Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Civiltà dell’Asia e dell’Africa Mediterranea –

Curricula Giappone (Nuovo Ordinamento, ex D.M. 207/2004)

Tesi di Laurea Magistrale

Il Giappone dell’Orrore

Un’analisi del macabro e del soprannaturale nelle arti giapponesi dall’epoca pre-moderna

Relatore Ch. Prof. ssa Silvia Vesco

Correlatore Ch. Prof. Bonaventura Ruperti

Laureanda Selene Sovilla Matricola 827245

Anno Accademico 2017/ 2018 INDICE

INDICE ...... …...... …...... 1

PREMESSA ...... 2

はじめに ...... 4

1. EPOCA PRE-MODERNA: IL SOPRANNATURALE IN PERIODO EDO...... 6

1.1 YŪREI: GLI SPIRITI NELLE ARTI E NEL TEMPO...... 10

1.2 YŌKAI: CREATURE MOSTRUOSE DEL FOLKLORE ...... 21

1.2.1 ONI, TENGU E SERPENTI: FIGURE RICORRENTI DI YŌKAI ...... 26

1.3 UKIYOE: HOKUSAI, KUNISADA, KUNIYOSHI, YOSHIIKU, YOSHITOSHI ...... 34

1.3.1 KATSUSHIKA HOKUSAI ...... 38

1.3.2 UTAGAWA KUNISADA ...... 44

1.3.3 UTAGAWA KUNIYOSHI ...... 46

1.3.4 UTAGAWA YOSHIIKU ...... 51

1.3.5 TSUKIOKA YOSHITOSHI ...... 55

1.4 SHINIE: I NECROLOGI DELLO UKIYOE …...... 62

2. EPOCA MODERNA: IL MACABRO CON L’EVOLUZIONE DEI MEDIA …...... 73

2.1 CINEMA HORROR: L’UTILIZZO DEL TERRORE SULLO SCHERMO …...... 78

2.2 MANGA E NON: L’ORRORE ILLUSTRATO…...... …...... ………………… 114

2.2.1 KAZUO UMEZU ...... 128

2.2.2 SUEHIRO MARUO ...... 133

2.2.3 JUNJI ITO ...... 137

2.2.4 TAKATO YAMAMOTO ...... 143

CONCLUSIONE …...... …...... …...... …...... …...... 147

BIBLIOGRAFIA …...... …...... …...... …...... …...... 151

SITOGRAFIA ...... 153

APPENDICE …...... …...... …...... …...... 154

1 PREMESSA

La presente tesi prende in analisi le rappresentazioni e raffigurazioni del macabro e del soprannaturale nelle varie tipologie di arti visive giapponesi, in particolar modo quelle illustrate, con numerosi riferimenti alla letteratura, al teatro e soprattutto al cinema. L’elaborazione di quest’opera origina dalla convinzione dell’autrice nell’importanza di comprende la cultura dell’orrore di un dato paese, in questo caso il Giappone: capire cosa incute timore ad un certo popolo, cosa viene considerato spaventoso o fonte di pericolo e preoccupazione, e analizzare poi le modalità con cui viene rappresentato, è uno strumento essenziale per afferrare il peculiare punto di vista sociologico, psicologico e culturale di una nazione; la sua consapevolezza. Elementi soprannaturali hanno permeato tutte le forme di espressione artistica giapponese e sono oggigiorno inglobati nella più moderna espressione di genere horror, ovvero di opere che mirano ad instillare nello spettatore un sentimento di paura, disagio o ribrezzo, ma con un fine preciso. Il macabro e il soprannaturale saranno qui considerati in quest’ambito, con l’obiettivo principale di far emergere la profondità del loro utilizzo. L’elaborato si appoggia alle parole di scritti del passato e di esperti della materia, ma si sviluppa in particolar modo attorno all’analisi delle rappresentazioni prodotte nella storia. L’opera è divisa in due capitoli, concentrati rispettivamente sull’epoca pre-moderna e l’epoca moderna. Il primo capitolo si suddivide in ulteriori quattro paragrafi: il primo e il secondo analizzano lo sviluppo delle figure degli yūrei e degli yōkai nella letteratura, nel teatro e nei dipinti; il terzo si sofferma sulle rappresentazioni del macabro e nel soprannaturale negli ukiyoe di epoca Edo, presentando inoltre le opere degli artisti del tempo ritenuti più rappresentativi, ovvero Katsushika Hokusai, Utagawa Kunisada, Utagawa Kuniyoshi, Utagawa Yoshiiku e Tsukioka Yoshitoshi. Il quarto paragrafo, invece, tratta degli shinie, forme di ukiyoe paragonabili ai moderni necrologi e prodotti in periodo Edo in occasione della morte di personaggi celebri, soprattutto attori di kabuki. L’autrice ha ritenuto opportuno inserirli a fini sia artistici che informativi, in quanto argomento per lo più sconosciuto e sul quale persino in Giappone ne esiste una letteratura estremamente limitata a riguardo1. Nel secondo capitolo, invece, l’opera si focalizza sul periodo moderno e

1 Affermazione possibile a seguito di estensive ricerche dell’autrice in Giappone e dell’assistenza di esperti

2 contemporaneo, discutendo dei cambiamenti susseguitesi nel genere horror, inteso come macabro e soprannaturale, con l’avvento dei media. Anch’esso è diviso in ulteriori due paragrafi, riguardanti rispettivamente il cinema e i manga, assieme alle illustrazioni, di cui si presenteranno altresì i lavori di Kazuo Umezu, Suehiro Maruo, Junji Ito e Takato Yamamoto. Si specifica che le opere e gli artisti che hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo dell’arte giapponese di genere horror fino ad oggi sono numerosi e che coloro trattati in questo scritto sono di personale scelta e giudizio dell’autrice. La presenza di elementi soprannaturali nella cultura giapponese è largamente esistita fin dall’antichità: nello shintō era data grande importanza ai kami e agli antenati, ai concetti di puro e impuro e di viaggio dopo la morte, e la successiva commistione degli ideali karmici di rinascita e dei relativi principi importati dal buddhismo risultò in una tradizione profondamente legata al paranormale, al trapasso e alle sue conseguenze. Tali credenze erano dunque accompagnate da specifici elementi di paura – oltre che a disparate tradizioni, culti e rituali sviluppatesi in loro risoluzione – tra le quali sono presenti una serie di creature ed esseri soprannaturali generalmente chiamate con il termine yōkai (妖怪), nonostante siano vari i termini esistenti per riferirsi a loro, come yōkai, yūrei (幽霊), bakemono (化け物) o mononoke (物の怪) per citarne alcuni. Si ritiene importante menzionare il dibattitto esistente ancora tutt’oggi tra gli studiosi in merito alla corretta categorizzazione di queste creature, a seconda della loro natura e delle loro caratteristiche; tuttavia, non si discuterà in questa tesi delle opinioni degli esperti a riguardo. Per evitare eventuali errori o complicazioni, e per semplicità, l’autrice ha giudicato opportuno utilizzare solamente i termini yōkai, in riferimento a creature dalle caratteristiche anomale e/o mostruose, e yūrei, per indicare gli spiriti di coloro che sono deceduti. L’autrice ha cercato al massimo delle sue possibilità di lavorare in una contestualizzazione storico-artistica obiettiva e di fornire un’analisi quanto più accurata del macabro nell’arte giapponese, con il proposito di isolare questo ambito all’interno del vasto campo artistico nipponico e presentare una delle molte sfaccettature della cultura giapponese come fenomeno artistico capace di esistere a sé stante.

3 はじめに

本論文は、様々な日本の視覚的美術における、主に絵図、文学、演劇、映画、

マカブルと超自然の表象を分析するものである。マカブルと超自然的な要素は、

日本文化において元々見つけられる。現代、この要素は一般的に「ホラー」と

呼ばれるようになり、つまり、ビューアーの非常な恐怖、不安な心や嫌気のよ

うな気持ちを刺激する目的がある作品である。本研究のテーマは、ある国の恐

怖文化を理解することは大切だという考えに基づく。なぜなら、人たちがどん

なものに恐れ、危ないと思うものや心配するか、そしてそのものの表象を調べ

ることは、国の人口の社会的、心理的、文化的な観点を理解するために大切だ

からである。したがって、本論文の目的は、ホラーが浅い話題ではなく、歴史

の間に周りの現実を描写するものとして使用されていることを論証することで

ある。

まず、研究は近世と近代の部分に分けられている。そして、近世という第一

章は、四つの項に分類されている。一番の項と二番の項では、文学、演劇、絵

図に「幽霊」と「妖怪」の伝統的な姿の進化を明らかにする。江戸時代に、日

本が徳川将軍家の下に統一された後、「怪談」と「百鬼夜行」というものは

人々の中で非常に人気があり、その理由で幽霊も妖怪も前よりもっと広がった。

三番の項では、江戸時代の浮世絵におけるマカブルと視覚的な表象を示し、さ

らに北斎葛飾、歌川国貞、歌川国芳、歌川芳幾と月岡芳年のもっとも代表的な

作品も示す。四番の項は、浮世絵の「死絵」という図についての話である。現

代の死亡広告のように、死絵とは、幕末を中心とした近世後期から近代にかけて製

作され、主に歌舞伎役者が亡くなった際に訃報と追善を兼ねて刊行されたものであっ

た。死絵には、再々幽霊や血などのマカブルと視覚的な特徴があるが、死絵につい

ての研究がほとんどないので、本論文に組み込まれている。

それから、近代という第二章は、明治時代からマスメディアの進化の中でホ

ラーがどう変わっているかで、二つの項に分けられる。一番の項は、映画が

4 日本に初めて来る時から、主に第二次世界大戦、バブル経済、テクノロジーの

ような主要な時、どんなホラーの映画が作られ、歴史や社会の問題のような周

りの現実を描写するものとして使用されていたことを詳しく分析するものであ

る。二番の項は、映画の話のように、漫画におけるマカブルと超自然的な特徴

の進化と歴史的、社会的な意味を研究する目的としている。さらに、ホラー漫

画の簡潔な歴史の後、楳図一雄、丸尾末広、伊藤潤二と山本タカトのもっとも

代表的な作品も示す。山本は漫画家ではないが、浮世絵のスタイルを現代的に

アレンジした画家なので、論文に組み込んだ。

先に書いたように、日本では超自然主義は元々から存在している。神道には、

神、先祖、無垢と汚染の考えや後世への旅行などのものは非常に大事と考えら

れた。のちに、神道が仏教の原理やカルマ法などと併合したのは、超自然的な

ものと死ぬことに深くつながっている伝統を産んだ。したがって、この信念の

中には、恐れをなすこと、儀式、崇拝や特別な伝統が立てられていた。その上、

「妖怪」という超自然な生物も出ていた。実は、この生物を指すために、「妖

怪」、「幽霊」、「化け物」や「物の怪」などの様々な用語があり、現在でも

もっとも正しい分類についての学者理論がまだ続いている。本論文ではその

様々な考えを論じることは目的としないので、珍しく醜怪な特徴を持っている

生物を指すためには「妖怪」が使われ、死者の霊を指すためには「幽霊」が使

用されている。確かに、歴史の間で日本美術の進化に資した芸術家は様々であ

る。本論文に示した画家と作品は小さな部分のみだが、筆者の個人的な判断で

選ばれており、論文のテーマのもっとも代表的なものと考えられている。そし

て、もっと明らかにする必要がある場合にイメージも付けている。

最後に、本研究は日本の大きい美術分野からマカブルと超自然のホラーを隔

て、この日本の一つの側面が自分の躯体を持っていることを説き示す目的もも

っている。

5 CAPITOLO 1 EPOCA PRE-MODERNA: IL SOPRANNATURALE IN PERIODO EDO

La produzione artistica in Giappone inizia e prosegue sin dall’antichità, con opere dal grande valore e dall’innegabile tecnica. Tuttavia, il boom artistico che avvenne dalla fine del sedicesimo secolo fino alla fine del diciannovesimo fu di significative proporzioni e vide una produzione largamente diversificata di dipinti, calligrafie, sculture e ceramiche. Questo fu dovuto soprattutto al clima di stabilità politica che si era finalmente ricreato e al conseguente aumento della domanda di opere artistiche. Prima dell’epoca pre-moderna, il Giappone aveva vissuto un periodo di guerre civili durato secoli: la relativa calma durata fino al dodicesimo secolo fu interrotta dal collasso della corte imperiale e dal successivo inizio di circa quattrocento anni di profonde rivalità. L’inizio dell’unificazione del Giappone, e della sua ritrovata stabilità, viene attribuita ad Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu: fu quest’ultimo che prese il controllo del paese 1600 e venne proclamato shōgun nel 1603, dando così inizio ufficiale al periodo Edo, detto anche periodo Tokugawa. La ritrovata calma politica fece prosperare nuovamente l’economia e la produzione artistica, e arricchì soprattutto i mercanti, i quali, non potendo ostentare eccessivamente le loro ricchezze per via del loro basso livello sociale e di problemi politici del tempo, iniziarono a spendere i soldi accumulati in opere d’arte o in luoghi di intrattenimento, come i teatri kabuki 歌舞伎 o i quartieri di prostituzione. Questo nuovo clima favorì anche la comunicazione tra centri urbani e rurali, e gli spostamenti di varie personalità come artisti, cantastorie e preti itineranti. Fu dovuto anche questo motivo il grande proliferare di kaidan 怪談 e di elementi macabri nelle arti: le componenti soprannaturali erano sempre esistite nel pensiero e nell’arte giapponese, come può testimoniare anche solo l’esempio più noto, ossia quello del fantasma di Rokujō nel Genji monogatari 源氏物語 (XI sec.); tuttavia, le guerre civili avevano portato ad un generico declino artistico e letterario, ed è oltretutto ragionevole supporre che, in un periodo di così intensa guerra, l’horror potesse difficilmente essere visto come un divertimento e intrattenimento. Il termine kaidan divenne conosciuto in

6 occidente grazie al lavoro di probabilmente colui che viene considerato il più celebre studioso occidentale dell’ambito del diciannovesimo secolo, ovvero Lafcadio Hearn. Egli, il quale incontrò pure Enryō Inoue2, scrisse proficuamente in merito alla tradizione soprannaturale giapponese e la sua opera Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things, pubblicata nel 1904 poco prima della sua morte, fu la prima raccolta in lingua inglese di kaidan tradotte da vecchi testi giapponesi.

Come menzionato sopra, opere contenenti elementi soprannaturali erano presenti già prima dell’epoca pre-moderna, anche se solitamente parte di un’opera più grande e non dedicate esclusivamente a quell’argomento. Oltre al Genji monogatari, ricco di simili elementi in tutte le sue parti, il primo vero e proprio esempio scritto arrivato fino ad oggi è il Nihon ryōiki 日本霊異記 (Cronache soprannaturali e straordinarie del Giappone), compilato da Kyōkai tra l’ottavo e il nono secolo e considerato la prima antologia di carattere soprannaturale: contenente centosedici setsuwa 説話 a tema buddhista, narra come atti buoni e malvagi vengano premiati e puniti in vita. Un altro esempio è il Konjaku monogatari 今昔物語 (Antologia di racconti passati e presenti), il cui termine di compilazione si data circa nel dodicesimo secolo: la raccolta include racconti dalla vasta differenza tematica, ma il ventisettesimo volume da solo ne contiene quarantacinque riguardanti demoni e spiriti maligni. Un terzo caso è lo Uji shūi monogatari 宇治拾遺物語 (Raccolta di racconti di Uji), una raccolta di setsuwa del tredicesimo secolo suddivisa in quindici volumi e contenente centonovantasette racconti. Le storie coprono varie tematiche e sono poche quelle originali, mentre molte sono in comune ad altri testi precedenti, come il Konjaku monogatari o il Kojidan 古事談 (Antichi discorsi). L’Uji shūi monogatari è ambientato in Giappone, Cina ed India, e le tematiche variano da racconti buddhisti a narrazioni secolari o folkloristiche, e raffigurano sia nobili che persone comuni. Tuttavia, analizzando le raccolte di kaidan dell’epoca Edo, è evidente un largo processo di secolarizzazione di questi racconti: erano sempre presenti elementi buddhisti, ma l’obiettivo si era spostato dalla didattica al kai 怪, una pura ricerca di intrattenimento tramite il misterioso e lo spaventoso. Il primo esempio scritto

2 Fondatore della disciplina di studi yōkaigaku 妖怪学.

7 conosciuto di kaidan risale al 1627 ed è intitolato Kaidan zensho 怪談全書 (Scritti completi di strani racconti) e fu scritto da Hayashi Razan, uno studioso confuciano al servizio di Tokugawa Iemitsu, per intrattenere lo shōgun mentre questi era malato. La collezione è una traduzione di Razan di una serie di racconti cinesi scritti in lingua classica. È importante menzionare come anche il lato soprannaturale giapponese sia di influenza cinese: oltre ai chiari riferimenti buddhisti, giunti però molti secoli prima, anche le storie kaidan furono spesso ispirate da racconti provenienti dalla Cina. Le due raccolte più note sono Xi you ji 西遊記 (Viaggio verso ovest), scritto e pubblicato in forma anonima da Wu Cheng’en nel sedicesimo secolo, e Liaozhai zhiyi 聊齋誌異 (Racconti straordinari dello studio Liao), scritto all’incirca nel diciassettesimo secolo: il primo, corredato da elementi di mitologia cinese, folklore, buddhismo, taoismo e confucianesimo, è basato su elementi storici e narra il viaggio di un monaco buddhista dalla Cina all’India attraverso vari stati, tra cui gli odierni Kyrgyztan, Uzbekistan e Afghanistan; il secondo, invece, è una collezione di racconti che includono fantasmi, volpi, demoni e altre creature soprannaturali. Tuttavia, la tradizione cinese non presenta una cultura del soprannaturale sviluppata come quella giapponese: per quanto si possano trovare racconti affini, essi furono delle opere limitate e legate alla filosofia e al folklore, e che non si evolsero ulteriormente nella cultura popolare o nell’arte – non contando però le figure più simboliche come il drago. Il Giappone, che fu sempre a stretto contatto con la Cina, prese spunto da questi racconti, ma a seguito di una già avvenuta popolarizzazione del tema. Le storie kaidan, difatti, originano da un popolare gioco chiamato Hyakumonogatari kaidankai 百物語怪談会 (Insieme di cento racconti misteriosi), divenuto molto popolare in epoca Edo tra le persone di ogni ceto: di origine sconosciuta – ma probabilmente inventato dai samurai come prova di coraggio – il gioco consisteva nell’aggregarsi in una stanza e accendere cento candele; alla fine di ogni storia di terrore una candela veniva spenta, fino ad arrivare a cento storie e alla complete oscurità. Si credeva che durante il gioco sarebbe successo qualcosa di spaventoso e questo diede adito anche a racconti di sedute di gioco finite in modo tragico, con la comparsa di presenze maligne e paragonabili alle moderne sedute spiritiche. Il termine stesso hyaku – che in giapponese è un’espressione usata anche per indicare una grande quantità – deriva da un’altra leggenda chiamata

8 appunto hyakkiyakō o hyakkiyagyō 百鬼夜行 (Parata notturna dei cento demoni), presente già in periodo Heian, secondo la quale ogni anno, nelle notti estive e fino al sorgere del sole, cento yōkai attraverserebbero le strade uccidendo tutti coloro che si trovano a passare senza la protezione di un sutra. Per la precisione, era proprio lo Onmyōryō 陰陽寮 (il Dipartimento della Divinazione) a determinare in quali notti sarebbero usciti gli hyakkiyakō.

Fu così che l’interesse per le kaidan crebbe sempre più, aumentando la ricerca e richiesta di nuove storie, sempre più crude e spaventose. Con la diffusione della stampa in epoca Edo e l’incoraggiamento alla pubblicazione da parte di Ieyasu, gli editori presto capirono il valore della produzione di collezioni kaidan, oltre che a quella di piccoli libri economici e di facile diffusione. Alcuni tra i più noti kaidanshū 怪談集 (Raccolte di kaidan) furono lo Inga monogatari 因果物語 (Racconti di causa ed effetto), scritto dal monaco Suzuki Shōsan, pubblicato nel 1660 e fondamentalmente privo di lezioni buddhiste a scopo educativo; nel 1666, invece, il prete buddhista Asai Ryōi scrisse Otogi bōko 御伽婢子(Burattino a guanto), uno dei kaidanshū più influenti di tutti i tempi. Questo conteneva sessantotto racconti, diciassette dei quali tratti direttamente dallo Jiandeng xinhua 剪灯新话 (Nuovi racconti sotto la lampada), una collezione cinese di Qu You del 1378: Asai si ispirò ad essi e li riscrisse, adattandoli ad un’ambientazione giapponese e rimuovendo gli accenni buddhisti. Tra di esse è incluso il racconto Botan dōrō 牡丹燈籠 (La lanterna della peonia), il cui fantasma Otsuyu rimane tutt’oggi uno dei più celebri assieme ad Okiku e Oiwa: la storia narra di un samurai, Ogiwara Shinnojo, il quale si innamora di Otsuyu, una bella giovane dai lunghi capelli neri, e i due diventano amanti. Un giorno, tuttavia, un anziano vicino di casa nota Shinnojo in effusioni intime con quello che sembra essere un cadavere e, disgustato, si rivolge ad un prete buddhista. Il prete avvisa Shinnojo di essere in pericolo perché entrato in contatto con l’oltretomba e protegge la sua casa con dei sutra; ciò nonostante, Shinnojo cede nuovamente alla tentazione seguendo Otsuyu fuori casa e l’indomani viene ritrovato avvinghiato a lei nella sua tomba, con uno sguardo terrorizzato.

9 1.1 YŪREI: GLI SPIRITI NELLE ARTI E NEL TEMPO

Gli spiriti sono sempre esistiti nelle credenze popolari, sia per influenza shintoista che buddhista: oltre al timore per tutto ciò che è impuro e alla conseguente importanza data alla separazione dei morti dai vivi, i giapponesi temevano anche gli spiriti arrabbiati, ovvero spiriti di persone decedute in condizioni negative, ma anche spiriti ancora legati al mondo umano da forti emozioni, come pure l’amore, la gelosia o l’odio. Lo yūrei, tuttavia, non è un qualsiasi tipo di spirito e possiede delle specifiche connotazione, motivo per cui nella lingua giapponese si distingue anche tra yūrei e gosuto ゴースト, termine usato per gli spiriti non giapponesi. Le caratteristiche sono quattro: lunghi capelli neri, un kimono bianco, braccia abbandonate lungo i fianchi e la mancanza di piedi. Tale iconografia si affermerà soltanto dal periodo Edo e, come si vedrà nel corso dei successivi capitoli, sopravvive ancora oggi. Di seguito sono raffigurate due immagini, rispettivamente del 1309 e del 1515, ritraenti degli spiriti: come si può notare, in nessuna di loro sono presenti le tipiche caratteristiche elencate in precedenza; i fantasmi sono rappresentati come degli essere umani ancora in vita e l’unico elemento a differenziarli è una nuvola, una caratteristica usata in molti dipinti sia per distinguere il mondo reale dall’altro, sia come mezzo di trasporto dei defunti verso l’aldilà.

Nel primo dipinto, un estratto del Kasuga gonken gengie 春日権現験 記絵 (Cronache dei miracoli delle divinità di Kasuga, Fig. 1), è raffigurato il defunto Fujiwara no Toshimori salire al cielo, guidato da

una manifestazione del Buddha. Raffigurazione dello spirito di Fujiwara no Toshimori nel Kasuga gonken gengie (Figura 1)

10 Il secondo dipinto, invece, è una scena del Dōjōji engi emaki 道成 寺縁起 (Illustrazione del presagio del Dōjōji, Fig. 2) e raffigura gli spiriti di Anchin e Kiyohime riferire al monaco di essere stati

salvati dai sutra e di poter quindi Scena del sogno nel Dōjōji engi salire al cielo. Anche qui i due (Figura 2) spiriti sono trasportati da una

nuvola.

La leggenda del Dōjōji engi è in realtà molto conosciuta: ne esiste un celebre spettacolo per il teatro nō 能 ed è inoltre contenuta, in simili versioni, in vari testi, tra cui anche il Konjaku monogatari. Essa narra dell’amore di una donna, Kiyohime, per un monaco, Anchin: al rifiuto dell’uomo di sposarla, Kiyohime si tramuta in un serpente. Anchin fugge, nascondendosi sotto una campana del tempio Dōjōji, attorno alla quale si avvinghierà il serpente: il monaco morirà bruciato vivo e la donna suicida. In seguito, i monaci del tempio effettueranno dei rituali per dare pace ai due spiriti.

In ritorno alle caratteristiche dello yūrei nate in epoca pre-moderna, secondo Sara Sumpter3 il termine yūrei può indicare sia uomini che donne, nonostante gli yūrei femminili siano di gran lunga più frequenti di quelli maschili: questo perché la donna, oltre che essere più fragile di salute e deperire più facilmente, era anche considerata più impura per via del ciclo mestruale e della gravidanza; che una donna morisse prematuramente era dunque considerato più probabile ed è anche per questo motivo che lo yūrei femmina possiede una sua iconografia classica, mancante invece per quello maschile. Tuttavia, come dimostrano i dipinti prodotti in epoche precedenti, i fantasmi di quel tempo non erano distinguibili dai vivi in termini di pettinatura o vestiti, perché considerati uguali nell’aspetto ad una qualsiasi ordinaria persona. In epoca Heian veniva data grande importanza alla cura e alla lunghezza dei capelli, ritenuti

3 Sara L. SUMPTER, From Scrolls to Prints to Moving Pictures: Iconographic Ghost Imagery from Pre-Modern to The Contemporary Horror Film, Explorations: The Undergraduate Research Journal, Gennaio 2006, pp. 9

11 simbolo di bellezza e sensualità, come la stessa Murasaki Shikibu fa intendere nel suo Genji monogatari; i rotoli raffiguranti l’opera mostrano donne dai vestiti di colori sgargianti e dai lunghi capelli neri, sedute vicine a pettinarsi l’un l’altra. Dal periodo Edo, invece, i bijinga e gli shunga testimoniano una nuova tendenza nella pettinatura, dove non si usa più tenere i capelli sciolti, ma raccolti in complicate acconciature. Anche questo era collegato ad una visione di sensualità: non solo il collo e le spalle della donna venivano esposti, ma il poterla vedere con i capelli sciolti implicava l’aver raggiunto con lei un rapporto estremamente intimo. Ma uno yūrei non aveva più alcuna intimità da poter raggiungere e nessun motivo per prendersi cura di sé: i lunghi capelli neri e incurati di uno spirito non simboleggiano quindi femminilità, ma il suo esatto opposto, ovvero un ciclo naturale di vita interrotto prematuramente e che spesso è causa dell’infelicità stessa dello yūrei; Dall’altro lato, il kimono bianco rappresentava invece un riferimento agli abiti bianchi che si era soliti far indossare ai defunti. In Occidente si tende erroneamente a credere che tale colore in Giappone sia il colore della morte, ma non è esatto: il bianco significava purezza e la celebrazione di essa. Nel caso dei morti, esso era simbolo della purificazione rituale a cui venivano sottoposti e un kimono bianco indossato da uno yūrei ne era quindi un chiaro riferimento; Come è evidente nelle opere di epoca Edo raffiguranti degli spiriti, è subito visibile lo sforzo dell’autore nell’utilizzare elementi iconici che informino l’osservatore su cosa stesse guardando. Mentre quindi le donne in vita erano dipinte con eleganti pettinature e vestiti colorati e di tendenza, spesso con in mano dei fiori, delle lettere o altre raffinatezze, gli yūrei erano l’esatto contrario. Il desiderio di distinguere donne defunte e pericolose da quelle sensuali e in salute ha portato nel tempo anche ad un’ulteriore caratterizzazione, ossia quella di mani scarne appoggiate lungo ai fianchi, senza alcun sintomo di vita o di movenza, con lo scopo di render ancor meglio l’idea di una figura spenta, malsana e priva di energia vitale; L’ultima caratteristica, ovvero la mancanza di piedi, fu dovuto soprattutto alle opere di kabuki e alle sue tecniche di rappresentazione, per poi trovare applicazione anche nei dipinti. L’idea era quella di ricreare una figura che sembrasse meno umana possibile e da cui tenersi, quindi, distanti.

12 È fondamentale menzionare come la standardizzazione della figura dello yūrei e la popolarizzazione delle kaidan sia avvenuta anche grazie al teatro kabuki. Esso era una forma di intrattenimento per il popolo, per le classi sociali più basse, e si svolgeva all’interno dei quartieri di piacere; anche il livello degli spettacoli, della sceneggiatura e delle tecniche di esecuzione erano quindi meno raffinati – soprattutto se paragonati all’eleganza del nō – e proprio per le sue caratteristiche più immediate e coinvolgenti, con numerosi colpi di scena, il kabuki raggiunse un enorme successo tra le masse. Gli spettacoli spesso includevano violenza e brutalità, e varie tecniche particolari di performance, come un veloce cambio di abiti o la presenza di acqua sul palco, tutto questo per incrementare le emozioni e le percezioni dello spettatore. Le interpretazioni di storie kaidan divennero sempre più popolari tra il pubblico, che reclamava nuove trame e nuova violenza, e si creò un nuovo genere chiamato kaidanmono 怪談物; man mano questo si evolse sempre di più, e con esso la figura dello yūrei. Per poter quindi rendere inequivocabile la differenziazione fra personaggi vivi e defunti – oltre allo truccare in modo estremo il viso di personaggi non umani – si iniziarono ad usare delle funi per tenere sollevati da terra gli attori che impersonavano degli spettri: la combinazione con lunghi kimono che coprivano i piedi dava l’idea di un essere fluttuante che aveva perso qualsiasi connotazione umana.

È interessante notare anche la caratterizzazione del trucco: i teatri di epoca Edo non possedevano, naturalmente, luci artificiali ad illuminarli; l’illuminazione era fornita solamente da dei focolari e il pubblico con fatica poteva notare i particolari nell’aspetto degli attori. Il kumadori 隈取, ovvero il trucco di scena, fu sviluppato proprio per ovviare a questo problema, in quanto i

colori forti e le linee spesse erano visibili fin da L’attore di kabuki Nakamura Kankurō VI lontano. Ogni tipologia di personaggio aveva nel ruolo di onryō nello spettacolo Funabenkei 船弁慶 (Figura 3) un suo specifico trucco e la variante per gli

yūrei era chiamata aiguma 藍隈.

13 In opposizione ai colori caldi utilizzati per le altre figure, a denotare il sangue e la vita che scorre in loro, le tonalità per i fantasmi erano fredde e spente: il viso era pitturato di uno spesso strato bianco, le labbra blu o nere e gli occhi erano solitamente circondati da sfumature circolari scure, a ricordare un cadavere. Erano sovente utilizzate anche folte parrucche scompigliate per accentuarne la natura di persona defunta (Fig. 3). Anche nel teatro nō la figura del fantasma non era meno rilevante e ne sono prova gli spettacoli e le maschere. Ogni giornata di nō era suddivisa in cinque programmi: kamimono 神物 o waki nō 脇能, raffiguranti divinità; shuramono 修羅物 o asura nō 阿修羅能; katsuramono 鬘物 od onnamono 女物, le cui protagoniste erano donne; una quarta categoria di varie tipologie di spettacoli, tra cui gli onryōmono 怨霊 物; in ultimo, i kiri nō 切り能 od onimono 鬼物, i quali coinvolgevano mostri o demoni. Gli shuramono erano una categoria di chiara derivazione buddhista, dedicata esclusivamente a spettacoli raffiguranti fantasmi di famosi samurai morti in battaglia e imploranti salvezza a dei preti; gli onryōmono, invece, erano rappresentazioni ritraenti spiriti assettati di vendetta – conosciuti nel folklore, per l’appunto, con il nome di onryō – e capaci di causare morte o disastri naturali. Al contrario del kabuki, però, nel nō non si utilizzava il trucco per distinguere i protagonisti ma delle maschere, diverse per ogni tipologia di personaggi e differenti anche all’interno di ogni tipologia: le maschere usate per i fantasmi non erano, difatti, tutte uguali e non tutte possedevano connotazioni spaventose o assimilabili allo stereotipo di un defunto (Fig. 4)

Maschera deigan 泥眼 (occhi dorati), una delle maschere del teatro nō utilizzate per rappresentare degli spiriti, in questo caso uno onryō (Figura 4)

14 È qui però necessario evidenziare la profonda differenza tra kabuki e nō: il primo era un genere teatrale popolare destinato ad un pubblico comune e con il puro scopo di intrattenere e fare successo, senza limiti di pudore, violenza o stranezza; il secondo, invece, era un teatro di lunga tradizione, caratterizzato da eleganza e raffinatezza e dalla stessa continua ricerca di esse, da tempo oramai destinato ai ceti sociali più elevati. La presenza di figure soprannaturali nei due generi teatrali era dunque naturale, in quanto aventi le stesse radici culturali, ma non aveva lo stesso scopo: nel kabuki erano impiegati grandi sforzi per cercare di raffigurare la paura e/o la crudeltà, per instillare forti emozioni nello spettatore e possibilmente esaltarlo dinnanzi a ciò a cui stava assistendo; anche il nō aveva naturalmente lo scopo di piacere e di intrattenere, ma al contrario del kabuki la sua filosofia era incentrata su un’ideale di grazia e bellezza, per cui anche la più infima o spaventosa delle figure non poteva cadere nella volgarità: ne è prova il fatto che anche gli spiriti rappresentati negli spettacoli nō fossero sempre di origini aristocratiche o guerriere, o di domestiche al soldo di importanti famiglie. Zack Davisson4 condivide un’interessante osservazione riguardo lo Ugetsu monogatari 雨月物語 (Racconti di pioggia e di luna), scritto da Ueda Akinari nel tardo diciottesimo secolo e divenuto una delle raccolte di kaidan che più hanno segnato il corso della letteratura giapponese: secondo Davisson, nello Ugetsu monogatari sarebbe evidente una diretta influenza del teatro nō, con l’obiettivo di distanziare l’opera dalle arti popolari del kabuki e dell’ukiyoe, e di elevarla da zoku a ga. Alcuni indizi sarebbero evidenti già nel titolo, ove “ugetsu” richiama il titolo stesso di una precedente opera nō raffigurante anche il monaco Saigyō, e “monogatari” collegherebbe lo scritto ad altri celebri testi della letteratura, come il Genji monogatari o il Konjaku monogatari, conferendogli così un senso di importanza. Inoltre, la struttura stessa del racconti seguirebbe lo schema di una giornata di nō5: nella prima storia (Shiramine 白峯, Shiramine), il monaco Saigyō incontra lo spirito dell’ex imperatore Sutoku; nella seconda (Kikka no chigiri 菊花の約, L’appuntamento dei crisantemi), uno studioso incontra un samurai gravemente malato; nella terza, (Asaji ga yado 浅茅が宿, La casa tra gli sterpi) una donna attende per anni il ritorno del marito, partito da casa in cerca di fortuna. Il quarto, quinto e sesto racconto

4 Zack DAVISSON, Yūrei: The Japanese Ghost, Chin Music Press, , 2015, pp. 188-193 5 Si veda pp. 14 di questo scritto

15 rientrano nella quarta categoria del teatro nō: Muō no rigyo 夢応の鯉魚 (La carpa del sogno) rappresenta un kyōranmono 狂乱物, ossia una storia di pazzia, e narra di un monaco buddhista a cui viene concesso di vivere un giorno sotto forma di carpa; Bupposō 仏法僧 (Ghiandaia celeste) è ambientata in tempi moderni ed è quindi una genzaimono 現在物: racconta di un monaco che, nel suo cammino attraverso il monte Kōya, si imbatte in un gruppo di samurai morti da lungo tempo che si sfidano ad un torneo di poesie; Kibitsu no kama 吉備津の釜 (La pentola di Kibitsu), invece, è un onryōmono e parla di un uomo che abbandona l’affettuosa moglie per l’amante, causandone la morte. Vi sono altre tre storie nello Ugetsu monogatari, delle quali le prime due fanno parte della categoria di kiri nō e narrano di oni e yōkai, mentre l’ultima è uno shūgen 祝言, ovvero un racconto leggero e dai tratti celebratori, comparabile ad un brano di bis. Più nel dettaglio, Jasei no in 蛇性の婬 (La passione del serpente) narra di un mostruoso serpente bianco che prende forma umana per sedurre un giovane uomo; Aozukin 青頭巾 (Cappuccio blu) parla, invece, di un bonzo che, impazzito per la morte di un suo giovane discepolo, ne mangia il corpo per averlo dentro di sé e diventa così un demone; Hinpukuron 貧福論 (Discorso sulla ricchezza e sulla povertà) riporta invece il discorso tra un samurai e lo spirito dei soldi, per discutere su cosa dia più felicità tra la povertà e la ricchezza.

In riferimento ai sopracitati onryōmono, il concetto di spirito vendicativo era presente già in periodo Heian, nonostante sia conveniente denotare prima la distinzione tra onryō e goryō 御霊: entrambi sono spiriti guidati da un senso di vendetta e rancore, con l’unica differenza che i secondi appartenevano in vita a classi aristocratiche. Citando alcune antiche leggende, si trova traccia di onryō già nello Shoku nihongi 続日 本紀 (797 d.C.), il quale attribuisce la morte del monaco Genbō alla mano dello spirito del suo rivale polito Fujiwara Hirotsugu. Un ulteriore esempio è lo spirito di Sugawara no Michizane, un poeta, studioso e politico facente parte della corte imperiale. Dopo la sua morte in esilio, in seguito ad una serie di disordini politici, iniziarono a verificarsi svariate calamità naturali considerate conseguenza del suo spirito irato: per placare il suo fantasma gli furono quindi restituiti a postumi i suoi titoli aristocratici, cancellata ogni menzione del suo esilio ed egli reso kami dello studio, ruolo che tutt’oggi detiene

16 nel Giappone contemporaneo. Un ultimo esempio è il già citato fantasma di Rokujō nel Genji monogatari: questo caso, nonostante completamente fittizio, rappresenta un’ulteriore variante della credenza nel soprannaturale. Rokujō, infatti, non era uno yūrei, bensì un ikiryō 生霊, ovvero uno spirito vivente: il suo sentimento di gelosia nei confronti di Aoi era tale da averla tramutata in spirito, portandola ad uccidere tutte le sue rivali in amore. Risulta dunque ancora più evidente il profondo timore sempre esistito verso tutto ciò che non è umano, ma soprattutto verso la morte, la sua impurità e le conseguenze di un possibile contatto con i vivi. Come scrisse Lafcadio Hearn ancora un secolo fa, nella sua opera Japan: An Attempt at Interpretation: “Most strikingly did they formulate the rule of the dead over the living. And the hand of the dead was heavy: it is heavy on the living even today”.

Le leggende e i racconti continuarono ad evolversi nel tempo e uno degli onryō più conosciuti in Giappone rimane quello di Oiwa, già menzionato precedentemente assieme ad Otsuyo ed Okiku. Oiwa era la figura principale della storia Tōkaidō yotsuya kaidan 東海道四谷怪談 (Storia spettrale di Yotsuya nel Tōkaidō), scritta nel 1825 da Tsuroya Nanboku IV come opera per kabuki. In breve, la trama, intricata e successivamente modificata nel tempo, narra di vari intrecci amorosi. Oiwa, la moglie di un samurai chiamato Iemon, viene avvelenata da Oume, una donna invaghitasi del marito: il veleno disfigura orribilmente il viso di Oiwa, motivo per cui il marito decide di lasciarla. La donna finisce poi per morire pugnalata accidentalmente e il suo fantasma irato perseguiterà Iemon a vita, portandolo ad assassinare Oume e a morire in pazzia, isolato su una montagna, ucciso dall’ex marito della sorella di Oiwa. Ultimo è Okiku, il terzo fantasma della triade e protagonista di una kaidan chiamata Banchō sarayashiki 番町皿屋敷 (La casa dei piatti di Bancho), nata inizialmente come spettacolo di burattini. Esistono varie versioni della leggenda, di cui una delle più note la vuole ambientata nel castello di Himeji; la storia narra di un samurai invaghitosi di Okiku, una domestica, e che tenta in tutti i modi di sedurla. Ai continui rifiuti della donna, il samurai le fa credere di aver smarrito il decimo piatto della preziosa collezione di casa; naturalmente Okiku non riesce a trovarlo, dopo aver contato e ricontato, e confessa la sua colpa all’uomo. Egli la ricatta proponendole di diventare sua amante, ma all’ennesimo rifiuto della ragazza la uccide gettandola in un pozzo.

17 Okiku si tramuta quindi in un onryō abitante il pozzo e si narra che il suo spirito si sarebbe sentito contare ogni notte fino a nove, per poi urlare orribilmente al posto del numero dieci. Oiwa, Otsuyu e Okiku sono figure di popolarità così vasta da essere chiamate con l’espressione San Oyūrei 三大幽霊, ossia i Tre Grandi Spiriti.

I personaggi delle leggende e delle kaidan hanno rappresentato alcuni dei soggetti più popolari per pittori ed editori, soprattutto negli ukiyoe. Il dipinto considerato la prima raffigurazione di uno yūrei senza piedi è attribuito a Maruyama Ōkyo (1733-795) ed intitolato Oyuki no maboroshi お雪の幻 (La visione di Oyuki, Fig. 5), importante anche per la sua iconografia tipica.

Maruyama Ōkyo fu un pittore nato nelle vicinanze di Kyoto e noto per un suo stile personale che combinava le tecniche della scuola kanō 狩野派 con tecniche cinesi e occidentali. Fu il fondatore della scuola Maruyama, conosciuta anche come scuola naturalista. Secondo un’iscrizione di un successivo proprietario dell’opera, creata nel 1750, il dipinto nacque in seguito ad una visione di Maruyama: egli era stato profondamente innamorato di una geisha, morta giovane; una notte Maruyama si svegliò e la vide aleggiare sopra il suo letto, e al suo risveglio la dipinse esattamente come a lui era apparsa. Si notino i tipici

capelli neri lunghi e scompigliati, le vesti bianche e, come sopramenzionato, la mancanza della parte La visione di Oyuki (Figura 5) inferiore del corpo.

Va menzionato come esistessero varie credenze riguardo i capelli femminili: essi erano visti come simbolo di sensualità, ma erano anche considerati una potenziale fonte di pericolo ed impurità: si credeva, infatti, che in mancanza di appropriati rituali funebri, i capelli del cadavere potessero attirare kami vendicativi e prendere vita propria.

18 È tuttavia probabile che esistano vari altri dipinti precedenti quello di Maruyama che rappresentano spiriti senza piedi e che il dipinto di Oyuki sia semplicemente quello che più ha influito sugli autori successivi. Kajiya Kenji – che nel suo articolo6 discute la correlazione tra fantasmi e sogni e analizza il motivo per cui dal diciassettesimo secolo la raffigurazione dello spirito cambiò, in particolar modo con la mancanza della parte inferiore del corpo – supporta questa teoria con un interessante esempio, ovvero il Kazannoin kisakiarasoi 花山院きさきあらそい (La discussione con la regina al tempio di Kasano, Fig. 6).

La discussione con la regina al tempio di Kasano (Figura 6)

L’illustrazione – di autore sconosciuto ma attribuita da Suwa Haruo al drammaturgo Chikamatsu Monzaemon7 – è un pannello facente parte di un libro illustrato di uno spettacolo di burattini e raffigura, in alto a sinistra, uno spirito nel quale non compaiono né i piedi, né tutta la parte inferiore del corpo. Ciò di più rilevante è, appunto, il fatto che l’opera sia stata prodotta all’incirca nel 1673, quasi un secolo prima del dipinto di Oyuki di Maruyama.

6KAJIYA Kenji, Nihon no chūsei oyobi kinsei ni okeru yume to yūrei no shikaku hyōshō (Rappresentazione di sogni e spiriti nel Giappone medievale e moderno), Hiroshima Shiritsu Daigaku Geijutsugaku Kenkyūka Kiyou (Rivista di Ricerca della Facoltà e Dipartimento d’arte dell’Università Pubblica di Hiroshima), Vol. 16, Luglio 2012, pp. 37-44 加治屋 健司『日本の中世及び近世における夢と幽霊の視覚表象』広島市立大学芸術学部芸術学研究科紀 要、編 16、7 月、2012 ページ 37-44 7 SUWA Haruo、Nihon no Yūrei (Spettri giapponesi)、Iwanami Shoten、Tokyo、1988, pp. 169 諏訪 春雄 (1988)『日本の幽霊』岩波書店、東京、1988 ページ 169

19 Altri esempi di successivi dipinti sono Yūrei no zu ubume 幽霊之図 うぶめ (Dipinto di uno spettro: Ubume, Fig. 7), creato nel tardo diciannovesimo secolo da Tsukioka Yoshitoshi, e Onnarei no zu 女霊図 (Dipinto di uno spettro femminile, Fig. 8) di Kawanabe Kyōsai, del 1871. Ubume rappresenta lo spettro di un donna che tiene tra le braccia il corpo ormai defunto del figlio. La figura si collega ad uno yūrei delle leggende giapponesi, chiamato perlappunto “Ubume”, il quale sarebbe lo spirito di madri decedute prima o dopo il parto: in questo caso, la donna sarebbe morta assieme al figlio dopo averlo dato alla luce e vagherà tra i vivi alla ricerca di qualcuno che se ne prenda cura. L’unico elemento che evidenzia la natura spettrale della figura è proprio la mancanza dei piedi. Kawanabe avrebbe invece dipinto il rotolo in figura 8 come conseguenza dell’aver trovato, ancora bambino, una testa mozzata nel fiume – evento che l’avrebbe segnato per tutta la vita. Qui la natura spettrale del soggetto è piuttosto ovvia. Sono vari i dipinti prodotti nel tempo, da più artisti, raffiguranti teste mozzate.

Ubume Dipinto di uno spettro (Figura 7) femminile (Figura 8)

20 1.2 YŌKAI: CREATURE MOSTRUOSE DEL FOLKLORE

Mentre sono numerose le illustrazioni prodotte sugli yōkai che si potrebbe menzionare, in particolar modo del genere ukiyoe8, parlare dell’origine di queste creature risulta notevolmente più complicato. Gli yōkai appartengono al folklore e non rappresentano figure storiche e politiche, motivo per il quale non si trovano incluse in nessun documento o archivio ufficiale. Gli yōkai sono nati e circolati nei secoli, assumendo innumerevoli versioni a seconda del tempo e del luogo: capire la loro origine diviene quindi più una questione antropologico-filosofica, in quanto si dovrebbe prima esplorare il modo in cui l’essere umano tenta di capire, spiegare ed affrontare il mondo che lo circonda. Secondo Michael Dylan Foster, “yōkai begin where language ends9” e la loro esistenza sarebbe servita a riempire tutte le lacune lasciate dalle parole e dall’incomprensione dei vari fenomeni: come riportato in premessa, molti sono i termini esistenti per riferirsi a vari tipi di creature anormali e/o mostruose, ma “yōkai” è divenuto il termine ufficioso per racchiuderli tutti sotto un’unica parola, soprattutto grazie agli studi di Inoue Enryō in epoca Meiji. Invece di diversificare tra mononoke, bakemono, obake お化け, oni 鬼, tsukumogami 付喪神 e via dicendo, dunque, yōkai funge da ombrello per tutte loro. La parola sembra avere radici cinesi, ma appare per la prima volta in forma scritta in Giappone nello Shoku nihongi, dove si afferma che alla corte imperiale si fosse tenuta una cerimonia di purificazione a causa di uno “yōkai” – ovvero, si suppone, di un avvenimento strano o sfortunato. Sempre secondo Foster, sono tre gli approcci che si possono mettere in pratica nel lavoro di ricerca sugli yōkai: etnografico, chiedendo a più persone di quali yōkai abbiano sentito parlare nella propria comunità o semplicemente conosciuto crescendo; archivistico, attraverso fonti primarie scritte o illustrate, possibili da trovare in biblioteche, musei o anche abitazioni private; in ultimo, un approccio tramite fonti secondarie, in particolar modo giapponesi: in Giappone, negli anni, sono state condotte estese ricerche nel campo

8 Si veda da pp. 34 di questo scritto 9 Michael Dylan FOSTER, The Book of Yokai: Mysterious Creatures of Japanese Folklore, University of California, Berkeley, 2015, pp. 9-10

21 dello yōkaigaku, spesso traducendo anche materiale antico in giapponese moderno, e sono stati prodotti numerosi testi, antologie, raccolte e dizionari in merito10. Circa le fonti scritte, il primo testo conosciuto in Giapponese è il Kojiki 古事記 (Cronache di antichi eventi, 712 d.C.): l’opera è a carattere storico-mitologico e la parola yōkai non vi appare mai, tuttavia vi sono incluse delle creature soprannaturali e terrificanti che possono essere considerate i precursori di ciò che è conosciuto oggi. Un primo caso è proprio l’elenco della prima generazione di spiriti contenuto nel primo libro, di cui fanno parte anche Izanami ed Izanagi, e tutti i numerosi altri spiriti che vengono menzionati nelle pagine successive, un segno di come fosse già fondata la credenza nell’ultraterreno e soprattutto nell’idea che ogni cosa contenesse un’anima, secondo i termini occidentali. Per citare qualche esempio: nel Kojiki, il cormorano appare come uno spirito terrestre incaricato a portare offerte agli spiriti del cielo; i granchi erano spiriti delle acque e i cervi bianchi, invece, manifestazioni degli spiriti delle montagne. È fondamentale ricordare, infatti, le radici animiste del Giappone antico e come esse vennero man mano influenzate prima dal taoismo, e successivamente da buddhismo e confucianesimo. Un altro esempio è quello dell’episodio in cui Susa-no-O affronta e vince un drago ad otto code, vicenda che potrebbe oggi essere asseverata come yōkai taiji 妖怪退治 (sconfitta di uno yōkai), ossia un tipo racconto dove un eroe umano riesce a battere una essere mostruoso e pericoloso. Si vuole qui riservare un breve accenno alla similitudine del concetto giapponese di kami con quello di yōkai; il tema è estremamente vasto e complesso, ma l’autrice ritiene opportuno evidenziare l’argomento. I kami si credono risiedere in qualsiasi cosa facente parte del mondo naturale: una montagna, una cascata, un albero o una roccia può contenere un kami. I kami possono essere molto potenti, ma non per forza buoni in senso morale: ciascuno di loro contiene in sé una forza detta tama 魂, la quale può essere serena e benefica (nigitama 和魂) oppure violenta e distruttiva (aratama 荒魂). Essendo gli yōkai creature ingannatrici e malevole, può quindi venire spontaneo considerare i kami come yōkai buoni e gli yōkai come kami malvagi: tuttavia, questa differenziazione può invece essere semplicemente attribuita alla propria prospettiva personale. Non tutti gli yōkai sono caratterizzati da intenzioni

10 Si veda nota 9, pp. 9-10

22 malevole e la valutazione di una creatura come buona o cattiva può essere dovuto a vari fattori: come scrive Foster, uno spirito delle acque può essere venerato come kami dalle famiglie che traggono irrigazione da quel fiume, ed essere detestato come yōkai da chi ha sofferto di siccità. Komatsu Kazuhiko ha suggerito che i kami siano yōkai venerati e gli yōkai il loro opposto. In altre parole, i confini tra i due non sono rigidi e codificati, ma legati al punto di vista di chi interagisce con loro. Vari sono gli studiosi che hanno compiuto estese ricerche nel campo e rilevante è il lavoro di Ema Tsutomu (1884-1979), il quale ha creato una complessa classificazione degli yōkai suddividendoli in base alle loro abilità di trasformazione, alla forma che generalmente assumono, e a quando e/o dove appaiono.

Nei secoli successivi, ovvero in periodo Heian, Kamakura e Muromachi, come visto in precedenza, apparvero molti nuovi testi, tra cui i già citati Nihon ryōiki, Konjaku monogatari e Uji shūi monogatari. La produzione di emaki raffiguranti yōkai iniziò attorno agli inizi del tredicesimo secolo ed è lo Hyakkiyakō emaki 百鬼夜行絵巻 (Fig. 9) di Tosa Mitsunobu, conservato nella collezione del tempio Shinjuan di Kyoto, l’illustrazione considerata la più influente sulla proliferazione di tutte quelle successive. Il rotolo mostra una parata di yōkai marcianti da destra verso sinistra, finché il sole non li disperde; l’aspetto delle creature è più caricaturale che spaventoso, e manca di accenni religiosi.

Uno dei pannelli dello Hyakkiyakō emaki (Figura 9)

23 Si cita anche lo Tsuchigumozōshi 土蜘蛛草紙 (Rotolo illustrato del ragno terrestre, Fig. 10), un emaki del quattordicesimo secolo – conservato nel Museo Nazionale di Tokyo – che narra il viaggio di Minamoto no Yorimitsu e raffigura i suoi incontri con numerosi esseri mostruosi, tra cui la battaglia con Tsuchigumo, un demone sotto forma di ragno.

Tsuchigumo (Figura 10)

Le rappresentazioni sul tema si mantennero anche nei secoli successivi, nonostante le illustrazioni dall’epoca Edo ebbero più un carattere puramente raffigurativo, quasi enciclopedico, e mancavano di una trama, caratteristica invece presente nelle illustrazioni di epoche precedenti. Ne è un importante esempio l’opera enciclopedica, suddivisa in quattro volumi, prodotta da Toriyama Sekien tra il 1776 e il 1784, e raffigurante più di duecento creature tra demoni e fantasmi (Fig. 11; lo yōkai raffigurato a fianco è uno kawauso, una lontra capace di cambiare forma ed ingannare gli uomini).

Un estratto del primo volume Gazu hyakki yakyō 画図百鬼夜行 dell’opera di Toriyama (Figura 11)

24 L’opera è composta da Gazu hyakkiyakō 画図百鬼夜行 (Illustrazioni della parata notturna dei cento demoni, 1776), Konjaku gazu zoku hyakki 今昔画図続百鬼 (Illustrazioni dei cento demoni del presente e del passato, 1779), Konjaku hyakki shūi 今昔百鬼拾遺 (Supplemento ai cento demoni del presente e del passato, 1781) e Hyakki tsurezure bukuro 百器徒然袋 (Sacco di cento demoni casuali, 1784). I cataloghi sono una combinazione tra un’opera enciclopedica ed illustrata; non contengono raffigurazioni a rotolo, ma ogni pagina include uno yōkai singolo, disegnato in bianco e nero, ed una breve descrizione, anche solo di una parola. La maggior parte delle creature derivano dal folklore giapponese, ma sembra che una decina siano di origine cinesi ed altre, invece, inventate direttamente da Sekien. Ciò che è certo è che la sua opera fece arrivare gli yōkai ad un grande numero di lettori e contribuì enormemente alla loro diffusione e popolarizzazione. Difatti, durante il tardo periodo Edo, gli yōkai affollavano la letteratura, l’arte e la cultura popolare, dal kabuki al rakugo: la loro presenza prosperava soprattutto in un nuovo genere di libri illustrati chiamato kibyōshi 黄表紙 (copertina gialla), una tipologia di kusazōshi 草双紙11 (libro illustrato) prodotto soprattutto tra il 1776 ed il 1806 e spesso considerato una versione molto primitiva degli odierni manga. I testi assumevano spesso un tono molto satirico ed è anche per questo motivo che attingevano ampiamenti agli yōkai, usandoli come metafora per un certo tipo di individuo o di classe. Un esempio è Bakemono no yomeiri 化物の嫁入り (Matrimonio di mostri, 1807, Fig.12) di Jippensha Ikku, un kibyōshi che voleva essere una parodia di una certa tipologia di libri, comuni nel diciottesimo secolo, che raffiguravano nel dettaglio i rituali di matrimonio tra due persone, a scopo sia di manuale che di intrattenimento. Questa versione ritraeva invece i personaggi come degli yōkai e seguiva rituali di comportamento adatti solo a creature come loro: un esempio sono le lanterne, aventi anche loro braccia e gambe, e un’affermazione di gioia di un personaggio all’arrivo di un temporale, a sua detta una condizione perfetta per una simile celebrazione.

11 Gli kusazōshi includevano gli akahon 赤本, aohon 青本, kurahon 黒本, kibyōshi e gōkan 合巻 ed erano una varietà di libri a stampa su matrice di legno.

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Un’immagine dello Bakemono no Yomeiri (Figura 12)

Col tempo, e grazie anche ai kibyōshi, gli yōkai iniziarono ad essere utilizzati anche come icone umoristiche e caricaturali, parte di libri, spettacoli e giochi, allontanandosi relativamente dalla loro connotazione puramente spaventosa – anche se mai del tutto. Come si vedrà nel successivo capitolo, il tema degli yōkai sarà largamente sviluppato anche negli ukiyoe, come accadde altresì per gli yūrei.

1.2.1 ONI, TENGU E SERPENTI: FIGURE RICORRENTI DI YŌKAI

Tra le decine di diversi yōkai presenti nel folklore giapponese, ve ne sono alcuni più ricorrenti di altri: è in particolare il caso degli oni 鬼, dei tengu 天狗 e dei serpenti, i quali saranno trattati qui di seguito in modo consequenziale. I serpenti, in realtà, non ebbero la popolarità e la proliferazione nelle arti che ebbero le altre figure; tuttavia, essi godevano di molta importanza nella cultura giapponese e furono spesso ritratti in dipinti raffiguranti fantasmi come elemento aggiuntivo di terrore.

Gli oni sono delle creature da sempre presenti nella cultura del Giappone, al limite tra il mondo dei vivi e quello dei morti; il loro spirito demoniaco incarna le forze universali e possono dimostrarsi tanto malvagi quanto benevoli. Per gli artisti giapponesi, gli oni divennero un mezzo per ritrarre non solo essenze malefiche, ma anche un certo lato della natura umana. L’iconografia tipica della figura del demone lo raffigura come una creature raccapricciante e spaventosa, con due corna sulla testa, il ciglio aggrottato e una larga bocca da cui fuoriescono delle zanne: la presenza di corna era già documentata nella Cina

26 del settimo secolo nel racconto del sogno dell’imperatore Ming-Huang, conosciuto per aver contribuito all’origine del domatore di demoni12.

Un ulteriore esempio ne è lo hannya 般若 (Fig. 13), la maschera di demone donna, il cui uso è conosciuto soprattutto nel teatro nō e di cui ne esistono più versioni a seconda dello spettacolo. In questo caso, la maschera non rappresenta solamente una figura demoniaca, ma è un vero e proprio insieme di emozioni: lo

hannya è una creatura vendicativa e pericolosa, ma anche afflitta e tormentata, Un esempio di maschera hannya utilizzata nel teatro nō nella maggior parte dei casa utilizzata per (Figura 13) personaggi di donne guidate dalla gelosia e dalla sete di vendetta. La Figura 14 è una bozza di Shibata Zeshin raffigurante una leggenda del decimo secolo, la quale narra di uno hannya che tormentava chiunque oltrepassasse il cancello Rashōmon a Kyoto: travestito da donna nel tentativo di ingannare un uomo, Watanabe no Tsuba, questi sarebbe riuscito a tagliargli un braccio e a nasconderlo poi in un cesto nella sua abitazione.

12 Shōki, lettura giapponese di Chung K’uei, è una figura leggendaria conosciuta come il “domatore dei demoni” ed ebbe origine da un dipinto di Wu Tao-tzu (attivo nel 720-760 d.C.), un acclamato pittore cinese durante la dinastia T’ang. Egli raffigurò un uomo dalla folta barba, stivali neri e vestiti tradizionali, intento a domare un demone: l’opera attirò l’attenzione dell’imperatore Ming-Huang, il quale affermò di aver avuto la stessa visione in sogno di un eroe che lo aveva salvato da un demone entrato nelle sue stanze per ucciderlo. Narrando il suo sogno, egli descrisse la creatura come un essere malefico avente delle corna.

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Lo hannya di Shibata Zeshin mentre fugge dopo aver recuperato il braccio perduto (XIX sec., Figura 14)

In altre opere ancora, gli oni rappresentavano divinità della natura, la cui devastante ira era causa di tempeste e altre calamità. Le caratteristiche con cui venivano raffigurati erano quindi un espediente chiaro e diretto per identificare la loro natura spaventosa e di cui aver timore; è necessario notare come l’iconografia demoniaca in Giappone vennero largamente influenzata altresì dall’interazione con il buddhismo, il quale portò con sé anche una netta distinzione tra cielo ed inferi: Enma, ad esempio, è spesso raffigurato assieme ad un demone, il quale mette in atto i giudizi pronunciati dal re degli inferi. In altre occasioni, anche lo spirito di preti defunti poteva trasformarsi in un oni: in questo caso la trasformazione non assumeva uno scopo malvagio, ma di protezione verso il tempio di appartenenza o dei propri discepoli. Un altro utilizzo degli oni nell’arte era quello di elevare e dimostrare le abilità militari degli eroi giapponesi: di esempio ne sono le opere in Figura 15 e 16, rispettivamente rappresentanti un paravento a sei facce del diciassettesimo secolo e un libro illustrato da Kitao Masayoshi del diciottesimo secolo. Entrambe raffigurano Ōeyama no oni densetsu 大江山の鬼伝説 (La leggenda del demone del monte Ōe), ovvero la leggenda di come Minamoto no Yorimitsu, assieme ai suoi fidati guerrieri, riuscì ad infiltrarsi nell’abitazione del demone Shūtendōji sul monte Ōe e ad ucciderlo, liberando la figlia di un nobile rapita dall’oni stesso.

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Paravento della scuola kanō, di autore ignoto, raffigurante da destra a sinistra la prima metà de La leggenda del demone del monte Ōe (Figura 15)

Estratto del libro di Kitao Masayoshi, in cui è possibile osservare il demone legato a terra, sul punto di essere ucciso (Figura 16)

Come accadde per vari altre soggetti, in epoca Edo anche gli oni vennero impiegati a scopi satirici e parodistici, come la figura del demone in veste di prete itinerante che divenne popolare nelle illustrazioni otsue, alleggerendo la sua natura di essere terrificante.

I tengu, al contrario, sono creature dalle svariate forme. Si suppone che essi originino dai leggendari tiangou cinesi, esseri molto temuti e raffigurati nelle leggende in varie sembianze, dalle caratteristiche di un cane a quelle di una figura alata; si ritiene probabile anche l’influenza della divinità guardiana buddhista Garuda (sanscrito: Garuḍa), la quale aveva corpo umano ma possedeva anche ali e corna, oltre l’abilità di trasformarsi in un essere umano. I tengu giapponesi furono spesso raffigurati con caratteristiche sia antropomorfe

29 che di uccelli, apparendo così in combinazioni di elementi quasi sempre differenti: il becco con cui erano originariamente rappresentati, ad esempio, si trasformò nel tempo in un lungo naso e i tengu assunsero una forma sempre più vicina a quella umana. I tengu sono esseri ingannatori, possono prendere possessione degli umani e parlare attraverso la loro bocca, e possono altresì assumere le sembianze di uomini, donne o bambini, oppure anche dei preti che entrano nelle montagne e foreste sacre del Giappone nel tentativo di carpire i segreti dietro i loro poteri magici. In numerose leggende – molte delle quali contenute anche nel Konjaku monogatari – essi tormentano sia i preti che addirittura l’imperatore: lo scopo dei tengu, infatti, è quello di causare caos e disordine, di far perdere agli esseri umani il sentiero della religione o della ragione. Si sviluppò inoltre la credenza che anche i preti ambiziosi, ipocriti ed avari potessero trasformarsi in tengu, costretti a passare il resto della loro vita sottoforma di esseri mostruosi; a questo vi si aggiunse, nel dodicesimo e tredicesimo secolo, la crescente tendenza dei monaci ad immischiarsi in affari laici e politici, e a creare eserciti proprio per combattersi l’uno con l’altro. Questo diede il via ad una serie di opere raffiguranti preti in abiti monacali ma con il volto di uccello, a simbolizzare la loro natura ora sacrilega (Fig. 17).

Tenguzōshi 天狗草紙 (autore sconosciuto, 1295), conservato nel museo di Nezu a Tokyo (Figura 17)

Dal tredicesimo secolo si iniziò a credere anche che i tengu potessero trasferire i loro poteri a chi li venerava: nella saga di Minamoto no Yoshitsune dello Heiji monogatari 平治物語 (Storia dell’era Heiji, XII sec.), Yoshitsune apprende le

30 arti marziali da un tengu chiamato Sōjōbo, il quale acconsente di addestrarlo solamente per poter collaborare all’istigazione di una nuova guerra. In seguito si svilupparono inoltre leggende secondo le quali i tengu si potessero trasformare anche in yamabushi, senza dubbio dovuto alla stretta connessione di quest’ultimi con le montagne e le pratiche ascetiche: questo portò, soprattutto in periodo Edo, a sentimenti di sfiducia verso gli yamabushi, dubitando se questi fossero reali oppure dei tengu sotto mentite spoglie.

In Figura 18 si può osservare un’illustrazione umoristica di Ōhara Denshū del diciannovesimo secolo raffigurante un tengu dal lungo naso nelle vesti di En no Gyōja, il leggendario fondatore dello shugendō 修験道: la creatura indossa un tokin 頭襟 sulla testa e nella mano destra stringe uno shakujō 錫杖 con nove anelli, il quale potrebbe servire sia come bastone da passeggio, che come strumento di protezione ed esorcismo. Attorno a lui vi sono altri tengu, raffigurati come semi umani e semi uccelli, con un becco al posto del naso: queste figure presero il nome di karasu tengu 烏天狗, ossia “tengu corvo”. L’illustrazione permette anche di osservare lo Karasu tengu di Ōhara Denshū sviluppo stilistico nel tempo della figura del (Figura 18) tengu. Oltre all’evoluzione raffigurativa, tali creature iniziarono ad apparire in alcune leggende anche come esseri non sempre maligni, ma persino disponibili ad aiutare gli umani in momenti di forte necessità. Dal diciottesimo secolo la loro presenza proliferava nella letteratura e nel diciannovesimo secolo raggiunsero addirittura il grado di divinità del legname; e come successe per gli altri soggetti, anche i tengu iniziarono ad essere utilizzati a scopo parodistico.

31 Nel folklore giapponese, i serpenti sono considerati creature dai poteri soprannaturali; il serpente bianco, in particolare, è visto persino come messaggero delle divinità. Non si ha certezza del perché i serpenti abbiano assunto tali connotazioni di importanza, non solo in Giappone ma in numerose zone del mondo; Lillywhite e Yamamoto, tuttavia, teorizzano quattro possibili ipotesi: in primis, i serpenti erano facilmente portati in superficie dalle piogge e alluvioni, facendo diffondere la credenza che ne fossero essi stessi la causa; in secondo luogo, i serpenti cambiano pelle per crescere, fatto interpretabile come processo di rinnovamento e a probabili connessioni con una natura soprannaturale ed immortale; i serpenti, inoltre, vivono in buchi e cave, come a dimostrazione di poter viaggiare liberamente tra il mondo umano e quello degli spiriti; in ultimo, essi si trovano di frequente nelle vicinanze di edifici abbandonati o di rovine, luoghi generalmente associati all’ultraterreno13. Un esempio di divinità derivante dal serpente è il celebre drago cinese, presente inoltre nelle leggende giapponesi: è indubbia, infatti, l’influenza in Giappone anche delle caratteristiche di Ryū, una delle otto divinità guardiane della legge buddhista. In Giappone, il serpente è venerato per molteplici ragioni, dal controllo dell’acqua e del clima alla protezione dal fuoco e dalla pestilenze, o per poter assicurare un parto semplice; una menzione del serpente come divinità si trova già in vari passi del Kojiki e del Nihongi, uno dei quali, ad esempio, è il momento in cui alla principessa Yamato, sposa del figlio di Susa-no-O e della principessa Izumo, è concesso vedere la vera forma di una divinità che non appariva mai durante il giorno: questa, è scritto infine, era un bellissimo serpente dello spessore e della lunghezza della corda di un abito. Si ricorda anche Orochi, il serpente sconfitto da Susa-no-O. La mancanza di rispetto verso uno di loro, tuttavia, avrebbe causato pesanti calamità. Un esempio sono le svariate leggende di serpenti femmine, i quali possono cercare un umano come partner e trasformarsi in bellissime donne per conquistarli: un loro rifiuto potrebbe portarle ad una tremenda rabbia di

13 Jaimie LILLYWHITE, Akira Y. YAMAMOTO, Snakes, Serpents, and Humans, in Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di), George Braziller, New York, 2005, pp. 142

32 gelosia e provocare distruzione. In generale, le donne erano considerate contraddistinte da una naturale gelosia e per questo motivo più propense al trasformarsi in serpenti: nel racconto Dōjōji, infatti, Kiyohime prende proprio questa forma. I figli di un serpente e un uomo, invece, potevano assumere diverse fattezze, spesso miste tra le due. I serpenti, dunque, erano le figure dall’esistenza ambigua, in quanto potevano incarnare allo stesso tempo, e a seconda dell’occasione, malignità, benevolenza, amore, distruzione o protezione. Altri yōkai meritevoli di menzione sono il tanuki 狸 e il kitsune 狐, sempre aventi ruolo di trickster.

33 1.3 UKIYOE: HOKUSAI, KUNISADA, KUNIYOSHI, YOSHIIKU, YOSHITOSHI

Con lo stabilirsi dello shogunato Tokugawa nel 1603, e la conseguente fine delle guerre civili, anche l’ordine sociale vide un profondo cambiamento nelle mani del nuovo governo. La gerarchia ufficiale fu modificata nel rispettivo ordine di samurai, contadini, artigiani e mercanti, denominata con l’espressione popolare di shinōkōshō 侍農工商; fu così che i mercanti vennero collocati sul fondo della società, relegati ai suoi confini perché non in grado di produrre nulla e per cui non degni di valore. Tuttavia, i mercanti erano tutt’altro che reietti: essi avevano accumulato grandi ricchezze tramite i loro commerci ed erano tra le persone più benestanti di Edo. Limitati quindi in vari aspetti della loro vita dalle nuove leggi, per evitare disordini dovuti allo scontento lo shogunato permise loro una valvola di sfogo, ovvero delle aree dedicate ai chōnin 町人 e dove le leggi contro di essi non avevano potere. Queste aree includevano i teatri e il distretto a luci rosse di Edo, chiamato Yoshiwara, i quali divennero il centro della cultura chōnin. Ed è qui che si sviluppò lo ukiyoe 浮世絵, le cui opere furono finanziate e richieste soprattutto dai ricchi mercanti, i quali investivano larghe quantità di denaro nell’arte: lo ukiyoe fu molto probabilmente la prima scuola d’arte in Giappone ad essere composta quasi interamente da artisti che vivevano delle entrate provenienti dalle grandi masse, piuttosto che da una ristretta e ricercata clientela. Dal periodo Edo, il termine ukiyo assunse il significato di assaporare l’effimerità della vita e dei suoi piaceri, i quali esistono in un perenne stato mutevole e transitorio, e venne poi usato per riferirsi altresì, nel più specifico, ai quartieri di piacere, un mondo a parte che non rispecchiava la vita reale al di fuori di esso. Tuttavia, il termine ha origini ben antecedenti all’epoca pre-moderna ed era utilizzato in contesto buddhista per riferirsi all’impermanenza del mondo umano; Hashimoto Mineo lo considera addirittura risalente al Taketori monogatari 竹取物語 (circa 850-950 d.C.)14. Secondo Sandy Kita, il termine avrebbe indicato il “qui e ora”, un momento presente che potrebbe però non esserlo più; un termine che col tempo avrebbe assunto la connotazione di nome proprio. Lo studioso pone un’ulteriore osservazione, ovvero il

14 HASHIMOTO Mineo, Ukiyo no Shisō (Il pensiero dello Ukiyoe), Kōdansha, Tokyo, 1975 橋本 峰雄『浮世の思想』講談社、東京、1975

34 fatto che la parola ukiyo avesse il significato sia di “fluttuante” che di “doloroso”: per Kita, il dolore sarebbe riferito al dukkha buddhista presente nella vita umana, guidata dai piaceri e dalle tentazioni, mentre il fluttuante indicherebbe proprio questo mondo umano di limbo. Ukiyo non significherebbe quindi o uno o l’altro, ma entrambe le cose. Per Kita, dunque, i veri soggetti ritratti nei dipinti ukiyoe non sarebbero semplicemente cortigiane, attori o paesaggi, ma sarebbero l’istante presente, il “qui e ora” che si pone in quel preciso momento davanti agli occhi dell’artista e che egli percepisce tramite i suoi sensi; o, per meglio dire, ciò che egli crede di vedere e di percepire15. Col tempo lo ukiyoe si evolse sempre più, grazie anche a numerosi stimoli e influenze: a partire da Iwasa Matabei, colui a cui ne è attribuita la nascita, passando per i bijinga 美人画 e gli ukiyozōshi 浮世草紙, arrivando poi ad Hashikawa Morinobu, la persona che portò alla luce del sole gli artisti della stampa su matrice di legno. Lo ukiyoe, tuttavia, era un’arte sostenuta dalle masse e a queste si appoggiava: l’obiettivo era principalmente quello di vendere, di creare un prodotto popolare che attirasse l’attenzione del pubblico. Per questo motivo era anche strettamente e direttamente collegato alle altri arti, ragion per cui divennero così comuni raffigurazioni di attori o spettacoli kabuki oppure di yōkai e fantasmi: ritraendo soggetti amati dal pubblico, anche le vendite sarebbero aumentate. Naturalmente da questo beneficiavano anche altri soggetti, come i teatri, i quali, tramite le illustrazioni, godevano di una sorta di pubblicità, dando così vita ad una specie di simbiosi tra artisti.

In questo capitolo saranno prese in considerazione le opere di cinque artisti, ovvero Katsushika Hokusai, Utagawa Kunisada, Utagawa Kuniyoshi, Utagawa Yoshiiku e Tsukioka Yoshitoshi, i quali più di tutti hanno contribuito in modo significativo alla rappresentazione e all’evoluzione del macabro e del soprannaturale nello ukiyoe. Katsushika Hokusai 葛飾 北斎 – nato Kawamura Tokitarō – visse dal 1760 circa al 1849; fu sia pittore che tipografo ed è conosciuto in particolar modo per la sua celebre opera Kanagawa oki nami ura 神奈川沖浪裏 (La grande onda di Kanagawa). Al giorno d’oggi non a tutti è nota la sua personalità alquanto eccentrica, fatto invece ben

15 Sandy KITA, The Floating World of Ukiyoe: Shadows, Dreams, and Substance, Harry N. Abrams in association with the Library of Congress, New York, 2001, pp. 27 - 77

35 risaputo ai suoi tempi. Inoltre, nonostante fosse comune per gli artisti di allora usare più pseudonimi, durante la sua carriera Hokusai ne cambiò almeno trenta, tanto che vengono oggigiorno solitamente utilizzati per suddividere la sua carriera artistica in diverse fasi. Da ragazzino apprese le tecniche di stampa su matrice di legno e in adolescenza divenne allievo di Katsukawa Shunshō, dal quale fu poi cacciato per via di alcune critiche rivoltegli dallo stesso Hokusai. Negli anni successivi divenne guida della scuola Tawaraya, mentre nel 1799, e per i successivi trent’anni, decise di intraprendere una carriera individuale e di concentrarsi solamente su un proprio stile personale, esplorando anche le tecniche europee. Fu proprio nel 1800 che assunse il nome con cui oggi è conosciuto e divenne negli anni sempre più affermato tra gli artisti del tempo. Hokusai produsse numerose opere fra dipinti, libri illustrati e shunga 春画, tra cui i ben noti Hokusai manga 北斎漫画 e Fugaku sanjūrokke 富嶽三十六景 (Trentasei vedute del monte Fuji). Nonostante i suoi lavori raffigurassero principalmente la natura e i paesaggi, non mancò un’attitudine per il bizzarro, la quale lo portò a produrre anche opere raffiguranti il soprannaturale; La scuola Utagawa 歌川, invece, fu la scuola di ukiyoe più prolifica del diciannovesimo secolo e fece prendere alle opere del tempo una direzione piuttosto diversa rispetto a quella del secolo precedente. La scuola fu fondata a fine diciottesimo secolo da Utagawa Toyoharu, specializzato soprattutto nell’applicazione della prospettiva lineare occidentale (ukie 浮絵) e fu seguita da un alto numero di discepoli: Utagawa Kunisada 歌川 国貞 – nato Sumida Shōgorō 角田庄五朗 – fu uno di questi. Egli visse dal 1786 al 1865 e fu altresì conosciuto con il nome di Utagawa Toyokuni III. Mostrò il suo talento per il disegno e la pittura già in tenera età, attirando così l’attenzione di Toyokuni, che lo accettò come apprendista e gli conferì il suo nuovo nome secondo la tradizione della scuola Utagawa, secondo cui il primo carattere del nome dell’allievo doveva corrispondere al secondo carattere del nome del maestro. Kunisada, la cui principale occupazione furono stampe di attori e di kabuki, produsse numerose opere ed ebbe enorme successo durante la sua carriera, considerato sempre all’avanguardia nelle tendenze e in linea con i gusti del pubblico. Gli sono attribuiti più di ventimila design per stampa su matrice di legno e tra tutti i suoi

36 contemporanei, come Hokusai e Kuniyoshi, fu quello che godette di più fama. È conosciuto per i suoi ritratti e per uno stile forte, originale e libero; Utagawa Kuniyoshi 歌川 国芳 – nato Ikusa Yoshisaburō 井草芳三郎 – visse dal 1798 al 1861 e fu il figlio di un tintore di seta. Si narra che fu proprio la sua collaborazione fin da giovane con il padre nel creare disegni per tessuti che influenzò successivamente il suo ricco uso di colori; inoltre, fu sempre attratto da opere di guerrieri, artigiani e popolani, altro fattore che sembra averlo stimolato in età adulta. Anch’egli fu notato da Toyokuni e inserito nella sua scuola nel 1811 sotto nuove nome, dove tuttavia ebbe difficoltà a trovare successo tra il pubblico nei primi anni di carriera. Durante la sua vita produsse opere molto varie, tra cui illustrazioni per libri, bijinga, attori di kabuki, animali mitologici, gatti e paesaggi, ma soprattutto stampe a tema guerresco-eroico, le quali più mostrarono il suo stile personale e che divennero una sua sorta di marchio. Tra i più noti vi è la serie Tsūzoku suikoden gōketsu hyakuhachinin no hitori 通俗水滸伝豪傑百八人之一個 (Centootto eroi dei detti popolari suikoden); Utagawa Yoshiiku 歌川 芳幾 o Ochiai Yoshiiku 落合 芳幾 – nato Ochiai Ikujirō 落合 幾次郎 – visse dal 1833 al 1904 e fu figlio di un proprietario di una casa di tè. Yoshiiku fu un altro membro della scuola Utagawa e allievo diretto di Kuniyoshi, da cui il nome; tra le sue prime opere raffiguravano attori, donne e guerrieri, e fu anche impegnato in illustrazioni per giornali. Mostrò spesso l’influenza delle opere di Hokusai. Non raggiunse la fama di altri artisti, ma produsse varie stampe aventi soggetti macabri o soprannaturali e collaborò anche con Tsukioka Yoshitoshi alla produzione della serie muzane 無残絵 chiamata Eimei nijūhasshūku 英名二十八衆句 (Ventotto celebri omicidi con versi); Tsukioka Yoshitoshi 月岡 芳年 – nato Yoshioka Yonejirō 吉岡 米次郎 – fu un ennesimo allievo di Kuniyoshi e visse dal 1839 al 1892, il che fa proseguire la sua vita e carriera fino all’epoca Meiji. Yoshitoshi è considerato uno degli ultimi grandi maestri dello ukiyoe e l’allievo più importante di Kuniyoshi. Durante l’apprendistato, egli si concentrò molto sul migliorare la tecnica di disegno, in particolar modo del disegno realista, e studiò anche gli elementi della pittura occidentale. Per molti anni non produsse che qualche decina di opere, ma dal 1860 la maggior parte delle sue stampe

37 raffigurò scene di morte e di forte violenza, questo probabilmente dovuto sia alla morte del padre che alla situazione politica del tempo, con la caduta dei Tokugawa e i contatti sempre più frequenti con l’ovest. I suoi lavori, tuttavia, attraevano un grande pubblico e Yoshitoshi acquistò una fama sempre più considerevole, tanto da essere visto come uno dei migliori artisti in Giappone. Il successo iniziò però a scemare verso il tardo diciannovesimo secolo, fatto che lo mandò in forte depressione e lo indebolì fisicamente; gli ultimi anni di vita furono i più prolifici, nonostante non riuscì mai a riacquistare la precedente fama. Seguendo le linee guida riportate finora nel corso del capitolo, di seguito saranno presentate le opere più significative dei cinque artisti sopracitati e raffiguranti yūrei e yōkai. Le stampe prodotte dai seguenti cinque furono naturalmente centinaia, ciascuna delle quali con una qualche particolarità che meriterebbe menzione e molte delle quali ritraenti i soggetti più conosciuti e di più tendenza nella società dell’epoca, come il fantasma di Oiwa. Esistono quindi diverse riproduzioni dello stesso soggetto per ognuno dei seguenti individui; tuttavia, essendo un tema che richiederebbe un notevole approfondimento, per questa tesi sono state selezionate solamente le opere ritenute più importanti e più rappresentative, sia dell’artista che del macabro e del soprannaturale nello ukiyoe. Un ulteriore obiettivo, difatti, è quello di fornire una visione più ampia possibile della varietà e della vastità delle loro raffigurazioni, anche in relazione al momento storico.

1.3.1 KATSUSHIKA HOKUSAI

Hokusai non produsse un alto numero di stampe raffiguranti il soprannaturale, ma quelle pubblicate raggiunsero una vasta notorietà. L’opera Shinban ukie bakemono yashiki hyaku monogatari no zu 新板浮絵化物屋鋪百物語の図 (Nuova versione di una stampa di prospettiva: casa infestata, Fig. 19), del tardo diciottesimo secolo, è uno dei primi esempi di stampe aventi per tema il gioco degli hyaku monogatari. Il disegno mostra, infatti, l’apice del momento e fornisce un’idea di quello che avrebbe potuto accadere verso la fine dell’incontro: fantasmi e mostri stanno infestando la stanza, addirittura le lanterne si sono trasformate in spettri con un solo occhio; i partecipanti

38 tentano di fuggire, ma sono pietrificati dalla paura. Coloro che avevano interesse nel gioco, ma non abbastanza coraggio per parteciparvi, potevano osservare quest’opera e immaginarsi sulla scena. Ma la principale serie di stampe create da Hokusai su questo tema rimane senza dubbio lo Hyaku monogatari 百物語, il quale avrebbe previsto la pubblicazione di cento opere ma di cui, per motivi sconosciuti, ne furono prodotte solamente cinque. Queste cinque opere sono, rispettivamente: Oiwasan お岩さん (Oiwa, Fig. 20), Kohada Koheiji 小はだ小平二 (Fig.21), Warai hannya 笑ひはんにや (Il demone che ride, Fig. 22), Sarayashiki 皿屋敷 (Fig. 23) e Shunen しうねん、執念 (Ossessione, Fig. 24).

Casa infestata (Figura 19)

Il dipinto di Oiwa si ispira direttamente al racconto Tōkaidō yotsuya kaidan: il soggetto è di fatto una lanterna con il volto di Oiwa sfigurato dal veleno, rappresentata con le caratteristiche tipiche dello yūrei. La lanterna è un probabile riferimento all’illuminazione utilizzata duranti gli hyaku monogatari, ma potrebbe essere anche interpretato come uno tsukumogami 付喪神, ovvero oggetti di uso comune che dopo cento anni prendono vita divenendo esseri soprannaturali – nonostante il caso di quest’opera sembri più indicare la semplice apparizione di Oiwa tramite una delle lanterne presente in loco. Se Oiwa era lo spirito più noto nel kabuki, Kohada Koheiji era ciò che si può definire la sua controparte maschile. La sua prima apparizione è nella storia Fukushū kidan Asaka no numa 復讐奇談安積沼 (Una strana storia di vendetta

39 nelle fogne di Asaka) di Santō Kyōden, un famoso poeta e scrittore di epoca Edo: Kohada fu un uomo ucciso da un suonatore di tamburi, amante della moglie. Dopo la sua morte i due si sposarono, ma morirono anch’essi in seguito alla persecuzione del fantasma di Kohada.

Oiwa (Figura 20) Kohada Koheiji (Figura 21)

La stampa più popolare al tempo raffigurava il fantasma di Kohada mentre si affacciava sopra la zanzariera sotto cui dormiva la moglie: l’opera di Hokusai è invece un primo piano dello spettro, raffigurato in forma scheletrica e con occhi sporgenti assetati di sangue, che conferiscono all’immagine un tono particolarmente macabro .

L’opera successiva mostra in modo chiaro lo stile unico e creativo di Hokusai. Il soggetto de Il demone che ride è una yamauba 山姥, figura del folklore giapponese rappresentata solitamente come una vecchia donna dai capelli scompigliati e vestita di stracci, la quale si nutre dei bambini che le vengono portati nella sua abitazione sulle montagne – nel dipinto, infatti, la si vede tenere in mano la testa di un neonato. Il volto, tuttavia, è quello di uno hannya, ovvero un demone della tradizione che si narra sia una donna trasformatasi in forma demoniaca a causa dell’estrema gelosia.

40

Demone che ride (Figura 22) Sarayashiki (Figura 23)

Il dipinto Sarayashiki è forse quello più semplice da interpretare e mostra il fantasma di Okiku emergere la notte dal pozzo dove è stata gettata.

La quinta opera è invece quella più enigmatica: si possono osservare una lapide buddhista e un contenitore con delle offerte, attorno ai quali vi è avvinghiato un serpente velenoso. La svastica sulla ciotola indica la setta buddhista Nichiren. Il nome scritto sulla lapide, ovvero il nome post-mortem del defunto, è Momonjii 茂問爺, il nome di uno yōkai che appare nel secondo volume dell’enciclopedia di Toriyama Sekien. Il simbolo in alto viene interpretato o come un simbolo sanscrito, non riconoscibile, o come un Shunen (Figura 24)

volto di donna. Il vero significato della

stampa rimane sconosciuto.

41 Hokusai raffigurò uno yūrei anche nel tredicesimo volume della sua serie di manga (Fig. 25), ma in questo caso non legato a nessuna storia in particolare. Lo spirito contenuto è solamente uno di quattro pannelli raffiguranti degli yōkai: in alto destra un tengu, in basso a sinistra una yamauba e dal lato opposto uno hihi 狒々, una creatura simile ad una scimmia e abitante le montagne. Nonostante il fantasma possegga le caratteristiche tipiche già viste, la sua rappresentazione è anomala, in quanto non appare per nulla spaventoso e l’espressione del viso sembra quasi docile, accattivante. La scritta posta di fianco legge semplicemente “yūrei”.

Yūrei (Figura 25)

Altre rappresentazioni di Hokusai includono Shōki (Fig. 26) e il Drago serpente16 (Fig, 27), entrambe stampe dello Ehon sakigake 絵本魁 (Illustrazioni di eroi), pubblicato nel 1836, un libro contenente una serie di immagini raffiguranti il Domatore di Demoni e altri eroi della tradizione. Nella prima figura, Shōki solleva un demone sopra la sua testa, un raffigurazione complicata in contrasto con la semplicità con cui è ritratta invece la spada. È evidente l’inclinazione di Hokusai per i dettagli, come la minuziosità nel ritratte le vesti di Shōki; Nella seconda figura, invece, è rappresentata una nota leggenda del folklore: un uomo fece visita al regno sotto i mari, dimora del Re dei Draghi, dove incontro e sposò la principessa del luogo. Con il passare del tempo, il giovane

16 Titolo originale giapponese sconosciuto.

42 iniziò a sentire la mancanza di casa e la coppia decise di far ritorno al suo villaggio, dove vissero fino al giorno in cui la donna dovette partorire. Chiusa in una capanna per dar alla luce il figlio, ella ordinò al marito di non entrare mai per nessun motivo: egli tuttavia, preso dalla curiosità, sbirciò all’interno e vide la moglie trasformata in un enorme serpente bianco con le corna, intento a partorire. Sopraffatta dalla vergogna, la donna abbandonò il bimbo e fece ritorno nel suo regno. Nella stampa di Hokusai è raffigurato il momento della nascita e della tentazione dell’uomo.

Shōki e un demone (Figura 26)

Il drago serpente e il figlio (Figura 27)

43 1.3.2 UTAGAWA KUNISADA

Come scritto precedentemente, la principale occupazione di Kunisada fu la rappresentazione di spettacoli e attori di kabuki, e così fu anche per gli yūrei. Di seguito sono riportate tre delle sue opere più note sul tema.

La figura 28 è uno shinie17 che ritrae Nakamura Utaemon IV, uno degli attori più famosi per la rappresentazione di spettri. Poco dopo la morte di Utaemon IV nel 1852, Kunisada pubblicò in sua memoria una stampa intitolata Iga shikibunojō mitsumune no rei 伊賀式部之丞光宗之霊 (Il fantasma di Iga Shikibunojō Mitsumune), che ritrae Utaemon IV nel doppio ruolo di fantasma ed essere umano: l’attore è in mie 見得, una posa di forza e vigore in cui l’artista si ferma e incrocia un occhio, mossa effettuata nei momenti clou del kabuki. Il volto è truccato in uno degli stili tipici per rappresentare gli yūrei, con sfondo pallido, labbra nere e sopracciglia alte, in modo tale da far apparire gli occhi ancora più grandi. Sia le mani che i capelli pendono in modo innaturale; In figura 29, in basso, vi è invece il trittico Il fantasma di Matahachi e Kikuno18, tratto da un racconto di kabuki: al centro si possono osservare gli spettri dei due protagonisti, uccisi da Kanemitsu dopo che Kikuna, la concubina, e Matahachi, il domestico della donna, lo avevano scoperto in intimità con la vedova del fratello. I due spiriti, irati e coperti di sangue, cercano vendetta sui due amanti. In quest’opera Kunisada raffigura il noto attore Ichikawa Kodanji IV, il quale in questo spettacolo impersonava entrambi i fantasmi con veloci cambi di costume; In figura 30 a destra, intitolata Ariwara no Narihira 在原業平, è invece raffigurata una poesia del poeta Ariwara no Narihira, mentre il soggetto è l’attore Ichikawa Danjurō VIII intento a rappresentare il monaco Seigen. La figura è chiaramente uno spettro, distinguibile dal viso spento, capelli arruffati, occhio incrociato e mani cadenti. Il poema legge Yo no naka ni/taete sakura

17 Si veda il paragrafo 1.4 “Shinie: i necrologi dello ukiyoe” da pp. 62 18 Titolo originale giapponese sconosciuto.

44 no/nakariseba/haru no kokoro wa/nodokekaramashi19 (In questo mondo/Se non ci fossero fiori di ciliegio/Il mio cuore in primavera/Sarebbe più sereno) ed è un diretto riferimento alla trama dello spettacolo: il monaco Seigen inizia una relazione con la principessa Sakura, incontrata un giorno perché venuta da lui a cercare aiuto. Questo, tuttavia, scatena una lunga serie di eventi sfortunati per entrambi, motivo per cui sarebbe stato meglio se non ci fosse stato alcun fiore di ciliegio (sakura).

Il fantasma di Iga Shikibunojō Ariwara no Narihira Mitsumune (Figura 28) (Figura 30)

Il fantasma di Matahachi e Kikuno (Figura 29)

19「世の中にたえて桜のなかりせば春の心はのどけからまし」

45 Tra le sue opere più note raffiguranti degli yōkai vi è invece Volpe in una tempesta20 (Fig. 31). Il kitsune in questione è una creatura da temere: il colore bianco del pelo indica che ha più di 500 anni, ovvero il tempo che impiega una volpe a diventare da rossa a bianca. A quest’età i kitsune posso trasformarsi in qualsiasi cosa essi desiderino e posseggono numerosi poteri soprannaturali. Qui è raffigurata sdraiata su una nuvola nera con addosso degli indumenti nobili; la volpe sembra ringhiare, mentre lampi e pioggia riempiono il paesaggio. Due individui probabili attori di kabuki, uno in ginocchio e l’altro in piedi, osservano con timore il kitsune mentre combattono il maltempo.

Volpe in una tempesta (Figura 31)

1.3.3 UTAGAWA KUNIYOSHI

Assieme a Yoshitoshi, Kuniyoshi è probabilmente l’autore più prolifico in merito a stampe raffiguranti il soprannaturale. Sono varie le sue opere in tema divenute celebri tra il pubblico e, come per gli altri artisti, sono di seguito riportate alcune delle più significative.

20 Titolo originale giapponese sconosciuto.

46 Sōma no furudairi yōkai Gashadokuro to Ōya Tarō Mitsukuni 相馬の古内裏 妖 怪がしゃどくろと戦う大宅太郎光圀 (Antico palazzo di Sōma: lo yōkai Gashadokuro e Ōya Tarō Mitsukuni, Fig. 32) del 1844 rimane molto probabilmente la stampa di Kuniyoshi più celebre anche in occidente. L’opera rappresenta la leggenda di Takiyasha: ella era sia una maga che una principessa, figlia dello shōgun Taira no Masakado, il quale fu ucciso nel tentativo di ribellarsi all’installazione di una “corte dell’est” nelle sue terre. Distrutta, Takiyasha continuò a vivere nelle rovine del suo palazzo a Sōma e si sparse la voce che avesse creato un suo esercito composto da i leali soldati rimasti, sia vivi che morti. Per verificare il fatto, il guerriero Ōya no Tarō Mitsukuni decise di farle visita, ma la notte venne attaccato da un esercito di scheletri, tra cui lo yōkai Gashadokuro raffigurato nella stampa. I gashadokuro sono spiriti che assumono la forma di scheletri alti almeno quindici volte più di una persona normale e si dice siano formati dalle ossa di coloro morti di fame o in battaglia senza essere stati seppelliti. Nell’opera è ritratto proprio il momento della battaglia in cui Takiyasha, sulla sinistra, risveglia Gashadokuro leggendo un rotolo. La lotta terminerà tuttavia con la sconfitta della maga. L’iscrizione in alto a sinistra narra l’incipit della trama.

Antico palazzo di Sōma: lo yōkai Gashadokuro e Ōya Tarō Mitsukuni (Figura 32)

47 Negli anni trenta del 1800, Utagawa Hiroshige produsse la celeberrima serie Tōkaidō gojūsan tsugi 東海道五十三次 (Cinquantatré stazioni del Tōkaidō), cinquantatré stampe raffiguranti ciascuna una stazione lungo la strada che portava da Edo a Kyoto. Nel periodo che va dal 1844 il 1848, invece, i tre artisti di più successo della scuola Utagawa – ovvero Kunisada, noto per i suoi ritratti, Kuniyoshi, noto per le stampe di guerrieri, e lo stesso Hiroshige, conosciuto per i suoi paesaggi – pubblicarono una serie intitolata Tōkaidō gojūsan tsui 東海道 五十三対 (Cinquantatré coppie del Tōkaidō), le quali raffiguravano storie o leggende inerenti ogni stazione, per approfondirne la conoscenza. In figura 33 è riportata la stampa numero 26 della serie, prodotta da Kuniyoshi ed intitolata Sayo no Nakayama yonakiishi 小夜の中山夜啼石 (Pietra notturna piangente), corrispondente alla stazione di Nissaka.

La leggende narra che a Nakayama (anticamente chiamata Sayo no Nakayama), nella prefettura di Shizuoka, vi sia una pietra piangente, posta a metà strada tra la stazione di Kanaya e di Nissaka. La storia racconta di una donna incinta che stava percorrendo quella via per incontrare il marito che non vedeva da molto, quando un ladro l’assalì, uccidendola. Il suo sangue colò sulla

pietra e all’interno andò a dimorarvi il La pietra piangente (Figura 33) suo spirito, il quale si dice piangere disperato ogni notte.

Nell’opera si può osservare la donna dare il figlio al marito, dopo avergli raccontato la storia del suo omicidio. Le scritte in alto narrano la trama della leggenda.

48 Un’altra leggenda è quella di Nikki Danjō, protagonista dello spettacolo kabuki Meiboku Sendai hagi 伽羅先代萩 (La disputa di successione, Fig. 34), uno degli spettacoli dove più si poteva osservare l’alta tecnica, soprattutto meccanica, ormai raggiunta nel kabuki per rappresentare il soprannaturale.

Nikki Danjō era un mago in grado di trasformarsi in un ratto. Riuscito a penetrare nel castello di Sendai per rubare un prezioso manoscritto, fu scovato per due volte, prima nella stanza e poi in cantina, ma riuscì a scappare in entrambe le occasioni grazie ai suoi poteri. La scena era molto interessante da vedere grazie ai giochi di luce e a speciali macchinari di sollevamento posti

sotto al palco, che permettevano Balia (Figura 34) veloci cambi di scena e di vestiario.

Lo spettacolo narra poi del tentativo di Nikki Danjō e di una sua complice, la balia del principe, di uccidere Date Masamune e il piccolo figlio, per poter prendere in mano il castello di Sendai e diventarne capo. Quello che appare nell’opera di Kuniyoshi non è propriamente uno spettro, ma la manifestazione visibile delle emozioni della balia. Il piano era quello di avvelenare il piccolo figlio di Date Masamune, ma il veleno fu accidentalmente ingoiato dal figlio stesso della donna, la quale fu costretta ad osservarlo morire senza poter fare nulla perché il suo compito era quello di proteggere il principe. L’opera ritrae quindi i suoi sentimenti e le sue emozioni che si stanno allo stesso tempo espandendo e reprimendo, come mostra anche il modo in cui la donna stringe il suo vestiario.

49 In un trittico di Kuniyoshi, invece, si possono notare alcune caratteristiche particolari. L’opera rappresenta lo spettacolo Kabuki Sakura giminden 佐倉義 民伝 (Storia di Sakura, un uomo giusto, Fig. 35) e raffigura gli spetti irati e insanguinati di Sakura Sōgorō e la moglie, popolani uccisi dallo shōgun Hotta Kozuke per aver osato domandare un abbassamento delle alte tasse; prima di ucciderli, Hotta li avevi costretti a guardare i loro tre figli mentre venivano decapitati. La particolarità sono i volti delle donne al servizio di Hotta, anch’esse ritratte con caratteristiche innaturali e grottesche, e la presenza di più di un fantasma di Sōgorō: questa tecnica dona movimento all’opera e porta ad immaginare come l’apparizione di Sakura dev’essere sembrata onnipresente agli occhi dello shōgun. Sparsi per la stampa vi sono anche sangue, fiamme e serpenti, elementi che si aggiungono al terrore dell’illustrazione.

Lo spettro di Sakura Sōgōro e la moglie (Figura 35)

Altre due opere interessanti sono Hebiyama 蛇山 (Serpenti di montagna, Fig. 36) e Minamoto no Yorimitsu kō yakata Tsuchigumo yōkai no zu 源頼光公館土 蜘作妖怪図 (Yōkai nella dimora di Minamoto no Yorimitsu, Fig. 37). La prima raffigura dei fantasmi contorcersi attorno al fantasma sfigurato di Oiwa, mentre il marito terrorizzato la affronta, a dimostrazione di come i serpenti fossero visti come forze oscure che esprimevano ulteriore orrore; l’immagine 37, invece, è una sottile satira politica raffigurante delle rane, a dimostrazione della crescente tendenza tra gli artisti di utilizzare animali o yōkai a scopo umoristico come metafora per certi comportamenti o eventi umani.

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Serpenti della montagna (Figura 36)

Yōkai nella Dimora di Minamoto no Yorimitsu (Figura 37)

1.3.4 UTAGAWA YOSHIIKU

L’opera più conosciuta di Yoshiiku è senza dubbio il trittico Hyakki yakō Sōma dairi 百鬼夜行相馬内裏 (Parata notturna dei cento demoni al palazzo di Sōma, Fig. 38) del 1893 ispirata al libro Utō Yasukata chūgi den 善知鳥安方忠義伝 (Racconto della lealtà di Utō Yasukata) scritto da Santō Kyōden nel 1807 con le illustrazioni di Toyokuni, ovvero la versione originale della leggenda della principessa Takiyasha. Dopo la morte del padre, Takiyasha e il fratellastro incontrano lo spirito di una rana chiamato Nikushisen, che li convince ad iniziare una ribellione, la quale verrà scoperta e fermata da Ōya Tarō Mitsukuni, guerriero al servizio di Minamoto no Yorinobu. Vi sono varie figure nell’opera di

51 Yoshiiku, che ritrae la battaglia tra la donna e il samurai: a sinistra si può vedere Mitsukuni, mentre a destra la figura di Takiyasha probabilmente posseduta dalla rana, vista la posa innaturale del corpo e dei capelli; sullo sfondo ci sono degli spiriti di rane, a simbolizzare Nikushisen, mentre otto spiriti del padre Taira no Masakado fissano Mitsukuni; altre figure di uomini e demoni riempiono il resto della stampa, per rendere ancor più l’idea dello hyakki yakō. Il forte e insolito contrasto tra i colori dei due protagonisti e il grigiore delle restanti figure dona drammaticità all’opera.

Parata notturna dei cento demoni al palazzo di Sōma (Figura 38)

Un altro celebre lavoro di Yoshiiku, sempre ispirato allo hyakki yakō, è il Kokkei wanisshiki 滑稽倭日史記 (Cronache umoristiche della storia del Giappone, Fig. 39, 40 e 41), pubblicato per commemorare la vittoria del Giappone contro la Cina nel 1894: include nove stampe divise in tre sezioni, ciascuna delle nove a sua volta suddivisa in parte alta e parte bassa. La parte alta è un rotolo chiamato Shinan hyakki yakō 新案百鬼夜行 (Nuova idea di hyakki yakō), mentre quella in basso raffigura dei soldati giapponesi, con caratteristiche simili a dei cartoni animati, mentre sconfiggono i soldati cinesi.

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Prima sezione (Figura 39)

Seconda sezione (Figura 40)

Terza sezione (Figura 41)

53 Si può osservare come gli yōkai siano stati resi con caratteristiche cinesi: lo oni rappresentato nel terzo pannello in alto della figura 39, ad esempio, indossa un cappello cinese, mentre i tipici yōkai del koto e del biwa, nel secondo pannello della figura 40, sono stati sostituiti da un cannone e da una giacca militare cinese. Il sole in figura 41 simbolizza invece il nuovo splendore della nazione, la luce che pone termine alla notte e scaccia i demoni.

Un ultimo esempio è il dittico del 1860 intitolato Divinità camuffate da clienti di una casa di piacere21 (Fig. 42), con cui Yoshiiku propone un’evidente parodia della grande popolarità di Asakusa al tempo. Nella stampa sono raffigurati quattro demoni intenti a guardare, senza troppo pudore, alcune cortigiane, due delle quali si stanno mettendo in mostra dietro ad una sorta di finestra di legno. L’uso degli oni è un riferimento a come la natura dei clienti tipici del quartiere non fosse propriamente elegante e galante; i colori vividi ne esaltano la satira.

Divinità camuffate da clienti di una casa di piacere (Figura 42)

21 Titolo originale giapponese sconosciuto.

54 1.3.5 TSUKIOKA YOSHITOSHI

In ultimo Yoshitoshi, l’artista forse più unico nel suo genere per quanto riguarda la rappresentazione del macabro e del soprannaturale nello ukiyoe; oltre al vasto numero di opere prodotte, alcune di queste furono particolarmente violente. Una delle prime serie di Yoshitoshi, e una delle più note, è Wakan hyaku monogatari 和漢百物語 (Cento storie di spettri di cinesi e giapponesi) del 1865: l’opera è evidentemente ispirata al gioco dello hyaku monogatari, ma, nonostante le stampe volessero essere cento, solo ventisei ne furono pubblicate. Ogni stampa conteneva inoltre delle inscrizioni di spiegazione su ciò che vi era raffigurato, la storia che vi era dietro; le figure 43 e 44, ad esempio, riportano le scritte di Kanagaki Robun, uno scrittore e giornalista dell’epoca che spesso seguiva un punto di vista Confuciano, utilizzando la letteratura come mezzo per uno scopo morale. L’opera di Yoshitoshi, difatti, sembra avere proprio un obiettivo didattico. È già visibile in quest’opera l’abilità e l’interesse di Yoshitoshi nel ritrarre elementi particolarmente grotteschi.

Fuwa Bansaku 不破伴作 (Fig. 43), come spiega l’iscrizione, era uno dei tre migliori samurai della famiglia Mori. Un giorno strinse un patto con due altri valorosi uomini, ovvero andare in un tempo ad esaminare il mostro che vi dimorava. Nella stampa, il mostro attacca Bansaku da sopra il suo ombrello e ride di lui, mentre il samurai cerca di controbatterlo e lo fissa coraggiosamente. L’opera ha lo scopo di onorare lo spirito audace del

guerriero. Fuwa Bansaku (Figura 43)

55 Donyoku no baba 頓欲の婆々 (La vecchia avida, Fig. 44), invece, rappresenta una famosa leggenda del folklore giapponese chiamata Shitakiri suzume 舌切り雀 (Il corvo dalla lingua tagliata), dall’obiettivo chiaramente didattico. La storia narra di due anziani coniugi: il marito è un uomo buono che si prende cura di un corvo, al quale viene invece tagliata la lingua dalla

perfida moglie per un motivo futile La vecchia avida (Figura 44) e accidentale.

Il corvo fugge e l’uomo va a cercarlo nell’abitazione del volatile, dove viene ben accolto e gli viene offerta in dono la scelta tra due casse. Essendo umile, l’uomo sceglie quella più piccola, che scopre piena di tesori. La moglie, invidiosa, va anch’essa a far visita al corvo e viene posta davanti alla stessa decisione: essendo avida, sceglie la cassa più grande, da cui usciranno solo mostri.

Altre due opere della collezione sono Kayo Fujin 華陽夫人 (Fig. 45), la consorte del principe Hanzoku d’India, la quale riuscì a convincerlo a lasciarle decapitare persone a suo piacimento e che si trasformò poi in una volpe a nove code, e Musashi Miyamoto 宮本無三四 (Fig. 46), illustrato mentre uccide un tengu.

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Kayo Fujin (Figura 45) Musashi Miyamoto (Figura 46)

Yoshitoshi, molti anni dopo, pubblicò un’ulteriore serie di stampe intitolata Shinkei sanjurokkaisen 新形三十六怪撰 (Trentasei nuove forme di spettri), sempre ispirata a storie di fantasmi cinesi e giapponesi. L’opera venne pubblicata verso la fine del diciannovesimo secolo, tra il 1889 e il 1892, e tre delle stampe uscirono solamente dopo la sua morte. La serie è considerata il punto più alto raggiunto da Yoshitoshi nella rappresentazione di yūrei e yōkai, ispirati alle figure delle origini ma ritratte in un nuovo senso, anche estetico; si possono notare altresì i bordi appositamente frastagliati delle opere, come se fossero state rovinate da insetti, e i soggetti stessi delle stampe sembrano avere un diverso punto di vista. I colori stessi sono molto più delicati, quasi eterei. Nonostante siano presenti creature soprannaturali, il focus sembra essere la prospettiva di un qualcuno che le vede, sia questo di persona o in un sogno. Le opere esemplificative qui presentate sono rispettivamente Okiku no rei お菊の霊 (Lo spettro di Okiku, Fig. 47) e Seppu no rei taki ni kakaru zu 節婦 の霊滝にかかる図 (Balia che prega sotto una cascata, Fig. 48). La storia dietro la prima stampa è ormai conosciuta, mentre la seconda narra della leggenda di Botaro, un giovane ragazzo che vuole vendicare l’assassinio del padre ucciso da un rivale. Il ragazzo viene rapito e la sua balia, saputa l’intenzione di eliminare il ragazzo, prega sotto una cascata affinché la sua vita venga risparmiata e

57 dopodiché si suicida, sacrificando la sua esistenza per la sua. Dopo la morte della donna, il ragazzo viene liberato.

Il fantasma di Okiku (Figura 47) Balia che prega sotto una cascata (Figura 48)

Un’ulteriore opera di spicco fu Taira no Kiyomori hi no yamai no zu 平清盛炎焼 病之図 (La febbre di Taira no Kiyomori, Fig. 49), in cui si vedono Enma e i suoi demoni attendere lo spirito dell’uomo morente. La febbre è una maledizione che si è procurato Kiyomori stesso con il suo infimo comportamento in vita; il demone alla sinistra di Enma sembra aspettare un suo segnale per poter attraversare le fiamme e dare già inizio alle torture che subirà lo spirito, e il modo grottesco con cui sono raffigurati gli altri servitori aggiungono drammaticità all’opera. In contrasto con il mondo infernale vi sono, sulla destra, la moglie e il figlio di Kiyomori, che pregano ardentemente per una sua redenzione.

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La febbre di Taira no Kiyomori (Figura 49)

Tuttavia, non si può parlare di Yoshitoshi senza menzionare il più peculiare dei suoi lavori, ovvero lo Eimei nijūhasshuku 英名二十八衆句 (Ventotto celebri omicidi con versi), un’opera di violenza grafica mai vista fino ad allora, pubblicata tra il 1866 e il 1867 e a cui collaborò anche Yoshiiku – l’opera è difatti suddivisa in quattordici stampe di Yoshitoshi e quattordici di Yoshiiku. Il titolo è riportato nel riquadro rosso in alto a destra, mentre nel riquadro bianco sulla sinistra vi sono degli haiku scritti da alcuni poeti, tra cui Matsuo Bashō, Ōshima Ryōta e Mukai Kyorai. Questo tipo di stampe fa parte del genere muzane 無残絵 (stampe cruente), di cui questa ne è l’opera più rappresentativa; il tema principale sono scene di uccisioni, soprattutto legate a spettacoli teatrali, le quali vengono ritratte con grande dettaglio grafico ed elementi grotteschi come sangue, decapitazioni e smembramenti, in colori appositamente vividi. Per questo motivo, questa tipologia di opere viene anche chiamata con il termine chimodoroe 血みどろ絵 (stampe sanguinolente). In figura 50 è rappresentato Naosuke Gonbei, un criminale di epoca Edo che si dice aver assassinato il suo padrone, la moglie e i loro tre figli; la figura 51, invece, raffigura un noto spettacolo del tempo di kabuki e bunraku intitolato Natsu matsuri naniwa kagami 夏祭浪花鑑 (Festival d’estate: lo specchio di Osaka): la trama è molto lunga e complessa e narra, molto brevemente, delle complicanze che nascono e circondano l’amore di un uomo per una cortigiana. La stampa mostra il momento in cui uno dei personaggi uccide il suocero, il padre della moglie. Le figure 52 e 53 mostrano altre scene particolarmente

59 violente contenute nella serie: la prima raffigura l’omicidio di una donna sopra una tomba, mentre la seconda mostra un’altra donna che viene uccisa mentre si trova legata in quel che sembra shibari. Quest’ultima immagine merita in realtà particolare attenzione, in quanto è uno dei primi esempi di quello che sfociò poi nello ero guro エログロ. Il termine, un’unione dei vocaboli inglesi erotic e grotesque, si riferisce ad un movimento artistico che prese piede da circa gli anni venti del ventesimo secolo e che da lì proseguì il suo intenso sviluppo. Gli shunga erano presenti in Giappone già dal periodo Heian, ma dall’epoca Edo iniziarono a diffondersi particolari tipi di stampe che contenevano sia elementi erotici che elementi grotteschi: Yoshitoshi, con il suo stile particolarmente macabro e violento, è considerato il precursore di questo genere, che si evolse in opere spesso addirittura ben più graficamente violente di quelle dell’artista sopra menzionato. Il movimento apparve inizialmente nella letteratura, con l’uscita nel 1928 anche di una rivista chiamata “Grotesque”, più volte censurata ma senza successo, e si espanse poi all’arte e soprattutto al cinema, dove diede vita al genere dei pinku eiga ピンク映画.

Naosuke Gonbei (Figura 50) Festival d’estate (Figura 51)

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Omicidio di una donna sopra una tomba Omicidio di una donna su shibari (Figura 52) (Figura 53)

61 1.4 SHINIE: I NECROLOGI DELLO UKIYOE

Tra le varie tipologie di ukiyoe esistenti, ve ne è un gruppo non particolarmente conosciuto denominato shinie, ovvero “ritratti di morte”. Queste stampe a colori furono prodotte dal tardo periodo Edo fino all’epoca moderna e venivano pubblicate in occasione della morte di personaggi famosi, principalmente attori di kabuki, ma in alcuni casi anche di scrittori e artisti ukiyoe. Una caratteristica interessante della rappresentazione degli artisti risiede nella posa: mentre gli attori erano solitamente raffigurati in piedi o nell’istante di uno spettacolo, gli artisti di ukiyoe erano generalmente ritratti seduti, con un pennello nella mano. Col senno di poi, il termine stesso con cui furono chiamate può forse sembrare leggermente fuorviante rispetto a ciò che veramente rappresentano: “shinie” può portare ad immaginare opere macabre al pari degli muzane, quando tuttavia essi non sembrano contenere elementi particolarmente grotteschi o soprannaturali. Nonostante sia vero che gli shinie consistono generalmente in un semplice ritratto della persona defunta, la loro caratteristica probabilmente più rilevante, soprattutto a fini di studio, risiede proprio in questo: la raffigurazione non è, in realtà, un semplice ritratto, ma rappresenta il defunto dopo la sua morte, riconoscibile da particolari dettagli che simbolizzano il trapasso o la cerimonia funebre – come un rosario buddhista o vesti azzurre. Tale caratteristica si è rivelata estremamente importante per gli studiosi per poter esaminare come i defunti fossero rappresentati al tempo. Oltre al ritratto, gli shinie riportavano anche svariate informazioni, come la data del decesso, il nome postumo buddhista, il tempio di sepoltura, una poesia di addio (jisei 辞世) e la data della cerimonia al tempio, similarmente a quello che al giorno d’oggi si potrebbe definire un necrologio. La loro funzione era duplice: in parte gli shinie volevano certamente onorare la memoria del defunto, ma il loro scopo principale era quello di sfruttarne la dipartita per poter vendere un alto numero di stampe, in questo caso commemorative – come del resto era l’obiettivo della gran parte delle opere ukiyoe. Il termine shinie, forse troppo ampio rispetto alla tipologia di opere che racchiude, si riferisce quindi solamente a questo genere di stampe.

62 I soggetti ritratti non sono dunque direttamente collegati ad elementi del macabro o del soprannaturale come le stampe viste in precedenza, ma mostrano comunque un ulteriore lato della cultura della morte e dell’aldilà presente in Giappone in epoca pre- moderna. Gli shinie, infatti, si sono rivelati materiale particolarmente significativo sia dal punto di vista artistico che dal punto di vista storico e religioso. Inoltre, come si vedrà successivamente, molti dei personaggi ritratti erano artisti conosciuti anche per la loro rappresentazione del soprannaturale, sia questo nell’ambito degli spettacoli Kabuki o dello ukiyoe, per cui si avranno modo di leggere di seguito anche nomi già incontrati nel corso di questa tesi.

Il primo esempio conosciuto di shinie è relativamente tardo e risale alla morte dell’attore Danjurō VI nel 1799, deceduto per un’influenza a soli ventun anni e appartenente all’illustre famiglia Ichikawa – la cui generazione di attori continua ancora oggi. L’attore successivo fu Ichikawa Danjurō VIII22, divenuto estremamente popolare per le sue rappresentazioni di giovani amanti, il quale fu trovato morto nel 1854, con la gola tagliata, in una locanda di Osaka, una delle tappe del tour itinerante che stava seguendo con il padre. Entrambi furono raffigurati in svariate stampe e da molteplici artisti, per cui si può intendere che la produzione di uno shinie non fosse nulla di ufficiale, ma solamente un altro articolo di vendita prodotto in diversi stili, tra i quali la clientela poteva scegliere quello che più li aggradava – un articolo paragonabile ai moderni poster e dal carattere secolare. Da qui in poi furono centinaia gli shinie che iniziarono ad essere prodotti. Il libro principale su cui l’autrice ha basato il suo studio degli shinie è un testo giapponese redatto nel 2010 dal Museo Nazionale di Storia e Folklore di Tokyo23, il quale contiene immagini e descrizioni degli shinie dedicati a sessantotto diversi attori, una collezione rara e di grande valore. Di seguito sarà analizzata innanzitutto la stampa dedicata ad Iwai Hanshirō VI (Fig. 54), e successivamente alcune delle principali opere

22 Si veda l’opera in figura 29 “Ariwara no Narihira” di Kunisada raffigurante Ichikawa Danjurō VIII, pp. 44-45 23 KOKURITSU REKISHI MINZOKU HAKUBUTSUKAN (Museo Nazionale di Storia e Folklore), Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan Shiryō Zuroku (Catalogo Illustrato del Museo Nazionale di Storia e Folklore), Vol. 7, Febbraio 2010 国立歴史民俗博物館『死絵』国立歴史民俗博物館資料図録、編7、2010 年 2 月

63 prodotte in occasione della morte di Ichikawa Danjurō VIII (Fig. 55-62) e Utagawa Kuniyoshi (Fig. 63). La seguente immagine è una fotografia scattata dall’autrice ad un’opera su cui ha avuto modo di lavorare in prima persona in Giappone e mostra una stampa prodotta da Utagawa Kuniyoshi, il quale ne creò anche ulteriori design. Di seguito la stessa verrà esaminata in ogni sua caratteristica per rendere possibilmente più chiaro come fosse strutturato uno shinie di stampo più tradizionale e quale fosse il pensiero che vi era alle spalle.

L’opera rappresenta l’attore di kabuki Iwai Hansirō VI 六代目岩井半四 郎, nato nel 1798 e figlio del celebre Iwai Hanshirō V. Il nome di famiglia era Yamatoya 大和屋, mentre i suo nomi d’arte erano Shūka 袖歌 e Baiga 梅我. Debuttò sul palco da bambino e il nome iniziale fu Iwai Hisajirō 岩井久次郎. Nel 1812 prese il nome precedente del padre, ovvero Iwai Kumesaburō II ニ代 目岩井粂三郎; nel 1829 iniziarono insieme un tour itinerante e nel 1832, di ritorno a Edo, ereditò il nome Shinie di Iwai Hanshirō VI (Figura 54)

definitivo di Iwai Hanshirō VI.

Apprese dal genitore le tecniche di interpretazione di personaggi femminili, le quali gli

donarono grande fama e successo tra il pubblico. Ma nel 1836, durante una performance nel teatro di Morita, Hanshirō VI dovette interrompersi per un malore: scomparve un paio di mesi dopo, a soli 39 anni. Il suo nome postumo fu Jinsōin Baiga Nichisen Shinji 深窓院梅我日鮮信士 e il suo nome professionale venne ereditato dal fratello Shōdai Iwai Shijaku 初代岩井紫若, che divenne quindi Iwai Hanshirō VII 七代 目岩井半四郎.

64 Esaminando ora l’opera, si può vedere come in alto a destra sia scritta la data di morte, ovvero Tenpō 7 saru shigatsu yōka 天保七年申四月八日(Era Tenpō anno 7 [1836], anno della scimmia, mese 4, giorno 8), e alla sua sinistra il kaimyō 戒名, ossia il nome postumo dell’artista con annesso il furigana di lettura. Più a sinistra ancora appare il nome professionale dell’uomo, Iwai Hansirō VI 六代目岩井半四郎. In basso a destra vi sono invece riportate altre informazioni, di più difficile lettura. Innanzitutto il nome della casa editrice, Kawaguchiya Chōzō 川口屋長蔵, la quale operò a Tokyo dal 1844 al 1852 circa e pubblicò anche opere di Hiroshige e Kunisada; era altresì conosciuta con i nomi di Kawachō 川長, difatti riportato nella stampa, e Kawamura 川村. Sopra la casa editrice vi è posto il timbro; al di sopra ancora vi è un’altra iscrizione, ossia Ichiyūsai Kuniyoshizu 一勇斎国芳画, uno dei vari nomi con cui si firmava Kuniyoshi. La poesia di addio è invece posta nella parte in alto a sinistra della stampa e legge Shinō kana kochō no ato wo oioki yō wo hayafue no monogurui wo mo24: il verso è scritto in giapponese classico e corrisponderebbe al giapponese moderno Omoidasu naa, isshō ni chōchō wo oikaketeita ano koro wo. Hayafue no chōki no neiro de sae mo25. Di seguito la proposta di traduzione in italiano: “Come ricordo, quel tempo in cui inseguivamo insieme le farfalle. Persino il folle suono del veloce flauto”. In ultimo, al di sotto della poesia, vi è la scritta Ume no Ya 梅の屋 , la quale indica il carattere iniziale di uno dei nomi d’arte di Hanshirō, ossia 梅我, e vuole quindi significare “la casata di Ume”. Per quanto riguarda la figura illustrata, invece, essa appare come una figura femminile che indossa un kimono di color azzurro dalle lunghe maniche e una stoffa nera portata similarmente ad una kesa, ovvero le vesti dei monaci buddhisti drappeggiate sotto un braccio e fissate alla spalla opposta. Il soggetto non è da pensarsi come una donna vera e propria, ma rappresenta Hanshirō VI in una delle sue rappresentazioni femminili che lo resero celebre. Una menzione particolare va fatta al kimono azzurro, poiché è molto comune trovare negli shinie soggetti maschili con addosso delle vesti azzurre: questo tipo di vestiario era riservato a samurai di alto

24 「しのふかな胡蝶のあとを追ひあふき世をはや笛の物狂ひをも」 25「思い出すなぁ、一緒に蝶々を追いかけていたあの頃を。早笛の狂気の音色でさえも」

65 rango ed era denominato kamishimo 裃. Fu utilizzato dall’epoca Kamakura ma soprattutto in periodo Edo, e differiva in colore e modello a seconda dell’occasione. Il completo più tradizionale era chiamato mizukamishimo 水裃 e consisteva in un kimono classico, una hakama e una sopravveste a “mezza maniche” dello stesso colore. Negli shinie degli inizi il colore più utilizzato era il nero o il bianco, ma questo si andò gradualmente modificando con l’uso sempre maggiore del colore azzurro e di mizukamishimo; dato che sia il colore azzurro che il colore bianco era indossati durante i rituali di seppuku, il mizukamishimo divenne man mano sinonimo di cerimonia funebre. Per quanto riguarda le figure femminili, invece, queste erano più spesso raffigurate con un kimono, solitamente anch’esso azzurro, ed una kesa, elementi che indicavano una persona pronta a fare ingresso in una vita monacale dedicata al buddhismo: questo era un diretto richiamo agli spettacoli kabuki, dove simili personaggi erano spesso rappresentati. In alcune occasioni, sulle maniche del kimono si potevano trovare anche caratteri sparsi riferiti al Nama Amidabutsu, rendendoli col tempo indumenti simbolo degli shinie per indicare cerimonie funebri. Facendo ritorno alla stampa, attorno al collo l’attore indossa un rosario buddhista, probabilmente ad intendere l’istante di una cerimonia funebre, in cui il rosario veniva utilizzato per preparare i partecipanti ad uno stato spirituale più alto; in mano, invece, regge alcuni rami di shikimi, l’anice giapponese, un altro elemento comune negli shinie. Nonostante sia altamente tossica, le foglie di questa pianta vengono bruciate come incenso in Giappone ed è considerata sacra dai buddhisti per la sua capacità di rimanere sempreverde anche dopo la potatura. Le foglie di shikimi, infatti, vengono solitamente poste assieme a dell’acqua sulle tombe giapponesi in segno di offerta, dunque un ulteriore simbolo che indica la natura postuma del soggetto. In alcune raffigurazioni si possono invece vedere dei fiori di loto.

Altri esempi di shinie sono le numerose stampe prodotte in occasione della morte di Ichikawa Danjurō VIII, evento che ispirò un notevole numero di artisti e di design, molti più della morte di qualsiasi altro attore; naturalmente fu anche la natura tragica ed imprevista della sua morte che fece grande scalpore e lo rese argomento di punta. Sono almeno tre i temi che si riscontrano tra le opere dedicate a lui: raffigurazioni tradizionali dell’attore in vesti funebri, secondo iconografia buddhista, e con varie

66 informazioni scritte attorno (Fig. 55); ritratti dell’attore in ruoli celebri (Fig. 56); rappresentazioni della tristezza e disperazione dei suoi fan al suo trapasso (Fig. 57, 58, 59, 60); scene del suicidio (Fig. 61 e 62). Le figure riportate qui sotto sono le più popolari e conosciute, quelle che più di altre hanno circolato tra il pubblico.

Raffigurazione tradizionale (Figura 55) Jiraya goketsu monogatari (Figura 56)

La figura 55 è un’iconografia classica del defunto, avente addosso uno mizukamishimo e in mano un cesto contenente dei rami di shikimi, elementi già visti in figura 54. Alle sue spalle appaiono le figure di Matsumoto Koshirō V e di Onoe Kikugorō III, celebri attori di kabuki scomparsi anni prima e colleghi del padre sul palco. La figura 56 è invece più particolare e raffigura Danjurō VIII in un ruolo che non è in realtà avvenuto: in quello spettacolo, l’attore avrebbe dovuto rappresentare Jiraya nell’opera Jiraiya goketsu monogatari 児雷也豪傑物語 (Il racconto di Jiraya il galante); tuttavia, egli non poté interpretarlo a causa della sua improvvisa scomparsa. In questa stampa, quindi, non è rappresentata l’ultima apparizione di Danjurō VIII, come era solito per gli altri attori, ma quella che avrebbe dovuto avvenire. Nell’opera si vede Jiraiya combattere un demone nel fiume dell’aldilà, il limbo delle anime dei bambini; dall’altro lato, dei ragazzini lo aiutano lanciando delle pietre al demone. Ciò che si osserva è quindi un esempio di interpretazione del ruolo di un fantasma che, in realtà, non ha mai visto realizzazione.

67 Le figure dalla 57 alle 60 ritraggono invece il dolore dei suoi ammiratori alla sua morte. La prima figura è forse la più singolare nel suo genere, in quanto ritrae Danjurō VIII nella famosa iconografia della morte del Buddha, ove i discepoli sarebbero qui i suoi fan sofferenti. L’analogia utilizzata in quest’opera può sembrare esagerata, considerata la grande differenza di importanza tra il Buddha e un attore di kabuki, seppur famoso; ciò nonostante, tramite questa allegoria l’autore pone all’attenzione come fossero proprio i suoi ammiratori, i suoi “discepoli”, che potevano garantire l’immortalità della sua figura. La varietà di donne che piangono la sua scomparsa, di diversa età e status, dimostra altresì quanto fosse importante nel kabuki la quantità e la vastità di ammiratori che si voleva raggiungere.

Danjurō VIII come morte del Buddha (Figura 57)

Ammiratori piangono un ritratto Danjurō VIII nella posizione del loto (Figura 58) (Figura 59)

68 Il concetto dietro le figure 58 e 59 è simile: nella prima sono raffigurate delle donne piangere copiosamente di fronte ad un’immagine del defunto, addirittura un bimbo e un gatto, e il loro profondo desiderio di poter toccarne anche solo un ritratto; nella seconda, invece, Danjurō VIII è rappresentato davanti alle sue ammiratrici seduto nella tipica posizione del loto e con un rosario in mano, pronto a passare oltre.

Danjurō VIII e un demone (Figura 60)

La situazione è leggermente diversa in figura 60, dove un demone rosso – forse Datsueba 奪衣婆 – tiene l’attore per mano, mentre le donne al suo seguito cercano di trattenerlo per il corpo e per i vestiti tirandolo dal lato apposto. Nessuno dei quattro dipinti è firmato, ma la presenza di gatti negli ultimi tre sembra poterli attribuire ad Utagawa Kuniyoshi, noto per essere amante del soggetto.

Il suicidio di Danjurō VIII fu, naturalmente, un'altra scena spesso ritratta; in particolar modo perché il pubblico reclamava sempre più dettagli, richieste a cui gli artisti rispondevano con sempre più stampe. La figura 61 è quella che probabilmente descrive in modo più accurato questo momento, su cui sono state create molteplici congetture, ipotesi e raffigurazioni; in molti casi, ad esempio, Danjurō VIII veniva rappresentato trafiggersi nello stomaco e non alla gola, probabilmente per un’analogia più diretta col seppuku. La rappresentazione in figura 62, invece, è a somiglianza di una scena di uno spettacolo in cui avrebbe dovuto esibirsi l’attore, ovvero Kanadehon chūshingura 仮名手本忠臣蔵 (Il tesoro dei fedeli vassalli), una storia basata sulle

69 vicende dei quarantasette rōnin: la scena mostra la tragedia appena avvenuta e il tentativo disperato di soccorso di varie persone, tra cui il padre, uno dei fratelli e Onoe Baikō IV, l’attrice che avrebbe dovuto recitare con lui nello spettacolo sopra menzionato. La raffigurazione vuole anche mostrare il profondo impatto che questa morte brutale e inaspettata ebbe sulla famiglia e sulla troupe che lavorava con l’attore.

Scena del suicidio (Figura 61) Analogia dello Kanadehon chūshingura (Figura 62)

A dimostrazione dell’influsso che questo evento ebbe sull’arte del tempo, di seguito in figura 63 è presentata un’ulteriore opera prodotta a riguardo: la stampa non è né ukiyoe né shinie e appare molto singolare nella sua composizione, motivo per cui è stata inclusa in questa tesi. Di autore sconosciuto – come tutte le opere su Danjurō VIII qui presentate – la seguente è una lettera di addio dell’attore, molto probabilmente di carattere simbolico e ideata dall’autore stesso dell’opera. Ciò che salta all’occhio e che più colpisce chi guarda, sia visivamente che emotivamente, è l’impronta insanguinata, un riferimento volutamente crudo e diretto al suicidio.

70

Lettera d’addio (Figura 63)

Si pone un’ultima menzione agli shinie prodotti in commemorazione non solo di attori di kabuki, ma anche di artisti di ukiyoe: le figure 64 e 65 sono opera di Utagawa Hiroshige e sono entrambe dedicate a Kuniyoshi, scomparso nel 1861. La prima raffigura Kuniyoshi seduto con un rosario nella mano destra ed include tutte le caratteristiche tradizionali viste in figura 54. L’opera ebbe una diffusione così ampia da essere scelta persino come design per francobolli. La seconda è invece un’opera insolita e non mostra nessun ritratto dell’artista: ciò che si vede è solamente il retro di una lapide ed incisa su di essa vi è una poesia di addio.

Shinie di Utagawa Kuniyoshi (Figura 64) Lapide di Kuniyoshi (Figura 65)

71 Naturalmente gli shinie non furono l’unica forma di memorabilia legata al ricordo degli artisti defunti, ma erano senza dubbio quelli più diffusi ed è impossibile quantificare quanti ne furono prodotti in totale o per ciascun artista. Essi rispondevano al bisogno sempre più crescente del popolo di possedere oggetti e informazioni che riguardassero i personaggi più amati, e proseguivano di pari passo a tutti gli altri prodotti artistici, fossero questi stampe ukiyoe o spettacoli teatrali, in un circolo simbiotico che si autososteneva. Un fenomeno che raggiunse il suo culmine e che andò gradualmente scemando man mano che si entrava nell’epoca moderna, e con essa l’arrivo del principale punto di svolta: i mezzi di comunicazione di massa.

72 CAPITOLO 2 EPOCA MODERNA: IL MACABRO CON L’EVOLUZIONE DEI MEDIA

Già dalla seconda metà del diciannovesimo secolo furono visibili importanti cambiamenti nel panorama giapponese: con la riapertura dei porti ricominciarono gli scambi con l’occidente e soprattutto l’importazione delle arti e della scienza d’oltre oceano, influenza visibile anche negli ukiyoe del tempo. La caduta dei Tokugawa nel 1868 e la cosiddetta restaurazione Meiji furono l’ennesima trasformazione nella struttura sociale e politica del Giappone, riportando il potere in mano all’imperatore così com’era sempre stato prima di secoli di dominio degli shōgun. Il periodo Meiji fu un’epoca di intensa industrializzazione e modernizzazione del paese, il quale vide soprattutto l’introduzione e l’affermazione di tutti i principali strumenti di comunicazione di massa: la stampa, già fiorente da molto tempo, raggiunse un importante traguardo nel 1870 con la nascita del primo giornale, lo Yokohama Mainichi Shinbun 横浜每日新聞, a cui ne seguirono poi altri; intorno al 1925 arrivò la radio, la quale fu la principale compagnia dei cittadini soprattutto in periodo di guerra e di dopo-guerra; dagli anni 50/60 fece invece la sua comparsa la televisione. La modernizzazione del Giappone in questo senso, più precoce di altri paesi asiatici, fu senza dubbio aiutata anche dal già alto grado di alfabetizzazione del popolo: agli inizi del diciannovesimo secolo si contavano almeno 1200 terakoya sparse per il paese e l’alfabetizzazione nazionale nel 1900 era stimata attorno al 90%26. Opere artistiche come gli ukiyoe iniziarono quindi un naturale processo di diminuzione, a cospetto delle nuove tecnologie e mezzi di condivisione che si stavano ora facendo strada. Questo, in realtà, fu anche dovuto a particolari circostanze dell’epoca Meiji e soprattutto, come denota Figal, allo sviluppo di tre discorsi a riguardo del soprannaturale: il primo fu la razionalizzazione del misterioso, del fushigi 不思議, trainato dalla nuova volontà scientifica di eliminare la credenza in fenomeni soprannaturali; il secondo fu lo sviluppo dello yōkaigaku, che con la sua classificazione degli yōkai iniziò a trasformarli da creature oscure e temibili ad una realtà spiegabile razionalmente; in ultimo, la

26 IWASAKI Ieo, Development of Mass Media in Japan and Its Background, in Japan Economic Foundation: Japan Spotligh Journal, Gennaio/Febbraio 2008

73 riorganizzazione politica degli spiriti locali in seguito alla nazionalizzazione e centralizzazione dello shintō come religione di stato. Tutto questo fu una politica condotta sotto l’ideale di bunmei kaika 文明開化, al fine di elevare il popolo ad uno status di civilizzazione ed illuminazione, e portarlo quindi fuori dall’epoca buia guidata dalla superstizione e dall’ignoranza.

Tuttavia, per poter affrontare il tema dell’horror in quest’epoca, più di prima è necessario tentare di definire cosa si intenda per genere horror, un problema che accumuna in realtà tutti gli studiosi dell’argomento. Per definire un qualcosa come “horror” non è un sufficiente un particolare soggetto o una certa ambientazione; cioè che lo rende tale è un insieme di elementi che instillano nello spettatore un certo tipo di emozioni, di sentimenti e di pensieri. Per Carroll, nell’orrore ha grande importanza il sentimento di ripugnanza, il quale però deve essere piacevole e intrigante27: un processo quindi simbiotico di repulsione e attrazione. Più generalmente, l’orrore è scatenato dalla percezione conscia o inconscia di una minaccia alla normalità, la sensazione di qualcosa che non è come dovrebbe essere e che può scatenare eventi che non dovrebbero accadere. In questo si ritrova anche il motivo per il cui il genere horror è così svariato e perché includa così tanti diversi elementi da rendere ardua una sua definizione. Un’ulteriore esempio può essere la distinzione tra horror e thriller: dove si trova il confine tra i due generi, entrambi ricchi di suspense e tensione? Il limite si trova proprio in quel confine che viene superato. Il genere thriller, come dice il termine stesso, fa rabbrividire lo spettatore, ma rimane confinato in un limbo di continua incertezza: le situazioni tendono perennemente tra normalità e anormalità, senza tutta via mai sfociare nel soprannaturale o nello splatter. La caratteristica del thriller è proprio quella di tenere sospeso nel dubbio chi lo guarda. L’horror, al contrario, si pone il preciso obiettivo di superare questa frontiera, dando vita a scene di chiara violenza o ad apparizioni di soggetti che trascendono il mondo umano, collocati naturalmente in un’ambientazione consona. Alla luce di ciò, si vuole ora porre attenzione alle differenze che intercorrono tra horror occidentale e horror asiatico, e soprattutto alla sentita e sovente necessità di

27 Noël CARROL, The Philosophy of Horror, or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York, 1990, pp. 33

74 creare un remake dei film giapponesi, anche nell’eventualità questi siano stati prodotti a soli pochi anni di distanza e quindi non motivati da ragioni qualitative. Le differenze, che possono apparire evidenti in alcune istanze, hanno in realtà radici molto più profonde di quello che sembra; nella maggior parte dei casi viene ritenuta necessaria una rielaborazione dell’insieme degli elementi per renderlo più adatto ad una cultura di tipo occidentale e poter dunque ottenere anche più successo tra gli spettatori. In generale, negli horror americani vi sono molte più ambientazioni luminose, scene di normalità e di conversazione tra personaggi, rispetto ad un film giapponese, il quale, solitamente, è caratterizzato proprio da ambientazioni cupe e da individui che interagiscono a malapena, oltre che da un generale senso di isolamento e abbandono. Gli elementi di cui si parla sono strettamente legati alla storia e alla cultura da cui originano, e verranno analizzati più da vicino nel corso del capitolo.

A tal fine, l’autrice ha sottoposto a dei cittadini giapponesi un sondaggio riguardante la loro concezione di horror, in particolare di horror giapponese ed occidentale: vi hanno partecipato 30 persone e le risposte si sono rivelate interessanti. Innanzitutto è stato chiesto di descrivere in poche parole il proprio concetto di “horror” e si è potuto osservare come tutte le risposte vertessero tra “spaventoso, terrificante, irrealistico, senso di disagio, incomprensibile”, tra cui anche “simboli o realtà raccapriccianti” ed “elementi di terrore che non si vedono nella quotidianità”; nella domanda successiva, il 57,7% dei votanti ha affermato di essere cresciuto con numerose storie di spettri e mostri. La terza domanda, invece, chiedeva se queste figure soprannaturali abbiano un qualche tipo di influenza sulla vita di tutti i giorni e il 50,4% ha risposto di sì, un dato tuttavia appena al di sopra della metà. Alcuni dei partecipanti hanno voluto sottolineare come la loro influenza sia moderata e che dipenda anche dall’ambiente in cui si è cresciuti; soprattutto, molti sono convinti che la loro esistenza fosse molto più sentita quando ancora non vi era un’istruzione diffusa tra il popolo e non si aveva modo di ricorrere alla scienza per spiegare i fenomeni più incomprensibili. A detta di alcuni, inoltre, oggi le storie di yūrei e yōkai stanno scomparendo sempre di più, anche solo rispetto a qualche decennio fa. In seguito si è voluto indagare la differenza di percezione dei giapponesi nei confronti degli yūrei e degli yōkai, chiedendo loro se li considerassero o meno elementi

75 d’orrore. In merito ai primi, il 74,9% dei partecipanti ha risposto in modo affermativo e a coloro che hanno risposto “No” è stato domandato di giustificare la propria scelta: dalle risposte si è appreso come non tutti vedano gli spiriti esclusivamente come esseri malvagi, ma anche come creature benigne di protezione e che solo le maledizioni e le possessioni siano considerate di natura puramente malefica. La paura verso gli yūrei è quindi soggettiva. Per quanto riguarda gli yōkai, invece, il 63% non li ritiene per nulla fonte di paura: questo perché essi vengono giudicati elementi di fantasia creati a scopo didattico per essere raccontati ai bambini. Non tutti gli yōkai sono malvagi e sono generalmente visti più come creature “strane” che come creature pericolose al pari degli yūrei. Inoltre, molti dei partecipanti hanno specificato di non credere negli yōkai, ma di non essere del tutto indifferenti agli spettri. Successivamente, si è voluto esplorare più nel dettaglio le origini e le caratteristiche della cinematografia horror giapponese vista dagli occhi dei giapponesi stessi. Nella domanda seguente è stato chiesto se si pensasse o meno che l’horror in Giappone avesse radici nella tradizione, come nello shintō, nel buddhismo o nel pensiero classico: il 44,4 % ha risposto “No”, mentre il 14,9% ha volutamente specificato di non essere in grado di rispondere. Il 40,7% di coloro che hanno risposto affermativamente ha invece motivato la sua scelta menzionando elementi storici, come i richiami alle narrazioni di epoca Edo, ed elementi religiosi, come i templi, i santuari, le maledizioni, i demoni, il mondo dell’aldilà o il fatto che lo spirito rimanesse anche dopo la morte. Un partecipante ha voluto precisare come, a sua detta, molti giapponesi non siano consci delle sfaccettature religiose presenti nella loro vita di tutti i giorni, ma che sarebbe difficile comprendere gran parte dei film horror giapponesi se non si conoscessero i fondamenti dello shintō e del buddhismo; e che, nonostante il tema degli spiriti sia comune in molte culture, quello delle pellicole giapponesi sembra rimandare alla visione buddhista di vita dopo la morte. A riguardo invece della correlazione tra i temi cinematografici e i momenti storici più salienti, è stato chiesto se si pensasse o meno che l’horror sia utilizzato anche per riflettere le preoccupazioni sociali di particolari istanze nella storia. Il 50% ha risposto negativamente, mentre alcuni tra il 19,3% di coloro che non sono stati in grado di rispondere hanno specificato come gli yōkai siano stati utilizzati in epoche passate per rappresentare periodi di guerra. La percentuale di ”Sì” è invece 30,7% e la risposta è

76 stata motivata affermando come sovente l’horror sia stato impiegato come espressione di ansie sociali, ad esempio quelle successive alla seconda guerra mondiale, o a problemi dilaganti quali il suicido o il bullismo scolastico. Di fronte alla richiesta di descrivere in poche parole le caratteristiche dell’horror giapponese, le risposte sono state pressoché similari: oltre che dalla presenza della tipica iconografia, i partecipanti vedono il soggetto come caratterizzato da un silenzio incombente, dall’irrazionale, dall’ambiguità; storie colme di invidia, risentimento, di una paura costante e che non si vede, ma allo stesso tempo portatori di una morale; film considerati realisti nella loro rappresentazione e per questo ancor più di stimolo all’immaginazione e alla fantasia dello spettatore, che prova un timore a volte incomprensibile. In ultimo, si è voluto investigare il pensiero dei giapponesi nei confronti dell’horror americano e delle sue eventuali differenze. In primo luogo, il 55,6% ha affermato di non aver mai avuto difficoltà nel comprenderlo, mentre il 33,3% solo qualche volta, spiegando che l’ostacolo principale è stata la simbologia religiosa, come nelle pellicole incentrate sugli esorcismi. L’81,5% ha di fatto confermato di ritenere gli horror giapponesi diversi da quelli americani e le motivazioni fornite sono varie e significative: oltre alla differenza strutturale e simbologica, la risposta più comune considera i film americani molto più diretti, aggressivi e mirati al jumpscare 28 rispetto a quelli giapponesi, ritenuti invece più profondi e graduali. Secondo i partecipanti, infatti, le pellicole americane sorprendono all’improvviso, ma allo stesso tempo le loro trame sono più semplici ed è più facile prevedere quando arriverà il colpo di scena; le pellicole giapponesi, al contrario, sono più complesse, intricate e sfaccettate, un processo di paura costante dove il culmine arriva progressivamente. Mentre i primi mostrano emozioni più semplici e mettono subito in chiaro che cosa deve incutere timore, nei secondi questo dipende soprattutto da chi guarda, da quali emozioni vengono instillate nello spettatore. I film giapponesi hanno un lato più psicologico, tentano di mostrare una realtà veritiera e quotidiana che viene contaminata da qualcosa di malvagio e al termine lasciano nel pubblico delle sensazioni spiacevoli e di disagio; le scene stesse mostrano ambientazioni cupe e malmesse, che rendono ancor più il senso di decadenza. I film americani sono invece più fisici e al posto di spiriti e

28 Letteralmente “salto di paura”, una delle tecniche più comuni nella filmografia horror.

77 maledizioni fanno solitamente uso di immagini violente e sanguinose, che colpiscono il corpo più che la mente. Molti dei commenti definivano altresì le pellicole d’oltreoceano come “rumorose, chiassose” e quelle giapponesi come “calme, silenziose”. Le conclusioni in merito al sondaggio verranno tratte a fine tesi, in seguito ad un’analisi complessiva dell’argomento.

2.1 CINEMA HORROR: L’UTILIZZO DEL TERRORE SULLO SCHERMO

Il cinema horror giapponese ha affrontato un’evoluzione intensa e molto singolare nel corso della storia, dando spesso vita a prodotti cinematografici unici nel loro genere. La prima cinepresa fu introdotta in Giappone nel 1897 e il cinema degli inizi mostrava ancora molti legami con il teatro, il quale fu usato come modello per molti film horror: la prima proiezione, ad esempio, avvenne nel 1899 nel teatro kabuki di Ginza. I primi film contenevano molti richiami sia alle opere teatrali che alle loro tecniche di rappresentazione, caratteristica che si può tuttavia ritrovare anche in opere di anni successivi: ne sono da esempio la pellicola Yotsuya kaidan 四谷怪談 (Il racconto spettrale di Yotsuya) del regista Shōzō Makino, rifacimento cinematografico del 1912 del noto racconto popolare, oppure l’uso di uno waki per avvisare i personaggi della presenza di uno spirito o di una maledizione, elemento presente anche in Ugetsu monogatari 雨月物語 del 1953, di Kenzo Mizoguchi. Ulteriori esempi dono Onibaba 鬼 婆 (Anziana demone, 1964, Fig. 66) e Yabu no naka no kuroneko 藪の中の黒猫 (Il gatto nero tra gli sterpi, 1968), entrambi di Kaneto Shindo. Il primo narra di una suocera e della nuora, la quale, dopo la morte in guerra del marito, si innamora di un disertatore. L’anziana ovviamente disapprova e per non farli incontrare indossa ogni notte un’armatura e una maschera da demone rubate ad un samurai: il piano inizialmente funziona, ma la maschera prende gradualmente possesso della donna fino al punto di non esser più rimovibile. Oltre agli elementi della maschera e dello oni, il film contiene poco dialogo, similarmente agli spettacoli nō, e si concentra soprattutto sulla performance. Il secondo, invece, narra di Yone e Shige, due donne violentate e uccise da dei soldati e che si tramutano in spiriti dopo che un gatto lecca i loro

78 cadaveri: in una delle scene del film, Yone è vista ballare una danza nō. Anche la tipica lunga ripresa frontale, la quale seguiva una rigida continuità, derivava dal teatro.

Onibaba (Figura 66)

Un altro importante elemento in comune fu la figura del benshi 弁士, ovvero del narratore: invece di utilizzare dialoghi scritti sullo schermo tra una scena e l’altra, in Giappone vi era una persona in carne ed ossa fuori dal palco che narrava la storia interpretando ciascuno dei personaggi, anche nel ruolo di onnagata 女方. I benshi divennero così popolari da essere considerati vere e proprie celebrità, tanto che molti spettatori andavano al cinema più per la fama del narratore che per guardare il film; a prova di questo, il Giappone fu uno dei paesi che attese più tempo prima di adottare il suono. È infatti importante ricordare che il cinema giapponese degli inizi, e fino agli anni quaranta, era ancora muto e che si trattava di una novità ancora in fase di sperimentazione; è quindi comprensibile come inizialmente vi fosse uno stretto legame con le opere e le tecniche teatrali, arti che avevano segnato la società giapponese per secoli, e che il distacco avvenne gradualmente e di pari passo all’espansione dell’arte cinematografica. Anche la divisione del cinema del tempo seguì la tradizione kabuki e venne infatti diviso in due generi, jidaigeki 時代劇 e gendaimono 現代劇: il primo era ambientato nell’antica capitale di Kyoto, caratterizzata da templi, castelli e giardini, mentre il secondo aveva luogo nella Tokyo moderna, con le sue peculiari luci al neon e alti palazzi. Persino gli attori che recitavano nei film avevano radici nel teatro: gli attori di kabuki venivano assunti per i jidaigeki, mentre gli attori shinpa 新派, un tipo di teatro melodrammatico moderno, per i gendaimono. Gli artisti teatrali furono di fatto le prime celebrità del grande schermo.

79 La successiva nascita e sviluppo degli studi cinematografici negli anni venti e trenta permise una diffusione maggiore dei film, ed un conseguente maggiore guadagno; parallelamente sparirono anche i benshi e le metodologie di ripresa si evolsero in scene più complesse e angolazioni più movimentate. Il primo studio fu Nikkatsu 日活 nel 1912, seguito poi da Shōchiku 松竹 nel 1922, originariamente un teatro kabuki e che divenne poi uno degli studi più conosciuti, associato a registi come Yasujiro Ozu ed Akira Kurosawa: verso la fine degli anni venti le due compagnie avevano pressoché il monopolio dei film in Giappone, arrivando a competere direttamente con Hollywood per quanto riguardava la proiezione nazionale. Anzi, le barriere linguistiche e culturali fecero spesso sì che i film occidentali fossero meno visti rispetto a quelli locali. Nel 1936 emerse lo studio Tōhō 東宝, lo stesso che produsse Godzilla, e il 1956 vide invece apparire Tōei 東映. I quattro studi sono attivi ancora oggi. Nel 1917 vennero introdotte delle normative per tenere sotto controllo il contenuto dei film: tra le regole, essi non dovevano mettere in cattiva luce l’imperatore, mostrare oscenità o violenza criminale, e nemmeno relazioni intime inappropriate. Nel 1925 il controllo del decoro cinematografico e il rispetto delle norme venne direttamente affidato al Ministero dell’Interno.

L’epoca più prospera e prolifica della filmografia giapponese si ebbe tuttavia dagli anni cinquanta, arrivando a raggiungere la quota di cinquecento film all’anno; nel 1951 fu inoltre proiettata la prima pellicola a colori. È qui però importante menzionare una serie di avvicendamenti avvenuti in epoca Meiji la cui influenza fu percepita per molto tempo nella cinematografia. Innanzitutto, la restaurazione Meiji portò con sé sentimenti contrastanti: il profondo contatto con l’occidente condusse dalla fine del diciannovesimo secolo ad un’ideologia di nazionalizzazione del paese e di esaltazione di tutto ciò che era considerato autoctono; la costruzione di quest’identità unica e unita si opponeva però a quella “dell’altro”, ovvero dello straniero, un elemento che non si poteva più in alcun modo evitare. Il termine utilizzato per riferirsi a loro era infatti ijin 異人, “persona diversa”, usato in genere verso l’uomo occidentale bianco. Un altro movimento che interessò l’epoca fu l’ideologia socialista e la nascita di partiti di sinistra, i quali si svilupparono soprattutto con il progresso

80 dell’industrializzazione e lo scontento della forza lavoro. Questa fu molto probabilmente l’ideologia che ispirò e promosse la nascita della cosiddetta Nihon nuberu bagu 日本ヌーベルバーグ (Japanese New Wave), la versione giapponese della French New Wave e un nuovo tipo di filmografia incentrata sulla trasgressione e l’anti-conformismo: i pinku eiga facevano parte di questa categoria e, in particolare, sovvertivano il romanticismo trasformandolo in desiderio carnale, rappresentato attraverso la perversione e atti di violenza. A fianco dello Ero Guro e della Japanese New Wave, dagli anni sessanta si sviluppò anche il movimento Angura アングラ, abbreviazione di “underground”, un movimento associato alla completa opposizione alla modernità. Un ultimo grande fattore d’impatto, oltre il periodo della guerra, fu l’occupazione americana dal 1945 al 1952, un evento che portò ad una costante tensione tra ciò che era il Giappone pre-moderno e ciò che era ora diventato con l’influenza occidentale e i suoi nuovi valori democratici. Gli statunitensi bandirono inoltre anche i film giapponesi che trattavano di lealtà, onore e sacrificio, in favore di pellicole più “democratiche” in linea con i modelli del cinema hollywoodiano. Vennero promossi anche il romanticismo e scene di baci passionali, per spronare i giapponesi a rendere più pubblico il privato e mostrarsi quindi meno riservati e inscrutabili agli occhi degli occidentali. Il periodo che va dagli anni cinquanta vide anche la rappresentazione su schermo di quello che si può considerare il più grande trauma della storia giapponese, ovvero la tragedia delle bombe atomiche. Alcuni studiosi, come Noel Carrol e Yanagita Kunio, sono concordi nell’affermare che i film horror proliferassero soprattutto in momenti di crisi o di ansia economica, politica o sociale, in quanto permettevano l’espressione del sentimento di impotenza e di nervosismo nei confronti della realtà circostante. Le arti hanno da sempre rappresentato uno dei modi più diretti per riprodurre le emozioni e le percezioni non solo dell’autore stesso, ma anche dell’ambiente attorno: il cinema si rivelò uno dei meccanismi più adatti per trasmettere i sentimenti del tempo, le trasformazioni che stava subendo la società giapponese, argomentazione che rimane valida tutt’oggi. Questi fungevano da ispirazione e venivano spesso rimodellati in figure allegoriche non sempre semplici da cogliere, ma che possedevano un grande impatto. In questo periodo, dunque, le principali tipologie di film horror che si potevano osservare erano di due tipi: kaidan, incentrate su spiriti onryō, simbologie religiose e influenze teatrali,

81 o apocalittiche, un genere particolarmente adatto per ritrarre la diffusa ansia verso l’industrializzazione, le armi di distruzione di massa e il cambiamento. Il principale esempio della seconda categoria, e uno del film più rappresentativi del periodo, fu Gojira ゴジラ (Godzilla), la celebre opera di Ishirō Honda del 1954. Nonostante sia generalmente considerato un daikaijueiga 大海珠映画 (film di mostri giganti) e non una pellicola horror, Gojira contiene elementi assimilabili a quest’ultima categoria, come la figura dell’antica creatura abitante i mari, affine nelle sue connotazioni ad uno yōkai, e i cupi sentimenti di paura e distruzione trasmessi durante il film. La trama di per sé è già un chiaro riferimento agli eventi storici da poco avvenuti: la pellicola narra di un mostro marino simile ad un dinosauro, Gojira (Fig. 67), che è inizialmente causa della scomparsa di varie imbarcazioni al largo delle coste giapponesi.

Gojira (Figura 67)

Un paleologo scopre che la creatura è un’animale sopravvissuto all’estinzione e che, a causa delle radiazioni rilasciate da esperimenti nucleari condotti in acqua, è divenuto indistruttibile sviluppando anche l’abilità di lanciare raggi distruttivi dalla bocca. Gojira approda infine sulla baia di Tokyo, riducendo la città in fiamme e distruzione: il lieto fine si avrà solo con l’invenzione di Serizawa, uno scienziato, il quale è riuscito ad ideare una bomba capace di disintegrare particelle di ossigeno. L’uomo sarà in grado di uccidere il mostro in una lotta subacquea, dove sacrificherà tuttavia la sua stessa vita per non lasciare che una simile arma possa cadere nelle mani sbagliate, come era già avvenuta con l’energia nucleare. Oltre all’evidente riferimento alle bombe atomiche, un’ulteriore allegoria è la venuta stessa di Gojira, una forza della natura improvvisa e inarrestabile che può essere paragonata ai sentimenti dei giapponesi del tempo verso la seconda guerra

82 mondiale. Si può notare, infatti, come le prime scene del film ritraggano acque scure frastagliate da forti onde; l’inquadratura scende poi su una nave, i cui marinai siedono tranquilli accanto a dei violinisti che suonano in sottofondo, una tranquillità che viene improvvisamente spezzata in modo brutale da un’esplosione di grosse proporzioni. Queste scene sembrano ritrarre una serie di associazioni tra bombe nucleari, la natura e l’uomo, un argomento in realtà molto familiare ai giapponesi dell’epoca: erano noti gli esperimenti nucleari condotti nelle acque da parte dell’esercito americano e nel Marzo 1954 destò gran scalpore l’incidente che coinvolse un peschereccio rimasto colpito da una di queste sperimentazioni, con la conseguente perdita di gran parte dell’equipaggio per avvelenamento da radiazioni. Anche le immagini apocalittiche di Tokyo distrutta dal passaggio di Gojira, una terra desolata ridotta in fiamme, macerie e feriti, è un diretto collegamento ai bombardamenti della guerra, se non ai postumi delle bombe atomiche stesse. Lo stesso fatto che Gojira fosse indistruttibile è una probabile rappresentazioni del sentimento di sconforto del tempo verso il presente e il futuro: nella cultura giapponese si era sempre avuto timore degli yōkai, ma allo stesso tempo la tradizione insegnava altresì come fosse possibile ingannarli e vincerli. Gojira, al contrario, non aveva punti deboli, un simbolo della forte incertezza che si era creata a fronte di tutti i cambiamenti che il Giappone stava subendo, e in contrasto con la sicurezza che dava invece il ricordo del periodo pre-moderno. L’invincibilità della creatura può anche essere interpretata come la distruzione del wa 和, la rottura dell’armonia, come l’avvento di una nuova epoca che non si riesce né a comprendere, né a fermare: la figura di Gojira è un susseguirsi di immagini associate all’impuro, alla decadenza e alla morte. Il film, quindi, è una rappresentazione continua del caos abbattutosi all’improvviso sulla nazione e della distruzione arrivata con esso, il quale si conclude con una lezione morale di pace, un sacrificio di vita perché un evento così non riaccada mai più: sarà proprio il sacrificio di Serizawa che riporterà la luce, l’atto di onore di un eroe al servizio della nazione e che ha creduto nei suoi valori. Un sistema di valori che si spezza e si riafferma. Un altro importante film dell’epoca, solitamente considerato il prototipo dell’horror giapponese incentrato sugli spettri, è Ugetsu monogatari 雨月物語 (1953) di Kenji Mizoguchi, ispirato ai racconti Asaji ga yado 浅茅が宿 (La casa tra gli sterpi) e Jasei no

83 in 蛇性の婬 (La passione del serpente) dell’omonimo libro di Ueda Akinari29. La pellicola non è propriamente un film dell’orrore come si può intendere oggi, ma pone le fondamenta sia per i successivi kaidan pinku eiga 怪談ピンク映画 , che per personaggi e temi chiave che possono essere oggi riconosciuti dal pubblico contemporaneo. La storia narra di due uomini, Genjurō e Tobei, che abbandonano e trascurano le mogli per inseguire le loro ambizioni, ovvero la ricchezza per il primo e il divenire samurai per il secondo. Nel frattempo le donne, lasciate sole a loro stesse, vengono entrambe assalite da dei soldati. Quando Tobei fa finalmente ritorno a casa, apprende che la moglie è stata costretta a lavorare come prostituta. Genjurō, nel frattempo, incontra Wakasa, una ricca e bella signora interessata ai suoi prodotti: invitato nella sua dimora, l’uomo cede alla seduzione e al materialismo, e accetta di sposarla. In varie scene la sua vita agiata viene messa a contrasto con la povera e buia abitazione dove dimorano la moglie e il figlio. Questo fino a che Genjurō non incontra un prete, il quale lo avvisa che la donna è uno spettro e lo libera dalla maledizione. L’uomo fa infine ritorno a casa, dove supplica e riceve il perdono della moglie; ma dopo una notte assieme alla famiglia, la mattina successiva scopre che nulla di quello che aveva visto era reale: moglie e figlio erano deceduti molto tempo prima in seguito alle violenze dei soldati e anch’essi erano divenuti spettri come Wakasa. Oltre alla figura dei fantasmi, i temi significativi in questo caso sono la figura della donna e il sistema sociale di doveri, soprattutto dell’uomo verso di essa: quest’ultimo argomento è spesso centro dei film di Mizoguchi, in cui raramente i suoi personaggi cercano di opporsi al sistema; al contrario, viene solitamente mostrata la loro sofferenza nel sottostargli e le conseguenze di quando ciò non avviene. Tuttavia, il criticismo del regista verso questo ordine sembra aver contribuito in modo rilevante ad alleggerire le donne dalla posizione di “cittadine di seconda classe” in cui si trovavano. Nel caso di Ugetsu monogatari, le pene delle due mogli sono state causate dalle mancanze dei mariti verso i loro doveri morali e familiari, dalla prevalenza dell’egoismo sull’altruismo. In un’intervista con Schilling, l’attore Juzo Itami afferma che la caduta del sistema ie ebbe conseguenze catastrofiche sulla società giapponese del dopoguerra e che produsse una generazione di persone che vivevano solamente

29 Si rivedano pp. 15-16 di questa tesi per maggiori informazioni sulla trama del testo.

84 per i loro desideri. Itami lo ritiene dovuto alla sconfitta del 1945 e al conseguente disfacimento della tradizione30. Il film sembra incarnare proprio questo concetto e pare suggerire la profonda necessità di un ritorno ai valori tradizionali: Genjurō è la rappresentazione della decadenza e del degrado, della perdita dei valori familiari a favore di una vita egoistica e senza principi. Wakasa è invece l’incarnazione della modernità e del consumismo, tanto apparentemente bello quanto effimero e pericoloso; nel film è rappresentata con abiti chiari che le coprono tutto il corpo, equiparabile alla classica iconografia degli yūrei di epoca Edo (Fig. 68).

Wakasa (Figura 68)

Gojira e Ugetsu monogatari raffigurano dunque la relazione tra il pre-moderno e il moderno, la rottura avvenuta tra i due periodi, ma questi due esempi sono solamente i precursori di una serie di pellicole ispirata dagli stessi sentimenti. Dagli anni cinquanta fino agli anni sessanta, infatti, furono prodotti vari film ambientati principalmente in epoca Edo e incentrati sulla figura di samurai o rōnin che violano il loro codice di valori per motivazioni materialistiche, ed è generalmente una donna colei che subisce le peggiori conseguenze. Questa categoria viene chiamata da Balmain “storie gotiche Edo”31 : le pellicole erano tendenzialmente di carattere tradizionale, poste a rinforzare i valori conservatori, con la differenza che qui le donne non erano altrettanto facili al perdono come nei film precedenti. È significante notare come il Giappone non fu comunque l’unico ad utilizzare il gotico per trasmettere qualcosa, e l’America e l’Inghilterra ne furono i principali esempi occidentali. Dal diciottesimo secolo la letteratura gotica attraversò momenti di grande prosperità, che in Inghilterra ebbe il

30 Mark SCHILLING, Contemporary Japanese Film, Weatherhill, New York, 1999, pp. 80 31 Colette BALMAIN, Introduction to Japanese Horror, Edinburgh UP, Edinburgh, 2009, pp. 65

85 suo culmine in epoca vittoriana, e allo stesso modo del Giappone il fantasma o l’ignoto non erano utilizzati con il puro scopo di spaventare, ma nella maggior parte dei casi venivano usati come raffigurazioni della realtà circostante o come critica verso di essa. La scrittrice Elizabeth Gaskell (1810 – 1865), per citare un esempio, è nota per i suoi ritratti dettagliati della società in epoca vittoriana e soprattutto del ruolo della donna. Nel racconto gotico da lei scritto e intitolato “The Old Nurse’s Story” (1852) viene vista in prima persona la vita delle donne in quell’epoca: nonostante non vi sia mai una critica diretta alla società, il lettore riesce facilmente a percepire come vi sia qualcosa di erroneo e triste nel modo in cui i personaggi femminili conducono la propria vita; lo spettro stesso della narrazione è frutto di queste deformità sociali. In Giappone il gotico non rappresentava solamente un meccanismo di trasgressione o di protesta, ma, paradossalmente, era soprattutto un metodo di riaffermazione dei valori sociali ed etici. Il gotico di Edo era una combinazione di elementi religiosi e valori morali, caratterizzati in primis da un concetto che diventerà fondamentale nell’horror giapponese, ossia quello di on 恩. Lo on è un senso di dovere e gratitudine che ogni persona dovrebbe provare verso coloro da cui ha ricevuto amore, gentilezza o beneficio, ma non si limita esclusivamente alla consapevolezza di riconoscere il debito: esso comporta l’assoluta necessità di ripagare ciò che è stato donato, se non in vita allora in morte. Questo vale sia nei confronti dei vivi per chi è deceduto, ma soprattutto nei confronti dei morti per chi è ancora al mondo, da cui deriva anche l’estrema importanza della venerazione degli antenati, fondamentale per dar modo al defunto di proseguire il suo viaggio nell’aldilà e divenire infine un kami. Nel pensiero giapponese il mondo dei vivi e il mondo dei morti esistono simultaneamente e sono strettamente collegati: se una persona perisce senza appropriata sepoltura, o ancorata a sentimenti violenti e negativi, anche il suo spirito non potrà andare oltre. L’ambientazione del gotico Edo è importante, in quanto un chiaro riferimento all’ideologia che vi è alle spalle: dagli anni cinquanta il Giappone sperimentò un’intensa modernizzazione e una grande crescita economica; nel 1968 il PIL giapponese era secondo solamente a quello statunitense e tale prosperità portò con sé lo sviluppo di un’importante cultura consumistica e di una grossa migrazione verso la città, dove la famiglia standard era costituita da un padre lavoratore e una madre casalinga che si prendeva cura dei figli. In Giappone stava penetrando una forte influenza occidentale e

86 parallelamente continuò a rinforzarsi il discorso nazionalista. Nel 1961, Yukio Mishima pubblicò Yūkoku 憂国 – tradotto come “Patriottismo”, nonostante il termine indichi più un senso di preoccupazione verso la nazione – una racconto breve che voleva in realtà promuovere il codice del bushidō; del 1970 Mashima commise seppuku dopo un discorso pubblico sul ritorno del potere all’imperatore. Il pensiero dietro ai film gotici Edo era paragonabile a questo e l’ambientazione in epoca pre-moderna, dove i samurai stavano diventando obsoleti, è un’allegoria di un passato che si stava trasformando: il guerriero, la cui figura incarnava i valori più profondi e che avrebbe dato la vita per rispettarli, rappresentava i giapponesi e allo stesso modo dei giapponesi moderni stava dimenticando ciò che lo contraddistingueva. In questi film, generalmente, il samurai o rōnin seguiva inizialmente un percorso opportunista e le scene esternavano questo senso di corruzione interna con immagini di sangue, reclusione, luci soffuse e riprese lunghe; al contrario, se questi sceglieva di redimersi vi era un chiaro cambiamento nella scenografia. Va menzionata anche l’importanza dell’acqua nell’horror giapponese: nonostante sia un elemento fondamentale per la vita e usata anche nei rituali di purificazione, l’acqua nelle storie d’orrore assume connotazioni negative. Essa è collegata agli spiriti perché canale principale che li mette in comunicazione con il mondo umano, come nella tradizionale festa del Bon, e in alcuni casi rappresenta anche l’impurità associata al momento della nascita; in generale, l’horror giapponese tende ad accostarsi più a luoghi umidi e bagnati che a luoghi secchi, come solitamente accade nelle pellicole occidentali, caratteristica forse legata anche al clima umido e afoso dell’estate, tempo in cui avviene il Bon e quindi generalmente accomunata all’apparizione di spiriti. Il regista più celebre in questa categoria fu Nabuo Nakagawa e il suo esempio più significativo è il riadattamento del 1959 di Tokaido yotsuya kaidan, che mantenne lo stesso nome. La storia, nonostante sia ormai nota, è un archetipo dell’horror giapponese e rappresenta inoltre lo sviluppo del pensiero nel tempo in parallelo alla continuazione della tradizione. Il film inizia con una lunga ripresa di un palco di kabuki su cui una figura vestita di nero canta i doveri dei mariti verso le moglie e dei genitori verso i figli. La trama rimane la stessa – il rōnin Iemon innamorato di Oiwa, la bella figlia di un ricco mercante – ed è divisa in tre sezioni, ciascuna segnalata da una graduale chiusura sfumata verso il nero: la prima è l’incipit iniziale e termina con

87 l’omicidio del padre di Oiwa e del fidanzato della sorella; la seconda è il climax e si incentra sugli eventi che portano alla morte di Oiwa, e alla conseguente uccisione accidentale di Ume e di suo padre; l’ultima è la risoluzione finale, in cui Oiwa e Takuetsu ottengono la loro vendetta. Il regista utilizza vari metodi per trasmettere le differenze di status social o la corruzione del personaggio, come sezioni verticali separate o oggetti che nascondo in parte Iemon, conferendogli un’aria sospetta. Nella storia viene spesso mostrata la mancanza di morale e di compassione di Iemon, soprattutto nei confronti di moglie e figlio; nella scena di morte di Oiwa l’uso di ombre di steli di bambù contro Iemon e di fuochi d’artificio enfatizza l’orrore di quello che è appena accaduto. Le cicatrici sul volto della donna rappresentano l’impurità della morte, ma il veleno è solo secondario alla potenza delle emozioni che ha scatenato. Il suo fantasma perseguiterà Iemon fino alla vendetta finale e nel film vengono utilizzate luci rosse e verdi, assieme a nuvole di fumo, per rendere l’idea del mondo ultraterreno da cui proviene. L’atto finale si svolge nel Tempio dei Serpenti, altro simbolo dal forte significato; Oiwa riemerge da uno stagno di sangue e acqua sporca, un’allegoria con l’impurità associata alla nascita e alla fuoriuscita dall’utero. L’ultima scena mostra la donna, ritornata alla sua precedente bellezza e circondata da una luce bianca (Fig. 69), mentre tiene tra le braccia il figlio, in quella che sembra una rappresentazione della madre Kannon (sanscrito: Avalokiteśvara) e della sua sofferenza.

Oiwa con il figlio (Figura 69)

Un altro esempio è Kaibyō otama ga ike 怪猫お玉が池 (Il mostro felino dello stagno di Otama, 1960) di Yoshihirō Ishikawa, suddiviso tra presente e passato: nel presente,

88 una coppia di innamorati si perde nel bosco ed entra in contatto con la maledizione di un mostro felino. Riusciti a scappare, incontrano un prete – il personaggi waki – che li avvisa di portare addosso il segno della morte e procede con un esorcismo; nel mentre, racconta loro la storia della maledizione. Il film fa un salto al racconto di due amanti di epoca Edo, figli di case nemiche contrarie alla loro unione: la rivalità porterà alla morte di varie persone e all’uccisione della donna, la quale ritornò in vita come bakeneko 化 け猫. La maledizione viene spezzata una volta che il prete completa i rituali appropriati di sepoltura e la coppia in epoca moderna è ora libera di sposarsi, al contrario degli amanti di periodo Edo che possono restare uniti solamente in morte. Un ulteriore esempio ancora è Kwaidan 怪談 di Masaki Kobayashi (1964), diviso in quattro storie basate sui racconti kaidan di epoca pre-moderna. Nella prima, Kurokami 髪黒 (Capelli neri), un samurai in difficoltà economiche divorzia la fedele moglie per sposare la figlia di un ricco signore; quando capisce che la nuova donna non è adatta a lui, fa ritorno a casa. Tuttavia, mentre l’abitazione pare distrutta e abbandonata, all’interno vi trova la moglie identica a come l’aveva lasciata e vi passa la notte insieme. Al risveglio scopre di essere stato in compagnia di uno scheletro dai capelli bianchi, i quali si tramutano in lunghi capelli neri che lo uccidono strangolandolo, in connessione alle credenze sui capelli delle donne.

Oiwa rappresenta l’archetipo della donna assetata di vendetta che si ritrova in molti film horror moderni e contemporanei e sfrutta anche il nuovo concetto nazionalista del primo periodo Meiji di ryōsaikenbo 良妻賢母 (buona moglie, saggia madre), in cui si promuoveva la figura di una donna e madre attenta alla cura dei figli, del marito e della casa, per poter soprattutto crescere dei futuri soldati forti e valorosi che avrebbero contribuito a rendere grande il Giappone. Nel 1868 furono addirittura introdotte leggi contro l’interruzione di gravidanza incentrate attorno ad un nuovo discorso religioso mirato a colpevolizzare la donna: se prima il bimbo veniva dimenticato e lo spirito scompariva, ora era invece divenuto un mizuko 水子 (bimbo d’acqua, inteso come liquido amniotico), una figura triste e solitaria che si sarebbe scagliata contro tutti i membri della famiglia se la madre non avesse rispettato i rituali di venerazione previsti. Si creava così un circolo vizioso in cui la donna provava

89 angoscia sia per il figlio che per i membri ancora vivi, provocando in lei un forte senso di colpa e di fallimento. La madre era quindi divenuta una figura sacra, figura che era tutta via caratterizzata da una natura contradditoria sia pura che impura. Inoltre, col passare del tempo, la vendetta delle donne divenne una vendetta contro tutto il sistema patriarcale e non più contro un solo uomo. In Yabu no naka no kuroneko (1968), trama menzionata in precedenza 32 , i cadaveri di due donne violentate e uccise da dei soldati vengono leccati da un gatto, trasformandoli così in fantasmi guidati dal puro scopo di uccidere samurai per vendicare la propria morte. I due spettri non si limitano quindi ai loro assassini, ma a qualsiasi guerriero capiti sulla loro strada, fatto che le metterà contro lo stesso figlio e marito divenuto nel frattempo un samurai. Un’ultima menzione va fatta in riguardo agli spettri di genere maschile: come nella letteratura e nelle illustrazioni, anche nel cinema i fantasmi degli uomini hanno sempre avuto una presenza molto più rara rispetto a quelli femminili, apparendo generalmente in ruoli secondari o come spettri di guerrieri scomparsi da lungo tempo. Un esempio di successo, tuttavia, è Ai no bōrei 愛の亡霊 (Tradotto ufficialmente come “L’impero della Passione”), un pinku eiga del 1979 diretto da Nagisa Ōshima e di produzione franco-giapponese. Il film è ambientato nel 1895, un periodo cruciale nella storia giapponese, dopo la restaurazione del potere all’imperatore e la consacrazione del Giappone allo status di potenza mondiale in seguito alla guerra con la Cina. Esso narra di un amore proibito tra una donna e un uomo più giovane, e della gelosia di quest’ultimo verso il marito di lei: il marito, un arduo lavoratore, rappresenta i valori pre-moderni, mentre il bello ed aggressivo giovane, un ex-soldato, raffigura la modernità. La coppia decide quindi di uccidere l’uomo e gettano poi il suo cadavere all’interno di un pozzo, da cui ne riemergerà lo spettro che perseguiterà i due fino al loro arresto. Il fantasma, tuttavia, non appare nell’iconografia tipica utilizzata per gli yūrei femminili: egli ha sembianze apparentemente normali, probabilmente a significare come non avesse ancora accettato la propria morte. Questo è chiaro in un scena in cui l’uomo, già defunto, appare di sera in risciò davanti alla moglie terrificata chiedendole di tornare a casa insieme, circondato da una nebbia sparsa. Il suo

32 Si veda pp. 78 di questo scritto

90 fantasma verrà placato solo dalla vendetta, che consisterà nella violenta fustigazione pubblica della coppia davanti ad una folla di spettatori. Finora si è presentato in linea piuttosto generale lo sviluppo del cinema horror in Giappone dai suoi inizi, tenendo in considerazione le conseguenze della restaurazione Meiji, della guerra, della modernizzazione e industrializzazione, e dell’apertura del paese al mondo, con le svariate problematiche inerenti. Tuttavia, il naturale sviluppo della società in una forma sempre più complessa, l’arrivo della tecnologia e il continuo sviluppo del cinema internazionale, ha portato ad una proliferazione di film e tematiche sempre più varie. In particolar modo dalla fine degli anni ottanta apparvero pellicole in grado di stimolare il terrore nello spettatore in un modo notevolmente più profondo ed inconscio rispetto agli anni precedenti. Per poter esaminare al meglio gli esempi cinematografici che si menzioneranno di seguito, è bene prima analizzare più nel dettaglio le caratteristiche principali di questi film e i sentimenti che intendevano rappresentare. Ciò che si osserverà negli esempi proposti da qui in poi, nella loro struttura basilare scenografica e ritmica, è riassumibile in cinque principali caratteristiche: distopia, alienazione, vuoto, isolamento e repressione, elementi che aiuteranno la comprensione delle opere sia da un punto di vista strutturale che culturale. Un ulteriore sentimento che spesso appare nelle pellicole è quello che si potrebbe riassumere in shikata ga nai 仕方が ない, ovvero di quieta e triste rassegnazione nei confronti della realtà, di quello che ormai è.

Un ennesimo episodio della storia giapponese fu lo scoppio della cosiddetta bolla economica negli anni novanta, un evento di forte impatto sulla popolazione, e fu a partire da quel periodo che iniziò ad essere prodotto un numero sempre maggiore di film visivamente violenti: anche se non circoscrivibili in un unico genere, essi avevano spesso a che fare con la tecnologia e con particolari elementi moderni, e potevano trattare di cannibalismo, zombie o essere semplicemente splatter. I più noti e rappresentativi tra questi sono Vāsasu ヴァーサス (Versus, 2000) di Ryuhei Kitamura e Stēshī ステーシー (Stacy, 2001) di Naoyuki Tomomatsu. Il primo è ambientato in una foresta giapponese e in una realtà in cui esistono seicentosessantasei portali nascosti e sparsi nel pianeta, che collegano la Terra ad un mondo oscuro. Qui due prigionieri, assieme a degli yakuza, combattono un’orda di zombie e un personaggio

91 chiamato L’Uomo, il quale vuole aprire i portali per ottenere il potere dell’oscurità. Il film si divide tra il presente e il passato, ambientato nel decimo secolo, e contiene molti elementi tradizionali come le rinascite karmiche. La pellicola finisce con immagini apocalittiche del pianeta in rovina novantanove anni dopo la battaglia. Il secondo film, invece, tratta di un particolare virus che colpisce le ragazze tra i 15 e i 17 anni, trasformandole prima in uno stato euforico e poi in zombie denominati “Stacy”. Per far fronte al dilagante problema, vengono istituite delle squadre ufficiali di uccisione chiamate “Romero” e, nel frattempo, gli scienziati cercano una soluzione al fenomeno. La pellicola assume tratti spesso intenzionalmente comici ed è quella che più rende esplicita la connessione tra zombie e consumismo, oltre a far largo uso di elementi stereotipici della sempre più affermata cultura shōjo 少女, come le comuni uniformi scolastiche (Fig. 70).

Una “Stacy” in uniforme scolastica (Figura 70)

L’esempio citato di seguito è un modello estremamente peculiare dell’evoluzione del messaggio cinematografico nella filmografia giapponese di quel periodo: si parlerà di Megyaku: Naked Blood 女虐: NAKED BLOOD (Splatter: Naked Blood, 1996), diretto da Hisayasu Satō. La pellicola è estremamente singolare nel suo genere e ha ricevuto l’attenzione di un gran numero di studiosi, oltre ad essere spesso paragonata ai film del regista canadese David Cronenberg, celebre per il suo body horror33; considerata da alcuni come un ibrido tra horror e sci-fi, da altri come un film di cannibalismo, è stata definita da Hunter come la probabile fusione finale del viscerale, dello

33 Una tipologia di cinema horror che unisce il terrore provocato dalla mutilazione e dalla contaminazione della carne con elementi psicologici. Alcuni celebri film di Cronenberg sono La Zona Morta (1983) e Inseparabili (1988).

92 psicopatologico e del metafisico34. Il film gira attorno ad un siero chiamato “My Son” creato da Eiji, giovane figlio prodigio di una dottoressa. Il ragazzo vuole seguire le orme del padre, uno scienziato scomparso quando lui era ancora bambino e che lavorava alla ricerca di migliorare il mondo, e crea quindi un siero in grado di trasformare il dolore in piacere. La sostanza viene testata in segreto su tre ragazze ignare dell’esperimento: due di loro vengono semplicemente indicate come Ragazza Golosa e Ragazza Vanitosa, mentre la terza, Mikami, attrae particolarmente il ragazzo. La scene più celebri del film riguardano proprio le morti delle due ragazze senza nome, in special modo la prima, direttamente collegate al loro modo di vivere: Ragazza Golosa è una ragazza la cui principale fonte di gioia deriva dal cibo; ama cucinare e sperimentare piatti diversi, e sarà così che entrerà in gioco il siero. Mentre si trova nella sua cucina, intenta a preparare del cibo con le mani sporche di pastella per il tenpura, la ragazza viene colpita da alcune gocce di olio bollente, scoprendolo piacevole. Decide così di immergere entrambe le mani nella padella d’olio e, una volta cotte, inizierà a mangiare le sue stesse dita. Dopodiché, nell’esaltazione del momento, si infilza una forchetta nell’occhio, estraendolo e consumandolo, e continuando a cibarsi del suo corpo (Fig. 71). Donna Vanitosa perirà invece di auto-adorazione: intenta ad ammirarsi allo specchio, mentre osserva come le starebbero indosso un paio di orecchini, inizia a trafiggersi con vari gioielli ed accessori femminili.

Autocannibalismo di Ragazza Golosa (Figura 71)

La terza donna, Mikami, è una ragazza singolare che soffre d’insonnia e per riposare la mente si collega ogni notte ad una pianta di cactus tramite un paio di occhiali

34 Jack HUNTER, Eros in Hell: Sex, Blood and Madness in Japanese Cinema, Creation, London, 1998

93 particolari simili a strumenti di realtà virtuale. Su di lei il siero ha effetti ben diversi: invece di provare piacere per il suo dolore, gode per il dolore degli altri. Sarà lei, infatti, a scoprire i corpi morenti delle altre due ragazze e a porre fine alla loro vita; Mikami ucciderà in seguito anche la madre di Eiji e lo stesso ragazzo, dopo una notte d’intimità dipinta in scene futuristiche e cibernetiche, e dopo avergli prima somministrato una dose di MySon. Le immagini finali mostrano Mikami assieme ad un bimbo, presumibilmente figlio di Eiji, in uno scenario apocalittico e desertico: la donna si allontana in moto assieme ad un contenitore, che sta utilizzando per spruzzare il siero in tutto il Giappone. Il figlio la riprende con una videocamera (Fig. 72 e 73).

Rika e il figlio (Figura 72) Scenario apocalittico (Figura 73)

Non è semplice definire in quale genere può essere inserito Megyaku: Naked Blood, ma classificare una pellicola non è sempre essenziale; il film gioca con l’estremo, al limite del nonsense, per riprodurre sullo schermo tematiche ben più reali e contemporanee. Il film di Satō rivela una miriade di ansie politiche e collettive in associazione con l’apparenza del corpo giapponese fisico e sociale; un corpo che viene posto in uno spazio colmo di potenzialità di trasformazione e di nuovi confini. È forse quindi corretto definire Megyaku: Naked Blood come body horror. La pellicola vuole inoltre esplorare il tema della trepidazione generale in risposta al rapido sviluppo della tecnologia, e ne sono dimostrazione anche gli elementi presi in prestito dal genere cyberpunk raffiguranti computer, video e realtà virtuali utilizzati in un contesto futuristico distopico. In molti casi, sia in occidente che in oriente, l’uso della tecnologia nei film vuole essere di riflessione circa le conseguenze dell’avanzamento di questa nella società e del ruolo che sta assumendo tra le persone. In Giappone la modernizzazione era già stata recepita con sentimenti contrastanti e

94 spesso negativi da chi aveva avuto modo di vivere sia l’epoca moderna che l’epoca pre- moderna; i giovani nati con essa, invece, avevano assorbito solo gli elementi più nuovi della cultura giapponese e questo aveva contribuito all’intensificarsi di una crescente distanza percepita tra le persone, di un senso generale di alienazione e di isolamento dovuto sia alla nuova società e politica lavorativa, sia ai nuovi mezzi di comunicazione personali e di massa. Nella cinematografia questo era rappresentato in svariati modi, ma solitamente tendenti all’estremizzazione di questi sentimenti, ad una loro notevole amplificazione per poter meglio giungere al pubblico. Megyaku: Naked Blood non è solamente estremo, ma è anche apocalittico: non solo la tecnologia e la modernizzazione hanno dato modo ad un giovane ragazzo di sviluppare un’arma così potente e pericolosa, ma hanno poi effettivamente avuto conseguenze disastrose, con la trasformazione di Tokyo, e probabilmente anche del resto della nazione, in una landa deserta e priva di vita. La nascita della tecnologia ha fatto credere che tutto potesse essere “riparabile”, che potesse vivere più a lungo, se non in eterno; ma allo stesso tempo ha dato anche nascita a sentimenti opposti, sentimenti di preoccupazione sulle conseguenze che avrebbe avuto sul popolo. Satō lo riflette sullo schermo attraverso personaggi insoliti, alienanti: Eiji è un ragazzo prodigio ma che si mantiene isolato dal mondo, confinato in una realtà propria e protetto da una madre da cui non sembra ancora del tutto indipendente. La madre stessa non rappresenta lo stereotipo di donna giapponese: nonostante il suo carattere calmo e materno, la donna lavora a tempo pieno e ha raggiunto un’ottima posizione lavorativa, il che la porta lontana da casa per la maggior parte del giorno. Mikami può essere considerata la raffigurazione finale dell’essere umano frutto dell’era moderna e portato all’estremo in tutte le sue caratteristiche, mentre le uniche due ragazze che non posseggono tratti particolarmente devianti non hanno nome e saranno le prime a morire. Anche l’uso che fa Eiji della videocamera pone l’attenzione sulle nuove tipologie di contatto intrapersonale e sulla nuova visione della privacy: Eiji riprende costantemente le ragazze soggette ai suoi esperimenti, filmandole di nascosto nella loro intimità; oltre a questo, molte scene sono mostrate direttamente dalla lente e non dagli occhi del ragazzo. Filmerà anche Mikami, con cui invece parlerà anche da vicino, restando tuttavia dietro l’apparecchio: la tecnologia sembra quindi diventare un prolungamento, una continuazione dell’essere umano, uno strumento che supera la

95 semplice utilità e diventa parte complementare della vita; se prima lo uchi era sinonimo di sacro e di sicurezza, ora non è più così e viene messo al pari del soto. Questi sono tutti elementi che sorpassano il limite, il confine di ciò che è logico e di ciò che si conosce, e vogliono giocare con il terrore dell’incertezza del futuro e dell’instabilità del presente che al tempo viveva negli spettatori. Un ultimo esempio celebre di film che sfrutta la tecnologia in quel che si può definire techno-horror è Kairo 回路 (Pulse, 2001) di Kiyoshi Kurosawa. La pellicola è ambientata in una realtà dove il mondo dei morti è sovraffollato, con il conseguente tentativo di questi di fuggire nel mondo dei vivi attraverso le connessioni internet; il film è suddiviso in due storyline parallele incentrate relativamente su Michi e Ryosuke, i quali successivamente si incontreranno. Entrambi sono vittima di strani avvenimenti, che vedono persone, tra cui loro conoscenti, perdere improvvisamente desiderio di vivere e togliersi la vita. Si capirà in seguito che gli spiriti stanno prendendo possesso della voglia di vivere dei vivi, i quali, una volta commesso suicidio, pare non potranno raggiungere l’aldilà ma dovranno rimanere isolati in quella che viene chiamata “La Stanza Proibita” (Fig. 74), ovvero delle stanze sigillate con del nastro adesivo rosso: chi vi entra verrà anch’esso ucciso dal fantasma che vi dimora – nonostante il film non chiarisca mai esplicitamente l’uso di queste camere. Nelle scene finali, Michi e Ryosuke evacuano Tokyo, dove la situazione è ormai apocalittica, tra cieli neri e veicoli militari che si distruggono; si scoprirà che tutto il mondo è ormai preda degli spiriti (Fig. 75).

Una delle stanze proibita, riconoscibile dal nastro Scene apocalittiche di Tokyo rosso attorno alla porta (Figura 74) (Figura 75)

La trama non può che essere vista come un’allegoria del dilagante uso di internet, soprattutto tra i giovani: i fantasmi rappresentano l’ossessione per il mondo virtuale

96 che affligge la maggior parte dei giovani, i quali si stanno perdendo in un mondo di alienazione ed isolamento preferendo la compagnia della tecnologia e di persone virtuali piuttosto che vivere nel mondo reale; un probabile riferimento anche all’emergente fenomeno degli hikikomori. È presumibile che le stanze proibite siano invece un paragone con le chatroom, estremamente in voga in Giappone durante quegli anni e al centro anche di altri film horror come Suicide Club. Il film è strutturato con una sequenza di immagini che producono una serie di opposizioni tra vuoto e pienezza, buio e luce, morte e vita, tecnologia e natura, intensificando così il senso di vuoto, alienazione ed isolamento che traspare per tutta la pellicola.

La repentina modernizzazione influì tuttavia su vari aspetti della società giapponese e una delle conseguenze di più spessore si osservò sul nucleo familiare e sul ruolo dei suoi membri: il padre tradizionale era colui che lavorava tutto il giorno e manteneva la famiglia, mentre la moglie casalinga si prendeva cura con dedizione della casa e dei figli. Ma i nuovi anni portarono con sé ulteriori cambiamenti e incertezze: licenziamenti e perdita del lavoro, crisi economica, problemi psicologici, genitori assenti, abusi o violenza domestica, elementi che si riversarono poi nell’ambito familiare e personale. Molte famiglie risentirono delle nuove ansie e preoccupazioni dell’epoca moderna e allo stesso modo i figli, con conseguenti problematiche crescenti anche all’interno dell’ambiente scolastico, come si vedrà in seguito. Non si mette in dubbio che tali questioni possano essere esistite, in modo forse diverso ma equivalente, anche in epoche precedenti; la differenza sostanziale risiede nei nuovi canali tecnologici, che permettono oggi di potersi condividere con l’esterno in un modo che prima non era fattibile. L’individuo ha ora a disposizione una moltitudine di scelte per potersi informare, per comunicare con gli altri o per esprimere la propria personalità, addirittura con persone sconosciute o senza mostrarsi dal vivo. Nondimeno, ciò poteva dar vita a due tipi di sentimenti opposti: l’eccessiva raccolta di informazioni o di condivisione con individui nello stesso stato d’animo, che poteva rinforzare all’estremo sentimenti già negativi; o un intenso senso di isolamento, dato dalla difficoltà personale di aprirsi in un mondo dove tutto sembra alla portata di tutti, e dove quindi è ancora più facile sentirsi messo in disparte o sentirsi in ombra anche alla luce del sole.

97 Sullo schermo cinematografico, quindi, molti film horror giapponesi di quegli anni ebbero come fulcro la famiglia, e in primo piano era solitamente posta la figura della donna e/o dei figli come vittime di un certo tipo di eventi, origine della negatività che ne verrà in seguito. Va notato come ci fu un crescente uso altresì della figura del bambino o del giovane: questa rappresentava non solo un’icona del passato, di un senso di identità tradizionale fissa e immutabile, ma era anche un’icona del futuro, il simbolo in cui erano racchiuse le speranze della nazione in un avvenire più florido, stabile e sereno. Questo divenne visibile già in seguito ai conflitti contro Russia e Cina, quando l’istruzione e la protezione dei giovani divennero strettamente collegate ad un senso di orgoglio nazionale, la chiave per un futuro di successo. Vi è quindi un passaggio importante nello sviluppo della filmografia, ove non si usano più solamente fantasmi irati di donne o uomini traditi, ma ora anche di bambini che tuttavia possiedono gli stessi sentimenti vendicativi degli adulti. Alla luce di questo, l’immagine cinematografica di bambini deceduti prematuramente o posseduti da forze malvagie era espressione di un futuro che non verrà mai, di speranze spezzate che per varie ragioni non hanno avuto modo di realizzarsi; il simbolo del fallimento di ciò che si sarebbe dovuto proteggere. E questi giovani sono spesso figli di genitori assenti o negligenti, di situazioni familiari disagiate e instabili che si evolvono in un futuro raccapricciante; questo si riflette anche nella figura moderna del salaryman e padre di famiglia, la cui lealtà verso l’azienda diventa più importante di quella per la propria casa. Ugualmente, anche la figura della donna subisce una trasformazione: la sua immagine di persona affidabile, spesso sofferente, che aveva assunto il ruolo di madre casalinga protettrice e allo stesso tempo di surrogato del padre assente, prese ad essere spesso raffigurata nelle vesti di una donna inaffidabile, malvagia e negativa, collegata alla pazzia o al soprannaturale. Il cinema voleva quindi evidenziare l’importanza della famiglia e dei suoi valori, soprattutto in un’era dove questi si stavano perdendo.

Tenendo in considerazione i cinque elementi menzionati a pagina 88, di seguito si discuterà di Swīto hōmu スウィートホーム (Dolce Casa, 1989) di Kiyoshi Kurosawa, Kuchisake onna 口裂け女 (conosciuto come “Carved: The Mouth-Slithered Woman, 2008) di Kōji Shiraishi, Honogurai mizu no soko kara 仄暗い水の底から (meglio

98 conosciuto come “Dark Water”, 2002) di Hideo Nakata, e dei celebri Juon 呪怨 (conosciuto come “The Grudge”, 2002) di Takashi Shimizu e Ringu リング (conosciuto come “The Ring”, 1998) di Hideo Nakata. Infine, Jissatsu sākuru 自殺サークル (conosciuto come “Suicide Club”, 2001) di Sion Sono e Batoru Royaru バトル・ロワイ アル (conosciuto come “Battle Royale”, 2000) di Kinji Fukasaku.

Swīto hōmu viene solitamente considerato il precursore di Dark Water e Juon e narra di una troupe televisiva che si addentra nella casa abbandonata del defunto pittore Ichirō Momiya, con lo scopo di prelevare alcuni dei dipinti rimasti e girare un documentario sulla sua arte. Tuttavia, si capirà fin da subito che la dimora è abitata da un’essenza malvagia, la quale si scoprirà essere la moglie del pittore, uccisa dai paesani dopo che accese accidentalmente l’inceneritore in cui la piccola figlia stava giocando, uccidendola arsa viva. Lo spirito è considerato rappresentazione della duplice natura della Grande Madre Kannon (sanscrito: Avalokiteśvara), ossia Kannon come positiva e Kariteimo (sanscrito: Hārītī) come negativa, e riporta alla trasformazione maligna subita dalla figura femminile di cui si è discusso in precedenza. Si dice che Kariteimo origini dalla dea indiana Hārītī, la madre mostruosa originale che rapiva e si cibava dei figli di Rājagṛiha, ma quando Buddha le sottrasse il suo figlio più anziano, Hariti entrò in empatia e comprese la sofferenza che deve aver provato la donna vittima della sua malvagità, e si trasformò così in Kannon, la dea della pietà e simbolo dell’amore materno. La spirito della moglie di Momiya incarna entrambe: nonostante soffra terribilmente per la perdita dell’amata figlia, allo stesso tempo cerca di adempiere al suo amore materno cercando altri bambini che accompagnino la figlia nell’aldilà, in questo caso Emi, la cui madre è un membro della troupe. Ma Momiya non abita solamente la casa, ella è la casa stessa, allegoria del ventre materno: questo è reso noto già dalle prime scene, quando il gruppo non riesce ad aprire la porta nonostante sia in possesso della chiave; nel momento in cui riescono a penetrarvi, rompendo una finestra, un fascio di luce illumina una culla arrugginita, a simbolizzare il fattore materno su cui sarà incentrato il resto della storia. Anche qui lo uchi assume significato opposto: la casa non da senso di sicurezza, ma, al contrario, di esservi intrappolati all’interno. La duplice natura della madre è raffigurata anche nei quadri sparsi per la

99 casa: i protagonisti scoprono delle pitture che raffigurano inizialmente una donna serena che tiene tra la braccia una bimba, scovando poi una serie di altre opere che narrano la storia della casa e che si evolvono in un turbinio di violenza seguito anche dalle morte brutali di alcuni dei personaggi. In contrasto con Momiya vi è la madre di Emi, rappresentazione tradizionale di madre presente e amorevole, che farà di tutto per salvare la figlia. Va notato come in questa pellicola lo spirito di Momiya non possegga l’iconografia classica dello yūrei, ma sia invece una creatura mostruosa e dalla presenza fisica, probabilmente a rappresentare il suo totale potere sulla casa e l’estensione della sua ira (Fig. 76).

Lo spirito della moglie di Momiya (Figura 76)

Kuchisake onna, invece, è basato sulla nota leggenda popolare dallo stesso nome, ovvero uno spirito maligno con la bocca coperta da un indumento che approccia le persone ponendo sempre la stessa domanda, ossia “Sono bella?”. Che si risponda “Sì” o “No”, la donna ucciderà il malcapitato con un paio di forbici o lo mutilerà per assomigliarle; si narra che l’unico motivo per sfuggirle sia darle risposte vaghe o lanciarle addosso delle caramelle, in modo tale da guadagnarsi il Kuchisake onna (Figura 77) tempo di scappare.

100 Nel film, Noburo, un maestro di scuola, inizia a sentire la voce di una donna chiedere “Sono bella?” (Fig. 77), mentre nel frattempo vari bambini stanno scomparendo in circostanze misteriose; si verrà a sapere che lo spirito della kuchisake onna sta possedendo il corpo di varie mamme e che la donna iniziale era la madre dello stesso Noburo, la quale uccise i suoi fratelli mentre era ancora piccolo, lasciandolo traumatizzato. I protagonisti cercheranno di eliminare lo spirito, ma Noboru morirà nel tentativo senza riuscire nel suo intento.

Come si è potuto osservare sia in Swīto hōmu che in Carved, la figura della madre ha tratti opposti a quelli tradizionali osservati finora; in Dark Water, al contrario, la figura maligna è rappresentata da una bambina. Il film è incentrato su Yoshimi, una donna appena separata dal marito, l’archetipo di salaryman e uomo dominante che tiene più al lavoro che alla famiglia. Già dalla prime scene si può percepire la distanza emotiva tra i due e il senso di dissociazione e isolamento che prova la donna, la quale sta combattendo per mantenere la custodia della piccola figlia; Yoshimi soffrì di esaurimento nervoso in passato, evento che la fa trasparire come poco attendibile nella narrazione dei fatti e nella distinzione tra realtà e fantasia. La donna viene raffigurata come una donna fragile, che non prova piacere nell’unione tra uomo e donna, una paura dell’intimità forse sintomo di abbandono, visto che sia la madre che la nonna erano state madri single. Anche qui si ritrova il sentimento di rassegnazione menzionato in precedenza, incarnato da personaggi che tristemente proseguono la loro vita quotidiana semplicemente accettando quello che credono essere il loro destino. Considerata la difficile situazione economica, la donna affitta quindi un appartamento poco costoso dove inizieranno a succedere una serie di fatti inspiegabili: misteriose macchie d’acqua sul soffitto, nonostante il piano superiore sia disabitato, una borsa rossa che continua a riapparire, ciocche di capelli dal rubinetto e soprattutto l’apparizione di quella che sembra una bimba. La trama rivelerà che la bambina è Mitsuko, trascurata dalla madre e morta annegata nella cisterna d’acqua sul tetto dell’edificio l’anno precedente (Fig. 78): il suo spirito irato alla ricerca di una madre ha scelto Yoshimi come sostituta, la quale si sacrificherà per salvare la vita della vera figlia e seguirà Mitsuko per appagare la sua rabbia.

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Lo bambina ancora in vita poco prima di cadere nella cisterna, accompagnata dall’impermeabile giallo e dalla borsetta rossa (Figura 78)

Yoshimi dunque, nonostante il gesto fosse a scopo altruistico, finirà per abbandonare la figlia proprio come sua madre fece con lei in giovinezza. Il film fa largo uso di scene che esaltano il sentimento di abbandono dei personaggi, attraverso salti nel tempo, flashback malinconici, conversazioni minimali e ambientazioni cupe, isolate, che danno senso di vuoto, di una realtà a cui nessuno pone attenzione e in cui i personaggi sono nessuno (Fig. 79). Anche qui l’acqua è connubio di negatività, di impuro e soprannaturale, mentre il rapporto tra madre e figlia rispecchia i doveri e gli obblighi che intercorrono tra le due, i quali Yoshimi cerca di ripristinare per il bene della figlia vivente e di tutta la comunità.

(Figura 79)

Juon e Ringu, tuttavia, rimangono i più celebri a livello internazionale tra tutti i film horror giapponesi prodotti finora e ne sono stati creati vari sequel sia in Giappone che in America; Juon del 2002 è in realtà il terzo film di una serie con lo stesso titolo, ma fu il primo ad essere proiettato nelle sale cinematografiche. Anch’esso discute dei cambiamenti avvenuti nella famiglia giapponese e utilizza gli stereotipi della donna-

102 vittima e dello spirito bambino irato, in un’ambientazione dove lo uchi diviene luogo di paura e terrore. La trama gira attorno a sei personaggi principali, ossia Kayako, Katsuya, Hitomi, Rika, Toyama e Izumi, ma la storia di base origina dall’omicidio di Kayako da parte del marito Takeo, un uomo violento e geloso che darà così inizio ad una potente maledizione, la quale si legherà alla loro abitazione e a chiunque vi entri in contatto – come viene altresì spiegato da alcune scritte nelle scene iniziali del film. Già dall’inizio, infatti, la pellicola va dritta all’obiettivo trasmettendo l’immagine di distruzione del nucleo familiare per mano violenta dell’uomo: strade buie e deserte, versi di corvi e poi scene di una casa a soqquadro, dove si vedrà un uomo coperto di sangue, che ucciderà in seguito anche il gatto di famiglia, e il cadavere di una donna. Il bambino è ancora vivo in quei frangenti e il film in realtà non chiarisce chi o cosa gli abbia tolto la vita, se il padre o lo spirito della madre; anche qui il legame madre-figlio rimarrà indissolubile in morte come in vita. Come in molti altri film dell’orrore, le conversazioni nella pellicola sono minime e distaccate, gli ambienti cupi e spesso deserti; lo spettatore non può che provare un senso di forte alienazione e di abbandono nel guardarla, momenti di vuoto così intensi che spesso risulta addirittura complicato comprendere cosa stia succedendo nel film, essendo la storia trasportata più dalle immagini che dalle parole. Va notato come anche la loro raffigurazione rispecchi l’iconografia classica dello spirito, con volto e vesti bianche, e capelli neri (Fig. 80 e 81).

Lo spirito della donna in una celebre scena, in cui Lo spirito del figlio (Figura 81) attacca una vittima da sotto le lenzuola (Figura 80)

La maggior parte dei personaggi in questi film è appositamente dipinta come individui parte della società ma allo stesso tempo al di fuori di essa, persone che per vari motivi vivono sconnessi da quello che oramai appare un mondo dove ognuno pensa a sé

103 stesso e non più al gruppo. Anche la casa familiare sembra quindi simbolizzare un microcosmo della società giapponese, in cui regna il disorientamento e la frammentazione sociale, con conseguenze tragiche; anche la maledizione, causata da rabbia e malizia e che contamina chiunque vi entri in contatto, è sinonimo della realtà contemporanea. Questa può anche essere vista come una critica al consumismo e all’egoismo incarnato nella separazione dell’individuo dalla comunità come essere a sé stante, e una critica al sempre più dilagante fenomeno di abuso domestico che si stava verificando in Giappone; l’anno precedente al film, nel 2001, fu altresì emanata una legge contro la violenza domestica.

Nel progresso della cinematografia horror giapponese non si è dunque evoluto esclusivamente il messaggio, ma anche i personaggi che lo incarnano: se nei film dei decenni precedenti la figura dello onryō rappresentava colpe di natura personale, ora è immagine collettiva di colpe sociali dell’intera comunità. Ringu, del 1998, è senza dubbio la pellicola horror giapponese più celebre internazionalmente e racchiude sia elementi tradizionali che moderni: il fulcro della storia è una strana videocassetta che provoca la morte, entro sette giorni, di chiunque la veda. Reiko, con l’aiuto dell’ex-marito Ryūji, cerca di scoprirne l’origine per poter salvare la vita sua e del figlio. Nel video si vedono una serie di immagine scure e poco nitide raffiguranti una donna che si pettina davanti ad uno specchio, dopodiché una serie di scritte ed infine un pozzo, con la successiva figura di quella che sembra essere una ragazza dai lunghi capelli neri e una veste bianca. I protagonisti scopriranno che la videocassetta origina dall’isola di Izu Ōshima, dove anni addietro viveva Shizuko, una donna dai poteri paranormali, assieme alla figlia Sadako; Shizuko divenne nota alla cronaca per aver predetto l’eruzione di un vulcano e fu protagonista di un esperimento in cui doveva dimostrare i suoi poteri psichici. La seduta finì tuttavia in modo tragico: un giornalista la accusò di frode e subito dopo cadde a terra morente, ucciso dai poteri paranormali che anche Sadako possedeva. A seguito della demonizzazione di Shizuko nei giornali, la donna si tolse la vita e Sadako scomparve; si scoprirà poi essere stata uccisa e gettata in pozzo da un professore amico della coppia. Colma d’ira e senza aver mai ricevuto appropriata sepoltura, il suo onryō creò una maledizione a catena che non poteva essere spezzata. La presenza di elementi della tradizione è subito visibile:

104 non solo Sadako è raffigurata nell’iconografia classica dello yūrei, oltre ad essere associata agli elementi del pozzo e dell’acqua, ma la madre stessa sembra aver ricevuto i suoi poteri da creature soprannaturali. Le misteriose scritte che appaiono nella videocassetta sono in realtà una frase in dialetto di Izu che legge “Se giochi in acqua, arriveranno i mostri”; secondo il racconto di un testimone, infatti, Shizuko soleva trascorrere giornate intere seduta sugli scogli ad osservare il mare e pare che Sadako fosse stata concepita proprio con una creatura o divinità abitante le acque. Nel romanzo di Kōji Suzuki da cui è tratto Ringu, Shizuko sviluppa le sue abilità dopo aver trovato in mare una statuina di En no Ozuno, un ascetico della tradizione che si riteneva possedere poteri demoniaci e che fu esiliato nell’isola di Izu circa alla fine del settimo secolo. Il fattore che gioca con il terrore dello spettatore è l’unione di questi elementi classici e paranormali con la tecnologia, strumenti considerati inermi; quando Sadako esce dalla televisione supera il confine dell’ordine, del normale, portandovi un caos non previsto (Fig. 82). La sua natura è quindi doppiamente minacciosa, possedendo sia tratti soprannaturali che abilità di manifestarsi attraverso canali considerati sicuri. Anche Sadako, come Kayako, non sembra avere interesse nel vendicare sé stessa, quanto più a vendicarsi contro l’intera comunità a prescindere dalla persona.

Sadako esce dalla televisione (Figura 82)

Un ulteriore esempio di distacco e di alienazione, questa volta nei giovani, è Suicide Club, in una prospettiva che può essere definita di “alienazione tecnologica”. Qui il suicidio è rappresentato come un virus moderno che viaggia attraverso la tecnologia, Internet, i cellulari, propagandosi di persona in persona e affliggendo soprattutto le menti dei giovani, che attraverso la tecnologia stessa possono rinforzare il virus e i

105 sentimenti negativi, propri o degli altri. Il film si svolge nell’arco di sei giorni e già dalle scene iniziali ha un forte impatto: cinquantaquattro ragazze in uniforme scolastica si tengono per mano lungo il binario del treno e tutte insieme saltano al suo passaggio (Fig. 83).

Le cinquantaquattro ragazze (Figura 83)

Nei giorni successivi avverranno una serie di suicidi in tutto il paese, sia tra individui giovani che adulti, alcuni dei quali condotti in maniera particolarmente macabra; la polizia si metterà così sulle tracce di quello che si sospetta essere un suicide club. La solitudine è un tema dominante nel film, in linea con la reale diffusione tra i giovani dei fenomeni di suicidio o di improvvisa violenza, sia domestica che scolastica, tra cui la dilagante piaga del bullismo. Ciò che sembra apparire dalla pellicola è come sia proprio la mancanza di comunicazione ciò che instilla sentimenti negativi, dove il vero desiderio dell’individuo è quello di sentirsi parte di un gruppo più che un individuo isolato. In un’intervista, il regista Sono discute proprio della sostituzione della comunicazione reale con comunicazioni virtuali, dove le parole e le opinioni possono viaggiare liberamente, rendendole allo stesso tempo estremamente pericolose. Sempre secondo il regista, quella che lui definisce una “fondamentale oscurità che si sta diffondendo in Giappone” non può essere dovuta solamente allo scoppio della bolla economica, ma ad una combinazione di una serie di dettagli. Il motivo per cui ha scelto il genere horror per dipingere questa critica sociale era il suo desiderio di trasmettere questa profonda ansia nel modo più diretto35.

35 Travis CRAWFORD, The Urban-Techno Alienation of Sion Sono’s Suicide Club in Steve Jay Schneider (a cura di), Fear Without Frontiers: Horror Cinema Across the Globe, Godalming: FAB, 2003, pp. 307-311

106 Un ultimo esempio estremo di realtà distopica e individualista è Battle Royale, ambientato in un Giappone di stampo fascista nato dopo la seconda guerra mondiale e in cui ogni anno il governo sceglie degli studenti delle scuole medie per partecipare ad un programma militare chiamato, appunto, “Battle Royale”: i ragazzi, confinati su un’isola deserta, dovranno uccidersi a vicenda fino a ché non ne rimarrà solo uno. Il programma serve al governo come studio delle abilità di sopravvivenza e prontezza in battaglia; la protagonista, Shuya, è inoltre reduce dal recente suicidio del padre. Il film, basato sul romanzo di Kōshun Takami, porta all’estremo i tratti negativi della società del momento e li configura in una realtà dove il governo regna supremo e i cittadini sono vittime senza potere di ciò che il mondo è diventato, una realtà dove ognuno deve pensare a sé e si sono persi i valori morali e comunitari di un tempo. Il radicale cambiamento politico e sociale negativo avvenuto dopo la seconda guerra mondiale è un altro chiaro riferimento.

Un’altra tematica ripresa nell’horror giapponese è quella degli omicidi intenzionali e dei serial killer. Al contrario della maggior parte dei paesi occidentali, il Giappone ha sempre avuto una bassa percentuale di crimine; nonostante questo rimanga valido tutt’oggi, dalla fine degli anni ottanta si sono registrati casi particolarmente gravi di violenza, tra i più noti l’omicidio di Renee Hartevelt a Parigi per mano di Issei Sagawa nel 1981, in cui l’uomo sparò alla vittima per poi cucinarne e mangiarne il cadavere; gli attentati perpetrati da Aum Shinrikyō nel 1994 e 1995; gli omicidi di nel 1997 e di Sasebo 2004, per mano di due giovani studenti; e gli omicidi del web nel 2005, in cui le tre vittime furono adescate online. Nel 2017 avvenne un ulteriore omicidio a Sasebo, ove una ragazza di 15 anni strangolò una compagna di scuola, per poi smembrarla e decapitarla. Questi sono solo alcuni dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti negli ultimi decenni in Giappone e hanno senza dubbio costituito un’ennesima fonte di ispirazione e di esplorazione per la cinematografia horror. A seguire sono proposti gli esempi di Fukushū suru wa wari ni ari 復讐するは我にあり (conosciuto come “Vengeance is Mine”, 1979) di Shōhei Imamura, Tokyo densetsu: ugomeku machi no kyōki (conosciuto come “Tokyo Psycho”, 2004) di Ataru Oikawa e Ōdishon オーディション (Audition, 1999) di Takashi Miike.

107 Vengeance is Mine è ispirato alla vera storia dell’inseguimento durato settantotto giorni del killer e truffatore Akira Nishiguchi, che da Ottobre a Dicembre 1963 uccise cinque persone. Nel film, il criminale è Iwao Enokizu, un uomo in difficili rapporti con il padre e divorziato dalla moglie, la quale si era innamorata proprio del suocero; Enokizu si muove di città in città, truffando chi incontra e uccidendo chi si mette sul suo cammino. Al contrario della maggior parte dei film occidentali, tuttavia, il film non tenta di offrire una spiegazione psicoanalitica del comportamento violento dell’uomo: nonostante vi siano accenni al suo background personale, nessuno di questi rappresenta la vera ragione. La pellicola non segue nemmeno una narrativa cronologica, con frequenti salti temporali e uso di flashback, e si mostra principalmente dalla prospettiva delle indagini poliziesche. Il film suscitò infatti opinioni controverse, soprattutto perché non mostrava nessuna critica evidente alla società, ma semplicemente atti violenti e ingiustificati di un uomo pericoloso; e forse era proprio questo l’obiettivo del film, ovvero mostrare come la società abbia sì prodotto individui egoisti e famiglie senza valori, ma come la natura stessa dell’uomo sia di per sé corrotta. Enoziku è un ex-credente cattolico il quale ha perso sia la fede che la famiglia e verso cui il padre ha fallito nel suo ruolo paternalistico; tuttavia, nessuno di questi fattori viene considerato causa scatenante. Enoziku è un uomo che non prova sentimenti, se non egoistici mirati alla propria soddisfazione personale, ed è probabilmente simbolo estremo dell’individuo moderno che vive per sé stesso a scapito degli altri. Anche il film low-budget Tokyo Psycho è basato su eventi realmente accaduti, in questo caso gli omicidi di quattro bambine dai quattro ai sette anni perpetrati da Tsutomu Miyazaki, definito “L’assassino otaku” o “Il collezionista”, per la grande quantità di materiale manga pornografico e film horror violenti trovati nella sua abitazione. Gli omicidi scatenarono un grande panico generale in Giappone nei confronti della cultura otaku. Nel film, il killer è uno stalker transgender ossessionato da una giovane grafica e anche in questo caso non ci sono tentativi di psicoanalisi dell’assassino, ma solo un breve background personale in cui si capisce che la persona è un otaku isolato dalla società e che si presume abbia ucciso i genitori in gioventù: ciò su cui si concentra la rappresentazione del personaggio, piuttosto, è di trasmettere la sua pazzia e distorsione della realtà (Fig. 84).

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Il killer in una delle scene iniziali del film. Si noti la colorazione rossa, simbolo di corruzione e di impurità (Figura 84)

La storia si incentra più sulla figura della ragazza, che tenta di scoprire chi la perseguiti. Se Vengeance is Mine ha uno stile quasi documentaristico, Tokyo Psycho vuole invece essere scenico ed è strutturalmente molto più simile a pellicole occidentali come Halloween che ai più classici horror giapponesi. Anche in quest’opera, tuttavia, vengono utilizzate scene lunghe, luoghi cupi e solitari, immagini che trasmettono tensione anche dove non dovrebbe essercene e che soprattutto trasmettono l’alienazione dell’uomo. Una particolarità sono i momenti in cui il protagonista è l’assassino: le scene non riprendono l’uomo, ma vengono mostrate in prima persona attraverso i suoi occhi, come a voler mettere lo spettatore nei panni stessi dell’omicida, in una totale immedesimazione. Le immagini sono veloci, distorte, filtrate di grigio o di una leggera tonalità seppia, tecnica utilizzata per due motivi: sia per trasmettere la distorsione della mente stessa dell’assassino, sia perché inizialmente non è rivelato il suo volto e la prospettiva distorta rende quindi evidente allo spettatore di chi si tratta (Fig. 85). Sia in Tokyo Psycho che in Vengeance is Mine l’assassino si costruisce un’identità di mascolinità e di dominanza sulla donna.

Una delle scene secondo la prospettiva dell’assassino. Si notino i lati leggermente deformati (Figura 85)

109 Un ultimo esempio, che ebbe inoltre molto successo sia in Giappone che nel mondo, è Audition. La storia narra di Aoyama, uomo rimasto vedovo che, su suggerimento del figlio, organizza una finta audizione per cercare in realtà una nuova compagna: il suo interesse verrà attirato da Asami, la quale contraccambia il sentimento, ma quando i due iniziano a frequentarsi verrà a galla il suo reale passato. Aoyama è un personaggio rispettabile verso cui il pubblico può facilmente provare empatia, per cui le violenze che verranno perpetrate in seguito risulteranno ancora più scioccanti per lo spettatore. Anche Asami sembra essere una donna tranquilla e passiva, ma durante un weekend romantico svanisce nel nulla, portando Aoyama ad una ricerca ossessiva e disperata, in cui scopre che la donna non è chi sembra essere: i suoi racconti risultano menzogne o mezze verità e tutti gli uomini che sono stati con lei sembrano essere scomparsi (Fig. 86 e 87).

Asami durante l’audizione. Gli indumenti bianchi e i lunghi capelli neri sono probabili indicatori della natura in realtà malvagia della ragazza, che appare inizialmente timida e pura (Figura 86)

Asami mentre tortura Aoyama (Figura 87)

110 Paradossalmente, sarà Asami a trovare lui e si rivelerà per quella che è, ovvero una femme fatal sadica e assassina, che immobilizzerà Aoyama nella sua casa e lo torturerà all’estremo. Si scopre inoltre che Asami subì abusi da bambina da parte dello zio e fu questo che la portò da adulta a vendicarsi brutalmente sugli uomini, in una versione ribaltata dei tradizionali film sadomasochisti giapponesi in cui è solitamente la donna il corpo vittimale. Il classico onryō femminile viene quindi sostituito da una donna ancora in vita ma in cerca di vendetta, vendetta che ha già trovato nel suo aguzzino e che cerca anche su tutta la comunità maschile; le scene dei luoghi collegati al passato della donna, che Aoyama visita nel cercarla, sono filtrati di colore rosso, simbolo di corruzione e impurità (Fig. 88).

Uno dei luoghi del passato di Asami (Figura 88)

Un’ultima, particolare menzione va fatta in merito alla controversa serie di sei film intitolata Guinea Pig ギニーピッグ, prodotta da Hideshi Hino tra gli anni ottanta e novanta. Le pellicole fecero scalpore per la crudeltà e il realismo con cui vennero girate le scene di omicidi e torture, tanto che Hino dovette fornire alle autorità prove della loro finzione dopo che l’attore hollywoodiano Charlie Sheen denunciò le pellicole all’FBI ritenendole uno snuff movie36. Le controversie iniziarono dopo che il sesto film venne ritrovato tra il materiale video di Tsutomu Miyazaki, il serial killer che ispirò Tokyo Psycho, il quale sembra aver copiato una delle scene del film per uno dei suoi omicidi. Hino affermò che il suo progetto originale era solo quello di adattare cinematograficamente le sue opere manga horror. La serie si divide in sei volumi: Akuma no jikken 悪魔の実験 (L’esperimento del diavolo), in cui un gruppo di uomini

36 Un genere di film che mostra scene di torture e altre brutalità realmente messe in pratica.

111 rapisce e tortura una giovane donna per testare i limiti del dolore umano; Chiniku no hana 血肉の華 (Fiori di sangue e carne), in cui un uomo vestito da samurai, interpretato da Hino stesso, smembra una donna e aggiunge i suoi pezzi ad una vasta collezione: fu questo il film che scioccò Charlie Sheen; Senritsu! Shinanai otoko 戦慄! 死なない男 (Brividi! L’uomo che non muore), in cui un uomo, tagliandosi, scopre sia di non provare dolore, sia non poter morire: davanti ad un amico continuerà quindi la sua opera di smembramento, fino a decapitarsi; Pītā no akuma no joi san ピーターの悪魔 の女医さん (Peter, la malvagia dottoressa) fu il sesto film ad essere rilasciato e narra di una dottoressa, interpretata dall’attore giapponese transgender Peter, che tortura i suoi pazienti; Nōtorudamu no andoroido ノートルダムのアンドロイド (L’androide di Notre Dame), in cui uno scienziato conduce degli esperimenti su delle cavie umane per trovare una cura alla grave malattia della sorella; l’ultimo, Manhōru no naka no ningyo マンホールの中の人魚 (La sirena nel tombino), parla invece di un uomo che trova una sirena nel sistema fognario della città, la quale è tuttavia sofferente per aver sviluppato sulla pelle delle infezioni dovute al lungo tempo passato nelle fogne, un tempo un grande fiume. L’uomo la porta così nella sua abitazione, e usa il sangue e il pus della sirena per dipingerne un ritratto. Il titolo della serie, Guinea Pig, è riferito alle vittime di ciascun film, che servono da cavie umane ai carnefici. Hideshi Hino è un maestro nel portare all’ultimo estremo temi già incontrati nel corso di questo capitolo, come l’alienazione individuale e sociale e la perdita dei vecchi valori di un tempo, rappresentati ad esempio nel costume da samurai indossato dall’assassino nel secondo film.

Si è dunque potuto osservare come lo sviluppo della cinematografia horror abbia seguito gli eventi della società e li abbia riflessi nella sua simbologia, sia questo per trasmettere un messaggio, sia come critica oppure semplicemente a scopo scenografico. Gli esempi riportati in questo capitolo sono stati scelti su base sia di notorietà che di rilevanza allegorica, e arrivano all’incirca fino agli inizi degli anni 2000. Naturalmente sono vari i film horror prodotti anche dal 2000 in poi, nonostante l’enorme successo di Juon e Ringu abbia originato una lunga serie di remake, di spin-off e di film a loro somiglianti. I temi ricorrenti continuano a riguardare in particolar modo

112 gli spiriti o il mondo dello splatter, e molti dei film più recenti, inoltre, sono versioni cinematografiche di anime di successo. Gli elementi cangianti riguardano piuttosto la tecnologia, che naturalmente si è evoluta nel mondo come nei film, e nelle pellicole più futuristiche si possono trovare strumenti tecnologici particolarmente sviluppati. Ne è esempio Riaru onigokko リアル鬼ごっこ (conosciuto come “Tag”, 2015) di Sion Sono, in cui una studentessa si ritrova improvvisamente a vivere realtà sempre diverse, per poi scoprire di essere morta centocinquant’anni prima e il suo DNA essere stato inserito da uno scienziato all’interno di un gioco horror di sopravvivenza in 3D. Un ultimo esempio che si distingue dagli altri film più recenti è Kamisama no iu tōri 神さ まの言うとおり (conosciuto come “As the Gods Will”, 2014) di Takashi Miike, basato sul manga dallo stesso nome, in cui dei ragazzi si trovano a vivere in una realtà in cui per sopravvivere serve battere dei giochi dove chi perde viene violentemente ucciso, per poi alla fine scoprire che questi erano stati creati per puro divertimento. La pellicola mette in discussione chi siano davvero le divinità e se il divino realmente corrisponda all’idea che vive nella nostra società e cultura. Nelle ultime emblematiche scene, uno dei sopravvissuti afferma che non può esistere nessun dio, considerata la brutalità di ciò che aveva vissuto; in risposta, una delle bambole organizzatrici della competizione gli rivela che i giochi avevano l’esatto scopo di condurlo agli dei e gli indica un vagabondo, apparso in numerose scene come osservatore.

113 2.2 MANGA E NON: L’ORRORE ILLUSTRATO

Come si è avuto modo di osservare nel corso di questa tesi, le arti sono sia parte che prodotto della cultura e della storia del paese a cui appartengono; la pittura, la stampa, il cinema si sono rivelati importanti agenti culturale e sociali, e nel tempo sono stati utilizzati come mezzo di trasmissione per svariati fini, fossero questi religiosi, politici, commerciali o di semplice intrattenimento. Gli ukiyoe hanno iniziato e segnato la storie delle opere nate per essere vendute e per le loro tematiche si sono ispirati alla realtà circostante, spesso in simbiosi con le altri arti; lo stesso è stato per il cinema, che ha frequentemente usufruito dello schermo per diffondere un messaggio o una critica verso il mondo presente, per ritrarlo e mostrarlo da un occhio esterno ed instillando volutamente un certo tipo di sentimenti nello spettatore. Così fu anche per i manga, i quali si ispiravano alla realtà del momento ma il cui scopo iniziale era tuttavia quello di intrattenere e questo fu il ruolo soprattutto in periodi storici di crisi, in cui i fumetti donavano momenti di spensieratezza ai lettori. Come precisato precedentemente per la cinematografia, anche per i manga esistono varie tipologie di horror e non sempre è semplice suddividerli in categorie distinte, una responsabilità che tuttavia non verrà assunta in questa tesi. Nel seguente capitolo ci si limiterà a stilare un riassunto dell’evoluzione dei manga nella storia, soffermandosi laddove siano presenti particolari opere di significativa importanza nella rappresentazione del macabro e del soprannaturale; tre dei successivi quattro sottoparagrafi, invece, esamineranno più nel dettaglio le opere di disegnatori scelti dall’autrice per il loro impatto nel mondo fumettistico giapponese. Il quarto paragrafo differisce dagli altri in quanto non discute di un mangaka ma di un illustratore contemporaneo, che ha tuttavia apportato un rilevante contributo all’arte moderna in Giappone ed è piuttosto noto nel paese.

Come scritto sopra, i manga sono strettamente connessi alla cultura e alla storia giapponese, in termini di politica, economia, famiglia e religione. Essi riflettono quindi sia la realtà della società, che i suoi miti e credenze. Le origini dei manga vengono attribuite allo sviluppo di particolari forme caricaturali in versione emaki presenti già in epoca Heian, tra cui il Chōjū jinbutsu giga 鳥獣人物戯画 (Caricature di umani e di

114 animali, Fig. 89), considerato l’esempio più celebre, se non persino il primo – fatto su cui non vi è tuttavia certezza tra gli studiosi. Datato tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, l’opera è un monocromo di quattro rotoli conservati nel tempio Kozenji di Kyoto ed è attribuito al monaco Toba Sōjō. Il primo rotolo, quello più conosciuto, ritrae vari animali, come rane, lepri, scimmie e volpi, colte in atteggiamenti che vogliono essere di parodia alla classe aristocratica; i loro volti sono dipinti con molta espressività ed è evidente l’intento leggero e satirico dell’artista.

Alcune scimmie e lepri mentre si fanno il bagno (Figura 89)

Con l’epoca Edo, come visto nel primo capitolo di questa tesi, la stampa su matrice di legno permise la diffusione di un notevole numero di opere di vari genere, come opere satiriche e caricaturali tra cui i tobae 鳥羽絵, ispirati per l'appunto sia allo stile grafico che satirico del monaco Toba Sōjō e spesso raffiguranti animali compiere specifiche azioni. Tra i precursori di queste opere di stampo leggero e ironico sono annoverati anche gli ōtsue 大津絵, raffigurazioni popolari nate ad Ōtsu, una delle stazioni del Tōkaidō, per attirare coloro che vi passavano. Erano opere veloci ed economiche, create con il puro scopo di piacere ed essere vendute. Un ulteriore sviluppo dell’illustrazione si ebbe con i già menzionati kibyōshi, libri illustrati parte del genere degli kusazōshi, una parodia delle tradizioni giapponesi del tempo37. Il conio del termine “manga” si ebbe poi con Hokusai, il quale tra il 1814 e il 1878 pubblicò la sua opera di quindici volumi intitolata Hokusai manga 北斎漫画, in cui utilizzò delle caricature per criticare le condizioni sociali del periodo Tenpō (1830 – 1844), caratterizzate da carestia, aumento dei prezzi e lotte contadine. Parallelamente ai giga ukiyoe 戯画 (ukiyoe caricaturali, comici) e ai libri illustrati, i manga iniziarono a

37 Si riveda pp.25-26 di questo scritto

115 diffondersi nella vita del popolo, tanto che nel 1867 il governo esibì gli Hokusai manga, assieme ad alcuni di questi libri, alla Mostra Internazionale di Parigi, segno di come queste forme d’arte stessero divenendo sempre più accettate anche dalle autorità. L’apertura dei porti nel 1853 portò in Giappone un’ondata di influenza occidentale che si riversò anche nell’illustrazione. Nel 1862 un fumettista britannico chiamato Charles Wingman creò e pubblicò a Yokohama il Japan Punch, cartoni che inizialmente ritraevano la tensione tra il Giappone e l’occidente e che continuarono per venticinque anni. I fumetti di Wingman mostrano come l’influenza straniera fu assimilata nella creazione dei manga moderni. I manga nella forma conosciuta oggi, difatti, non erano ancora presenti in quell’epoca ed erano invece utilizzati termini più specifici a seconda della tipologia di opera, come ponchie ポンチ絵 (opere in stile Japan Punch), kokkeiga 滑稽画 (immagini divertenti), tobae e così via. Altri autori come Rakuten Kitazawa (1876 – 1955) aiutarono in seguito la popolarizzazione dei fumetti e dei cartoni americani: l’uomo divenne illustratore per un settimanale in lingua inglese pubblicato all’interno degli insediamenti stranieri in Giappone e nel 1905 creò anche Tokyo Pakku 東京パック(Tokyo Puck), la prima rivista manga multicolore del paese. Dal periodo Taishō (1912 – 1926) si ebbe una rapida ascesa del potere parlamentare e dei partiti, un periodo caratterizzato anche da una crescente urbanizzazione e industrializzazione, dalla diffusione della democrazia, dell’istruzione e del lavoro aziendale. Fu negli anni venti e trenta che i manga divennero una presenza fissa e riconosciuta all’interno del mass media. Il senso dell’umorismo semplice e facilmente condivisibile dei personaggi di Shōchan no bōken 正ちゃんの冒険 (Le avventure del piccolo Sho), ad esempio, portarono un po’ di serenità e conforto agli abitanti del Kanto dopo il tremendo terremoto del 1923. I manga furono strumento altresì dello stesso governo giapponese dopo l’entrata in guerra contro gli Stati Uniti, ove venne chiesta la collaborazione dei disegnatori a creare fumetti che sostenessero il conflitto. Nel dopoguerra furono invece pubblicate svariate nuove riviste: la maggior parte dei cittadini si trovava in condizioni di povertà, carestia e sconforto, e dilagava il senso di pessimismo verso il futuro; i manga, al contrario, erano economici e offrivano intrattenimento e comicità per distrarsi dai problemi della vita reale. Con la guerra coreana l’economia giapponese ricominciò gradualmente a riprendersi e dagli anni

116 cinquanta vennero favoriti i fumetti destinati ai giovani. Come si vedrà in seguito, fu Osamu Tezuka (1928 – 1989) colui a cui viene attribuita la fondazione del manga moderno come è conosciuto oggi: avendo vissuto da ragazzo gli anni della guerra, fu proprio questa che lo ispirò a creare delle opere che potessero trasmettere un messaggio di pace e rispetto per la vita e per gli essere umani. Operativo per più di quarant’anni, la sua arte influenzò in modo cruciale lo sviluppo del fumetto in Giappone, tanto da arrivare ad essere chiamato Manga no kamisama 漫画の神様 (Dio dei manga). Egli prese spunto sia dalla tradizione giapponese che da elementi occidentali, utilizzando personaggi come samurai, spiriti, robot, alieni, attori, e dando vita ad opere apprezzate da lettori di tutte le età: i manga erano quindi divenuti un genere serio che veniva letto sia da adulti che da bambini. L’opera più famosa dell’artista rimane senza dubbio Tetsuwan atom 鉄腕アトム del 1952, noto in occidente come “Astro Boy”, il celebre ragazzo androide del futuro. L’influenza di Tezuka iniziò tutta via a calare negli anni sessanta, a causa del successo di una nuova tipologia di manga chiamata gekiga 劇画, ovvero “immagini drammatiche”, di cui i principali esponenti furono Yoshihiro Tatsumi e Yoshiharu Tsuge: le opere erano molto più grafiche e realistiche rispetto ai fumetti creati fino ad allora, enfatizzando il lato drammatico della realtà piuttosto che quello comico e utilizzando nuovi temi, nuove trame e nuovi concetti. Al centro vi erano principalmente personaggi oppressi, isolati e disconnessi dalla società, contornati da una trama spesso cupa e disturbante; anche la figura dell’eroe appariva spesso ambigua e non mancavano illustrazioni grottesche e violente, rimaste tabù nei fumetti fino ad allora. I gekiga erano particolarmente amati dagli adolescenti e dagli adulti, i quali avevano superato la fase infantile e preferivano quindi prodotti più maturi, e dai movimenti liberali e di protesta esistenti all’epoca. Per adattarsi alla tendenza, Tezuka iniziò ad apportare delle modifiche ai suoi lavori, creando storie dove giusto e sbagliato di confondevano e dove si mettevano in luce i sentimenti più negativi: per l’artista, il dettaglio più importante era proprio la rappresentazione grafica delle emozioni intime dei personaggi, soprattutto attraverso gli occhi. Oltre a varie opere raffiguranti spiriti e creature soprannaturali, uno dei suoi manga più celebri in tema di occulto è Barubora ばるぼら (Barbara): Mikura, un autore di grande fama, incontra in stazione una donna alcolizzata ma molto erudita e

117 la porta a vivere a casa sua, dove tuttavia rivelerà un carattere misterioso e singolare. Un giorno lo scrittore incontra la madre di Barbara, Munemoshune, un nome molto simile alla dea greca Mnemosine che concepì con Zeus le nove muse, e capisce che Barbara non è che la musa della arti, la quale accompagna da sempre gli artisti. Mikura diventerà sempre più ossessionato da Barbara e scenderà in un vortice di pazzia, tra messe nere, culti e omicidi; l’uomo chiederà addirittura a Barbara di sposarlo, ma alla cerimonia verrà arrestato dalla polizia e la donna scompare nel nulla. Si ritroveranno molti anni dopo e, in seguito alla tragica morte di Barbara, Mikura riuscirà finalmente a scrivere il romanzo che aveva iniziato con lei: il libro diventerà un best-seller, ma di Mikura non vi sarà più alcuna traccia. Tutte le opere gotiche di Tezuka sono contraddistinte in particolare da personaggi che nascondono un lato oscuro di loro stessi, il quale li porterà in situazioni terribilmente drammatiche da cui difficilmente saranno in grado di uscire.

Nel 1959 fecero invece la loro comparsa le prime riviste shōnen 少年, mentre quelle shōjo 少女 emersero nel corso degli anni sessanta. Fu proprio da quegli anni che l’economia e l’industria giapponese iniziarono a fiorire quasi al pari dell’occidente, con un conseguente diffusione di ottimismo tra la popolazione. Contemporaneamente, alcuni manga iniziarono ad essere prodotti dividendo il lavoro tra lo sceneggiatore, ovvero la figura responsabile per la scrittura dei testi, e il disegnatore, il quale pensava esclusivamente alle illustrazioni: la tendenza ad assumere degli assistenti diede infine vita al cosiddetto “sistema di produzione”, che permise alle riviste manga di essere pubblicate settimanalmente, aumentandone notevolmente i profitti. Il 1959 fu anche l’anno in cui venne pubblicato uno dei primi manga raffiguranti spiriti e yōkai, ovvero GeGeGe no Kitarō ゲゲゲの鬼太郎 (Kitarō dei cimiteri) di Shigeru Mizuki, giudicato troppo macabro all’epoca e ripubblicato dal 1967 al 1969 nella rivista settimanale Shōnen Magazine 週刊少年マガジン. L’opera ritrae il giovane Kitarō, l’unico sopravvissuto di una comunità di spettri, nelle sue avventure con altri personaggi della mitologia giapponese, tra cui il padre Medama Oyaji, di cui però è rimasto solamente un occhio, Nezumi Otoko, uno yōkai di 360 anni ibrido tra forma umana e roditore, Neko Musume, una ragazza in grado di trasformarsi in uno yōkai gatto, Sunakake Baba,

118 un’anziana yōkai che getta sabbia negli occhi dei suoi nemici, e Konaki Jiji, un vecchio yōkai, spesso in squadra con Sunakake Baba, che trasforma i nemici in pietra (Fig. 90).

Nelle tavole iniziali, il padre di Kitarō, un tempo una mummia, spiega al suo vicino di casa come gli spiriti abbiano abitato la terra da molto tempo prima degli esseri umani e che con il passare dei secoli la loro comunità si sia ridotta sempre di più, oppressa dagli uomini e dalla loro urbanizzazione, ed è quindi per cibarsi che escono solamente di notte. Come si vedrà in seguito, i genitori di Kitarō moriranno di

stenti e malattia mentre la donna è in Kitarō con la sua compagnia, di cui gravidanza, e dalla sua tomba nascerà il i personaggi visti in precedenza (Figura 90) bimbo stesso; uno degli occhi del cadavere del padre prenderà così vita e accorerà a prendersi cura del figlio (Fig. 91).

La rinascita del padre di Kitarō sotto forma di occhio (Figura 91)

Per quanto lo stile possa effettivamente risultare grottesco per un bambino, l’opera sembra destinata proprio ai giovani e sembra soprattutto avere lo scopo di insegnar loro a non avere paura di queste creature considerate pericolose e terrificanti.

119 Le opere prodotte dagli anni settanta in poi furono invece contraddistinte da un dettaglio in particolare: al contrario dei mangaka iniziali, i quali lavoravano su un genere ancora emergente, i disegnatori di quegli anni era cresciuti leggendo fumetti e il loro punto di vista già esperto fu di notevole contributo nell’evoluzione delle opere. Nonostante il genere horror nei manga abbia in realtà origine più moderna, con un numero importante di opere significative prodotte dagli anni ottanta in poi, va menzionato il lavoro di un artista molto celebre e il cui successo viene riprodotto ancora oggi: si tratta di Dibiruman デビルマン (Devilman) di Go Nagai, la versione manga di una serie animata dello stesso autore ispirata ad una sua precedente serie di fumetti intitolata Maō Dante 魔王ダンテ (conosciuto come “Demon Lord Dante”). Devilman fu pubblicato su Shōnen Magazine dal 1972 al 1973 e furono di ancora più successo le varie versioni anime direttamente tratte dalla storia, di cui l’ultima, Devilman Crybaby, è uscita nel 2018. La trama dell’opera appare da subito molto cupa, ma assume i tratti più grotteschi ed estremi verso la fine.

La storia narra di Akira, un ragazzo che vive

con la famiglia di un’amica dopo essere rimasto orfano dei genitori; un giorno viene contattato da Ryo, il suo migliore amico e figlio di un archeologo, morto scoprendo un teschio demoniaco che prova l’esistenza millenaria dei demoni. Ryo chiede l’aiuto del cuore puro di Akira per sconfiggerli, ma intende in realtà tradirlo: Akira verrà attaccato dal Amon, il Signore della Guerra, il quale sarà assorbito dal corpo di Akira La trasformazione di Akira in Devilman trasformandolo in una creatura metà (Figura 92) demoniaca e metà umana chiamata Devilman (Fig. 92). In un crescendo di delirio e paranoia, il mondo sarà attaccato dai demoni e distrutto dagli stessi esseri umani che si uccideranno tra loro, temendo che chiunque incontrino sia in realtà un demone nascosto. Il manga ritrae scene brutali di case in fiamme e di

120 persone linciate in pubblico, tra crocifissioni e decapitazioni, senza distinzione di sesso o età. Si scoprirà infine che Ryo è l’incarnazione di Satana e finirà in una battaglia contro Akira della durata di vent’anni, mentre l’umanità è oramai estinta. In un’ultima rivelazione, si verrà a sapere che i demoni furono creati erroneamente da Dio e che Satana riuscì a concederli il diritto di vivere, per poi ibernarli fino alla battaglia finale contro Dio stesso: nelle ultime scene si vede Devilman morente e un esercito di angeli che elimina gli ultimi demoni rimasti. L’opera segue i canoni, portati tuttavia all’estremo, dell’emergente richiesta del tempo di materiale più adulto e maturo, che mostrasse una realtà più cruda e senza delicatezze. Devilman ritrae la perenne lotta tra bene e male, dove tuttavia i due si confondono e non si raggiunge mai una vera e propria fine: nonostante gli angeli vincano, il mondo e l’umanità sono oramai scomparsi per sempre. Gli esseri umani non hanno saputo affrontare l’arrivo di una minaccia esterna e si sono rivoltati uno contro l’altro invece di unirsi per un unico obiettivo; l’umanità è terminata per colpa anche della stessa debolezza umana che ha portato le persone a trasformarsi da vittime in carnefici. Ma la vera e propria popolarità e legittimazione dei manga come mezzo di intrattenimento giunse solamente dagli anni ottanta, periodo in cui i profitti crebbero enormemente e la diffusione raggiunta fu molto vasta: la rivista settimanale Shōnen Jump 週刊少年ジャンプ, ad esempio, vendette 2.5 milioni di copie nel 1982 e arrivò a 5 milioni nel 1988 38 . Il riconoscimento ultimo arrivò poi nel 1990 da parte del Ministero dell’Educazione, che riconobbe ufficialmente i manga come risorsa artistica e culturale del Giappone e ne istituì una premiazione: il primo di questi premi fu dato proprio ad Osamu Tezuka, scomparso tuttavia nel 1989. Da qui in poi lo sviluppo dei manga fu un continuo salire e ad oggi sono innumerevoli i generi e le opere prodotte, oltre ai sempre più frequenti adattamenti di manga in anime e viceversa, tendenza che negli ultimi anni sta interessando anche il mondo dei videogiochi. Fu proprio dagli anni ottanta che si vide quindi una proliferazione sempre maggior di fumetti incentrati su personaggi del folklore, come yōkai e yūrei, oppure illustrati con un voluto stile grottesco e spesso violento. Si ritroveranno in particolar i temi

38 SHIMIZU Isao, Manga no rekishi (La storia dei manga), Iwanami Shoten, Tokyo, 1991, pp. 38-39 清水 勲『漫画の歴史』、岩波書店、東京、 1991 ページ、38・39

121 osservati in precedenza per la filmografia horror, ovvero la perdita di valori etici e morali, famiglie violente e disunite, individui alienati, isolati o dissociati dalla realtà, scenari apocalittici di un mondo in decadenza.

Uno dei principali esponenti fu Hideshi

Hino, mangaka specializzato nell’horror, produttore del controversa serie cinematografica Guinea Pig (pp. 112) e autore anche di Jigoku hen 地獄変 (Rappresentazione dell’inferno), un singolo volume del 1984. L’opera è narrata dal protagonista, un’artista che presenta al lettore i suoi dipinti infernali creati con il suo stesso sangue, spiegandone la storia che vi è dietro ma senza mai mostrarli (Fig. 93). L’uomo lo introduce poi alla sua famiglia, con la quale fuggì dalla Manciuria L’artista mostra al lettore l’opera finale su cui sta lavorando e afferma di bere ogni giorno acido dopo la seconda guerra mondiale: egli cloridrico per poter accumulare la grande quantità racconta soprattutto degli abusivi subiti dai di sangue necessaria al compimento del dipinto. genitori durante tutta la sua vita, e della (Figura 93)

sua infanzia traumatica e violenta.

Il suo obiettivo finale è quello di comporre un ultimo capolavoro, un “inferno sulla terra” a grandezza naturale. Si capirà nel corso della narrazione come l’uomo sia cresciuto deviato e traumatizzato, e del fatto che faccia uso anche di disastri reali come soggetto dei suoi dipinti: egli prega quindi ogni giorno perché qualcosa di terribile accada e come ultima opera vorrebbe che potessero esplodere tutte le armi nucleari sparse nel pianeta, che capitasse un disastro umano di proporzioni epiche che gli permettesse di dipingere l’inferno più puro e più totale, perché l’umanità finirà ma la sua arte vivrà per sempre. Il protagonista nacque infatti poco dopo lo scoppio della bomba atomica, evento che lo segnò per tutta la vita. L’uomo finirà per essere assorbito dalla sua stessa pazzia e nell’ultima immagine lancia un’ascia verso il lettore,

122 rompendo quella che viene definita la “quarta parete”; l’intera opera è in realtà una tipologia di narrazione-confessione diretta al lettore. È innanzitutto subito evidente l’influenza personale dell’autore, già noto per le sua raffigurazioni estremamente violente e grafiche: Hideshi Hino nacque nel 1946 e scappò con i suoi genitori dalla Manciuria alla fine della guerra, rischiando di essere ucciso dai suoi stessi compaesani; suo nonno era uno yakuza e suo padre un contadino con il tatuaggio di un ragno sul collo, tutti elementi che si ritrovano spesso nelle sue illustrazioni, come anche in Jigoku hen (Fig. 94).

Una rappresentazione ispirata al vero padre di Hino, qui ritratto con il tatuaggio di un pipistrello (Figura 94)

Hideoshi Hino, come visto in precedenza per Guinea Pig, è un artista estremo che porta al limite l’allegoria dell’epoca moderna e in quest’opera, prendendo ispirazione dalla sua stessa vita, mostra l’apocalisse della guerra e dell’era contemporanea osservata dagli occhi di una singola vittima. Sono molti altri i manga che si possono menzionare da qui in poi: dal 1995 al 2000 Minetaro Mochizuki pubblica Dragon head ドラゴンヘッド, ambientato in una Tokyo distrutta da un terremoto in cui tre ragazzi rimangono bloccati all’interno di un tunnel ferroviario, unici sopravvissuti tra i loro compagni e tutti i passeggeri. Uno di loro impazzisce, mentre gli altri due, riusciti a fuggire all’esterno, si ritroveranno di fronte ad un mondo collassato e ora in mano ai saccheggiatori, dove non ci può fidare di nessuno. Nelle scene finali, il protagonista riflette su come il mondo sia ciò che si è creato e che c’è sempre un modo per il male o il bene di trionfare, svelando una luce di speranza in una sua futura ripresa – anche queste metafore delle varie sfaccettature della realtà moderna.

123 Berserk ベルセルク di Kentaro Miura è un ulteriore esempio di manga narrativamente e graficamente violento, una delle caratteristiche per il quale è divenuto altamente noto e popolare. Ambientato in epoca euro-medievale, in un contesto dark fantasy, narra le continue battaglie di Guts, un mercenario nato e cresciuto tra morte e guerra: dato alla luce dopo che la madre fu impiccata, venne allevato da una donna, la quale morì in seguito di peste, e da un padre adottivo violento che Guts fu costretto ad uccidere per salvarsi la vita. La pubblicazione del manga iniziò nel 1989 e prosegue ancora oggi. Sono celebri le violente scene di lotta e guerra illustrate nell’opera, cosparsa di sangue, torture ed uccisioni, e contraddistinte soprattutto da una grande abilità tecnica dell’autore nel donar loro movimento e realismo. Va anche osservato come personaggi dal passato drammatico siano presenze comuni nei fumetti giapponesi di qualsiasi genere: oltre a risultare facilmente apprezzabili dai lettori, i quali entrano in empatia con le loro esperienze traumatiche, il loro spirito tenace e combattivo è spesso fonte di ammirazione per gli altri personaggi e permette altresì di trasmettere una morale, oltre che di ampliare con una certa profondità la trama dell’opera. Yu Yu Hakusho 幽遊白書 (Libro bianco sugli spettri) di Yoshihiro Togashi, al contrario, potrebbe essere considerato la versione moderna e più matura di GeGeGe no Kitarō: pubblicato dal 1990 al 1994, e adattato anche in una versione anime di successo, parla delle avventure di Yusuke, un giovane delinquente investito e ucciso da una macchina nel tentativo di salvare un bambino. Il gesto coglie di sorpresa il regno dell’aldilà e Enma gli concede di ritornare in vita, dopo una serie di test, nel ruolo di “investigatore degli inferi”, per cui dovrà indagare sulle attività soprannaturali che avvengono nel mondo umano. Nell’opera sono quindi raffigurati spiriti, demoni e creature al pari degli yōkai, nonostante non sia un’opera inseribile nel genere horror. Creature mostruose sono tuttavia un soggetto particolarmente apprezzato nei manga e negli anime, soprattutto per la superiore resa grafica illustrata rispetto a quella cinematografica. Il recente Tōkyō gūrū トーキョーグール (Tokyo Ghoul), pubblicato dal 2011 al 2014, ne è un ennesimo esempio: di ambientazione molto più cupa e dark rispetto a Yu Yu Hakusho, la storia parla di un ragazzo a cui vengono erroneamente trapianti degli organi di un ghoul, creature dalle sembianze umane che si cibano solamente di carne umana, trasformandolo così in un essere ibrido. Scoprirà

124 che la città è invasa da questi mostri e dovrà combatterli per sopravvivere, decidendo di lottare assieme al genere umano. Tokyo Ghoul può essere visto anche come un’alternativa al genere zombie, estremamente popolare in occidente ma di produzione limitata in Giappone: tranne alcuni esempi, come la serie di videogiochi Biohazard バイオハザード (“Resident Evil” in occidente) o il più recente manga del 2015 I am Hero アイアムアヒーロー (Sono Eroe), sono rare le opere prodotte in tema e sono invece più comuni figure di creature mostruose o di uomini divenuti tali, spesso cannibali. Questo è probabilmente dovuto alla stessa cultura giapponese, la quale, come si è visto finora, si è sempre distinta per la credenza in esseri soprannaturali dai vari poteri e forme, in grado anche di unirsi agli esseri umani. Per quanto riguarda la raffigurazione di spiriti, invece, procede dal 2003 la pubblicazione di xxxHorikku ×××ホリック(xxxHolic), prodotto da una serie di artisti che si fanno chiamare Clamp: la trama è incentrata su Kimihiko, uno studente perseguitato da spiriti ayakashi, ovvero originanti da corpi d’acqua, che chiede aiuto ad una strega, la quale gli chiede in cambio di divenire suo aiutante e assisterla in compiti soprannaturali. Anche Gakkō no kaidan 学校の怪談 (Storie di spettri scolastici, 2000) si incentra sull’esorcismo di vari spiriti imprigionati in una vecchia scuola e liberati dalla crescente urbanizzazione dell’area: l’opera è basata sui libri di Tōru Tsunemitsu, ma è stata adattata esclusivamente in versione animata. In tema di psiche, invece, sono da notare i manga Monstā モンスター (Monster) di Naoki Urasawa, pubblicato dal 1994 al 2001, e Homunkurusu ホムンクルス (Homunculus) di Hideo Yamamoto, pubblicato dal 2003 al 2011. Il primo narra del dottor Tenma, un chirurgo in un ospedale tedesco che decide di operare d’urgenza un bambino invece del sindaco, arrivato più tardi: il ragazzo si salva, mentre l’uomo muore. Il bambino diventerà tuttavia un serial killer ricercato, a cui si intrecceranno una serie di esperimenti governativi condotti sugli orfanotrofi prima della caduta del muro di Berlino, e Tenma cercherà di porre rimedio alla sua scelta. Homunculus esplora invece il campo della sperimentazione medica: Ito, un ricco laureando in medicina interessato nello studio dei misteri attorno alla natura umana, convince Nakoshi, un senzatetto, a sottoporsi ad un intervento di trapanazione, ovvero l’applicazione di un piccolo foro nel teschio che si dice capace di far emergere il sesto

125 senso umano e di sviluppare nella persona abilità paranormali, come la telecinesi o la capacità di vedere gli spiriti. Ito vuole in realtà confutare l’esistenza dell’occulto, ma a seguito dell’intervento Nakoshi inizierà a vedere attraverso il suo occhio sinistro gli essere umani in forma distorta, i cosiddetti “omuncoli”, ovvero manifestazione dei pensieri umani più profondi e intimi (Fig. 95). Il manga esplora la complessità della psiche umana, percepita in alcuni casi dalla stessa difficoltà di Nakoshi nell’interpretare alcuni degli omuncoli che egli vede, e sulla reale conoscenza che gli individui hanno di sé stessi.

Alcuni degli omuncoli visti da Nakoshi (Figura 95)

Come ultimi esempi si mostreranno delle opere frutto dei continui interscambi e adattamenti tra anime, manga e videogiochi, una tendenza che può essere paragonabile al legame tra ukiyoe e teatro in epoca Edo. Il primo esempio è Kōpusu pātī コープスパーティー (Corpse party), adattamento di un videogioco horror in terza persona uscito nel 1996 sotto Team GrisGirls e di cui furono rilasciati altri remake nel 2010, 2011 e 2013 sotto altri sviluppatori, oltre che alla celebre versione anime OVA39. L’opera è conosciuta per la sua trama violenta, sanguinosa e grottesca: la storia vede un gruppo di studenti che vengono sopresi da un terremoto mentre raccontano delle storie kaidan all’interno della loro scuola, terremoto che li trasposta in una dimensione parallela in cui l’edificio scolastico è una scuola elementare abbandonata e infestata da spettri intrappolati al suo interno e in cerca di vendetta. La scuola era stata chiusa e distrutta tempo prima in seguito alla scomparsa e all’omicidio di vari

39 “Original Video Animation”, produzioni anime create esclusivamente per il mercato home video, senza essere prima trasmesse in televisione.

126 studenti e membri del personale: si scoprirà che fu proprio l’insegnante di ginnastica a rapire ed uccidere un gruppo di studenti, dopo aver tagliato loro la lingua con un paio di forbici. In ultimo, Higurashi no naku koro ni ひぐらしのなく頃に (Quando le cicale piangono), altrettanto conosciuto per la sua grafica violenta e trama particolarmente intricata: la storia è ambientata nella fittizia località di Hinamizawa, ispirata a Shirakawago, un villaggio nella prefettura di Gifu patrimonio dell’UNESCO e conosciuto per le abitazione tipiche in stile gasshōzukuri, con tetto in paglia (Fig. 96 e 97).

Hinamizawa sopra (Figura 96), Shriakawago sotto (foto dell’autrice, Figura 97)

L’opera si basa sul videogioco horror visual novel e mistery dallo stesso titolo prodotto inizialmente nel 2002 da 07th Expansion e seguito da altri remake fino al 2014; il manga è stato invece pubblicato dal 2005 al 2011 e vi hanno lavorato vari artisti. La trama segue le vicende di Keiichi, uno studente trasferitosi nel villaggio di Hinamizawa, dove la vita non è in realtà così serena come sembra e gli abitanti paiono accomunati da un’estrema paranoia. La particolarità della narrazione sta nel continuo ripetersi e susseguirsi di realtà alternative, di cui solamente due personaggi sono conosci. Ogni anno da quattro anni, al termine di un festival locale, una persona viene

127 assassinata: la vicenda si ricollegherà ad un parassita portatore di paranoia abitante le acque del paese, disturbo che in antichità era interpretato come possessione demoniaca e che aveva dato vita al divieto in paese per chiunque di lasciare il villaggio, in modo tale da non diffondere demoni nel mondo; la punizione sarebbe stata la morte per tortura. Questo porterà nel presente all’omicidio della custode del santuario locale, a cui uno spirito cercherà di porre rimedio tornando ogni volta indietro nel tempo: ciò creerà una serie di realtà sempre diverse con risvolti sempre più macabri, tra cui le torture fisiche subite dagli amici di Keiichi.

I manga dell’orrore si sono dunque sviluppati secondo fasi molto simili a quelle della cinematografia, ispirandosi alla storia e alla realtà del momento, oltre che ad elementi della tradizione. La loro diversa resa grafica ha tuttavia rappresentato una notevole differenza nella raffigurazione delle loro trame e ha consentito una sviluppo a sé stante con altre sfaccettature: nonostante il cinema permetta allo spettatore di vedere la realtà come viene vista dai propri occhi, il disegno è un mezzo di espressione che permette molte più possibilità e che stimola ancor più l’immaginazione del lettore. È probabilmente per questo motivo che nei film horror sono più frequenti personaggi spettrali, i quali instillano la paura nello spettatore mettendoli di fronte a scene quotidiane che possono rivedere nella loro vita, mentre nei manga gli artisti giocano con le figure e con le forme, esaltando creature mostruose – molto più complicate da realizzare in modo convincente in una pellicola – e scene di violenza grafica. Di seguito si esamineranno le opere di quattro artisti che hanno contribuito in modo significativo al progresso del macabro e del soprannaturale nell’arte giapponese illustrata, ovvero Kazuo Umezu, Suehiro Mazuo, Junji Ito e Takato Yamamoto.

2.2.1 KAZUO UMEZU

Kazuo Umezu 楳図 一雄 è nato nel 1936 nella prefettura di Wakayama ed è rimasto attivo come mangaka fino al 1990 circa, oltre ad aver coperto ruoli anche di attore, regista e cantautore. È uno dei primi fumettisti di genere horror in Giappone e soprattutto uno dei più influenti sullo stile e sull’arte di coloro che vennero poi. Da

128 piccolo il padre soleva raccontargli molte storie e leggende, e nonostante ebbe sempre la passione per il disegno fu ad 11 anni, nel 1947, che decise di diventare in futuro un disegnatore professionista, dopo aver letto Shin takarajima 新寳島 (La nuova isola del tesoro) di Osamu Tezuku. Inizialmente prese spunto dal suo stile, ma capì ben presto di volerne sviluppare uno proprio e cominciò ad ispirarsi pure ad altri artisti, partecipando attivamente anche in club scolastici dediti ai manga. Fu tuttavia dagli anni sessanta, con il trasferimento a Tokyo, che prese forma il suo vero stile grottesco e singolare, e fu lo stesso Umezu a coniare il termine Kyōfu manga 恐怖マンガ (manga di paura), scrivendolo per la prima volta in una storia intitolata Kuchi kara mimi made sakeru toki 口が耳までさける時 (Quando si recide dalla bocca all’orecchio), pubblicata all’interno di uno kashihon di storie brevi. Da allora Umezu ha pubblicato numerosi manga, principalmente horror ma spaziando altresì tra sci-fi e humor. Molte delle sue opere rimangono tutt’oggi non tradotte in occidente, ma di seguito verranno presentate tre delle più rappresentative e per questo disponibili anche in inglese, ovvero Nekome kozō 猫 目小僧 (Ragazzo dagli occhi di gatto) del 1967, Orochi おろち del 1969 e Hyōryū kyōshitsu 漂流教室 (Aula alla deriva) del 1972.

Nekome kozō, pubblicato inizialmente nella rivista manga Shōnen Gaho, ha come protagonista un ragazzino non umano dagli occhi di gatto che sembra inconsciamente attirato da eventi terribili; ovunque vada succede qualcosa di negativo, ma non ne è tuttavia la causa. L’opera, narrata in storie brevi, racconta gli avvenimenti di cui il ragazzo è inavvertitamente testimone e che egli stesso presenta al lettore, confessando nelle prime pagine come “Ovunque io vada, qualcosa di spaventoso succede”. Ad eccezione del suo ghigno costante, non c’è nulla di malvagio o malvolente nel suo personaggio, che non ha un nome e al quale il lettore può iniziare ad affezionarsi per via del suo aspetto particolare che porta le persone intorno a lui ad allontanarlo. L’orrore si ritrova negli eventi a cui il ragazzo assiste, spesso inquietanti e oscuri, che evidenziano lo stile di Umezu nel mischiare violenza e surrealismo, legati dal flusso di coscienza del narratore. Le storie sono particolari e non contengono una morale; gli innocenti cadono vittima, il sistema

129 morale spesso si perde e il ragazzo non pone distinzione tra giusto e sbagliato, rimanendo un semplice osservatore (Fig. 98).

Nekome kozō (Figura 98)

In uno dei racconti, una banda di mostri vaga per la città mutilando le persone al solo scopo di renderle tanto orribili all’esterno quanto il gruppo le crede orribili al loro interno. Il ragazzo non da importanza alla cosa e considera l’idea di unirsi alla banda, fino a quando non scopre che non si tratta di veri mostri, ma solamente di umani gravemente deformati, motivo per cui li definirà “arroganti” e se ne andrà.

Orochi, composto da quattro volumi, segue le vicissitudini del genere umano viste dagli occhi di Orochi, uno spirito femminile immortale che si muove in solitudine sospinta da una raffica di vento (Fig. 99) e capace inoltre di leggere e condizionare le menti umane. Le storie sono spesso segnate da omicidi e violenze, sia sociali che familiari, similarmente a

quanto accade in Nekome kozō. Orochi mentre viene trasportata da un soffio di vento (Figura 99) Orochi osserva ciò che succede intorno a lei, ma non ha interesse ad intervenire in modo decisivo; il suo esplorare sembra più un passatempo, una curiosità quasi morbosa verso le vicende umane, a cui tuttavia non si vuole avvicinare emotivamente. In una delle storie, ad esempio, la ragazza si trasferisce in una villa in cui abitano due sorelle afflitte da una preoccupazione particolare: ogni donna della loro famiglia, compiuti diciotto anni, si trasforma in un essere mostruoso.

130 Quando si scoprirà che una delle due fu in realtà adottata, Orochi osserverà le due sorelle sfigurarsi e lottare contro sé stesse e contro l’altra, in un turbine di paranoia e pazzia: ma tutto ciò a cui pensa Orochi è quando sia il momento migliore per fuggire, creando prima una connessione tra lei e la villa per poter rimanere sempre al corrente di ciò che vi accade all’interno. È evidente come Umezu si sia ispirato direttamente alla tradizione, utilizzando figure archetipe come spiriti femminili e creature di natura ultraterrena, elementi che appaiono anche in altri dei suoi manga di quegli anni. Un tratto particolare di tutte le opere di Umezu è la caratterizzazione psicologica dei personaggi, che mette quasi in secondo piano gli elementi grotteschi e soprannaturali di cui sono cosparse le storie per donare invece profondità emotiva e comportamentale ai protagonisti. Ma l’opera che lo ha consacrato a uno dei più grandi maestri dell’horror è Hyōryū kyōshitsu, in assoluto la sua serie più importante. Il manga riprende le tematiche apocalittiche, surreali e distopiche già viste in precedenza in altri lavori, tra cui anche il cinema, incentrate sulle conseguenze delle bombe atomiche e dell’industrializzazione, soprattutto dopo la crisi della bolla economica. Dopo un diverbio con la madre, Sho, un ragazzino all’ultimo anno di elementari, si dirige verso la scuola: ma in seguito ad una scossa di terremoto l’edificio intero viene trasportato in un’altra realtà, una terra desolato in cui non vi è nulla (Fig. 100). Si scoprirà che verso la fine del ventesimo secolo vari disastri ambientali hanno annientato l’umanità e i ragazzi si trovano ora nel futuro, in cui sono rimasti soli. Questo sviluppo inatteso avrà serie conseguenze sulla psiche soprattutto degli adulti e darà inizio ad una serie di situazioni guidate dalla pazzia e dalla disperazione: membri del personale diventeranno violenti nei confronti dei bambini, altri si suicideranno dopo aver assassinato alcuni alunni e colleghi, e gli stessi studenti inizieranno ad impazzire (Fig. 101).

131

Il luogo in cui è si trova ora la scuola (Figura 100)

Uno dei maestri mentre investe volontariamente uno studente (Figura 101)

Un’ancora di salvezza arriverà da Nishi, una ragazza con poteri psichici in grado di far comunicare Sho con la madre nel passato, la quale procurerà loro cibarie e materiale di sopravvivenza. La fame, l’arrivo di strane creature e la comparsa di malattie reclameranno le vite di molti degli studenti, alcuni dei quali morti in modo particolarmente tragico, ma la loro abilità e volontà nel formare un gruppo stabile e unito, sostenuto da regole e valori comuni, darà modo di vedere una luce di speranza nel futuro alla fine dell’opera. I personaggi sono raffigurati con particolare espressività e rimane particolarmente profondo l’aspetto psicologico, attraverso il quale il lettore può provare forte emozioni nei confronti dei giovani ragazzi costretti a sopravvivere tra morte e desolazione. Umezu pone molta attenzione nel rappresentare al meglio i sentimenti dei protagonisti ed è intenso il senso di desolazione e malinconia che traspare nel corso della storia, che termina tuttavia con un barlume di positività.

132 2.2.2 SUEHIRO MARUO

Suehiro Maruo 丸尾 末広 nacque nel 1956 a Nagasaki ed è qui presentato in più dettaglio in quanto considerato uno dei maggiori esponenti dell’horror underground e dello ero guro. L’artista lasciò le scuole superiori a 15 anni e presentò il suo primo manga nel 1973, a soli 17 anni, alla rivista Shōnen Jump, che tuttavia lo rifiutò perché giudicato esageratamente grafico. Maruo, infatti, è caratterizzato da uno stile che si distingue per la sua resa visiva e per i dettagli, i quali sono utilizzati per ritrarre storie surreali e anticonformiste, fuori dagli schemi, incentrate per lo più sulla violenza grafica esplicita ma ritratta in una realtà distopica. Fece il suo vero debutto a 24 anni, quando finalmente poté seguire la sua visione artistica senza restrizioni di alcun tipo e fu inoltre un frequente collaboratore della celebre rivista manga mensile Garo ガロ, dedicata a stili alternativi e avant-garde e che ascriveva tra i suoi artisti anche gli esponenti del gekiga Tatsumi e Tsume. Maruo evolse il suo stile prendendo ispirazione da molti artisti di genere gotico, tra cui vari stranieri come Edgar Allan Poe e Salvador Dalì, e da un dichiarato interesse per i film pre-guerra, la cui influenza è chiara nell’illustrazione della narrativa.

Maruo diede vita ad una serie di opere portate all’estremo dello ero guro, alcune delle quali furono stampe muzane direttamente ispirate all’opera Eimei nijūhasshūku 英名二十八衆句 di Tsukioka Yoshitoshi (pp. 59-61), e infatti contenute in un libro dell’autore intitolato Shin eimei nijūhasshūku 英名二十八衆句 (Nuovi ventotto celebri omicidi con versi, Fig. 102).

Uno degli Shin eimei nijūhasshūku di Suehiro Maruo (Figura 102)

133 Nel riquadro bianco in altro a destra dell’immagine si può leggere la dicitura Harawata ni haha no shimikomu chi no bansan40, ovvero “Banchetto col sangue intestinale di mamma”. Nonostante la veemenza e la schiettezza delle sue illustrazioni, Maruo è stato in grado di spezzare i tabù ed è riuscito a dipingere in maniera originale ed impeccabile ciò che il lettore non vorrebbe vedere; tra i suoi lavori, Binzume no jigoku 瓶詰の地獄 (Inferno in bottiglia) è considerato il più intenso e non adatto a lettori sensibili. Di seguito saranno descritte altre due tra le sue opere più rappresentative, altrettanto grafiche ma più adatte al contesto, ovvero Shōjo tsubaki 少女椿 (La giovane delle camelie, tradotto ufficialmente in inglese come “Mr. Arashi’s Amazing Freak Show”) del 1984 e Tsukiteki aijin 月的愛人 (Amanti sotto la luna) del 1994.

Shōjo tsubaki narra di Midori, una giovane ragazza di soli 13 anni che vende fiori per strada per racimolare qualche soldi. Rimasta improvvisamente orfana e senza una casa, Midori finisce per unirsi ad una compagnia circense di fenomeni da baraccone, dove verrà sfruttata e violentata dai compagni (Fig. 103) fino all’arrivo di un’illusionista, che la prenderà sotto la sua ala protettiva.

Una scena di violenza su Midori da parte di un compagno (Figura 103)

Midori è divenuta il personaggio simbolo di tutta la carriera di Maruo. Il titolo dell’opera si riferisce ad un personaggio fisso nel kamishibashi41 durante la sua

40「 はらわたに母のしみこむ血の晩餐」 41 Una forma di intrattenimento in cui si utilizzavano degli emakimono per narrare racconti al pubblico.

134 rimessa in scena in periodo Showa, in cui “la ragazza delle camelie” era un’adolescente proveniente da una famiglia povera che vendeva camelie ai passanti, fino a che non viene venduta e costretta ad esibirsi in qualche tipo di spettacolo. Ad eccezione di Midori, la maggior parte dei personaggi presenti nel manga non sono semplici persone deformi considerate fenomeni da baraccone, ma esseri al limite della natura umana e la cui rappresentazione rispecchia tutta la loro malvagità e deviazione sia mentale che morale (Fig. 104). Un esempio particolare di crudeltà è la scena in cui una ragazza si avvicina a dei cuccioli di cane che Midori accudisce nel tempo libero, afferrandoli e uccidendoli brutalmente sbattendoli più volte a terra, per poi usare la loro carne come ingrediente della cena di gruppo. Anche le scene di violenza sono ritratte in modo estremamente esplicito e visivo, senza esclusione di dettagli e con il chiaro intento di essere più dirette possibile.

Midori assieme alla sua compagnia (Figura 104)

Tsukiteki aijin è invece composto da sei diverse storia: la prima, Mimi nashi Hōichi 耳ナシ芳 (Hōichi il Sordo), parla di un ragazzo ossessionato dalla musica, dal canto e dalla sua chitarra, il quale andrà in contro a grosse difficoltà dopo aver perso l’udito da un orecchio per via di un incidente in mare e passerà il suo tempo a cantare nei cimiteri, entrando in contatto con gli spiriti del luogo (Fig. 105); la seconda, Goraku koya 娯楽小屋 (Il capanno del divertimento), vede un gruppo di amici ritrovarsi insieme ad una sorta di cerimonia funebre per commemorare la morte di uno di loro e usare dei metodi poco convenzionali per consolarsi, come orge e droghe, fino a quando uno spettro non inizierà a perseguitarli; nel terzo

135 racconto, Yaneura no tetsugakusha 屋根裏の哲学者 (Il filosofo dell’attico), la protagonista è una ragazza la quale prova particolare godimento nello spiare il suo vicino di casa. Un giorno, questi la vedrà partorire un neonato ed ucciderlo, e per vendetta lo toglierà dalla sua sepoltura per lasciarlo ogni dì nella casa della ragazza, guidandola alla pazzia; il quarto, Akai mayu 赤い眉 (Sopracciglio rosso), narra di un dipendente anch’esso amante dello spiare il suo capo, soprattutto in momenti di intimità con le sue assistenti. Scoperto dal suo superiore verrà ucciso proprio da questi, ma prima di morire gli lancia una maledizione; il quinto è un estratto di quello che sarebbe poi divenuto un volume a sé stante intitolato ugualmente Inugami hakushi 犬神博士 (Dottor Inugami), e mostra un cane mordere e staccare due dita ad un giovane. Seguendo l’animale si incontrerà il suo proprietario, un ragazzo da passatempi piuttosto inconsueti; l’ultimo racconto, Muteikō toshi 無抵 抗都市 (La città della non-violenza), che copre quasi metà del volume, è ambientato in uno scenario apocalittico del dopoguerra, in cui una malattia sta causando la morte di centinaia di persone. La storia è considerata una delle più grottesche della serie per via della scena estremamente esplicita in cui un bambino viene ucciso e smembrato.

A sinistra, una delle allucinazione di Hoichi mentre si trova al cimitero (Figura 105); A destra, una delle varie stampe singole prodotte da Maruo ispirate ai propri manga (Figura 106)

136 2.2.3 JUNJI ITO

Junji Ito 伊藤 潤二 è probabilmente il mangaka horror più conosciuto e celebrato in occidente, ove esistono decine di blog, forum, fun club e siti dedicati a lui, e i cui manga sono stata adattati in numerose versioni sia cinematografiche che animate. Nato nel 1963 nella prefettura di Gifu, si iniziò ad interessare ai fumetti grazie alle opere di Kazuo Umezu, il quale, a sua detta in molte interviste, rimane ad oggi la sua ispirazione maggiore. La sua carriera lavorativa cominciò in realtà come dentista, ma continuò comunque la sua passione per il disegno e nel 1987 fece il suo debutto apparendo nella rivista Harowin ハロウィン (Halloween) con un breve racconto che sarebbe poi divenuto la celebre serie Tomie, ottenendo persino una menzione d’onore in un concorso intitolato a Kazuo Umezu, di cui lo stesso Umezu era uno dei giudici. Ito si ispira sia all’horror che al mistero, tra cui autori come Hideshi Hino ed H.P. Lovecraft, ma anche ad elementi e realtà ordinarie, i quali possono tuttavia essere trasformati in trame impreviste e intriganti; la stessa natura, come tuoni o tramonti, sono per lui grande fonte di creatività. I personaggi di Junji Ito sono spesso individui che si trovano vittime di circostanze malevole o innaturali senza nessun motivo in particolare o che vengono puniti da forze superiori per ragioni banali; il personaggio non è in grado di modificare il corso del suo destino e può solo tentare di sfuggirli. Le realtà che dipinge sono estremamente distopiche e surreali, di un originalità fuori dal comune, e che riescono a toccare nel profondo il senso di disgusto e di disagio del lettore; le sue ambientazioni non sono apocalittiche in termini di devastazione ambientale, ma trasmettono un sentimento di apocalisse per via delle situazioni incomprensibili e fuori controllo che caratterizzano la maggior parte delle sue opere. Se il genere horror è percepito come una minaccia alla quotidianità e alla normalità, nei suoi racconti Junji Ito attacca proprio questi. Nonostante i dettagli grafici delle sue illustrazioni e le scene particolarmente grottesche e raccapriccianti che contraddistinguono le sue opere, l’artista non sfocia mai in una violenza esageratamente brutale. Una sua ulteriore fonte di ispirazione sono inoltre le cavità, ovvero l’immagine di una zona vuota, questo dovuto al suo lavoro come dentista: Ito si definisce intrigato dalla

137 connessione tra “positività” e “negatività” in un oggetto, come il simbolo del tao si completa ove l’altro manca, e sono varie le sue opere in cui sono ritratti centinaia di buchi, di cui l’esempio migliore è probabilmente Guriserido グリセリド (conosciuto come Glyceride), contenuto nella collezione Yami no koe 闇の声 (Voci nell’oscurità) del 2003.

La storia narra di una ragazza e del fratello, figli del proprietario di un ristorante di yakiniku. La famiglia abita al piano superiore del locale, che è tuttavia un luogo interamente cosparso di olio e grasso, e che manca di ventilazione. Con l’adolescenza, sui volti dei ragazzi si formeranno centinaia di brufoli che rilasceranno grosse quantità di pus (Fig. 107). I fratelli di Guriserido (Figura 107)

Junji Ito ha pubblicato vari racconti brevi nel corso della sua carriera, alcuni dei quali sono stati adattati da Gennaio 2018 in una serie anime di dodici episodi intitolata Junji Ito: Korekushon 伊藤潤二『コレクション』(Junji Ito: Collection). Le opere che lo hanno consacrato alla fama internazionale, tuttavia, sono due serie entrambe composte da tre volumi: Tomie 富江 (1987 – 2000) e Uzumaki うずまき (Spirale, 1998 – 1999), presentate qui di seguito.

La protagonista di Tomie è una bellissima ragazza che dà il suo nome alla serie: la donna è raffigurata con lunghi capelli neri e vesti spesso bianche, a diretto richiamo dell’iconografia classica dello yūrei. Come si vedrà anche in Uzumaki, un altro elemento ricorrente nelle opere di Ito sono i lunghi capelli femminili, la cui possibilità di movimento riesce a trasmettere il senso di inquietudine legato alla loro simbologia nella cultura giapponese. Tomie, grazie alle sue capacità di

138 manipolazione psicologica od emotiva, o anche solo tramite la sua mera presenza, riesce a far innamorare follemente gli uomini e ad indurli ad un’estrema gelosia, che termina con brutali atti di violenza che coinvolgono sia gli uomini stessi che donne, tra cui Tomie stessa. Qui si rivela la natura immortale e rigeneratrice della ragazza, che non può morire e che possiede l’abilità di rigenerare le sue ferite e di replicarsi da qualsiasi parte del suo corpo, dando vita ad altre copie di Tomie che si diffonderanno per il mondo. L’opera è suddivisa in vari racconti e in ciascuno di essi Tomie viene uccisa, per poi tornare in vita. Il primo capitolo è ambientato in una scuola, dove viene rivelato che la ragazza è accidentalmente morta durante una gita scolastica e che il suo corpo è stato smembrato e gettato via dai compagni, troppo spaventati per avvertire la polizia: dopo qualche giorno, tuttavia, Tomie stessa fa ritorno in aula, scatenando il panico e la pazzia tra i colpevoli. Nel secondo capitolo si scopre invece che Tomie può persino rigenerarsi all’interno del corpo di una persona tramite organi trapiantati; anche i suoi capelli sono estremamente pericolosi, aventi la capacità di raggiungere il cervello della vittima e possederlo, per poi ucciderlo dall’interno una volta che la chioma è selvaggiamente cresciuta in tutto il corpo (Fig. 108). La storia non spiega mai l’origine della ragazza, nonostante vi sia l’impressione che esista da un tempo molto antecedente agli eventi narrati, né spiega se la protagonista dei racconti sia sempre la stessa donna o altre copie di Tomie.

I capelli di Tomie mentre prendono possesso del corpo di una vittima (Figura 108)

139 Uzumaki è indubbiamente l’opera più creativa di Junji Ito e anche quella che più ha attirato l’attenzione internazionale. Gli eventi sono ambientati nel fittizio paese di Kurōzo, il cui stesso nome significa “vortice nero”, e vede protagonisti l’adolescente Kirie e il fidanzato Shuichi. Da qualche tempo molti dei cittadini hanno sviluppato una strana ossessione e paranoia verso le spirali, le quali iniziano a diffondersi ovunque nel paese e le persone stesse iniziano a prenderne le sembianze, in scene spesso particolarmente grottesche (Fig. 109).

Il padre di Kirie, una delle prime persone a subire l’ossessione per le spirali (Figura 109)

Kirie stessa verrà attaccata da quel che sembra una maledizione e le ciocche dei suoi capelli si trasformeranno in spirali in grado di ipnotizzare le persone e che tenteranno di strangolarla ogni qualvolta tenti di tagliarle (Fig. 110); l’unica soluzione sarà poi quella di eliminare tutti i capelli.

Kirie mentre lotta contro un’altra ragazza colpita dalla stessa maledizione (Figura 110)

140 Una forte tempesta, conseguenza delle spirali, distruggerà la maggior parte degli edifici del paese, lasciando solamente delle case a schiera in cui i cittadini saranno costretti a trasferirsi, ingrandendole man mano. Kirie e Shuichi tenteranno di allontanarsi dal paese per fuggire, tuttavia senza successo, e scoprono così che il tempo ha una velocità diversa e trascorre più velocemente se ci si allontana dal centro della spirale; passati quindi sette inconsapevoli anni dalla loro fuga, al loro ritorno troveranno Kurōzo cosparso di case a schiera connesse una all’altra a formare un’enorme spirale. Giungendo in fine al centro esatto di essa, i due ragazzi cadono in una fossa, scoprendo così che al di sotto del paese esiste un’antica città cosparsa di spirali e di cadaveri (Fig. 111), e comprendono come la maledizione sia eterna e che gli eventi si ripeteranno quando un nuovo paese sarà costruito al posto di Kurōzo. Stanchi di combattere, Kirie e Shuichi decidono di rimane insieme, mentre i loro corpi si attorcigliano l’un l’altro divenendo un’unica, ultima spirale. L’elemento della città, oltre che la struttura stessa della narrazione, può essere considerato d’ispirazione diretta allo stile di H.P. Lovecraft, il quale si contraddistingueva nelle sue opere per l’inclusione di miti antichi e primordiali, originati molto prima della venuta dell’uomo. L’uso della spirale vuole invece essere da antitesi alla simbologia generalmente positiva che detiene nella cultura giapponese: la spirale è solitamente associata all’idea di infinito ed era anche spesso utilizzata nei cartoni giapponesi per rappresentare il rossore sulle guance dei personaggi.

L’antica città al di sotto di Kurōzo (Figura 111)

141 Un’ultima menzione va fatta a Gyo ギョ (Pesci, 2001 – 2002), in cui la minaccia è costituita da enormi pesci con gambe di metallo ed emananti un forte odore: si scoprirà che furono risultato di una ricerca condotta dall’esercito giapponese durante la seconda guerra mondiale con lo scopo di creare un virus che provocasse nell’ospite un odore ripugnante, in un tentativo disperato di vincere il conflitto. Uno scienziato creò in seguito delle macchine in grado di camminare e di trasportare l’ospite a cui il virus si sarebbe trasmesso, e il gas stesso prodotto dalla vittima avrebbe funto da carburante per la macchina (Fig. 112). I pesci finiranno per invadere Tokyo e contagiarne in cittadini, mentre alcuni sopravvissuti si impegnano a cercarne una cura. Secondo lo stesso Junji Ito, l’opera è stata ispirata dal film “Lo Squalo” di Steven Spielberg e vuole catturare la paura del lettore attraverso mostri marini che possono raggiungere anche la terraferma. Si noti altresì il ritorno di temi legati alle sperimentazioni militari in tempo di guerra. Va menzionato come di recente, dal 2016, sia in corso di pubblicazione il manga Shibuya kingyo 渋谷金魚 (I pesci rossi di Shibuya), di Hirōmi Aoi, in cui Shibuya viene invasa e distrutta dall’arrivo di enormi pesci rossi che si cibano brutalmente degli essere umani e che danno inizio ad una competizione per la sopravvivenza (Fig. 113). L’opera potrebbe essere ispirata direttamente al lavoro di Ito.

I pesci di Gyo di Junji Ito invadono la riva I pesci di Shibuya kingyo mentre (Figura 112) invadono Shibuya (Figura 113)

142 2.2.4 TAKATO YAMAMOTO

Takato Yamamoto 山本タカト non è un mangaka, ma merita menzione in questo capitolo in quanto prosecutore moderno dello stile ukiyoe. Nato nel 1960 nella prefettura di Akita, sviluppò il suo stile persone attorno a quello del mondo fluttuante, coniando ciò che lui stesso chiamò Heisei tanbishugi 平成耽美主義 (Estetica Heisei), ossia uno stile ispirato allo ukiyoe ma che contiene elementi erotici quanto grotteschi. Le sue opere ruotano intorno all’immagine dell’universo come cerchio continuo di creazione, intesa come vita, e di distruzione, intesa come morte, tra serenità e brutalità. Esse raffigurano principalmente esseri umani, spesso indistinguibili tra uomo e donna, circondati da elementi simbolo della vita e della morte, come fiori, spesso crisantemi, o insetti. Le raffigurazioni sono estremamente dettagliate e particolareggiate, e assumono sovente tratti grotteschi, in quel che diventa una versione estremamente moderna e quasi digitale dello ukiyoe; è comune anche l’uso del sangue, oltre che a richiami storici o culturali particolari. Yamamoto è inoltre membro della Tokyo Irasutorētāzu Sosaeti 東京イラストレー ターズ・ソサエティー(Società di Illustratori di Tokyo) e della Kokusai Ukiyoe Gakkai 国際浮世絵学会 (Società Internazionale di Ukiyoe), e dal 1998 è stato impegnato in numerose opere ed esibizioni. Si presenteranno qui di seguito una serie di illustrazioni prodotte singolarmente o come parte di un set, scelte per rappresentare in modo più ampio possibile lo stile di Yamamoto (Fig. 114- 122).

Due ragazze macchiate di sangue (Figura 114)

143

Kimaira no bohyō キマイラの墓標 Tsuki Tereba 月照れば (Lapide di una chimera, Figura 115) (Figura 116)

Nella figura 116 si può vedere una donna legata a shibari accanto ad una persona, la quale indossa una maschera di donna del teatro nō, e una grande luna alle spalle. La scritta in alto a destra, infatti, legge Tsuki tereba 月照れば, ovvero “Quando la luna splende”. Il verbo tereba, tuttavia, potrebbe essere qui usato nella sua doppia connotazione di “splendere”, riferito alla luna, e di “guardare leggermente in alto in segno di gioia”, una caratteristica tipica di alcune maschere del teatro nō.

Sengoku horokōsuto 戦国ホロコースト Una stampa che sembra associare (L’olocausto degli stati combattenti, Figura 117) il nazismo alla morte (Figura 118)

144

(Figura 119) Je baise ta bouche, Jokanaan (Bacio la tua bocca Jokanaan, Figura 120)

Kanjōteki na omochabako 感情的な玩具箱 Akatsuki yoru 紅月夜 (Commovente scatola di giocattoli) (Notte della luna scarlatta) (Figura 121) (Figura 122)

L’occhio e la veste rossa rappresentati in figura 119 potrebbero essere un’allegoria delle tradizionali bambole daruma, mentre sembra possibile in figura 120 e 122 un richiamo alla bandiera giapponese. La figura 120 è inoltre un riferimento al dramma teatrale “Salomè” di Oscar Wilde: nel palazzo di Erode Antipa, Salomè, figlia di Erodiade, rimane infatuata da un prigioniero di

145 nome Jokanaan, ovvero Giovanni Battista. Affascinata dall’uomo, la ragazza lo libera dicendo “Bacerò la tua bocca, Jokanaan, bacerò la tua bocca!”, ma nonostante le continue proposte egli insiste a rifiutare le richieste di Salomè. Infastidita, la ragazza chiede ad Erode di poter avere la testa dell’uomo, ricevendone il consenso: una volta decapitato, Salomè solleva la sua testa e ne bacia le labbra, dicendo “Ho baciato la tua bocca, Jokanaan”. Inorridito, Erode ordina l’uccisione anche di Salomè.

146 CONCLUSIONE

In questa tesi si è analizzato il ruolo e lo sviluppo del macabro e del soprannaturale dall’epoca pre-moderna ai giorni nostri, adoperando in particolar modo l’uso esemplificativo di specifiche opere considerate più rappresentative ai fini dell’elaborazione di un discorso logico e cronologico esaustivo. Nel primo capitolo si sono affrontate molteplici tematiche relative alle credenze culturali nell’ultraterreno e al relativo riverbero nelle arti, a partire da alcuni accenni alle epoche più antiche, essenziali per acquisire una più ampia prospettiva del tema, arrivando fino al termine del periodo Tokugawa. Si sono quindi prese in esame le figure degli yūrei, che in epoca Edo assunsero una particolare iconografia che continua ancora oggi, e degli yōkai, i quali ebbero inizialmente carattere di terrore ma che pian piano assunsero un ruolo più parodistico. Questi vennero in particolar modo impiegati negli ukiyoe, l’arte più caratteristica del periodo Edo e che, in un’unione quasi simbiotica con il teatro e la letteratura, produsse un incalcolabile numero di stampe ispirate ad opere teatrali o a racconti popolari, alimentando la fama di cui il macabro e il soprannaturale godevano al tempo. Sono state inoltre esaminate in dettaglio le opere di Katsushika Hokusai, Utagawa Kunisada, Utagawa Kuniyoshi, Utagawa Yoshiiku e Tsukioka Yoshitoshi. Il secondo capitolo si è invece focalizzato sul punto storico di svolta in termini di comunicazione, ovvero l’avvento dei mass media. Dopo una breve introduzione storica al periodo di transizione tra la fine dello shōgunato Tokugawa e gli inizi dell’epoca Meiji, si è presa in analisi la cinematografia giapponese di genere horror. Si è potuto osservare come le trame e i personaggi delle principali pellicole fossero allegorie storiche, sociali e culturali di numerosi eventi e cambiamenti che accadevano nella realtà circostante, a partire dal brusco incontro con la modernizzazione e l’occidentalizzazione, lo scoppio delle bombe atomiche, la bolla economica, i crescenti problemi familiari ed individuali, il suicidio, l’ascesa della tecnologia, ma anche fatti di cronaca nera. Similarmente, si sono poi presi in considerazione i manga, nati a scopo umoristico ed sviluppatisi successivamente in numerosi generi, tra cui un particolare filone di kyōfu manga contenenti elementi macabri e soprannaturali, sempre di riflesso al mondo circostante. A differenza dei film, inoltre, i manga hanno sfruttato i vantaggi

147 della maggiore libertà conferita dal disegno. In ultimo, si sono presentate ed esaminate le principali opere di Kazuo Umezu, Suehiro Maruo, Junji Ito e Takato Yamamoto.

L’obiettivo principale di questo elaborato era di dimostrare come l’horror non sia esclusivamente un genere superficiale creato al puro scopo di generare terrore o disgusto, ma che è altresì un importante mezzo di trasmissione di valori storici, sociologici e culturali, in grado di rispecchiare la realtà circostante secondo un’ottica critica o di più semplice riflessione. Va inoltre considerata la profondità stessa della paura: la paura è uno dei sentimento più forti e dominanti nell’essere umano, un sentimento viscerale che smuove la volontà umana e di cui spesso non si conosce neppure l’origine. Si è detto anche come non sia un compito facile delineare in modo conclusivo il termine stesso di “horror”, il quale non può possedere un’unica definizione: l’horror è ciò che instilla un sentimento di terrore, disagio o disgusto in chi lo vede, una minaccia alla propria normalità, la sensazione di un qualcosa che non è come dovrebbe essere o che può scatenare eventi che non dovrebbero accadere. Tuttavia, questo si differenzia da individuo a individuo a seconda del proprio background personale e culturale, del luogo di nascita e di crescita, della propria personalità: un soggetto cresciuto in Giappone può non avere la stessa concezione di “horror” di una persona cresciuta negli Stati Uniti, in quanto sono molteplici gli elementi storici, culturali ed individuali che differiscono tra i due. È anche questo il motivo per cui vi è la comune tendenza a produrre remake occidentali di film asiatici, come discusso inizialmente nel capitolo 2; si richiama inoltre il sondaggio a pp. 75-78, in cui i vari partecipanti hanno delineato la differenza in termini di elementi religiosi e denotato l’importanza di avere una buona base di conoscenza dello shintō e del buddhismo per poter efficacemente comprendere una pellicola horror giapponese. Si prenda in esempio il film Ringu e il romanzo su cui è basato: il personaggio di Shizuko sembra ricevere i suoi poteri paranormali dalle divinità marine, fatto specificato più chiaramente nel libro, dove è apertamente indicato il suo incontro con una statuina di En no Ozuno. Appare quindi evidente come un qualsiasi individuo occidentale non esperto di cultura giapponese difficilmente avrebbe colto e recepito questi elementi, portandolo ad una comprensione lacunosa della trama del film. Lo stesso vale per la

148 composizione e la produzione in sé delle pellicole: se l’horror si pone l’obiettivo di ritrarre la realtà circostante per poter instillare terrore nello spettatore, è altresì vero che la realtà differisce da luogo in luogo. Se lo spettatore non associa quindi la realtà del film alla propria, gli stimoli che egli riceverà non saranno altrettanto d’impatto. Sempre nel sondaggio di cui prima, i partecipanti si sono trovati tutti concordi – a loro insaputa – sulle differenze strutturali e simboliche tra film horror americani e giapponesi: i primi sono considerati più diretti, semplici e d’effetto, incentrati sul jumpscare e sulla violenza fisica; i secondi, invece, sono ritenuti più profondi, graduali e psicologici, focalizzati su un progressivo aumento della paura e su una generale ambientazione di malessere. Si prenda ora in esempio il film Kairo (2001, pp. 96-97) e il suo remake americano Pulse (Jim Sonzero, 2006): sono note le ambientazioni cupe e alienanti del film originale, dove pervade un senso di isolamento, disconnessione e di angoscia, sia sociale che individuale, che si protrae per tutta la durata del film, anche in momenti relativamente neutri; nella versione americana, invece, i contesti di tensione sono alternati da scene di vita chiassose e/o allegre, dove spesso i personaggi conversano animatamente e sovente ambientate in luoghi frequentati come bar, scuole o feste. Ci si ricollega quindi al discorso precedente sulla realtà circostante: le pellicole americane sono destinate a spettatori che possono associare alle immagini scene identiche o affini alla propria vita presente o vissuta. Il periodo scolastico è spesso scelto come ambientazione tipica dei film horror occidentali perché contiene una serie di elementi utili sia alla trama che allo scopo del film: i giovani sono un ottimo espediente per far subire alla narrazione un cambiamento improvviso ed inaspettato, probabilmente dovuto a decisioni poco sagge da parte dei protagonisti; inoltre, l’ambiente scolastico rappresenta un periodo di vita sia allegro, in termini di divertimento collettivo, che difficile, in senso di esperienza e crescita personale. La realtà rappresentata era quindi quella di un cittadino americano standard, in cui potevano però riconoscersi anche individui occidentali di altre nazioni, e per molteplici motivi storico-culturali la realtà presente negli Stati Uniti era molto diversa da quella nipponica e non si avvertivano le stesse preoccupazioni. Come si è avuto modo di osservare nel corso di questa tesi, la società giapponese ha subito grandi cambiamenti in un periodo molto breve e la loro assimilazione è stata un processo lungo e tortuoso: la realtà giapponese percepita non aveva quindi connessioni con feste scolastiche o

149 bevute di gruppo al bar, ma ritraeva un mondo ben diverso e sentito spesso in modo negativo. L’obiettivo dell’horror origina proprio da questo, dallo sfruttamento della realtà quotidiana, che accomuna la maggior parte degli spettatori, e il conseguente uso di specifici elementi che provochino nell’individuo forti emozioni, sia negative che di riflessione. Questo spiega ulteriormente perché vari partecipanti al sondaggio considerino le pellicole giapponesi più psicologiche e profonde: i film giapponesi non si focalizzano tanto sulle emozioni provate durante la proiezioni, ma piuttosto sulle emozioni che rimarranno una volta usciti dalla sala. La narrazione è un processo graduale di angoscia che non ha culmine nel finale, ma nel tempo che seguirà la visione del film. L’horror, inteso come rappresentazione del macabro e del soprannaturale, e riferendosi inoltre alle opere di maggior qualità, è quindi un’esperienza soggettiva che mira a scuotere uno dei lati primari della natura umana, quello del terrore conscio e inconscio, e offre una visione estrema della realtà circostante, mostrandola nella sua nudità e crudezza, concedendo così la possibilità di vederla come non si vorrebbe.

150 BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

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153 APPENDICE

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154 Figura 17, Tenguzōshi, Autore sconosciuto, 1295, Museo Nezu di Tokyo, pp. 30 – Fonte: www.jaodb.com; Figura 18, Karasu tengu, Ōhara Denshū, XIX sec., pp. 31 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 19, Shinban ukie bakemono yashiki hyaku monogatari no zu (Nuova versione di una stampa di prospettiva: casa infestata), Katsushika Hokusai, XVIII sec., pp. 39 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 20, Oiwasan, in Hyaku monogatari, Katsushika Hokusai, XIX sec., pp. 40 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 21, Kohada Koheiji, in Hyaku monogatari, Katsushika Hokusai, XIX sec., pp. 40 – Fonte: Yūrei: The Japanese Ghost, Zack Davisson; Figura 22, Warai hannya (Il demone che ride), in Hyaku monogatari, Katsushika Hokusai, XIX sec., pp. 41 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 23, Sarayashiki, in Hyaku monogatari, Katsushika Hokusai, XIX sec., pp. 41 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 24, Shunen, in Hyaku monogatari, Katsushika Hokusai, XIX sec., pp. 41 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 25, Yūrei, in Hokusai manga, Katsushika Hokusai, Volume 13, XIX sec., pp. 42 – Fonte: www.hyakumonogatari.com; Figura 26, Shōki e un demone, in Ehon sakigae, Katsushika Hokusai, 1836, pp. 43 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 27, Il drago serpente, in Ehon sakigae, Katsushika Hokusai, 1836, pp. 43 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 28, Iga shikibunojō mitsumune no rei (Il fantasma di Iga Shikibunojō Mitsumune), Raffigurazione postuma di Nakamura Utaemon IV, Utagawa Kunisada, 1852, pp. 45 – Fonte: Yūrei: The Japanese Ghost, Zack Davisson; Figura 29, Il fantasma di Matahachi e Kikuno, Raffigurazione di Ichikawa Kodanji IV, Utagawa Kunisada, XIX sec., pp. 45 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 30, Ariwara no Narihira, Raffigurazione di Ichikawa Danjurō VIII, Utagawa Kunisada, XIX sec., pp. 45 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 31, Volpe in una tempesta, Utagawa Kunisada, XIX sec., pp. 46 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 32, Sōma no furudairi yōkai Gashadokuro to Ōya Tarō Mitsukuni (Antico palazzo di Sōma: lo yōkai Gashadokuro e Ōya Tarō Mitsukuni), Utagawa Kuniyoshi, 1844, pp. 47 – Fonte: www.ukiyo-e.org;

155 Figura 33, Sayo no Nakayama yonakiishi (Pietra notturna piangente), Tōkaidō gojūsan tsui (Cinquantatré coppie del Tōkaidō), Utagawa Kuniyoshi, 1844-1848, pp. 48 – Fonte: Yūrei: The Japanese Ghost, Zack Davisson; Figura 34, Balia, spettacolo kabuki “Meiboku Sendai hagi (La disputa di successione)”, Utagawa Kuniyoshi, XIX sec., pp. 49 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 35, Spettri di Sakuro Sōgōro e la moglie, Kabuki Sakura giminden (Storia di Sakura, un uomo giusto), Utagawa Kuniyoshi, XIX sec., pp. 50 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 36, Hebiyama (Serpenti di montagna), Utagawa Kuniyoshi, XIX sec., pp. 51 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 37, Minamoto no Yorimitsu kō yakata Tsuchigumo yōkai no zu (Yōkai nella dimora di Minamoto no Yorimitsu), Utagawa Kuniyoshi, XIX sec., pp. 51 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 38, Hyakki yakō Sōma dairi (Parata notturna dei cento demoni al palazzo di Sōma), Utagawa Yoshiiku, 1893, pp. 52 – Fonte: www.collection.spencerart.ku.edu/eMuseumPlus; Figura 39, Prima sezione, Kokkei wanisshiki (Cronache umoristiche della storia del Giappone), Utagawa Yoshiiku, 1894, pp. 53 – Fonte: www.collection.spencerart.ku.edu/eMuseumPlus; Figura 40, Seconda sezione, Kokkei wanisshiki (Cronache umoristiche della storia del Giappone), Utagawa Yoshiiku, 1894, pp. 53 – Fonte: www.collection.spencerart.ku.edu/eMuseumPlus; Figura 41, Terza sezione, Kokkei wanisshiki (Cronache umoristiche della storia del Giappone), Utagawa Yoshiiku, 1894, pp. 53 – Fonte: www.collection.spencerart.ku.edu/eMuseumPlus; Figura 42, Divinità camuffate da clienti di una casa di piacere, Utagawa Yoshiiku, 1860, pp. 54 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 43, Fuwa Bansaku, in Wakan hyaku monogatari (Cento storie di spettri di cinesi e giapponesi), Tsukioka Yoshitoshi, 1865, pp. 55 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 44, Donyoku no baba, in Wakan hyaku monogatari (Cento storie di spettri di cinesi e giapponesi), Tsukioka Yoshitoshi, 1865, pp. 56 – Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di);

156 Figura 45, Kayo Fujin, in Wakan hyaku monogatari (Cento storie di spettri di cinesi e giapponesi), Tsukioka Yoshitoshi, 1865, pp. 57 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 46, Musashi Miyamoto, in Wakan hyaku monogatari (Cento storie di spettri di cinesi e giapponesi), Tsukioka Yoshitoshi, 1865, pp. 57 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 47, Okiku no rei (Lo spettro di Okiku), in Shinkei sanjurokkaisen (Trentasei nuove forme di spettri), Tsukioka Yoshitoshi, 1889-1892, pp. 58 – Fonte: Yūrei: The Japanese Ghost, Zack Davisson; Figura 48, Seppu no rei taki ni kakaru zu (Balia che prega sotto una cascata), in Shinkei sanjurokkaisen (Trentasei nuove forme di spettri), Tsukioka Yoshitoshi, 1889-1892, pp. 58 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 49, Taira no Kiyomori hi no yamai no zu (La febbre di Taira no Kiyomori), Tsukioka Yoshitoshi, XIX sec., pp. 59 Fonte: Japanese Ghosts and Demons, Steven Addiss (a cura di); Figura 50, Naosuke Gonbei, in Eimei nijūhasshuku (Ventotto celebri omicidi con versi), Tsukioka Yoshitoshi, 1866-1867, pp. 61 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 51, Natsu matsuri naniwa kagami, (Festival d’estate: lo specchio di Osaka), in Eimei nijūhasshuku (Ventotto celebri omicidi con versi), Tsukioka Yoshitoshi, 1866-1867, pp. 61 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 52, Omicidio di una donna sopra una tomba, in Eimei nijūhasshuku (Ventotto celebri omicidi con versi), Tsukioka Yoshitoshi, 1866-1867, pp. 61 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 53, Omicidio di una donna su shibari, in Eimei nijūhasshuku (Ventotto celebri omicidi con versi), Tsukioka Yoshitoshi, 1866-1867, pp. 61 – Fonte: www.ukiyo-e.org; Figura 54, Iwai Hanshirō VI, shinie, autore sconosciuto, 1836, fotografia personale dell’autrice, pp. 64 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 55, Raffigurazione tradizionale di Ichikawa Danjurō VIII, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 67 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 56, Ichikawa Danjurō VIII nel ruolo di Jiraya, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 67 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 57, Ichikawa Danjurō VIII come morte del Buddha, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 68 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 58, Ammiratori piangono un ritratto di Ichikawa Danjurō VIII, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 68 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 59, Ichikawa Danjurō VIII seduto in posizione del loto, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 68 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan;

157 Figura 60, Ichikawa Danjurō VIII e un demone, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 69 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 61, Scena del suicidio di Ichikawa Danjurō VIII, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 70 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 62, Ichikawa Danjurō VIII in un’analogia dello spettacolo Kanadehon chūshingura (Il tesoro dei fedeli vassalli), shinie, autore sconosciuto, 1854, pp. 70 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 63, Lettera di addio di Ichikawa Danjurō VIII, shinie, autore sconosciuto, 1854, pp.71 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 64, Utagawa Kuniyoshi, shinie, Utagawa Hiroshige, 1861, pp. 71 – Fonte: Shinie, Kokuritsu Rekishi Minzoku Hakubutsukan; Figura 65, Lapide di Utagawa Kuniyoshi, shinie, Utagawa Hiroshige, 1861, pp. 71 – Fonte: Shinie ni tsuite, Sei to shi no zuzōgaku: Ajia ni okeru sei to shi no kosumorojī, Hayashi Masahiko; Figura 66, Onibaba, Kaneto Shinto, 1964, pp. 79; Figura 67, Gojira, Ishirō Honda, 1954, pp. 82; Figura 68, Wakasa, Ugetsu monogatari, Kenji Mizoguchi, 1953, pp. 85; Figura 69, Oiwa con il figlio, Tokaido yotsuya kaidan, Nabuo Nakagawa, 1959, pp. 88; Figura 70, Una “Stacy” in uniforme scolastica, Stacy, Naoyuki Tomomatsu, 2001, pp. 92; Figura 71, Autocannibalismo, Megyaku: Naked Blood, Hisayusu Satō, 1996, pp. 93; Figura 72, Rika e il figlio, Megyaku: Naked Blood, Hisayusu Satō, 1996, pp. 94; Figura 73, Landa desolata, Megyaku: Naked Blood, Hisayusu Satō, 1996, pp. 94; Figura 74, Una delle stanze proibite, Kairo, Kiyoshi Kurosawa, 2001, pp. 96; Figura 75, Scenario apocalittico del Giappone, Kairo, Kiyoshi Kurosawa, 2001, pp. 96; Figura 76, Lo spirito della moglie di Momiya, Swīto hōmu, Kiyoshi Kurosawa, 1989, pp. 100; Figura 77, Apparizione della kuchisake onna, Kuchisake onna, Kōji Shiraishi, 2008, pp. 100; Figura 78, Bambina quando ancora in vita, Honogurai mizu no soko kara (Dark Water), Hideo Nakata, 2002, pp. 102; Figura 79, Ambientazioni cupe ed isolate, Honogurai mizu no soko kara (Dark Water), Hideo Nakata, 2002, pp. 102; Figura 80, Spirito della madre, Juon (The Grudge), Takashi Shimizu, 2002, pp. 103; Figura 81, Spirito del figlio, Juon (The Grudge), Takashi Shimizu, 2002, pp. 103; Figura 82, Sadako mentre esce dalla televisione, Ringu (The Ring), Hideo Nakata, 1998, pp. 105;

158 Figura 83, Cinquantaquattro ragazze pronte a saltare, Jissatsu sākuru (Suicide club), Sion Sono, 2001, pp. 106; Figura 84, Riprese iniziali dello stalker, Tokyo densetsu: ugomeku machi no kyōki (Tokyo Psycho), Ataru Oikawa, 2004, pp. 109; Figura 85, Scena secondo la prospettiva dell’omicida, Tokyo densetsu: ugomeku machi no kyōki (Tokyo Psycho), Ataru Oikawa, 2004, pp. 109; Figura 86, Asami durante l’audizione, Ōdishon (Audition), Takashi Miike, 1999, pp. 110; Figura 87, Asami mentre tortura Aoyama, Ōdishon (Audition), Takashi Miike, 1999, pp. 110; Figura 88, Aoyama visita un luogo del passato di Asami, Ōdishon (Audition), Takashi Miike, 1999, pp. 111; Figura 89, Scimmie e lepri che si lavano, Chōjū jinbutsu giga (Caricature di umani e di animali), Toba Sōjō, XII-XIII sec., Kozenji, pp. 115 – Fonte: – Fonte: www.jaodb.com; Figura 90, Kitarō e la sua compagnia, GeGeGe no Kitarō (Kitarō dei cimiteri), Shigeru Mizuki, 1967-1969, Volume 3, pp. 119; Figura 91, La rinascita del padre di Kitarō, GeGeGe no Kitarō (Kitarō dei cimiteri), Shigeru Mizuki, 1967-1969, Volume 1, pp. 119; Figura 92, Trasformazione di Akira in Devilman, Devilman, Go Nagai, 1972-1973, Volume 1, pp. 120; Figura 93, L’artista mostra al lettore la sua opera finale, Jigoku hen (Rappresentazione dell’inferno), Hideshi Hino, 1984, pp. 122; Figura 94, Personaggio fittizio ispirato al vero padre di Hino, Jigoku hen (Rappresentazione dell’inferno), Hideshi Hino, 1984, pp. 123; Figura 95, Omuncoli visti da Nokoshi, Homunkurusu (Homunculus), Hideo Yamamoto, 2003- 2011, Volume 4, pp. 126; Figura 96, La fittizia Hinamizaya, Higurashi no naku koro ni (When they cry), Studio Deen, 2006, Episodio 1, pp. 127; Figura 97, La reale Shirakawago, fotografia personale dell’autrice, Agosto 2017, pp. 127; Figura 98, Il ragazzo con gli occhi di gatto, Nekome kozō, Kazuo Umezu, 1967, Volume 1, pp. 130; Figura 99, Orochi trasportata dal vento, Orochi, Kazuo Umezu, 1969, Volume 1, pp. 130; Figura 100, Scuola in una landa desolata, Hyōryū kyōshitsu (Aula alla deriva), Kazuo Umezu, Volume 1, pp. 132; Figura 101, Maestro investe uno studente, Hyōryū kyōshitsu (Aula alla deriva), Kazuo Umezu, Volume 2, pp. 132;

159 Figura 102, Harawata ni haha no shimikomu chi no bansan (Banchetto col sangue intestinale di mamma), in Shin eimei nijūhasshūku (Nuovi ventotto celebri omicidi con versi), Suehiro Maruo, pp. 133 – Fonte: www.cvltnation.com/nsfw-suehiro-maruos-ero-guro- art; Figura 103, Violenza su Midori, Shōjo tsubaki (Mr. Arashi’s Amazing Freak Show), Suehiro Maruo, 1984, Volume 1, pp. 134; Figura 104, Compagnia teatrale mostruosa, Shōjo tsubaki (Mr. Arashi’s Amazing Freak Show), Suehiro Maruo, 1984, Volume 1, pp. 135; Figura 105, Allucinazione di Hoichi, Mimi nashi Hōichi (Hōichi il Sordo), in Tsukiteki aijin (Amanti sotto la luna), Suehiro Maruo, 1994, Volume 1, pp. 136; Figura 106, Stampa ispirata a Mimi nashi Hōichi (Hōichi il Sordo), Suehiro Maruo, pp. 136 – Fonte: www.cvltnation.com/nsfw-suehiro-maruos-ero-guro-art; Figura 107, I fratelli di Guriserido, Guriserido (Glyceride), in Yami no koe (Voci nell’oscurità), Junji Ito, 2003, pp. 138; Figura 108, Capelli di Tomie prendono possesso di una vittima, Tomie, Junji Ito, 1987-2000, Capitolo 11, pp. 139; Figura 109, La morte del padre di Kirie, Uzumaki, Junji Ito, 1998-1999, Volume 1, pp. 140; Figura 110, Kirie lotta contro un’altra ragazza colpita dalla maledizione, Uzumaki, Junji Ito, 1998-1999, Volume 1, pp. 140, Figura 111, Città antica al di sotto di Kurōzo, Uzumaki, Junji Ito, 1998-1999, Volume 3, pp. 141; Figura 112, Pesci meccanici invadono Tokyo, Gyo, Junji Ito, 2001-2002, Volume 1, pp. 142; Figura 113, Enormi pesci rossi invadono Shibuya, Shibuya kingyo, Hirōmi Aoi, 2016-presente, Volume 1, pp. 142; Figura 114, Due ragazze macchiate di sangue, stampa singola, Takato Yamamoto, pp. 143 – Fonte: www.cvltnation.com/nsfwthe-vampire-awakening-the-art-of-takato- yamamoto; Figura 115, Kimaira no bohyō (Lapide di una chimera), in Kimaira no hitsugi (Bara di una chimera), Takato Yamamoto, pp. 144 – Fonte: www.artpedia.jp/takatoyamamoto; Figura 116, Donna legata a shibari, Tsuki tereba (Quando la luna splende), Takato Yamamoto, pp. 144 – Fonte: www.artpedia.jp/takatoyamamoto; Figura 117, Scheletro di un guerriero, Sengoku horokōsuto (L’olocausto degli stati combattenti), in Kimaira no hitsugi (Bara di una chimera), Takato Yamamoto, pp. 144 – Fonte: https://skullappreciationsociety.com;

160 Figura 118, Il nazismo e la morte, Takato Yamamoto, pp. 144 – Fonte: www.cultartes.com/yamamoto-when-macabre-smiles-with-the-face-of-eroticism; Figura 119, Donna in mantella rossa sotto un occhio mostruoso, Takato Yamamoyo, pp. 145 – Fonte: www.cvltnation.com/nsfwthe-vampire-awakening-the-art-of-takato- yamamoto; Figura 120, Donna che bacia una testa mozzata, Je baise ta bouche, Jokanaan (Bacio la tua bocca Jokanaan), Takato Yamamoto, pp. 145 – Fonte: www.artpedia.jp/takatoyamamoto; Figura 121, Ragazzo in una bara, Kanjōteki na omochabako (Scatola di giocattoli commovente), Takato Yamamoto, pp. 145 – Fonte: www.cultartes.com/yamamoto-when-macabre- smiles-with-the-face-of-eroticism; Figura 122, Donna in effusioni con uno scheletro, Akatsuki yoru (Notte della luna scarlatta), Takato Yamamoto, pp. 145 – Fonte: https://skullappreciationsociety.com

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