Vivere L'incertezza
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Tesi di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità- XXVII Ciclo Settore scientifico disciplinare di afferenza: M-DEA/01 VIVERE L’INCERTEZZA CONFINI ETEROGENEI E MOBILITA’ PLURIME TRA I RIFUGIATI ERITREI E RIMPATRIATI ETIOPI A MEKELLE (ETIOPIA) Candidata: Aurora Massa Supervisore: Prof. Bruno Riccio Co-supervisore: Prof. Pino Schirripa 3 INDICE INTRODUZIONE 9 1. Definizione della ricerca 9 2. Il percorso tortuoso dell’etnografia 10 2.1. Cambiare progetti 10 2.2. Confini e frontiere. Osservazioni preliminari 15 3. Alcune premesse teoriche 18 4. La ricerca sul campo 25 5. Struttura del testo 34 1. BIOGRAFIA DI UNA FRONTIERA 39 1.1. Frontiere locali, frontiere etero centrate 40 1.2. Iniziare dall’inizio 45 1.3. L’era coloniale 50 1.4. Frammentazioni postcoloniali 55 1.5. Una seconda colonizzazione? 60 1.6. La guerra di frontiera 64 1.7. L’Eritrea e la deriva autoritaria 70 1.8. Sviluppo e decentramento in Etiopia 75 2. CONFINI ISTITUZIONALI E MOBILITA’ PLURIME 81 2.1. Rimpatriati e rifugiati tra continuità e discontinuità 82 2.2. La comunità tigrina in Eritrea 85 2.2.1. Da spostamento interno a migrazione internazionale 85 2.2.2. Forzare frontiere, rinforzare confini 88 2.2.3. Deportazioni e rimpatri (1998-2013) 95 2.3. Giovani in fuga 99 2.3.1. “Noi abbiamo la fuga come modello” 99 2.4. Racconti di viaggio 109 L’accoglienza in Etiopia 116 2.4.1. Rimpatriati 116 2.4.2. Rifugiati 118 3. FARE LA DIFFERENZA 125 3.1. Confini (in)visibili 126 3.1.1. Antropologie spontanee 126 3.1.2. Confini in città 131 3.2. I luoghi della differenza 139 3.3. I confini vissuti 148 3.3.1. Una pluralità di noi 148 3.3.2. Una carta di identità nel calzino 154 3.4. Il caso di Radio Wegahta 158 4. CONFINI DEL POLITICO, DEL CREDIBILE E SPAZI DI AZIONE 165 4.1. Oltre il politico 168 4.1.1. I giovani e la politica 168 4.1.2. Azioni pubbliche e spazi privati 173 4.2. Dietro le quinte di un film 180 4.2.1. Un eroe senza confini? 182 4.2.2. Tra incertezze e segreti 192 5. INCERTEZZA E TRANSITO TRA I RIFUGIATI ERITREI 199 5.1. Ostacoli alla mobilità 202 5.2. “Aspettando l’occasione” 207 5.3. Temporalità sospese 215 5.4. Vivere in transito a Mekelle 219 5.5. Studenti in transito 225 5.5.1. Mobilità e istruzione 225 5.5.2. “From camp to campus” 231 5.5.3. Perché gli Eritrei sono tre passi avanti 233 5.6. “What’s next” 237 5 6. I SENTIERI DEL RITORNO 243 6.1. Le criticità del ritorno e del rimpatrio 244 6.2. Tornare in un luogo sconosciuto 249 6.3. “Io sono sempre stato un grande lavoratore” 254 6.4. Tracciare continuità, fabbricare comunità 266 6.5. L’impossibilità del ritorno 275 6.6. “Io non sapevo di essere Agame!” 283 7. FRONTIERE DI FAMIGLIA 291 7.1. Famiglie e nazionalismi 294 7.2. “Tu e tuo padre dovete andare all’inferno” 301 7.3. Reti di parentela e forme di cittadinanza 305 7.4. “Io ero Eritrea” 312 7.5. Un posizionamento scomodo 318 CONCLUSIONI 323 BIBLIOGRAFIA 331 Ringraziamenti 361 Ai sommersi e ai salvati INTRODUZIONE 1. DEFINIZIONE DELLA RICERCA Questo testo si basa su una ricerca etnografica condotta nella città di Mekelle, nel Nord dell’Etiopia, tra gennaio 2013 e febbraio 2014 e, per chiarezza nei confronti del lettore, dovrei iniziare argomentando che protagonisti delle seguenti pagine sono i “rimpatriati etiopi” e i “rifugiati eritrei”. Tuttavia, poiché uno degli obiettivi principali di questo lavoro è decostruire lenti di analisi reificanti a partire dalle etichette giuridiche di Eritreo e di rifugiato, di rimpatriato e di Etiope, preferisco cominciare in altro modo. Al centro di questo lavoro vi sono i vissuti, i desideri e le pratiche di mobilità e le esperienze di viaggio, di transito e di insediamento – analizzati attraverso la lente del confine – di un gruppo eterogeneo di persone che ha varcato la frontiera dall’Eritrea all’Etiopia dopo il 1991, anno in cui l’Eritrea è divenuta indipendente dall’Etiopia. Le traiettorie biografiche, i progetti migratori e le difficoltà di insediamento e di attraversamento a Mekelle entrano in relazione con una pluralità di confini (intensi in senso geografico, istituzionale e simbolico) locali e globali che definiscono gli status istituzionali, producono e ostacolano la mobilità regionale e intercontinentale, plasmano le forme specifiche di rimpatri, desideri di altrove e transiti. Al tempo stesso, l’eterogeneità di questi confini e le loro sovrapposizioni consentono ai soggetti mobili al centro di questo lavoro di smontarli, attraversarli, utilizzarli e riprodurli in relazione a mobilità e immobilità. Sempre per chiarezza verso il lettore, è opportuno premettere che confini e frontiere non erano al centro dei miei interessi di indagine quando, dopo un anno di preparazione presso il dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità dell’Università di Bergamo e con la supervisione di Bruno Riccio, sono arrivata in Etiopia. Il banco di prova dell’etnografia mette spesso in discussione i progetti di ricerca e, benché le indagini Introduzione antropologiche siano sempre orientate da idee e obiettivi definiti, “il campo” prende sovente pieghe imprevedibili. Nonostante costituisca un sapere orientato e attraversato da gerarchie di potere, un sapere di rapina secondo Apolito (2006), l’antropologia è infatti sempre dialogica, duttile e in stretta relazione con le esigenze, gli interessi e i desideri dei suoi interlocutori (gli Altri) e con gli spazi che essi concedono. Come scrive Fabietti (1999), questa duttilità costituisce, al tempo stesso, la debolezza e la forza di una disciplina che è costruita sulla frontiera e che è pertanto capace di generare aporie che mostrano i limiti delle nostre certezze. Il lavoro etnografico su cui si basa questo testo si è dunque definito in itinere, a partire da un progetto che prevedeva un luogo, ambiti di indagine e lenti teoriche molto differenti da quelli che sono effettivamente al centro delle seguenti pagine. La ricerca è stata modellata e rimodellata in base alla mia progressiva comprensione del contesto locale, ma anche in relazione ai limiti che i miei interlocutori istituzionali locali hanno posto ai miei spazi di indagine. È pertanto opportuno fare un passo indietro nel tempo per ricostruire i modi e le ragioni che mi hanno spinto a occuparmi di argomenti che inizialmente non avevo sospettato di indagare. 2. IL PERCORSO TORTUOSO DELL’ETNOGRAFIA 2.1. Cambiare progetti Quando sono arrivata in Etiopia nel gennaio 2013, avevo un’immagine abbastanza definita di ciò che sarebbe stata la mia ricerca di dottorato, sebbene in quel momento mi sembrasse il contrario. L’obiettivo generale del progetto era analizzare il rapporto tra l’apparato umanitario che in Etiopia pianifica e realizza le forme di aiuto per le popolazioni in fuga e alcuni destinatari di tali interventi, ossia i rifugiati eritrei che scappano dalle derive repressive del governo di Isayas Afeworki, ex leader del movimento di liberazione al potere sin dai primi anni Novanta. Da più di un decennio l’Eritrea è infatti uno dei principali Paesi di provenienza dei migranti che, passando attraverso il Sahara e il Mediterraneo, cercano rifugio nell’Unione Europea e per i quali l’Etiopia costituisce uno dei principali luoghi di transito. Il progetto iniziale delimitava in maniera rigorosa sia il campo di indagine (i campi profughi che sorgono in Tigray, lo Stato settentrionale della Federazione etiope al confine con l’Eritrea), sia i soggetti coinvolti (i rifugiati eritrei ospitati, gli operatori sociali, le Introduzione figure istituzionali e politiche di riferimento). Avevo inoltre un’idea piuttosto precisa delle cornici teoriche all’interno delle quali inquadrare la ricerca – ossia l’apparato umanitario, gli idiomi e i meccanismi di inclusione e di esclusione che esso veicola (Fassin 2012 [2010]) e i rapporti con i soggetti che contrastano le reti di potere cui dovrebbero conformarsi – e avevo individuato nei processi di salute e malattia, in quanto oggetto di politiche e oggetti politici (Fassin 1987), la lente privilegiata di analisi. Avevo già svolto ricerche in Etiopia sul sistema medico1 (Schirripa, Zúniga Valle 2000) e l’ambito della salute e della malattia costituiva anche un buon punto di partenza per affrontare criticamente quell’apparato concettuale che, sulla scia dell’opera di Michael Foucault e delle riletture da parte di filosofi quali Giorgio Agamben, è sempre più utilizzato nelle scienze sociali per analizzare i trattamenti riservati a certe categorie di persone.2 Poiché avevo una certa familiarità con la reticenza delle istituzioni etiopi rispetto agli occhi esterni, prima di partire avevo preso contatti con l’UNHCR e alcune ONG internazionali impegnate in Etiopia nella presa in carico dei rifugiati, per cercare un canale di accesso nei campi. Tuttavia i miei tentativi erano stati vani e tutte le organizzazioni mi avevano consigliato di negoziare i miei progetti con l’Ethiopian Administration for Refugee and Returnee Affairs (ARRA), l’agenzia governativa responsabile della gestione dei rifugiati a livello federale, sottolineando che molto difficilmente avrei ottenuto un permesso di entrata. Avevo quindi deciso di risolvere la questione in loco e, una volta arrivata ad Addis Ababa, è stato piuttosto facile incontrare Ato Iyob, responsabile dell’Ufficio Protezione, e 1 Prima del dottorato, ho trascorso a Mekelle tre periodi di ricerca (tra il 2007 e il 2010) per un totale di tredici mesi nell’ambito delle attività della Missione Etnologica Italiana in Tigray (MEIT), coordinata da Pino Schirripa. Le mie indagini, finalizzate alla redazione della tesi di laurea specialistica e ad attività di consulenza per il settore Cooperazione del Ministero degli Esteri, si sono focalizzate sui percorsi terapeutici, sulle modalità di gestione domestica della malattia, sulle associazioni di pazienti sieropositivi, sui problemi di accesso alle strutture biomediche e sull’impatto sociale delle malattie della pelle.