare l’utile bibliografia riportata in P. BOSISIO, (a c. di), Storia della regia teatrale in Italia, Mondadori, Milano 2003, pp.185-88. Di recente ha riaperto il dibattito intorno all’allestimento viscontiano de La locandiera, R. ALONGE con un intervento nella sua «Turin D@ms Review», bollettino in rete del Dams torinese. 6 In occasione del duecentocinquantenario vi fu una vera fioritura di studi; qui ricordiamo, tra gli altri, A. MOMIGLIANO, Studi goldoniani, a c. di V. BRANCA, Venezia-Roma 1959; F. FIDO, Per una lettura storica del teatro goldoniano, in «Belfagor», 6, 1957; M. BARATTO, Mondo e teatro nella poetica di Carlo Goldoni, Venezia 1957; G. FOLENA, Il linguaggio di Goldoni dall’improvviso al concertato, in «Paragone», 94, 1957; ID., L’esperienza linguistica del Goldoni, in «Lettere ita- liane», gennaio-marzo, 1958; infine, gli Atti del convegno goldoniano tenuto a Venezia nel 1957, raccolti in AA.VV., Studi goldoniani, a c. di V. BRANCA e N. MANGINI, Venezia-Roma 1960. 162 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
MIRANDOLINA: Orsù, l’ora del divertimento è passata. Voglio ora badare a’ fatti miei. Prima che questa biancheria si prosciughi del tutto, voglio stirarla.7
Così, come fine del gioco, va intesa la vena di malinconia e le scelte rinun- ciatarie ‘diderottiane’ di Giacinta nella terza parte della Trilogia:
GIACINTA: … Confesso che il distaccarmi dalla mia patria, che abbandonare quella persona ch’io amo più di me stessa…[…]nell’abbandonare un si’ caro oggetto mi si stacca il cuore dal seno, ed è un miracolo ch’io non soccomba. Ma lo stato mio lo richiede, la mia virtù mi sollecita, l’onore a ciò mi consiglia. Chi mi ascolta mi intende.[…] Staccarsi tutt’ad un tratto un affetto dal seno per introdurne un novello […] La ragione mi scuote…8
Eccoci, dunque, al cuore di questa sorta di prologo critico: perché Gol- doni negli anni del terzo millennio? Forse perché, ancor oggi, è una lezione forte di ‘teatro civile’, necessario. È significativo rilevare che gran parte della drammaturgia contemporanea per rappresentare la crisi di aggregazione e di comunicazione del nostro tempo, si rifugi nel modello beckettiano,9 forse perché questa drammaturgia non è più in grado di mascherare il senso della catastrofe con la leggerezza sapiente del senso della scena. Ritrovare la malinconia, a volte aspra, a volte velata dal gioco, del teatro goldoniano può farci intuire la strada da intraprendere: la sapienza di un ‘mestiere’ che sa mascherare per dire il vero. Ettore Massarese
«Ciarle sublimi e meteorologiche». Diderot-Goldoni tra claustrofobia e fasci- nazione del teatro Un primo passo in direzione di una più attenta lettura dei rapporti del Goldoni col Diderot è stato compiuto dal Dieckmann negli anni Sessanta con il suo saggio Diderot und Goldoni;10 il lavoro prendeva le distanze da una ormai radicata e vieta prospettiva di ricerca sulla questione, quella che incentrava l’attenzione sull’influsso esercitato dalle commedie di Goldoni sui
7 GOLDONI, La locandiera, atto III, scena prima, in I capolavori di Carlo Goldoni, a c. di G. ORTOLANI, Mondadori, Milano 1970, vol. II, p. 164. 8 Ivi, vol. III, pp. 290-1. 9 Ci riferiamo al beckettismo ‘di ritorno’ che intesse gran parte della nuova drammaturgia, pur a volte ‘potente’ sul piano linguistico, che oggi si manifesta soprattutto in autori d’area meridionale; pensiamo a Spiro e Scimone in Sicilia e a Manlio Santanelli (in particolare Uscita di emergenza del 1980) in area napoletana. 10 H. DIECKMANN, Diderot und Goldoni, Petrarca Institut Köln, Krefeld 1961, ora Goldoni e Diderot in ID., Il realismo di Diderot (trad. it.), Laterza, Bari 1977, pp. 53-93. GOLDONI IN SCENA. 163 drammi di Diderot, ossia l’annosa quaestio del plagio. Dieckmann risulterà anche per questo breve contributo indispensabile; grazie al suo lavoro si fa strada (a fatica) attraverso il ginepraio della liaison Goldoni-Diderot un’urgen- za: il caso letterario può, deve dilatarsi fino a rendere irriconoscibili i propri contorni, spingersi o venire sospinto oltre il margine angusto della proprietà letteraria, del diritto d’autore, ravvivare le proprie sfumature dialogiche, lumeggiare le aporie di un testo segreto e rifiutato, un dialogo sottratto ai suoi stessi attanti, sfuggito al controllo delle censure ideologiche e di genere. «Riconosco volentieri che considero il mio tema soprattutto in funzione di Diderot e Goldoni e del loro tempo, che il lato puramente umano del loro rapporto mi sembra importante...»;11 risulta evidente, alla luce di una tale premessa, che prendere le distanze dall’uomo e dal contesto (e per contesto non si intende solo quello storico, ma un insieme di impressioni, un tessuto essoterico ricavabile dai testi, ma anche dai sottintesi, da quel non detto che in certo qual modo prende parte ad ogni processo creativo e fa la letteratura) snatura qualsiasi procedimento scientifico, distillare dal complesso impasto umano un ente astratto sotto la rassicurante etichetta di ‘autore’ rende lo sguardo impermeabile alle domande e alle risposte che ogni scrittore che si rispetti pone e dà alla civiltà letteraria. Dunque eliminare ogni preconcetto, ogni sorta di campanilismo critico, di «boria nazionalistica» come direbbe il Dieckmann;12 egli partiva da questo assunto per cercare di trovare le ragioni umane e letterarie per cui due grandi riformatori del teatro del Settecento come Goldoni e Diderot non riuscirono mai realmente a comunicare. Ne consegue che un buon punto di partenza per uno studio del genere può, deve essere, un tentativo di sfatare ingombranti chimere, profili semplicistici (per quanto involontario possa essere il deline- arli). Nel confrontare questi due autori una differenza macroscopica (troppo macroscopica per non dubitarne) facilmente si impone: uno, l’italiano, è uomo di teatro, di quel teatro che si agisce (per quanto non agito personalmente), fatto di corpi tangibili e dinamici, vissuto a stretto contatto con quei corpi stessi –sperimentando una scrittura che si plasmi su di essi, che prenda le mosse dall’interprete come materia prima di una drammaturgia (è la regola goldo- niana: comporre le proprie opere «precisamente adattate ai caratteri personali di quei che devono rappresentarle»13) – uomo di teatro quindi Goldoni, che
11 Ivi, p. 54. 12 Ibid. 13 «E ciò cred’io, ha molto contribuito alla buona riuscita de’ miei componimenti, e tanto mi sono in questa regola abituato, che trovato l’argomento di una Commedia, non disegnava da prima i Personaggi, per poi cercare gli Attori, ma cominciava ad esaminare gli Attori, per 164 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO ne esperisce i molti segreti, compresi quelli economico-impresariali; l’altro, il francese, è uno scrittore e filosofo, autore di testi filosofici e di romanzi (in realtà il discrimine è diluito nella sagace osservazione del reale, del composito e mutevole quadro ‘della natura’); filosofo dei Lumi animato profondamente dallo spirito divulgativo che informa quello straordinario progetto editoriale che è l’Encyclopédie. La sua spiccata passione per il teatro si traduce dapprima in una serie di osservazioni sparute ed episodiche sulla scena del suo tempo, solo in seguito si sostanzia nella stesura di veri e propri drammi; questi ultimi, tuttavia, non celano la loro matrice didattico-dimostrativa, la loro sostanziale natura di dialoghi teoretici, in cui il drammaturgo cede, senza opporre molta resistenza, il passo allo speculatore,14 in cui il teatro in quanto tale è un mezzo, uno dei tanti, per portare avanti un certo discorso eminentemente epidittico. È doveroso al riguardo fare una precisazione: semplificazioni di questo tipo sorgono, o possono sorgere, solo nel momento in cui si pongono i due autori in relazione, o meglio nel momento in cui si pongono in relazione le loro com- medie, il terribile pomo della discordia. Normalmente nessuno si sognerebbe di affibbiare una qualunque etichetta a due figure così complesse e sfaccettate, i problemi sorgono esclusivamente in ambito teatrale. Il tono draconiano delle osservazioni del Busnelli sul Figlio naturale: «Une atmosphère lugubre pèse sur ces quatre individus solennels et viellots (Dorval, Clairville, Rosalie, Con- stance), qui prêchent sans relâche, avec une monotonie obsédante, la Vertu»15 e ancora «une psychologie abstraite et conventionelle, un langage nébuleux et déclamatoire, à mille lieues de la vérité et de la nature»16 è chiaramente frutto di questa preconcetta contrapposizione che vede da una parte il Goldoni dalla naturale disposizione ad un linguaggio vivo e fluido, genuinamente teatrale,17 poscia immaginare i caratteri degli interlocutori. Questo è uno dei miei segreti», C. GOLDONI, Tutte le opere di Carlo Goldoni, a c. di G. ORTOLANI, Mondadori, Milano 1935-1955 (d’ora in poi con la sigla TO seguita dal numero del tomo), vol. I, p. 694. 14 «Goldoni ha scritto un lavoro, noioso fin che si vuole, ma che si avvale di una scrittura specificamente teatrale; Diderot, invece, si rivela anche in quest’opera un teorico, un filosofo, che teorizza le sue idee sulla poesia drammatica senza alcuna pretesa, del resto, e lo dichiara espressamente, di farne un testo da mettere in scena [...] Dunque la commedia di Diderot è più propriamente un lavoro didattico, dimostrativo, anche nella forma in cui si presenta, sin dal titolo: Le fils naturel ou Les épreuves de la vertu, cui seguiva la “vera storia dell’opera”, cioè tre dialoghi (“les entretiens”) tra il filosofo e Dorval, il protagonista» (N. MANGINI, La polemica Goldoni Diderot, in AA.VV., Problemi di critica goldoniana, Longo Editore, Ravenna 1994, p. 265). 15 M. BUSNELLI, Diderot et l’Italie. Reflets de vie et de culture italiennes dans la pensée de Diderot, Champion, Paris 1925, p. 131. 16 Ibid. 17 «La gaieté, le naturel, la verve du dialogue goldonien, court, vif et précis» e ancora «le caractères du Veritable ami ne sont pas bien fouillés, il s’en faut; mais au moins ont-ils une physionomie expressive et animée, distincte et concrète» (ivi, p. 130). GOLDONI IN SCENA. 165 dall’altra Diderot, il legnoso teorico «sans cesse derrière ses personnages».18 Questa dicotomia glissa sulle nuances dei due autori, sull’ambiguità del loro dire drammaturgico (del loro dire in genere). Per quanto Diderot confessi di aver scritto in realtà il Figlio naturale non per il teatro19 (quello agito si intende) ma come imprescindibile exemplum di una innovativa teoria teatra- le – testo, in sostanza, indispensabile per la comprensione degli Entretiens scritti dopo la commedia ma inscindibili da quest’ultima come la teoria lo è dall’esperimento – per quanto Diderot si dichiari distante da quello che egli definisce un dire teatrale meramente farsesco e privo di spessore (come quello di Goldoni a detta del Diderot stesso20), resta pur sempre il fatto che egli subisce la fascinazione del teatro – fascinazione che esula dal semplice interesse del filosofo per le possibilità divulgative del mezzo scenico, la malia che esercita il teatro ha qualcosa a che vedere con lo statuto ontologico del teatro stesso: quel nocciolo di gratuità ludica dispotico e ingombrante – che egli insegue, non senza una certa angoscia.21 Gli anni fra il ’57 e il ’59 sono per il Philosophe anni di intensa sperimentazione: ci sono almeno quattro progetti di dramma (per non parlare dei canovacci e dei piani d’opera non datati ma comunque ascrivibili in base alle lettere al Grimm sempre agli anni ’5022), da aggiungere ai compiuti il Figlio naturale e il Padre di famiglia, che risalgono a questo periodo, ce ne danno notizia alcune lettere indirizzate al
18 Ibid. 19 «Et mon dessein n’étant pas de donner cet ouvrage au théâtre j’y joignis quelques idées que j’avais sur la poétique, la musique, la déclamation, et la pantomime» (D.DIDEROT, Oeuvres complètes, vol. X, Hermann, Paris 1980, p. 364). 20 «Charles Goldoni a écrit en italien une comedé, ou plutôt une farce en trois actes [...] quoi qu’il soit, de cette farce en trois actes, j’en fis la comédie du Fils naturel en cinq» (ivi, p. 363). 21 «L’amore di Diderot per il teatro è stato in gran parte un amore infelice. In gioventù Diderot era un appassionato frequentatore della Comédie Française, della Comédie italienne e del teatro d’opera [...] secondo talune testimonianze più volte ripetute dallo stesso Diderot, fu il lavoro dell’Encyclopédie, che lo impegnava e lo assorbiva completamente, a impedirgli di seguire la sua autentica e intima vocazione teatrale» (DIECKMANN, Il realismo..., cit., p. 55). «Vers la fin de sa vie, jetant ses regards en arrière, il poussera un soupir de regret, et il s’obstinera à penser qu’il avait manqué sa vocation. “le hasard -écrira-t-il- et plus encore le besoins de la vie disposent de nous à leur gré. Qui le sait mieux que moi? C’est la raison pour laquelle, pendant environ trente ans de suite, j’ai fait l’Encyclopédie contre mon goût, et n’ai fait que deux pièces de théâtre”» (BUSNELLI, Diderot..., cit., p. 76). Non deve essere poi così distante dalla realtà l’amara riflessione che si può leggere nel Paradosso sull’attore laddove alla richiesta del suo interlocutore di motivare la sua scelta di abbandonare il genere del dramma borghese ‘il primo’ risponde in questi termini: «Perché non avendo ottenuto il successo che mi ero ripromesso, e pensando di non poter fare molto di meglio, mi disamorai di una carriera per la quale riconobbi di non avere sufficiente talento» (D. DIDEROT, Paradosso sull’attore, Abscondita, Milano 2002, p. 56). 22 DIDEROT, Oeuvres..., cit., pp. 459-464. 166 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
Grimm.23 Tra questi esquisse, che resteranno tali senza vedere mai la luce come opere compiute, ce n’è uno in particolare che merita attenzione in quanto si discosta molto dall’idea che comunemente ci si fa della drammaturgia di Diderot;24 il testo in questione è Le Train du monde ou les moeurs honnêtes comme elles le sont,25 «une débauche de tête», come lo definisce Diderot,26 in cui le problematiche legate alla Virtù come assoluto ideologico, alla capacità di operare secondo giustizia – riuscendo a discernere il bene dal male attraverso il battesimo nel gelido fuoco dell’abnegazione – si dissolvono in una giostra di passioni irrefrenabili; tredici personaggi mossi unicamente dal desiderio sessuale agiscono una scena le cui coordinate spazio-temporali soggiacciono alla molteplicità delle combinazioni amorose che il caso, insieme al concedersi dell’uomo al gioco del desiderio, maliziosamente compone. Come se non bastasse il motore principale dell’azione, il personaggio del «petit chevalier», è in realtà una fanciulla travestita da uomo; uno dei topoi più abusati da ‘cer- to’ teatro naturalmente, ma soprattutto specchio di quell’originario potere trasfigurante della scena, superficie che restituisce un’immagine fumosa e sfuggente dell’identità di genere e che conseguentemente innesca una serie potenzialmente infinita di equivoci. Diderot non si riconosce in quest’opera, la giudica irrappresentabile, ne percepisce i limiti ideologici e la vis ludica che vi serpeggia come la marca di un qualcosa che non è propriamente teatro, ma gioco, «jet de tête»,27 che in quanto tale può fare a meno di uscire dall’ane- stetizzante stadio larvale. Eppure c’è qualcosa d’altro, è il confronto, sempre rinviato ma con la consapevolezza della sua inevitabilità, con il teatro come pura seduzione (gioco dei corpi).
23 Ivi, pp. 455-459. 24 A questo riguardo è interessante notare che il profilo dei singoli personaggi, così come vengono delineati nelle Observations sur les caractères du Train du Monde, è costruito facendo ampio uso della tecnica del contrasto dei caratteri: «Un des maris dur, violent et brutal. L’autre, insinuant, doux, flatteur, caché, mystérieux, silencieux, ironique, avec l’accessoire de son goût. Une femmes, sérieuse, réservée, jouant la dignité, les moeurs et l’honnêteté. L’autre femme, au contraire, ouverte, de la malhonnêteté la plus franche, sans moeurs, et foulant aux pieds la décence avec l’intrépidité la plus décidée» (ivi, p. 479). Tale tecnica costituisce uno dei bersagli contro cui si scaglia il Diderot censore dei cattivi costumi teatrali nel suo De la poésie drama- tique; nel trattato in questione egli afferma che l’utilizzo del contrasto dei caratteri si addice solo al farceur, in quanto crea ambiguità nel soggetto drammatico, disorienta lo spettatore, ma soprattutto non risponde ai criteri dell’imitazione della natura. Diderot oppone al contrasto la ‘differenza’ tra i caratteri sostenendo che «pour une circostance de la vie où le contraste des caractères se montre aussi tranché qu’on le demande au poète, il y en a cent mille où ils ne sont que différents» (ivi, p. 375); l’unico contrasto che può ritenersi valido e proficuo è quello esistente tra i caratteri e le situazioni o «celui des intérêts avec les intérêts» (ivi, p. 376). 25 Ivi, pp. 467-481. 26 Ivi, p. 456. 27 Ibid. GOLDONI IN SCENA. 167
Il fascino della scrittura drammaturgica diderottiana sembra riposare su questa dialettica apparentemente irrisolta, priva di sintesi, fra il teatro come veicolo di idee, come strumento divulgativo e il teatro come pura fascinazione. Il figlio naturale non è un mero scacco artistico frutto di un poco sviluppato senso della scena, né tanto meno la mera esemplificazione di un nuovo modo di concepire il teatro, è bensì una tipologia di dramma senza ‘seduzione’, o meglio, un’opera in cui il femminino (chiaramente in quanto metafora del ludus teatrale) è ancora troppo rigido perché diventi propriamente dramma. Il figlio naturale è un esperimento che non dimostra niente di preciso se non la volontà di esperire dell’autore stesso28 – la flessibilità e la mutevolezza dello strumento(congegno) scenico diderottiano saltano agli occhi inequivocabil- mente nel momento in cui si confronta il Figlio naturale, non tanto con il già citato progetto di dramma del ’59, ma con il più tardo È buono È cattivo: il cambiamento è patente e avremo modo di accennarvi. L’incontro con il te- atro goldoniano non è altro che l’incontro con la fascinazione teatrale unita alla capacità di diffondere le nuove idee della nascente borghesia europea; Diderot è troppo orgoglioso per riconoscerlo da subito, ha bisogno di tem- po, deve esperire per trovare e provare il suo proprio femminino teatrale, il suo idioletto scenico. Per quanto riguarda il Goldoni all’immagine bonaria, gioconda che la critica aveva edificato in passato, schiacciando l’opera sotto il peso del giudizio sull’uomo, si è andata sostituendo ormai l’immagine di un artista perfettamente integrato nel contesto socio-culturale della sua epoca, un uomo capace di tessere mediante lo strumento della ‘dedica’ 29una fitta rete di corrispondenze intellettuali con alcuni dei più illustri ingegni italiani ed europei. Recenti studi,30 inoltre, hanno dato sempre più risalto alla matrice filosofica illuministica della “riforma”.
28 Quel senso vivo e convulso del possibile e del reale a proposito del quale Cassirer si esprime in questi termini: «Il pensiero di Diderot si può infatti afferrare, diremo così, a volo, nel suo continuo e incessante movimento, che non si ferma ad alcun risultato e non si dà a conoscere in nessun singolo momento della sua traiettoria per ciò che è e per ciò che vuole [...] Il pensiero di Diderot non aspira dunque a un’espressione fissa, a chiudersi in formule stabili e definitive. Esso è e rimane un elemento fluido e fuggevole; ma appunto in questa sua volubilità crede di potersi avvicinare alla realtà, la quale a sua volta non conosce riposo ma passa attraverso un costante fluire, un’incessante trasformazione» (E. CASSIRER, La filosofia dell’illuminismo, Sansoni, Milano 1998, p. 85). 29 In proposito R. TURCHI, Dedicatari toscani del Goldoni, «Studi italiani», n. 9-10, dedicato a Goldoni in Toscana. Atti del convegno di studi. Montecatini Terme, 9-10 ottobre 1992, pp. 7-40 e C. CASTELLI, Dediche ad uomini prudenti. Le relazioni di Goldoni con i destinatari delle sue commedie a stampa, «Ariel», a. VII, n. 3, sett.-dic. 1992. 30 In particolare S. ROMAGNOLI, Goldoni e gli illuministi in AA. VV., Carlo Goldoni 1793- 1993: Atti del convegno del Bicentenario, Venezia 11-13 aprile 1994, Regione del Veneto, Venezia 1995, pp. 54-78. 168 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
Sono noti i versi d’elogio per il veneziano da parte di Voltaire,31 che lo definisce vero pittore della natura e non è mancato chi abbia trovato analogie tra il pensiero del filosofo francese e il realismo goldoniano, o tra quest’ultimo e alcuni concetti dei lumi d’oltralpe. In Goldoni et le chemin vers le «natural» dans le théâtre et l’opéra au XVIII siècle,32 ad esempio, Carvalho prendendo in esame alcune battute del personaggio di Jevre nella Pamela nubile,33 coglie nel concetto di natura ivi formulato qualcosa di «voltairien», Jevre infatti sembra «énoncer déjà, en effet, le même principe que Voltaire opposera cinq ans plus tard aux conceptions de Leibniz, au cours du débat suscité dans les milieus cultes européens par le tremblements de terre qui a détruits Lisbonne. Pour Voltaire, comme l’on sait, il n’était plus possible d’accepter l’idée d’une Har- monia Mundi, où tout dans le monde – non seulement l’univers, mais aussi la societé et les individus ou “monades” – s’articulait selon des lois pré-établies, tel qu’un méchanisme statique d’horlogerie».34 Dalle parole di Jevre sullo ‘sconcertato’ ordine del creato sembrerebbe trasparire, secondo Carvalho, l’idea di una motilità non teleologica della natura, idea che rappresenta in fondo il principio sul quale riposa la contestazione illuministico-borghese dell’ordine universale statico ancienne régime. Le analogie con i Philosophes non si fermano qui, Carvalho infatti ravvisa nella dissociazione operata da Jevre tra ordine naturale e ordine sociale e nell’accusa rivolta a quest’ultimo di aver violentato e stravolto la natura originando i «malheurs du monde» la stessa radicalità critica nei confronti della società che caratterizza lo spirito di Rousseau;35 del resto il popolo minuto delle Baruffe, e ancora prima quello delle cosiddette tabernarie, la natura pulsante e pura della piccola gente goldoniana non sono poi così lontane dalle visioni di spazi umani originari e incontaminati proprie del ginevrino. Non trascurabili sono poi i rapporti del Goldoni con l’illuminismo milanese, la frequentazione dei salotti della marchesa Margherita Litta Calderari e della duchessa Vittoria Serbelloni legata ai Verri e al «Caf-
31 «Disse al critico, al geloso, / la Natura, al vero accinta: / ogni autore è difettoso, / Ma Goldoni mi ha dipinta» (TO XIV, p. 234). Sui rapporti tra Goldoni e Diderot fondamentale è F. FIDO, Goldoni et Voltaire, «Revue d’Histoire du Théâtre», XLV, n. 1, 1993. 32 M.V. DE CARVALHO, Goldoni et le chemin vers le “naturel” dans le théâtre et l’opéra au XVIII siècle in AA. VV., Carlo Goldoni..., cit., pp. 233-244. 33 «Io ho sentito dir tante volte che il mondo sarebbe più bello, se non l’avessero guastato gli uomini, i quali per cagione della superbia, hanno sconcertato il bellissimo ordine della natura. Questa madre comune ci considera tutti eguali, e l’alterigia dei grandi non si degna dei piccoli. Ma verrà un giorno, che dei piccoli e dei grandi si farà nuovamente tutta una pasta» (TO, III, p. 391). 34 CARVALHO, Goldoni..., cit., pp. 233-234. 35 Ivi, p. 234. GOLDONI IN SCENA. 169 fè»; proprio Pietro Verri sarà un accanito sostenitore della ‘riforma’,36 vedrà in Goldoni colui che è riuscito a riportare in Italia la commedia «madre dei bei costumi»,37 che puntellandosi sul vero è riuscito a rappresentare l’uomo nella sua realtà quotidiana, in quello spazio riservato e intimo che è il nucleo familiare. Il Verri considerava la riforma goldoniana come un veicolo, il più efficace, di educazione morale e civile; dalle pagine del «Caffè» sembra venir fuori l’insolita immagine di un Goldoni Philosophe, impegnato in un progetto pedagogico e moralizzatore degno delle teorie e delle riforme proprie della cultura dei lumi: «nelle commedie del signor Goldoni primieramente è posto per base un fondo di virtù vera, d’umanità, di benevolenza, d’amor del dovere che riscalda gli animi di quella pura fiamma che si comunica per tutto ove trovi esca e che distingue l’uomo che chiamasi d’onore dallo scioperato».38 Un’ulteriore testimonianza della considerazione in cui era tenuta l’opera goldoniana dai maggiori esponenti dell’intellighenzia milanese c’è poi data dal ruolo svolto dai Verri e dal «Caffè» nella polemica fra Goldoni e Giuseppe Baretti; Pietro e Alessandro, impegnati già dai primi numeri della rivista a difendere se stessi dai caustici attacchi della ‘frusta’ barettiana, non mancarono di sostenere il veneziano contro le accuse di mancanza di talento comico, di disattenzione alle regole e ignoranza della lingua che il critico torinese scaglia- va contro di lui. Il nemico comune non viene mai nominato, è indicato negli articoli come sulfureo pedante scatenatosi in una disputa sorta sulle pagine del «Caffè» «contro il valoroso, il benemerito, l’illustre signor dottor Goldoni, uomo al di cui talento comico ha reso giustizia in prima l’Italia e al dì d’oggi può dirsi la parte colta dell’Europa, al di cui onestissimo carattere e amabili
36 In un suo poemetto in martelliani del ’55, La vera commedia, il Verri tesse le lodi del drammaturgo veneziano in questi termini: «Tu sol Goldoni ardisti al baldanzoso mimo / mover la giusta guerra, tu sol, tu fosti il primo; / sul pubblico teatro, nella sua reggia istessa / guidar potesti solo l’umil commedia oppressa» (M. G. PENSA, La vera commedia, martelliani di Pietro Verri in margine alla riforma goldoniana, in AA. VV., Miscellanea in onore di Vittore Branca, IV, Tra Illuminismo e Romanticismo, Olschki, Firenze 1983, pp. 27-47). La Vera commedia, come ha giustamente notato il Romagnoli, costituisce «il primo documento di un rapporto di amicizia e di stima tra il Goldoni e Pietro Verri, ovvero tra il più grande ma anche molto contestato com- mediografo italiano del Settecento e colui che diverrà uno dei massimi rappresentanti dell’età dei lumi nel nostro paese» (ROMAGNOLI, Goldoni e gli illuministi, cit., p. 55). A questo riguardo notevole importanza ricopre la dedica de Il festino, in cui il Goldoni esprime la sua stima per il Verri e la volontà di voler continuare sulla strada di quella riforma dei costumi teatrali (ma che si intende allargata alla realtà extra-scenica) tanto apprezzata dal filosofo milanese (TO, V, pp. 431-433). 37 Cfr. ROMAGNOLI, Goldoni e gli illuministi, cit., p. 76. 38 «Il Caffè», a c. di G. FRANCIONI e S. ROMAGNOLI, Bollati-Boringhieri, Milano 1993, t. I, f. XII, p. 53. 170 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO costumi ne rendono giustizia i molti e rispettabili suoi amici».39 Nell’analizzare i rapporti che intercorrono tra Diderot e Goldoni, oltre alle problematiche legate alla tentazione delle semplificazioni o alla parzialità dei giudizi, si può incorrere in un altro ostacolo, un argine legato stavolta ai limiti in cui si è costretti a circoscrive lo sguardo, agli oggetti che in questo cerchio d’attenzione si stagliano con indisponente chiarezza; questa insolita parsimonia scientifica è dovuta al fatto che ci si interessa a questo binomio solo o prevalentemente perché esistono due drammi,40 uno dell’italiano l’al- tro del francese, che presentano inequivocabili analogie sia a livello tematico che strutturale(formale). Tutto il resto viene conseguentemente messo da parte, anche la possibilità che ci possano essere contaminazioni, interferenze del pensiero dell’uno sulla scrittura dell’altro anche in altri luoghi della loro produzione; senza volerlo si nega un pur silenzioso e problematico dialogo. È per questo che si è deciso di ribadire la complessità, la poliedricità dei due autori – sottolineando il lato prettamente teatrale di Diderot e quello teoretico-divulgativo di Goldoni – affinché non si crei quella opposizione- semplificazione di cui sopra, affinché partendo dal busillis letterario si pongano a confronto due modi di vivere il rapporto con la scena, non semplicemente l’opera di un filosofo (più nel senso di un drammaturgo dilettante) con quella di un drammaturgo (nel senso qui di un deleterio appiattimento sul concetto di padronanza del mezzo scenico), ma due linguaggi drammaturgici differenti, due modi di percepire un’urgenza (la riforma del teatro stesso), con la medesima consapevolezza del teatro come pura tentazione, del gioco scenico fine a se stesso. Il Dieckmann concludeva il suo studio domandandosi come si sarebbe potuto sviluppare il talento drammatico di Diderot grazie ad uno scambio di idee con Goldoni, uno scambio, egli sottintende, alla luce del sole, senza pregiudizi o acrimonie di sorta, se comodamente seduti sulle poltrone dama- scate di un salotto à la page si fossero potuti esprimere liberamente l’uno sulle opere dell’altro. Il critico, fin troppo laconico, si risponde in questi termini: «Diderot avrebbe potuto apprendere dal maturo Goldoni ciò che mancava al Fils naturel e al Père de famille: renderli adatti alla rappresentazione»;41
39 Ivi, p. 52. 40 Tralasciamo di menzionare gli altri due testi che sono Il padre di famiglia di Goldoni e Le père de famille di Diderot. Un nesso interno corre tra di esse, ma la trama e molti dettagli sono totalmente diversi, anche per questo l’attenzione degli studiosi si sofferma quasi esclusi- vamente sui rapporti tra Il vero amico e Le fils naturel, accennando di sfuggita alle differenze esistenti tra le altre due. 41 DIECKMANN, Il realismo..., cit., p. 83. GOLDONI IN SCENA. 171 eppure una risposta del genere non ci soddisfa fino in fondo, per la semplice ragione che áncora la questione a queste due sole opere drammatiche del Diderot, tralasciando altri testi più interessanti e ricchi di spunti riflessivi.42 Inoltre, va aggiunto che uno scambio di idee che si rispetti dovrebbe apportare giovamento intellettuale a entrambi i dialoganti, ossia se il Diderot avrebbe dovuto apprendere l’arte della rappresentabilità da Goldoni, cosa avrebbe potuto apprendere il Goldoni dal collega d’oltralpe? Quali possibili sviluppi per il dramma goldoniano in seguito al contatto con il rigore claustrofobico del Diderot? In realtà, a voler essere più precisi, il quesito andrebbe addirittura riformu- lato in termini diversi, vale a dire: eliminando l’ipotetica, ci si dovrebbe senza mezzi termini chiedere se e cosa può essere rimasto nell’opera di entrambi di quel loro fugace e sofferto incontro. Cosa al di là del mero aspetto tematico di un singolo dramma dell’italiano può aver agito sul sentire teatrale del filosofo? Cosa invece del ligneo furore del francese può aver lasciato traccia nel tessuto verbale drammaturgico del veneziano? In alcuni degli studi43 che si sono occupati dell’argomento si è dato per scontato che il Goldoni, giunto a Parigi nel ’62, fosse all’oscuro di tutta la bagarre sorta in seguito alla pubblicazione del Figlio naturale; in due luoghi della sua opera Goldoni fa riferimento alla questione: nei tardi Mémoires e nella prefazione alla rielabo- razione del Vero amico inserita nel VII tomo dell’edizione Pasquali e risalente al 1764. In verità nessuno di questi due interventi44 può spingere il lettore a
42 Inoltre una risposta come quella che si dà il Dieckmann sembra per un attimo riportare in superficie quel pregiudizio di cui sopra, la tanto esecrabile ma a quanto pare eternamente in agguato contrapposizione ‘teorico-uomo di teatro’. Poco convince anche il giudizio che l’autore tedesco dà rispettivamente sul Père de famille e il Padre di famiglia: «sebbene a mio avviso l’opera di Diderot sia più drammatica e rivoluzionaria dal punto di vista della tecnica teatrale rispetto al padre di famiglia, Goldoni è assai superiore a Diderot nell’arte del dialogo, nella pratica della scena e nell’arte dell’intreccio» (ivi, p. 82). Non risulta molto chiaro cosa intenda il Dieckmann per «tecnica teatrale» e quando in una nota affronta in modo più ampio l’analisi delle differenze fra le due opere, proprio il sapiente intreccio sembra penalizzare e rendere gratuito il testo del Goldoni mentre l’opera di Diderot sembra essere superiore e più autentica dal punto di vista tematico. In realtà non è tanto in questione il rapporto tra tecnica teatrale da una parte e arte del dialogo, pratica scenica e intreccio dall’altra, ma tra i risultati che ottengono le due diverse tecniche teatrali. Il Diderot esaspera il conflitto generazionale, lo assolutizza facendovi trasparire la più ossessiva dialettica tra legge e libertà delle passioni, Goldoni punta sulla messa in evidenza del contrasto tra massime morali e tono giocoso. 43 «La cosa ha sapore di comicità goldoniana, poiché dobbiamo constatare che l’autore de Il vero amico, il cui giudizio sarebbe stato decisivo riguardo all’accusa di plagio, non seppe nulla della violenta disputa, e a nessuno venne in mente di consultarlo in proposito» (ivi, p. 76). 44 «Io ero lontano assai da Parigi, quando ebbe origine questa contesa che ha fatto poi tanto strepito. S’io fossi stato allora presente, sarei stato il primo a disingannare il pubblico per parte mia, giacché non ha voluto credere sulla parola di quello che si dichiarava inventore, e 172 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO supporre che il veneziano ignorasse quello che stava avvenendo in Francia; a questo proposito il Mangini ipotizza attraverso quali canali ne sarebbe potuto venire a conoscenza: «la notizia può essergli giunta attraverso diversi canali: le relazioni con amici francesi, come madame du Boccage, con cui s’era in- contrato a Venezia proprio nel 1757; o con madame de Floncel, la quale nel 1760 aveva tradotto l’Avvocato veneziano; oppure il rapporto col conte de Baschi, ambasciatore di Francia a Venezia dal novembre del 1760».45 C’è poi da chiedersi, e non è trascurabile la questione in quanto può aiutarci a scorgere quegli impensabili influssi del pensiero di Diderot sull’opera del veneziano, quando precisamente il Goldoni possa aver letto per la prima volta le opere del Philosophe. Di certo all’altezza del 1764, all’epoca della summenzionata prefazione alla riedizione del Vero Amico, le opere del francese non sono più un mistero per lui, è lo stesso autore a dircelo indicando brevemente, in quella stessa prefazione, in cosa si differenziano il suo Vero Amico e il Padre di famiglia dal Fils naturel e dal Père de famille;46 ma, come per il caso della polemica, nulla ci spinge a credere che prima di quella data egli non possa essere venuto in possesso di qualcuno dei drammi del filosofo, magari proprio a mezzo di uno dei summenzionati conoscenti. Per azzardare un tentativo di datazione a questo riguardo ci viene in aiuto una fonte che dovremmo definire apocrifa, un documento che da molti stu- diosi è stato bollato senza mezzi termini come inattendibile; si tratta di una lettera del veneziano datata 10 luglio 1757 ed indirizzata ad «un de ses amis de France».47 La lettera – attualmente conservata, in copia di mano francese e accompagnata da traduzione, tra le carte Malesherbes della Bibliothèque Nationale di Parigi – venne consegnata nel luglio del ’57, unitamente ad una copia del Vero Amico, da Elia Catherine Fréron a Chrétien-Guillaume Male- sherbes direttore della Librairie (ufficio della censura) e amico dei Philosophes. Fréron – che oltre ad essere critico letterario e ottimo conoscitore di cose italiane era soprattutto un pervicace anti-illuminista – aveva già pubblicato sull’ «Année Littéraire» del 30 giugno 1757 una dura critica al Fils naturel di Diderot (l’atto che sancisce ufficialmente l’inizio della sua personale crociata che avendo date le più chiare prove del suo talento, meritava tutta la fede» (TO, III, p. 573). Nei Mémoires l’autore non fa altro che ripercorrere brevemente i fatti che hanno portato all’accusa di plagio nei confronti di Diderot, nessun accenno viene fatto alle fonti né tanto meno all’epoca in cui egli sarebbe venuto a conoscenza della disputa; molto più interessante al riguardo è il racconto del leggendario incontro con il filosofo per intercessione del musicista Duni (C. GOLDONI, Memorie, Salani Editore, Firenze 1964, pp. 524-527). 45 MANGINI, La polemica..., cit., p. 265. 46 TO, III, pp. 573-575. 47 Cfr. BUSNELLI, Diderot..., cit., p. 82. GOLDONI IN SCENA. 173 contro i Philosophes). Nell’articolo egli insinuava già il terribile sospetto del plagio senza però menzionare in modo esplicito l’opera dell’italiano: con luciferina naturalezza egli si domandava «“le raison qui ont engagé Diderot à intituler sa pièce le Fils naturel” lorsque’elle nous présente plutôt, avec les differents traits de générosité qui sont rassemblés dans un seul personnage, “le tableau d’un véritable ami”».48 Ora si può immaginare cosa dovesse rap- presentare per il facinoroso Fréron un documento in cui il Veneziano asseriva di aver ricevuto ristampa in francese del suo Vero amico sotto il nome del Fils naturel (con annesse riflessioni del ‘traduttore-adattatore’). La critica al riguardo è quasi unanime: il Fréron avrebbe inventato di sana pianta la lettera49 solo per poter rendere più efficace il suo secondo e più duro colpo alla roccaforte diderottiana; la lettera avrebbe dovuto avvalorare, testimoniare l’attendibilità di una ormai esplicita accusa di plagio, allegata ad un dettagliato estratto della commedia goldoniana, avrebbe garantito una sicura vittoria al partito anti-illuminista. Le cose però non andarono come sperato per il Fréron. A fare da usbergo contro i suoi attacchi i Philosophes avevano niente meno che l’ufficio stesso della censura nella persona di Chrétien Guillaume de Lamoignon de Male- sherbes; questi si era dato parecchio da fare per fare in modo che l’Enciclope- dia potesse continuare a pubblicarsi senza troppi ostacoli e non fu da meno nella difesa dell’amico Diderot. La lettera non fu pubblicata per mancanza di prove che potessero corroborarne l’autenticità (sorge spontanea la domanda: perché non fu contattato il diretto interessato, ossia il Goldoni, il solo che avrebbe potuto dirimere in modo definitivo la questione?) e Fréron dovette accontentarsi di uscire sull’«Année Littéraire» del 12 luglio con una partico- lareggiata sinossi del Vero Amico. Come si diceva in precedenza communis opinio è che la lettera sia un falso; tuttavia tale asserzione, come suggerisce il Padoan,50 sembra essere formulata più per «pigrizia e per tendenza ripetitiva»
48 Ibid. 49 «Frattanto, fra un articolo e l’altro, il Fréron aveva cercato di diffondere una falsa lettera di Goldoni, indirizzata a un anonimo amico francese (con la data del 10 luglio, da Venezia), ove il plagio era denunciato apertamente, in un italiano strampalato, con traduzione a fronte, in tal modo coinvolgendo ancora di più l’ignaro e lontano commediografo» (MANGINI, La polemica..., cit., p. 262). «Notre journaliste, qui ne manquait de fantasie, ni d’esprit, s’avisa de composer une lettre de Goldoni à un de ses amis de France, où le comique vénitien disait qu’il avait bien reçu “la réimpression de son Véritable ami sous le nom du Fils naturel”, avec quelques changements, dont il n’avait garde d’assurer si c’étaient “des défauts ou des corrections”» (BUSNELLI, Diderot..., cit., p. 82). «L’abile giornalista aveva confezionato una falsa lettera di Goldoni che accusava ricevuta di una ristampa del suo Vero amico con il titolo Le fils naturel, e faceva alcune considerazioni in merito» (DIECKMANN, Il realismo..., op. cit., p. 68). 50 G. PADOAN, L’erede di Molière, in AA. VV., Carlo Goldoni..., cit., p. 38. 174 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO che sulla base di ragioni meditate. Tra i fattori da prendere in considerazio- ne per rivedere un giudizio forse troppo affrettato su di un documento così importante ci sono, in primis, la fin troppo nota parzialità del Malesherbes – questi nonostante il categorico veto opposto alla lettera non poté fare a meno di apporvi una postilla autografa in cui viene evidenziata la notevole perizia della «plaisanterie»51 – in secundis, il fatto che non si vede davvero quale van- taggio avrebbe potuto trarre il Fréron dalla pubblicazione di una falsa lettera del Goldoni – autore a quel tempo già noto ai francesi – che avrebbe potuto facilmente subire una solenne e dura smentita mettendo definitivamente fuori gioco il critico. Fatto non poco curioso è poi che l’autore della lettera faccia esplicito riferimento a dei sostenitori d’Oltralpe, il che costituisce un modo assi balzano, per un impostore, di gettarsi una monolitica zappa sui piedi. Infine va aggiunto che la lettera, e su questo ci sembra che il Padoan abbia colto nel segno, ha «un’aria che non disdice al Goldoni»52:
Havendo ricevuto, illustrissimo Signore, la di lei graziosissima lettera colla ristampa del mio Vero Amico sotto il nome del Fils naturel, mi sono da prima faccia inarcati i cigli, vedendo così dispregiata la mia fama, sperando l’autore che le mie operette fossero affatto ignote ai francesi: ma sentendo che code- sta Nazione ingegnosa, colta e illuminata scoperto aveva il furto, ho lasciato tranquillamente riposare la mia paterna tenerezza sulla vostra preziosissima amicizia e sulla onoratissima tutela di tanti valenti uomini i quali si dilettano di nostri italiani componimenti. Quanto poi ai cambiamenti fatti da questo autore, non ardirei assicurare se sono difetti ovvero correzioni. Dirò soltanto che nel dramma, si come nelle riflessioni aggiuntevi, ho trovato molte ciarle sublimi e meteorologiche. La prego di dirmi in che grado è questo autore in Francia e d’inviarmi l’Encyclopedia delle sue commedie mentovata nella prefazione del Fils naturel. Io vi abbraccio e riabbraccio protestandomivi il più fedele, il più appassionato, il più grato di tutt’i vostri amici. CARLO GOLDONI. In Venezia il 10 luglio 1757.53
Che il commediografo ignorasse la vera natura (cosa fosse) dell’En- cyclopédie all’altezza del ’57 può essere opinabile, ma tuttavia verosimile tenuto conto del fatto che il primo volume dell’edizione italiana (naturalmente censurata a dovere) apparve a Lucca nel 1758. Più delicata è la questione del misunderstanding: è plausibile che venendo a conoscenza per la prima volta
51 «A parler sérieusement la plaisanterie est très bonne. Mais ce seroit une fausseté supérieure à tous le plagiats du monde que de donner au public sous le nom de Goldoni une pareille lettre si on n’estoit pas sur qu’elle fût réellement de luy» (BUSNELLI, Diderot..., cit., p. 274). 52 Cfr. PADOAN, L’erede..., cit., p. 38. 53 Scoperta e tradotta dal Busnelli (BUSNELLI, Diderot..., cit., pp. 273-274). GOLDONI IN SCENA. 175 dell’esistenza di un’opera con quel titolo solo dalla lettura della prefazione del Fils naturel il veneziano potesse dedurne che si trattasse, non di un vasto e composito progetto filosofico-divulgativo, bensì di una raccolta delle com- medie di Diderot; quella stessa prefazione, infatti, inizia proprio menzionando l’uscita del sesto volume dell’Enciclopedia senza aggiungere nulla però sulla natura dell’opera. Un errore questo al quale il Goldoni avrebbe riparato in seguito se si tiene conto del fatto che, nel già menzionato scritto introduttivo al Vero Amico del ’64, nel parlare dell’affaire Diderot, non nomina apertamente il filosofo (come in fondo nella lettera), ma lo indica come «uno di quelli che hanno meglio contribuito alla grand’opera dell’Enciclopedia».54 Pertanto, come conclude il Padoan «finché non si dimostri il contrario, prove alla mano, la lettera va ritenuta autentica».55 Ne consegue che il veneziano all’altezza del 1757 era a conoscenza dei turbamenti di Dorval e di Rosalie, di quel senso oppressivo e perturbante della virtù, di quell’irriducibile conflitto dal sapore raciniano fra condotta etica e blessure delle passioni. Viene spontaneo domandarsi cosa avrebbe potuto recepire il Goldoni di quel mondo claustrofobico e fascinoso, di quello spazio così ristretto perché affollato di uomini e ideali pigiati gli uni contro gli altri. Parlando della sostanziale differenza fra la scrittura diderottiana e quella goldoniana, e in particolare del contesto culturale di riferimento della prima, il Dieckmann coglie un aspetto della questione trascurato dai prece- denti critici, ossia il non dichiarato, sotterraneo intento di Diderot – ma noi aggiungeremmo l’inevitabile risultato di un solido, monolitico retaggio este- tico, una eredità talmente invasiva da innervare persino il primo tentativo di riforma teatrale degno di nota – di uniformare al modo dei classici i conflitti di sentimenti sintonizzandoli sull’unica nota del patetico. Il salotto della casa di Clairville sarebbe in parte una attualizzazione della stanza delle torture da tragédie classique, il luogo metafisico in cui si scontrano res cogitans e res extensa, la ragione e la passione. Conflitto tragico dunque, ma non irriducibile, dialettica che trova un suo momento di sintesi solo appa- rentemente non problematico.56 L’inizio del Figlio naturale è emblematico a questo riguardo, Dorval fa la sua apparizione da autentico personaggio tragico con tanto di inconfessabile passione amorosa, l’oggetto d’amore interdetto
54 TO, III, p. 573. 55 PADOAN, L’erede..., cit., p. 38. 56 Il fatto che il dramma si concluda con la caduta piuttosto repentina di ogni sorta di conflittualità emotiva non pregiudica quel consistente alone di fascino che circonda Dorval; questi potrebbe essere definito come una sorta di personaggio proto-scisso, in cui la corporeità è ancora una debole aura ulteriormente smorzata dall’anestetizzante lucido dire della virtù. 176 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO aleggia su di lui come una minaccia: «(Estrae l’orologio e dice) Appena le sei. (Si abbandona sull’altro bracciolo della poltrona, ma subito si rialza) Come posso dormire! (Prende un libro, lo apre a caso, lo richiude quasi subito e dice) Leggo senza capirci niente! (Si alza, passeggia e dice) Non posso fare altro... devo andarmene...via di qui! E ci sono incatenato!...amo...(Come spaventato) E chi amo?!...oso confessarmelo, disgraziato...e resto qui! (Chiama ad alta voce) Charles! Charles!».57 Per capire bene di cosa si sta parlando basti con- frontare questo passo con l’inizio del Vero Amico, qui la didascalia è quasi completamente assente e il personaggio non comunica inquietudine bensì una piuttosto turgida sicurezza propositiva: «Si vi vuol coraggio: bisogna fare un’eroica risoluzione. L’amicizia ha da prevalere, e alla vera amicizia bisogna sagrificare le proprie passioni, le proprie soddisfazioni, e ancora la vita stessa, se è necessario. Ehi, Trivella».58 Certo l’intento del Goldoni è quello di alternare in modo il più possibile ‘naturale’ i momenti comici a quelli propriamente drammatici, poiché la loro commistione esprime perfettamente la mutevolezza dell’animo umano. Eppure il ‘momento’ drammatico, almeno nel caso di questo Vero amico, è come irrigidito nel tronfio piglio retorico di alcune scene, nella marca verbale dell’amicizia ripetuta ad libitum.59 Se pren- diamo in esame la scena goldoniana della ‘predica’ di Florindo a Rosaura, il duro invito a ripristinare l’ordine morale sconvolto dall’illecita passione,60 ci rendiamo conto che il discorso enfatico e moraleggiante è come sospeso, astratto e decisamente poco drammatico:
Signora Rosaura, compatisco il dolore che l’affligge per la morte del padre. La natura s’ha da sfogare; ma mi dia licenza che le faccia un piccolo discorsetto. Noi altri in questo mondo ci fabbrichiamo il nostro destino, e per lo più i nostri medesimi vizi ci gastigano, un servitore, scoprendo il tesoro, abbia cercato di rubarlo, e questo furto è stato il motivo della sua morte, onde è morto per causa dell’avarizia, e il Cielo, per gastigarlo di questo difetto, si è servito del suo difetto medesimo. Osservi dunque, che i denari non vagliono niente, che la vita è attaccata a un filo; tutto finisce bene, tutto si lascia, e quel che resta per noi, e quel che ci fa felici e contenti, è il vivere onesto, le buone azioni, la virtù, per saper superar le proprie passioni. Ella adesso è ricca, ma queste ricchezze possono sparire da un momento all’altro; ella è giovane, ella
57 D. DIDEROT, Teatro, Garzanti, Milano 1982, p. 11. 58 TO, III, p. 579. 59 Cosa questa che riguarda prevalentemente l’edizione del ’53 ma che nel ’64 viene deci- samente ridimensionata (Cfr. Ivi, pp. 1197-1216). 60 Si allude alla scena com’è nell’edizione del ’53, la Paperini, quella che deve aver letto anche il Diderot. Nell’edizione del ’64 la scena è stata tagliata dal Goldoni insieme alle tirate più marcatamente retoriche (Cfr. ibid.). GOLDONI IN SCENA. 177
è bella, ma tutte cose che passano, e finiscono. Il Cielo le offerisce in questo momento una bella occasione d’esercitare la sua prudenza, la sua virtù, la sua rassegnazione. Osservi, obbligato dalla parola d’onore, dalla gratitudine, dal dovere io ho sposato la signora Beatrice; onde è superfluo, che sopra di me continui a fondare nessuna delle sue speranze. Ella mi dirà, come da un momento all’altro ti sei cambiato? Mi burlavi quando mi dicevi di volermi sposare; o sei un uomo il più volubile di questo mondo? Rispondo: non la burlavo, non son volubile. Si son cambiate le circostanze, onde ho dovuto cambiarmi ancor io. Quando era povera, Lelio non la poteva sposare, ed io la prendevo per amore e per compassione. Adesso che è ricca, torna a correre il primo impegno, e tutte le leggi, e del Foro e dell’onestà, vogliono che sposi Lelio, il quale non l’ha ceduta mai per mancanza d’amore, ma per estrema necessità. Io ho fatto il mio dovere, ella deve fare il suo. Impari da me a vincere e superare la passione. Signora Rosaura, le ho voluto un gran bene, e pure per salvar l’onestà, per non tradire un amico, ho tutto sagrificato all’idolo dell’onore. Ho sposato una giovane che merita amore, e col tempo riconoscerò il suo merito e il mio dovere. Si determini anch’ella a sposare il signor Lelio, e vergognamoci tutti due della nostra debolezza passata e facciamo che un atto di giustizia, scancellando la memoria de’ nostri amori, renda più nobile e più glorioso il trionfo della nostra virtù.61
Non c’è in questa tirata nulla di lontanamente ascrivibile a quel senso del contagio del male sprigionato dalla versione diderottiana, a quell’angoscia della colpa come macchia indelebile e pandemica che Dorval sapientemente cuce sulla pelle di Rosalie:
Pensate, signorina, che l’ossessione di una sola idea spiacevole basta a distrug- gere la felicità, e che la coscienza di un’azione malvagia è l’idea più spiacevole di tutte. (Vivacemente e rapidamente) Una volta che l’abbiamo commesso, il male non ci lascia più. Si annida nel fondo della nostra anima, insieme con la vergogna e il rimorso; lo portiamo con noi, ci tormenta.62
I pregi del lavoro di Goldoni risiedono nella sveltezza della trama natural- mente, in quel precoce sapiente uso del teatro come industria del desiderio, complesso congegno – oramai nelle mani di una classe sociale ben definita – di macchine desideranti e desiderata. Non si può negare, alla luce di quanto detto, che tra i due autori possa instaurarsi un rapporto di polarizzazione – laddove si voglia a tutti costi trovarne uno – ciò però non deve spingerci a ritenere, come molti hanno fatto, che tutta la questione si risolva nel rapporto tra la rigidità del teorico e la sciolta scaltrezza del drammaturgo. La realtà
61 Ivi, pp. 1214-1215. 62 DIDEROT, Teatro, cit., p. 65. 178 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO dei fatti è più complessa e vede da una parte il retaggio tragico – per quanto respinto in via di principio – quell’assoluto spazio scenico, quel senso della clôture tipico della tragédie classique che non può non riversarsi nel cupo e asfissiante salotto borghese, che non può non trovare nella quarta parete l’inevitabile precipitazione del rigoroso processo d’astrazione del cartesia- nesimo secentesco; dall’altra un inquieto spazio aperto, una zona in cui il carattere è ancora un po’ più forte della condizione, in cui l’animo umano è un troppo sfuggente impasto per una sola anche se rappresentativa stanza. Certo è il Diderot stesso ad affermare negli Entretiens, ad onta di ogni estetica classicista, che il rispetto dell’unità di luogo nel nuovo dramma è una diretta conseguenza della povertà delle scenografie dei teatri francesi – teatri in cui a detta del filosofo risulta arduo se non impossibile effettuare un cambio di scena ogni volta che sia necessario63 – tuttavia sarebbe superficiale e avventato concluderne che egli escluda categoricamente un movente psicologico, o che non sia cosciente del fatto che il limite asfittico del Figlio naturale è anche il suo più genuino pregio, che quel salotto è e sarà ancora per molto la caverna della ragione – un luogo in cui la caduta è ancora possibile anche se smentita da una risalita virtuosa – che non può darsi dimensione più appropriata per la lotta tra virtù e passioni che uno spazio adombrante la cella dell’animo umano naturalmente rischiarata dalla ragione e ricodificata su di un nuovo tessuto sociale. La ‘pesantezza’ dello stile diderottiano deve necessariamente essere ri- considerata nei termini di una eccessiva drammaticità linguistica, eccessiva, se considerata in rapporto all’intento dell’autore di codificare una forma teatrale più rispondente al reale quotidiano, ma perfettamente consona ad un dramma che operando sul piano di una assolutizzazione del conflitto tra istinto e ragione non può non dialogare più o meno apertamente con una certa eredità tragica. Tornando al rapporto tra l’astratta drammaticità delle parole di Florindo e il minaccioso dire di Dorval, se operiamo un imprevisto quanto suggestivo salto temporale e giungiamo a quel fruttifero lasso di tem- po che va dal ’60 al ’62 – ossia la stagione che precede il viaggio di Goldoni in Francia – incontriamo uno splendido, fragile, sfumato personaggio di donna nella drammaturgia di Goldoni e una ennesima reprimenda, simile nella struttura a quelle del Vero amico e del Figlio Naturale, ma fatta stavolta
63 «Je serais fâché d’avoir pris quelque license contraire à ces principes généraux de l’unité de temps et de l’unité d’action. Et je pense qu’on ne peut être trop sévère sur l’unité de lieu. Sans cette unité, la conduite d’une pièce est presque toujours embarrassée, louche. Ah si nous avions des théâtres où la décoration changeât toutes les fois que le lieu de la scène doit changer!» (DIDEROT, Oeuvres..., cit., p. 86). GOLDONI IN SCENA. 179 dall’amata all’amante e consumata in una più sofferta atmosfera drammatica. Si allude qui al nobile quanto scisso personaggio di Giacinta della Trilogia della villeggiatura e al discorso che rivolge all’innamorato Guglielmo (creatura decisamente anodina rispetto alla titanica Giacinta) nella scena terza del terzo atto delle Avventure della villeggiatura:
Orsù dunque, giacché s’ha da parlare, si parli. Riflettete, signor Guglielmo, che voi ed io siamo due persone infelici, e lo siamo entrambi per la cagione medesima. Se la nostra infelicità si estendesse soltanto a farci vivere in pene, si potrebbe anche soffrire; ma il peggio si è, che andiamo a perdere il decoro, l’estimazione, l’onore. Io manco al mio dovere, ascoltandovi; voi mancate al vostro, insidiandomi il cuore. Io manco al rispetto di figlia, al dovere di spo- sa, all’obbligo di fanciulla saggia e civile; voi mancate alle leggi dell’amicizia, dell’ospitalità, della buona fede. Qual nome ci acquisteremo noi fra le genti? Qual figura dovremo fare nel mondo? Pensateci per voi stesso, e pensateci per me ancora. Se è vero che voi mi amate, non procacciate la mia rovina. Avrete voi un animo sì crudele di sagrificare alla vostra passione una povera sfortunata, che ha avuto la debolezza d’aprire il seno alle lusinghe d’amore? Avrete un cuore sì nero per ingannare mio padre, per tradire Leonardo, per deludere sua germana? Ma a qual pro tutto questo? Qual mercede vi promet- tete voi da sì vergognosa condotta? Tutt’altro aspettatevi, fuor ch’io receda dal primo impegno. Sì, vel confesso, io vi amo, dicolo a mio rossore, a mio dispetto, vi amo. Ma questa mia confessione è quanto potete da me sapere. Assicuratevi ch’io farò il possibile per l’avvenire o per iscordarmi di voi, o per lasciarmi struggere dalla passione, e morire. Ad ogni costo noi ci abbiamo da separare per sempre. Se avrete voi l’imprudenza d’insistere, avrò io il coraggio di cercar le vie di mortificarvi. Farò il mio dovere, se voi non farete il vostro. Avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Vi premea d’intendere il mio sentimento, l’avete inteso. Mi chiedeste, se dovevate vivere o morire; a ciò vi rispondo, che non so dire quel che sarà di me stessa; ma che l’onore si dee preferire alla vita.64
Il Fido ha condotto una sapiente indagine sul personaggio di Giacinta, met- tendola in relazione con le attrici del S. Luca e con il cosiddetto ‘femminismo’ goldoniano degli anni ’60. Giacinta esprime perfettamente la nuova tipologia del femminino che il Goldoni viene elaborando negli anni del S. Luca; le nuove eroine mettono da parte civetteria, pazienza e astuzia (i tradizionali strumenti di attacco e difesa femminili) – viste ormai come segni di debo- lezza e compromesso, o meglio come «vestigia di una ancestrale condizione servile» – e cominciano a mostrarsi in quanto ‘donne’, un delicato e intenso
64 C. GOLDONI, Trilogia della villeggiatura, Mondadori, Milano 1993, pp. 122-123. 180 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO sinolo di carne e ragione.65 Questo cambiamento di orientamento da un lato può essere considerato come una patente risposta alle ragioni concorrenziali dell’abate Chiari, che si faceva – nella veste di successore del Goldoni al S. Angelo – campione sulla scena veneziana dei diritti delle donne; dall’altro, come punto di arrivo di un processo lento e complesso che vede ad esempio nel personaggio di Mirandolina uno snodo indispensabile.66 Tuttavia al di là di queste problematiche, quel che si vuol sottolineare qui è la potenza lirica del récit di Giacinta, la drammaticità sentita del suo dévoilement; è come se la scena (intesa qui in senso assoluto, distaccata cioè dai singoli contesti di riferimento), che come abbiamo indicato presenta forti analogie con quelle di Florindo e Rosaura e di Dorval e Rosalie, avesse subito una propria evoluzione espressiva: dal ridondante moralismo del ’53, quello della prima redazione del Vero amico, fino a questa complessa e autentica confessione passando per la cattività dorvaliana. Il richiamo di Giacinta alla vergogna che scaturisce dalla trasgressione delle norme che devono governare il vivere civile, la denuncia dell’impossibilità di sostenere lo sguardo degli altri, delle persone offese e colpite da un agire perverso, l’inanità di una fuga per un mondo che guarda giudicando non sono poi così distanti dalle fosche visioni che Dorval cerca di indurre in Rosalie: «Assecondando una passione ingiusta, ci saranno sguardi da evitare per sempre: gli sguardi delle persone che amiamo di più sulla terra. Dovremmo allontanarcene, fuggire davanti a loro, camminare a testa bassa tra la gente [...] Essere malvagi significa condannarsi a vivere in compagnia dei malvagi, compiacendosene; significa vivere confusi in una folla di esseri senza principi».67 Inoltre quel toccante appello che Giacinta lancia contro Gugliemo, quel «Avrete voi un animo si crudele di sagrificare alla vostra passione una povera sfortunata...ecc», quella provocazione dolorosa ad una impossibile deroga alla legge morale sembra addirittura l’esasperazione del dorvaliano «Vorreste vedermi ancora in quei momenti umilianti e crudeli in cui mi disprezzavate, in cui mi odiavo, in cui temevo di incontrarvi, e avevate paura di ascoltarmi, e le nostre anime erano lacerate tra il vizio e la virtù».68 Per finire l’incipit rassegnato di Giacinta il suo «riflettete signor Guglielmo che voi ed io siamo due persone infelici» sembra fare da eco al più pragmatico e conciso «Quanto
65 F. FIDO, Nuova guida a Goldoni: teatro e società nel Settecento, Einaudi, Torino 1977, pp. 207-257. 66 Sulla questione vedi P. VESCOVO, Libertà e «delicatezza insidiosa» nella «Locandiera», in AA. VV., Problemi di critica goldoniana, cit., pp. 299-317. 67 DIDEROT, Teatro, cit., p. 65. 68 Ivi, p. 66. GOLDONI IN SCENA. 181 siamo sfortunati, signorina!»69 che dà l’avvio alla parte conclusiva del discorso di Dorval. Suggestioni, naturalmente, la trilogia resta quel grande affresco di una società che tramonta, quella caduta degli dei, quell’intuizione del disfacimento di un determinato sistema di valori che il Padoan ha definito prececoviana;70 Giacinta del resto non è certamente Dorval, la sua carne ha molta più voce in capitolo, al quasi gesuitico volontarismo del personaggio diderottiano, al suo cartesiano dominio sui flussi sanguigni delle passioni, oppone tutta l’incertezza del corpo, la consapevolezza, diremmo spinoziana, che la passione prima di affermarsi come immagine nella mente è azione di un corpo su di un altro, o meglio affezione dell’uomo come identità di corpo e mente. Ciò nonostante non è da escludersi, in modo categorico, che il pa- thos e l’incalzare spietato e lucido del recit di Dorval possano aver avuto un qualche ruolo nella composizione del discorso di Giacinta, soprattutto nel rigore drammatico di alcune espressioni; non è da escludersi che quel senso dell’interno come stanza della tortura, come Athanor di emozioni contrastanti possa aver suggerito al veneziano, non tanto un luogo fisico dove incarcerare i personaggi per un intempestivo gioco al massacro (il salotto), quanto un approfondimento del concetto di corpo (anche nel senso di sostanza di una classe sociale). Quest’ultimo sarebbe da intendersi non solo come qualcosa che desidera o da desiderare, ma proprio in quanto desiderante e desiderato verrebbe ad essere ricodificato come spazio di un conflitto, campo sul quale si gioca una battaglia (più vasta di quella ormai inattuale tra res cogitans e res extensa o tra virtù e passione) tra la ragione come produzione e il corpo come pura dispersione, ossia tra conatus di segno opposto in una stessa so- stanza. La schiavitù che paventa Giacinta nella trilogia è quella del contratto matrimoniale, fondamento di un sistema produttivo e di una classe sociale ben precisa; al progressivo abbandono del sistema di valori borghesi a cui gli uomini che la circondano danno vita in un inarrestabile potlatch delle risorse, Giacinta oppone la propria abnegazione, che è il vessillo dell’incompatibilità tra l’autenticità del sentimento, della passione e l’edificazione di un sistema di produzione, un sistema che si rivela formale e incorporeo per quanto la sua origine risieda proprio in quel corpo stesso che lo nega. Dorval in sostanza potrebbe aver fatto da modello per la creazione di un personaggio fatto di carne ma capace di riflettere lucidamente su quella stessa fragilità, avrebbe forse suggerito quel rigoroso metodo di autoanalisi che il Diderot aveva quasi sicuramente ricavato dalle cristalline creature corneilliane.
69 Ibid. 70 PADOAN, L’erede..., cit., p. 49. 182 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
Il salotto affollato e soffocante, invece, sarebbe diventato una altrettanto irrespirabile villeggiatura assiepata di importuni e vagheggini per un malinteso senso della socialità, o molto più probabilmente un corpo/spazio percorso da energie di segno opposto che se ne contendono instancabilmente il dominio. Questo breve studio si conclude proponendo un finale diverso da quelli che la critica ha finora previsto per questo insolito connubio Goldoni/Diderot, si vuol proporre una lettura altra di quello che può essere stato l’effettivo influsso del veneziano sul Pholosophe, una lettura che per un attimo si allontani dai dati immediatamente osservabili (Il vero amico e Le fils naturel) e che guardi un po’ più al teatro come sospensione dal reale nella pura fascinazione dell’ar- tificio. Se prendiamo in considerazione uno degli ultimi lavori teatrali del filosofo, l’ambiguo Est-il bon? Est-il méchant71 del ’77 – testo mai pubblicato da Diderot, ma di cui era prevista una rappresentazione privata nel salotto di Madame de Maux – la prima cosa che salta agli occhi è l’assenza totale di didascalie per descrivere l’ambiente in cui si svolge la commedia; al posto della consueta elencazione degli oggetti afferenti al reale quotidiano borghese vi è un’indicazione molto generica della location della pièce: la casa della signora de Malves.72 Questo spazio indefinito è funzionale alla vera novità dell’opera che sta nel personaggio di Hardouin, un benefattore traffichino con un senso molto personale dell’altruismo e della virtù; egli tesse una trama complessa di inganni in cui le vittime sono gli stessi beneficiari della sua generosità. Lo spazio quindi viene a perdere la sua funzione di messa in evidenza della ‘condition’ del personaggio per acquisire lo statuto di puro campo d’azione del protagonista, esso viene a coincidere totalmente con le dinamiche anfibie del gioco di Hardouin. Potremmo addirittura affermare che si tratti di uno spazio aperto, se la chiusura precedente era funzionale ad un’idea di virtù senza crepe sostanziali, monolitica e in fin dei conti infrangibile. Sono lontani i tempi del Figlio natu- rale così come è distante quel lucido, implacabile ottimismo; in quattro atti serrati e divertiti avviene il progressivo smascheramento dell’inconsistente,
71 DIDEROT, Teatro, cit., pp. 199-302. 72 In sostanza avviene il passaggio dal salotto inteso come luogo in cui si costruisce l’imma- gine di una nuova classe sociale – spazio dall’evidente valore fondativo (nuova classe sociale, nuovo dramma) – al salotto come luogo della rappresentazione – sterilizzato di ogni istanza ideologica, bianco asettico della finzione pura–; a ciò va aggiunto poi che la generica casa della signora de Malves adombra chiaramente il salotto di Madame de Maux, a sua volta luogo destinato alla riproducibilità del gioco scenico. Il fatto stesso che un luogo reale possa essere servito da spunto per il dramma, e che ciononostante manchi un pur minimo riferimento ad oggetti che possano servire da elementi di identificazione, sembra mettere ulteriormente in luce questa idea di una rinnovata spazialità teatrale nell’ultimo Diderot. GOLDONI IN SCENA. 183 fragile immagine che il singolo crea di se stesso e degli altri. Hardouin seduce tutti, uomini e donne, e lo fa come per una naturale disposizione d’animo; la sua generosità è seduzione e le persone si rivolgono a lui perché egli con il suo solo essere genuinamente ambiguo li denuda della loro veste sociale. La morale del ‘per agire bene in questo mondo si deve essere cattivi’ che sembrerebbe trasparire da questa sfuggente pièce in realtà tende a perdere consistenza di fronte alla ben più forte idea del teatro come fascinazione, come sublima- zione sul piano dell’artificio scenico delle squallide dinamiche del reale. La chiassosa follia erotica del piano d’opera del ’59, quel rocambolesco gioco di coppie che è Le train du monde, matura in questo compatto girotondo di ingannati intorno al loro sulfureo uccellatore: «Signora de Chepy È buono? È malvagio? Signorina Beaulieu L’uno e l’altro».73 Un’opera la cui portata è chiaramente molto più vasta dello spazio che le si può dedicare in questa sede, tuttavia grazie a questa tarda commedia si può azzardare una risposta al quesito di cui sopra, una risposta che è forse più una provocazione che un dato accertabile. Il Diderot, come vinto da una irresistibile fascinazione, può aver colto in Goldoni un senso maturo della dignità della finzione e del gioco teatrale, forse la necessità per un teatro riformato di fare i conti, di continuare a confrontarsi con l’alterità e l’ambiguità della scena. Dario Migliardi
«Qui la danza nasce principalmente dalla gestualità»: da ‘La locandiera’ di Goldoni a ‘Mirandolina’ di Milloss Tra i numerosi balletti ispirati alle opere di Goldoni, Mirandolina ideata da Aurel Milloss quale creazione in danza della Locandiera, si presta ad una riflessione intrigante in tema di ‘riscritture’, sulle potenzialità e gli stimoli che offre l’insita dinamicità, la ‘musicalità’, la ludica giocoleria, concertante il movimento scenico-drammaturgico, della commedia goldoniana; parlo di un meccanismo, un organico teatrale, una forma rappresentativa, uno stile, che si fa porta espressiva della vitalità dei caratteri designati in azione; forma ed espressione vitale che, se legata alla propria epoca, nondimeno affonda nelle radici stesse del fare teatrale quanto dell’agire umano. Ludus in fabula…: attraverso l’originale orchestrazione tra la musica di Bucchi, i movimenti inventati da Milloss, la scena e i costumi di Caruso, si giunge al concepimento di un’operazione coreografica e ricomposizione stilistica, dove, un succedersi estroso, vario, quanto agile, di azioni sceniche,
73 DIDEROT, Teatro, cit., pp. 301-302. 184 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO vede di danza in danza (tra ritmi di gavotta, brillanti tessiture ‘dialogiche’ strumentali e gestuali, variazioni a valzer, bolero, boogie woogie, remini- scenze d’opera buffa, aperture al grottesco, ecc…) l’avvicendarsi di elementi settecenteschi, liberamente rivissuti, con l’emergenza d’una chiara presa sulla contemporaneità. Passando per la ‘nuova creazione’ espressiva operata nella specificità del ‘linguaggio’ danzante così come inteso da Milloss rispetto ad ogni ‘riscrittura in forma di danza’ del soggetto e del linguaggio drammatur- gico/teatrale, l’armonizzarsi scenico del fantasioso e pluripotenziale ‘giocoso’ del Mirandolina è lungi dal porsi quale gratuito divertimento bensì tende a farsi qui ‘ludica’ attenzione all’umano. Ma seguiamone la vicenda… Il balletto viene messo in scena per la prima volta al Teatro dell’Opera di Roma il 12 marzo del 1957. È il terzo evento di una serata interamente dedicata alla danza, ideata e coordinata nella sua genesi artistica dallo stesso Milloss, e segue le altre due creazioni del coreografo: Marsia, Ritratto di Don Chisciotte. Una ripresa del Mirandolina, ma con variazioni relative sia agli interpreti che alla musica, si avrà poi l’anno dopo al Teatro Massimo di Palermo il 12 aprile 1958 all’interno di un diverso programma comprendente Una domanda di matrimonio, opera di ispirazione cechoviana nel soggetto e musicata da Chailly e Il ladro e la zitella, su musica di Menotti e con la regia di Beppe Menegatti.74 Dobbiamo ricordare: non era la prima volta che nella storia del balletto un coreografo si rivolgesse a Goldoni, così come non era la prima volta di Mil- loss. Il 16 dicembre del 1939 l’artista aveva presentato all’allora Teatro Reale dell’Opera di Roma la prima di Le donne di buon umore quale nuova versione de Les Femmes de bonne humeur di Massine che aveva debuttato nella stessa città nel 1917 per i balletti di Diaghilev.75 Nel ’41 Milloss si era poi occupato dell’aspetto coreografico per la rappresentazione de Il poeta fanatico con la regia di O. Costa andato in scena per la prima il 29 luglio ai Giardini della Biennale di Venezia.76 Per quanto riguarda, invece, il caso specifico di La Locandiera, commedia goldoniana alla quale chiaramente il Nostro si ispira per il suo Mirandolina, ricordiamo qualche anno prima, con lo stesso titolo, la versione coreografica di Vainonen su musica di Vasilenko a Mosca nel 1949, alla quale Milloss non sembra tuttavia guardare, tanto che, come sottolineato
74 Per maggiori dettagli sull’intero organico coinvolto in tale evento rimando al programma di sala conservato negli archivi del teatro Massimo di Palermo. 75 P. VEROLI, Milloss, un maestro della coreografia tra espressionismo e classicità, Libreria italiana musicale, Lucca 1996, p. 197. 76 Il poeta fanatico di C. Goldoni, regia O. Costa, musiche di G. Gorini, scene e costumi di V. Costa, orchestra diretta da N. Sonzogno; interpreti principali: A. Ninchi, D. Palmer, E. Magi, C. Baseggio; primo interprete in danza T. Giglio. Prima rappresentazione il 29 luglio 1941 ai Giardini della Biennale, Venezia. GOLDONI IN SCENA. 185 nel programma di sala del 1957 e, come evidenziato da quasi tutte le cronache della stampa italiana sull’evento, il balletto si dà quale prima assoluta e idea- zione originale in ogni suo elemento, dalla coreografia, alla musica, alle scene e costumi, tutti appositamente costituiti su sua richiesta e sue indicazioni. In anni a noi più vicini una nuova Mirandolina vedrà poi la luce al Teatro La Fenice di Venezia il 26 giugno del 1974, ma se la musica sarà quella stessa di Bucchi, che nel riflettere sulla genesi musicale non mancherà dal ricordarne nel programma di sala il significativo ‘suggerimento’ millossiano, altro saranno le coreografie di Loris Gai e le scene e costumi di Anna Anni.77 Sulla scelta di Milloss di inserire Mirandolina nella serata di balletti all’Ope- ra del 1957 dovette contribuire di certo la ricorrenza proprio in quell’anno del duecentocinquantenario della nascita goldoniana, anche se va ben ricordato che non si tratta di una pura occasionalità; da un lato abbiamo detto di come Milloss si fosse già rapportato con Goldoni in altri tempi con Le donne del buon umore, dall’altro il suo Mirandolina si andava a collocare in quella che veniva presentata significativamente nel programma di sala come serata di tre «Balletti italiani»: contributi ad esprimere quella «mediterraneità» di cui parla Gino Tani, redattore del programma, richiamando un aggettivo, a suo dire riferitogli dallo stesso Milloss, e sulla quale mi soffermerò più avanti. A proposito dell’anniversario goldoniano, tra la stampa romana dell’epo- ca, «Paese sera» vi dedicava nel numero dell’11-12 marzo 1957 un ampio articolo: Il duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita. Goldoni non invecchia. Il ciclo delle manifestazioni iniziato a Palazzo Ducale a Venezia – Il grande commediografo a Mosca – In Italia si fa poco – Una stabile goldoniana a Roma auspicata da Baseggio – Il punto di vista di uno specialista, il regista Carlo Lodovici.78 Già dal titolo, che porta anche un indice dei punti principali di riflessione, è evidente che l’autore dell’articolo, Lamberto Trezzini, poneva il problema della ‘tradizione’ goldoniana; passava in rassegna gli eventi orga- nizzati propriamente per l’occasione dell’anniversario, faceva un bilancio di un’eredità accolta, a suo avviso, più in Europa e all’estero rispetto al territorio nostrano; poneva criticamente il problema degli studi e dell’archiviazione dei materiali goldoniani; valutava il peso e la difficoltà di operazioni quali quelle di un Baseggio o di un Carlo Lodovici nel sostenere la ‘vitalità’ ancora latente
77 Quali altri balletti omonimi ricordiamo ancora, tra i più famosi, il Mirandolina coreografato da Alfred Rodrigues su musica di Galuppi e regia di Beppe Menegatti in prima al teatro Petruzzelli di Bari nel 1981 con Carla Fracci che era stata, lei stessa, già protagonista nella detta versione di Loris Gai; dopo numerose tappe il balletto di Rodrigues è stato messo in scena nel 1994 anche al teatro Massimo di Palermo, che aveva già visto nel 1958 Mirandolina di Milloss. 78 L. TREZZINI, Goldoni non invecchia, «Paese sera», 11-12 marzo 1957. 186 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO di Goldoni, il senso del perpetuarsi della ripresa della sua opera. Tra le varie iniziative e ‘riscritture’, ‘revisioni’, rappresentazioni goldoniane, indicate da Trezzini sembra mancare all’appello la danza, il che se da un lato può appa- rire una semplice assenza legata al fatto che Goldoni fosse principalmente scrittore e drammaturgo, e Trezzini non un critico specializzato in balletto, dall’altro va detto che ancora in quegli anni il problema di una considerazione, una stima della danza, delle sue potenzialità, manteneva qualcosa di aperto e difficoltoso. All’interno dell’articolo se un cenno si può rintracciare sulla questione danza dobbiamo guardare nelle parole rilasciate in intervista da Carlo Lodovici; cenno che se pur non vogliamo e non possiamo prendere – sarebbe una forzatura – come diretto a una riflessione specifica sul balletto, può tuttavia darci spunto per qualche considerazione in relazione alla nostra ‘questione goldoniana’. Seguiamo per sommi capi l’articolo di Trezzini:
Da molte città italiane vengono annunciate, nel duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita, manifestazioni goldoniane: Venezia per prima ha iniziato il suo nutrito ciclo di celebrazioni il 24 febbraio a Palazzo Ducale con un discorso di Mario Apollonio e con la rappresentazione al Teatro La Fenice del Sior Todaro Brontolon, protagonista Cesco Baseggio, presenti il Presidente della Repubblica e le autorità cittadine. Il Teatro Universitario di Ca’ Foscari ha presentato un’antologia degli Arlecchini goldioniani. La Radio ha affidato – come è noto – una conversazione celebrativa a Goffredo Bellonci e ha in animo di affidarne altre ad altri insigni studiosi. Milano dal conto suo, ha celebrato il commediografo veneziano con una ricca conferenza di Riccardo Baccelli tenuta la Piccolo Teatro. Nel campo della pubblicistica si annunzia la uscita dell’ultimo volume di tutte le opere di Goldoni nelle edizioni Mondadori, a cura del più insigne studioso goldoniano, Giuseppe Ortolani. […] Ortolani, tuttavia, non si è accontentato di questa notevolissima opera critica: ha voluto che la casa di Goldoni divenisse sede di un Museo e di un istituto di studi teatrali […]
Le celebrazioni culmineranno, com’è noto, con il Festival del Teatro, com- pletamento dedicato a Goldoni. Verranno presentati Il Campiello, nella regia di Carlo Lodovici, un’altra commedia per la regia di Visconti; una compagnia tedesca presenterà La bugiarda, mentre sembrano sfumare le speranze di vedere alcune compagnie dell’URSS e della Polonia (paesi dove Goldoni è popolaris- simo, forse più che in Italia) a causa della recente tensione internazionale.
Anche gli spettacoli goldoniani degli anni del dopoguerra in Italia stanno a testimoniare un certo interesse per il grande veneziano. Diamo la parola alle date e alle cifre [qui Trezzini elenca…] Quest’anno, poi, i teatri italiani si sono mossi con inusitato fervore nei confronti di Goldoni [qui Trezzini elenca…] GOLDONI IN SCENA. 187
Anche all’estero si annunziano celebrazioni di Carlo Goldoni e rappresen- tazioni dedicate alle sue opere, alcune delle quali, come La locandiera, non hanno mai smesso di apparire sui cartelloni dei teatri d’Europa e di America [elenca…] Se possiamo dichiararci del tutto soddisfatti per il posto che solitamente si fa all’estero al teatro del Goldoni, non altrettanto si può dire dell’Italia: non si tratta, è vero, di un tiepido successo, ma neppure di un successo così vasto come l’opera goldoniana meriterebbe. Se si volesse guardare un poco più pro- fondamente, si constaterebbe, ad esempio, come la migliore tradizione comica del teatro del Goldoni sia scomparsa; va scomparendo Brighella, si coltivano sempre meno i Leli, le Coralline, i Pantaloni, e gli Arlecchini. […] Lodovici, come la maggior parte degli uomini di teatro italiani, è più che convinto della vitalità di Goldoni. «Credo nella vitalità di Goldoni – mi diceva l’altro giorno – perché credo nell’universalità dei caratteri che Goldoni ha disegnato con acuto spirito di osservazione, credo in Goldoni perché le sue scene, le sue commedie, sono di un’attualità davvero sconcertante. Ma quello che preme soprattutto rilevare […] è la musicalità goldoniana. Goldoni è musi- cista; e non si può interpretare, a mio avviso, Goldoni con fedeltà senza tenere in massimo conto questa sua musicalità. Con ciò – precisa meglio il regista – non voglio dire che il commediografo veneziano debba essere interpretato come autore da balletto, da autore lezioso, perché i suoi personaggi restano intimamente veri e di ogni giorno. Ma soprattutto, quel che più interessa è restare fedeli a Goldoni; non interpretarlo arbitrariamente. [a questo punto Trezzini chiede a Lodovici una riflessione sul valore di Goldoni come scrittore polemico e sociale. Lodovici dice che la tradizione ottocentesca lo aveva sminuito trascurando proprio questi aspetti ma che anche l’errore opposto di chiuderlo in una tale prospettiva era limitante e lontana da una giusta interpretazione di Goldoni] «Dobbiamo evitare – conclude acutamente Lodovici – di rappresentare un Goldoni sofisticato con presunti significati intellettualistici; bisogna evitare il travisamento della drammaturgia goldoniana, con idee troppo rivoluzionarie, nel tentativo di scoprire “quello che infondo non c’è”. Quando Goldoni ha voluto fare polemica ha scritto Il teatro comico, quando ha voluto affrontare deliberatamente questioni sociali ha posto mano a Il feudatario e a Le femine puntigliose» [Qui Trezzini continua a passare in rassegna le opere goldoniane. In chiusa all’articolo afferma, dunque, che Goldoni è un problema “nazionale” e riporta quale esempio di operazione cosciente di ciò il tentativo, ostacolato, di Baseggio di aprire una Casa Goldoni. La ricorrenza del duecentocinquan- tenario dovrebbe secondo Trezzini essere non solo “accademica” ma stretta alle varie questioni che riguardano tutta la nazione, tutta la rete di luoghi che mantengano la tradizione goldoniana come fatto vivo, attivo, tra questi la riapertura del San Luca, la stessa Casa Goldoni.]79
79 Ibid. Gli omissis e gli incisi riassuntivi tra parentesi quadre sono miei. 188 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
Riguardo il detto accenno alla danza, ai fini del nostro discorso quel che può venirci di qualche conto notare è quel parlar di ‘leziosità’ a proposito dell’auto- rialità relativa al mondo del balletto, come spia di quell’effettiva leziosità che, nonostante passaggi significativi e importanti di coreografi d’altro segno in Italia, e d’altre esperienze danzanti, doveva essere ancora una caratteristica, in qualche modo ‘familiare’, e di certo un rischio negli approcci possibili ad un Settecento più di maniera. (Non va nemmeno dimenticato che lo stesso Goldoni, relativa- mente ai suoi tempi, non mancò di spirito ironico verso un certo intendimento del balletto d’école, come ad esempio possiamo vedere nella sua commedia Scuola di ballo). Milloss era tra coloro che avevano svolto, tra alterne vicende, tra mutazioni e recidività proprie del nostro paese, un’opera di rilievo per gli svolgimenti della danza in Italia nel Novecento, per la rivalutazione e il rispetto del Balletto in quanto arte specifica; un’arte che a buona ragione andava ricer- cata, riscoperta, tra le radicate tradizioni nostrane le quali avevano dato origine e forti contributi alle vicende del balletto, e che andavano ravvivate con nuove creatività; un’operazione non slegata da ciò e nondimeno importante era stata quella alimentata da Milloss per il miglioramento sociale, culturale, artistico dei danzatori. Ancora su «Paese Sera», il giorno successivo all’articolo di Trezzini, un altro intervento80 annunciava proprio la serata di balletti all’Opera, aprendoci al retroscena dei danzatori, riflettendo sui limiti degli ‘spazi’ concessi al balletto, e segnalando sin dal titolo proprio il miglioramento artistico del corpo di ballo dell’Opera nonostante le persistenti difficoltà. «Questa sera tre novità di balletti al teatro dell’Opera / Vedremo danzare in punta di piedi / Mirandolina, Don Chisciotte e Marsia / Il pubblico mostra un crescente interesse verso la danza ma occorre che questo genere di spettacolo venga aiutato e favorito – Tra le difficoltà che ne impacciano il lavoro il corpo di ballo dell’Opera ha raggiunto un buon livello artistico». Leggiamone alcuni passaggi:
[…] Sulle tavolacce dell’augusto sottotetto i ballerini dell’Opera – il copro di ballo e i solisti – si esercitano per quattro ore al giorno, secondo l’orario. Ripassando il loro repertorio, apparecchiano in pochi giorni le opere che man mano si rappresentano e allestiscono i balletti che vanno in scena ad ogni sta- gione. Adesso stanno dando gli ultimi tocchi al secondo spettacolo di balletti di quest’anno, che avrà luogo questa sera. Erano parecchi anni che all’Opera non si rappresentavano due gruppi di balletti in una sola stagione. La prima serie ha avuto inizio il 19 gennaio e conta già un numero di sette repliche, un record che soltanto un’opera popolarissima come l’Aida riesce a raggiungere. Per i nuovi balletti sono previste altrettante repliche e molto facilmente verranno ripresi
80 I. MUSIANI, Vedremo danzare in punta di piedi Mirandolina, Don Chisciotte e Marsia, «Paese sera», 12-13 marzo 1957, p. 3 GOLDONI IN SCENA. 189
quelli precedenti. L’affluenza del pubblico è stata sin qui soddisfacente: una diurna domenicale ha registrato persino un «esaurito». Le varie polemiche degli ultimi tempi sulla danza hanno indubbiamente acceso la curiosità del pubblico verso questa forma d’arte. I ballerini inceppati da una ingiusta legge che umilia e minimizza le loro capacità artistiche, hanno trovato, in questo fervore di pubblico e di stampa a loro favore, un motivo di ripresa. Le prove si sono intensificate e il livello tecnico del corpo di ballo si è elevato notevolmente. Purtroppo la crisi degli enti lirici ha colpito duramente anche il balletto del Teatro dell’Opera: forse saremmo giunti allo spettacolo settimanale di balletti, desiderato da tutti i danzatori dell’Opera e da buona parte del pubblico. Il primo gruppo di balletti si componeva di due riprese: «Petrouchka» e «Bo- lero» e di due novità «Bacco e Arianna» e «Estro arguto». […] Lo spettacolo di questa sera comprende tre opere di autori italiani: «Marsia» di Dalla piccola, «Il ritratto di Don Chisciotte» di Petrassi e «Mirandolina» di Bucchi. «Mirandolina» è tratto dalla goldoniana «Locandiera» e sarà in- terpretata da Attilia Radice, prima ballerina assoluta del Teatro dell’Opera. Di «Marsia» sarà protagonista Filippo Morucci. Filippo Morucci appartiene ai balletti dell’Opera sin dalla loro creazione, che risale al 1928. Nel primo spettacolo di balletti ha sostenuto con bravura una difficile e importante parte nel «Petrouchka» di Strawinsky. In questo secondo, vestirà i panni di Rancho, nel «Don Chisciotte», e diventerà addirittura una falsa contessa in «Mirandolina». Quest’anno ci dice Morucci, il lavoro si è intensificato: «Il guaio è che dobbiamo intercalare questi balletti con quelli delle opere – affer- ma l’artista – ai quali pure dobbiamo prender parte. Se ci si potesse dedicare soltanto ai balletti i risultati sarebbero certamente migliori. Invece, quando ci sono le opere, dobbiamo trascurare i balletti, perdendo tempo prezioso e annullando in parte il lavoro già compiuto. In questi ultimi tempi abbiamo faticato parecchio, arrivando a provare nove-dieci ore al giorno. Provo da solo la mia parte per due ore, poi faccio altre due ore col gruppo delle ninfe, altrettante con le Muse e Apollo (il balletto «Marsia» racconta del mitico rivale di Apollo) e, infine, provo con l’intero corpo di ballo». Morucci è con- vinto che il pubblico sia abitudinario e che abbia bisogno di essere educato a questo genere di spettacolo per appassionarcisi e non lasciarlo più. «Negli anni scorsi, invece, abbiamo fatto saltuariamente spettacoli di balletti, certe stagioni interrompendoli addirittura. Ora che li abbiamo ripresi con una certa regolarità, il pubblico comincia a seguirci con interesse». […] il tempo incalza, fra poche ore si va in scena: ognuno cerca soltanto di indovi- nare quale sarà il giudizio del pubblico, un giudizio assai temuto perché a volte si manifesta diverso dalle previsioni dei «tecnici». Domani, invece, i solisti e il corpo di ballo dell’Opera si troveranno di nuovo nell’angusto sottotetto, e cominceranno chi a ripassare e chi a studiare nuove parti, pensando a tutto ciò che manca a dare soddisfazione e successo al loro lavoro. Ivana Musiani81
81 Ibid. 190 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
Nel ripercorrerne la storia di Milloss in territorio italiano, iniziata negli ultimi anni ’30 del ’900, sappiamo che le vicende relative al suo rapporto col teatro romano avevano avuto largo spazio, rilievo, e sostenuto in lui un peculiare affetto verso tale luogo. Dopo una prima breve esperienza al te- atro S. Carlo di Napoli nel ’36-’37, era stato proprio all’allora Teatro Reale dell’Opera di Roma, dove fu chiamato dal direttore artistico Tullio Serafin, che era cominciata la sua attività in Italia e il riconoscimento del valore della sua presenza, della sua operazione artistico-culturale; tanto che era stato dal 1938 al 1945, per sette successive stagioni teatrali, coreografo stabile, finché con lo scoppio della guerra, vicende non del tutto chiare interruppero tale continuità. In quegli anni, interagendo con gli artisti più originali e meno artisticamente chiusi in vecchi schemi, Milloss, forte proprio di quella continuazione del suo ruolo, aveva lavorato nel ritrovare per il balletto italiano un suo spazio e un suo rilievo che non fosse più soltanto quello che per la maggiore nei teatri lirici lo vedeva sia burocraticamente che artisticamente vincolato e subordinato alla rappresentazione operistica alla quale solitamente seguiva in coda di serata e/o comunque fungeva da divertissement per il pubblico, mancando di un riconoscimento esso stesso quale opera d’arte e fatto culturale; cosa questa che si confermava nella quasi consuetudinaria mancanza di riprese dei nuovi balletti, al di fuori della stagione per cui erano stati prodotti, solitamente in numero di non più di due creazioni, con la conseguente mancanza della costituzione di un repertorio e di stagioni propriamente di danza; inoltre la stessa critica non contribuiva a svincolare il balletto da una tale circoscrizione mancando un piglio specialistico al fenomeno danza, per cui erano assenti dei veri e propri studi storici e divulgativi; di solito, laddove accadeva, la danza veniva valutata in una prospettiva musicale. Milloss era riuscito con la sua attività all’Opera a creare delle serate esclusivamente di balletto, artisticamente coerenti e autonome, e delle ricorrenze; aveva portato sulla danza l’attenzio- ne dell’opinione pubblica; e nondimeno significativa sarà la sua presenza in città che ospitavano sedi e manifestazioni centrali nella vita spettacolare del paese, come Firenze (ricordiamo il Maggio Musicale), Venezia (La Biennale), Milano (La Scala). Nel secondo dopoguerra, tuttavia, per quanto riguarda i primi rapporti ripresi da Milloss con Roma si era verificata una situazione incongrua rispetto a ciò che era stata fino a qualche anno addietro la dinamica di compartecipazione tra l’ambito romano e l’artista; situazione ora alquanto diversa anche rispetto a quello che si stava invece rivelando l’interesse verso di lui nello stesso territorio italiano alla Scala di Milano o all’estero, come in Francia, Inghilterra. Riguardo questo mutato scenario la Veroli osserva: «[…] nella Roma che GOLDONI IN SCENA. 191 aveva applaudito la rinascita del balletto durante gli anni del conflitto, una quasi generale levata di scudi dei critici contro quest’arte attendeva la prima serata che Milloss allestiva nel dopoguerra al Teatro dell’Opera. È la fine di gennaio del 1948. Molti nuovi nomi firmano le recensioni su giornali in cui probabilmente ha avuto luogo una “epurazione” dei vecchi collaboratori. Ed i nuovi mostrano una sensibilità che va indietro di almeno dieci anni. Chi definisce il balletto “una forma intermedia tra la musica sinfonica e l’opera”, chi esclude che l’estetica della danza possa “farsi strada in un ambiente di musica colta, autosufficiente”, chi si compiace del fatto che “in Carnevale uno spettacolo tutto di balletti, a prima vista, non sembra azzardato”, chi (addirittura Giorgio Vigolo, critico musicale de «Il Mondo» di Panunzio) ritiene che “l’estetica del balletto appare oggi come un pericolo per i nostri artisti migliori, come un male ambiguo che rode le radici del loro albero…”».82 Permanenze di tali atteggiamenti ritroveremo ancora a dieci anni di distanza e in buona parte della stampa romana relativamente alla nostra serata di bal- letti del ’57; e sullo stesso «Paese sera» del 13-14 marzo, che pur un giorno prima, in quell’altro articolo da me citato, l’aveva annunciata illustrando uno scenario che dava invece luce di merito, in qualche modo, a quella che era stata la ripresa attività di Milloss all’interno del corpo di ballo dell’Opera, menzionandone i balletti già rappresentati, e attraverso i racconti degli stessi danzatori sul loro lavoro dietro le quinte. Va tuttavia ricordato che dopo le qui accennate vicende al primo non favorevole ritorno a Roma del ’48 e il passaggio poi di Milloss per altre esperienze molto meglio accolte anche nella città stessa (come nel ’51), a richiamarlo con forza al teatro dell’Opera nel ’56 con la motivazione forte di risollevare un corpo di ballo di nuovo penalizzato dall’assenza d’un repertorio ricorrente proprio di balletto per cui adoprarsi, era stata una singolare petizione; essa, come ancora riporta la Veroli, vedeva le firme congiunte, oltre che di danzatori ‘storici’ di Milloss, come Attilia Radice, di molti dei più significativi artisti e intellettuali dell’epoca come i musicisti Petrassi, Scaglia, Previtali e Vlad, musicologi come Fausto Torrefranca, Mario Rinaldi e Fedele d’Amico, registi come Renato Castella- ni, Corrado Pavolini, pittori come Scialoja, Guttuso e Dario Cecchi, critici d’arte e di teatro come Cesare Brandi, Silvio d’Amico, a altri come Gino Tani, Olga Resneviˇc. Tra questi, Silvio d’amico, Fedele D’amico, Gino Tani, avevano, tra l’altro, collaborato ancora a Roma dal ‘50 all’Enciclopedia dello spettacolo, ampliando e perfezionando in tale avventura, proprio in rapporto con Milloss, la conoscenza e competenza relativa alla danza: l’artista aveva
82 Ivi, p. 311. 192 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO infatti significativamente partecipato alla sezione-danza del lavoro e in gran parte l’aveva determinata, impostata nel piano, interagendo, dando preziose indicazioni bibliografiche e compilando esso stesso alcune voci. Operazione questa che contribuirà ad indicare una strada, un approccio metodologico verso la formazione di quei critici e studiosi che sosterranno un’operatività più accorsata, e duratura nel tempo verso tale arte, una valu- tazione e un confronto più lucido e ‘storicizzato’ di prospettive, una consa- pevolezza delle specificità tecniche della danza, e un’attenzione tanto verso la considerazione delle produzioni ‘nostrane’ in una prospettiva autoctona quanto in rapporto alle produzioni e alle intersezioni con l’estero. Tra i ‘nuovi’ critici troviamo Gino Tani, da musicologo passato totalmente a studioso di danza proprio con l’esperienza dell’Enciclopedia, quale firmatario delle note introduttive al nostro programma di sala dei balletti del ’57; ruolo questo ‘commissionatogli’ da Milloss a partire dal 1951, in occasione della messa in scena romana de La soglia del tempo, e da allora per lo più ricorrente. Ciò rende per noi più prezioso un tale documento per avvicinarci al senso, alle linee di forza che attraversano la composizioni coreografiche di Milloss, tenuto conto che l’artista intendeva in tal modo affidare la sua visione alla trasposizione di Tani, il quale non manca nel programma stesso dall’indicare il dialogo che ne prelude la tessitura dando spia in alcuni punti di ciò che scaturisce direttamente dal colloquio col coreografo e di ciò che è invece una sua più personale opinione sui balletti presentati. Il programma di sala83 si apre con una sintetica nota biografica sulle geogra- fie teatrali percorse da Milloss nella sua carriera fino a quel momento. Alcuni elementi ricorrono e sottolineano in tale nota una specialità del rapporto di Milloss con l’Italia; mi riferisco a quegli elementi che esplicitamente insistono su una certa ‘italianità’ intesa come qualcosa che caratterizza e diventa parte di rilievo del bagaglio fondante vasta quota dell’attività di tale artista e verso la quale lui si porrebbe con predilezione. Un primo elemento lo si ha già nel nome italianizzato «Aurelio» il quale, è noto, fu ben voluto da Milloss stesso; l’Italia viene poi indicata come terra che lui «scelse come sua seconda patria» e dove lavorando per i maggiori poli artistici del paese e in collaborazione con «molti tra i maggiori musicisti e pittori italiani», ritorna qui l’aggettivo, ha contribuito fortemente nel realizzare un «significativo repertorio di balletti italiani moderni» quanto a immettere tale repertorio in circuito internazionale. Proseguendo nella lettura delle note di Tani nel programma di sala vediamo, dunque, questo rapporto di Milloss con l’italianità precisarsi e darsi quale
83 Il programma di sala è conservato presso l’archivio del teatro dell’Opera di Roma. GOLDONI IN SCENA. 193 fattore indicativo rilevante per la proposizione e la ‘lettura’ della stessa sera- ta di balletti che, già notammo, vengono annunciati proprio come «Balletti italiani». Leggiamo infatti:
TRE BALLETTI ITALIANI Lo spettacolo di questa sera è tra i più completi e rappresentativi dell’arte di Milloss e basterebbe a porlo senz’altro a fìanco dei massimi esponenti della coreografia contemporanea: tra i maestri dei “Ballets Russes”, Massine e Balanchine, quelli inglesi e francesi di miglior fama, come Ashton, De Valois, Tudor, Kranko, Petit e gli americani Robbins, De Mille, Kidd, Dollar, Bolender. Esso infatti presenta accanto a un balletto di nobile ispirazione, che sublima l’ordine classico, l’estro lirico, lo spirito apollineo nel più tragico antagonismo (Marsia), e ad un ballo di sconcertante originalità, che cadenza su uno dei temi più epici e grotteschi della “Weltlitératur” con un moderno e audace ripensamento della materia (Ritratto di don Chisciotte), la trasposizione della più celebre commedia goldoniana in chiave argutamente e rapidamente coreografica (Mirandolina). I tre balletti, che costituiscono, nell’ordine, la ripresa di una prima italiana, la riproduzione di una prima francese e una novità assoluta, sono costruiti su originali musiche italiane, si giovano di scene e costumi italiani e sono danzati da elementi italiani, grazie all’impulso animatore di un artista la cui più alta ambizione è tesa a realizzare uno stile nostro, classico e “mediterraneo”, come egli si compiace di definire il meglio della sua vasta e molteplice attività italiana. Il programma di oggi offre pertanto una sintesi eminentemente rappresentativa di questo “stile mediterraneo” che, attraverso un’evoluzione ormai ventennale, è alla base della rinascita ballettistica italiana.
L’insistenza sull’elemento ‘italiano’ da un lato si chiarisce come fatto non di chiusura, ma come degno per creazioni di un livello quale quello dei ma- estri più rilevanti della coreografia contemporanea; dall’altro si fa elemento di distinzione non limitante perché proprio in quanto tale significativo per radice e forza: fatto culturale d’assunzione, costitutivo, prolifero, di uno «stile nostro» che si specifica nel suo spessore artistico-culturale quale «classico e “mediterraneo”». Quest’ultimo termine, dice Tani, è di Milloss. Per ben com- prendere tale affermazione e ben valutarne il peso e l’incidenza nella genesi e modulazione coreografica della nostra Mirandolina dobbiamo affondare in quello che è il percorso culturale di Milloss, e considerare come i vari poli, le varie linee di tensione si convogliano e interagiscono nella sua peculiare visione, approccio ed elaborazione, d’artista della danza. Mi riferisco a quel percorso che vede Milloss far entrare in sinergia sul piano ideale quanto compositivo e in ultimo stilistico, la sua cultura natale, la nostrana tradizione del balletto classico, e la più antica greco-latina. Da un lato abbiamo la sua 194 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO prima formazione mitteleuropea pregna di sensibilità alle dimensioni espres- sionistiche, aperta alle nuove concezioni della danza libera, alle costruzioni di un nuovo approccio, rispetto a quello accademico, verso la formatività del corpo danzante, verso le sue possibilità estetiche quanto etiche; troviamo l’attenzione e la conoscenza, quanto un’interpretazione poi tutta millossiana, della peculiare concezione labaniana della concezione e ‘scrittura’ danzante del corpo energetico; ma oltre all’espressionismo e alla danza libera c’è nella formazione di Milloss la consuetudine col classico di Gsovsky. D’altro lato, troviamo così il Nostro in un percorso di interpretazione, rivalutazione e proposizione del balletto classico radicato nelle vicende della danza italiana, come fatto non antipodico e altero alle dimensioni dette, ma piuttosto come possibile punto di partenza per una nuova elaborazione danzante; elabora- zione che veda il fuoco espressivo fondersi nel nitore cristallino d’una gestica danzante di valenza comunicativa universale; un incontro, un’interazione questa, una ricercata possibilità di sintesi che ritrovando il senso originario della classicità non in una segnica statica e sterile nella sua programmazione grafica, ma nella dialettica delle forze intese nella risoluzione stessa della forma e che affonda nelle problematiche attinenti a un’idea di classicità che dalle civiltà greco-latine fu giocata tra dionisiaco e apollineo.84 Milloss mirerà a fondare e fare della ricerca artistica, della formatività danzante stessa, una qualcosa che guarda alle possibilità di compiere un atto che tenda all’incontro di «pathos» ed «ethos», laddove la classicità si dia quale sublimazione poietica che porti nell’estetica, quale idea sintetica e universalistica, messaggi umani di valenza per l’appunto etica e, in qualche modo, eterna.85 La mediterraneità diviene in tale visione come il bacino convogliante questi 84 Nel 1978 Milloss, ripercorrendo il percorso della danza in Italia, considerando il problema attraversato dal balletto classico di restare imprigionato nella sua ricer- ca del bello, dell’estetica, nel manierismo sterile della forma perdendo il possibile legame con la natura dionisiaca osserverà: «[…] Non è vero forse – come infiniti casi lo hanno già nelle varie civiltà artistiche, anche in quelle antiche mediterranee, dimostrato – che il “bello” può essere rappresentato anche da espressioni di carattere dionisiaco e quindi non esclusivamente da espressioni di carattere apollineo? Ma vero è anche che in un momento in cui si tratta di definire i precetti tecnici ed estetici della danza vista nell’atemporale (astratto) valore delle sue prospettive sott’ogni punto di vista universalistiche – i principi non possono essere altro che corrispondenti a una concezione spirituale definita nel segno di una autentica sintesi di ambedue questi indirizzi ideologici […]» (A. MILLOSS, Cecchetti, Blasis e la tradizione del Balletto (1978), in ID., Coreosofia: scritti sulla danza, a c. di S. TOMMASINI, Olschki, Firenze 2002, p. 159-160). 85 Non si tratterà per Milloss di una semplice questione di sintesi ma sarà in più luoghi dichiarata presa d atto – e qui più forte si fa sentire la matrice espressionista – di una più complessa realtà della quale la visione sintetica è solo l’ideale tensione di un percorso conti- nuamente costretto a ripassare per riaccensioni, opposizioni, ricomposizioni. GOLDONI IN SCENA. 195 diversi poli di tensione; diviene, al fine, la possibilità di un incontro prolifero tra la mitteleuropa e l’‘italianità’ e forse come osserva la Veroli: «Per Milloss la classicità fu anzitutto un sogno, un mito personale: la sua patria ungherese, da secoli tesa verso la mediterraneità – almeno nelle aspirazioni di tanti suoi artisti ma anche del ceto nobiliare cui Milloss apparteneva – ne fu in parte responsabile, ma giova ricordare che altrettanto non accadde all’ungherese Laban, il quale solo a parole pronunciò per una sintesi delle tecniche, ma nei fatti propugnò, insegnò, diffuse e praticò fino alla fine della sua attività in Germania una danza libera aliena ai canoni classici.[…]».86 Cosa che lo stesso Milloss nel 1981 in un Discorso sull’evoluzione storica del balletto in Italia parlando del suo ‘viaggio’ personale che lo ha portato ad assumere nella sua visione d’artista della danza il valore dei percorsi del balletto italiano, sembra poi osservare laddove tra le tante cose dice: «La mia formazione spirituale si è svolta, per tradizioni familiari, nel segno dell’umanesimo delle antiche civiltà greco-latine».87 Tornando ora alla serata di balletti italiani, se fu più facile per la critica provare un riconoscimento dello stile millossiano nel, tra l’altro già noto, Marsia, i giudizi furono più vari e non privi di una certa perplessità per Ri- tratto di Don Chisciotte, e in particolare, per ciò che attiene più strettamente il nostro discorso, verso lo svolgimento del soggetto e la composizione di Mirandolina. Molti sottolinearono in questo balletto di Milloss l’argutezza, la vivacità, propria del genere della commedia, una resa giocosa svelta e per lo più leggera, ma, se ciò è ben vero, possiamo oggi pur dire che approccia- rono con un certo limite al senso delle scelte e delle modalità propriamente coreografiche di Milloss nella trasposizione della drammaturgia goldoniana; e in particolar modo ci tornerà interessante riflettere sulla questione relativa all’avvicendarsi di momenti di vere e proprie danze, balli, a momenti di ca- rattere ‘pantomimico’. Tra gli altri Massimo Mila che, pur non essendo uno specialista di danza, prova una delle recensioni88 più attente alla nostra ‘serata di balletti’, col- locandola in un contesto e un percorso in cui per molti versi ritroviamo le fila che fin qui abbiamo seguito, dice di Mirandolina che mancherebbe, nel passaggio dal fatto ‘letterario’ a quello ‘coreografico’, di quelle tensioni più
86 VEROLI, Bilancio critico dell’eredità di Milloss: un maestro senza eredi?, in AA. VV., Creature di Prometeo: il ballo teatrale dal divertimento al dramma: studi offerti a Aurel Milloss, a c. di G. MORELLI, Olschki, Firenze 1996. 87 MILLOSS, Discorso sull’evoluzione storica del balletto in Italia (1981), in ID., Coreosofia, cit., p. 179. 88 M. MILA, Al teatro dell’Opera è rinato da zero il balletto italiano, «L’Espresso», Roma, 31 marzo 1957, III, 13, p. 19. 196 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO propriamente espressive di Milloss le quali altrove fondano il nucleo ‘dram- matico’ e caratteristico delle sue composizioni coreografiche:
AL TEATRO DELL’OPERA È RINATO DA ZERO IL BALLETTO ITALIANO Roma. – La rinascita del balletto è un fenomeno incontestabile nella vita arti- stica di questo primo decennio dopo la guerra. Dappertutto rifiorisce un serio interesse per la danza, che si riscuote dal sospetto di frivolezza edonistica in cui era tenuta, e si allinea sullo stesso livello di dignità artistica riconosciuto alla musica e allo spettacolo teatrale in genere. […] essa [la danza] propone un linguaggio elaborato e antichissimo, governato da leggi lungamente sviluppate, linguaggio decisamente più difficile che quello della parola. La ripresa della danza è stata particolarmente sensibile in Italia, non, purtrop- po, per altezza assoluta di risultati, ma per il bassissimo livello del punto di partenza. Dopo i gloriosi contributi che il nostro paese aveva dato a quest’arte nei secoli passati, essa vi era di recente caduta in un abbandono così pauroso, da doversi ora parlare piuttosto di scoperta che di ripresa. Carattere di scoperta hanno avuto i personaggi, sempre più frequenti e sempre meglio apprezzati, delle grandi compagnie coreografiche inglesi, francesi, americane, e di danza- tori russi, tedeschi, spagnoli e dell’Estremo Oriente. A poco a poco ci siamo aperti a questo linguaggio elusivo del corpo umano, la cui grammatica, non scritta, non si può apprendere che con la familiarità, e a poco a poco sono cominciate a fiorire anche da noi le iniziative, mentre si ravvivavano i due focolai superstiti e mai del tutto penti dell’arte coreografica in Italia, cioè le compagnie di ballo della Scala di Milano e del Teatro dell’Opera di Roma. Non si esagera affermando che Aurel Milloss è stato l’anima e il motore di questa ripresa della danza in Italia. Questo ungherese irrequieto e malinconico, formatosi alla coreografia nel contatto con le più avanzate scuole dell’Europa centrale (Gsovsky per la danza accademica e Laban per quella libera) ha fatto del nostro paese la sua seconda patria e dal 1938 in poi lo troviamo ora all’Opera di Roma, ora alla Scala, ora al Festival della Biennale di Venezia, ora al Maggio Musicale Fiorentino, sempre generosamente e utopicamente impegnato in imprese d’un livello superiore al gusto ambientale e alle possibilità d’un’insufficiente materia prima. Da due anni il Teatro dell’Opera gli ha affidato la realizzazione di spettacoli coreografici, l’ultimo dei quali, di recente andato in scena, allinea tre balletti originali nati dalla collaborazione di Milloss con altrettanti musicisti italiani contemporanei. Ed è già un risultato positivo la creazione d’un repertorio che consenta uno spettacolo come questo, senza ricorrere a riesumazioni di lavori stranieri o a coreografie posticce, applicate a posteriori su musiche da concerto. “Marsia” per la musica di Dallapiccola, il “Ritratto di Don Chisciotte” per la musica di Petrassi, e la nuovissima “Mirandolina”, tratto dalla “Locandiera” di Goldoni per la musica di Valentino Bucchi, sono altrettante manifestazioni dell’ideale coreografico di Milloss, che mira ad una fusione delle due tendenze GOLDONI IN SCENA. 197
opposte nelle quali pareva si dovesse divaricare la danza in questi ultimi tempi: la tendenza classico-accademica, del balletto inteso come un regolato arabesco inserito nello spazio a suon di musica, e la tendenza espressionistica, che evade dalle vecchie leggi tradizionali della danza classica. Di queste vecchia leggi, e delle formulazioni ch’esse, trovarono nei maestri italiani dell’Ottocento, Milloss è un sincero ed appassionato estimatore; la spinta a riannodarsi alla saggezza classica di quella tradizione è forse determi- nata in lui da un bisogno d’equilibrio. Ché la carica espressionistica di Milloss è forte, e nonostante la sua volontà di contemperare le opposte tendenze, non si potrebbe affermare che la sua concezione coreografica sia equidistante dagli estremi del puro arabesco classico e della narrazione pantomimica. La danza non resta scopo a se stessa nelle sue creazioni, ma viene subordinata ad una volontà narrativa, carica d’intenzioni psicologicamente espressive. Per l’eccel- lenza della partitura musicale, per la scelta felice d’un soggetto quant’altri mai adatto alla estrinsecazione visiva, e nello stesso tempo capace di alti sottintesi, “Marsia” resta una delle realizzazioni meglio compiute di questo ideale: le ra- gioni narrative non soffocano mai l’autonomia del linguaggio coreografico, ma al contrario se ne servono con completa funzionalità, realizzando veramente ciò che il titolo dell’opera promette, cioè un “balletto drammatico”. Il “Ritratto di Don Chisciotte” si presenta come un “mistero coreografico”, e la stessa dicitura tradisce l’estetismo letterario che ne indebolisce la concezione: “Marsia” ha la forza significante di un mito, dove s’incarna un tema altissimo come il rapporto tra l’uomo e la divinità, mentre questa storia d’un uomo che voleva imitare Don Chisciotte (il quale a sua volta voleva imitare i cavalieri erranti) soffre d’una specie di petizione di principio. Perciò il balletto non ha quella efficacia persua- siva che dovrebbero conferirgli il valore della partitura di Petrassi e la preziosa qualità pittorica delle scene di Afro. L’impronta specifica del gusto di Milloss è meno evidente in “Mirandolina”, dove, naturalmente, va perduta ogni traccia della caratterizzazione psicologica di Goldoni, essenzialmente verbale, e non rimane che la trama come pretesto d’un allegro, ma lungo divertimento scenico nel genere comico della “Gaîté parisienne”. Per questo spettacolo Valentino Bucchi ha scritto una musica ricca di sollecitazioni ritmiche e caratterizzata dal frequente impiego solistico degli strumenti. Nella scena luminosa di Bruno Caruso, la presenza di una autentica danzatrice come l’intramontabile Attilia Radice, solleva il livello esecutivo dello spettacolo, che soffre in genere della carenza di materia prima. Al suo fianco si distingue Walter Zappolini, anche protagonista del “Don Chisciotte”: peccato non possa essere onnipresente, ché la sua presenza si fa sentire nel “Marsia”, per quella parte di Apollo ch’egli aveva creato con nobiltà e prestigio alla prima esecuzione, nel ’48, a Venezia.89
Una tale interpretazione resta vincolata proprio alla coerenza del discorso che Mila (in un tentativo certo di non poco valore all’epoca per gli sviluppi della critica verso la danza) cerca con organicità di costruire nella sua analisi; tuttavia
89 Ibid. 198 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO l’abbiamo qui riportata perché ci è utile in quanto individua e ci invita all’at- tenzione su un problema primario ineludibile e fondamentale con cui Milloss ha naturalmente fatto i conti nella composizione di Mirandolina: il rapportarsi ad un codice altro dal codice della danza: riconoscimento di un’alterità e di un’autonomia compositiva del Balletto rispetto alla scrittura drammaturgica e, al tempo stesso, di un confronto fatto da parte del coreografo d’un ‘come’ e d’una peculiare soluzione. Prima di entrare nel merito specifico della composizione di Mirandolina mi soffermerei su uno scritto di Milloss nel quale, all’interno di un’articolata riflessione su tali problematiche, in particolar modo centrata sul problema del rapporto del ‘drammaturgo di danza’ rispetto alle opere di Shakespeare, il coreografo accenna in modo significativo a quella nondimeno correlata faccenda delle opere goldoniane. Tale scritto, nel suo intero è molto eloquente nell’illustrare e sviluppare l’idea di percorso compositivo di Milloss. Invitando, dunque, il lettore ad una lettura integrale di esso, cito di seguito, in quota utile al nostro discorso, Il problema del balletto shakespeariano (riflessioni critiche sulle parole di Stendhal).90 Premetto che tale scritto, come indicato dal traduttore italiano, manca di data nella sua originale versione dattiloscritta (come c’è giunto): Das Problem des “Shakespeare-Balletts” (Kritische Beiträge zu den Anregungen Stendhals) ciò impedendoci di determinare la vicinanza temporale di tale teoresi rispetto al Mirandolina; tuttavia, se pure si collocasse a una distanza di molti anni, resta per noi non sprovveduto trovare in questo scritto coerente ed efficace utilità per la ‘lettura’ del nostro balletto: dell’ap- proccio di Milloss verso la drammaturgia goldoniana, di quali potevano essere le intenzioni in-tese a quella che poi fu la coreografia inscenata;91 tenuto conto che nella sostanza Das Problem des “Shakespeare-Balletts” mantiene come punti di forza e si sviluppa su affermazioni costanti, ricorrenti, del pensiero e dell’approccio di Milloss all’esperienza danzante, nondimeno presenti in altri suoi interventi di cui possiamo percorrere la cronologia.92
[…] Perché sono state soprattutto le tragedie di Shakespeare a ispirare gli au- tori di balletti? Perché la parentela artistica tra i due soggetti è particolarmente stretta. Le tragedie di Shakespeare nella loro ricchezza di fantasia, abbondano di quelle variazioni dinamiche il cui segreto altro non è se non quell’elemen-
90 In MILLOSS, Coreosofia, cit., pp. 117-124. 91 Cosa verso la quale non ci poniamo secondo giudizio di valore – non potendo, tra l’altro, farci spettatori diretti dell’evento nella sua integralità – e valutazione di effettiva corrisponden- za tra propositi del coreografo e una rispettiva ed efficace resa degli stessi nella realizzazione scenica, ma cerchiamo tuttavia di rintracciarli come possibilità comunque insite in una tale creazione, costruzione, per quello di cui abbiamo contezza attraverso le tracce e documenti che ce ne restano a testimonianza. 92 In particolare, tradotti in italiano, vedi la raccolta di scritti in MILLOSS, Coreosofia, cit. GOLDONI IN SCENA. 199
tarità il cui flusso eterno, saltellante, saltante, esplodente e dissolvente, nel suo significato più ampio del termine chiamiamo danza. Danza intesa, però, nel senso drammatico, poiché l’elementarità da poco nominata significa pro- priamente movimento delle diverse forze nello spazio e nel tempo, laddove non si tratta soltanto di semplice armonia, bensì di un insieme di complica- zioni armoniche che sono state richiamate dall’agire autonomo delle singole potenze d’azione, e che si sono sciolte in un’immagine di forza solo nel corso del continuo interagire, negativo o positivo, delle singole correnti, così come vogliono le regole di ogni contrappunto del movimento. Se dunque quanto appena detto sta a indicare il significato drammatico della parola danza, non possiamo fare altro che sottolineare la parentela tra l’universo delle tragedie (così come delle commedie) di Shakespeare da una parte e il mondo del vero autore di Tanzdrama dall’altra. Oltre al più «elementare» tipo di Tanzdrama qui citato, vi è un’altra direzione del teatro di danza: spettacoli di danza di carattere grafico. Nell’arte della lingua troviamo anche in questo caso un riscontro: ossia nelle commedie e nei drammi di Molière, Scribe, Goldoni, Ibsen, Shaw, ecc., troviamo la descrizione approfondita e viva di determinate figure, destini, ambienti, etc. Qui la danza nasce principalmente dalla gestualità. […]93
Relativamente a Goldoni Milloss sembra individuare una potenzialità gestuale insita nello stesso dramma di parola il quale conterrebbe in sé l’indi- cazione e lo sviluppo dell’architettura vettoriale pluripotenziale del movimento scenico; in qualche modo, già nella scrittura verrebbero descritti i ‘geroglifici’ delle risoluzioni dei blocchi dinamici che si dipartono e coordinano in rap- presentazione scenica; le linee forza a partire dal soggetto ‘poietico’ passano per le determinazioni figurali dei personaggi, dei destini, degli ambienti, di tutti gli agenti correlati nell’avvicendarsi della composizione drammatica che in tal modo ne porta in potenza e ne esplicita la risoluzione grafica, il gioco di moltiplicazione e rispondenze delle coordinate energetiche, vitali, del dramma, o ,per dirla con un termine caro a Milloss, quella che in danza diviene la loro dimensionalità dinamica ‘cristallografica’.94 Nella partitura goldoniana la parola che descrive e la dinamica gestuale si ritroverebbero dunque in stretta congiuntura espressiva rispetto alla vitalità ‘elementale’ dei caratteri portanti. In tal senso l’autonoma elaborazione del Tanzdramaturg nel suo rapporto con l’opera goldoniana, si muoverà, trarrà ispirazione, proprio da tale congiuntura e la ‘scrittura’, partitura dei corpi danzanti nella loro figurazione espressiva specifica e nella loro interazione sinergica si definirà analogicamente in rapporto alla partitura gestuale. A questo punto giunge
93 MILLOSS, Il problema del balletto shakespeariano, cit. 94 Cfr. MILLOSS, Coreosofia, cit. 200 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO allora da chiedersi – riprendendo una questione a cui già accennammo – che senso ha la «pantomima», dai più sottolineata in Mirandolina e che rapporto c’è tra questa e quei momenti che vennero indicati invece come danze vere e proprie: guardare a questi due livelli espressivi come fatti sostanzialmente distinti, come due codici differenti, trova un riscontro nell’intenzione di Mil- loss? O sono entrambi manifestazioni che fanno capo, seppur con risoluzioni estetiche varie, allo stesso linguaggio: quello della danza? Una prima risposta sul come non va interpretata la questione possiamo rintracciarla nello stesso scritto tra le accuse mosse da Milloss a coloro che:
[…] hanno superficialmente utilizzato per le loro opere quelle scene tragiche di Shakespeare che meglio si prestavano a essere interpretate in forma di balletto, limitando però i mezzi espressivi ai più banali e concreti mezzi pantomimici; e, per scioglierli in danza, vi hanno inserito a forza «numeri di danza». Dando vita a simili interpretazioni essi hanno spesso dovuto rinunciare a scene cruciali delle opere di Shakespeare che, per la pregnanza espressiva della parola, non risultavano rappresentabili in forma di balletto; oppure, non hanno còlto il vero significato di quelle scene. Cosa ne è derivato? Pantomime orripilanti («Schauerpantomimen») della peggior specie, farcite con divertissements più o meno divertenti o virtuosistici. Tradimento di Shakespeare e al contempo della vera arte della danza. […] Si può dunque di fatto parlare di arte dram- matica anche per la danza, e non solo di arte lirica o nel migliore dei casi di caratterizzazione del movimento; questo, a condizione che la danza rimanga danza, e non venga limitata a una danza incompleta di singole parti del corpo, come nel caso della pantomima. Questo dramma è completamente diverso dal dramma di parola. […]95
Se ciò è vero nella visione di Milloss relativamente al rapporto tra core- ografo e opere di Shakespeare, lo è nondimeno per Goldoni seppure a un livello ‘tanz-drammaturgico’, abbiamo visto, differente, per quanto riguarda le forme, la dimensione espressiva.96 Il problema basilare è sostanzialmente lo stesso: la danza è un linguaggio specifico e autonomo creativamente rispetto alla parola, e ad ogni altro codice espressivo a cui di volta in volta può capitare si rapporti e collabori. Bisogna sciogliere ogni equivoco su cosa nella con- cezione di Milloss poteva essere la pantomima e cosa un livello di gestualità drammatica relativamente alla dimensione danza. Se guardiamo alle recensioni relative alla Mirandolina del ’57 le interpretazioni furono diverse. F. L. Lunghi il 14 marzo in «Il giornale d’Italia»97 partendo da una pro-
95 MILLOSS, Il problema del balletto shakespeariano, cit. 96 Cfr. MILLOSS, Coreosofia, cit. 97 F. L. LUNGHI, Tre balletti italiani, «Il giornale d’Italia», 14 marzo 1957, p. 5. GOLDONI IN SCENA. 201 spettiva d’analisi musicale di quella che lui chiama la Mirandolina di Bucchi sottolinea poi sul piano danzante e ammira in particolare nella protagonista Attilia Radice ciò che definisce «recitar danzando». Ciò che sottolineerei è l’insistenza di Lunghi sul vincolo sia da parte della musica di Bucchi che della coreografia di Milloss con le parole di Goldoni, di cui sarebbero la corrispon- dente trasposizione. Così Lunghi:
[…] Di «Mirandolina» di Valentino Bucchi, in prima assoluta, diremo che c’è uno studio minuzioso di rendere in termini ritmici ed armonici piccanti e la loro parte grotteschi, le insostituibili parole del Goldoni. Una piccola orche- stra messa in gioco ricorrente di urti timbrici che ha sapore di carillon. Una sonatina ed una pausa (il tempo per ricaricarlo), e una preziosità tutta tesa a segnare e risegnare i contorni dei personaggi. […] Milloss ha fatto recitare la commedia con quel modo di condurre le figurazioni, che si è detto ma che qui ha trovato taluni momenti non privi di carattere. Attilia radice è stata una perfetta «Mirandolina», protagonista della commedia, ed ha saputo trovare un’argutissima soluzione con quel suo particolarissimo modo di «recitar danzando» […]98
Il problema del rapporto col dialogo di Goldoni sembra centrale anche nell’aspra critica in «Paese sera» del 13-14 marzo,99 alquanto stroncatoria verso l’intera operazione millossiana, che definisce addirittura il balletto una «piatta parafrasi mimata»:
[…] Quanto a «Mirandolina» di Bucchi, Milloss, con scene e costumi di Ca- ruso, in prima assoluta, diciamo subito che il balletto è una piatta parafrasi mimata del capolavoro goldoniano: un assunto da far tremare! All’assenza del dialogo dovrebbe sopperire una girandola di trovate, di invenzioni o la musica stessa. Valentino Bucchi ha mosso con agio e felicità la piccola orchestra in cui ha trasposto il linguaggio goldoniano, asciutto e frizzante; la partitura è certamente «ballabile». Ma è la fantasia che è mancata all’appuntamento: in tanta frenesia, liti, spostamenti e intrighi di personaggi è sopraggiunta, invisibile e impreveduta, la noia. Insomma, «Mirandolina» ha annoiato ed è la colpa senza remissione per il balletto. Attilia Radice è apparsa in gran forma, ma la parte non l’ha messa in luce. Eccellenti Lauri, lo Zappolini e gli altri… Ma il lettore avrà capito da sé che il corpo di ballo dell’Opera ha bisogno di core- ografi, di lavoro e di guida; lo diciamo francamente, come chi ama e castiga, e lo sa il cielo se non vorremmo anche in Italia una rinascita del balletto, una vera e felice rinascita, non vagheggiata soltanto nelle intenzioni e contraddetta dai fatti. […] In verità, è stato coraggio forse eccessivo metter in scena questi balletti che nulla concedono al gusto tradizionale e chiedono alle orecchie
98 Ibid. 99 p. dl., Balletti all’Opera, «Paese sera», Roma, 13-14 marzo 1957, p. 3. 202 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
una resistenza che solo un allenato pubblico di concerti possiede. Occorre dar atto alla direzione e allo stesso coreografo di tale coraggio, certamente apprezzabile. […]100
Nella prospettiva di Fedele d’Amico, su «Il Contemporaneo» del 23 marzo,101 la «pantomima» sembra servire nel balletto come accentuazione e coloritura non caratterizzante, ma quale una sorta di elemento ‘caricatu- rizzante’, un espediente ad effetto che contribuisce a qualcosa che, svuotata la commedia goldoniana, si presenta come farsesco divertissement, per una leggera comicità «d’abord»:
[…] Tutt’altro il risultato di Mirandolina, riduzione molto sconcertante della Locandiera di Goldoni. La popolana a cui la più saggia civetteria per- mette di far rigar dritti i signori, soddisfacendo contemporaneamente il suo sacrosanto orgoglio femminile, questa creatura tutta realistica e concreta, nel nostro balletto si presenta nientemeno che in tutù corto, a svolazzare subrettescamente da uno stuolo di cameriere, in tutù anche loro, che scu- lettano appresso ad altrettanti «studenti». Il tutto in una scena di Bruno Caruso, che ricorda maledettamente l’interno del carcere dei minorenni di San Vittore. Il risultato è un divertissement piuttosto agiato, punteggiato di pantomima: non avaro di pezzi brillantemente riusciti come numeri a sé (specie certi pezzi di Mirandolina, ammirabilmente sostenuta da Attilia Ra- dice), ma nel complesso, dominato da un farsesco piuttosto facile e insistito. […] l’ispirazione generale del balletto, col suo inesorabile comique d’abord, ha indotto Bucchi a uno strumentale perpetuamente burlesco, che qualche volta sembra forzare la natura delle sue idee musicali di là a se stesse, in un gusto che non è il suo gusto. […]102
Riguardo una sorta di alleggerimento della commedia di Goldoni nella trasposizione di Milloss avevamo visto si pronunciò anche Massimo Mila,103 indicando come motivo di ciò proprio il trasferimento dalla parola alla danza; nella sua prospettiva, il fondamento dello spessore psicologico e caratteriz- zante dei personaggi goldoniani individuato nella dimensione verbale, nel dialogo, andava perduto nel passaggio da un codice all’altro:
[…] L’impronta specifica del gusto di Milloss è meno evidente in “Miran- dolina”, dove, naturalmente, va perduta ogni traccia della caratterizzazione
100 Ibid. 101 F. D’AMICO, L’ispiratore, «Il Contemporaneo», Roma, 23 marzo 1957, IV, 12. Per la complessità e le evoluzioni del rapporto tra Fedele D’Amico e Milloss, rapporto fatto di discordanza, collaborazione, stima reciproca, vedi VEROLI, Milloss, cit. 102 D’AMICO, L’ispiratore, cit. 103 MILA, Al teatro dell’Opera è rinato da zero il balletto italiano, cit. GOLDONI IN SCENA. 203
psicologica di Goldoni, essenzialmente verbale, e non rimane che la trama come pretesto d’un allegro, ma lungo divertimento scenico nel genere comico della “Gaîté parisienne” […]104
Ciò che possiamo dire è che tali affermazioni non funzionano del tutto nell’avvicinarsi a quella che ipotizziamo dovette essere, almeno sul piano della intenzione e visione creativa, la concezione guida di Milloss nel proporre scenicamente talune soluzioni. Voglio dire che quegli ‘spessori’ della scrittura goldoniana di cui alcuni reclamano la perdita, nella visione di Milloss non dovettero davvero perdersi, ne si perse con essi, come invece osserva Mila, quello che altrove sarebbe stato l’approccio espressionista e l’impronta di stile del coreografo. Possiamo infatti dire sull’approccio di Milloss verso Goldoni e il relativo processo coreografico che ne nasce, che da un lato egli coglie a livello del ‘soggetto’ il nucleo dinamico pure psicologico-caratteriale reali- stico, se cosi vogliamo dire, dei personaggi e dei dialoghi tra loro, al tempo stesso concepisce tutto ciò in un livello di spessore espressivo che non scinde il dialogo e il fatto di parola dalla rappresentazione ‘scenica’ dei personaggi: cioè individua un nesso tra il nucleo poetico-drammatico e l’azione gestuale, nella struttura descrittivo-dinamica dei personaggi, dei luoghi, e di quanto ne fonda la commedia, insita nella stessa drammaturgia goldoniana, che diventa centrale nel momento della risoluzione coreografica. Il problema è comprendere innanzitutto che quella dimensione panto- mimica dai più individuata nel Mirandolina di Milloss non va ad intendersi come espediente che sopperisce all’assenza di parola del linguaggio danzante, non si fa spia di una ‘deficienza’.105 Ciò ci diviene chiaro se guardiamo al rifiuto di Milloss proprio di una così intesa definizione di ‘pantomima’ e a quello che invece relativamente alla quota ‘mimica’, ad un livello espressivo drammatico della danza, è il suo richiamo al ‘pantomimo’. In relazione a Goldoni, e a quanto qui appena detto, azzardiamo un’ipotesi che ci viene stimolata da e ci riporta anche alla questione di quella così definita da Milloss «mediterraneità». Voglio dire: aveva forse Milloss, ad un livello diciamo ‘antropologicamente
104 Ibid. 105 Da altre angolazioni, si mosse la riflessione del musicologo Luigi Colacicchi; discorso che se in questa sede sarebbe troppo vasto da analizzare in dettaglio e contestualizzare in un’accorta panoramica delle molteplici prospettive relative a i punti di vista di una critica di impostazione musicale rispetto al fatto danzante, non manco dall’invitare il lettore a cogliere in L. COLACICCHI, Tre esempi di dramma danzato, «La settimana Incom illustrata», X, 12, 23 marzo 1957, p. 71, sezione Musica. Per i rapporti tra Colacicchi e Milloss rimando a VEROLI, Milloss, cit. 204 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO teatrale’, avvertito latente nella commedia, nel comico, di Goldoni, la perma- nenza di quella dimensione d’espressività, pur originalmente sviluppata dal commediografo in dinamica con la sua epoca, nel proprio personale ‘come’ e nel proprio personale stile, di quella vis comica che alcuni hanno definito in qualche modo ‘atellanica’, e che trasferita ad un piano di gestualità e com- posizione ‘danzante’ trovava nella prospettiva millossiana radice altra nel ‘pantomimo’? A tale proposito, per meglio far luce su cosa intendo, e dare quindi un’indicazione di lettura possibilmente e plausibilmente vicina a quale valore (almeno sul piano dell’intenzione) Milloss dovette dare all’evidente livello ‘pantomimico’ nel suo Mirandolina ritornerei al già citato passo in relazione alla questione della «mediterraneità», seguendone qui gli sviluppi del discorso:
[…] La mia formazione spirituale si è svolta, per tradizioni familiari, nel segno dell’umanesimo delle antiche civiltà greco-latine. Col progredire dei miei studi e della mia dedizione alle varie arti e soprattutto alla danza che era l’arte in cui vedevo riflessi più chiaramente i miei ideali, mi divenne chiaro che anche nella danza come nelle arti sorelle, si trattava di due cose diverse che dovevano reciprocamente completarsi: cioè pathos ed ethos. Ciò nelle arti dei greci si rifletteva nella distinzione tra lo spirito da un lato dionisiaco e dall’altro apollineo dell’espressione. E notai anche che all’apice dell’evoluzione delle arti dei greci è stato lo spirito apollineo a risultare vitto- rioso, tant’è che con tale vittoria si è esaurito il messaggio e quindi anche la storia di tale civiltà. Nella civiltà latina o meglio romana, non si verificò una situazione in tutto simile a quella dei greci. Lo spirito apollineo qui è comparso spesso, ma la sua reale vittoria sarebbe avvenuta molto ma molto più tardi della caduta dell’Impero Romano. Mi resi conto che gli ideali artistici dei romani erano stati impregnati per la loro sfrenatezza espressiva, dallo spirito dionisiaco. La danza non si chiamava danza, ma saltatio, cioè un’esaltazione all’infinito del modo di sentire e di agire nell’arte: dovevano saltare, infatti, i celebri mimi dell’età dell’imperatore Augusto, cioè Pilade di Cilicia nelle sue espressioni tragiche e Batillo d’Alessandria in quelle comiche. I loro spettacoli già segui- vano un nuovo genere di teatro, un genere ormai autonomo. È lì che stanno – mi sembra – le radici del futuro genere chiamato balletto. Credo sia difficile iniziare un nuovo capitolo sulla storia del balletto italiano parlando di quanto è successo durante il Medio Evo. Di ciò che è accaduto in tale lunghissimo periodo storico ne sappiamo infatti troppo poco. Bisognerà saltare dunque fino al secolo XIV. Ma il fatto che la danza, anche quella più ideale e sublime, vivesse negli spiriti degli italiani anche in tempi precedenti, lo dimostrano i meravigliosi versi di Dante con cui egli si riferiva alle caròle dei beati nel Paradiso della Divina Commedia. Troviamo dunque nel ’300 i valori concernenti il futuro della danza d’arte GOLDONI IN SCENA. 205
italiana. Avveniva in questo secolo che anche nelle sacre rappresentazioni tramandate dal Medio Evo il gioco si trasformasse in arte. Spettacolari di- vennero pure le danze popolari, le esibizioni dei giullari. E gli spettacoli della Commedia dell’Arte traggono le loro origini sicuramente anche dalle panto- mime danzate romane di Pilade e Batillo. Di livello già certamente artistico divennero anche i ben noti “intermezzi” di danze vere e proprie, esibiti tra gli atti degli spettacoli di commedie classicheggianti nelle varie corti italiane. Artistiche divennero pure le feste mascherate, perché sappiamo che le famose “momarie” veneziane erano già mimate, e non soltanto danzate. Tali erano certo anche i famosi “trionfi”, rimasti memorabili per l’ispirata poeticità delle loro forme maestose, già altamente coreografiche. Tutto ciò indubbiamente in maniera corrispondente alle espressioni poetiche del Petrarca, in cui vibrano valori interiori di dolori, speranza e amore. Non credo di sbagliare, dunque, ritenendo che proprio in questa ricchezza di colori espressivi dovremmo rintracciare la vera natura del balletto italiano.[…]106
Fermo a tale quota la mia citazione non essendo questo il luogo per soffer- marci in dettaglio sull’analisi dell’intero discorso di Milloss; ciò che invece ne ricorderei è il fatto che egli lo prosegue attraverso i secoli, tenendo conto co- stantemente di come viene concepito e giocato, nell’avvicendarsi di concezioni e modalità coreografiche nella storia del balletto, il rapporto tra danza e possibilità di espressione ‘poietico-drammatica’ della danza stessa; di come si definisca tra le varie scelte degli artisti che hanno contribuito al delinearsi di un’arte del balletto, la dialettica tra una dimensione ‘pantomimica’ e una tecnica, un linguaggio, un’estetica specifica della danza come arte; è il problema, in semplici parole, di come nel linguaggio specificamente danzante i due poli dell’espressività, delle correnti espressive, e quello della forma estetica abbiano a interagire. Passando per lo snodo fondamentale che vede nel ’700 le polemiche tra Angiolini e No- verre Milloss giunge a individuare in Viganò il culmine significativo del percorso di riforma che tese a riallacciare il fatto estetico al fatto espressivo, la definizione della forma alla sua sostanza dinamica, se vogliamo, in un linguaggio unitario. Su ciò mi soffermerei riprendendo a leggere Milloss stesso:
[…] Ma il momento del compimento della grande riforma si manifestò solo con l’apparizione di Salvatore Viganò sull’orizzonte dell’evoluzione del balletto della civiltà occidentale e quindi non solo italiana. […] La sua visione della poetica e dell’estetica coreografica era indubbiamente la più universalistica tra quelle finora eseguite. Per lui la danza doveva essere espressiva al punto di vedere in essa totalmente assorbita anche la pantomima. Numeri di danza vera e propria, ovvero di danza puramente formale o decorativa, non potevano
106 MILLOSS, Discorso sull’evoluzione storica del balletto in Italia, cit. 206 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
aver luogo nei suoi lavori, se non quando i soggetti così esigevano. Il suo lin- guaggio era dunque rigorosissimamente inventato per poter corrispondere con assoluta purezza alle esigenze espressive e stilistiche delle sue comunicazioni. Per questo i suoi balletti furono chiamati coreodrammi. […]107
Guardando a Mirandolina, se esso è composto in una forma quale quella del balletto d’azione, se gioca con le forme settecentesche del balletto, non è privo di valore rintracciarvi al tempo stesso una significativa tensione ‘coreodrammati- ca’.108 Potremmo anche dire in un parallelo con la drammaturgia goldoniana che se questa porta in sé, nella propria compiutezza i segni vitali di una dinamica, di un qualcosa che si ricerca e rilancia continuamente sul piano rappresentativo tra tradizioni e riforma, e al tempo stesso si fa spia di mutazioni socio-antropo- logiche latenti nel tempo stesso in cui Goldoni elabora la sua drammaturgia, una sensibilità di tal tipo ritroviamo anche nel Mirandolina di Milloss. E, non a caso, vedremo tra poco nel descrivere questo balletto come in tal senso diventi significativo anche il modo in cui Milloss rielabora e si rapporta col Settecento, con le sue forme: esso non viene filologicamente e ‘archeologicamente’ inteso, ricostruito, ma ogni elemento specifico che ne è richiamato è ripreso in modo ‘libero’ e convogliato in una dimensione ‘drammatica’ incidente, dialogante, con la contemporaneità ‘propria’ al coreografo e alla quale, nondimeno, egli fa diretti, espliciti, richiami. Si determina in un certo senso un rapporto analogico tra il modello e la nuova composizione che si dà come viva nella dimensione delle correnti cinetiche attraverso le quali il coreografo la compone e insieme originale stilisticamente. È fondamentale in tali prospettive ricordare ciò che Milloss dice nello scritto Il problema del balletto shakespeariano sui processi di ri-vitalizzazione, ri-attualizzazione, ri-creazione di ogni nuova composizione di danza nel confronto con un’opera altra di riferimento. Nello specifico del rapporto tra la Mirandolina e La locandiera se torniamo a scorrere le note di Tani nel programma di sala esse ci danno delle indicazioni importanti, che alla luce di quanto detto finora non rischiamo di fraintendere, come dovette invece accadere a talune delle recensioni da noi già riportate relativamente alla serata, nelle quali se si avvertono in certi punti echi dello stesso programma di sala questi sono poi sostenuti secondo altre concezioni. Tra l’altro osserverei riguardo la questione dell’espressività ‘mimica’, su cui abbiam discusso, che Tani doveva aver alquanto chiaro quale valore e quale
107 Ibid. 108 Per comprendere come gioca nella visione millossiana la dimensione «coreo-drammatur- gica» del comporre in danza e cosa Milloss intenda con una tale definizione è interessantissimo leggere MILLOSS, Cecchetti, Blasis e la tradizione del balletto (1978) in ID., Coreosofia, cit., in part. p. 166 e ss. GOLDONI IN SCENA. 207 visione fosse quella di Milloss, se consideriamo che nell’impresa dell’Enciclo- pedia dello spettacolo, che li vide strettamente collaborare con ruolo di fonda- mentale istruzione da parte di quest’ultimo, Tani stesso sarà redattore, tra le varie voci, di: «Pantomima».109 Ma ora seguiamo il programma di sala:
[…] Mirandolina, ispirato, come s’è detto, alla «Locandiera» di Carlo Goldoni, è stato composto non soltanto per la sempre giovine freschezza della commedia, ma nell’intento di aumentare il numero dei balletti comici italiani coreogra- fati da Milloss, in verità assai ristretto (La Giara, L’allegra piazzetta, Deliciae populi). Dalla trama goldoniana si sono prese, ovviamente, le situazioni più vive e attinenti alla danza, scegliendo cioè quelle ricche di movimento più proprie della commedia ad intreccio che di quella di carattere. Quella certa libertà di trattamento della trama che si può quindi riscontrare nel balletto è stato pertanto imposta da ragioni d’effetto coreografico: ciò va soprattutto riferito ad alcuni elementi, di riposo o d’intermezzo nella commedia, che qui assumono uno sviluppo completo, quasi di veri e propri personaggi. Lo spirito dell’azione è comunque perfettamente goldoniano: la coreografia di Milloss si svolge su un’unica scena realizzata dal pittore siciliano Bruno Caruso che con questo lavoro tenta per la prima volta il teatro. In un simile ballo la pantomi- ma è tutto e la danza solo un mezzo di stilizzazione da un lato e culmine da un altro dei momenti passionali e dei giochi scenici. Ad ogni modo, sia nella scenografia che nella coreografia l’accento cade sull’azione e non sull’ambiente settecentesco che però non manca di essere sottolineato. La struttura del balletto serve di base alla musica che Valentino Bucchi ha creato appositamente recandovi una sua personale impronta che riesce ad unificare i caratteri dei recitativi mimici con quelli delle danze vere e proprie. Come tale, il balletto cerca di ricreare sul teatro di danza la squisita grazia e il mordente scenico di una delle più care ed argute commedie del grande Veneziano.[…]
109 Lo stesso Milloss ricorderà poi tale cosa: «[…] Posso dunque chiedere che ora non ci si aspetti da me anche un trattamento scientifico dell’argomento. Nel tempo di solo poche decine di minuti a mia disposizione ciò sarebbe assolutamente impossibile. Ma sarebbe anche inutile, visto che l’evoluzione storica del balletto e delle sue componenti edificative è già stato trattato e stabilito in maniera estremamente significativa. Basti pensare al valore inestimabile delle ricerche e dei chiarimenti fatti in proposito da Gino Tani sull’Enciclopedia dello Spetta- colo, o, ancora, al valore altrettanto inestimabile dei saggi già tecnici sulla danza accademica e quella libera scritti da Fedele D’Amico e pubblicati sulla medesima Enciclopedia. Un’altra ragione per cui queste mie parole non dovranno essere propriamente storiografiche consiste nel fatto che della storia del balletto continuano a occuparsi anche gli storici e i critici delle generazioni successive, come Luigi Rossi, Alberto Testa e Lorenzo Tozzi, nei loro scritti e nei loro insegnamenti. Parlerò, dunque, come un danzatore e un coreografo (più che come teorico) che ha cercato di assimilare i valori del passato, deducendone conclusioni che non riguardano me soltanto, ma che potranno interessare anche tutta l’attività viva sia d’insegnamento che d’interpretazione e di creazione.[…]» (ID., Discorso sull’evoluzione storica del balletto in Italia, cit.). Per le voci curate da G. Tani vedi AA. VV., Enciclopedia dello spettacolo, a c. di S. D’AMICO, vol. IV, Le maschere, Roma 1957. 208 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
Riprendendo l’affermazione di Tani «In un simile ballo la pantomima è tutto e la danza solo un mezzo di stilizzazione da un lato e culmine da un altro dei momenti passionali e dei giochi scenici» e tenendo conto dell’intero discorso in cui essa giunge, continuerei col dire sulla linea della nostra questione pan- tomima/danza che in Mirandolina quei momenti di danze vere e proprie non sono staccati, isolati, dai momenti più strettamente mimici, come dei divertis- sement alla narrazione, miranti semplicemente alla gradevolezza, allo svago, né sono trattandosi nello specifico di balli divagazioni tipologiche, ‘archeologia stilistico-gestuale’ (se vogliamo, nella convenzionalità dei gesti legati ai balli di società, un’altra forma di ‘pantomima’) ma sono dunque da un lato sviluppi lirici del tanzdrama stesso, dall’alto i momenti in cui si esprimono alla massima tensione e si sciolgono nei movimenti d’insieme gli sviluppi dei giochi dinamici e coreografici in cui prende forma il tanzdrama; e dunque ritorniamo a quella che avevamo definita tensione coreo-drammatica. A proposito dei balli di società inseriti nella griglia compositiva di un opera di danza (gavotta, valzer, bolero, boogie woogie) osservazioni di fondamentale importanza le ritroviamo in una lettera del 1945 di Milloss al musicista Vland; seppure qui Milloss ri- fletta relativamente alla composizione di un balletto ispirato ad un’altra opera di riferimento (La dama delle camelie di Dumas) col suo diverso specimen drammatico rispetto alla commedia goldoniana, per la specificità con cui si tratta la questione su detta, e per come anche in questo caso essa viene posta all’interno delle più vaste problematiche di ‘ri-scrittura’ e ri-attualizzazione in danza, riteniamo utile riportarne quota di nostro interesse:
[…] Tradizione e libera fantasia si equilibrano. Il passato sopravvive, vive ancora oggi, verrà presto trascinato nei misteri del futuro. Le correnti in- visibili urgono. Per cui non si può parlare né di un Dumas autentico, né di un autentico balletto romantico! E neanche di un balletto classico! È una nuova opera che ha a che fare con il suo punto di riferimento contenutistico e stilistico solo quanto l’archivista della vita, lo potremmo chiamare «morte», ha a che fare con la propria ricchezza, poiché questa ricchezza si annulla alla fine in quel complesso che appartiene in effetti alle correnti elementari degli avvenimenti del mondo. È nelle mie intenzioni, lasciarmi condurre più dalle forze elementari che dai dettagli, ed è quindi conseguente che io scegliessi i dettagli solo come spunti, i quali, in quel momento, mi sembravano i più adatti in un simile ambito, tanto da poter simboleggiare al meglio la mia volontà di elementarizzazione. […] La carica spettrale contenuta nell’opera [La signora delle camelie], altrimenti comica, contrassegna il libretto, la musica, la coreo- grafia e la messinscena portando ad un uso necessariamente nuovo tutti i mezzi espressivi. I Walzertanze ricevono dalla musica un carattere drammatico in cui la musica resta certamente pura ed elementare, ma ciononostante commenta lo GOLDONI IN SCENA. 209
svolgimento drammatico. Le danze agiscono – come ho detto – esclusivamente con i mezzi coreografici della danza tradizionale e del ballo di società (Valzer); ma il simbolismo dei motivi accademici si scioglie in tale misura che (grazie alla distinzione del suo carattere chiaro-aperto o, per contro, scuro-chiuso) si trasformano in espressione immediata e concreta dell’avvenimento. In questo modo la pantomima è quasi totalmente superata e il vecchio balletto «lirico» diventa danza d’espressione drammatica. […] questa “Balletdramaturgie” è comunque nata dalle esigenze della danza. Il vantaggio del libretto si manifesta effettivamente nel fatto che esso è veramente un “Balletto-Libretto”! Se fosse raccontato con le parole questo libretto non avrebbe nessun successo. Esso è nato dalla fantasia di una mentalità esclusivamente coreutica.110
Seppure all’interno dello specifico del rapporto con la commedia e la sua risoluzione in quello che abbiam visto, stando alla struttura della partitura derivante dallo stesso libretto di Milloss è un «balletto d’azione», processi non diversi da quelli esposti nella lettera a Vland, li ritroviamo in atto in relazione alla dinamica ri-creativa tra La locandiera e Mirandolina. Sia quei momenti che per comodità continuiamo a definire ‘pantomima’, seguendo la dicitura della stessa partitura musicale, sia quei momenti che si risolvono propriamente in ‘danze’, fanno capo alla medesima fonte, sono manifestazioni di una creazione che nasce già come danza, come linguaggio assolutamente danzante con la sua propria drammaturgia, «partitura» coreografica la quale si dà in modi, variazioni differenti esteticamente in relazione alle dinamiche delle correnti espressive coinvolte e convogliantisi attraverso i vettori compositivi spazio- tempo-dinamica (quelle che Milloss chiama forze «elementari» e «correnti cinetiche»), e differenti stilisticamente in relazione a come questo fattori sono mossi e agiscono nell’operazione compositiva di ogni peculiare coreografo, con la sua impronta personale. Si tratta sempre di una dinamica tra l’origi- nale individualità creatrice e caratterizzante del tanzdramaturg e un circuito di valenza universale in cui tale specificità tende; tutto ciò ai fini di un gioco scenico che non sia allora semplicemente uno svago, un’abilità spettacolare, ma si determini e richiami una dimensione, un percorso etico; in tal senso direi anche che laddove Milloss definisce il Mirandolina come balletto «giocoso» non si tratta semplicemente di un’attribuzione di genere e forma, né solo di un’allusione alla leggerezza, al dilettevole, al ‘divertente’ della commedia, del ‘comico’ e della sua ri-creazione in danza, ma possiamo meglio intendere tale «giocoso» nel suo spessore di ‘ludus’. Ciò che resta fondamentale nella ri-
110 La lettera di Milloss a Vland è riportata in AA. VV., Creature di Prometeo: il ballo teatrale dal divertimento al dramma: studi offerti a Aurel Milloss, a c. di G. MORELLI, Olschki, Firenze 1996. 210 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO creazione millossiana è quel rapporto tra ciò che si pone sub specie actualitatis e ciò che invece sub specie aeternitatis, rapporto che diviene riferimento fon- damentale e costitutivo nelle sue risoluzioni sia nell’incontro tra il coreografo e Goldoni, sia in quello tra la composizione scenica e il pubblico. È in questa prospettiva che va considerato anche il rapporto di Milloss col Settecento goldoniano e la ri-attualizzazione attraverso la quale ogni riferimento passa sia in relazione alla creatività del nuovo ‘autore’, sia in relazione a quello che è il tempo proprio di questo nuovo autore tanto dal punto di vista del momento personale in cui esso intuisce, crea, compone l’opera, quanto da quello con- testuale, quanto dalla necessità/volontà o meno da parte sua di rintracciare un che di ‘elementale’, per dirla con Milloss, nell’operazione creativa e nelle possibilità comunicative del fatto estetico. Una riflessione eloquente su come in tali prospettive, andranno a muoversi anche gli altri artisti coinvolti nella composizione dell’opera, se pur ognuno con differenti inclinazioni legate alla propria specifica sensibilità e visione e alla propria differente arte,111 ci viene, a posteriori, dallo stesso Valentino Bucchi che compose per il Mirandolina, accompagnandosi in stretto rapporto con Milloss, la partitura musicale.112 Nella presentazione di Mirandolina nel programma di sala per la messa in scena del 26 giugno 1974 al Teatro La Fenice di Venezia con nuova e tutt’altra coreografia di Loris Gai, il musicista ritornando al suo concepimento dirà:
[…] Mirandolina è un’opera danzata, in cui le situazioni e i discorsi dei per- sonaggi si sciolgono senza residuo in un racconto mimato: la protagonista è una virtuosa agile e leggera che come un armonico acuto attira a sé i suoni più elevati e rarefatti dell’orchestra. Mirandolina è il terzo lavoro che ho composto espressamente per la danza. […] mi fu suggerito da Milloss. Nel
111 Su tali tematiche rimando agli scritti millossiani in MILLOSS, Coreosofia, cit. 112 Riguardo la partitura di Bucchi del Mirandolina, un’analisi e una ricostruzione della vicenda ce la fornisce L. PANNELLA in ID., Valentino Bucchi: anticonformismo e politica musicale italiana, La nuova Italia, Firenze 1976; tuttavia segnalo accortezza da parte del lettore interessato, in particolar modo, per quel che attiene le datazioni (non sempre puntuali) relative agli articoli estratti dalla stampa. Ancora una testimo- nianza si può trovare in F. D’AMICO, I casi della musica, Il Saggiatore, Milano 1962. La partitura di Bucchi fu pubblicata in una riduzione per pianoforte l’anno successivo alla prima messa in scena in: V. BUCCHI, Mirandolina. Balletto giocoso di Aurelio M. Milloss (da «La locandiera» di C. Goldoni). Musica di Valentino Bucchi, riduzione per pianoforte di Alberto Ciammarughi n. ed. 21815; partitura n. ed. 21816, Milano, Carisch, 1958. In seguito il musicista ne trasse ed elaborò anche la composizione di una suite per orchestra la cui prima esecuzione avvenne a Roma nei concerti del Terzo Programma della Rai il 14 febbraio 1959; poi a Firenze il 1 marzo 1959 al Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. La partitura della suite fu pubblicata in V. BUCCHI, Mirandolina, balletto giocoso di A. Milloss da «La locandier» di C. Goldoni. Suite per orchestra (partitura), Milano, Carisch, 1959, n. ed. 21343. GOLDONI IN SCENA. 211
ritessere musicalmente la celebre trama di Goldoni, sono rimasto fedele alla mia radicata convinzione che di un’opera d’arte vada sempre preso in esame non soltanto il testo letterale ma anche il rapporto tipico con il lettore e l’ascol- tatore dell’epoca. Il racconto goldoniano andava quindi risolto musicalmente come un mondo di immagini e sensazioni scomparse, da recuperare in termini attuali. Un sogno proibito e una realtà necessaria. Le forme di danza e i metri del Settecento sono stati quindi sostituiti con quelli del periodo che stiamo vivendo. Gli ‘abbellimenti’ musicali non più visti come ornamenti melodici, ma come elementi costitutivi della struttura armonica. Tuttavia non esiste alcuna ombra di ‘musica al quadrato’ e – come è stato notato – la partitura non ce l’ha mai con qualcuno o qualcosa. In altre parola l’ironia che scaturisce dalla vicenda stessa è presente, ma la caricatura della musica settecentesca è assente. E l’immagine di Mirandolina non appare mai deformata: viene vista soltanto in uno specchio del nostro tempo… Da un punto di vista teatrale il travasare una commedia di carattere in un balletto d’azione l’ho considerato un accorgimento indispensabile […]113
Se come dicemmo quella sorta di dimensione ‘mimica’ della coreografia di Milloss non si dà quale ‘caricatura’ subordinata al gesto caratteristico e recitativo-dialogico dei personaggi goldoniani, se i balli inseriti nella struttura complessiva del balletto anche laddove sono tipologicamente settecenteschi non si risolvono in una testimonianza e riproduzione di genere, lo stesso ci dice Valentino Bucchi della sua partitura. Tra l’altro è noto come Milloss, pur lasciando ai musicisti con cui collaborava libertà di ispirazione, originalità stilistica nella loro partitura, rispettando le dinamiche espressive autonome d’un linguaggio altro, convinto della non subordinazione tra le arti ma di una collaborazione sinergica di composizioni nascenti sì dai medesimi elementi- forza ma con processi propri, egli avesse al tempo stesso con loro un rapporto di comunicazione strettissimo nella genesi di ogni balletto (nel caso di Bucchi tale rapporto fu favorito ancor più dalla vicinanza geografica dei due artisti che si trovavano in quel momento entrambi nella stessa Roma) e proprio lui ne componeva di frequente il libretto quale fondamentale traccia-guida; ai fini della composizione complessiva dello «spettacolo coreografico» era l’au- tonomia ‘linguistica’ della partitura coreografica a farsi misura della specificità e originalità di esso come opera d’arte danzante.114
113 I tre balletti di cui parla Bucchi sono, come lui stesso ricorda, in ordine di composizione: Laudes Evangelii (1952), Racconto siciliano (1955), Mirandolina (1957). Per approfondimenti vedi: PANNELLA, Valentino Bucchi, cit. Il passo da me riportato si può leggere in V. BUCCHI, presentazione di Mirandolina nel programma di sala per la rappresentazione del 26 giugno 1974 al Teatro La Fenice di Venezia. Riportato anche in PANNELLA, Valentino Bucchi, cit. 114 Su come Milloss concepisse il rapporto tra la partitura coreografica e quella musicale, rimando a MILLOSS, Balletti e malintesi (1945), in ID., Coreosofia, cit., p. 85 e ss. 212 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
In rapporto al Settecento un ulteriore spia di come volesse esserci alcuna ‘caricatura’ è il fatto che nel riscrivere il programma di sala per la ripresa di Mirandolina l’anno successivo al Teatro Massimo, Tani laddove osservava «Ad ogni modo, sia nella scenografia che nella coreografia l’accento cade sull’azione e non sull’ambiente settecentesco che però non manca di essere sottolineato», sostituirà alla parola «sottolineato» il termine «accennato». Il Settecento nei processi di ri-creazione degli artisti coinvolti nell’opera diviene per quanto attiene la risultante estetica una sorta di persistenza aurale che insieme agli stessi accenni alla contemporaneità si convoglia e trova genesi espressiva in una dimensione nuova, quella che scaturisce dal rapporto ap- punto di Milloss-Bucchi-Caruso e dall’esecuzione dei danzatori; richiamati e accostati tali accenni si versano in una visione che si fa anche transtemporale, essi non si danno in quanto elementi decorativi ma spie di forze vive, ri-vissute, originali percorsi compositivi, che creano un rapporto dinamico tra passato, presente, ‘possibile’, attraverso una sinergia tra la magia del gioco ‘scenico’ e il reale.115 Se guardiamo al bozzetto della scena di Caruso essa ci appare come un semplice semicerchio di porte con al centro una tenda; al di sopra di tale se- micerchio, a mo’ di soffitta, si accatastano robe quali pezzi di e interi mobili in legno, specchi, in appena allusa fattura antica, elementi interni di camere che da un lato sembrano stare lì depositati da tempo, dall’altro sembrano ac- cennare a una profondità altrimenti nascosta della scena, ad un retro; insieme ai numeri sovrapposti ad ogni porta (le quali, in qualche modo, con una sen- sibilità d’oggi, potrebbero farci pensare ad ingressi d’ascensori), queste robe sono gli unici elementi che sembrano dirci che quella che ci troviamo di fronte è una locanda, ma nella loro indeterminazione, nella loro semplicità lineare potrebbero anche essere elementi di un albergo di quegli anni cinquanta, o di un altro qualunque luogo. Tanto che un noto critico, Fedele D’Amico, che già dicemmo non parve molto gradire la trasposizione de La Locandiera come fatta da Milloss, poté spingersi a dire che: «ricorda maledettamente l’interno del carcere dei minorenni di San Vittore».116 Tale scena, stando a quanto mi ha raccontato lo stesso Caruso,117 arre- trando con la memoria alla serata del 1957, diventerebbe durante il balletto
115 Riguardo le idee di Milloss sulla tensione «magica» dell’arte della danza, vedi ID., Coreosofia, cit. 116 D’AMICO, L’ispiratore, cit. 117 Ho fatto visita al maestro Bruno Caruso il 23 luglio 2008 presso il suo studio in Piazza del Colosseo, n. 9, Roma; per sua cordiale concessione riporto le informazioni e suggestioni lì ricevute durante il nostro incontro. GOLDONI IN SCENA. 213 funzionale apertura alle multiple dinamiche dell’azione, alle entrate e alle uscite dei danzatori che attraverserebbero le quinte/porte le quali, ancora Caruso mi conferma erano praticabili tranne forse quelle più a lato; la tenda centrale ci sembra quasi allusione ad un siparietto interno alla stessa scena dietro il quale si prepara il gioco. Se guardiamo alla commedia di Goldoni la scena di Caruso non manca di un chiaro riferimento testuale, ma qui le porte aumentano di numero riportando, in un unico scenario l’allusione alle possibilità molteplici dell’azione e degli spazi, furono esse poi realmente costruite come praticabili o meno.118 L’artista riguardo il suo rapporto col testo goldoniano mi diceva naturalmente di conoscerlo, «…l’avevo letto… lo ricordavo…», essendo parte della sua prima formazione letteraria ma di essersene lasciato liberamente ispirare dalla propria fantasia. Caruso appare per tutta la conversazione schivo a ‘intellettualismi’ e sorride sulla faccenda dei “critici”. Diremmo che ognuno fa il suo mestiere e Caruso da pittore e in quel caso per la prima volta scenografo fece il suo mestiere agilmente fidandosi delle proprie visioni e abilità. E ben venga ogni affermazione dei critici, dicano pure, bofonchia, in qualche modo, sorridendo con intelligenza furbesca, quando gli ricordo di chi parlò del carcere di S. Vittore. Tra l’altro pare che anche la collaborazione con Milloss si giocò in modo alquanto diretto, agevole, pratico; anche perché Milloss aveva di certo scelto tale interlocutore dopo averne valutato la tecnica, lo stile, e riscontrato quei caratteri e quelle potenzialità artistico-espressive che potevano rivelarsi ben consone all’operazione Mirandolina. Infatti come racconta Caruso – parafraso –: «Milloss venne a una mia mostra che tenevo in quel momento a Roma. Dopo averla vista mi chiese se volevo fare una scena per questo balletto: Mirandolina.
118 Data la distanza temporale dall’evento, se volessimo essere cauti nel fidarci della me- moria umana, né essendo la stampa quotidiana e periodica eloquente riguardo la funzionalità della scena, bisognerebbe forse un ulteriore riscontro in materiali altri dei quali non mi è stata possibile fino al momento della scrittura di questo mio intervento critico, riscontrare con mano l’esistenza. Tuttavia ad un livello ideativo, sul quale in particolar modo ho posto l’accento nel mio percorso, la considerazione di una possibile effettiva praticabilità resta di estremo interesse; tanto quanto una trasposizione nella pratica resa come segnica allusiva, espressione potenziale. Ho chiesto a Caruso se fare una scena con quelle porte e pure praticabili gli fosse stato suggerito da Milloss ma su questo punto pur riconoscendo che il coreografo dovette dirgli qualcosa e sembrerebbe un “si” qui il ricordo non sgorga facile e chiaro «è passato molto tempo». Un altro dubbio resta sul fatto se fossero o meno riprodotte poi in teatro le robe previste nel bozzetto per il livello superiore, già nella prima romana. Caruso infatti con- tinuava, qui invece con una certa convinzione e lucidità, ricordando – parafraso -: «io volevo mettere… avevo fatto anche delle cose, …[ne menziona alcune] sopra delle mensole… ma non furono fatte non so perché… non le fecero…». È tuttavia confermato anche dalla stampa che l’effettiva ricostruzione delle robe disegnate nel bozzetto avvenne l’anno successivo per la ripresa del balletto al teatro Massimo. 214 ETTORE MASSARESE - DARIO MIGLIARDI - DORA LEVANO
Il giorno dopo mi presentò anche Bucchi: fu un incontro rapido. Poi io feci il bozzetto per la scena, glielo mostrai, Milloss disse “Va bene, è bellissima”, così fu mandato al laboratorio dell’Opera e li fu fatto [...]». Per quanto riguarda i costumi, anche nel suo rapporto col Settecento Caruso si lasciò liberamente ispirare mirando, senza eccessi decorativistici o filologici, a una linearità essenziale, scenicamente accordata, fatta di colori pastello vivaci e per lo più monocromatici per ogni elemento dell’abbiglia- mento, elementi integrali agli abiti che alludessero allo specifico essenziale di ogni personaggio coinvolto nell’azione reso così direttamente riconoscibili e riportabile pure alla memoria del pubblico, e un ché di Settecentesco è in tal foggia degli abiti più accennato, alluso, che ricostruito. I costumi erano ‘agili’ e in tal senso funzionali ai danzatori; erano fondati per lo più sui me- desimi capi base (pantacollant e giacca per tutti gli uomini tranne Fabrizio che aveva il panciotto; calzamaglie, tutù corto per le cameriere e Mirandoli- na, cappotto e pantalone per le comiche) ma variati nel colore e nelle linee in base al personaggio. Ad esempio, se guardiamo all’abito del marchese troviamo che in uno dei bozzetti la coda della sua giacca viola termina con un taglio orizzontale diritto, per lo più vicina anche per lunghezza a quella del cavaliere – nello stesso bozzetto – che però è bianca e con uno spacco al centro; questa versione del marchese è poi cancellata da Caruso con una X e la coda diviene nel bozzetto definitivo una fisarmonica a meglio distinguerlo anche dal cavaliere e a rendere scenicamente più efficace il personaggio in base anche alla sua collocazione sociale. Sarà stato anche su suggerimento di Milloss che avvenne una tale variazione? Non lo sappiamo. Tuttavia proprio grazie all’invito di Milloss questo fu solo la prima esperienza di un rapporto ancora oggi ricorrente di Bruno Caruso anche con l’arte teatrale e l’inizio di un altro dei proliferi rapporti di collaborazione del coreografo con artisti ‘mediterranei’.119 Dora Levano
119 Ringrazio: l’Archivio storico del Teatro dell’Opera di Roma che mi ha permesso di accedere al programma di sala e alle riproduzioni digitali dei bozzetti di scena; l’emeroteca Tucci di Napoli per la visione della stampa nazionale; i responsabili del Fondo Milloss presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia; l’archivio storico dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia; l’Archivio Storico del teatro Massimo di Palermo; la Biblioteca Sormani di Milano; il maestro Bruno Caruso per la sua testimonianza umana e artistica; i miei genitori che da sempre mi sostengono nel mio percorso di ricerca. Guido Nicastro
PIRANDELLO E GOLDONI
Nel saggio dal titolo Teatro nuovo e teatro vecchio1, pubblicato sulla rivista «Comoedia» nel 1923, Luigi Pirandello affrontando il problema dell’origina- lità dell’opera letteraria e della sua scrittura cita Goldoni e ricorda le accuse che gli vennero mosse al suo tempo di scrivere male:
[...] perché Carlo Goldoni scrive male? Ma perché le sue espressioni, per de- terminare una nuova visione della vita, dovevano per forza stonare con quelle che erano negli orecchi di tutti, già composte, già studiate e perciò belle chiare, che con un po’ d’ingegno e di buona volontà, ognuno, santo Dio, poteva dargli un bellissimo garbo. E quello sgarbataccio d’un Goldoni...
Per Pirandello, quindi, l’accusa che a Goldoni veniva rivolta dai suoi avver- sari era dovuta all’originalità dello scrittore, il cui dialogo «dovette apparire anche ai suoi ammiratori insipido e sofistico, confrontato col linguaggio della commedia dell’arte; e scritto male, avvocatesco, sciatto proprio da far cadere le braccia, confrontato con lo stile delle composizioni serie d’allora». In realtà, «la commedia dell’arte, recitata, sì, all’improvviso ma incapace di lanciarsi veramente nell’estro d’una vera e propria improvvisazione, non era altro in fondo se non la quintessenza del luogo comune, imbastita su temi generici e su schemi fatti apposta, per inquadrarci lo stesso repertorio di frasi stere- otipate, di motti e lazzi tipici e tradizionali, di botte e risposte sacramentali, protocollate come in un manuale d’etichetta». Il giudizio positivo su Goldoni, un innovatore che aveva sciolto «col suo dialogo la fissità di quelle battute» e aveva scomposto «la rigidezza delle ma- schere», si accompagna dunque al giudizio negativo sulla commedia dell’arte, che con le sue formule invariate, con le sue maschere, non può non suscitare
1 Il saggio è compreso in L. PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii, a c. di M. LO VECCHIO- MUSTI, Mondadori, Milano 1960 (da qui le nostre citazioni); ora anche in ID., Saggi e interventi, a c. e con un saggio introd. di F. TAVIANI e una testimonianza di A. PIRANDELLO, Mondadori, Milano 2006. 216 GUIDO NICASTRO la riprovazione di Pirandello, per il quale ogni forma deve sciogliersi in un movimento vitale e che da buon letterato considera una forma inferiore il “teatro teatrale” degli attori. Goldoni ha avuto agli occhi dello scrittore siciliano il grande merito di avere ridato vita alla commedia da secoli fossilizzata. Certo, egli non appartiene ai grandi creatori come Dante che «dice cose eterne: parla dalle viscere stesse della terra». Il Veneziano «pure creando, e in forme compiutissime, una sua organica visione della vita, non invalorò con la sua espressione reali e liberi “movimenti” dello spirito, ma rappresentò piuttosto secondo un “atteggiamen- to” dello spirito». In altri termini, Pirandello lo chiarisce più oltre, per capire e gustare l’opera di Goldoni bisogna riportarsi all’epoca in cui quell’opera venne scritta, là dove Dante è autore sempre attuale e contemporaneo ad ogni tempo. Quando si tratta poi di caratterizzare meglio la commedia goldoniana, Pirandello non va oltre le formule generiche della critica a lui contemporanea. Parla di un suo «atteggiamento» «bonariamente satirico» che può addirittura sembrare «superficiale»; e poi indica in Goldoni il poeta della «grazia». Ado- pera cioè gli stessi termini di un grande critico del tempo, Attilio Momigliano che proprio nel 1922 licenziava i Primi studi goldoniani: anche lui parlava per lo scrittore veneziano di «grazia», di teatro dalle mezze tinte, di «arte buona tessuta attorno ad argomenti superficiali»2. Pirandello non si preoccupa, almeno in questa occasione, di approfondire il suo giudizio. A lui Goldoni serve strumentalmente per portare avanti il discorso sull’originalità dell’opera teatrale, in polemica con Adriano Tilgher per il quale il teatro per esser nuovo doveva rappresentare i problemi del proprio tempo. Diverso è invece l’atteggiamento di Pirandello nei confronti di Goldoni e della commedia dell’arte nel saggio introduttivo che egli scrive per la Storia del teatro italiano di Silvio d’Amico,3 pubblicata nel 1936 poco prima della morte dello scrittore. Qui egli deve difendere per prima cosa la tradizione del teatro italiano da ogni attacco che ne metta in dubbio l’originalità e la grandezza. Si tratta, infatti, del «primo e più importante teatro del mondo», afferma con tono perentorio un Pirandello che sembra condividere per l’occasione l’or- goglio nazionalistico fascista. E la commedia dell’arte, al pari di altre forme sceniche come la Sacra Rappresentazione, rientra in questa tradizione, alla base della quale c’è il «senso del romanzesco» che dalla novella di Boccaccio si travasa nel teatro e dall’Italia si diffonde in tutta Europa. Ora il giudizio su di essa non è per nulla negativo, anzi:
2 Gli scritti di A. MOMIGLIANO su Goldoni sono raccolti in Saggi goldoniani, a c. di V. BRANCA, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma 1959. 3 Cfr. Introduzione al teatro italiano, in Saggi e interventi, cit. PIRANDELLO E GOLDONI 217
Commedia dell’arte nasce per contro da autori che si accostano tanto al Teatro, alla vita del Teatro, da divenire attori essi stessi, e cominciano a scri- vere le commedie che poi recitano, commedie subito più teatrali perché non composte nella solitudine d’uno scrittoio di letterato ma già quasi davanti al caldo fiato del pubblico.
Come si vede, rispetto al saggio anteriore, il giudizio è capovolto. Per ca- pire le ragioni di tutto ciò, si consideri che negli anni che separano lo scritto dal precedente molte cose sono successe nella vita e nella carriera teatrale di Pirandello che lo hanno portato a cambiare idea su alcuni argomenti, talora in modo radicale. Negli anni Venti il nostro scrittore si è accostato al teatro non solo in qualità di drammaturgo, ma anche di regista e teatrante nel senso più lato del termine: basti pensare all’esperienza del Teatro d’Arte fra il 1925 e il 1928, e a quella compiuta in Germania a contatto con forme d’avanguardia di regia e di scenotecnica. Mentre parla degli attori-autori della commedia dell’arte sembra che Pirandello alluda a se stesso, autore-interprete della propria opera e di quella altrui. Ora l’attore non è più un intermediario scomodo tra l’opera teatrale e il suo pubblico, come voleva nel saggio del 1908 Illustratori, attori e traduttori, ma un elemento necessario perché l’opera riviva ogni sera in forma diversa. L’ultimo Pirandello è in grado quindi di capire al meglio e di valoriz- zare l’esperienza dei comici dell’arte con i quali «il nostro teatro faceva scuola» in tutta Europa. «Senso del romanzesco nella vita e senso del movimento nel Teatro»: è questo l’insegnamento che il teatro italiano diede a quello europeo, e da questo insegnamento trae vita anche Carlo Goldoni che scompone la «fissità delle maschere dal loro riso ormai artefatto». Ma ora, aggiunge Pirandello, «la vita delle sue creazioni [...] non deriva dal fatto ch’egli abbia ridato forma, una forma umana, a quel movimento di maschere e tipi della Commedia dell’arte: a ciò avevano mirabilmente adempiuto e Shakespeare e Molière». Lo scrittore siciliano rifiuta quanto lui stesso aveva affermato nel saggio Teatro nuovo e teatro vecchio; la grandezza di Goldoni non sta nel fatto di avere creato caratteri come era accaduto agli autori citati: «Il vero grande autor nuovo si manifesta invece nei personaggi di contorno, uno dei quali, per esempio la servetta, diventa a un tratto Mirandolina centro d’una sua commedia; e tanti altri escono in frotta e restano soli e liberi a far baruffe in Chioggia». Qui Pirandello coglie con intuito geniale la novità di Goldoni che non tende al ritratto monomaniacale e a tutto tondo di Molière ed è consapevole del fatto che nelle sue commedie i perso- naggi nascono e si definiscono a contatto con gli altri personaggi all’interno di un impianto scenico che non è inesatto definire “corale”4:
4 Su questo punto fondamentale restano i saggi goldoniani di G. FOLENA, L’esperienza lin- 218 GUIDO NICASTRO
Il Goldoni ha superato il carattere, e trovato, con una felicità inarrivabile, con una leggerezza di tocco che sbalordisce, tutto il volubile, il fluido, il con- traddittorio, il momentaneo della vita in atto, e aperto così, con un colpo di bacchetta magica, la vena del Teatro contemporaneo dalla roccia in cui erano sbozzati, assai più grossi che non grandi quali ci appaiono, i “caratteri” del Teatro seicentesco.
Se ricordiamo ciò che Pirandello dice nel saggio L’Umorismo sulla scom- posizione del carattere operata dagli umoristi e sulla vita come flusso continuo che cerchiamo di arrestare e di fissare in forme stabili e determinate, sembra che egli ritrovi nel commediografo veneziano un antesignano della propria opera. Abbandonati i cenni limitativi di un tempo – ora non ci sono dubbi «sulla reale grandezza del genio di [Goldoni]» – Pirandello riesce a dar conto della sua grandezza e originalità in maniera non banale. Al giorno d’oggi sappiamo come Goldoni costruisca le commedie in maniera del tutto nuova rispetto alla tradizione classica: non più i caratteri tradizionali da Plauto a Molière la cui psicologia sembra prescindere dal contesto storico, ma personaggi inseriti in un tessuto sociale ben preciso, che vivono in funzione al rapporto che riescono ad instaurare nel loro ambiente con gli altri personaggi. Per Goldoni vale ciò che Diderot aveva teorizzato nei suoi dialoghi su Le fils naturel: non bisogna più rappresentare caratteri, ma condizioni. Pirandello sembra avere intuito tutto ciò con molto anticipo ed è la sua visione dell’io, – che, come voleva Alfred Binet, è «un aggregamento temporaneo scindibile e modificabile di varii stati di coscienza più o meno chiari»5 – che gli permette di cogliere la novità e la peculiarità del teatro gol- doniano. Ma tant’è. Pirandello non è un critico o uno storico di professione. I suoi saggi sono l’opera di un autore che deve giustificare innanzi tutto a se stesso e agli altri la propria scrittura, ma spesso nella elaborazione della sua poetica trova la chiave di lettura giusta per accedere all’universo poetico altrui. Ed è quello che gli è avvenuto nel caso di Goldoni.
guistica di Carlo Goldoni e Il linguaggio del Goldoni dall’improvviso al concertato, ora compresi nel vol. L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del settecento, Einaudi, Torino 1983. 5 La definizione è all’inizio del saggio Arte e scienza del 1908, riportato in Saggi, poesie e scritti varii, cit. Carlo Santoli
VISIBILE E VERISIMILE: NOTE SULLA SCRITTURA TEATRALE DI CARLO GOLDONI
Se si conviene che l’arte riflette in un’opera, in cui si compendia tutta una multiforme realtà umana, dove i lettori o spettatori intravedono peraltro se stessi o almeno una parte di se stessi, tale è la commedia di Carlo Goldoni: rappresentazione del quotidiano, con l’obbiettivo di ritrarre non solo il senti- mento della vita, ma anche di rendere il senso dell’immediatezza, l’attitudine spiccata ad una retta e chiara intuizione realistica delle cose, la precisione di osservazione, proprie di un geniale artista comico. In assenza di ogni spiegazione metafisica e trascendente l’autore è convinto che la sua epoca sia arrivata ad una migliore filosofia pratica, volta al bene della città degli uomini. Basti leggere alcune pagine dei Mémoires, per cogliere lo spirito apertamente laico, il poco interesse per i valori mistici e trascendenti, l’intensa simpatia per l’esistenza mondana e terrena.
E se egli «parlava (ma non molto) di Dio e di Provvidenza, […] in realtà li riempiva di un valore immanentistico e pratico, li considerava come legati alla sua fiducia nella vita, al suo amore ottimistico per la vita, al suo spontaneo rispetto per l’attività umana in una realtà impensabile per lui senza gli uomini e le loro città, resa seria e interessante dai valori connessi alla vita umana, alla convivenza civile».1 Occorre dunque trovare la posizione storica di Carlo Goldoni in questa visione ideologica, nel suo sentirsi partecipe di un momento nel quale si affermano i principi nuovi di una civiltà razionalistica e illumi- nistica, che celebra il trionfo dei valori borghesi: come l’amore, la dignità, il rispetto per sé e per gli altri, l’operosità e la moralità dell’agire umano, non escluso l’interesse cosmopolitico per i popoli stranieri.2
E se – come sostiene il Binni – egli non ha potuto maturare quell’atteggia- mento satirico e combattivo proprio del Parini «riformatore», non pochi ideali
1 Cfr. W. BINNI, Carlo Goldoni, in AA. VV., Storia della letteratura italiana, Il Settecento, vol. VI, Garzanti, Milano 1968, p. 719. 2 Ivi, pp. 720-721. 220 CARLO SANTOLI e valori della media civiltà illuministica sono da lui sostenuti, che si riassumono nel rifiuto di ogni offesa alla dignità umana, nell’antipatia del borghese e del cittadino per ogni tipo di sopruso e di prepotenza, nella condanna di avanzi di antiquate istituzioni feudali, nella simpatia per il lavoro e l’onestà più evi- denti nelle classi medie che in quelle alte ed aristocratiche, nell’ammirazione del cittadino sollecito del benessere e del progresso della sua città, della sua famiglia, dei suoi simili, che poi sarà l’ideale eroico del Parini.3
[…] venuto a contatto (fra la importante esperienza toscana e i nuovi soggiorni veneziani) con le più generali tendenze dello sviluppo da preilluminismo a vero e proprio illuminismo, il Goldoni visse le condizioni, le aspirazioni, le idealità di tale complesso sviluppo in una misura personale sincera, ma culturalmente e ideologicamente poco approfondita senza giungere (ché semmai nel periodo francese, fuori ormai dalla linea più attiva della sua opera poetica, egli poté meglio adeguarsi a una mentalità di pieno illuminismo) ad una posizione illuministica decisa e pienamente consapevole, quale fu quella di un Parini, uomo di una generazione successiva e già sviluppatasi, prima del Giorno, in una cultura e civiltà nettamente riformatrice e sempre illuministica sin nelle direttive del governo riformatore austriaco e nella vicinanza di collaborazione e discussione con i giovani illuminati della «Società dei pugni» e del «Caffè».4
Pertanto se si può parlare di illuminismo medio, ci guarderemmo dal prospettare un’immagine di Goldoni come di un illuminista persuaso e de- ciso, precursore di principi democratici, egualitari, miranti ad instaurare un ordine nuovo. Così ci spieghiamo perché gli uomini del periodo rivoluzionario hanno potuto, nella sua opera, ascoltare la voce di tempi vicini alla libertà. Procedere oltre invece significa dar luogo a delle forzature e falsificare la reale figura goldoniana. «Solo in tale direzione non eversiva e non arditamente e programmaticamente riformatrice è dato di valorizzare – argomenta il Binni – con pieno rapporto di stimolo alla forza poetica che ne scaturisce, il forte, schietto amore del Goldoni per gli uomini, per la loro vita di civile ed umano rapporto, per le loro gioie, per il loro impegno laborioso, per la loro onestà, per i loro diritti alla vita e alla dignità personale».5 È possibile altresì comprendere quel suo interesse a mettere in scena situa- zioni concrete, non generiche, la profonda simpatia per la vita autentica, non guastata da falsi preconcetti, il gusto di ritrarre in chiave satirica la grettezza dell’esistenza vacua dei nobili decaduti, la prepotenza egoistica di aristocratici e nullafacenti, ma anche la boria di borghesi arricchiti e pretenziosi.
3 Ivi, pp. 721-722. 4 Ivi, pp. 729-730. Cfr. la nota 1. 5 Ivi, p. 731. VISIBILE E VERISIMILE: NOTE SULLA SCRITTURA TEATRALE DI CARLO GOLDONI 221
Così ci spieghiamo il suo rispetto per i borghesi e i mercanti laboriosi, custodi della loro onesta reputazione, per i popolani anche nelle loro risse e baruffe, per i gondolieri fieri della dignità del loro mestiere, per le fanciulle, per le massaie rette ed attente alla loro virtù, per i pescatori chiozzotti, dei quali il poeta è attento a rappresentare le virtù e le qualità. E che questa simpatia aumentasse nell’ultimo periodo veneziano verso gli strati umili e popolani, la cui voluta presenza nel teatro letterario italiano costituisce un titolo di merito per Goldoni, sta ad indicarne la maturazione culturale, che si ricollega al suo illuminismo, medio e capace di diventare valido supporto di poesia. Soltanto dopo aver fatto queste premesse, si può comprendere appieno il grande significato della riforma compiuta da Goldoni, nel passaggio dall’astrattezza e schematicità della com- media dell’arte (recuperandone la lezione di ritmo scenico), per introdurvi la vitalità del “mondo”. Non assistiamo più a opere con il solito intreccio, a quella messinscena troppo radicale e buffonesca, a «[…] caratteri astratti ripetitivi, ma figure verosimili di uomini, nelle quali il pubblico si può riconoscere. Non più maschere, ma volti di individui, le cui espressioni traducono moti interiori».6 Binni rileva:
poeta dell’umano e dei rapporti umani, della poetica simpatia per la vita nella sua concretezza associata (mai dell’uomo solo o dei suoi problemi astratti e metafisici), il Goldoni trae la forza del suo grande teatro, della sua perfezione di ritmo scenico, dalla forza del suo sentimento profondo e poetico di questa vita di rapporti, di dialogo, di colloquio ora più circoscritto in urto e attrito di pochi personaggi più rilevati e particolareggiati ora più aperto e corale, ma sempre bisognoso, per intima necessità del saldo tessuto di una società e di una situazione concreta e in interno movimento, in cui inquietudini e pene non sono assenti, ma sono vinte e superate da quella umana letizia, da quella lieta energia della vitalità in movimento che può ben compensare – anche ammessa la dubbia liceità di tale richiesta – la mancanza di una «divina malinconia» che, secondo De Sanctis e Croce, limiterebbe (ma così fuori della sua vera realtà umana, storica, poetica) la “poesia” del Goldoni.7
L’interesse non è però soltanto rivolto agli aspetti umani. Ad attirare Gol- doni è anche «[...] la città con la sua vita, con il suo agio, con la sua prosperità, con la sua sistemazione urbanistica adatta alla vita degli uomini che la abitano»8 (guardando «[…] con simpatia soprattutto alle donne»9), l’onestà, la saggezza
6 G. DE RIENZO, Carlo Goldoni, in ID., Breve storia della letteratura italiana, Tascabili Bompiani, Milano 2001, p. 120. 7 Ivi, p. 734. 8 BINNI, Carlo Goldoni, cit., p. 724. 9 Ivi, p. 727. 222 CARLO SANTOLI del cittadino onorato, il buon senso, la ragionevolezza e la moralità, il dina- mismo. Perciò i personaggi non risultano mai astratti figurini di virtù, perché Goldoni non intende tanto portare sul teatro lezioni di morale, sull’esempio di Maggi, quanto una trance de vie, una parte reale e viva della vita vera quale egli ha colto nella sua reale esperienza del mondo e del teatro. Non si tratta di uno sguardo introspettivo e speculativo, l’autore si rivela un pittore di una ristretta umanità più che acuto analizzatore dello spirito umano, non ne indaga le profondità, gli infiniti e reconditi motivi, né si occupa del do- lore umano e di altri elementi, che hanno invece lambito quei grandi conoscitori come Virgilio, Dante, Shakespeare. Predilige piuttosto, sulla linea degli autori della commedia nuova, greca e della palliata latina, come Menandro, Plauto, Terenzio, ritrarre quegli avvenimenti più comuni e consueti, quelle piccole e semplici vicende dell’esperienza quotidiana, quei fatti comuni, che molto spesso si verificano sotto i nostri occhi nella compagine familiare, nell’ambito della pettegola vita aristocratica, ed ancora nei medi ceti popolari o borghesi. Commedia quindi quella del Goldoni ‘verisimile’:10 carattere questo che co- stituisce uno dei suoi più alti pregi e meriti della sua riforma teatrale.
I miei caratteri – scrive Goldoni – sono umani verisimili, e forse veri, ma io li traggo dalla turba universale degli uomini, e vuole il caso che alcuni in esso si riconosca […].11
Azioni realistiche che si svolgono fra personaggi veri e diversi, così come sono diversi e veri gli atteggiamenti o gli accenti dello spirito. È nel carattere empirico di queste umane vicende, non tratte da alcun vecchio materiale di scuola, bensì da una esperienza vissuta, risiede quella inde finibile fragranza che vieta l’ossidazione dell’opera. Lo stesso Goldoni affermava che unico canone dell’arte fu l’osservare e il riportare sulla scena la natura. Francesco De Sanctis lo definisce il Galileo della nuova letteratura, ri- ferendosi alla riforma – egli diceva – era più importante che non apparisse, perché riguardando specialmente la commedia, aveva a base un principio universale dell’arte, cioè il naturale nell’arte, in op posizione alla maniera e al convenzionale.12
10 C. GOLDONI, Dalla scena al torchio. Prima lettera allo stampatore. Introduzione alla prima stampa de La donna di garbo, Opere, XIV, Edizione Bettinelli, Venezia 1750, pp. 427-431, in ID., Storia del mio teatro, a c. di E. AJELLO, BUR, Milano 2002, p. 462. 11 C. GOLDONI, L’autore a chi legge. Prefazione a La bottega del caffè, Opere, III, Edizione Paperini, Firenze 1753, p. 5, in ID., Storia del mio teatro, cit., p. 223. 12 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a c. di N. GALLO, introd. G. FICARA, Ei- naudi, Torino 1996, pp. 750-758. VISIBILE E VERISIMILE: NOTE SULLA SCRITTURA TEATRALE DI CARLO GOLDONI 223
Il teatro goldoniano ha infatti per natura tutte le qualità che si richiedevano al difficile assunto: finezza d’osservazione, spirito inventivo, misura e giustezza nella concezione, calore e brio nell’esecuzione. Già al principio dell’azione comica, grazie al prioristico studio e alla premeditazione dei caratteri, lo spettatore è portato alla conoscenza di essi, con un interesse tenuto sempre vivo da una elasticità di fantasia e da una gradevole varietà di particolari. A prova di quanto sopra è affermato, si prenda in esame, ad esempio, La locandiera, commedia in tre atti. Quali mirabili pitture in questo capolavoro comico. Indimenticabile, interessante e simpaticissima la figura della prota- gonista Mirandolina, padrona della locanda, dove s’imbattono il cavaliere di Ripafratta, il marchese di Forlimpopoli, il conte di Albafiorita, donna virtuosa e abbastanza scaltra, caratte rizzata da una certa civetteria, da un sano buon senso. Al fianco della protagonista sta quale deuteragonista il cavaliere di Riprafatta, indignato e meravigliato, perché quei due gentiluomini, il mar- chese ed il conte, si perdano dietro una donna, ostentando d’essere al disopra d’ogni amorosa smanceria e refrattario misogino, con frequenti disprezzi e scherni, non considerando che l’ostentata refrattarietà determina la più bella soddisfazione di rivincita che lei possa prendersi. E così inizia la sua manovra, incardinata nella finta approvazione e accet- tazione della tesi dell’antagonista, fondata sul disdegno del le donne, con uno speciale trattamento di eccezionale gentilezza e servitù. Mirandolina conti- nua più arditamente il suo gioco, finché non entra nelle grazie, costituisce la vittoria sull’avversario, sino nella amorosa simpatia del ca valiere, che ruina con la sua cedevolissima roccaforte ai portentosi assalti del nemico. Scrive Siro Ferrone:
Squilibri non eliminati del tutto neppure nella Lo candiera, che pure porta al massimo grado il raffina mento del “carattere” protagonista. Perfetto l’equili- brio strutturale: «Il lavoro è imperniato su due temi: la passione e la finzione. In tutta la commedia non vi è un personaggio che almeno una volta non finga» (Ringger). Il Marchese finge una ricchezza che non ha, il Conte si attribuisce una nobiltà comprata, le due commedianti si fingono dame; lo stesso Cavalie re si nasconde dietro una misoginìa che poi deve cedere all’amore per Mirandoli- na; anche Fabrizio fa ta cere la sua coscienza, a tratti emergente, per calcolo e amore del quieto vivere. Al centro dei rapporti fit tizi è Mirandolina che sulla falsa apparenza fonda tutto il suo operare: si finge innamorata del Cavalie re per indurlo a cadere a sua volta innamorato e così punire la sua misoginia. La protagonista è l’artefice di gran parte dell’azione (è la tessitrice della finzione centrale), ma non è la sola (gli altri sono autonomi nel loro errore, non indotti 224 CARLO SANTOLI
da lei). Come Don Marzio, una volta assunta l’impresa di fingere, Mirando- lina si rivela la più abile, attrice migliore delle due povere «comiche» capitate nella sua locanda.13
Ferrone esamina il personaggio, facendo riferimento ad un giudizio di Mario Baratto:
Alla base della sua azione c’è il piacere di recitare e d’ingannare: ella possiede infatti una certa «frigidità da intellettuale, il puntiglio di un Don Giovanni in gon nella, più teso alla conquista che interessato al pos sesso» (Baratto). Sapendo che la parte, inizialmente assegnata alla prima donna («amorosa») Teodora Medebac, fu poi passata da Goldoni ad una giovane «servetta» alle prime armi in un ruolo così impor tante (Maddalena Marliani), l’intera situa- zione sceni ca può essere letta quasi come la traduzione drammaturgica di un problema nato dietro le quinte della compagnia. Come abbiamo già detto, la concreta biografia professionale degli attori, di volta in volta, favorisce la ristrutturazione della scrittura di Goldoni. Il puntiglio con cui Mirandolina procede alla seduzione del Cavaliere altro non è che la “messa in scena” (o se si vuole, “messa in prova”) di un training attorico: come si può passare dal ruolo di «servetta» a quello di «prima amorosa».14
Il critico interviene anche sul ruolo della protagonista e dei personaggi minori:
Ma Mirandolina non è solo questo. Il suo personaggio minaccia di travolgere tutti gli altri perché ad esso Goldoni ha anche assegnato un duplice ruolo di seduzione. Non solo nei confronti degli attori, ma anche nei confronti del pubblico. Mirandolina è prova scenica vivente del legame, sottile e inestricabile nel teatro, tra finzione e passione, tra artificio e amore. Solo per via di inganno può nascere, quando esistono le doti necessarie, l’amore del Cavaliere. La fin- zione razionale della locandiera genera l’irrazionale del giovane misogino. Ed è per paura di questo irrazionale che Mirandolina riprende (forse) a fingere, si allontana dal Cavaliere e torna a Fabrizio, sposo promesso a lei dal padre, lo stesso che le aveva lasciato la proprietà dell’azienda familiare e i conseguenti obblighi borghesi di onesta amministrazione del patrimonio. Mirandolina è così la vittima, non umiliata ma serena, di un destino storico, ma anche il segnale indicatore di quello che il teatro goldoniano avrebbe potuto essere
13 S. FERRONE, Carlo Goldoni. Vita, opere, critica, messinscena, Sansoni, Firenze 2001, p. 67. Cfr. K. RINGGER, La fonction dramaturgique des comédiennes dans «La locandiera», in Settecento revisited, numero speciale di «Forum Italicum», vol. X, 1-2 (1976), pp. 31-42. 14 FERRONE, Carlo Goldoni. Vita, opere, critica, messinscena, cit., pp. 67-68. Cfr. M. BARATTO, La letteratura teatrale del Settecento in Italia. (Studi e letture su Carlo Goldoni), Neri Pozza, Vicenza 1985. Si veda anche B. ANGLANI, La locandiera, in ID., Goldoni. Il mercato, la scena, l’utopia, Liguori, Napoli 1983, pp. 187-203. VISIBILE E VERISIMILE: NOTE SULLA SCRITTURA TEATRALE DI CARLO GOLDONI 225
(concatenazione perversa e fascinosa di artificio e di sensualità), se le cose del secolo XVIII a Venezia fossero andate diversamente. Ma Venezia è la locanda di Goldoni e il patrimonio della sua drammaturgia non può essere dissipato, e anche lui, come Mirandolina, si piega ad un’atten ta amministrazione della riforma. Altrimenti, come Don Marzio, avrebbe dovuto, molto più verosimil- mente, abbandonare la sua città.
Tornando al rapporto fra protagonista e personaggi minori, Mirandolina, a differenza di Don Marzio, non soffoca gli altri attori in uno schema determini- stico, dimostrativo. Costoro non sono più macchiette o simboli del bene e del male (come nella Bottega del caffè). Si pensi all’ambiguità di Fabrizio, incerto tra popolare istintività e calcolo dell’utile, ai vizi sociali e nevrotici del Conte e del Marchese, all’incapacità delle commedianti di dominare le proprie invenzioni mediocri, allo stesso Cavaliere affascinato e resistente: anche il coro vive l’unico tema oggettivo della commedia, costituito dal controllo, perduto e ritro vato, della personale consapevolezza di ognuno nei suoi rapporti con gli altri.15 Si considerano gli oggetti e la scenografia:
La relativa oggettivazione e autonomia dei perso naggi di contorno ha delle immediate conseguenze anche linguistiche: in senso teatrale, la rivalutazione espressiva degli oggetti e della scenografia (le finzioni, le professioni d’amore, le ripicche di Mirandoli na, si manifestano grazie alla mediazione della bian- cheria, dell’intingoletto, della stiratura), che forniscono alla protagonista il vocabolo gestuale coerente con la sua “cultura” e il suo ruolo sociale; escludo no invece l’area del costume tipico e locale, introdu cendo uno sfondo neutro, cosmopolita (la locandiera è fiorentina), che significa l’aspirazione del teatro goldoniano ad una dimensione nazionale. Lo stesso dialogo si giova del tema della finzione e dello scavo psicologico: il divario tra ciò che gli attori sono e ciò che dicono è segnalato dalla qualità della loro lingua. L’attenzione di Goldoni tende a rilevare le incoerenze del parlare quotidiano: da una parte la comicità della «retorica» (del Cavaliere, dei due nobili) come censura dei sentimenti, separazione da questi, attraverso un bagno di estroversione verbale; dall’altra il libero gioco verbale di Mirandolina come ricerca, anche se insicura, di un rapporto di co municazione tra movimento interiore e espressione verbale.16
Quale musicalità, snellezza, garbatezza, grazia e varietà nel suo stile. Quanto riflesso di naturalezza, di spontaneità e di vita nel suo dialogo, che nei suoi alti e bassi, nelle carezze e negli scoppi, è un miracolo di finezza e grazia. Goldoni porta sulla scena i per sonaggi, quali sono nel civile consorzio, nell’umana società, portò la vita nel teatro.
15 FERRONE, Carlo Goldoni. Vita, opere, critica, messinscena, cit., pp. 68-69. 16 Ivi, p. 69. 226 CARLO SANTOLI
S’è voluto immeritatamente troppo attaccare il grande commediografo nel campo stilistico e linguistico. Rimane incontestato che la sua lingua non è quella alta, accademica letteraria, e risente troppo di riflessi dialettali, ma è giustificato dagli stretti obblighi di quel genere di composizione, che esige un linguaggio vivo e generalmente parlato, che potesse essere compreso allora, come asseriva lo stesso autore, in Toscana, in Lombardia, in Venezia e via dicendo. Non si può comunque negare che Goldoni sia stato un innovatore, operando un compromesso fra la lingua nazionale e il dialetto veneziano in direzione di un linguaggio vero ed inventato, naturale e poetico che è di certo fra i mezzi espressivi più originali e moderni della nostra letteratura settecen- tesca. È la necessità inoltre di una risposta improrogabile ad una esigenza di comunicazione e di dialogo, con il proposito di rappresentare la vita dei suoi protagonisti sociali (la borghesia e il popolo). Tale esito linguistico risulta soprattutto evidente nelle grandi commedie dell’ultimo periodo veneziano, in cui, come afferma il Binni, il ‘concertato’ teatrale è perfetto e risolve in poesia l’intreccio della commedia umana, che è lo specchio della vita e delle cose che fanno gli uomini nel bene e nel male. La parola assume una connotazione visiva, correlandosi con «la scena» che «descrive la narrazione diretta del testo teatrale, la illustra, quindi ne fornisce una versione, una esecuzione, come dire, in un “esplodere” continuo, in un irragiarsi semantico; mentre la lettura fa nascere le visioni soltanto lungo il suo percorrere le parole, scandendo in una successione gli eventi e quindi le immagini che si dispongono subito dopo la compitazione delle parole (libertà della lettura, suo registro), e quindi, in questa accezione, ogni lettura a sua volta sarà una esecuzione».17 La tessitura verbale diviene «illustrazione di un racconto, racconto di una immagine»,18 dispiegandosi in “tableaux scritti”,19 che si possono comparare con l’arte pittorica di Pietro Longhi, come attestano gli interessanti riferimenti:
[…] nella primavera del 1757, nel decimo tomo dell’edizione Paperini di Fi- renze, Goldoni nel dedicare all’incisore veneziano Marco Pitteri la lettera che precede la commedia Il Frappatore, riporta un giudizio lusinghiero su Pietro Longhi: «Pittore insigne, singolarissimo imitatore della natura, che, ritrovata una original maniera di esprimere in tela i caratteri e le passioni degli uomini, accresce prodigiosamente la gloria della Pittura che fiorì sempre nel nostro
17 E. AJELLO, Il racconto di una immagine, in ID., Carlo Goldoni. L’esattezza e lo sguardo, Edisud («Civiltà letteraria italiana»), Salerno 2001, pp. 129-130. 18 Ivi, p. 144. 19 Ivi, p. 200. VISIBILE E VERISIMILE: NOTE SULLA SCRITTURA TEATRALE DI CARLO GOLDONI 227
Paese». Sempre a Pietro Longhi, Goldoni, nel 1750, aveva dedicato un sonetto, in occasione delle nozze dei Grimani-Contarini, dal magniloquente titolo: Del sig. Dottor Carlo Goldoni fra gli arcadi Polisseno Fegejo al signor Pietro Longhi veneziano celebre pittore, che inizia con i famosi versi: «Longhi, tu che la mia Musa sorella/Chiami del tuo pennel che cerca il vero,/Ecco per la tua man, pel mio pensiero,/Argomento sublime, idea novella». Pietro Longhi sarà di nuovo citato in versi nel Burchiello, quale maestro di un suo imitatore, altro pittore, Andrea Pastò: «Cosse che farà onor al so pennello/Sul far de Piero Longhi, e al parer mio/Andreeta Pastò ghe corre drio».20
Pittura e teatro hanno la stessa visione rappresentativa. Epifanio Ajello osserva con acume:
[…] guardiamo ora questi quadri di Longhi che forse Goldoni ha guardato; e leggiamo le commedie alle cui rappresentazioni teatrali forse Longhi ha as- sistito; entrambi hanno vissuto e guardato la stessa Venezia, che noi oggi non possiamo vedere ma soltanto immaginare attraverso le visioni di questa città e dei loro abitanti che i due artisti ci hanno lasciato per iscritto o in figure.21
Gli “interni” dei testi ricordano quelli di alcuni dipinti longhiani.
[…] se del teatro del nostro autore (di alcune commedie) consideriamo soltanto i suoi “interni”, ebbene nei quadri (in alcuni) di Pietro Longhi c’è qualcosa che a quel teatro tende: queste stanze longhiane sembrano essere i luoghi della scena di alcune commedie goldoniane. Degli interni. I personaggi dipinti paiono trovarsi non casualmente in quelle stanze, sembrano invece abitarle da sempre, come accade per i personaggi goldoniani nelle camere o nei campielli […].22
L’immagine diviene attraverso la didascalia il corrispettivo figurativo delle opere teatrali di Goldoni.
I titoli che Longhi affida ai suoi quadri, quasi didascalie alle figure, sembrano essere testi che non semplicemente spiegano le immagini che soltanto commen- tano la scena rappresentata, ma sono essi stessi brevi scritture cui tendono le immagini, da cui srotolare una trama sia pure esile di quanto si sta guardando. Didascalie e figura si integrano in un unico discorso. A questo proposito, scrive sempre Roberto Longhi: «E difatti, non sarebbe punto arbitrario affiggere, sotto molti dei quadretti del Longhi, un titolo che fosse anche quello di certe commedie del Goldoni; o magari una sua battuta; a parte la certezza che i due
20 Ivi, pp. 188-189 con le note 110, 111, 112. 21 Ivi, p. 189. 22 Ivi, p. 190. Cfr. la nota 114. 228 CARLO SANTOLI
artisti si considerarono fratelli nell’espressione di quel “vero” che entrambi avevano in mente». Le didascalie ai quadri sembrano essere i titoli di tante commedie goldoniane, una per una riassunta in quelle immagini, quasi cartelloni dipinti per la prima teatrale e affissi alle porte del teatro. E così: “Il Mondo novo”, “Il ciarlatano”, “L’indovina”, “La scuola di lavoro” […].23
Le illustrazioni descrivono le vicende rappresentate:
[…] ne son prova del resto […] le vignette dello Zuliani nell’edizione gol- doniana dello Zatta, che sembran quasi desunte da quadri ignorati o perduti del Longhi.24
La composizione si dispiega su un percorso narrativo, visivo e reale.
23 Ivi, p. 193. Cfr. la nota 118. 24 Cfr. R. LONGHI, Pittura e teatro nel Settecento italiano, p. 74. PADRONE, MASSERE, SERVETTE, LOCANDIERE: VANNO IN SCENA LE DONNE Pietro Antonio Novelli, Antonio Baratti, Antiporta tomo V (Carlo Goldoni, Delle commedie di Carlo Goldoni Avvocato Veneto, Venezia, Pasquali, 1762, tomo V) (Venezia, Casa di Goldoni – Biblioteca)
«È una visita da lui fatta ad una giovane ammalata in assenza del padre, il quale era solito condurlo seco mentre esercitava la professione, intendendo di condurlo ad intraprendere la carreiera di medico.» (A.G. Spinelli, Bibliografia goldoniana, Milano, F.lli Dumolard, 1884, p. 107) Franca Angelini
DONNE GOLDONIANE E COMMEDIE ESOTICHE NEL TEATRO DELL’ILLUMINISMO
1. Personaggi femminili e riforma Oltre alla figura del mercante è certo quella della donna a rappresentare un ruolo centrale nella riforma goldoniana. Anzitutto in sintonia con le rifles- sioni sul tema condotte dai maggiori rappresentanti della cultura illuminista, impegnata a riflettere sull’uguaglianza e sulla differenza. Il secolo dei lumi è infatti anche il secolo che fonda, nella categoria del femminile, l’esistenza di una differenza nell’eguaglianza. Così nell’articolo femme dell’Encyclopédie firmato De Jancourt dedicato agli aspetti giuridici della questione si afferma che la donna ha «ses droits de l’égalité» data però la superiorità dell’uomo. La trattazione dell’aspetto mo- rale del problema, firmata Desmahis, è un racconto filosofico che si potrebbe chiamare «la storia di Cloe»: qui la donna è posta nella sua propria scena, la scena del mondo, costruita con dettagli di aspetti particolari e di differenze, cioè infedeltà, civetteria, dedizione ai piaceri, ecc.1 Sono luoghi comuni destinati a una lunga vita. Così anche la metafora di Rousseau della donna come «enigma»: «Elles occupent quand on ne les devine point» scrive.2 Privo di una teoria del femminile ma obbligato dal suo programma rifor- mista del teatro italiano a rappresentare la società veneziana e soprattutto a utilizzare i dati immediati di una pratica teatrale, Goldoni coglie la centralità della figura femminile, ad esempio della «servetta», come elemento dinamico del repertorio teatrale precedente, insieme al servo e al mercante ma meno legato allo schema immobile della maschera. Una centralità della donna verificata nelle sue prime esperienze teatrali, ancora da spettatore e subito interessato al «piacere» che dal teatro deve derivare. «C’etait pour la première
1 D’ALEMBERT- DIDEROT, Enciclopédie, Giuntini, Lucques 1758-68, t. VI, pp. 395-404. 2 J. J. ROUSSEAU, Pensées in Oeuvres, II, Gallimard, Paris 1964, p. 1303. 232 FRANCA ANGELINI fois que je voyais des femmes sur le théatre, et je trouvois que cela décorait la scène d’une manière plus piquante», scrive.3 Affermazione tanto più notevole se si pensa alla polemica della Chiesa e soprattutto dei Gesuiti, che nel secolo XVII avevano fondato sulla presenza della donna in scena e nelle Compagnie comiche la principale accusa contro l’istituto teatrale. Ma ancora un secolo dopo, sia pure in un diverso contesto culturale, la Lettre à d’Alembert sur les spectacles di Rousseau (1758) afferma: «toute femme qui se montre, se deshonore»4 insieme colpendo la donna nella vita, come personaggio e come attrice. In Goldoni la scena occupata dalla donna è invece quella in cui mondo e teatro si incontrano ad un alto livello di verosimiglianza, ponendosi tra natura e cultura, spinta dalla società non solo a vivere i suoi ruoli ma anche a recitarli; ruoli di madre e moglie in primo luogo, con tutte le varianti da putta a vedova: ma anche esecutrice di funzioni lavorative: per tutte, pensiamo alla locandiera e allo spazio di infinite libertà che tale posizione le consente. La maggior parte dei suoi personaggi sono putte, che sognano il matri- monio come occasione unica per liberarsi della severa legge del padre (reale o simbolica). Nel suo cammino verso la liberazione dai pregiudizi delle micro e macro società, il personaggio femminile goldoniano mette in atto secoli di furbizie archiviate nella sua memoria. Anche il matrimonio, sua meta preferita, non sempre è felice perché la donna passa dalla legge del padre a quella del marito; perciò, dopo che nubile e maritata, natura e cultura femminile si manifestano in quella che spesso è una condizione privilegiata perché di transito e aperta a nuove esperienze, cioè la condizione di vedova, generalmente ricca e partico- larmente disponibile a giocare col mondo senza giocarsi la libertà, mettendo alla prova gli altri senza compromettere se stessa. Putta, maritata o vedova, il personaggio femminile per la sua disposizione alla furbizia e all’inganno è, nei testi goldoniani, uno dei principali veicoli di trasmissione, passaggio, comunicazione tra società e convenzioni teatrali da rinnovare e riformare. Grazie alla sua relativa marginalità nella realtà sociale, la donna può inte- riorizzare a suo modo la stessa etica mercantile dell’uomo ma con una libertà inventiva che all’uomo manca. Sull’estensione di questa libertà, sui suoi lati positivi e allo stesso tempo
3 C. GOLDONI, Mémoires, in Opere, Mondadori, Milano, 1975, 5, (V) parte I, XLIII, p. 22. 4 J. J. ROUSSEAU, Lettre à d’Alembert, Garnier – Flammarion, Paris 1967, p. 168. DONNE GOLDONIANE E COMMEDIE ESOTICHE NEL TEATRO DELL’ILLUMINISMO 233 sulla necessità di imporle dei limiti, la maggior parte delle commedie gol- doniane non cessa di interrogarsi, sempre tenendo d’occhio il divertimento come scopo principale. Parlare del personaggio femminile significa dunque parlare del teatro goldo- niano nel suo complesso; soprattutto per il suo principale motivo di innovazione cioè la scelta dell’etica mercantile come etica anche dell’istituzione teatrale, del teatro cioè come istituzione fondamentale dello scambio culturale borghese. Con buone ragioni è stato privilegiato in questo progetto la presenza e le mutazioni del personaggio del mercante, dalla maschera di Pantalone, al giovane mercante Momolo, al petit maître innamorato della vita e della mondanità, al professionista sempre impegnato a rendere «onorata» la sua professione (di poeta, avvocato, attore, capocomico, ecc.); fino alla galleria dei nevrotici in numerose commedie degli anni 1753-59, alla galleria dei mercanti falliti, dei borghesi in crisi in quelle degli anni 1760-62, proiezioni ultime di uno scacco del fantasma del borghese illuminato che Goldoni avrebbe voluto come classe dirigente italiana, al tempo stesso scacco della sua propria missione teatrale. Se si assume invece la linea disegnata dalla galleria dei personaggi fem- minili il percorso è diverso, perché il personaggio maschile si carica di una referenza sociale inficiata dall’esemplarità, mentre quello femminile, grazie alla sua marginalità nella dimensione del reale, si offre interamente alla spe- rimentazione drammaturgica. Via via che le proiezioni utopistiche si affievoliscono sul personaggio maschi- le e questo perde la sua carica positiva avvicinandosi sempre più a quella che diventerà la “macchietta” comica, coi suoi tic, i refrains linguistici, le monomanie e fissazioni, passa al campo femminile non solo il ruolo di motore dell’azione ma quello della sperimentazione linguistica e di invenzione di spazi e tempi scenici. Pensiamo evidentemente agli Innamorati, al Campiello, ai Rusteghi, ecc. Il personaggio femminile segna dunque i tempi della riforma goldoniana e spesso li accelera mediante almeno tre tipi di teatro che chiameremo: della simulazione, del progetto e del conflitto, disposti non di necessità in senso diacronico ma spesso in modo sincronico, nella stessa commedia e nello stesso personaggio. Il primo e più generale teatro del femminile è quello della simulazione, data l’arte della finzione propria della donna e, naturalmente, dell’attrice e del personaggio. Partendo da una riflessione di Montesquieu secondo la quale le donne sono più false degli uomini a causa della loro subordinazione; più questa aumenta, più aumenta la loro falsità.5
5 C. L. DE MONTESQUIEU, Cahiers, Grasset, Paris 1941, p. 48. 234 FRANCA ANGELINI
È di questo tipo il continuo trasformismo, la perenne metamorfosi della servetta (parallela a quella del servo) nella commedia dell’arte, negli inter- mezzi e nell’opera buffa napoletana e veneziana. Qui la serva si maschera, per convenzione, negli abiti, nella lingua e nella voce. Ma, a partire da questa tradizione, la servetta, nei testi goldoniani, veicola una scrittura totalmente diversa, La prima commedia riformata, cioè interamente scritta diversamente dalla scrittura seriale e per didascalie del canovaccio, è non a caso, secondo l’autore, La donna di garbo, una serva-padrona che si maschera e assume tutti i ruoli che gli uomini pretendono da lei per arrivare al matrimonio finale. Tracce di travestimento si trovano in un altro personaggio che si impone oltre la subordinazione servile, cioè La vedova scaltra. Qui gli uomini si fan- no rappresentare da oggetti-feticcio: lo spagnolo dall’albero genealogico, il francese narciso dal suo ritratto, l’inglese da un gioiello. Ma la vedova sposerà quello che non dona niente, l’italiano, che nega il simulacro a vantaggio della realtà. Ed è in questa scelta che la vedova si rivela «scaltra». Da parte sua, si traveste da inglese, francese, spagnola, ma per conoscere cioè per smascherare gli uomini. Oltre i moduli convenzionali della commedia o dell’opera buffa qui pre- senti, notiamo il desiderio goldoniano che il teatro rappresenti la tipicità di un popolo e di una nazione, in una prospettiva che seguiterà verso i popoli altri e sconosciuti, nelle future commedie esotiche sui persiani, i peruviani, ecc., in sintonia con il teatro dell’illuminismo europeo. Comincia con queste commedie degli anni 40-50 il viaggio del perso- naggio femminile verso la sua emancipazione comica e in tale percorso la sua capacità di simulare si specializza, abbandona l’apparenza per diventare comportamento. È un percorso dal mondo del simulacro al mondo della parola e della comunicazione, cioè dal teatro della tradizione (intermezzi, canovacci) a quello della riforma. Segue dunque un tipo di teatro che chiameremo del “progetto”, che coincide con tutte le variazioni della scrittura goldoniana, costruita sul per- sonaggio in quanto individuo sia dal punto di vista linguistico sia da quello del comportamento. Qui la considerazione di Montesquieu deve essere rovesciata perché la simulazione non è dettata dalla subordinazione ma segnala, al contrario, un progetto di autonomia e libertà che coinvolge una recita, una regia e una messa in scena, sottolineando l’aspetto metateatrale di questi comportamenti. Qui la “natura” femminile diventa “cultura” femminile. Si pensa subito alla Locandiera, alla “sfida” che sta alla base del suo gioco, DONNE GOLDONIANE E COMMEDIE ESOTICHE NEL TEATRO DELL’ILLUMINISMO 235 al desiderio di libertà che tale sfida contiene, col rischio dello scacco che fa parte del gioco. E si pensa ai numerosi personaggi modellati su Mirandoli- na, cioè su attrici che padroneggiano le recite e perciò sottolineano e spesso esagerano i segni della loro femminilità. A tal proposito Daniel Aron, che ha tradotto La locandiera per la messa in scena di Jacques Lassalle alla Comédie Francaise nel 1981, si pone la seguente domanda: «La femme peut-elle faire autre chose que de se conformer à l’image d’elle meme qu’une societé masculine lui propose»?6 Per conquistare la simpatia del pubblico alla causa di Mirandolina – tra- sgressiva del codice sociale a suo modo – Goldoni deve caricarla di tutti gli attributi convenzionali della femminilità: civetteria, furberia, perfidia. In effetti la sfida del drammaturgo è di attirare forse la simpatia certo la comprensione del pubblico verso un personaggio “insensibile” per eccesso di razionalità, di progetto e di regia delle sue azioni. Ma l’amore impossibile tra una locandiera e un cavaliere deve evitare la- crime e passione, non può che essere posto in caricatura e a questo si arriva attraverso una perversione dei segni: Mirandolina, la perfida civetta recita lacri- me e svenimenti come regista della sua recita; perché lei sia simpatica occorre che il cavaliere sia deriso proprio a causa della sua incapacità a simulare. Così coincidono il perfido progetto di Mirandolina e quello altrettanto perfido della commedia. Da questo l’ambiguità del personaggio ma anche la sua possibilità di essere infinitamente interpretato nei secoli futuri; tra femminilità della sua recita civetta e mascolinità del progetto e della sfida e anche del suo finale rientro nella legge della società. «L’ora del divertimento è passata» annuncia Mirandolina al terzo atto; il che significa la mia commedia e la commedia stanno per terminare. Ma una galleria di altri personaggi di donne eccentriche, stravaganti, fis- sate occupa le commedie recitate al San Luca di Venezia negli anni 1753-59. I titoli indicano donne “sole”, “forti”, “spiritose” “brillanti “, “curiose”, “di maneggio”, “filosofe”, ecc.: sono donne che provocano e poi quasi sempre risolvono situazioni di conflitto radicale. Perché la guerra di Goldoni contro Chiari e Gozzi, contro i critici, gli impresari, la censura e talvolta il pubblico, obbliga la sua drammaturgia a cercare il nuovo rinnovando anche la vecchia commedia. Ora il personaggio femminile si pone al centro di questa ricerca, come protagonista di numerosi conflitti specialmente nella famiglia, all’interno della casa ma ora anche tra interno e esterno. Se il conflitto è nella casa, nello spazio
6 L’auberge de Mirandoline, in «Comedie francaise», 98, aprile 1981, p. 11. 236 FRANCA ANGELINI scenico nel quale le putte speravano di diventare padrone dopo il matrimonio, la libertà è allora fuori della casa, nelle piazze, nei campielli veneziani dove il carnevale concede un onesto divertimento. Protagoniste della vita all’esterno della casa, queste donne sono oneste e tuttavia si mostrano, secondo una logica mondana che Rousseau aveva negato alle donne. Il mondo veneziano trova nella scena di questo teatro il suo luogo di rap- presentazione e nei personaggi femminili i mediatori del conflitto tra interno e esterno. Seguendo i tic e le manie di questi personaggi, Goldoni sviluppa lo spazio scenico e insieme quello linguistico tra italiano, veneziano e amabili caricature dell’uno e dell’altro (pensiamo a Gasparina nel Campiello). Se la donna è causa di antagonismi, le baruffe in certo senso fanno parte del loro carattere “naturale”: lo stesso personaggio risolve alla fine della com- media il conflitto che ha creato: succede nella Casa nova e nei Rusteghi, in cui la parola della donna funziona alla fine come mediatrice e come elemento risolutivo, parola della ragione organizzata in una “tirata” ovvero in una “ren- ga” da avvocato. Esattamente all’opposto della sua partenza nella commedia: la donna, da “natura” che era, esprime alla fine cultura e legge. Sta qui un aspetto particolare della drammaturgia italiana e dei suoi rap- porti con il teatro dei lumi. Nel teatro di Marivaux, ad esempio, ragione e sentimento sono presenti in ugual misura in uomini e donne; e se è vero che qui il sentimento annuncia le sue leggi perentorie, la sua forza trasgressiva e il suo egualitarismo, è anche vero che Marivaux sarà molto polemico contro i petit-maitres a causa della loro debole mascolinità. E Rousseau, nel suo Narcisse immagina un petit maitre dal nome ambiguo di Valère (maschile e femminile), che non si riconosce nel suo ritratto travestito da donna, si inna- mora dunque di se stesso ma da questa esperienza riceve una dura lezione e un vero e proprio choc. La femminilità è l’altro da sé, è il contrario dell’uomo pur essendo presente anche in lui. La Lettre à d’Alembert di Rousseau contiene anche la sua polemica contro la femme savante: “Parcurez la plupart des pièces modernes: c’est toujours la femme qui sait tout, qui apprend tout aux hommes».7 È quanto succede nella maggior parte delle commedie goldoniane ricordate, in cui il personaggio femminile si situa tra simulazione, progetto, conflitto, legando le situazioni in cui si trova ad agire con la coscienza dei suoi propri limiti, insieme rivelando i limiti della società che l’ha fatta uscire dalla casa e le ha dato voce e parole, ragione e legge. In una commedia scritta a Parigi nel 1763 abbiamo il caso-limite dello scacco della ideologia mercantile applicata ad un destino femminile.
7 ROUSSEAU, Lettre à d’Alembert, cit., p. 117. DONNE GOLDONIANE E COMMEDIE ESOTICHE NEL TEATRO DELL’ILLUMINISMO 237
È il Matrimonio per concorso in cui un padre offre sua figlia in matrimo- nio ricorrendo ai piccoli annunci di una gazzetta. È l’estrema svalutazione di quello che nel suo teatro e in quello della sua epoca era considerato come un valore, cioè il matrimonio; ed è anche l’esempio di un uso perverso di un mezzo culturale importante come la stampa: ed è infine una critica radicale alla società mercantile che in Italia ha fallito compiti e speranze come classe dirigente Un «sonno della ragione» avvolge ora il personaggio del mercante, e non solo nel teatro di Goldoni. Lo stesso sonno avvolge La Marquise d’0 di Kleist, in un racconto che inizia evocando una stessa situazione di “svalutazione” delle istituzioni e della stampa pubblica della commedia goldoniana: «A M., importante città dell’Italia del Nord, la Marchesa d’O annunciò sui giornali che si era trovata incinta a sua insaputa...».
2. Nelle commedie esotiche Tra sentimento e ragione comincia un conflitto nuovo, un confitto an- nunciato dalle commedie “esotiche” di Goldoni, scritte in grande misura seguendo la moda, ma altrettanto importanti perché mostrano la necessità di ambientare lontano quanto il suo occhio vede vicino. La moda esotica stabilisce molti stereotipi nazionali destinati a lunga vita; quello del cinese saggio confuciano ma anche tiranno dispotico e crudele, dell’egiziano dotto, del turco esperto nelle arti marziali e nella politica, del persiano sensuale e raffinato, dell’arabo geniale e incredulo. Il secolo XVIII crea anche il mito del buon selvaggio, dell’uomo natural- mente buono perché vissuto fuori delle società civili, il più vicino a quella parte che ogni uomo ha in sé e presto soffoca, cioè la parte del bambino in- nocente, felice nella sua ignoranza delle regole sociali e delle loro ingiustizie. Così l’Émile di Rousseau, opera fondamentale per la pedagogia dei secoli seguenti. Ma non c’è scrittore o pensatore del secolo dei lumi che non aderisca alla moda esotica: pensiamo alla Cina di Montesquieu nell’Esprit des lois del 1748, dove discute la tesi dei Gesuiti che quello fosse un esempio di buon governo perché esercitante un potere assoluto basato su paura onore e virtù dei sudditi. Tesi alla quale Montesquieu oppone la sua idea che buon potere debba basarsi sulla divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Il tema è ripreso da Voltaire nel suo fortunatissimo dramma L’orphelin de la Chine dove esemplifica sui cinesi la sua idea della tolleranza, da lui consi- derato appannaggio dell’umanità, capace del perdono reciproco delle umane 238 FRANCA ANGELINI debolezze ed errori. Sempre nel suo Dizionario filosofico, alla voce Chine scrive: «Lasciamo dunque che cinesi e indiani si godano in pace il loro bel clima e la loro antichità...» proponendo di considerare gli altri come consideriamo noi stessi, misurando i loro aspetti negativi con lo stesso metro con cui misuriamo i nostri difetti poiché più il mondo allarga i suoi confini più numerose saranno le nostre possibilità di vivere pacificamente: «se avrete due religioni in patria, si scanneranno a vicenda: se ne avrete trenta, vivrete in pace».8 Sono idee elaborate a suo modo da Goldoni nelle sette commedie esotiche, tutte a protagonismo femminile, nelle quali il mondo orientale sconosciuto viene usato per esprimere una dismisura passionale ed erotica altrimenti dif- ficilmente rappresentabili nel mondo veneziano e per criticare i falsi valori del mondo europeo. Così La peruviana, La bella selvaggia, La dalmatina e La bella Georgiana, ma soprattutto la trilogia persiana (La sposa persiana, Ircana in Julfa, Ircana in Ispahan) mostrano come Goldoni conoscesse testi capaci di ampliare la sua conoscenza dei mondi esotici e facendogli meglio conoscere le idee degli illuministi. Le Lettres d’une Pèruvienne di Madame de Graffigny vengono tradotte a Venezia nel 1747, e queste lettere hanno come modello le Lettres persanes di Montesquieu del 1721, opera che, prima di Voltaire, aveva capovolto il punto di vista occidentale immaginando dei persiani che compiono un viag- gio a Parigi, si meravigliano della diversa civiltà, e si chiedono come si possa essere parigini cioè si pongono le stesse domande che i parigini pongono ai mondi esotici. Così viene introdotto il metodo della inversione del punto di vista tra chi osserva e chi è osservato nonché il metodo del paragone tra civiltà diverse, affinché la critica dell’altro proceda parallelamente a una critica del proprio paese. Il mondo persiano di Goldoni sottintende queste idee ma le sviluppa a suo modo. Nella Sposa persiana sposta la sua visione di un mondo diverso dalla politica, punto di vista centrale in Montesquieu, alla passione amorosa e successivamente ai temi del denaro e delle leggi mercantili, che appartengono a tutta la sua produzione teatrale. Il maggior successo della trilogia, cioè La sposa persiana, è ambientato in una ricca magione a Ispaan, capitale del regno di Persia, «in un atrio che conduce al serraglio di Tamas», giovane ricco innamorato della schiava Ir- cana e costretto dalla legge del paese e del padre a sposare Fatima, figlia del tartaro Osmano.
8 VOLTAIRE, Dizionario filosofico, introd. di ETIEMBLE, note di J. BENDA, Milano, Rizzoli 1979, 2 voll.: la cita vol. I, pp. 142-45. DONNE GOLDONIANE E COMMEDIE ESOTICHE NEL TEATRO DELL’ILLUMINISMO 239
Nei persiani e nei tartari Goldoni ha modo di tratteggiare due civiltà diverse, quella persiana degli harem e dei serragli occupati da donne-schiave e quella tartara della saggezza politica e del furore guerresco. Nello stesso modo si scontrano le protagoniste Fatima promessa sposa, saggia e paziente, e Ircana schiava da lui amata, passionale e pronta a tutto, anche a usare il pugnale contro l’amato e contro se stessa pur di non perdere l’uomo. Lo per- derà alla fine, ma guadagnerà la libertà. Come si vede, la lontananza permette di delineare differenze radicali nelle psicologie femminili e anche di toccare limiti estremi della passione e dell’erotismo, difficilmente ambientabili in luoghi vicini e riconoscibili. Al tema della passione amorosa si intreccia quello del matrimonio d’amo- re contro il matrimonio combinato, della monogamia contro la poligamia persiana, infine della libertà contro la schiavitù della donna. Goldoni usa dunque il paese lontano della Persia per affermare le sue idee con maggiore forza di convinzione. Interessa un confronto tra la Turandot di Gozzi e la sua La sposa persiana, la prima opera del 1762, la seconda del 1753, due epoche lontane; e proprio nel 1762 Goldoni lascia l’Italia per Parigi dove vivrà i suoi ultimi trentun anni. Dunque si può considerare un precursore della moda esotica a Venezia, mentre Gozzi la consegna al mondo romantico imminente. Ma la differenza fondamentale sta nei diversi punti di vista, politico-ideologico quello di Goz- zi, intento a conservare vecchi valori e ironicamente mettendo in caricatura i nuovi; sperimentale quello di Goldoni, ancora fondato sul protagonismo femminile come campo privilegiato per alzare i toni della passione amorosa e dei rapporti tra uomo e donna. Gozzi scrive per un pubblico aristocratico e per educare quello popolare alla conservazione dei suoi caratteri, mentre Goldoni si rivolge a un pubblico borghese che intende educare all’uguaglianza, estendendo al pubblico po- polare il modello borghese. Gozzi diversifica i linguaggi in base alle diverse appartenenze di classe, parlando in versi e in italiano i personaggi aristocratici, mentre i servi e i borghesi parlano in prosa e in dialetto per sottolinearne l’inferiorità. Goldoni invece scrive in versi rimati e in un linguaggio quotidiano, buono per tutti i personaggi dai nobili ai ricchi a Ircana ai servi. Perciò rifiuta le maschere pur usando tipi comici convenzionali come la cattiva serva; mentre Gozzi le tiene in vita per confermare che nella commedia dell’arte risiedeva l’essenza e la maggior gloria del teatro italiano, educando il pubblico popolare alla conservazione, e questo forse provoca la sua fortuna presso il pubblico veneziano. 240 FRANCA ANGELINI
Tuttavia entrambi usano per il mondo esotico la tragicommedia, forma propria dell’evasione fantastica, come favola pastorale nel XVII secolo, come favola esotica nel XVIII; vi domina l’evasione fantastica, il mondo della col- lisione ma con lieto fine. La sposa persiana e la Turandot condividono anche il protagonismo fem- minile, il tema del matrimonio, l’aspirazione della donna alla libertà nonché l’opposizione dei figli ai padri. E questo mostra la forza del mondo esotico, la possibilità della proiezione nel lontano che consente al teatro un ampio margine di libertà. Per il resto, le opere dei due veneziani hanno esiti opposti, perché Turandot accetta, col matrimonio, la soggezione sia alla legge del padre sia a quella del marito, mentre i due personaggi della Sposa persiana offrono due alternative, il matrimonio come sottomissione alla legge del padre per Fatima e la liberta, senza matrimonio, per la schiava Ircana.9 Questi esiti arricchiscono e articolano la concezione borghese di Goldo- ni, fautrice della libertà, oltre che del matrimonio (pensiamo all’aspirazione principale di Mirandolina e al suo matrimonio che insieme esegue un volere del padre e una via d’uscita dall’intrigo da lei creato nella locanda). Nelle altre commedie esotiche, Goldoni sviluppa la sua critica al mondo esistente e il suo sogno di un mondo possibile. Dopo la trilogia persiana scrive nel 1754 con poco successo, La Peruviana, tratta dal romanzo epistolare di Madame de Graffigny, dove critica soprattutto la conquista europea del Perù per sete di oro. Ambientata nei pressi di Parigi, cioè nel centro della più raffinata civiltà dell’epoca, la tragicommedia, proprio grazie a questa ambientazione, ha modo di sviluppare continui confronti tra nazioni diverse mettendo in scena francesi e spagnoli, diversamente coinvolti nella conquista del Perù, paese dell’oro. Sviluppa ulteriormente l’utopia di un mondo migliore nella Bella selvaggia, dove ancora una volta tratteggia, in un personaggio femminile, un’umanità differente, ingenua e innocente, come voleva Rousseau. L’esistenza di mondi diversi, la necessità del continuo paragone nella relatività dei valori, la coscienza della necessità di declinare ormai al plurale quel «mondo» che, insieme al «teatro», aveva caratterizzato in una formula la sua riforma sottintende la drammaturgia esotica di Goldoni. Non più «mondo e teatro» ma mondi e teatri. E questo darà i suoi frutti nelle commedie degli anni dal 1758 al 1762, in cui il protagonismo femminile continua arricchito
9 Su queste commedie vedi F. DEL BECCARO, L’esperienza esotica del Goldoni, in «Studi goldoniani», 1979, pp. 62-101; e G. HERRY, La Perse de Goldoni ou le moment narcissique, in AA.VV., Etudes sur le XVIII siècle, Université de Strasburgo 1982, pp. 127- 260. DONNE GOLDONIANE E COMMEDIE ESOTICHE NEL TEATRO DELL’ILLUMINISMO 241 però da molti dubbi sulla razionalità dei comportamenti e sulla forza di eros. Pensiamo agli Innamorati, ai Rusteghi, alla Casa nova, alla trilogia della Villeggiatura, ecc. Il sogno di Goldoni di un teatro anche educativo per la città di Venezia tramonta negli stessi anni in cui scrive le sue maggiori commedie, ancora centrate sulla condizione femminile presa come campo eccellente di esempio e di sperimentazione. Il percorso della donna dalla sua condizione di madre e di sposa a una condizione di critica e di antagonismo verso una società in crisi si compie con le ultime commedie veneziane, con un teatro in cui il mondo femminile è esplorato e teatralmente utilizzato fino al limite delle sue prospettive storiche; senza cessare di essere un mondo della particolarità e della differenza rispetto al mondo maschile.
Pietro Antonio Novelli, Antonio Baratti, Antiporta tomo IX (Carlo Goldoni, Delle commedie di Carlo Goldoni Avvocato Veneto, Venezia, Pasquali, 1762, tomo IX) (Venezia, Casa di Goldoni – Biblioteca)
«L’autore, ecc. … Racconta intrighi amorosi ed il passaggio in Chioggia ove venne addetto a quel Tribunale criminale. Narra le sue impressioni nel «vedere un uomo attaccato alla corda», tema della vignetta, ….» (A.G. Spinelli, Bibliografia goldoniana, Milano, F.lli Dumolard, 1884, p. 111) Giorgio Cavallini
BREVE POSTILLA SUL LINGUAGGIO DI MIRANDOLINA
1. Colgo volentieri l’invito, fattomi dalla Direzione di «Sinestesie» in occasione del numero monografico della Rivista dedicato a Goldoni, per ritornare, con questo mio contributo, su un argomento da me già trattato in due saggi distinti1 e per aggiungere, sulla base di alcuni nuovi riferimenti testuali, qualche altra considerazione in merito. L’argomento è fornito dal linguaggio usato da Mirandolina, protagonista della commedia La Locandiera (1753), sia in colloquio con gli altri personaggi sia in monologo con se stessa. Come è noto, essa è il personaggio femmi- nile forse più seducente e più intellettualmente lucido del teatro comico goldoniano; e si può dire che in lei assurga al ruolo principale una figura femminile che ha parecchi precedenti nell’opera dell’autore: dalla Donna di garbo (1743) alla Vedova scaltra (1748), alla Castalda (1751), fino alla Serva amorosa (1752). Ma nessun’altra di queste figure ha la sua grazia ed amabilità di spirito, la sua consapevolezza ed efficienza, la sua razionalità di giudizio. Donna attiva e volitiva, fedele al ruolo che impersona, Mirandolina si dimostra, inoltre, capace di riscattarsi dall’inferiorità propria allora del suo sesso per affermarsi tanto sul piano individuale quanto su quello sociale, riuscendo così a dominare i personaggi che le ruotano attorno nel mondo della sua locanda. A tutto ciò si aggiunga la predilezione, non riservata unicamente alla scena, del commediografo veneziano per le donne, che egli in genere rappresenta ricche non solo di attrattiva muliebre ma anche di vitalità e di concretezza.
1 Cfr. G. CAVALLINI, I verbi di Mirandolina, in «Critica letteraria», 82, XXII, 1994 e poi in Parole d’autore: usi stilistici da Boccaccio a oggi, Bulzoni, Roma 1995, pp. 105-122; ID., L’“ars loquendi” di Mirandolina, protagonista della “Locandiera” di C. Goldoni, in «Rivista di Lettera- tura Italiana», XXV, 2007, I (n. speciale dedicato a Carlo Goldoni in Europa, a c. di I. CROTTI) e poi in Un “pellegrinaggio” di Montale a Certaldo in compagnia di Vittore Branca e altri studi e postille di letteratura italiana, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 2008, pp. 47-61. Studi a cui si rinvia anche per la bibliografia critica in materia. 244 GIORGIO CAVALLINI
Premetto in rapida sintesi i risultati dei miei due saggi sopra ricordati, strettamente connessi l’uno all’altro, prima di passare a fornire qualche altro dato, ricavato anch’esso dal testo, a integrazione e completamento della mia interpretazione.
2. L’esame dei verbi più usati dalla Locandiera nel suo linguaggio testimo- niano in maniera efficace quelle che di solito vengono apprezzate come sue doti. Di esempio fra tutti è il verbo fare, il più ricorrente, il quale ne esprime uno dei modi di essere fondamentali: l’efficienza, legata al suo carattere do- tato di senso pratico e di energia, tale da non accontentarsi soltanto di fare, ma da riuscire anche a far fare agli altri ciò che essa desidera e si prefigge di ottenere. Altri verbi frequenti in bocca a lei sono sapere e volere: il primo ne indica la consapevolezza e l’intelligenza congiunte; il secondo la carica volitiva e la ferma decisione con cui la donna intende portare a compimento i suoi propositi, ogni volta realizzandoli. Sulla trama della commedia non occorre soffermarsi data la sua notorie- tà. Basti soltanto ricordare che Mirandolina, avvezza a sentirsi ammirata e corteggiata da chi la circondi nella sua locanda, si picca di far innamorare il Cavaliere misogino o «disprezzator delle donne»2 allo scopo di renderne mani- festa l’incoerenza e di avvilirne la presunzione davanti a tutti, fino al punto di arrivare a burlarsi di lui. Risultato conseguito già alla fine del secondo dei tre atti che si conclude con questa battuta della protagonista: «L’impresa è fatta. Il di lui cuore è in fuoco, in fiamma, in cenere.3 Restami solo, per compiere la mia vittoria, che si renda pubblico il mio trionfo, a scorno degli uomini presuntuosi e ad onore del nostro sesso.». L’ultima parola sopra citata – inserita nella frase di cui fa parte: «[…] e ad onore del nostro sesso» – consente di chiudere la pur necessaria premessa e
2 La definizione – che si legge nella Presentazione della commedia: C. GOLDONI, La Locandiera, L’Autore a chi legge, in Commedie, a c. di N. MANGINI, UTET, Torino 1971, vol. secondo, p. 258 – è ripresa dalla protagonista in una scena dell’ultimo atto (III, XIII): «[…] È vero che mi sono assai divertita nel farmi correr dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolver qualche cosa di grande. Son sola, non ho nessuno dal cuore, che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in un tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo… Ma… prometti, prometti, si stancherà di credermi… Sarebbe quasi meglio ch’io lo sposassi davvero. Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà.». 3 Sul ritmo binario e su quello ternario (presente in questa frase), variamente alternati, a cui fa frequente ricorso la Locandiera nel suo linguaggio, rinvio al secondo mio saggio, pp. 50-54. BREVE POSTILLA SUL LINGUAGGIO DI MIRANDOLINA 245 di presentare, come si è accennato all’inizio, qualche notazione aggiuntiva. Si potrà avere, così, una conferma di quanto fin qui detto sul carattere di Mirandolina e, altresì, rilevare come essa, per la sua apertura alle istanze di rinnovamento, si dimostri molto più duttile dell’uomo, rimasto ancorato a pregiudizi e a privilegi destinati ormai ad essere superati.
3. Se si compie un passo indietro e si risale alla prima scena in cui la Lo- candiera fa la propria comparsa, cioè alla quinta dell’atto I (sono presenti, in colloquio con lei, anche il Marchese di Forlipopoli, il Conte d’Albafiorita e il Cavaliere di Ripafratta), nella sua parte finale il Cavaliere trova da ridire in tono piuttosto sprezzante a proposito della biancheria preparatagli, e, non contento della risposta cortese ma non arrendevole della donna («Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza.»), con rinnovato mal garbo cerca di troncare il discorso in modo perentorio («Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti.»). Al che fanno seguito le seguenti battute:
CONTE. [A Mirandolina] Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. CAVALIERE. Eh, che non ho bisogno d’essere da lei compatito. MIRANDOLINA. Povere donne! Che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor Cavaliere?
La scena si chiude con un’altra battuta (inaugurata da un «Basta così.») del Cavaliere, che poi si allontana. In quella successiva (I, VI) i tre personaggi rimasti commentano quanto accaduto e Mirandolina, «stomacata» del «mal procedere» del personaggio appena partito, si dichiara addirittura disposta a congedarlo e a dirgli di andarsene. Ma, più che l’esito di questa vicenda, ciò che qui interessa è la battuta sopra citata della Locandiera, la quale usa il plurale del pronome personale di prima persona, “noi”, in riferimento a tutte quante le “donne” in genere, dopo averne commiserato la sorte. Questo plurale in- dica la medesimezza della protagonista con il suo sesso, in contrapposizione a quello maschile: medesimezza destinata a non rimanere episodica o isolata, ma ad essere da lei ribadita con convinzione anche in altre occasioni. Si veda ad esempio, nella scena nona del medesimo atto, la conclusione di un suo lungo monologo:
MIRANDOLINA. sola […] Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature d’amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri, che son 246 GIORGIO CAVALLINI
nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.4
Se qui la protagonista sembra parlare con la voce di Goldoni stesso – segno, comunque, dell’indubbia simpatia che l’autore nutre per il suo personaggio –, essa in un’altra scena (I, XV) dapprima ricorre ancora al plurale “noi”, riferito alle “donne” («noi altre donne»), per contrapporsi nuovamente agli uomini; e, così dicendo, intanto si cala appieno nel suo ruolo, che la vuole sempre a pronta disposizione di ogni desiderio espresso dai clienti della sua locanda:
MIRANDOLINA. Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazien- za che abbiamo noi altre donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche saletta, favorisca di dirlo a me.
Poi torna a pronunciare – qui non si prende in considerazione un altro “noi” indicante (vedi sotto), a differenza di quelli già citati, la propria cate- goria professionale – la parola “sesso” accompagnata dall’aggettivo “nostro”, rivendicando così la sua appartenenza allo stesso; il che sempre in contrasto con quello maschile, cioè con «quegli uomini che [ne] hanno paura» e che perciò sono degni di essere da lei compatiti:
MIRANDOLINA. Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini che hanno paura del nostro sesso.
Tale schietta rivendicazione muliebre viene ribadita nella conclusione del primo atto (I, XXIII). Sola in scena e impegnata in un monologo, la Locandiera, mentre si ripromette di far innamorare il Cavaliere di Ripafratta, esalta, pur senza ricorrere al “noi”, la capacità propria della donna in genere di aver la meglio, grazie all’«arte sua», sull’uomo:
MIRANDOLINA. […] Chi è quello che possa resistere ad una donna, quando le dà tempo di poter far uso dell’arte sua? Chi fugge non può temer d’esser vinto, ma chi si ferma, chi ascolta, e se ne compiace, deve o presto o tardi a suo dispetto cadere. [Parte].
4. Nel secondo atto si possono registrare altre due battute di Mirandolina che ne confermano il ricorso al “noi” muliebre, se così può definirsi, ed il riferimento al “sesso” sempre, s’intende, femminile. La prima è pronunciata
4 Affermazione così commentata da Nicola Mangini: «Questo era piuttosto il parere dell’Autore, che non del personaggio» (C. GOLDONI, La Locandiera, in Commedie, cit., p. 272, nota 22). BREVE POSTILLA SUL LINGUAGGIO DI MIRANDOLINA 247 in occasione del suo finto svenimento, «colpo di riserva sicurissimo» architet- tato da lei (II, XVII) per vincere l’ultima resistenza del Cavaliere misogino. Quasi alla fine della scena, mentre questi sta accorrendo con dell’acqua allo scopo di farla rinvenire, la donna ha il tempo di assaporare la sua vittoria con le seguenti parole:
MIRANDOLINA. […] Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento. […].
La seconda battuta – già citata nel secondo capoverso del paragrafo 2 – coincide con la conclusione dell’atto (II, XIX) e certifica, da parte della Locandiera, non solo la soddisfazione per la “vittoria” conseguita sul Cavaliere ma anche l’intento di rendere pubblico il proprio “trionfo”; e ciò non tanto per una rivalsa esclusivamente personale quanto per la celebrazione, da far conoscere a tutti, dell’impegno da lei assunto e razionalmente realizzato «a scorno degli uomini presuntuosi e ad onore del nostro sesso»:
MIRANDOLINA. L’impresa è fatta. Il di lui cuore è in fuoco, in fiamma, in cenere. Restami solo, per compiere la mia vittoria, che si renda pubblico il mio trionfo, a scorno degli uomini presuntuosi e ad onore del nostro sesso. [Parte].
La parola “sesso”, qui in posizione di forte risalto per essere conclusiva della battuta e della scena e dell’atto, ritorna sulla bocca della protagonista anche nel terzo ed ultimo atto della commedia. Questa volta la Locandiera è alle prese con Fabrizio, suo fedele e affezionato cameriere, che alla fine sce- glierà come marito. Al termine di una breve schermaglia, la donna intenta a stirare, dopo l’uscita di lui dalla scena, rivendica ancora una volta in soliloquio la sua appartenenza e fedeltà al “sesso”, facendo ricorso ad alcuni dei verbi che – come si ricorderà – si registrano con maggiore frequenza nel suo parlare (“fare”, “sapere” e “volere”):
MIRANDOLINA. […] Mi faccio merito con Fabrizio d’aver ricusata la boccetta d’oro del Cavaliere. Questo vuol dire saper vivere, saper fare, saper profittare di tutto, con buona grazia, con pulizia, con un poco di disinvoltura. In materia d’accortezza, non voglio che si dica ch’io faccia torto al sesso. [Va stirando].
Da notare, infine, a proposito della parola “sesso” usata dalla protagonista, che essa è adoperata sempre e soltanto per quello femminile. Si tratta, perciò, di scelta precisa e deliberata, la quale concorre alla rappresentazione del suo 248 GIORGIO CAVALLINI carattere e ne conferma manifestazioni ed aspetti: un ulteriore addendo ver- bale – quasi un’altra tessera che s’intoni al mosaico e lo completi –, di per sé talmente naturale da concorrere in maniera perfetta al disegno complessivo della sua personalità.
5. Quanto si è rilevato concerne soltanto alcuni aspetti singoli, per di più quanto mai minuti, del linguaggio, «scintillante di civetteria e di intellettuale misura»,5 della Locandiera. Perciò tale esame non vuole essere fine a se stesso, ma mira a confermare, sia pure da un angolo visuale particolare, la coerenza artistica del personaggio, caratterizzato da razionalità e concretezza. Alla vitalità di esso e alla naturalezza del suo dire corrisponde l’arte dell’autore, creatore di un dialogo, definito «questa ottava meraviglia del mondo teatrale», nel quale «ogni parola risponde a un’altra».6 Nel linguaggio goldoniano, infatti, la parola non è mai isolata o sepa- rata dal suo contesto: «in unione alle altre, fa parte integrante e necessaria dell’organismo vivo della frase; e questa, anche per le preminenti esigenze comunicative proprie della rappresentazione teatrale, tende a essere breve, logica, razionale, chiara, efficace, ed è inserita, a sua volta, nel flusso mobile e dinamico del dialogo».7 Nel concludere questa breve postilla, vorrei ribadire che con la mia ricer- ca, condotta sul piano concreto della lingua, ho inteso limitarmi a mettere in evidenza un elemento singolo, certamente piccolo o addirittura minimo, dell’opera presa in considerazione: ciò nondimeno, mi auguro – se posso for- mulare un auspicio; ma saranno i lettori benevoli a decidere in merito – che esso, da me ritenuto significativo e di conseguenza degno di esame, possa in qualche modo essere suscettibile di far vedere o anche soltanto intravedere quella che si può definire l’impronta del tutto.
5 G. FOLENA, L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni, in L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Einaudi, Torino 1983, p. 105. 6 R. BACCHELLI, Saggi critici, Mondadori, Milano 1962, pp. 524 e 539. 7 G. CAVALLINI, L’“ars loquendi” di Mirandolina ecc., in Un “pellegrinaggio” di Montale a Certaldo in compagnia di Vittore Branca ecc., cit., pp. 60-61. Ilaria Crotti
«DEL RE DI SPADE, O DEL RE DI COPPE?». STRATEGIE SOCIALI E PROIEZIONI SIMBOLICHE NE LA LOCANDIERA
Il personaggio di Mirandolina,1 qualora lo leggessimo al suo grado docu- mentale, ossia in quanto immagine che ‘abita’ in un contesto e in uno spazio determinati, vale a dire nella realtà sociale e urbana veneziana della metà degli anni cinquanta del XVIII secolo,2 dà vita e voce a una figura che svolge un ruolo del tutto innovato.3 Ella difatti impersona un prototipo: una conduttrice di locanda, vale a dire un’imprenditrice in proprio che si è assunta l’onere di gestire in prima persona un’azienda di famiglia avente alle dirette dipendenze un cameriere di sesso maschile, Fabrizio, del quale deve tenere sotto controllo non solo l’impegno lavorativo ma anche l’incalzante desiderio (e non solo matrimoniale). Ed è pure una donna non più giovanissima, la quale, una volta scomparso il padre, il cui ‘fantasma’ continua nondimeno a gravare sul destino lavorativo della figlia proiettando su di esso un retaggio vincolante,4 si trova a dover fare fronte da sola, sia economicamente che socialmente, a un’impresa di non poco conto rispetto a molteplici versanti, concernenti e un campo squisitamente operativo e uno di genere.5
1 Mi attengo alla seguente edizione della commedia, esemplata sulla stampa Pasquali (Delle commedie di Carlo Goldoni avvocato veneto, tomo IV, Venezia, 1761): C. GOLDONI, La locandiera, a c. di S. MAMONE e T. MEGALE , Marsilio, Venezia 2007. Ad essa rimando citando atto, scena e pagina. 2 Per un panorama degli snodi problematici più cogenti della questione intellettuale fem- minile nel Settecento vd. L. RICALDONE, Il secolo XVIII come laboratorio della modernità, in A. CHEMELLO – L. RICALDONE, Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biografe, croniste, narratrici épistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento, Il Poligrafo, Padova 2000, pp. 11-45. 3 Su determinati caratteri del protagonismo femminile e sulle varie forme che venne ad assumere a Venezia a metà secolo vd. T. PLEBANI, Socialità e protagonismo femminile nel secondo Settecento, in Donne sulla scena pubblica. Società e politica in Veneto tra Sette e Ottocento, a c. di N. M. FILIPPINI, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 25-80. 4 Circa le valenze conflittuali che assumono le relazioni in ambito familiare e specificata- mente in riferimento al personaggio del padre vd. N. JONARD, I rapporti familiari nel teatro borghese di Goldoni, in «Studi goldoniani», 4, 1976, pp. 48-65; nel saggio, tuttavia, non si fa riferimento alcuno alle proiezioni del paterno nella Locandiera. 5 Per un quadro d’assieme, anche se non vi si prende in esame La locandiera, vd. T. MEGALE, 250 ILARIA CROTTI
Se il teatro comico di Goldoni abbonda di Coralline, cioè di maschere di servette che spiccano per acume, destrezza e capacità seduttive, ossia di caratteri femminili che si rivelano idonei a gestire con abilità un rapporto, spesso ludico ma talvolta anche conflittuale, con l’altro sesso – un genere maschile che non di rado esercita in scena anche un ruolo da ‘padrone’, col quale devono necessariamente misurarsi sfoderando tutta la loro sapiente destrezza – Mirandolina, da parte sua, impone alla parte fissa della maschera una torsione esemplare, elaborando parametri radicalmente diversi rispetto ad etimi ormai cristallizzati, agevolmente riconoscibili quindi da un pubbli- co come quello veneziano; un destinatario, questo, che il commediografo a detta altezza temporale aveva già ‘educato’ a cogliere le opzioni suggerite dalla Riforma. Maddalena Raffi Marliani, ossia l’attrice che diede corpo e parola al personaggio,6 quando la commedia in tre atti in prosa fu rappresentata per la prima volta durante il carnevale del 1753 al Teatro Sant’Angelo sotto la direzione di Girolamo Medebach,7 contribuì in modo determinante, anche grazie al peculiare carattere della sua storia personale, a ispirarne le fattezze a Goldoni. È risaputo del resto che il commediografo, come ribadito più volte sia nei paratesti che nelle scritture autobiografiche, si rivelò sempre molto attento ad auscultare gli eventuali segni cifrati e le possibili risonanze, relative non solo alla gestualità ma altresì ai tratti e alle indoli individuali, provenienti dagli attori reali, accuratamente ‘letti’ in sostanza quali ‘libri viventi’ cui guar- dare in modo del tutto privilegiato e da cui attingere sia ispirazioni sceniche che ipotesi drammaturgiche.8
Per una ricognizione dei mestieri femminili popolari nel teatro di Goldoni, in Carlo Goldoni. Mestieri e professioni in scena, con inediti dagli archivi pisani, a c. di R. TURCHI, in «La Rassegna della letteratura italiana», 111, Serie, IX, 2, luglio-dicembre 2007, pp. 23-37. 6 Una nutrita rassegna bibliografica delle composite prospettive sia sceniche che attoriali che la figura della Marliani suggerisce è stata compiuta in GOLDONI, La locandiera, cit., pp. 302-303. Si vedano inoltre: F. VAZZOLER, Goldoni, Teodora Medebach, Bettina, in C. GOLDONI, La putta onorata. Storia di Bettina, prima parte, Teatro di Genova ed., Genova 1987, pp. 54-64; L. RICCÒ, Introduzione, C. GOLDONI, La castalda. La gastalda, Marsilio, Venezia 1994, pp. 9-67; E. SALA DI FELICE, Goldoni e gli attori: una relazione di imprescindibile reciprocità, in «Quaderns d’Italià», 2, 1997, pp. 47-85; P. D. GIOVANELLI, Introduzione, in C. GOLDONI, La serva amorosa, a c. di P. D. GIOVANELLI, cura filologica di C. MAZZOTTA, Venezia, Marsilio 2007, pp. 9-39. 7 Nel Chapitre XVI della Deuxième partie dei Mémoires, che costituisce una sezione pri- vilegiata anche per mettere a fuoco le dinamiche attoriali soggiacenti, l’autobiografo aveva precisato : «Nous ouvrîmes donc le Spectacle le 26 Décembre, par la Locandiera» (C. GOLDONI, Tutte le opere, a c. di G. ORTOLANI, vol. I, Mondadori, Milano 19594, p. 312). 8 Una significativa microstoria, descritta per tappe esemplari, del rapporto intercorso con l’attrice – in un primo momento solo intuito e intravisto, indi perfezionato, infine esauritosi all’altezza del 1755 – è narrata (ovviamente sotto il segno di un imperante ‘patto autobiografico’) ne L’autore a chi legge premesso a La castalda nella stampa fiorentina Paperini (t. VIII, 1754 «DEL RE DI SPADE, O DEL RE DI COPPE?». 251
Il fatto è che rispetto alla genealogia femminile che la preannunziava Mirandolina eccelle nel rifarsi con un grado ben diverso di consapevolezza al repertorio consolidato dei modi, delle forme e dell’armamentario in ap- pannaggio dei molteplici volti delle servette e delle Coralline che l’avevano preceduta sui teatri italiani, e specificatamente in quella sfera tipologica degli intermezzi per musica che già dal primo Settecento, anche accogliendo la lezione offerta dai prototipi del secolo XVII, aveva suggerito alcuni modelli esemplari.9 Ella infatti riesce a tenere sotto controllo le dinamiche che eredita dalla tradizione scenica pregressa sapendole dosare con avveduta sapienza, mentre è in grado di gestire il reattivo sistema degli effetti che pone in moto, dimostrando di possedere una compiuta cognizione delle valenze detenute da quel prezioso bagaglio repertoriale, tanto da essere capace di interpretarne una versione ‘di secondo grado’.10 Accorta regista delle proprie apparizioni e sparizioni lungo la sequenza delle scene che compongono i tre atti della pièce, Mirandolina, nell’intento di stimolare l’impaziente, inquieto e difforme desiderio delle tre figure maschili ospiti nella sua locanda fiorentina, ossia il cavaliere di Ripafratta, il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita, i quali pur in diversa e alterna misura la assediano, ma non solo, anche al fine di catturare l’attenzione degli spet- tatori, dilaziona la propria comparsa per ben quattro scene, catapultandosi poi sulle tavole del teatro, come una sorta di meteora dal ponderoso peso specifico e dall’altrettanto magistrale effetto teatrale, solo all’altezza della quinta. Eccola dunque in quell’inizio di scena esibirsi in un beffardo coup de
[ma 1755]); e in detta sede, a proposito della prassi che si snodava tra stesura delle commedie e scena, si era precisato: «Io ebbi sempre nello scrivere, ed ho tuttavia, un precetto asprissimo, che gli altri Scrittori per lo passato non hanno avuto, quello cioè di adattare la Commedia alla compagnia degli Attori, e non potergli scegliere per la rappresentazione delle Opere mie. Da ciò ne avviene, che conosciuto da me il valore d’un Personaggio, rade volte m’inganno, e poco felici riescono alcune scene, quando incerto sono di chi le debba rappresentare» (GOLDONI, La castalda. La gastalda, cit., pp. 117-118). In merito si veda inoltre P. VESCOVO, «La peinture des faiblesses». Libertà e «delicatezza insidiosa» nella «Locandiera», in Problemi di critica goldoniana, a c. di G. PADOAN, Longo, Ravenna 1994, pp. 299-317. 9 Un caso inaugurale dal valore modellizzante è costituito, ad esempio, dal Vespetta e Pimpinone (1708) di Pietro Pariati. 10 Per quanto concerne questo così spiccato quoziente di autoconsapevolezza attribuibile alla figura mi sia lecito rinviare a I. CROTTI, I chiasmi teatrali della «Locandiera», in «Problemi di critica goldoniana», IX, 2002, pp. 169-227; sulle competenze e i saperi di natura specifica- tamente materiale che ella dimostra di saper esercitare con eccellente maestria, ad esempio laddove indossa le vesti di accorta ‘domina’ di casa e di abile cuciniera, cfr. C. MARELLI, La seduzione tra “intingoletti” e aporie: rilettura de “La locandiera”, in «Annali d’Italianistica», ed. by F. FIDO & D. S. CERVIGNI, vol. 11, 1993, pp. 205-211; I. CROTTI, «Fuori di scena io non so fingere». Mirandolina e le altre, in Selvagge e Angeliche. Personaggi femminili della tradizione letteraria italiana, a c. di T. CRIVELLI, Insula, Leonforte (En) 2007, pp. 125-139. 252 ILARIA CROTTI théâtre sfoderando una battuta-invito sfolgorante che, mentre lancia una sfida all’altro sesso, provvede anche a sferrare un affondo magistrale alla classe di appartenenza dei cavalieri, dei marchesi e dei conti, ossia al ceto nobiliare; appunto con quel suo: «M’inchino a questi cavalieri. Chi mi comanda di loro signori?» (I, 5, p. 133). Gesto implicitamente irriverente quell’inchino troppo affettato, che mima un omaggio sospetto e un’obbedienza oltremodo risibile al prestigio sociale e al potere economico della terna nobiliare. Si noti altresì come la domanda proferita sia decodificabile come una citazione parodica di una ostentata quanto ambigua profferta amorosa mascherante di fatto una sfida latente, ideata con somma perizia e condotta a termine alla fine della commedia con crudele e feroce determinazione. Da questo punto in poi la ipervisibilità del personaggio, invece assente nelle scene precedenti ed evocato solo per il tramite delle espressioni desideranti dei suoi corteggiatori, i quali non possono fare a meno di riferirsi compulsiva- mente a lei tratteggiando le impareggiabili doti che la caratterizzano appunto perché, lei negandosi, ne sostituiscono il corpo amato col suo mirabolante fantasma,11 va a coniugarsi con una singolare ‘pesantezza’ materica. Allora il personaggio, tanto sovraesposto e dominante, conduce un’abilissima partita su più tavoli durante la quale ad intervalli vuoti (di lei) si avvicendano accor- tamente spazi invece pieni (sempre di lei); laddove un’alternanza di tale fatta presuppone una sfida che si segnala per repentine scomparse e per altrettanto subitanei quanto invadenti ritorni. Così i tre monologhi che ella pronuncia a ritmo scandito in una solitudine che si distingue per un icastico rilievo, il primo all’altezza di I, 9, il secondo, in I, 23, che provvede anche a chiudere l’atto in una posizione rilevata di explicit, infine il terzo in III, 13, campiscono il carosello scenico complessivo creando sapienti alternanze di registro tra la parola dominante e programmatica di lei e quelle invece altrui, non solo subalterne ma anche stereotipe dal punto di vista scenico.12 Ma vediamo uno ad uno i monologhi e il significato che vengono ad as- sumere. Il primo di essi inaugura anche spettacolarmente la carriera di una donna del tutto atipica, che dà vita con le proprie sue fattezze ad un proto- tipo eccellente; tanto da prefigurare un vero e proprio manifesto, nel quale il personaggio dichiara con spavalda arroganza l’autonomia che qualifica la
11 Per un sondaggio sul doppio versante antropologico e filosofico delle dinamiche che il desiderio pone in essere vd. C. DUMOULIÉ, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, trad. it. di S. ARECCO, Einaudi, Torino 2002 (Paris 1999). 12 Sul rapporto che ricorre tra stereotipia e originalità delle varie voci in scena e sulla rifunzionalizzazione che Mirandolina compie di esse a proprio uso e consumo cfr. CROTTI, «Fuori di scena io non so fingere». Mirandolina e le altre, cit. «DEL RE DI SPADE, O DEL RE DI COPPE?». 253 sua condizione sociale di borghese nubile13 e la scelta libera e autonoma di un destino da ‘imprenditrice’:
Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo, e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante ca- ricature di amanti spasimanti; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.(I, 9, pp. 138-139)
I termini chiave del passo citato ruotano attorno ai poli di nobiltà, che viene recisamente rifiutata, di ricchezza, guardata con superiore sprezzatura, di destino matrimoniale, rimosso o magari dilazionato il più possibile nel tempo e nello spazio. Ciò che ci si prefigge di tracciare è un disegno femminile di ben altro respiro, ossia un percorso di libertà e di autonomia che spicca per una pulsione seduttiva del tutto autoreferenziale e ludica. Un cammino di tale specie risulta ostacolato per certi versi dall’ombra gravosa del padre defunto, come già si accennava. La proiezione paterna, in quanto retaggio maschile di natura familiare che indurrebbe a più miti consigli la figlia, sia che lo interpretiamo in accezione sociale o in veste simbolica, ten- de a far recuperare alla figura femminile la memoria pregressa dell’impegno matrimoniale assunto a suo tempo con Fabrizio, ossia con il cameriere di locanda, le cui prerogative gravitano in un’orbita affine a quelle implicite nel paterno. In altri termini i vincoli dai quali Mirandolina vorrebbe affrancarsi sono destinati ad entrare in rotta di collisione con le scelte libertarie e auto- nomistiche che ella intende perseguire. Ecco che il padre di lei viene evocato proprio da Fabrizio nel momento in cui quest’ultimo reca il conto al cavaliere, che lo ha richiesto perché intenzio- nato a darsela a gambe14 pur di non dover cedere dinanzi al fascino nefasto della conduttrice della locanda, abile anche quale amministratrice della sua azienda. Così, mentre il Ripafratta chiede stupito «Ella fa i conti ?», Fabrizio
13 A proposito del conflitto matrimonio-nubilato, sia in riferimento alla figura di Lugrezia delle Donne gelose, sia a quella di Mirandolina cfr. A. MOMO, Servette e massere: erotismo e sessualità, in «Yearbook of Italian Studies», vol. 11, 1995, pp. 99-113. 14 Circa il tema del viaggio quale strategia di fuga dinanzi all’oggetto d’amore nelle commedie di Marivaux e Goldoni mi sia permesso rinviare a I. CROTTI, Margini del viaggio: tra Marivaux e Goldoni, «Bollettino del C.I.R.V.I.», XXIII, 45, gennaio-giugno 2002, pp. 191-221. 254 ILARIA CROTTI gli risponde: «Oh, sempre ella. Anche quando viveva suo padre. Scrive, e sa far di conto meglio di qualche giovane di negozio» (II, 15, p. 190). E ancora nell’atto seguente, nel frangente alquanto hard in cui ella si vede asserragliata in una camera con tre porte, mentre il cavaliere, reso quasi folle dal desiderio, vorrebbe entrare usando anche la forza, e acquietandosi solo dinanzi alla ventilata promessa di una visita privata nella sua camera, il ca- meriere ricorre al fantasma del padre quale medium per indurre la spaurita locandiera ad accettare suo malgrado il giogo matrimoniale:
FABRIZIO Vedete: questo vuol dire perché siete una giovane sola, senza padre, senza madre, senza nessuno. Se foste maritata, non anderebbe così. MIRANDOLINA Orsù, capisco che dite bene; ho pensato di maritarmi. FABRIZIO Ricordatevi di vostro padre. MIRANDOLINA Sì, me ne ricorderò. (III, 14, p. 216)
Fabrizio, insomma, coglie al balzo il frangente problematico in cui versa la donna al fine di sottolineare ulteriormente la perniciosa solitudine che la attanaglia sia sul versante sociale che su un piano simbolico. Si noti, inoltre, come nella logica serrata che scandisce le battute Fabrizio faccia un ricorso oculato appunto al ricordo della imago paterna strumentalizzandola per ot- tenere il conseguimento dell’obiettivo matrimoniale, ossia un approdo che lo tramuterebbe da cameriere a ‘padrone’ della locanda e, nel contempo, della locandiera. Così, quando nella scena diciottesima il cavaliere medesimo domanderà a Mirandolina «Di chi volete voi essere?», ella gli ribatterà: «Di quello a cui mi ha destinato mio padre» (III, 18, p. 223); subendo cioè obtorto collo il destino indicatole dal paterno che la induce ad accettare un ‘principio di realtà’ a detrimento di quel ‘principio di piacere’ che costituisce invece il suo intendimento obiettivo primario. Se una cifra in ultima analisi anaffettiva contraddistingue la figura, che mira ad anteporre ad ogni altra priorità una vocazione ludica programmaticamente scelta, anche venandola di un’algida malvagità, è perché il personaggio tende a elaborare la propria sagoma come una sorta di allegoria, ossia quale istanza che si ripropone di assurgere a eloquente modello per un’intera genealogia di donne. Detto disegno appunto programmatico, orchestrato com’è entro i moduli di un preciso paradigma bellicoso disposto lungo una sequenza ternaria, appare chiaro in ogni sua valenza antagonistica («e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi»). «DEL RE DI SPADE, O DEL RE DI COPPE?». 255
Tra gli archetipi più perspicui di una progenie femminile di tale tenore mi pare opportuno annoverare la servetta Serpina dell’intermezzo in due parti La serva padrona (1733) di Gennaro Antonio Federico, musicato da Giovanni Battista Pergolesi.15 Infatti, pur all’interno di un codice giocoso e melodram- matico che implica, et pour cause, parametri culturali, ideologici e ricettivi ben diversi, in quel loro suggerire una festosa levità che comporta un patto di verosimiglianza del tutto peculiare, la retorica cui ricorre Serpina è affine a quella della sua futura discepola.16 Eccola così proporre il proprio decalogo con arrogante malizia dinanzi al succube, anche se padrone,17 Uberto:
Adunque, perché io son serva, ho ad esser sopraffatta? ho ad esser maltrattata? No signore. Voglio esser rispettata, voglio esser riverita, come fossi padrona, arcipadrona, padronissima.18
Ella, allora, impone cadenze e umori tutti suoi ai ritmi del quotidiano, ad esempio negando al padrone il ‘cioccolate’ e il ‘desinare’ («Adunque / io già nol preparai, / voi di men ne farete, / padron mio dolce, e ve n’acqueterete»),19 proibendogli di uscire di casa a suo piacimento («Non vo’ che usciate adesso; / gli è mezzodì, dove volete andare? / Andatevi a spogliare.»),20 propinandogli discrete dosi di capricci e di divieti21 sapientemente intervallati da lamentose
15 L’intermezzo, destinato a riscuotere un enorme successo in campo europeo, fu eseguito per la prima volta il 5 settembre 1733 al Teatro San Bartolomeo di Napoli tra gli atti dell’opera seria Il prigioniero superbo musicata dallo stesso Pergolesi. Mi attengo al testo riprodotto in Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a c. di G. GRONDA e P. FABBRI, Mondadori, Milano 1997, pp. 603-617. Sulla polivalenza stilistica della voce di Serpina resta importante il saggio di G. FOLENA, Il linguaggio della Serva padrona, in ID., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Einaudi, Torino 1983, pp. 282-306. 16 Ma, come il dibattito critico ha ribadito in diverse occasioni, più di una sono state le ‘maestre’ di Mirandolina, dalla Colombina del Prodigo ai personaggi femminili che animano la Donna di garbo, la Vedova scaltra, la Gastalda, le Donne gelose e la Serva amorosa. 17 Per una disamina di impostazione sociologica non circoscritta al campo teatrale della relazione cogente che ricorre tra servo e padrone vd. G. PAGLIANO, Servo e padrone. L’orizzonte dei testi, Il Mulino, Bologna 1983. 18 G. A. FEDERICO, La serva padrona. Intermezzo in due parti, in Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, cit., p. 604. 19 Ivi, p. 605. 20 Ivi, p. 607. 21 Nei termini seguenti: «Stizzoso, mio stizzoso, / voi fate il borioso, / ma non vi può giovare. / Bisogna al mio divieto / star queto e non parlare. / Serpina vuol così. / Cred’io che m’intendete, / da che mi conoscete / son molti e molti i dì.» (ibid.). 256 ILARIA CROTTI espressioni di autocommiserazione («Serpina finge che le venga a piangere»)22 quando Uberto esprime l’intenzione di prendere moglie per liberarsi di colei, mentre ella dà a intendere di voler sposare un militare, ossia il servo Vespone travestito ad arte da capitan Tempesta. All’altezza dell’explicit sarà l’accorta servetta atteggiatasi a ‘padronissima’ a divenirlo de iure, autopromuovendosi fino al punto di suggerire a Uberto un matrimonio certo non contemplato socialmente; e per coronare la propria opera ella patteggia il mantenimento dello scettro del comando anche quando si troverà a vivere in un regime matrimoniale:
SERPINA Se comandar vorrò, disgusto non avrai: or serva più non son. UBERTO Disgusto non avrò, se comandar vorrai: ma con discrezion.23
Ecco spiccare in tutta evidenza sul finale dell’intermezzo termini rive- latori, quali ‘comando’ e ‘volontà’, ‘seduzione’ e ‘servitù’, ‘matrimonio’ e ‘discrezione’; insomma parole chiave che, grazie a cadenzati ritmi anaforici, allestiscono uno scenario paradigmatico destinato a divenire una sinopia eloquente auscultata con attenzione dal Goldoni. Il secondo monologo di Mirandolina risulta meno programmaticamente astratto e più operativo. Il personaggio infatti, in quella sorta di partita a carte d’azzardo che soggiace alla trama delle vicende, una volta saggiati uno ad uno i profili sia economici che caratteriali dei pretendenti già sedotti, quindi ormai fuori gioco dal suo punto di vista, ossia il conte e il marchese (mentre resta da addomesticare il recalcitrante cavaliere di Ripafratta), valuta con cinismo
22 Ivi, p. 614 (corsivo originale). Il ricorso alla funzione lacrime, citante qui in termini intertestuali modi e forme che si riallacciano a un’illustre tradizione melodrammatica per parodiarne i messaggi, viene finalizzato ad arte al conseguimento di obiettivi molto concreti. A modalità affini farà ricorso anche Mirandolina che, all’altezza dell’atto II, scena 17 (pp. 191-193) si effonde in lacrime e svenimenti per sedurre una volta per tutte il malcapitato cavaliere. E mentre quest’ultimo pieno di premura si affanna a soccorrerla, andando in cerca di un po’ d’acqua per farla rinvenire dal fasullo malore, ella proclama ormai vittoriosa: «Ora poi è caduto affatto. Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento» (II, 17, p. 193). Una lettura più compiuta della strategia delle lacrime sia sul versante attoriale che su quello investente il personaggio femminile, come il caso di Pamela della commedia omonima (Pamela fanciulla) attesta esemplarmente, in CROTTI, I chiasmi teatrali della «Locandiera», cit.; EAD., Le seduzio- ni della virtù, in C. GOLDONI, Pamela fanciulla. Pamela maritata, a c. di I. CROTTI, Marsilio, Venezia 1995, pp. 9-47. 23 FEDERICO, La serva padrona, cit., p. 617. «DEL RE DI SPADE, O DEL RE DI COPPE?». 257 il rendiconto che potrebbe ottenere da ognuno di loro e, di conseguenza, il da farsi.24 Ebbene riferendosi al conte, il quale profonde senza posa i propri averi per sostituire all’inesistente ‘essere’ il suo ‘apparire’, ella afferma: «Con tutte le sue ricchezze, con tutti li suoi regali, non arriverà mai ad innamorar- mi; e molto meno lo farà il marchese colla sua ridicola protezione. Se dovessi attaccarmi ad uno di questi due, certamente lo farei con quello che spende più. Ma non mi preme né dell’uno, né dell’altro» (I, 23, p. 163). In fin dei conti i proventi che potrebbe ricavare da relazioni (extramatri- moniali) di tale tipo la allettano solo in parte, pur non sottovalutando i con- creti vantaggi economici conseguibili; ciò che la intriga sopra ogni altra cosa è l’esercizio del gioco astratto della seduzione, da intendersi quale strategia di controllo e dominio sull’altro sesso, ossia il riuscire a ridurre una figura maschile egemone sia dal punto di vista sociale che finanziario sotto la propria indiscussa giurisdizione. Ella, allora, vorrebbe annullare l’oggettiva disparità di ceto che la separa dagli altolocati avventori della sua locanda mettendo in atto con sagacità un piano d’attacco mediante il quale insidiare la preminenza di status del maschile e riuscire ad affermare l’indiscusso primato intellettuale del côté femminile. In altri termini, sarebbe una rivincita dell’intellettualità delle donne sul potere esercitato a vari livelli dal polo maschile. Così: «Sono in impegno d’innamorar il cavaliere di Ripafratta, e non darei un tal piacere per un gioiello il doppio più grande di questo. Mi proverò […] Possibile ch’ei non ceda! Chi è quello che possa resistere ad una donna, quando le dà tempo di poter far uso dell’arte sua?» (I, 23, p. 163). Il terzo monologo viene a cadere nell’ambito del terzo atto. Un atto quest’ultimo lungo il quale il ricorso agli oggetti e l’utilizzo che si compie di essi rivestono un significato perspicuo non solo dal punto di vista scenico ma anche in un’accezione chiaramente allegorica. Ecco quella boccetta d’oro acquistata dal Ripafratta per ben dodici zecchini, indi fatta riempire dallo speziale di spirito di melissa per essere di soccorso nel caso l’amata cadesse vittima di (presunti) malori, recata in dono a Mirandolina dal servitore del cavaliere (III, 2, pp. 196-198). Ella tuttavia la rifiuta sdegnosamente, perché intende ostentare disprezzo sia per il valore intrinseco della regalia che per il suo donatore. Certo è che persino Fabrizio, già in allerta per gli esiti dei suoi miraggi matrimoniali e per le loro eventuali ricadute anche pratiche ed economiche, nella scena immediatamente successiva si dirà stupito per un’indifferenza
24 Un’attenta lettura del significato che le immagini del denaro rivestono nel teatro del veneziano in N. JONARD, La question d’argent dans le théatre de Goldoni, in «Problemi di critica goldoniana», IV, 1997, pp. 153-170. 258 ILARIA CROTTI tanto (forse, dal suo punto di vista, troppo) esibita per il possesso di beni materiali, magari destinati a confluire in un’auspicabile dote matrimoniale; e quando Mirandolina gli farà notare «Signor sì, mi ha mandato una boccettina d’oro, ed io gliel’ho rimandata indietro», ribatterà stupefatto: «Gliel’avete rimandata indietro?» (III, 3, p. 198). L’oggetto, destinato a comparire e a scomparire più volte nelle mani dei personaggi, leggero, lucente e imprendibile come potrebbe essere un qualcosa di imprecisato tra le dite di un abile illusionista o di un giocatore esperto, vaga di qua e di là lungo tutto l’atto terzo quasi fosse uno spiritello impazzito e beffardo. Esso pare svolgere la funzione di una specie di lanterna magica che, una volta posizionata nell’angolo più opportuno del palcoscenico, contribuisce a rifrangere spezzoni della scena ridonandone moltiplicate le proiezioni. La boccettina d’oro compie nel contempo un viaggio emblematico. Infatti, ripro- posto in dono dal cavaliere in persona, sarà gettato con furia dalla locandiera nel «paniere della biancheria»25 (III, 4, p. 201), come recita la didascalia; verrà poi ritrovato per caso dal tirchio e sprovveduto marchese che lo scambia per uno di similoro (III, 9, p. 207); e ancora, il Forlipopoli, per pavoneggiarsi con un gesto dalla generosità dubbia, ne fa omaggio alla presunta contessa (ma in realtà commediante) Dejanira (III, 10, pp. 207-208). Recuperato in extremis, il flaconcino aureo verrà restituito solo all’altezza della Scena ultima (p. 226) alla legittima proprietaria, Mirandolina, la quale questa volta riterrà più conveniente tenerselo, quale riprova tangibile (ma simbo- lica) del fatto che, accettando le ragioni coniugali, ella ha anche dovuto aderire alla logica tutta borghese che contempla non solo l’accumulo di beni ma anche una loro oculata conservazione. I percorsi svolazzanti cui è andato incontro il demoniaco oggetto, in altri termini, allegorizzano i tragitti ondivaghi dei diversi personaggi, mentre epifanizzano la performatività delle loro mosse. Tuttavia un altro oggetto che gravita attorno alla sagoma della locandiera acquista pari rilevanza. Intendo riferirmi al ferro da stiro – utensile che ella sa maneggiare con sapiente determinazione quanto feroce destrezza. All’op- posto della preziosa, lucente e leggera boccetta d’oro che contiene il medi- camentoso spirito di melissa, il ferro ricade nel dominio ben più quotidiano e tradizionale dei lavori domestici: è pesante, opaco, dozzinale e racchiude dentro di sé tizzoni ardenti; insomma, la polarità oggettuale suggerita dai due contenitori di metallo non potrebbe essere più eloquente. D’altronde, mentre la boccetta d’oro suggerisce un’idea del femminile svenevole e larmoyante, ambientabile per antonomasia tra i divani e i cuscini di un ideale salotto, il
25 Qui come altrove i corsivi privi di indicazione contraria sono da ritenersi originali. «DEL RE DI SPADE, O DEL RE DI COPPE?». 259 ferro da stiro addita un’immagine molto diversa, ossia la sembianza di una robusta lavoratrice pronta a vigilare sulla biancheria della propria locanda e nel contempo a tenere sotto controllo il fuoco del camino. Certo è che anche il ferro da stiro, che (si badi bene) è composto di un materiale affine a quello che forgia la spada, quindi corrispettivo simbolico sul versante femminile di un’aggressività di segno maschile, pur così diverso dalla boccettina d’oro, diviene epifanico e preziosissimo una volta maneggiato con perizia dalle mani di Mirandolina. Ella ricorre con sapienza ad esso nella scena prima dell’ultimo atto, la cui didascalia precisa: «Camera di Mirandolina con tavolino e biancheria da stirare» (III, 1, p. 195), nell’intento di tenere sulle corde Fabrizio ordinandogli di occuparsi di mansioni che non gli spetterebbero, essendo egli cameriere e non già servitore di locanda («Fermatevi; sentite: non siete obbligato a servirmi di queste cose; ma so che per me lo fate volentieri ed io…basta, non dico altro»). D’altro canto alla fine della scena medesima la padrona non esita ad andare per le spicce, riaffermando il proprio potere e, spazientita, intimargli: «Via, mi portate questo ferro?» (III, 1, p. 196). Quel ferro si accolla pertanto un peso anche simbolico che evoca un conflitto di ruoli, manifestando l’oculata strategia che si avvicenda tra la padrona (donna) e il subalterno cameriere (uomo). Orbene, anche tale oggetto assumerà le sembianze di un magico calei- doscopio all’altezza della terza scena quando, recato indietro infuocato da Fabrizio, sembra solcare con tutta la sua cocente pesantezza come una meteora incandescente (e malefica) la situazione che si sta arroventando sempre più. Così il cameriere, quando la padrona gli domanda « È ben caldo?», le ribatte prontamente: «Signora sì, è caldo; così foss’io abbruciato» (III, 3, p. 198). Nelle scene successive, la quarta e la quinta (pp. 199-202), la locandiera finalizza sapientemente la pratica dello stirare per conseguire l’effetto di de- costruire il ritmo del dialogo col cavaliere; a tal segno che gli accenti e i gesti dell’innamorato incappano di continuo nell’andirivieni di due ferri da stiro, l’uno già rovente e pronto per l’uso l’altro invece ancora da scaldare, portati avanti e indietro con insistenza indiscreta dal solerte quanto inopportuno Fa- brizio. Ne consegue che quegli accenti e quei gesti risultano decontestualizzati incessantemente nelle loro percorrenze ritmiche e foniche; tanto è vero che ad un certo punto lo spazientito e smanioso Ripafratta, per togliersi di torno sia il ferro che colui che lo supporta, prorompe in un «Via, dategli il ferro, e che se ne vada» (III, 5, p. 202), mentre da parte sua Mirandolina provvede a traslitterare quell’utensile in un allusivo strumento bifronte, ossia d’amore per il cameriere («Tenete, caro, scaldatelo. (dà il ferro a Fabrizio)») (III, 5, p. 202) mentre di strazio per il Ripafratta. 260 ILARIA CROTTI
La perizia che il commediografo dimostra nell’orchestrare la scansione e le cadenze del dialogato modulandolo rispetto alla straordinaria visività e performatività dei gesti raggiunge qui, come noto, uno dei momenti più perspicui del suo teatro, mentre è proprio l’oggettuale che assurge a elemento epifanico. La scena seguente, ossia la sesta (pp. 202-205), rappresenta infine il luo- go per antonomasia del trionfo dell’arnese che, nel punto culminante della sofferta dichiarazione d’amore del Ripafratta, viene usato dall’abile stiratrice per procurare una ustione alla mano del cavaliere, nel momento preciso in cui egli l’ha protesa per afferrare quella dell’amata. Ecco che in poche battute ambedue gli oggetti, ossia la boccettina d’oro e il ferro da stiro, rientrano in campo, come a ribadire la mutua dinamica simbolica che li vede invischiati. Allora, nell’istante in cui il cavaliere torna alla carica per offrire alla donna il prezioso dono, ella esclama: «Tenga il suo spirito di melissa. (gli getta con disprezzo la boccetta)»; mentre lui penosamente: «Non mi trattate con tanta asprezza. Credetemi, vi amo, ve lo giuro. (vuol prenderle la mano, ed ella col ferro lo scotta) Ahimè!» (III, 6, p. 203). Dove è da notare proprio la danza eloquente che pare animare entrambi gli oggetti, quasi fossero galvanizzati nel gioco della messinscena: emble- mi di conflitti esemplari che tendono a tramutarli in veri e propri attanti scenici. Ma vediamo infine il significato che assume il terzo monologo posizionato all’altezza della scena XIII del terzo atto (p. 214), la cui scenografia soffocante, sigillata com’è entro un’asfittica «Camera con tre porte», mentre il Cavaliere, acceso da un furioso desiderio, incalza («Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui»), evoca un luogo trappola dalla configurazione sia reale che simbolica. Lasciata senza vie d’uscita, asserragliata non solo fisicamente ma anche psicologicamente, la donna si vedrà costretta alla fine ad accettare quel patto matrimoniale sempre incombente ma fino a quel punto tenuto a debita distanza. Sarà in detto frangente che l’egotistico e orgoglioso isolamento di Miran- dolina muta d’etimo, per assumere i tratti di una solitudine pervasa di moti di paura e di panico. Certo è che quest’ultimo rappresenta anche un luogo sia retorico che ideologico che risulta cruciale pure per le dinamiche che operano nella commedia, le cui strategie sceniche, insomma, a detta altezza, ossia nel momento in cui ci si avvia verso le battute conclusive, devono imboccare necessariamente, una deriva d’altra natura. Già si è rilevato come il sagace Fabrizio, ossia colui che ritiene i tratti di un accorto Brighella, del quale nella prima messinscena indossava anche la «DEL RE DI SPADE, O DEL RE DI COPPE?». 261 maschera e parlava il dialetto,26 sappia approfittare con fredda e calcolata perizia dello sconcerto in cui versa l’ipotetica promessa Mirandolina per richiamarle alla memoria con tempestività, nel frangente più propizio e op- portuno per lui sebbene per lei più a rischio, l’impegno assunto a suo tempo col padre.27 Operando in detti termini il cameriere, ossia l’ex servo che aspira alla carriera del piccolo borghese, intende restaurare un ordine patriarcale di pretto segno maschile, vale a dire un’auctoritas che se trova origine nell’istanza paterna sembra destinata a passare di mano per finire poi sotto l’egemonia maritale; mentre è proprio quell’ordine che la ‘mercuriale’ figura femminile volentieri avrebbe inteso obliterare, sfuggendo al destino di una linea tutta di segno maschile. Si tenga presente, del resto, che è la donna che chiama a sé il promesso sposo offrendogli per prima, e di propria iniziativa, la mano («Fabrizio, vien qui, caro, dammi la mano.» III, !9, p. 224), mentre il came- riere è colto in contropiede («La mano? Piano un poco signora. Vi dilettate d’innamorar la gente in questa maniera, e credete ch’io vi voglia sposare?» III, 19, p. 225). Ebbene, a detta altezza alcuni dei messaggi programmatici già caldeggiati dal personaggio femminile non possono non entrare in rotta di collisione con
26 Nell’intento di gettare discredito sulla stampa del Bettinelli, in coda all’Autore a chi legge dell’edizione fiorentina Paperini Le Commedie, dove La locandiera apparve nel tomo II datato 1753 in quinta posizione, ossia dopo Il cavaliere e la dama, La Pamela, La bottega del caffè e Il bugiardo, Goldoni aveva puntualizzato: «Deggio avvisarvi, Lettor carissimo di una picciola mutazione, che alla presente Commedia ho fatto. Fabrizio, il Cameriere della Locanda parlava in Veneziano, quando si recitò la prima volta; l’ho fatto allora per comodo del Personaggio, solito a favellar da Brighella; ora l’ho convertito in Toscano, sendo disdicevole cosa, introdurre senza necessità in una Commedia un linguaggio straniero. Ciò ho voluto avvertire, perché non so come la stamperà il Bettinelli; può essere, ch’ei si serva di questo mio originale, e Dio lo voglia, perché almeno sarà a dover penneggiato. Ma lo scrupolo, ch’ei si è fatto di stampare le cose mie, come io le ho abbozzate, lo farà trascurare anche questa comodità» (t. II, 1753, p. 323). Preferisco citare direttamente dal secondo tomo Paperini perché il passo non è ri- portato in modo del tutto corretto nell’edizione curata da Mamone e Megale. Per un’analisi puntuale della produzione del Bettinelli e dei contrasti di varia natura che subentrarono col commediografo vd. A. SCANNAPIECO, Giuseppe Bettinelli editore di Goldoni, in Problemi di critica goldoniana, cit., vol. I, pp. 63-188. Per quanto concerne l’impresa editoriale paperiniana rimando a R. PASTA, La stamperia Paperini e l’edizione fiorentina delle commedie di Goldoni, in Goldoni in Toscana, Atti del Convegno di Studi (Montecatini Terme, 9-10 ottobre 1992), in «Studi italiani», V, fasc. 1-2, gennaio-dicembre 1993, pp. 67-106. Una disamina complessiva del composito quanto corposo scacchiere editoriale goldoniano e delle strategie dispiegate è stata approntata in A. SCANNAPIECO, Scrittoio, scena, torchio: per una mappa della produzione goldoniana, in «Problemi di critica goldoniana», VII, 2000, pp. 25-242. 27 Momo ha dedicato importanti note alle trasformazioni cui va incontro il primo Zanni nella commedia goldoniana e alle dinamiche che pone in essere rispetto ad altre maschere: A. MOMO, Brighella da primo Zanni nel Teatro a «parvenu» nel «Mondo», in ID., La carriera delle maschere nel teatro di Goldoni Chiari Gozzi, Marsilio Editori, Venezia 1992, pp. 146-163. 262 ILARIA CROTTI le norme inderogabili della bienséance,28 ossia con quelle leggi comiche che reclamano a gran voce un conclusivo matrimonio. Quando il cavaliere, ormai perdutamente innamorato, aveva dichiarato a una Mirandolina che continuava imperterrita a stirare «Voi meritereste l’amore di un re» (III, 6, p. 202), ella gli aveva controbattuto: «Del re di spade, o del re di coppe?» III, 6, p. 202); schernendo così, nel ricorrere ancora una volta a una cifra che la segna in profondità, ossia a un moto per eccellenza ludico,29 sia il re di spade, ossia lo squattrinato marchese di Forlipopoli,30 paladino di un ceto nobiliare in disarmo, pusillanime e impoverito, sia quello di coppe, cioè uno scialacquatore come il conte d’Albafiorita, degno rappresentante di una nobiltà nuova che non esita a ostentare con arroganza i suoi quattrini. Tuttavia, concedendo alla fine la mano a un ‘fu’ Brighella, ella deve accettare in ultima analisi le leggi, accreditate anche socialmente, del Teatro (ma non già quelle dell’eccesso, che albergano invece nel Mondo) per porre termine a un circuito conflittuale che avrebbe raggiunto con difficoltà una sintesi compiuta.
28 Circa le dinamiche sceniche che si avvicendano all’altezza dell’explicit nel teatro goldonia- no, in particolare a partire dalla fine degli anni cinquanta, si legga il contributo di M. BORDIN, «Rimediare al disordine». Sintomatologia del lieto fine goldoniano dagli «Innamorati» al «Sior Todero brontolon», in «Problemi di critica goldoniana», VI, 1999, pp. 239-376. 29 Per questo aspetto così rilevante che attraversa trasversalmente il teatro goldoniano vd. A. MOMO, Introduzione, in C. GOLDONI, Il giocatore, a c. di A. ZANIOL, Marsilio, Venezia 1997, pp. 9-67. 30 Esilarante la scena XVII del terzo atto (pp. 218-221), durante la quale il conte e il cavaliere, colti da una furia insensata dettata dall’amore per Mirandolina, sentimento ormai tramutatosi in passione che il Ripafratta, da parte sua, si ostina a negare, si fronteggiano impugnando spade mozzate in un duello eroicomico che rinvia a tenzoni evocanti le gesta dell’ingenioso hidalgo mancego. Per una fine interpretazione del donchisciottismo settecentesco cfr. F. FIDO, Viaggi in Italia di don Chisciotte e Sancio. Farsa, follia, filosofia, in ID., Viaggi in Italia di don Chisciotte e Sancio e altri studi sul Settecento, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2006, pp. 3-38. Paolo Puppa
NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO*
Si può trattare Goldoni col metro delle avanguardie? Non nel senso di mettere i baffi alla Gioconda, nemmeno quale parodia-pastiche irriverente. No, sempli- cemente utilizzando i suoi materiali drammaturgici, tanti e articolati tra dialoghi e libretti, tra maschere e volti scoperti, con un approccio post. Proviamo cioè a fermentare un classico facendolo passare entro un’operazione joyciana sia detto senza alcuna sicumera o iattanza, si pensi al monologo finale di Molly. E di un effettivo monologo schizofrenico si tratta in questo caso. Notturno goldoniano: donne di vapore-donne di spirito costituisce infatti un assemblaggio di battute dell’Avvocato, rimontate a fornire un soliloquio delirante ma sensato, quasi una nuova storia. Ho scelto situazioni femminili, tutte riconducibili a opposte e com- plementari tipologie, ovvero la serva e la padrona. La donna di spirito è la massèra, destinata a un destino subalterno per i suoi natali e viceversa assurta sempre più, grazie al suo brio e alle sue risorse intellettuali, a un rango più elevato. Non si dimentichi che Goldoni aveva un debole per le servette, specie nel periodo del Sant’Angelo, al punto da gonfiarne il ruolo sino ai capolavori della Serva amorosa e della Locandiera, stimolato dalle beltà della Marliani. Di contro, la donna di vapore è la amorosa, sbucata dalle svenevolezze degli Innamorati della commedia dell’arte, sempre tentata dal lamento sentimentale, pronta alla lagrima ansiosa non appena sospettata ingiustamente o maltrattata dal marito crudele. E non si dimentichi altresì che nel termine vapore rientrano le ubbie e le depressioni malinconiche, in cui eccelleva la prima donna della compagnia Medebach, la Teodora Raffi, ignorata dalle avances del commediografo in quanto moglie del suo datore di lavoro, ubbie e depressioni in cui però lo stesso Goldoni ricadeva durante i frequenti stress lavorativi. Scontro entro il casting, dunque, e scontro di classe. Conflitto gerarchico (nel Novecento spunterà la soubrette della rivista dalla
* Questo è il titolo di una messa in scena di Paolo Puppa, diretta da Filippo Gili e interpre- tata da Elisabetta Valgoi, che ha debuttato in prima assoluta a Campo San Trovaso all’interno del 38° Festival Internazionale del Teatro organizzato dalla Biennale di Venezia, dedicato a Goldoni e Gozzi [n.d.r.]. 264 PAOLO PUPPA serva settecentesca promossa sul campo dall’Avvocato, ma anche in precedenza, quale “suivante”, da Marivaux), e conflitto ideologico. Il tutto metabolizzato da una sola attrice che si sdoppia e inciampa tra i due ruoli, giano bifronte alle prese con una partitura mimetica di nevrosi private e di compagnia.
* * * La scena contiene a destra la parte di un letto matrimoniale, una toiletta da donna e una poltroncina, su cui sta appoggiato un abito settecentesco. A sini- stra, uno sgabello e un paio di secchi. Le due zone indicano rispettivamente la camera degli sposi (i padroni) e la cucina della serva. Ogni volta che una delle due scene risulta illuminata, l’altra ovviamente è al buio.
PADRONA-VAPORE: (girandosi inquieta su un lettino, ovvero la parte di un gran letto matrimoniale che non si vede, perché lo spazio è rischiarato solo dal lume di una candela, collocata sulla toiletta. Intanto, a poco a poco, fuori spunta il giorno. L’attrice appare rivestita da una semplice camicia da notte) I primi tempi mi dicevo: L’amor suo di giorno in giorno si aumenta. Ma lo vorrei sempre vicino. E invece, una folla di visite, di complimenti, m’inquie- ta. Un’ora prima che io m’alzi, s’empie l’anticamera di gente oziosa, che col pretesto di volermi dare il buon giorno viene ad infastidirmi. Vuole la con- venienza che io li riceva, e per riceverli ho da staccarmi con pena dal suo fianco. Mi conviene perdere delle ore in una conversazione che non mi dilet- ta? Più tardi compariscono le signore. Vengono accompagnate dai cavalieri, ma non ne ho veduta pur una venire con suo marito. Pare che si vergognino di comparire in pubblico uniti. Il mio caro marito, che mi ama tanto, teme anch’egli di esser posto in ridicolo, se viene meco fuori di casa, o se meco in conversazione si trattiene. Mi conviene andare al passeggio senza di lui; due volte ho dovuto andare al teatro senza l’amabile sua compagnia. Questa vita non mi piace e non mi conviene. Non ho inteso di maritarmi per godere la libertà, ma per gioire nella soavissima mia catena; e se in una grande città non si può vivere a suo talento, bramo la felicità del ritiro, e preferisco a tutti i beni di questa vita la compagnia del mio caro sposo. Questo mi dicevo una volta, già. Bei tempi, quelli! Ora, il mio caro sposo mi odia. Numi, (enfasi poetica, da puro melodramma, magari appoggiata da musica strumentale con- sona) per qual mia colpa mi punite a tal segno? Ho io forse con troppa vani- tà di me stessa ricevuta la grazia che mi ha offerto la provvidenza? Sono stata io ingrata ai benefizi del cielo? (Si alza e va ogni tanto verso la finestra, mentre cessa la musica e il tono torna prosastico) Quattro ore sono suonate, e NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO* 265 lui non si vede. Sarà sempre dalla marchesa Beatrice. Ah, maledetto chi m’ha maritato! E se poi protesto, va in bestia e mi fa tremare. Due anni che son sposata e non ho mai avuto, in verità, un giorno di bene. Ma sì, vada dove vuole, dove vuole, sì, e mi lasci almeno piangere. Sì, va bene, sono matta, colpa mia, no? A lui, non interessa. Tanto, me ne sto tutta sola in un cantone. Perché io sono la più afflitta donna di questo mondo. Eppure, non si dà in questo mondo un bene maggiore oltre la domestica pace. Cosicché se dar si potesse vera felicità sulla terra, credo certamente che la pace, la tranquillità, la contentezza dell’animo sarebbe il sommo bene che si sospira. Io questa felicità l’ho perduta. Perché io sono in una perpetua guerra con mio marito. Lui che mi amò un tempo colla maggior tenerezza, che faticò per avermi, che mi fu per un anno il più tenero, il più amabile sposo, ora non mi guarda, non parla, fugge l’occasione di vedermi, e mi tratta come se io fossi la sua più fiera nemica (piange). Ma un cavaliere onorato non deve maltrattare la moglie onesta. Il sacro vincolo del matrimonio deve escludere ogni altro affetto. La coscienza, le leggi del cielo, quelle della natura insegnano amar chi ama, comandano amar chi si deve, minacciano i traditori, gli ingrati. E una donna che turbi la pace di una famiglia, è la più indegna femmina della terra. Chi tenta sedurre i mariti altrui, merita uno sfregio sul viso. Chi coltiva amori illeciti, amicizie sospette, conversazioni pericolose, è un’indegna, una perfida, una scellerata. (Continua a girarsi sul letto, sempre più smaniosa) Son due giorni che manca, mio marito. Che non lo vedo! Sta fuori a giocare, come al solito. E non si fa più vedere. Così è la mia vita. E il mio cuore, il mio cuore mi scoppia. Vedermi senza di lui, mi sento morire, sì morire. Ma forse oggi verrà. (Si raggomitola sul letto come un feto) Marito mio, vieni, a vieni a casa a consolarmi! Io che non sopporto di andare nella conversazione, sto qua poveretta, ficcata in un cantone. Tanti e tanti mi dicono che sto come una regina. E io invece vorrei essere una contadina e con una poveretta cambiare il mio stato. Ma niente, non si vede ancora. Che sia successa una disgrazia? Sapessi dove andarlo a cercare! Hanno la moglie in casa, e non basta. Ne cercano un’altra fuori. Il primo anno era tanto buono, mi trattava come una regina. Maledetto gioco, maledetta me, maledetto il giorno che mi son spo- sata! Ma dovrà stancarsi prima o dopo di far questa vita. Tornerà a far giu- dizio. Si pentirà di tutto quel che m’ha fatto, e mi darà tante consolazioni quanti i batticuori che m’ha provocato. Il cielo rimedierà. Il cielo provvede- rà. Chi si confida nel cielo, non può, non può, non può … E se torna, oh se torna, gli dirò ‘Anima mia, non mi vuoi più bene? Ammazzami, cavami il cuore, bevi il mio sangue, se vuoi, ma non lasciarmi più sola’. Da ieri non tocco cibo, nemmeno un bicchier d’acqua. Lo stomaco mi va via. Tanto, 266 PAOLO PUPPA senza di lui non mangio più. Sì, gli direi ‘Ma perché non vuoi tornare a casa? Perché far sempre questa vita? Non sei stufo di farmi piangere? Vedrai che tutto si aggiusterà; basta che tu sia buono. Basta che mi voglia bene’. Se vuol giocare ancora, gli darò i miei manini. Ma sì. Del resto, gli ho dato il mio cuore. Povera me. Quanto sono sfortunata! Imparate, imparate, putte, voi che non vedete l’ora di sposarvi, e che credete in casa del padre di stare in galera. Il marito vi tormenta, le massere vi fan diventar matte, la gelosia vi consuma. Com’ erano diversi i miei sogni, un tempo. Quand’ero putta, e mia madre era ancora viva, che begli anni quelli! Quanto tempo sulla mia altana! I giochi alla festa! E quando ballavo la furlana. Adesso sono abbandonata da tutti, e mio marito non mi vuol più bene. Ma se lui mi torna, gli griderò ‘Vi- scere mie, vien qua, cuore mio’. E se mi sussurra ‘Cara moglie’, io piangendo griderò ‘Bendetta quella bocca! Mi vuoi ancora bene?’ E anche ‘Quando stai a casa tu, mi sento una regina’. Perché lui è l’anima mia. Il cielo me l’ha dato e finché il cielo me lo lascia non lo voglio abbandonare. Staremo sempre in- sieme, vivremo da buoni compagni, Saremo sempre marito e moglie (piange disperata, poi si rialza e va di nuovo alla finestra. Quindi pronuncia meccanica- mente la battuta, come in trance) Per potersi chiamare buona moglie, bisogna al marito portare rispetto, solo per lui sentire affetto, e far, quando occorre, il proprio dovere. Non occorre voler sapere, né agire per dispetto, e se il marito ha qualche difetto, bisogna sopportare. Quella è la buona moglie che i fatti suoi li fa in casa e non fa la matta e niente fumo. Una buona moglie così ben fatta, buona per il marito… (Si ributta sul letto sconsolata) Se penso che prima di sposarmi mi raccomandavo ‘Vo’ avvezzarlo per tempo a non essere geloso, a non essere sofistico, a non privarmi dell’onesta mia libertà’. E sua madre poi mi aveva rassicurata ‘Sapeste com’è fatto, pare una ragazza alleva- ta in ritiro’. Sì, sì, così mi ripeteva sua madre ‘Oh che buone viscere! Che costumi! Che bella semplicità! Beata quella, a cui toccherà questa gioia!’ Cara quella gioia! O che bella gioia, proprio! Ogni sera dice di avere affari impor- tanti, e ha fretta di partirsene, e io ho da stare in casa. A ogni menoma cosa subito si sdegna, va in bestia, non può soffrir niente il mio signore delicato. Finalmente, chi vuol bene ha da compatire. Ma ad una donna le si deve donar qualcosa. Bella maniera di farsi amare. Ogni giorno siamo alle medesime. Non posso nemmeno domandargli se mi vuole ancora bene. E sì che vorrei sentirmelo replicare ogn’ora, ogni momento. E se protesto, poi mi dico ‘ma- ledetto sia quando parlo’. Che vita è questa? Che amor maladetto! Non posso resistere, non posso più. (Cade dal letto a terra e si trascina per la stan- za, un lenzuolo attaccato ad una gamba) Voglio piuttosto mettermi un sasso al collo e andarmi a gettare sul Canale. Perché quello ha il cuore con tanto di NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO* 267 pelo. È finto, è doppio come le cipolle. Lo vedrebbe un cieco che non ha più premura per me. La sera, soprattutto la sera ha una faccia che pare il vero demonio. Ma so io, so io che avrà finito presto di arrabbiarsi con me. Non si dorrà più del tempo che ha gettato con una pazza, come mi chiama. Sì, si consolerà, dormirà i suoi sonni, lui. Perché io me ne vado, sì me ne vado (urla) dal mio signor padre. Io lo so bene che va a cena colla Marchesa. Anderò dal signor padre e gli dirò che ho bisogno di chi mi consoli. E gli ricorderò che sono sempre stata obbediente ai suoi voleri di padre. Ma se mi consiglia di andar via, di lasciarlo, cosa fare? Se mi dirà di andare a stare da lui, dal mo- mento che il marito mi tratta con crudeltà? No, signor padre. No. Se il cielo mi concederà dei figlioli, io avrò la consolazione di averli dati alla luce, e voi giubilerete mirando in essi il maggior frutto delle vostre premure. Dovrei dunque perder io questo bene, farlo perdere ai miei figlioli, per il solo moti- vo di non soffrire? Signor padre, chi è al mondo che qualche male non soffre? (Si inginocchia ai piedi del letto, avvolgendosi col lenzuolo) Il cielo mi vuol mortificare col poco amore di mio marito. Pazienza? Sarà segno che non merito di essere amata. Segno che il cielo mi vuole oppressa per questa stra- da, forse perché non m’insuperbisca soverchiamente della mia fortuna. Ed io mi credo in debito di ringraziarlo per il bene che mi fa, e non irritarlo, ricusando l’amaro delle mie pene, con cui temprar vuole il dolce delle mie consolazioni. Sì, sì, ho deciso, l’aspetterò il mio signor marito e quando torna, se torna, gli dirò (si getta sul letto, coprendosi col lenzuolo) ‘Se avete bisogno di chi vi serva, son qua io, e niuno vi servirà con tanto amore, quanto la vostra sposa. Marito mio, non temete ch’io voglia distrarvi da’ vostri affari’. E an- cora ‘Voi mi amaste un tempo, in tempo ch’io non sapeva che fosse amore. Voi mi insegnaste ad amare. E siccome principiai ad amarvi per rassegnazio- ne ai vostri voleri, posso terminar di vedervi per obbedienza ai vostri coman- di. Dunque, voi siete sazio di me. Amate la marchesa Beatrice. Il nostro vincolo vi impedisce di possederla. E per causa mia forse da sé vi scaccia la vostra bella. Devo allora morire? Non voltate la faccia. Non isfuggite mirar- mi. Io ero la vostra delizia, io il vostro bene, io la vostra consolazione. Quan- do principiaste ad amarmi meno? Quando le mie luci, quando il mio volto le mie parole principiarono a dispiacervi? Confessatelo da cavaliere. Qual col- pa ho io commessa che meritar mi facesse lo sdegno vostro? Mi sono io mai allontanata dall’amarvi, dall’obbedirvi, dal compatirvi? Ah, dunque un nuo- vo amore mi rese odiosa ai vostri occhi. E voi vi lusingate che sciolto dall’odia- ta catena che a me vi unisce, sareste colla mia rivale felice? No, no, no! Perché morta io di dolore, farà altri le mie vendette, e soffrirete forse veder dimez- zato quel cuore, che ora vi stimola ad allontanarvi dal mio’. E se mai riuscis- 268 PAOLO PUPPA si a convincerlo, a muovergli il cuore, gli direi tra le lagrime (Sbuca dal len- zuolo, si siede sul letto, abbracciandosi le ginocchia, in posa regressiva e un po’ lasciva)‘ Oh caro, vi amerò più che mai’. E se lui si accuserà delle sue tante colpe, lo rassicurerò ‘No, siete il mio caro sposo. Amatemi e ciò mi basta. Amatemi e compatitemi’. Consolatemi in avvenire e quantunque io non sia né vezzosa, né amabile, amatemi perché son vostra e assicuratevi che qualun- que amore di donna non arriverà mai a quello di moglie, poiché in tutti gli altri, siccome vi è il delitto, vi può essere facilmente l’inganno, ma in questo vi è l’onestà, l’innocenza, la tranquillità, la consolazione, la pace’. (Si calma e si dirige verso la toilette e inizia a truccarsi e a vestirsi) Nell’agitazione in cui mi trovo, stamane ho preso un libro a caso, ma cosa più a proposito non mi potea venir alle mani. È intitolato ‘Rimedi per le malattie dello spirito’. Quan- do uno si trova occupato da un pensiero molesto, ha da cercare di introdur- re nella sua mente un pensiero contrario. Il nostro cervello sarebbe pieno di infinite cellule, dove stanno chiusi e preparati diversi pensieri. E la volontà può aprire e chiudere queste cellule a suo piacere, e la ragione insegna alla volontà a chiudere questa e ad aprire quell’altra. Così, se s’apre nel mio cer- vello la celletta che mi fa pensare a mio marito, ho da ricorrere alla ragione, e la ragione ha da guidare la volontà ad aprire i cassetti ove stanno i pensieri del dovere, dell’onestà, della buona fama. Oppure basta anche fermarsi in quelli delle cose più indifferenti, come sarebbe a dire d’abiti, di manifatture, di giochi di carte, di lotterie, di conversazioni, di tavole, di passeggi e cose simili. E se la volontà non è pronta, se la ragione è restia, scuotere la macchi- na, muoversi violentemente, mordersi le labbra, ridere con veemenza, finché la fantasia si rischiari, si chiuda la cellula del rio pensiero, e s’apra quello cui la ragione addita ed il buon volere ci presenta. Ecco, ad esempio, devo esse- re ammessa alla conversazione delle dame. Occorrono lettere di raccoman- dazione, ovvero qualche piccolo regaletto di cento doppie. Non voglio anda- re in nessun luogo senza una dama che mi conduca. Dunque, questa serva. Dov’è la massera? (urla) Ma dov’è la massera? Mi deve aiutarmi a vestire e voglio la cioccolata! Dov’è la massera? Dov’è la serva? (improvvisamente furiosa) E la mia cioccolata? Ma questa cioccolata? Ma dov’è la massera? La cioccolataaaaaa!
Buio, pausa (magari con qualche mixage musicale, potrebbe essere qualche aria da “La serva padrona” di Pergolesi). Quando si riaccende la scena, vediamo illuminata la parte sinistra, la zona rappresentativa della cucina. L’attrice adesso indossa un semplice grembiulone, molto ampio che la rende goffa, e in testa porta una cresta ridicola. NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO* 269
SERVA-SPIRITO: (come se parlasse al balcone con un’altra fantesca imma- ginata sulla casa di fronte) Serva, m’ha detto serva? Adesso mi chiama serva? Serva, mi meraviglio. Son donna di governo, io. Son donna di consiglio. Non sono la serva, io. Sono una cameriera. Cos’è sto ‘tòcco di massera’? Se ho servito anche una lustrissima, io. Mi fa dormire in un armadio, sì, dietro la loro camera. Che per la fame e il freddo non riesco neanche a chiudere gli occhi. Tutto il tempo li sento che baruffano. Che gridano. Cari i miei padroni. Lei gli dice: ‘Dove sei stato, tòcco di barone? Sarai andato con quella a godertela, vero? E a me, poverina, mi tocca sospirare’. Lui tace, non risponde per un po’, finge di dormire. Ma quando è stufo sapete cosa fa? Salta su come una bestia, la strapazza, la bastona. Sì, la bastona, si, la butta giù dal letto. Ma è da un po’ che quello passa la notte fuori! Lei piange e ha gli occhi gonfi la mattina. E così, poi, se la prende con me. E non m’ha dato pure uno schiaffo, ieri? Sissignora, uno schiaffo! Me lo dà e poi dice ‘te lo do’. Massera, mi chiama. Mmmm. Ha il coraggio di dirmi che rubo. Non vorrebbe neanche darmi la giornata di libertà a carnevale. Tiene la chiave della dispensa su uno scabello vicino, alla sua portata. Quella là scortica un pidocchio per avanzar la pelle, altro che. Ma se non faccio che scopare, tirar via la polvere, e lei subito fa altra polvere e sporca. Mi chiama sessanta volte il dì. La sentite? La sentite che mi chiama? La sentite come si agita? Vuole la cioccolata. Ogni mattina. Si sfiati, ha da far un giorno la fine delle cicale. Ho già ripulito le stanze, il suolo, il tetto, ho spiumacciato le coltrici del letto, lustrato nella cucina il rame insudiciato, e queste mani hanno fatto il pane e il bucato. Ma qui invece, secondo lei, non si fa nulla. Qui si fatica invano. Tanto lei grida sempre. Che vivere inumano, con una padrona ingrata. Mi alzo per faticare, che ancor non ci si vede, e lei cogli strapazzi mi rende la mercede (lo ripete perché si accorge che si tratta di un verso). Mi rende la mercede, la mercede. Io non ho pretensione d’essere rispettata, so che povera sono, che povera son nata (idem, come sopra). Ma non sono certo lo spazzacamino, o lo spaccalegna, o il fornaio, o il beccaio o il fattore, o quel che d’immondizie tiene netto il letamaio. Io poi che mangio poco, come un uccellino. E mi basta solo un po’ di vino. Io poi che non sto mai sul balcone. Come? Sì che mi piacerebbe farmi voler bene dai padroni! So cucinare i risi, io. Non chiedo mica la carne tutti i giorni, io. Volete sapere l’ultima? (si sporgea ancor di più dal balcone immaginario) Non dite niente, però, a nessuno, non vorrei si dicesse che conto i fatti di casa. La mia padrona ha voluto venire in questa casa, e in quella di prima devono continuare a pagare il fitto, e qua devono ancora pagare i mesi d’anticipo. Sì, e ogni giorno che viene il fattore della vecchia casa e quello della nuova, il padrone dà ordine di dire che non c’è, e non so come andrà a finire, perché anch’io devo avere 270 PAOLO PUPPA il salario da sette mesi. Mi sa che fra poco vado da lei e le dico ‘Mi dia i sette mesi di salario, che mi deve dare, e tolgo l’incomodo’. Ma non dite niente a nessuno perché non faccio pettegolezzi, io. Solo che ho tanta rabbia in questa maledetta casa, e se non mi sfogo crepo. Ho da contare, ma da contare cose grandi, ma cose grandi. Sì, vi voglio confidare novità, ma non voglio si dica che faccio pettegolezzi. Non tutte le donne sono come me. Sette mesi che non mi danno niente, e taccio, perché per la mia padrona mi farei squartare. Ohe, e le arie che si dà! Nessuna nobiltà! Il padre era salumiere, e lo zio vendeva il burro. Si fanno chiamare lustrissimi, perché vivono d’entrata, ma dice il proverbio vita d’entrata vita stentata. E a me m’ha chiamato massera! Come? Certo che rimpiango l’altra casa! Perché in quell’altra casa se mi affacciavo al balcone mi consolavo il cuore. Avevo le mie amiche per divertirmi. Quando avevo finito i mestieri, andavo in terrazza, o in altana. Qua, adesso, di fronte, c’è sola gente rustega, tranne voi, ma sì, e se mi sporgo dal balcone, nessuna mi saluta, tranne voi. Sì, questa mattina, un’asina di furlana m’ha guardato e ohe non m’ha chiuso sul muso la finestra? Sentite che continua a chiamarmi serva? Massera? Io massera? Nossignora, io sono cameriera. Ci tengo alla reputazione, io. Faccio onor alla casa, io. Vengooooo! Sììì, vengooooo!
Buio. Pausa: Quando la scena si illumina, di nuovo la zona della padrona. L’attrice ora è nel suo abito settecentesco e si mira allo specchio. Da fuori arriva un gran temporale, con scrosci di pioggia.
PADRONA-VAPORE: (alla toilette, mentre si pettina e cambia più volte pettinatura. Sulla toiletta si vede la tazza di cioccolata, non toccata). Secondo te, sono io così odiosa che vuole morire piuttosto che volermi bene? Gli ho date scarse prove dell’amor mio? Gli pare che io sia di lui poco accesa? Non gli bastano le mie lacrime, i miei sospiri? Sono inquieta, è vero, ma le mie inquietudini sono partorite da amore. Lo tormento sì, qualche volta, ma chi ama davvero soffre un leggier travaglio in grazia di quell’oggetto che piace. Lui potrà, sì, trovare fuori di casa un’amante più amabile, più ricca, più me- ritevole, ma non più tenera, né più fedele. Anche se non mi ama più, anche se mi priva della sua vista, lo giuro, sarò sempre sua, e lo sarò finché viva, e lo sarò colla maggior tenerezza del cuore. A proposito, dov’eri finita? Come? ‘Se vi avessi sentita, non avrei ritardato’? Ma dov’eri, fraschetta? Dov’eri pettegola? Magari al balcone a spettegolare, vero? Tutto il giorno in quel maledetto balcone! Se vuol mangiare il mio pane, devi star dentro casa, non sul balcone! Non voglio tu faccia comarò coi vicini. Tòcco di frasconazza. Ti voglio licenziare, sì licenziare! Non ne prendo più al servizio, se non so bene... NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO* 271
E magari ti porti uomini per casa, vero? E poi mi vieni a dire che sono tuoi fratelli o cugini. La cioccolata è fredda! Passami il pettine! Cosa aspetti? Cerca di impegnarti! Con te il vino sparisce presto, presto finisce il pane. Così la bottiglia dell’aceto. E magari mi rispondi, colle mani sui fianchi, a bocca larga, che non vuoi ti si dica niente e che non devo bastonarti. Tòcco di frascona! A pizzico magnifico, mi rubi tutto, tu. E anche in cucina porti gente. Sì, cara. L’altra sera eravate in quattro a finire la mia polenta. E quando ho gridato ti sei messa anche a ridermi in faccia. No, no, adesso ti licenzio. Basta, basta! E quella volta che era sparito un coltello d’argento? Ohe, hai giurato per giorni e giorni che era finito dentro il buco della scafa, e poi l’ho ritrovato in un tuo cassetto! Sì cara! Ma i fatti miei non voglio nessuno li sappia. Sei andata a raccontare alla fruttivendola che mio marito m’ha dato uno schiaffo. T’ho presa in casa che eri piena di pidocchi. E anche senza camicia. T’ho vestita e sfamata. Ma non devi parlar con uomini. Quand’ero putta io, non parlavo cogli uomini dal balcone. Devo farti la guardia, neanche fossi mia figlia, cioè mia sorella. So l’obbligo mio. Che una padrona deve allevare bene le mas- sere giovani. E se crescete male, è colpa nostra. Ma tanto le serve sono tutte eguali. I primi giorni leste come i gatti, poi diventate poltrone. Tanto, si sa, massere e galline servono solo a sporcar casa. Tu per me sei una disgrazia. Ho chiamato ore e ore, che non ho più voce. O flemma maledetta! Or sì vedo che per esser sì buona con te la causa sono di tutti i mali miei. Il pane nella madia tieni chiuso, e poi ne fai padrone le amiche e le parenti. (Inizia la battuta in versi, e dunque il tono sarà cantilenante, con repliche di parte di battute e rendere più esplicite le rime) Sei venuta in casa per serva da cucina, ti sei data da principio a far la modestina; in compagnia degli altri, o in camera soletta, stavi cogli occhi bassi e colla bocca stretta. Ti coprivi la faccia, facevi la scrupolosa. Mi vestivi, mi spogliavi, d’inverno intiepidivi i miei vestiti al foco, d’estate una camicia mettevi in ogni loco, e d’estate sempre sollecita. La mattina per tempo, appena risvegliata, eri attenta a portarmi al letto la cioccolata. E adesso vedi che fai. Io t’ho cresciuta. T’ho fatta di carezze. Ora hai preso tanta arroganza, fatta ti sei sì superbona, che alfin di serva diverrai padrona. (Riprende il tono prosastico) Ma voi serve non avete cuore. Povera casa mia se non avessi in testa un po’ di economia. So io quel che risparmio e quel che metto da parte in un anno. (grida girandosi verso la serva alle spalle) E quanti sarebbero i panetti, oggi? Eh, eh, quanti sono? Diciotto i bianchi? E solo sei quelli di semola? Solo diciotto i bianchi? Ma se erano ventitre l’altra volta? Certo che farò pesare la pasta, adesso! E va bene. Non dico che li avrai rubati. Solo che ti parevano poco tre piccoli al giorno per te. Li avrai fatti grandi, vero? E magari uno l’avrai anche venduto, no? Sì, cara, ne mancano 272 PAOLO PUPPA almeno cinque. Allora disfali e va a rifarli. Tuo danno, tuo danno, cara mia. Certo, colle tue manine care e preziose. Attenta a come rispondi, frascona! Se ti licenzio, non ti prende nessuno a Venezia, sta pur sicura. Cosa? Così si parla ad una come me? Sì, e anche l’olio mi manca. Me n’hai fregato una lira in un mese! Come no! Siete tutte uguali, voi serve. Beate le serve che non vanno sui balconi a far pettegolezzi, beate le serve che non rispondono anche se le si strapazza. Ci devono essere, ci sono, da qualche parte, serve che per le padrone andrebbero sul fuoco! Una buona massera val più di un tesoro. Noi ci mettiamo nelle vostre mani, in fondo. E volete tradire chi vi dà il pane. E volete come fraschette disgustar le vostre padrone. Qualcuna di non cattiva ci sarà, da qualche parte? Sai che ti dico? Quelle cattive, mandiamole lontano, e alle massere buone battiamo le mani. Ah, ah, ah, certo, battiamo le mani! (ride nevrotica)! Hai acceso il fuoco, piuttosto? Eh? Eh? Hai fatto il pane? Eh? Eh? Ah, queste serve! Se siete vecchie, non siete buone da niente. Se siete giovani, fate all’amore. E non vi si possono prendere di mezza età. Perché queste fanno come le giovani finché possono, e ci danno dentro, per poi diventar vecchie all’improvviso. Ti ci vorrebbe un vecchio, per te, a que- sto punto. Ah, ah, ah! (molto aggressiva). Ma che ci vuole per pettinarmi? Sta attenta, piuttosto? È pura seta, sai, questo vestito! Via al lavoro, adesso. Intanto provvedi a filare. Per accendere il fuoco è buonora. Col magro si fa presto. Puoi filare piuttosto. In cucina mancano canovacci? Cosa? Hai paura di stancarti le povere dita? Cosa? I tuoi stracci li curerai non di sera, se non mi consumi l’olio della lucerna. Ci penserai il giorno di libertà.
Buio. Pausa. Di nuovo la zona cucina. L’attrice, sempre col suo grembiolo- ne, appare seduta sullo sgabello, mentre pela patate e altre verdure). Ancora il mixage con ‘La serva padrona’, con le medesime arie della scena precedente, relativa alla serva.
SERVA-SPIRITO: (A voce alta, rivolta alla padrona immaginata in camera da letto) Come? Non volete più uscire? Ma se non piove più! Vi preparo un’altra cioccolata? No? Niente cioccolata? (A voce bassa). Prima la voleva a tutti i costi! E adesso niente più cioccolata! Ma so io cosa ti farei, donna di vapori! (Ancora a voce alta) Padroncina, si tiri su. Basta vapori! Sapete che faremo, una volta che ho finito i mestieri? (Con tono fiabesco) Accenderemo il fuoco, riempiremo una bellissima caldaia d’acqua, e la porremo sopra le fiamme. Quando l’acqua comincerà a mormorare, prenderò quell’ingredien- te, in polvere bellissima come l’oro, sì la farina gialla, e a poco a poco anderò fondendola nella caldaia, nella quale con una sapientissima verga andremo a NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO* 273 fare dei circoli e delle linee. Quando la materia sarà condensata, la leveremo dal fuoco e tutte e due di concerto con un cucchiaio ciascuna, la faremo passare dalla caldaia al piatto. Vi cacceremo poi sopra di mano in mano un’abbondante porzione di fresco, giallo e delicato butirro, poi altrettanto grasso, giallo e ben grattato formaggio, e poi? E poi da una parte e dall’altra con una forcina in mano a testa prenderemo due o tre bocconi in una volta, di quella ben condizionata polenta e ne faremo una mangiata da imperatore, e poi? E poi preparerò un paio di fiaschi di dolcissimo, preziosissimo vino, e tutte e due ce li goderemo sino all’intiera consumazione. (Di nuovo, tono realistico) Ah no, non avete appetito? Ma dovreste reagire, signora mia, ri- cordare al suo signor marito che non è giusto essi a spasso e le mogli a casa! (A voce bassa, parlando tra sé) Ecco, se a questa porta viene a pisciar un cane, tosto a lei si riporta. S’io dico una parola, s’io faccio un gesto solo, vanno tutto a raccontarle di volo. (Di nuovo a voce alta, sempre rivolta alla padrona) (Ancora a voce bassa) Perché io sono serva, ho da esser sopraffatta, ho da esser maltrattata? No, signora, voglio esser rispettata, voglio esser riverita, come fossi padrona, arcipadrona, padronissima. Anche il nome mi cambia. Un giorno sono Corallina, un altro Colombina, oppure Smeraldina, oppure Argentina. E mi insulta di continuo. Se sono nata a Bergamo che vuol dire? Non sono mica come Arlecchino, io. Sono stata allevata fuori. E vivo da sempre a Venezia, poi. Che diamine! Mi so adattare a parlare in veneziano, se voglio. Ma ormai parlo benissimo il toscano. Anch’io poi ho i miei spasi- manti. Arlecchino dice che è innamorato delle mie bellezze, già. Dice che mi vuole bene, anche. Con lui mi fingo vergognosetta. Anche se in fondo mi dà nel genio, costui. In ogni caso non è male che il marito sia sciocco. Ma io posso puntare anche al Signor Florindo, l’amico del padrone. O della padro- na? L’altro giorno mi fa ‘Guarda che schizzinosa. Non vuole che la tocchino’. Cosa crede, quello? Anch’io sono putta. Mi ha detto anche ‘Presumi che un giovane come me ti voglia prendere per moglie? È vero che ti ho dato delle belle parole, e anche qualche buona speranza, ma l’ho fatto col secondo fine’ No, caro, io sono putta. Nessun secondo fine, con me! (In ginocchio comincia a lavare il pavimento, con uno straccio che toglie dall’altro secchio, colmo d’ac- qua, prima coperto dal buio. Quindi, inizia la battuta in tono teatrale. Per tutta la sequenza che segue va evidenziato che si tratta di una fantasia di trion- fo) Ma se punto al giovane, niuno vorrà credere che io ami il padroncino senza interesse. Senza interesse. Poiché le donne sono presso degli uomini in mal concetto. E poi diranno che sono una sfacciata. Una donna scorretta, una poco di buono. Ma giuro al cielo, se vi fosse persona che ardisse macchiar in un picciol neo la mia reputazione, benché sia donna, avrei coraggio di saltar- 274 PAOLO PUPPA gli alla vita, e graffiargli il viso, strappargli la lingua, cavargli il cuore. Ma gli ho anche detto a questo signor Florindo – ah, proprio un poeta io sono! – ‘A me preme l’onor mio sopratutto e a voi deve premere il vostro. Figlio unico di una casa ricca e civile, vorreste avvilirvi collo sposare una serva? Così magari si saprà dal mondo chi sono. Si saprà, sì si saprà che ho avuto cuore di rinunziare a uno sposo civile, un’occasione invidiabile, una grandissima fortuna, per delicatezza di onore, per zelo di fedeltà, per impegno di vera onestà e disinteressata amicizia. In ogni caso vi sarò sempre amica, vi sarò sempre serva, sarò sempre la vostra amorosissima serva. Insomma, sì, sì, questo Florindo à mio, ne posso far quel ch’io voglio. Lo posso vendere, impegnare e donare. Io lo dono a chi voglio, sì a chi voglio io. Oppure potrei dirgli ‘Vi ho amato , posso dir, dalle fasce, anche se eravamo ambe in quelle rivolti. Sì, siamo in fondo cresciuti insieme. Ma a voi occorre una degna di voi per nascita, per facoltà, per costumi. Sì, sì, sì, una fanciulla savia, morige- rata, non una vanerella, una civettuola di quelle del tempo di oggidì. Sapete che vi dico? Potrei andare a servizio da un vecchio ricco, magari vedovo. Già, un vecchio matto. Quando l’avrò ben pelato, se volete, le penne le spartirò con voi. No? Ma sì, ma sìì, anche un vecchio pazzo stomacoso, che mi fa venire il vomito. Da prenderlo in giro, beffandolo con ‘E poi se io rido mi vedete i denti. Se voi ridete io non ve li vedo. Sì, il padrone siete voi. Io non posso obbligarvi a far una cosa che non volete, ma nemmeno voi potete ob- bligar me a far quello che non mi piace di fare. Questa volta faccio io. Non comando, ma persuado, convinco e faccio io’. (Si avvicina al letto e comincia a rifarlo, piegando con calma le lenzuola, dopo aver dato aria alle stesse, alla finestra). Adesso è uscita, finalmente da qualche parte, la mia padrona! Fi- nalmente! Ma io questo vecchio, se lo trovo davvero, lo secondo e lo coltivo, perché da lui posso sperare del bene. Ma non lo sposerei per tutto l’oro del mondo. Quando mi abbia a maritare voglio farlo con persona di genio, con persona che mi faccia un poco brillare. Voglio un giovane e non voglio un vecchio. Sì, voglio un bel giovinotto. E voi me l’avete promesso, caro il mio Florindo (sospira). Vi siete forse mutato d’opinione? La sarebbe bella! (Par- lando al vecchio immaginario) Oh no, sono lontanissima dal matrimonio. Se però si trattasse del mio signor padrone, mi rassegnerei. Oh no, non vi è pericolo. Il mio caro padrone non lo lascio per un principe, per un re. Voi siete un fiore. Siete un gelsomino. Fate invidia alla gioventù. Oh, non vi cambierei con un giovinetto. Sapete che bugie non ne so dire. No, la mano non adesso. Quando sarò vostra ve la darò. Se andate in collera non ve la do più. Non cambierei il padrone che ho, con quanti ne conosco nei nostri con- torni. Siete il più buon uomo di questo mondo. Sposarvi, voi? Non ci dovre- NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO* 275 ste pensare nemmeno. Prima di tutto, nella vostra età pericolosa per voi, e poco comoda per una consorte. Secondariamente, per causa della vostra salute, alla quale non può che pregiudicare il matrimonio. Poi per la vostra economia, che con una moglie vedreste precipitata. E con una giovane al fianco, un vecchio come voi siete? Io? No, io non mi mariterò mai per non lasciarvi. Non potete però dolervi dell’amor mio e della mia fedeltà, caro padrone. Per voi, ho sacrificato posso dire la più bella mia gioventù. Per voi, ho lasciato tanti partiti, per voi non mi sono accasata. Per voi, ho lasciato una padrona che mi adorava e che adoravo coma una madre. Vi domando per- dono se ho avuto l’ardire di lusingarmi d’esser da voi amata. Le mie speran- ze erano fondate sulle vostre generose espressioni, ma ora conosco l’inganno mio, confesso la mia viltà, il mio demerito, e procurerò di scancellar la mia colpa a forza di lacrime e di sospiri. No, padrone, se mi sposate, non farò più la generosa con tutti. In questa casa gli scrocconi non troveranno più da far bene. Gli scrocconi non torneranno più. Conosceranno che non si vogliono. Se ho da esser io la padrona, vo’ risparmiare, e quello che vorrebbono man- giare gli altri, vo’ risparmiare per voi. È vero che siete vecchio, ma i denari fanno parer tutto bello. I denari hanno una forza indicibile. Scemano gli anni, lisciano la pelle, raddrizzano le gobbe e coprono le magagne. Tutto per me il maneggio di casa, tutte per me le chiavi, tutto per me il fare, il disfare, l’an- dare, lo stare, il tornare, il disponete, il comandare (esulta come una folle). Sono anni che vi servo, caro padrone, e voi in premio della mia servitù, o per meglio dire per effetto della mia condotta, di serva mi avete voluto fare pa- drona. Se per lo passato vi sono stata un’amorosa serva, vi sarò in avvenire una discreta moglie, studiando ogni più dolce maniera, perché non vi pen- tiate d’aver onorato colla vostra mano la vostra Castalda. No, signore, siete il più bel vecchietto di questo mondo. Sììììììììì, il nonnino più bello, il papà bello, che mi vuole tanto bene, vero? Che mi vuole tanto bene e farà quello che gli dico, veroooooo? (Altro registro, più eccitato, ma sempre entro un tono teatrale-autistico) Ma colla dote darò un calcio al vecchio per consolarmi col mio Florindo. E se il vecchio mi chiederà come ho messo su questo denaro, gli dirò che l’ho vinto al lotto. È vero che il mio Florindo è figlio di mercan- te civile un po’ troppo per la mia condizione, ma l’amore che egli ha per me, la mia buona maniera, un poco di denari, e un poco di quell’arte senza la quale non si fa niente, m’assicura ch’ei sarà mio. Vecchiaccio rabbioso, que- sto bocconcino non è per te. Servo è vero, ma son nata bene. Mio padre era un monsieur che negoziava di capelli e stava in bottega per divertimento, e sono stata allevata come una dama, e chi non mi vuole non mi merita. Per me questo brutto vecchiaccio incancherito? Rabbioso è come il diavolo, grida 276 PAOLO PUPPA con tutto il mondo, è una bestia, è una furia, ma io non mi confondo; un po’ colle cattive, un poco colle buone, io lo meno pel naso il povero secchione. Se però lo sposo, se ho da esser io la padrona, voglio risparmiare, basta pelar la quaglia senza farla strillare. Se ho da esser io la padrona, quello che vor- rebbero mangiare gli altri, lo voglio riserbare per me. Lo so bene del resto che colla dote si comprano gli uomini accorti, e colle belle parole si compra- no i merletti. Ma sì, al vecchio potrei sempre direi ‘Caro signor padrone, non credo che trovar possiate una donna più economa di me; procuro di rispar- miare il vostro, ma fino a quel segno che non pregiudichi il vostro decoro’. Ma ancora dovrei vincere le sue paure. Perché il vecchio m’ha confessato l’altra sera che: Com’era, com’era? ‘La saria un bon scaldaletto. Ma no vorrai che invece de scaldarme la me brusasse’. Il padrone è un uomo che facilmen- te si dà alla malinconia. Bisogna tenerlo divertito; e colle barzellette può es- sere che mi riesca di fargli fare di quelle cose che pensandovi sopra con se- rietà forse non le farebbe. Il matrimonio è quello che consola/giovani, vecchi e quei di mezza età./Il giovane si infiamma a una parola;/l’uomo fatto vuol essere carezzato./Ma fra tutti il povero vecchietto/giubila, se qualcun gli scalda il letto. Ed io, benché nata serva, non ho viltà di ricusare la mia fortu- na. Accetto il generoso dono del mio padrone, ed anch’io gli porgo la mano. Così, la mia cara padrona la menerò pel naso: Le dirò ‘Ma sì, ma sì, tutto quello che comanda. Chiedo di quel che ho fatto perdono alla signora. Lo chiederò umilmente a chi mi soffre e onora, perdon da chi mi ascolta e il mio rispetto implora. Mi accuso io stessa delle mie colpe. Le aggraverò anche di più per essere maggiormente rea, per meritare anche la morte. Ecco gioie, danari, tutti rubati, tutti frutti delle mie frodi, dell’arte mia. Sì, son rea di tanti delitti, ognuno dei quali mi rende odiosa, mi rende indegna la vita. Più non merito la sua casa, l’amor suo, la sua grazia. Anderò in villa, dove son nata; finirò i giorni miei come merito’. (Sghignazza di gusto, con sinistra e folle euforia. Poi inizia a pulire il pitale, da sotto il letto, rovesciandolo fuori dalla finestra, e mostrando smorfie di disgusto. Quindi, lo lava versandogli dentro più volte l’acqua del secchio) Non sapete che quando io voglio meno gli uomini pel naso? Rider di tutti, burlar quando posso. Farmi amar da chi voglio, e far crepar dalla rabbia chi non mi vuole bene. Sì, signori, io non mi picco di essere né tanto virtuosa, né tanto fiera, ma un poco di spirito l’ho ancor io per regolarmi nelle occasioni. Ho sposato un vecchio e son certa che alcuni diranno che ho fatto bene, alcuni diranno che ho fatto male. Chi dirà povera giovine. Con un vecchio? È sacrificata. E chi dirà bravissima. Un vecchio? La tratterà da regina. Alcuni diranno non le mancherà il suo bisogno. Alcuni altri poverina, digiunerà! Qualche ragazza mi condannerà, e qualche- NOTTURNO PER ATTRICE GOLDONIANA. DONNE DI VAPORE E DONNE DI SPIRITO* 277 dun’altra averà di me invidia. E tante e tante che hanno sposati dei giovinet- ti cattivi, si augurerebbero adesso un vecchietto da bene. Il ben del matrimo- nio dura tanto,/ quanto dura fra i sposi amore e pace./ Collo spirito il brio fu sol mio vanto/ quel che giova ottener, non quel che piace./ Ché vagliono assai più d’un parigino/ i danari, i vestiti, il pane, il vino. Io sono donna di spirito, sì spiritosa e anche un po’ spirituale (ride, mentre continua la pulizia del pitale della padrona). In fondo mi potrei chiamare davvero Capitan Co- lombina. (In versi, e dunque in tono cantilenante) Oh, le donne, le donne la sanno lunga affé, ma poche sono quelle da mettere con me. Se corrisponde il fine all’opra incominciata, merito fra le donne d’essere incoronata. (Di nuovo, in tono prosastico) Perché noi donne siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura. Anche poeta sono, già. Tutta ope- ra mia. E magari verrà un giorno che potrò dire anch’io ‘Si sa che di una povera serva son diventata padrona, che di rustica che ero creduta, si è sco- perta nobile la mia condizione, e che milord che mi amava è divenuto il mio caro sposo’. Sissignori, io tratto con tutti, ma non mi innamoro mai di nes- suno. Vivo onestamente e godo la mia libertà. (Il pitale si rovescia, e di nuovo è costretta a lavare il pavimento) Sììììììì, io sacrifico volentieri tutti gli stimoli dell’appetito, benché giovane donna, al tesoro preziosissimo della cara mia libertà. Sissignori, io faccio l’amore come si fa quando ascoltasi una comme- dia. Fin che mi dà piacere, l’ascolto. Quando principia ad annoiarmi mi metto in maschera e vado via. Sissignori, tutto il mio piacere consiste in ve- dermi servita, vagheggiata, adorata. Non si dia tante arie, cara la mia signora. Io non mi farei trattare così dal marito. Siamo tutti mercanti, poi, o no? La differenza consiste in un poco più di denari. Io non sono sempliciotta come crede. A conoscere una donna non bastano dieci anni. E gli dicevo, al giova- ne Florindo, o che arte la mia! ‘Eh, io signore, ho de’ secreti particolari. Queste mani sanno fare delle belle cose. Tocchi, tocchi…Viva chi si vuol bene. Tocchi, tocchi senza malizia. Favorisca, si degni, osservi, sono pulita’. Uh, è cotto, stracotto e biscottato! Questo vuol dire saper vivere, saper fare, saper profittare di tutto, con buona grazia, con pulizia, con un poco di disinvoltu- ra. No, signore, per grazia del cielo, non sono soggetta agli svenimenti, io. Mi è accaduto oggi quello che non mi è accaduto mai. Non sono come la mia padrona, che piange e sviene di continuo. Ha i vapori, quella, perché il con- sorte gioca e la trascura e se la fa colle altre. Non son di quella pasta io. Ho spirito, io. Ho fantasia, io. Tanta fantasia. Solo fantasia, io. (Lava adesso le lenzuola della signora su una mastella, lenzuola gettate in un angolo buio del- la zona cucina, e si affatica con un ruvido sapone). Che avete, signore? Mi parete turbato, oggi? Avete male? In verità ho paura che abbiate male. Cosa, 278 PAOLO PUPPA signore? Io innamorata di un cameriere? Mi fa un bel complimento, signore. Non sono di sì cattivo gusto, io. Quando volessi amare, io, non getterei il mio tempo sì malamente. Perdoni, signore, mi preme di allestire questa bianche- ria per domani. Perché di questa biancheria me ne ho da servire, e di lei non posso far capitale di niente. Ah, rido, perché mi burla. Cosa? Le vien male? Tenga il suo spirito di melissa. Oh, perdoni, non l’ho fatto apposta. Cosa? Ah, questa è bella! Non mi potrò servire della mia gente? È una cosa curiosa, questa. Non posso chiamar chi voglio? Nessuno mi ha mai comandato. Che cosa vuole da me? Un uomo che stamattina non poteva veder le donne, oggi chiede pietà e amore. Non gli abbado. Non può essere, non gli credo. Cosa? Nella sua camera, signore? Dove mi vuole, eccellenza? Se ha bisogno di qualcosa, verrà il cameriere a servirla. Permette illustrissimo? La supplico almeno degnarsi di vedere se è di suo genio. Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito, per quelli che la sanno conoscere, e in verità illustris- simo la do per esser lei, ad un altro non la darei. Di queste salviette ne ho parecchie e le serberò per V.S. illustrissima. Oh, io non mi incomodo mai quando servo cavalieri di sì alto merito. Come, signore, questo presente per me? Questo piccolo gioiello di diamanti? Non lo prendo assolutamente. Mala creanza? Oh, delle male creanze non ne faccio mai. Per non disgustarla, lo prenderò. Già, il mio cuore, caro il mio signore, è di una pasta sì dolce che chi ne assaggia una volta, non se ne scorsa mai più. Mai più, già. Se ne assag- gia una volta. Mai, mai. Basta una volta sola….(Molto sensuale, poi rivolta alla padrona, a voce alta) Va bene, sì vengo, vi porto subito la cioccolata! Eccola! Ve la porto, ma sìììììììì
Buio. Sipario. GOLDONI TRA MUSICA E POESIA Scuola di Pietro Falca detto il Longhi (1701-1785) - I passatempi in villa: La colazione in villa Olio su tela - Venezia, Casa di Carlo Goldoni
Scuola di Pietro Falca detto il Longhi (1701-1785) - I passatempi in villa: La cucina Olio su tela - Venezia, Casa di Carlo Goldoni Piero Mioli
CANTAR GOLDONI. IL GRANDE COMMEDIOGRAFO (1707-1793) COME POETA PER MUSICA AL CENTRO DELLA LIBRETTISTICA SETTECENTESCA*
1. Un’autentica eccezione Non è facile, nei ranghi della letteratura italiana, individuare un dramma- turgo impegnato anche nella scrittura di libretti d’opera; e forse è assurdo, perfino vietato immaginare che un rappresentante della letteratura europea più assoluta e classicistica possibile sappia essersi rassegnato a un’attività così relativa e moderna, effettivamente ancillare rispetto alla musica, alla scena, a tutto quanto fa dramma e cioè alla drammaturgia. Contro qualche caso di un Parini (per Mozart), un Monti (per Paisiello), un D’Annunzio (per Mascagni) o un Pirandello (per Casella), la cui sporadicità significa già molto, si leva infatti tutta l’austerità di un Alfieri, di un Foscolo, di un Manzoni, a cui la stessa parola “coro” non ispirava nemmeno una remota idea di canto e suono. È vero che a frugare nei cataloghi di drammaturghi minori qualche episodio si trova spesso (per esempio Niccolini per Apolloni), che con l’estremo Otto- cento la situazione cominciò a mutare per resistere lungo l’intero Novecento (Giacosa docet, seguito fra gli altri da Quasimodo, Montale, Calvino), che la tradizione letteraria italiana è sempre stata la prima a diffidare del teatro in genere (Leopardi? Carducci? Ungaretti?), ma certo è che i migliori librettisti hanno riservato le loro forze totali o prevalenti al teatro d’opera: e saranno Rinuccini, Metastasio, Romani, lo stesso Boito. In tal contesto Carlo Goldoni (Venezia 1707 – Parigi 1793) è stato un’autentica eccezione: grande scrittore, sommo commediografo, ma anche librettista notevole di quantità e qualità. Contemporaneo e quasi coetaneo di Metastasio, versato nell’opera comica come il collega versato nell’opera seria, proprio a causa di questa eccezionalità Goldoni ha trovato pochi riscontri della sua seconda attività nella bibliogra- fia odierna e corrente (per tacere di quella storica): mentre Metastasio era