Pino Pinelli, Pittura R (tecnica mista, 2018)

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019 Acting Archives Review n. 17, maggio 2019 Direzione Claudio Vicentini e Lorenzo Mango Direttore responsabile Stefania Maraucci Comitato scientifico Arnold Aronson (Columbia University), Silvia Carandini (Università di Roma, La Sapienza), Marco De Marinis (Università di Bologna), Mara Fazio (Università di Roma, La Sapienza), Siro Ferrone (Università di Firenze), Pierre Frantz (Université Paris Sorbonne), Flavia Pappacena (Accademia Nazionale di Danza), Sandra Pietrini (Università di Trento), Willmar Sauter (Stockholms Universitet), Paolo Sommaiolo (Università di Napoli “L'Orientale”) Redazione Review: Aurora Egidio, Salvatore Margiotta, Carla Russo, Mimma Valentino, Daniela Visone; Essays: Laura Ricciardi, Barbara Valentino

Tutti gli articoli sono sottoposti a valutazione esterna double blind peer review.

______Rivista semestrale Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 82 del 21/10/2010 ISSN: 2039-9766 www.actingarchives.unior.it Sito: www.actingarchives.it Indirizzo: [email protected] Acting Archives Review - Viale Kennedy, 365 - 80125 Napoli - cod.fisc. 95213660632 INDICE

ARTICOLI

1 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

47 Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione

67 Franz Wedekind, Recitazione. Un glossario

MATERIALI

84 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

109 Antonio Pizzo, Il mio travestimento ‘senza trucco’. Intervista a Erio Masina

127 Ludovica Campione, Nel margine, la ribellione: il teatro secondo Silvia Calderoni

137 Ludovica Campione, L’artista come corpo e icona. Intervista a Silvia Calderoni

163 Silvia Calderoni, “Rumore Rosa”. Partitura scenica

I LIBRI DI ACTING ARCHIVES

Charles Lamb, Theatralia. Sugli attori e la recitazione Traduzione, introduzione e note di Loretta Innocenti

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Gerardo Guccini

Maria Callas: attrice del Novecento

Testi scandalistici e studi: quando gli opposti convergono Nelle varie lingue, la bibliografia su Maria Callas comprende diverse centinaia di titoli1. È un corpus disomogeneo e vastissimo, che, combinando specializzazione e generi di consumo, evidenzia la doppia natura del suo argomento: artistico e globale, radicato nella storia del teatro d’opera eppure presente nella dimensione d’una cultura pop in stato di continua auto-citazione e auto-rigenerazione mediatica. In questa bibliografia, accanto alle ricerche documentarie e agli studi musicali, vi sono decine di narrazioni biografiche che insistono su vicende dai riflessi scandalistici: la rottura con la madre e la sorella, il dimagrimento, la perdita della voce, le rivalità, gli innamoramenti, il rapporto con Onassis... Naturalmente, accanto ai numerosissimi libri che hanno scandagliato la vita della donna, figurano studi interessati a comprenderne l’arte e il messaggio culturale2. Tuttavia, fra i primi e i secondi ci sono intersezioni, ricorrenze, sguardi reciproci. Parlando di Maria Callas, i testi divulgativi si rivolgono infatti a quei numerosi destinatari che, pur sentimentalmente interessati ai fatti d’una personalità familiare e non all’acquisizione di conoscenze specifiche, presentano un retroterra culturale dove trovano posto altre letture, criteri di scelta, motivi d’interesse, e almeno la visione o l’ascolto di qualche opera o aria. Considerando che proprio questo ascolto – magari distratto o raro – è comunque alla base dell’acquisto d’un libro sulla cantante, le ricostruzioni biografiche, anche quando commisurate all’esigenza d’una comprensione emozionale e istantanea, non possono fare a meno di riprendere e citare, più o meno consapevolmente, l’essenziale insieme di caratteristiche vocali – un vero e proprio canone callassiano – che, elaborato dagli approfondimenti critici degli anni Cinquanta, ha definito per tempo il rapporto fra Maria Callas e la sua stessa voce. Una voce che ha riscoperto tecniche, ha rinnovato il repertorio operistico, si è dilatata nell’interpretazione del personaggio riformando dall’interno il teatro lirico

1 Cfr. R. Benedict Gagelmann et al., Maria Callas Bibliography. January 2000, Nijmegen, The Maria Callas International Club, 1999, e la più completa bibliografia in rete al link http://www.callas-club.de. 2 Fondamentale il recente Mille e una Callas. Voci e studi, a cura di L. Aversano e J. Pellegrini, Macerata, Quodlibet, 2016.

1

© 2019 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

e, nello stesso tempo, ha trattenuto, e quasi coltivato, i germi del collasso. Germi già attivi al momento dei massimi trionfi scaligeri. Il canone callassiano e, poi, la vita conclusa di Maria Callas, definiscono un archetipo umano al quale ognuno può applicare, quale strumento di decifrazione immediata, una parte di se stesso. Mentre le saldature di volontà e potenza descrivono archetipi paterni o inquietanti ideologie del superuomo, la coesistenza di potenza e fragilità evoca condivise radici umane. È la storia di molti. La potenza in atto viene disgregata dalle fragilità che essa stessa alimenta forzando limiti, consumando energie, facendo leva sull’impossibile al fine di modificare l’esistente. D’altra parte, esaurendosi in quanto azione immediata, la potenza si rigenera in forma di lascito culturale. E il lascito, nel caso di Maria Callas, contiene e trasforma artisticamente le fragilità della voce, consentendo all’ascoltatore contemporaneo di seguire, di registrazione in registrazione, il tragico compiersi d’un percorso umano. Come le azioni sceniche degli attori, le registrazioni callassiane non sono solo musica o solo teatro, ma svolgimenti di vita che mostrano l’interagire – spesso conflittuale – fra il divenire della persona nel proprio tempo biografico e il farsi del canto nel tempo dell’esecuzione. Nel 1969, allorché la parabola operistica di Maria Callas era ormai conclusa (l’ultima opera interpretata era stata la Tosca del 1965), i musicologi Rodolfo Celletti, Eugenio Gara, Giorgio Gualerzi e Fedele d’Amico si riunirono attorno a Luchino Visconti e al direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni, al fine di disgiungere l’opera della cantante – un caposaldo della cultura novecentesca – dalla dimensione corrosiva e invadente della fama mondana. In quel contesto, dove si ribadiva che la grandezza anche teatrale di Maria Callas precedeva la fase del dimagrimento e della valorizzazione estetica di se stessa, Fedele d’Amico sentì il bisogno di precisare che

la Callas [è] un fenomeno nuovo; e che perciò il mito del suo personaggio, per quante degenerazioni abbia potuto subire, non sia nato sul vuoto, sia nato su qualche cosa. In che consiste questo qualche cosa?3

Musicologi, regista e direttore d’orchestra avvertivano il bisogno di contrapporre al mito vuoto della Callas protagonista del jet set il mito pieno dell’artista. L’uno e l’altro «mito» avevano però uno stesso oggetto: la personalità di Maria Callas. È una trasversalità tutt’altro che scontata e, anzi, indicativa di vicinanze insospettate. Il «mito della personalità», quasi del tutto assente fra i cantanti lirici contemporanei, riguarda infatti, con una

3 F. d’Amico in Processo alla Callas, tavola rotonda con Rodolfo Celletti, Fedele D’Amico, Eugenio Gara, Giorgio Gualerzi, Luchino Visconti, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», A. XII (1978), fasc.1-4, p. 9. Il testo del dibattito su Maria Callas organizzato nel 1969 a Roma dal «Radiocorriere TV» è stato pubblicato una prima volta ivi nel n. 48 di novembre- dicembre dell’anno stesso.

2 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

certa frequenza, gli attori teatrali o cinematografici e, in modo sistematico, i cantanti pop, per i quali tale «mito» è un indispensabile requisito da acquisire, rinnovare e far fruttare sia in senso artistico che commerciale. In anticipo sui tempi, Maria Callas lavorò in modo sperimentale e sostanzialmente individuale – nonostante le fondamentali indicazioni del Maestro Tullio Serafin e l’indefessa assistenza del marito Giovan Battista Meneghini – alla riformulazione in senso mitopoietico della propria personalità. Si trattava di trasformare gli ovvi successi d’una carriera in sicura ascesa in operazioni di riforma che rinnovassero stabilmente le tecniche vocali, i repertori e la stessa percezione mediatica e globale del teatro d’opera. Nel 1982, Jean Lacouture rinfresca il canone callassiano, introducendo l’azione dei media e spostando l’attenzione dalla riscoperta della vocalità della Pasta e della Malibran alla disgregazione del sistema dei ruoli. Per lui, l’apporto della Callas si può riassumere in tre «rivoluzioni»: l’irruzione della cultura operistica nella conversazione di tutti i giorni; l’abolizione delle convenzioni stilistiche e delle barriere fra i registri (rese obsolete dal fatto che una cantante aveva potuto interpretare Brünnhilde, Turandot, Elvira e Rosina); la reinvenzione della recitazione tragica applicata all’opera4. Vista in prospettiva, l’azione culturale di Maria Callas si risolve in una rivoluzionaria «regia di sistema»5 che eccede le ampie competenze della regia lirica, invadendo mediaticamente gli spazi della quotidianità sociale con immagini e gesti d’artista. Tuttavia, anche prima del celebre dimagrimento e delle clamorose affermazioni scaligere, il fatto che la cantante non agisse solo nell’opera, ma anche sull’opera, incominciava ad emergere agli sguardi più attenti. Il tenore Giacomo Lauri-Volpi, che, già anziano ma ancora in arte, vide la Callas in Norma nel febbraio del 1950, notò che, al confronto con la cantante, tutti gli altri interpreti sembravano entrare in zone di marginalità diversamente caratterizzate. Equilibri e strutture dell’opera belliniana venivano così modificati dalla presenza della protagonista:

La voce, lo stile, il portamento, la forza di concentrazione e di espansione – sístole e díastole prodigiose dello spirito – raggiungono in questa donna un’efficacia non comune. Davanti alla sua personalità inquieta e possente, «Adalgisa» scompare nell’ombra. «Pollione» non è più il «fiero latino». Appena «Oroverso» le tiene testa, con dignità ed ardore. Nell’ultimo atto, la voce implorante di Norma m’ha dato la gioia pura dell’arte: «Pensa che son

4 J. Lacouture, Maria Callas, ses récitals 1954-1969, in «L’Avant-Scène Opéra», octobre 1982, n. 44. 5 Sulla nozione «regia di sistema» che indica un’azione di coordinamento e conduzione rivolta, non già all’allestimento d’un singolo spettacolo, ma al sistema della produzione spettacolare cfr. R. Quaglia, Bravi, ma basta! Su certe premesse, promesse e catastrofi culturali, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018.

3 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

tuo sangue » è quanto di più materno e straziante sia stato mai scritto nel teatro di musica.6

Il 30 gennaio del 1953, dopo avere cantato con Callas Lucia di Lammermoor e Trovatore, Lauri-Volpi ipotizza che, in un futuro imminente, «l’Eroe cantore» farà rinascere il teatro lirico occupando il posto che gli compete all’interno del nuovo ordinamento registico. La sua previsione accosta l’emergere della «giovane artista» alla nuova «sovranità» del «regista famoso», individuando in questa auspicata diarchia il superamento degli arbitri, delle approssimazioni, degli smorti retaggi del teatro lirico:

Ed ora, badate, non [ostacolate] […] una giovane artista che, va suscitando il consenso delle folle e potrebbe ricondurre il teatro lirico all’epoca d’oro del fanatismo popolare per il canto. Dobbiamo comprendere che, se la decadenza dell’opera va attribuita all’ingerenza di forze che soppiantarono l’autorità e la personalità del solista […] sta affacciandosi alle porte una nuova sovranità: quella del regista famoso […] che detronizzerà e masse e direttori e sarà il vero […] Demiurgo del dramma in musica, che tutto regolerà e governerà: scenari, luci, prospettive, coro, orchestra, cantori, movimento scenico, interpretazione... E l’Eroe cantore conoscerà finalmente il posto che gli compete, grazie all’acuto senso della misura e dell’equilibrio che il nuovo Animatore avrà cura d’instaurare […].7

Per comprendere le ragioni di questa insolita alleanza che coniugava «Eroe cantore» e regista a tutto discapito dell’autorità esercitata dal direttore d’orchestra, occorre considerare che Lauri-Volpi odiava Arturo Toscanini, colpevole di averlo tenuto lontano dalla Scala per sette anni. A lui, si riferiva chiamandolo spregiativamente «il Nume». Tuttavia, questa visione dell’opera futura, per quanto influenzata da vicende personali, sarebbe stata presto confermata, negli anni 1954-1957, dalla collaborazione fra Maria Callas e Visconti. Intesa, questa, fortemente cercata sia dal regista, che «dopo ogni recita» inviava alla Callas «lunghi telegrammi […] seguiti da richieste di poter lavorare con lei»8, sia dalla cantante che rese possibile la collaborazione intervenendo energicamente presso la direzione della Scala. Sull’episodio si diffonde Giovan Battista Meneghini:

Anche a Ghiringhelli, Visconti non era simpatico. Nonostante tutto quello che è stato scritto, non credo che lo fosse neppure a Toscanini. Infatti, non mi risulta che il grande maestro abbia raccomandato Visconti alla Scala. […] Le uniche persone che si sono interessate realmente perché Visconti entrasse alla Scala, siamo stati io e Maria, Ne parlavamo spesso a Ghiringhelli, il quale, forse stanco di sentirci raccomandare Visconti, decise di farlo lavorare.9

6 G. Lauri-Volpi, A viso aperto, Parte Seconda, Bologna, Bongiovanni, 1983, pp. 66-67. 7 Ivi, p. 180. 8 G. B. Meneghini, Maria Callas mia moglie, Milano, Rusconi, 1981, p. 176. 9 Ivi, p. 177.

4 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Il dimagrimento, la collaborazione con Visconti, i vestiti di Biki, i servizi fotografici di Cecil Beaton (lo stesso fotografo di Greta Garbo e Audrey Hepburn), la vicinanza con con Zeffirelli, furono per Maria Callas strumenti d’un generale restyling visivo dell’opera lirica, intesa sia in quanto pratica artistica sia in quanto presenza mediatica. Grazie al molteplice definirsi della sua personalità di artista e personaggio pubblico, ciò che avveniva sulle scene del teatro d’opera e intorno ai loro protagonisti cessò di essere una questione di musica coreografata per ambientarsi fra i fenomeni di punta dell’immaginario contemporaneo. Fedele d’Amico riconosce che l’importanza storica di Maria Callas non si limita alle interpretazioni, ma riguarda l’interpretare e, a monte dell’azione vocale, i repertori musicali:

Il suo avvento ha rinnovato due cose. Anzitutto il repertorio: tutto un tipo di opere fino a ieri considerate morte o ineseguibili è stato riqualificato dalla sua esperienza; e dico tutto un tipo di opere, non semplicemente quelle singole che lei ha cantato. In secondo luogo ha rinnovato il nostro modo di ascoltar l’opera, ossia le nostre pretese, e perciò i mezzi di soddisfarle, ossia gli interpreti. Questa è la Callas storica; libero poi, chi voglia, di preferire la sua immagine mitica.10

Tuttavia, il musicologo non si spinge a seguire gli sviluppi di quella che Jean Lacotoure chiamerà la prima rivoluzione di Maria Callas. Per lui ciò che riguarda la musica si risolve in atti interpretativi e d’ascolto, in rappresentazioni e in registrazioni, senza perciò toccare il problema della ricezione sociale delle rappresentazioni operistiche. Questione che, invece, occupò Maria Callas fin dagli anni della formazione ateniese. Ricorda Kiki Xakousti, giovane vedova, che abitava con la figlia e la madre giusto di fronte all’appartamento dei Kaloyeropoulos (cognome originario di Maria Callas):

Quanto alla voce a alla carriera, Maria era ottimista per ciò che riguardava il suo avvenire. Ma anche allora non smetteva di ripetere che la gente ne aveva abbastanza di vedere delle prime donne enormi. Esclamava: «Diventerò una silfide!».11

Le tappe del dimagrimento – avvenuto molti anni dopo la giovanile previsione – sono indicate da Giovanni Battista Meneghini, che, anche se questo non era certo il suo scopo, fornisce agli studi la possibilità di contestualizzare questo fatto apparentemente personale, ma, in realtà, di straordinaria incidenza performativa, nel progredire della carriera e del disegno riformatore della cantante: Gioconda (Scala, dicembre 1952) 92 chili; Aida (Londra, giugno 1953) 87 chili; Norma (Trieste, novembre 1953) 80

10 F. d’Amico, in Processo alla Callas, cit., p. 28. 11 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, Paris, Plon, 2002, p. 256.

5 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

chili; Medea (Scala, dicembre 1953), 78 chili; Lucia di Lammermoor (gennaio 1954) 75 chili; Alceste (Scala, 4 aprile 1954) 65 chili; Don Carlo (Scala, 12 aprile 1954) 64 chili12. Il dicembre del 1952 è un momento significativo nella storia di Maria Callas che i giorni 7, 9, 11, 14, 17 di quel mese debutta alla Scala nel ruolo di Lady Macbeth, dimostrando di possedere, aldilà del congenito istinto teatrale, trascinanti e duttili capacità di attrice, confermate di lì a poco dall’interpretazione di un altro personaggio infero come la cherubiniana Medea (Firenze, maggio 1953). La decisione di dimagrire, dunque, segue e poi accompagna il progressivo completamento del canone callassiano, che, dopo l’estremo eclettismo vocale e il recupero individualizzato e inventivo della tecnica del belcanto, annovera anche il visionario intreccio di interpretazione musicale e interpretazione scenica. La fisicità imponente non ostacolava il processo d’immedesimazione e l’energia della performance, ma limitava l’azione della cantante agli ambiti del vecchio teatro d’opera, che accettava per convenzione e anche emozionandosi la visione di una donna che, «malgrado il peso, […] si butt[asse] su e giù per le scale, i piedi in alto la testa in basso, mentre continu[ava] a cantare, emettendo delle note gravi pazzesche»13. Se non fosse dimagrita, Maria Callas non avrebbe potuto ambientarsi nella dimensione figurativa delle regie di Visconti; dimagrita l’avrebbe invece trascesa, confermandosi immagine emblematica dell’opera e del canto. Ciò che mi preme osservare è che il dimagrimento coniuga la conquista d’un forte profilo attoriale all’introduzione della regia all’interno dell’opera italiana. Aldilà della questione estetica, si tratta, quindi, di una linea strategica che accredita la dimensione mitica dell’interprete, consegnando alla memoria della collettività la storia d’una metamorfosi vissuta sotto i riflettori. A guidare la trasformazione della Callas non c’era soltanto il viso fresco e incantevole di Audrey Hepburn, la cui foto Zeffirelli vide nel camerino della cantante «nel periodo in cui era grassissima»14, ma anche il fatto che la debuttante protagonista di Vacanze romane (1953) vinse quell’anno l’Oscar come migliore attrice. Unite assieme, arte e bellezza erano un passaporto che schiudeva l’accesso a una scena globale e nella quale la vecchia opera lirica, se non voleva correva il rischio di ridursi a fenomeno di nicchia, doveva rassegnarsi ad essere rappresentata da chi – come la nuova Callas – conosceva e parlava sia il linguaggio dell’arte che quello mediale.

12 Cfr. A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, traduzione di R. Mainardi, Milano, Mondadori, 1985, p. 142. 13 Così Paolo Poli racconta l’interpretazione della Medea al Maggio Musicale Fiorentino, (P. Poli, Un’artista misteriosa e sconvolta, in Mille e una Callas, cit., p. 367). 14 F. Zeffirelli in M. G. Minetti, Callas odiata poi amata, in «La Stampa», 5 settembre 2007, p. 39.

6 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Dopo il dimagrimento, si dipartono, a partire dal 1953, filiere di azioni che riformano l’immagine pubblica della cantante. Ci sono i grandi spettacoli con Visconti – La Vestale (dicembre 1954), La Sonnambula (marzo 1955), La Traviata (maggio 1955), Anna Bolena (aprile 1957), Ifigenia in Tauride (giugno 1957) – che dimostrano che l’opera è anche teatro e che questo teatro, vivendo, sorprende, emoziona, riscopre, inventa e cambia continuamente. E poi ci sono i servizi fotografici, il presenzialismo mondano, le interviste, i rapporti con la stampa e, contestualmente a tutto questo, il crescente aumento dei cachet che, lungi dall’essere un valore puramente economico, attesta la fuoriuscita dal tariffario operistico a effetto dell’entrata nel mito. Oppure, invertendo i rapporti di causa ed effetto, dimostra che la fuoriuscita dal tariffario, in qualche misura, produce l’entrata nel mito. Scrive, al proposito, Giovanni Battista Meneghini, che seguiva, da industriale, gli affari della moglie:

Era mia convinzione che il cachet di Maria dovesse salire continuamente, perché in questo modo contribuiva a far aumentare il suo prestigio, a creare il mito della massima grandezza, della irraggiungibilità. Se Maria fosse stata economicamente alla portata di qualunque teatro, non sarebbe mai diventata ‘La Divina’. Questa era la mia teoria e i fatti mi diedero ragione.15

Sembra probabile che questi percorsi, ora artistici, ora puramente mediatici, ora economici, siano stati condotti, dal punto di vista della cantante, anche allo scopo di trasmettere una scarica di vitalità ai sopiti centri nervosi della vecchia opera lirica. Non differentemente da Eleonora Duse, che diceva che i teatri dovevano bruciare, Maria Callas parlava del suo teatro d’elezione, l’opera, come di una cosa morta: un «cadavere». Ecco cosa risponde a Giacomo Gambetti, che, nel 1969, l’intervista sul set della Medea cinematografica, chiedendole se «pensa che l’opera lirica abbia ancora ragione d’essere, oggi, specie per il pubblico»:

Forse la lirica è superata. Ci vogliono troppi soldi, troppa gente, per poco pubblico. E poi o la si fa nel modo migliore o no. Lo dissi nel ‘54 inaugurando la stagione di Chicago: l’opera è un cadavere che ha ancora qualche reazione nervosa. Ma costa troppo, per raggiungere poi pochi spettatori, e non parliamo della televisione.16

La scelta delle metafore è indicativa. Eleonora Duse parla di incendio, intendendo che il teatro così com’è deve dissolversi per rinascere diverso. Maria Callas, avvilita dalla perdita della voce, ricorre invece a un’immagine mortuaria e forse inconsciamente autobiografica, che, però, rivela quale fosse, nella sua prospettiva, la meta delle «rivoluzioni» operistiche. Non si

15 G. B. Meneghini, Maria Callas mia moglie, cit., p. 272. 16 Maria Callas: sono per una Medea non aggressiva, conversazione con G. Gambetti, in Medea: un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti, 1970, pp. 23-24.

7 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

trattava di approdare ad un teatro diverso, nel senso di incognito, latente, ancora contenuto nelle pieghe del futuro, ma di restituire all’opera la sua centralità ottocentesca mettendola in grado di competere con i nuovi media: il cinema e la televisione. Il divismo, quando ancora – per lei – i giochi erano aperti e la sua voce consentiva di condurre straordinarie strategie di rilancio, venne dunque utilizzato come strumento di rivalsa agonistica e di ri-affermazione sociale del genere operistico. Di fatto, il primo e il secondo «mito» della personalità di Maria Callas includono entrambi la dimensione mediatica, con l’importante differenza che, in un primo momento, la cantante combina presenza scenica e identità mondana, ristabilendo e rafforzando l’incidenza del teatro d’opera sull’immaginario collettivo, mentre, poi, resta prigioniera dell’estraneo campo di forze in cui si era introdotta a continuava a sopravvivere ormai priva di strumenti artistici. Tuttavia, anche nelle fasi parallele e successive alla turbolenta e devastante relazione con Onassis (1959-1968), che dirada le sue interpretazioni operistiche fino al congedo dalle scene con la Tosca data al Covent Garden di Londra (1965), Maria Callas continua a sperimentare soluzioni, influendo sui contesti teatrali in cui opera. In primo luogo, a partire dal gala di Parigi del 1958, dilata le possibilità performative della forma concerto sia utilizzando elementi reali (l’abbigliamento, il podio del direttore, lo spazio del palcoscenico), sia svolgendo sulle musiche dei preludi pantomime descrittive del personaggio e abilmente raccordate al canto drammatico. Se confrontati ai rari filmati delle rappresentazioni teatrali (tre versioni dell’Atto II di Tosca, un recitativo di Norma, brevi sequenze senza audio dalle prove di Medea), le riprese dedicate ai concerti sono relativamente numerose: Parigi (1958), (15 maggio 1959 e 16 marzo 1962), Londra (4 novembre 1962). Dall’organizzazione scenica di questi eventi, dalle micro-drammaturgie dei loro singoli numeri come anche dai criteri delle scelte e degli accostamenti, risultano alcuni ricorrenti principi costitutivi per cui ogni concerto presenta momenti di recitazione muta, almeno un brano rappresentativo degli approfondimenti psicologici di Giuseppe Verdi17, e successioni di personaggi discordanti che valorizzino, con forti effetti di contrasto, l’eclettismo dell’interprete: la Leonora del Trovatore e Rosina a Parigi 1958; Lady Macbeth e Rosina a Hamburg 1959; Chimène (da Le Cid di Massenet) e Carmen a Hamburg 1962; Elisabetta di Valois e Carmen a Londra 1962. Poi, nel 1969, lavorando assieme a Pasolini alla Medea cinematografica, Maria Callas si dispone a interpretare, con mitezza e comprensione del suo inafferrabile interlocutore ancor più che del loro rapporto e di se stessa, una

17 Il Trovatore per Parigi 1958; «Vieni, t’affretta» dal Macbeth e «Tu che le vanità» dal Don Carlo per Hamburg 1959; nuovamente «Tu che le vanità» per Hamburg 1962 e «O don fatale, o don crudele» dal Don Carlo per Londra 1962.

8 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

parte che aveva voracemente metabolizzato la sua identità di donna turbata dalla perdita dell’identità artistica18. L’interiorizzato «terrore» di Medea, barbara spossessata di magia e d’amore, si radica nel «terrore di non essere» che informa l’indole profonda della cantante. Scrive Pasolini in una poesia a lei dedicata:

Eppure lei, lei, la bambina, basta che per un solo istante sia trascurata, si sente perduta per sempre; ah, non su isole immobili ma sul terrore di non essere, il vento scorre il vento divino che non guarisce, anzi, ammala sempre più.19

Franco Ruffini, riflettendo sulle Medee della Callas, si chiede «quale Callas era capace di recitare». E risponde: «la Callas cantante»20. In linea di massima certamente sì, ma non sempre e non solo. Maria Callas, in quanto alter ego performativo del drammaturgo musicale, era in grado di recitare le parti di cui comprendeva, per via intuitiva e di studio, il processo compositivo. Disposizione che riduce notevolmente il campo all’interno della stessa opera lirica, escludendo la totalità dei musicisti contemporanei, mentre tollera, in compenso, il prodursi di casi extra-musicali. Al proposito della Medea di Pasolini è probabile che l’interprete abbia consapevolmente influito – come lei stessa afferma21 – sulle scelte del regista, e che nel tradurle in azione e presenza filmica, si sia interrogata sulle loro ragioni, disponendosi a interpretare la barbarie attribuitale da Pasolini22 al di qua d’ogni riferimento autobiografico che non fosse la dedizione di sempre alla comprensione della parte. Infine, dal punto di vista mediatico, anche la devastante tournée, condotta negli anni 1973/1974, con il tenore Giuseppe Di Stefano costituisce, per

18 Cfr. F. Ruffini, Medea, da Cherubini a Pasolini, in Mille e una Callas, cit., pp. 269-279. 19 P. P. Pasolini, La presenza, in Id., Transumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971, poi in Id., Tutte le poesie, 2 voll., a cura e con uno scritto di W. Siti, vol. II, Milano, Mondadori, 2003, p. 220. 20 F. Ruffini, Medea, da Cherubini a Pasolini, in Mille e una Callas, cit., p. 277. 21 Partecipando a un’intervista fatta a Pasolini da Oscar Jahn Mountauban, Maria Callas afferma di avere chiesto una Medea meno sanguinaria, più umana, che fosse soprattutto una donna sofferente che il pubblico potesse comprendere. L’intervista è stata pubblicata in «El Nacional», 29 marzo 1970, e nuovamente edita in R. Chiesi (a cura di), Pasolini, Callas e «Medea», FMR-ART’È, Villanova di Castenaso (Bologna) 2007, catalogo pubblicato in occasione della mostra della cineteca di Bologna, 18 ottobre - 8 dicembre 2007, Ta Matete (spazio espositivo di Art’è), Bologna. 22 Pasolini vedeva nella Callas «una barbarie che è sprofondata dentro di lei, che vien fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata». (N. Naldini, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989, p 338).

9 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

quanto disastrosa, un colpo maestro che accende l’attenzione d’un pubblico internazionale sull’auto-celebrazione dei due cantanti. Le narrazioni intorno a Maria Callas, quelle d’impianto scientifico e quelle più legate all’attenzione per le vicissitudini della donna, elaborano un archetipo umano in cui potenza e fragilità si succedono e gemmano l’una dall’altra determinando continue oscillazioni fra gli estremi, per cui all’immodificabile cronologia dei fatti storici corrispondono successioni di segno contrario, dove la morte solitaria viene riscattata dall’ascendente stabilità del mito, e le modificazioni delle voce alimentano, grazie alle registrazioni, un teatro sonoro che coniuga fruizione musicale e impressioni di presenza: quasi episodi d’una biografia della voce che esponga direttamente, fase dopo fase, le peripezie del suo oggetto. Un caso a parte è la congerie di testi narrativi e drammatici dedicati a Maria Callas. In questi la «beatificazione laica» della cantante evita di riferirsi alla perennità del suo lascito musicale, per appoggiarsi ai riflessi salvifici di quella sofferenza e di quel patire che l’allontanano dalle contraddittorietà della vita per isolarla – specie nella letteratura a lei ispirata – «nella devozione riservata alla Madre, alla Madonna, a una martire»23.

La narrazione teatrologica Applicata a Maria Callas, l’analisi teatrologica – attenta al processo compositivo e alle interazioni fra individualità artistica e sistema teatrale – svolge una narrazione ancora una volta diversa, che non si interessa al «mito» della personalità ma ricava, a partire dai documenti, una drammaturgia eclettica e individualizzata, che, priva d’un alveo di scorrimento precostituito e corrispondente ai suoi impulsi, procede organizzando interferenze fra le dimensioni culturali e artistiche del regista e del direttore d’orchestra, dell’attore e del cantante, dei singoli allestimenti operistici e delle prassi rappresentative in genere. In questa prospettiva, la formazione di Maria Callas, la sua azione riformatrice, il suo originale lavoro sulla parte nel contesto dell’ensemble e la sua concezione di performance, presentano caratteristiche particolarissime che si staccano dalle prassi d’un teatro eminentemente pragmatico e funzionale come è quello lirico. Intorno a questi elementi e dinamiche vedrò di identificare, nei paragrafi che seguono, snodi di artigianato espressivo, che si inquadrano nel frenetico intrecciarsi di spinte al superamento – dall’introiezione dell’intero spettacolo al rilancio mediatico dell’opera – che animano dall’interno gli slanci più clamorosi e incisivi della parabola callassiana.

Peripezie di voci spezzate

23 P. Puppa, Una voce di carta, in Mille e una Callas, cit., p. 425.

10 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

La formazione di Maria Callas attraversa due magisteri successivi, quello del soprano Elvira de Hidalgo e quello del direttore d’orchestra Tullio Serafin. Elvira de Hidalgo, insegnante di canto al Conservatorio di Atene e cantante celebre, all’inizio del secolo, nei ruoli di Rosina e Gilda, trasmise alla giovane Maria Kaloyeropoulo l’antica tecnica belcantistica, che veniva generalmente disattesa a effetto delle modalità veriste che richiedevano voci più potenti che agili, più melodrammatiche che capaci di colorazioni delicate. Straordinario soprano d’agilità nella sua giovinezza, Elvira de Hidalgo restò colpita dal timbro personalissimo dell’allieva, della quale corresse l’incontrollato volume d’emissione e la tendenza «a cantare [...] in una tessitura troppo bassa per la sua voce»24, facendole esercitare secondo le modalità belcantistiche che comprendevano tanto gli esercizi di Giuseppe Concone (1801-1861) e Heinrich Panofka (1807-1887) che la rivisitazione e l’utilizzo in senso propedeutico e formativo del repertorio ottocentesco (Norma e Trovatore in primo luogo). Quando, nel 1937, Maria Callas si era trasferita da New York ad Atene, la sua voce possedeva già quell’inconfondibile timbro parlante ed espressivo, che le avrebbe consentito di definire il colore timbrico d’ogni personaggio interpretato, mentre era ancora lontana dal raggiungere quell’impressionate estensione dal fa sotto la di sol al fa sopracuto, che l’avrebbe accompagnata nella prima fase della carriera, permettendole di frequentare un repertorio pressoché universale in quanto aperto a parti di contralto, di soprano drammatico e soprano di coloratura. Hidalgo riconobbe che la giovane Maria presentava una forza naturale nel registro di contralto e che a partire da questa dote sarebbe stato possibile ricavare un soprano sfogato o assoluto25. La sua azione formativa fu determinante e duratura, ma anche spericolata poiché assecondò l’allieva nel disegno di coltivare le proprie doti nel senso dell’eccezionalità, formalizzando così un fenomeno vocale che, proprio perché unico, si misurava fin dall’origine con le incognite connesse al suo essere ‘fuori norma’. E cioè privo sia di parametri immediati di confronto con altre categorie vocali sia di assodati criteri di conduzione e sviluppo. Lavorando con Hidalgo sull’estensione del registro, Maria Callas mostrò – già durante la formazione ateniese – una preoccupante mancanza di omogeneità di tono fra le sue «tre voci differenti»: quella alta, quella centrale, quella bassa. Osserva Nicolas Petsalis-Diomidis, che ha per primo studiato in modo esaustivo la formazione ateniese della cantante:

La mancanza di omogeneità di tono fra le tre «voci differenti» rappresenta una particolarità che Maria acquisì molto presto, fin dall’epoca in cui lavorava con Hidalgo, e che si sviluppò di pari passo con l’estensione del suo registro: infatti, era la conseguenza naturale dell’estensione della voce verso l’alto e

24 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 91. 25 Cfr. ivi, p. 144.

11 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

verso il basso grazie all’uso del petto o della testa come risuonatori. Le sue transizioni erano quasi sempre percepibili e la sua tonalità variava, passando da un registro all’altro. Hidalgo non riuscì a eliminare queste imperfezioni e, più tardi, nemmeno Maria riuscirà a liberarsene, mascherandole in modo astuto, almeno fino agli anni Sessanta.26

Ascoltando le registrazioni di Elvira de Hidalgo (come il valzer «O légère hirondelle» da Mireille di Gounod o «È strano» dalla Traviata) appare evidente che la sua pratica belcantistica percepiva gli abbellimenti in funzione virtuosistica (con propensione ad allungare le note) ancor più che drammatica e interpretativa, ma proprio la distanza fra il modello della «voce-strumento» e il fenomeno Callas, fa meglio comprendere il senso del percorso formativo della giovane Maria Kaloyeropoulo, che aveva lasciato la precedente maestra di canto, Maria Trivella, e cercato una nuova e più prestigiosa insegnate allo scopo di schiarire la voce e acquisire il controllo di quel registro alto che, solo, consentiva l’accesso alle parti da prima donna assoluta dell’opera italiana. «Trivella appartiene alla scuola francese – confida la giovanissima Callas a Hypatia Louvi, che sarà con lei allieva della Hidalgo –. Non va bene per me. Io voglio sviluppare il mio registro più alto»27. Avendo coadiuvato con sensibilità e competenza le precoci strategie dell’allieva, Elvira de Hidalgo va considerata, ancor più che come autonoma formatrice, in quanto ‘coautrice’ d’un fenomeno vocale che, caratterizzato da un funambolico eclettismo conquistato a dispetto del timbro «nerastro» della voce naturale28, nasceva per esistere con totalizzante pienezza e non allo scopo di durare. Giunta in Italia nel 1947, dopo un’inconcludente parentesi a New York, Maria Callas entra in contatto con il maestro Tullio Serafin, che, in primo momento, notando l’intensità della voce e la potenza del registro medio, crede di trovare in lei un soprano drammatico wagneriano. In questa fase, l’anziano maestro l’indirizza verso ruoli che erano stati nel repertorio delle moglie, il soprano Elena Rakowska29: Isotta in Tristano e Isotta (Venezia, Teatro La Fenice, dicembre 1947; Genova, Teatro Grattacielo, maggio1948); Brunilde nella Valkiria (Die Walküre) (Venezia, Teatro La Fenice, gennaio 1949); Kundry nel Parsifal (Roma, Teatro dell’Opera, febbraio 1949). Tutti cantati in italiano. Alla linea wagneriana, Serafin intreccia altre fondamentali combinazioni di composizione musicale e drammaturgia del personaggio: l’esotica Aida (Torino, Teatro Lirico, settembre 1948), la

26 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., pp.144-145. 27 Ivi, p. 132. 28 Dice Maria Callas della sua voce: «Il mio timbro era scuro, nerastro (a pensarlo mi viene in mente un olio grasso), e complicato dai limiti nel registro superiore». (E. Gara, Maria Callas, Milano, Ricordi, 1957, p. 12). 29 Cfr. E. Rakowska in http://www.isoldes-liebestod.net/Isolden_ohne_Liebestod/Rakowska_Elena.htm (ultima consultazione 28-8-2019).

12 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

tragica Norma (Firenze, Teatro Comunale, novembre 1948), alle quali si aggiunge di lì a poco la realistica Violetta (Firenze, Comunale, 1951), che, coniugata alla sacerdotessa belliniana, completa il dittico di riferimento della cantante30. A questo già impegnativo repertorio, I Puritani di Bellini (Venezia, Teatro La Fenice, gennaio 1949) e l’Armida rossiniana (Firenze, Maggio Musicale, aprile 1952), sempre dirette da Serafin, aggiungono gli stratosferici virtuosismi di parti originariamente scritte per Giulia Grisi e Isabella Colbran. Da un lato, si profilano, minuziosamente studiati assieme al direttore, parti che accompagneranno l’intera carriera di Maria Callas, dall’altro, i salti di generi, stile e tipo di vocalità contribuiscono ad alimentare intorno alla cantante un febbrile clima d’attesa, pur sottoponendo a rischi d’usura la sua voce. A differenza di Arturo Toscanini, che «amava le piccole voci» e tendeva ad escludere i cantanti più ampiamente dotati (memorabile lo scontro con Lauri Volpi) e a favore di interpreti intelligenti e disciplinati che si adeguassero alla sua interpretazione, Tullio Serafin seguì con interesse di musicista e formatore i fenomeni vocali dell’epoca, come Enrico Caruso, Titta Ruffo e Rosa Ponselle, che portò al trionfo nel ruolo di Norma dopo due anni di studio. Il magistero di Serafin sviluppò il processo formativo di Maria Callas, facendole esplorare l’universo drammatico della partitura. Se Hidalgo aveva introdotto la giovane Callas alle tecniche e agli esercizi del belcanto, Serafin legò questi esercizi e tecniche al pensiero creativo del compositore. Pensiero che, attraverso la scrittura musicale, porta il cantante a connettere studio della voce, espressione, testo e recitazione. Nel teatro lirico, il personaggio si presenta infatti in quanto espressione del significante musicale, e non, come accade nel teatro drammatico, in quanto referente distinto dal testo che lo trasmette all’interprete o al lettore attraverso sintomi e segni da tradurre in esperienza scenica o allestimento mentale. Per l’attore-cantante lavorare sul personaggio significa sottoporre la partitura a interrogazioni e indagini che illuminino il senso dei significanti sonori fino a individuare, a integrazione di questi ultimi, anche gli elementi impliciti e invisibili del processo compositivo: le pause, i respiri, le intenzioni, i gesti e comportamenti scenici. Circa l’insegnamento di Serafin, Maria Callas si è diffusa con particolare ricchezza di indicazioni in una conversazione con Stelios Galatopoulos:

[Serafin] mi aprì gli occhi, mostrandomi che c’era una natura per tutto nella musica: le fioriture, i trilli e tutti gli altri abbellimenti sono l’espressione del compositore, dello stato d’animo del suo carattere nell’opera – questo è ciò

30 «[Norma e Traviata] sono proprio due momenti che sovrastano la mia carriera». (M. Callas, Seducenti voci. Conversazioni con Lord Harewood 1968, a cura di C. Faverzani, Prefazione di R. Kabaivanska, Roma, Bulzoni, 2006, p. 88).

13 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

che sente in quel momento, le emozioni che lo attraversano e lo attanagliano. […] Una delle prime cose che mi disse (che, di fatto, era un principio basilare del Bel Canto), era di preparare sempre la frase dentro di te, nella tua anima, prima di cantarla: il pubblico te la legge in faccia – quindi la canti e non creerai nessuno stacco, attaccando ad esempio la nota dal basso o dall’alto. Suggeriva, inoltre, che queste pause erano spesso più importanti della musica stessa, che c’era un ritmo, una misura per l’orecchio umano, e che se la nota fosse stata tenuta troppo a lungo avrebbe, dopo un po’, perduto valore. […] Serafin m’insegnò le proporzioni del recitativo – quanto sia elastico, il tipo di bilancia altalenante che solo tu puoi comprendere nella misura in cui lo tieni leggero. Ed inoltre egli sosteneva che se vuoi trovare un gesto o un’azione appropriata sul palco devi solamente ascoltare la musica – ad una pausa, ad un accordo, ad un crescendo. Imparerai così, esattamente, la profondità e la giustificazione della musica. Questo è il perché cercai di assorbire, come una spugna, tutto ciò che potei da quest’uomo insigne.31 Serafin – ricorda il giornalista Michelangelo Bellinetti – «dirigeva mettendosi dalla parte dello spettacolo, sentito soprattutto come fatto dai cantanti»32. Rapportandosi a questo empirico sistema, Maria Callas risalì dalla realizzazione della parte, che ne era l’aspetto culminante, alla concertazione fra elementi e funzioni condotta dal direttore d’orchestra. Agli apprendimenti trasmessi dal maestro, che abbiamo qui ricordati con le parole della cantante, si venne quindi ad aggiungere l’apprendimento – quasi l’’assimilazione’ – del maestro, le cui prescrizioni ai giovani direttori d’orchestra appaiono, di fatto, callassiane tanto quanto le indicazioni trasmesse durante il lavoro sulla parte. Serafin, da un lato, raccomanda ai giovani aspiranti alla direzione orchestrale di «assistere alle prove, tanto di orchestra, come di concertazione, di scena»33; spiega loro che «il melodramma […] scende dal palcoscenico in orchestra; non sale da questa […] al palcoscenico»34; e insegna a rispettare il cantante che «è uno dei

31 S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, New York, Simon & Schuster, 1988, pp. 427- 428. Le dichiarazioni di Maria Callas sono tratte da un’intervista fatta da Galatopoulos nel 1974 al fine di approfondire e integrare altri precedenti interventi dell’artista: «Altough Callas seldom spoke about her art and career, her description of her ambition and approach was articulate and fascinatingly enlightening as, for example, in her interwiew with Derek Prouse (Sunday Times, 1961) and in her television conversations with Lord Harewood (BBC TV, 1968). Later, after her concert tour of 1974 – the last time she sang in public – I was able to add several important points an elaborate on a few when I discussed with her in greater detail various aspects of her art». (p. 426) 32 M. Bellinetti, Serafin e l’Arena, in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, Prefazione di G. Gavazzeni, Venezia, Corbo e Fiore Editori, 1985, pp. 203-212: 205. 33 T. Serafin, Il direttore d’orchestra. Ai giovani che intendono dedicarsi all’arte direttoriale, in Cesar A. Dillon et alii, Tullio Serafin. Con due compact disc, Milano, Edizioni MC, 1998, pp. 45-47: 46. 34 Ivi.

14 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

maggiori coefficienti per riuscire a rendere il pensiero dell’autore»35. Dall’altro, Maria Callas assiste a tutte le prove (al piano, con l’orchestra, in scena); considera se stessa il «primo strumento dell’orchestra»36, collocando sul palco teatrale il fulcro dell’insieme operistico; sostiene che «il primo dovere del cantante» sia quello «di ricreare, o piuttosto di aspirare a trasmettere la volontà del compositore»37. Fra Serafin e Maria Callas non si verificò soltanto un passaggio di esperienze, ma un rispecchiamento di concezioni e obiettivi, al cui interno l’anziano maestro poté efficacemente trasmettere gli intenti compositivi che avevano plasmato in forma di parte il suono delle voci cantanti, perché, già di per sé, la giovane artista percepiva la natura «prespressiva» (E. Barba) degli abbellimenti e degli esercizi vocali, racchiudendo, all’interno della propria esperienza di cantante, il passaggio dall’astrazione sonora all’espressione drammatica:

Oggi – afferma Maria Callas –, neppure i grandi cantanti hanno mai sentito parlare del Panofka o del Concone o d’altri libri di questo genere [che] preparano ai trilli, alle gamme, alle roulades [rapide scale ascendenti e discendenti] e ai legati. Per me questi non sono secchi vocalizzi, né particelle ghiacciate di gamme cromatiche, di acciaccature o trilli, ma dei fantastici embrioni di melodie, delle prove, dei primi tentativi di brani musicali che non hanno ancora preso forma.38

Il fatto che la Callas abbia contribuito a cambiare il repertorio operistico riscoprendo la vocalità dei «soprani drammatici d’agilità» che – come Giuditta Pasta e Maria Malibran – infondevano senso e sentimento agli abbellimenti belcantistici di Norma, Anna Bolena, Desdemona o Amina, presuppone la comprensione del passaggio originario, quello che, attraverso il compositore, andava dalle voci alla partitura. Corrispondendo gli uni agli altri, gli atti creativi dei compositori, che facevano appello all’automa vocalità dei cantanti, e quelli dei cantanti, che rispondevano alla sfida espressiva dei compositori, si risolvevano in esibizioni di creatività drammatica in atto. Hegel, scrivendo tra gli anni 1817 e 1819 le Vorlesungen über die Aestetik che usciranno postume nel 1836-38, descrive, in termini che sembrano prevedere la performance contemporanea, la fase che storicamente precede la derivazione delle parti dalle voci. E cioè commenta filosoficamente la libera interazione rossiniana fra scrittura musicale e improvvisazione vocale:

35 Ivi. 36 Maria Callas si definisce in questo modo in diverse conversazioni, v. S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, cit.; M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 43. 37 Ivi, p. 68. 38 Intervista con M. Rodrini per Radio Philadelphia, Milano, settembre 1957. Cit. in N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 148.

15 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

[…] nell’opera italiana è sempre stato lasciato molto all’iniziativa del cantante che ha la maggiore libertà d’azione soprattutto negli adornamenti, e, essendo qui la declamazione maggiormente lontana da un’adesione rigorosa al contenuto particolare delle parole, anche questa esecuzione più indipendente diviene un libero fluire melodico dell’anima che gode di risuonare per se stessa e di innalzarsi ai propri voli. Quando si dice, per esempio, che Rossini ha facilitato il compito dei cantanti, ciò è vero solo in parte, perché lo ha reso al contempo più difficile, avendo egli molte volte fatto appello all’attività del loro genio musicale autonomo. Ma se questo è realmente tale, l’opera d’arte che ne scaturisce acquista un incanto del tutto peculiare, poiché in tal caso si ha presente davanti a sé non solo un’opera d’arte, ma lo stesso reale produrre artistico. In questa presenza completamente viva vien dimenticata ogni condizione esterna […], non resta nient’altro che il suono universale del sentimento in genere, nel cui elemento l’anima dell’artista, che su di sé poggia, si abbandona al proprio effondersi e mostra la propria genialità d’invenzione […].39

Aumentando l’interesse del pubblico per le situazioni, i caratteri e il dramma, le composizioni operistiche accentuarono le valenze espressive della storia, pur continuando a venire prodotte in una civiltà scenica fondata sulla presenza del cantante, la cui voce era al contempo materia e destinataria del canto drammatico. Raccogliendo le suggestioni hegheliane, possiamo dire che il fenomeno Callas assorbì pratiche e senso di questa prima eredità romantica, ponendo gli spettatori a confronto con processi artistici che trasformavano l’effondersi canoro della voce in drammaturgia musicale in atto. Non si trattava, allora, di seguire un’interpretazione più o meno efficace e seducente, ma di partecipare all’incarnazione della vitale creatività musicale e scenica che aveva prodotto l’opera rappresentata. Allorché Fedele d’Amico, all’indomani del debutto scaligero di Anna Bolena (1957), osserva che l’interpretazione callassiana apriva la strada a un diverso modo d’intendere e frequentare Donizetti, le sue argomentazioni non descrivono solo la riscoperta di una tecnica vocale, ma la riattivazione d’un rapporto fra il pensiero del compositore e la persona dell’interprete, la cui identità si svincola dal principio dell’autonomia artistica per manifestarsi, piuttosto, nella riattivazione di due processi creativi che si contengono a vicenda: quello del compositore intorno alla voce del cantante e quello del cantante sulla partitura che lo include. Scrive Fedele d’Amico, recensendo l’Anna Bolena con Maria Callas:

È […] chiaro, adesso, che il successo presso i contemporanei [dell’Anna Bolena] si spiega con la spontanea concordia che allora correva fra l’opera e i grandi cantanti per i quali era stata scritta, e i cui talenti, in percentuale maggiore o minore, erano parte costitutiva della sua nascita. […] Quanto alla protagonista, che la Callas fosse naturalmente nella sua parte era chiaro a

39 G. Guanti, Romanticimo e musica. L’estetica musicale da Kant e Nietzsche, Torino, EDT, 1981, pp. 200.201.

16 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

priori: il direttore non aveva che da levare la bacchetta, per farne tesoro. E ancora una volta, così i suoi accenti iracondi come le sue confessioni a mezza voce sussurrate «au confessional du coeur» furono quelli di una cantante che rimane una delle più folgoranti apparizioni del teatro moderno. La sola, certo, capace di ritrovare d’istinto il clima dell’opera italiana del primo Ottocento, quella ancora permeata del canto fiorito e tuttavia variamente tesa verso le ambizioni drammatiche del Romanticismo […]. Il suo modo di realizzare e trasfigurare la linea musicale delle colorature in una sorta di lirico sospiro […], oppure di trasformarla, analogamente, in prolungata interiezione passionale, rivela un aspetto essenziale di quelle musiche: e precisamente quello che il tempo aveva seppellito, quello che non troviamo più nella pagina scritta. Avevamo oscuramente immaginato che la presenza della Pasta o della Malibran significassero questo. Ma solo la Callas ce ne ha definitivamente accertati.40

Considerato che sia la Pasta sia la Malibran debuttarono come contralto e che né l’una né l’altra furono «voci fatte unicamente di cristallo, tastiere infallibili, strumenti astratti; ma [proprio come la Callas] voci ricche, accidentate, mosse, espressive»41, possiamo considerare il ruolo svolto nella storia dell’opera dalle voci disomogenee e difettose che, da un lato, introdussero istanze attoriali, dall’altro, arricchirono le partiture di valenze espressive tanto evanescenti quanto essenziali al riconoscimento del loro senso drammatico.

La partitura registica della parte Le strategie d’arte che hanno ricavato dai difetti vocali della Callas invenzioni interpretative; l’indiscriminato eclettismo del primo repertorio e poi il concentrarsi su un numero ridotto di parti in continua evoluzione; lo studio accanito; il carattere drammatico delle interpretazioni musicali e quello addirittura mitico – vista la mancanza di rappresentazioni integralmente filmate – delle realizzazioni sceniche, sono tutti aspetti debitamente rappresentati dal canone callassiano, mentre scarso interesse hanno destato le frammentarie indicazioni intorno all’empirica poetica che consentì a Maria Callas di influire sullo spettacolo complessivo. La storia di un cantante lirico è essenzialmente storia d’una voce, invece, nel caso di Maria Callas gli aspetti vocali si intrecciano a strategie autorali che intercettano l’emergere della regia lirica e le competenze spettacolari del direttore d’orchestra, individuando fra l’uno e l’altro aspetto una terza via che faceva dell’interprete principale il medium del compositore e il diapason al quale accordare esecuzione e allestimento. Per realizzare la sua opera artistica e riformatrice, Maria Callas non disponeva di strutture intermedie equivalenti a ciò che il testo è per l’autore drammatico, la sceneggiatura per il regista cinematografico, la

40 F. d’Amico, Una lezione sull’opera italiana (1957), in Id., I casi della musica, Milano, Il saggiatore, 1962, pp. 165-166. 41 F. d’Amico, Amina al proscenio (1955), in ivi, p. 84.

17 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

partitura per il compositore o il progetto scenico per il regista teatrale, ma di un corpo-in-vita e della voce. Certo, la realizzazione della parte comprendeva il testo e la partitura, che, però, confluivano nel lavoro scenico senza esserne stati prodotti. Per manifestare senso drammatico e suono del canto, non aveva che una possibilità: caricare sulla ‘carretta del corpo’ quanto era stato scritto o composto, portarlo a vista dello spettatore e restituirlo attraverso brandelli di vita scenicamente e musicalmente organizzata. Fra la memorizzazione della parte – rapidissima, nel caso della Callas – e la sua realizzazione, c’erano, in questo percorso verso lo spettacolo, lunghe fasi di studio, applicazioni e messe a punto di tecniche, ripensamenti solitari, immaginazioni, verifiche, prove, integrazioni, esercitazioni, acquisizioni, correzioni, suggerimenti, vale a dire tutta una serie di operazioni che rientravano fra le funzioni del vivere, senza perciò risolversi in forme di scrittura preventiva. Le interpretazioni di Maria Callas erano piuttosto esperienze di scrittura scenica che assimilavano, sia individualmente che in sede di prove, la scrittura del compositore. L’opera di Maria Callas – come quella di ogni artista scenico – veniva realizzata vivendo ed era costituita da costellazioni di momenti di vita: tanti quante erano le repliche d’ogni singola parte realizzata. A differenza dei registi, che normalmente affidano a sostituti l’incombenza di mantenere vivo e ritmato, di ripresa in ripresa, uno spettacolo già allestito, la cantante non poteva mai considerare concluso il lavoro sulla parte, che, finché veniva rappresentata, si modificava, si adattava, si trasformava radicalmente: era un organismo vivo, una creazione in divenire, che trovava, nei rapporti professionali con il direttore d’orchestra, il regista e gli artisti dell’ensemble vocale, un contesto in cui trovare e rilasciare stimoli e indicazioni. Questa modalità creativa implica l’introiezione dello spartito, del testo, degli spazi teatrali e dell’azione drammatica; matura attraverso le interazioni con gli altri membri dell’ensemble e col pubblico; si risolve nella scrittura d’un esistere in condizioni di rappresentazione, che attiva, in funzione della parte, le molteplici funzioni dell’essere umano: intellettive, mnemoniche, affettive, sensoriali, intuitive e puramente organiche (come le funzioni fonatorie); infine, prosegue aldilà dello spettacolo, agendo sulla concezione della parte. Per indicarla sinteticamente proporrei di utilizzare l’espressione ‘partitura registica della parte’. Con questa intendo segnalare, all’interno del processo compositivo di Maria Callas, sia la presenza di forme artistiche e repertori personali (di gesti, intonazioni e soluzioni figurative), sia l’azione d’una funzione registica introiettata che, senza mai produrre esiti assolutamente definitivi da restituire in quanto memorizzazione del personaggio, guida in itinere l’intreccio scenico di queste forme e repertori, mantenendosi

18 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

reattiva, imprevedibile e inventiva. La partitura registica della parte non indica, insomma, un progetto da realizzare, ma la dinamica con cui la parte prende vita e si trasforma. Maria Callas fa spesso riferimento al fatto che, durante le prove e le rappresentazioni, c’è una parte della sua personalità che si sdoppia e assume il controllo dell’interpretazione e dello spettacolo, agendo all’interno del processo compositivo42. Parlando con Lord Harewood, questa funzione registica viene implicata dall’esigenza di «misurare lo spazio, la rappresentazione, il ritmo delle cose». Per cogliere il senso dell’osservazione, occorre considerare che Maria Callas la colloca, come detta da lei stessa, al termine di un micro-dialogo di battute in prima persona fra direttore d’orchestra e regista. La considerazione parte da un rilievo di Lord Harewood che nota come le parti dello spettacolo, invece di incollarsi l’una all’altra, «possono cadere in frantumi»:

Talvolta possono e talvolta si frantumano. Spessissimo. Nelle opere di repertorio come Norma o La traviata, so sempre, o quasi sempre – ma potrei dire sempre –, il momento esatto in cui deve interrompersi il coro. So esattamente quando ripeteranno più volte le stesse frasi. In certi casi, la colla prende, diciamo così. È inevitabile. Allora si riesce a incollare tutti i frammenti: scena, orchestra, colleghi, orchestra, coro, e nel frattempo si provano anche i costumi. Si sono visti i bozzetti, quindi... E alla fine si giunge... Dopo tante belle parole fra il direttore e il regista, del tipo: «No, questa è la mia prova...» «No è la mia» «Va bene, ma non posso continuare a fermarmi; bisogna poter misurare lo spazio, la rappresentazione, il ritmo delle cose». Bisogna misurare... perché fino ad allora non era ancora cantata né rappresentata l’opera per intero.43

La partitura registica della parte coniuga studio del testo musicale e realizzazione scenica, interagendo con le parti dello spettacolo e le azioni di tutte le componenti dell’ensemble (cantanti e mansioni direttive). Non si tratta d’una nozione teorica forte, ma d’un concetto d’uso, che si articola e precisa nel venire applicato. È infatti il lavoro creativo di Maria Callas, che, in questo caso specifico, ne determina procedimenti e sviluppi. E ciò a partire dagli anni della prima formazione, e, a un livello più personale e intrinseco, dalla costituzione fisiologia dell’artista.

Una miopia geniale Tolti gli occhiali dalle spesse lenti, Maria Callas non vedeva che ombre: la chiazza vibrante del direttore d’orchestra non le consentiva di distinguere gli attacchi, mentre la fitta bruma che copriva lo spazio scenico non le

42 «Ho due livelli mentali: il primo è la mente che crea e deve fare quel che ci si aspetta dal personaggio o dalla situazione; poi mi sforzo di distaccarmi per immedesimarmi col pubblico o con qualcuno che guardi quell’altra persona che sta creando». (M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 68). 43 Ivi., pp. 57-58.

19 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

permetteva di cogliere le distanze da percorrere, i punti da raggiungere, gli interlocutori cui rapportarsi. I grandi occhi di Maria Callas lanciavano sguardi e spalancavano abissi, ma, senza gli occhiali, il loro vedere era solo apparente: un raffinatissimo artificio teatrale. Come lei, un altro grande artista di teatro aveva attraversato la scena senza nulla vedere, ma dando l’impressione di fulminare «con cento occhi» (Fellini) quanto gli accadeva intorno. Si tratta dell’indimenticabile Totò. Restituendone la fisiologia scenica, Meldolesi colloca gli handicap visivi fra le fonti dell’energia teatrale:

Totò aveva recitato da sempre a occhi semi-chiusi, con privilegio della vista di memoria, nonostante la sua ripugnanza per la memoria delle prove. […] È ipotizzabile, quindi, che le due viste di Totò si relazionassero costituendo una vista unitaria, una specie di vista da recitazione. Bastava che rimanesse un barlume della vista naturale, perché la vista della memoria permettesse all’attore di vedersi attorno […]. L’attore Totò, che recitava vedendo principalmente con la memoria, esprimeva le sue visioni con tutto il corpo. In fondo, erano quegli straordinari movimenti del corpo a dire ciò che i suoi occhi semi-spenti vedevano. Nel rinascimento l’attore menomato nella vista suscitava ammirazione, perché da tutte le sue membra si sprigionava un’energia tesa e costante.44

Anche Maria Callas ricavava energia dall’isolamento visivo in cui la teneva la forte miopia, e, come Totò, vedeva principalmente con la memoria. A farle da guida, assieme alla memoria delle prove, c’era però anche la memorizzazione della partitura, degli spazi e dei movimenti da compiere al loro interno. Intorno a lei, la scena lirica era infinitamente mutevole: da uno spettacolo all’altro apparivano e sparivano scale, praticabili, dislivelli, botole, ponti. Anche gli oggetti ponevano insidie, ora, nella Tosca, c’era da raggiungere un tavolo all’altezza del coltello, ora, nel Fidelio, bisognava puntare una pistola e guai a sbagliare direzione. A differenza di Totò, Maria Callas non poteva contare né su spazi standard né su comprimari fidati che fungessero da «accompagnatori artistici». Inoltre, lo svolgersi della rappresentazione operistica rispondeva alla gestualità imperativa del direttore d’orchestra: ruolo che, nel caso della Rivista, era invece attento a raccogliere gli impulsi, i ritmi e gli estri improvvisativi dei protagonisti scenici. Per risolvere l’impasse, Maria Callas fu obbligata a mettere preventivamente in memoria non solo la parte, ma l’intero spettacolo operistico: partitura, spazialità, movimenti. Il suo procedimento è descritto da Elvira de Hidalgo:

Senza gli occhiali non vedeva a un metro, ma questo handicap fisico l’ha considerevolmente aiutata a sviluppare la memoria. Maria Callas ha

44 C. Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, p. 53.

20 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

interpretato dozzine di opere sulla scena senza essere nemmeno in grado di vedere il direttore d’orchestra. Per non sbagliare le sue entrate, ella memorizzava tutta l’opera, i ruoli del tenore, del baritono, dei bassi, del coro, tutto. Quando venne a trovarmi al conservatorio, aveva già preso l’abitudine di imparare le opere intere a memoria.45

Sulle implicazioni sceniche e recitative della memorizzazione della parte, si sofferma Zoé Vlachopoulou, compagna di studi di Maria Callas e, come lei, afflitta da una fortissima miopia:

Vedevamo appena il direttore d’orchestra, così poco che non potevamo contare su di lui per farci segno quand’era il nostro turno. Le dicevo spesso [a Maria] che questo non m’infastidiva, e lei era d’accordo, il fatto di sapere a memoria i nostri ruoli ci dava un grande sentimento di sicurezza nel caso un altro cantante avesse sbagliato... Maria riconosceva che era un grande vantaggio. Sottolineava che la nostra indipendenza dalla bacchetta del direttore d’orchestra ci permetteva di recitare e di spostarci sulla scena con maggiore libertà. In effetti, quando si è impegnati a seguire il direttore d’orchestra che batte il tempo, il nostro modo di recitare si disintegra, l’emozione se ne va, e non siamo più immerse nel nostro ruolo.46

Da queste testimonianze potrebbe apparire che la miopia avesse sollevato Maria Callas dall’obbligo di seguire il direttore d’orchestra, le cui funzioni sembrerebbero superate dalla memorizzazione dell’opera. È invece vero il contrario. Non potendo vedere gli attacchi del direttore né far affidamento sull’aiuto del suggeritore, Maria Callas prese infatti l’abitudine di «assistere assiduamente alle prove dell’orchestra»47, che entrarono anch’esse nella memorizzazione preventiva dell’evento scenico. La cantante, assommando le prerogative mnemoniche del regista e del direttore d’orchestra, conteneva mentalmente la rappresentazione in fase di realizzazione. Rappresentazione che, tramite il canto e i movimenti scenici, infiltrava dall’interno lo spettacolo concretamente realizzato. Per imprimervi il suo suggello, Maria Callas aveva individuato una modalità, che, presa di per sé, appare semplice e appena sospetta di esibizionismo, mentre, inquadrata nella storia dello spettacolo, riprende le pratiche a matrice attoriale della creatività preregistica.

Come l’Ermolova, come la Duse (ma più come la Duse) A partire dal debutto nel ruolo di Tosca (Teatro all’aperto di Piazza Klafthmonos, Atene, agosto-settembre 1942), Maria Callas si tenne al principio di cantare a piena voce durante le prove. Mentre i colleghi si risparmiavano in vista del debutto, lei sola anticipava la sonorità – e anche la competitività e le tensioni – dello spettacolo realizzato. Il perché di

45 N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 148. 46 Ivi, p. 316. 47 Ivi, p. 242.

21 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

questo pericoloso scialo di energie, lo spiega, nel 1968, in una conversazione con Lord Harewood:

C’è una cosa che dovete veramente fare; è cantare al massimo della vostra voce a partire da tutte le prime prove con l’orchestra, questo nel vostro interesse e in quello dei colleghi, perché anch’essi adattino la loro interpretazione alla vostra colorazione, esattamente come il direttore d’orchestra e il regista. L’essenziale è verificare le vostre possibilità48. (C.I., p. 241)

Cantando a piena voce una partitura già completamente memorizzata, Maria Callas si offriva agli altri cantanti, al regista e al direttore d’orchestra come modello al quale accordare il processo della rappresentazione operistica. Questa strategia di condizionamento ha lascito significative tracce nei ricordi dei direttori d’orchestra. Nicola Rescigno rievoca il surreale svolgimento di prove sfinenti nelle quale la voce sovrana della cantante svettava sulle altre imponendo la sua linea interpretativa:

Cantava sempre a piena voce per poter arrivare alla rappresentazione perfettamente sicura sotto il profilo orchestrale. Mi ricordo una prova di Medea a Dallas che durò dalle sette di sera alle due del mattino. Dopo quattro ore le suggerii di cantare a mezza voce. Con cortesia mi rispose di preoccuparmi degli affari miei, cioè di dirigere, e lei si sarebbe preoccupata dei suoi. Terminò le prove a pena voce.49

Probabilmente, Maria Callas, «primo strumento dell’orchestra», considerava un ‘affare suo’ il compito d’accordare a se stessa ensemble e orchestra. Bernstein ammette esplicitamente gli effetti di questo canto sulla conduzione orchestrale, individuando nelle prese di respiro i canali attraverso i quali la presenza della cantante debordava dall’interpretazione della parte svolgendo mansioni direttive e di regia sonora:

[Durante le prove della Sonnambula] la Callas era proprio splendida... cantò come se fosse il primo strumento dell’orchestra – al tempo stesso era il violino, la viola, il flauto... infatti vi furono dei momenti in cui sentivo che io per primo stavo cantando la sua parte e stavo doppiando la sua voce. Ricordati che io ero il direttore d’orchestra.50

48 Dalla conversazione del 1968 con Lord Harewood, cit. in N. Petsalis-Diomidis, La Callas inconnue, cit., p. 240. Nella traduzione italiana del colloquio il brano è pubblicato fra omissis: «[...] … se c’è una cosa da fare, che bisogna proprio fare fin dalle primissime prove, dalle prove d’orchestra, è proprio cantare a piena voce, per il tuo bene ma anche per il bene dei colleghi… [...]». (M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 58). 49 N. Rescigno, Prefazione, in J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Music, Traduzione di L. Spagnol, Milano, Longanesi, 1988, p. 9. 50 A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., p. 182.

22 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Perché mai il giornalista del settimanale Opera News che intervistava Bernstein avrebbe dovuto ricordarsi che la professione artistica del suo interlocutore era il direttore d’orchestra? E perché l’esercizio di questa mansione avrebbe dovuto rendere sorprendente e insolito il fatto di doppiare, cantando, la voce della protagonista? Per comprendere il senso dell’allusione, conviene ricordare che i direttori d’orchestra, di norma, comunicano con strumentisti e cantanti attraverso il canto. E cioè fornendo l’esempio dei ritmi, delle intonazioni, delle frasi musicali.

La voce che canta – dice il maestro Gianandrea Gavazzeni – è prima di tutto un’esemplificazione dell’idea che il direttore ha di una determinata musica. Essa è un elemento di grande rilievo perché può esprimere in termini che sono già musicali, più adeguati quindi di una comunicazione verbale, il convincimento del direttore e permette, così, più facilmente l’immedesimazione degli strumentisti.51

Nel quadro di queste pratiche, il fatto che la stessa voce cantante attraverso la quale il direttore d’orchestra diramava i suoi intendimenti, potesse umilmente doppiare il canto della protagonista, risulta, dunque, un’operazione contraria ai principi gerarchici dell’opera lirica a conduzione unica: sistema, d’altra parte, tutt’altro che definitivo e storicamente egemone, visto che si afferma a seguito della disgregazione del fecondo principio consistente nel comporre le «opere per i cantanti». È probabile che Maria Callas abbia scoperto le proprietà del suo cantare a piena voce, accorgendosi che «la qualità principale [del maestro Serafin] era quella, probabilmente, di sapere respirare assieme agli interpreti della parti del canto»52. Attraverso il respiro si rendeva possibile fare del direttore, degli orchestrali e dei cantanti un organismo unitario, che, incurante di gerarchie formali, veicolasse all’insieme gli impulsi emessi al suo interno, fra cui figuravano le soluzioni successivamente approntate dalla partitura registica della parte. Partitura che era in parte preventiva, e cioè preparata individualmente, e in parte pronta ad assorbire – la Callas si paragonava a una «spugna»53 – le indicazioni che venivano dai direttori, dai registi, dai cantanti e, poi, dalle reazioni del pubblico. Sicché gli spettacoli con la Callas erano l’esito, non solo di interpretazioni a guida unica, ma anche dell’adattamento del lavoro d’insieme al progressivo svilupparsi, al suo interno, d’un trascinante modello performativo, che continuava a precisarsi e a evolvere, alla ricerca della massima verità e compiutezza, anche durante le rappresentazioni col pubblico e che, poi, aldilà dei singoli allestimenti

51 F. Rosti (a cura di), Musica maestri! Il direttore d’orchestra tra mito e mestiere, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 121-122. 52 M. Bellinetti, Serafin e l’Arena, in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, cit., p. 205. 53 S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, cit., p. 429.

23 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

operistici, non smetteva di rivedere e cambiare, sotto l’egida di diversi registi e direttori di orchestra, le interpretazioni dei personaggi. Se Norma, fra le principali eroine del repertorio callassiano, viene presto trovata e non subisce troppi rimaneggiamenti, Violetta e Medea mutano al punto di incarnare nel tempo diverse identità drammatiche. Maria Callas non si proponeva di governare lo spettacolo con modalità registiche, ma intendeva accordarlo al senso della sua presenza vocale e scenica, così come, prima della regìa, erano use fare le grandi attrici. Il canto a piena voce di Maria Callas durante le prove non ha nulla a che spartire con la direzione scenica esercitata dai capocomici otto- novecenteschi, che fornivano l’esempio delle battute e dei gesti, mentre corrisponde alla modalità seguite da attrici di primaria importanza come la russa Ermolova ed Eleonora Duse, che dilatavano alla compagnia per contagio l’atmosfera del proprio recitare. Più vicino di Stanislavskij al mondo degli attori professionisti, Vladimir Nemirovic-Dancenko ha descritto come prima della nuova regia le comiche compagnie pervenissero a realizzare, grazie alla presenza di grandi interpreti, spettacoli organici e internamente animati da convergenti entusiasmi per il testo:

Un giorno, [l’Ermolova] entrando in palcoscenico per una prova, disse con la sua voce profonda, come se parlasse fra sé: «Oggi proverò il terzo atto». Significava che aveva elaborato una sua idea a casa e che desiderava adesso verificarla. Si metteva a provare il terzo atto a memoria, manifestando il suo straordinario talento. Tutti venivano trascinati, cresceva l’interesse per il testo, la voglia di mettersi alla prova. Lodi, entusiasmo dei più giovani, applausi, inchini e baciamano. L’opera cominciava a scorrere. Gli attori, con emozione sentita o ostentata, si davano consigli l’un l’altro, provavano nuove soluzioni[…] ormai procedevano da soli nella preparazione del testo.54

Mentre l’influenza della Callas sui soprani venuti dopo di lei è oggetto di studio, la sua azione sui colleghi non ha suscitato che scarsi interessi. Eppure, come risulta dalle registrazioni dal vivo, la sua presenza vocale e scenica esercitava un’influenza paragonabile a quella degli slanci interpretativi dell’Ermolova. Fedele d’Amico, recensendo il donizettiano Poliuto rintraccia i segni dell’incontro fra la partitura registica della cantante e l’ensemble:

ogni melodia che passava da un altro personaggio al suo acquistava un misterioso rilievo, tornava all’altro infinitamente arricchita. E bisognava sentire che cosa diventò il concertato del secondo atto in virtù del suo avvio. Abbiate un po’ di pazienza prima di seppellire Maria Callas.55

54 V. Nemirovich-Dancenko, La nascita di un nuovo teatro, traduzione italiana di F. Malcovati, in «Prove di Drammaturgia», n. 2/2007, p. 8. 55 F. d’Amico, Trionfale rientro di Maria Callas alla Scala (1960), in Scritti teatrali 1932-1989, Milano, Rizzoli, 1992, p. 111.

24 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Anche la Duse predisponeva la recitazione degli attori, manifestando, durante le prove, il suo genio interpretativo. Lugné-Poe ha lasciato un’importante descrizione di questo modo di procedere. Mentre spiegava le parti agli altri attori, la Duse non recitava, anzi «quasi sempre le sue battute erano lette dal suggeritore ad alta voce». Ma poi la direttrice si trasformava lentamente in qualcosa d’altro:

A poco a poco cominciava a venire avanti, diceva qualche piccola battuta. Sembrava trascurarle, finché non si trovava di fronte le battute più importanti: allora, prendendo in mano il copione, dimenticando completamente il bisbiglio del suggeritore, alzando il tono […], penetrava nell’intimità della commedia: come per identificarsi con il testo si piantava contro l’interlocutore, premeva sulla situazione, era insieme la Duse e Lei. Lei, il personaggio. […] Grondanti di sudore, lacrimando sui loro casi, gli attori uscivano dalla prova senza nemmeno aver coscienza di quale punto di appoggio avevano offerto al meccanismo del suo genio.56

Commentando la descrizione di Lugné-Poe, Mirella Schino individua una dinamica attoriale che, riferita alla Callas, provvede di nuovo senso teatrale le sue leggendarie rivalità coi partner operistici:

Cominciamo ad intravvedere i rapporti tra la Duse e gli altri attori come basati sul principio della resistenza: un gioco di forze che collaborano opponendosi.57

Anche nel caso della Callas, il cantare a voce piena metteva intenzionalmente alla prova la resistenza dei partner, instaurando – possiamo ripetere la considerazione fatta per la Duse – «un gioco di forze che collabora[vano] opponendosi». Illuminanti al proposito i ricordi del direttore d’orchestra Antonino Votto:

[Maria Callas] [s]entiva la musica, e immancabilmente seguiva il mio tempo. Quando provavamo era sempre precisa, già perfetta in ogni sua nota. Ma aveva un’abitudine che infastidiva i colleghi: cantava a voce piena anche quando provava, costringendo gli altri a fare altrettanto. Scioccamente, molti cantanti cercano di risparmiarsi, ma una prova è come una corsa a ostacoli: se in pista bisogna correre per due chilometri, non ci si può allenare correndo soltanto per uno.58

Parlando dell’organicità del teatro degli attori, si intende qualcosa di fondamentalmente diverso dall’organicità del teatro di regia. Quest’ultima

56 Lugné-Poe, Avec Eleonora Duse, nella miscellanea Oeuvres Libres (Paris, Fayard) del novembre 1932, pp. 20-21, cit. in M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 85-86. 57 M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit., p. 86. 58 A. Votto, cit. in A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., p. 130.

25 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

presuppone architetture di segni che giustifichino gli accadimenti teatrali; la prima, invece, consiste in relazioni fra presenze che – come in una corsa o in un gioco agonistico – si influenzano mutualmente anche contrapponendosi. L’organicità del teatro di regia parte dall’anatomia dello spettacolo, dal suo essere incastro di strutture, livelli e singoli elementi, mentre l’organicità del teatro degli attori è di natura fisiologica. E cioè riguarda movimenti e passaggi di energie che – specie nel caso dell’opera lirica – animano strutture formali preesistenti, persistenti, autonome. Maria Callas, in altri termini, abita e influenza dall’interno rappresentazioni che la vedono agire in quanto sorgente di vita scenica, e non come autrice di progetti: essendo questi delegati, a seconda dei casi, alla tradizione, al rispetto fedele delle didascalie sia implicite che esplicite, oppure all’inventiva registica.

Le partiture registiche di Maria Callas fra direttori d’orchestra-registi e regie teatrali Il carattere accentratore e la tendenza al rinnovamento linguistico della regia novecentesca ha ostacolato il riconoscimento dei legami che intercorrono fra questo complesso fenomeno e le più discrete regie condotte dai direttori d’orchestra. Eppure le distinte filiere di pratiche artistiche, che fanno rispettivamente capo al responsabile dello spettacolo e a quello dell’interpretazione musicale, hanno storicamente condiviso le stesse tensioni al mutamento, e si sono teatralmente interfacciate all’interno degli stessi spazi di realizzazione. Circa il loro rapporto di vicinanza storica vale la pena ricordare alcune concomitanze. Wagner, da un lato, pose i principi teorici e gli obiettivi strategici dell’arte di dirigere l’orchestra59, dall’altro, fornì in veste di demiurgico metteur en scène i (discutibili) modelli scenici delle sue drammaturgie. Rispondendo ad una analoga ripartizione fra competenze musicali e competenze performative, Giorgio II di Sassonia-Meiningen, da un lato, affidò l’orchestra di Meiningen ad Hans von Bülow che, dirigendola fra il 1880 e il 1885, fece comprendere che «cosa poteva intendersi per un complesso ben fuso e armonizzato»60, dall’altro, disegnò i bozzetti e finanziò gli spettacoli della celebre compagnia teatrale di Meiningen che, fra il 1874 e il 1890, ebbe un’importanza fondamentale per il teatro tedesco e lo sviluppo del fenomeno registico. Lo stesso Festival di Bayreuth, tempio del dramma wagneriano, fu sul punto di ospitare al suo interno i contenuti visivi dell’incipiente svolta registica. Adolphe Appia, infatti, sottopose il suo piano di allestimento per l’Anello del Nibelungo a

59 Cfr. R. Wagner, Del dirigere (titolo originale: Über das dirigieren), a cura di F. Gallia, Pordenone, Edizione Studio Tesi, 1989. 60 F. Weingartner, Della direzione d’orchestra (1895), Prima traduzione italiana di N. N., al link https://www.rodoni.ch/malipiero/adrianolualdi/artedidirigere/weingartnerlualdi.html.

26 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Cosima Wagner, che lo rifiutò sdegnata. Le motivazioni della vedova del Maestro, divenuta direttrice e domina del Festival, risultano da una lettera, scritta a Houston Stewart Chamberlain il 13 maggio 1896, a seguito dello sfortunato incontro:

Ho dato un’occhiata in questi giorni alle Notes sur l’Anneau du Nibelungen di Appia, nella speranza di trovarvi qualcosa di utilizzabile. Purtroppo vanamente. Pare che Appia non sappia che nel ‘76 l’Anello è già stato rappresentato qui da noi, e che di conseguenza non vi è più nulla da inventare in fatto di scenografia e regia.61

In Italia, a effetto del modello gestionale a direzione unica definito da Toscanini alla Scala di Milano negli 1898-1903 e 1921-1929, la responsabilità dell’allestimento scenico rifluì fra le competenze dei direttori d’orchestra di primaria importanza, che, coadiuvati da direttori di scena in grado di realizzarne le indicazioni, concepivano lo spettacolo in quanto ambientazione spaziale e visiva della partitura rappresentata. Di tutt’altro carattere, le potenzialità del nuovo teatro operistico nella Russia sovietica dove la sinergia fra il regista Mejerchol’d e il compositore Shostakovic alimentò, prima del gelo staliniano, la ricerca d’un linguaggio musicale connesso alla dimensione fonica e corporea dell’azione performativa. Nonostante le evidenti differenze culturali e stilistiche, questi distinti sviluppi del teatro musicale del primo dopoguerra sono accomunati dalla convinzione che la musica e l’azione scenica possano fondare nuove unità da diffondere e comporre, nel caso del direttore d’orchestra, attraverso il controllo del processo rappresentativo, in quello del «regista-musicista» teorizzato da Mejerchol’d, sperimentando linguaggi. Il teatro di Maria Callas, storicamente, si colloca fra la persistente influenza scenica del direttore d’orchestra e il tardo emergere, in Italia, del regista teatrale; non è dunque un caso che, al suo interno, si profilino situazioni emblematiche della coabitazione fra questi diversi responsabili dello spettacolo operistico. Clamoroso il caso delle rappresentazioni scaligere della Traviata, durante le quali Giulini dirigeva dal podio, mentre Visconti controllava lo svolgimento dello spettacolo – e in modo particolare l’azione della protagonista – dalla buchetta del suggeritore. L’episodio è ricordato dal regista in una conversazione con Maria Callas condotta da Pierre Desgraupes (Parigi, 20 aprile 1969):

Visconti: E io [durante le repliche della Traviata] mi mettevo sempre nella buca del suggeritore. Così, perché Maria non vede molto bene. È una grande qualità per lei, perché sente come immersa in una specie di acquario ma non vede nulla. È solamente come immersa in un mondo suo. Desgraupes: Ma la vedeva, nella buca del suggeritore?

61 C. Wagner, La mia vita a Bayreuth. Lettere e appunti 1883-1930, a cura di D. Mack, trad. it. di U. Gandini, Milano, Rusconi, 1982, p. 425.

27 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

Visconti: Mi vedeva, perché veniva molto vicina. E mi vedeva. E, soprattutto, io la vedevo e le dicevo le cose da fare... Callas: Io gli dicevo: taci. Visconti: Avanza un po’, vai a sinistra, le dicevo delle cose così.62

La Traviata scaligera è, nella storia di Maria Callas, un momento di particolare avvolgimento registico. Visconti, da un lato, irrompe nella cerchia visiva delimitata dalla miopia, dall’altro, elabora insieme alla cantante, non solo gesti pertinenti alla parte, ma un nuovo repertorio gestuale fatto di piccoli movimenti inutili. Dalla pregnanza simbolica dei gesti operistici si passava alla rappresentazione della malattia. Passaggio che ne implicava un altro ancor più radicale: quello dal segno al sintomo. Dice Maria Callas:

mi sono gradualmente resa conto che la […] malattia [di Violetta] non le permetteva molti movimenti, né rapidi. Ho anche appreso che meno ci si muove, particolarmente nel terzo e nel quarto atto, più la musica ci guadagna. Nell’ultimo atto, per non farla apparire troppo rigida, ho trovato dei gesti piccoli, inutili. Per esempio, la facevo provare a raggiungere uno specchio o una qualche cosa sul tavolino, e poi a lasciar cadere la mano perché non aveva abbastanza forza per prendere l’oggetto. Sempre nell’ultimo atto, ho pensato che i fiati dovevano essere corti, il colore un po’ più stanco di prima. Ho lavorato molto duramente per trovare la giusta qualità di quel suono.63

I movimenti previsti dalla partitura registica della parte potevano però entrare in rotta di collisione con quelli progettati dal piano registico d’insieme. È quanto rischiò di accadere nella Medea scaligera diretta da Bernstein per la regìa di Margherita Wallmann. Maria Callas narra lo scontro con la regista in un’intervista televisiva con Dora Ossenska: Callas: Era la mia prima Medea alla Scala. Interessantissimo questo episodio perché io avevo ceduto ad un corteo funebre che doveva essere, scritto da Cherubini, interno, vuol dire che quello va dietro il palcoscenico. Il regista voleva fare un bel tableau di corteo funebre davanti, ma, nel frattempo io avevo le mie frasi i miei recitativi che dovevano essere molto serrati molto incisivi anche per non perdere l’atmosfera... perché, sa, è facile che Cherubini cada nel vuoto, un ritmo bisogna tenerlo. Ed io avevo detto... guardi, avevamo cinque giorni per preparare l’opera... per prepararla e andare in scena, cinque giorni sono pochi... e allora le dicevo: ‘Cara, guarda, questo corteo non dovresti metterlo in scena, perché io salto giù come una iena da questi praticabili che facevano scala, e sono già sul corteo... li sbrano’ ‘La logica...’ ‘Tu sei già fuori logica, perché lo spartito ti mette dietro’ ‘Ti garantisco che il corteo sarà fuori quando tu devi scendere’. Allora è successo la quinta volta... eravamo alla prova generale oramai... la quinta volta c’era

62 Maria Callas – Interview with Pierre Desgraupes and Luchino Visconti (1969), VocidellaLirica. Pubblicato il 26 ottobre 2012, in https://www.youtube.com/watch?v=NSGJVkonOks. 63 M. Callas, Prologo, in J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Musica, cit., p. 21.

28 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

ancora il corteo funebre in scena quando io dovevo saltare giù, io mi sono messa coi pugni contro la Scala, ho detto ‘O questo si schiarisce, o non c’è spettacolo domani, non è possibile’. Ecco dove uno deve usare la forza, perché, per essere rispettati... o se no la forza di solito, così, non è bella. Ma se uno non ha tempo, uno per forza... Ossenska: Ma questo è in favore dello spettacolo... Callas: Certo, poi io andavo con lo spartito. Io non andavo contro il regista, andavo con lo spartito, lo spartito diceva interno, doveva rimanere interno.64

Nell’autobiografia, Margherita Wallmann omette lo spinoso episodio mentre riporta l’impegno con cui Maria Callas imparò a cantare in posizione supina per realizzare le sue indicazioni registiche:

In una fase finale dell’ultimo atto Maria doveva apparire riversa sulla scalinata, la testa verso il basso, le lunghe chiome di fiamma raggianti come un’aureola di fuoco, l’enorme manto scarlatto fluttuante intono a lei […]. «Margherita, è impossibile! Non ci riesco!» esclamò. E scoppiò in lacrime. Stavo per decidermi a modificare quella posizione, che in realtà era molto difficile, quando intervenne Oldani [segretario generale del Teatro alla Scala]: «No, non cambiare. È così bello! E poi la Callas è troppo ambiziosa... vedrai che ce la farà.» E Maria ce l’ha fatta.65

Le partiture registiche di Maria Callas non erano progetti di performance, ma organismi inclusivi e relazionali, che si rapportavano alla direzione orchestrale e alla regìa, facendo dell’interpretazione della parte la risultante d’una interazione immediata – a vista del pubblico – fra le pratiche d’insieme alla base dello spettacolo operistico e l’inesauribile work in progress condotto dall’attrice-cantante. Direttori d’orchestra e registi riconoscono che Maria Callas era «dotata del potere di elevare col suo diretto contributo il prestigio di un intero spettacolo»66; possiamo aggiungere che anche questo «potere», come tutte le forme di controllo attuate da singoli nei confronti delle proprie collettività d’appartenenza, prevedeva strumenti e strutture, conflittualità e sinergie. Non si trattava certamente di un nuovo sistema teatrale paragonabile a quello che, a partire dagli anni Cinquanta, aveva imposto il ruolo del regista al teatro lirico. Va piuttosto osservato che Maria Callas, assieme alla vocalità del «soprano drammatico di agilità», aveva empiricamente riscoperto anche l’autonomia creativa detenuta da questo ruolo che apparteneva a un’epoca storica in cui le mansioni direttive – sia musicali

64 La Scala e i suoi protagonisti, di Dora Ossenska, consulenza Gianpiero Tintori, fotografia Nando Forni, montaggio Roberto Borghi, regia Dora Ossenska, Maria Callas i giovani cantanti e i loro problemi, pubblicato il 16 settembre 2011, al link https://www.youtube.com/watch?v=RtUi-dm518U. 65 M. Wallmann, Balconate del cielo, Milano, Garzanti, 1976, p. 128. 66 Ivi.

29 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

che sceniche – erano lontane dal rivestire l’autorevolezza che sarebbe poi stata detenuta da direttori d’orchestra e registi. Maria Callas condivise con Giuditta Pasta, Maria Malibran e le altre attrici-cantanti della scena romantica, la capacità di gestire e connettere creativamente gli aspetti musicali, drammatici e teatrali dei personaggi interpretati. Ma, mentre i «soprani drammatici di agilità» del pieno Ottocento s’inquadravano in una civiltà teatrale essenzialmente fondata sulle sinergie fra i cantanti e la partitura, Maria Callas, per accordare la rinnovata creatività dell’interprete agli assetti del contemporaneo teatro d’opera, si confrontò con direttori d’orchestra e registi, talvolta conflittualmente, ma anche assimilandone l’esempio. Riccardo Muti ha detto che «Maria Callas è stata per il canto quello che Toscanini è stato per la direzione d’orchestra»67. Se consideriamo che Toscanini ricavò uno stile personalissimo dalla lettura scrupolosa, nota per nota, delle partiture, comprendiamo d’acchito una prima ragion d’essere dell’insolito paragone, che presenta, però, anche altre possibilità di senso. La memoria artistica dei direttori d’orchestra include, infatti, a proposito di Toscanini, il successo globale della sua azione riformatrice, che, come osserva Gavazzeni, dette

un valore nuovo alla funzione dell’orchestra nell’opera lirica. Quest’ultima non fu più allora un fatto prevalentemente vocale.; né ci furono più direttori di prima categoria – sinfonici –, di seconda categoria – d’opera. [….] Con la Verdi-Renaissance toscaniniana si impose l’esperienza sinfonica anche nell’opera. Toscanini aveva portato nel melodramma in generale l’esperienza compositiva wagneriana dell’opera totale.68

La riforma di Maria Callas corrisponde dunque a quella di Toscanini, non solo per avere rinnovato, a partire dalla lettura, il linguaggio dell’interpretazione musicale, ma anche per avere perseguito una teatralità unitaria e organica che ricava dai contenuti espliciti e dagli intenti latenti della partitura le linee guida della realizzazione spettacolare. Probabilmente, Maria Callas ha ricavato dalle competenze teatrali dei direttori d’orchestra – dei quali assisteva a tutte le prove – una personale cultura d’impianto registico, che le ha permesso di filtrare e far proprie le indicazioni di tanti artisti dell’allestimento scenico: da Visconti a Zeffirelli, da Guido Salvini e Gerardo Guerrieri a Margherita Wallmann e Tatiana Pavlova. Di certo c’è che il magistero pedagogico di Tullio Serafin precedette i principali incontri coi registi, e che questo magistero saldava interpretazione musicale e rappresentazione scenica. Serafin, infatti, a differenza di De Sabata, che puntava «sulla estrema valorizzazione e acutizzazione di tutti i valori contenuti nell’orchestra», considerava

67 R. Muti, in Maria Callas, Lettere. Scritti Interviste Pensieri, Roma, Pantheon, 2008, p. 60. 68 Musica Maestri!, cit., p. 119.

30 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

«l’opera soprattutto come ‘spettacolo’ […] come somma di elementi che tendono ad una globalità di risultato esecutivo»69. Lavorando con lui, Maria Callas si familiarizzò con l’idea che l’interpretazione drammatico-musicale era un processo segmentato e collettivo, che assorbiva e sollecitava intuizioni, prove, esperimenti. Cognizione che le consentì di rapportarsi da pari a pari e, anzi, su posizioni di forza con l’azione registica di Luchino Visconti, che incominciava a perturbare i processi di realizzazione a guida musicale, facendosi portatrice di nuovi e diversi processi a guida teatrale. Da Serafin, Maria Callas aveva appreso ad alternare all’aggregazione di parole, note, gesti ed espressioni, temporanei momenti di disgregazione e smemorato ritorno agli inizi del lavoro interpretativo. Lungo la fase in crescita, Maria Callas individuava la ragion d’essere d’ogni singola nota, metteva in partitura il respiro, predisponeva la linea del canto con l’espressione del viso e cercava gesti e movenze all’interno della composizione musicale. Al progressivo dilatarsi della partitura nella presenza del personaggio, facevano però seguito momenti di cancellazione e strumentale dimenticanza:

[Serafin] – ricorda Maria Callas – mi sentì nella parte di Norma e disse: «Lei conosce molto bene la partitura ma ora si dimentichi delle note e ripeta le parole. Deve ripetere il recitativo. Vada a casa e ripeta le parole. Poi così come parla dovrà parlare. […]». Due o tre anni dopo mi disse: «Ora si dimentichi di quello che ha studiato a casa. Lei ora ha uno strumento, lo suoni».70

Conoscendo approfonditamente i meccanismi dell’attore, Serafin temeva che la perfezionista Callas finisse per trasmettere al pubblico il fatto di avere scrupolosamente studiato e mandato a mente la partitura e che, a seguito di questa impressione, la presenza del personaggio perdesse spontaneità e vigore. Un’altra versione dello stesso episodio contiene un riferimento alla libertà dell’attore, che rivela gli intenti pedagogici di Serafin: Dopo la prima prova [della Norma], [Serafin] mi disse: «Ora vada a casa, mia cara Callas, e si reciti queste battute e vediamo che proporzioni, che ritmi troverà. Si dimentichi di dover cantare; si dimentichi quello che è scritto, ma cerchi di essere più libera, di trovare un ritmo scorrevole per questi recitativi»71.

La cantante doveva dimenticare quello che aveva appreso per poterlo agire in libertà. E cioè, non come esecuzione d’una partitura memorizzata, ma in

69 G. Gavazzeni, Prefazione, in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, cit., pp. 9-12:11. 70 Mi piace far sapere ciò che penso (Conversazione con Bernard Gavoty, Parigi, Maggio 1965), in M. Callas, Lettere. Scritti Interviste Pensieri, Roma, Pantheon, 2008, p. 131. 71 M. Callas, Prologo, in J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Musica, cit., p. 21.

31 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

quanto restituzione irriflessa d’un organismo sonoro diventato parte di sé. Serafin insegnava agli artisti del canto che era possibile scrollarsi di dosso la tirannia della memoria e riscoprire con sentimento di sorpresa – quasi la si stesse componendo in quel momento – la musica della parte. Così facendo, Serafin additava loro l’arte dell’attore.

Viaggio nella nota. Un intermezzo Alla concezione del processo compositivo in quanto dinamica antropica ed extra-formale che include l’«intangibile»72, escludendo una restituzione puramente mnemonica del testo e la ripetizione del già fatto, corrispondeva, nel pensiero e nella pratica artistica di Maria Callas, una percezione della nota in quanto organismo. Ogni segno di nota non si limitava, per lei, a indicare una determinata altezza e una determinata durata, ma introduceva una presenza complessa, costituita da una circonferenza e da un nucleo mobile, che il cantante decideva se situare al centro oppure ai margini dell’organismo sonoro. A questo proposito conviene citare un passaggio dalle lezioni tenute dalla cantante alla Juilliard School of music:

La cavatina [‘Regnava nel silenzio’ della Lucia di Lammermoor] non deve essere troppo lenta e il più legato possibile. Ricordate le note sono tonde, hanno un centro. Qualunque passione o emozione voi vogliate esprimere, sia che la nota sia piano, come qui, o forte, dovete cantare sempre con purezza, nel centro della nota. L’unica eccezione è quando un compositore richiede un portamento o un glissando.73

Alla separazione del testo dalla musica, che, come chiedeva Serafin, doveva venire recitato fra sé e sé al fine di trovarne il ritmo interno e le accentuazioni di senso, corrispondeva la separazione della musica dal testo. A seguito della rescissione, la frase musicale si configurava, ancor più che come catena di segni, in quanto aggregato di organismi dei quali l’interprete doveva collocare e colpire vocalmente il centro. Questo, perlopiù, lo si sarebbe dovuto situare nel mezzo della nota, mentre, nel caso dei procedimenti relativi al passaggio da una nota all’altra (i ‘portamenti’) oppure all’innalzamento o all’abbassamento costante e progressivo d’un suono (i ‘glissandi’), doveva veniva spostato al margine del tondo nella direzione della nota successiva. L’immagine delle «note tonde con un centro», pur utilizzata dalla Callas in quest’unico frangente, illumina il mondo sonoro della cantante, che, nei rischiosi pianissimi e nelle intonazioni parlate, sembra mirare, cantando

72 A Pierre Desgraupes che l’elogia per la dedizione con cui serve la musica, Maria Calla risponde precisando che lei serve «l’intangibile», Maria Callas – Interview with Pierre Desgraupes and Luchino Visconti (1969), cit. 73 J. Ardoin, Maria Callas. Lezioni di canto alla Juilliard School of Musica, cit., p. 112.

32 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

«come su un filo sottilissimo che può rompersi da un momento all’altro»74, al centro superstite di note senza più un corpo e ridotte a pura essenza del suono. Negli stessi anni dell’ascesa italiana di Maria Callas, il compositore Giacinto Scelsi ha indagato la costituzione sferica della nota con parole sorprendentemente simili a quelle utilizzate dalla cantante. Scrive:

Il suono è sferico, è rotondo. Invece lo si ascolta sempre come durata e altezza. Non va bene; ogni cosa sferica ha un centro: lo si può dimostrare scientificamente. Bisogna arrivare al cuore del suono. Solo allora si è musicisti, altrimenti si è solo artigiani.75

Tutti possono leggere i percorsi del suono lungo le linee del pentagramma, ma solo gli artisti viaggiano nelle note. Per questo, nonostante appartengano a diversi emisferi del mondo musicale, Giacinto Scelsi e Maria Callas dialogano attraverso il loro vivere il suono. Va valutata la possibilità che l’immagine delle «note tonde con un centro» sia giunta a Maria Callas attraverso Carlo Maria Giulini che, nel 1938, aveva eseguito per la prima volta a Roma Preludio, arioso e fuga di Scelsi76. Ma non è nemmeno escluso che la fonte di questo pensiero sia, ancora una volta, Tullio Serafin:

La prima, primissima cosa che mi ha improvvisamente rimproverato Serafin: non importa quale nota si canta, non importa che sia drammatica o leggera, bisogna sempre arrivare nel cuore della nota.77

In ogni caso, il passaggio dal «cuore» al «centro mobile» della nota è altrettanto notevole dell’eventuale ideazione dal nulla di questa seconda immagine. La nozione di «cuore della nota» tollera infatti implicazioni espressive, che corrispondono alla concezione melodrammatica di Serafin per il quale il testo faceva capire il senso della musica. Mentre la nozione che equipara la nota a un tondo con un centro mobile inquadra l’azione vocale all’interno d’un rapporto sonoro che esclude l’intromissione di segni verbali. Maria Callas, commentando la cavatina di Lucia, ricorre a concetti che disattivano gli automatismi semantici, consentendo all’interprete di ritrovare poi, da attore, la sorpresa del senso.

Attrice del Novecento

74 M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 66. 75 Cit. in P.A. Castanet, N. Cisternino (a cura di), Giacinto Scelsi. Viaggio al centro del suono, La Spezia, Lunaeditore, 1993, p. 19. 76 Cfr. N. Sani, Cercando... Scelsi, in «i suoni le onde... Riviste della fondazione Giacinto Scelsi», ottobre 2005-febbraio 2006, p. 8. 77 M. Callas, Seducenti voci, cit., p. 87.

33 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

In un articolo del 1962, Tullio Serafin sostenne che solo Rosa Ponselle, Titta Ruffo e Caruso sarebbero stati considerati, un giorno, i veri fenomeni vocali del Novecento78. L’esclusione della Callas era sorprendente, ma spiegabile. Probabilmente, Serafin, da cultore del belcanto, aveva basato il giudizio esclusivamente sulla bellezza della voce oppure la definizione di «fenomeno vocale» gli era sembrata riduttiva per Maria Callas oppure ancora si era trattato di entrambe le cose. Nel 1958, poco dopo lo scandalo che la cantante aveva causato, a Roma, eclissandosi nel mezzo d’una rappresentazione ufficiale di Norma alla presenza del Presidente della Repubblica, Serafin si era già pronunciato, parlando con Giuseppe Pugliese, circa la posizione della Callas nel contesto dei cantanti lirici:

Senta – mi disse Serafin con quel sorriso improntato ad una ironia tutta veneta, cioè bonaria – senta, io non posso certo avere del tenero per la Callas, con la riconoscenza ch’ella ha dimostrato per me, ed è il suo comportamento... nei miei riguardi. Ma quando fanno dei confronti e parlano di sostituzioni, davvero non capisco. Meglio non capiscono che la Callas è un’attrice, mentre le altre sono, anche se bravissime, solo delle cantanti.79

Non era un modo di dire. Leggendo l’autobiografia di Serafin, ci si accorge infatti che il maestro ricorda soprattutto le voci dei suoi cantanti e che le loro – rare – identificazioni con il personaggio non vengono fatte dipendere da autonome capacità attorali ma dal lavoro sulla parte condotto sotto la guida dello stesso Serafin oppure da imponderabili rapporti elettivi, per cui, ad esempio, Giuseppe Borgatti viene considerato «il più grande Sigfrido di tutti i tempi»80. Spicca per l’assoluto controllo della dizione – modalità condivisa con gli attori di prosa – il celebre Tamagno, che, accusato di analfabetismo da Verdi e da Giulio Ricordi81, era maestro nel far chiaramente intendere quelle stesse parole che faticava a leggere. Scrive Serafin:

Contrariamente a ciò che si crede, la […] personalità vocale [di Tamagno] non consisteva tanto nella forza e nella robustezza, quanto in due caratteristiche di grado supremo: lo squillo e l’incisività della dizione; il che faceva dire a Giulio Ricordi: «Quando canta Tamagno, i libretti d’opera sono inutili». […] Da lui ho imparato tutta l’importanza del rapporto parola-suono nel canto operistico82.

78 Cfr. G. Guandalini, Callas l’ultima diva, Torino, EDA, 1987, p. 16. V. anche T. Serafin, A triptych of singers, in «Opera Annual», 1962, n. 8. 79 T. Serafin, Addio alla Callas (4, maggio, 1958), in T. Celli, G. Pugliese, Tullio Serafin. Il patriarca del melodramma, cit., p. 231. 80 T. Serafin, Tullio Serafin racconta (febbraio 1960), in ivi, p. 67 81 A. Pompilio e M. Ricordi (a cura di), Carteggio Verdi-Ricordi 1886-1888, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 2010. 82 T. Serafin, Tullio Serafin racconta, cit., p. 74.

34 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Anche nel suo caso, però, Serafin non riscontra una identità di attore. Per lui, i requisiti attoriali non figuravano quasi, nell’ambito dell’opera lirica, dove la presenza del personaggio veniva indicata e allusa, ancor più che scenicamente incarnata, dalla confluenza fra partitura e qualità vocali. Diversamente, tutte le forme del teatro recitato, tragiche, comiche, patetiche o di puro intrattenimento, riversavano nella memoria del maestro un’ampia galleria di tipi scenici e tipologie rappresentative:

Torno agli attori che ho conosciuto. Quanti: tutti saliti ormai nell’Olimpo, accanto a Melpomene e Talìa! Ad uno ad uno mi ritornano incontro dall’archivio della mia memoria. Ecco Tommaso Salvini, del quale ho ancora nell’orecchio il grido di terrore, di straziante sublimità, ch’egli lanciava nel Saul dell’Alfieri, quando il fulmine punitore toglie la corona dal capo del sacrilego re; ecco Ermete Novelli, del quale era difficile dire se fosse più grande nel comico, nel tragico o nel patetico. […] Ed ecco Zacconi, che diceva: «Se l’istinto non è accompagnato dalla cultura non solo non basta ma può essere pericoloso»; ecco i giovani di allora che mi divennero particolarmente amici: Amerigo Guasti, elegante, divertentissimo (fra l’altro suonava discretamente il violino); e Armando Falconi, meraviglioso conversatore, artista dalla versatilità prodigiosa, unica. E Dina Galli, con la quale, come ho detto, recitai; la cara Dina, che avevo conosciuto quando andavo a suonare il violino alle recite della compagnia di Edoardo Ferravilla, e lei sosteneva allora le sue prime parti, così piccina com’era: faceva appunto la piscinina.83

I rapporti privilegiati di Serafin non riguardavano artisti intellettuali, ma celebrati protagonisti della scena comica (Amerigo Guasti e Dina Galli), un geniale «parodista» del teatro d’opera (Edoardo Ferravilla) e un attore ‘brillante’ che sviluppò capacità direttive nel campo dell’allestimento (Armando Falconi). Questo non significa che il Serafin direttore d’orchestra e il Serafin amico e collaboratore degli attori si inquadrassero in dimensioni distanti. Il teatro comico di consumo, attento al pubblico, al successo e al guadagno, era infatti, per più versi, affine agli interessi e alle dinamiche spettacolari d’un teatro operistico ancora vitalmente iscritto nei costumi della società italiana. Indicativo il caso di Dina Galli, che, pur proclamandosi attrice non-intellettuale e orgogliosamente nata nel mondo dei ‘guitti’, fu confidente di Giordano durante la composizione dell’Andrea Chénier, ebbe come direttore di scena e autore di riferimento Gioacchino Forzano (storico responsabile degli allestimenti scaligeri sotto la direzione di Toscanini), realizzò assieme al librettista e critico musicale Giuseppe Adami un’originale autobiografia dialogata (Dina Galli racconta...), ispirò alla versione operistica di Madame Sans-Gêne – sempre di Giordano – la ripresa del testo di Sardou e Moreau e, infine, celebrò, nella commedia Felicita Colombo di Adami, a lei dedicata, il ruolo catartico e rituale del Teatro alla Scala. La protagonista (proprietaria d’una nota salumeria al

83 Ivi, p. 37.

35 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

centro di Milano) affitta infatti un palco per sancire agli occhi della città la conciliazione fra i membri della sua cerchia familiare:

Felicita: Domani sera c’è la prima del Nabucco alla Scala. Jean: Che c’entra il «Nabucco»? Felicita: Mi lasci dire... che l’abbia pazienza. Siccome su questo screzio in famiglia si son fatte tante chiacchiere che la metà di meno bastava, voglio chiudere la bocca a tutti, voglio darci la smusata a Milano e far vedere che ci siamo riconciliati. Valeblano: Giusto. Jean: E come si fa? Felicita: Si prende un bei palco di prima fila bene in vista – pago io – e ci si va insieme, in bella mostra, l’intera famiglia. (Felicita Colombo, Atto III)84

Era naturale che un direttore di scena – Forzano – si dividesse fra Dina Galli, Toscanini e gli stabilimenti della Tirrenia Film, che gli attori celebrassero l’opera e citassero versi dei libretti famosi, che l’opera inseguisse i successi del teatro di prosa (da Madame Sans-Gêne alla Cena delle beffe) e che, in un tutte le pratiche teatrali, si riscontrassero tanto stentate routine che vocazioni rigorose: i teatri fra Otto e Novecento esistevano sulla base di uno stesso patto sociale, che li faceva oscillare fra la dimensione del puro consumo spettacolare e la scelta di criteri di qualità ispirati a valori d’arte genericamente condivisi: la fedeltà al testo e all’autore, il decoro delle scene, la verosimiglianza dell’allestimento, la memorizzazione delle parti, la coerenza dei personaggi e delle situazioni rispetto alla trama generale. Tullio Serafin recitò una volta con Dina Galli, che lo dissuase a ripetere l’esperienza.

Eppure – prosegue il direttore d’orchestra, ormai anziano –, posso dire che dalla consuetudine con i grandi attori con i grandi attori di prosa, e dall’ammirazione per loro, trassi elementi di giudizio che poi mi furono utilissimi nel teatro musicale. Imparai a tenere nel debito conto le necessità dello spettacolo, per quel che riguarda l’allestimento scenico, ai fini della verisimiglianza di ciò che si svolge alla ribalta; e divenni esperto in quel genere di attività che si suol chiamare regìa, e che oggi è affidata a quegli speciali personaggi che sono appunto i registi.85

Nell’immediato retroterra dell’ascesa italiana di Maria Callas figura, dunque, l’empirica pratica registica che Serafin aveva ricavato, non tanto dalle esperienze dei teatri d’arte e dei modelli europei, ma dalla conoscenza diretta degli attori e, in particolar modo, degli attori comici. Sia i teatri recitati che l’opera presentavano, all’epoca, pratiche interpretative basate sulla cultura dei ruoli (attoriali nel primo caso, vocali nel secondo); questa,

84 L. Adami, F. Colombo, commedia in tre atti, al link http://copioni.corrierespettacolo.it. 85 Ivi, p. 35.

36 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

da un alto, comportava una certa frammentazione delle competenze, che, dall’altro, veniva però compensata, nel caso della prosa, dall’azione connettiva del Direttore, di solito lo stesso capocomico, che «dalla pratica fatta in tanti anni di teatro aveva [...] appreso la conoscenza del materiale attore e imparato a capire d’ognuno le possibilità e le risorse e i limiti, sì da sfruttarne al massimo i valori, piccoli o grandi che fossero»86. Serafin riformulò questa prassi, realizzando spettacoli internamente animati da zone di organicità performativa corrispondenti alle parti direttamente preparate sotto la sua guida, come, ad esempio, quella di Norma per Rosa Ponselle, quella di Folco (in Isabeau di Mascagni) per Bernardo De Muro o quella di Federico Lowe (in Germania di Franchetti) per il tenore Manzini. Mirella Schino ha osservato, a proposito alle grandi emergenze teatrali europee, che «nei primi trent’anni del Novecento, nel periodo della nascita della regìa, fare spettacolo significò […] guardare alla scena come a un corpo vivente, in movimento»87. La personale pratica scenica acquisita da Serafin corrispondeva troppo strettamente alla cultura dei ruoli per potersi rapportare allo spettacolo come a qualcosa di radicalmente diverso da una sommatoria di parti e funzioni sceniche. Eppure, l’esorbitante estensione temporale dell’impegno dedicato all’insegnamento di singole parti (un anno mezzo per Norma, tutta un’estate per Folco, tre mesi per Federico Lowe) introduceva, fra le giurisdizioni estetiche implicate dal sistema dei ruoli, una dismisura che consegnava il centro performativo dell’opera agli interpreti così formati. Ragione per cui Norma, cantata da Ponselle venne percepita come un capolavoro del teatro romantico, e la voce di De Mauro fece di Isabeau un successo ovunque rappresentato. Pur non percependo il corpo vivente dello spettacolo, Serafin disseminò all’interno dell’allestimento scenico corpi sonori viventi, che ne mutavano percezioni e dinamiche. Maria Callas, sola attrice dell’opera lirica e musicista di straordinaria sensibilità e temperamento, gli consentì di riprendere questa sua particolare linea registica portandola a compiersi dell’invenzione – fra attualità del passato e riforma del canto – della ‘grande attrice musicale’. Intervenendo nel processo formativo di Maria Callas, Serafin non pensò certo di tradurre musicalmente l’arte del ‘grande attore’ ottocentesco. È tuttavia significativo che, cercando di individuare un equivalente del fenomeno Callas nel campo del teatro di prosa, abbia indicato proprio Salvini, il ‘grande attore’ che aveva visto in gioventù. L’accostamento gli venne suggerito dal ricordo d’una lontana conversazione con Hans Richter:

Mi ricordo che una volta, a Torno, il grande direttore tedesco Hans Richter (che diresse le prime esecuzioni wagneriane a Londra, e fu per molti anni a Bayreuth con Wagner) mi disse, parlando di Ernesto Rossi e Tommaso Salvini, che avevano recitato in quei giorni: «Ernesto Rossi è un grande artista,

86 S. Tofano, Il teatro all’antica italiana, Milano, Rizzoli, 1965, p. 25. 87 M. Schino, La nascita della regìa teatrale, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 135.

37 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

ma è sempre Ernesto Rossi. Tommaso Salvini, invece, fa l’Otello ed è Otello, fa Amleto ed è Amleto, fa Saul ed è Saul...». Così è la Callas88.

L’improvvisazione: una drammaturgia perenne Maria Callas tradusse gli insegnamenti musicali, drammatici e scenici di Serafin in una pratica compositiva, che condizionava dall’interno lo svolgimento del processo teatrale, assumendone le soluzioni, ridefinendone i segni e mostrando la capacità di rapportarsi a tutto campo con la cultura della regìa contemporanea. Per comodità d’esposizione, la si è definita partitura regista della parte. Questa partitura, come s’è detto, memorizzava l’intero spartito e gli spazi della rappresentazione, tuttavia, nonostante contenesse gli elementi formali dell’opera, non s’irrigidiva in azioni codificate né prevedeva la ripetizione sistemica della parte di replica in replica, di allestimento in allestimento. A renderla più simile a un organismo relazionale vivo che non a una forma estetica, contribuiva l’improvvisazione dei gesti, delle espressioni facciali e dei movimenti. Improvvisazione che manteneva l’attore in stato di interazione con quello che avveniva al suo esterno e al suo interno. Maria Callas distingueva, all’interno del lavoro sulla parte, una fase necessariamente costrittiva e una fase in cui coltivare la libertà dell’interprete. La prima corrispondeva all’apprendimento dello spartito. Scrive la cantante rivolgendosi a un ideale discepolo:

prendi la musica e imparala come se fossi un bimbo al conservatorio – in altre parole, esattamente come è scritta, né più né meno, e a questo punto, e fino a questo punto non lasciarti trascinare nel bellissimo mondo della creazione. È ciò che io chiamo ‘giacchetta stretta’.89

Dopo vengono le sedute di studio con un pianista, le prove al piano e le prove con l’orchestra, alle quali il cantante deve arrivare già preparato. E cioè pronto a iniziare la creazione del ruolo, che procede per tentativi e piccole scoperte che accrescono la familiarità con l’interprete:

Oggi una frase non ti viene come vuoi, ma domani, con tua somma gioia, ti verrà fuori. Poi gradualmente, la familiarità con la musica e con il personaggio ti renderanno capace di sviluppare tutte le sottili sfumature che puoi solamente in modo lontano comprendere agli inizi.90

La partitura registica della parte, da un lato, penetra poeticamente i significanti sonori, dall’altra, introduce elementi di carattere fisico:

88 T. Serafin, Tre cantanti, in «Discoteca. Rivista mensile di dischi e musica», 15 luglio 1961, pp. 32-35: 35. La parte relativa a Maria Callas è nuovamente edita in Mille e una Callas, cit., pp. 371-373: 372-373. 89 Maria Callas in S. Galatopoulos, Maria Callas Sacred Monster, cit., p. 429. 90 Ivi, p. 430.

38 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Plasma il personaggio: gli occhi, i muscoli, l’aspetto fisico in tutta la sua interezza. Diventa un momento d’identificazione a volte così totale che io sento di essere quel personaggio.91

A questo punto tanto gli elementi intrinseci alla parte che quelli connessi al contesto teatrale si combinano nel lavoro teatrale dell’attore-cantante:

Finalmente metti insieme tutte le cose – il palcoscenico, i colleghi, l’orchestra – e quindi arrivi al punto di eseguire l’opera dall’inizio alla fine, che dovrai ripetere tre o quattro volte al fine di misurare la tua resistenza ed imparare dove puoi riposarti.92

Nel caso di Maria Callas, il lavoro sulla parte non codifica l’interpretazione scenica, ma poneva le premesse d’una drammaturgia continuamente rimessa in discussione dalla libertà concessa ai movimenti e alla mimica, vale a dire, al corpo, internamente impegnato dalle complesse tecniche del processo fonatorio, ma, per tutto il resto, libero nella misura in cui lo è ogni creatura vivente:

Le mie movenze non sono mai premeditate. Sono unite a quelle dei colleghi, alla musica, al modo in cui ti sei mossa prima. Un gesto è nato da un altro, come i commenti di una conversazione. Questi devono sempre essere l’ultimo prodotto del momento. Tuttavia, essenziale per quanto logica sia tale tipo di spontaneità, il più importante prerequisito di un attore (i cantanti d’opera sono attori) è di identificarsi con il carattere, così come creato dal compositore e dal librettista, altrimenti la performance rimarrà poco convincente e priva di valore, per quanto superficialmente si possa essere magnifici e d’effetto. Indubitabilmente devi studiare ogni inflessione vocale, ogni gesto, ogni sguardo – l’istinto è il tuo amico astratto, che ti porterà sulla giusta carreggiata.93

La connessione fra gli elementi fisici e sonori della performance prosegue nel corso delle repliche con ancora maggiore precisione e ricerca dei dettagli. Infatti,

non c’è nulla di meglio che gli spettacoli sul palco innanzi ad un grande pubblico per riempire i dettagli, le cose intangibili, che sono poi cose così belle.94

91 Ivi. 92 Ivi. 93 Ivi, p. 431. 94 Ivi, p.430.

39 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

La partitura registica della parte sfocia in un’opera aperta: è un collettore di gesti, di movimenti e di intonazioni da riprendere o sostituire o integrare in occasione delle repliche della stessa opera. Mentre i registi hanno tante partiture sceniche quanti sono gli allestimenti che firmano, le partiture registiche degli attori-cantanti non riguardano una singola rappresentazione, ma continuano ad accompagnare l’interpretazione del personaggio di allestimento in allestimento. In un’intervista rilasciata a Bernard Gavoty per la televisione francese (1964), Maria Callas reagisce piccata alle domande sull’improvvisazione:

D: Lei dice di avere lavorato molto in scena. Studia scrupolosamente tutto quello che farà in scena? R: No! D: Lei improvvisa molto sulla scena? R: Fortunatamente sì altrimenti mi sarei ammazzata... D: Non è terribile per il direttore d’orchestra ed i suoi partner? R: Ah non, perché la base è sempre l’arte... poi se faccio due passi sempre esattamente di dieci centimetri o di quindici questa non è arte.95

Il tono irritato delle risposte proviene dal fatto che l’intervistatore sembra non comprendere le implicazioni del problema: l’assenza d’improvvisazione incollerebbe infatti all’attore-cantante la «giacchetta stretta» della memorizzazione musicale, interrompendo la dialettica fra il suo esserci e la realizzazione della parte. Inoltre, l’improvvisazione è gioco, rischio, libero flusso di transitorie sintesi sceniche e anche affermazione del potere dell’attore sullo spettacolo. Il finale del debutto dell’Anna Bolena consente di verificare le capacità d’intervento della partitura registica della parte sullo spettacolo complessivo. L’episodio è narrato da Gianandrea Gavazzeni:

Visconti ha detto che la Callas, una volta messo a punto un particolare, lo teneva per acquisito; ma al tempo stesso ha anche parlato del suo istinto. Vorrei osservare che questo istinto la sapeva anche portare, quando occorresse, all’improvvisazione. Appunto alla prima esecuzione dell’Anna Bolena accadde un incidente che avrebbe potuto essere gravissimo e che solo il suo talento teatrale superò. Terminata l’aria finale, Anna Bolena avrebbe dovuto essere circondata […] da un muto coro di incappucciati che l’avrebbe come ingoiata nel suo cerchio, e condotta al supplizio. […] Invece per una dimenticanza di uno dei sostituti di palcoscenico il coro di comparse non uscì e la Callas si trovò inaspettatamente sola. Ma si salvò lo stesso: improvvisò un disegno di gesticolazioni perfettamente omogeneo al carattere figurativo in cui il suo personaggio s’era espresso fin lì, si volse e scomparve nel fondo scena.96

95 M. Callas, Lettere, cit., p. 122. 96 G. Gavazzeni in Processo alla Callas, cit., p. 21.

40 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

In questo caso, la partitura registica della parte salva il finale dell’opera da un incidente «che avrebbe potuto essere gravissimo», ma le stesse possibilità d’intervento erano comunque nelle disponibilità di Maria Callas, che, tessendo a vista estemporanee reti di micro-azioni – come le ‘conversazioni’ di gesti –, calava l’interpretazione musicale in una presenza in vita di carattere extra-quotidiano e coincidente col concreto esserci dell’attore, non tanto in stato di immedesimazione, quanto di simbiotico rapporto con la parte:

Ad ogni modo, non avrai fatto ancora nulla se i tuoi studi, una volta sul palco, non risalteranno attraverso una totale trasfigurazione, un nuovo modo di sentire e percepire, e di vivere. A volte è così difficile che ti sembra quasi di scomparire – come cercando di aprire la cassaforte senza conoscerne la combinazione.97

Organica compenetrazione fra l’interpretazione della parte e l’esserci ‘trasfigurato’ (ma sempre sul punto di scomparire) dell’attore-cantante, la persona scenica attrae l’attenzione dello spettatore, mentre fa scattare – come un abile scassinatore – i meccanismi scenici. La sua presenza – alterata e straniata, registica e illusoria – determina il passaggio dello spettacolo operistico dalla categoria della rappresentazione – formalizzata, prevedibile, con scarsi margini di modificabilità – a quella dell’evento – aperta, irripetibile, suscettibile di vertiginose ascensioni e atroci fallimenti. Nell’Ottocento, simile a Maria Callas, fu un’altra Maria: la Malibran.

L’interpretazione come bio-grafìa Maria Malibran morì il 23 settembre 1836 a seguito di una caduta da cavallo avvenuta intorno all’8 luglio. L’animale destinato alla cantante era un purosangue nero dal carattere bizzarro e ombroso. Si chiamava Comet. Governato dal padrone, Lord Lennox, non si era mostrato fino allora particolarmente rischioso, ma, quella volta, forse sentendo una presa più leggera, s’imbizzarrì sbalzando di groppa l’esile corpo della Malibran. L’emozione per l’improvvisa scomparsa dell’artista fu vivissima. In una commossa poesia a lei dedicata, De Musset intreccia i topos funerari cari alla sensibilità romantica: la caducità dei successi e della stessa fama; la dispersione cui è soggetta l’arte scenica; il contrasto fra l’indifferente proseguire della vita collettiva e la morte dei grandi uomini; l’azione assassina della «Musa implacabile» che porta alla tomba gli artisti stringendoli «nelle sue braccia infiammate». Quest’ultimo tema, al quale sono dedicate le ultime Stanze della composizione (XIX-XXVII), culmina in una notazione tecnica sull’interpretazione di Desdemona e in un confronto fra Maria Malibran e Giuditta Pasta, che avrebbero potuto benissimo

97 M. Callas, Prologo, cit., p. 431.

41 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

figurare, debitamente svolti e motivati, in una recensione o in un trattato di recitazione:

Quando cantavi il Salce, invece di questo delirio, perché non ti preoccupavi di reggere bene la tua lira? La Pasta fa così, perché non l’hai imitata?98

De Musset si riferisce all’ultimo atto dell’Otello che Rossini compose nel 1817 avendo in mente, per la parte di Desdemona, Isabella Colbran. Nell’ultimo atto di quest’opera, all’epoca, fortemente criticata perché troppo fedele alla conturbante tragicità dell’originale shakespeariano, Desdemona intona una canzone accompagnandosi con l’arpa. Il recitativo che precede il brano enfatizza la presenza dello strumento musicale e il suo utilizzo da parte della cantante. Dice Desdemona:

O tu del mio dolor dolce instrumento! Caro pegno d’amor, che sol m’avanzi, io te riprendo ancora: e unisco al mesto canto i sospiri d’Isaura, ed il mio pianto.99

Lo sviluppo musicale si mantiene fedele alla situazione scenica: il canto di Desdemona viene infatti accompagnato dal suono di un’arpa situata nella compagine orchestrale. Per convenzione, il pubblico dell’opera lirica accettava – allora come oggi – di abbinare alla visione di strumenti muti e suonati per finta – arpe, liuti, chitarre o ghironde – la musica di corrispondenti strumenti suonati per davvero da musicisti nascosti o scarsamente visibili. Maria Malibran mandò in frantumi questa consolidata tradizione, lasciando che, nell’Otello rossiniano, l’arpa scenica scivolasse al suolo, mentre quella orchestrale continuava ad accompagnare il canto. Si veniva così a stabilire una sorta di ossimoro percettivo, per cui, attraverso un effetto di carattere straniante, che esplicitava il carattere fittizio dell’arpa presente in scena, il pubblico veniva portato a vedere nella cantante, non tanto un’interprete drammatica, quanto un’artista incurante delle simulazioni teatrali e realmente pervasa dal sentimento della situazione. Prosegue De Musset:

Dunque non sapevi, commediante imprudente, che questi gridi insensati che ti uscivano dal cuore della tua guancia smagrita aumentavano il pallore?100

98 A. de Musset, Stances pour la morte de M. Malibran, in R. Giazotto, Maria Malibran, Torino, ERI Edizioni, 1986, pp. 493-495:495. La traduzione è mia. 99 F. Berio Di Salsa, Otello (prima esecuzione: 4 dicembre 1826, Napoli), in www.librettidopera.it. 100 A. de Musset, Stances pour la morte de M. Malibran, cit., p. 495.

42 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Mentre Giuditta Pasta codificava nel dettaglio la «creazione» della parte, Maria Malibran improvvisava intonazioni, gesti e «gridi insensati», facendo della performance drammatica un evento mutevole e avente per oggetto il suo stesso vivere in stato di rappresentazione101. Aldilà della comune tendenza a fare emergere il senso drammatico del canto fiorito, la Callas e Maria Malibran si assomigliavano in questo: entrambe plasmavano l’io non-io scaturito dal rapporto con la parte fino a ricavare un’esistenza scenica, il cui mandato non era ripetersi, ma evolversi al modo degli esseri viventi, manifestando l’incontentabile identità dell’artista che l’animava tanto all’interno del processo teatrale, che nel proprio privato dove la memorizzazione delle prove veniva vagliata in solitudine, discriminando momenti efficaci e inerti, intuizioni rivelatrici e transitorie, segni intenzionali e sintomi del profondo. Maria Callas descrive questa fase nascosta del lavoro teatrale, riscontrando, sulla base del vissuto e senza pretese teoriche, l’umile compenetrarsi di esistenza privata e creazione artistica:

il nostro lavoro è senza orario. Dopo le prove, tornata a casa, di notte, da sola, mi concentravo e iniziavo la vera creazione, rivedendo quello che avevo provato e ripensando al lavoro del giorno dopo, cosa mi aspettavo, come dovevo costruire il personaggio, come dovevo cantare... Appunto, la creazione. Questo si faceva con il maestro, questo si faceva con i colleghi, in una gara di superamento continuo. Noi non possiamo avere sindacati, il nostro destino è di lavorare sempre. L’arte è così grande che più conosci più scopri di non conoscere.102

Maria Callas, a differenza della Malibran, gestiva con oculatezza le improvvisazioni e le interferenze fra canto e parlato, selezionando e memorizzando le soluzioni particolarmente riuscite, ed evitando di sorprendere lo spettatore con l’inatteso, al quale, sostituiva piuttosto l’estemporaneo montaggio del già sperimentato e noto. Sicché, la performance attoriale, nel suo caso, attivava per micro-cambiamenti una presenza-guida, che governava l’attenzione del pubblico dall’interno dello spettacolo. Vi è però un episodio che mostra come anche la Callas potesse spingere all’estremo il registro gestuale, accumulando un repertorio di movenze da trascegliere e riformulare in accordo col mutamento dell’interpretazione, che si trasformava a vista dei pubblici delle successive repliche. La scena,

101 Sulla triplice modalità di conduzione scenica delle cantanti del primo ottocento – codificata, improvvisata, in parte codificata e in parte improvvisata – cfr. G. Guccini, Note sulla cultura del corpo nei cantanti lirici, in C. Falletti (a cura di), Il corpo scenico, Roma, Editoria & Spettacolo, 2008. 102 B. Tosi, Casta diva. L’incomparabile Callas, Roma, Associazione Culturale ‘Maria Callas’, 1993, p. 177.

43 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

per lei, era un laboratorio in cui tentare l’avvicinamento alla perfezione, con logica consapevole dei salti del processo teatrale. Il lavoro intorno a Medea rende particolarmente evidente, grazie alle sue svolte e ai commenti suscitati, questa dimensione sperimentale, che definisce la partitura regista della parte, stratificando successioni di scritture performative ognuna delle quali alimenta o restringe i materiali delle altre senza che si venga perciò a costituire, fra loro, una gerarchia estetica rigida e definitiva. L’interpretazione di Maria Callas divenne oggetto di discussione fra intellettuali di diversa formazione a seguito dell’allestimento romano di Medea (gennaio 1955). L’opera andò in scena con la direzione di Gabriele Santini e la regìa di Margherita Wallmann, che riprese i bozzetti e le scene di Salvatore Fiume, già utilizzate per la Medea andata in scena alla Scala (dicembre 1953) con la direzione di Leonard Bernstein e la regìa della stessa Wallmann. Dei commenti critici, riferirò in particolare le annotazioni che riguardano la performance callassiana. Il poeta e critico musicale Giorgio Vigolo inquadra Medea fra le parti di maghe e maliarde rivestite dalla Callas:

Maria Callas […] del personaggio di Medea ha fatto una sua creazione infuocata, ululante demoniaca, ormai giustamente celebre e veramente stupenda. […] In Maria Callas, tutto è arte, studio, forza di indomabile volontà. Non per nulla ella è sempre così riuscita nelle parti di maga, Kundry, Armida, Medea. Qualcosa di stranamente magico è anche nella sua voce, una specie di alchimia dei registri. […] Nel personaggio di Medea, anche i suoi difetti diventano delle qualità, anche certe asprezze conferiscono al guizzo belluino dell’Erinni.103

Posizione ben diversa viene assunta dal compositore e critico musicale Guido Pannain, che non riconosce nella Medea della Callas la tragica protagonista delle drammaturgie di Euripide, Seneca, Corneille e Cherubini:

Maria Meneghini Callas s’agita troppo. Questa non è Medea, la Medea classica la quale è un’altra. Tutta chiusa nel suo dolore, inesorabile come il suo destino che trascende nel mito. […] Sulla scena ella dovrebbe rimanere impietrita e scandire con disperazione senza gesto le sillabe della sua tragedia impastata di lacrime.104

L’anglista Mario Praz risponde a Pannain con un vero e proprio saggio, che riconosce, nella classica compostezza che la tradizione attribuiva al personaggio di Medea, l’effetto d’una sedimentazione secolare e, nell’interpretazione «selvaggia e sconvolta» di Maria Callas, la riscoperta

103 G. Vigolo, Astronomia popolare, in «Il Mondo», 1 febbraio 1955. 104 G. Pannain, La tragedia dell’umano dolore nella ‘Medea’ di Cherubini, in «Il Tempo», 23 gennaio 1955.

44 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

della «latente forza» dell’opera. La sua narrazione amplifica i gesti e gli elementi figurativi dell’interpretazione, accostandoli a immagini (le «donne di Creta che brandivano serpi») e traendone metafore (la poesia del terribile si getta «nell’onda violenta [del] mantello»). Il procedimento, non solo fissa lo spettacolo nella memoria del lettore, ma fonde descrizione degli atti scenici e senso del discorso, performance e commento:

Subito che [Maria Callas] appare sulla scena, consunta dalla passione, in quel vestito nero listato di bianco, con quella criniera fulva... ma è un’upupa, uno di quei lugubri uccelli vestiti a lutto e come macchiati di sangue, che udii chiurlare di antichi e mostruosi delitti fra le rovine di Micene. D’un balzo quell’esile e imperiosa figura che appare in fondo alla scena mi riporta nella Grecia selvaggia e sconvolta, arata da miti feroci per piantarvi i fiori di un’arte estatica. Maria Callas leva le braccia, si snoda: ora non è più l’upupa simbolica […], ma è una di quelle donne di Creta che brandivano le serpi, livide esse stesse come serpi micidiali […]. Quel rosso mantello che Maria Callas trae dietro di sé nel terz’atto... c’è più dello spirito della poesia del terribile mito greco nell’onda violenta di quel mantello che negli attori piantati su due piedi, immobili come statue, intenti a cavare fuori sapienti e ortodossi volumi di voce, come insegnava la tradizione settecentesca!105

Pannain resta dell’avviso che questa Medea non corrisponda allo statuto del personaggio classico, e, spinto dall’analisi di Praz, descrive a sua volta le azioni di Maria Callas, che, però, non confronta all’immaginario tragico, ma enuclea e nomina, con effetto di comico straniamento, in quanto gesti concreti (salti, tremori di gambe, dimenamenti di braccia eccetera):

Una Medea, esacerbata dal tradimento e dall’oltraggio, che, dal momento in cui il male le appare irreparabile, non fa che smantare correndo su e giù per la scena e nell’acme della tragedia, non sa far di meglio che stramazzare, e in ogni modo agitarsi, e perdere il controllo del gesto e dimena le braccia e si batte le mani sul ventre, e trema sulle gambe, come in preda al ballo di S. Vito, sì da far perdere il senso della musica, dalla quale il suo gesto dovrebbe irradiarsi, non può essere, no, la classica Medea del mito espressa dalla musica di Cherubini. E quando, infine, ella appare al sommo di un’interminabile scala, avvolta in uno smisurato mantello rosso, da corrida più che da tragedia greca, e resta ferma in quella postura, quasi che da essa penda l’applauso e poi, dopo altro dimenarsi e andare e venire, piomba di nuovo a terra e vi giace come sepolta sotto il suo scarlatto sudario, ancora una volta ella non è un personaggio di tragedia, ma di vistosa coreografia.106

Al dibattito si aggiungono quindi il latinista Ettore Paratore e il francesista Pietro Paolo Trompeo i cui posizionamenti fra l’una e l’altra valutazione critica non aggiungono ulteriori elementi sull’interpretazione del tragico personaggio.

105 M. Praz, Sulla libertà d’improvvisazione, in «Il Tempo», 3 febbraio 1955. 106 G. Pannain, Libertà ma non arbitrio d’interpretazione. Gli aurei precetti di Amleto per la ‘Medea’ di Cherubini, in «Il Tempo», 4 febbraio 1955.

45 Gerardo Guccini, Maria Callas: attrice del Novecento

E Maria Callas? La cantante non prese la parola, ma, fra il riconoscimento d’aver fatto nuovamente germogliare i semi dormienti del linguaggio tragico e l’accademico richiamo all’ordine di Pannain, si mostrò soprattutto sensibile a quest’ultimo. A convincerla delle ragioni del suo astioso detrattore, penso sia stata l’accusa di avere risolto un personaggio tragico in «vistosa coreografia». Non è detto che Pannain, naturalmente lontano dai valori e dalla cultura del teatro, sapesse che Margherita Wallmann si era formata come coreografa e, in questa veste, aveva cominciato a lavorare alla Scala. Tutto questo, però, era ben presente a Maria Callas, che, in virtù di quel riferimento, si sentì probabilmente espropriata del lavoro sulla parte, attribuito, anche se in modo forse inconsapevole, alla coreografa Wallmann. Nell’agosto del 1961, Maria Callas rappresentò a Epidauro la Medea con la regìa di Alexis Minotís. Il noto regista, convertito all’opera lirica dalla cantante, fu ben lieto di trasferire nel più splendido luogo della tragedia greca la sua precedente regìa della stessa opera (Dallas 1958, sempre con la Callas). In questa seconda occasione, coronato da un clamoroso successo, Minotís perfezionò «gli atteggiamenti, le pose, i gesti delle mani accusatrici, il concitato incedere attraverso gli ambulacri del palazzo, le concitate carezze ai due figli[...]»107. Forse anche a causa di questa nuova mediazione e dell’allontanamento dalle dinamiche cinetiche di Margherita Wallmann, l’adattamento dell’allestimento di Epidauro alle ridotte dimensioni del teatro alla Scala (dicembre 1961) apparve singolarmente misurato, tutt’altro che «selvaggi[o] e sconvolt[o]», quasi spento. Tornato a vedere l’opera, Guido Pannain s’intestò il merito del riassorbimento dei gesti e delle più mansueta espressività della cantante:

Ma una sorpresa graditissima mi attendeva con la interpretazione di Maria Callas, che ha fatto sue, assimilate e applicate con profondi intendimenti, le osservazioni che io le mossi, anni fa […]. Con rara intelligenza di stile nel tragico personaggio facendone una creatura d’intimo e concentrato dolore tanto più intenso e sofferto quanto più dominato da manipolazioni esteriori.108

L’articolo di Pannain s’intitola Rinnovato trionfo di Maria Callas nella tragica ‘Medea’ di Cherubini. In realtà, non vi fu nessun trionfo, ma molta delusione, anche fra gli antichi sostenitori della cantante, che scongiurò il rischio d’un vero e proprio fiasco con un’invenzione teatrale, che un’analisi musicologica considererebbe forse aneddotica ed extra-artistica, mentre, da

107 A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., p. 271 108 G. Pannain, Rinnovato trionfo di Maria Callas nella tragica ‘Medea’ di Cherubini, in «Il Tempo», 12 dicembre 1961.

46 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

un punto di vista teatrologico, tocca i centri nevralgici dell’estetica del performativo. Riporto, al proposito, la testimonianza dal direttore d’orchestra Thomas Schippers:

Dalla seconda galleria [dopo l’aria ‘Dei tuoi figli la madre’] scese una spaventosa bordata di fischi […]. Maria continuò imperterrita, finché giunse alla parola «Crudel!», con la quale Medea apostrofa Giasone. Seguono due accordi brevi e sonori, dopo di che l’orchestra tace un istante, in attesa che Medea pronunci il secondo «Crudel!». Ma dopo il primo, Maria smise letteralmente di cantare. Io l’ho fissata sbalordito, incredulo, mentre lei puntava il suo sguardo sulla platea con l’aria di dire: «Sentite, questo è stato il mio palcoscenico e lo sarà finché vorrò. Se ora voi mi odiate, io vi odio altrettanto». Io l’ho visto, l’ho avvertito personalmente. Poi Maria ha cantato il secondo «Crudel!» rivolgendosi esplicitamente al pubblico, riducendolo suo malgrado al silenzio. In vita mia non ho mai visto nessuno che osasse una cosa simile in teatro. Mai. Non c’è stato il minimo mormorio di protesta. Ero paralizzato... Non ero in grado di stabilire se volesse continuare o no. Era lei ad avere in pugno la situazione.109

La partitura registica della parte include, fra le sue risorse estreme, la fuoriuscita dalla parte e la sostituzione della situazione drammatica con un rapporto diretto e verticale fra performer e pubblico. In questi frangenti, la scrittura attoriale non modella il vivere dell’artista in stato di rappresentazione, ma il suo esistere in stato di realtà. Slittamento che muta in corso d’opera il patto percettivo gli spettatori, trasformando la loro delusione per non essere stati trasportati nel mondo diegetico della maga – l’antica Grecia «arata da miti feroci» – in annichilito stupore di fronte all’apparire del volto nudo di Medea, quasi che da questo, avrebbe osservato un disgustato Pannain, potesse ancora pendere l’applauso.

109 A. Stassinopoulos, Maria Callas al di là della leggenda, cit., pp. 275-276.

47

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Sonia Bellavia

Wedekind e la recitazione

I L’esordio teatrale di Frank Wedekind si prepara a Berlino, dove il giovane scrittore - nativo di Hannover, ma cresciuto a Lenzburg, in Svizzera -,1 soggiorna nel febbraio 1895.2 Assieme a Monaco, Londra e Parigi, la capitale tedesca è una delle tappe del viaggio fra le città europee culturalmente più attive al tempo, che Wedekind intraprende dopo l’abbandono degli studi in legge, nel 1888. Studi iniziati controvoglia e senza smettere mai l’esercizio della scrittura, a cui si dedicava dai tempi del ginnasio, e che trova forme diverse nei componimenti lirici (i primi del 1876), nella stesura dei testi teatrali (come la farsa Der Schnellmaler: Il pittore svelto, pubblicata nel 1889), nei saggi (ad esempio quelli sul Circo,3 pubblicati sulla «Neue Zürcher Zeitung» nel 1887), e infine negli slogan pubblicitari per la ditta zurighese di dadi da brodo Maggi, con cui l’autore lavora dal novembre 1886 all’estate dell’anno successivo. Oltre a consentirgli una certa indipendenza economica, il soggiorno nella capitale svizzera sancisce l’ingresso di Wedekind all’interno dei circoli intellettuali. Qui, il giovane autore ha la possibilità di frequentare i maggiori esponenti del naturalismo zurighese e di stringere conoscenza con il drammaturgo Carl Hauptmann (1858- 1921),4 fratello del più noto Gerhart. Sono però gli anni che si snodano sullo sfondo del soggiorno parigino, dal 1891 al 1894, quelli decisivi per la sua formazione. Un triennio che si apre con la composizione del suo primo capolavoro: Frühlings Erwachen (Risveglio di Primavera) - con cui peraltro l’autore si sarebbe guadagnato anche il plauso di Sigmund Freud -,5 vede la stesura di Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora) ed è vivificato dalla fascinazione dello scrittore per la Parigi del circo, del varietà e del

1 Figlio di un medico con cittadinanza americana e di una cantante di Varietà, Wedekind nasce ad Hannover, ma cresce in Svizzera, dove la famiglia si trasferisce quando era molto piccolo, nel 1871. Il padre compra una splendida, ma isolata residenza: il castello Lenzburg. Qui la madre, per fuggire alla noia di una vita ritirata, ogni giovedì organizza per amici e familiari concerti e letture ad alta voce. Anche Wedekind si esibisce, recitando i versi e le ballate che egli stesso componeva, accompagnandosi con la chitarra. Cfr. G. W. Forcht, Frank Wedekind und die Anfaenge des deutschsprachigen Kabaretts, Freiburg, Centaurus, 2009, p 12. 2 Wedekind era già passato per Berlino qualche anno prima, nel maggio 1889; prima di recarsi a Monaco, nel luglio dello stesso anno. 3 Si tratta di Zirkusgedanken (pensieri sul circo) e Im Zirkus (nel circo). I saggi risalgono all’agosto 1887. 4 Carl Hauptmann si trovava a Zurigo per proseguire gli studi scientifici iniziati all’università di Jena. Dopo la decisione di abbandonare l’Università, nel 1889, lascerà la Svizzera e si stabilirà a Berlino. 5 Tema centrale dell’opera è, notoriamente, il risveglio della sessualità nella fase adolescenziale. L’anno seguente alla stesura, nel 1892, Wedekind si recò a Zurigo, dove conobbe il futuro padre della psicoanalisi. Qualche anno dopo, nel 1902, Freud avrebbe affrontato il tema della libertà sessuale durante una delle sedute della sua Società Psicoanalitica. Meravigliato dai contributi dello scrittore, scrisse nei Protocolli: «Di tutti i grandi psicologi fra gli autori moderni, solo Wedekind ha compreso l’importanza della sessualità infantile». L’affermazione di Freud, a p. 111 dei Protokolle der Wiener Psychoanalitischen Vereinigung editi da Hermann Nunberg per la Fischer Verlag di Monaco nel 1976, è stata consultata in G. W. Forcht, Frank Wedekind und die Anfänge des deutschsprachigen Kabaretts, cit., p. 12.

© 2019 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it

47 Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione

Cabaret. 6 Nella capitale francese, dove tra l’altro fa la sua conoscenza con il drammaturgo svedese August Strindberg (1849-1912) 7 e con la scrittrice e psicoanalista tedesca Lou Andreas-Salomé (1861-1937), Wedekind si inserisce nella vita bohèmienne: frequenta il famoso Cabaret Le Chat Noir,8 punto d’incontro delle personalità di spicco della Parigi artistico-letteraria, mentre resta meravigliato dalle esibizioni degli acrobati, dei funamboli, dei giocolieri, degli chansonnier e dei musicanti, che vede al Caffè degli Artisti di Montmartre. Sotto il loro influsso, comincerà a produrre i testi che formeranno la base del suo futuro repertorio cabarettistico, e che troveranno poi spazio sulle pagine del giornale satirico «Simplicissimus», 9 di cui dalla fine degli anni novanta sarà uno dei principali collaboratori.. Intanto, lavora a Erdgeist (Spirito della Terra), che non è solo una delle sue opere maggiori, ma rappresenta anche il viatico al suo ingresso sulle scene. Nel 1894, evidentemente conscio del potenziale del testo e desideroso di vederlo rappresentato a teatro, Wedekind si rivolge al pittore Max Liebermann10 (una delle sue conoscenze dei tempi della Svizzera), chiedendogli di poter leggere il dramma nel suo atelier di Zurigo. La lettura si svolge di fronte al Gotha della Freie Bühne berlinese: Otto Brahm, Otto Erich Hartleben, Paul Schlenter, i fratelli Hart. L’effetto, racconta Liebermann, fu l’opposto di quello che ci si era aspettato: i passaggi ‘tragici’ del testo suscitarono ilarità e tutti convennero che l’opera era irrappresentabile; farlo, avrebbe generato uno scandalo colossale.11 Deluso, Wedekind decide di partire alla volta di Londra, dove resta per sei mesi,12 prima di tornare in Germania e raggiungere Berlino agli inizi del 1895. Lo scrittore è adesso al crocevia della propria vita artistica, al punto in cui la sua scrittura comincia a intersecarsi con il Cabaret e si prepara l’esordio in palcoscenico. Il 1895 è difatti l’anno di pubblicazione di Erdgeist (Spirito della Terra), del saggio su

6 A quel tempo, nella capitale francese, erano attivi centottanta Caffè-Concerto, duecentocinquanta sale da ballo e più di sessanta teatri di Vaudeville. Cfr. Ivi, p. 10. Di quanto Wedekind fosse rimasto affascinato dalla vita e dall’atmosfera della capitale francese, è possibile leggere nelle pagine della sua Autorappresentazione. Cfr. F. Wedekind [W. Reich Hrsg.], Selbstdarstellung. Aus Briefen und anderen persönlichen Dokumenten, München, Albert Langen-Georg Müller, 1954. Si vedano in particolare le pp. 30- 40. 7 Con la moglie di Strindberg, l’austriaca Frida Uhl (1872-1943), Wedekind inizierà una relazione nel 1896. Dalla loro unione nascerà il secondo figlio della donna, che porterà però sempre il cognome del suo legittimo consorte. 8 Nel 1885 lo Chat Noir, aperto quattro anni prima da Rodolphe Salis (1851-1897), traslocò dalla primitiva sede in Montmartre nelle adiacenze dell’odierna rue Victor-Massé. Clou del nuovo locale era il teatro delle ombre cinesi, ideato dal pittore Henry Rivière (1864-1951). Lo Schattentheater (teatro delle ombre) animerà in seguito anche l’Elf Scharfrichter (Undici Carnefici) di Monaco (il Kabarett di cui Wedekind sarà uno dei principali animatori; cfr. p. 7); insieme al teatro di marionette. Per un approfondimento ulteriore del contesto si rimanda a C. Grazioli, Lo specchio grottesco. Marionette e automi nel teatro tedesco del primo Novecento, Padova, Esedra, 1999. Si veda, in particolare, il capitolo sul Kabarett. 9 Su modello dello «Chat Noir» di Rodolphe Salis (1851-1897), rivista connessa all’attività dell’omonimo cabaret parigino di cui alla nota precedente, il settimanale «Simplicissimus» venne fondato nel 1896 da Albert Langen: ricco ereditiere con il quale Wedekind - i cui racconti costituivano il punto di forza del giornale - aveva stretto amicizia durante il suo soggiorno parigino, nel 1894. Sulla rivista scrivevano anche, tra gli altri, il grande poeta e scrittore austriaco Rainer Maria Rilke (1875-1926) e il critico e letterato Hermann Bahr (1863-1934), noto fautore del Moderno Viennese. 10 Max Liebermann (1847-1935), artista berlinese, cominciò a dedicarsi alla pittura attratto dal realismo di Courbet e di Millet. Intorno al 1890, iniziò a prendere le distanze dall’estetica realistica e si volse all’Impressionismo. 11 Cfr. Max Liebermann, in J. Friedenthal [Hrsg.], Das Wedekindbuch, München und , Georg Müller Verlag, 1914, pp. 212-213. Dieci anni dopo, osserva Liebermann, quella stessa pièce otteneva un successo colossale. 12 Wedekind soggiornò a Londra nel periodo compreso fra gennaio e giugno 1894.

48

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Ibsen, apparso sulla «Neue Zürcher Zeitung», 13 ma anche delle esibizioni come recitante nei locali della capitale tedesca, utili al suo sostentamento economico. Una sera, mentre ‘declama’ alcune scene tratte dai drammi ibseniani, Wedekind viene notato dallo scrittore Kurt Martens (1870-1945), il quale aveva appena fondato, assieme all’autore e regista Carl Heine (1861-1927),14 la Società Letteraria di Lipsia. Colpito dalla sua esibizione, Martens lo invita a tenere una lettura nell’ambito della Leipziger Literarische Gesellschaft, per il novembre 1897. Sarà in quell’occasione, che Wedekind catturerà l’attenzione di Rudolph Steiner:15 futuro fondatore dell’antroposofia, fortemente interessato al teatro (e in specie all’arte dell’attore), il quale lo avrebbe di lì a poco coinvolto nel suo progetto della Società Drammatica Berlinese; oltre a dedicargli, nel tempo, pagine significative, di cui si avrà modo di parlare più avanti.16 Ma non solo: Wedekind susciterà anche l’interesse dello stesso Heine, il quale - oltre a essere co-fondatore della Società Letteraria di Lipsia - dirigeva l’attività dell’Ibsen-Theater, che ne era l’emanazione.17 Appena conosciuto Wedekind, Heine lo pregò di collaborare come segretario dell’ensemble. E cominciò a pensare a una messinscena di Erdgeist (Spirito della Terra): l’opera che era stata definitivamente rifiutata tre anni prima dal teatro di Brahm e che, nel frattempo, era stata vietata in Germania. Comprendendo che gli attori del suo Teatro non erano addestrati al compito che l’interpretazione del testo richiedeva, il regista pregò Wedekind, privo di formazione attorale, di recitare il ruolo dell’editore Schön; per fungere da guida agli altri interpreti, spingendoli a seguire «il suo proprio ritmo».18 Così, il 25 febbraio 1898, al Krystall Palast di Lipsia, con lo pseudonimo di Heinrich

13 Cfr. F. Wedekind, Schriftsteller Ibsen („Baumeister Solneß“),«Neue Zürcher Zeitung», 2, 3, 4 e 5 settembre 1895. 14 Scrittore e régisseur di orientamento naturalista, Carl Heine oltre che a Lipsia fu attivo in qualità di Dramaturg (responsabile, cioè, del repertorio) ad Amburgo e a Francoforte sul Meno, per passare poi come régisseur a Lipsia e nel 1914 a Berlino, nelle vesti di direttore del Deutsches Theater di Reinhardt. Si ricorda che egli fu anche colui il quale, l’undici maggio 1907, allo Schauspielhaus di Francoforte mise in scena la prima produzione di Fiorenza di Thomas Mann (cfr. J. F. Preston, Thomas Mann Papers at Princeton, Princeton University Library Chronicle, v. 50, n. 1 (autunno 1999), pp. 61-66. Si veda in particolare p. 64. 15 Rudolf Steiner (1861-1925), dal 1879 al 1883 studiò al Politecnico di , per laurearsi infine in filosofia. Il suo interesse per Goethe lo porterà dall’Austria alla Germania, più precisamente a , dove soggiornerà dal 1888 al 1896 e dove avrà modo di conoscere lo scrittore Otto Erich Hartleben (1864- 1905). Nel 1897 si trasferì a Berlino, finché nel 1913 passò in Svizzera, dove fondò l’antroposofia (o “scienza dello spirito” per lo sviluppo dell’umanità) e trascorse il resto della sua vita. Della prima impressione lasciatagli da Wedekind, riferirà nel suo articolo Die Litterarische Gesellschaft in Leipzig, «Das Magazin für Literatur», Jhrg. 66, n. 52, 1897, pp. 203-204. 16 Steiner, nota Monica Cristini, era animato da un forte interesse nei confronti dell’arte attorica, che lo avrebbe portato infine «alla definizione di quello che oggi potremmo chiamare un vero e proprio metodo per l’attore» (M. Cristini: Rudolf Steiner al lavoro con l’attore: l’immaginazione creativa come chiave dello studio del personaggio, «Acting Archives Review», anno II, n. 4, novembre 2012, pp. 36-67. La citazione è a p. 36). Prime testimonianze delle sue riflessioni sulla recitazione, sono i «Dramaturgische Blätter», pubblicati sul suo «Das Magazin für Literatur», edito a Berlino dal 1898 al 1900. Nello stesso periodo in cui cura la rivista, Steiner fonda con Frank Wedekind e lo scrittore Otto Erich Hartleben, che aveva conosciuto a Weimar (cfr. nota 11), la Berliner Dramaturgische Gesellschaft: «una sorta di impresa teatrale per la quale Steiner e Wedekind curano l’amministrazione, la produzione e la regia delle messe in scena. Gli spettacoli, scelti tra le opere di drammaturghi loro contemporanei, come Maurice Maeterlinck, sono allestiti con la collaborazione di attori professionisti e programmati in relazione alla disponibilità delle sale teatrali». L’esperienza «avrà vita breve a causa della mancanza di fondi a sostegno dell’impresa e dell’incostante carattere di Wedekind, dal quale Steiner prende presto le distanze» (Ivi, p. 37). 17 R. Guarino, Rileggere Wedekind, «Teatro e Storia», a. VII, n. 2, ottobre 1992, p. 283. L’Ibsen Theater di Heine, ricordiamo, era nato su modello della Freie Bühne berlinese. 18 Cfr. C. Heine, in Das Wedekindbuch, cit., p. 265.

49

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione

Kammerer,19 Wedekind debuttava sulle scene drammatiche nel suo Erdgeist (Spirito della Terra). Presentato come un Burleske in quattro atti, lo spettacolo ottenne un grande successo, testimoniato dalla recensione della «Leipziger Volkszeitung».20 Un successo che fu anche del ‘signor Kammerer’. «Il pubblico e la critica», ricorda Heine, «restarono entrambi presi dalla forte personalità dell’autore, e ciò che suonava straniante, nella sua recitazione, venne ascritto alla consuetudine con la scena francese»: in virtù della fandonia messa in giro dalla stampa nei giorni antecedenti alla prima, secondo cui l’interprete del Dr. Schön era un attore francofono, che debuttava adesso sui palcoscenici tedeschi.21 La collaborazione di Wedekind con l’Ibsen Theater non si fermò qui. Assunto nella compagnia anche come interprete occasionale,22 lo scrittore partecipò alla routine della vita teatrale, cominciando ad acquisire una reale familiarità con la pratica di palcoscenico. Dirigeva le prove, recitava (fu uno dei due giornalisti di Nemico del Popolo e interpretò Ballested ne La donna del Mare di Ibsen)23 e andava in tournée. Nel corso del 1898, l’ensemble diretto da Heine tocca varie città della Germania del Nord (tra cui Amburgo, Breslavia, Stettino, Halle) e all’inizio di giugno arriva a Vienna, al Carltheater, dove per l’undici e il dodici del mese, è prevista la rappresentazione di Erdgeist (Spirito della Terra). Già annunciata, la messinscena viene però vietata in ultimo dalla censura.24 Con sommo dispiacere, Wedekind non riuscì dunque a mostrarsi in un ruolo di primo piano al pubblico e alla critica viennesi. Cionondimeno, il ruolo giocato dalla capitale austriaca nella sua vita sia artistica, che privata, si sarebbe rivelato, col tempo, determinante. A Vienna viveva Karl Kraus, con il quale egli aveva stretto amicizia nel 189225 e grazie al quale avrebbe conosciuto la futura moglie, l’attrice austriaca Tilly Newes (1886-1970). A Vienna c’era il Burgtheater, di cui sarebbe presto divenuto primattore il suo Schauspieler prediletto: l’austriaco Josef Kainz 26 e nella città

19 Wedekind usò il cognome del nonno materno, Jacob Friedrich Kammerer. Heine rivela di aver deciso di non smentire la menzogna diffusa dalla stampa; poiché all’epoca era più facile, disse, che si permettesse a un attore di scrivere pièce, che a uno scrittore di recitare (cfr. Ivi, p. 256). 20 Cfr. J. S., Litterarische Gesellschaft, «Leipziger Volkszeitung» [Kleine Chronik], 26 febbraio 1898. Il recensore sostiene che già solo la presenza di Lulu, interpretata da Leonie Taliansky, bastava ad abbagliare lo spettatore. La Taliansky (1875- dopo il 1922) era un’attrice austriaca, nata a Vienna. Alla formazione come cantante aggiunse, una volta deciso di darsi al teatro drammatico, lo studio al Conservatorio nella capitale austriaca; anche se la propria carriera l’avrebbe costruita tutta in Germania, cominciando da Innsbruck, passando per Lipsia e finendo a Berlino. 21 Cfr. C. Heine, in Das Wedekindbuch, cit., p. 256. 22 Ricorda Carl Heine: «Nel mio teatro Wedekind non recitava solo nelle sue pièce, ma assunse volentieri ruoli secondari nelle opere di altri autori» (Ivi). 23 Cfr. A. Kahane, Frank Wedekind, in Id., Tagebuch des Dramaturgen, , Bruno Cassirer Verlag, 1928. Il testo è stato consultato nella versione online all’indirizzo: http://gutenberg.spiegel.de/buch/tagebuch- des-dramaturgen-6348/20 . Ultimo accesso: 30 aprile 2019. 24 Cfr. «Neue Freie Presse» [Theater- und Kunstnachrichten], 10 giugno 1898. L’articolista, nel dare la notizia, riporta lo sbigottimento di Heine e Wedekind, i quali non riuscivano a capacitarsi del divieto, visto che nel resto delle città tedesche toccate dalla tournnée, l’opera era potuta andare tranquillamente in scena. A Vienna, L’ensemble di Heine cominciò le recite al Carltheater il 2 giugno con Rosmersholm e le chiuse il giorno 12 con Nemico del popolo. Il 3 e il 4 presentò La donna del mare, il 5 Nora (Casa di bambola), dove Wedekind non recitava; il 6 Spettri, il 7 L’anitra selvatica (replicata il giorno 10), l’8 Hedda Gabler, l’11 Nemico del popolo. 25 «Il contatto fra Karl Kraus e Frank Wedekind», scrive Mirko Nottsched, «risale fino al 1892. La fase di più intensa relazione personale e letteraria riguarda però solo gli anni dal 1903 al 1907». M. Nottsched [Hrsg.], Karl Kraus –Frank Wedekind. Briefwechsel 1903 bis 1917, Wuerzburg, Koenigshausen&Neumann, 2008, p.p. 9-10. 26 Josef Kainz (1845-1919), il più grande attore austriaco fra Ottocento e Novecento, aveva cominciato a mettersi in luce negli anni passati tra le fila della compagnia dei Meininger (1877-1880). Seguì l’ingaggio al Teatro Reale di Monaco diretto da Ernst von Possart. Lì restò fino al 1883, quando passò al Deutsches

50

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019 danubiana era cresciuto il direttore del Münchner Schauspielhaus: Georg Stollberg (1853-1926),27 che lo ingaggerà in qualità di attore e Dramaturg sul finire del 1898. Il passaggio a Monaco segna una tappa importante nella carriera attorale di Wedekind: qui, sul palcoscenico del Münchner Kammerspiel, egli ha modo di interpretare molti dei ruoli principali dei suoi drammi, da Re Nicolo in So ist das Leben (Così è la vita), al Marchese di Keith nel dramma omonimo (Marquis von Keith), al Karl Hetmann di Hidalla;28 e di affinare la tecnica della recitazione attraverso un breve apprendistato nel 1900 con l’attore e Regisseur dell’Hoftheater di Monaco Fritz Basil.29 Grazie al quale - evidentemente - raggiunse quella «straordinaria sicurezza» della retorica ricordata da Heine nel Wedekindbuch. 30 Contemporaneamente, prendeva il via la sua carriera cabarettistica, tra le fila dell’Elf Scharfrichter (Undici Carnefici): il Cabaret letterario

Theater di L’Arronge, che avrebbe lasciato sei anni dopo per il Berliner Theater di Ludwig Barnay. All’ingaggio al Berliner Theater fece seguito nel marzo 1891 la tournée che lo avrebbe portato fino a S. Pietroburgo. Lasciata la Russia, l’attore tornò a Berlino, al teatro di Barnay, che avrebbe abbandonato l’anno dopo per rientrare tra le fila del Deutsches Theater. Nel 1899 venne ingaggiato al Burgtheater di Vienna, dove restò fino alla morte. 27 Nato a Lemberg, in Germania, Stollberg crebbe a Vienna, dove si formò come attore. Recitò nella provincia austriaca, finché nel 1878 venne ingaggiato al Carltheater di Vienna. Un paio d’anni dopo passò al Residenztheater di Dresda e poi in varie città della Germania, finché nel 1894 non fu chiamato da Otto Brahm al Deutsches Theater di Berlino. Alla fine del 1897 arrivò al Teatro di Monaco, appena fondato, in qualità di attore e direttore. Nel 1900-1901 il teatro, sito nella Neuturmstraße, si trasferì nel nuovo edificio sito nella Maximilianstrasse, e prese il nome di Münchner Kammerspiel. Qui, Stollberg portò avanti la propria direzione, improntata a un repertorio capace di comprendere, oltre ai migliori esempi della drammaturgia naturalista, anche il repertorio più innovativo. Sotto la sua guida, il Teatro di Monaco divenne uno dei più influenti in ambito tedesco. Cfr. https://www.deutsche- biographie.de/sfz127767.html Ultimo accesso, 30 aprile 2019. 28 So ist das Leben (Così è la vita), con la regia di Stollberg e l’accompagnamento musicale di Wedekind, debuttò a Monaco il 22 febbraio 1902, mentre il Marquis von Keith (Marchese di Keith), di cui Wedekind curò anche la regia, andò in scena il 10 ottobre 1902: dopo la prima assoluta di Berlino diretta da Martin Zickel (1876-1932) nell’anno precedente. Il 29 marzo 1904 sarà la volta di Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora) e il 18 febbraio 1905 di Hidalla, o il gigante nano. 29 Friedrich Hans Basilius Basil, detto anche Fritz Basil, propriamente Friedrich Meyer (1862-1938), fratello del baritono Hans Meyer [Basil]. Nato a Francoforte sull’Oder, debuttò nel 1883 in Julius von Tarent di Leisewitz, con una prova che gli vale il primo ingaggio fisso allo Stadttheater di Lubecca. Qui debutta nel ruolo del marchese Posa nel Don Carlos di Schiller. Nel 1889 passa al Berliner Theater, dove recita nei Nibelunghi, si mette in luce nei ruoli eroici, ma al contempo rivela anche una certa verve umoristica. Quando passa nel 1891 al Deutsches Theater di Berlino, infatti, ai ruoli comici affianca anche quelli delle pièce ‘leggere’. Nel 1894 lascia Berlino per l’ingaggio all’Hoftheater di Monaco, con un repertorio imperniato sui grandi ruoli di Shakespeare, Schiller e Goethe (Faust e Egmont). Dal 1918 al 1924, si produce anche come attore di cinema. Torsten Körner, nella Heinz Rühmann Biographie, sostiene che Basil a Monaco era un attore famosissimo, molto ammirato da Adolf Hitler. Per questo, sarà a lui che il futuro Führer si rivolgerà per essere addestrato all’utilizzo dei propri mezzi espressivi. Per raggiungere il potere della fascinazione e della persuasione, da esercitare non innocuamente sulle platee teatrali, ma sulla massa del popolo tedesco. 30 Cfr. Carl Heine, in Das Wedekindbuch, cit., p. 257. In una lettera alla madre, datata: Monaco, 10 ottobre 1900, Wedekind le ricorda la sua intenzione di perfezionarsi nell’arte drammatica, per poter tornare a esibirsi come attore. Raccontava di aver già preso contatto con un Hofschauspieler del posto [è evidente che si tratta di Basil] e di essere in procinto di iniziare a prendere lezioni, quando era sopraggiunta l’offerta di un agente, il quale gli aveva proposto di recitare Gerardo del Kammersänger (Il Cantante da Camera) al Teatro Reale di Rotterdam. Proposta che Wedekind aveva accettato, riscuotendo in Olanda, come riporta in chiusura della lettera, un ottimo successo. Adesso, avrebbe cominciato a studiare l’interpretazione del Marchese di Keith. Cfr. F. Wedekind [W. Reich Hrsg.], Selbstdarstellung. Aus Briefen und anderen persönlichen Dokumenten, cit., pp. 49-50. L’apprendistato con Basil, dunque, poté iniziare solo da questa data in avanti. Evidentemente interessato alla propria carriera d’attore, a cui attribuiva un ruolo tutt’altro che secondario, in una lettera precedente a Beate Heine (la moglie del regista Carl Heine), datata 26 agosto 1900, Wedekind informa l’amica di aver deciso anche - dietro consiglio di vari attori ai quali si era rivolto - di prendere lezioni di danza dalle prime ballerine di Monaco. Cfr. Ivi, pp. 51-52.

51

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione della capitale bavarese (attivo dal 13 aprile 1901),31 con cui Wedekind collaborerà fino al 1903.32 Sarà proprio il Kabarett, divenuto nella Germania d’inizio novecento una moda diffusa, a riportarlo a Vienna, per un’altra avventura sfortunata. Nel novembre 1901, Wedekind è difatti sul palco del Theater an der Wien, per partecipare con le sue ballate e la sua chitarra all’inaugurazione del Jung-Wiener-Theater “Zum lieben Augustin”: il primo Kabarett viennese (diretto da Felix Salten)33, la cui attività non sarebbe durata che lo spazio di poche sere, guadagnando oltretutto ai partecipanti il biasimo generale della critica.34 Gli unici ad applaudirli, dalla galleria, furono i fautori del Moderno Viennese capeggiati da Hermann Bahr;35 al quale, peraltro, Wedekind si era già rivolto, chiedendo velatamente aiuto per riuscire a imporsi nel circuito teatrale.36

31 Come tutti i Kabarett tedeschi, l’Elf Scharfrichter (Undici Carnefici) nacque su esempio del Buntes Theater (Überbrettl) di Berlino, che aprì i battenti il 18 gennaio 1901, per iniziativa dello scrittore Ernst von Wolzogen (1855-1934), nato a Breslavia, ma originario della bassa Austria. Nel mese di luglio, il Buntes Theater (Teatro Colorato), a cui collaboravano anche i viennesi Arnold Schönberg (1874-1951) e Arthur Schnitzler (1862-1931) si esibiva nel teatro dell’Esposizione degli Artisti della Colonia di Darmstadt (Cfr. s.n, Von der Ausstellung der Kuenstler-Kolonie, «Darmstädter Zeitung», 2 luglio 1901) e ispirava esperienze consimili nel territorio tedesco. Il nome Überbrettl (Über significa ‘oltre’, Brettl vuol dire Cabaret), mutuato da un romanzo di Oscar Julius Bierbaum (1865-1910 cfr. infra, nota 40), voleva; essere una parodia, ma anche una sorta di omaggio a Nietzsche e al suo Übermensch. Si presentavano satire sociali, parodie letterarie, atti unici di prosa, pantomime, ombre cinesi e esibizioni musicali. Non fu un successo: già nel 1902 il Kabarett berlinese cessò la propria attività. Cfr. G. W. Forcht, Frank Wedekind und die Anfänge des deutschsprachigen Kabaretts, cit., p. 20. 32 Ricordiamo che all’Elf Scharfrichter (Undici Carnefici), nel marzo 1902, venne presentato il balletto pantomimico di Wedekind Die Kaiserin von Neufundland (L’Imperatrice di Neufundland). Nonostante la vulgata, non sembra in realtà che Wedekind nutrisse per il Kabarett una passione particolare. In una lettera a Beate Heine, scritta da Monaco il 5 agosto 1902, lo scrittore la informa di non essere ancora sicuro che per l’anno a venire l’Elf Scharfrichter proseguirà la sua attività. Intanto, l’esperienza si stava rivelando per lui, disse, una facile occasione per guadagnare qualche extra, senza compromettercisi troppo. Cfr. F. Wedekind [W. Reich Hrsg.], Selbstdarstellung. Aus Briefen und anderen persönlichen Dokumenten, cit., p. 53. 33 F. Salten, Frank Wedekind, in Gestalte und Erscheinungen, Berlin, S. Fischer Verlag, 1913, p. 44. Felix Salten (1869-1945): psd. di Siegmund Salzmann, nato a Budapest, nell’Impero Austroungarico, e morto a Zurigo. Giornalista, critico teatrale, feuilletonista e scrittore, fu tra i fautori del Moderno Viennese insieme a Hermann Bahr, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal e Richard Beer-Hofmann. Nel 1906 lasciò Vienna per Berlino, dove divenne caporedattore della «Berliner Morgenpost». Quattro anni più tardi tornò nella capitale austriaca per assumere una posizione direttiva alla «Zeit». Con i suoi feuilleton esercitò grande influsso sulla vita culturale viennese. 34 Stando alla programmazione dei teatri della «Neue Freie Presse», il Jung-Wiener-Theater “Zum lieben Augustin” diede le proprie rappresentazioni dal 16 al 24 novembre. Recensendo la serata inaugurale, la testata viennese scrisse che le aspettative erano molto alte, e forse proprio questo aveva nuociuto all’esito della serata. Lo spettacolo, diviso in tre sezioni, fu giudicato nel complesso dilettantesco e le canzoni di Wedekind apparvero senza senso e dal contenuto discutibile. L’impazienza e l’ilarità degli spettatori, scrive il recensore austriaco, si manifestò nell’ultima sezione, con quella «marcia a mo’ di marionette delle persone, che nell’epoca del cinematografo appare particolarmente ridicola, e l’accompagnamento monotono del pianoforte» (_da, Jung-Wiener-Theater “Zum lieben Augustin” – Theater an der Wien, «Neue Freie Presse» [Theater- und Kunstnachrichten], 17 novembre 1901). 35 Gli unici applausi, scrive la «Neue Freie Presse», furono quelli che si levarono dalla galleria, «accesi da un condottiero letterario del moderno» (Ivi). Evidentemente di Hermann Bahr, il quale più tardi, nella sua recensione a Erdgeist (Spirito della Terra) del 1903, avrebbe ricordato proprio l’apparizione a Vienna di Wedekind nel Kabarett di Salten. Cfr. H. Bahr, Erdgeist, in Id. Glossen zum Wiener-Theater (1903-1906), p. 255. 36 Il 17 settembre 1901, da Monaco, Wedekind scrive a Hermann Bahr sottolineando il ruolo-guida che il letterato austriaco esercitava per il teatro tedesco; quel teatro, continua Wedekind, le cui porte continuavano per lui a restare chiuse, nonostante la buona accoglienza di opere come Kammersänger (Il cantante da camera). Ovunque avesse proposto la rappresentazione del Marquis von Keith (Il Marchese di Keith), rivela lo scrittore tedesco al collega austriaco, non aveva ottenuto altro che rifiuti. Cfr. F. Wedekind [W. Reich Hrsg.], Selbstdarstellung. Aus Briefen und anderen persönlichen Dokumenten, cit., pp. 51-52.

52

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Dalla cerchia della Wiener Moderne proveniva anche un altro collega di Wedekind, cresciuto come Bahr nella quarta galleria del Burgtheater, che egli descrive come una «comunità esoterica»: un tempio, un luogo di culto per tutti i giovani viennesi interessati all’arte e che qui, a una visione severa dell’arte, venivano educati: 37 lo scrittore Arthur Kahane. 38 Lettore a Vienna, prima di trasferirsi a Berlino, già entusiasta di Frühlings Erwachen (Risveglio di Primavera),39 Kahane aveva avuto modo di conoscere personalmente Wedekind a Zurigo nel 1893, a un congresso di anarchici. Nel 1902 – a qualche mese dalla chiusura del Kabarett di Salten e mentre esce Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora)40 – verrà chiamato a Berlino da Max Reinhardt, in qualità di primo Dramaturg dello Schall und Rauch: 41 il Kabarett che il regista austriaco aveva aperto nella primavera dell’anno precedente, e che «si stava trasformando adesso in un vero e proprio teatrino stabile»;42 in procinto anche di cambiare nome, per divenire il celeberrimo Kleines Theater. Molto probabilmente fu proprio lui, orientato a imporre nel repertorio del teatro la drammaturgia contemporanea, a suggerire a Reinhardt di inserire il nome di Wedekind accanto a quelli di Strindberg, Maeterlinck, di Hofmannsthal e Wilde:43 i drammaturghi con cui il piccolo teatro avrebbe dato inizio alla sua attività. Il 17 dicembre 1902, Reinhardt porta dunque in scena Erdgeist (Spirito della terra);44 segnando un passo fondamentale

37 Cfr. Arthur Kahane, Max Reinhardts erster Dramaturg, in E. Deutsch-Schreiner, Theaterdramaturgien von der Aufklärung bis zur Gegenwart, Böhlau Verlag, Köln Weimar Wien 2016, pp. 109-135. In particolare, cfr. p. 109. 38 Arthur Kahane (1872-1932), esponente dell’alta borghesia ebraica di Vienna, letterato e filosofo, durante gli anni della formazione universitaria fu un assiduo frequentatore della quarta galleria del Burgtheater, luogo di ritrovo dei giovani intellettuali riformatori. Lì, alla fine degli anni ottanta, avrebbe conosciuto il regista Max Reinhardt, il quale lo avrebbe poi chiamato a Berlino, presso di sé, per iniziare un’intensa collaborazione, durata praticamente fino alla scomparsa di Kahane. 39 Cfr. A. Kahane, Frank Wedekind, in Id., Tagebuch des Dramaturgen, cit. 40 L’opera fu pubblicata nel luglio 1902 su «Die Insel». Ricordiamo che fra gli editori della rivista, che uscì a Monaco dal 1899 a 1902, vi era lo scrittore Otto Julius Bierbaum (cfr. nota 31), al quale Wedekind, nel 1895, aveva raccontato del Cabaret artistique che aveva frequentato a Parigi. Due anni dopo, nel suo romanzo Stilpe, Bierbaum tematizzava un Kabarett artistico-letterario, dando l’input a tutti quei locali, come il Buntes Theater di Berlino - a cui si è già avuto modo di accennare - che cominciarono ad aprire in Germania agli inizi del Novecento. In qualche modo, dunque, si può dire che indirettamente Wedekind sia stato il responsabile della nascita del Kabarett tedesco. 41 Kahane avrebbe ricordato in seguito il colloquio con Reinhardt al Café Metropol di Berlino, e la gioia di sentirsi dire che egli lo riteneva l’uomo giusto per lui; e di poter tornare al teatro, il luogo - come era solito dire Reinhardt - «che restituisce la gioia all’Uomo». Cfr. Arthur Kahane, Max Reinhardts erster Dramatug, cit., p. 110. Si ricorda che insieme a Arthur Kahane, Reinhardt ingaggiò anche Felix Holländer (1867-1931), ex Dramaturg e régisseur al teatro di Otto Brahm. 42 M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, Roma, Bulzoni, 2003, p. 97. Sebbene avesse conservato il nome Schall und Rauch, il teatro di Reinhardt, trasferitosi nei sotterranei di un albergo di Unter den Linden, sul finire del 1901 si trasformò in un vero e proprio teatrino. Il locale venne decorato dal ‘gusto monumentale’ di Peter Behrens (1868-1940) e via via, accanto ai numeri di cabaret «cominciarono a comparire nel programma anche atti unici di autori moderni: Strindberg, Hofmannsthal, Schnitzler» (Ivi, p. 98). È qui che si apre lo spazio per l’ingresso di Wedekind nel teatro di Reinhardt. 43 Secondo la Deutsch-Schreiner, per la prima stagione del Kleines Theater, inaugurato l’11 marzo 1902, furono annunciate ben quattro opere di Frank Wedekind, tra cui Erdgeist (Spirito della Terra) e Kammersänger (Il cantante da camera), quest’ultima pubblicata nel 1899 e rappresentata in prima assoluta a Berlino nello stesso anno. 44 Inaugurato sotto il segno di Strindberg, tra il 1902 e il 1903, il Kleines Theater mise in scena non solo Erdgeist (Spirito della Terra), ma anche Salome di Oscar Wilde, Elektra di Hofmannsthal e Pelléas e Melisande di Maeterlinck, rivelando il talento straordinariamente moderno dell’attrice Gertrude Eysoldt (1870-1955), interprete indimenticabile della Lulu wedekindiana. Si fa notare che sebbene sul programma del teatro la regia di Erdgeist (Spirito della terra) sia attribuita a Richard Vallentin, in realtà essa fu curata dallo stesso Reinhardt. Vallentin figura come responsabile dell’intera messinscena, poiché era il direttore nominale del Kleines Theater. Saputo del successo riscosso dallo spettacolo, Wedekind si profuse in mille ringraziamenti a Reinhardt; e confessò che solo dopo aver visto la messinscena, si era reso conto di cosa

53

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione in vista dell’affermazione definitiva di Wedekind come autore drammatico e preludendo alla loro futura collaborazione. Nel frattempo, lo scrittore comincia a ‘farsi spazio’ anche come attore. La sua interpretazione a Monaco, il 18 febbraio 1905, di Karl Hetmann (in Hidalla): «il fondatore di una nuova ideologia volta ad abolire la morale borghese e a trasmettere a tutta l’umanità un nuovo regno della bellezza»,45 risulta molto convincente. Anche agli spettatori raggiunti dai suoi Gastspiele; come quelli del Residenztheater di Stoccarda, dove l’autore si esibisce nell’aprile 1905. Nel mese successivo, Wedekind è di nuovo a Vienna, dove due anni prima il teatro di Reinhardt aveva portato Erdgeist (Spirito della Terra)46 e dove adesso il suo ‘vecchio’ amico Karl Kraus progetta la messinscena di Die Büchse der Pandora (Il Vaso di Pandora), di cui i due discutevano fin dal 1903.47 Grazie a lui, il 29 maggio 1905, sul palcoscenico del Trianon Theater,48 Wedekind potè dunque debuttare, finalmente, come interprete drammatico nella capitale austriaca. Nella rappresentazione, che per eludere la censura fu organizzata in forma privata, recitò il ruolo di Jack; accanto al Kungu Poti di Kraus (il quale aveva anche tenuto una conferenza introduttiva allo spettacolo)49 e alla contessa Geschwitz della grande attrice Adele Sandrock.50 Lulu, invece, fu interpretata dalla futura moglie di Wedekind: Tilly,51 con la quale lo scrittore avesse scritto (cfr. H. Vinçon, Frank Wedekind, Sammlung Metzlar, Bd. 230, Stuttgart, J.B. Metzler Verlagsbuchhandlung, 1987, pp. 64-65). 45 Cfr. M. Ufer, Hidalla, ovvero il destino delle utopie, in F. Wedekind, Hidalla. Karl Hetmnann, il gigante nano, [a c. di Id.], Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, p. XIII. 46 La tournée viennese del teatro di Reinhardt si svolse al Deutsches Theater. Erdgeist (Spirito della terra) andò in scena il 22 giugno, guadagnando a Wedekind una bellissima recensione di Bahr (cfr. nota 35). A latere, una notazione interessante: durante la permanenza del Kleines Theater a Vienna, Hermann Bahr confidò ad Arthur Kahane il suo desiderio di collaborare con Max Reinhardt. L’intenzione era costituire un’associazione di teatri che potesse unire tra loro Vienna, Berlino e Monaco. Il repertorio doveva essere comune e avrebbe dovuto esserci uno scambio continuo tra le messinscene. Se l’idea di Bahr si fosse realizzata, evidentemente Wedekind avrebbe giocato nella nuova realtà un ruolo non secondario, avendo rapporti artistici con tutte e tre le città. Purtroppo, però, così non fu: il progetto non andò in porto, poiché ritenuto finanziariamente troppo rischioso. In una lettera datata 10 ottobre 1903, Kahane esprime a Bahr tutto il proprio rammarico per l’occasione perduta. Cfr. T. Barzantny, Harry Graf Kessler. Autor, Mäzen, Initiator 1900-1903, Wien, Böhlau, 2002, p. 85. 47 Cfr. M. Nottscheid [Hersg.], Karl Kraus-Frank Wedekind. Briefwechsel 1903 bis 1917, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2008, pp. 122-123. 48 Il Trianon era ubicato nella Praterstrasse 43, di fronte al Carltheater. 49 Kraus avrebbe pubblicato il testo della conferenza sulla sua rivista «Die Fackel», sia in occasione della rappresentazione del 1905, sia per celebrare il suo ventennale. Cfr. K. Kraus, Die Büchse der Pandora, «Die Fackel», Jhrg. 7, n. 182 (1905), pp. 1-14 e Ibid., Jhrg. 27, n. 691-696, pp. 43-55. 50 La Sandrock (1863-1937) si era formata nella compagnia dei Meininger, con cui lavorò dal 1877 al 1879. Dopo aver recitato nel 1883 al Deutsches Theater di Berlino, l’anno seguente venne ingaggiata dal Wiener Stadttheater. Nel 1889 fu scritturata dal Theater an der Wien, dove sarebbe rimasta fino al 1895, quando entrò al Burgtheater. In questo periodo divenne una vera star della Wiener Moderne. Il secolo nuovo la vide ancora a Berlino: prima al Deutsches Theater di Max Reinhardt (dal 1905 al 1910) e poi al Künstlertheater. Nell’ultima parte della sua carriera, oltre a recitare nei maggiori teatri tedeschi, la Sandrock si dedicò anche al cinema, doveva debuttò nel 1911. 51 Un compito non facile, quello di Tilly, che si trovava a ‘gareggiare’ con l’interpretazione della Eysoldt nella messinscena reinhardtiana. Tilly fu tanto intelligente, scriverà Erich Mühsam nel 1910, «da togliere il fianco a qualsiasi possibile comparazione, creando una Lulu completamente nuova e diversa, che nulla aveva a che fare con quella - inarrivabile - della Eysoldt. La sua Lulu era modellata sui toni dell’ingenuità e dell’infantilismo». E già il fatto che fosse riuscita a distinguersi completamente dalla collega, concludeva Mühsam, avrebbe dovuto «mettere a tacere i detrattori». E. K. Mühsam, Der Schauspieler Wedekind. Lo scritto è consultabile nel sito dell’Erich-Mühsam-Gesellschaft e. V. all’indirizzo: http://www.erich- muehsam.de/?cat=texte#i (ultimo accesso 30 aprile 2019). Per alcuni approfondimenti sulla figura della Lulu wedekindiana si rimanda a C. Grazioli, Anima e animalità di Lulu nella “mostruosa tragedia” di Frank Wedekind, in L’impero dei sensi da Euripide a Oshima (atti di convegno),a cura di R. Alonge, Bari, Ed. di Pagina, 2009.

54

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019 avrebbe vissuto da allora in poi un tormentato sodalizio, non solo privato, ma anche artistico. Lo spettacolo è un successo; tanto più se si considera che il pubblico, composto di invitati, è un pubblico scelto. Per Wedekind si annuncia dunque una stagione promettente, anche se come sempre nella sua vita successi e insuccessi, trionfi e cadute, sono destinati a succedersi di continuo. Così, al buon esito del suo Karl Hetmann (Hidalla), messo in scena alla fine di agosto 1905 al Kleines Theater di Berlino sotto Victor Barnowsky,52 seguirono agli inizi di novembre l’insuccesso del Marchese di Keith, un Gastspiel ‘riparatore’ a Lipsia agli inizi del 1906 e poi, a partire da novembre, la collaborazione tutt’altro che pacifica con Reinhardt e il Kammerspiel 53 del suo Deutsches Theater. Qui, dall’estate del 1906 era attivo come Dramaturg Hermann Bahr (carica che il letterato austriaco ricoprirà fino al 1907), la cui presenza non è escluso possa aver guidato il regista alla scelta di allestire Die Büchse der Pandora (il Vaso di Pandora), con la Eysoldt nella parte di Lulu e la Sandrock – proprio come nella messinscena dell’anno prima, voluta a Vienna da Kraus – in quella della contessa Geschwitz. Nel mese di agosto erano già cominciate le prove, ma ancora una volta intervenne la censura a impedire l’andata in scena. Si dovette pensare a una sostituzione, e la scelta cadde su Frühlings Erwachen (Risveglio di primavera), che Bahr considerava la cosa più bella che Wedekind avesse mai scritto. L’opera, inoltre, che avrebbe permesso al giovane Alexander Moissi54 di mettersi in luce come attore;55 e al suo autore, di ottenere un ingaggio al teatro di Reinhardt.

52 Victor Barnowski (1875-1952), attore, régisseur e direttore teatrale, nel settembre 1905 rilevò il Kleines Theater di Reinhardt (il quale aveva intanto preso la guida del Deutsches Theater), orientando il repertorio nella stessa direzione tracciata dal suo predecessore. Nel 1913 passerà alla direzione del Lessingtheater, succedendo a Otto Brahm, e nel 1915 a quella del Deutsches Künstlertheater. Nel 1925 si insediò alla guida del Theater in der Königgrätzer Straße, finché l’ascesa del Nazionalsocialismo lo costrinse all’emigrazione. Dopo essere passato in Austria e in diverse città europee, nel 1937 arrivò negli Stati Uniti, dove esercitò l’attività d’insegnante di drammaturgia e recitazione. 53 Il Kammerspiel (letteralmente: teatro da camera, per le sue dimensioni ridotte), scriveva Arthur Kahane, è un nome che contiene in sé un principio estetico. E osservava come nell’intimità di quello spazio, la recitazione modificasse: «Quando cadono gli ultimi veli, quando l’anima nuda trema e rabbrividisce, quando il cuore degli uomini sussulta, allora sperimentiamo la commozione più profonda. Poi cadono anche tutte le limitazioni e le distanze. Lo stile si fa appena percettibile, lo spazio erompe e spettatore e artista sono così vicini, che ciascuno dei due può sperimentare il destino dell’altro. Tre o quattro anime accordate l’una all’altra come violini a cui è stata messa la sordina, abbisognano solo di piccoli cenni per rivelare il loro recesso più profondo: un innalzarsi e un abbassarsi della voce; un arrossire e un impallidire; una fiamma nello sguardo, un sussulto sul viso, un’occhiata, un nascondere, un tacere; una pausa ricolma di vita; e noi sentiamo attutita, come provenisse da lontano, l’intera canzone della passione umana». A. Kahane, Kammerspiel, « Blätter des deutschen Theaters», 3 Jhrg. 1913-194, p. 624. 54 Di lingua madre italiana, Moissi (1879-1935) nacque a Trieste, allora parte del regno austroungarico, e morì a Vienna. Poco meno che ventenne si trasferì nella città danubiana per studiare canto, e iniziò a lavorare come comparsa al Burgtheater. Qui fu notato da Josef Kainz, che gli consigliò di dedicarsi alla recitazione. Alla fine del 1903 si trasferì a Berlino, a fianco di Max Reinhardt: prima al Kleines- e al Neues Theater poi, dal 1905 (l’anno successivo alla sua interpretazione di Oreste nell’Elektra di Hofmannsthal), al Deutsches Theater, dove recitò la parte di Oberon nel celeberrimo allestimento del Sogno di una notte di mezza estate. Sotto la guida del regista austriaco, Moissi costruì la sua carriera, divenendo uno degli attori più famosi di primo Novecento. Nel 1924 - dopo essere stato l’interprete di Jedermann (Ognuno), con cui il 22 agosto 1922 si era inaugurato il Festival di Salisburgo (nato dalla collaborazione tra Reinhardt, Hofmannsthal e Bahr) - cominciò un percorso artistico indipendente. Lavorò anche in Italia, suscitando l’interesse e l’ammirazione di Luigi Pirandello. 55 Come Moritz Stiefel in Risveglio di primavera, annota Bahr nel suo Tagebuch, Moissi riscosse un grande successo. In realtà la parte non era stata assegnata a lui, ma a un collega che si ammalò poco prima del debutto. Reinhardt, che era fuori di sé e lanciava improperi contro i medici che certificavano le malattie agli attori, provinò i sostituti, che avevano già imparato la parte. Nessuno si rivelò adatto. Ed ecco, dice, Bahr, che fece il suo ingresso Moissi, il quale non conosceva né la parte, né il testo, ma che in quattro e

55

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione

Frühlings Erwachen (Risveglio di primavera) andò in scena al Deutsches Theater il 22 novembre 1906. Subito dopo fu stipulato il contratto con cui il regista austriaco ‘ingaggiava’ Wedekind non solo in qualità di autore, ma anche come interprete. La loro collaborazione durerà fino all’estate 1908: oltre due anni, durante i quali è quasi impossibile seguire tutti gli spostamenti di Wedekind, ma che sono contrassegnati da almeno due tappe significative: la messinscena di Hidalla a Vienna nell’aprile 1907, che verrà salutata come l’evento teatrale più importante della stagione;56 e il fallimento del suo Tartufo nell’opera omonima di Molière, il 25 aprile 1906. Un fiasco che offrì su un piatto d’argento, a coloro i quali guardavano con sospetto alle sue velleità attorali, la prova che egli era e sarebbe rimasto sempre un dilettante. Reinhardt, da allora in poi, decise di non affidargli più alcun ruolo non suo. Di quanto bruciante fosse la delusione di Wedekind, si evince dalla lettera inviata quello stesso anno all’attore Josef Kainz, in cui lo scrittore dichiara di essersi sentito sempre e solo un autore; di essere sostanzialmente stato costretto alla recitazione, mancando interpreti adatti ai propri personaggi. Per sostenere poi che il fallimento del Tartufo gli aveva anche regalato una «limpida soddisfazione»; poiché, disse, «la recitazione stilizzata ed eroica, nell’epoca in cui la pedanteria realistica viene innalzata al Cielo, non [aveva] trovato nessun partigiano più entusiasta e inflessibile» di lui. La missiva sembrava poi chiudersi con un velato invito al primattore del Burgtheater – definito «il nostro attore più grande» – a dedicarsi ai suoi personaggi; promettendo, se così fosse successo, che da quel momento in poi avrebbe lasciato perdere l’idea “balzana” della recitazione.57 Come vedremo a breve, così non fu. Sul finire del 1907, dopo il successo di Hidalla e la delusione del Tartufo, Wedekind riprende la collaborazione con il settimanale «Simplicissimus», con cui da anni non aveva avuto più niente a che fare, lavora a Oaha (la ‘satira delle satire’), segue a Norimberga il debutto della sua Musik (Musica), che Reinhardt aveva rifiutato di mettere in scena, e – forse proprio per questo – dà voce al suo odio per Berlino: la città, disse, che rappresentava tutto il contrario di ciò che egli aveva sempre amato nella vita.58 Vuole tornare a Monaco, dove frequenta la cerchia intellettuale che si riunisce la sera nella Torggelstube (a cui si aggiungono, quando sono in città, anche lo scrittore Heinrich Mann e gli attori Adele Sandrock e Albert Steinrück)59 e ha la soddisfazione di assistere, nel luglio 1909, al primo ciclo wedekindiano al Münchner Schauspielhaus. Comincia intanto la stesura di opere nuove, e non smette di comparire in scena. Dal

quattr’otto seppe fare del personaggio di Wedekind uno dei grandi ruoli della sua carriera. Cfr. H. Bahr, Tagebuch, Berlin, Paul Cassirer, 1909, p. 97. 56 In occasione della rappresentazione a Vienna di Hidalla nella primavera del 1907, Wedekind fu candidato al premio Grillparzer, che non ricevette poiché una compatta maggioranza dei giurati votò contro. Cfr. A Regnier, Frank Wedekind. Eine Männertragödie, cit., p. 308. 57 La lettera di Wedekind a Kainz, priva dell’indicazione di giorno e mese della stesura, è in F. Wedekind [W. Reich Hrsg.], Selbstdarstellung, cit., pp. 62-63. 58 «Io mi vergogno di vivere a Berlino», scrisse Wedekind, «perché Berlino rappresenta tutto il contrario di ciò che io ho sempre amato nella mia vita, a cui ho teso e che ho sognato per me. Vivo il soggiorno a Berlino come una degradazione continua, perché mai e da nessuno mi è riuscito di trovare comprensione per il mio sentire». Le esternazioni dello scrittore sono riportate in A. Regnier, Frank Wedekind. Eine Männertragödie, cit., p. 271. 59 Albert Steinrück (1872-1929), attore teatrale e cinematografico, autodidatta, dal 1901 recitò allo Schiller Theater di Berlino. Scoperto da Max Reinhardt, dal 1905 al 1908 fece parte dell’ensemble del Deutsches Theater, insegnando anche recitazione alla scuola del Neues Theater. Contribuì in modo determinante al successo dei drammi di Wedekind, interpretando il Dr. Schön in Erdgeist (Spirito della Terra) e Padre Gabor in Frühlings Erwachen (Risveglio di Primavera).

56

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

1909 al 1917, numerosi sono i Gastspiele intrapresi con la moglie attraverso il Nord Europa,60 contrappuntati dalle sue esibizioni come dicitore.61 Il 20 dicembre 1911, al Münchner Schauspielhaus – passato sotto la direzione dell’austriaco Eugen Robert (1877-1944) – con maschera e parrucca rossa Wedekind recita la parte dell’editore Sterne nel suo Oaha e l’anno successivo, nel mese di giugno, è di nuovo a Berlino, per prendere parte al ciclo wedekindiano (che prevedeva anche inserti di declamazioni poetiche) allestito al Deutsches Theater di Max Reinhardt. In una pausa dalle prove, Wedekind incontra Arthur Kahane – che è ancora il braccio destro del regista austriaco – il quale gli chiede come stiano andando le cose. Dopo aver cercato di dissimulare il suo sconforto, Wedekind risponde: «I miei lavori non sopportano di essere recitati in modo naturalistico, con le mani in tasca e il testo ingoiato in modo sciatto. Io vorrei essere recitato come nel vecchio Burgtheater si recitavano i classici; col che intendo l’evidenziazione più netta della tipizzazione e il lavoro più pulito e più severo sulla parola. Anche il pathos non mi spaventa, se le mie tirate vengono udite e ogni parola viene fuori chiara, chiaramente articolata, nel giusto significato. Chi può recitare Macbeth o Otello, dovrebbe poter recitare anche il Marchese di Keith. E Lulu la dovrebbero recitare donne, che altrimenti vestono i panni di Greta o di Ofelia».62 Con lo scoppio della guerra, nel 1914, l’attività di Wedekind non si arresta; anche se da quel momento in poi, sostiene Anatol Regnier, le sue opere vengono messe in scena sempre più di rado. L’anno si apre però con un doppio, interessante impegno dell’autore, che a Berlino cura l’allestimento del suo Simson oder Scham und Eifersucht (Simson, o vergogna e gelosia) al Lessingtheater, e interpreta (venendo peraltro aspramente criticato)63 il personaggio di Og Basan in Franziska al Deutsches Theater, accanto al viennese Werner Krauss (1884-1959): l’attore che Reinhardt aveva ingaggiato l’anno prima e del quale Wedekind aveva subito riconosciuto il talento. Tanto da richiederlo come partner in ogni allestimento di una sua pièce. L’ultima ospitata dello scrittore al teatro di Reinhardt risale all’estate 1916, quando recita in Simson, nel Marquis von Keith (Il Marchese di Keith) e in Erdgeist (Spirito della terra); mentre l’ultima apparizione in scena è datata 4 ottobre 1917: il giorno in cui al Pfauentheater di Zurigo,64 accanto a Tilly Newes, recita in Franziska. Poi, già malato, ricongiungendosi agli inizi – come spesso avviene con ogni fine - fa la sua ultima

60 È davvero impossibile dare contezza di tutti i giri di Wedekind nel suo ultimo decennio di vita. Lo scrittore e sua moglie si spostano - per indicare solo alcune delle loro tappe - da a Colonia, da Berlino a Bruxelles, da Budapest a Mannheim, fino a Innsbruck e Praga (dove nel 1912 avranno, tra gli spettatori, anche Franz Kafka). Per informazioni più dettagliate si rimanda alla scheda biografica in ibid., pp. 405-406. 61 Un’attività, quella di Vorträger, che Wedekind in realtà non aveva mai interrotto. Tra le sue apparizioni come recitante si ricordano quelle del febbraio 1903 a Mannheim, del settembre 1904 a Monaco e del novembre dello stesso anno a Breslavia. Il 5 marzo 1905, lo scrittore si esibì come lettore al Berliner Beethovensaal, assieme alla Eysoldt, al poeta tedesco Detlev von Liliencron (1844-1909) e all’austriaco Marcel Salzer (1873-1930), che era stato tra le fila del Kabarett berlinese del Buntes Theater ed era un rinomato dicitore. Il 14 maggio 1907 tenne un recital al Lustspielhaus di Budapest. 62 A. Kahane, Frank Wedekind, in Id., Tagebuch des Dramaturgen, cit. 63 Lo scrittore e critico teatrale berlinese Siegfried Jacobson (1881-1926), fondatore nel 1905 della rivista «Die Schaubühne», disse che già dopo aver pronunciato la terza frase Wedekind diventava inascoltabile. E si chiedeva se egli avesse avuto modo di notare quanto spesso e volentieri si distoglieva da lui l’attenzione, per rivolgerla al suo partner, Werner Krauss. Non solo: il critico si spinse tanto in là da chiedere l’allestimento di un ciclo-Wedekind senza la presenza di Wedekind, con l’attore Albert Bassermann (1867-1952) interprete dei suoi ruoli e Reinhardt come regista. Il giudizio di Jacobson è riportato in A. Regnier, Frank Wedekind. Eine Männertragödie, cit., p. 331. 64 Il piccolo Gastspiel zurighese di Wedekind e la moglie avrebbe dovuto svolgersi nel Theatersaal della capitale svizzera, ma la grande affluenza di pubblico rese necessario lo spostamento al Pfauentheater, più tardi rinominato Zürcher Schauspielhaus. Cfr. ibid., p. 361.

57

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione apparizione ufficiale il 12 gennaio 1918 in un Kabarett di Monaco (la Bonbonniere), come lettore della sua ultima opera: Herakle (Eracle). Tra gli spettatori, un Bertolt Brecht attonito di fronte all’energia di Wedekind, che parlò per due ore e mezza senza pause, continuando a guardare profondamente negli occhi ogni membro dell’uditorio, uno a uno.65

II La recitazione è solitamente considerata, e per un verso di sicuro lo è, un’occupazione marginale nel percorso artistico di Wedekind. Egli stesso ha contribuito del resto, con le proprie esternazioni, a tramandare l’immagine di sé come di uno scrittore innato, che del tutto controvoglia, e solo perché non trovava interpreti adatti ai suoi personaggi, si era fatto attore. In realtà, ciò che emerge tra le pieghe della sua biografia, è un sincero interesse per il teatro anche agito, non solo scritto. «Quando ho parlato per tre ore sulla scena», dichiarerà al «Neues Wiener Journal» nel 1914, «sento l’esigenza di scrivere fino a mezzanotte nel mio camerino».66 Un’affermazione che rivela implicitamente come per Wedekind la parola detta fosse motore di quella scritta, non viceversa. Interesse per il teatro implica perciò inevitabilmente, nel suo caso, interesse pure per la Schauspielkunst. E se scopo primo dell’autore tedesco era imporre le proprie opere nel circuito teatrale – ottenere cioè la consacrazione come drammaturgo – ciò non significa affatto che egli non tenesse alla propria affermazione anche come interprete. Quando dopo l’esperienza con il Teatro di Heine decide di prendere lezioni di danza e diventare allievo di Fritz Basil, Wedekind lo fa con l’intenzione di perfezionarsi nell’arte drammatica, per continuare a prodursi come attore.67 Con grande amarezza prenderà atto dei propri insuccessi e si accontenterà – dopo il fallimento del suo unico Molière – di limitarsi all’interpretazione dei propri personaggi; per ricevere oltretutto, ogni volta, giudizi contrastanti. Com’era accaduto fin dal debutto in Erdgeist (Spirito della terra), che il direttore dell’Ibsen Theater di Lipsia ricorderà come pienamente riuscito, ma che in realtà suscitò critiche anche negative. Non pochi trovarono allora la recitazione di Wedekind in genere troppo stilizzata, priva di ogni consistenza psicologica, condotta con una gestualità legnosa e un parlato così esagerato da apparire grottesco.68 Qualche anno più tardi, sarebbe poi arrivata la bocciatura del critico berlinese Isidor Landau (1850-1944): recensendo la sua prova nel Tartufo, costui scrisse che Wedekind aveva ‘spirito’, ma non l’arte dell’attore. Le sue parole erano impercettibili, quando voleva sussurrare. Talvolta risultava monotono; insicuro, quando voleva rimarcare un passaggio.69 Qualcun altro, nel tempo, lo avrebbe giudicato non interessante, o tecnicamente debole. Soprattutto nella dizione, in cui sbagliava la coloritura e la forza dell’emissione tonale.70

65 Cfr. D. Kuhns, Wedekind, the actor; aesthetics, morality, and monstrosity, «Theatre Survey», Cambridge, Cambridge University Press, 31 novembre 1990, p. 157. 66 s.n., Ein Gespräch mit Frank Wedekind, in «Neues Wiener Journal», 24 giugno 1914. 67 Alla moglie di Carl Heine, Beate, appena passato allo Schauspielhaus di Monaco (1899-1900) Wedekind scrive: «Ogni sera, se Dio vuole, vado in teatro… sempre resta l’interesse e la sensazione di essere nel proprio elemento». Il passo della lettera è riportato in A. Kutscher, Frank Wedekind. Sein Leben und seine Werke, 3 voll., München, Müller, 1921-1931, v. 2, p. 13. 68 Cfr. S. Gittleman, Frank Wedekind, New York, Twayne, 1962, p. 22. 69 I. L., s. t., «Berliner Börsen-Courier», 26 aprile 1906. La recensione di Landau è riportata in L. M. Flieder, Max Reinhardt und Molière, Salzburg, Otto Müller Verlag1972, p. 75. 70 Cfr. Ph, «Berliner Lokal-Anzeiger», 26 aprile 1906 e dt [Conrad Schmidt], «Der Vorwärts», 27.04 1906. Entrambe le recensioni sono riportate in Ivi.

58

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Esiste però, di contro, anche un’immagine assolutamente positiva di Wedekind attore, che è - di fatto - quella consegnataci dall’avanguardia che gli è succeduta: dalle parole di Kasimir Edschmid, uno dei teorici più autorevoli dell’espressionismo, il quale affermò che la visione di Wedekind sulla scena fu la più grande esperienza di recitazione della sua vita;71 del dadaista Hugo Ball: autore nel 1914 di un saggio in cui esaltava la forza innovativa dello Schauspieler Wedekind: la sua tensione verso il superamento di ogni psicologismo, con la rimessa al centro della fisicità, nell’annullamento dei confini tra sé e «i mangiatori di spade, [i] funamboli e [i] ginnasti circensi».72 Senza dimenticare, naturalmente, Bertolt Brecht, il quale nella recitazione wedekindiana, scevra com’era da ogni impulso immedesimativo e ‘costruita’ nella consuetudine con forme di spettacolo secondarie come il Kabarett, avrebbe visto il prodromo del Verfremdungseffekt (l’effetto di straniamento) del suo teatro epico.73 Erich Mühsam, totalmente agli antipodi rispetto alla critica berlinese, sottolineava l’eccellente tecnica vocale di Wedekind.74 Leopold Jessner e il viennese Fritz Kortner, considerati i capostipiti della recitazione espressionista, erano suoi grandi ammiratori (soprattutto il primo);75 e Thomas Mann, che in teatro lo aveva visto recitare una volta sola, al Münchner Schauspielhaus, quando si trovò a ricordarlo nel Wedekindbuch non ne parlò come autore, ma come attore. L’impressione che gli aveva lasciato il suo Keith (nel Marchese di Keith), specie nell’ultima scena del quinto atto, era incancellabile.76 Per tentare di spiegare una tale antinomia dei giudizi, molti – come Leonhard Flieder – chiamano in causa la personalità innovativa ed “enigmatica” 77 di Wedekind: provvisto di un quid potente, capace tanto di respingere e turbare, quanto di affascinare e rapire. Com’era già accaduto con Steiner a Lipsia nel 1897, quando soggiogato dalla sua apparizione, il filosofo austriaco vide nello scrittore tedesco uno spirito «straniero al presente», posto «al di fuori delle umane agitazioni di questo tempo attuale».78 Sembra dunque oltremodo complesso decidere sulla base delle recensioni e delle testimonianze coeve, che tipo di attore Wedekind fosse davvero. Teso fra una

71 Cfr. K. Edschmied, Schauspielkunst, in M. Krell [Hrsg.], Das deutsche Theater der Gegenwart, Münchner, Rösl, 1923, p. 118. 72 Ball disse che Wedekind «tocca[va] i giapponesi […], i mangiatori di spade, funamboli e ginnasti circensi. Lui vola e cavalca, sulle ginocchia scivola nell’aria». Era una fortuna, concluse, che in gioventù avesse viaggiato col circo. H. Ball, Wedekind als Schauspieler (giugno 1914), in M. Holzinger [Hersg.], Hugo Ball. Das erste dadaistische Manifest und andere theoretische Schriften, Berlin, Holzinger, 2016, p. 7. La descrizione che Ball fa di Wedekind interprete drammatico, è quella di un attore che non ha nulla delle ‘qualità’ che solitamente si attribuiscono a un artista della scena. Sgraziato, tagliente, brutale, disarmonico: contrario dunque ai dettami dell’estetica della recitazione contemporanea. E solo per questo, l’articolo prende le mosse dalla domanda, se egli sia o meno definibile un attore. 73 Cfr. R. Guarino, Rileggere Wedekind, cit., p. 290. Scrive testualmente Guarino: «Il Brecht maturo avrebbe detto, in una pagina del Diario di lavoro, che il rivolgersi alla platea dei personaggi in Wedekind era una versione primitiva dell’effetto di straniamento» (ibidem). Lo studioso riporta poi in nota il passaggio di Brecht, che recita: «La Bergner […] se la prende con Wedekind, il quale pretendeva che un padre dicesse al pubblico ciò che dovrebbe dire al proprio figlio. Cerco di spiegarle che W. aveva semplicemente bisogno di un effetto V e se lo fabbricava, appunto, in maniera primitiva» (B. Brecht, Diario di lavoro, Torino, Einaudi, 1968, p. 331. 74 E. K. Mühsam, Der Schauspieler Wedekind, cit. 75 M. Fazio, Espressionismo e politica nelle regie di Leopold Jessner, in Id., Lo specchio, il gioco e l’estasi. La regia teatrale in Germania dai Meininger a Jessner (1874-1933), cit., p. 270- 76 Cfr. Thomas Mann, in Das Wedekindbuch, cit., pp. 215-224. 77 Ivi, p. 76. Flieder, ritiene che «dietro tutte le riserve tecniche» mosse alla recitazione wedekindiana, non si nascondeva altro che la critica allo stile che egli rappresentava, e che «si palesa[va] attraverso una distanziata sobrietà, un’economia dei gesti e soprattutto attraverso il fascino di una personalità enigmatica». L. M. Flieder, Max Reinhardt und Molière, cit., p. 75. 78 Cfr. R. Steiner, Die Litterarische Gesellschaft in Leipzig, cit., pp. 203-204.

59

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione concezione teatrale, di fatto, ancora tardo ottocentesca e il futuro novecento teatrale, egli tagliò la critica in due. E ciascuna delle due fazioni: i ‘conservatori’ da una parte, gli ‘innovatori’ dall’altra, esasperarono quelli che ritenevano essere, rispettivamente, difetti o qualità delle sue prestazioni. Qui però, come già dichiarato all’inizio, l’intenzione non è tanto scendere in una disamina della recitazione wedekindiana, quanto piuttosto cercare di comprendere quale fosse la visione dell’arte attorica di Wedekind. A partire dalle sue stesse riflessioni; in specie, quelle che egli consegnò al suo glossario Schauspielkunst, edito a Monaco nel 1910 dalla casa editrice Müller. Il testo, scritto verosimilmente a ridosso della messinscena del primo ciclo wedekindiano al Münchner Schauspielhaus del 1909, non è – si badi bene – un trattato di recitazione; piuttosto, sembra il depositario delle idee di Wedekind, esposte intenzionalmente senza mezzi termini, sulle principali questioni inerenti alla vita teatrale. Domande che se pure ruotano attorno alla recitazione come perno, si estendono alla drammaturgia, al ruolo della critica, alla pratica registica. Il glossario è un’opera breve, lunga circa una cinquantina di pagine, ‘strutturata’ senza alcun ordine apparente, neanche alfabetico. Si presenta suddivisa in venti piccoli paragrafi (alcuni dei quali constano solo di poche righe), intitolati a figure disparate, quali quelle - fra le altre - del giornalista Maximilian Harden e del regista Reinhardt; del drammaturgo norvegese Ibsen e del poeta Herbert Eulenberg. I nomi sono intervallati da tappe geografiche e concettuali: Übergang (Passaggio), Ausgleich (Compensazione), Berlin (Berlino), Dilettantismus (Dilettantismo), etc. Il filo conduttore che può essere rintracciato all’interno del testo, è la ferma avversione di Wedekind per lo stile di recitazione naturalista. Ad esso, a suo dire, gli attori tedeschi si erano conformati, abituandosi – lo avrebbe ribadito, come si è visto, un paio d’anni più tardi ad Arthur Kahane – a infilarsi «le mani nelle tasche dei pantaloni; a mettersi, girando le spalle allo spettatore, accanto alla buca del suggeritore»: per aspettare comodamente, finché non avevano ben capito la parola che costui gli aveva sussurrato.79 Cosa ancor più grave, a forza di parlare sommessamente per apparire ‘naturali’, essi, a suo dire, avevano perso la tecnica:80 il fiato e l’allenamento fisico necessari per immettere nelle proprie prestazioni la Seelenglut, cioè il cuore e il temperamento. Stanchi, volteggiavano da un divano all’altro, «per raccogliere nuove forze».81 La facilità della rappresentazione, asseriva Wedekind, era ciò che aveva fatto la fortuna del naturalismo, ma l’interpretazione della drammaturgia contemporanea era oltremodo complessa. L’unico attore che avrebbe potuto renderle giustizia era un attore ‘autonomo’: non al servizio di questa o quell’altra corrente estetica e svincolato, perciò, da regole e sistemi. Un corpo addestrato, in grado di potere essere e fare qualsiasi cosa.82 Perché adesso non c’era più bisogno di un interprete attorale, ma di «energie attorali».83 E quanto alla decantata naturalezza, questa – notava Wedekind - non era frutto della spontaneità, ma di uno stile che nella rappresentazione non lasciava più traccia di sé.84

79 F. Wedekind, Übergang (Passaggio), in Schauspielkunst, cit., p. 7. 80 Id., Ibsen, in Ivi, p. 11. 81 Ivi. 82 Cfr. Id., im Kampf (In Battaglia), in Ivi, p. 14. 83 Cfr. Id., Albert Steinrück, in Ivi, p. 25. 84 Cfr. Id., Vom Elend und Sterben der deutschen Schauspielkunst (Della miseria e del morire della recitazione tedesca) in Ivi, pp. 19-21. Scriveva Kurt Martens a proposito di Wedekind, che egli non sottolineava la tecnica. «Nonostante questo, tiene salde le redini dei suoi uditori, li strappa sempre a sé e anche, subito, li porta via con sé, facendogli tirare il fiato e li porta, prima che essi tornino a loro stessi, sull’abisso, consapevoli dell’essenza del Dàimon». K. Martens, in Das Wedekindbuch, cit., p. 226.

60

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Osservazioni che sembrano contrastare decisamente con l’immagine diffusa di Wedekind attore dilettante (o addirittura occasionale), per offrire invece il profilo di un teatrante assolutamente consapevole della necessità di ricercare un senso diverso e un modo nuovo di intendere e praticare la Schauspielkunst. Di individuare uno stile che si opponesse alla ‘deriva’ naturalistica (e cioè all’assenza totale dello stile), responsabile del fatto che in Germania, da anni, non ci fossero più attori.85 A parte la critica accesa al dominio dell’estetica di Zola, che nel 1910 non era certo una grande innovazione, da nessun passo del glossario salta però fuori l’immagine di un attore ‘rivoluzionario’. I drammaturghi che vengono citati – si veda il paragrafo dedicato a Ibsen – sono Hebbel (1813-1863), Schiller (1759-1805) e Goethe (1749-1832):86 gli stessi punti di riferimento dei simbolisti di area germanofona fra ottocento e novecento. L’attore indicato come modello e punto di riferimento (pur senza che gli venga intitolato un capitolo a sé) è Josef Kainz, nel quale Hermann Bahr, nell’ormai lontano 1891, aveva visto l’incarnazione dello stile di recitazione impressionista.87 E insieme a Kainz, a guadagnarsi le lodi di Wedekind, c’è un altro austriaco, cresciuto anch’esso nella tradizione del Burgtheater: Josef Jarno.88 Se dunque per proto-avanguardista s’intende colui che rompe col passato, per tuffarsi in un futuro ancora di là da venire, è con una certa difficoltà che l’attore Wedekind, alla luce della Schauspielkunst, può essere ritenuto tale. Come però debba essere, in concreto, il ‘suo’ interprete, questo il testo non ce lo dice. L’autore ribadisce soltanto che di sicuro esso non avrà nulla a che vedere con la tipologia d’attore che imperava allora nella capitale tedesca, roccaforte del Naturalismo; nell’odiata Berlino, che rappresentava l’opposto di ciò che egli aveva sempre amato nella vita. E senza spingersi tanto in là da teorizzare un altro possibile Schauspieler, sembra cercare piuttosto dei punti di riferimento fra i suoi contemporanei. Varca dunque i confini berlinesi e si volge alla Vienna del Burgtheater. Nel secondo paragrafo del glossario, Wedekind segnala le differenze fra la Germania del Nord: sobria, intellettualmente

85 La tesi di Wedekind era ovviamente destinata a suscitare il risentimento degli attori tedeschi. Interessante la risposta di Bernhard Jacobi (1880-1914): uno dei primi attori di Reinhardt, presso il quale fu attivo dal 1906 recitando - fra gli altri - accanto a Moissi, a Joseph Schildkraut (1896-1964), alla Eysoldt e a Paul Wegener (1874-1948). Nel Wedekindbuch, Jacobi ribatte benevolmente alle accuse di Wedekind (che peraltro stimava e ammirava, anche come attore) contro la categoria, sostenendo che la colpa dello scadimento della recitazione in Germania, più che agli attori andava scritta ai direttori: per un verso troppo pavidi per osare la messinscena di drammi fortemente innovativi (come quelli di Wedekind), dall’altro assoggettati a ritmi di produzione accelerati, che rendevano impossibile a un attore la preparazione meditata necessaria con i personaggi complessi. Cfr. Benrnhard v. Jacobi, in Das Wedekindbuch, cit., p. 268. 86 Scrive testualmente Wedekind: «Ibsen ci ha dato una nuova concezione del mondo, una nuova descrizione dell’uomo, una nuova psicologia, ma non una nuova poesia drammatica. Hebbel era un poeta drammatico più forte di Ibsen, e Schiller e Goethe erano poeti drammatici più forti di Hebbel». F. Wedekind, Ibsen, in Id., Schauspielkunst, cit., p. 10. 87 Cfr. H. Bahr, Russische Reise, Dresden-Leipzig, E. Pierson’s Verlag, 1891, pp. 155-158. 88 Appassionato di teatro, Jarno (1866-1932) studiò recitazione con il famoso attore del Burgtheater Josef Lewinski (1835-1907) e nel 1885 entrò a far parte del Kurtheater di Ischl. Seguirono poi gli ingaggi al Deutsches Schauspielhaus di Budapest (1887-1890), al Residenztheater (1890), al Deutsches Theater di Berlino (1895) e di nuovo al Residenztheater. Dal 1899 al 1923 fu direttore dello Josephstadttheater di Vienna, che nel 1892 ospitò il tentativo di rappresentazione de L’Intrusa di Maeterlinck voluta dagli impressionisti viennesi, capeggiati da Hermann Bahr. Jarno si spese per la cura della drammaturgia contemporanea; in particolare Strindberg, ma anche Schnitzler, Shaw, Cechov e naturalmente Wedekind. Recitò anche nelle operette e dall’aprile 1905 attivò il palcoscenico estivo del Fürstheater, che era di sua proprietà. Il Sommertheater fu denominato da Jarno Lustspieltheater e venne inaugurato con un’opera di Strindberg. Il 4 febbraio 1914, Jarno ottenne la concessione per il Neues Stadttheater, che però abbandonò nel 1918. Dal 1926 al 1931, diresse con scarso successo la Wiener Renaissancebühne e organizzava anche concorsi letterari, sempre spendendosi per la drammaturgia moderna. Cfr. G. Nahe, Josef Jarno. Schauspieler, Regisseur, Theaterdichter und Schauspiel-Dramatiker, diss. Universität Wien, 1964.

61

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione fresca, ma anche limitata, e quella del Sud: ‘sregolata’, ma fantasiosa, con una maggior indipendenza dello spirito e capace per questo di svincolarsi più facilmente dalle strettoie naturalistiche. 89 Differenze da cui muovere non per inasprire la contrapposizione, ma per immaginare un’integrazione fra i due poli dialettici. Ciò che in effetti sembra affiorare dalle pagine della Schauspielkunst, è la tensione di Wedekind verso un artista in grado di elevarsi al di sopra delle differenze stilistiche canoniche; che non rigettasse ciò che la tradizione gli aveva consegnato, ma che sapesse riplasmarlo in modo del tutto autonomo. Quello che Reinhardt aveva fatto con il suo stile di regia, e che a Kainz era riuscito mirabilmente nella recitazione. «In tutti i miei drammi non si trova un ruolo maschile», scrive Wedekind nel glossario, «che io non abbia scritto per il grande, incomparabile Josef Kainz».90 È un’affermazione forte, che fa traballare i giudizi dei critici i quali, trascurando ogni rimando alla recitazione ‘tradizionale’, hanno sempre sottolineato gli elementi ‘futuristi’ delle performance di Wedekind, convinti che dietro ogni Hetmann o Signor Schwarz si nascondesse un clown o una figura da varietà. Anche ammettendo che Wedekind possa avere forzato un po’ i toni delle sue esternazioni, è indiscutibile che egli nutrisse per il primo attore del Burgtheater, fine dicitore e grande interprete del repertorio classico, una profonda ammirazione. Peraltro reciproca, come testimonia una lettera, non datata, che dall’Hotel Continental di Monaco Kainz inviò a Wedekind mentre era in procinto di andarlo a vedere in Hidalla, al Münchner Schauspielhaus.91 La lettera non è datata, ma è collocabile con tutta probabilità alla primavera del 1906, quando l’attore austriaco era impegnato in una delle sue tournée in Germania. Su invito dell’autore tedesco, si recò a visitarlo in teatro. Il tono della lettera, e l’assicurazione qui contenuta che avrebbe cantato le sue lodi come attore (cosa che Kainz poi fece, attraverso interviste e dichiarazioni pubbliche)92 fa pensare che non fosse la prima volta. E non sarebbe stata neanche l’ultima: quando Wedekind arriverà a Berlino alla fine di maggio 1907 per il Kammersänger (Cantante da Camera), 93 dove recitava il ruolo di Gerardo, l’attore austriaco si troverà fra il pubblico.94 L’impressione che ne riceverà, sarà notevole:

89 Cfr. F. Wedekind, Max Reinhardt, in Id., Schauspielkunst, cit., pp. 4-5. 90 F Wedekind, Fürs Publikum (Per il pubblico), in Id., Schauspielkunst, cit., p. 37. Per Kainz, o per Josef Jarno, aggiunge Wedekind. Indicando così la sua predilezione per lo stile recitativo, ricco di pathos, che era nella tradizione del Burgtheater. 91 Una copia della lettera è conservata presso la Theaterwissenschaftliche Sammlung Universität zu Köln, Coll. Au 12 494. Ringrazio il personale della struttura, che l’ha gentilmente messa a mia disposizione. Il testo della lettera è il seguente: «Caro e stimatissimo signor Wedekind! Stasera vi vedo in Hidalla. La vostra lettera mi ha procurato una gioia infinita. Siate certo che di tutto cuore, onestamente e sinceramente, io canto le vostre lodi come attore, e che voi abbiate di me una stima tanto alta------. Avreste voglia di cenare con noi oggi, dopo la rappresentazione nell’Hotel Continental? Datemi un segno in platea. Non so ancora dove siederò, ma mi scoprirete. Sinceramente e colmo d’ammirazione, il Vostro Josef Kainz». Segue un post-scriptum: «Se vostra moglie è qui, davvero ci rallegreremo tutti se volesse farci l’onore di essere dei nostri insieme a voi». L’accenno di Kainz alla presenza della moglie di Wedekind induce a datare la lettera a partire dal 1906: l’anno in cui lo scrittore tedesco, per l’appunto, prese moglie. Ringrazio per la trascrizione che ha reso possibile la lettura della missiva di Kainz (la cui grafia è pressoché illeggibile) a Wedekind, Frank Seemann: segretario addottorato della cattedra di Linguistica dell’Università di Göttingen, e la dott.ssa Ilva Fabiani che ha funto da tramite. 92 Cfr. A. Kutscher, Frank Wedekind, sein Leben und seine Werke, München, Georg Müller, 1927 (I ed. 1922), v. 2, p, 187. 93 La prima assoluta di Kammersänger (Il Cantante da camera) aveva avuto luogo sempre a Berlino, il 10 dicembre 1899. 94 Kainz aveva da poco terminato una tournée al Neues Schauspielhaus di Berlino, che lo aveva impegnato nei mesi di febbraio e marzo 1907. Ma l’attore non ripartì per Vienna, perché la tournée doveva toccare altre città tedesche, per finire in Svizzera (cfr. J. Eisermann, Josef Kainz, cit., pp. 402). Dunque, ebbe modo di vedere Wedekind nella parte di Gerardo.

62

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

«Kainz mi disse di avere visto Wedekind in Kammersänger», racconta Carl Heine, «e di avere trovato la sua rappresentazione così perfetta, che egli non osava recitare questo ruolo dopo di lui».95 Anche in seguito, i due continueranno a stimarsi e a frequentarsi; sarà insieme, che Joachim Ringelnatz li vedrà lasciare la sala dopo una lettura che il primo attore del Burgtheater aveva dato a Monaco, nell’aprile 1910, cinque mesi prima della sua scomparsa.96 Un lustro più tardi, Wedekind autorizzava la Drei Masken Verlag a pubblicare la brochure: Begegnung mit Josef kainz (Incontro con Josef Kainz),97 in cui ricordava i fatti di Monaco del 1906 e il desiderio prepotente che aveva di vedere il grande attore austriaco interprete dei suoi ruoli. Riteneva che il più perfetto, per Kainz che voleva a tutti costi vestire i panni di Karl Hetmann, fosse il Marchese di Keith, e perciò si era deciso, allora, a spedirgli il testo. Ma Kainz restò interdetto, perché proprio non lo capì. Gerardo e Karl Hetmann li aveva conosciuti in scena, recitati da Wedekind; Keith, però, lo aveva letto soltanto. E per questo non gli piacque.98 «Se Kainz mi avesse visto come Marchese di Keith, anziché come Karl Hetmann», scrive Wedekind nella brochure, «avrebbe avuto un’impressione favorevole almeno quanto quella di Hidalla. E se il giorno dopo avesse letto il testo di Hidalla, si sarebbe espresso come con il Marchese di Keith: non capisco cosa vogliate dire».99 Perché, come dirà Salten: «Questa forza totale dello spirito, unica e particolare, che si chiama Frank Wedekind, si può comprenderla solo quando la si vede in scena».100 Nei suoi diari, il conte Harry Kessler (figura chiave nel dialogo fra teatranti tedeschi e austriaci moderni), a proposito di Erdgeist (Spirito della Terra) scriveva già nel 1903101

95 Cfr. Das Wedekindbuch, cit., p. 257. Non molto tempo dopo aver visto Wedekind come Hetmann (1905), Carl Heine stava arrangiando un Gastspiel di Josef Kainz nel suo teatro. Fra i ruoli che il primo attore del Burgtheater voleva assolutamente recitare, c’era Nicolo di So ist das Leben (Così è la vita) di Wedekind. Heine gli propose anche quello di Gerardo, ma Kainz rifiutò recisamente, ritenendo insuperabile l’interpretazione di Wedekind in quel ruolo. Lo stesso Kainz disse a Wedekind nell’agosto 1907, durante un incontro a Monaco (cfr. nota precedente): «Io non recito il Cantante da Camera dopo di voi. Create la parte in modo tale, che io non potrei recitarla dopo di voi». Anatol Regnier, Wedekind, eine Männertragödie, cit., p. 259. 96 Cfr. J. Ringelnatz, Sämtliche Werke, Musaicum Books 20017 (on-line), p. 262. Joachim Ringelnatz, nativo di Vienna, nel 1909 si trasferì a Monaco, dove prese a frequentare il Kabarett Simplicissimus. Lì conobbe, fra gli altri, Frank Wedekind, Hermann Hesse, Erich Mühsam e diede avvio alla sua carriera letteraria. Entrò fra i collaboratori della rivista «Simplicissimus» e dopo la guerra cominciò a declamare i suoi componimenti satirici nei locali di Berlino. Si trattava di poesie basate su giochi di parole e su doppi sensi, dal contenuto polemico e talvolta apertamente sovversivo. Per questo, il regime nazista bollò la sua arte come ‘degenerata’. Cfr. http://www.ringelnatz.net/biografie-joachim-ringelnatz-boetticher/ Ultimo accesso 30 aprile 2019. 97 F. Wedekind, Begegnung mit Josef Kainz, in Frank Wedekind und das Theater, Drei Masken-Verlag G.m.b.H. Berlin 1915, S. 79-82. Il contributo è stato recentemente ripubblicato nella nuova edizione critica delle opere di Wedekind in 15 volumi (v. 5/II, pp. 532-533), Wallstein Verlag, Göttingen 2013. Ringrazio il prof. Hartmut Vinçon della Frank Wedekind Gesellschaft di Darmstadt per avermi aiutato a reperire la brochure. 98 Nella brochure, Wedekind ricorda che Kainz gli disse (come avrebbe fatto poi con Heine, e per questo lo scrittore si convinse della sincerità del giudizio) di ritenere perfetto il suo Kammersänger (Cantante da Camera), e dunque di non voler recitare Gerardo dopo di lui. Ma l’Hetmann voleva portarlo addirittura al Burgtheater; o, se non ci fosse riuscito, inserirlo nel repertorio delle tournée. Cfr. Ivi, p. 79. Keith, invece, che Kainz conobbe solo attraverso la lettura del dramma, non piacque al grande attore austriaco. Con sommo dispiacere di Wedekind, egli non prese nemmeno in considerazione l’idea di recitarlo. 99 Ivi, p. 80. 100 F. Salten, Frank Wedekind, in Id., Gestalte und Erscheinungen, Berlin, S. Fischer Verlag 1913, p. 44. 101 Nel gennaio e nell’ottobre 1903, Kessler vide rispettivamente Erdgeist (Spirito della Terra) e Kammersänger (Il Cantante da Camera) di Wedekind. Cfr. M. Reynolds, The Theatrical Vision of Count Harry Kessler and its Impact on the Strauss-Hofmannsthal Partnership, Diss., Goldsmiths, University of London, dicembre 2013, p. 73.

63

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione che «nel dramma di Wedekind le possibilità sono unentwickelt»: non sviluppate.102 E aggiungeva che lo stesso autore gli aveva confessato come le proprie pièce fossero «solo una collezione di aforismi»; che non erano per nulla «drammatiche». Perché ciò che regalava drammaticità (o teatralità) ai drammi di Wedekind, era per l’appunto la presenza dell’attore. Un attore capace di svincolarsi dal principio dell’imitatio naturae e dalla soggezione nei confronti del ruolo; di innalzarsi al di sopra di esso e ‘cavalcarlo’, e il cui proposito fosse lo svelamento dell’essenza umana, nascosta dietro l’apparenza del reale. Dato che l’essenziale in Wedekind, osservava Mühsam, era sempre la «sensibilità nuova dell’uomo».103 Il ribollire del piano emozionale. «In bocca ai personaggi dei miei drammi», dichiara l’autore della Begegnung mit Josef Kainz (Incontro con Josef Kainz) «io ho messo la passione, e con essa ho cercato di dar loro una forma drammatica e plastica. Incarnare le passioni è l’anima e la quintessenza della recitazione, anche quando la passione non si esprime in suoni naturali inarticolati, ma come nei nostri classici, in parole che danno da pensare all’uditore».104 Lavorando sulla ‘sensibilità nuova dell’uomo’, spingendosi all’origine delle passioni lungo la via dall’esterno verso l’interno, che il simbolismo austriaco aveva caldeggiato, Wedekind lo oltrepassa e arriva a scorgere ciò che esso aveva solo intravisto: che lì dentro - o lì dietro - si trova una voragine, l’abisso; un vuoto in cui tutto è possibile, perché a regnarvi è il Chaos (cfr. supra, nota 84). Per questo, invece di creare lo sviluppo organico di un carattere e svolgerlo di fronte alla platea, come attore egli procedeva per variazioni rapide di visuale, attraverso continui spostamenti, cambi nervosi di direzione, alternanza di momenti di quiete fredda con attitudini ‘spasmodiche’ del gesto e della voce; 105 producendo quello che Kuhns definisce «effetto stroboscopico». 106 Da qui, l’impressione ‘straniante’ della sua recitazione: l’antipsicologismo di cui tanta parte della critica, in specie quella berlinese, lo rimproverava; disturbata dal fatto che non vi fosse, in lui, alcun indulgere all’arte della trasformazione. Un’arte divenuta d’altronde irrilevante, osservava Ball, «da quando siamo diventati tutti (virtualmente) attori».107 «Frank Wedekind non si trasforma», scrive Irmer; «piuttosto, sembra sdoppiarsi»:108 un’affermazione che rimanda a quella pronunciata da Bahr a proprosito di Kainz, quando disse che egli «non recitava il ruolo, ma si recitava sul ruolo».109 E bisogna pur notare che quelle accelerazioni nella dizione, la dissonanza fra i gesti e le parole, i cambi continui di direzione sulla scena, che sembrano aver costituito la cifra di Wedekind attore, erano proprio gli elementi che avevano fatto gridare al nuovo, nella recitazione del grande attore austriaco; come anche, in qualcuno, al suo eccessivo distacco e alla sua freddezza tecnica.

102 Cfr. Ivi. 103 E. K. Mühsam: Wedekind als Schauspieler, cit. La citazione completa è la seguente: «L’essenziale in Wedekind non è mai l’agitazione di idee rivoluzionarie, ma sempre la sensibilità nuova dell’uomo, la nuova prospettiva sugli affari del mondo, da cui solo in seguito si ricavano tendenze e teorie da propaganda». 104 F. Wedekind, Begegnung mit Josef Kainz, cit., pp. 81-82. 105 Cfr. D. F. Kuhns, Wedekind, the actor; aesthetics, morality, and monstrosity, cit., pp. 156. 106 Ivi, p. 161. 107 Ivi. 108 H.-Jochen Irmer, The Theaterdichter Frank Wedekind: Werk und Werkung, Henschel, Berlin 1975, p. 264. La stessa cosa notava Felix Salten, quando scriveva: «Frank Wedekind non si trasforma. Ma era come se, in qualche modo, egli si sdoppiasse. Si vedeva sempre lui, il poeta, ma si vedeva anche il Marchese di Keith». F. Salten, Wedekind, in Id, Gestalten und Erscheinungen, cit., p. 45. 109 H. Bahr, Russische Reise, cit., p. 157.

64

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Kainz era stato tra i primi, nel passaggio fra ottocento e novecento, a pensare al corpo e alla lingua come reagenti, non come agenti; in vista di un’espressività priva di sentimentalismo e di psicologismo. Che non significava affatto, però, fredda astrazione intellettuale. La sua dizione non era basata sulla scansione logico- grammaticale della parola, ma articolata sul cambio continuo della ritmica, con l’utilizzo delle pause a suggerire lo scarto emozionale110. In modo analogo, «attraverso un impercettibile ritardo del tempo, una pausa sottile prima o dopo la parola», Wedekind – scrive Kuhns – «faceva sì che il significato del ‘discorso’ potesse essere appreso intuitivamente, più che intellettualmente». 111 In entrambi, poi, il distacco dall’emozionalismo e dallo psicologismo, portava in modo paradossale allo stesso fine: l’ipnotizzazione delle platee. In confronto a Wedekind, disse Ball, «gli altri attori sembravano birilli buttati giù da uno strike. Semplicemente, non c’erano più […] Er hypnotisierte». 112 Wedekind otteneva dunque un effetto del tutto antitetico a quello perseguito dall’antipsicologismo brechtiano. Interessante allora notare come il più volte evocato Rudolph Steiner, col pensiero rivolto a Wedekind e a tanti anni dal loro primo incontro, arrivi a parlare di ‘oggettività karmica’, l’unica in grado di raggiungere il fine agognato dall’arte, dai preromantici in poi: svelare il «puro umano».113 Lo fa in una conferenza per la Società Antroposofica del 1924,114 in cui ricorda come una recita di Wedekind in Hidalla, a cui egli aveva assistito nel 1905, lo avesse fatto pensare a un attore che non recitava, ma rivelava; che non si preoccupava dello stile, ma si chiedeva solo come fare perché i personaggi si svelassero da sé. Mostrando, al contempo, l’autore-attore che li induceva a compiere lo svelamento. Un ‘porsi al di fuori’, dunque, che certo rimanda alla distanziazione brechtiana, ma che ha un significato affatto diverso.115 Nell’ottica materialistica del tedesco Brecht,

110 Kortner dirà di Kainz: «Perfino la sua quiete era carica di elettricità, il suo spirito sprizzava e scintillava, il suo discorso era una corrente ad alta tensione; prendeva di volta in volta una velocità rapida e sonora, quando era collerico, sovversivo, pazzo d’amore, esultante; si liberava e la sua voce balzava fuori ad altezze fino a quel momento inudite». Le parole di Kortner, a p. 21 del suo Aller Tage Abend, sono state consultate in J. Eisermann, Josef Kainz- Zweischen Tradition und Moderne, München, Herbert Utz Verlag, 2010, p. 299. 111 Cfr. D. Kuhns, Wedekind, the actor; aesthetics, morality, and monstrosity, cit., p. 157. Il dominio raggiunto da Wedekind sulla dizione stupì Brecht, che nel 1917 lo vide leggere pubblicamente la sua ultima composizione, Herakle. 112 H. Ball, Wedekind als Schauspieler, cit. 113 Cfr. R. Steiner, Vortrag von Dr. Rudolph Steiner gehalten am 4. Mai 1924 im Dornach. pp. 1-22. Le pagine incentrate su Wedekind sono quelle comprese tra la 10 e la 17. Il testo della relazione è consultabile on- line all’indirizzo: http://steinerklartext.net/wl.php?target=listen/ga236.html Ultimo accesso 30 aprile 2019. 114 Il 1924 è lo stesso anno in cui Hugo Ball, dopo la stagione dadaista che lo aveva visto fautore della ‘disintegrazione’ e del ‘sovvertimento universale’, pubblica il suo Cristianesimo Bizantino. Si sottolinea poco come gli esponenti della prima avanguardia si siano, per così dire, divisi in due frange: da una parte coloro che, come Brecht, cavalcano il materialismo storico e dall’altra quelli percorsi da una tensione mistico-spirituale. Aspetto, quest’ultimo, ignorato e poco compreso, bocciato come una sorta di ‘deriva’ dell’intelligenza; mentre è assai utile a spiegare l’apparente contraddittorietà e disomogeneità di certe figure e di certi fenomeni. Tornando a Steiner, per concludere: egli riteneva che Wedekind emanasse un quid ‘misterioso’, capace di mettere in moto, in chi lo guardava, una serie di associazioni che nulla avevano a che fare con la dimensione presente; con gli accadimenti oggettivi che si verificavano entro le coordinate spazio-temporali. Apriva così la consapevolezza di piani diversi dell’umano, e per questo lo vide come un antico alchimista. 115 Nella sua recensione a Erdgeist (Spirito della terra) Bahr paragona Wedekind a un pittore impressionista, la cui tecnica è quella di esercitare l’effetto solo a una certa distanza. Con i pittori impressionisti «le macchie, o linee o punti confusi e colorati, incomprensibili se visti da vicino, alla distanza improvvisamente si uniscono in un’immagine. Invece di applicare immediatamente il colore,

65

Sonia Bellavia, Wedekind e la recitazione essa è legata e funzionale alla dimensione limitatamente terrena dell’esistenza; al politico-sociale, che se non è quello strettamente contingente è comunque radicato alle coordinate del vivere dei diversi ‘presente’. Nella visione spiritualista dell’austriaco Steiner, essa è invece il mezzo per arrivare alla comprensione di un piano diverso dell’umano (un piano metafisico) e per metterlo in ‘connessione’ con quello terrestre. Solo così è possibile l’elevazione della consapevolezza, che strappa il velo sull’illusorietà del mondo apparente, scoprendo come il nucleo vero dell’uomo non sia in ciò che fanno le sue mani o dove lo portino le sue gambe. Nell’oggettività, che significa trascendenza dal piano materiale, al di fuori di quelle che Steiner chiama «le vecchie Zusammenhänge» (relazioni), si arriva a comprendere che andando al là della fisicità, dei pensieri e delle emozioni (in questo consiste lo svelamento) ciò che resta dell’uomo, la sua essenza, non è altro che ritmo. Sul ritmo lavora l’artista che vuole arrivare al nucleo, raggiungere l’essenziale. Kainz fu tra coloro che l’avevano intuito e Wedekind, forse istintivamente, comprese la portata della sua modernità. Da quell’agnizione, sul terreno del teatro coevo, nella dialettica persistente tra la visione positivista e quella idealista dell’attore, ribadendo l’autonomia necessaria e la necessaria libertà di spirito dell’artista, egli opera per procedere oltre. Fino a divenire il ponte sulla scena del futuro e farsi dire da Max Halbe, nel 1914: «Tu, adesso, sei in cima alla ruota che gira».116

essi lo scompongono e dissolvono l’immagine che intendono rappresentare. Se si è vicini, non si riesce a capirla. Se si arretra, essa si ricompone da sé. Ciò ha anche la particolare attrattiva, che avvicinandosi o allontanandosi dal quadro, esso può farsi sfuocato, o comparire nuovamente. Scompare e riappare sotto i miei occhi, come voglio. Se sono qua, lo vedo, se sono là non c’è più. Costringendomi così contemporaneamente a cooperare, a collaborare con lui, il quadro prende una vita interamente propria. Non sta appeso finito e immobile alla parete. Si muove meravigliosamente, sotto il tocco dei miei occhi. Allo stesso modo fa effetto Wedekind, che smonta i suoi uomini in piccoli scintillanti tratti, che lentamente, nel corso dell’azione, diventano il loro colore, il carattere». H. Bahr, Der Erdgeist, in Id., Glossen zum Wiener Theater (1903-1906), cit., p. 256. 116 La citazione è a p. 175 del Wedekindbuch. Max Halbe (1865-1944) fu uno dei maggiori esponenti del naturalismo tedesco, da cui cominciò ad allontanarsi sempre più dalla fine degli anni novanta. Nel 1895, da Berlino - dove esercitava l’attività di scrittore indipendente - si trasferì a Monaco. Conobbe Wedekind, al quale rimase legato da un’amicizia interrotta solo dalla morte di quest’ultimo. Halbe fu non solo autore di romanzi, ma scrisse molte opere per il teatro.

66

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Frank Wedekind Recitazione. Un glossario1

Maximilian Harden2 A chi guarda allo scambio appassionatamente intenso fra gli spiriti guida in Germania al tempo della Riforma, l’immagine che da vent’anni a questa parte gli offre la vita intellettuale tedesca apparirà come un raggruppamento di colonne votive e di anacoreti. Sono i ‘mezzi di trasporto’, a essere peggiorati così tanto, o ciò si deve alla superiorità e alla perfezione dei nostri spiriti di allora? Se dedico il primo di questi aforismi3 a Maximilian Harden, lo faccio non perché sia alla ricerca di un alleato, bensì di un avversario. Mi chiedo: a chi devo rivolgermi oggi, in Germania, perché questi aforismi non si spengano nel deserto? Perché non vengano digeriti come il foraggio fresco solo da zebre e giraffe e resi appetibili per la massa? Avrei potuto chiedermi: quale voce, in Germania, viene ascoltata di più? Avrei potuto chiedermi: chi negli ultimi venti anni ha avuto maggiore attenzione e accondiscendenza per gli ignoti, per i combattenti, per coloro che sono in divenire? Più insistentemente mi chiedo, però: chi, in Germania, infonde più calore e passionalità alla discussione massimamente seria di una cultura? Perciò, stimato signor Harden, mi è lungi l’aspettare da voi una rapida presa di posizione contro o a favore delle discussioni stimolate dai saggi di Friedrich Freska4 e

1 Traduzione e cura di Sonia Bellavia. Il testo di partenza, sia nello stile che nei contenuti, è molto complesso. Wedekind scrive con l’intenzione di risvegliare la coscienza del lettore e a tale scopo è funzionale lo stile della sua scrittura, che risulta a tratti contorta: nello sforzo di ‘sciogliere il mistero’, chi legge è costretto a riflettere a fondo sulle tematiche comprese nel testo. Alla luce di tale considerazione, la traduzione tiene fede – a livello stilistico – della complessità di scrittura del glossario. 2 Maximilian Harden, psd. di Felix Ernst Witkowski, nacque nel 1861 a Berlino e morì nel 1927 a Montana, in Svizzera. Scelse il proprio pseudonimo quando, in gioventù, debuttò come attore - dopo aver seguito un apprendistato nel 1874 - e decise di tenerlo anche quando si votò alla scrittura. Nel 1878 si convertì al protestantesimo e dalla metà degli anni ottanta cominciò l’attività di giornalista e critico teatrale. Nel 1892 fondò la testata «Die Zukunft», che avrebbe continuato le pubblicazioni fino al 1922: l’anno in cui, a causa delle sue origini ebraiche e delle idee liberali, Harden fu vittima di un attentato, deciso dai movimenti nazionalisti e antisemiti. Ibsen, Tolstoj e gli scrittori naturalisti furono i modelli ai quali s’ispirò per la produzione saggistica, particolarmente intensa negli ultimi anni della sua vita. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a H. Neumann - M. Neumann, Maximilian Harden (1861-1927): ein unerschrockener deutsch-jüdischer Kritiker und Publizist, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2003. 3 Wedekind era solito rimarcare il carattere aforistico della sua scrittura. Come si è avuto modo di leggere nel saggio introduttivo, al conte Harry Kessler, nel 1903, disse i suoi drammi erano solo una serie di aforismi; e come tale presenta anche la Schauspielkunst. Brevità e carattere assertivo delle affermazioni, sono in effetti il tratto distintivo del glossario. Markwardt parla di “lunghi aforismi” o “brevi schizzi di saggi”, che non si limitano affatto – come si anticipava già nel saggio introduttivo – alla recitazione, ma trattano anche questioni di critica teatrale, di drammaturgia, etc. B. Markwardt, Geschichte der deutschen Poetik, Bd. V: Das zwanzigste Jahrhundert, Berlin, De Gruyter & Co., 1967, p. 471. 4 Lo scrittore berlinese Friedrich Freska (1882-1955) si era messo in luce come drammaturgo nel 1907, quando il Residenztheater di Monaco mise in scena il suo Ninon de l’Enclos. Ein Spiel aus dem Barock (Nino de l’Enclos. Una pièce barocca). Due anni dopo, Reinhardt curava la regia della sua pantomima Sumurun, trasposta al cinema nel 1920 da Ernst Lubitsch. La vena satirica presente nelle sue opere ne fece uno degli scrittori più interessanti nel nuovo panorama letterario tedesco di primo Novecento. Il saggio a cui fa cenno Wedekind è verosimilmente Berliner Theaterschmerzen – Deutsche Theaterleiden, citato nelle pagine seguenti.

67

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario

Wilhelm von Scholz.5 Se io vi avessi semplicemente dedicato questo scritto polemico, qualcuno vi avrebbe visto, con ragione, una grossolana Captatio Benevolentiae. La vostra partecipazione attiva ai nostri sforzi è però per me cento volte più preziosa del vostro accordo. Tutti coloro che da dieci anni, in Germania, se ne sono andati per la propria strada, erano certi della vostra più viva partecipazione. Non abbiamo alcun motivo di cercare i vostri favori. Tanto più, mi sembra tempo di ringraziarvi.

Max Reinhardt Tutta la nostra speranza e amore infelice. L’impenetrabile mago Klingsor.6 Quale gioia avrebbe provato Nietzsche con Max Reinhardt... Un uomo, al quale tutto l’impossibile diventa possibile. Un fenomeno culturale di primo rango. L’effetto di Bismarck sulla vita intellettuale del popolo tedesco, da politico si fa lentamente più poetico. L’impresa teatrale di Reinhardt, invece, oltre al significato artistico comincia a acquisirne anche uno politico. L’autonomia intellettuale che si sta risvegliando nella Germania del Sud, lo attira da Berlino, letterariamente stanca e satura di teatro, verso Francoforte e Monaco. A Monaco, certamente, Georg Stollberg gli ha già preparato, da una mezza generazione fa, il terreno più propizio. Anche se Stollberg non ha l’impulso espansionistico di Reinhardt, dal primo giorno del suo operato fino a oggi ha dato prova di possedere quantomeno la sua stessa energia, determinazione e autonomia quando si è trattato di imporre nuovi drammi sulle scene; anche in contrasto con la corrente letteraria dominante. Le battaglie teatrali che si sono giocate nello Schauspielhaus di Monaco, scaturivano solo dalla ferma convinzione artistica di Georg Stollberg; e ogni giorno che passa diventa sempre più chiaro che lo Schauspielhaus, quelle battaglie, le ha vinte. Perciò per Max Reinhardt Monaco non è una città da espugnare, bensì un’alleata, che lo accoglie a braccia aperte. Ma a Stoccarda, Darmstadt, Mannheim, Karlsruhe, Heidelberg, Costanza, la sua apparizione chiamerebbe tutti a raccolta in un sol colpo; come nella Germania del Sud, per la gioia del teatro, si aspetta solo un grande avvenimento quale motore per l’avvio della propria attività. Una volta Bismarck ha parlato della “pigra fermentazione dell’indisciplinata Germania meridionale”. 7 Mi sembra un giudizio tanto affrettato, quanto quello di un tedesco del Sud che parlasse del “pretenzioso orgoglio accattone8 della nordica, germanica rozzezza”. Ma il fiorire

5 Wilhelm von Scholz (1874-1969). Poeta, drammaturgo e scrittore, oggi è ricordato soprattutto per l’atteggiamento simpatizzante nei confronti del Nazionalsocialismo. In realtà, nelle sue opere è possibile ravvisare alcuni elementi interessanti; come la tensione mistico-occultista delle liriche, l’interesse per Hebbel e il Neoclassicimo, a cui impronta i testi teatrali, tra cui si annoverano anche i rifacimenti di alcuni drammi di Caldéron de la Barca. Nel 1916, Holz rivestì anche la carica di primo Dramaturg e direttore degli spettacoli del Landestheater di Stoccarda. Nel 1933 fu tra i firmatari della dichiarazione di fedeltà ad Adolph Hitler. Wedekind torna ancora su Scholz nella pagine conclusive del glossario, a cui si rimanda. Si veda, in particolare, la nota 43. Il saggio a cui fa cenno Wedekind è probabilmente la lettera Theaterfragen, in cui – come si vedrà più avanti - Scholz appoggia le posizioni di Freska, contro la dominante critica teatrale. 6 Il mago Klingsor, nemico del Santo Gral, è uno dei personaggi di Parsifal: ultimo dramma di Richard Wagner (1813-1883), andato in scena a Bayereuth nel maggio 1882. 7 Ricordiamo che nel 1868 gli Stati meridionali – tra cui la Baviera, che era il più importante - avevano votato contro l’annessione alla Confederazione Tedesca degli Stati del Nord (guidata della Prussia), che era nata due anni prima e per la quale Bismarck aveva fatto approvare la nuova Costituzione. Il che spiega la sua scarsa inclinazione per il Sud della Germania. 8 Il termine qui usato da Wedekind è: Bettelstolz, nome composito, formato dal sostantivo Bettel, che significa mendicante e da Stolz, che vuol dire orgoglio. Nel Wörterbuch der Philosophischen Grundbegriffe del 1907, Bettelstolz è riferibile a colui il quale vuole solleticare il proprio orgoglio attraverso fasti esteriori, ma non può farlo senza rivelare le sue misere condizioni. Cfr. http://www.zeno.org/Kirchner-Michaelis- 1907/A/Bettelstolz

68

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019 della cultura tedesca di sicuro non poggia sul conflitto tra sregolatezza meridionale e limitatezza nordica, bensì sull’interazione fra la sobrietà del Nord e la ricchezza sentimentale del Sud, tra la nordica freschezza intellettuale e la meridionale profondità del sentire. Se c’è mai stata una guida comune per tale cooperazione, qualcuno che è lì in alto, per mettere a servizio dei propri scopi entrambi gli elementi, questi è Max Reinhardt. E perché nostro ‘amore infelice’? Perché nella metropoli Berlino, egli è l’unico a interessarsi a un’arte nuova. Perché, come spesso accade agli Unici, gli resta poco tempo. Perché viene monopolizzato dai grandi defunti9 – il che gli dà solo fama e onore. Che egli renda possibile l’impossibile, l’ha dimostrato con la mia Kindertragödie.10 Al possibile, però, la sua magia non reca talvolta un gran vantaggio. Poiché la sua occupazione è trasformare l’acqua in vino, quando non c’è acqua disponibile, egli trasforma il vino in una bevanda che non ha più molto a che fare col suo vitigno.11 Ma queste sono piccole debolezze, innate nelle grandi apparizioni, in ogni tempo.

Passaggio Non in ultimo, le opere dei drammaturghi naturalisti dovettero la loro diffusione, insolitamente rapida, al vantaggio di essere estremamente facili da rappresentare. Nessuna obiezione contro le loro qualità sociali e letterarie. L’attore s’infilava le mani nelle tasche dei pantaloni; girando le spalle allo spettatore si metteva accanto alla buca del suggeritore e aspettava, in tutta comodità, finché non aveva ben compreso la parola che costui gli aveva sussurrato. Se la parola la capiva sbagliata, non era un gran danno; poiché i suoi uditori erano essenzialmente gli stessi teatranti, che dietro le quinte giocavano a carte12 o leggevano i tarocchi. Lo spettatore, però, per anni non ha preteso altro, dall’attore, che il non essere distolto, attraverso la parola, dall’atmosfera. Gli interpreti che in siffatta arte hanno festeggiato i loro trionfi, per noi oggi sono inutili. La drammaturgia contemporanea tratta problemi più seri e coltiva uno stile molto più elevato, rispetto a quelli conosciuti col Naturalismo. Che l’odierna produzione letteraria non presenti successi seriali, non è certo prova del fatto che essa sia spiritualmente più profonda di quella di vent’anni fa. Ma non vuol dire neanche che la sua tecnica sia inferiore rispetto a quella dei testi naturalistici. Un drammaturgo contemporaneo non fallisce perché tecnicamente incapace; bensì, al contrario, perché

9 E’ molto probabile che qui Wedekind si riferisca – con molta parzialità, a dire il vero - al repertorio di Reinhardt, attento alla messinscena dei grandi classici (come Shakespeare e Molière). 10 Si tratta di Risveglio di Primavera, rappresentato al Deutsches Theater di Reinhardt nel 1906 (cfr. saggio introduttivo). Il titolo originale è: Frühlings Erwachen. Eine Kindertragödie. Ho lasciato il sottotitolo in tedesco, poiché di difficile traduzione. Letteralmente è traducibile come ‘tragedia di bambini’. Esiste una versione di Giacomo Prampolini (1898-1975), apparsa sul numero 16-17 de «Il Dramma», 1-15 luglio 1946, che titola l’opera: Risveglio di Primavera. Tragedia di ragazzi. 11 Qui Wedekind adombra quanto esprimerà più chiaramente nelle pagine a seguire, alla voce Parforce-Regie (regia forzata); ovvero, lo scarso gradimento – che condivideva peraltro con diversi autori della sua generazione, in primis Wilhelm von Scholz, che si espresse in proposito nel suo Gedanken zum Drama und Andere Aufsätze Über Bühne und Literatur del 1905 (cfr. infra, nota 46) – della supremazia del regista all’interno dello spettacolo teatrale. Supremazia che proprio allora aveva cominciato a imporsi, come ha mostrato Lorenzo Mango, il quale esattamente nel 1905 individua l’“anno-chiave” per la definizione dell’identità della regia modernamente intesa (cfr. L. Mango: L’officina teorica di Edward Gordon Craig, cit., p. 10). A quella data, nota lo studioso, risalgono eventi fondamentali per il corso del teatro novecentesco; a partire dalla messinscena del Sogno di una notte di mezza estate di Reinhardt al Neues Theater di Berlino (Ivi). 12 Il riferimento è allo Skat, popolare gioco di carte tedesco, inventato agli inizi dell’Ottocento.

69

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario lavora in modo tecnicamente troppo valido rispetto al livello qualitativo degli odierni teatri letterari.13

Compensazione Tutte le bastonate che la stampa mi dà per la mia recitazione, io le restituisco, per nulla indebolite e sminuite, alla situazione attuale della recitazione tedesca, che da anni si mostra inadeguata a valorizzare i lavori di quella drammaturgia, oggi in crescita.

Ibsen Ibsen ci ha dato una nuova visione del mondo, un’immagine nuova dell’uomo, una nuova psicologia; ma non una nuova drammaturgia. Hebbel era un drammaturgo più potente di Ibsen, e Schiller e Goethe erano drammaturghi più potenti di Hebbel. Si potrebbe, d’altronde, pensarla altrimenti? Com’è vero che la vita dei tedeschi scorre assai più flebilmente di quella dei latini, altrettanto vero è che essa procede in modo assai più impetuoso, dieci volte tanto, di quella dei norvegesi. L’allegria tedesca è più vivace di quella scandinava. Una coppia di amanti tedeschi è più calorosa e temeraria, l’ingegno tedesco è più pronto e sottile; una bastonata in Germania finisce in modo più sanguinoso che in Svezia e in Norvegia. Il sangue delle fatali Rebecca West e Hedda Gabler di Ibsen, da noi scorre nelle vene delle nostre vecchie zitelle. Questa convinzione ha fatto sì che già vent’anni fa mi apparisse, quale ideale supremo dell’arte, la possibilità di coniugare la maestria insuperabile dei personaggi ibseniani con l’altrettanto insuperabile tecnica drammaturgica di Cabala e Amore.14 Sono vent’anni che l’attore moderno non conosce aspirazione più alta, che quella di recitare Ibsen. Il che è penosamente poco, per l’arte drammatica. Ulrik Brendel [personaggio di Rosmersholm di Ibsen, n.d.a] e Eylert Lovborg [in Hedda Gabler, n.d.a] richiedono cuore e temperamento. Ma entrambi sono figure secondarie. Herbert Eulenberg15 non è l’unico, oggigiorno, a scrivere drammi con l’intento di immettere nell’intera pièce il cuore e il temperamento di un Eylert Lovborg. Se con siffatti drammi osasse cimentarsi un interprete ibseniano, sarebbe un problema; e l’opera cadrebbe. Perché all’attore manca la tenuta. Gli manca il fiato, è troppo poco allenato. Nelle situazioni concitate volteggia stanco da un divano all’altro, per raccogliere le forze.

13 Facilmente leggibile, nella chiusa, la polemica di Wedekind contro i teatri che si erano dimostrati incapaci di trattare e valorizzare le sue opere. Come si diceva nel saggio introduttivo, lo scrittore tedesco faticò non poco a veder rappresentati i propri testi, e quando ci riuscì, spesso il successo non gli arrise. S’incolpava la ‘stranezza’ dei suoi drammi, mentre qui egli sottolinea la ‘povertà’ di un’ormai consunta consuetudine teatrale, inadatta alle alte opere della drammaturgia contemporanea. 14 Si tratta, ovviamente, di Kabala und Liebe: tragedia borghese di Schiller del 1783. L’opera appartiene alla fase stürmeriana di Schiller, prima del sodalizio con Goethe a Weimar. 15 Poeta, scrittore e drammaturgo ebreo (si cfr. anche infra, nt. 22), Herbert Eulenberg (1876-1949) nel 1909 fu l’autore di un saggio su Schiller, che fece discutere; come d’altronde molte delle sue opere, che similmente a quelle di Wedekind, vennero giudicate oscene e scandalose. Nel 1919, Eulenberg fu tra i fondatori dell’associazione di autori moderni Junges Rheinland, con sede a Düsseldorf. Oltre che con Wedekind, Eulenberg era in contatto – fra gli altri - con Thomas Mann, Hermann Hesse, Stefan Zweig e Gerhart Hauptmann. All’inizio degli anni venti fu uno degli autori più rappresentati in Germania. Nel Wedekindbuch, lo scrittore ricorda un aneddoto che vale la pena riportare: era in teatro, una sera, mentre Frank Wedekind recitava uno dei suoi personaggi (Eulenberg non specifica quale, né di che opera si trattasse). Sorpreso da quanto aveva visto, nell’intervallo decise di recarsi nel camerino dell’attore/autore, per chiedergli un incontro. Ma quando si trovò all’ingresso del palcoscenico, lo vide dietro il sipario talmente preso e compenetrato, che decise di lasciar perdere: «sudato, tremante per l’agitazione, esausto dalla prestazione, stava lì in pedi, con i suoi grandi occhi mortalmente seri. Era lì, ancora interamente preso e compreso dalla recita, tremante fra i tecnici, che stavano già montando il cambio di scena; e faceva impressione guardare in quella profonda tristezza del creatore, che conosce solo due domande, piene di paura: Si è capito cosa volevo dire? e Avete capito come lo intendo?». H. Eulenberg, in Das Wedekindbuch, cit., pp. 163-164.

70

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

E la critica, — il sacrosanto X. X. nel suo ruolo si è davvero surclassato.16 Il suo potere geniale era degno di un compito migliore. È uno strazio, che l’odierna drammaturgia non produca più lavori per questo semidio.

In battaglia Fino al cinquantesimo anno della sua vita, Richard Wagner lottò come un disperato per la propria arte. Solo da vecchio, Ibsen sperimentò la soddisfazione di non essere più descritto come un nemico dell’uomo. Nietzsche venne accusato di essere pazzo, quando la sua forza sconvolgente era ancora il segreto di una comunità silenziosa. Né Wagner, né Ibsen, né Nietzsche hanno disdegnato l’utilizzo della propria arte come arma di difesa. Dei drammaturghi tedeschi del Naturalismo, nessuno ha cozzato, nemmeno lontanamente, contro ostacoli simili a quelli affrontati da Wagner e Ibsen. Dai primordi del movimento, i suoi rappresentanti furono contornati da una schiera di satelliti fedeli e arguti. In più, arrivò per loro certa stampa, che senza approvare ogni singola opera nel dettaglio, sosteneva indiscutibilmente, contro tutto ciò che era ‘altro’, l’insegna che stava scritta sullo scudo; che per anni non ha permesso di valorizzare alcuna creazione intellettualmente indipendente. Oggi le cose stanno diversamente. Nessuno dei drammaturghi emergenti si sottomette a una dottrina dogmatica. Nessuno di noi ha mai provato a marchiare come cialtroni incapaci i nostri predecessori, o i predecessori dei nostri predecessori, per far apparire sotto una luce tanto più brillante il proprio orientamento di gusto. 17 Che non ci facciamo liquidare da precetti fissi, lo dimostra che critica e stampa non sono nostre alleate, ma nostre avversarie. Volgiamoci dunque indietro alla tattica della generazione precedente: lottiamo per noi stessi, come dovettero fare a suo tempo Wagner, Ibsen e Nietzsche. Friedrich Freska ha aperto la strada con il saggio Berliner Theaterschmerzen – Deutsches Theaterleid (I dolori teatrali di Berlino – pena teatrale tedesca). Le «Münchner Neuesten Nachrichten», 18 con un’ imparzialità degna di apprezzamento, approfittarono dell’occasione per concedere la parola, dopo Freska, anche ad altri autori. Wilhelm von Scholz, le cui Vertauschte Seelen19 (Anime Scambiate) nell’ambito di un’arte drammatica in divenire costituirebbero per la scena un arricchimento di primissimo rango, nella sua lettera Theaterfragen (Questioni Teatrali) abbraccia sostanzialmente la visione di Freska, secondo cui la liberazione dalla dittatura miope della critica teatrale berlinese è la condizione prima per il fiorire della drammaturgia contemporanea. Se ai naturalisti, dopo le prime vittorie, fu sempre

16 Non è chiaro qui se Wedekind stesse pensando a un determinato critico teatrale o – come è più probabile – intenda attaccare in generale l’intera categoria. Che lo scrittore non fosse amato dalla critica, accusata di compiacere il gusto dominante, non è certo una novità; non stupisce dunque che egli ne faccia l’oggetto del suo sarcasmo. 17 Il passo sottolinea una volta di più, quanto la forza innovativa di Wedekind – sia scrittore, che attore – non significasse affatto ripudio della tradizione; anzi. Il passato contro cui l’autore si scaglia è quello più immediato, degli ultimi venti anni; quello, cioè, che aveva visto in Germania l’affermazione incontrastata del Naturalismo. Per il resto, è evidente che egli guardasse alla tradizione e dialogasse con essa: con i suoi predecessori e con i predecessori dei predecessori, cercando per il nuovo teatro una forza e una grandezza stilistica che si era persa con l’imporsi di uno ‘sciatto naturalismo’. 18 Quotidiano monacense, fondato nel 1848 e attivo fino al 1945. E’ evidentemente sulle sue pagine, che venne pubblicato il saggio di Freska menzionato da Wedekind. Purtroppo, senza indicazioni più precise, è pressoché impossibile risalire alla data di pubblicazione. 19 Il titolo completo dell’opera di Scholz è: Vertauschte Seelen: die Komödie der Auferstehungen (Anime Scambiate: la commedia delle Resurrezioni) e apparve nel 1910 (dunque contemporaneamente al glossario di Wedekind) per la Müller Verlag di Monaco. Il 24 novembre dello stesso anno, Leopold Jessner la mise in scena al Thalia- Theater di Amburgo. Vertauschte Seelen è una delle espressioni dell’indirizzo estetico neoclassico, il cui fine era il tentativo di salvataggio del dramma attraverso la ripresa della forma e della tecnica classicista. Il modello, per Scholz, era Friedrich Hebbel.

71

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario risparmiata ogni ulteriore lotta per la propria arte, ciò non sta a comprovare – come, da sempre, vuol far credere la critica – che il dover lottare sia per noi un marchio d’infamia.

Curiosità Di fronte ai ruoli, fra quelli nei miei drammi, più soddisfacenti per un attore, da vent’anni a questa parte l’interprete tedesco recita l’innamorato timido [Schüchternen Liebhaber in corsivo nel testo, n.d.a]. Purtroppo io non ho mai scritto nessun ruolo, per siffatta categoria.

Berlino Il decennale, quasi illimitato dominio di un orientamento estetico che ha fatto sì, in campo artistico, che la situazione si andasse deteriorando oltremisura, è spiegabile solo alla luce del fatto che Berlino, in un certo qual modo, considerava la battaglia a favore di tale orientamento come cosa propria. Da quando l’interesse per il Naturalismo si è affievolito, la Germania può annotare un unico, grande evento artistico, che pure senza la viva partecipazione della capitale non sarebbe mai giunto a un tale grado di sviluppo. Tale fenomeno si chiama: Max Reinhardt. Dunque, tenuto conto che questi due eventi artistici tedeschi [il Naturalismo e Max Reinhardt, n.d.t.] sono pienamente figli di Berlino, e che li si può comprendere solo tenendo conto delle circostanze favorevoli di stanza a Berlino, sarebbe del tutto irragionevole accettare che questa fertile madre d’un tratto non volesse più mettere al mondo e nutrire altri figli. Oggi, tuttavia, la città può essere un po’ stanca e bisognosa di riprendersi. Ma proprio per questo far risuonare subito il grido: “Via da Berlino!” sarebbe inauditamente ingrato. Io dico: No, al contrario! Mettiamo ancora e sempre Berlino, come esempio luminoso, davanti a ogni città tedesca. Pretendiamo da ogni città tedesca, per quanto le sue forze glielo consentano, di competere con Berlino. Nessun pappagallismo coatto, ma anche nessun risentimento e nessuna ingiustizia.20 Se la nostra arte ha un potere vivificante, non potranno recarle danno né Berlino, né le altre città. E noi non possiamo rendere servizio più grande alla cultura tedesca.

Della miseria e del morire della recitazione tedesca (Replica all’attacco: “Della miseria e del morire del dramma tedesco”)21

20 L’atteggiamento di Wedekind nei confronti di Berlino, ha qui un sapore affatto diverso da quello tenuto nel 1907 e a cui si è fatto cenno nel saggio introduttivo. Il che sembra confermare l’ipotesi che l’odio dello scrittore per la capitale tedesca, a quel tempo, fosse più che altro una conseguenza dell’amaro insuccesso del suo Tartufo, nel Molière diretto da Reinhardt. 21 Qui Wedekind sembra rimandare alla discussione che sul declinare del primo decennio del novecento si svolgeva sulle pagine di giornali come «Die Schaubühne», peraltro periodico attento alla produzione wedekindiana e alla sua verve polemica (a mo’ di esempio si vedano H. Jobs [psd. di Hanns Holzschuher], Der gemurdete Wedekind, «Die Schaubühne», 02/II, Nr. 51, 20 dicembre 1906, p. 623; E. Friedell, Frank Wedekind, «Die Schaubühne», 04/I, Nr. 12, 19 marzo 1908, p. 306; L. Freiherr von Hatvary, Ein Fall Wedekind, «Die Schaubühne», 06/I, Nr. 14, 7 aprile 1910, p. 371 e H. Kahan, Der Junge und der alte Wedekind, «Die Schaubühne», Heft 41, 13 Ottobre 1910, p. 1042). Fra il 1907 e il 1909, compaiono diversi articoli che fanno il punto sullo stato di decadenza del dramma. Si vedano ad esempio Der Dramaturg. Zum Niedergang des Dramas (Il drammaturgo. Sul declino del dramma) di Marsyas (evidentemente uno pseudonimo, difficile individuare di chi), «Die Schaubühne», 03/II, Nr. 38, 19 settembre 1907, pp. 262-264 e Untergang des Dramas (Tramonto del dramma) del biografo di Kafka Max Brod (1884-1968), «Die Schaubühne», 05/1, Nr. 6, 11 febbraio 1909, pp. 179-180. Nel momento in cui la drammaturgia naturalista comincia a essere messa aspramente in discussione dalle nuove tendenze stilistiche, la critica ‘conservatrice’ vede in tutto ciò il segnale di un’agonia del dramma tedesco tout court. Cfr. anche B. Markwardt, Geschichte der deutschen Poetik, Bd. V: Das zwanzigste Jahrhundert, cit., pp. 255-257. Sono stata confortata nell’ipotesi dal professor Bernhard Arnhold Kruse,

72

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Gli attori, la cui arte è superiore a ogni critica, il cui potere decide in modo assolutamente incontrastato il destino della produzione drammatica contemporanea,22 escono dalla rappresentazione della Sposa di Messina [di Schiller (1803), n.d.a.] in cui recitano il ruolo principale e strillano: “Questo Schiller! Quest’incapace! Quest’idiota! Chiedete pure al pubblico che impressione penosa gli lascia questo miserabile testo schilleriano! Questo scribacchino! Se non fosse per noi!” Nessuno di loro intuisce la più lieve sciarada della storia del mondo, che Schiller costruisce in strofe potenti, contro il Costruttore Solness di Ibsen, che tutti loro adorano come una rivelazione; perché da vent’anni non hanno imparato a recitare nulla di più esigente. E’ un atteggiamento esclusivista, di poco respiro. Così Schiller si fa ancora nostro compagno di sventura, in ciò parodiando se stesso. Non è che l’eroe soccombe, mentre l’idea vince. Dell’idea non si cura nessuno. Il dramma però affonda e la regia trionfa. Com’è possibile? All’attore che oggi viene premiato come esemplare, manca la portata, la resistenza. E’ insuperabile nei caratteri secondari, e perciò è il cocco del Regisseur. Che egli sia in grado di sciorinare pièce da conversazione non getta certo un’onta su di lui; semplicemente, lo induce però a disciogliere il cuore e il temperamento dell’autore in un tono da conversazione. Poi la critica strilla: l’autore scrive un tedesco arido! – Rappresentare la grandezza come qualcosa di sottinteso, restare naïv in modo traboccante, unire calore e ricchezza di sentimento con temperamento e forza, incarnare in modo convincente: questa dote, purtroppo, gli è negata. Se parla con spontaneità, pieno di sentimento, nessuno capisce quello che dice; perché da vent’anni la sua tecnica vocale si è andata deteriorando. Se vuole sembrare potente, eroico, ricco di temperamento, allora ogni parola suona così intenzionalmente scandita, così oltremodo forzata, così consapevole, così intellettuale, che non si nota più alcuna traccia di naturalezza, di semplicità. Di ogni essere umano creato da Dio, il quale non è di naturalistica indolenza, l’attore odierno fa un’anemica, stravagante fantasia da scrittore. Una recitazione che si fa sbadigliante, incolmabile abisso, fra autore e pubblico.

Herbert Eulenberg Herbert Eulenberg ha scritto una pièce giovanile, con un prologo magnifico, dal titolo Leidenschaft (Passione).23 Un’opera che nel primo e nel secondo atto impegna con una folle atmosfera carnevalesca, e nel quarto e quinto atto risuona come un canto popolare semplice, ma ritmico ed esigente. Un’opera giovanile, e malgrado ciò dalla forma

docente di letteratura tedesca all’università di Napoli Federico II, interpellato privatamente e che qui ringrazio. 22 Le esternazioni di Wedekind contro gli attori tedeschi, come già segnalato nel saggio introduttivo, gli attirarono non poche inimicizie. Lo scrittore li incolpava non solo di essersi sottomessi a un piatto stile naturalista, segnando così il declino del teatro tedesco, ma anche di aver spesso rifiutato – proprio perché incapaci di trovare lo stile giusto - l’interpretazione dei suoi personaggi. Il che, ovviamente, aveva ostacolato la sua affermazione come drammaturgo. 23 Presentata come una tragedia in cinque atti, Leidenschaft apparve nel 1901, pubblicata dalla casa editrice di Lipsia Reclam. L’opera attirò le attenzioni del direttore teatrale Ferdinand Bonn (1861-1933), che ingaggiò Eulenberg come Dramaturg al Berliner Theater, di cui era il fondatore. Anche l’attrice Louise Dumont (1862- 1932), che all’epoca agiva ancora sotto Otto Brahm, rimase colpita da Leidenschaft, e impiegò il giovane drammaturgo al suo teatro di Düsseldorf, appena fondato. Il teatro venne inaugurato il 28 ottobre 1905, con un prologo scritto dallo stesso Eulenberg. Si può affermare dunque che la tragedia abbia segnato l’inizio della sua carriera di drammaturgo. Per un ritratto di Eulenberg sintetico, ma esaustivo, si rimanda a J. A. Kruse, Der Schriftsteller Herbert Eulenberg (1876-1949). Ein “Ehrenbürger der Welt” aus Kaiserswerth am Rhein, «Geschichte im Westen», Jhrg. 18, Köln, Rheinland Verlag, 2013, pp. 116-123.

73

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario turgida e i colori lucenti; succosa, polposa, luminosa come un quadro di Rubens. Il contenuto non ha bisogno di essere oggetto di particolari valutazioni. Solo la costruzione legittima quest’opera d’arte e la rende un compito di cui essere grati. Una barca, che collocata su ruote, equipaggiata con una compagnia temeraria, fra giubilo e grida d’esultanza, salpa da uno scivolo imbandierato. Nel terzo atto, al momento opportuno, cade in acqua; al che tacciono le grida di giubilo, mentre tutt’intorno sprizza la schiuma. Poi un viaggio tranquillo, pieno d’atmosfera, attraverso il canneto sussurrante fino alle vaste rive silenziose. Il piacere di questa creazione giovanile dovrebbe fornire la più fulgida delle delizie proprio alla gran parte del pubblico tedesco. Ma la nostra rinomata arte drammatica ne fa la ‘letteratura’ più esclusivista. Alla prima di Leidenschaft in uno dei più famosi teatri di corte, aleggiava sui primi due atti la stizzosità terribile di Friedenfest (Festa della pace, 1890 n.d.a.) di Gerhart Hauptmann.24 Ne conseguì che il prosieguo – specialmente per ciò che concerneva la recitazione – era più oscuro di Friedenfest. E la critica? – Eulenberg la lascia fredda. Successo di stima.

Albert Steinrück25 Nella mia ‘Lulu’, in Erdgeist [Spirito della Terra, n.d.t.], ho cercato di tratteggiare un esemplare eccezionale di donna: quello che viene fuori quando una creatura riccamente dotata dalla natura, fossanche spuntata fuori dal nulla, si trova in un contesto di uomini rispetto ai quali - quanto a umorismo innato - è considerevolmente superiore, e riesce a dispiegare illimitatamente se stessa. Sotto il dominio del gretto Naturalismo tedesco piccolo-borghese, questo mio modello è diventato un mostro di malvagia innaturalità, e per anni io sono stato diffamato come un moralista, impietoso inquisitore della Donna, un misogino adepto del diavolo. La qual cosa non pregiudica minimamente il genio interpretativo di una Gertrud Eysoldt. Al contrario, sono sempre stato convinto che Erdgeist [Spirito della Terra, n.d.t.], recitato così come io l’ho pensato e senza l’interpretazione che ne ha dato la Eysoldt dieci anni fa, avrebbe suscitato solo riprovazione e sdegno morale. L’attrice recitava proprio quel tipo di donna e di bellezza, che rispondeva al gusto artistico e letterario della Berlino di allora.26 Comunque, fin dall’inizio per me è stato il dottor Schön di

24 Wedekind, come al solito, non specifica, ma è assai verosimile che il teatro di corte di cui parla sia quello di Düsseldorf, di cui alla nota precedente. Induce a pensarlo il fatto che la rappresentazione di Leidenschaft fosse stata voluta dalla direttrice Louise Dumont, che – come già detto – era al tempo una delle attrici del teatro naturalista di Brahm. Nel suo Frank Wedekind als Ästhetiker, l’attore, drammaturgo e saggista Rudolf Blümner (1873-1945), all’epoca membro dell’ensemble di Reinhardt, sostiene che era inutile che Wedekind si scaldasse tanto: Leidenschaft era caduta ovunque. Blümner non metteva in discussione la qualità letteraria dei drammi di Eulenberg, ma riteneva che non fossero adatti al teatro; dunque, destinati sempre al fallimento. Cfr. R. Blümner, Frank Wedekind als Ästhetiker, «Der Sturm», n. 26, Berlin-Wien 25. August 1910, p. 205. 25 Steinrück è già stato menzionato nel saggio introduttivo. Anche su questa voce del glossario wedekindiano interviene Blümner (cfr. nota precedente), notando come il suo autore si contraddica: prima cita Steinrück come grande interprete ibseniano, anche se poco prima ha asserito che saper recitare Ibsen è ben poca cosa. E comunque, osserva, Steinrück proviene dall’àlveo del Naturalismo. Non sarebbe diventato il bravo attore che è recitando Schiller (cfr. Ivi). 26 È noto come Wedekind non fosse rimasto entusiasta dell’interpretazione della Eysoldt, primattrice dell’ensemble di Max Reinhardt, amatissima dai ‘moderni’ e indimenticabile prima interprete assoluta dell’Elektra di Hofmannsthal, allestita al Kleines Theater di Berlino dal regista austriaco il 30 ottobre 1903. L’interpretazione di Elettra produsse su Hofmannsthal una fortissima impressione per la recitazione espressivo-passionale e la ricchezza del movimento per ogni esternazione del sentire (C. Heininger: Ein Traum von großer Magie, Die Zusammenarbeit von Hugo von Hofmannstahl e Max Reinhardt, München, Herbert Utz Verlag, 2015, p. 65). Diversamente accadde a Wedekind con la sua Lulu, ma non si può escludere che sul

74

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Albert Steinrück la cosa più affascinante che con brutale intelligenza predatoria potessi immaginare. Albert Steinrück, un commovente Gabriele Borkmann, un demoniaco Costruttore Solness, attraverso la sua energia attorale punta più alla rappresentazione dei caratteri attivi e decisi, che non passivi e pensierosi. La nostra drammaturgia odierna non si cura più così tanto della glorificazione di stati paralitici come quella degli anni novanta. Essa esalta assai più la ferma intelligenza, la passionalità e il temperamento. Per questo non ha più bisogno di attori interpreti di sogni, ma di energie attorali. Se Albert Steinrück ha le mani libere, è una delle nostre maggiori speranze.

Gli infallibili27 Quando finì il regno del terrore piccolo-borghese del Naturalismo tedesco, la critica si sollevò in un grido di dolore e urlò: “della miseria e del morire del dramma tedesco!” – Ovviamente! I signori si devono riqualificare e ancora non hanno idea di ciò che c’è da apprendere.

Dilettantismo Davanti agli spiriti letterari di tutte le nazioni - oggi credo di essere ascoltato forse anche all’estero - con queste righe mi appello all’onore di categoria degli attori tedeschi professionisti. Da cinque anni, ovunque in Germania io compaia in uno dei miei drammi, essi s’intascano riconoscimento e elogi per il lavoro che io ho fatto e di cui l’attore non si cura per nulla. Di ogni ruolo che recito, da cinque anni la critica dice che qualsiasi interprete lo rappresenterebbe incomparabilmente meglio e che io, in quel ruolo, mi mostro un dilettante misero, incapace e insolente. A nessun attore, finora, è mai venuto in mente di dire o fare qualcosa riguardo una tale affermazione. Ora, io non voglio affatto contraddire la critica, addirittura non potrei augurarmi nulla di meglio se non che essa avesse assolutamente ragione; ma allora, onorati signori attori, dimostrate pure - almeno una volta - che siete legittimati, ovunque io mi mostri, a essere lodati a mie spese. Recitate finalmente, almeno una volta, un sano Kammersänger [Cantante da Camera, n.d.a.], visto che da cent’anni ormai siamo ben lontani dai mutili cantanti da camera. Recitate un Karl Hetmann [in Hidalla, n.d.a.], un Re Nicolo [in So ist das Leben (Così è la vita), n.d.a.], un Marchese di Keith [nel dramma omonimo, n.d.a.], un Marchese Casti Piani [in Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora), n.d.a.].28 Credete parere dello scrittore abbia influito il suo legame con Tilly Newes, l’altra interprete del personaggio wedekindiano. 27 «Nuove ingiurie contro il Naturalismo e contro la stampa», scrive Blümner, al quale sembrava che Wedekind non avesse mai letto una testata berlinese e così non si era accorto quanto lui e i critici avessero in comune. Entrambi, a suo dire, imprecavano contro il Naturalismo; entrambi parlavano in termini assolutamente generici, senza mai menzionare un nome; entrambi, cosa ancor più importante, scambiavano il Naturalismo con il Realismo. Solo in questo non s’intendevano, concludeva sarcastico Blümner: sul fatto che i critici ritenevano Wedekind il più grossolano di tutti i naturalisti. Cfr. R. Blümner, Frank Wedekind als Ästhetiker, cit., p. 206. 28 Su questa voce del glossario, Blümner interviene in modo più secco e deciso, sostenendo che bisognerebbe riconoscere, e dimostrare allo stesso Wedekind, che egli non è un attore. Ciò che lo scrittore tedesco fa in scena, a suo dire, non è altro che «portare all’ascolto del ruolo. Non comunica il testo al pubblico; in modo meno monotono e noioso di altri poeti quando leggono le proprie opere, bensì chiaro […] e pregnante. Ma dal punto di vista della recitazione, tutto ciò è nulla. Non si mette in scena una pièce perché il pubblico impari a conoscerla», continua Blümner. «Per questo c’è la lettura. Il teatro non può trasmettere pensieri, ma solo suoni e movimenti». E più in là, riferendosi ancora a Wedekind, sostiene di vederlo appartenere a quella schiera di drammaturghi che vogliono fare dell’attore un «sacerdote della parola del poeta», per quanto ricco di temperamento. L’attore deve invece, a suo dire, sulla base del ruolo dar forma a qualcosa di nuovo. «Poiché la poesia per l’attore non è più opera d’arte, ma materia grezza. Lo scrittore - invece - costretto dall’idea di

75

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario sia un onore per la recitazione tedesca, che il drammaturgo sia costretto a rappresentare da sé i suoi ruoli principali, quando non viene ridicolizzato dalla critica come goffo autore di drammi adatti solo alla lettura? Rispondetemi una buona volta a questa domanda. Se io non recitassi, mi accadrebbe come ai miei compagni di destino Arthur Vollmöller,29 Herbert Eulenberg, Josef Ruederer,30 Wilhelm von Scholz e alcuni altri, la cui tecnica teatrale per voi è arabo e viene perciò messa da parte, con una compassionevole alzata di spalle, dalla critica. Tuttavia, negli ultimi tempi avete trovato, anche per ciò che mi riguarda, una giustificazione alla vostra elegante indolenza. Ovvero, voi sostenete che i miei drammi sono talmente privi di contenuto, che nessun uditore se ne interesserebbe qualora non ricevesse in cambio del suo denaro, come merce di acquisto, la sensazione particolare di vedere agire sulla scena un autore drammatico in qualità di dilettante totalmente incapace. Inoltre, andate spargendo voce che non do il permesso di rappresentare le mie opere se io stesso non posso interpretarne i ruoli principali. Tutto questo, però, non vi è più di nessun aiuto. Dopo che per cinque anni, con allegra disinvoltura, vi siete gustati il riconoscimento per il lavoro che io ho svolto, in nome della vostra professione io oggi da voi pretendo che mostriate una buona volta come fate risaltare al meglio e artisticamente, com’è mio appannaggio, i ruoli: Gerardo, Karl Hetmann, Re Nicolo, Marchese di Keith. E solo quando avrete mostrato questo potrete anche, da allora in avanti, screditarmi pubblicamente per innalzare la vostra fama. Se doveste ignorare tale richiesta, sapremo dunque cosa aspettarci da voi.

Esecuzioni capitali31 Molto più che con le rappresentazioni, la drammaturgia contemporanea deve fare i conti con le esecuzioni capitali. La mia personale esperienza è scarsa, in confronto a quella dei miei colleghi. Il mio dramma So ist das Leben [Così è la vita, n.d.t.] è stato giustiziato a Monaco, Berlino e Francoforte sul Meno. Nella capitale tedesca il mio

cui è testimone, pretende dall’attore che esso la renda udibile e visibile. Perciò il drammaturgo non può rendere le sue stesse opere, ma al massimo interpretare le proprie idee». Infine, dichiara di voler accogliere la sfida di Wedekind e di volerlo surclassare nella rappresentazione dei suoi ruoli. R. Blümner, Frank Wedekind als Ästhetiker, p. 206. 29 In realtà sembra che qui Wedekind indichi Karl Gustav Vollmöller (1878-1948), collaboratore della rivista «Pan» e di «Simplicissimus», su cui – come si è visto nel saggio introduttivo – anche Wedekind pubblicò le sue ballate, le poesie e gli scritti satirici. Vollmöller era amico di Strindberg, Rilke, D’Annunzio, Gide e Stefan George: ruotava dunque nella cerchia prossima a Wedekind. Nel 1906 scrisse l’Antigone (basandosi sulla tragedia sofoclea), messa in scena da Reinhardt a Berlino. La vera notorietà di Vollmöller cominciò a diffondersi dal 1911, anno in cui a Londra – sempre con la regia di Reinhardt - debuttò la sua pantomima Das Mirakle (Il Miracolo). A un anno, dunque, dalla pubblicazione del glossario di Wedekind. Grazie al successo ottenuto, dalla pantomima nel 1912 venne tratto un film: una produzione austro-tedesca per la regia di Michel Carré e Max Reinhardt. Karl Vollmöller e Frank Wedekind appaiono peraltro accomunati da Dominik Jost nel suo Literarischer Jugendstil, Stuttgart, Metzlar, 1980, pp. 57-67. Di un Arthur Vollmöller, a dire il vero, non compare notizia. 30 Scrittore monacense di romanzi e opere teatrali, Josef Ruederer (1861-1915) ebbe contatti con la prima rivista naturalista «Die Gesellschaft» (fondata nel 1885 e attiva fino al 1902), che esercitò una notevole influenza sul clima culturale della capitale bavarese. Appartenne poi alla cerchia della Münchner Sezession (Secessione di Monaco) e nel 1901 fu tra i fondatori del Kabarett Elf Scharfrichter (Undici Carnefici) insieme a Wedekind. 31 Come già spiegato nel saggio introduttivo, con molta fatica Wedekind riuscì a imporre le sue opere nel circuito teatrale tedesco. I suoi drammi incontrarono l’ostilità di buona parte della critica, incapparono nelle maglie della censura e furono spesso tacciati di essere immorali e scandalosi, quando non assurdi e senza senso. Nel suo glossario, che sempre più procedendo nella lettura si rivela come un j’accuse rivolto al teatro del suo tempo, lo scrittore recrimina l’incomprensione e l’ottusità con cui fu giudicata la propria produzione drammatica in particolare, e più in generale tutta la nuova drammaturgia che tentava il definitivo superamento del retaggio naturalistico.

76

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Marquis von Keith [Il Marchese di Keith, n.d.t.], in dieci anni è stato distrutto due volte. Il mio Erdgeist [Spirito della Terra, n.d.t.] prima della sua messinscena berlinese è stato giustiziato ad Amburgo e a Breslavia. La mia innocente farsa: Der Liebestrank32 [L’Elisir d’amore, n.d.t.] è stata messa alla gogna a Lipsia, a Norimberga e a Breslavia. — Non vorrebbero gli attori, conformemente all’essenza del loro agire, rimpiazzare in occasione dei debutti la parola ‘rappresentazione’ [il virgolettato è mio, n.d.t.] con ‘luogo dell’esecuzione? [virgolettato nel testo, n.d.t.] — Anche l’ufficio del boia ha il suo onore professionale, quando le vittime non sono di poco conto. Ho letto recentemente un dramma di Herbert Eulenberg: Der natürliche Vater [Il padre naturale, n.d.t.].33 Una creazione eccellente. Ciò a cui tendevano Georg Büchner e Niebergall34 all’inizio del XIX secolo, ovvero valorizzare intensamente l’umore del renano, la sua esuberanza in tutte le manifestazioni della vita, Eulenberg lo ha creato nella forma più compiuta. Non mancano né la tensione, né l’accentuazione; non manca la varietà dei caratteri, né quella delle scene, sebbene ogni persona parli la lingua della turgida opulenza tipica di Falstaff. Non è inverosimile, esagerato? No, così parlano e sentono i renani. Ma – così sospiravo durante la lettura – chi mai dei nostri pessimisti, aridi, razionali idoli della moda privi di slancio, di eccessi e col fiato corto renderà giustizia a uno solo di questi ruoli! Mi figuravo le parole che a Eulenberg sono riuscite più degne di gratitudine agli attori, più succulente, mettere l’interprete in penoso imbarazzo; lo vedevo sorvolare via, guizzando su di esse, pudìco come una collegiale; perché privo a priori di ogni attitudine all’atmosfera, allo stato d’animo, per poter esprimere tali parole con naturalezza. Con malvagio presentimento mi figuravo già il compare E. Th. A. Hofmann35 che si comporta con Eulenberg come un liquore con una bottiglia di vino bianco del reno. E l’azione? Tanto più essa si sviluppa spedita e ricca di spirito, tanto più la vedo lenta e angosciosa trascinarsi, nella propria via Crucis, sulla scena tedesca. Pochi giorni dopo, a Berlino, Der natürliche Vater [Il padre naturale, n.d.t.] venne legato alla ruota della tortura. Se il mio modo di esprimermi è forse un po’ troppo forte, allora prego l’attore di ringraziare la critica per questo. Essa scrive: Eulenberg, fino ad ora una speranza, si è fatto ‘disperazione’ [virgolettato nel testo, n.d.t.].36

32 Si tratta della farsa in tre atti composta nel 1892, edita nel 1899 e rappresentata il 28 settembre 1900 allo Schauspielhaus di Zurigo. Successivamente nota con il titolo: Fritz Schwigerling oder der Liebestrank (Fritz Schwigerling o l’elisir d’amore). 33 Der natürliche Vater. Ein bürgerliches Lustspiel (Il padre naturale. Una commedia borghese) di Eulenberg apparve nel 1909 a Berlino e a Lipsia, rispettivamente per le case editrici Reiss e Rowohlt. 34 Ernst Elias Niebergall (1815-1843), nato e morto a Darmstadt, dove esercitò la professione di insegnante di storia, greco e latino. L’assai più famoso Georg Büchner (1813-1837) abitò a Darmstadt fino al 1831, quando si trasferì a Strasburgo. Sembra dunque che i due abbiano avuto modo di conoscersi, anche se la questione rimane controversa. 35 Ernst Theodor Amadeus Hofmann, 1776-1822. Uno dei maggiori e più noti esponenti del Romanticismo tedesco. Critico musicale, prima che scrittore, fu anche compositore e pittore. Tra le sue più celebri opere letterarie si ricorda il racconto Lo Schiaccianoci. La sua propensione al fantastico e all’horror avrebbe influenzato alcuni dei giganti della letteratura europea, come Edgar Allan Poe (1809-184) e Fëdor Dostoevskij (1821- 1881). 36 Effettivamente la critica non ci andò leggera, con l’opera di Eulenberg. Valga per tutti l’esempio del critico autorevole Alfred Kerr (1867-1948), il quale scrisse: «sempre parlando a vanvera; sempre sbadato; incontrollabile. Eulenberg spunta di qua e di là, si avviticchia, esuberante all’eccesso, si avvinghia, si arrampica, erompe. Tutto viene scritto senza la certezza della riuscita, zeppo di errori; tutto messo in modo incurante, una cosa accanto all’altra, ‘alla come viene, viene’». Per Kerr, dunque, la qualità della sua scrittura farebbe di Eulenberg solo un bravo dilettante dell’arte poetica: giudizio deprimente per un autore ambizioso, sebbene ancora giovane. Il parere di Kerr, riportato da Michael Matzigkeit in Literatur im Aufbruch. Schriftsteller und Theater in Dusseldorf̈ zwischen 1900-1933, Dus̈ seldorf 1990, p. 60, è stato consultato in J. A. Kruse, Der Schriftsteller Herbert Eulenberg (1876-1949), cit., p. 116.

77

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario

Fiorenza37 In un paese in cui non passa giorno nel quale non si senta dalla stampa di una nuova, grande impresa immortale di un qualche Regisseur geniale oltre misura, deve sembrare strano il fatto che un poema così ricco di figure plastiche, di drammaticità del dialogo, di effetti teatrali di ogni genere come Fiorenza di Thomas Mann, stia per compiere quattro anni; e che in questi quattro anni il dramma sia riuscito a essere rappresentato da non più di due palcoscenici. In forza della sua grandezza poetica e della sua bellezza, Fiorenza meriterebbe di essere da tempo nel repertorio di ogni teatro che si proclama sede dell’arte. E chiunque vuole avere voce in capitolo anche solo sulla regia e la tecnica teatrale, dovrebbe avere ormai in mente, fatta e finita, la sua propria messinscena di Fiorenza; come ugualmente ci si aspetta, ritenendolo ovvio e naturale, con il Faust di Goethe e i Räuber [I Masnadieri, n.d.t.] di Schiller. E invece che accade? Il teatro e la recitazione tedeschi da quattro anni mettono a tacere la nobile pièce, nonostante essa contenga nell’ultima scena, nel dialogo tra Savonarola e il morente Lorenzo d[e]i Medici, quanto di più sublime, geniale e drammaticamente efficace sia mai stato scritto per la scena in lingua tedesca. Oppure manca qualcosa, quanto a efficacia, nei rimanenti tre atti di Fiorenza? Il primo offre come apogèo il racconto di ciò che è accaduto nel Duomo. Il secondo porta in splendida schiera artistica il dialogo tra i fratelli, poi il duetto d’amore tra Fiore e Piero. Ciononostante il dramma sta lì, trascurato, da quattro anni e la nostra arte della regia si lascia nel frattempo osannare dalla critica, proclamando pubblicamente la miseria e la morte del dramma tedesco.

Per il pubblico Quando recentemente ho fatto la mia comparsa a Düsseldorf, ho suscitato negli attori un generale diniego del capo e un’alzata di spalle, perché pronunciavo la R arrotata, non giravo le spalle allo spettatore e perché non nascondevo le mie pièce dietro il sipario dell’elucubrazione. In breve, perché partivo dal barbarico presupposto che lo spettatore, in cambio del suo denaro, voglia sentire e vedere qualcosa. Ad ogni modo, io sono assolutamente convinto che il nostro teatro letterario, da vent’anni, sia per prima cosa troppo poco teatro, e per seconda cosa troppo letterario. È mia convinzione che da vent’anni il teatro letterario offra troppo poco piacere e troppo poco intrattenimento. Per questo, agli occhi di tutti gli snob e tutti i filistei dell’arte, io sembro un abominio. Del resto, conosco due attori, i quali a riguardo la pensano come me: Josef Kainz e Josef Jarno.38 Li ho sentiti entrambi, occasionalmente, esprimere l’opinione che persino il tetro Ibsen sia reso ancor più tetro, oggi, dai suoi grandi sacerdoti. Engstrand e il Pastore Mandes [in Spettri di Ibsen, n.d.t.], la cui comicità rimanda al maresciallo von Kalb [in Cabala e Amore di Schiller, n.d.t.], devono nolens volens servire alla composizione di oscuri destini umani. – Io ho replicato secco: Fa cassa. Anche se fosse Ibsen, oppure malgrado Ibsen e se Ibsen dovesse in proposito rigirarsi nella tomba.

37 Fiorenza è il titolo dell’opera di Thomas Mann messa in scena allo Schauspielhaus di Francoforte da Carl Heine - il régisseur che tenne a battesimo il debutto di Wedekind sulle scene - l’11 maggio 1907. Si rimanda al saggio introduttivo, in particolare p. 3, nota 14. 38 Circa i due attori qui menzionati si rimanda al saggio introduttivo e alle relative note esplicative a pie’ di pagina.

78

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

In tutti i miei drammi non si trova un ruolo maschile che io non abbia scritto per il grande, incomparabile Josef Kainz; o anche per Jarno. Quest’ultimo mi ha ringraziato con la sua inarrivabile rappresentazione del mio Marchese di Keith,39 Kainz con il suo caloroso interessamento per il mio Karl Hetmann [in Hidalla, n.d.t.]. 40 Entrambi posseggono in comune una dote oggi oltremodo rara: quella di recitare il ruolo come si cavalca un ostacolo. La routine attorica degli attori di routine incanta il pubblico cassando disinvoltamente ogni difficoltà con la matita rossa e recitando solo il rimanente piattume. Il grande, celebrato attore, 41 persiste invece su ogni singolo impedimento, come in un lavoro erculeo, festeggiando al contempo aride orge in pause che non finiscono mai. Quando e come giunge alla meta, ciò non lo preoccupa minimamente. Pure, il Naturalismo ha inculcato nel pubblico una pazienza, che quanto a indistruttibilità non può più essere superata da straccale alcuno.

Critica teatrale Nella situazione in cui oggi versa la nostra arte drammatica tedesca, io ritengo da principio falsa e insolente ogni critica che si arroghi il diritto di giudicare il valore o anche solo l’efficacia scenica di un dramma a seconda del suo eventuale successo. Posso fornire su due piedi, a chiunque, la prova che sono pienamente legittimato a pronunciare una tale dichiarazione. Negli ultimi anni non ricordo un solo caso d’importanza letteraria, in cui la critica, riguardo all’insuccesso di una rappresentazione, abbia parteggiato per l’autore, contro l’interprete. Invece, conosco decine di casi in cui è accaduto l’inverso. Ora, io sono però in grado provare, per quanto concerne una serie intera di drammi, che era l’osannato attore ad aver torto, non l’autore diffamato. La qual cosa liquida la critica che per il sommo onore della recitazione, ogni volta che le è possibile, mi definisce un impossibile dilettante. Tuttavia, mi sono convinto da tempo che la critica berlinese, sentendosi in questo legittimata dalla scarsa retribuzione monetaria, mini nel pubblico il buon comportamento, necessario allo spettacolo teatrale. – Così come quella di Monaco, con lo stesso sentire, ha rovinato negli anni, presso gli spettatori, il godimento per la rappresentazione drammatica. Per quanto mi riguarda, dall’intero capitolo dell’“abbrutimento della critica” [virgolettato nel testo, n.d.t.], io non ricavo altra morale se non che essa debba essere pagata più dignitosamente. Nell’intera, gigantesca macchina del teatro, in cui solo e soprattutto le grandi personalità sono onorate con compensi di favore, il critico è l’unico trattato come giornaliero, e pagato a cottimo. E potrei addurre molti, concreti esempi, di critici i quali, non appena hanno cominciato a essere compensati

39 Josef Jarno mise in scena Marquis von Keith (Il Marchese di Keith) allo Josephstadttheater di Vienna – di cui era direttore – il 29 aprile 1903. Jarno curò la regia e interpretò il ruolo principale, portando al successo l’opera che, come scrisse Hermann Bahr nelle sue Glossen, era stata dileggiata a Monaco e a Berlino. Cfr. H. Bahr, Marquis von Keith (Schauspiel in fünf Aufzügen von Frank Wedekind. Zur Aufführung am 29. April 1903 im Theater in der Josefstadt), in Id., Glossen zum Wiener Theater (1903-1906), cit., p. 396. 40 In realtà, come si è avuto modo di vedere nel saggio introduttivo, Wedekind avrebbe voluto fortemente vedere Kainz interpretare i suoi personaggi e specialmente il Marchese di Keith, che riteneva fosse tagliato a sua misura. Benché nel glossario egli giudichi insuperabile il Keith di Jarno, vale la pena ricordare che ancora tre anni dopo la messinscena dello Josephstadttheater, lo scrittore tedesco aveva sperato di vedere quel ruolo impersonato da Kainz. Alla lettura, però, Keith non piacque al grande attore del Burgtheater e alla fine, benché appassionato a Karl Hetmann e interessato a Re Nicolo, non avrebbe in realtà recitato nessuno dei ruoli di Wedekind. Non è escluso che la carica di primattore del Burgtheater, con un repertorio di tradizione e che difficilmente si apriva alle novità più ardite, possa aver giocato un ruolo in questo senso. 41 Non è chiaro se qui Wedekind parla in senso lato o si riferisca a un attore nello specifico. Io propendo per la seconda ipotesi e ritengo che il «grande, celebrato attore» sia proprio Josef Kainz.

79

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario decorosamente dai propri giornali, hanno iniziato anche a scrivere dignitosamente. Quando gli scrittori indipendenti ancora non guadagnavano nulla, anche tra loro dominava un tono brutale, persino più aspro di quello di oggi. Basti pensare alla lite Heine-Platen.42 Fatte salve rare eccezioni, oggi non ci si cura affatto gli uni degli altri. Perciò, se qualcuno dovesse mai sentirsi penalizzato da un critico, non cerchi la causa nel critico stesso, ma sempre nelle condizioni del giornale presso cui egli svolge la propria attività. Io so quale tempesta di sdegno scatenerò con una tale affermazione; pure, dal punto di vista economico, forse ho anche ragione. Bisognerebbe semplicemente vietare ai giornali di impiegare come critico uno scrittore al quale non sia consentito, al contempo, un lavoro fisso congruo alla sua attività intellettuale. Se un giornale non si attiene a questo, allora io in ogni circostanza mi atterrò sempre alla testata, e mai al critico. Detto altrimenti, io non chiederò: quali garanzie intellettuali ci sono circa l’imparzialità del giudizio pubblicato? — Perché questa domanda è del tutto inammissibile tra colleghi e può condurre a liti personali e infruttuose. Ma chiederò ancor più esplicitamente e accanitamente: quali garanzie materiali ci sono circa l’imparzialità del giudizio pubblicato? Di fronte a ogni proprietario di giornale il cui foglio danneggi un’impresa artistica attraverso critiche scritte in modo brutale o malevolo, richiamerò la frase ‘Quale vinum, tale Latinum’ come un’inconfutabile legge di natura. Poiché l’arte non ha bisogno della critica; ma il giornale ne ha bisogno con la massima urgenza. Un giornale senza critica non è un giornale. Un’arte senza critica c’è già stata al mondo, centinaia di volte. Chi come autore si lascia coinvolgere in una lotta con il critico, combatte tale battaglia a corpo nudo, contro una lama baluginante. E a che pro? — Se critico e autore fanno a cazzotti, il proprietario del giornale è Tertius Gaudens. Secondo la mia opinione, se però un giornale pubblica le recensioni di un critico, si assume con ciò anche il dovere morale e il maledetto onere di pagarlo in modo che egli senta a proprio agio nella sua posizione, e attraverso l’emolumento fornire la garanzia ufficiale contro il pericolo che nella critica, sotto forma di falsificazione dell’opinione pubblica, giungano a espressione risentimento personale e irritazione professionale. Credo inoltre sarebbe giusto che ogni autore guardasse sempre al critico solo come a un uomo al quale manca il tempo necessario. L’espressione: “Se avessi tempo” suonerebbe così come una battuta; ma sarebbe comunque una battuta di qualità etica superiore, conciliante e in moltissimi casi assai fondata. Poiché non c’è dubbio che la compilazione di una critica stesa con sentimento di responsabilità rappresenti un compito più difficile, più utile ed anche per l’arte di maggior valore, che lo scrivere pièce mediocri. Ritengo che ogni critico dovrebbe essere orgoglioso se l’espressione “Eh, se avessi tempo!” fosse pronunciata almeno una volta. Conosco il caso di uno scrittore il quale, dal giorno in cui è diventato un critico, non si è più seduto alla stessa tavola con i conoscenti di un tempo, gli artisti e gli autori. Sedeva nella stanza accanto, in compagnia della cerchia di artigiani e musici. Si autoassegnava la segregazione sociale che nel Medioevo era prescritta al boia; ma non per volontà propria, bensì perché tale confino gli era stato suggerito, quando non imposto, dal proprio giornale. E’ una vergogna.

42 Qui Wedekind si riferisce alla vivace controversia esplosa sul finire degli anni venti dell’ottocento fra il poeta Heinrich Heine (1797-1856) e il suo collega, il conte August von Platen (1796-1835). Nel 1827, Heine pubblicò come appendice alla seconda parte del suo Reisebilder un componimento del poeta Carl Laterecht Immermann (1796-1840), in cui si dileggiava la ‘nostalgia’ dell’Oriente. Platen, che già per le opere giovanili aveva guardato alla forma poetica orientale, si sentì preso di mira e attaccò Heine, puntando sulle sue origini ebraiche. Il collega rispose svelando l’omosessualità di Platen e nacque una diatriba che influì sulla decisione dell’autore dei Reisebilder di lasciare nel 1831 la Germania per recarsi a Parigi, dove morì.

80

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Come tutti sappiamo, e come provano centinaia di esempi onorevoli, critico e autore rappresentano diversi stadi di sviluppo della medesima professione. Sono collaboratori della stessa fabbrica. Mangiano lo stesso pane e si infilano il coltello nella propria carne, se si combattono l’un l’altro. Quello stesso critico, del resto, si premura di raccontare con assoluta disinvoltura, come un paragrafo del contratto offertogli in stipula dal suo giornale, riveli quanto esiguo sia l’onorario che gli viene corrisposto per la sua attività di recensore. Di quale giornale tedesco si tratta è questione su cui vorrei qui, per adesso, stendere un velo pietoso. Teniamolo bene d’occhio: perché un’arte fiorisca, anche l’artista che la esercita deve vigilare circospetto, come e per quanto possibile, finché il critico d’arte ha vita. Del resto, vista la sua assoluta imprescindibilità per la stampa quotidiana e considerato il numero relativamente esiguo di coloro i quali possono esercitarla con la vasta istruzione43 che essa richiede – in Germania li stimo in un numero di circa cinquecento - alla critica teatrale dovrebbe risultare assai facile dettare i compensi al di sotto dei quali è restia a collaborare. Hans Brandenburg44 una volta ha scritto una brochure dal titolo: “X. Y. dev’essere allontanato”.45 L’ho trovata assai utile, molto istruttiva e decisamente opportuna. Solo, il titolo sarebbe dovuto essere: “X. Y. Dev’essere pagato meglio”. Così avrebbe centrato il punto.

Il drammaturgo Non ci si può immaginare, oggi, nulla di più divertente e buffo del drammaturgo solerte dell’età del Naturalismo, il quale ogni autunno, prontamente, arrivava a Berlino con in tasca un nuovo dramma sociale, in cui riluceva un’unica passione: quella di diventare il successo della stagione entrante. Quale miracolo, che ancor oggi alla critica berlinese giri la testa! Se la pièce falliva, con la mente sconvolta l’indomani il drammaturgo riparava, prossimo alla follia, in Italia, o in un sanatorio. Ma se si fosse imposto, durante i successivi nove mesi, nulla in tutto il Creato sarebbe stato più indifferente al celebrato uomo di genio, dell’attività intellettuale. E che questa pubblica idiozia abbia cessato di essere, dovrebbe significare l’agonia del dramma tedesco?

43 Qui Wedekind inserisce una nota, il cui testo è il seguente: «Io stesso, per esempio, non sarei in grado di compilare recensioni, per il semplice motivo che mi manca il necessario sapere letterario». 44 Hans Brandenburg (1885-1968), si trasferì diciassettenne da Brema, sua città natale, a Monaco, dove esercitò la professione d’insegnante. Fu allievo di Artur Kutscher, il noto biografo di Wedekind: sotto di lui lavorò, durante il dottorato – che non portò a termine – a un’edizione delle lettere di Schiller (cfr. A. Nebrig., Disziplinäre Dichtung. Philologische Bildung und deutche Literatur in der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts, Berlin-Boston, De Gruyter, 2013, p. 84, nota 152). Attivo anche come editore, Brandenburg è noto soprattutto per le sue autobiografie di alcuni fra i maggiori poeti tedeschi, quali Goethe, per l’appunto Schiller e Hölderlin. Da segnalare inoltre l’interesse dello scrittore per la danza espressiva (l’Ausdruckstanz) e la sua partecipazione attiva agli esperimenti di Rudolph Laban (1879-1958), Mary Wigman (1886-1973) e Émile-Jacques Dalcroze (1865-1950) a Hellerau. Suo il volume Der moderne Tanz (la danza moderna), edito a Monaco da Georg Müller nel 1921. Autore nel 1926 di Das neue Theater (Il nuovo teatro), edito a Lipsia per la casa editrice Haessel, durante il nazismo Brandenburg si spese ufficialmente per un rinnovamento ‘nazionale’ del teatro tedesco. Nelle memorie giovanili, lo scrittore ricorda la sua frequentazione con Wedekind. Cfr. H. Brandenburg, München leuchtete. Jugenderinnerungen, München, Neuner, 1953. In particolare, si veda p. 14. 45 Cfr. H. Brandenburg, Hanns von Gumppenberg muss entfernt werden, E. W. Bonsels & Co., München-Schwabing 1907. La brochure consta di 15 pagine. Hanns von Gumppenberg (1866-1928) era, oltre che un critico teatrale, anche un poeta, un traduttore e un cabarettista (fu uno degli Elf Scharfrichter, insieme a Wedekind). Soleva, talvolta, usare gli pseudonimi Jodok e Professor Immanuel Tiefbohrer. Appartenente alla cerchia della Münchener Moderne, Dal 1901 al 1909 esercitò l’attività di critico teatrale per le «Münchener Neuesten Nachrichten». Dal 1910 al 1913, fu co-editore del nuovo giornale artistico-letterario «Licht und Schatten. Wochenschrift für Schwarz-Weiß-Kunst und Dichtung».

81

Frank Wedekind, Recitazione. Un glossario

Regia forzata46 L’espressione regia forzata [Parforce-Regie n.d.t.] viene da Wilhelm von Scholz,47 che per questo io ringrazio qui pubblicamente. Parforce-Regisseur è uno che non si fa mettere in ombra da nessun poema, per quanto potente possa essere. In uno dei miei drammi, il regista forzato paventava di essere alfine lasciato in ombra da una delle scene di maggior effetto. Cosa fare? Si aiutò portando in scena, senza che vi fosse in proposito motivazione alcuna, un asino vivo e vegeto. L’esperimento riuscì brillantemente. Il mio testo cadde, ma l’asino fu osannato dall’intera critica.48

I miei amici Nell’anno 1897 approdai al teatro. Non per vanità, la mia vanità da dieci anni era stata la scrittura, e ancora oggi lo è. Neanche per far risaltare le mie pièce, ma per il semplice motivo che sotto il dominio del Naturalismo non era facile andare avanti per chi, riguardo alla scrittura, la pensava diversamente. Fui ingaggiato non come drammaturgo, né come Regisseur, ma subito come attore. Ho recitato nei drammi di Max Halbe, Hermann Sudermann e Gerhart Hauptmann;49 in un tempo in cui solo Halbe non riteneva lesivo per la sua dignità avere a che fare con un tale avventuriero come con un suo pari.50 Ma io non fui di gran lunga il solo, preso nell’orda della problematica esistenza, per il quale Max Halbe ebbe all’epoca un cuore aperto e una casa aperta. Mentre il gusto dominante [il gusto del Naturalismo, n.d.t.] esperiva la

46 Nelle righe a seguire, Wedekind sembra riconoscere il pericolo della prevalenza del regista e dello scenografo, all’interno della rappresentazione, tanto sul drammaturgo, quanto sull’attore. Parlando di Parforce- Regie (questo è il titolo della peraltro brevissima voce del glossario), l’autore rimanda indirettamente al nome di Max Reinhardt, la cui prassi teatrale suscitò sempre, in lui, un sentimento ambivalente (basta guardare l’incipit delle pagine a lui dedicate, qui nel glossario). Come osserva Vinçon, da una parte Wedekind vedeva Reinhardt come un ‘superatore del Naturalismo’ e riconosceva in lui il creatore di un’arte nuova, di un nuovo stile scenico; dall’altra, nella sua regia, vedeva il pericolo di un teatro troppo incentrato sullo sfoggio dell’effetto tecnico-visivo. Cfr. H. Vinçon, Frank Wedekind, cit., p. 76. 47 Nel 1905, von Scholz pubblicò i Gedanken zum Drama und Andere Aufsätze Über Bühne und Literatur, riapparsi in nuova edizione ampliata nel 1915. Qui, al capitolo Über Regiekunst, dichiara che «essere regisseur significa: potersi fare invisibile. Significa: sviluppare la prestazione di qualcun altro alla sua altezza precipua. Significa: servire gli altri, mentre li si guida» W. von Scholz, Gedanken zum Drama, Monaco, Georg Müller, 1915, p. 100. 48 Wedekind sta forse parlando della sua Musik (Musica): in quel testo, la quarta scena del secondo quadro comincia con Joseph che ansimando dice a Klara: Da geht der Esel hin! (L’asino va di là!). L’opera debuttò l’11 gennaio 1908 all’Intimes Theater di Norimberga, con la regia di Emil Meßthaler (1869-1927) – riscuotendo un buon successo - e dal 18 febbraio con Wedekind nel ruolo del letterato Franz Lindekuh. Venne poi allestita il 26 settembre al Münchner Schauspielhaus da Georg Stollberg e il 31 ottobre al Kleines Theater di Berlino diretto da Victor Barnowski. Al Kleines Theater tornò quattro anni dopo, con la regia dello stesso Wedekind, il 7 giugno 1912. Il 14 ottobre dell’anno successivo andò in scena al Deutsches Volkstheater di Vienna, con la regia di Hubert Reusch. Anche non si trattasse di Musik, non è stato possibile finora trovare traccia di una messinscena di un testo wedekindiano in cui sia comparso in scena un asino vivo. Io credo si tratti di uno ‘scherzo’ di Wedekind e il mio parere è condiviso dal Prof. Hermut Vinçon, direttore della Frank Wedekind Gesellschaft di Darmstadt. Interpellato privatamente, il prof. Vinçon ritiene che l’aneddoto sia stato inventato per dileggiare quei registi che ancora nel 1910 si facevano promotori di un piatto stile naturalistico. 49 Data l’estrema genericità dell’affermazione di Wedekind, è assai difficile definire con esattezza i ruoli interpretati e risalire alle date delle rappresentazioni. Il rimando è però, con tutta probabilità, ai primi anni di Wedekind attore: quelli passati al Teatro Ibsen di Carl Heine – dove recitava, lo ricordiamo, sotto lo pseudonimo Heinrich Kammerer – e agli inizi con il Teatro di Monaco diretto da Stollberg. 50 In Mensch, Gott und Teufel, Halbe racconta del primo incontro con Wedekind a Monaco, al Café Luitpold, nel 1892. I due si giurarono, allora, amicizia eterna. Cfr. A. Regnier, Frank Wedekind. Eine Männertragödie, cit., p. 105. Lo scritto di Max Halbe è contenuto in Id, Sämtliche Werke, Salzburg, Das Bergland-Buch, 1945, vol. 2, pp. 309-311.

82

AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019 sua massima sopravvalutazione, egli procedette con fanatico ardore, appoggiando la minoranza. Per la pienezza della sua partecipazione e per la sua prontezza all’aiuto, che egli vide come il risultato ovvio e conseguente della sua fortuna, non gli è stato reso grazie abbastanza. Involontariamente, parlo di un amico, mentre volevo parlare di amici. I miei amici di allora erano gli attori, e lo sono rimasti fino ad oggi. Per il mio più profondo rimpianto, probabilmente ora sarà diverso. 51 Per questo dobbiamo ringraziare solo la critica quotidiana. L’attore, se considera importante l’arricchimento artistico della sua professione, non mi può rimproverare che io perda infine la pazienza di fronte al continuo affannarsi di un giornalaccio sordo a ogni autentica tensione artistica, e a giustificazione dei miei compagni d’armi e di me stesso ne riveli l’ottusità. Io non lotto contro una classe, ma contro una situazione. Io non lotto per sopprimere, ma per svegliare a nuova vita. Ho la ferma convinzione, che questa faida verrà liquidata in tempi sorprendentemente brevi. Dopodiché si ristabilirà, su basi ancor più salde, l’amicizia di una volta; poiché forse avremmo da ringraziarci reciprocamente più di quanto fino ad ora, purtroppo, sia stato il caso.

51 Wedekind è perfettamente conscio che le accuse lanciate agli attori professionisti lungo tutto il glossario, saranno destinate a inasprire ancor più i suoi rapporti con la categoria. Come però si premura di far notare più avanti, i suoi attacchi non sono rivolti agli attori tout-court, all’intera classe degli attori, ma alla situazione in cui versa la recitazione, a causa dell’assoggettamento degli interpreti alle ‘bieche’ direttive del Naturalismo.

83

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Antonio Pizzo

Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina*

Gli esordi Nel 1979 la scena italiana scopre un giovane attore bolognese che, con un monologo di Carlo Terron, raccoglie i consensi del pubblico e della critica interpretando il ruolo di una vecchia diva del varietà.1 Negli anni in cui nella ricerca teatrale s’imponeva la Postavanguardia del teatro analitico- esistenziale, emergeva l’arcipelago del Terzo Teatro e si scopriva la nuova spettacolarità tecnologica, Erio Masina metteva in scena un monologo degli anni Cinquanta e proponeva un genere en travesti ‘serio’, privo di elementi parodistici2. In breve, divenne famoso per i suoi personaggi femminili, grotteschi, intensi e drammatici allo stesso tempo, ed ebbe una singolare carriera nel panorama italiano, fino a un improvviso ritiro nel 1988. L’incontro di Masina con il teatro risale al 1970 quando, ventiduenne ragioniere nell’ufficio pubblicità del «Resto del Carlino», partecipò a uno dei numerosi collettivi teatrali che fiorivano in quegli anni.3 Era il GTV (Gruppo Teatrale Viaggiante), uno dei primi gruppi di teatro politico italiani, attivo già da dieci anni a Bologna, fondato da Luciano Leonesi, e che faceva base al Teatro Sanleonardo4. Del gruppo era entrato a far parte anche lo scrittore Loriano Macchiavelli, oggi affermato giallista, che in quegli anni s’adoperava per un teatro che fosse tutto orientato su temi di militanza politica. Proprio su un testo di Macchiavelli, La Comune di Parigi, il regista Leonesi chiese a Masina di ricoprire il ruolo di un giovane operaio. Seguendo la consolidata impostazione corale del gruppo, lo spettacolo coinvolgeva numerosi interpreti e riscosse l’interesse sia di un pubblico affezionato e partecipe sia della stampa locale. Anche Masina ottenne lodi incoraggianti e restò nel gruppo per i cinque anni successivi, in

* Allegati all’articolo: materiale iconografico, consultabile on line. (www.actingarchives.it). 1 Erio Masina è nato il 14 novembre 1948 a Bologna. 2 Per la sperimentazione teatrale in quegli anni cfr. M. Valentino, Il nuovo teatro in Italia 1976- 1985, Corazzano, Titivillus, 2015. 3 Le informazioni sull’attività di Erio Masina, se non altrimenti indicato, sono tratte da un’intervista con l’attore registrata a Bologna il 2 luglio 2018 e da una corrispondenza intercorsa tra gennaio e marzo 2019. Da queste fonti deriviamo anche il dialogo che pubblichiamo in appendice. 4 Cfr. C. Meldolesi, P. Ferrarini (a cura di), Luciano Leonesi maestro di teatro a Bologna, Roma, Bulzoni, 2008.

© 2019 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it

84

Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

altri due spettacoli: uno sulla questione palestinese (Voglio dirvi di un popolo che sfida la morte del 1972) e l’altro sul Vietnam (I Pioli di Bach – Dang del 1974).5 In quegli anni Masina manteneva la sua occupazione da ragioniere (era intanto passato a una compagnia d’assicurazioni) ma iniziava a ipotizzare una carriera da professionista, e dedicava sempre più tempo ed energie al lavoro di attore (iniziò a studiare dizione). La svolta avvenne nel 1974, quando con alcuni componenti del GTV, tra cui Guido Ferrarini e Renzo Dotti, accogliendo un suggerimento del pittore Gian Marco Montesano e della sua allieva Maria Grazia Mangiotti, concepirono uno spettacolo non su un tema politico specifico (come era stato fino ad allora) ma sulla figura di Eleonora Duse. L’occasione era data dal cinquantenario della morte della diva e il gruppo intendeva coglierla per allestire una sorta di varietà storico artistico in cui avrebbero messo in luce la coincidenza tra la morte della Duse e l’ascesa del Fascismo. Maria Grazia Mangiotti costruì un collage di materiali eterogenei (racconti, poesie, lettere), tutti del primo Novecento. Il titolo, Duse Duse… Duce Duce intendeva riassumeva in un cambio di consonante una trasformazione ben più profonda della società italiana. Il testo manteneva ancora il carattere corale delle produzioni precedenti ed era costituito da una serie di quadri scenici collegati da un nesso tematico più che logico, nei quali intervenivano numerosi personaggi. Nel tempo che passò tra l’elaborazione del testo, la distribuzione dei ruoli e le prove, avvenne la definitiva separazione del GTV e la creazione del gruppo ‘Teatro Aperto’. In questo processo però avvenne qualcosa che avrebbe dato una direzione diversa e originale al lavoro. Masina, tra i principali animatori di questa iniziativa, avrebbe ritagliato per sé un ruolo centrale; ma questa volta, dopo i virili rivoluzionari dei testi di Machiavelli, avrebbe interpretato una donna, la Duse. Il suggerimento fu del pittore Montesano che immaginava così di mettere in evidenza il carattere androgino della figura per evitare il bozzetto biografico a favore di un’aura più mitica. Lo spettacolo andò in scena per la prima volta nel 1975, in un circolo Arci del quartiere Corticella di Bologna, accolto dal favore del pubblico.6 I timori che Masina ricorda, nel momento in cui accettò il suggerimento, erano fondati. A quell’altezza storica non erano ancora apparse le performance dei vari teatri gay militanti. La famosa Traviata Norma, nella quale diciassette componenti dei Collettivi Omosessuali Milanesi, ‘scheccando’ variamente travestiti, provocavano il pubblico milanese (e poi

5 Alcune pagine dei copioni utilizzati durante il lavoro con il GTV sono custodite dall’attore (Archivio privato Erio Masina). Loriano Macchiavelli ha recentemente riproposto alcuni dei suoi lavori di quel periodo nella sezione ‘teatro’ del suo sito web http://www.loriano- macchiavelli.it/. 6 s.n., «Duse Duse Duce Duce», «Avanti!», 10 dicembre 1975.

85 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

fiorentino e romano), sarebbe apparsa solo l’anno successivo.7 Della tradizione del teatro en travesti in Italia, in quegli anni restavano solo le prime folgoranti apparizioni in abiti femminili di Paolo Poli (famosa la sua partecipazione nel varietà Milleluci del 1974), le farse allestite dalla compagnia dei Legnanesi, o le collaborazioni di Dominot (Antonio Jacono) e Vinicio Diamanti con i teatri d’avanguardia romani.8 Nella maggior parte dei casi, il travestimento sopravviveva in chiave parodistica o quale elemento di trasgressione; era un modo per ridicolizzare gli stereotipi femminili o per mettere in evidenza l’ambiguità sessuale del travestito. Nel carosello storico artistico del Teatro Aperto, l’assenza di corrispondenza di genere tra interprete e personaggio non aveva scopi parodistici o politici ma era un modo per coprire il vasto numero di figure e ruoli, e rifletteva il carattere collettivo della formazione. Certo rifletteva anche una cultura teatrale smaliziata in cui, alla relazione intima e psicologica tra personaggio e attore, si preferiva la possibilità di arricchire la caratterizzazione utilizzando i tratti dell’attore o dell’attrice (al di là del suo sesso). Ma è indubbio che la proposta piacque e lo spettacolo fu replicato moltissime volte nei due anni successivi. Anche la stampa locale lo apprezzò, sebbene ne ricevesse un’impressione generale ancora legata al «gioco teatrale di travestimenti, di imitazioni, di siparietti» che strizzava l’occhio all’avanspettacolo.9 Questa prima prova mise anche in luce le qualità di Masina del quale infatti un recensore notò «l’efficace interpretazione».10 L’interprete stava rapidamente maturando e alla fine convinse alcuni compagni a dare allo spettacolo una forma meno cabarettistica, organizzando i materiali in modo più unitario. Elaborarono un testo per solo quattro attori (Masina, Maria Grazia Mangiotti, Renzo Dotti e il piccolo Claudio Cavina) in cui i brani di Cuore e di La signora delle Camelie, epistolari della Duse, poesie di Palazzeschi, scritti di Giacosa, poesie di D’Annunzio, erano legati insieme dalla figura dell’attrice e sorretti da una miscellanea musicale che variava dalla canzone napoletana ai valzer di Strauss. Questa nuova direzione segnò la rottura con gli altri componenti ma fu anche l’inizio del lavoro registico e autoriale di Masina che individuò toni e modi che convinsero sempre di più il pubblico e la stampa. Nell’ottobre del

7 Cfr. Collettivo Nostra Signora dei Fiori, La Traviata Norma, Milano, L’erba voglio, 1977; riprendo il verbo ‘scheccare’ da una delle prime didascalie del testo «si accendono le luci in scena. Le checche scheccano», p. 6. D. Quarta, La Traviata Norma. Espressioni formali di una minoranza nel movimento del ’77, «RIDS» (Romansk Instituts Duplikerede Småskrifter), no. 81, 1981. 8 Cfr. A. Jelardi (a cura di), In scena en travesti, Roma, Libreria Croce, 2009; M. Boggio, Dominot: Racconto confidenziale di un artista en travesti, Roma, Armando Editore, 2016. 9 s.n., Lavoratori e studenti insieme sulla scena, «L’Unità», 24 dicembre 1975. 10 Debutto a Corticella del «Teatro Aperto», «Alla Ribalta», Anno VII, n. 1, 5 gennaio 1976.

86 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

1977, «Sipario» lodò convintamente il «bravissimo» Masina per i «moduli espressivi contemporanei, e le tecniche teatrali aggiornatissime».11 Nel giro di due anni, il Teatro Aperto aveva fatto fruttare una scelta originale, nata quasi per caso, che si sarebbe rivelata in singolare sintonia con una nuova sensibilità teatrale che emergeva proprio nello stesso periodo. Infatti, in quei due anni anche il travestimento femminile a teatro stava cambiando. Proprio in quegli anni, il teatro en travesti era stato traghettato dalle discoteche direttamente in televisione con il successo delle Sorelle Bandiera a L’altra domenica di Renzo Arbore. Le raffinate rivisitazioni dei generi letterari di Paolo Poli erano ormai consolidate nel panorama italiano, e la stampa lo considerava il campione dell’en travesti; un filone rinvigorito dall’apparizione del giovane Leopoldo Mastelloni e, non ultimo, dal successo di La gatta cenerentola di De Simone nel 1976.12 Ma ci fu anche l’esplosione del fenomeno del teatro gay militante. Mario Mieli aveva fatto seguire altre performance al successo della Traviata Norma, il collettivo KTTMCC aveva presentato il suo Pissi Pissi Bau Bau a Parma, Alfredo Cohen girava già da un paio d’anni con i suoi recital a tematica omosessuale e avrebbe iniziato la carriera teatrale nel 1978 con Mezzafemmena e Zi’ Camilla; Ciro Cascina elaborava il suo monologo Madonna di Pompei.13 Una diversa e nuova riflessione sulla sessualità e sull’identità di genere spingeva il travestimento oltre la comicità parodistica e lo rendeva un elemento dirompente sul piano culturale e politico.14 Sebbene la presenza di attori, attrici e artisti in ruoli en travesti abbia sempre contenuto ammiccamenti all’identità sessuale, sul volgere degli anni Settanta quella pratica aveva smesso di essere a beneficio di una cerchia circoscritta in grado di decifrare codici sottesi, e diventava un discorso pubblico: il travestimento iniziava ad essere una parte delle pratiche spettacolari del movimento di liberazione omosessuale. In questo rapido cambiamento, Bologna ebbe un ruolo centrale: non solo vedrà nel 1982 la fondazione del Cassero ma già dal 1977 ospitò il Collettivo frocialista, animatore di numerose iniziative culturali e artistiche.15 Dalla prima versione collettiva del 1974 a quella con quattro attori del 1977, la scelta di interpretare il personaggio di Eleonora Duse assunse tratti più

11 G. Liotta, Duse Duse… Duce Duce, «Sipario», XXXII, n, 377, ottobre 1975. 12 Cfr. T. Megale, Paolo Poli l’attore lieve, Bergamo, Istituto Grafico Bergamo, 2009; Annamaria Sapienza, Il segno e il suono. La gatta cenerentola di Roberto De Simone, Napoli, Guida, 2006. 13 S. Casi (a cura di), Teatro in delirio, «Quaderni di critica omosessuale», n. 7, Bologna, Il Cassero, 1989. 14 G. Dorfles, G. Buttafava, G. Romoli, P. Delconte, C. Romano (a cura di), Gli uni e gli altri. Travestiti e travestimenti nell’arte, nel teatro, nel cinema, nella musica, nel cabaret e nella vita quotidiana, Roma, Arcada, 1976. 15 G. Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia. Milano, Feltrinelli, 1999.

87 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

definiti perché l’interprete aveva ormai intorno a sé uno spettro articolato di possibilità i cui significati non erano più latenti bensì espliciti e organizzati. Un discorso tanto articolato da poter comprendere al proprio interno varianti e declinazioni diverse. E così Masina poteva mirare a coprire una specifica area di ricerca sull’interpretazione femminile, in cui l’interprete adottava il travestimento, senza la tradizionale parodia del genere en travesti, e ne utilizzava la potenza discorsiva, legandola all’identità del personaggio e non alla militanza omosessuale. A quel punto, anche la stampa poteva discernere approcci diversi. «Sipario» descrisse Masina come più misurato e contenuto di Paolo Poli e meno intellettualistico e più convincente di Leopoldo Mastelloni.16 Per il ruolo della Duse, Masina studiò un tono partecipato e melodrammatico evitando di sottolineare sia i tratti del proprio sesso sia i segni del travestimento. Il suo corpo longilineo, i grandi occhi chiari e la folta capigliatura scura e riccia diventarono elementi caratterizzanti di una figura androgina, delicata e a volte nervosa che colpiva per l’intimità che stabiliva con il personaggio. La nuova organizzazione del testo insieme alla interpretazione di Masina ebbero ancor più successo della prima versione e lo spettacolo, dopo una felice tappa Torinese, andò a Roma nel dicembre del 1977 restandoci fino gennaio 1978.17 Le settimane passate al teatro Alberico di Roma lanciarono Masina sul panorama nazionale; una stella nascente promossa anche da un’accorata lettera che Giuliano Scabia scrisse a tutti i giornali romani invitando intellettuali ed artisti ad andare a vedere «l’attore più donna e uomo e uomo e donna» che aveva visto.18 La critica, sebbene notasse ingenuità e approssimazioni nel testo, apprezzò l’interprete e iniziò a seguirlo con interesse.19 Però, tutto quel battage attrasse anche l’attenzione degli ex compagni con i quali lo spettacolo era nato: alcuni di loro ne rivendicavano la paternità e ne ottennero il sequestro. La tournée dello spettacolo dovette essere interrotta per alcune settimane e riprese solo dopo la risoluzione delle questioni legali. Fu un’altra separazione dalla quale nacque il nuovo gruppo: la Compagnia Teatro Aperto di Erio Masina, che restò attiva per i dieci anni successivi.20

16 G. Liotta, Duse Duse… Duce Duce, «Sipario», XXXII, n, 377, ottobre 1975. 17 M.S., Un cambio di consonante, «Gazzetta del Popolo», 8 dicembre 1977; O. Guerrieri, La divina Duse il «Cuore», il Duce, «La Stampa», 9 dicembre 1977. 18 Giuliano Scabia aveva visto lo spettacolo a Bologna e aveva incitato la compagnia a portarlo in altre città. Pertanto aveva inviato una lettera a numerose testate romane. Il testo completo della lettera è pubblicato da «Lotta Continua», 20 dicembre 1977 mentre un estratto è contenuto in F. Cordelli, Una nuova scena per la Duse «alta, ricciuta, ermafrodita», «Paese Sera», 19 dicembre 1977. 19 A. Savioli, Duse Duse… Duce Duce, «L’Unità», 28 dicembre·1977; A. Ciullo, La Duse è un uomo, «Paese Sera», 30 dicembre 1977. 20 Il risultato della scissione avvenuta in occasione delle repliche romane fu che, da allora, operarono due compagnie con sede a Bologna (come si legge nell’ Annuario dell'Istituto del

88 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

Il successo nazionale Nell’attesa che lo spettacolo venisse dissequestrato, per non perdere le opportunità aperte dalla tappa romana, Mangiotti s’impegnò nella creazione di un nuovo spettacolo da portare in giro. C’era bisogno di un testo che permettesse di proseguire il gioco di trasformismo che già aveva premiato la compagnia e sfruttasse ancor di più l’interpretazione femminile di Masina. La scelta cadde su La locandiera di Carlo Goldoni, che fu adattato distribuendo il testo su tre attori: Masina sarebbe stato la protagonista ma anche il Conte di Albafiorita e Ortensia la commediante; Mangiotti avrebbe interpretato il Cavaliere di Ripafratta e il Marchese di Forlipopoli (più una servetta); Dotti aveva il ruolo di Fabrizio, quello della seconda commediante Dejanira e un Duca (un personaggio inventato per esigenze sceniche e al quale erano attribuite le battute del Conte nei dialoghi con Mirandolina). Dopo una prima a Crevalcore lo spettacolo ebbe una settimana di repliche al Teatro dell’Archivolto di Genova. Fu accolto con convinto plauso dal pubblico e dalla critica, e restò in repertorio fino al 1983 girando tutta la penisola (anche se Mangiotti fu sostituita prima da Nino Campisi e poi da Gianni De Feo). Le recensioni riconobbero il proseguimento del trasformismo teatrale apprezzando però soprattutto «l’accattivante riflessione sulla libertà di fare teatro», l’invenzione, il sarcasmo, le trovate beffarde, coordinate in uno spettacolo omogeneo e compatto.21 La compagnia aveva indovinato una cifra che metteva in luce tratti non solo comici del testo ma anche interpretazioni più personali, senza appesantirlo e giocando piuttosto a svelarne un ipotetico originario travestimento. Sebbene non cambiasse le parole di Goldoni, la messa in scena metteva in luce il gioco di seduzione sessuale: era stato inserito anche un prologo in cui il Cavaliere di Albafiorita, davanti al sipario chiuso, cantava (in playback) La ballata della schiavitù sessuale di Brecht.22 Su questa linea, l’azione sviluppava il triangolo tra Cavaliere, Mirandolina e Fabrizio, e si chiudeva con una rapida trovata scenica in cui una ‘imprevista’ riapertura del sipario, sorprendeva a letto un inedito ménage a trois. Il buon esito dello spettacolo coincise anche con una via personale all’interpretazione dei ruoli femminili. La caratterizzazione riduceva al

dramma italiano): la ‘Compagnia Teatro Aperto’ (guidata da Guido Ferrarini) e ‘Compagnia Teatro Aperto di Erio Masina’. 21 A.V., Mirandolina cambia sesso, «Il Secolo XIX», 25 maggio 1978. 22 La ballata della schiavitù sessuale è cantata dalla Signora Peachum nel secondo atto dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht con le musiche di Kurt Weill. Il prologo, sebbene non previsto nel copione, è presente nel video dello spettacolo (registrazione del marzo 1982 presso il Teatro delle Muse di Roma – Archivio privato Erio Masina) e confermata in Marco Palladini, …e Mirandolina confessò: «Ma io non sono una ragazza», «L’Umanità», 16 febbraio 1982. La presenza di Brecht e Weill nella colonna sonora è testimoniata dalle recensioni fin dalla prima edizione dello spettacolo.

89 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

minimo la caricatura dei tratti esteriori (trucco, costumi, parrucche, movenze) per lasciare l’indicazione del genere solo alle battute e all’aspetto naturalmente efebico dell’interprete. Masina costruì la caratterizzazione femminile del personaggio fondandola sulla credibilità delle intenzioni. Mentre nel personaggio del Conte, ad esempio, aveva disegnato uno dei personaggi più effeminati della sua carriera (voce quasi in falsetto, corpo un po’ instabile su i piedi che si reggevano sempre sulle punte, e con in braccio un piumato galletto impagliato), al contrario, la sua Mirandolina era ben piantata, con voce con toni anche bassi e movenze sempre dirette. Una recensione sull’Unità lo descriveva come personaggio «robusto, fosco, misterioso», «virile».23 Nel primo caso utilizzava i segni dell’effeminatezza per un personaggio maschile nel secondo quelli della mascolinità in un personaggio femminile.24 Dunque, la tecnica che Masina stava sviluppando in questi anni mirava a far reagire il personaggio femminile con i tratti della propria persona. Non intendeva far sparire la differenza di genere tra ruolo e interprete bensì utilizzarla per mettere in luce elementi presenti nella drammaturgia, e non a fini non parodistici. Chiaramente, quando la Mirandolina di Masina confessava al Cavaliere «Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto…», il travestimento aggiungeva un doppio senso comico che però non era il fine dello spettacolo. Il tema del desiderio sessuale era l’elemento cardine per la costruzione di tutti i personaggi. Fabrizio desidera la padrona ma è impacciato dalla propria condizione subalterna che contrasta con la sua ‘superiorità’ maschile. Il Cavaliere di Ripafratta è un giovanotto la cui risolutezza verbale nasconde (e nemmeno tanto) l’immaturità sessuale. Mirandolina è sicura dei suoi desideri e li segue senza alcun dubbio. Sessualità e genere sono un peso nei primi due casi mentre diventano elementi di potere nel secondo. Per la sua Mirandolina, Masina non usa i tratti dell’effeminatezza ma quelli del gay liberato, orgoglioso dei propri desideri e della propria identità, e rappresenta una locandiera sicura di sé che fa perno sulla propria avvenenza sia per guidare il giovane nobile alla scoperta del sesso sia per tranquillizzare il promesso sposo: alla fine, appunto, si troverà a letto con entrambi. Ed è una direzione registica che diventa più precisa per la rappresentazione alla rassegna ‘Estate a Napoli’ nel 1981, dove Mangiotti (impossibilitata a continuare le repliche per la sopraggiunta gravidanza) fu sostituita da un attore (Nino Campisi e poi, l’anno successivo, Gianni De Feo). Nella prima versione, l’immaturità sessuale del Cavaliere era (forse troppo semplicemente) descritta dal genere dell’interprete. Però Masina

23 M.S.P., Sorpresa! La locandiera è un uomo, «L’Unità», 12 febbraio 1982. 24 Derivo questa distinzione di tratti dalla distinzione tra camp e straight in Thomas A. King, Performing ‘Akimbo’, in M. Meyer (a cura di), The Politics and Poetics of Camp, New York, Routledge, 1994, pp. 23-50.

90 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

riteneva che il genere sessuale dell’attrice, per ragioni culturali, avesse il sopravvento su quello del ruolo. In questi termini, possiamo supporre che il triangolo di seduzione acquisisse un significato che non corrispondeva ai suoi progetti. Se, come sostiene Masina, la femminilità di Mangiotti era così evidente, malgrado il travestimento, allora, in quel triangolo, Mirandolina rischiava di diventare il terzo polo trans, una sorta di Frank-N-Furter del Rocky Horror Picture Show che seduce entrambi i sessi. La seconda versione obliterava il tema della inversione di genere (le donne che fanno gli uomini e viceversa) ma si concentrava unicamente sulla possibilità di far emergere i lati mascolini della figura femminile. Almeno nelle opinioni di Masina, nei panni di Mirandolina, lui riusciva a fare apparire un personaggio femminile potenziato (e non offuscato) dalle caratteristiche maschili; una mascolinità che consisteva proprio nella sua abilità di agire sul mondo, nella sua capacità di liberarsi dai lacci sessuofobici e gli permetteva di guidare gli altri due uomini. Lo spettacolo ebbe successo in tutte le sue riedizioni e fu l’opportunità di entrare nel circuito teatrale delle maggiori città italiane. Però gli obiettivi della regia non apparirono così chiari alla critica; e non sorprende, considerato il gioco dei ruoli e il tono di commedia, che molte preferissero rubricare lo spettacolo sotto il genere en travesti. Per Umberto Serra la «Locandiera en travesti è un capolavoro di umorismo»; «La Gazzetta del Sud» annunciava la replica a Messina come spettacolo en travesti; per Leopoldina Pallotta de «La Repubblica» si trattava di «una Mirandolina en travesti carica di doppi sensi, di ammiccamenti ironici»; «l’Unità» notava che la chiave en travesti non si perdeva nel gusto dell’orpello; per Valeria Pedemonte de «Il Giornale» si trattava di un en travesti serio ed elegante, e «Il Tempo» riconosceva addirittura una «struggente, interna vena gay».25 In verità, alcuni avevano commentato in altro modo. Gualtiero Peirce segnalava come la Mirandolina fosse «assolutamente e tranquillamente femminile senza correre i rischi del genere, molto visto, che a Masina non riguarda, dell’en travesti»; Vincenzo Bonaventura riconosceva che Masina «non propone assolutamente un teatro omosessuale ma sfrutta le caratteristiche maschili per dare spessore di grottesco a un personaggio femminile»; Anna Bandettini dava conto di questa peculiarità all’interno del genere: «il suo tipo si impone per una buona dose di originalità: non ha il fregolismo di Mastelloni, non l’aristocraticità di un Poli, e nemmeno la violenza dell’emarginazione di Cohen». E anche Francesco Tei scriveva: «il travestirsi di Erio Masina è qualcosa di effettivamente diverso dal solito,

25 U. Serra, La locanda tutta gaia, «Il Mattino», 18 luglio 1981; La locandiera a Messina, «La Gazzetta del Sud», 8 gennaio 1982; L. Pallotta, Locandiera in pantaloni, «La Repubblica» (edizione locale Emilia Romagna), 27 gennaio 1982; M.S.P., Sorpresa! La locandiera è un uomo, cit.; L.R., Mirandolina gaia, «Il Tempo», 27 febbraio 1982; V. Pedemonte, Un «gay» fa strage di cuori in scena. È la Locandiera vista da Erio Masina, «Il Giornale», 12 marzo 1982.

91 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

privo di ogni sapore cabarettistico o gay» perché porta in scena «una locandiera-uomo, riconoscibilissima nella sua mascolinità».26 Tra il 1977 e il 1980, Masina era riuscito ad imporsi sulla scena teatrale con uno stile originale che il pubblico iniziava a riconoscere. Anche se le recensioni sulla stampa si dividevano tra catalogarlo come teatro en travesti o come un teatro dal sapore omosessuale, tutte concordavano che l’attore avesse un modo proprio e originale di descrivere la figura femminile. Vale a dire che, tra travestimenti e cabaret, riconoscevano nelle forme assunte dalla Mirandolina di Masina non un pretesto o una citazione bensì un personaggio drammatico. Ciò non fu dovuto solo a La locandiera e alla sua lunga vita scenica, ma anche e soprattutto allo spettacolo che effettivamente lanciò l’attore nel panorama nazionale. Nel 1979, Masina presentò Senza trucco, tutta in nero, uno spettacolo elaborato a partire dal monologo Colloquio con il tango scritto nel 1958 da Carlo Terron.27 Il breve testo originale, anche noto come La formica, era stato scritto per Paola Borboni.28 Racconta il tardo pomeriggio di Carmen Gloria, una diva ormai al tramonto ma che ha saggiamente investito i proventi del suo passato d’artista e vive con modesto agio nel suo appartamento, godendo anche dell’interesse di una rivista che ha deciso di pubblicare le sue memorie. Carmen indossa i suoi abiti più sfarzosi perché ha appena terminato una sessione fotografica ma non si cambia, indugiando tra un dialogo immaginario con il suo amante scomparso (un cantante di tango di cui suona il disco) e una telefonata a una vecchia amica. Così veniamo a sapere che ha anche ottenuto una visita privata con il Papa, al quale si presenterà sobria e morigerata, con un vestito adatto all’occasione, come lei stessa confida all’amica: «senza trucco, tutta in nero». Nella solitudine dei suoi ultimi anni, Carmen conserva l’orgoglio di essere stata formica e non cicala, sia amministrando la sua carriera artistica sia le sue risorse economiche. Proprio il denaro le permette di farsi inviare dall’amica un giovane prostituto per la serata. Ed è così che si conclude il monologo, con lei che prepara il denaro e poi, distesa su una dormeuse, attende il suo ospite.

26 G. Peirce, Una locandiera «diversa» disinvolta e provocatoria, «Paese Sera», 18 luglio 1981; V. Bonaventura, Però quel Goldoni! Non era così morale, «La Gazzetta del Sud», 10 gennaio 1982; A. Bandettini, Il travestito, la locandiera, «La Repubblica» (Milano), 10 marzo 1982; F. Tei, Mirandolina è diventata un giovanotto ma fa ancora innamorare i suoi clienti, «La Città», 30 dicembre 1982. 27 Il testo di Carlo Terron è pubblicato in «Sipario», anno 13, n.147, 1958, p. 52-56. 28 Il monologo intitolato La formica (colloquio col tango), faceva parte di un recital intitolato Volti di donna che Paola Borboni presentò nella stagione 1958-59 e che conteneva altri quattro pezzi di autori italiani: La bottiglia d’acqua minerale di Riccardo Bacchelli, Emilia (Emilia in pace e in guerra) di Aldo Nicolaj, Sola in casa di Dino Buzzati, Fine di giornata di Stefano Landi. Fonte Archivio Teatro Stabile di Torino. Nel 1959 il testo fu interpretato anche da Lina Volonghi in una versione televisiva RAI.

92 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

In quell’occasione, Masina iniziò a collaborare con Roberto Vernocchi che inventa un’azione scenica nella quale inscrivere il monologo. È notte, e un giovane (Masina), in vestaglia e ciabatte, siede solo in una squallida cucina mentre un televisore annuncia i programmi dell’indomani, prima della fine delle trasmissioni. Il giovane inizia a consumare una modestissima cena di cibi in scatola. Quando ormai il televisore emette solo un ronzio, nella cucina risuona il Bolero di Ravel. Il giovane inizia a truccarsi come se fosse davanti allo specchio (ma rivolto al pubblico) ed estrae da un cassetto della tavola calze velate nere, sandali rossi, scarpe con tacchi a spillo. Una lenta e accurata vestizione lo trasforma nella protagonista del monologo e all’improvviso, quasi di scatto, inizia con la prima battuta, seguendo quasi alla lettera il testo originale.29 Lo spettacolo è una risposta al modo in cui erano stati accolti quelli precedenti. Se la coralità e il travestimento di Duse Duse… Duce Duce e della Locandiera avevano dato l’impressione (seppur positiva) di un avanspettacolo en travesti, questo monologo si presenta come teatro di prosa a tutti gli effetti: abbandona la sorpresa del rapido cambio di costume e, anzi, ne mette in scena il processo come una parte della drammaturgia.30 Non ci sono più i rapidi tratteggi di figurine storiche, e nemmeno l’intreccio brioso della commedia goldoniana ma una figura umana che passa da una solitudine squallida all’altra non meno triste. Un giovane, che si traveste per poi trasformarsi nella diva del varietà. Il mutare dai caratteri dell’attore a quelli del personaggio è la struttura drammatica con la quale Masina consolida il proprio stile. Le poche azioni del giovane davanti a uno specchio immaginario chiarivano che non si esibiva la bravura nel camuffarsi da donna; la malinconica ambientazione allontanava gli eventuali effetti comici del corpo maschile in abiti femminili; i temi del monologo non raccontavano dell’omosessualità esibita o negata. Nell’interpretazione di Masina la drammaticità del personaggio femminile emergeva proprio a partire dalla presenza maschile. Il travestimento è il punto di partenza per descrivere l’amaro umorismo del monologo di Terron, e la vecchia diva Carmen Gloria di Masina è ancor più tragica perché potrebbe anche essere il sogno di un travestito. La stampa si accorse di questa variazione di passo e Nico Garrone riconobbe un en travesti diverso dalla moda e Masina come malinconico clown triste.31 Anche Rita Sala iniziò a stimare il lavoro di Masina che definì star di grosso talento.32 Sulle pagine de «Il Tempo» la recensione avvertiva che non si trattava di uno spettacolo en travesti e che proprio la presenza di

29 La descrizione della scena iniziale è tratta dal copione dello spettacolo messo gentilmente a disposizione dall’attore (Archivio privato Erio Masina). 30 G. Liotta, Senza trucco tutta in nero, «Sipario», XXXIV, nn. 397-398, giugno-luglio 1979. 31 N. Garrone, È mezzanotte, metti la gonna, «La Repubblica», 2 novembre 1979. 32 R. Sala, Uguali ma diversi, «Il Messaggero», 1° novembre 1979.

93 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

un giovane (al posto di una matura attrice) evitava ogni bozzettismo: «il discorso di Terron sulla solitudine si allarga all’uomo e alla sua condizione, e assume più sottili significati».33 Similmente «L’Unità» rilevava che l’omosessualità implicita nella figura del giovane funzionava come lente deformante per dare maggior rilievo a una condizione esistenziale di solitudine espressa con lucida ironia.34 Insomma, con Senza trucco tutta in nero, Masina era riuscito a utilizzare il travestimento per interpretare figure femminili, ma si lasciava alle spalle ogni inclinazione al virtuosismo pittoresco o provocatorio e le reazioni attestarono la sua differenza dal teatro gay o en travesti di quegli anni.35 Il successo fu coronato dal Premio I.D.I. St. Vincent 1980 come miglior attore e da una fortunata tournée in tutta Italia (insieme alla Locandiera).

Drammaturgia e regia degli spettacoli Nel corso di questi primi lavori, Masina aveva anche sviluppato un proprio approccio alla drammaturgia dello spettacolo. Abbiamo visto che, in breve, aveva abbandonato il modello cabarettistico dei numeri per strutture più unitarie (La locandiera), selezionando un testo unico (non più il collage) sul quale costruire lo spettacolo. Resta inteso che i testi dovevano innanzitutto essere capaci di accogliere il suo stile, quindi da un lato affrancare il travestitismo teatrale dai generi cosiddetti minori del varietà o del cabaret per traghettarlo nel campo della prosa più tradizionale, dall’altro essere adatti a sviluppare l’ambiguità dell’inversione di genere ai fini di una drammaturgia secondaria. Masina ha sempre costruito i suoi spettacoli mantenendo personaggi, battute, articolazione del testo ma aggiungendovi altri elementi chiaramente dissonanti. Nel caso della Locandiera era la contrapposizione del genere maschile a quello femminile della protagonista; per Senza trucco tutta in nero, era l’iscrizione del monologo originale in una azione che lo conteneva. Sia la contrapposizione sia l’inscrizione avevano come effetto la costruzione di un nuovo ibrido che diventava a sua volta l’elemento più evidente. Era un approccio alla regia debitore alla coeva sperimentazione teatrale in cui da un lato si superava la regia interpretativa e dall’altro si metteva in evidenza il peculiare stile dell’interprete. Ma l’attività registica di Masina, pur collocandosi in questo solco già ben definito ne estrae l’opportunità della riconfigurazione del teatro en travesti. Anche per il successivo, Viva la regina, nel 1982, si rivolse a un autore vivente scegliendo tre monologhi di Aldo Nicolaj. Il primo, Voglia d’angelo è

33 L.R., Senza trucco tutta in nero, «Il Tempo», 6 novembre 1979. 34 N. F., Un’angosciosa metamorfosi al femminile, «L’Unità», 8 novembre 1979. 35 P.P., Triplice solitudine per un personaggio, «Il Secolo XIX», 22 febbraio 1980: S. Romani, La solitudine della «diversità», «Il Mattino», 28 febbraio 1980; A. Grassi, Senza trucco tutta in nero, «Roma», 4 marzo 1980.

94 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

la confessione tragicomica di una casalinga che ‘trova’ uno sconosciuto sotto la sua tavola di cucina e lo riconosce come il proprio angelo custode. Questo essere muto si troverà avviluppato nei racconti della donna, che sfogherà l’insoddisfazione per la propria famiglia, per finire sedotto a letto tra le braccia di lei, poco prima dell’arrivo del marito che li scopre avvinghiati. Il secondo, Viva la regina, è un altro dialogo impossibile, questa volta tra una casalinga di provincia e il marito deceduto. Le memorie sulla loro storia rivelano man mano i segreti nascosti che lei si ostina a non comprendere: la figlia prediletta che lavora come porno diva e il marito omosessuale che manteneva una corte di giovanotti. Sola e con pochi soldi, visto che il marito aveva lasciato quasi tutto ai suoi amanti, troverà conforto nella cocaina regalatale dalla figlia e nelle allucinazioni in cui si vede alla finestra acclamata regina da tutto il paese, assediata da aitanti giovani seminudi che tentano di intrufolarsi nell’appartamento. L’ultima parte dello spettacolo è Passaggio a livello, un atto unico con due personaggi. Una donna si avvicina a un passaggio a livello per suicidarsi e incontra per caso un uomo che tenta di dissuaderla. Nel dialogo l’una convincerà l’altro della necessità di porre fine alle loro esistenze e quando lui si getterà sotto le ruote del treno, lei non solo non lo seguirà ma ne disprezzerà la debolezza.36 Il trittico femminile consolidò i termini della personale ricerca drammaturgica e attoriale di Masina. La stampa, a quel punto, non aveva più dubbi sulle differenze rispetto al teatro en travesti. «Non si tratta dell'ennesimo fenomeno di «travestie», ma del tentativo di interpretare «virilmente» dei personaggi femminili».37 In più si fece sempre più unanime il plauso per Masina interprete e per la sua capacità di tratteggiare figure femminili convincenti, appassionate, sempre ai limiti del delirio.38 Quando trapelavano dubbi, come quelli suggeriti da Enrico Fiore, erano rivolti al testo scelto e non intaccavano l’apprezzamento per l’attore- regista.39 Umberto Serra sposò convintamente gli argomenti proposti dall’autore nella scheda dello spettacolo e scrisse che «la dimensione del travestimento [era usata] per delineare l’ambiguità del rapporto esistente in personaggi femminili creati da un autore maschile, […] tra la loro segreta, misteriosa, natura di donna e la rappresentazione mediata che ne propongono lo scrittore e il regista»; secondo Serra era fondamentale «l’ambiguità di questa rappresentazione del femminile come ‘diversità’, come elemento misterioso e minaccioso scaturito da un immaginario tutto

36 Della terza parte (Passaggio a livello) esiste una registrazione video realizzata presso il Teatro Calderara di Reno nel dicembre 1986 (Archivio privato Masina). 37 P. Bellini, Quando un uomo diventa regina, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 21 giugno 1983. 38 N. Miletti, Storie di donne qualsiasi, «Napolinotte», 30 ottobre 1983. 39 E. Fiore, Adesso è bello donna-mantide, «Paese Sera», 30 ottobre 1983. Simili dubbi per il testo e apprezzamenti per l’attore li troviamo in A. Savioli, Ritratti di donne: la ‘regina’, la puttana e la suicida, «L’Unità», 25 febbraio 1984.

95 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

maschile ed espresso attraverso un gioco di illusionistici paradossi» in cui non c’era alcun «elemento caricaturale, nessuna sbracatura grottesca»: e giunse a ipotizzare che i testi di Nicolaj assumevano « un rilievo che forse non avrebbero affidati ad un’attrice».40 Il «Mattino di Padova» e il «Gazzettino» (di Venezia) notarono la strana combinazione di «distacco ironico» e «partecipe sensibilità» che l’interprete dimostrava nelle sue storie di «ordinaria follia».41 Osvaldo Guerrieri lo descriveva così: «recita in abiti femminili, ma non ci offre il solito esempio di teatro en travesti. Masina supera gli schemi della parodia e cerca in realtà di interpretare la donna, senza alcun filtro deformante».42 Anche «Il Tempo» registrò che il travestitismo di Erio Masina era «posizione più adatta per vedere queste eroine senza la partecipazione e il coinvolgimento interno che, inevitabilmente, avrebbe avuto una attrice donna» e addirittura suggerì «un risultato che ricorda la estraniazione brechtiana».43 Il successo di Senza trucco tutta in nero segnò una svolta, sia perché richiamò l’attenzione di registi che lo vollero nei loro spettacoli, sia perché chiarì il suo modello d’interpretazione dei personaggi femminili. Questo modello si rivelò particolarmente efficace nel far fruttare il nuovo clima culturale intorno alle questioni identitarie e di genere ma nello stesso momento nel mantenersi a distanza dal teatro a tematica o militanza omosessuale. Anche a questo va ascritto il successo dei suoi spettacoli con un pubblico e una stampa molto variegata che andava da «Frigidaire» ma includeva anche le lodi che il quotidiano cattolico «L’Avvenire» da un paio d’anni dedicava al suo interprete.44 Però nel successivo Maledetta tra le donne del 1984, Masina ritornò ai toni aulici e melodrammatici della sua eroina degli esordi sebbene con un personaggio drammaticamente più articolato. Anche questo spettacolo era un adattamento, di nuovo con Roberto Vernocchi, di un’opera letteraria: Il figlio del reggimento, uno dei racconti epistolari che Marco Praga incluse nel suo Anime a nudo (1920). Gli autori convertirono le lettere tra due sorelle in un dialogo nella cappella di famiglia a Cervia, nel 1919. L’ambientazione inizio secolo, che il testo conserva interamente, faceva da sfondo a una vicenda melodrammatica in cui la giovane Adele deve fare i conti con la carnale passione per il figlio adottivo, un orfano entrato in famiglia per

40 U. Serra, Una voce, la grinta e l’amore e tre eroine, tutte in nero, «Il Mattino», 31 ottobre 1983. 41 N. Menniti Ippolito, Erio Masina, storie di ordinaria follia, «Il Mattino di Padova», 23 gennaio 1984. 42 O. Guerrieri, Le donne-madri di Erio Masina, «La Stampa», 16 marzo 1984. 43 L.R., In ‘Viva la regina’ angeli e mantidi per Masina e Nicolaj, «Il Tempo», 28 febbraio 1984; G.A. Cibotto, Donne, donne… e ancora donne, «Il Gazzettino», 3 aprile 1984. 44 Il mensile «Frigidaire» dedicò un articolo a Masina nel n. 40 del marzo 1984. Sulle pagine de «L’Avvenire» Domenico Rogotti apprezzò Senza trucco tutta in nero (L’umano solitario, 6 dicembre 1981); Odoardo Bertani recensì sia La locandiera (Gioco a tre con sarcasmo, 12 marzo 1982), sia Maledetta tra le donne (Sregolatezza e follia al femminile, 12 dicembre 1984).

96 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

volere del marito militare: una lunga confessione alla sorella attonita e impaurita, proprio il giorno del matrimonio del giovane. Questo milieu di indagine psicologica, verismo e tragedia fu il terreno in cui l’interprete abbandonò qualsiasi nota sarcastica o umoristica (di cui ancora c’era traccia nei due precedenti spettacoli). Quel misto tra partecipazione e distacco che segnava le sue interpretazioni era sostituito dalla compresenza di toni elegiaci, stilizzazione della mimica ed un’accurata modulazione della voce.45 Fu anche il momento in cui la Compagnia Teatro Aperto s’impegnò in una produzione che ambiva a figurare nei cartelloni dei maggiori teatri di prosa. Attribuendo a Renzo Dotti il ruolo di Federica, sorella della protagonista, la regia impegnò Masina in un vero dialogo drammatico e non più in monologhi o soliloqui con ascoltatori immaginari o passivi. E poi lo spettacolo presentava un impianto scenico complesso con una scenografia praticabile: «la scena rappresenta l’interno di una chiesa: si vede un inginocchiatoio addobbato di damasco rosso, poi alcuni banchi. Sull’altare l’immagine di Santa Flavia, vergine e martire. Candelabri con candele accese».46 In generale la stampa sembrò meno convinta. I dubbi sono ben riassunti da Sergio Colomba che liquidò lo spettacolo come «liturgia della chiacchiera» anche se riconobbe nell’interprete un «talento teatrale naturale» suggerendogli l’applicazione a una drammaturgia diversa o in una compagnia guidata da un regista di rilievo.47 Maurizio Giammusso riconobbe un interprete «bravissimo» che correva «sul filo di sentimenti e sentimentalismi», ma non nascondeva il dubbio sugli esiti: «è tanto bravo che non riusciamo più a capire dove vuol arrivare col suo gusto intimistico del travestitismo femminile: poi si ha come pudore di ridere davanti a tanto minuto perfezionismo recitativo e viene addirittura il sospetto che l’attore voglia davvero far sul serio, che magari la sua non sia una ironica, irriverente, sarcastica ‘rivisitazione’ sullo stile di Paolo Poli, ma una semiseria, anzi quasi commossa visita al vecchio sacrario del sentimentalismo di inizio ‘900».48 Il poco entusiasmo della critica rispondeva alla decisione dell’artista di puntare sulla forte identificazione con il dramma umano dei personaggi di Praga. Erano, però, figure che pur colte in un viluppo di passioni e rancori, non avevano la crudeltà delle precedenti. Questo principale limite è lucidamente esposto da Tommaso Chiaretti sulle pagine de «La Repubblica». Accostare il travestimento a trame dense di passione, sullo

45 Dello spettacolo è conservata un estratto nel video Professione attrice del 1986 con la regia di Carla Baroncelli ed Erio Masina. 46 Didascalia iniziale dal copione dattiloscritto dello spettacolo (Archivio privato Erio Masina). 47 S. Colomba, Masina al Testoni in «Maledetta tra le donne», in «Il Resto del Carlino», 13 dicembre 1984. 48 M. Giammusso, Una «nipotina» della Duse, «Paese Sera», 23 maggio 1985.

97 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

sfondo della prima guerra mondiale, era stato il punto di forza, nel 1968, della messa in scena di Paolo Poli de La nemica di Niccodemi; il travestimento era da un lato il modo di aggredire la retorica ‘strappalacrime’ del testo e dall’altro lo spunto per citare il catalogo di pose d’attrice all’antica italiana. Chiaretti lodava l’atteggiamento gay di Poli che appariva «oltraggioso, distante e fortemente beffardo in tutte le sue inimitabili soluzioni» e stigmatizzava proprio l’identificazione perseguita da Masina: «c’è mi sembra, come un equivoco, che non c’era nel Niccodemi di Poli: che a questo Marco Praga, tutto sommato, ci si deve credere».49 E infatti Umberto Serra apprezzò il lavoro proprio perché decise di non credere fino in fondo a questa immedesimazione e lesse la rappresentazione dei «furori erotici di un’eroina tardo romantica» come un «esplicito divertimento di compiere un esercizio di stile su un linguaggio ed un’epoca» che incorpora i vari commenti musicali pop nella fusione di due kitsch, contemporaneo e d’epoca.50 La divergenza di opinioni era la manifestazione di un rischio insito nella ricerca teatrale di Masina: interpretazioni femminili partecipate che non fossero parodistiche o dissacranti. Ma forse è Renzo Tian che individua una terza via, alternativa sia alla dissacrazione sia alla partecipazione, e nella passione di Masina per le forme del femminile intravede una ricerca eminentemente formale sui linguaggi della recitazione e della scena. Secondo il critico

Masina nella sua recitazione en travesti gioca soprattutto la carta del cerimoniale scenico […] più che sui contenuti, punta proprio sulla forma della metafora. Il suo recitare en travesti non ha nulla delle coloriture e sottolineature realistiche possibili per il genere, ed anzi è basato sulle sfumature dell’intonazione e del gesto […] Così quella sua figura tra decadente e kitsch di madre-amante incessantemente dedita alla esibizione dei propri sentimenti e alla lotta contro un mondo che vorrebbe condannarli è, prima di ogni altra cosa, la costruzione di un personaggio eroicomico. E, anche se le atmosfere alla Marco Praga a lungo andare mostrano un po’ la corda, è proprio quel personaggio recitante e combattente, coraggioso e risibile insieme, nascosto dietro lo schermo del suo travestimento, che dallo spettacolo rimane nella memoria.51

Tian suggeriva quindi che il travestimento potesse essere la manifestazione di una forma sempre più astratta che, pur appoggiandosi a un materiale testuale, rendeva l’attore una drammaturgia emergente (sempre più

49 T. Chiaretti, In chiesa c’è la vamp, «La Repubblica», 16 dicembre 1984. Va detto che Masina ha negato con decisione l’apparentamento allo spettacolo di Poli: «è un’affinità che non sento. Poli ha preso la materia di Niccodemi esasperandone i contenuti, e non è così che io mi sono accostato a Praga», Erio Masina intervistato da Titti Marrone, Il top della finzione, «Il Mattino», 4 aprile 1985. 50 U. Serra, Eroina kitch, «Il Mattino», 2 aprile 1985. 51 R. Tian, Figlio e amante, «Il Messaggero», 20 maggio 1985.

98 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

primaria). Insomma il travestimento diventava l’apoteosi della teatralità perché era in se stesso un meccanismo di senso, o meglio un meccanismo che sottraeva il senso dal testo e lo traduceva in una pura forma. In Maledetta tra le donne i dubbi maggiori riguardarono proprio la combinazione tra l’apparire in scena dell’attore in abiti femminili con i toni fortemente sentimentali della scrittura. Malgrado gli sforzi di stilizzazione (dei gesti e della voce) di Masina, la distanza tra la figura e il ruolo, in assenza di una vena dichiaratamente ironica o grottesca, rischiavano costantemente di essere percepiti come affettati e di assumere un tono complessivamente patetico. Masina aveva imparato la lezione e, per il successivo spettacolo, abbandonò la letteratura verista sentimentale tornando a un autore più acre e smaliziato. Amore di tabacco del 1987 era tratto da Le bel indiffèrent che Jean Cocteau scrisse nel 1940 per Edith Piaf e Paul Meurisse (al tempo compagno della cantante). L’originale francese presenta una donna che accoglie il suo amante in casa per poi parlargli, raccontagli di sé e della loro vita comune. Ma la particolarità è che dall’altra parte non c’è alcuna risposta, nessuna partecipazione: l’uomo la ignora, si sdraia sul letto, fuma, legge il giornale, e poi va via con la stessa indifferenza con la quale era arrivato. Mettendolo in relazione con il più famoso Voix humaine, di dieci anni prima, Daolmi scrive:

Hanno in comune un sentimento non corrisposto (lui e ̀ un gigolo che non l’ama) e la voglia di sfidare le difficoltà di un monologo al femminile. Ora però il silenzio di lui si trasforma in disprezzo e l’ostinazione di lei a parlargli diventa umiliazione, sentimenti che nella stesura di dieci anni prima erano solo in potenza. La relazione sadomasochistica che ne scaturisce, privata delle difficoltà esterne della Voix humaine, si trasforma cosi ̀ in un rituale perverso e disturbante.52

Proprio questo sadomasochistico rituale perverso e disturbante è la chiave moderna che dileguò ogni ambiguità circa il recupero di atmosfere e sentimenti ‘all’antica’. È una chiave moderna che lo accomunava a Senza trucco tutta in nero per la situazione quotidiana, ma ne esasperava i toni di lucida follia. Con questa regia Masina inoltre ripropose la tecnica di ‘travestimento’ del testo per cui le parole erano mantenute identiche ma ‘vestite’ di una situazione dissonante. In Amore di tabacco, quando l’uomo (Renzo Dotti) esce, l’amante (Masina), con una brevissima azione scenica aggiunta, lo costringe a rientrare, con la minaccia di una pistola. A questo punto tutto il monologo è ripetuto identico ma l’uomo viene legato al letto e poi, alla fine, ucciso con un paio di forbici.

52 D. Daolmi, «Uno strumento di tortura in più», in «La Fenice prima dell’Opera 2014-2015» n. 6, Venezia, Fondazione Teatro La Fenice, 2015, p. 40.

99 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Anche il titolo ‘travestiva’ di ironia la passionalità originariamente imposta da Piaf, visto che era proprio il titolo di un spigliato twist di Mina del 1964 che recitava «no, no no no / questa volta non abbocco / è un amore di tabacco / che col fumo finirà». In Maledetta tra le donne Masina aveva inteso obliterare la differenza di genere tra ruolo e personaggio nel tentativo di perseguire un programma che, nelle sue ipotesi, si collegava con l’antica tradizione elisabettiana del teatro fatto solo da uomini e in cui un personaggio muliebre poteva commuovere anche se interpretato un giovanotto. È chiaro che quella tradizione non poteva essere riproposta tout court: negli anni Ottanta il travestimento aveva assunto significati e possibilità non eludibili. A ciò si aggiungeva che Masina aveva scelto di lasciare sempre molto visibile il proprio genere adottando un trucco minimo e non mascherando la voce ma anzi modulando i toni tra alti e bassi, portando in luce l’ambiguità della figura scenica. Tutti gli spettacoli precedenti (tranne Maledetta tra le donne, appunto) avevano in un modo o nell’altro incorporato questa ambiguità nella drammaturgia: La locandiera alludeva alla forza maschile della protagonista contrapposta all’immaturità sessuale del giovane Cavaliere; Senza trucco tutta in nero lasciava intravedere il delirio di solitudine di un travestito; Viva la regina puntava a una esasperazione grottesca degli stereotipi della femminilità proprio grazie alla sovrapposizione del corpo maschile. In Amore di tabacco la stessa struttura dello spettacolo era incline al doppio significato, sia perché il personaggio umiliato della prima parte era riproposto vendicativo e potente nella seconda, sia perché l’intero testo era scritto in modo che poteva essere letto anche come il delirio di un travestito che fingeva una relazione di coppia eterosessuale.53 Dunque, in Amore di tabacco tornava a incorporare il discorso sul genere che infatti era suggerito anche nella scheda dello spettacolo: «La sessualità del personaggio, per quanto realmente o realisticamente la si voglia portare in scena, e ̀ per Masina l’elemento più legato alla finzione teatrale di qualunque altro: in omaggio a questo concetto, l’interpretazione del personaggio e la rappresentazione del femminile saranno caratterizzate da un lento ma crescente ‘indagare’ sulla identità sessuale della protagonista (donna, uomo, o cosa?)».54 La drammaturgia dello spettacolo incorporava i segni del travestimento in azioni che si aprivano più chiaramente a una lettura duplice per quanto riguarda il genere e pertanto non disorientava il pubblico. Questa configurazione confermò la sua efficacia e, per la prima volta, Masina poté

53 Dello spettacolo esiste una registrazione video integrale di una replica al Teatro Duse di Bologna il 4 febbraio 1987 (Archivio privato Erio Masina). 54 Scheda di presentazione dello spettacolo, in due fogli dattiloscritti, per la stagione 1986-87 (Archivio privato Erio Masina). La scheda non riporta l’indicazione di Eva Robbins quale assistente alla regia, mentre questo ruolo viene invece confermato in un’intervista alla stampa: M. Ostolani, questa donna, così spietata, «La repubblica», 3 febbraio 1987.

100 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

debuttare al Teatro Duse di Bologna, con uno spettacolo sul quale la critica non ebbe dubbi riconoscendo all’artista un percorso di ricerca personale e convincente.55

I ruoli da interprete Dal successo di Senza trucco tutta in nero non solo inizia la carriera di Masina come autore e regista di livello nazionale ma si dipana anche la sua attività d’interprete in lavori diretti da altri. La prima di queste occasioni si deve a Roberto De Simone che, come abbiamo visto, nel 1976 aveva presentato con grande successo la sua Gatta cenerentola a Spoleto. Lo spettacolo contava due protagonisti en travesti (Peppe Barra nel ruolo della matrigna, e Patrizio Trampetti in quello della figliastra) insieme ad altre figure di non minore rilievo (ad esempi le quattro voci del rosario). E c’era anche una esplicita allusione all’inversione di genere nel personaggio del ‘femminella’ interpretato da Giovanni Mauriello. Barra e Trampetti avevano già ricoperto ruoli en travesti per il primo spettacolo che De Simone aveva allestito con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, La canzone di Zeza, nel 1974. Queste presenze erano diventate caratteristiche nello stile del musicista napoletano che infatti le riproporrà nella sua successiva creazione: L’opera buffa del giovedì santo del 1980.56 Il lavoro proseguiva la ricerca sulla cultura e le tradizioni napoletane concentrandosi sull’opera buffa settecentesca. La vicenda inizia in uno dei quattro conservatori di Napoli, laddove i ragazzi erano avviati all’arte del canto e, a volte, in genere quelli provenienti da famiglie povere, erano destinati alla castrazione per mantenerne una estesa tessitura vocale. Nel corso di quattro quadri, l’opera inanella diverse situazioni comiche e sentimentali tra nobili, popolani e malandrini, legate insieme da un blando nesso narrativo. L’ultimo quadro s’ispira al fallimento della Repubblica Napoletana del 1799 e mostra l’avviarsi al patibolo di Eleonora Pimentel Fonseca. Proprio per questo ruolo il regista scelse di chiamare Masina. L’opera buffa del giovedì santo ebbe successo e fu replicata per due stagioni con una tournée internazionale. Il travestimento era innanzitutto la chiave d’ingresso in uno spettacolo che funzionava come un inno alla ‘teatralità’; sia perché il testo reinterpretava vicende e luoghi storici come eventi legati al mestiere del teatro, sia perché la drammaturgia legava i vari quadri anche mediante la riproposizione dello stesso interprete in un ruolo differente. In questa riproposizione, indovinava Aggeo Savioli, c’era « un segno di doppiezza, esterno ed interno, sottolineato pure dall’uso di attori

55 S. Colomba, Parlare d’amore al muro, «Il Resto del Carlino», 5 febbraio 1987; O. Bertani, Due Jean Cocteau in uno, «L’Avvenire», 11 febbraio 1987. G. Liotta, Una donna e un lucido delirio in attesa di un «Lui» che non c’è, «Avanti!», 13 febbraio 1987. 56 R. De Simone, L’opera buffa del giovedì santo, Torino, Einaudi, 1999.

101 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

maschi in parti femminili».57 La critica segnalò più volte il ruolo di Masina: Umberto Serra ammirava l’efficacia della scelta dei ruoli en travesti;58 Renato Palazzi lodava tutta la compagnia e in particolar modo la «velenosa ambiguità» di Masina.59 Daniele A. Martino per «l’Unità» notava che le interpretazioni femminili di Pino De Vittorio ed Erio Masina ritagliavano «momenti di raro fascino».60 Così, per la sua prima scrittura di rilievo nazionale, e poco dopo il successo di Senza trucco tutta in nero, Masina trovò nell’opera di De Simone una cornice consona al proprio stile. La matrice favolistica, mitica e, in fin dei conti, rituale eliminava ogni equivoco naturalistico nell’interpretazione dei personaggi mettendo in luce soprattutto il gioco teatrale. Come ricorda Annamaria Sapienza, già a partire dalla Canzone di Zeza, il travestimento era stato utilizzato in funzione dei suoi significati rituali e arcaici ma con esiti che servivano una complessa drammaturgia del personaggio, non soltanto comica: in questo senso la studiosa nota «una compostezza particolare da parte degli uomini impegnati nel ruolo, una distanza assoluta dall’imitazione parodistica di affettate movenze di donna»61 La riuscita partecipazione a questo spettacolo indicò una direzione che Masina colse solo in parte. Nel corso degli anni, in interviste sulla stampa, l’attore ha tentato di descrivere il proprio approccio al travestimento, prendendo le distanze dal teatro politico e movimentista ed eliminando la connessione politica tra la propria omosessualità e la ricerca teatrale che conduceva.62 Nelle sue opinioni il travestimento riguardava i codici dello spettacolo e i linguaggi della scena; i personaggi femminili erano il terreno di sfida per le capacità dell’attore che avrebbe sfruttato l’illusione teatrale per creare figure con le quali il pubblico potesse legarsi emotivamente. Eventuali toni grotteschi sarebbero stati interni al testo e non apposti

57 A. Savioli, Il teatro è un principe pezzente…, «L’Unità», 6 novembre 1980. 58 U. Serra, La primadonna è sempre Napoli, «Il Mattino Illustrato», 3 gennaio 1981. 59 R. Palazzi, Tragico ‘700 napoletano, «Corriere della sera», 1° ottobre 1982. Lo spettacolo fu riallestito dopo la prima stagione con alcuni cambiamenti nella distribuzione dei ruoli. In particolare Peppe Barra fu sostituito da Rino Marcelli e Masina lasciò il ruolo del giovane Gianmatteo nel primo quadro per prendere quello del Milord inglese nel secondo, mantenendo quello di Eleonora nell’ultimo. Palazzi recensisce quest’ultima versione. 60 D. A. Martino, «Opera buffa» tra melodramma e tradizione, «L’Unità», 14 ottobre 1982. 61 A. Sapienza, Il segno e il suono. la gatta cenerentola di Roberto De Simone, cit., p. 53. 62 Masina ha esposto (ed elaborato) le proprie posizioni sulle proprie interpretazioni femminili in una serie di interviste e scritti nel corso degli anni: G. Di Cataldo, Erio Masina e «tutta in nero», «Paese Sera», 6 novembre 1979; Erio Masina, Perché faccio teatro en travesti, «Sipario», anno XXXIV, n. 403, dicembre 1979; U. Serra, Quell’eroina è un uomo, «Il Mattino Illustrato», anno V, n. 28, 11 luglio 1981; s.n. «L’Umanità», 19 febbraio 1982; G. De Santis, Erio Masina e il ‘comportamento’ femminile, «Sipario», dicembre 1982; N. Miletti, «Io, Erio Masina solo un attore», «Napolinotte», 28 ottobre 1983; D. Gianeri, W la regina W Erio Masina attore al femminile, «Stampa Sera», 14 marzo 1984; E. Masina, Eleonora, Mirandolina; Carmen; sì, sono un’attrice!, «Donne di garbo», primavera 1987; P. Cristalli, Il coraggio di restare attrice, «Il Resto del Carlino», 18 settembre 1987.

102 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

mediante la caricatura dei tratti femminili. Si trattava quindi di concentrarsi sulla capacità ‘immersiva’ dello spettacolo, sulla potenziale sospensione dell’incredulità del pubblico. Ma il fulcro del suo discorso era un altro. Masina sosteneva: se autori maschi hanno potuto creare figure convincenti femminili, anche un attore potrebbe essere altrettanto efficace nel rappresentarle. Anzi, e in modo più provocatorio, riteneva di restituire più accuratamente la complessità delle donne che aveva interpretate proprio perché erano figure poetiche frutto dell’immaginario maschile. Sebbene la sua ricerca teatrale non s’inserisse nel filone del teatro gay militante, queste posizioni erano debitrici a quel clima culturale (in parte creato anche dai movimenti omosessuali) che stava scardinando la normatività binaria dei generi di matrice ottocentesca.63 Quel clima culturale aveva sostenuto che la persona, la sua identità, non era costretta a definirsi all’interno del binomio uomo/donna e, più importante, che le manifestazioni sociali della sua individualità potevano avere uno spettro di possibilità non riconducibile alle coppie maschio/virilità femmina/femminilità. In questo nuovo ordine l’attore maschio avrebbe potuto confrontarsi ‘naturalmente’ con i personaggi femminili senza che ciò facesse emergere solo e unicamente i codici dell’inversione, bensì semplicemente i caratteri del personaggio. La stessa idea che il genere dell’autore si trasferisse in parte anche nella raffigurazione del personaggio era una riflessione moderna, e la nascita di analisi che leggevano le matrici ‘maschili’ o ‘femminili’ della scrittura era una scoperta proprio di quegli anni con gli studi di genere.64 Il travestimento quindi era un modo per restituire una qualità propria di alcuni (non tutti) personaggi di donne, nati con questa specificità dalla penna dell’autore. Quindi, sosteneva Masina, il travestimento

è solo il fine, e il mezzo naturale, per dare voce, corpo, anima, intelletto a personaggi femminili che testo e rappresentazione pretendono ora ambigui, ora comici e grotteschi – sul filo dell’autoironia ora tragici, ai limiti del ‘naturalistico’ e, in ultima analisi, ‘virili’.65

Nei fatti, però, la sua carriera dimostra che i suoi personaggi en travesti suscitarono i complimenti più convinti quando si muovevano in due distinte drammaturgie. Quando gli spettacoli s’ispiravano al Settecento della commedia goldoniana o a quello mitico dell’opera buffa di De Simone, ma anche al cabaret come in Duse Duse… Duce Duce, il

63 Si veda a proposito l’importate saggio di E. Kosofsky Sedwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, Roma, Carocci, 2011; ma anche S. Bellassai, L’invenzione della virilità, Roma, Carocci, 2011. 64 Cfr. J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, New York, Routledge, 1990; T. de Lauretis, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999. 65 Da un’intervista a Erio Masina di Umberto Serra, Quell’eroina è un uomo, cit.

103 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

travestimento non era problematizzato perché era messa in evidenza la ‘teatralità’ dell’operazione, il gioco scenico piuttosto che il realismo dei caratteri. Quando i testi avevano tratti più quotidiani (come quelli di Terron o Cocteau), allora il travestimento si apriva ad essere inquadrato (in modo più o meno esplicito) come inversione di genere, fantasia gay. In entrambi i casi la presenza maschile non era obliterata: nel primo perché assorbita dal gioco fiabesco, nel secondo perché funzionale alla drammaturgia dello spettacolo. All’interno di questi due possibilità, Masina aveva elaborato una sua personale indagine sulla figura femminile in cui più che abbattere la codificazione binaria uomo/donna, lavorava in direzione di una sovrapposizione di questi due termini, a una sorta di ‘invasione di campo’. In questo senso trovò una coincidenza di stile, non solo con il lavoro di De Simone, ma anche più generalmente con la cultura napoletana in cui la figura del femminiello sopravviveva e resisteva all’emergere di figure trans o drag queen.66 In questo senso si possono leggere altre due tappe importanti della carriera di Masina, che lo metteranno in contatto con i campioni della Nuova Drammaturgia Napoletana. In occasione delle repliche di Senza trucco tutta in nero al Sancarluccio di Napoli nel febbraio del 1980, e poi durante la lunga permanenza a Napoli per il lavoro con De Simone, Masina incontrò e frequentò Annibale Ruccello. L’autore napoletano aveva visto il monologo mentre stava lavorando a Le cinque rose di Jennifer e non è difficile immaginare la sintonia tra i deliri della sua Jennifer e l’amara solitudine del giovane travestito da Carmen Gloria.67 Fu proprio quella sintonia, forse, a spingere Masina, durante l’allestimento dell’Opera buffa, a scrivere un testo originale (unico caso nella sua carriera) e metterlo in scena, con la propria compagnia, con Renzo Dotti e Annibale Ruccello, curandone anche la regia. Bella se mi vuoi bene andò in scena il 21 ottobre 1980 al Teatro Pacuvio, un piccolo locale sulla collina di Posillipo a Napoli.68 L’azione scenica rappresentava una riunione tra due dirigenti sindacali e mirava a contrapporre il grigiore del linguaggio ‘politichese’ con la lenta (e inquietante) trasformazione di uno dei due (Ruccello) in un travestito, davanti all’altro (Dotti) sempre più confuso. Con dissimulata ‘normalità’ Ruccello tirava fuori prima una forcina, poi un accessorio, poi le calze e si travestiva mentre il dialogo

66 Per la figura del femminiello napoletano cfr. M. D’Amora, La Figura del Femminiello/Travestito nella cultura e nel teatro contemporaneo napoletano, «Cahiers d’études Italiennes», n. 16, 2013. Sulla drag queen, cfr. P. Ackroyd, Dressing up. Transvestism and Drag: the history of an obsession, New York, Simon and Shuster, 1979; S. Perri, Drag queens: travestitismo e divismo ‹camp› nelle regine del nuovo Millennio, Roma, Castelvecchi, 2000. 67 Le cinque rose di Jennifer andò in scena il 16 dicembre 1980 ed era stato depositato alla SIAE il 10 ottobre; M. D’Amora, se cantar mi fai d’amore…, Roma, Bulzoni, 2011, p. 101. 68 Il titolo deriva dai versi di Signora Fortuna, una canzone portata al successo da Claudio Villa e suonata durante lo spettacolo.

104 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

proseguiva senza registrare questo cambiamento. Il lavoro ebbe vita breve, rappresentato solo a Napoli e a Roma con commenti non entusiastici.69 Ciononostante fu il primo ruolo da protagonista en travesti per Ruccello poco prima di Jennifer. Per Masina fu la conferma dell’utilizzo del travestimento ai fini di una ri-drammatizzazione del testo. La partecipazione a progetti teatrali di matrice napoletana coincise anche con l’applicazione della recitazione en travesti in un ambito dialettale. Non v’è dubbio che la tradizione teatrale napoletana avesse fatto ampio uso del travestimento a fini comici fin dalle parodie femminili del Pulcinella petitiano o dalle successive macchiette en travesti di Nicola Maldacea.70 E, come abbiamo visto, De Simone aveva utilizzato gli strumenti dell’antropologia culturale, anche per recuperare a fini drammatici il travestimento rituale nella cultura popolare e contadina. All’interno di queste considerazioni forse maturò la decisione di Ugo Gregoretti, direttore della rassegna Benevento Città Spettacolo, di produrre, nel settembre 1987, un anonimo e antico (1741) testo bolognese, La Fleppa lavandara, chiamando Masina quale protagonista. Quella ottava edizione della rassegna era intitolata ‘Il teatro delle lingue sconfitte’ e intendeva recuperare alcuni teatri dialettali non più diffusi sul territorio. Il direttore propose a Masina di coprodurre uno spettacolo diretto da Gianfranco De Bosio (coadiuvato da Boris Stetka). L’operazione fu annunciata con entusiasmo sulla stampa bolognese che poi accolse lo spettacolo, e il protagonista, con altrettanto favore.71 Anche le repliche a Bologna (al Duse) e a Milano (al Litta) confermarono che quella drammaturgia era adatta a mettere in luce le doti di partecipazione e distacco sulle quali l’interprete aveva imparato a costruire i personaggi femminili. In quel contesto, l’utilizzo di elementi maschili per rendere i caratteri di una donna (o viceversa) non aveva effetti solo comici ma servivano a infondere dinamicità, carica sessuale, ambiguità nel profilo psicologico, così come era stato nella tradizione operistica settecentesca.72 Poco dopo Masina tornò, per la seconda volta, a lavorare al di fuori della Compagnia Teatro Aperto, ma ancora in un ambito affine al dialetto. Infatti

69 U. Serra, Sindacalista «travet»? No, «travestito», «Il Mattino», 19 ottobre 1980; R. Di Giammarco, Sesso e sindacato, «La Repubblica», 17 marzo 1981. 70 A. G. Bragaglia, Pulcinella, Firenze, Sansoni, 1982, pp.263- 292. V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida, 1992, p. 627; A. Jelardi, In scena en travesti, Roma, Croce, 2009, pp. 111-117. 71 C. Gullotta, L’incredibile, triste storia della Filippa e le sue figlie, «La Repubblica», 5 settembre 1987; O. Bertani, Quando il dialetto riporta i personaggi nella cruda realtà, «Avvenire», 13 settembre 1987; E. Fiore, Le smanie d’amore come panni sporchi, «Il Mattino», 14 settembre 1987; S. Colomba, Sui vecchi canali di Bologna, «Il Resto del Carlino», 15 settembre 1987; 72 Cfr. il capitolo di Eduardo Savarese dedicato al travestimento nell’opera lirica in Andrea Jelardi, cit., pp. 27- 54, e il secondo paragrafo di D. Daolmi e E. Senici, L’omosessualità è un modo di cantare». Il contributo queer all’indagine sull’opera in musica, «il Saggiatore musicale», vol. VII, n. 1, 2000, pp. 137- 178.

105 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

fu scritturato nel ruolo di Desiderio in Pièce Noire di Enzo Moscato con la regia di Cherif, nel 1987. Il testo aveva vinto il Premio Riccione Ater nel 1985 e fu l’occasione per lanciare in circuiti nazionali un autore che aveva al suo attivo già otto lavori. Lo spettacolo aveva un impianto dialogico e seguiva quel realismo magico sul quale Moscato aveva lavorato fino ad allora, ma nello stesso tempo esasperava la molteplicità linguistica, il melodrammatico e il delirio. In particolare, il personaggio di Desiderio affondava le radici nel femminiello ma allo stesso tempo lo oltrepassava a forza di una tensione magica, alchemica che lo rendevano una sorta di nuovo essere, l’eroe di un nuovo mondo, un sogno (o delirio) transessuale. Con il senno di poi, la scelta di Masina appare inevitabile. In quel momento era l’unico attore affermato in Italia che avesse tentato di rappresentare un tale ibrido in teatro. E indubbiamente fu un importante riconoscimento del suo lavoro. Lo spettacolo però ebbe una vita breve e la stampa, anche se lo aveva annunciato con i migliori auspici, sembrò poi impegnata in uno sforzo di salvataggio, mentre il pubblico non lo premiò, forse anche per una durata che sfiorava le quattro ore.73 Ciononostante, nessuno mise in dubbio la performance di Masina che anzi apparve ancora una volta efficace nell’interpretare la drammatica ambiguità del ruolo.

Gli esiti Conclusa in breve l’esperienza di Pièce noire, Masina continuò con le repliche della Fleppa lavandara ancora nel 1988 ma poco dopo abbandonò all’improvviso e definitivamente le scene. La scelta fu maturata in un periodo difficile. Renzo Dotti, il suo compagno di lavoro e di vita, si era ammalato AIDS e morì due anni dopo. E in quel tempo sembrarono naufragare le ipotesi di sviluppo della propria compagnia e svanì il sogno di una sede stabile in cui condurre il proprio lavoro. Le richieste di Masina alle istituzioni bolognesi per la concessione di uno spazio non avevano avuto esito e l’attore preferì ritirarsi, non solo per essere vicino al proprio compagno ma anche perché non riusciva a intravedere gli sviluppi che desiderava.74 Sebbene il suo stile non sembra che avesse prodotto un’eredità immediatamente visibile, e per quanto anche il genere en travesti avesse

73 La freddezza del pubblico è testimoniata dai ricordi di Erio Masina. Anche nella rassegna stampa emergono, a volte velatamente, dubbi sulla riuscita: U. Ronfani, Madame, madre folle, nel ventre di Napoli, «Il Giorno», 22 novembre 1987; U. Volli, ‘Femminielli’ per la signora, «La Repubblica», 24 novembre 1987; A. Tricomi, Il sesso di un angelo chiamato Desiderio, «Paese Sera», 24 novembre 1987; A. Savioli, Il ventre nero di Napoli, «L’Unità», 28 novembre 1987; G. Raboni, La Signora e il «femminiello», «La Stampa», 16 dicembre 1987; G. Geron, Cherif racconta un giallo torbido e un po’ funereo, «Il Giornale», 17 dicembre 1987. 74 Anche se non ottenne mai una sede stabile, Masina fu direttore artistico del Teatro di Calderara di Reno nella stagione 1986-87; G. Rimondi, Tra flussi e riflussi ecco i gruppi storici, «L’Unità», 16 ottobre 1986.

106 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

perso lo slancio iniziale, la sua figura assume un rilievo più specifico se la si guarda in prospettiva negli sviluppi della stagione del teatro gay in Italia. Masina ha sempre ribadito la propria distanza da quella storia teatrale, ma è indubbio che ne accoglieva, anche indirettamente, alcuni tratti. Abbiamo visto che il contesto culturale prodotto dai movimenti omosessuali abilitava la lettura del travestimento su piani diversi. Ma le esperienze teatrali di quei movimenti sembrano permeare le scelte registiche di Masina, anche per il particolare utilizzo delle musiche. È una caratteristica che ha qualificato il suo lavoro drammaturgico ed è sempre stata registrata con forte interesse e apprezzamento dalla stampa. In tutti gli spettacoli di Masina la musica serviva certamente a suggerire atmosfere e stati emotivi, ma l’uso della canzone popolare italiana da un lato (da Milva, a Mina a Claudio Villa) e di famose arie d’opera dall’altro, indica anche l’utilizzo soprattutto in funzione di contrappunto ai temi del testo. Valga ad esempio 18 anni di Dalida come sottofondo ad alcune scene di Maledetta tra le donne, oppure l’inizio della Locandiera con La ballata della schiavitù sessuale. Quando si sente il Bolero di Ravel, durante il travestimento di Senza trucco tutta in nero, è proprio la riconoscibilità del brano a entrar in contrasto con lo squallore dell’ambiente. La scaletta di canzoni utilizzate negli spettacoli di Masina funziona proprio grazie alla sua autonomia narrativa nei confronti del testo o dell’azione. Similmente funzionavano le scelte musicali negli spettacoli di Paolo Poli. E ancor di più in Pissi Pissi Bau Bau del KTTMCC (il più attivo tra i gruppi di teatro gay in Italia). La presenza della canzone (come drammaturgia autonoma in contrappunto con il testo) è stata una costante di tutto il teatro gay, non solo italiano, fino a diventare un genere di spettacolo nella forma dell’interpretazione en travesti in play back di grandi cantanti di musica leggera (ad esempio, le performance delle Pumitrozzole) o di aree d’opera (Laida del KGB&B). Se l’uso del travestimento e della musica non devono essere letti necessariamente come evidenze di una diretta discendenza dal teatro gay, testimoniano in ogni caso la condivisione di elementi stilistici comuni. Anche se non ci sono ragioni per riconoscere l’utilizzo di forme camp direttamente prodotte da una politica identitaria queer, la carriera teatrale di Masina mostra di essere permeata da quelle forme.75 E in fin dei conti, tutti questi esempi attingono a un modello di spettacolo di matrice sperimentale, in cui il testo (comico o parodico, originale o meno) è l’occasione per la creazione di una drammaturgia d’attore. Alla luce di queste considerazioni, si possono apprezzare gli esiti dell’attività di Masina in una prospettiva storica che tenga insieme

75 Per una lettura politica del camp cfr. M. Meyer (a cura di), The Politics and Poetics of Camp, cit., pp. 1-22.

107 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

l’esperienza del teatro gay militante, i personaggi en travesti e la drammaturgia d’attore. La breve storia del teatro gay in Italia è contenuta tra l’esordio de La Traviata Norma a Milano nel 1976 e le ultime performance del KGB&B a Bologna sul finire degli anni Ottanta.76 Si tratta di un fenomeno che vede la luce nel Nord (Milano, Parma, Bologna) mentre nel Sud, forse anche a causa di una militanza meno organizzata e visibile, conta soltanto la ‘mezzafemmina’ abbruzzese di Alfredo Cohen o la rivisitazione del femminiello napoletano di Ciro Cascina.77 Nei primi casi si tratta di uomini omosessuali che utilizzano il travestimento, spesso radicale, esagerato, per testimoniare la necessità di una rivoluzione dei costumi contro la normatività di genere. Nei casi di Cohen e Cascina, gli spettacoli fanno apparire una figura femminile della quale si mettono in luce i meccanismi oppressivi nella società maschilista proprio grazie al travestimento, che è liberatorio ed anarchico. In ogni caso, quelle esperienze scoprono la possibilità di utilizzare la figura del travestito non solo creare effetti ridicoli e comici, ma come un codice nella scrittura scenica. Questa nuova possibilità, che aveva certo avuto un precursore in Copi, esplode in Italia con l’affermarsi di due esponenti della Nuova Drammaturgia Napoletana: Enzo Moscato ed Annibale Ruccello. Pur non obliterando il lato grottesco (e a volte comico) del travestitismo teatrale, questi due autori hanno elaborato un modo originale e inedito di costruire drammi in cui il travestimento si lega a temi seri o tragici. Nella loro produzione s’incontrano personaggi omosessuali che tematizzano la loro identità in discorsi che comprendono alienazione, solitudine, emarginazione. Si pensi ai travestiti di Le Cinque rose di Jennifer (Ruccello, 1980) o di Ragazze sole con qualche esperienza (Moscato, 1985) in cui le battute fulminee tematizzano sempre la fuga da una un’urbanizzazione che li ha resi marginali e soli. In questi casi, come anche in Persone naturali e strafottenti di Giuseppe Patroni Griffi, è attiva una riflessione sulla sessualità che non è pensabile prima della nascita dei movimenti. Ma ancor più significativo è che in altre opere degli stessi autori, il travestimento non allude all’omosessualità ma è un modo di manifestare la figura femminile. Si pensi al personaggio della madre che lo stesso Ruccello interpretò nel suo Notturno di donna con ospiti (Ruccello, 1983), o alle tre sorelle in Festa al celeste e nubile santuario che Moscato presentò nel 1984, en travesti per la sua prima messa in scena al

76 Uno dei pochi resoconti storici di questo fenomeno è il capitolo di Sandro Avanzo, C’era una volta, in S. Casi (a cura di), Teatro in delirio, «Quaderni di critica omosessuale», n. 7, Il Cassero, Bologna, 1989. 77 Ivi. Su Alfredo Cohen cfr. G. Dall’Orto (a cura di), Alfredo Cohen voce in «Wikipink - L’enciclopedia LGBT italiana», http://www.wikipink.org/index.php?title=Alfredo_Cohen&oldid=35812 (accesso il 15 febbraio 2019). Su Ciro Cascina cfr. F. Gnerre, La poesia e il teatro di Ciro Cascina, «Testo e senso» n. 9, 2008.

108 Antonio Pizzo, Professione attrice. La carriera teatrale di Erio Masina

Sancarluccio di Napoli.78 In queste creazioni è innegabile l’influenza delle figure en travesti degli spettacoli come La canzone di Zeza o La gatta cenerentola. Ma la prima opera di successo di Ruccello, Le cinque rose di Jennifer, si svolge in un contesto urbano e metropolitano che assomiglia molto di più alla squallida cucina del giovanotto in Senza trucco tutta in nero. I deliri religiosi sessuali di Festa al celeste e nubile santuario di Moscato hanno elementi in comune con le invocazioni di Agata (Maledetta tra le donne) a Santa Flavia mentre, nella cappella di famiglia, cerca di venire a patti con il proprio desiderio per il figlio adottivo. Seppur non ci siano elementi definitivi per stabilire rapporti di ascendenza e discendenza, è possibile considerare il lavoro del bolognese Masina non solo come una proposta originale e personale del travestitismo a teatro, ma anche come una sorta di trait d’union tra l’affermazione del teatro omosessuale militante nel nord Italia e l’emersione di uno degli ultimi potenti filoni di drammaturgia contemporanea.

78 Il testo di Ruccello aveva avuto una precedente versione nel 1982 con il titolo Una tranquilla notte d’estate. Gli interpreti della prima versione di Festa al celeste e nubile santuario furono Enzo Moscato, Gino Corcione, Tata Barbalato. Cfr. A. Ruccello, Teatro, Milano, Ubulibri, 2005; Enzo Moscato, L’angelico bestiario, Milano, Ubulibri, 1991.

109

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Erio Masina

Il mio travestimento ‘senza trucco’ Intervista di Antonio Pizzo*

Quali sono stati i tuoi esordi teatrali? Iniziai con il GTV Gruppo Teatrale Viaggiante, a Bologna nel 1970. Il primo spettacolo fu La comune di Parigi, poi seguirono Voglio dirvi di un popolo che sfida la morte nel 1972 e poi ancora I Pioli di Back Dang nel 1973.

Era in gruppo diretto da Luciano Leonesi su testi di Loriano Macchiavelli che facevano teatro dichiaratamente politico. Come mai ti unisti a loro. Fu un po’ per caso. Dopo esserti diplomato in ragioneria, avevo seguito i consigli dei genitori e mi trovai un impiego. Lavorai un primo anno al «Resto del Carlino» nel settore della pubblicità editoriale. Però ero attratto dal teatro e quando una mia amica di lavoro, Ianna, mi invitò a al GTV accettai subito. Avevo circa 22 anni e lei mi descrisse il GTV come un gruppo che faceva teatro politico alla Dario Fo (con il quale avevano effettivamente collaborato). Allestivano i loro spettacoli al Teatro Sanleonardo, in una chiesa sconsacrata in via San Vitale a Bologna. Iniziai a seguire la produzione La comune di Parigi, e poi, un giorno, quando uno dei diciotto attori si ammalò, Leonesi e Macchiavelli, vedendomi in platea, mi chiesero di sostituirlo per le prove. Anche se il personaggio (un operaio) aveva solo due battute io ero imbarazzato, ma la mia amica mi convinse a salire sul palco. Mi divertii e anche nei giorni successivi continuai nella sostituzione. Come accade, alla fine la parte fu ufficialmente mia. Il giorno della prima, anche se solo per queste due battute, ebbi l’impressione di essere piaciuto perché molti vennero a farmi i complimenti. Fu allora che iniziai a pensare di avere una qualche dote per il teatro. Un compagno del gruppo mi prestò un quadernetto di dizione italiana. Lavorai per eliminare il mio accento bolognese, e forse fu proprio quell’applicarmi allo studio che mi diede fiducia.

Come emerse l’idea di un lavoro autonomo? Fu un passaggio molto delicato. Ricordo che fin dai primi momenti, non ero a mio agio con la matrice non professionista di quel gruppo. I dubbi non riguardavano certo la natura politica, ma la presenza di molti attori

* Allegati all’articolo: materiale iconografico, consultabile on line. (www.actingarchives.it).

© 2019 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it

109 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

dilettanti. A mio avviso era un ostacolo alla mia aspirazione al professionismo teatrale. Volevo cimentarmi come professionista ma solo dopo alcuni anni mi sentii pronto. Insieme ad altri colleghi del GTV, tra cui Guido Ferrarini e Renzo Dotti, affittai uno spazio per lavorare autonomamente e fondammo il Teatro Aperto. Era l’occasione sia di affrancarmi dal cliché di teatro-contenitore di messaggi politici, sia dall’approssimazione nella messa in scena. Volevo mettermi seriamente alla prova.

Come nacque l’idea di Duse Duse… Duce Duce? Fu decisivo l’incontro con il pittore Giammarco Montesano e la sua allieva e compagna Maria Grazia Mangiotti. Fu lui a darci l’idea di uno spettacolo che facesse perno sulla figura di Eleonora Duse, della quale proprio allora cadeva il cinquantenario della morte. La proposta consisteva nel ripercorrere il periodo storico precedente all’avvento del fascismo attraverso brani letterari dell’epoca. Non ricordo chi propose il titolo, ma certo fu subito accattivante, importante, insomma perfetto: un cambio di consonante che meglio non poteva sottolineare l’emblematico passaggio da un’epoca all’altra, dalle folle plaudenti la Duse nei teatri a quelle inneggianti il Duce nelle piazze. Impiegammo circa un anno di ricerche su testi di D’Annunzio, Bolla Signorelli, Palazzeschi, De Amicis, Matilde Serao, su biografie e lettere della Duse; visitammo mostre e facemmo sopralluoghi ad Asolo. Alla fine Mangiotti compose un testo-collage con diversi personaggi, tra i quali spiccava la Duse.

È stata la prima occasione in cui hai interpretato un ruolo femminile? Sì. Quando Montesano, che curava la scenografia, mi propose di prendere il ruolo della Duse, ricordo che la mia prima reazione fu di sorpresa. Fino ad allora avevo interpretato virili rivoluzionari (operaio comunardo, fedayn, vietnamita) usciti dalla penna dell’allora militante Loriano Macchiavelli. Nel passare alla divina, dannunziana Duse fui preso dal timore che il piccolo mondo della sinistra che conoscevo, e che pur aveva incoraggiato i miei esordi, potesse non accettare, non capire, viziato da pregiudizi sessuofobici (complice il machismo serpeggiante anche nella sinistra). E poi pensavo che quel tipo di teatro lo facesse già Paolo Poli. Ma gli amici insistettero e mi dissero che avrei potuto essere differente, che non avremmo fatto uno spettacolo ‘alla Poli’, che avremmo usato solo un leggero trucco e un semplice travestimento non caricato (il famoso saio indossato in Cenere). Ne sarebbe emersa una figura molto androgina, con la mia stessa voce, senza camuffarla con falsetti. Immaginai così di poter interpretare un mito, senza sesso. Insomma, ho ritenuto fin dall’inizio che non avrei lavorato sul travestimento… non sarebbe stato uno spettacolo en travesti.

110 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Lo spettacolo fu frutto di una creazione corale? Quando avemmo un testo sul quale lavorare, la distribuzione degli altri ruoli fu oggetto di discussioni accese e le scelte erano frutto di una ‘regia del collettivo’, come si diceva in quegli anni. Gli attori (anche non professionisti) venivano per lo più nel vasto mondo dei cosiddetti ‘alternativi’ che all’epoca frequentavano le piazze, i circoli Arci, il DAMS. Bologna in quegli anni era affamata di novità teatrali e ciò ci permise un anno intero di repliche nella cantina del circolo Arci di Corticella.

Anche se lo spettacolo nacque da un lavoro collettivo divenne poi famoso in Italia nella versione con tre attori. Con l’andar del tempo le repliche finirono poi per rassomigliare ad uno strano laboratorio, dove si alternavano frequenti sostituzioni di attori, aggiustamenti alla regia, e una distribuzione delle parti non sempre appropriata dovendo fare ‘di necessità virtù’. Allora entrai in crisi. Non accettavo questa sorta di improvvisazione che poco c’entrava con la ‘sperimentazione’ e con l’ambizione al professionismo che in fondo mi motivava. Così, nonostante il successo che lo spettacolo continuava a riscuotere, mi inventai una regia di tutt’altro segno che coinvolgesse i partecipanti per virtù e non per necessità. Pensai a un ridotto numero di attori che dovevano entrare e uscire da ogni scena/quadro in un continuo avvicendarsi dei diversi ruoli, sessualità comprese. Tutto accompagnato da commenti musicali di mia scelta. Volevo che lo spettacolo acquisisse una forma professionale.

Questo causò una riconfigurazione del Teatro Aperto? La mia nuova idea registica divenne presto una proposta operativa, ma non fu accolta esattamente di buon grado; anzi comportò la fuoriuscita dolorosa (ma non troppo) di molti che non l’accettarono. Rimase un gruppo molto coeso e riallestimmo lo spettacolo, nato per circa dieci attori, con solo tre adulti e un bambino. Io mi dividevo tra la Duse, una madre deamicisiana e Margherita Gautier; Mangiotti passava da Matile Serao a D’Annunzio e Armando Duval; Dotti era uno scarriolante ma anche una dama di Palazzeschi. Infine il piccolo Cavina aveva un personaggio-simbolo in frac bianco con un pesante trucco femminile in volto.

Questa scelta fu quindi la svolta professionale alla quale aspiravi? Lo considero il mio vero esordio da attore e da regista a teatro. Il primo a incoraggiarci fu Giuliano Scabia che, dopo aver visto una nostra prova, scrisse una lettera a diversi giornali, invitando il mondo artistico- intellettuale romano ad accogliere lo spettacolo. Quella dichiarazione di stima ci valse la presenza al Teatro Alberico di Roma e ci portò improvvisamente all’attenzione nazionale.

111 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

Scabia lodò la tua interpretazione femminile e ti descrisse come «l'attore più donna e uomo e uomo e donna che oggi calchi la scena». Non compresi mai interamente il significato di quelle parole. E forse a quei tempi anche a me non era chiaro se l’improvviso successo fosse frutto della nostra bravura o del mio sconfinamento nel territorio femminile che, a detta di molti, mi prometteva ‘un posto al sole’ accanto ai mattatori del teatro en travesti.

Infatti la stampa cominciò a riconoscerti come un attore en travesti. Fin da quei primi mesi mi chiesi se quella dovesse diventare la mia aspirazione, o se piuttosto dovessi problematizzare di più le ragioni del travestimento. In fondo il ruolo della Duse era nato occasionalmente, per esigenze di copione, ma ora destava molto interesse. La stampa, anche se con giudizi lusinghieri, ha tentato subito di attribuirmi etichette nelle quali non mi riconoscevo.

Come vivevi il tuo travestimento in scena? Con la naturalezza di chi sta solo facendo piacevolmente il proprio mestiere d’attore, magari aiutato da un fisico giovane, longilineo ed efebico. Travestirmi significava soltanto indossare un abito di scena. Non volevo entrare nel personaggio di Eleonora Duse: nel suo famoso saio sentivo piuttosto d’impersonare l’iconografia: non la donna ma l’immagine femminile. Volevo conservare l’ambiguità sessuale dell’attore che usa l’artifizio, il trucco, ma senza parrucche, seni finti, mossette o falsetti, bensì con i propri lunghi ricciuti capelli ‘sessantottini’ e la propria voce naturale: insomma creando un personaggio dai tratti sobri e non esagerati.

Devi riconoscere però la stampa aveva anche apprezzato le tue capacità drammatiche. Certo. La sobrietà del personaggio non escludeva momenti di pathos più intenso, come nel caso in cui assumevo il ruolo di Margherita Gautier, in un breve estratto dal finale di La dame aux camelias. Era stato il cavallo battaglia della Duse e io mi ispiravo alla sua gestualità scarna ed essenziale. Proprio in quella scena di ‘teatro nel teatro’ cominciai ad allontanarmi dal quadro storico-letterario dello spettacolo; dimenticai le iconografie, le stilizzazioni e i simbolismi, e mi lasciai andare. Insomma mi avvicinai di più al personaggio. Mi stavo avventurando, con la sventatezza di un principiante, in una temeraria ‘competizione0 con la Duse-attrice che, per quei dieci minuti, dimenticavo di ‘omaggiare’, per interpretare corpo e anima la Margherita morente.

La stilizzazione iconografica stava lasciando il posto all’interpretazione drammatica? Credo di sì. E me ne resi conto grazie a uno spettatore che una sera,

112 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

visitandomi in camerino dopo lo spettacolo, mi confessò la commozione che la mia Margherita gli aveva trasmesso, fino alle lacrime.

Eri riuscito ad essere un personaggio credibile travestito da donna. Sì, e contraddicendo così l’opinione comune che intende l’attore en travesti sempre e solo grottesco, ironico, dissacratorio. Da quel momento ho inseguito una strada personale al travestimento mescolando il mio ‘approccio’ partecipato e spontaneo con l’effetto ‘trasgressivo’.

Lo spettatore che si emozionò alla tua interpretazione di Margherita sembra essere, come tu racconti, lo spartiacque verso la coscienza di poter interpretare personaggi femminili al di là dei toni grotteschi o parodistici. È anche la spinta per confrontarti con il primo personaggio drammatico organicamente concepito e scritto in un testo: La Locandiera di Goldoni. Duse Duse...Duce Duce ci aveva rassicurato sulle nostre possibilità e soprattutto sulle nostre capacità trasformistiche nel gestire repentini cambi di ruolo e costume. Mentre eravamo ancora in tournée elaborammo l’idea di uno spettacolo in cui più personaggi fossero interpretati da soli tre attori. La scelta cadde sul testo di Goldoni, La locandiera, che Maria Grazia Mangiotti riadattò conservando quasi integralmente le battute.

In questo caso lo spettacolo nacque da un progetto unitario e definito fin dalla sua concezione? Sì, completammo prima il copione, pensammo la scenografia (fra cui il grande fondale di un Tiepolo ridipinto dalla Mangiotti) e poi iniziammo le prove. Avevamo bisogno di uno spazio per almeno un paio di mesi e a me tornò in mente una grande sala gestita da un ordine di suore (non ricordo quale). Fummo fortunati e ottenemmo il consenso della madre superiora, anche se dovetti omettere il particolare del travestimento.

Ma in questo spettacolo il travestimento è fondamentale, sia per te sia per gli altri interpreti, e questa volta avevi la possibilità di governare l’allestimento fin dal principio. Potevo contare anche su due tecnici (luci e suono) che avrebbero partecipato alla produzione. Avevo la possibilità di mettere in pratica la mia idea di professionismo e mi trovai di fronte a due percorsi. Il primo metteva in evidenza il veloce cambio di costumi e caratteri, l’idea scenografica, le luci e i commenti musicali che contrappuntavano ogni scena. Il secondo percorso, più difficoltoso ma più stimolante, avrebbe dovuto misurarsi con la ‘credibilità’ dei personaggi (un mio chiodo fisso negli anni a venire).

Vuoi dire che volevi interpretare fedelmente il personaggio di Mirandolina?

113 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

No, non si tratta ‘fedeltà’ ma di un leale confronto fra elementi diversi, fra i miei intendimenti e quelli dell’autore. Ricordo che nelle mie fantasie, immaginavo Goldoni stesso occupato a distribuire i suoi ruoli scegliendo gli attori più convincenti, magari con l’ausilio di qualche maschera, e per nulla condizionato dalle loro sessualità. Come lavorasti sulla caratterizzazione dei personaggi? Non mi fu complicato elaborare una caratterizzazione, in qualche misura ‘grottesca’, del Conte d’Albafiorita, del Marchese di Forlipopoli, e delle due dame Ortensia e Dejanira, seguendo una indicazione che ritenni già presente nel testo. Però per Mirandolina volevo che il mio sesso non si sostituisse al personaggio. Non volevo fare una caricatura ma un ruolo femminile a tutto tondo, con molteplici gamme espressive. Insomma volevo restituire la comicità presente nel personaggio senza farne però il verso. Quindi mi feci guidare dalle battute, dandogli sempre credito, alternando la grazia femminea di un fare malizioso e sensuale (preso in prestito da una eccentrica suorina dell’ospizio) a una certa veemenza virile.

Un personaggio femminile che rivela alcuni tratti maschili? Ma questa è proprio una componente del testo goldoniano. Il famoso monologo di Mirandolina rivolto al pubblico pare provenire molto più dallo spirito dell’autore che da quello femminile del personaggio. In alcuni snodi cruciali, il mio personaggio, ‘ricorda’ una femminilità soltanto presunta, ma che appartiene all’estro creativo dell’uomo che scava nel complesso e sconosciuto animo femminile.

Questi afflati virili di Mirandolina hanno influenzato il modo in cui hai creato l’antagonista, il Cavaliere di Ripafratta? Per me non si trattava di farne un misogino, bensì di attribuire un significato psicoanalitico alla sua ostinata resistenza alla seduzione femminile. Ho immaginato Ripafratta affetto da una patologica timidezza/paura di giovane imberbe, inesperto e pessimo conoscitore delle donne, maldestramente coinvolto dalla loro sessualità a cui non sa e/o non osa affidare la propria. Il conflitto tra quei due personaggi riguardava anche i loro generi differenti: una Mirandolina ora materna, ora virago, ora seducente educatrice sessuale che scopre nell’efebico Ripafratta (allora interpretato da Graziella Mangiotti) la ragione ideale di un rapporto sempre in procinto di essere consumato. Era anche uno scontro fra ambiguità sessuali: l’ambiguità ‘impudica’ di Mirandolina che non temeva l’accostamento alla spregiudicatezza del travestito, e quella ‘pudica’ di Ripafratta che induceva il sospetto di una latente omosessualità.

Però, nei successivi riallestimenti dello spettacolo, Mangiotti, che interpretava Ripafratta, è stata sostituita da un uomo. Il motivo fu la gravidanza che impedì a Mangiotti di prendere parte a una

114 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

ripresa. Ma io colsi l’occasione per sottolineare ancor di più la ‘purezza’ della finzione. Mangiotti era stata in ottima sintonia con il gioco di trasformismo. Però mi sembrava che per l’attrice donna fosse più difficile sfumare il proprio genere, quasi che fosse refrattaria a fingere una sessualità/sensualità che non le fosse propria. Mi pareva che ci fosse una difficoltà maggiore a ricalcare le caratteristiche maschili (sia pur ‘delicate’) del Cavaliere. Avevo l’impressione che il pubblico fosse più incline a ‘credere’ a una Mirandolina interpretata da un uomo piuttosto che a un Cavaliere interpretato da una donna. Traspariva un distonico e permanente surplus di femminilità che vanificava la fatica della brava Mangiotti. Per altro credo che nella storia non si possano ricordare attrici protagoniste in ruoli maschili, alle quali si potesse credere del tutto e non si avvertisse principalmente la qualità di ‘portavoce’ delle battute piuttosto che incarnazione. È come se per la donna-attrice fosse difficile superare la soglia della indefinita, tuttalpiù androgina, natura sessuale.

Lo spettacolo è stato accolto molto bene e hai potuto replicarlo per varie stagioni. Ma è stata anche l’occasione, almeno per la critica, di collocarti nel panorama del teatro en travesti o gay, per associarti a Paolo Poli o a Leopoldo Mastelloni. Io avevo fatto aderire i panni settecenteschi di Mirandolina al mio corpo e non il contrario. Avevo poco trucco e mantenevo la mia capigliatura. Insomma non mi avvalevo del consueto armamentario dell’attore en travesti. I miei attributi maschili migravano naturalmente in una parvenza di femminilità. L’oggetto della mia interpretazione non era stata la donna ma uno spicchio dell’immaginario maschile nel quale identificarsi o almeno avvicinarsi: la mia Mirandolina non poteva che raccontarne la sua oscura e opinabile verità in scena, non ultima quella sessuale. Eppure l’auspicio di vedere non dico compresa ma almeno rispettata la mia scelta interpretativa era ben lontano dal realizzarsi. Gli articoli di stampa che leggevo l’indomani di ogni debutto lodavano la mia bravura e originalità ma i titoli gridavano «Mirandolina en travesti», «Locandiera gay», «Mirandolina è un uomo!».

Devi ammettere però che in quegli anni era facile inserirti nel filone en travesti. Fin troppo facile. Questo era un problema ed anche un mio timore.

Comunque in generale è vero che negli anni Settanta la scena teatrale era intrisa di una sperimentazione in cui apparivano realtà nuove o si manifestavano modelli sociali e culturali diversi, oltre la norma quotidiana. Ho avuto la fortuna di essere vissuto in quegli anni.

La maniera in cui quelle esperienze teatrali hanno lavorato sulla sperimentazione ha riguardato anche il genere e l’orientamento sessuale. E la questione identitaria andava anche oltre il territorio del teatro gay militante.

115 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

Quello era, ad esempio, il teatro di Alfredo Cohen.

Hai più volte ribadito che il tuo non è un teatro omosessuale, e nemmeno un teatro en travesti simile a quello di Mastelloni. Però tu hai iniziato a lavorare in un gruppo politicamente impegnato come il GTV, e proprio in anni in cui a Milano e soprattutto a Bologna si consolidava un movimento di teatro omosessuale. Hai visto i loro spettacoli? Sì li ho visti. Ho visto Ciro Cascina, Alfredo Cohen. E naturalmente anche Mastelloni e Poli. E mi ricordo che c’era anche Michael Aspinal, che vedevo nelle cantine romane. Ma ho avuto la forza di mantenermi differente. Non sai quante proposte di partecipazione a eventi o rassegne gay o en travesti ho rifiutato. Per esempio, non ho mai lavorato con il Cassero. Credo fosse mio dovere rifiutare. Io avevo capito che la mi strada era di fare personaggi femminili di un certo calibro, non sul filone del teatro en travesti. I personaggi femminili spesso sono scritti da autori maschi, e quindi per me sono sempre proiezioni maschili. Non importa che io sia gay o non gay… resta il fatto che quella figura è un immaginario maschile. Io non recito con parrucche o seni finti, ma do al pubblico la possibilità di identificarsi con quel personaggio femminile. Però solo fino a un certo punto, perché quel personaggio è femminile solo fino a un certo punto, perché, in fin dei conti, l’autore che l’ha creato è maschio.

Hai frequentato la militanza omosessuale in quegli anni? Non tantissimo ma certamente sì. Insieme a Renzo Dotti andai anche al Fuori di Milano quando ci fu il festival Re nudo al Parco Lambro. Ma teatralmente ero distante. Certo, ho avuto anche un articolo su «Frigidaire» e molti tra coloro che mi avevano visto mi inserivano, per così dire, nel mucchio. Ma io preferivo però che tutto il mio discorso venisse portato aventi dai critici del teatro e non quelli che si occupavano di omosessualità. Altrimenti la ricerca che stavo portando avanti sarebbe stata falsata.

Eri solidale con le istanze dei movimenti omosessuali? Ero molto solidale. Ma la mia ricerca teatrale non era quella del teatro gay o del teatro en travesti. Se in uno spettacolo in cui mi travesto da donna mi si definisce gay non sono infastidito. Ma dal mio punto di vista io sto mettendo in scena un autore. Quando Paolo Poli fa la sua Santa Rita da Cascia, non mette in scena un autore, mette in scena Poli. Ecco qual è la differenza.

Quali sono stati i nomi della scena teatrale che hai apprezzato da ragazzo? Mi piaceva Sara Ferrati. Era qualcosa di diverso e alto… la vedevi in scena e sentivi che era vera. E poi mi piaceva tanto Anna Magnani. Paola Borboni era più gigiona. Come registi mi piacevano Giancarlo Cobelli, Antonio Calenda, Massimo Castri.

116 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

E della scena più giovane e sperimentale di quegli anni? Ricordo che non mi piacevano Rosa De Lucia o Manuela Kusterman. Ma in fin dei conti io non seguivo la sperimentazione. Anche Leo de Berardinis, del quale avevo visto qualcosa al Sanleonardo, non lo amavo molto. Ma ho amato Carlo Cecchi e Piera degli Esposti.

Nella tua carriera, un posto speciale è occupato da Senza trucco tutta in nero, lo spettacolo che ti ha definitivamente lanciato sul piano nazionale. Però è anche l’occasione per proseguire la tua ricerca sul travestimento in abiti femminili. Nell’interpretare il testo di Carlo Terron volevo dare una mia personale interpretazione di quella solitudine quotidiana, senza stravolgerlo né alterare la ‘femminilità’ del personaggio, e seguendo in parte il lavoro fatto da Paola Borboni e Lina Volonghi.

Però iniziavi questo spettacolo in abiti maschili. Questa è l’originalità del mio allestimento e la devo tutta a Roberto Vernocchi, ad una sua idea geniale (peraltro condivisa con entusiasmo da Terron): far precedere il monologo da un protagonista maschile dei nostri tempi, immerso in una casalinga e realistica solitudine, fatta di gesti annoiati e ripetitivi protratti per una ventina di minuti sulla scena. Poi, in un guizzo di follia/coup de théâtre, il ragazzo decide di ammazzare quella noia e sostituirla con la energica vitalità di Carmen Gloria. Una solitudine che solo apparentemente sarà meno squallida.

Ma non temevi di avvalorare una lettura gay del tuo spettacolo? Quello scambio di sessualità era soprattutto una prova d’attore: dovevo passare, davanti agli occhi del pubblico, dall’uomo ciondolante per casa in pigiama e ciabatte alla vecchia e ciarliera ex diva degli anni Trenta. Far dimenticare il primo per immedesimarsi nella seconda, senza soluzione di continuità, significava puntare tutto sul potere della finzione teatrale, sulla partecipazione emotiva con il personaggio. Carmen Gloria doveva apparire senza che la sua nascita interferisse con l’autenticità del suo monologo. Non si trattava di passare da uomo a travestito ma da un protagonista a un altro; la sfida era di utilizzare il potere illusionistico della scena, la capacità del teatro di farci credere in ciò che vediamo. Così, da quel corpo maschile, scialbo, magro, anonimo, con pochi frettolosi stringati ritocchi, emergeva, in un lungo abito liberty e tacchi alti, l’appariscente Carmen Gloria: una figura perfettamente capace di far sue quelle battute. Portare ‘a vista’ l’operazione del travestimento, evidenziarne la purezza teatrale, per me attore risentito dalle precedenti incomprensioni sul mio lavoro, rappresentava anche una specie di ‘riscossa’, un ‘mi giuoco la reputazione’, da cui il premio IDI mi fece uscire vittorioso.

117 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

È una strada che non hai proseguito. Diciamo che fu una sorta di ‘esame’ a cui volli sottopormi ma non fece mai parte di un progetto drammaturgico avendo esaurito la sua funzione. Non lo ripetei infatti nel successivo Viva la regina di Aldo Nicolaj. In quei tre atti unici non volevo più dimostrare nulla, bensì indagare i ’comportamenti’ della donna, anzi di tre moderne ‘eroine’.

Ti sentivi più sicuro delle tue doti d’attore? Avevo un controllo più sicuro della voce, della timbrica e dei toni. Ancora oggi mi sorprende la disinvoltura con cui seppi restituire le diverse sfumature e caratterizzazioni che, benché frutto di un’osservazione critica doppiamente maschile, non erano caricaturali.

Eri riuscito a far comprendere la tua ricerca teatrale sulla recitazione di ruoli femminili. Lo spettacolo piacque al pubblico e alla critica, e mi incoraggiò a proseguire la mia ricerca, in un certo senso rivoluzionaria, che faceva riemergere, chissà da quale passato o tradizione, la figura dell’attore interprete di ruoli femminili, proprio grazie e non malgrado o nonostante la sua sessualità. Ricordo Rossella Falk che mi incoraggiò e mi volle nel suo cartellone del Piccolo Eliseo. Anzi, fu proprio lei a suggerirmi di chiamare quel mio progetto Professione Attrice.

Questo è stato anche il titolo di un video che hai girato. Sì, ed è stato realizzato montando un estratto del successivo spettacolo Maledetta fra le donne.

Anche per questo spettacolo hai collaborato con Roberto Vernocchi, e montaste il testo a partire da un racconto epistolare di Marco Praga. E per la prima volta era un testo per due personaggi femminili. Oltre al mio contributo di ‘attrice di professione’, s’imponeva anche quello di Renzo Dotti che interpretava il secondo personaggio. Mi appassionò dirigerlo e seguire la scelta anti-caricaturale anche a partire da un’altra sessualità maschile.

In che modo lavorasti sui due ruoli? Forse con Dotti ci vollero più prove ma riuscii a far emergere al meglio la sua qualità mimica. Per quanto riguarda il mio personaggio, sviluppai particolarmente la gamma espressiva drammatico-patetica che ammantava, con disarmante assenza di ironia, la disperazione dolente della protagonista.

118 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Ma intanto il successo del tuo primo spettacolo ti aveva procurato un’opportunità importante. Roberto De Simone ti volle per l’allestimento di L’opera buffa del giovedì santo. De Simone aveva già capito dalle recensioni che ero diverso da Poli o Mastelloni e quindi potevo interpretare il ruolo di Eleonora Pimentel Fonseca così come lui l’aveva immaginata per l’ultimo atto della sua opera. L’invito mi arrivò inaspettato. Difficile negarmi quella opportunità nonostante comportasse l’interruzione della mia tournée. Fui accolto a braccia aperte dal regista della Gatta cenerentola e da una città con la quale mi imparentai (per il tempo trascorso ed i tanti interessanti incontri teatrali) e detti il meglio che potevo alla costruzione del personaggio. In fondo quella Eleonora non era tanto distante dalla mia Eleonora in Duse Duse… Duce Duce. Recitativo le sue battute da eroina come quelle del mio mito, e quella interpretazione semi-declamata non deluse le aspettative De Simone.

Ma, a parte le similitudini, quali furono le novità? Per esempio dovetti ‘sacrificare’ per la prima volta i miei capelli sotto una parrucca a boccoli biondo cenere, ma soprattutto dovetti imparare a cantare al livello degli altri interpreti. De Simone stesso mi guidò, con lezioni al pianoforte che durarono circa una settimana a casa sua, fino ad estrarre dalle mie corde vocali note da tenore leggero. All’inizio dello spettacolo cantavo uno Stabat Mater e alla fine un inno rivoluzionario francese, mentre andavo al patibolo, accompagnato dal coro.

Fu anche l’occasione per entrare in contatto con l’ambiente teatrale napoletano. Sì, durante il lavoro su L’opera buffa del giovedì santo, conobbi Peppe Barra, poi sostituito da Rino Marcelli nella seconda edizione. Furono anche gli anni in cui frequentai Annibale Ruccello che stava terminando la scrittura di Ferdinando. Ci lavorava tutte le notti.

In che modo hai conosciuto Annibale Ruccello? Fu nel febbraio del 1980, al San Carluccio di Napoli, il piccolo teatro gestito da Pina Cipriani e Franco Nico. Annibale venne quasi tutte le sere a vedere il mio spettacolo Senza Trucco tutta in nero. Da allora facemmo amicizia.

Pensi di aver influito sul lavoro di Annibale Ruccello? Sì. A partire da quando vide il mio spettacolo, mi ha sempre chiesto consigli. Non che il suo lavoro si basasse sul mio, ma in parte ne fu influenzato. A lui interessava il mio modo di interpretare ruoli femminili, anche se in generale propendeva verso il teatro en travesti. Quando tornai a Napoli, chiamato da De Simone per L’opera buffa, tra prove e spettacoli ci restai due anni; e lì ci siamo frequentati molto. Allora ero uno stacanovista: provavo tutto il giorno con De Simone e la sera prendevo Annibale e Renzo

119 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

e li portavo al teatro Pacuvio a fare Bella, se mi vuoi bene. Era uno spettacolo che avevo scritto e ideato per tutti e due.

Il sottotitolo di quello spettacolo era Sindacato hardcore? Sì. Sulle orme del ‘teatro dell’assurdo’ avevo fotografato una realtà (quella del dibattito sindacale) spesso inascoltabile nei suoi aspetti lessicali, minacciata da un atto destabilizzante di trasgressione sessuale in grado di scalfire lo strapotere e la noia di quel parlare inarrestabile e inconcludente. Per questo avevo immaginato due sindacalisti in una di quelle estenuanti riunioni ai tavoli di contrattazione.

Fu un testo che scrivesti proprio per Ruccello e Dotti Sì. Nello spettacolo, per i primi dieci minuti si parlava di economia, politica. Annibale interpretava il più logorroico dei due, quello più convinto del proprio ruolo di sindacalista, mentre il personaggio di Renzo era un po’ più remissivo. Quando Renzo tentava di opporsi ad alcune scelte del compagno, allora Ruccello, un po’ all’improvviso, faceva un gesto come per sciogliersi i capelli (Annibale aveva capelli lunghi). Non era un gesto gay ma molto femminile. Questo improvviso cambiamento disarmava e confondeva Renzo. Annibale poi, come se nulla fosse, andava avanti: tirava fuori dalla tasca una forcina e se la sistema mentre parlavano di questioni sindacali. Erano proprio questi gesti destabilizzanti di Annibale a indurre Renzo a convincersi delle argomentazioni del compagno. L’azione proseguiva fino al travestimento completo di Annibale. Renzo veniva come fagocitato da tutte queste manovre di travestimento, come avvolto nelle spire del compagno… sembrava quasi un sogno …

Da dove deriva il titolo? È tratto da un verso della canzone Signora fortuna (cantata da Claudio Villa). Era la canzone che mettevamo in un momento in cui Annibale scendeva tra il pubblico a distribuire alcuni volantini sindacali.

E come terminava lo spettacolo? Alla fine Renzo è come addormentato e Annibale rientra nelle vesti di sindacalista che ricomincia il suo parlare sindacalese d’inizio spettacolo; a un certo punto Renzo si ritrova in tasca una forcina… quella del sogno.

Come fu accoltolo spettacolo? Fu apprezzato dal «Messaggero» a Roma. Ma a Napoli ho avuto l’impressione che a Umberto Serra ed Enrico Fiore non piacesse Ruccello come attore.

Hai visto anche gli spettacoli di Ruccello?

120 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Ho visto la versione di Ferdinando con Isa Danieli. Con Annibale ho visto Le cinque rose di Jennifer e L’ereditiera che però non mi aveva convito fino in fondo. Lo raccomandai comunque agli amici del Piccolo di Milano che lo inserirono nel cartellone del Teatro Quartiere di Piazzale Cuoco dove io l’anno prima avevo debuttato. Molti suoi spettacoli li ho visti dopo la sua morte, fatti da altri, ma della sua compagnia (Il carro) non ho visto molto. E poi in verità ero molto indaffarato. Lui però non perdeva l’occasione di incontrarmi, durante quei due anni che stetti a Napoli, vuoi alle prove con De Simone, vuoi invitandomi nel suo piccolo monolocale in centro dove aveva appena terminato il suo Ferdinando. Ricordo la notte che me lo lesse per intero ansioso di avere una mia opinione e testare il mio nordico grado di comprensione del suo testo in napoletano: in verità non compresi molto da quella lettura tutta in un fiato ma che le ali per volare lontano ce le avesse quello sì, sicuramente come autore. Quel che però resta impresso nella mia mente non è il secondo Eduardo di cui oggi si parla, bensì è l’ironia che ci accomunava nell’osservare il mondo (il suo per lui era sovente diviso fra desimoniani e antidesimoniani), il nostro lessico familiare, le sue stranezze non dissimili dalle mie: una su tutte, quella di noi seduti sui gradini d’una chiesa, mescolando fra loro argomenti futili e importanti di conversazione mentre lui su un quadernetto appuntava un voto per tutti i maschi che passavano.

La tua collaborazione con gli autori napoletani comprende anche Enzo Moscato, con cui lavorasti in Pièce Noire. Diversamente dalla felice esperienza con De Simone, quella di Pièce noire, sollecitata e incoraggiata da Franco Quadri, non si rivelò altrettanto soddisfacente.

Anche lì però la collaborazione fu motivata dalla tua personale ricerca attoriale. Quali furono i motivi di insoddisfazione? L’inconsueto approccio di Moscato con il ruolo di un femminiello napoletano. Ero stato scritturato per interpretare Desiderio, ma quel personaggio vestiva abiti femminili per confrontarsi con la matrigna, la Signora, interpretata con toni stranianti da Marisa Fabbri. Insomma tutto ciò andava oltre non solo il mio stile ma anche le mie possibilità. Purtroppo me ne accorsi solo in corso d’opera (tardi per dare forfait). Mi ritrovai alle prese con un autore concettualmente ermetico ed un regista (Cherif) interessato più alla tecnica e all’estetica che all’anima del personaggio. Il Desiderio che ne uscì fuori non credo riproducesse l’esperimento immaginato dall’autore ma un ibrido e probabilmente un fallimento della mia creazione. Eppure l’intellettualismo di certa critica ed un pubblico ben selezionato non se ne accorse neppure, anzi si arrampicò in tali e tante ‘letture’ che mi sovrastimarono, e addirittura apprezzarono la mia interpretazione... mah, così va il mondo.

121 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

Da allora non accettasti più scritture? Ho preferito lavorare a progetti in cui avevo più controllo, in produzioni della mia compagnia Teatro Aperto.

E sempre in ruoli femminili. Certo. Magari con qualche piccolo cambiamento. In Amore di tabacco, addomesticai i miei capelli con gel e brillantina, li tirati all’indietro raccogliendoli in un piccolo chignon come l’ultima Mina alla quale ‘rubai’ pure la famosa minigonna nera.

Era un testo di Cocteau. Fu un’altra sfida. Riuscii ad ottenere i diritti di traduzione del testo francese Le bel indifferent da Jean Marais che me li concesse dopo aver esaminato la mia proposta di rivisitazione. E ciò anche se mi allontanavo dalla versione originale interpretata da Edith Piaf, non perché cambiassi le parole, ma perché eseguivo tutto il testo due volte, in due versioni diverse (sempre con la partecipazione di Dotti). Questa duplicazione mostrava un secondo possibile, ma opposto, volto della protagonista.

E per finire ti sei confrontato con il teatro dialettale. Per La Fleppa lavandara, in dialetto bolognese, tornai ai capelli sciolti. Il testo ricorda il Ruzante, e fu scovato in un Archivio bolognese, tramandato da un Anonimo del Settecento. E così non solo ero diventato il più famoso interprete maschio di ruoli femminili ma anche il solo rappresentante del teatro in dialetto bolognese che conquistò spazio e credito oltre i confini della regione. Grazie ad Ugo Gregoretti che mi volle a Benevento, ho avuto la fortuna di far sentire all’Italia di quegli anni il sapore del mio dialetto, impregnato d’ogni gamma espressiva. Era la lingua appresa da mia madre, imbevuta di sentimenti ed emozioni d’ogni caratura, non solo comica o ridanciana. E fu l’occasione per chiudere in bellezza la mia carriera teatrale. Bellezza si fa per dire, perché fu proprio in quella Milano del Teatro Litta, che tanto ci applaudì, che Renzo avvertì i primi sintomi della sua malattia e recitò, nonostante la febbre alta, fino all’ultima replica.

Cosa è successo dopo? Nulla, una settimana di repliche al Litta di Milano poi più nulla.

Da allora ti sei ritirato dalle scene? Ho lasciato il teatro, mi sono messo a scrivere un testo che non ho ancora completato. Sentivo che ero arrivato a un buon livello di successo. E poi, quando Renzo morì di AIDS non solo mi mancò il compagno di vita ma anche il braccio destro teatrale. Avevo sempre diviso il lavoro con lui: era il mio angelo custode. Però se avessi avuto un teatro per continuare la ricerca,

122 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

con la mia compagnia… se mi avessero dato un qualsiasi teatro, come a tanti altri a Bologna… sarebbe stato diverso. In fin dei conti nessuna compagnia bolognese allora aveva raggiunto il mio livello di notorietà sul piano nazionale. Le mie richieste alla politica non ebbero risposte serie ma solo promesse non mantenute. Tante promesse e pochi fatti. Non volevo essere più costretto a cercare disperatamente una sala prove per ogni nuova produzione, e non volevo neanche lavorare come scritturato: non era il mio mestiere. Forse avrei potuto insistere di più. Le idee non mi mancavano. Forse anche per elaborare il lutto della morte di Renzo, mi sono chiuso in casa un mese, e dopo ho preso la decisione. Sono decisioni esistenziali e una volta che le hai prese non torni indietro.

Cosa hai fatto dopo aver smesso di fare teatro? Ho viaggiato. Sai, il viaggio ‘da soli’ che ti permette di vedere e scoprire le cose, le persone, come mai era successo nelle tournée che mi avevano portato in tanti posti, dalla Palestina al Messico ma con gli occhi e la mente incollati all’entourage dello spettacolo. Prendevo la macchina e viaggiavo. Sono andato in Marocco per tre mesi, a Parigi, a Cuba, dappertutto. Ed è stata un’esperienza meravigliosa. Negli anni della mia vita teatrale avevo patito molto il ruolo del capocomico. Fu una scoperta incredibile quella di poter buttare via l’agenda e svegliarsi al mattino senza avere impegni. Avevo sempre sognato quella libertà. La fatica del teatro mi stremava. Avevo circa quarant’anni o poco più… cosa avrei potuto fare nei successivi vent’anni che mi mancavano per la pensione? Quindi ho usato il mio diploma di ragioniere e feci i conti di tutto quello che avevo guadagnato, e anche di ciò che mi aveva lasciato Renzo. Visto che non spendevo molto, capii che potevo vivere con questa piccola rendita. E potevo anche viaggiare. Ho viaggiato per dieci o quindici anni, partendo senza sapere quando sarei tornato…

Teatrografia

1970 La Comune di Parigi Compagnia del collettivo bolognese GTV Gruppo Teatrale Viaggiante Regia: Luciano Leonesi Testo: Loriano Macchiavelli 24 Novembre 1970, Cortile del Palazzo Comunale (Bologna)

1972 Voglio dirvi di un popolo che sfida la morte Compagnia del collettivo bolognese GTV Gruppo Teatrale Viaggiante Regia: Luciano Leonesi

123 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

Testo: Loriano Macchiavelli 21 aprile 1972 al teatro Sanleonardo di Bologna

1973 I Pioli di Bach – Dang Testo di Loriano Macchiavelli Attori: Graziella Baldrighi, Angela Bassi, Paolo Bondioli, Walter Busiello, Giuseppe Casini, Guido Ferrarini, Erio Masina, Franco Roselli, Mariapia Schiavina, Anna Selva. Regia: Luciano Leonesi Scene e Costumi: Virgilio Jatosti Musiche: Luigi Beccafichi Prima rappresentazione inverno 1973 al teatro Sanleonardo di Bologna.

1975 Duse Duse... Duce Duce (versione collettiva) Compagnia: Teatro Aperto Testo: Collettivo (montaggio di testi letterari – D’Annunzio, Signorelli, Palazzeschi). Attori: (lista non completa) Walter Busiello, Claudio Cavina, Renzo Dotti, Guido Ferrarini, Simona Gruppi, Erio Masina, Maria Grazia Mangiotti, Mara Menegatti. Regia: Collettiva. Prima rappresentazione: Circolo Arci Bertolt Brecht, Via Genuzio Bentini 20, Quartiere Corticella, Bologna, dicembre 1975.

1977 Duse Duse... Duce Duce Compagnia: Teatro Aperto di Erio Masina Testo: Montaggio di Maria Grazia Mangiotti di testi letterari da De Amicis, D’Annunzio, Signorelli, Palazzeschi. Attori: Claudio Cavina (bambino), Renzo Dotti, Erio Masina (Duse), Maria Grazia Mangiotti. Regia: Erio Masina. Prima rappresentazione: Circolo Arci Bertolt Brecht, Via Genuzio Bentini 20, Quartiere Corticella, Bologna, primavera 1977.

1978 La Locandiera Compagnia: Teatro Aperto Testo: Carlo Goldoni. Riduzione (tre attori per nove personaggi) di Maria Grazia Mangiotti. Attori: Erio Masina, Renzo Dotti, Maria Grazia Mangiotti (e poi Nino Campisi quest’ultimo poi sostituito da Gianni De Feo).

124 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Regia: Erio Masina Scene e costumi: Maria Grazia Mangiotti Prima rappresentazione 20 maggio 1978 Teatro Comunale di Crevalcore (BO), poi dal 23 al 28 al maggio Teatro dell’Archivolto di Genova.

1979 Senza trucco, tutta in nero Compagnia: Teatro Aperto Testo tratto da Colloquio col tango di Carlo Terron (e da un'idea di R. Vernocchi). Compagnia Teatro Aperto Attori: Erio Masina, Renzo Dotti. Regia: Erio Masina Prima rappresentazione: Teatro Comunale, Crevalcore (Bologna) 11 maggio 1979 Vincitore premio IDI Saint Vincent 1980.

1980 Bella, se mi vuoi bene Testo: Erio Masina Compagnia Teatro Aperto Regia: Erio Masina Attori: Annibale Ruccello, Renzo Dotti Costumi: Magda Bava Prima rappresentazione: Napoli, Teatro Pacuvio, 21 ottobre 1980

L'opera buffa del giovedì santo Testo di Roberto De Simone Compagnia: Ente Teatro Cronaca Regia: Roberto De Simone Attori: Annamaria Ackermann, Giuseppe De Vittorio, Nunzio Gallo, Peppe Barra/Rino Marcelli, Graziella Marino, Erio Masina, Piero Pepe, Virgilio Villani, Calogero Butta,̀ Imma Cozzolino, Gian Franco Gallo, Lello Giulivo, Ernesto Lama, Gianni Lamagna, Margherita Ricciardelli, Anna Grazia Spagnuolo, Aida Sparano, Patrizia Spinosi. Scene: Mauro Carosi Costumi: Odette Nicoletti Prima rappresentazione: Prato, Teatro Metastasio 28 ottobre 1980

1982 Viva la regina Testo Aldo Nicolaj (tre atti unici Una voglia d’angelo, Passaggio a livello, Viva la Regina) Compagnia Teatro Aperto

125 Erio Masina, Il mio travestimento ‘senza trucco’

Attori: Erio Masina, Renzo Dotti. Regia, scene e costumi Erio Masina, (Renzo Dotti) Prima rappresentazione: Bologna, Teatro San Felice, 13 aprile 1982. Imola, Teatro Lolli, 21 maggio 1982. Bologna, Teatro Comunale di Crevalcore, 22 maggio 1982.

1984 Maledetta fra le donne Testo: Erio Masina, Roberto Vernocchi (elaborazione de Il figlio del reggimento dai racconti epistolari Anime a nudo di Marco Praga ) Compagnia Teatro Aperto Regia e scelte musicali: Erio Masina Attori: Erio Masina, Renzo Dotti Scene: Koki Fregni Luci e Suono: Alfredo Zeccoli Prima rappresentazione, Teatro Comunale, Imola, 11 dicembre 1984

1987 Amore di tabacco Testo tratto da Le bel indifferent di Jean Cocteau Compagnia: Teatro Aperto Regia e scelte musicali: Erio Masina Scene e costumi: Roberto Vernocchi Assistenza alla regia: Eva Robin’s Attori: Erio Masina, Renzo Dotti. Prima rappresentazione: 3 febbraio 1987 Teatro Duse Bologna

La Fleppa lavandara Testo di Anonimo bolognese del 1741; elaborazione di Fabio Foresti e Mariarosa Damiani. Riduzione e adattamento di Erio Masina Compagnia Teatro Aperto Regia: Boris Stetka e Gianfranco De Bosio Attori. Erio Masina, Claudia Benuzzi, Uliana Cevenini, Massimo Madrigali, Claudio Cavina, Massimiliano Sassi, Renzo Dotti. Prima rappresentazione: 12 settembre 1987 Benevento Città Spettacolo (VIII rassegna ‘Il teatro delle lingue sconfitte’ diretta da Ugo Gregoretti)

Pièce Noire Testo di Enzo Moscato Compagnia Nuova Scena Regia: Cherif

126 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Attori: Marisa Fabbri, Erio Masina, Walter Da Pozzo, Mario Toccacelli, Marina Pitta, Umberto Raho, Franco di Francescoantonio, Gea Martire, Carlo di Rosa, Carlo di Maio. Prima rappresentazione: Cesena Teatro Bonci, 20 novembre 1987.

Filmografia

1980 Si salvi chi vuole Regia Roberto Faenza

Sono fotogenico Regia Dino Risi

1986 Professione attrice video (tratto da Maledetta fra le donne) Regia di Carla Baroncelli e Erio Masina

127

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Ludovica Campione

Nel margine, la ribellione: il teatro secondo Silvia Calderoni*

Silvia Calderoni nasce il 9 settembre 1981 (anno di fondazione della Socìetas Raffaello Sanzio) a Lugo di Romagna, una piccola cittadina in provincia di Ravenna. La sua provenienza e appartenenza al territorio romagnolo rappresentano la chiave per comprenderne l’inusuale formazione attoriale e l’ingresso stesso sulla scena d’avanguardia italiana. Infatti, senza che ne sia ancora consapevole, l’attrice e performer lughese – attualmente icona e feticcio della compagnia riminese Motus – cresce nel mezzo di un fenomeno culturale ma dal carattere spiccatamente teatrale che prende il nome di ‘Romagna Felix’, grazie al quale entra in contatto con tutte le compagnie più importanti e significative degli anni Ottanta e soprattutto degli anni Novanta; e proprio in seno a queste ultime farà il suo ingresso, a piccoli passi, nel mondo del teatro contemporaneo. La linea dei cosiddetti Teatri 90 (dalla rassegna omonima organizzata da Antonio Calbi nel 1997 al teatro Franco Parenti di Milano) prende vita all’interno di una scena storico-politica e culturale, sia nazione che internazionale, di forte transizione e globalizzazione che confluisce nelle estetiche e nelle concezioni artistiche degli autobattezzatisi ‘Invisibili’, definiti anche la Terza Ondata1: Masque Teatro, compagnia fondata nel 1992 da Lorenzo Bazzocchi e Catia Gatelli a Bertinoro (provincia di Forlì- Cesena); Motus, fondata nel 1991 da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò a Rimini; Teatrino Clandestino, fondata nel 1989 a Bologna da Pietro Babina e Fiorenza Menni (e non più in attività dal 2009); Fanny & Alexander, fondata a Ravenna nel 1992 da Chiara Lagani e Luigi De Angelis. Forlì-Cesena, Rimini, Bologna e Ravenna: è evidente come l’asse geografico del teatro di ricerca italiano si sia, tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, fortemente polarizzato in un raggio più o meno ampio che comprende le principali province romagnole (Bologna lo è solo in parte): la ‘Romagna Felix’, per l’appunto, per via della sua incredibile fertilità artistica. A fare da apripista sono le compagnie cesenati della Raffaello Sanzio e della Valdoca e il ravennate Teatro delle Albe.

* Allegati all’articolo: materiale iconografico, consultabile on line. (www.actingarchives.it). 1 F. Quadri, Premessa a un Prototipo in R. Molinari, C. Ventrucci (a cura di) Certi Prototipi di Teatro: Storie, poetiche, politiche e sogni di quattro gruppi teatrali, Milano, Ubulibri, 2000, p.9. Circa quindici anni dopo Silvia Mei, parlando della generazione teatrale degli anni duemila, utilizzerà di nuovo l’espressione «terza», abbinandola, però, al termine «avanguardia» (La terza avanguardia: Ortografie dell’ultima scena italiana, a cura di S. Mei, in «Culture teatrali», n.24, Annale 2015).

© 2019 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it

127 Ludovica Campione, Nel margine, la ribellione: il teatro secondo Silvia Calderoni

Per le compagnie degli anni Novanta, però, la questione geografica rappresenta un punto di forza fondamentale. Difatti, l’ultimo decennio del Novecento si vede costretto a tirare le somme sulla fine del teatro come utopia di rinnovamento sociale e evidenzia il bisogno di riscrivere lo statuto del teatro, riscoprendo le minorità e la tradizione attraverso uno sguardo diverso, libero dal peso delle ideologie totalizzanti e integrato con gli altri media. In questa temperie, le estetiche e le pratiche delle quattro formazioni romagnole appaiono significativamente diversificate tra loro e molto spesso prive di un filo rosso, al punto che secondo alcuni, come Gerardo Guccini, non ha senso definirle come terza ondata, ma piuttosto come «casi isolati».2 L’unica tendenza unificante pare essere appunto quella di natura geografica, che vede nell’aggregazione un momento vitale di scambio reciproco e di solidarietà: «Quando dieci anni fa abbiamo iniziato, se non ci fossero stati gli altri […] sicuramente sarebbe stato più difficile andare avanti. Il pubblico dei reciproci spettacoli eravamo sempre noi […]. Quindi è proprio un rapporto interpersonale,» sono le parole di Enrico Casagrande.3 Sicuramente è possibile individuare una comune tendenza all’autoriflessione e all’utilizzo di linguaggi autoreferenziali, al rifiuto dei padri, all’uso del trash e del banale, alla propensione per le pratiche basse e l’horror, alla predilezione per la musica elettronica e contemporanea, per i linguaggi della virtualità, per la contaminazione con il cinema (soprattutto horror e fantascientifico), con le arti visive, con la filosofia contemporanea (Foucault, Baudrillard, Deleuze). Il teatro si pone come elemento di crisi e interrogazione. Sul piano delle grammatiche teatrali, diventa più centrale l’importanza attribuita allo spettatore, che viene chiamato ad una lettura multipla e personale dell’opera e alla creazione di una percezione privata attraverso l’utilizzo di prospettive voyeuristiche e caleidoscopiche che eludono la bidimensionalità della visione. Quest’ultima, d’altro canto, non appare compromessa solo dalla fruizione visiva dell’opera, ma anche dalle azioni stesse messe in scena, azioni spesso ossessive, incomplete, alterate, autistiche, illogiche, meccaniche. O dalla costruzione dello spazio, grazie ad impianti scenografici che creano delle vere e proprie barriere, impedimenti alla visione, attraverso gabbie, teche, contenitori trasparenti, che fanno appello alla dimensione individuale. Un altro dei principi cardine della linea dei Novanta è il corpo dell’attore (il cui ruolo si sovrappone sempre più a quello del performer), la cui concezione – e di conseguenza l’uso – cambia con il mutare del contesto

2 G. Guccini, Teatri verso il terzo millennio: il problema della rimozione storiografica, in «Culture Teatrali», primavera-autunno 2000, n/n. 2-3, pp. 11-26, p.13. 3 T. Fratus (a cura di), Lo spazio aperto. Il teatro ad uso delle giovani generazioni, Roma, Editoria & Spettacolo, 2002, p.171.

128 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

culturale di riferimento. I corpi portati sulla scena dalle compagnie dei Teatri 90 sono corpi imperfetti, dalle identità multiple, incompleti, de- umanizzati, reificati e artificiali, ora corpi-macchina, ora corpi-animale, ora alla stregua di oggetti, o ancora scarni, svestiti, essenziali, definiti per sottrazione. L’attore del teatro di fine millennio non è più chiamato ad interpretare un personaggio,4 ma si muove all’interno di un teatro che esibisce un fetish per il corpo incapace di comunicare, che abbandona la parola narrativa e deforma corpi e voci attraverso dispositivi tecnologici, un teatro che si lega sempre di più alla danza, alla performance, alla body art, alla cyber art. La sua presenza, quindi, «non è più considerata all’interno delle tecniche attoriali per la rappresentazione del personaggio bensì come una qualità dell’essere e più spesso in quanto effetto cognitivo sul pubblico.»5 La maturazione artistica di Silvia Calderoni prende vita, quindi, in un momento in cui il corpo dell’attore ha assunto una posizione centrale all’interno della ricerca sia dei Teatri 90 che dei suoi predecessori, tra cui il Teatro della Valdoca, in cui si completa il suo percorso di formazione. A queste compagnie importa sempre meno la provenienza o la preparazione accademica dell’attore, di cui invece si ricerca la qualità individuale, la singolarità, di portare il reale sulla scena, di essere ‘iper’, come lo vogliono Enrico Casagrande e Daniela Nicolò di Motus; di mostrare la propria personalissima materia («se sia marmo, o creta, o legno»)6 e adattarla al lavoro in programma, come richiedono Pietro Babina e Fiorenza Menni di Teatrino Clandestino; di essere difformi, plasmabili e aperti alla metamorfosi, come voluto da Masque Teatro e Fanny & Alexander. Se questa è la temperie in cui si muove l’attore del teatro di ricerca del nuovo millennio, Silvia Calderoni ne è nel modo più assoluto l’emblema. La sua formazione, che potremmo definire endogamica, nasce e si sviluppa all’interno di queste dinamiche, assorbendone tutte le caratteristiche. Il primo incontro dell’attrice e performer con la realtà italiana avviene nel 1998 proprio nella sua Lugo, quando una Silvia appena diciassettenne decide di iscriversi al laboratorio teatrale offerto dal suo liceo e tenuto da Pietro Babina e Fiorenza Menni di Teatrino. Clandestino. Il laboratorio si svolgeva nella palestra della scuola e partiva da una domanda/riflessione:

Se è vero che compiere un atto teatrale è trasporre qualcosa che è in noi (non in senso psicologico o sentimentale) al di fuori di noi, cioè renderlo un fatto

4 Su questo tema si veda E. Fuchs, The Death of Character. Perspectives on Theatre after Modernism, Bloomington, Indiana University Press, 1996. 5 A. Pizzo, Il corpo mediatizzato: Corpo e personaggio nel teatro intermediale, in «Mimesis Journal», 7, 1, 2018, pp.113-125, p.124. 6 R. Molinari, C. Ventrucci (a cura di), Certi Prototipi di Teatro: Storie, poetiche, politiche e sogni di quattro gruppi teatrali, Milano, Ubulibri, 2000, p. 48.

129 Ludovica Campione, Nel margine, la ribellione: il teatro secondo Silvia Calderoni

pubblico, allora quali sono le operazioni, i percorsi, le indagini, che dobbiamo compiere perché questo farsi pubblici trovi una sua ragion d’essere? E soprattutto si possa dire che questo passaggio (che va inteso anche come metamorfosi) è avvenuto?7

È così, dunque, che la Calderoni inizia il suo percorso, con una riflessione sulla relazione tra le pratiche attoriali e il rapporto con lo spettatore, temi che saranno sempre parte della sua personale ricerca artistica. Grazie all’incontro con Teatrino Clandestino, si schiude dinanzi all’attrice un mondo nuovo di cui sente di voler fare parte. Da quel momento, e grazie anche alla replica di 30 contro 30 – lo spettacolo venuto fuori dal laboratorio – fortemente voluta da Masque Teatro al Festival Crisalide dello stesso anno, entra in contatto con tutte le compagnie e le realtà artistiche della Romagna e dintorni, si nutre dei loro spettacoli e delle loro estetiche, diventa fan di Motus. Fin dai suoi primissimi passi, Silvia Calderoni si muoverà in quello spazio liminale tra il teatro, la danza e la performance. Difatti, prima di approdare a teatro con la Valdoca e con Motus, la Calderoni passa attraverso due esperienze fondamentali che le permettono di riflettere sul corpo e le sue pratiche: il lavoro con la coreografa contemporanea Monica Francia e quello per la compagnia di teatro da discoteca Teddy Bear Company di Antonio Lamattina (marito della Francia) e Luigi de Angelis. L’incontro con queste due realtà le consente non solo di modificare profondamente gli assetti di un corpo segnato dall’atletica leggera – che la performer aveva fino a quel momento praticato a livello agonistico –, ma anche di prendere piena consapevolezza della potenzialità della sua androginia, aspetto che continua ad essere parte centrale della sua ricerca e della sua produzione teatrale. Con la coreografa, Silvia Calderoni prende parte agli spettacoli di danza Cerimonia. Viaggio errante verso Shakespeare in 3 siti e 7 quadri (2001), Memorie di M (2003) e Déjà vu (2004), seguendo sempre però una partitura diversa e unica rispetto alla coreografia, configurandosi anche in questo come performer anomala e marginale all’interno dell’ensemble. Sempre grazie a Monica Francia, l’attrice lavora nell’ambito organizzativo del Festival di Danza Urbana Ammutinamenti, che le fornisce l’occasione non solo di allenare lo sguardo ad estetiche e pratiche fino a quel momento sconosciute, ma anche di esibirsi in piccole incursioni performative in ambiente urbano che rappresentano gli unici lavori puramente autoriali dell’artista. Insieme alla Teddy Bear Company – compagnia fondata nel 1993 su richiesta della direzione artistica del Cocoricò di Riccione – la Calderoni si esibisce in tableaux vivants, azioni sceniche dal carattere performativo della

7 Dalla scheda di presentazione dello spettacolo 30 contro 30 per il Festival Crisalide: http://www.masque.it/CRISALIDE/crisalide%201998/30%20contro%2030.htm

130 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

durata di diverse ore: sculture umane, corpi crocifissi, pose plastiche, corpi immobili chiusi in teche di plexiglass per tutta la serata. La riflessione che l’artista ne ricava riguarda sia l’automappatura del suo corpo sia la possibilità di osservare le reazioni di chi la guarda; entrambi questi fattori le permettono di acquisire una rinnovata consapevolezza delle sue potenzialità fisiche e sceniche. La formazione di Silvia Calderoni, coerentemente a come è iniziata, continua ad evolversi all’interno del teatro che più le appartiene, quello di ricerca, trovando una sua naturale conclusione nel 2002/2003 nella scuola di Alta Formazione dell’Attore (Imparare è anche bruciare) di Cesare Ronconi, regista e co-fondatore del Teatro della Valdoca. Come Pietro Babina e Fiorenza Menni qualche anno prima, anche Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri (poetessa, drammaturga e co-fondatrice della Valdoca) riconoscono nel corpo ossuto e filiforme della Calderoni una potenza espressiva su cui investire: l’attrice così prende parte ad alcuni degli spettacoli che la compagnia cesenate produce insieme a giovani attori, tra cui l’emblematica trilogia Paesaggio con fratello rotto. Si tratta di un progetto estremamene ambizioso, composto da tre spettacoli – Fango che diventa luce (2004), Canto di ferro (2005), A chi esita (2005) – ed interamente documentato in forma di film, che muove dalla necessità della compagnia di ribellarsi ad una scena, sia umana che teatrale, ormai assillata dal Male, dalla violenza, dall’orrore e in disperato bisogno di parole coraggiose d’amore, di gioia e di bellezza. In linea con il rifiuto della Valdoca per il personaggio inteso come psicologia, nei primi due spettacoli di questa produzione Silvia veste i panni di diverse figure archetipiche, seminuda e truccata dei colori tipici della compagnia cesenate, il rosso del sangue, il bianco della purezza e il nero delle tenebre: in Fango che diventa luce è la Giraffa, archetipo dell’umanità che ha conservato la propria anima primordiale e che si muove quindi in una dimensione ludico-spirituale- animale; in Canto di ferro è la Geisha, figura duale e contraddittoria dall’andatura zoppa che rappresenta la possibilità dell’umanità di guarire. Come tutte le figure che popolano l’universo poetico della Valdoca, anche le figure dell’immaginifico rappresentate dalla Calderoni nascono dalle visioni registiche di Cesare Ronconi costruite sui corpi e sulle caratteristiche degli attori, completate dal testo di Mariangela Gualtieri, che integra e trasforma la costruzione dello spettacolo. Nonostante la permanenza della Calderoni all’interno della compagnia cesenate non sia durata a lungo (termina, infatti, nel 2008 quando l’attrice decide di dedicarsi totalmente al lavoro che aveva intrapreso con Motus), per merito dell’estetica e della pratica attoriale di cui fa esperienza grazie a Ronconi e Gualtieri, la Calderoni trova uno spazio molto ampio in cui esprimere le sue qualità performative, maturare una propria consapevolezza scenica e prendere familiarità, facendoli suoi, con alcuni

131 Ludovica Campione, Nel margine, la ribellione: il teatro secondo Silvia Calderoni

principi cardine del teatro d’avanguardia: l’improvvisazione, il suono, la parola poetica, la dimensione corporea. La compagnia che però consacra Silvia Calderoni a icona del teatro del nuovo millennio è la riminese Motus, fondata dai registi e drammaturghi Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. A partire dal 2005, con la partecipazione al video di accompagnamento dello spettacolo Piccoli Episodi di Fascismo Quotidiano, e in pianta stabile dal 2008, la performer prende parte da protagonista a tutte le produzioni della compagnia, arrivando a firmare la sua prima drammaturgia nel 2015, quella di MDLSX, spettacolo che ancora oggi porta in giro per il mondo. Grazie al lavoro con Motus, la Calderoni vince il prestigioso premio Ubu per la migliore attrice under 30 nel 2009, il premio Elisabetta Turroni per la creatività artistica nel 2014, il premio Virginia Reiter per le giovani attrici under 35 nel 2014. Un percorso straordinario che l’ha vista collaborare con diversi attori e performer che si sono susseguiti accanto a lei sulla scena di Motus, nessuno dei quali però è arrivato ad essere definito «l’attrice icona degli ultimi lavori della compagnia riminese»8 come fa Chiara Pirri su «Teatro e Critica», o «volto e totem dei Motus» e «testimonial più famosa del lavoro di ricerca»9 come fa Sabina Minardi su «L’Espresso», fino ad arrivare a «attrice feticcio, emblema di un’intera generazione e delle sue inquietudini»10 come scrivono Oliviero Ponte di Pino e Giulia Alonzo su «Ateatro», a dimostrazione che l’iconicità di Silvia Calderoni è di fatto strabordata fuori dai confini della stessa compagnia a cui è indissolubilmente legata. È indubbio che il suo ruolo, il suo status, in Motus sia diverso da quello degli altri attori che hanno militato – anche più volte – tra le file della compagnia, in virtù della longevità, dell’esclusività ma soprattutto della qualità di questa collaborazione. Al punto che la compagnia stessa non si identifica più solo attraverso i nomi dei due fondatori. Fin dai suoi esordi, la ricerca teatrale di Motus ha avuto come motore il corpo e le sue pratiche, nella convinzione che «solo il teatro possa far esplodere gli ‘infiniti mondi’ che fanno riferimento al corpo.»11 Silvia Calderoni è soprattutto corpo, un corpo in potenza, malleabile, proteiforme, capace di assumere tutte le dimensioni che la scena di Motus ha sempre richiamato e prediletto: corpi femmina, corpi maschio, corpi androgini, corpi queer, corpi animale, corpi macchina, corpi politici, corpi

8 C. Pirri, Syrma Antigone all’Angelo Mai: Motus sur la route, in «Teatro e critica», 29 marzo 2011. 9 S. Minardi, Silvia, talento a corpo libero, in «L’Espresso», 13 giugno 2012. 10 G. Alonzo, O. Ponte di Pino, #DuettoCritico2015| Il soggetto nell’era della riproducibilità tecnica. MDLSX dei Motus con Silvia Calderoni, in «Ateatro. Webzine di cultura teatrale», numero 157, 25 gennaio 2016. 11 S. Chinzari, P. Ruffini (a cura di), Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio. Roma: Editoria & Spettacolo, 2016, p.199.

132 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

alieni, corpi cyborg, corpi vivi, esposti, fragili, in rivolta, in tensione, in cambiamento, al margine, al centro.12 Il lavoro con i due registi di Motus ha esaltato la parte più performativa dell’indole della Calderoni, fino a renderla ciò che Renata Savo definisce un performer-immagine, ossia una «presenza forte e magnetica, che si auto-rappresenta in modo assoluto. Naturale, ma risonante.»13 Fino a sviluppare un’intelligenza compositiva tale da giustificare tutte le ‘icona’, ‘feticcio’, ‘totem’ che la critica le ha cucito addosso. Con Motus, l’attrice ha lavorato a oltre 20 tra spettacoli, performance e videoinstallazioni, la maggior parte dei quali da protagonista. Infatti, con la transizione dal video (Piccoli episodi di fascismo quotidiano, 2005 e A place [that again], 2006) alla scena (Rumore Rosa, 2006, dove si esibisce al fianco di Emanuela Villagrossi), il lavoro con la compagnia si intensifica in maniera significativa fino ad approdare al lungo e complesso progetto X (ICS), articolato in una vasta costellazione di spettacoli, movimenti, installazioni, performance e mediometraggi, e che segna l’inizio della sua ascesa come icona di Motus. Tale progetto si propone di mostrare senza filtri e senza risparmi di crudezza il rapporto tra la giovinezza, intesa sia in senso anagrafico sia come luogo dell’imprevedibile, e la periferia urbana, fuori dalle regole urbanistiche e sociali della città, in cui si può vagare privi di identità e senza l’ossessione di essere iperconnessi. Ed è nelle vesti di una pattinatrice senza nome che troviamo la Calderoni, mentre si aggira nelle banlieue italiane, francesi e tedesche e ne esplora i tentativi di resistenza giovanile. Una ricerca teatrale a tappe che segue la tendenza e il bisogno della compagnia riminese di uscire livinghianamente dal teatro come luogo e di agire all’interno (o all’esterno o ai margini) di environment altri, reali, in cui il teatro come pratica è in grado di infiltrarsi come un parassita, come una pianta rampicante per svelarne brutalmente i meccanismi, per proporre tentativi di catarsi e riqualificazione: l’alterità di Silvia Calderoni ben si presta a dare un volto e un corpo queer a questa ricerca sullo spazio e sui codici della contemporaneità. Grazie a questo progetto, e al precedente Rumore Rosa, la performer riceve le prime nomination al premio Ubu come migliore attrice under 30. Il 2009 rappresenta un anno chiave per la Calderoni, sia in relazione alla sua maturazione artistica che alla sua definitiva affermazione sulla scena internazionale di ricerca. Lasciato il lavoro con la Valdoca, la performer si concentra completamente su Syrma Antigónes, il nuovo progetto messo in

12 Per un approfondimento sulle relazioni tra corpo, identità postmoderna e alterità si veda D. J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995. 13 R. Savo, Intervista a Silvia Calderoni, performer-immagine dei nostri tempi, in «Scene Contemporanee», 8 marzo 2016.

133 Ludovica Campione, Nel margine, la ribellione: il teatro secondo Silvia Calderoni

piedi da Motus con lo scopo di scandagliare le figurazioni di Antigone come simbolo di disobbedienza civile, conflitto generazionale e ribellione giovanile, anche in relazione all’omicidio del giovane studente greco Alexandros-Andreas Grigoropoulos avvenuto ad Atene nel dicembre del 2008. Per Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, Silvia Calderoni rappresenta ormai una vera e propria musa e con lei e su di lei costruiscono questo ennesimo viaggio troppo complesso per potersi risolvere in un solo spettacolo. Insieme a diversi studi dal carattere laboratoriale, troviamo infatti Let the sunshine in (antigone) contest #1 (2009), TOO LATE! (antigone) contest #2 (2009), IOVADOVIA (antigone) contest #3 (2010) e Alexis. Una tragedia greca (2010). Nei panni di Antigone, Silvia non è che un’estensione di se stessa, è l’attrice di Motus che con la compagnia porta avanti un discorso di lotta al sistema artistico vigente, di impegno sociale, civile e politico, proprio come il personaggio che interpreta. Anche questa sua capacità di iperrealismo, di portare se stessa sulla scena la rende l’attrice perfetta per la compagnia riminese e per il teatro di cui si fa portavoce. Sono ancora una volta le fattezze androgine della Calderoni a dare corpo e vita al rifiuto di Antigone di diventare madre e moglie e di restare solo sorella di Polinice, di Eteocle e di Ismene (l’Antigone ‘anti-gynè’ già figurata da Judith Malina nel 1967), tutte relazioni che il progetto analizza nel profondo per portare sulla scena un’alternativa possibile al ‘too late’ che il coro del Living Theatre faceva risuonare quasi cinquanta anni prima. Proprio sulla scia delle domande suscitate da Antigone, nasce Animale Politico Project 2011>2068, un progetto che per l’attrice lughese rappresenta una consacrazione non solo per spettacoli fondamentali come Caliban Cannibal (2013) e Nella Tempesta (2013), ma soprattutto per The Plot is the Revolution (2011), dove recita accanto alla fondatrice del Living Theatre, Judith Malina, ai tempi ultraottantenne. È proprio quest’ultima a voler lavorare con Motus e con la Calderoni, da cui resta colpita e affascinata nel gennaio del 2011, dopo averla vista in TOO LATE! (antigone) contest #2 a New York accompagnata da Tom Walker (membro storico e archivista del Living Theatre), Brad Burgess e il resto della compagnia. Lo spettacolo che viene fuori da questa collaborazione non è una messinscena ma un dialogo, un confronto generazionale tra due Antigoni, in scena e nella vita politica e artistica, un incontro nel presente tra due esperienze teatrali lontane e diverse ma che risuonano l’una nell’altra. The Plot is the Revolution, in questo modo, è anche una riflessione sullo statuto stesso del teatro e sulla sua possibilità di fare fronte e di gestire l’attualità e le sue emergenze, e si pone come ennesima tappa di un percorso più ampio nato con il progetto X (ICS). Lo spettacolo è giocato sulla dualità espressa dalle due attrici in scena: Judith seduta ad un tavolo, statica, risponde alle domande dell’attrice lughese e richiama episodi della sua lotta politica e artistica intrecciandoli tra loro, e Silvia in movimento (in motus!) per tutto

134 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

lo spazio dà corpo e vita – come in una summa del lavoro del Living Theatre – alle scene più significative degli spettacoli della compagnia americana. La Calderoni, in scena, è sempre sé stessa, dimostra eccezionali capacità interpretative e compositive che le permettono ormai di controllare e frenare il suo corpo quando necessario e di uscire e entrare da una situazione, essere Living e tornare Silvia senza problemi, lasciando anche una traccia forte del suo passaggio. Una delle repliche di The Plot is the Revolution approda al Teatro Valle, storico teatro di Roma, occupato dal 2011 al 2014. L’incontro con questo luogo e con le iniziative di ripensamento di modelli culturali dal basso messe in atto dagli attivisti che hanno portato avanti l’occupazione è stato di vitale importanza per la vita artistica e politica della Calderoni che nel 2013, in piena occupazione, decide di trasferirsi a Roma per poter prendere parte attiva a quel cantiere di idee in divenire che era la realtà del Valle Occupato e che ha rappresentato per lei un momento di crescita fortissimo. Tuttora l’attrice vive a Roma, nel quartiere Pigneto, dove è forte la presenza della comunità queer di cui fa parte e dove continua la sua attività di attivismo politico, non solo sulla scena. Dopo la parentesi rappresentata dalla messinscena King Arthur, semi-opera musicata nel 1690 da Henry Purcell, nel 2015 Silvia Calderoni festeggia i primi 10 anni di collaborazione con Motus lavorando alla sua prima drammaturgia: quella dell’a solo MDLSX, che ancora oggi a distanza di quattro anni registra il sold-out in giro per il mondo. MDLSX rappresenta a pieno non solo collaborazione dell’attrice con i registi riminesi, ma è anche la sintesi perfetta del lavoro della compagnia, il punto di arrivo di un percorso partito da Samuel Beckett e Ballard e passato per Rilke, Pasolini e Fassbinder, per i giovani abbandonati nelle periferie europee, per Antigone, Ariel e Calibano e per una nuova idea di rivoluzione, sociale e teatrale. Ed è significativo che questa coronazione arrivi e si esplichi attraverso la presenza della Calderoni, che mai come in questo caso mette in scena – e allo stesso tempo nega – sé stessa. Difatti, la drammaturgia dello spettacolo è interamente costruita su un’ambivalenza tra fiction (il pretesto di partenza è il romanzo Middlesex di Jeffrey Eugenides) e realtà, quest’ultima rappresentata dall’elemento biografico e dal corpo stesso dell’attrice, così forte da dare vita ad uno spettacolo ibrido in cui la prima reazione dello spettatore è quella di credere di aver assistito ad una messa in scena della biografia della Calderoni. La natura ibrida dello spettacolo è sottolineata dal titolo stesso: MDLSX è un insieme di consonanti impronunciabili che richiamano il titolo del romanzo su cui nasce lo spettacolo e che compone buona parte della partitura testuale (a cui Motus aggiunge estratti di testi di critica e filosofia femminista, queer e sulle biopolitiche del corpo). Tuttavia, solo lo spettatore con il giusto riferimento culturale è portato a fare l’associazione.

135 Ludovica Campione, Nel margine, la ribellione: il teatro secondo Silvia Calderoni

La restante parte rivede nell’odissea dello pseudoermafrodito Cal/Calliope (è doveroso sottolineare l’assonanza con Calderoni) la vita della performer, anche e soprattutto in virtù di quelle fattezze androgine che da sempre sono centrali nella sua ricerca artistica. Il formato stesso dello spettacolo è un formato ibrido ed eccentrico che si muove tra la performance e il dj/vj set e si presenta quindi come un ulteriore scardinamento della forma teatrale. Lo spettatore è chiamato ad una visione multipla e ad una costruzione personale dello spettacolo, fondato sulla molteplicità di ciò che accade sulla scena, dei video dell’infanzia della Calderoni riprodotti alle sue spalle e della ripresa live del suo corpo che la performer proietta grazie ad una piccola videocamera che porta costantemente con sé. Tuttavia, l’elemento più potente della scrittura scenica di questo spettacolo è sicuramente il corpo di Silvia Calderoni, che in MDLSX dimostra un’intelligenza compositiva estremamente matura, una consapevole presenza nello spazio e la capacità di variare l’intensità performativa con grande precisione. In questo a solo di Motus, Silvia esibisce un corpo estremamente politico, un corpo che non ha paura di mostrare interamente nudo, nella sua fluidità e nella sua irriducibile contemporaneità. In scena Silvia è sempre in movimento, in trasformazione, trasmette un’energia potente, in divenire: si muove in modo convulsivo, di corsa, balla le sue canzoni come fosse in discoteca, si esamina attraverso la lente della videocamera, cambia continuamente abbigliamento da femminile a maschile, si lacca i capelli, dà corpo alla sofferenza e alla lotta di Cal nell’odissea verso la liberazione sessuale e l’accettazione della sua unicità – una diversità che appartiene anche al corpo androgino della Calderoni. Tuttavia, il lavoro di Silvia Calderoni non si esaurisce a teatro. Si spinge anzi ben oltre la sola attività di attrice e performer mutevole, a partire dall’attività affine di ricerca soprattutto in ambito performativo e attoriale, passando per il cinema, la musica (è anche una dj) e persino la moda – nel 2017, infatti, è stata scelta dal direttore creativo di Gucci Alessandro Michele come uno dei volti della campagna Roman Rhapsody, proprio in virtù della sua bellezza fuori dai canoni dell’estetica mainstream. Questo intreccio di mondi rappresenta per l’attrice un valore aggiunto, in virtù di una sua filosofia artistica che tende alla costante apertura e che le permette di portare poi a teatro tutte le realtà che ha attraversato. È così che nasce il lavoro con il gruppo di ricerca Open, attivo dal 2001 al 2005 e messo in piedi dalla dancemaker Cristina Kristal Rizzo con l’intento di aprirsi a diversi formati, idee, contatti e contaminazioni, e di mettere in discussione le pratiche attoriali e il rapporto con il pubblico e lo spazio. O ancora il percorso che indaga le modalità del corpo di stare sia nello spazio urbano che nella sala, progetto che dal 2013 porta avanti con la performer e compagna Ilenia Caleo e che le ha viste organizzare in Italia e in Europa

136 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

diversi workshop, atelier, masterclass, esperimenti, installazioni, laboratori; l’ultimo un workshop titolo Baciare. Ovvero studio senza pena da ‘Kiss’ di Andy Warhol tenutosi alla Biennale College di Venezia nel 2018. In conclusione, nonostante sia parte di una compagnia, i Motus, e nonostante il suo lavoro prettamente autoriale sia minimo, sono le scelte artistiche, l’impegno politico, la capacità di comporre sulla scena, l’attitudine a portare il suo vissuto a teatro, la contaminazione con diversi media, l’attraversamento delle più disparate esperienze artistiche, un corpo che nella sua particolarità rappresenta un’intera generazione, a rendere la Calderoni la degna rappresentante di un teatro dal carattere proteiforme e contraddittorio, ibrido e aderente al reale come quello che popola l’ambiente italiano di ricerca.

137

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Silvia Calderoni L’attrice come corpo e icona. Intervista di Ludovica Campione*

Cominciamo dalla tua formazione. Il primo contatto con il teatro l’hai avuto al liceo, a 17 anni, quando hai partecipato ad un laboratorio organizzato da Pietro Babina e Fiorenza Menna di Teatrino Clandestino nel 1998 a Lugo, tua città natale. La compagnia bolognese rappresentava allora una delle forme di sperimentazione più avanzate, al di fuori dei codici rappresentativi, ed era parte di quella temperie d’avanguardia più ampia che abbracciava buona parte del territorio romagnolo, la cosiddetta Romagna Felix dei Teatri 90.

Avevo 17 anni su per giù ed è stato il primo incontro con una possibilità altra di espressione e con un immaginario con cui io non avevo mai avuto alcun contatto. Vengo da una famiglia semplice, a casa di teatro non se ne era quasi mai parlato, andavo a teatro quando la scuola me lo proponeva a vedere cose che non c’entravano assolutamente nulla. Andavo a vedere la stagione del contemporaneo e magari vedevo Paolo Poli e mi sembrava la cosa più contemporanea che ci fosse, quando in realtà non era affatto così. L’incontro con Pietro e Fiorenza per me è stato questo, avvertire dentro di me un nuovo potenziale creativo. Credo a tanti accada di incontrare ad una certa età qualcosa in cui risuonano, per me è stato un risuonare.

Che lavoro avete fatto insieme?

Non lavoravamo su un testo, eravamo in 30 e lavoravamo nella palestra della scuola, quindi neanche in un teatro, non c’era uno schema frontale: il lavoro finale si chiamava 30 contro 30 perché c’erano 30 ragazzi e 30 spettatori seduti su 30 sedie, quindi si creava un rapporto 1 a 1 tra noi e gli spettatori. Ricordo che un momento che per me era molto forte era quando ognuno di noi si sedeva sulle gambe di uno spettatore. Durante una di queste repliche io mi sono seduta sulle gambe di Enrico Casagrande, il regista di Motus. È stato questo il mio primo incontro con Enrico. L’esperienza con Fiorenza e Pietro non è stata solo un’esperienza di laboratorio, mi ha permesso di entrare in contatto con il mondo dei Teatri 90. Tutte queste

* Allegati all’articolo: materiale iconografico, consultabile on line. (www.actingarchives.it).

© 2019 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it

137

Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

compagnie erano molto legate l’una all’altra sia per amicizia che per motivi di carattere geografico. Quindi non solo ho conosciuto Teatrino Clandestino, ma ho conosciuto anche Teatro della Valdoca, Raffaello Sanzio, Masque Teatro, Motus, Fanny & Alexander: nell’arco di 30 km c’erano tutti.

Subito dopo hai iniziato a seguire queste compagnie?

Sì, quando andavo a vederne una incontravo tutti gli altri e piano piano iniziavo a riconoscere le persone e a realizzare che quel mondo mi piaceva da morire, soprattutto considerate le alternative per noi giovani romagnoli. C’era il mondo dei locali ma era un’altra cosa, qualcosa verso cui non sentivo quel tipo di attrazione così forte, anche se dopo qualche anno ho iniziato a lavorare al Cocoricò e l’ho fatto per 10 anni. Per quel mondo delle compagnie ho proprio avuto un colpo fulmine. Non si trattava tanto dell’ossessione di voler diventare attrice, era piuttosto il voler far parte di un mondo con cui mi sentivo affine.

Il mondo del teatro di ricerca?

Sì. Quello era lo stesso periodo in cui mi sono resa conto che mi piacevano le ragazze, in cui mi sono resa conto che non mi importava più nulla di tutto quello che avevo sempre detto di voler fare, dallo studio della storia contemporanea all’atletica leggera, su cui avevo molto investito. Sentivo il bisogno di poter essere quello che volevo essere in un ambiente in cui mi sembrava di poterlo fare senza troppe complicazioni. L’ambiente italiano di ricerca era quel luogo lì. L’incontro con Pietro e Fiorenza è stato fondamentale.

In una intervista, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò affermano che gli incontri con gli attori di Motus “insistono su coincidenze impressionanti”, e così è stato anche per te. Dopo l’incontro fortuito di 30 contro 30 non vi siete più visti?

In realtà poi li ho più volte incrociati, andavo a vedere i loro spettacoli, ero una superfan. Così ho fatto un provino ma non mi hanno preso. Era per L’Ospite, il lavoro che Enrico e Daniela hanno fatto su Teorema di Pasolini. Io sono andata a questo provino convinta di essere l’ospite perfetto, cercando di spiegare che: “Sono io l’ospite! Guardatemi! Sono quella cosa là!” E invece no. Non mi hanno presa. Meglio così, perché poi ho fatto la scuola della Valdoca, intraprendendo un percorso diverso per poi rincrociarli due o tre anni dopo.

138 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Il tuo percorso all’interno dell’ambiente di ricerca è iniziato all’insegna della danza e della performance. Nel 2001 hai lavorato con la coreografa Monica Francia (anche lei tra l’altro ravennate). Come vi siete conosciute e come hai iniziato a lavorare con lei?

L’estate dopo il laboratorio con Teatrino Clandestino, Fiorenza Menni mi chiese, per il mio primo anno di università, se volevo andare a casa sua a Bologna perché era vuota. Potevo andare a stare lì, invece di fare la pendolare. Non eravamo chissà in quali rapporti, però tutto quello che mi dicevano Pietro e Fiorenza era oro colato e quindi sono andata subito. Arrivo a casa e mi trovo sul tavolo una mail stampata dell’invito ad una selezione per un lavoro con Monica Francia. E io ovviamente mi sono iscritta. Si trattava di un ciclo di tre laboratori, poi se volevi potevi fare un provino per entrare nel gruppo di persone – cast non è proprio la parola giusta perché non è così che lavora Monica – che avrebbe preso parte a uno spettacolo del 2001 che si chiamava Cerimonia. Io vado a fare i laboratori senza pensare di fare il provino, ma poi il ciclo dei tre laboratori era assai lungo, avevo conosciuto tutti, ho deciso di provare e Monica alla fine mi ha preso.

Che esperienza è stata rispetto al laboratorio con Teatrino Clandestino?

È stata la mia prima vera esperienza con il corpo dopo 10 anni di atletica, che erano stati dieci anni di rigore. Monica invece non lavorava su un tecnicismo molto forte, tendeva un po’ a smontare. Si trattava più di un lavoro di relazione tra corpi e tra corpo ed esterno, con gli altri. Il movimento inteso come libertà assoluta. Per me è stato molto importante partire da questo tipo di lavoro, perché ero tutta dinoccolata, storta, chiusa. E con il lavoro di Monica piano piano mi sono aperta. Poi Monica è diventata un punto di riferimento a Ravenna, dove mi sono trasferita. Lì ho conosciuto Simona Diacci (la dj Trinity), e ho incontrato Gerardo Lamattina, il marito di Monica.

Che cosa è successo poi?

Monica mi ha coinvolto nella preparazione di due festival estivi di arte urbana organizzati da lei. Anche quello è stato un modo per conoscere gente, vedere persone, fare lavori diversi. Io mi occupavo di cose pratiche, niente di artistico, ma era un modo di conoscere il lavoro da dentro, un vero e proprio allenamento alla visione e a estetiche che non avevo incontrato fino a quel momento. Poi Gerardo Lamattina, che aveva una compagnia di teatro da discoteca che si chiamava Teddy Bear Company, mi chiede di collaborare con lui in

139 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

alcune performance, dei tableaux vivants. Quindi ho iniziato a lavorare con Gerardo e quello è stato veramente un allenamento.

In che senso un allenamento?

All’inizio lo prendi un po’ come uno studio, un modo per vedere cosa succede al tuo corpo quando resti immobile per tre ore e mezza. Io ho dato totale libertà a Gerardo di immaginare cose un po’ più complesse, ma che in realtà aveva già fatto, tipo chiudermi in un tubo dli plexiglass colmo di mosche o crocifiggermi al muro. E lì inizi a studiare due livelli di coscienza del corpo: il corpo in stasi, che mappi continuamente (i dolori che ti vengono dopo una, due, tre ore, i pruriti, ecc.), e il corpo in relazione. Con un pubblico che non è quello dei teatri ma il pubblico dei “mastini” del Cocoricò che non sono lì per vedere te, sono lì per un’altra cosa e il tipo di energia che mettono in campo è un altro.

Quali erano le possibilità che ti dava recitare in un luogo poco convenzionale anche per il teatro di ricerca?

In realtà questo non è proprio vero. Al Cocoricò in quegli anni c’era un direttore artistico particolarmente illuminato che seguiva la scena di ricerca come spettatore e che decise di sostituire l’animazione da discoteca con un’animazione completamente diversa, che il pubblico comune non poteva immaginare. Entravi e magari ti trovavi davanti un maiale squartato con una persona dentro, era un luogo dell’immaginifico pazzesco e questa cosa ha fatto sì che il pubblico del Cocoricò si aspettasse ogni sera qualcosa di diverso.

Come interagiva questo pubblico con te? Cosa poteva succedere?

C’erano poche regole base. Ognuno poteva dire e fare quello che voleva, ma non ci potevano toccare, che non è così scontato nell’animazione da discoteca. Una delle cose che facevo era stare ferma immobile in piedi in mutande. Non mi ricordo cosa mi accadeva intorno, avevo ancora i capelli a caschetto e moltissime persone, ragazze e ragazzi, si fermavano e si chiedevano cos’ero, se ero un maschio o una femmina. Avevo sempre legato l’ambiguità della mia persona all’abbigliamento: “Mi scambiano per maschio perché mi vesto da maschio”, e quella invece è stata la prima volta in cui mi sono accorta di avere un corpo androgino ed è accaduto attraverso gli occhi degli altri. Tremila persone che entrano e tu sei la prima cosa che vedono, mille magari non ti danno nemmeno retta, cinquecento si fermano e senti cosa dicono di te. Quindi sì, anche “Che schifo! Che cos’è?” “Ma è viva?” “È vivo?” “E’ un maschio o

140 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

una femmina?”. Questa cosa me l’ero già sentita dire tantissime volte, non è stata un’esperienza traumatica. Ho pensato “Ah! Sai cosa? Io questa cosa la uso!” Ci stavo anche bene dentro. Mi ha spiegato tante cose, alla fine mi sono ritrovata negli occhi di chi mi guardava. Tutto questo non capire chi ero dall’esterno ha messo fine alla confusione nella mia testa, alla fine ero confusa perché sono androgina. È molto semplice. L’ho accettato, anzi ne ho fatto proprio un corpo 2.0, con un potenziale diverso.

Dopo questa esperienza ti ritroviamo nella scuola di formazione dell’attore di Cesare Ronconi, nel 2002/2003. In una passata intervista l’hai definita una ‘scuola esplosa’.

Con Cesare è stato proprio quello di cui parlavamo prima a proposito di Motus e Teatrino, un risuonare.

Da quel momento avevi già capito cosa volevi fare?

No, perché non era ancora un lavoro vero e proprio, non mi permetteva di guadagnare. Mi piaceva molto, era una grandissima passione, la mia famiglia mi sosteneva. E allora mi sono detta di provare con una scuola. Questa cosa della scuola mi ronzava in testa già da un po’. Anche qui il caso ha fatto la sua parte, potevo iscrivermi a qualsiasi altra scuola e invece per fortuna mi sono iscritta a questa. Mi sono trasferita a Cesena, eravamo venticinque da tutta Italia e tutti con lo stesso livello che avevo io, quindi quasi pari a zero, ma tutti con una grande spinta di apertura, non penso di essere stata più speciale di altri. Cosa aveva pensato Cesare per questa scuola? Si tenevano cicli settimanali di incontri con artisti, con cui lavoravi. Ho incontrato il lavoro di Danio Manfredini, di Raffaella Giordano, altri assemblaggi, alte estetiche, altre poetiche che ho avuto la fortuna di frequentare anche se per frammenti. L’idea era che questa scuola dovesse finire con uno spettacolo, Imparare è anche bruciare, e con un tour, per fare l’esperienza di tutto. Era organizzato come un campo, vivevamo nelle tende con Cesare che cucinava. Questa è un po’ la caratteristica di Cesare, la sua capacità di fare da pedagogo, di riunire. Ti lascia in questo stato di beatitudine perché si prende tutte le responsabilità, anche quelle che dovresti avere tu, anche solo per dieci minuti mentre sei in scena.

In passato hai parlato di selvatichezza, a proposito di Cesare.

Sì, ho sempre pensato che se non sono una persona bruttissima è perché ho incontrato Cesare, che ha tenuto viva quella parte che un po’ avevo allontanato, il rapporto con la campagna, la terra, le origini

141 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

di cui mi ero sbarazzata. Però è inutile anche far finta di essere cittadini milanesi, ecco. Cesare invece mi ha ricollegato, non in modo “fricchettone”, alla terra. E questo essere collegati alla terra per me è anche essere collegati alla poesia, tramite la parola di Mariangela Gualtieri, che è collegata alla terra ma in un modo altissimo. Se sei collegata sia alla terra che all’altissimo della parola poetica hai tantissimo spazio. Invece se stai solo da una parte alla fine ti muovi in uno spazio piccolo. Cesare mi ha insegnato ad andare in alto però mantenendo anche il basso. Perché se puoi andare in alto e poi non sai più scendere allora sei in trappola, sei in trappola lassù come lo sei quaggiù. Io ho bisogno di stare su e giù.

Dopo questa scuola hai iniziato a lavorare subito con la Valdoca?

Dopo questa scuola Cesare ne ha fatta un’altra (Ero bellissimo, avevo le ali) l’anno successivo, in cui ha chiesto a quattro o cinque partecipanti dell’anno prima di continuare il percorso in formato leggermente diverso: noi venivamo pagati per frequentare. Eravamo io, Muna (Mussie) e altri. A differenza dell’anno precedente non ne è uscito un saggio, ma la produzione di Paesaggio con fratello rotto, la trilogia che ha girato moltissimo in Italia, un’esperienza incredibile. All’estero poco, ma credo che all’estero la parola di Mariangela sia molto complessa da tradurre riuscendo a trasmettere il suo tipo di poetica. Fino a che Cesare, completamente folle e antieconomico, decide di girare un film di questa trilogia con la regia di Simona Diacci. Sono felicissima di aver fatto questa esperienza perché è uno dei pochi lavori che ho fatto ad essere documentati.

Parlami di come si svolgeva il lavoro con la Valdoca, per la costruzione di un personaggio diverso da quello tradizionalmente inteso.

Cesare non lavora per personaggi, piuttosto per archetipi, per figure dell’immaginifico, poesia del corpo, voce (che però è arrivata dopo un po’ dopo rispetto ai lavori a cui io ho preso parte). Per lui ogni attore è come un metallo e, visto che ogni metallo fonde ad una temperatura diversa, il suo lavoro è trovare la temperatura giusta per far fondere ogni attore attraverso dei sistemi di temperature emotive. Costruisce mondi, paesaggi, spazi che fondamentalmente traducono in immagini le parole di Mariangela. È come un traduttore. Infatti, le due cose sono strettamente legate: la parola di Mariangela vive perché esiste il teatro di Cesare, il teatro di Cesare vive perché esiste la parola di Mariangela. Mariangela è la prima che lo dice, perché dice che la sua parola esiste perché esistono quei corpi che lei vede in sala prove. Cesare, non ti chiede di affidarti, non ti chiede un atto di

142 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

fiducia, ti chiede di essere, di stare lì: sì forse ti chiede anche un po’ di fiducia, ma quella viene di conseguenza.

Avevate come attori un ruolo attivo nella costruzione degli spettacoli?

Cesare si occupava di regia e montaggio. A livello di immagini era un po’ un lavoro d’insieme: lui ti chiedeva di improvvisare su delle cose e contemporaneamente improvvisava su di te costruendoti attorno e addosso il ruolo scenico, ti modificava gli assetti. L’improvvisazione non era mai in senso narrativo, è raro che nel teatro della Valdoca ci sia narrazione, se non riguardo a situazioni molto piccole. Lui ti poteva dire: “Mettetevi a fare i giocolieri!” “Ma Cesare non lo sappiamo fare!” “Voi fatelo lo stesso.” E così tu facevi questa cosa assurda che ti chiedeva, e lui ne toglieva un pezzettino, lo allargava, lo diminuiva. Era sempre molto bello sentirlo parlare, spiegare le cose. Ovviamente era molto emozionante quando arrivava in sala Mariangela perché tu lavoravi tanto in gruppo con i corpi e poi ad un certo punto arrivava lei con i testi ed era un momento incredibile. Venivano distribuiti a tutti dei testi e ti arrivavano quelle parole che erano nate su di te. Ci sono dei pezzi che so ancora a memoria, le parole di Mariangela ti restano impresse in testa.

Cosa ricordi di “Paesaggio con voce sola” del 2008?

Molto poco, onestamente. Ricordo solo che l’abbiamo fatto un paio di volte, forse a Cesena. Ma si trattava di uno spettacolo minore, sicuramente non era un Paesaggio con fratello rotto, che invece resta. Me lo ricordo perché era la prima volta in scena con Mariangela. Essere corpo in scena con Mariangela narratrice che leggeva le sue parole è stato per me un momento molto emozionante. Però non mi ricordo nient’altro.

La tua collaborazione con Valdoca poi finisce con “Con lieve mani” nel 2008. Perché?

Finisce la collaborazione con Valdoca perché si intreccia con quella con Motus. Inizio a lavorare con Motus nel 2006, dapprima a ritmi contenuti poi sempre più frequenti, fino a che ad un certo punto le cose con entrambe le compagnie non potevano essere portate avanti. Nonostante ciò, forse sono due delle poche cose che sono riuscita a fare nello stesso momento, perché le due estetiche, le due poetiche erano così differenti che non c’era il rischio che l’una pescasse dall’altra. Quando lavori a teatro con due compagnie che hanno più o meno le stesse estetiche e lavori sull’improvvisazione, rischi di fare la stessa cosa da una parte e dall’altra, nel mio caso non c’era questo

143 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

pericolo. Ma ad un certo punto mi sono trovata a scegliere, perché non era giusto far saltare delle date di Valdoca perché impegnata con Motus. È stato molto doloroso salutare Valdoca, nonostante sia ancora in buoni rapporti con Cesare e Mariangela. Ma era il 2008, e con Motus stavamo già iniziando con il progetto Antigone.

Prima di arrivare a Motus però ci sono diverse cose di cui vorrei parlare con te. Nel mezzo troviamo di nuovo Monica Francia con Memorie di M (2003) e Déjà vu (2004). Cosa ricordi?

Parallelamente continuavo a lavorare con Monica, anche nei festival, ad esempio in Ammutinamenti ho fatto delle piccole incursioni artistiche, come dei micro-soli che è l’unica cosa autoriale che ho fatto. Mi esibivo in negozi, in situazioni urbane. Monica inizia a lavorare a questa nuova produzione, Memorie di M, ma ad un certo punto durante le prove mi dice che non ne avrei più fatto parte: è stato un grande dolore. Però dopo un anno sono rientrata per le ultime due o tre repliche e in scena c’era anche Monica. È molto bello stare in scena con lei, è una forza della natura. Quello fu veramente uno spettacolo di danza danza, ma io ero sempre un po’ anomala in quel contesto. Gli altri erano danzatori ed eseguivano delle coreografie, io no, io ero dentro ma marginale, una figura un po’ isolata rispetto alle altre: avevo la mia partitura e la seguivo.

Dal 2001 al 2005 hai fatto parte del Gruppo Open, un gruppo di ricerca che lavorava sulle modalità di essere corpi nello spazio.

Il gruppo Open è stata un’altra delle esperienze fondamentali per me. Nel 2001 vado a fare un laboratorio a Torino per Cristina Rizzo. Durante questo laboratorio lei mi ferma e mi dice: “Ho un’idea, mi piacerebbe fare un gruppo di lavoro misto, danzatori, attori, ecc., che si incontra con una certa periodicità, in cui io propongo degli oggetti di studio e li affrontiamo insieme.” Cristina aveva pensato questa cosa come un grande lusso, ossia la possibilità di tornare a studiare. E così è partito il progetto. All’inizio ci incontravamo una volta al mese, le fila del lavoro le teneva Cristina. Era un tipo di lavoro che non aveva più tanto a che fare con la danza, ma con la composizione, con l’intelligenza compositiva. Molta della mia capacità scenica e compositiva arriva da questa esperienza. Fino ad allora io non componevo in scena.

Cosa significa comporre?

Quando improvvisi, riuscire anche a comporre scenicamente delle micro-scritture. Puoi improvvisare senza comporre ma puoi

144 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

improvvisare componendo, cioè utilizzando la grammatica della scena, che vuol dire anche lavorare sui tempi, sui ritmi, sugli spazi. È come una micro-regia interna, ti autogestisci. Cristina ci ha insegnato questo. Facevamo anche dei laboratori aperti al pubblico, ne sono stati fatti tanti.

Eravate personalità molto diverse.

Sì, eravamo diversissimi, però tutti con una forte vena autoriale. A volte c’erano anche incontri solo teorici, e si discuteva molto.

Il gruppo Open non è l’unica attività di ricerca che hai fatto. Porti avanti un percorso di ricerca con Ilenia Caleo ormai da qualche anno. Qual è la differenza tra questo lavoro e quello del gruppo Open?

Abbiamo fatto molti laboratori e il progetto è iniziato più o meno dopo aver incontrato Ilenia. Già facevo laboratori da sola ma poi abbiamo deciso di continuare insieme. Per ora portiamo avanti la ricerca tramite laboratori e basta, ma presto ci apriremo anche ad altro. Inizialmente il percorso di ricerca era tra l’urbano e la sala, nel tentativo di mettere insieme il lavoro in sala con il lavoro all’esterno. Parallelamente sentivamo l’esigenza di aprirci ad altri gruppi di ricerca. Alcune persone ci hanno anche seguite per più tappe, fino ad arrivare ad una cosa che si chiamava “Tanti” in cui eravamo una quarantina.

Parliamo anche dei tuoi incontri con la macchina da presa, a partire da ‘Mesmer Vacuum’ del 2008 di Teatrino Clandestino.

Quello è stato il primo incontro con la macchina da presa, ma non vale perché era sempre fortemente mediato dal teatro. In realtà tutte le volte che si è lavorato con Motus c’era sempre un rapporto con il video. Anzi, il primissimo lavoro che Motus mi ha chiamato a fare è stato una micro-parte in due clip video per Piccoli episodi di fascismo quotidiano (2006). Quindi in realtà il rapporto con il video l’ho avuto tanto a teatro. Credo che la prima volta che sono effettivamente entrata in contatto con la macchina da presa al di fuori delle grammatiche del teatro sia stato per il videoclip di Musa dei Marlene Kuntz. Poi Kaspar Hauser (2015), Riccardo va all’inferno (2017) e il video di Motta. Mi piace la macchina da presa, è proprio un’altra cosa, devi lavorare in un modo altro. A teatro fai tantissimo, davanti alla macchina da presa devi fare pochissimo.

Non lo hai mai trovato costrittivo?

145 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

No, è un altro linguaggio e mi piace, mi diverte, nonostante non sia una cosa che inseguo. Nel teatro di Motus c’è tanto questo rapporto con la camera, come hai potuto vedere in MDLSX, sono due linguaggi interessanti da contaminare, sia da una parte che dall’altra.

A teatro poi risulta essere un meccanismo particolarmente efficace, che crea una situazione di voyeurismo. In “MDLSX” ero io spettatore a decidere cosa e come guardare, in pratica la costruzione dello spettacolo era individuale.

Questo a me piace moltissimo, è bello lasciare spazio, mi piace che sia l’occhio a montare. Senza fare troppa confusione se no poi diventa barocco. Infatti, nell’ultimo spettacolo che abbiamo presentato a Santarcangelo (Chroma Keys) c’è molto di questo ed è portato all’ennesima potenza. Io ero da una parte della piazza, davanti ad una macchina da presa e con uno sfondo verde dietro, che permette di usare la tecnica del chroma key. Dall’altra parte della piazza c’era un cinema in cui veniva proiettato quello che facevo io ma all’interno di scene di alcuni film. Quindi lo spettatore doveva decidere dove posizionarsi, se vedere solo me, solo lo schermo del cinema o entrambe le cose. Ed erano tre spettacoli diversi.

Ritorniamo un attimo alle tue collaborazioni. Hai di nuovo lavorato con un coreografo, Fabrizio Favale. Che cosa avete fatto insieme?

È da tre o quattro anni che alcuni coreografi, tra cui Fabrizio Favale e Cristina Rizzo, costruiscono dei dispositivi aperti e invitano artisti dall’esterno a partecipare. Questo progetto si chiama Piattaforma della danza balinese e mi hanno invitata un paio di volte a partecipare. Ma è una cosa molto piccola.

Approdiamo finalmente a Motus. Vieni definita in molti modi diversi: attrice-icona, feticcio, totem di Motus. Che cosa significa essere queste cose? E soprattutto, tu ti definisci parte della compagnia o ti ritieni un un’attrice che lavora per Motus?

No, io sono parte di Motus. Il lavoro con Enrico e Daniela ormai va avanti da oltre dieci anni e c’è uno scambio intenso tra noi. Loro fanno la regia degli spettacoli, nonostante ci sia un leggero slittamento per quanto riguarda MDLSX. Tutti i lavori miei con Motus sono lavori di Motus; anche MDLSX è un lavoro di Motus. La mia componente autoriale è forte, ma è forte tanto quanto quella di Enrico e Daniela, quel lavoro non sarebbe mai esistito senza di loro.

146 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Sono loro esternamente che riescono a comporre quella pluralità di linguaggi che permette a te spettatore di vedere quello che ti interessa. MDLSX si è potuto fare perché mi conoscono da dieci anni, non si poteva fare sei anni fa. Allora icona, feticcio, queste sono tutte definizioni che mi vengono date dall’esterno, io non mi definirei mai così. Non lo so, mi piace? No. Mi fa anche un po’ paura essere icona. Per me è importante continuare a lavorare collettivamente. Non posso pensare di mettermi a lavorare da sola in una stanza. Ho bisogno di un confronto, il mio lavoro si basa tutto sulla possibilità di avere un confronto. Enrico e Daniela sono le persone con cui voglio lavorare. Se tu mi chiedessi: “Con chi vuoi lavorare in Italia?” continuerei a rispondere Enrico e Daniela. Quindi sono esattamente nel punto in cui voglio stare. Forse c’è un desiderio di icone che viene dall’esterno, non sono io che spingo per essere un’icona.

Qualunque occhio ti guardi, esperto o meno, arriva però a questa conclusione.

Non lo so, non sono io che lo posso spiegare. Lascio la libertà dall’esterno, e quindi se qualcuno mi vede così che continui a vedermi così. Però io non mi ci sento. So di essere una parte importante di Motus, non casco dalle nuvole, però allo stesso tempo non mi interessa essere questa cosa che sono per gli altri. Non è il punto in cui mi interessa stare. L’icona può essere una cosa molto pericolosa, qualcosa di incredibilmente vuoto. Forse lo dicono perché non ho paura di intrecciare mondi diversi e sono una delle poche che lo fa? La moda, il teatro, il cinema, la musica, la politica, il femminismo, il queer… Mischio. Questo per me è fondamentale. Poi il luogo in cui il mio linguaggio è più valorizzato è sicuramente il teatro, ma mi interessa attraversare mondi completamente diversi. Però c’è bisogno di aprirli un po’ questi mondi, altrimenti tendo ad auto implodere, non sono una purista. E non mi interessa esserlo. Sono stata iper-criticata per aver fatto la sfilata di Gucci, ma è stata un’esperienza di cui vado molto fiera, sono felicissima di averla fatta, ed è qualcosa che vale nelle mie esperienze quanto le altre. Attraverso il mainstream così come attraverso qualsiasi altra cosa marginale. Non mi interessa stare da una parte sola.

Mi vuoi parlare della differenza che c’è, dal punto di vista metodologico, tra il lavoro con Valdoca e quello con Motus? Motus sembra portare fuori la parte più performativa del tuo lavoro.

Intanto lavorano su due estetiche diverse. Cesare lavora in modo più pittorico, è come se ogni volta ridipingesse lo stesso quadro con soggetti differenti, c’è una certa somiglianza tra un lavoro e l’altro,

147 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

cosa che in teatro viene vissuta malissimo. Motus è molto diverso, invece. Enrico e Daniela partono dal fuori, dalle esperienze umane personali, dalle biografie; scelgono gli attori – quando mettono in scena testi – che in qualche modo coincidono già con i personaggi. Hanno sempre lavorato con il metateatro, soprattutto nell’ultimo periodo. Si tratta di un fuori e dentro continuo. Questo in Cesare è proprio impensabile. Dal punto di vista più pratico-metodologico, Daniela è molto più attenta alla scrittura, ma questo non vuol dire che ci sia una divisione di ruoli, loro sono entrambi registi e tutti e due fanno regia. Ciò vuol dire che c’è già un doppio occhio che ti guarda esternamente e discute. La regia di Motus non è l’idea di qualcuno che viene realizzata ma una discussione che viene messa in campo e questo secondo me già arricchisce tantissimo il lavoro della compagnia. Il teatro è pieno di coppie, però hanno dei ruoli solitamente ben divisi – prendi già Cesare e Mariangela -, per Enrico e Daniela non è così, sono siamesi. Certo, Daniela lavora un po’ di più sulla drammaturgia, modifica le drammaturgie in diretta mentre noi lavoriamo. Scrive tantissimo e molto spesso si lamenta che vorrebbe un assistente ma l’assistente che vorrebbe lei non esiste, perché solo lei può scrivere quello che scrive. Molto spesso ci siamo trovati ad improvvisare anche dei dialoghi, che lei poi riscriveva e il giorno dopo ti dava la partitura e tu dovevi rifare quello che avevi improvvisato il giorno prima. Enrico, invece, lavora più col suono, ma dal punto di vista della regia lavorano insieme. Comunque, poi ci si ritrova tutti al tavolo a discutere del lavoro, si è tutti molto orizzontali; anche chi si occupa del video partecipa alla discussione, non ci sono ruoli definiti in un modo vincolante. Non ti direi, però, che si tratta di una regia collettiva, perché non lo è: alla fine sono Enrico e Daniela a dirigere ed è importante che lo siano. In ogni caso, è una regia attenta e che si apre moltissimo alla discussione e al mettere in gioco elementi e contributi diversi. Con Cesare questa cosa no, non accade. Sono due modi di lavorare completamente differenti.

Uno spettacolo di Motus è Rumore Rosa (2006), che ti è valso le prime menzioni/candidature al premio Ubu under 30. Hai lavorato al fianco di Emanuela Villagrossi, che hai detto essere una tua ispirazione.

Rumore Rosa è stato il primo spettacolo su palco che ho fatto con Motus. Non ci capivo niente. Avevo un sacco di paura, del palco, di conoscere tutti, di lavorare con Emanuela che comunque, insomma, ha seguito dei laboratori di Carmelo Bene. Il lavoro era una riscrittura de Le Lacrime Amare, io non sapevo neanche di cosa si trattasse, non sapevo assolutamente nulla di Fassbinder. Alla fine, piano piano sono entrata dentro le cose. A volte mi capita di rivederne dei pezzettini e

148 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

non la riconosco neanche quella creatura lì, proprio veramente selvatica. Una selvatichezza e anche un’inconsapevolezza rispetto alla scena che adesso non ho. Sicuramente c’è stata composizione interna nel mio lavoro, ma era ancora molto embrionale.

Che cosa accadeva sul palco?

C’era tanto corpo e poca voce, l’unica parola era “Calma”. C’era tanta rabbia, tanto nervosismo, sbattevo per terra e facevo saltare un giradischi. Credo coincidesse con la fine di una mia relazione, ero stata lasciata. Quello spettacolo era perfetto per tirare fuori tutta la rabbia. Facendo saltare il giradischi, che suonava una canzone tristissima di Sergio Endrigo, facevo ripartire in loop la frase “I sogni belli non si avverano mai”. È più una nebulosa quello spettacolo, perché ci stavo dentro con una consapevolezza diversa, però ho ancora conservata tutta la mia partitura fisica: fino a un po’ di tempo fa ero una maniaca e mi scrivevo tutti i movimenti.

Ti serviva?

In realtà era più una forma di scrittura, un modo per mettere in scrittura. Non è che lo usassi veramente. Per un periodo della mia vita ho avuto l’ossessione di lasciare qualcosa ai posteri, e quindi scrivevo le partiture.

Parliamo un po’ di fonti. Chi sono le tue fonti dal punto di vista attoriale?

Prima di tutto ho imparato molto stando in scena, anche per esempio dalla stessa Villagrossi, da Judith Malina, da Cristina Rizzo. Un po’ come poteva essere lavorare in bottega. Le mie fonti sono state tutte le persone che ho incontrato sulla scena, che sono stati anche degli innamoramenti in senso lato, quel tipo di attrazione che hai che ti spinge verso qualcuno. E in più ho sempre avuto un’attrazione molto forte per Warhol, sia come persona sia per il tipo di rapporto che aveva con l’arte. Adesso finalmente io e Ilenia iniziamo un percorso su Warhol alla Biennale di Venezia e sono molto contenta. Quello che ha agito su di me sono le cose, le esperienze, gli incontri, le fidanzate, gli amici. Sicuramente tra le mie fonti principali c’è Ilenia, perché ha portato nella mia vita una botta di teoria che prima non c’era. Non sono mai stata una grande lettrice, da ragazzina avevo un po’ di dislessia. Ilenia mi ha portato in mondi che non avevo mai incontrato prima, come la filosofia. E insieme riusciamo a connetterli col fare. Sicuramente una fonte importante per me sono le mie esperienze politiche, tutte queste cose non le puoi scindere. Se lavori su di me, devi mettere insieme tutte queste cose, come l’esperienza al Valle

149 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

(Teatro Valle Occupato n.d.r.) che mi ha cambiato la vita, sono venuta a vivere a Roma perché sono stata al Teatro Valle.

Con Motus hai preso parte a diversi progetti: ci sono stati spettacoli come “X (ICS)” che nascevano dallo spazio urbano, e studi come quelli sull’Antigone che invece prendevano le mosse da un testo. Come ti misuri con un lavoro su un testo? Lo trovi una costrizione?

No, sono solo due tipi di lavori diversi. Abbiamo lavorato su Antigone, abbiamo lavorato su La Tempesta. Forse sembra anche più facile lavorare su un testo, anche se intendi romperlo, hai qualcosa da rompere. Quando non hai un testo è apparentemente più complesso. In realtà dipende molto dalla spinta che ti sposta, un lavoro su un testo può diventare un incubo se non riesci a renderlo vivo. Quando hai un testo il problema più grande è tirarlo fuori dalla tomba: se rimane morto diventa un funerale, la messa in scena di un morto. Mi trovo bene in entrambe le situazioni. Tendenzialmente quando ho un personaggio, come Antigone o Ariel, cerco di farlo risuonare in me e allo stesso tempo il personaggio mi cambia. Antigone ha avuto un impatto fortissimo e mi ha cambiata. Ad un certo punto – io all’inizio avevo letto il testo originale e altre due, tre versioni – avevo la mia Antigone in testa, totalmente diversa e che coincideva con me; l’avevo riscritta secondo le mie, e nostre (di Enrico e Daniela), esigenze ed emozioni.

La direzione verso cui andrà la tua carriera, il tuo lavoro?

Sicuramente la collaborazione con Motus andrà ancora avanti, perché ci piace lavorare insieme. Lo faremo con più morbidezza però. Sono fuori dall’ultima produzione di Motus, Panorama, per la prima volta dopo più di dieci anni. E va bene così. Un po’ io avevo bisogno di alleggerire perché i ritmi del lavoro sono diventati troppo pesanti per me, anche perché ho bisogno di vivere.

Credi ci siano cose dal punto di vista artistico che senti di voler fare, voler provare?

Dal punto di vista artistico sicuramente andrò avanti con i laboratori di ricerca che sto facendo con Ilenia. Anche dal punto di vista cinematografico ho qualcosa da portare avanti. Rimetteremo sicuramente le mani su Chroma Keys per renderlo anche un lavoro indoor, non solo da piazza. E poi basta, voglio fermarmi un po’, ho voglia di rallentare e di viaggiare per davvero. Così è tutto troppo sparpagliato.

150 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Teatrografia

30 contro 30

Regia: Pietro Babina. Con: Eleonora Tazzari, Sara Marabini, Giulia Tartagni, Maira Frignani, Valentina Graziani, Anna Zini, Francesca Sangiorgi, Giovanni Badiali, Laura Orlandini, Lucia Ravaglia, Silvia Calderoni, Alice Gianstefani, Mara Flisi, Manuela Mellini, Enrica Gemignani, Luca Vancini, Serena Trerè, Elena De Vincenzo, Elena Bartolotti, Greta Ricci Acciloni, Sara Piombo, Marcella Montanari. Produzione: Teatrino Clandestino. Prima assoluta: Liceo Scientifico Ricci Curbastro, Lugo (RA), 10 marzo 1998.

Cerimonia. Viaggio errante verso Shakespeare in 3 siti e 7 quadri

Regia e coreografia: Monica Francia. Produzione: Ravenna Festival. 2001.

Memorie di M

Regia e coreografia: Monica Francia. Produzione: Associazione Artipigri. 2003.

Imparare è anche bruciare

Regia e luci: Cesare Ronconi. Testo: Mariangela Gualtieri da scritti degli attori e propri. Con Valerio Bonanni, Valentina Bravetti, Serena Brindisi, Silvia Calderoni, Leonardo Delogu, Elisabetta Ferrari, Margherita Isola, Licia La Rosa, Sara Marchesi, Mariella Melani, Muna Mussie, Marco Perfetto, Vincenzo Schino, Morena Tamborrino. Musiche composte ed eseguite dal vivo: Aidoru. Mirko Abbondanza basso e canto, Michele Bertoni chitarra, Dario Giovannini canto, chitarra, fisarmonica, Diego Sapignoli batteria. Partiture del canto composte ed eseguite dal vivo: Mariella Melani e Morena Tamborrino. Scene: Stefano Cortesi e Cesare Ronconi. Tecnico suono e proiezioni: Uria Comandini. Dipinti: Luciana Ronconi. Costumi: Patrizia Izzo in collaborazione con ENAIP Cesena- Forlì. Amministrazione: Ida Lelli. Organizzazione: Morena Cecchetti e Emanuela Dallagiovanna. Produzione: Teatro Valdoca in collaborazione con Teatro A.Bonci di Cesena/ Emilia Romagna Teatro Fondazione. Prima nazionale: Teatro delle Passioni, Modena, 7 maggio 2003.

Déjà vu

151 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

Regia e coreografia: Monica Francia. Produzione: Associazione Artipigri. 2004.

Piccoli Episodi di Fascismo Quotidiano, indagini su Pre-paradise sorry now di Rainer Werner Fassbinder

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Consulenza letteraria e musicale: Luca Scarlini. Assistenza alla regia: Marco Di Stefano. Editing audio e fonica: Nico Carrieri ed Enrico Casagrande. Immagini video: Daniela Nicolò e Simona Diacci. In scena: Dany Greggio e Caterina Silva. Partecipazione in video di: Silvia Calderoni e Gaetano Liberti. Produzione: Motus. Con il sostegno di: L’Arboreto di Mondaino. Mondaino (Rn), Teatro Dimora – L’arboreto. 21 maggio 2005.

Fango che diventa luce – prima tappa di Paesaggio con fratello rotto

Regia e luci: Cesare Ronconi. Parole: Mariangela Gualtieri. Con: Marianna Andrigo, Silvia Calderoni, Leonardo Delogu, Elisabetta Ferrari, Dario Giovannini, Gaetano Liberti e Muna Mussie. Musiche dal vivo eseguite e composte da: Dario Giovannini. Campionamenti: Aidoru e Paolo Aralla. Scene: Stefano Cortesi. Riproduzioni pittoriche e fondali: Luciana Ronconi. Costumi: Patrizia Izzo. Ricerca e struttura del suono: Luca Fusconi. Sculture in legno: Florent Vaudatin. Ceramiche: Officina Vasi Cesena. Assistente al montaggio: Chiara Pirri. Macchinista: Federico Lepri. Organizzazione: Morena Cecchetti e Emanuela Dallagiovanna. Consulenza amministrativa: Cronopios. Produzione: Teatro Valdoca in collaborazione con Teatro A.Bonci di Cesena, drodesera>centrale fies. Si ringraziano: Aidoru, Paolo Aralla, Gino Balena, Maurizio Bertoni, Paola Farneti, Rurie Ogata, Maurizio Turci. Prima assoluta: drodesera >centrale fies 22 e 23 luglio 2005.

Canto di ferro – seconda tappa di Paesaggio con fratello rotto

Regia e luci: Cesare Ronconi. Parole: Mariangela Gualtieri. Con: Marianna Andrigo, Vanessa Bissiri, Silvia Calderoni, Dario Giovannini, Gaetano Liberti, Muna Mussie, Vincenzo Schino, Florent Vaudatin. Musiche dal vivo eseguite e composte da: Dario Giovannini. Campionamenti: Aidoru e Paolo Aralla. Scene: Stefano Cortesi. Riproduzioni pittoriche e fondali: Luciana Ronconi. Costumi: Patrizia Izzo. Ricerca e struttura del suono: Luca Fusconi. Sculture in legno: Florent Vaudatin. Ceramiche: Officina Vasi Cesena. Aiuto regia: Vincenzo Schino. Assistente al montaggio: Chiara Pirri. Macchinista: Federico Lepri. Organizzazione: Morena Cecchetti e Emanuela Dallagiovanna. Consulenza amministrativa: Cronopios.

152 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Produzione: Teatro Valdoca in collaborazione con Teatro A.Bonci di Cesena, drodesera>centrale fies. Si ringraziano: Aidoru, Paolo Aralla, Gino Balena, Maurizio Bertoni, Paola Farneti, Rurie Ogata, Maurizio Turci. Prima assoluta: drodesera >centrale fies 22 e 23 luglio 2005

Paesaggio con fratello rotto – trilogia

regia e luci: Cesare Ronconi. Parole: Mariangela Gualtieri. Con Marianna Andrigo, Vanessa Bissiri, Silvia Calderoni, Leonardo Delogu, Elisabetta Ferrari, Dario Giovannini, Gaetano Liberti, Muna Mussie, Vincenzo Schino, Florent Vaudatin. Musiche dal vivo: Dario Giovannini. Campionamenti: Aidoru e Paolo Aralla. Scene: Stefano Cortesi. Riproduzioni pittoriche e fondali: Luciana Ronconi. Costumi: Patrizia Izzo. Ricerca e struttura del suono: Luca Fusconi. Sculture in legno: Florent Vaudatin. Ceramiche: Officina Vasi Cesena. Macchinista: Federico Lepri. Organizzazione: Morena Cecchetti e Emanuela Dallagiovanna. Consulenza amministrativa: Cronopios. Produzione: Teatro Valdoca in collaborazione con Teatro A.Bonci di Cesena, drodesera >centrale fies 2004. Prima nazionale: Teatro Storchi, Modena, 28 ottobre 2005.

A place. [that again]

Performance dedicata a Samuel Beckett. Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Riprese: Simona Diacci e Daniela Nicolò. Motion graphic e montaggio video: p-bart.com. In scena: Silvia Calderoni e Gaetano Liberti. Voci off: Emanuela Villagrossi e Dany Greggio. Scandicci (FI) “1906 Beckettcentoanni 2006” Teatro Studio, 6 marzo 2006.

Rumore Rosa

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Emanuela Villagrossi. Collaborazione di: Dany Greggio. Illustrazioni: Filippo Letizi. Visual compositing: p-bart.com. Assistenza tecnica: Pier Paolo Paolizzi. Fonica: Nico Carrieri. Abiti: Ennio Capasa per Costume National. Produzione: Motus. In collaborazione con: Festival delle Colline Torinesi, Drodesera>Centrale Fies, L’Arboreto di Mondaino. Supporto tecnico-creativo: Istituto Europeo di Design di Milano, IED Moda Lab, IED Arti Visive. Con il sostegno di: Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini. Torino, “Festival delle colline Torinesi”, Cavallerizza Reale, 7 giugno 2006.

Junkspace –performance

153 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni e Sergio Policicchio. Video compositing: Francesco Borghesi. Audio compositing: Enrico Casagrande. Sound design: Roberto Pozzi. Produzione: Motus. Prato, “Festival Contemporanea”, Museo Pecci, 5 giugno 2007.

X (ics) – Racconti crudeli della giovinezza [X.01 movimento primo]

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Dany Greggio, Sergio Policicchio, Alexandre Rossi. In video: Adriano e Lucio Donati, il gruppo musicale Foulse Jockers. Produzione video: Motus e Francesco Borghesi (p-bart.com), in collaborazione con Camera Stylo. Riprese: Francesco Borghesi, Daniela Nicolò, Stefano Bisulli. Video compositing: Francesco Borghesi. Text compositing: Daniela Nicolò. Audio compositing: Enrico Casagrande. Sound design: Roberto Pozzi. Musiche dal vivo: Dany Greggio e Sergio Policicchio. Direzione tecnica: Giorgio Ritucci. Elementi scenografici: Erich Turroni – Laboratorio dell’imperfetto. Luci: Daniela Nicolò. Consulenza architettura: Fabio Ferrini. Produzione Motus, La Biennale Danza di Venezia, Lux-Scène National de Valence (Francia), Theater der Welt 2008 in Halle (Germania), Istituzione Musica Teatro Eventi- Comune di Rimini “Progetto Reti”. Con la collaborazione di: AMAT, Civitanova Danza, Comune di Fano – Assessorato alla Cultura, Provincia di Rimini – Assessorato alla Cultura, Santarcangelo 07 International Festival of the Arts, La Comédie de Valence. Con il sostegno di: Regione Emilia Romagna, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Venezia. “La Biennale Danza di Venezia”, Tesa delle Vergini, 27 Giugno 2007.

Tre visioni leggere – progetto speciale

Regia: Cesare Ronconi. Testo: Mariangela Gualtieri. Con: Silvia Calderoni, Gaetano Liberti, Muna Mussie. Fonica: Luca Fusconi. Costumi: Patrizia Izzo. Organizzazione: Morena Cecchetti, Valentina Baruzzi e Roberta Magnani. Produzione: Teatro Valdoca. Progetto speciale per Arte Sella intorno all’opera di Heather Jansch, Bob Verschueren, Giuliano Mauri. Arte Sella, Borgo Valsugana (TN), agosto 2007.

X (ics) Racconti crudeli della giovinezza [X.02 movimento secondo – Valence]

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni, Dany Greggio, Sergio Policicchio, Mario Ponce-

154 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Enrile, In video: Adriano Donati, Sid-Hamed Mechta. I gruppi musicali: “Foulse Jockerse” e “Tomorrow Never Came”. Produzione video: Motus e Francesco Borghesi (p-bart.com), Riprese: Francesco Borghesi, Daniela Nicolò. Video compositing: Francesco Borghesi. Text compositing: Daniela Nicolò. Sound compositing: Enrico Casagrande. Sound design: Roberto Pozzi. Luci: Daniela Nicolò. Elementi scenografici: Erich Turroni – Laboratorio dell’imperfetto. Consulenza architettura: Fabio Ferrini. Direzione tecnica: Giorgio Ritucci. Produzione: Motus, La Biennale Danza di Venezia, Lux-Scène National de Valence (Francia), Theater der Welt 2008 in Halle (Germania), Istituzione Musica Teatro Eventi – Comune di Rimini “Progetto Reti”. Con la collaborazione di: L’Arboreto di Mondaino, La Comédie de Valence. Con il sostegno di: Provincia di Rimini, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, progetto GECO – Ministero della Gioventù e Regione Emilia Romagna. Valence (Francia), Comédie de Valence – Théâtre de la Ville, 15 novembre 2007.

Festa fiera Valdoca – progetto speciale

Regia e luci: Cesare Ronconi. Parole: Mariangela Gualtieri. Musiche dal vivo: Dario Giovannini. Con: Marianna Andrigo, Silvia Calderoni, Catia Dalla Muta, Leonardo Delogu, Dario Giovannini, Gaetano Liberti, Muna Mussie. Visioni: Vincenzo Schino (Officina Valdoca). Dj e Vj set: Simona Diacci. Ricerca e struttura del suono: Luca Fusconi. Scene: Stefano Cortesi. Riproduzioni pittoriche e fondali: Luciana Ronconi. Costumi: Patrizia Izzo. Organizzazione: Valentina Baruzzi, Morena Cecchetti e Roberta Magnani. Produzione: Teatro Valdoca, progetto speciale per Teatro Palladium. Teatro Palladium, Roma, 12 e 13 gennaio 2008.

Paesaggio con voce sola

Direzione: Cesare Ronconi. Versi: Mariangela Gualtieri. Con: Mariangela Gualtieri, Dario Giovannini e Silvia Calderoni. Musiche dal vivo: Dario Giovannini. Ricerca del suono: Luca Fusconi, Dario Giovannini, Cesare Ronconi. Scena e luci: Cesare Ronconi. Abiti: Malloni. Oggetti di scena: Patrizia Izzo. Consulenza amministrativa: Cronopios. Organizzazione: Valentina Baruzzi, Morena Cecchetti e Roberta Magnani. Produzione: Teatro Valdoca. Prima nazionale: Teatro Palladium, Roma, 13 gennaio 2008.

Crac –performance

155 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni. Visual design: Francesco Borghesi. Sound design: Enrico Casagrande, Roberto Pozzi. Elementi scenici: Giancarlo Bianchini/Arto-Zat. Una produzione: Motus. Con la collaborazione di: L’Arboreto di Mondaino, Galleria Toledo Napoli, Museo d’Arte Contemporanea MADRE Napoli, Progetto Geco – Ministero della Gioventù Regione Emilia-Romagna. Napoli, Museo Madre, 25 maggio 2008.

X(ics) Racconti crudeli della giovinezza [X.03 movimento terzo- Halle-Neustadt]

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Lidia Aluigi, Silvia Calderoni, Sergio Policicchio, Mario Ponce-Enrile, Ines Quosdorf. In video: Silvia Calderoni, Sergio Policicchio, Denis Kuhnert, Karl Haußmann, Sabine Bock, Toni Bernhardt, Susanne Sudol, Adreas Berger e i gruppi musicali : Foulse Jockers (I), Tomorrow Never Come (F), Types of Erin (D) Bring me to my 2nd burial (D). Produzione video: Motus e Francesco Borghesi (p- bart.com). Riprese: Francesco Borghesi, Daniela Nicolò. Video compositing: Francesco Borghesi. Text compositing: Daniela Nicolò. Audio compositing: Enrico Casagrande. Sound design: Roberto Pozzi. Direzione tecnica: Giorgio Ritucci. Musiche dal vivo: Ines Quosdorf, Sergio Policicchio, Mario Ponce-Enrile. Elementi scenografici: Giancarlo Bianchini Arto-Zat, Erich Turroni-Laboratorio dell’imperfetto. Luci: Daniela Nicolò. Consulenza architettura: Fabio Ferrini. Produzione: Motus, Theater der Welt 2008 in Halle (Germania), Mittelfest 2008, Istituzione Musica Teatro Eventi- Comune di Rimini “Progetto Reti”, Lux-Scène National de Valence (Francia), La Biennale Danza di Venezia. Con la collaborazione di: L’Arboreto di Mondaino, Teatro della Regina di Cattolica, Teatro Petrella di Longiano. Con il sostegno di: Provincia di Rimini Ministero per i Beni e le Attività Culturali; progetto GECO – Ministero della Gioventù e Regione Emilia Romagna. Hamburg, Theater der Welt 2008 Festival, Neues Theater, 26 giugno 2008.

Con lievi mani

Regia e luci: Cesare Ronconi. Versi: Mariangela Gualtieri. Con: Silvia Calderoni, Gaetano Liberti e Muna Mussie. Musiche dal vivo: Dario Giovannini. Abiti: Sabrina Mezzaqui. Fonica: Luca Fusconi. Assistente alla fonica: Dario Sajeva. Consulenza amministrativa: Cronopios. Organizzazione: Valentina Baruzzi, Morena Cecchetti e Roberta Magnani. Produzione: Teatro Valdoca. Azione performativa

156 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

all’interno dell’opera “Mettere a dimora” di Sabrina Mezzaqui presso Galleria Continua, San Gimignano, 20 settembre 2008.

X(ics) Racconti crudeli della giovinezza [X.04 movimento quarto- Napoli]

Ideazione e regia: Daniela Nicolò e Enrico Casagrande. In scena: Silvia Calderoni, Sergio Policicchio, Mario Ponce-Enrile, Monica Riccio (del gruppo musicale “Nocturna” di Scampia), la Sig. Marina Napoletano. Partecipano inoltre i “Roca Luce” (Pasquale Fernandez, Antonio Conte, Giuseppe Capasso, Giuseppe Monetti) con il brano “L’esistenz è nu martirio” arrangiato e prodotto da Mario Ponce Enrile e Giuseppe Capasso. Compaiono in video: i bambini del Campo Rom di Via Cupa Perillo, Dario Cristiano del gruppo musicale “Arancia meccanica” e la crew UNS del centro sociale Placido Rizzotto di Melito, il gruppo di writers di Marano: Corrado Lamattina, Luigi Davino, Fabiana Vardaro, Davide Giuffrè, i danzatori del centro sociale TCK di San Giovanni, il presidente dell’Associazione U.D.O. (Unione disoccupati organizzati) del quartiere San Ferdinando, i gruppi musicali “Linea periferica” e “Sotto zero”. Riprese video: Daniela Nicolò, Enrico Casagrande. Video compositing: Francesco Borghesi. Text compositing: Daniela Nicolò. Audio compositing: Enrico Casagrande. Sound design: Roberto Pozzi. Luci: Daniela Nicolò. Direzione tecnica: Valeria Foti. Elementi scenografici: Giancarlo Bianchini-Arto-Zat, Erich Turroni- Laboratorio dell’imperfetto. Consulenza architettura: Fabio Ferrini. Foto back-stage: Mario Spada, End&Dna. Un progetto di: Motus, Mercadante Teatro Stabile di Napoli, Progetto Punta Corsara, Fondazione Campania dei Festival. Con la collaborazione di: Galleria Toledo Teatro Stabile d’Innovazione, L’ Arboreto di Mondaino. Produzione: Motus, Theater der Welt 2008 in Halle (Germania), La Biennale Danza di Venezia, Lux-Scène National de Valence (Francia), Istituzione Musica Teatro Eventi-Comune di Rimini “Progetto Reti”. Con il sostegno di: Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna POGAS –Politiche Giovanili e Attività Sportive, Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Napoli, Teatro San Ferdinando, 16 aprile 2009.

Di quelle vaghe ombre_ prime indagini sulla ribellione di Antigone.

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Vladimir Aleksic, Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Claudio Balestracci, Giuseppe Bonifati, Anna Carminati, Ida Alessandra Vinella. In video: Silvia Calderoni e Enrico Casagrande. Testi a cura di Daniela Nicolò. Luci, video e spazio scenico: Enrico Casagrande e

157 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

Daniela Nicolò. Musiche dal vivo: Giancarlo Bianchini e Mathilde N.Poirier (azt/Hotel Nuclear). Sound design: Roberto Pozzi. Impianti luminosi: L.M. Cineservice Cesena. Produzione: Motus e Magna Grecia Teatro Festival. Con il sostegno di: progetto Geco, Ministero della Gioventù e Regione Emilia Romagna. Cirella Diamante (CS), “Magna Grecia Festival”, 13 agosto 2008.

Let the Sunshine In (antigone) contest #1

Ideazione e regia: Enrico Casagrande & Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni e Benno Steinegger. Direzione tecnica: Valeria Foti. Ringraziamo: Giorgina Pilozzi per l’assistenza alla regia, Luca Scarlini per la consulenza letteraria, Nicoletta Fabbri, e tutti i partecipanti al workshop “Non siamo una famiglia” per la generosa collaborazione. Produzione: Motus. Con il sostegno di: L’Arboreto di Mondaino, Festival delle Colline Torinesi, Progetto GECO – Minestero della Gioventù e Regione Emilia Romagna. In collaborazione con: Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Comitato Italia 150, Urban Center Metropolitano Torino. Torino, OGR Officine Grandi Riparazione , Festival delle Colline Torinesi, 12 giugno 2009.

Too Late! (antigone) contest #2

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni e Vladimir Aleksic. Drammaturgia: Daniela Nicolò. Ambito sonoro: Enrico Casagrande. Direzione tecnica: Valeria Foti. Ringraziamo: Cecilia Ghidotti per l’assistenza alla regia Luca Scarlini per la consulenza letteraria e tutti i partecipanti al workshop “Non siamo una famiglia” per la generosa collaborazione. In collaborazione con: Fondazione del Teatro Stabile di Torino e Festival delle Colline Torinesi. Con il supporto di: Magna Grecia Festival ’08, L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Regione Emilia-Romagna e Ministero della Gioventù – Progetto GECO. Torino, La Cavalerizza, Prospettiva 09 Festival, Teatro Stabile di Torino, 20 Ottobre 2009.

IOVADOVIA (antigone) contest#3

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni con la partecipazione di Bilia. Drammaturgia: Daniela Nicolò. Ambiente ritmico: Enrico Casagrande. Assistenza alla regia: Giorgina Pilozzi. Musica dal vivo e fonica: Andrea Comandini. Direzione tecnica: Valeria Foti. Produzione: Motus. In collaborazione con: Festival Thèâtre en Mai, Thèâtre Dijon Bourgogne – CDN e Festival delle Colline Torinesi. Si ringraziano: Thomas Walker, Brad

158 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Burgess, Judith Malina del Living Theatre e la Délégatioon Culturelle Alliance Française di Bologna. Dijon, Festival Thèâtre en Mai – Thèâtre Dijon Bourgogne, 21 Maggio 2010.

Alexis. Una tragedia greca

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni, Vladimir Aleksic, Benno Steinegger, Alexandra Sarantopoulou con la collaborazione di: Michalis Traitsis, Giorgina Pilozzi. Assistenza alla regia: Nicolas Lehnebach. Drammaturgia: Daniela Nicolò. Editing video: Enrico Casagrande. Fonica e interventi sonori: Andrea Comandini. Brano musicale: Pyrovolismos sto prosopo di The boy. In video compaiono: Nikos del Centro Libertario Nosotros, Stavros del gruppo musicale Deus ex machina. Luci e scena: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Direzione tecnica: Valeria Foti. Produzione: Motus, ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione, Espace Malraux – Scène Nationale de Chambéry et de la Savoie – CARTA BIANCA, programme Alcotra coopération France Italie, Théâtre National de Bretagne/Rennes e il Festival delle Colline Torinesi. Con il sostegno di: Provincia di Rimini, Regione Emilia-Romagna, Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Modena, Teatro Storchi, Vie Scena Contemporanea Festival, 15 ottobre 2010.

The Plot is the Revolution

Evento Eccezionale. Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni e Judith Malina (Living Theatre). Con la partecipazione di: Thomas Walker e Brad Burgess. Produzione: Motus. Con il sostegno di: Festival di Santarcangelo 41 Fondazione Morra (Napoli) e Cristina Valenti. Longiano, “Santarcangelo 41 Festival”, Teatro Petrella, 8 luglio 2011.

When

Performance. Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Drammaturgia: Daniela Nicolò. Acustica: Damiano Bagli. In scena: Silvia Calderoni e Enrico Casagrande. Produzione: Motus e Les Subsistances. Lione, rassegna “Ça tremble”, Les Subistances, 28 marzo 2012.

W.3 Atti Pubblici: Where (Atto-assemblea), When (Atto-solitario), Who (Atto-corale)

Concept: Daniela Nicolò, Enrico Casagrande, Silvia Calderoni. Regia: Daniela Nicolò e Enrico Casagrande. Assistenza tecnica:

159 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

Massimiliano Rassu e Aqua-Micans Group. In scena in “Where”: Enrico Casagrande, Silvia Calderoni, Marco Baravalle, Ciro Colonna, Giorgina Pilozzi, Camilla Pin, Laura Pizzirani. In collaborazione con: Angelo Mai Altrove, Macao, Nuovo Cinema Palazzo, Sale Docks, Teatro Valle Occupato. Produzione Motus / 2011>2068 AnimalePolitico Project. Dro, We Folk Drodesera Festival, Centrale Fies, 20 luglio 2012.

Nella Tempesta

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Drammaturgia: Daniela Nicolò. Assistente alla regia: Nerina Cocchi. Ambiente sonoro: Enrico Casagrande. Luci, suono e video: Andrea Gallo e Alessio Spirli (Aqua Micans Group). In scena: Silvia Calderoni, Glen Çaçi, Ilenia Caleo, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni. Produzione: Motus, Festival TransAmériques di Montréal, Théâtre National de Bretagne di Rennes, Parc de la Villette di Parigi, La Comédie de Reims – Scène d’Europe, Kunstencentrum Vooruit vzw di Gent, La Filature Scène Nationale di Mulhouse, Festival delle Colline Torinesi di Torino, Associazione Culturale dello Scompiglio di Vorno, Centrale Fies – Drodesera Festival di Dro, L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino. Con il sostegno di: ERT (Emilia Romagna Teatro Fondazione), AMAT, La Mama di New York, Provincia di Rimini, Regione Emilia-Romagna, MiBAC. In collaborazione con: M.A.C.A.O di Milano, Teatro Valle Occupato di Roma, Angelo Mai Occupato di Roma, S.a.L.E. Docks di Venezia. Ringraziamenti: Voina, Judith Malina, Giuliana Sgrena, Darja Stocker, Mohamed Ali Ltaief, Anastudio, Exyzt, Mammafotogramma, Re- Biennale e tutti i partecipanti ai MucchioMisto Workshop. Montreal, FTA Festival TransAmériques, Place des Arts-Cinquième Salle, 24 maggio 2013.

Caliban Cannibal

Ideazione e regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni e Mohamed Ali Ltaief (Dalì). Video: Enrico Casagrande, Andrea Gallo e Alessio Spirli. Assistente alla regia: Ilenia Caleo. Contributo video dal documentario “Philosophers’ Republic” di Mohamed Ali Ltaief e Darja Stocker (philosophers- republic.com). Produzione Motus / 2011 > 2068 Animale Politico Project, nell’ambito di Ateliers de l’Euroméditerranée – Marseille Provence 2013. Con il sostegno di: Santarcangelo •12•13•14, Face à Face / Paroles d’Italie pour les scènes de France, Angelo Mai Altrove Occupato ed ESC Atelier Autogestito. Marsiglia, Festival Actoral, La Friche, 9 ottobre 2013.

160 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

King Arthur

Musica: Henry Purcell. Testo: John Dryden. Regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Direttore d’orchestra: Luca Giardini. Drammaturgia e traduzioni: Luca Scarlini. Consulente per il progetto: Alessandro Taverna. In scena: Glen Çaçi and Silvia Calderoni. Soprano: Laura Catrani, Yuliya Poleshchuk. Controtenore: Carlo Vistoli. Ensemble Sezione Aurea. Scena e luci: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Sound design: Fabio Vignaroli. Riprese e montaggio: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Post-production video: Aqua Micans Group. Assistenti alla regia: Silvia Albanese e Ilenia Caleo. Abiti: Antonio Marras. Produzione: Motus, Sagra Musicale Malatestiana 2014. In collaborazione con: Romaeuropa Festival, Amat/Comune di Pesaro, Rossini Opera Festival. Rimini, Sala Pamphili, Sagra Musicala Malatestiana, 16 settembre 2014.

Il martirio di San Sebastiano

Regia: Roberto Galimberti. Musica: Claude Debussy. Testo: Gabriele D’Annunzio. Con: Silvia Calderoni. Castello di Miradolo, 24 dicembre 2014.

MDLSX

Regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni. Drammaturgia: Daniela Nicolò e Silvia Calderoni. Suono: Enrico Casagrande. In collaborazione con: Paolo Panella. Luci e video: Alessio Spirli. Produzione: Motus. In collaborazione con: La Villette – Résidence d’artistes 2015 Parigi, Create to Connect (EU project) Bunker/ Mladi Levi Festival Lubiana, Santarcangelo 2015 Festival Internazionale del Teatro in Piazza, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, MARCHE TEATRO. Con il sostegno di: MiBACT, Regione Emilia Romagna. Santarcangelo di R., Santarcangelo•15 Festival, 11 luglio 2015.

RAFFICHE | RAFALES | MACHINE (CUNT) FIRE

Dedicato a Splendid’s di Jean Genet. Regia: Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena: Silvia Calderoni (Jean), Ilenia Caleo (Rafale), Sylvia De Fanti (Bravo), Federica Fracassi (il Poliziotto), Ondina Quadri (Pierrot), Alexia Sarantopoulou (Riton), Emanuela Villagrossi (Scott), I-Chen Zuffellato (Bob). La voce alla radio Luca Scarlini e Daniela Nicolò. Testo: Magdalena Barile e Luca Scarlini. Produzione: Motus con Ert, Emilia Romagna Teatro Fondazione. Con la collaborazione di: Biennale Teatro 2016; L’arboreto – Teatro Dimora,

161 Silvia Calderoni, L’attrice come corpo e icona

Mondaino; Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza; Teatro Petrella, Longiano. Con il sostegno di: Mibact, Regione Emilia Romagna, Comune di Bologna. Bologna, Vie Festival, Hotel Carlton, 18 ottobre 2016.

ÜBER RAFFICHE (nude expanded version)

Dedicato a Splendid’s di Jean Genet. Regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. In scena Silvia Calderoni (Jean), Ilenia Caleo (Rafale), Sylvia De Fanti (Bravo), Federica Fracassi (the Policeman), Ondina Quadri (Pierrot), Alexia Sarantopoulou (Riton), Emanuela Villagrossi (Scott), I-Chen Zuffellato (Bob). La voce alla radio Luca Scarlini e Daniela Nicolò. Testo Magdalena Barile e Luca Scarlini. Fonica Paolo Panella. Progettazione scenica Andrea Nicolini. Scenotecnica Damiano Bagli. Produzione Motus con Santarcangelo Festival. Con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna. Realizzato grazie a Ert, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Biennale Teatro 2016, L’arboreto – Teatro Dimora Mondaino, Teatro Petrella Longiano, Comune di Bologna. Santarcangelo di R. (RN), Santarcangelo Festival, ITC Molari, 14 luglio 2017.

Chroma Keys

di Enrico Casagrande, Daniela Nicolò e Silvia Calderoni. Con Silvia Calderoni. Tecnica e video design Paride Donatelli, Andrea Gallo e Alessio Spirli (aqua micans group). Produzione Motus con Santarcangelo Festival. Residenza creativa L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino. Si ringrazia Matteo Marelli per la collaborazione. Con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna. Santarcangelo di R., Santarcangelo Festival, 7 luglio 2018.

162

Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Silvia Calderoni

Rumore Rosa. Partitura scenica*

La partitura di seguito riportata è stata scritta da Silvia Calderoni durante la messinscena dello spettacolo. Per un breve periodo di tempo, agli inizi del suo lavoro con la compagnia riminese Motus, l’attrice aveva deciso di conservare in forma scritta le partiture non tanto per uso personale, quanto come forma di scrittura atta ad assecondare la passeggera ossessione, come lei stessa la definisce, di lasciare una testimonianza del proprio lavoro ai posteri. Il prezioso documento che segue è stato gentilmente fornito dall’attrice, che ne ha autorizzato la pubblicazione. Rumore Rosa è parte di uno studio più ampio che Motus fa sul regista tedesco Reiner Werner Fassbinder, confermando così la sua fascinazione per il cinema e soprattutto per il montaggio cinematografico che era già emersa dai precedenti lavori su Pasolini. Il progetto su Fassbinder si propone di indagare il rimosso della storia dopo la caduta del muro in un Europa in cui il passato avanza e fa presa soprattutto nel più infimo e banale vissuto quotidiano. Per fare ciò, lo studio si suddivide in due forme teatrali: una aperta, Piccoli episodi di fascismo quotidiano, che si articola per eventi unici e irripetibili e resta aperto alle trasformazioni e ai luoghi che attraversa; e una chiusa, Rumore Rosa, una messa in scena tutta femminile che si ispira a Le lacrime amare di Petra Von Kant. Rumore Rosa è, quindi, uno spettacolo abitato solo dai tre corpi femminili di Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri e Emanuela Villagrossi. Inizialmente doveva essere una messa in scena/remake del film, ma per motivi di SIAE ne fu impedita la messinscena. Il divieto tuttavia si trasformò in una liberazione, e la compagnia riminese decise di lavorare su tutto l’universo femminile cinematografico di Fassbinder, partendo dalla separazione delle tre donne come la vediamo alla fine del film, per rappresentare però le ragioni e gli artifici del melodramma esistenziale: Lavorando per distanziamenti e simulazioni progressive si è redatto, con le attrici, una sorta di catalogo-linguaggio comune di tutti i più ricorrenti simboli del campo melodrammatico, con l’ambiguità imbarazzante che in essi risiede: telefonate, attese, feste mal concluse, notti insonni, litigi, tradimenti, provocazioni, percosse… accompagnando ogni azione solitaria con struggenti 45 giri di un passato recente… canzoni italiane d’amore e d’abbandono… gli unici testi che inizialmente abbiamo chiesto di studiare.

* Allegati all’articolo: materiale iconografico, consultabile on line. (www.actingarchives.it).

© 2019 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it

163

Silvia Calderoni, Rumore Rosa. Partitura scenica

Il disco che ruota su sé stesso e alla fine si incanta, con l’inquietante rintocco della puntina, ha fatto il resto.1 Da qui il nome ‘rumore rosa’, termine che indica in acustica le frequenze artificiali utilizzate dai tecnici per equalizzare il suono. Artificiale è la parola chiave di tutto questo spettacolo.2 Il tentativo di portare sulla scena i meccanismi dietro i cinici e disincantati melodrammi fassbinderiani si è concretizzato in una modalità di lavoro che ha visto le attrici preparare da sole le proprie storie. I corti circuiti che ne sono risultati hanno portato alla creazione di una messa in scena dal carattere fortemente cinematografico-fumettistico, con un unico cardine drammaturgico di collisione tra le tre storie nell’incidente d’auto di una delle tre protagoniste. I tre personaggi-pretesto – Petra (Emanuela Villagrossi), Karin (Nicoletta Fabbri) e Marlene (Silvia Calderoni) e allo stesso tempo tutte le altre figure femminili della produzione del regista tedesco – vengono ridotte a icone-fumetto dal carattere bidimensionale, accentuato dalla regia e dal montaggio grazie ai disegni animati (creati dall’illustratore Filippo Letizi) che rappresentano una città qualunque, fredda e deserta, e interni anonimi, uno story board proiettato dietro le attrici e riflesso sul pavimento bianco di plexiglas, che accentua la bidimensionalità della scena. Quest’ultima è completamente scarna e priva di arredi, solo alcuni microfoni, dei ventilatori e due giradischi, di cui uno ripropone i rumori di un incidente d’auto, l’altro malinconiche canzoni d’amore italiane. l. c.

* * *

Ventilatore. Controlla il led della macchina per l’ultima volta e la sistema dietro, facendo in modo che la tracolla non passi sul colletto. Rumore di passi. Dalla sinistra della platea con camminata decisa percorre il nero fino alla fine, curva a destra, e poi si presenta per un attimo con tutta la faccia, ferma sul taglio. Le mani sono sempre state in tasca. Sorride? Riparte decisa, lascia la macchina non perfettamente al centro del proscenio perché quello spazio le servirà subito dopo. Non si è mai fermata se non all’asta di destra, l’ultima in fondo. La sistema, l’accarezza e poi arretra facendo un suono con la bocca amplificato dallo strumento. Si gira. Si piega. È già all’angolo opposto, a terra, davanti al primo piatto. Lo apre, sfila il primo 45 e lo appoggia nella custodia. Poi sposta la puntina che fa partire “Planetario”. Tiene tutto per un attimo ma questo serve a lei.

1 Dalle note di regia disponibili sul sito web della compagnia https://www.motusonline.com/ (ultima consultazione 29-4-2019). 2 Un breve montaggio è disponibile al link: https://vimeo.com/8996496.

164 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Lo sguardo, dal disco, va ad appoggiarsi sulla tenda bianca di sinistra, più alto rispetto a prima, ed insieme ad esso gira tutto il corpo. Le mani si uniscono sulle ginocchia. Sorride? Un tempo. Si rialza e va al centro del proscenio offrendo la schiena. Sullo schermo palazzi. Mani in tasca. Si avvicina camminando e si trova alla finestra. Guarda. Si apre la zip del giacchino di pelle. È sola. In casa fa caldo. Va con passo diverso davanti al ventilatore. Lo ferma con la sinistra. Intanto la destra sistema il microfono che si trova al suo fianco. Apre le braccia e si gode l’aria, nient’altro se non un piccolo sforzo per alzare un po’ più quella testa che mai vuole farsi vedere. A volte gli si chiudono gli occhi e il suo corpo lievemente si sbilancia. Poi basta. Sorride? Riparte, cambia il passo, si sente il tacco quadrato sul pavimento di plexiglass bianco. Ritorna ai piatti e piegandosi si toglie il giacchino, lo lascia lì a fianco. Apre il secondo apparecchio portatile ripetendo l’andamento precedente, sposta la puntina, la mano sinistra intanto abbassa il volume della musica. Ora “Planetario” è più basso. Parte il dialogo. –Gli uomini e la loro vanità… il volume è confuso e di reazione lei si rialza per sistemare il microfono che ha sulla destra. Ritorna poi a terra, cambia qualche posizione fino a che non le si accorcia il fiato. Cambio ritmo, asma, velocità. Piccola nevrosi. In ginocchio. Asma. Prende il Ventolin. Si avvicina al microfono. Spara bloccando il disco per un attimo. Poi pace, si risiede. Luppa una frase e per tre volte sposta la puntina. Il dialogo torna nella parte iniziale. Fa ripartire planetario a poco meno che la fine. Risposta la puntina che si luppa sulla parola MARLENE. Fianco sinistro a coltello. Pugni chiusi. Braccia tese. Tensione massima in tutto il corpo. Prima sta con la faccia a terra, poi appoggia lo sguardo alla tenda bianca di destra. Incidente. Cambio tempo.

“Ero disperata, dentro le solite cose di tutti i giorni, quando sento un rumore pazzesco che viene da fuori, da sotto. Sono corsa alla finestra, il tempo di accorgermi di quello che stava accadendo che già avevo la mia macchina in mano e l’adrenalina a mille. Le ho fatto tre foto, poi ho pensato che erano perfette per il mio lavoro. In un attimo mi sono resa conto che sono un mostro e mi è preso il panico, ho anche avuto uno dei miei attacchi di asma ma per fortuna avevo il Ventolin a portata... poi ho preso il giacchino e sono corsa di sotto. La macchina fotografica era ancora con me. Ma arrivata in strada già dei passanti la stavano soccorrendo. Sono stata in disparte a prendere freddo. La guardavo, era buffa, avrei voluto sapere tutto di lei. Un tipo ha anche cercato di abbordarmi, lo conoscevo, sì, era uno di quelli del parco ma lui neanche se n’è accorto che ero io. Vestita da donna non mi riconosce mai nessuno.”

Poi lascia il taglio per il corridoio nero. Va alla doppia seduta e appoggia la macchina sulla sedia libera. Cambia le scarpe. Quelle da tennis sono più

165 Silvia Calderoni, Rumore Rosa. Partitura scenica

comode per cadere. Mette un guanto alla mano sinistra per avere una miglior presa per lo specchio di vetro. Si rialza e ritorna nel taglio. Riflette la luce. Manda un segnale? Sorride? Sta fino a quando i passi non le danno il via per correre al centro della stanza, saltare e cadere con vetro alla mano verso la platea. Occhi sbarrati. “Ho passato i giorni successivi a fare l’idiota in casa mia. Saltavo a terra e cercavo di riprendere la posizione di quella donna. Volevo lavorare su quell’evento grandioso che era successo a pochi metri della mia finestra. Usavo uno specchietto per curare i dettagli della faccia.”

Apre il palmo, il vetro viene lasciato a terra, sorride? Si rialza, e andando al primo piatto si sfila il guanto che lascia cadere a fianco al microfono di sinistra. Sostituisce il 45 di “Planetario” con il 45 di “Era d’estate”. Poi sostituisce il 45 del dialogo con il 45 della registrazione dell’incidente. Lo ascolta, annuisce, sottolinea il crash con un cenno della testa, lo luppa per tre volte. Intanto Sergio Endrigo continua ad andare ad un volume più basso. Si alza, va alla finestra e guarda.

“Sai, secondo me la tipa che abita davanti neanche se n’è accorta. La stavo guardando prima del botto. Era sola come al solito e girava per casa. Mi rincuora vedere che c’è qualcuno che sta peggio di me.”

È alla finestra, guarda la dirimpettaia. Sorride? Aspetta un movimento deciso del video. Ritorna a recuperare il vetro con la mano sinistra. Si sposta nuovamente al ventilatore. Apre piano la zip del giacchino. Forse è rituale. Infila il vetro nella tasca interna. Una parte rimane a vista. La luce le si specchia sul viso. Prende il vento quanto basta per poi rispostarsi a sinistra. Raccoglie il piatto ancora funzionante di “Era d’estate” e lo appoggia nell’angolo esterno. Lì trova le cuffie. Le mette e fa un ascolto privato sdraiata a terra. Batte la musica con la testa. Apre lentamente la zip del giacchino di pelle. Il vetro è sul petto, lei è sdraiata lungo il corridoio nero. Il 45 dell’incidente intanto fa partire il dialogo. Toglie il giacchino. Spalle al palco. Con lo specchio spia e studia chi le sta dietro. Ride. Osserva. È seduta, le gambe sono raccolte verso il petto. La mano sinistra regge lo specchio. La mano destra cerca di sfilare le scarpe da tennis e sostituirle con un paio di scarpe da donna. Alte. Un bel velluto viola. Ora è pronta per alzarsi, già sui piedi ma ancora accovacciata a terra. Quando i passi lasciano la stanza in un'unica azione sfila la cuffia, scollega il jack e si rialza come se tenesse una cornetta tra la testa e la spalla destra e un telefono in mano. Cambia il ritmo. Sorride? Cammina avanti e in dietro per il corridoio nero centrale. Intanto mima una telefonata. Non parla con l’amore della sua vita,

166 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

con lei non mentirebbe mai. Ritorna nell’angolo di sinistra e continuando l’azione porta il piatto in proscenio leggermente scentrato.

-Pronto sì… -Sì, anche io… -Ma no dai... -Lo sai che mi manchi... -Moltissimo... -Parlo piano perché è notte... -No, non c’è nessuno qui, lo sai bene... -Si, il naso va meglio... -Già te l’ho detto, è solo la musica... -Lo rifarò altre volte, non posso farne a meno, lo sai…

Si siede davanti al piatto e fa ripartire il 45 dall’inizio. Lo guarda, sorride? Poi si sdraia sul fianco destro e lascia l’immagine del telefono per passare nella posizione a coltello con i pugni stretti e la massima tensione nel corpo.

-È un delirio, certe canzoni ti bucano il cuore e il cervello. Sono quelle che ascolti per farti male. Vorresti sbattere la testa su un muro. Oppure scontrarti contro un’auto. Oppure un treno. Senti male. Senti male. senti male.

-È tutta una stronzata. È che non sai più in che modo fare uscire la rabbia. Tu confondi la rabbia con il male. Non vedi che non sentiamo più nulla? Usi questa canzonetta solo perché vorresti riuscire a piangere ma non ce la fai più.

Si gira di schiena, gambe raccolte, improvvisamente parte un’azione violenta a terra. Si alza, sbatte il corpo per fare saltare il 45 in punti precisi che in questo modo vengono ripetuti. Salta a terra dall’alto, da seduta e da sdraiata, sbatte pugni e testa, alterna il movimento a piccole pause più leggere accennando a volte la posizione di chi è al telefono. Tutto è molto serrato fino a che non recupera il piatto e lo porta a destra dello schermo, appoggiandolo a terra. Con le spalle alla platea, alza fino al ginocchio i due pantaloni per poi ricadere un’ultima volta dietro lo schermo lasciando a vista le gambe. Tiene la figura fino a che la luce non la lascia.

167 Silvia Calderoni, Rumore Rosa. Partitura scenica

“…e per la prima volta non mi vedono... stacco per qualche secondo... in realtà devo prepararmi, tornare lucida il prima possibile. E poi il sangue finto... tanto... altrimenti non si vede…”

L’animazione passa ad un interno casa. Un bagno. Lei entra da destra, da dietro lo schermo. Scarpe viola, calzini da tennis e mutande bianche, un secchio tra le mani con sopra un asciugamano, sangue al naso. Appoggia secchio e asciugamano davanti la parte sinistra del plexiglass. Si rialza e arretra tenendosi la fronte corrugata con la mano sinistra e il naso con la destra. Cerca la luce con il viso. Poi si sposta davanti al secchio e in ginocchio immerge la testa nell’acqua che viene tinta dal sangue. Con la gola riprende i suoni dell’audio che è trasmesso in contemporanea all’azione. Tira fuori la testa, respira affannosamente, scuote il volto, si immerge nuovamente. Urla.

“Taxi!! Qualcuno mi può chiamare un taxi!!” “Anche in rumore ho trovato un posto dove essere veramente disperata, dove nessuno mi può vedere la faccia e sentire i singhiozzi. Queste sono cose personali.”

Tira fuori la testa, prende il panno bianco e alzandosi si asciuga i capelli. Intanto si sposta verso destra. Torna ad abbassarsi, sfila la scarpa destra e stendendosi si copre il volto con l’asciugamano. Dopo qualche secondo, piega la gamba destra quel tanto che le permette di sfilare sempre con la mano destra il calzino, mantenendo comunque la posizione distesa. Sfilato e raggomitolato, infila il calzino nelle mutande. Dopo venti secondi con la stessa mano si avvicina alla testa e infila due dita dentro la bocca aperta. Questo fa sì che l’asciugamano disegni l’incavo interno della bocca. Altri venti secondi e tutto si scoglie. Sposta l’asciugamano sulla spalla, si infila la scarpa e in piedi verso la platea sfila il calzino e lo mette in bocca. Si gira, prende il secchio ed esce di scena dalla parte destra.

“Sono fuori. Adesso mi cambio. Tolgo le scarpe, rimetto il calzino e mi metto un bel completo. Mi vesto da uomo elegante con scarpa da tennis. In più ci sono anche gli occhiali e il berretto. Devo essere forte.”

Intanto che la torta esce di scena lei si prepara nel corridoio sinistro più esterno. Inizia a simulare un’aggressione solo sonora fino a che avanzando non è visibile. A vista sbatte contro il muro di lato. Confusa corre in avanti ed entra nel corridoio nero. Simula il freddo per pochi secondi, va al piatto rimasto e fa partire il dialogo sul nero. Si piega, mette il cotone nella narice sinistra. Si siede di spalle alla platea. Guarda la sconosciuta che entra. Alla frase “lungo e grosso” si rialza e sempre con il freddo raccoglie il piatto con la mano destra ed il disco di planetario con la mano sinistra per

168 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

poi andarsene dal corridoio esterno destro. Fa ancora freddo. Lei è all’aperto. Rientra subito dalla quinta di destra. Appoggia il disco ed il piatto a fianco dell’altro. Con un microfono preso dalla quinta amplifica il dialogo. Va quindi a ricostruire la stessa immagine iniziale. Con calma si toglie il berretto e sdraiata dietro i due piatti, guarda la scena.

“Il mio segnale per sapere quando alzarmi dopo la scena del night sono i palazzi, li scatto in piedi.”

Ad un segnale si alza e con passo deciso attraversa il retro dello schermo, si ferma un attimo sul taglio di destra, raccoglie l’insalata che è a terra e va alla seduta. Da lì guarda in modo leggero la scena, mangia insalata come mangerebbe popcorn al cinema, recupera da terra la siringa e mette in bocca il suo contenuto con un gesto a vista. Si pulisce poi con un tovagliolo. “Petra è uscita dal garage passandomi a pochi metri, io ho cercato il suo sguardo ma lei neanche mi ha guardata.”

Aumentano le luci, lei scatta in modo atletico dritta a sé, correndo tutto il corridoio nero, fino ad arrivare vicino alla platea, poi corre ancora in dietro, verso lo specchio che è appoggiato a terra nell’angolo bianco sinistro. Sempre di corsa lo porta al centro della scena, tra i tre microfoni centrali, lo appoggia a terra e affannosamente si rialza. Blocca il fiatone, sorride. Con calma abbassa i due microfoni di sinistra. Quello centrale solo in parte. Poi si ripiega, torna a carponi, si guarda allo specchio, sorride e improvvisamente sputa tutto il sangue, due colpi di tosse, il fiatone, riparte di corsa verso il centro della platea. Rallenta. Torna a camminare mantenendo il fiatone. Ritorna alle sedute. Forse dal corridoio di sinistra. È stanca? Prende il tempo che serve per sistemarsi. Intanto guarda la scena. L’incidente. Si mette la macchina a tracolla attenta a non rovinare il bavero della giacca e si pulisce la faccia dal sangue.

“Quella donna mi è passata a pochi metri, io ho cercato il suo sguardo ma lei neanche mi ha guardata.”

Luce. Rumore di passi. Si alza e arriva al taglio camminando. Sorride? Cammina in avanti e gira a sinistra per poter passare dietro lo schermo. Si accovaccia dietro ai piatti. Fa partire planetario. Accenna la musica con la testa camminando fino al centro del proscenio. Appoggia la macchina fotografica e si sposta fino ad arrivare alla finestra. Guarda. Sorride. Va verso l’angolo destro del palco si sdraia con le braccia dietro la testa e riprende la figura iniziale. Ascolta la musica. Si alza, prende il Ventolin e

169 Silvia Calderoni, Rumore Rosa. Partitura scenica

va convinta verso il centro. Si sistema con cura a terra nella posizione della morta. Lascia il Ventolin, lascia gli occhiali e si sfila una scarpa. Da qui passa a stringere i pugni nella figura a coltello. Incidente. Si alza di scatto. Guarda fuori dalla finestra. Corre a prendere la macchina e va per fotografare, come nella prima scena lo schermo. Questa volta fotografa a terra. Due volte gli oggetti. La terza volta salta e fotografa sé stessa nella scena della morta. Si alza. Va dietro prende un telo di plastica. Ricopre con calma la scena. Va via. “A volte appena finito mi chiedo se sono io quella che hanno investito”

170 Charles Lamb

THEATRALIA SUGLI ATTORI E LA RECITAZIONE

I Libri di AAR

Charles Lamb

THEATRALIA SUGLI ATTORI E LA RECITAZIONE

Traduzione, introduzione e note di Loretta Innocenti

I Libri di AAR Traduzione, introduzione e note di Loretta Innocenti Copyright © 2019 Acting Archives Acting Archives Review, Napoli, Maggio 2019 ISSN: 2039-9766 ISBN: 978-8-89-409675-0

In copertina : Charles Lamb come Elia (da uno sketch di Daniel Maclise) nel volume Memoirs of Charles Lamb, London, Gibbings & Company, 1894.

www.actingarchives.it INDICE

5 INTRODUZIONE

SUGLI ATTORI E LA RECITAZIONE

16 Delle tragedie di Shakespeare considerate in rapporto alla possibilità di essere rappresentate in teatro 31 Sull’abitudine di fischiare a teatro 37 La mia prima volta a teatro 42 Su alcuni vecchi attori 52 Sulla commedia artificiale del secolo scorso 59 John Kemble e la tragedia Antonio di Godwin 63 I vecchi attori 65 La recitazione di Munden 67 L’addio di Munden 69 Autobiografia di Mr. Munden 71 Biografia di Mr. Liston 77 L’illusione teatrale 80 Barbara S⎯ 85 La religione degli attori 88 Dedicato all’ombra di Elliston 90 Ellistoniana 95 La morte di Munden

Recensioni

97 Il Richard III di Cooke 100 Mr. Cooke nei panni di Lear 101 Il nuovo stile di recitazione 103 Ricordi teatrali 105 Il Don Giovanni di Miss Burrell 107 Miss Kelly a Bath 110 A Jovial Crew di Richard Brome 111 The Hypocrite di Isaac Bickerstaff 113 Opere nuove al Lyceum 115 Mr. Kean nei panni di Amleto

117 Attrici e attori citati da Lamb AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

INTRODUZIONE

Sul filo del ricordo. Charles Lamb e la scena teatrale Charles Lamb non amava fare recensioni teatrali; preferiva piuttosto scrivere le sue riflessioni, anche sulla scena e sulla recitazione, a una certa distanza temporale – ed emotiva – dall’evento spettacolare. Il pensiero non poteva svilupparsi a comando, una volta tornati a casa dopo aver visto un dramma, ancora immersi in quella esperienza e in quelle sensazioni. Al contrario dei suoi amici William Hazlitt e Leigh Hunt, come lui entrambi amanti del teatro sul quale scrivevano quasi giornalmente, Lamb fin dalla prima recensione, pubblicata sul Morning Post nel gennaio 1802, ebbe chiara la sua impossibilità di soddisfare le esigenze del direttore del giornale: “Forse è l’ultimo pezzo teatrale che farò. Li vogliono la sera stessa: io ci ho provato una sola volta e ho capito che non ci riesco. Non posso fare una cosa lottando contro il tempo”. 1 I suoi saggi hanno così il sapore della “recollection in tranquillity” cara al poeta romantico Wordsworth, cioè del riandare col pensiero a cose del passato vicino o alla memoria di eventi e di persone lontane. O comunque di parlare del teatro in senso generale, su temi ampi e non legati alla contingenza della serata. L’enorme diffusione di giornali e di settimanali all’inizio dell’Ottocento dava spazio sia a commenti sulla vita culturale e teatrale contemporanea, sia a pezzi nella tradizione di Addison e Steele, riflessioni su aspetti e oggetti diversi dell’esperienza. Gli amici di Lamb, quelli di una vita come Coleridge, Hazlitt e Hunt, erano, o erano stati, tutti impegnati nel dibattito intellettuale, in alcuni casi finanziando addirittura in prima persona la pubblicazione di periodici, sia politici che letterari. Fu il caso del poeta Coleridge, e lo fu dei diversi giornali fondati da Leigh Hunt con suo fratello John, su cui apparvero testi di Keats, Shelley, Byron, ma anche articoli di Hazlitt e di Lamb. I legami tra questi autori e l’intensa attività editoriale dell’epoca dà la misura della vitalità di Londra, città metropolitana e moderna, centro di diffusione e di discussione di idee, sulla stampa come nei circoli culturali. Ma indica anche come intellettuali e scrittori si conoscessero tutti e i “circoli culturali” fossero di fatto piccole cerchie di amici. Uno di questi “salotti” era tenuto da Charles Lamb e dalla sorella Mary, di cui lui aveva assunto la tutela dopo che in una crisi di follia lei aveva ucciso la madre. Nonostante una vita non proprio felice, costretto anche a un lavoro impiegatizio, Charles era tuttavia un uomo socievole e simpatico, e frequentava attivamente la società degli artisti, dei poeti e della gente di teatro. Lo dicono i contemporanei ma anche lui ne parla,

1 Citato in Winifred F. Courtney, Young Charles Lamb (1775-1802) , Palgrave Macmillan, London 1982, pp. 320-321.

5 Charles Lamb, Theatralia

orgoglioso di aver conosciuto molti attori nella loro vita privata, oltre che averli visti e ammirati sul palcoscenico. I suoi saggi teatrali sono una piccola parte di una vastissima produzione in prosa su argomenti diversi, dalle porcellane cinesi al maialino arrosto, da descrizioni di luoghi a pensieri sparsi su libri e sulla società: tutte riflessioni personali, domestiche, sulle futilità di ogni giorno, ma segnate dall’umorismo intelligente e da quel piacere dell’illuminazione intima che il saggio romantico aveva scoperto in un genere già allora dotato in Inghilterra di una lunga vita, ignota altrove. 2 Lui stesso pubblicò una raccolta dei suoi brevi lavori con lo pseudonimo di Elia, nel 1823, e poi un secondo volume nel 1833, un anno prima della morte, con il titolo Ultimi saggi di Elia . Qui, in questi due volumi, ristampò anche alcuni pezzi dedicati al teatro, già usciti sul London Magazine , sull’ Examiner e sull’ Englishman’s Magazine . Non sono molti, ma non è comunque molto quello che Lamb ha scritto sulla scena, sugli attori e sulla recitazione e, a parte il suo lavoro del 1808 sui drammaturghi contemporanei di Shakespeare, pur interessante perché tratta anche di autori all’epoca dimenticati, il resto sono tutti i saggi che qui vengono presentati in traduzione italiana. Che cosa rende questa riflessione, quantitativamente scarna, interessante non solo nel panorama romantico ma anche rispetto alla più generale teoria della recitazione, in particolare circa l’annosa questione dell’illusione teatrale e quella, ad essa strettamente collegata, dell’identificazione emotiva dell’attore con il suo personaggio? Vediamo intanto il problema dell’illusione drammatica: il concetto di “disbelief” (“incredulità”) su cui si basa la famosa definizione di Coleridge della fede poetica 3 a maggior ragione si applica al teatro dove programmaticamente la scena è imitazione, verosimiglianza, apparenza, ed è impossibile “credere” alla verità di ciò che vediamo. La consapevolezza che l’illusione drammatica dipende solo da una maggiore o minore “sospensione volontaria dell’incredulità” – una consapevolezza che Coleridge ha avuto il pregio di definire ma che era chiara ai teorici fino dall’antichità – mette l’accento sulla ricezione, sullo spettatore che si confronta con la mimesi di luoghi, tempi e azioni umane. È chiaro da

2 Sul saggio romantico si veda G. Mochi, La prosa del Romanticismo: i saggisti , in Storia della civiltà letteraria inglese , a cura di F. Marenco, Torino, Utet, 1996, 4 voll., vol. II, pp. 522-541. In particolare, su Lamb, si veda della stessa autrice “Musa minore: la prosa del Romanticismo inglese e gli ‘Essays of Elia’”, in Rivista di letterature moderne e comparate , 43, 2, 1990, pp. 151- 178. 3 “a semblance of truth sufficient to procure for these shadows of imagination that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic faith” (“una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell'immaginazione quella volontaria e momentanea sospensione dell’incredulità, che costituisce la fede poetica”, Biographia literaria , 1817).

6 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

sempre che il pubblico “sa” di assistere a una finzione, ma a fine ’500 Sidney ebbe bisogno di ribadirlo per difendere la poesia drammatica dall’accusa di essere menzognera, di mostrare miraggi e apparenze. 4 E il metateatro, in primis quello shakespeariano, rompe l’illusione svelandola, ma fa appello all’immaginazione del pubblico per supplire a quello che la scena non può rappresentare, e che gli attori cercano di impersonare e di esprimere. In altri termini, per ricreare quell’illusione. L’altro aspetto, quello dell’identificazione dell’attore con il personaggio, di fatto sembra enfatizzare per il pubblico il senso di realtà, di un’azione cui esso partecipa non visto. Quando in Hamlet l’attore recita su richiesta del principe il racconto della morte di Priamo, Polonio, vedendo che egli è sbiancato in volto e sta per piangere, lo prega di smettere, quasi credendo vera la sua emozione. Amleto però, dopo essere rimasto solo, pronuncia il famoso monologo in cui si chiede come sia possibile che costui, fingendo la passione in una storia inventata , riesca a cambiare aspetto, a parlare con la voce rotta e a piangere. “E tutto questo per niente! Per Ecuba! Ma che cos’è Ecuba per lui o lui per Ecuba che lui debba piangere per lei?”. 5 Amleto parla di “fiction”, di “dream of passion”, di “forzare” il proprio animo per dare forma a un’idea; in altri termini, non di sentire la passione ma di riprodurla, in modo però che a chi guarda sembri vera: una capacità professionale di imitare il pathos tragico. Ma perché questa capacità sia identificata dai critici con una sorta di controllo razionale delle proprie passioni e contrapposta teoricamente al provare veramente i sentimenti che si recitano, si dovrà aspettare il Settecento quando a una teoria emozionalista formulata con sempre più chiarezza si risponde con una posizione antitetica, esaltando l’intelligenza e l’abilità mimetica di atteggiamenti, di gesti e di passioni. 6 Questa seconda voce, declinata in modo vario, si è col tempo identificata sempre più con quella di Diderot e del suo Paradosso , anche se il libro fu pubblicato postumo nel 1830, molti anni dopo la morte dell’autore. Quindi, anche molti anni dopo la pubblicazione dei saggi di Charles Lamb, che si inseriva con le sue idee nel dibattito sul teatro ma non tanto rispondendo, secondo me, alle formulazioni di autori e di critici, bensì nel solco romantico di posizioni filosofiche assolutamente inglesi, che influenzarono ogni aspetto dell’esperienza artistica degli ultimi decenni del diciottesimo secolo. Secondo Claudio Vicentini Lamb ha condotto “un’operazione teorica estremamente importante”, superando l’idea settecentesca che l’attore possa rappresentare la passione con la sua presenza fisica e il suo corpo

4 Sir Ph. Sidney, An Apology for Poetry (1595). 5 “And all for nothing! For Hecuba! What’s Hecuba to him or he to her, that he should weep for her?” (Hamlet , II.2.552-554). 6 In proposito si rimanda ai lavori di C. Vicentini, in particolare ai capitoli 5-7 del suo volume La teoria della recitazione . Dall’antichità al Settecento , Marsilio, Venezia 2012.

7 Charles Lamb, Theatralia

sulla scena, perché di quell’idea ha messo in discussione i due parametri essenziali: “Innanzi tutto la pretesa che l’attore potesse (dovesse) scomparire dietro il personaggio […] E poi la convinzione che l’attore, fuso nel personaggio, potesse (dovesse) immergere tutta la sua concentrazione nella situazione drammatica, mentre di fatto, per la natura stessa della recitazione, la sua intera prestazione era strutturalmente rivolta al pubblico presente in sala”. 7 È un’osservazione molto interessante da valutare comunque, ripeto, anche in relazione alla filosofia inglese della seconda metà del Settecento. Sono soprattutto tre i saggi di Lamb in cui la sua posizione risulta più chiaramente e che sono dedicati non a specifiche rappresentazioni o ad attori particolari, bensì a questioni drammatiche più generali. E sono tre le idee che ne emergono, a distanza di anni l’una dall’altra. La prima è la più famosa: 8 quella che le opere di Shakespeare non siano adatte al palcoscenico e alla recitazione degli attori, perché questi, enfatizzando gesti e espressioni, appiattiscono il personaggio e mostrandone solo la superficie non riescono a rivelarne l’interiorità, le sfumature del carattere, le emozioni profonde. Così le grandi figure shakespeariane sulla scena non sono più distinguibili dagli eroi di opere di qualità inferiore: la recitazione uniforma tutto e azzera le differenze. Non si tratta qui di rendere il testo drammatico in modo “distante” o più o meno “naturale”: Garrick stesso, lodato campione di una recitazione nuova appena cinquant’anni prima è per Lamb un attore come gli altri, teso a attirare lo sguardo del pubblico, interessato alla storia messa in scena, al dialogo appassionato, ma non in grado di restituire l’intelletto, la psicologia, le finezze del personaggio. Né l’aspetto poetico del testo, tanto che lui stesso aveva accettato e continuato la tradizione degli adattamenti, delle interpolazioni che servono solo a scopi spettacolari. Allora, si chiede Lamb, che cosa possono avere a che fare con Amleto le qualità attoriali di Garrick, così come quelle di tutti gli altri interpreti? Il problema è che il teatro è altra cosa dalla lettura, che sola può capire i pensieri profondi, le riflessioni solitarie del personaggio, gustare la poesia del testo. Meglio quindi immaginare il melanconico Amleto, meglio creare con la fantasia Lear, senza vederlo barcollare sulle scene vecchio e demente, meglio figurarsi le streghe di Macbeth piuttosto che vedere delle megere aggirarsi sul palcoscenico: nella rappresentazione quello che è spaventoso diventa grottesco, quello che è fantastico e fatato diventa banale e ridicolo. Byron negli stessi anni scriveva drammi da non rappresentare, destinati a

7 C. Vicentini, “La teoria della recitazione. Il distacco dell’attore dal personaggio”, in Acting Archives , VI, 11, maggio 2016, p. 13. 8 Il saggio citato è “Delle tragedie di Shakespeare considerate in rapporto alla possibilità di essere rappresentate in teatro”, pubblicato per la prima volta nel 1811 su The Reflector e ristampato nel 1818 in una edizione delle sue opere, in due volumi.

8 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

un pubblico di lettori, secondo lui più raffinati degli spettatori contemporanei che dalla scena si aspettavano solo storie melodrammatiche e azioni avventurose. Può trattarsi di un atteggiamento elitario comune ai due autori e forse al Romanticismo inglese, contrario alla massificazione. Lamb tuttavia non è così ingenuo da voler abolire il teatro in favore della lettura, la scena in favore della poesia del testo drammatico; il suo è un discorso teorico e la distinzione tra i due linguaggi inoppugnabile: “non sto discutendo del fatto che Hamlet non dovrebbe essere recitato, ma di quanto Hamlet diventi un’altra cosa recitandolo”. Se il teatro è altra cosa dalla poesia, lo è però anche dalla vita e lo spettatore dovrebbe esserne sempre consapevole, averne una chiara percezione proprio nell’assistere a una rappresentazione. È la seconda delle riflessioni di Lamb, enunciata a proposito della commedia della Restaurazione, che egli chiama “commedia artificiale”: 9 drammi molto poco “politically correct”, pieni di personaggi amorali, adulteri, sfacciati, truffaldini, ma anche di situazioni comiche, leggere. Secondo lui, se le opere di Congreve, di Farquhar, di Wycherley vengono rappresentate solo raramente è perché il pubblico contemporaneo non le capisce; ne stigmatizza la volgarità e l’immoralità, valutandole come se si trattasse di vita vera. Il giudizio morale ne uccide la leggerezza, la giocosità galante, l’arguzia. D’altra parte, gli attori stessi non amano più le situazioni irrealistiche e per gratificare le attese del pubblico interpretano tutto in modo verosimile, mimetico: un modo che non si confà alla “comedy of manners” e alla sua “artificialità”. L’esempio di una interpretazione adatta alla commedia della Restaurazione, una modalità di muoversi e agire in scena contraria all’illusione drammatica, era quella di Jack Palmer, un attore del passato, cui Lamb attribuisce una recitazione dislocata – tutto era visibilmente recitato – e doppia – sull’asse interno alla scena, rivolta agli altri personaggi, e su quello esterno, direttamente verso il pubblico. Joseph Surface, il personaggio principale di The School for Scandal (La scuola della maldicenza) di Sheridan, reso così in modo straniato, è un depravato da commedia, un ipocrita accettabile e non un odioso malvagio; far trasparire l’attore sotto o accanto al personaggio neutralizza la rigidità dei ruoli e impedisce al pubblico di prendere sul serio ciò che vede. Nel saggio Lamb riconosce che Sheridan cercò di unire nella sua pièce due generi che non vanno assieme: “la commedia artificiale con quella sentimentale, ciascuna delle quali distrugge l’altra”, e solo la bravura dei suoi interpreti riusciva a riconciliare gli elementi discordanti. Cioè, secondo me, a tenere in sordina la parte sentimentale. Proprio a questi elementi discordanti è dedicato il terzo saggio che vorrei prendere in considerazione: quello sull’illusione teatrale o, meglio, sull’“imperfetta illusione teatrale” come l’aveva intitolato la prima volta

9 Si tratta del saggio “Sulla commedia artificiale del secolo scorso” del 1822.

9 Charles Lamb, Theatralia

che lo pubblicò, nel 1825. Ancora una volta centrale alla riflessione sul teatro è il pubblico e, di conseguenza, la possibilità di provare emozioni, di identificarsi con i personaggi sulla scena, di “credere” alla verità di ciò che si vede, oppure di tenersene a distanza. E qui l’attore comico e quello tragico agiscono in ambiti diversi, persino opposti. Al primo non è richiesto di confondersi totalmente con il suo ruolo, di annullarsi in esso: in un testo comico l’attore può far riferimento al pubblico, essere consapevole della sua presenza e sembrare, come scrive Lamb, “semi-fasullo”: ogni modalità realistica distruggerebbe il piacere. Nella tragedia invece è necessario che il grado di credibilità sia alto, che non si sospetti di trovarsi davanti a una finzione e che l’attore sembri totalmente inconsapevole della presenza degli spettatori. Questa differenza è la stessa che Lamb sottolineava tra la commedia di maniera e quella sentimentale: da un lato un’illusione imperfetta, dall’altro un’identificazione possibile solo a patto di “sentire” insieme al personaggio e di dimenticare l’attore. Ora, l’idea di immedesimazione, così come quella di distacco, nel Settecento inglese vanno però ben al di là dell’ambito teatrale: costituiscono i fondamenti del pensiero morale, di quello politico e sociale, e non è esagerato attribuire alla filosofia la nascita di generi letterari e di registri espressivi. La natura umana è oggetto di dibattito per tutto il secolo: da un lato vi è l’idea secentesca di Hobbes che i naturali istinti ferini nell’individuo siano contenibili solo in un rigido contratto sociale e un sistema politico assolutista; dall’altro per Shaftesbury l’uomo è una creatura sociale, dotata originariamente di senso morale, cioè di gusto estetico e di sentimento, che gli permette di trovare nel bene altrui anche il proprio interesse. Sarebbe lungo e qui fuori luogo seguire lo sviluppo di questa seconda tendenza prima nei filosofi morali scozzesi come Hutcheson e Home, e poi nella Francia illuminista di Rousseau e Diderot il quale, tra l’altro, nel 1745 aveva tradotto in francese l’opera di Shaftesbury An Inquiry Concerning Virtue or Merit (1699, Saggio sulla virtù e il merito). Quello che però è interessante notare è che il principio positivo del bene e della socialità è per questi filosofi da ritrovarsi nella “sympathy”, nella partecipazione benevolente, nel contatto che l’uomo ha con gli altri e con il mondo attraverso passioni e sentimenti, cioè un sentire non razionale che oltre che base etica comune diviene anche un principio di comunicazione estetica. Non a caso il secondo Settecento inglese viene chiamato, con un termine coniato da Northrop Frye, l’”età della sensibilità”, e l’aggettivo “sentimentale”, che avrà grande fortuna nella futura letteratura larmoyante , è coniato a metà del secolo, precisamente nel 1768, dal titolo del romanzo di Sterne, A Sentimental Journey (Un viaggio sentimentale), appunto, che

10 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

sposta l’attenzione dal “sentimento” inteso come opinione a un sentimento che appartiene alla sfera dell’emozione. 10 Questo sicuramente spiega l’identificazione empatica che la tragedia e la commedia sentimentale o melodrammatica richiedono programmaticamente: il pubblico deve provare compassione, pietà, deve condividere gli affetti rappresentati sul palcoscenico. Da qui l’idea che l’attore tragico debba mimetizzarsi nel suo personaggio più di quello comico, perché l’illusione drammatica potrà consentire al pubblico una forma di immedesimazione più alta. Ma a partire dalla benevolenza simpatetica come qualità etica e sociale della natura umana si sviluppa anche, paradossalmente, il registro opposto al patetico, cioè l’umoristico. Il secondo Settecento inglese assiste alla nascita di entrambi i modi: quello sentimentale e quello dello humour, da non confondere con la comicità. L’esempio di Sterne è calzante anche in questo caso: la sua narrazione romanzesca permette di sottolineare la differenza tra l’umorismo e un riso satirico o moraleggiante. L’umorismo è bonario, simpatetico, e basato sulla ricezione, sullo sguardo divertito di chi osserva le incongruenze e le inadeguatezze del mondo circostante, senza la distanza del giudizio morale ma con l’affettuosa partecipazione a ogni forma di innocente maniacalità o di ingenua ridicolaggine. Anche la superiorità dell’umorista è una forma di comunicazione sentimentale con gli altri, e non la distanza di chi ride dei difetti altrui perché non gli appartengono. Il narratore sterniano “lascia dialogare le varie voci e guarda dall’alto di un’intelligenza più acuta, anche se partecipa emotivamente con la sua bonarietà al gioco. Non c’è satira o atteggiamento critico nei confronti della debolezza umana, ma il divertimento di un burattinaio che ama le sue marionette”. 11 La lettura che Lamb fa della commedia artificiale sembra anch’essa dettata da un atteggiamento divertito, che poco ha a che fare con la moralità seriosa del giudice. Spesso la critica ha identificato con l’uomo hobbesiano e con il suo atteggiamento conflittuale e aggressivo i personaggi libertini della commedia della Restaurazione, che vivono in una società divisa tra lo scherno cinico dei wit , superiori agli altri, e il ridicolo delle loro vittime. Di quel teatro di fine Seicento nel suo saggio Lamb al contrario fa emergere l’aspetto assurdo, aristocratico, finto, e non è il solo a farlo in quel periodo. Hazlitt lodò il dialogo brillante e l’atmosfera alla Watteau, la raffinatezza e la grazia di quelle commedie, immaginando con nostalgia il fruscio delle

10 N. Frye, “Towards Defining an Age of Sensibility”, in ELH , 23, 2, June 1956, pp. 144-152. Per la nascita del “sentimentale” si veda L. Innocenti, “La comunicazione sentimentale: Laurence Sterne e il Settecento inglese”, in Il romanzo sentimentale (1740-1814) , a cura di P. Amalfitano, F. Fiorentino e G. Merlino, Pordenone, Studio Tesi, 1990, pp. 65-92. 11 L. Innocenti, “L’antiromanzo sterniano tra umorismo e sensibilità”, in “Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori”. Poema e romanzo: la narrativa lunga in Italia , a cura di Francesco Bruni, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 157-173, 165.

11 Charles Lamb, Theatralia

sete, l’ondeggiare delle piume, gli orecchini di diamanti e le fibbie lucenti. 12 E molti anni dopo, nel 1840, quando ormai Lamb era morto, Leigh Hunt stampò una raccolta delle opere dei maggiori commediografi della Restaurazione, rivalutandoli e scatenando così l’aspra reazione moralistica di Macaulay che accusò di immoralità e di depravazione non solo le commedie ma il mondo che esse dipingevano, con l’atteggiamento di uno storico per il quale i testi drammatici sono lo specchio della società che li ha generati. Macaulay era però così lontano dal mondo teatrale che non accenna mai alla messinscena, e piuttosto scrive che quelle opere non andrebbero mai pubblicate, perché pensa alla diffusione di pericolose idee nel pubblico dei lettori, con una visione ormai vittoriana della società. I romantici invece, qualche decennio prima, parlano del pubblico con il distacco di chi si sente intellettualmente e culturalmente superiore a una massa indistinta di persone. È lo stesso atteggiamento che Amleto mostra nel dare consigli agli attori: nella tragedia i groundlings più ignoranti, che stanno in piedi nell’arena, “are capable of nothing but inexplicable dumb-shows and noise” (“non capiscono altro che incomprensibili pantomime e baccano”) e, per quanto riguarda la commedia, ci sono un bel po’ di “barren spectators” (“ottusi spettatori”) che ridono a ogni stupidaggine dei comici e intanto non capiscono che c’è lì “some necessary question of the play” (“un punto essenziale del dramma”) cui bisognerebbe prestare attenzione. 13 Ecco forse un motivo in più per giustificare la posizione di Lamb contro la messinscena e a favore della lettura: il suo pregiudizio antiteatrale è una critica alla cultura popolare, superficiale, e alla spettacolarizzazione del mondo londinese permeato di “theatricality” in ogni sua manifestazione. Andare a teatro è diventato un’attività sociale e non ha niente a che vedere con l’emozione interiore e individuale (o di pochi) che egli sembra apprezzare. L’atteggiamento elitario e snobistico si estende però anche alla lettura: anch’essa è un’esperienza individuale che rischia di diventare un fenomeno di massa. Pur compiacendosi del fatto che si vendano più libri e che gli uomini diventino lettori mentre prima si dedicavano al cricket, al bere o al teatro – attività messe sullo stesso piano – Lamb conclude: “Is there no stopping the eternal wheels of the press for a half century or two till the nation recover its senses? Must we magazine it and review [it] at this sickening rate for ever? Shall we never again read to be amused? But to judge, to criticize, to talk about it and about it?” (“Non c’è modo di fermare per cinquanta o cento anni le incessanti rotative della stampa, fino a che la nazione ritrovi il senno? Dobbiamo scrivere riviste e recensioni per sempre

12 Lectures on the English Comic Writers , IV lecture. 13 Hamlet , 3.2.1-46.

12 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

a questo ritmo disgustoso? Non leggeremo mai più per divertimento? E invece solo per giudicare, criticare, parlare e parlare?”). 14 E torniamo al punto di partenza: Lamb non fa recensioni, non giudica bensì ricorda, con tenerezza e nostalgia, a partire dalla prima volta che è entrato in teatro ancora bambino fino agli attori più vicini e più legati alla sua vita, come Fanny Kelly, citata e amata. A differenza di Hazlitt, concentrato su alcuni interpreti del suo tempo, e in primis Kean di cui ha contribuito a creare il mito, Lamb cita un’enorme quantità di nomi: lunghe liste di attori che talvolta non ha neppure conosciuto ma che esalta come creature di un tempo passato – e migliore. Non ne condanna gli errori o i difetti, non rimprovera loro se non in rari casi di non aver capito il testo, di recitare male. E non prende esplicitamente posizione pro o contro stili diversi di recitazione. Da un lato parla di passioni rese in modo “naturale”, senza artifici o affettazioni, ma non chiarisce cosa intenda con tali definizioni e dall’altro descrive il campione di una modalità recitativa neoclassica, di una azione scenica nobile, solenne e forse un po’ statica, come Kemble, con assoluto rispetto e ammirazione. Anzi, la sua fissità intangibile diventa spiritosissima nel racconto, pieno di humour , del fallimento dell’opera di Godwin. Lamb non si pone mai il problema della estemporaneità o della preparazione dell’attore, dell’istinto o del controllo, della spontaneità o della codificazione: loda le capacità sceniche come doti personali e dà per scontato che la realizzazione di una parte implichi studio e riflessione. Laddove invece, come abbiamo visto, il suo discorso diventa più teorico è nella considerazione del rapporto tra l’attore e il pubblico: è lì che può scattare l’identificazione o il suo contrario, che la scena può avere un valore etico di socialità ma essere refrattaria ai valori morali imposti dall’esterno, e che l’artificialità della finzione teatrale si distanzia dalla realtà della vita. I cattivi della commedia artificiale non devono essere presi troppo sul serio e questo implica che gli attori debbano trasparire sotto il loro ruolo, ma Iago deve essere credibile per il pubblico come per Otello e la descrizione di Bensley in questa parte fa capire l’importanza che Lamb attribuiva alla mimesi in un caso come questo, dove il personaggio non deve essere grottesco o grossolano, cioè esagerato e “artificiale”. 15 Anche Riccardo III dovrebbe essere recitato in modo da mettere in risalto la capacità geniale di simulare e di dissimulare, il senso dell’umorismo e la consapevolezza di aver trasformato il difetto della sua forma fisica in un vantaggio per conquistare il potere; invece viene recitato come un cattivo ipocrita e furbo e la critica negativa (l’unica, ma anche la sua prima prova giornalistica)

14 C. Lamb, “Readers Against the Grain”, in The New Times , 13 January 1825. Lamb scrisse nel 1825 diversi saggi con lo pseudonimo Lepus (Lepre) per questo giornale edito da John Stoddard, un suo amico la cui sorella aveva sposato William Hazlitt. 15 “Su alcuni vecchi attori”.

13 Charles Lamb, Theatralia

fatta a Cooke si basa proprio su questo: sul fatto che lui lo faccia sembrare “un novizio non addestrato agli imbrogli” che esagera nel gioire dei propri trionfi, o un demonio di cui però si vedono troppo le corna e gli artigli. 16 È qui che Lamb è teoricamente interessante sul piano della riflessione teatrale: nell’idea di illusione scenica, che deve avvicinarsi a una mimesi raffinata per creare identificazione oppure essere “imperfetta” per essere funzionale al genere drammatico. Una posizione, la sua, che considera il pubblico e le sue reazioni tra l’immedesimazione simpatetica alla scena e il divertimento distaccato e consapevole della finzione. Da un punto di vista letterario i suoi saggi sono tutti dei capolavori di stile e di umorismo. Mettono in scena voci diverse e hanno talvolta forma di lettere, di biografie, di autobiografie, ovviamente fittizie. Raccontano aneddoti, ricordi familiari o disegnano ritratti di alcuni attori, in particolare di Elliston e di Munden, molto amati. Un’ultima nota a margine: strano a dirsi, viene citato solo poche volte e senza particolare enfasi Edmund Kean, che invece riempiva le pagine dei saggi di Hazlitt. La sua figura che lì troneggiava come il più grande attore dei suoi tempi, qui è ridimensionata e riportata nell’ambito di una vita teatrale accanto a tutti gli altri interpreti di valore, di cui le scene inglesi erano piene. Grandi e piccoli, famosi e dimenticati, Lamb trova un posto a tutti, lasciandoci un’immagine variopinta e affettuosa di quel mondo: una galleria che poco ha da invidiare a quella di ritratti dipinti della collezione di Mathews, passati in rassegna nel saggio dedicato ai vecchi attori.

Gli scritti di Lamb sul teatro e la recitazione Charles Lamb nacque a Londra nel 1775. Fu compagno di scuola di S.T. Coleridge di cui restò amico per tutta la vita. Non potendo proseguire gli studi, iniziò a lavorare come impiegato alla East India House nel 1792, continuando però a coltivare l’amore per la poesia e il teatro, e a frequentare intensamente i salotti letterari di Londra. Fece amicizia con i maggiori poeti e scrittori romantici: Wordsworth, Shelley, Hazlitt e Hunt. Le sue prime opere furono testi in versi e i Tales from Shakespeare (Racconti da Shakespeare, 1807) in prosa, dedicati a un pubblico infantile e composti con la sorella Mary, di cui aveva ottenuto la tutela dopo che questa, in un accesso di follia, aveva ucciso la madre. Dal 1808 Charles Lamb pubblicò scritti su opere drammatiche e sul teatro, dando vita a un genere – quello del saggio romantico – di cui fu tra i massimi autori. Il primo, e forse il più importante nonché giustamente famoso, di questi saggi comparve su The Reflector di Leigh Hunt nel 1811 e anni dopo fu ripubblicato nei volumi delle opere di Lamb con il titolo On the Tragedies of Shakespeare, Considered with Reference to their Fitness for Stage Representation .

16 “Il Richard III di Cooke”.

14 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Lamb, così come Hazlitt, pubblicava i suoi saggi su periodici, per poi riutilizzarli e ristamparli altrove, spesso raccogliendoli in volume. Alcuni dei testi contenuti in questa raccolta, dopo una prima edizione in periodici quali The Examiner , settimanale fondato da John e Leigh Hunt nel 1808, e The London Magazine , fondato nel 1820, sul quale Lamb scriveva con lo pseudonimo di Elia, furono ripubblicati in volume dall’autore stesso: prima di tutto in The Works of Charles Lamb in Two Volumes (C. and Jollier, London 1818) e poi nei famosi Essays of Elia (1823) e più tardi in The Last Essays of Elia (1833). Charles Lamb morì a 59 anni nel 1834, per una grave infezione cutanea in seguito a una caduta per strada. I saggi di Charles Lamb qui tradotti sono tutti quelli che l’autore aveva dedicato al teatro, agli attori e alle messinscene. Per quanto riguarda il testo usato è quello di The Dramatic Essays of Charles Lamb , a cura di Brander Matthews, lo studioso americano che per primo tenne una cattedra di Letteratura Drammatica alla Columbia University e che si batté per dare dignità scientifica e accademica agli studi sul teatro, distinti da quelli sui testi drammatici intesi letterariamente. La raccolta dei saggi curata da Matthews fu pubblicata nel 1891 da Chatto & Windus a Londra e conteneva quasi tutti gli scritti di Lamb sul teatro, in alcuni casi con lievi e trascurabili differenze dagli originali pubblicati in rivista, che abbiamo comunque scelto di non considerare. A questi abbiamo deciso di aggiungere alcune recensioni (due su Cooke più quella finale, su Kean nei panni di Amleto, solo attribuita a Lamb) e due saggi ( Il nuovo stile di recitazione e Ricordi teatrali ): tutti testi che Matthews non aveva pubblicato, e che sono stati presi dal volume Critical Essays by Charles Lamb , a cura di William Macdonald, London, Dent, 1903. Unico testo della raccolta di Matthews che è stato eliminato è Characters of Dramatic Writers: Lamb lo pubblicò nel 1818 nei suoi Works , raccogliendo insieme le note che aveva apposto agli estratti di Specimens of English Dramatic Poets Who Lived About the Time of Shakespear (Esempi di poeti drammatici inglesi vissuti al tempo di Shakespeare) del 1808, una raccolta di passi scelti dai drammi elisabettiani, che ebbe il merito di mettere in luce molti autori dimenticati, ma che non trattava di recitazione e di teatro. L’ordine dei saggi è qui cronologico e non rispetta quello che aveva dato loro Matthews, di tipo più tematico e biografico. Le più recenti edizioni delle opere complete di Charles Lamb risalgono agli inizi del ventesimo secolo ma recentemente la Oxford University Press ha affidato a Gregory Dart, che ringraziamo per averci fornito alcune notizie utili alla traduzione, la cura di un’edizione in sei volumi delle opere di Charles e Mary Lamb, di prossima pubblicazione. Loretta Innocenti

15 Charles Lamb, Theatralia

Charles Lamb

Sugli Attori e la Recitazione

Delle tragedie di Shakespeare considerate in rapporto alla possibilità di essere rappresentate in teatro 17 L’altro giorno, mentre facevo un giro in Westminster Abbey, fui colpito dalla posa artificiosa di una figura che non ricordavo di aver mai visto prima e che, dopo un attento esame, risultò essere un’immagine a grandezza naturale del famoso Garrick. 18 Anche se non arriverei, come dei buoni cattolici fanno, fino al punto di tenere gli attori fuori dalla terra consacrata, ammetto di essere stato non poco scandalizzato dall’introduzione di pose e gesti teatrali in un luogo riservato alla memoria di realtà molto tristi. Avvicinandomi trovai scritti sotto questa figura arlecchinesca i versi seguenti:

A dipingere la Natura, per ordine divino, Con la matita magica nella mano radiosa Sorse uno Shakespeare; poi a spanderne la fama Per tutto il mondo intero, un Garrick arrivò. Pur ormai morte le forme create del poeta Il genio dell’attore le resuscitò; Pur se, come lo stesso Bardo, erano nel buio Garrick immortale le richiamò alla luce. E fino a quando l’Eternità col suo potere Segnerà la fine del vecchio Tempo Shakespeare e Garrick stelle uguali brilleranno E illumineranno la terra con un raggio divino.

Sarebbe un insulto all’intelligenza dei miei lettori tentare di analizzare questa farragine di idee false e di assurdità. Pure, tutto questo mi portò a riflettere come, dal tempo dell’attore qui celebrato fino ai nostri giorni, debba essere stato di moda attribuire a turno a ogni interprete, che avesse avuto la fortuna di piacere alla gente in uno dei grandi personaggi di

17 La prima versione aveva il titolo On Garrick, and Acting; and the Plays of Shakespeare, Considered with Reference to their Fitness to Stage , e fu pubblicata su The Reflector , n. 4, 1811. La rubrica nel giornale The Reflector si intitolava Theatralia n. 1 , segno che Lamb voleva continuare la serie di saggi. Il giornale chiuse però proprio con il numero 4. Anni dopo il saggio venne ripubblicato da Lamb con un nuovo titolo On the Tragedies of Shakespeare, Considered with Reference to their Fitness for Stage Representation nell’edizione delle sue opere, The Works of Charles Lamb in Two Volumes , C. and Jollier, London 1818. 18 Si tratta del monumento a Garrick in posa teatrale eretto da Albany Charles Wallis nel 1797. I versi, derisi da Lamb sono di Samuel Jackson Pratt (1749-1814), un prolifico poeta e scrittore di poco valore.

16 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Shakespeare, l’idea di possedere un animo congeniale a quello del poeta; come la gente inspiegabilmente arrivi a confondere il potere di creare immagini e idee poetiche con la facoltà di poterle leggere o recitare quando siano messe in parole; 19 o quale legame la padronanza assoluta sul cuore e sull’animo umano, che un grande drammaturgo possiede, abbia con quei bassi trucchi per l’occhio e l’orecchio, che un attore può facilmente compiere, studiando alcuni effetti generali che una passione comune, come il dolore, la rabbia, ecc., ha sui gesti e sull’aspetto esteriore. Conoscere il lavorio e i moti di un grande animo, di un Otello o di un Amleto, per esempio, il quando , il perché e il quanto debbano essere messi in movimento, fino a che punto una passione possa spingersi, andare a briglia sciolta o frenare esattamente nel momento in cui il tirare o l’allentare sia più gradevole – sembra richiedere un intelletto di portata molto più vasta e differente da quello usato per la semplice imitazione dei segni di quegli affetti nei gesti e nella fisionomia, segni che di solito osserviamo più vivaci ed enfatici nelle menti più deboli, e che possono indicare una qualche passione, come ho detto prima, generalmente ira o dolore. Ma dei motivi e delle ragioni della passione, e in cosa differisca dalla stessa identica passione nelle nature volgari e basse, di questi l’attore non può dare un’idea con il volto o il gesto più di quanto l’occhio (se non in senso metaforico) possa parlare, o i muscoli emettere suoni comprensibili. Le impressioni che riceviamo a teatro sia visive che uditive sono di una natura così immediata, rispetto alla comprensione spesso lenta nella lettura, che tendiamo non solo a svalutare l’autore in confronto alla considerazione in cui teniamo gli attori ma persino a identificare mentalmente e in modo perverso l’attore con il personaggio che rappresenta. È difficile per chi va spesso a teatro separare l’idea di Amleto dalla persona e dalla voce di Mr. Kemble. Parliamo di Lady Macbeth, ma in realtà stiamo pensando a Mrs. Siddons. E questa confusione non riguarda solo persone ignoranti che, non possedendo il vantaggio della lettura, dipendono necessariamente dall’attore per tutto il piacere che possono ricavare dal dramma e ai quali la sola idea di che cosa sia un autore non può essere fatta capire senza fatica e senza confusione mentale. È un errore da cui anche persone con una cultura non mediocre trovano quasi impossibile liberarsi. Non vorrei mai essere così ingrato da dimenticare il livello altissimo di soddisfazione che provai qualche anno fa vedendo per la prima volta una tragedia di Shakespeare, in cui questi due grandi interpreti che ho citato

19 Si deve osservare che ci confondiamo in questo modo solo per quanto riguarda la recitazione drammatica . Non ci sogneremmo mai di pensare che chi legge Lucrezio in pubblico con grande successo sia per questo un grande poeta e filosofo, né troviamo che Tom Davies, il libraio, che dai documenti risulta aver letto ai suoi tempi il Paradiso perduto meglio di chiunque altro in Inghilterra (anche se non posso fare a meno di pensare che ci sia qualche errore in questa tradizione) fosse perciò messo allo stesso livello di Milton dai suoi amici intimi [Nota dell’Autore].

17 Charles Lamb, Theatralia

sostenevano i ruoli principali. La rappresentazione sembrava incarnare e realizzare delle idee che fino ad allora non avevano assunto una forma distinta. Ma paghiamo caro per tutto il resto della nostra vita questo piacere giovanile, questo senso di definizione. Quando la novità è passata, troviamo a nostre spese che, invece di realizzare un’idea, abbiamo solo materializzato e ridotto una bella visione al livello di carne e ossa. Abbiamo perduto un sogno in cerca di una sostanza inarrivabile. Quanto crudelmente agisca sulla nostra mente comprimere e limitare le idee libere alla dimensione di una verità riduttiva, lo si può giudicare dalla meravigliosa sensazione di freschezza con cui ci rivolgiamo a quelle opere di Shakespeare che sono sfuggite alla rappresentazione e a quei passaggi delle versioni sceniche dello stesso autore che fortunatamente sono state eliminate dallo spettacolo. Quanto l’abitudine a sentire qualcosa di declamato sciupi e rinsecchisca un bel brano è chiaro in quei discorsi da Henry V che sono comunemente recitati dagli scolari e che si trovano in “Enfield Speakers” 20 o in quel genere di libri. Confesso di non essere in grado di apprezzare quel famoso soliloquio in Amleto che comincia con “Essere o non essere”, né di dire se sia buono, cattivo, o indifferente, tanto è stato maneggiato e rimaneggiato da ragazzi e uomini che declamano ed è stato strappato via in modo tanto inumano dal suo luogo vitale e dal principio di continuità nella pièce da diventare per me un pezzo assolutamente morto. Può sembrare paradossale ma non riesco a non pensare che le opere di Shakespeare siano concepite per essere rappresentate su un palcoscenico meno di quelle di qualsiasi altro drammaturgo. La ragione è che sono molto superiori; in esse c’è molto che non rientra nel campo della recitazione, con cui lo sguardo, la voce e il gesto non hanno niente a che vedere. Il massimo dell’arte scenica è rappresentare la passione e le sue variazioni; più la passione è rozza e evidente, maggiore è ovviamente la presa che l’interprete ha sugli occhi e gli orecchi degli spettatori. Per questo le scenate, i momenti in cui due persone discutono fino ad arrabbiarsi e poi in modo sorprendente parlano fino a tornare calmi, sono sempre state le più popolari nei nostri teatri. Ed è chiaro il perché: perché qui molto più visibilmente si fa appello agli spettatori – essi sono i giudici perfetti in questa guerra di parole, sono il ring che legittimamente si deve formare attorno a questi “pugili intellettuali”. Qui parlare è l’oggetto diretto dell’imitazione, ma nei migliori drammi, e soprattutto in Shakespeare, è ovvio che la forma del discorso, soliloquio o dialogo che sia, è solo un mezzo, e spesso un mezzo molto artificiale, per far acquisire ai lettori o agli

20 William Enfield (1741-1797) autore di libri sulla dizione dedicati ai giovani “Dissenters” tra cui The Speaker (1774), antologia di brani su cui gli studenti imparavano a leggere e parlare.

18 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

spettatori quella conoscenza della struttura interiore e delle dinamiche della mente in un personaggio, che altrimenti senza l’intuizione non avrebbero mai potuto raggiungere in quella forma . Qui facciamo come nei romanzi di genere epistolare . Quante cose scorrette, quanti errori nella scrittura delle lettere tolleriamo in Clarissa 21 e in altri libri per il piacere che quella forma tutto sommato ci dà! Ma la pratica della rappresentazione teatrale riduce tutto a un contrasto di espressioni. Ogni personaggio, dalle chiassose bestemmie di Bajazet 22 alla timidezza introversa delle donne, ognuno deve fare l’oratore. I dialoghi d’amore di Romeo and Juliet , quei suoni argentini della voce degli innamorati di notte, la dolcezza più intima e sacra delle conversazioni coniugali tra un Otello o un Postumo 23 e le loro mogli, tutte quelle finezze che sono così incantevoli nella lettura, come quando si legge di quelle seduzioni giovanili in Paradiso –

Come si conviene A una bella coppia nel dolce vincolo matrimoniale unita, E sola –24 per via dei difetti propri della rappresentazione teatrale queste cose sono sciupate e trasformate nella loro vera natura per il fatto di essere rivelate a un largo pubblico, quando dei discorsi come quelli che Imogen rivolge al suo signore vengono fuori strascicati dalla bocca di un’attrice professionista il cui corteggiamento, anche se nominalmente fatto verso chi impersona Postumo, è evidentemente rivolto agli spettatori che devono giudicare le sue tenerezze e le sue risposte amorose. Il personaggio di Amleto è forse quello in cui una sequela di famosi interpreti fino dai tempi di Betterton hanno fortemente ambito a distinguersi. Uno dei motivi può essere la lunghezza della parte. Ma per quanto riguarda il personaggio stesso, lo troviamo in una pièce e per questo lo giudichiamo un soggetto degno di rappresentazione drammatica. L’opera abbonda in massime e riflessioni più di ogni altra e perciò la consideriamo un mezzo idoneo a trasmettere istruzione morale. Ma Amleto stesso – quanto soffre di essere trascinato come un maestro pubblico a fare lezioni alla folla! Bene, nove decimi di quello che Amleto fa sono contrattazioni tra lui e la sua morale, sono emanazioni delle sue riflessioni solitarie, fatte ritirandosi nei recessi e negli angoli dei luoghi più remoti del palazzo – o, meglio, sono meditazioni silenziose che prorompono dal suo cuore, ridotte in parole per il lettore che altrimenti resterebbe all’oscuro di

21 Romanzo epistolare di Samuel Richardson (1748). 22 In Tamburlaine the Great (Tamerlano il grande, 1587) di Christopher Marlowe. 23 Personaggio del Cymbeline di Shakespeare, marito di Imogen. 24 Paradise Lost , IV, 338-340.

19 Charles Lamb, Theatralia

ciò che vi accade. Questi dolori profondi, questi pensieri che detestano luce e suono, che a malapena si ha il coraggio di dire ai muri e alle stanze sorde, come possono essere rappresentati da un attore che gesticola e che arriva e li dice davanti a un pubblico, facendo sì che quattrocento persone tutte assieme diventino suoi confidenti? Non dico che sia colpa dell’attore; lui deve pronunciarli ore rotundo , deve accompagnarli con lo sguardo e con i gesti, altrimenti fallisce. Deve pensare tutto il tempo al suo aspetto, perché sa che per tutto il tempo gli spettatori stanno giudicando quello . E questo sarebbe il modo di rappresentare il timido, distratto, schivo Amleto! Vero è che non c’è nessun altro modo di trasmettere una gran quantità di pensieri e di emozioni a una vasta parte del pubblico, che altrimenti non li conoscerebbe mai per conto proprio, leggendo, e l’acquisizione intellettuale ottenuta in questo modo per quanto ne so può essere inestimabile; ma io non sto discutendo del fatto che Hamlet non dovrebbe essere recitato, ma di quanto Hamlet diventi un’altra cosa recitandolo. Ho sentito dire molte cose delle meraviglie che Garrick faceva in questo ruolo ma, siccome non l’ho mai visto, mi si deve concedere di dubitare che l’interpretazione di un tale personaggio rientrasse nel campo della sua arte. Chi mi parla di lui racconta dello sguardo, della magia del suo sguardo e della sua voce possente – qualità fisiche molto desiderabili in un attore e senza le quali non trasmetterebbe mai il significato al pubblico. Ma, che cosa hanno a che fare con Amleto? Che cosa hanno a che fare con l’intelletto? Di fatto, ciò che si vuole in una rappresentazione teatrale è fermare lo sguardo dello spettatore sulla forma e sul gesto in modo da ottenere un ascolto più attento a quello che viene detto. Non quello che è un personaggio, ma che aspetto ha, non quello che dice ma come lo dice. Non vedo motivo per cui se la pièce di Hamlet fosse riscritta da uno scrittore come Banks o Lillo, 25 mantenendo lo sviluppo della storia ma omettendo completamente tutta la poesia, tutte le caratteristiche divine di Shakespeare, il suo stupendo intelletto, e facendo attenzione a fornire sufficiente dialogo appassionato, quello che Banks o Lillo non hanno mai mancato di darci – non vedo come l’effetto sul pubblico potrebbe essere molto differente né come l’attore abbia la capacità di rappresentare Shakespeare in modo diverso da come rappresenta Banks o Lillo. Amleto sarebbe sempre un giovane principe raffinato e dovrebbe essere impersonato con eleganza; potrebbe essere confuso nella mente, indeciso nella condotta, apparentemente crudele con Ofelia, potrebbe vedere un fantasma, e spaventarsi, e rivolgersi a lui gentilmente dopo aver scoperto che è suo padre – tutto questo nel linguaggio più povero e semplice dell’essere più servile che strisci dietro alla natura e che si sia mai confrontato con i gusti del pubblico, senza disturbare Shakespeare per questo, e mi pare che ci sarebbe posto per tutta

25 John Banks (1650-1706) e George Lillo (1691-1739), drammaturghi di poco valore, anche se alcune loro opere godettero di un certo successo.

20 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

la capacità che un attore ha da mostrare. Tutte le passioni e i cambiamenti di passione potrebbero rimanere perché sono molto meno difficili da scrivere o da recitare di quanto si pensi – è un trucco facile da realizzare: basta salire o scendere di una nota o due nella voce, un sussurro, con uno sguardo significativo che ne preannunci l’avvicinarsi, e l’aspetto finto di qualsiasi emozione è così contagioso che, qualunque siano le parole, lo sguardo e il tono sono sufficienti e lo fanno passare per una grande abilità nel rappresentare le passioni. È comune che le persone parlino delle opere di Shakespeare come talmente naturali che tutti lo capiscono. In effetti sono naturali, sono profondamente radicate nella natura – così profondamente che la loro profondità è fuori dalla portata della maggior parte di noi. Sentirete le stesse persone dire che George Barnwell 26 è molto naturale, e che Otello è molto naturale, che tutti e due sono molto profondi: per loro sono dello stesso tipo. Alla prima di queste due opere stanno seduti e piangono perché un giovane buono è tentato da una donnaccia a commettere un insignificante peccatuccio , l’assassinio di un zio o giù di lì, 27 ecco tutto, e così fa una fine prematura, che è così commovente ; e all’altra opera stanno seduti e piangono, perché un moro in un accesso di gelosia uccide la moglie bianca innocente – ed è probabile che il novantanove per cento osservi volentieri la stessa catastrofe capitare a tutti e due gli eroi, e abbia pensato che Otello merita il capestro più di Barnwell. Perché della finezza della mente di Otello, del suo mondo interno meravigliosamente aperto, con i suoi punti di forza e le sue debolezze, le sicurezze eroiche e i timori umani, le agonie dell’odio che nasce dalle profondità dell’amore, non vedono più di quanto gli spettatori da poco, che pagano un penny a testa per guardare nel telescopio a Leicester Fields, vedano nella superficie e nella topografia della luna. Intuiscono qualcosa di vago – un attore che interpreta una passione, di dolore o di ira, per esempio, e la riconoscono come l’imitazione dei soliti effetti esteriori di quelle passioni, o almeno come fedele a quel segno dell’emozione che a teatro passa correntemente per essa , e spesso non è altro. Ma

26 Personaggio di The London Merchant di George Lillo (1731). La tragedia era basata sulla storia, narrata da una ballata secentesca, di George Barnwell, un giovane apprendista che, traviato dalla prostituta Sarah Millwood, deruba e uccide lo zio. 27 Se sperabilmente questa nota intercetta lo sguardo di uno degli impresari, vorrei pregarlo e scongiurarlo, a nome di tutte e due le gallerie, che questo insulto alla moralità della gente comune di Londra cessi di essere eternamente ripetuto nelle settimane di vacanza. Perché si deve dare in continuazione agli apprendisti di questa famosa e ben governata città, invece di divertirli, il sermone nauseabondo di George Barnwell? Perché in fondo alla loro prospettiva dobbiamo mettere la forca ? Se fossi uno zio, non mi piacerebbe molto che a un mio nipote fosse mostrato quell’esempio. È veramente rendere l’omicidio di uno zio troppo banale far vedere che è commesso per tali futili motivi; è attribuire troppo a personaggi come Millwood; è mettere nella testa dei giovani cose che altrimenti non avrebbero mai neppure sognato. Gli zii che hanno qualche considerazione della loro vita dovrebbero ricorrere al Lord Chamberlain contro tutto questo. [Nota dell’Autore.]

21 Charles Lamb, Theatralia

della base della passione, della corrispondenza con una natura grande o eroica che è il solo oggetto degno della tragedia, non posso credere né capire come sia possibile che un pubblico comune sappia qualcosa o che queste idee siano inculcate negli spettatori dalla sola forza dei polmoni di un attore – che nozioni estranee debbano essere instillate dentro di loro in modo violento. Parliamo di Shakespeare e della sua ammirevole osservazione della vita, mentre dovremmo sentire che non da un’indagine attenta dei personaggi bassi e quotidiani che aveva attorno, come li abbiamo noi, ma dalla sua stessa mente che era, per usare un’espressione di Ben Jonson, la vera “sfera dell’umanità”, 28 ricavava quelle immagini di virtù e di conoscenza che noi, riconoscendone una parte, pensiamo di afferrare totalmente nella nostra natura; e spesso prendiamo le energie che lui crea positivamente in noi per facoltà proprie della nostra mente, la quale attendeva solo che egli rappresentasse delle virtù simili per rimandarne un’eco piena e chiara. Ma torniamo ad Amleto. Tra i caratteri distintivi di quel meraviglioso personaggio, uno dei più interessanti (pur essendo penoso) è quel tormento che gli fa trattare con durezza le intrusioni di Polonio, e quella acredine che mette nei suoi incontri con Ofelia. Queste prove di una mente folle (se non sono mescolate come nell’ultimo caso con un forte artificio amoroso, allo scopo di allontanare Ofelia con scortesie artefatte, in modo da preparare la sua mente alla rottura di quel rapporto d’amore che non può più trovare spazio tra affari così seri come quelli che deve compiere) fanno parte del suo carattere e, per ritrovare la nostra ammirazione per Amleto, dobbiamo considerare con molta pazienza la sua situazione; queste cose le perdoniamo dopo , e le spieghiamo con la totalità del suo carattere, ma nel momento in cui compaiono sono dure e spiacevoli. Pure, è tale la necessità che gli attori hanno di colpire il pubblico che non ho mai visto un interprete in questo ruolo che non abbia esagerato e tirato all’estremo questi aspetti ambigui – questi difetti passeggeri nel personaggio. Gli attori fanno sì che Amleto esprima per Polonio un disprezzo volgare, che degrada totalmente la sua signorilità e che nessuna spiegazione potrebbe rendere accettabile, fanno in modo che mostri sdegno e arricci il naso davanti al padre di Ofelia – sdegno nella sua forma più rozza e odiosa; ma vengono applauditi per questo. È naturale, dice la gente – cioè, le parole sono sprezzanti, e l’attore esprime disprezzo e questo loro possono capirlo, ma non pensano mai di chiedersi perché tanto disprezzo e di quel genere. Parliamo ora di Ofelia. Tutti gli Amleti che ho visto inveiscono e si arrabbiano con lei come se avesse commesso un crimine gravissimo e al pubblico questo piace molto perché le parole di questa parte sono satiriche e vengono rafforzate dall’espressione più marcata di indignazione di cui

28 La frase è presa da una poesia di Ben Jonson, un’ode pindarica dedicata a Sir Lucius Cary per consolarlo della perdita del giovane amico Sir Henry Morison, morto di vaiolo nel 1629.

22 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

siano capaci il volto e la voce. Ma non si pensa mai se invece Amleto possa aver inscenato questo modo brutale con una donna che ha amato tanto. La verità è che in tutti questi affetti profondi come quello tra Amleto e Ofelia, c’è una riserva di amore ridondante (se posso osare di utilizzare questa espressione) che in momenti di grande dolore, specialmente quando non si può dire ciò che angustia la mente, in un certo senso permette a chi è addolorato di esprimersi anche con coloro che ama molto con il linguaggio di una lontananza temporanea; tuttavia non si tratta di alienazione bensì unicamente di follia e così viene sempre percepita dall’oggetto amato; non è ira, ma dolore che assume l’apparenza dell’ira – amore che goffamente imita l’odio, come quando un volto dolce cerca di accigliarsi. Però la severità e l’intenso disgusto che l’attore fa mostrare a Amleto non sono falsi; sono invece il vero volto della totale avversione, della distanza incompatibile. Possiamo dire che assume le vesti del pazzo, ma allora dovrebbe solo assumere questa follia finta finché glielo permette il suo vero squilibrio, cioè in modo incompleto, imperfetto, e non in quella maniera sicura, esperta, come uno abile nella sua arte o, come direbbe la signora Quickly “come uno di quei furfanti di attori”. 29 Non intendo mancare di rispetto a nessun attore, ma il genere di piacere che danno le opere di Shakespeare quando vengono rappresentate non mi sembra per niente diverso da quello che il pubblico riceve dalle opere di altri autori e, poiché essi sono essenzialmente diversi uno dall’altro , devo concludere che c’è qualcosa nella natura della recitazione che azzera tutte le differenze. E, di fatto, non si parla forse senza fare differenza di The Gamester (Il giocatore) 30 e di Macbeth come belle interpretazioni teatrali e non si loda Mrs. Beverley allo stesso modo della Lady Macbeth di Mrs. Siddons? Belvidera, Calista, Isabella, Euphrasia 31 sono forse meno amate di Imogen, di Giulietta o di Desdemona? Non si parla di loro e non si ricordano nella stessa maniera? L’attrice non è forse grande (come dicono) in una come nell’altra? E Garrick non brillò forse, e non ambì a brillare in ogni enfatica tragedia che la sua epoca squallida creava – le produzioni degli Hill, dei Murphy e dei Brown 32 – e deve avere l’onore di restare nella nostra mente per sempre come legato inseparabilmente a Shakespeare? Un’anima gemella! Oh, chi può leggere quel toccante sonetto di Shakespeare che allude alla sua professione di attore –

29 Henry IV Part 1 , 2. 4. 396. 30 The Gamester è una tragedia di Edward Moore (1753) recitata al Drury Lane da Garrick e da Mrs. Pritchard. Successivamente tutti i grandi attori dell’epoca, a partire da Kemble e dalla Siddons, si cimentarono con le parti principali, quelle di Beverley e di Mrs. Beverley. 31 Personaggi femminili nelle opere: Venice Preserved (1682) di Otway, The Fair Peninent (1703) di Rowe, The Fatal Marriage (1694) di Southerne e The Grecian Daughter (La figlia greca, 1772) di Murphy. 32 Aaron Hill (1685-1750), John Hill (1706-1775), Arthur Murphy (1727-1805) e John Brown (1715-1766): tutti nomi di drammaturghi minori dell’epoca di Garrick.

23 Charles Lamb, Theatralia

Oh, rimprovera per conto mio la Fortuna, La dea colpevole delle mie cattive azioni, Che non ha fornito altro alla mia vita Che mezzi volgari che creano maniere volgari. Perciò il mio nome è marchiato E perciò che la mia natura è sottomessa Al lavoro che fa, come la mano del tintore – 33 o l’altra confessione –

Ahimè, è vero, sono andato di qua e di là, Mi sono fatto buffone ben in vista, Ho ferito i miei pensieri, venduto a poco quello che è più caro –34 chi può leggere questi esempi di gelosa riservatezza nel nostro adorabile Shakespeare e lontanamente immaginare che ci sia una qualche affinità tra lui e uno che, da tutto quello che se ne sa, sembra essere stato solo un attore puro e semplice, con l’animo infettato dai vizi dei peggiori attori – invidia e gelosia e una miserabile voglia di applausi; uno che nell’esercizio della sua professione era geloso persino delle donne attrici che si trovavano sulla sua strada, un impresario pieno di trucchi e di stratagemmi e di sottigliezze da impresario – immaginare che ci possa essere una qualsiasi rassomiglianza tra questo e Shakespeare – Shakespeare che, nella pienezza e nella consapevolezza della sua energia, poteva esprimersi così su come sentiva i propri difetti, con una nobile modestia che non sappiamo imitare né apprezzare:

Desiderando essere come uno con più speranze, Avere il suo aspetto, tanti amici come lui. Desiderando avere l’arte di uno e la libertà di un altro! 35

Sono quasi disposto a negare a Garrick il merito di essere un ammiratore di Shakespeare. Di sicuro non amava davvero i suoi pregi perché chi mai, amandoli sul serio, avrebbe ammesso nelle sue scene impareggiabili una tale volgare spazzatura come quella che Tate e Cibber 36 e tutti gli altri che

Con la loro oscurità osarono opporsi alla sua luce,37

33 Sonetto 111. 34 Sonetto 110. 35 Sonetto 29. 36 Nahum Tate (1692-1715) alterò Richard II e King Lear ; Colley Cibber (1671-1757) è famoso per il suo longevo adattamento di Richard III (1699). 37 Paradise Lost , I, 391.

24 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

hanno infilato nelle opere drammatiche di Shakespeare? Credo sia impossibile che abbia avuto una reale venerazione per Shakespeare e abbia accettato di arrivare in fondo a quella scena interpolata in Richard III in cui Riccardo cerca di spezzare il cuore della moglie dicendole che ama un’altra donna, e dice: “Se sopravvive a questo è immortale”. Non dubito che interpretasse questa robaccia indecente con la stessa enfasi che metteva in tutte le parti originali, e con una recitazione ben studiata come sempre. Recentemente abbiamo visto che la parte di Riccardo ha dato grande fama a un attore per il suo modo di recitarla e questo ci conduce nel segreto della recitazione e dei giudizi comuni su Shakespeare che derivano dalla recitazione. Nessuno degli spettatori che abbiano assistito alle fatiche di Mr. C. 38 in quel ruolo è venuto via senza la giusta convinzione che Riccardo sia un uomo molto malvagio, e uccida i bambini nel letto con un piacere simile a quello che i giganti e gli orchi provano nel farlo, secondo la rappresentazione dei libri per l’infanzia; inoltre, che sia molto segreto e scaltro e diabolicamente astuto, perché lo si può vedere con i propri occhi. Ma, di fatto, è questa l’impressione che abbiamo nel leggere il Richard di Shakespeare? Proviamo qualcosa di simile al disgusto, come accade a quella rappresentazione da macellaio che fa chi si fa passare per lui sul palcoscenico? L’orrore per i suoi crimini si mescola con ciò che sentiamo, ma quanto sia abile, come abbia successo, grazie all’intelligenza che mostra, alle sue risorse, allo spirito, alla leggerezza, alla vasta conoscenza e alla comprensione dei personaggi, che sono la poesia della sua parte! – nemmeno una briciola di tutto questo è percepibile nel modo di recitarla di Mr. C. Sono visibili solo i crimini, le azioni – questi sono evidenti e ovvii; l’assassino è evidente – ma dove è il genio sublime, l’uomo di grandi capacità, il Riccardo profondo, spiritoso, raffinato? La verità è che i personaggi di Shakespeare sono talmente oggetto di meditazione piuttosto che di interesse o curiosità per le loro azioni che quando leggiamo di uno qualunque dei suoi grandi personaggi criminali – Macbeth, Riccardo, e persino Iago – non pensiamo ai crimini che commettono, bensì all’ambizione, all’animo che brama, all’attività intellettuale che li spinge a superare quegli ostacoli morali. Barnwell 39 è un abietto assassino; c’è una certa analogia tra il suo collo e il capestro; merita la forca; nessuno in grado di pensare può immaginare nessuna circostanza attenuante nel suo caso per fare di lui un oggetto degno di pietà. Oppure, per prendere un esempio dalla tragedia più alta, cos’altro è Glenalvon 40 se non un semplice assassino? Pensiamo forse ad altro oltre al crimine che lui

38 George Frederick Cooke. 39 Protagonista di The London Merchant, or The History of George Barnwell (1731) di George Lillo. Cfr. nota 26. 40 Personaggio di Douglas , tragedia in blank verse di John Home, rappresentata la prima volta a Edimburgo nel 1756.

25 Charles Lamb, Theatralia

commette e alla tortura che merita? Questo è tutto ciò che realmente pensiamo di lui. Nei personaggi equivalenti in Shakespeare invece le azioni al confronto ci colpiscono così poco che mentre solo gli impulsi, l’interiorità in tutta la sua grandezza perversa, sembrano reali e ci occupiamo soltanto di loro, il crimine non conta niente. Ma quando vediamo queste cose rappresentate le azioni che i personaggi commettono sono relativamente tutto e i loro impulsi niente. Lo stato di sublime emozione a cui ci portano le immagini della notte e dell’orrore che Macbeth evoca, quel solenne preludio con cui passa il tempo finché suonerà il campanello che lo chiamerà a uccidere Duncan – quando non lo leggiamo più in un libro, quando abbiamo rinunciato al vantaggio dell’astrazione che la lettura ha sulla vista e vediamo un uomo in carne ed ossa davanti ai nostri occhi che si prepara veramente a commettere un omicidio, se la recitazione è vera e emozionante come io ho osservato nella interpretazione di Mr. K. 41 di quella parte, l’ansia dolorosa per l’azione, il naturale desiderio di impedirla quando ancora sembra non commessa, la somiglianza troppo schiacciante con la realtà, danno una sofferenza e un disagio che distruggono totalmente il piacere che nel libro trasmettono le parole, dove il fatto non ci incalza mai con un senso angoscioso di presenza e sembra piuttosto appartenere alla storia, a qualcosa di passato e di inevitabile, seppure ha a che fare con il tempo. Le immagini sublimi, la sola poesia, è ciò che è presente alla nostra mente nella lettura. Così nel vedere una rappresentazione di Lear – nel vedere un vecchio che barcolla sul palcoscenico con un bastone, buttato fuori della porta dalle figlie in una notte di pioggia – non c’è altro che dolore e indignazione. Vorremmo metterlo al riparo e dargli sollievo: questo è il sentimento che l’interpretazione di Lear mi ha sempre suscitato. Ma il Lear di Shakespeare non può essere recitato. L’indegno macchinario usato per imitare la tempesta in cui si trova è inadeguato a rappresentare gli orrori dei veri elementi almeno quanto lo è qualsiasi attore a rappresentare Lear; sarebbe più facile prefiggersi di impersonare il Satana di Milton su un palcoscenico o una delle terribili figure di Michelangelo. La grandezza di Lear non è nelle dimensioni fisiche ma in quelle intellettuali; le esplosioni della sua passione sono terribili come un vulcano – sono delle tempeste che sollevano e scoprono fino al fondo quel mare, la sua mente, con tutte le sue enormi ricchezze. È la sua mente che viene messa a nudo. Questa questione di carne e di ossa sembra troppo insignificante per pensarci, e persino lui la dimentica. Sul palcoscenico non vediamo altro che malattie e debolezze fisiche, l’impotenza dell’ira, ma mentre leggiamo non vediamo Lear, bensì siamo Lear – siamo nella sua mente, sorretti da una grandezza che rende vana la malvagità di figlie e di tempeste. Nelle aberrazioni della sua ragione scopriamo un’energia potente e insolita di ragionamento, lontana

41 Edmund Kean.

26 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

dagli scopi comuni della vita, ma che esercita la propria forza sulle corruzioni e le ingiurie dell’umanità, e libera come il vento soffia dove vuole. Che cosa hanno a che vedere gli sguardi o i toni di voce con la sublime identificazione che Lear fa della sua età con quella del cielo stesso quando lo rimprovera di essere connivente con le angherie delle figlie e gli ricorda che “anche lui è vecchio”? Che gesti possiamo fare che siano appropriati? Che cosa hanno a che fare con tutto questo la voce o lo sguardo? Ma il dramma è al di là di qualsiasi arte, come mostrano le alterazioni che ne sono state fatte; è troppo duro e aspro – deve avere scene d’amore e un lieto fine. Non basta che Cordelia sia una figlia: deve rifulgere anche come innamorata. Tate ha messo un uncino nelle narici di questo leviatano, 42 in modo che Garrick e i suoi seguaci, gli intrattenitori della scena, possano trascinare questo bestione qua e là più facilmente. Un lieto fine! – come se l’acuto martirio che Lear ha subito, i suoi sentimenti scorticati vivi, non rendano una bella uscita dalla scena della vita l’unica cosa decorosa per lui. Se deve vivere ed essere felice dopo, se deve sostenere il peso di questo mondo dopo, perché questa confusione e questa preparazione, perché tormentarci con tutta questa inutile compassione? Come se il piacere infantile di riavere il mantello dorato e lo scettro lo invogliassero a recitare ancora il suo ruolo maltrattato, come se alla sua età e con la sua esperienza ci fosse ancora qualcos’altro oltre al morire! È essenzialmente impossibile rappresentare Lear sul palcoscenico. Ma ci sono anche tanti altri personaggi drammatici in Shakespeare che, sebbene più trattabili e fattibili (se posso dire così) di Lear, per qualche circostanza, qualche dettaglio del loro carattere, non sono adatti a essere mostrati fisicamente ai nostri occhi. Otello, per esempio. Niente può essere più rassicurante, più lusinghiero per la parte più nobile del nostro essere che leggere di una giovane veneziana di nobilissimo lignaggio che, per la forza dell’amore e per un senso di merito in colui che ama, mette da parte ogni considerazione di affinità, di nazionalità e di colore e sposa un Moro nero come il carbone (perché è così che viene rappresentato, per la conoscenza imperfetta delle nazioni straniere che si aveva a quel tempo in confronto alla nostra, oppure secondo idee comuni, sebbene adesso si sappia bene che i mori sono molto meno indegni della fantasia di una donna bianca): è il perfetto trionfo della virtù sui casi della vita, dell’immaginazione sui sensi. Lei vede il colore di Otello nella mente di lui. Ma sul palcoscenico, quando la fantasia non è più la facoltà dominante e invece siamo lasciati ai nostri poveri sensi senza aiuto, chiedo a chiunque ha visto una rappresentazione di Otello se al contrario non abbia calato la mente di Otello nel suo colore,

42 Nahum Tate aveva adattato la tragedia di Lear nel 1681 in una versione che fu usata sulle scene almeno fino a che nel 1838 William Charles Macready ripristinò l’originale. Secondo Lamb, Tate aveva “addomesticato” la tragedia: di fatto la versione trasformata aveva inserito una romantica storia d’amore a lieto fine e eliminato il fool .

27 Charles Lamb, Theatralia

se non abbia trovato qualcosa di estremamente ripugnante nel corteggiamento e nelle carezze nuziali di Otello e Desdemona; e se il vedere fisicamente tutto questo non abbia distrutto quello stupendo compromesso che realizziamo nella lettura. Il motivo per cui debba essere così è chiaro: perché c’è tanta realtà presentata ai nostri sensi da farci percepire una discrepanza, senza poter credere abbastanza alle motivazioni interiori – tutto ciò che non viene visto – da vincere e riconciliare i primi ovvi pregiudizi. 43 Quello che vediamo sulle scene è corpo e azione fisica, quello di cui siamo consapevoli leggendo è quasi esclusivamente la mente e i suoi moti: questo, penso, può bastare a spiegare come proviamo tanto spesso un piacere molto diverso nel leggere che non nel vedere. Non ci vuole molto a capire che se quei personaggi shakespeariani, che sono nei limiti della natura, hanno tuttavia qualcosa che fa appello troppo esclusivamente all’immaginazione per poterli sottoporre ai sensi senza che subiscano trasformazioni e diminuzioni, deve esserci un’obiezione ancora più forte contro la rappresentazione di un altro genere di personaggi introdotti da Shakespeare per dare alle sue scene una barbarie e un rilievo sovrannaturale, come per allontanarle ancora di più dall’equiparazione con la vita comune in cui si suppone volgarmente consista il loro merito. Quando leggiamo degli incantesimi di quegli esseri terribili, le streghe in Macbeth , anche se alcuni elementi della loro composizione infernale sanno di grottesco, l’effetto su di noi non è forse il più serio e spaventoso che si possa immaginare? Non ci sentiamo stregati come Macbeth? La percezione della loro presenza può essere accompagnata da allegria? Sarebbe come ridere, consapevoli che il principio stesso del Male è lì presente davvero, nella realtà. Ma provate a portare questi esseri su un palcoscenico e li trasformerete di colpo in vecchie di cui uomini e bambini rideranno. Contrariamente al vecchio adagio “vedere per credere” in realtà la visione distrugge la fede, e l’ilarità che ci concediamo a loro spese quando vediamo queste creature sulle scene sembra una specie di risarcimento che offriamo a noi stessi per il terrore che ci comunicano quando la lettura ci fa credere in loro – quando abbiamo consegnato la nostra ragione al poeta, come i bambini fanno con le balie e con gli adulti, e ridiamo delle nostre paure, come fanno i piccoli che pensano di aver visto qualcosa emergere nel buio

43 L’errore di supporre che siccome il colore di Otello non ci offende nel leggere non dovrebbe offenderci nel vederlo rappresentato è un inganno come supporre che Adamo ed Eva dipinti ci emozionino quanto nel testo poetico. Ma nel poema per un po’ ci vengono date impressioni paradisiache che scompaiono quando vediamo un uomo e sua moglie svestiti nel dipinto. I pittori stessi lo sentono, come capiamo dal fatto che ricorrano a goffe coperture per non farli sembrare completamente nudi – con una specie di profetico anacronismo che anticipa l’invenzione delle foglie di fico. Così nella lettura della pièce vediamo con gli occhi di Desdemona, ma nel vederla siamo costretti a guardare con i nostri. [Nota dell’Autore.] Il testo poetico cui Lamb fa riferimento per la storia di Adamo ed Eva è ovviamente il Paradise Lost di Milton.

28 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

quando viene portata una candela e scoprono l’inconsistenza del loro spavento. Mostrare questi esseri sovrannaturali sul palcoscenico è in realtà come portare una candela per rivelarne l’illusorietà. Sono la luce solitaria e il libro a generare la fede in queste cose terrificanti; un fantasma alla luce di un lampadario e in buona compagnia non inganna nessuno spettatore – è un fantasma che può essere misurato con gli occhi e le cui dimensioni umane possono essere osservate con calma. La vista di un teatro ben illuminato e di un pubblico ben vestito arma anche il bambino più nervoso contro le sue paure, come dice Tom Brown 44 della pelle impenetrabile di Achille con sopra un’armatura altrettanto impenetrabile: “Così protetto Bully Dawson avrebbe combattuto anche il demonio”. È stato detto molto, e a ragione, per condannare quel disgustoso miscuglio che Dryden ha inserito in The Tempest ;45 di sicuro senza qualche orribile impasto gli orecchi impuri di quell’epoca non si sarebbero mai soffermati ad ascoltare tanta innocenza amorosa come quella contenuta nel tenero corteggiamento di Ferdinando e Miranda. Ma The Tempest di Shakespeare è poi davvero un soggetto giusto per la rappresentazione scenica? Una cosa è leggere di un mago e credere al racconto fantastico mentre lo leggiamo, ma trovarsi davanti uno stregone con il suo mantello da stregone, con i suoi spiriti intorno, che si suppone nessuno possa vedere, a parte lui e alcune centinaia di spettatori, implica una tale quantità di ripugnante assurdità che tutto il nostro rispetto per l’autore non può impedirci di percepire questi marchiani attentati ai nostri sensi come infantili e inutili al massimo grado. Spiriti e fate non possono essere rappresentati, non possono neppure essere dipinti, si può solo credere in loro. Ma la scenografia, elaborata e precisa, richiesta dall’opulenza di quest’epoca, in questi casi ottiene un effetto del tutto contrario a quello previsto. Ciò che nella commedia o nelle pièce di vita familiare aggiunge molto alla forza dell’imitazione, in opere che fanno appello alle facoltà maggiori distrugge assolutamente l’illusione che la sua presenza dovrebbe rafforzare. Un salotto, una biblioteca che affaccia su un giardino, un giardino con una nicchia, una strada, o la piazza di Covent Garden vanno benissimo in una scena; ci fa piacere dare loro l’attenzione che meritano o, meglio, ci pensiamo poco, perché è come leggere in cima alla pagina “Scena: un giardino”: non immaginiamo di stare lì, ma riconosciamo subito l’imitazione di oggetti familiari. Ma pensare di trasportarci con la mente verso Prospero e la sua isola e la sua cella solitaria

44 Thomas (Tom) Brown (1662-1704) era uno scrittore di satire e l’autore di Letters of the Dead to the Living (Lettere dei morti ai vivi, 1702), una delle quali è scritta da Bully Dawson, personaggio spavaldo e famoso giocatore del periodo di Carlo II che servì forse da modello per il protagonista di The Squire of Alsatia di Shadwell. 45 Ancora una feroce critica agli adattamenti delle opere shakespeariane. In questo caso il bersaglio è The Tempest trasformata in opera nel 1670 da John Dryden e William Davenant che avevano duplicato tutti i personaggi e ridotto la magia del testo a degli effetti scenici spettacolari.

29 Charles Lamb, Theatralia

con l’aiuto di alberi dipinti e caverne che sappiamo essere dipinte, 46 oppure farci credere, con l’aiuto di un violino inserito abilmente in una pausa del discorso, che sentiamo quei suoni soprannaturali di cui era piena l’isola… l’illustratore del planetario a Haymarket potrebbe sperare allo stesso modo di farci credere, posizionando astutamente il Glasspiel 47 fuori dalla vista dietro il suo macchinario, che sentiamo davvero le sfere di cristallo suonare quel tintinnio che, se dovesse a lungo coinvolgere la nostra fantasia, Milton pensa che

Il Tempo correrebbe indietro fino all’età dell’oro E la vanità maculata Subito si ammalerebbe per morire, E il peccato lebbroso svanirebbe dalla terra – Sì, l’inferno stesso finirebbe E lascerebbe le sue dimore dolorose al giorno che si annuncia. 48

Il Giardino dell’Eden, con i nostri progenitori, non è più impossibile a essere rappresentato su un palcoscenico di quanto lo sia l’Isola Incantata con i suoi primi colonizzatori non meno innocenti e interessanti. Il tema della scenografia è strettamente connesso a quello degli abiti, cui si sta così puntigliosamente attenti nei nostri teatri. Ricordo, l’ultima volta che ho visto una rappresentazione di Macbeth , quanto mi sono sentito a disagio per i cambi di costume che il re variava in continuazione, come un prete cattolico alla messa. Lo richiedono la raffinatezza delle migliorie sceniche e le esigenze degli spettatori. L’abito per l’incoronazione del re di Scozia era una perfetta copia di quello che il nostro re indossa quando va in Parlamento – ricco e ingombrante allo stesso modo, e decorato con ermellino e perle. Se le cose devono essere rappresentate, non vedo dove stia l’errore. Ma leggendo, a quali abiti pensiamo? Può darsi che delle vaghe immagini di regalità, una corona e uno scettro, ci fluttuino davanti agli occhi, ma chi può descriverne la foggia? Vediamo con gli occhi della mente quello che Webb 49 o qualsiasi altro sarto potrebbe disegnare? Questa

46 Si dirà che queste cose si fanno nei quadri. Ma i quadri e le scene sono molto diversi. La pittura è un mondo a sé stante, ma nel dipingere scenografie si cerca di ingannare e c’è una discrepanza, incolmabile, tra le scene dipinte e le persone reali. [Nota dell’Autore.] La stessa distinzione tra i quadri e le scenografie è fatta da Coleridge nelle sue note sull’illusione drammatica, scritte forse per una conferenza del 1808: la pittura imita il reale, mentre una scena dipinta non si presenta come un quadro ma come una finta realtà e deve suscitare nello spettatore una temporanea e volontaria “half-faith” (mezza fede), dato che in ogni momento può interromperla e vedere le cose come stanno ( Coleridge’s Criticism of Shakespeare , edited by R.A. Foakes, The Athlone Press, London 1989, p. 34). 47 Strumento musicale fatto di bicchieri riempiti di acqua e che ha un suono armonioso. 48 John Milton, On the Morning of Christs Nativity (Sulla mattina della natività di Cristo), 135- 140. 49 Il riferimento è a William Webb, “robe-maker”, cioè sarto di abiti da cerimonia, che aveva la sartoria in Holywell Street, vicino allo Strand. Oppure al 98 di Chancery Lane.

30 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

è l’inevitabile conseguenza di imitare tutto: far diventare tutto naturale. La lettura di una tragedia invece è una sottile astrazione e presenta all’immaginazione solo quel tanto di sembianze esteriori da farci sentire che siamo tra oggetti in carne e ossa, mentre la parte di gran lunga più grande e migliore della nostra fantasia è presa dai pensieri e dai processi interiori del personaggio. Ma nella rappresentazione la scenografia e i costumi, le cose più disprezzabili, ci richiedono di giudicare quanto siano genuine. Forse non sarebbe una cattiva similitudine accostare il diletto che proviamo nel vedere recitare una di queste belle pièce, a confronto con il tranquillo piacere che troviamo nel leggerla, ai sentimenti diversi con cui un critico e una persona che non lo è leggono una bella poesia. La maledetta abitudine critica, l’essere invitati a valutare e ad esprimersi ne fanno necessariamente una cosa differente per il primo. Nel vedere recitare questi drammi siamo interessati come giudici. Quando Amleto confronta i due ritratti del primo e del secondo marito di Gertrude, chi li vuole vedere? Ma nella rappresentazione, deve essere mostrata una miniatura – che non sappiamo se è il ritratto – ma solo per far vedere come una miniatura possa essere rappresentata bene. Questo mostrare tutto livella ogni cosa, rende importanti i trucchi, gli inchini e le riverenze. Niente ha dato a Mrs. S. 50 fama più del modo in cui congeda gli ospiti nella scena del banchetto in Macbeth : lo si ricorda quanto la sua voce emozionante o i suoi sguardi impressionanti. Ma una sciocchezza come questa entra forse nell’immaginazione di chi legge quella scena feroce e meravigliosa? La mente non rimuove gli invitati quanto più rapidamente possibile? Si interessa alla grazia nel salutare? Nella recitazione e nel giudizio sulla recitazione, tutte queste cose irrilevanti assumono invece un’importanza che danneggia l’interesse principale dell’opera. Ho limitato le mie osservazioni alle parti tragiche di Shakespeare, ma non sarebbe un compito molto difficile estendere l’indagine alle sue commedie e dimostrare perché Falstaff, Shallow, Sir Hugh Evans 51 e tutti gli altri siano altrettanto incompatibili con la rappresentazione teatrale. La lunghezza cui è giunto questo saggio lo renderà, temo, abbastanza sgradito a chi ama il teatro, senza che ci addentriamo in questo argomento adesso.

Sull’abitudine di fischiare a teatro 52 Con alcune informazioni su un circolo di autori dannati Signor Direttore – io sono una di quelle persone che il mondo ha ritenuto di designare con il titolo di Autori Dannati. In quella memorabile stagione di fiaschi teatrali, il 1806-1807 – in cui penso non meno di due tragedie,

50 Mrs. Sarah Siddons. 51 Personaggi di The Merry Wives of Windsor . 52 Pubblicato su The Reflector , rivista teatrale diretta da Leigh Hunt (III, 1811).

31 Charles Lamb, Theatralia

quattro commedie, un’opera e tre farse furono fatte a pezzi al Drury Lane – fui trovato colpevole di aver messo su un afterpiece ,53 e fui dannato . In questi casi non ci può essere appello contro la decisione del pubblico. Lo scrivano di Chatham 54 poteva anche aver protestato contro la decisione di Cade e dei suoi seguaci, che allora erano il pubblico . Come lui, sono stato condannato perché sapevo scrivere. Ad alcuni di noi sembrò che le misure prese dal tribunale del popolo in quel momento sapessero un po’ di durezza e di summum ius . All’inizio della stagione furono date in pasto agli spettatori The Vindictive Man 55 e altre opere dello stesso genere, e per il resto del cartellone rimase loro il gusto del sangue. Come avrebbe detto il Dr. Johnson, “Signore, c’era l’abitudine di fischiare a teatro”. Sono ancora meno disposto a indagare sulle ragioni della relativa clemenza con cui invece furono trattate alcune opere che per dei giudici imparziali sembravano meritare almeno la stessa condanna di quelle che fallirono. Voglio interpretare in modo positivo i voti contro di noi; non credo che vi fosse corruzione o una voluta parzialità in questo caso; solo che “la nostra stupidità non si adattava alla loro stupidità”: 56 tutto qui. Però, contro il modo in cui il pubblico in queste occasioni ritiene giusto manifestare la sua disapprovazione devo e voglio protestare. Signore, immaginate – ma voi siete stato presente alla condanna di una pièce; quelli che non hanno mai avuto questa gioia, è loro che prego di immaginare – un grande teatro, come il Drury Lane prima di essere un mucchio di polvere e di cenere 57 (non insulto la sua grandezza caduta; per me, che si riprenda quando può e che rialzi ancora una volta la sua testa altissima, e assuma dei poveri autori a scrivere pezzi – hic cœstus artemque

53 Un breve pezzo, generalmente comico, recitato alla fine di una rappresentazione teatrale. In questo caso Lamb si riferisce al suo Mr. H , prodotto il 10 dicembre 1806, e che fu un disastro. Ne parla lui stesso scrivendo a Manning, Wordsworth e Sarah Stoddart. 54 Nel dramma storico di Shakespeare Enrico VI, Parte 2 (4.2.) Emmanuel, lo scrivano di Chatham, viene impiccato dai ribelli di Cade perché sa leggere, scrivere e far di conto. Catturato mentre assegna i compiti ai suoi scolari, fa l’errore di difendere l’istruzione come cosa buona. 55 The Vindictive Man (Il vendicativo) è una commedia di Thomas Holcroft (1745-1809), amico di Lamb. L’opera fu rappresentata al Drury Lane nel 1806 pochi giorni prima di quella di Lamb. 56 Gilbert Burnet, nel volume II della sua History of my Own Time (Storia dei miei tempi) scrive che il re Carlo II gli aveva raccontato di un suo cappellano stupido ma onesto cui aveva dato una prebenda nel Suffolk, perché lì erano tutti come lui. Infatti, andando di casa in casa, poiché la sua stupidità si adattava a quella dei cittadini, li aveva condotti in chiesa, e come ricompensa gli fu poi dato un vescovado in Irlanda. 57 Il teatro, ricostruito nel 1794 dopo che il fuoco l’aveva distrutto, si incendiò nuovamente nel 1809, cioè due anni prima della pubblicazione di questo saggio, e fu ristrutturato e riaperto nel 1812.

32 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

repono )58 – un teatro come quello, pieno di tutti i tipi di suoni disgustosi – strilli, lamenti, fischi, ma soprattutto questi ultimi, come il rumore di tanta acqua, o come quello che udì Don Chisciotte provenire dai folloni o ancora quell’accozzaglia di suoni diabolici che Sant’Antonio ascoltò nel deserto. Oh, Signor Direttore, non è un peccato che la dolce voce umana, che fu data all’uomo per parlare, per cantare, per sussurrare parole d’amore, per esprimere rispetto, per ottenere un favore o fare un omaggio – quella voce che in una Siddons o in un Braham ci tocca, nella sirena Catalani ci affascina e ci cattura – che la voce umana musicale e espressiva si sia dovuta mettere in competizione con i versi di stupide oche e di serpenti irrazionali e velenosi? Non dimenticherò mai i suoni nella mia serata . Prima di allora non ho mai sentito davvero la reazione che l’Autore del Male supremo riceve, nel Paradise Lost , dai critici in platea, nel finale della sua Tragedia contro la razza umana – anche se questa fece, ahimè!, fin troppo successo:

Da lingue innumerevoli Un oscuro sibilo generale – il suono Del pubblico ludibrio. Orrendo fu il clamore Di fischi nella sala, ora brulicante Di mostri contorti, teste e code, Scorpioni e aspidi, orride anfesibe ne,̀ Cornute ceraste, idri, e elaphi tetre E dipse. 59

A sala sostituite teatro e avrete l’esatta immagine di ciò che accade alla cosiddetta condanna di un’opera teatrale – giustamente chiamata così; perché qui si vede chiaramente l’origine del termine, da dove deriva l’abitudine e quale fu il primo testo trattato in questo modo. Dopo questo, nessuno può dubitare che l’appellativo non sia appropriato. Ma, signore, quanto alla giustizia di attribuire delle condanne così orride e fulminanti del pubblico ludibrio al peccato veniale di un povero autore, che pensava di divertirci mentre si riempiva le tasche – dato che la somma delle sue colpe non ammonta che a questo – mi pare che sia una sorta di giustizia

58 La frase è una citazione dall’ Eneide (V, 484): “hic victor caestus artemque repono” (Qui i guantoni, e l’arte depongo vincitore), pronunciata dall’anziano Entello, dopo aver sfidato e vinto l’arrogante troiano Darete. Lamb la cita senza la parola “victor”, così come nell’ esergo della pubblicazione (1726-27) della commedia The Rival Modes di James Moore Smythe, che era stata un fiasco in teatro. 59 John Milton, Paradise Lost , X, 507-509 e 521-526. Il brano descrive la risposta al discorso di Satana dei demoni suoi seguaci, che possono solo sibilare essendo stati trasformati in serpenti. Tutti i nomi citati da Milton sono quelli di specie diverse di rettili. L'anfesibena o anfisbena è un mitico serpente dotato di due teste, una ad ogni estremità del corpo, e di occhi che brillano come lampade. Secondo il mito greco, l'anfisbena fu generata dal sangue gocciolato dalla testa della gorgone Medusa quando Perseo volò, stringendola in pugno, sopra il deserto libico.

33 Charles Lamb, Theatralia

retributiva troppo severa per l’offesa. Un colpevole alla gogna (se togliete le uova) non subisce una condanna più severa. In verità, mi sono chiesto spesso perché qualche modesto critico non abbia proposto che vi sia un attrezzo di legno a quello scopo eretto in una parte adatta del proscenio dove si chieda all’autore di un fiasco di salire e restare lì per un’ora, esposto ai lanci di mele e di arance dalla platea. Questa amende honorable andrebbe d’accordo con la meschinità di alcuni autori che nei prologhi inchinano il cranio al pubblico e sembra che lo invitino a bombardarli. Oppure, perché non si dovrebbe rompere loro la penna sulla testa, come nei tempi antichi si faceva con la spada dei cavalieri traditori, e farli giurare che non scriveranno mai più? Sul serio, Signori del pubblico , questo modo oltraggioso che avete di mostrare il vostro dissenso è troppo per l’occasione. Mentre i suoi effetti mi stavano assordando, non potevo fare a meno di chiedere quale crimine, moralmente turpe, avevo commesso, perché ognuno intorno a me sembrava sentire l’offesa come fatta a lui personalmente, come qualcosa che l’interesse pubblico e i sentimenti privati assieme gli imponessero nel modo più forte possibile di condannare con infamia. I romani, lo sapete bene, Signor Direttore, avevano un modo più gentile di indicare la loro disapprovazione dell’opera di un autore. Erano un popolo umano e giusto. Lasciavano la furca e il patibulum , la mannaia e la corda, ai grandi criminali; per questi reati minori e (se posso chiamarli così) fuori dalla morale, il pollice verso era considerato un segno sufficiente di disapprovazione – vertere pollicem ; così come il premerlo, premere pollicem , era segno di approvazione. In realtà sembra che in questo metodo ci fosse una specie di analogia, una corrispondenza del segno della punizione con il reato: come l’azione di scrivere è eseguita piegando il pollice in avanti, la retroflessione, o piegare quell’articolazione all’indietro indicava in modo opportuno il contrario di quell’azione , implicando che era la volontà del pubblico che l’autore non scrivesse più – un modo di esprimere quel desiderio contemporaneamente più umano e più significativo della nostra abitudine di fischiare, totalmente insensata e indifendibile. Ci sembra che il pubblico romano non si privasse, con questa delicatezza, neanche un po’ di quella supremazia che i pubblici di tutte le epoche si sono sentiti in dovere di mantenere su chi era candidato al loro plauso. Al contrario, con questo metodo sembra che abbiano tenuto l’autore, come potremmo dire, completamente in pugno . Le provocazioni cui un genio drammatico è sottoposto da parte del pubblico sono ancora più fastidiose perché sono lontane da qualunque possibilità di ritorsione, che allevia molte altre offese; perché il pubblico non scrive mai . Ma qualcosa di molto simile ebbe luogo al tempo della

34 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Rivolta .60 Le opere in cartellone ogni sera erano, a rigore di termini, composizioni del pubblico. Il pubblico le scriveva, il pubblico le applaudiva, ed erano pezzi preziosi di ingegno e di eloquenza – a parte alcuni di qualità migliore che, sappiamo bene, erano forniti da drammaturghi di professione. Se questo è l’esempio di ciò che il pubblico può fare per se stesso, dovrebbe andarci piano a condannare quello che altri fanno per lui. Poiché la malvagità varia di grado nelle persone a seconda che presentino nella loro costituzione più o meno del Vecchio Serpente (padre dei fischi), a volte mi sono divertito ad analizzare questa idra dalle molte teste, che si chiama pubblico, negli elementi “mostri contorti, teste e code” e a vedere quante varietà di serpenti può fornire. Primo fra tutti, il Serpente Inglese Comune. È quella parte degli spettatori che sono sempre la maggioranza di chi condanna ma che non avendo veleno critico in se stessi che li ecciti, aspettano di sentire gli altri fischiare e poi si uniscono alla compagnia. L’Orbettino è molto simile al precedente, tanto che alcuni naturalisti sono in dubbio se non si tratti della stessa specie. Il Serpente a sonagli – sono i critici turbolenti e chiacchieroni, le guide impertinenti della platea – che non lasciano che un uomo semplice si goda una serata divertente, ma con il loro linguaggio schiumoso trovando continuamente difetti o uccidono del tutto il suo piacere o lo costringono, per difendersi, a unirsi alla rumorosa condanna. I fischi cominciano sempre da questi qua. Quando questa creatura avvia il suo sferragliare, si penserebbe dal rumore che fa che ci fosse qualcosa in lui, ma basta esaminare lo strumento da cui il suono deriva per trovare che è tipico della lingua del critico – una membrana vuota, cava, e posizionata nella parte più spregevole del corpo di quest’essere. Il Biacco – è quello che fustiga il povero autore il giorno dopo sui giornali. La Vipera della Morte, o la Surda Echidna di Linneo – con questo titolo può essere classificata quella parte di spettatori (perché non sono propriamente un pubblico) che, trovando che il primo atto di una pièce non risponde alle loro idee preconcette di che cosa dovrebbe essere un primo atto, come Ostinato in John Bunyan, 61 si mettono decisamente le dita negli orecchi in

60 Nel 1809, all’apertura del nuovo Covent Garden Theatre, ricostruito dopo che quello precedente era stato distrutto da un incendio, John Philip Kemble decise di aumentare il prezzo dei biglietti. Per circa tre mesi la gente protestò gridando “O.P.” (cioè “old prices”, “vecchi prezzi”) al punto di impedire lo svolgersi dell’azione scenica. Alla fine la direzione tornò sui suoi passi. Quest’episodio fu poi chiamato “O.P. differences” oppure “Riots” (Disordini). 61 Riferimento al romanzo allegorico di John Bunyan (1628-1688), The Pilgrim’s Progress (Il pellegrinaggio del cristiano), scritta e pubblicata tra il 1675 e il 1684, opera di enorme successo. Non è però il personaggio di Ostinato a non voler sentire, bensì il protagonista Cristiano. Lamb li confuse in altre occasioni.

35 Charles Lamb, Theatralia

modo da non sentire neanche una parola di quel che segue, anche se forse l’atto successivo potrebbe essere scritto in uno stile diversissimo e accordarsi ai loro gusti. Queste vipere rifiutano di sentire la voce dell’incantatore perché ha dato loro fastidio sentire accordare lo strumento. Vi stancherei e mi stancherei anch’io se dovessi passare in rassegna tutte le specie di serpenti. Hanno due qualità in comune – sono creature con una digestione straordinariamente fredda, e soprattutto frequentano buche e terreni bassi. Proseguo con più piacere a raccontarvi di un club cui ho l’onore di appartenere. Siamo in quindici, tutti autori che una volta in vita siamo stati “dannati”, come si dice. Ci ritroviamo negli anniversari delle nostre rispettive serate e ci divertiamo a spese del pubblico. I principali articoli che distinguono la nostra società e che ognuno di noi è tenuto a considerare vangelo, sono: Che il pubblico, o la gente, è sempre stato un mucchio di selvaggi ciechi, sordi, ostinati, stupidi e illetterati. Che nessun uomo di genio, sensato, aspirerebbe a compiacere una marmaglia così capricciosa e ingrata. Che il solo scopo legittimo di scrivere per loro è frugare nelle loro tasche e, se questo non funziona, siamo completamente liberi di vilipenderli e di offenderli quanto ci paia opportuno. Che gli autori, con la finta umiltà di cui fanno uso come di un mantello per infiltrare i loro scritti nella insensibile percezione della moltitudine, ottusa a tutto tranne che alla più grossolana adulazione, gradualmente hanno fatto sì che quel bestione diventasse il loro padrone – così come possiamo fingere sottomissione verso i bambini fino a che siamo obbligati a praticarla sul serio. Che gli autori sono e devono essere considerati padroni e precettori del pubblico e non viceversa. Che era così al tempo di Orfeo, Lino e Museo, e sarebbe ancora così se non fosse che gli autori hanno dimostrato di essere traditori verso se stessi. Che, in particolare, al tempo del primo di questi tre grandi autori appena ricordati, il pubblico sembrava un modello perfetto di ciò che un pubblico deve essere; poiché, sebbene con gli alberi e le rocce e le creature selvagge che si tirava dietro per sentire il suo canto dovessero senza dubbio essere venuti anche dei serpenti ad ascoltare la sua musica, sembra che nessuno di questi abbia mai levato una voce di dissenso . A quei tempi sapevano che cosa era dovuto agli autori. Ora invece chiunque diventa serpente e ha una voce. Che le espressioni “Gentile lettore” e “Sinceri ascoltatori”, avendo creato una falsa idea in coloro cui si applicavano, come se conferissero loro un qualche diritto ( che non possono avere ) di dare giudizi, dovrebbero essere assolutamente bandite e eliminate. Questi sono i nostri principi specifici. Per mantenere viva la memoria della causa per cui abbiamo sofferto, come gli antichi sacrificavano una capra – che ritenevano un animale non sano – a Esculapio, nelle nostre serate di

36 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

festa tagliamo un’oca – animale tipico della voce popolare – dedicandola alle divinità della Imparzialità e dell’Ascolto Paziente. Un assiduo membro del circolo propose una volta che dovessimo riesumare il lusso ormai obsoleto del brodo di vipera, ma poiché alcuni della compagnia sentirono lo stomaco rivoltarsi alla proposta, perdemmo il beneficio di quel piatto molto salutare e che avrebbe funzionato come antidoto . Il privilegio di essere ammessi al nostro club è strettamente riservato a coloro che sono stati regolarmente dannati . Una pièce che abbia avuto poco successo, che abbia languito per una serata o due e poi sia scomparsa, non darà mai all’autore il diritto di sedere tra di noi. Un’eccezione alla nostra solita sollecitudine a conferire tale privilegio è il caso di uno scrittore che, essendo stato una volta condannato, scriva di nuovo e si candidi a un secondo martirio. Una condanna semplice la riteniamo un merito, ma giudichiamo ignobile essere condannato due volte. Uno così lo respingiamo decisamente e gli votiamo contro senza appello:

Il condannato comune evita la sua compagnia. 62

Sperando che la vostra pubblicazione del nostro Regolamento sia una maniera di attirare altri membri nella nostra società concludo questa lunga lettera. Il vostro Semel-Damnatus

La mia prima volta a teatro 63 In cima a Russell-Court 64 verso nord c’è un portale con una certa pretesa architettonica per quanto sia ormai ridotto a un uso umile, dato che attualmente serve da ingresso a una tipografia. I lettori giovani forse non sanno che questo antico portone era proprio l’entrata al vecchio Drury Lane – quello di Garrick: tutto ciò che ne resta. Ogni volta che ci passo davanti mi scuoto una quarantina d’anni di dosso, ricordando la sera in cui lo attraversai per vedere la mia prima opera teatrale. Il pomeriggio era stato piovoso e saremmo usciti (gli adulti e io) se smetteva di piovere. Come mi batteva il cuore quando guardavo fuori della finestra le pozzanghere, perché mi avevano insegnato che quando la loro superficie era ferma si poteva prevedere la fine della pioggia! Mi pare ancora di ricordare l’ultimo schizzo e la gioia con cui corsi ad annunciarlo.

62 Robert Blair (1699-1746), The Grave: Self-Murder (La tomba: suicidio), v. 415. 63 Pubblicato su The London Magazine nel dicembre 1821 e ripubblicato in Essays of Elia (Saggi di Elia) nel 1823. Lamb aveva accennato allo stesso episodio in Playhouse memoranda (Ricordi teatrali, si veda più avanti). 64 Un vicolo tra Drury Lane e Brydges Street (oggi Catherine St.). Il luogo è citato con questo nome in The London Magazine e come Cross-Court nei successivi Essays of Elia .

37 Charles Lamb, Theatralia

Avevamo dei biglietti omaggio che ci aveva mandato F., il mio padrino. 65 F. aveva un negozio di olio (quello che adesso è Davies’s) all’angolo di Featherstone Buildings a Holborn. Era un uomo alto, severo, parlava in modo elevato e aveva delle pretese al di sopra del suo ceto sociale. In quel periodo frequentava l’attore comico John Palmer e sembrava imitarne l’andatura e il portamento – a meno che non fosse piuttosto John (il che è altrettanto possibile) ad avere preso a prestito qualcuno dei suoi modi dal mio padrino. Anche Sheridan lo conosceva e gli faceva visita. Fu a casa sua a Holborn che il giovane Brinsley portò la sua prima moglie quando questa fuggì con lui scappando da un collegio di Bath – la bella Maria Linley. 66 I miei genitori erano presenti (al tavolo da gioco) la sera in cui lui arrivò con la sua compagna melodiosa. Si può ben immaginare che all’uno o all’altro di questi due conoscenti il mio padrino potesse facilmente chiedere un biglietto per quello che allora era il Drury Lane Theatre; in realtà gli ho sentito dire che quei biglietti economici, con la firma di Sheridan, furono il solo compenso ricevuto per aver fornito l’illuminazione notturna dell’orchestra e dei corridoi del teatro per molti anni. Ma era contento che fosse così; per il mio padrino l’onore di avere la familiarità – almeno presunta – di Sheridan era preferibile al denaro. F. era il più signorile dei commercianti di olio: magniloquente ma cortese. Il modo in cui parlava dei fatti più comuni era ciceroniano. Usava continuamente due parole latine (come suona strano il latino in bocca a un venditore di olio!) che in seguito ho potuto correggere sapendone di più. Pronunciate esattamente avrebbero dovuto suonare come vice versa – e in quegli anni giovanili mi incutevano più timore reverenziale di quanto farebbero ora se le leggessi direttamente in Seneca o in Varrone – ma nella sua particolare pronuncia, rese monosillabiche o anglicizzate diventavano qualcosa come vers vers . Con i suoi modi ieratici e con l’aiuto di queste sillabe distorte ascese (ma in realtà era poca cosa) ai più alti onori provinciali che la parrocchia di St. Andrew 67 poteva offrire. Ora è morto; e sono molto riconoscente alla sua memoria, sia per quei miei primi biglietti omaggio (piccoli meravigliosi talismani! – piccole chiavi insignificanti a uno sguardo esterno, ma che mi aprivano più che non i paradisi delle mille e una notte!), sia perché per la sua generosità testamentaria entrai in possesso dell’unica proprietà terriera che io abbia mai potuto dire mia – situata vicino al ridente paese di Puckeridge, nello

65 Il padrino di Lamb era Francis Fielde; il suo nome compare sul British Directory per l’anno 1793 ed è indicato come “oilman”, proprietario di un negozio situato al numero 62 di High Holborn. 66 Qui Lamb confonde la prima moglie di Sheridan, Elizabeth Ann Linley, con la sorella minore Maria, anche lei cantante. 67 Lamb conosceva bene la chiesa di St. Andrew a Holborn, anche perché lì qualche anno prima di scrivere il saggio, nel 1808, aveva fatto da testimone al matrimonio dell’amico William Hazlitt con Sarah Stoddart.

38 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Hertfordshire. Quando andai a prenderne possesso e misi piede sul mio terreno, le abitudini signorili del mio donatore mi calarono addosso e presi un’andatura (devo confessare la vanità?) a passi ampi su quel lotto di tre quarti di acro, con una comoda casa al centro, provando la sensazione da proprietario inglese che tutto tra cielo e terra era mio. La tenuta è ora passata in mani più prudenti e solo un esperto di agraria può risistemarla. A quel tempo i biglietti omaggio erano di platea – maledetto l’odioso impresario che li ha aboliti! – e noi andammo con uno di questi. Ricordo l’attesa alla porta – non quella rimasta, bensì tra quella e una porta interna più riparata. Quando mi capiterà ancora di essere così ansioso? – con il grido dei venditori di dolci, che al tempo erano un indispensabile complemento in teatro. Per quanto posso ricordare, allora la pronuncia alla moda delle venditrici di frutta a teatro era: “’prate delle arance; ’prate delle mele; ’prate un biglietto!”: ’prate al posto di comprate. Ma quando entrammo e vidi il sipario verde che nella mia immaginazione nascondeva un paradiso e che presto si sarebbe dischiuso – che attesa mozzafiato! Avevo visto qualcosa del genere sul frontespizio di Troilus and Cressida nell’edizione di Shakespeare fatta da Rowe –68 la scena della tenda con Diomede; e guardare quell’illustrazione riesce sempre a riportarmi in qualche modo all’emozione di quella serata. A quel tempo i palchi, pieni di signore eleganti, sporgevano sulla platea e i pilastri che li sostenevano erano coperti di una patina lucida (non so che cosa fosse) come di vetro (così sembrava), che rassomigliava – una fantasia rozza, ma ci credetti davvero – a una caramella: alla mia immaginazione esaltata, che non ne vedeva gli aspetti più normali, sembrava un meraviglioso dolcetto! Le luci dell’orchestra alla fine aumentarono, quelle “belle Aurore”. 69 Il campanello suonò. Doveva suonare ancora un’altra volta e io, incapace di attendere, chiusi gli occhi e in una specie di rassegnazione misi il viso in grembo a mia madre. Suonò la seconda volta. Il sipario si sollevò – non avevo più di sei anni – e l’opera era Artaxerses !70 Mi ero un po’ cimentato con la storia universale – la parte antica – ed ecco qua la corte di Persia. Era come essere ammesso a vedere il passato. Non mi interessava particolarmente l’azione che si svolgeva, perché non ne capivo

68 Si tratta della prima edizione illustrata delle opere di Shakespeare, in sei volumi (1709), a cura di Nicholas Rowe, pubblicata da Jacob Tonson, con le incisioni di Elisha Kirkall, su disegni di François Boitard. Era un’edizione innovativa perché in ottavo, un formato non troppo grande, che conteneva nel primo volume la biografia di Shakespeare e all’inizio di ogni dramma la lista delle dramatis personae . Le immagini sono interessanti per i dettagli sulle messe in scena e sui costumi del primo Settecento. 69 “La bella Aurora” ( Fair Aurora ) è l’espressione con cui molti testi epici inglesi designano il sorgere del giorno (Spenser, Fletcher, Dryden nella traduzione dell’ Eneide , Pope e altri). La frase “Fair Aurora” è nel primo duetto in Artaxerses . 70 Artaxerses (Artaserse) è la prima opera seria inglese, composta da Thomas Arne, che forse aveva adattato il testo dal libretto omonimo di Metastasio. Ebbe grande successo e fu regolarmente messa in scena dal 1762, data del debutto al Covent Garden, fino al 1830.

39 Charles Lamb, Theatralia

l’importanza, ma udii la parola “Dario” e mi ritrovai nel Libro di Daniele. 71 Ogni sensazione era rapita nella visione. Mi passarono davanti abiti sontuosi, giardini, palazzi, principesse. Non vidi attori. Fui a Persepoli per tutto il tempo e l’idolo fiammeggiante della loro devozione mi convertì quasi in un adoratore. Ero sbalordito e credetti che quello fosse un fuoco vero. Tutto era incanto e sogno; da allora non ho più provato un piacere come quello se non sognando. A seguire ci fu Harlequin’s Invasion –72 dove, ricordo, la trasformazione dei magistrati in vecchie venerabili mi sembrò un serio atto di giustizia storica e il sarto che teneva in mano la sua testa pura verità come la leggenda di S. Dionigi. La volta successiva in cui fui portato a teatro si rappresentava The Lady of the Manor (La signora del castello) 73 ma, a parte qualche scenografia, ne restano poche tracce nella mia memoria. Era seguita da una pantomima intitolata Lun’s Ghost (Il fantasma di Lun) – a quanto capisco una satira di Rich, morto da poco tempo, ma per me, troppo ingenuo per la satira, Lun apparteneva a un’antichità remota quanto Lud –74 il padre di una genia di Arlecchini – che aveva tramandato a innumerevoli posteri la sua spada di legno (come fosse uno scettro). Vidi il giullare primordiale uscire dalla tomba in un abito spettrale fatto di toppe bianche, come fosse l’apparizione di un arcobaleno morto. È così, pensai, che sono gli arlecchini quando muoiono. La mia terza opera seguì subito dopo: era The Way of the World (Così va il mondo). 75 Credo di essere stato lì seduto severo come un giudice, perché ricordo che i vezzi isterici di Lady Wishfort mi fecero l’effetto di una passione solenne e tragica. A seguire ci fu Robinson Crusoe , in cui Crusoe, Venerdì e il pappagallo erano buoni e autentici come nel romanzo. Gli scherzi e i lazzi di questi pantomimi mi sono passati del tutto dalla mente.

71 Testo dell’Antico Testamento nel quale è citato Dario come nuovo re di Babilonia. 72 Harlequin’s Invasion, or, The Taylor without a Head (L’invasione di Arlecchino, o Il sarto senza testa) è una pantomima scritta da David Garrick e recitata il 31 dicembre del 1759. Ne resta solo un manoscritto incompleto. L’unica occasione in cui la pantomima seguì l’opera di Arne negli anni tra il 1780 e il 1782 è la sera del 1 dicembre 1780. Forse Lamb si riferisce a questa. 73 In realtà quest’opera, di William Kenrick, non fu rappresentata né al Drury Lane né al Covent Garden nel periodo indicato da Lamb. Nel 1780 invece venne prodotta The Lord of the Manor (Il signore del castello) del General Burgoyne con la musica di William Jackson di Exeter, che spesso era seguita da Robinson Crusoe ma non da Lun’s Ghost che invece fu prodotta dopo The Way of the World il 9 gennaio 1782. Lun era il nome con cui John Rich (1682?-1761) compariva nelle pantomime. Forse Lamb si era confuso e la sua seconda visita a teatro fu nel 1781 per vedere The Lord of the Manor seguita da Robinson Crusoe e la terza nel 1782 per vedere The Way of the World seguita da Lun’s Ghost . Robinson Crusoe; or, Harlequin Friday (1781) è la sola pantomima scritta da R.B. Sheridan. 74 Antico re britannico, tra i mitici fondatori della city di Londra. Secondo Geoffrey di Monmouth dette il nome a una delle porte della città, Ludgate. 75 Commedia di William Congreve che ebbe la sua prima al teatro di Lincoln’s Inn Field a Londra nel marzo 1700.

40 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Credo che mi facessero ridere come avrei riso a quell’età delle teste gotiche grottesche di pietra (che allora mi sembravano piene di significato devoto) che sorridono e stanno a bocca aperta nel perimetro interno della vecchia Chiesa Rotonda dei Templari (la mia chiesa). 76 Vidi queste opere teatrali nella stagione 1781-1782, quando avevo tra i sei e i sette anni. Dopo altri sei o sette anni, dato che a scuola 77 era proibito assistere a drammi, entrai di nuovo in un teatro. Quella vecchia serata di Artaxerses non aveva mai smesso di risuonare nella mia immaginazione. Mi aspettavo di provare di nuovo le stesse sensazioni in un’occasione identica. Ma siamo meno diversi tra i sedici e i sessant’anni che non tra i sei e i sedici. Che cosa non avevo perduto nel frattempo! Le prime volte non sapevo niente, non capivo niente, non distinguevo niente. Sentivo tutto, amavo tutto, mi meravigliavo di tutto –

Ero nutrito, non saprei dir come. 78

Avevo lasciato il tempio da devoto e vi ritornavo da razionalista. C’erano materialmente le stesse cose, ma i simboli, le allusioni, erano perdute! Il sipario verde non era più un velo tirato tra due mondi che aprendosi riportava in vita età passate e presentava un “fantasma regale”, bensì un pezzo di panno verde, che era lì per separare per un certo lasso di tempo il pubblico da alcuni loro simili che dovevano farsi avanti e fingere quei ruoli. Le luci – le luci dell’orchestra – spuntavano come un macchinario sgraziato. Il primo suono del campanello, e anche il secondo, ora era solo lo strumento del suggeritore, quando era stato, come il canto del cucù, l’ombra di una voce, senza che si vedesse o si immaginasse una mano a dare il segnale. Gli attori erano uomini e donne truccati. Pensai fosse colpa loro, ma era mia, e del cambiamento che tutti quei secoli – sei brevi anni – avevano prodotto in me. Forse fu un bene che quella sera si recitasse soltanto una commedia banale, perché questo mi dette il tempo di eliminare delle assurde aspettative che avrebbero potuto interferire con le emozioni vere che presto fui in grado di provare la prima volta che vidi Mrs. Siddons nella parte di Isabella. 79 Confronti e ricordi subito lasciarono

76 L’antica chiesa rotonda si trova vicino a Fleet Street, ed è ora parte di un edificio più grande, Temple Church, rimaneggiato più volte. 77 Lamb studiò al Christ’s Hospital dal 1782 al 1789. 78 Forse un’eco di The Compleat Angler (Il perfetto pescatore, 1653) di Izaac Walton, dove, per indicare la provvidenza divina, si parla di pesci che non hanno la bocca e si nutrono senza che si capisca in che modo. 79 Mrs. Siddons recitò la parte di Isabella nell’omonima opera al Drury Lane il 10 ottobre 1782. La pièce era un adattamento di Garrick di Fatal Marriage (Matrimonio fatale) di Southerne. La Siddons recitò spesso anche la parte di Isabella in Measure for Measure (Misura per misura), ma qui Lamb sembra decisamente riferirsi al lavoro di Garrick.

41 Charles Lamb, Theatralia

il posto al fascino di quella scena e il teatro diventò per me su una base del tutto nuova il più piacevole dei divertimenti.

Su alcuni vecchi attori 80 Vedere casualmente un vecchio programma, che mi è capitato sottomano l’altro giorno – non so come si fosse conservato così a lungo – mi ha invogliato a ricordare alcuni degli attori che vi compaiono nelle parti principali. Si tratta del cast di Twelfth Night (La dodicesima notte) recitata al vecchio Drury Lane Theatre trentadue anni fa. 81 C’è qualcosa di commovente in questi vecchi ricordi. Ci fanno pensare a come un tempo avevamo l’abitudine di leggere un programma di sala – non come ora, per caso, identificando un attore preferito e dando un’occhiata distratta agli altri, ma facendo attenzione a ogni nome, fino alle comparse e ai servi di scena; quando non era cosa di poco conto per noi se era Whitfield o Packer a recitare il ruolo di Fabian; 82 quando Benson e Burton e Phillimore – nomi poco rilevanti – avevano un’importanza maggiore di quella che ora saremmo felici di attribuire ai migliori attori di oggi. “Orsino, recitato da Mr. Barrymore”: come suona davvero shakespeariano! Come compaiono freschi alla memoria l’immagine e i modi di quell’attore amabile! Chi ha visto Mrs. Jordan solo negli ultimi dieci o quindici anni non può avere un’idea giusta di come recitava parti come Ofelia, Elena in All’s Well That Ends Well (Tutto è bene ciò che finisce bene) e Viola 83 in Twelfth Night . Negli ultimi tempi la sua voce aveva acquistato un’asprezza che si confaceva abbastanza con le sue Nell e le sue Hoyden, 84 ma allora scendeva nel cuore,

80 Un saggio dal titolo The Old Actors (I vecchi attori), a firma Elia, apparve in tre parti sul London Magazine in febbraio, aprile e ottobre del 1822. Lamb successivamente le riprese, pubblicandole separatamente con titoli diversi e con minime trasformazioni: On Some of the Old Actors (Su alcuni vecchi attori); On the Artificial Comedy of the Last Century (Sulla commedia artificiale del secolo scorso) ; The Old Actors e On the Acting of Munden (La recitazione di Munden). Aggiunse a On Some of the Old Actors alcune frasi fino al punto che abbiamo indicato in nota e vi inserì il lungo brano riferito a Suett che si trovava nel numero di ottobre di The London Magazine , tra The Old Actors e una parte poi intitolata On the Acting of Munden . 81 Tutti gli attori citati da Lamb in questo articolo si riferiscono alla produzione de 20 febbraio 1790 al Drury Lane con la seguente distribuzione di ruoli: Orsino, Mr. Barrymore; Sebastian, Mr. Bland; Sir Toby Belch, Mr. Palmer; Sir Andrew Ague-cheek, Mr. Dodd; Fabian, Mr. R: Palmer; Malvolio, Mr. Bensley; Buffone (Feste), Mr. Suett; Olivia, Mrs. Powell; Viola, Mrs. Jordan; Maria, Mrs. Kemble. 82 Il servo di Olivia in Twelfth Night . Orsino, citato subito dopo, è il protagonista maschile, il duca innamorato della bella Olivia che non lo ricambia. 83 Protagonista femminile della commedia: Viola naufraga in Illiria con il gemello Sebastian che però ritiene morto. Prima di ritrovarlo e concludere con un happy ending , i due entrano separatamente in contatto con Orsino e con Olivia, di cui si innamorano, e sono coinvolti in molteplici equivoci data la loro somiglianza. 84 Nell era il personaggio della farsa The Devil to Pay (Pagare lo scotto) di C. Coffey (1731); Miss Hoyden è un personaggio di The Relapse (La ricaduta) di J. Vanbrugh.

42 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

assieme al suo sguardo fermo e tenero. Le parti divertenti, per le quali è ora ricordata principalmente, in gioventù erano superate da quelle sentimentali. È impossibile descrivere il modo in cui recitava celando sotto il travestimento il suo amore per Orsino. Non era un discorso preparato, che avesse previsto per intrecciarlo in modo armonioso con i versi che si susseguono l’un l’altro a creare musica – eppure l’ho sentito dire così, o piuttosto leggere così, non senza grazia e bellezza – ma dopo aver dichiarato che la storia della sorella era un “vuoto” e che lei “non aveva mai confessato il suo amore” c’era una pausa, come se la storia fosse finita; e allora l’immagine del “verme nel bocciolo” giungeva come una nuova idea, e l’immagine più esasperata della “Pazienza” veniva di seguito come per un qualche processo di crescita, non meccanico, con un pensiero che spuntava dietro l’altro, direi quasi come se fossero stati bagnati dalle sue lacrime. 85 Così, in quei bei versi

Scrivere canti sinceri d’amore infelice – Gridare il vostro nome alle echeggianti colline –86 non c’era alcuna preparazione nell’immagine precedente di ciò che veniva dopo. Lei non usava retorica nella passione oppure era la retorica della natura, più giustificata proprio laddove sembra senza regole o leggi. Mrs. Powell (ora Mrs. Renaud), che allora era nel pieno fulgore della sua bellezza, era un’ammirevole Olivia, 87 ed eccelleva in modo particolare nelle scene in cui è inflessibile quando parla con il clown. Ho visto delle Olivie – anche attrici molto sensibili – che in questi dialoghi sembravano mettersi alla pari con il buffone e gareggiare in battute con lui emulandolo in tutti i modi. Lei invece lo usava per divertirsi, da quello che era, per scambiarci una o due frasi oziose e poi mandarlo via, mentre lei restava sempre la Gran Dama. Entrava nell’umore fantastico e imperioso del personaggio con finezza. La sua persona, bella e grande, riempiva la scena. La parte di Malvolio secondo me è stata tanto spesso fraintesa e i meriti generali dell’attore che allora lo rappresentava 88 stimati in modo così eccessivo che spero di essere perdonato se sono un po’ prolisso su questo punto.

85 Il riferimento è alla quarta scena dell’atto secondo di Twelfth Night , e in particolare al momento in cui Viola, travestita da uomo, parla con il Duca Orsino della forza dell’amore portando a esempio la storia della “figlia di suo padre”, lasciando intendere che si tratti di una sorella mentre in realtà sta confessando al duca il suo amore per lui. 86 Twelfth Night (La dodicesima notte), I.5.264-265. 87 La bella signora di cui è innamorato il Duca Orsino in Twelfth Night . 88 Malvolio è il maggiordomo di Olivia, oggetto di derisione e di scherzi da parte di un’allegra brigata di buontemponi e di ubriaconi che vivono nel suo palazzo. Lamb ne mette in risalto la dignità e l’attore qui citato è Bensley, di cui parla subito dopo.

43 Charles Lamb, Theatralia

Di tutti gli attori 89 che avevano successo ai miei tempi – una frase triste se presa nel modo giusto, lettore – Bensley era quello che aveva più energia, era il più grande nell’esprimere concezioni eroiche, cioè le emozioni suscitate quando si presenta all’immaginazione un’idea grandiosa. Aveva un vero entusiasmo poetico – la facoltà più rara tra gli attori. Nessuno che io ricordi possedeva neanche un briciolo di quella meravigliosa follia che lui mostrava nella famosa tirata di Hotspur sulla gloria 90 o nella passione dell’incendiario veneziano all’idea della città distrutta dalle fiamme. 91 La sua voce aveva la dissonanza e, a tratti, l’effetto stimolante, di una tromba. Aveva un’andatura rude e rigida ma senza mai ostentare affettazione e in ogni movimento emergeva il gentiluomo raffinato. Coglieva il momento della passione con una sincerità massima; come un orologio perfetto, che non suona mai prima del tempo – che non anticipa né induce ad anticipare. Era assolutamente privo di inganni o di artifici. Sembrava fosse venuto sul palcoscenico per riportare semplicemente il messaggio del poeta e lo faceva con la stessa fedeltà con cui i nunzi in Omero narrano le azioni degli dei. Lasciava che la passione o il sentimento facessero il loro lavoro senza sostegni o appoggi. Si sarebbe rifiutato di imbrogliare e non mostrava nessuna di quelle furbizie che sono la rovina della recitazione seria. Per questa ragione, il suo Iago è stato il solo tollerabile che io mi ricordi di aver visto. Nessuno spettatore dalla sua azione avrebbe potuto intuire l’inganno più di quanto dovesse fare Otello. Solo le confessioni nei soliloqui mettevano a parte del mistero. Non c’erano accenni che facessero ritenere al pubblico di avere un’intelligenza maggiore del Moro – il quale in genere è come un bersaglio indifeso messo lì perché l’Alfiere e un bel po’ di spettatori ignoranti gli scaglino contro le loro frecce. Lo Iago di Bensley non operava in modo così grossolano. Nel personaggio c’era un tono di trionfo, naturale perché era cosciente del potere in senso generale, ma non quella meschina vanità che ridacchia e non si contiene a ogni piccolo colpo fortunato della sua furfanteria – cosa comune ai piccoli cattivi e agli apprendisti mascalzoni ancora inesperti. Non applaudiva né si vantava prima del tempo. Non era come un uomo che impiega la sua bravura con un bambino e per tutto il tempo ammicca ad altri ragazzini, estremamente compiaciuti di essere a parte del segreto; era bensì un abile malvagio che intrappola un’anima nobile in una rete contro cui non c’è possibilità di capire, in cui il modo è insondabile quanto lo scopo sembra oscuro e immotivato. La parte di Malvolio in Twelfth Night era recitata da Bensley con una ricchezza e una dignità della quale (a giudicare da alcune recenti interpretazioni del personaggio) la tradizione stessa deve essersi esaurita.

89 Qui iniziava l’articolo sul “London Magazine”, pubblicato a febbraio 1822 (vedi nota 80). 90 Henry IV Part 1, I.3.201-208. 91 Pierre in Venice Preserved (Venezia salvata) di Otway immagina di radere al suolo Venezia con il fuoco.

44 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

A quel tempo nessun impresario si sarebbe sognato di affidare la parte a Mr. Baddeley o a Mr. Parsons; quelle rare volte che Bensley fu assente dal teatro, John Kemble pensò che non lo sminuisse affatto prendere lui quel ruolo. Malvolio non è grottesco di natura; diventa comico solo per caso. È freddo, austero, scostante, ma dignitoso, coerente e, a quanto sembra, piuttosto di una moralità eccessiva. Maria lo descrive come una specie di puritano: avrebbe potuto portare con onore la catena d’oro in una delle nostre vecchie famiglie di Roundheads , al servizio di un Lambert o di una Lady Fairfax. 92 Ma la sua moralità e i suoi modi sono fuori luogo in Illiria. È il contrario della leggerezza dell’opera e perde nella lotta impari. Eppure, l’orgoglio e la serietà (chiamatela come volete) in lui sono intrinseci e innati, non falsi o artefatti – e solo questi ultimi sono adatti a suscitare il riso. Tutt’al più il suo carattere non è attraente ma non è mai buffonesco o disprezzabile. Il suo portamento è nobile – un po’ al di sopra della sua posizione sociale, ma forse non molto al di sopra dei suoi meriti. Non c’è nessuna ragione per cui non dovrebbe essere coraggioso, onorevole, pieno di doti. La noncuranza con cui lascia a terra l’anello (che era stato incaricato di restituire a Cesario) denota generosità di animo e di natura. In qualsiasi occasione parla da gentiluomo e da persona istruita. Non lo si deve confondere con l’eterno umile servitore della commedia. È il maggiordomo di una grande principessa – una dignità conferitagli probabilmente per motivi diversi dall’età o dall’anzianità di servizio. Olivia, quando viene a sapere della sua presunta pazzia, dichiara che “darebbe metà della sua dote purché non gli accadesse niente di male”. 93 Sembra quindi che il personaggio sia disegnato in modo da apparire piccolo o insignificante? Una sola volta, in verità, lei lo accusa direttamente – ma di che cosa? di essere “ammalato di amor proprio”, ma lo fa con una gentilezza e una premura che non avrebbe avuto se non avesse pensato che questa debolezza particolare oscurava delle sue virtù. I rimproveri al cavaliere e ai suoi sciocchi compagni di baldoria sono sensati e vivaci; se poi consideriamo che la sua padrona è indifesa e che il suo lutto, vero o simulato che sia, attirerebbe l’attento sguardo del mondo sui suoi affari privati, Malvolio forse sente che in qualche modo deve proteggere lui l’onore della famiglia – poiché non sembra che Olivia abbia fratelli o parenti che se ne prendano cura; e Sir Toby ha abbandonato ogni cortesia del genere sulla porta della cantina. 94 Che Malvolio debba essere

92 Rispettivamente John Lambert, generale dell’esercito del Parlamento durante la guerra civile, e la moglie di Thomas Fairfax, altro generale e comandante durante il periodo del Commonwealth. I Roundheads erano i seguaci di Cromwell, sostenitori del Parlamento durante la guerra civile puritana. 93 Twelfth Night , 3.4.60-61. Le successive citazioni sono dalla stessa opera: 1.5.86 e 5.1.373. 94 Il riferimento alla cantina è parte del battibecco tra la cameriera Maria e lo zio della bella Olivia, Sir Toby Belch, personaggio vivace e amante di bagordi e bevute in Twelfth Night , 1.3. Si veda anche più avanti, nello stesso saggio.

45 Charles Lamb, Theatralia

rappresentato come dotato di qualità stimabili lo fa capire l’espressione del duca che è ansioso di farlo rappacificare: “Andategli dietro, e imploratelo di far pace”. Persino quando si trova maltrattato, in catene e al buio, una certa grandezza sembra non abbandonarlo mai. Discute bene, in modo abile, con il presunto Sir Topas e filosofeggia eroicamente sulle sue scempiaggini. 95 Ci doveva essere una parvenza di valore in lui; doveva essere qualcosa di più di una pura evanescenza – un fantoccio o un piccolo presuntuoso – perché Fabian e Maria potessero arrischiarsi a fargli fare da messaggero d’amore con Olivia. C’era della consonanza (come direbbe lui) nell’impresa oppure lo scherzo sarebbe stato troppo audace persino per quel luogo di anarchia. Di conseguenza Bensley metteva nella parte un’aria di altezzosità spagnola. Gettava sguardi, parlava e si muoveva come un vecchio castigliano. Era inamidato, ordinato e saccente, ma questa sovrastruttura di orgoglio pareva ancorata a un senso di merito; c’era qualcosa che andava al di là del damerino. Era grande e magnifico ma non era certo che fosse vuoto. Si poteva desiderare di vederlo scendere ma si sentiva che era su un piedistallo; era grandioso dall’inizio, ma quando la sobrietà decorosa del personaggio cominciava a diminuire e il veleno della vanità, nella presunzione che la Contessa lo amasse, cominciava a funzionare, si poteva pensare di avere davanti l’eroe della Mancia in persona. Come sorrideva tra sé e sé, con quanta ineffabile disinvoltura torceva la catena d’oro: che sogno il suo! Si era contagiati dall’illusione, e si desiderava che non venisse cancellata: non c’era posto per la risata! Se interveniva un’inopportuna riflessione morale era la profonda sensazione di quanto fosse debole la natura umana che poteva lasciarlo in balia di tali frenesie ma, in realtà, si ammirava la follia finché durava, piuttosto che compatirla – sentendo che un’ora di quell’errore valeva un secolo speso a occhi aperti. Chi non vorrebbe vivere anche solo per un giorno nella presunzione di essere amato da una donna come Olivia? Bene, il duca avrebbe dato via il suo ducato per poter essere illuso così anche solo per un quarto di minuto, da sveglio o nel sonno. Sembrava che lui calpestasse aria, che mangiasse manna, che camminasse con la testa tra le nuvole, per stare con Iperione. Oh, non fate crollare i castelli del suo orgoglio; restate ancora per un po’, momenti luminosi di sicurezza; “fermatevi, voi che siete a guardia del cielo”, 96 cosicché Malvolio possa restare con la fantasia il signore della bella Olivia! Ma il fato e la punizione dicono di no; sento la risatina maliziosa di Maria, le battute di spirito di Sir Toby, la gioia ancora più intollerabile dello sciocco cavaliere. Il falso Sir Topas viene smascherato

95 Buffone. Qual è l’opinione di Pitagora sulla selvaggina?/ Malvolio. Che l’anima di mia nonna potrebbe per caso abitare in un uccello./ Buffone. E tu che ne pensi?/ Malvolio. Ho un’alta opinione dell’anima e non approvo affatto questa idea [ Twelfth Night , 4.2.49-55. Nota dell’Autore.] 96 Christopher Marlowe, Edward II , 5.1.66.

46 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

e “così la giostra del tempo”, come dice il Buffone, “porta la vendetta”. 97 Confesso di non aver mai visto il finale di questo personaggio, quando lo recitava Bensley, senza una sorta di interesse tragico. Ma c’erano anche delle belle scene comiche. Pochi ora si ricordano di Dodd. Quale Aguecheek 98 ha perduto il teatro! Qualche anno fa Lovegrove, che più degli altri si avvicinava ai vecchi attori, riprese il personaggio e lo rese abbastanza grottesco; Dodd invece era lui , come fosse uscito dalle mani della natura. Si potrebbe dire che restava in puris naturalibus .99 Nell’esprimere lentezza di comprendonio questo attore superava tutti gli altri. Si poteva vedere il primo baluginare di un’idea che lentamente si faceva strada sul suo viso, aumentando poco a poco, a fatica, fino a che raggiungeva la pienezza di un’immagine crepuscolare – il massimo cui arrivava. Sembrava che tenesse a freno il suo intelletto, come alcuni riescono a ritardare le pulsazioni. Ci vuole meno tempo a riempire una mongolfiera di quanto ci voleva perché un’espressione si stendesse su tutta la sua faccia larga e sognante. Un barlume di intelligenza appariva nell’angolo dell’occhio e poi come se non fosse alimentato se ne andava di nuovo. Su una parte della fronte si intravedeva un po’ di intelligenza ma ci voleva molto tempo per comunicarla a tutto il resto. Non sono bravo con le date, ma penso fosse più di venticinque anni fa quando, camminando nei giardini di Gray’s Inn 100 (erano molto più belli di adesso – i maledetti Verulam Buildings non ne avevano ancora invaso tutta la parte orientale, nascondendo lievi curve verdi e spingendo via con una spallata una o due delle grandiose nicchie della terrazza; quella rimasta è spalancata e solitaria, come se ricordasse le altre – sono sempre i giardini più belli di tutte le Inns of Court, senza escludere il mio amato Temple, hanno un carattere serissimo e il loro aspetto è totalmente venerabile e trasuda legge, Bacon ha camminato sui loro sentieri di ghiaia), stavo passeggiando in un giorno d’estate sulla suddetta terrazza, e un individuo piacevole e triste veniva verso di me e, dall’aria e dal comportamento grave, pensai che fosse uno dei membri anziani dell’Inn. Aveva un’espressione seria e pensosa e sembrava meditare sulla condizione umana. Siccome ho una soggezione istintiva per i vecchi avvocati, stavo passandogli accanto con quella sorta di rispetto riservato che si è soliti dimostrare a un estraneo anziano e che denota un segno di saluto più di qualsiasi altro movimento del corpo – una specie di umiltà e di riguardo che, ho osservato, nove volte su dieci imbarazza piuttosto che far piacere

97 Twelfth Night , 5.1.399-400. 98 Sir Andrew Aguecheek, uno sciocco cortigiano che ha una grande opinione di se stesso e che, senza speranza, corteggia Olivia. 99 Nudo. 100 Costruiti sotto la supervisione di Francis Bacon, Lord Verulam, che abitò all’Inn fino alla morte. Le quattro istituzioni londinesi dette Inns o Inns of Court sono scuole di giurisprudenza e associazioni di avvocati.

47 Charles Lamb, Theatralia

alla persona cui viene offerto – quando il volto, girandosi completamente verso di me, si rivelò stranamente come quello di Dodd. Guardandolo meglio capii di non sbagliarmi. Ma era mai possibile che questo viso triste e pensieroso fosse lo stesso che indicava stoltezza e che avevo tante volte salutato in occasioni allegre, che non avevo mai visto senza sorridere o che avevo riconosciuto come annuncio dell’ilarità, che sembrava formale e piatto in Foppington, così leggero e vivace in Tattle, così impotente e indaffarato in Backbite, così vuoto di qualunque significato o risoluto a non mostrarne in Acres, in Fribble 101 e in un migliaio di sciocchezze divertenti? Era questo il viso 102 – pieno di attenzione e premura – che tanto spesso si era spogliato a suo piacimento di entrambe per darmi piacere, per distendere le rughe del mio volto cupo per due o tre ore? Era questo il viso – virile, sobrio, intelligente – che avevo tanto spesso disdegnato, deriso, con cui mi ero divertito? Il ricordo delle libertà che mi ero preso con lui mi investì come a rimproverarmi per un insulto. Avrei potuto chiedere scusa. Pensai che mi guardasse con un senso di dolore. C’è qualcosa di strano e di triste nel vedere gli attori – e in particolare quelli divertenti – soffrire una sorte comune; per loro le fortune, gli incidenti, la morte sembrano appartenere alla scena, e le loro azioni paiono soggette solo alla giustizia poetica. È difficile per noi collegarli a responsabilità più terribili. Questo bravo attore morì poco dopo questo incontro. Da qualche mese aveva lasciato le scene e, come ho saputo dopo, aveva preso l’abitudine di andare quotidianamente in questi giardini, quasi fino al giorno della sua morte. In queste passeggiate serie forse si stava spogliando di molte vanità teatrali e di qualcuna reale, liberandosi delle banalità del teatro più piccolo e di quello più grande, facendo una leggera penitenza per una vita di sciocchezze non troppo criticabili, togliendosi poco a poco la maschera del buffone che forse sentiva di aver portato troppo a lungo, e stava provando un genere più solenne di ruoli. Morendo, “si mise gli abiti a lutto di Domenico”. 103

101 Sono i personaggi rispettivamente di The Relapse di Vanbrugh, Love for Love (Amore per amore) di Congreve, The School for Scandal (La scuola della maldicenza) di Sheridan, The Rivals (I rivali) sempre di Sheridan, e Miss in Her Teens (La ragazza) di Garrick. 102 Qui Lamb mima una famosa frase da Doctor Faustus di Marlowe, quando parlando con Elena di Troia Faustus chiede: “Era questo il viso che varò migliaia di navi e incendiò le immense torri di Ilio?”. 103 Dodd leggeva molto e alla sua morte lasciò una bella collezione di letteratura inglese antica. Dovrei giudicarlo un uomo di spirito. So di un caso in cui l’improvvisazione non avrebbe potuto essere migliorata da un lungo periodo di studio. Un mio amico burlone, Jem White, l’aveva visto una sera nei panni di Aguecheek e riconoscendo Dodd in Fleet Street il giorno dopo, fu spinto irresistibilmente a togliersi il cappello e a salutarlo come fosse davvero il cavaliere della sera prima, dicendogli “Salve, Sir Andrew”. Dodd, per niente sconcertato da questo insolito saluto da parte di un estraneo, con un gesto della mano cortese ma di parziale rimprovero, lo allontanò con un “Via, buffone” [Nota dell’Autore]. La citazione è da Paradise Lost , III, 479, dove si descrive il futuro Limbo delle Vanità o Paradiso

48 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Se pochi si ricordano Dodd, molti che ancora sono in vita non dimenticheranno facilmente la persona divertente che allora recitava la parte del buffone con Dodd che impersonava Sir Andrew. Richard o, piuttosto, Dicky, Suett – in vita voleva essere chiamato in questo modo e il tempo ha convalidato il nome – è sepolto nella parte nord del cimitero di St. Paul’s, la chiesa al cui servizio aveva dedicato i suoi anni giovanili. 104 C’è qualcuno che ancora se lo ricorda in quel periodo – la voce chiara e armoniosa. Spesso lui parlava dei suoi giorni da corista, quando era “il cherubino Dicky”. Non sono mai riuscito ad appurare che cosa gli avesse tarpato le ali facendogli cambiare il sacro per il profano: se aveva perduto la voce (che era la condizione migliore per quell’incarico) come Sir John “a forza di incitare all’attacco e cantare salmi”, 105 o se si riteneva che persino così giovane gli mancasse un po’ di quella serietà indispensabile a un’occupazione che dichiara di “essere in rapporto con il cielo”; 106 fatto sta che dopo un periodo di prova su per giù di un anno lo troviamo ritornato a uno stato laico e diventato uno di noi. Penso che certamente non fosse fatto di quel legno in cui sono scolpiti i sedili della cattedrale e le tavole armoniche, ma se un cuore allegro – gentile e perciò allegro – è parte della santità, allora l’abito del giullare, che aveva indossato con molta umiltà dopo la sua perdita e che ha portato così a lungo con tale impeccabile soddisfazione per sé e per il pubblico, può ben essere accettato come una cotta – la sua stola bianca e l’alba. Il primo risultato di questa secolarizzazione fu un incarico sul palco del Drury Lane, dove iniziò, come ho detto, assumendo i modi di Parsons nel recitare ruoli di anziani. Nel periodo in cui la maggior parte di noi lo conosceva non era più un imitatore né era lui stesso imitabile nel vero senso della parola. Era il Robin Goodfellow 107 del palcoscenico: arrivava e metteva tutto in confusione in modo piacevole, ma lui stesso non era minimamente turbato dalla situazione. Era noto, come Puck, per il suo Ha! Ha! Ha! che talvolta diventava un profondo Ho! Ho! Ho! con un’irresistibile aggiunta di O La !, che forse derivava dall’istruzione ecclesiastica estranea alla sua natura. degli Sciocchi, nel quale tra gli altri personaggi è descritto chi per essere sicuro di andare in Paradiso si è messo morendo l’abito di S. Domenico o di S. Francesco. Jem White (1775- 1820), autore delle Falstaff’s Letters (Lettere di Falstaff, 1796), era stato a scuola con Lamb ed è ricordato nel saggio “L’elogio degli spazzacamini”. 104 Era stato un corista di Westminster e non di St. Paul’s, come scrive Lamb. 105 È Sir John Falstaff che pronuncia queste parole in W. Shakespeare, Henry IV Part 2, 1.2.188-89. 106 J. Milton, Il penseroso , 39. 107 Folletto del folklore britannico, che può assumere varie forme per far dispetti ai mortali e ingannarli. Conosciuto anche con il nome di Puck, è un personaggio del Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezza estate) di Shakespeare.

49 Charles Lamb, Theatralia

Migliaia di cuori ancora reagiscono al ridacchiante O La! di Dicky Suett, riportato alla memoria dall’imitazione fedele del suo amico Mathews. 108 “La forza della natura non poteva andare oltre”. 109 Faceva il buffone su quelle due sillabe, più vivace del cucù. L’affanno, che tormenta tutti, era stato dimenticato nella sua costituzione; ne avesse avuti anche solo due granelli (anzi, mezzo) non si sarebbe mai potuto sostenere su quelle due zampe di ragno che gli servivano da gambe (nell’ultima parte della sua vita onesta). Un dubbio o uno scrupolo lo avrebbero fatto traballare, un sospiro lo avrebbe spinto giù, il peso di un cipiglio lo avrebbe fatto barcollare, con una ruga avrebbe perduto l’equilibrio. Invece andava avanti, correndo su quei due trampoli aerei, come Robin Goodfellow, “attraverso boschi, attraverso rovi”, 110 incurante di graffiarsi il viso o di strapparsi il farsetto. Shakespeare lo aveva previsto quando inventò i suoi matti e i buffoni. Hanno tutti la vera forma di Suett – un modo di camminare flessuoso e dinoccolato, una lingua sciolta (vera levatrice di una battuta partorita senza sforzo), parole leggere come l’aria, che liberano verità profonde come il centro della terra, rime oziose che etichettano concetti fra i più elaborati, a cantare con Lear nella tempesta o con Sir Toby sulla porta della cantina. Lui e Jack Bannister ebbero la fortuna di avere più successo personale di qualunque altro attore prima o dopo di loro. La differenza tra i due credo fosse questa: Jack era più amato per le sue affermazioni morali dolci e buone; Dicky piaceva di più perché non faceva affatto affermazioni dolci e buone. La rappresentazione che Bannister faceva di Walter in Children in the Wood (Bambini nel bosco) 111 risvegliava la coscienza, ma Dicky sembrava una creatura, come dice Shakespeare dell’Amore, troppo giovane per sapere che cosa sia la coscienza. 112 Ci faceva tornare ai tempi di Vesta. Il male fuggiva davanti a lui – non come da Jack, cioè come da un antagonista, ma perché non poteva toccarlo, come una palla di cannone non riesce a colpire una mosca. Era libero dal peso di quella morte e quando la Morte venne davvero – non metaforicamente – a prendere Dicky, Robert Palmer, che affettuosamente lo assisteva, raccontò che ricevette l’ultimo colpo senza variare la sua solita tranquillità né il tono di voce, con la semplice esclamazione, degna di essere scritta come epitaffio, “O La! O La! Bobby”.

108 Suett morì nel 1805. Mrs. Mathews descrive il funerale raccontando che nella carrozza funebre l’attore comico Mathews imitò l’espressione “O la!” dell’amico defunto (citato in Percy Fitzgerald, The Art of the Stage , cit., note al testo a p. 277). 109 John Dryden, Lines on Milton , 5. 110 Midsummer Night’s Dream , 2.1.3. 111 Un’opera su libretto di Thomas Morton con la musica di Samuel Arnold, che piaceva molto a Lamb. 112 Sonetto 151.

50 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Il maggiore dei fratelli Palmer (celebre nel mondo del teatro) di solito a quel tempo recitava Sir Toby; ma negli scherzi di quel mezzo Falstaff c’è una solidità di ingegno che lui non rendeva completamente: era troppo esuberante quanto Moody (che talvolta assumeva la parte) era arido e ottuso. Che portasse il socco o il coturno c’era in Jack Palmer un’aria di signorilità arrogante. Era un gentiluomo con una lieve mistura del lacchè. 113 Suo fratello Bob (di memoria più recente), che ne era l’ombra qualunque cosa facesse e che successivamente diventò meno di un’ombra, era un gentiluomo con una mistura un po’ più forte del secondo ingrediente : tutto qua. È stupefacente quanto un po’ di più o un po’ di meno faccia la differenza in questi casi. Vedendo Bobby nella parte del servo del duca 114 avreste detto: “Che peccato che una persona così fine sia solo un servo!”. Vedendo Jack nel personaggio del Capitano Absolute,115 si pensava di poter attribuire la sua promozione a qualche signora di ceto elevato cui era piaciuto il bell’uomo con il ciuffo e che gli aveva procurato una commissione. Perciò Jack era insuperabile in Dick Amlet. 116 Jack aveva due voci, entrambe plausibili, ipocrite, insinuanti, ma la seconda voce, supplementare, era ancora più decisamente istrionica di quella normale. Era riservata per gli spettatori, e le dramatis personae non ne sapevano niente. Così le bugie di Young Wilding, 117 e i sentimenti di Joseph Surface, 118 venivano sottolineati in una specie di corsivo per il pubblico. Questa relazione segreta con gli attori (che è il tormento e la morte della tragedia) ha un effetto estremamente positivo in certi generi di commedia, nelle commedie più artificiali specialmente di Congreve e di Sheridan, dove il senso assoluto di realtà (indispensabile nelle scene interessanti) non viene richiesto, altrimenti interverrebbe a diminuire il piacere. Il fatto è che non si crede in personaggi come Surface, il malvagio della commedia artificiale, quando si legge di loro o si vedono; se ci credessimo ci turberebbero e non ci divertirebbero. Quando Ben, in Love for Love , torna dai suoi viaggi per mare, al primo incontro con il padre ha luogo il dialogo seguente, delizioso:

Sir Sampson. Hai fatto un lungo viaggio faticoso, Ben, da quando ti ho visto. Ben . Eh, sì, lungo. Abbastanza lungo, ecco tutto. Bene, padre, come stanno tutti a casa? Come va fratello Dick, e fratello Val?

113 Lamb sembra confondere John Palmer con Gentleman Palmer (1728-1768) che morì prima che lui nascesse. Aveva interpretato ruoli come il Capitano Plume, Osric, Orlando, Claudio e Mercuzio. 114 High Life Below Stairs [Nota dell’Autore]. La bella vita sottoscala , una farsa in due atti di James Townley (1714-1778) presentata al Drury Lane nel 1759. 115 Personaggio di The Rivals di Sheridan. 116 In The Confederacy (La confederazione) di John Vanbrugh (1705). 117 The Liar (Il bugiardo), una farsa in due atti di Samuel Foote. 118 Personaggio di The School for Scandal di Sheridan: il fratello maggiore Surface è un bugiardo egoista e avido ma finge di essere un “uomo di buoni sentimenti”.

51 Charles Lamb, Theatralia

Sir Sampson . Dick! Oh, mio Dio, Dick è morto due anni fa. Te l’avevo scritto quando eri a Livorno. Ben . Che disastro, è vero; diavolo, me l’ero dimenticato. Dick è morto, come dite voi. Bene, e come? – ho molte domande da farvi. 119

Ecco un esempio di insensibilità che sarebbe disgustosa nella vita reale o, almeno, che nella vita reale non avrebbe potuto coesistere con il temperamento cordiale del personaggio. Ma quando lo leggete con lo spirito con cui dovrebbero essere prese queste scelte giocose e queste combinazioni pretestuose piuttosto che come vere traduzioni della natura, o quando vedevate Bannister recitarlo, non offendeva affatto il senso morale, né lo offende adesso. D’altronde, che cosa è Ben – il simpatico marinaio che Bannister ci presenta – se non un elemento satirico, una creazione della fantasia di Congreve, una combinazione surreale di tutte le componenti del carattere di un marinaio: il disprezzo del denaro, la credulità verso le donne, e quel tanto di necessario distacco da casa che, possiamo supporre nei limiti della credibilità, potrebbe produrre una forma di allucinazione come quella qui descritta. Non pensiamo mai male di Ben, né sentiamo tutto questo come una tara nel suo carattere. Ma quando arriva un attore e invece del delizioso fantasma – la creatura preziosa per credere a metà – che Bannister mostrava, ci mette davanti agli occhi una realizzazione completa di un marinaio di Wapping, un Jack Tar 120 allegro, cordiale, e nient’altro; quando, invece di dotarlo di una deliziosa confusione mentale e di un’intenzione buona ma senza controllo e direzione, lo rappresenta con una chiara intelligenza e una totale coscienza delle proprie azioni, facendo emergere la sensibilità del personaggio in modo affettato, come se non si reggesse su altro e dovesse essere giudicato solo per quella, sentiamo che c’è una dissonanza, che la scena è disturbata: un uomo vero è entrato tra le dramatis personae e le ha cacciate via. Vogliamo che il marinaio sia allontanato. Sentiamo che il suo vero posto non è sulla scena ma nella prima o nella seconda galleria.

Sulla commedia artificiale del secolo scorso 121 La commedia artificiale, o commedia di costume, è completamente morta sulle nostre scene. Congreve e Farquhar fanno capolino solo ogni sette anni, per essere criticati e soppressi all’istante: quest’epoca non li tollera. È

119 William Congreve, Love for Love , 3.6.20-29. 120 Wapping è un quartiere di Londra dove si trovano i docks del porto; Jack Tar è un nome comunemente usato per indicare un marinaio (“tar” è la pece usata per calafatare le imbarcazioni). 121 Il saggio fu pubblicato nell’aprile 1822 (vedi nota 80 su The Old Actors ). Unito a questo saggio come conclusione c’era il pezzo su Kemble e Antonio di Godwin, poi separato forse per motivi di coerenza, e che qui presentiamo come successivo. Lord Macauley nella recensione all’edizione di Leigh Hunt delle opere drammatiche di Wycherley, Congreve, etc., si oppose recisamente alla teoria esposta in questo saggio.

52 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

forse a causa di qualche discorso volgare, di qualche licenza occasionale nel dialogo? Non lo credo affatto. È che le azioni dei loro personaggi drammatici non reggono alla prova morale. Noi pieghiamo tutto in questo modo. Una frivola galanteria in un romanzo, in un sogno o nello spettacolo effimero di una serata, ci fa trasalire come nella vita reale degli allarmanti segni di dissipazione in un figlio o in un pupillo dovrebbero spaventare un genitore o un tutore. Non ci rimangono emozioni mediane come l’interesse drammatico. Osserviamo un libertino sulla scena fare scherzi dissoluti per due ore senza conseguenze con lo stesso sguardo severo che osserva i vizi reali con la loro portata su due mondi. Siamo spettatori di una trama o di un intrigo (non riducibili nella vita a una questione di rigida moralità) e prendiamo tutto per vero. Sostituiamo una persona reale a quella drammatica e la giudichiamo di conseguenza. La giudichiamo nei nostri tribunali, in cui non ci appelliamo alle dramatis personae che sono suoi pari. Siamo stati rovinati non dalla commedia sentimentale ma da un tiranno molto più dannoso per il piacere, che è succeduto a quella – il dramma esclusivo e onnivoro della vita comune, dove il punto morale è tutto, dove invece dei personaggi teatrali, fittizi e creduti a metà (i fantasmi della vecchia commedia), riconosciamo noi stessi, i nostri fratelli, zie, parenti, alleati, benefattori, nemici – gli stessi che nella vita – con un interesse per ciò che accade così forte e sostanziale che non possiamo permetterci che il giudizio morale, nei suoi effetti più profondi e vitali, venga a un compromesso o si assopisca per un po’. Ciò di cui lì si tratta senza alcuna trasformazione finisce per riguardarci nello stesso modo in cui gli stessi eventi o personaggi ci riguarderebbero nei rapporti della nostra vita. Ci portiamo dietro le faccende domestiche a teatro. Non ci andiamo, come facevano i nostri antenati, per sfuggire alla pressione della realtà ma per confermare la nostra esperienza – per raddoppiare la nostra sicurezza e incatenare il destino. Dobbiamo vivere due volte la nostra difficile vita, come Ulisse ebbe il triste privilegio di scendere due volte fra le ombre. Tutto quel terreno neutrale che stava tra il vizio e la virtù, o che di fatto era poco interessato a entrambe, dove nessuna delle due era propriamente messa in dubbio, quel luogo felice dove si respirava liberi dal fardello di un eterno interrogativo morale – la zona franca e la pacifica Alsatia 122 lontana da ricercati cavilli – è distrutto e senza più diritti, in quanto nocivo per gli interessi della società. I privilegi del luogo sono eliminati per legge. Non abbiamo il coraggio di giocare con le immagini o i nomi di ciò che è male. Abbaiamo come cani pazzi contro le ombre. Temiamo di essere infettati dalla rappresentazione teatrale della malattia e abbiamo paura di una

122 Nomignolo di Whitefriars, zona di Londra a nord del Tamigi e fuori della giurisdizione della città, considerata un sanctuary , cioè un luogo di immunità, rifugio di criminali fino all’abolizione definitiva del privilegio nel 1723. Cfr. la commedia di Thomas Shadwell, The Squire of Alsatia (Il cavaliere di Alsatia, 1688), ambientata in quell’area.

53 Charles Lamb, Theatralia

pustola dipinta. Nell’ansia che la nostra moralità non prenda freddo, l’avvolgiamo in una grande coperta di precauzione contro la brezza e il sole. Per quanto mi riguarda, confesso che, non dovendo rispondere di grandi crimini, sono felice di un periodo in cui prendere aria oltre la giurisdizione della rigida coscienza – di non vivere sempre tra le mura dei tribunali ma, di tanto in tanto, nello spazio di un sogno o giù di lì, di immaginare un mondo senza restrizioni e ingerenze, rintanarmi in recessi dove il cacciatore non mi possa seguire –

Ombre nascoste Della selva più remota dell’Ida boscoso Quando ancora non c’era paura di Giove. 123

Poi torno nella mia gabbia e alla mia segregazione più fresco e più sano. Porto i miei ceppi più contento per aver respirato una libertà immaginaria. Non so come sia per gli altri, ma io mi sento sempre meglio dopo aver letto una delle commedie di Congreve – anzi, perché non aggiungere, persino di Wycherley? Perlomeno sono più allegro e non potrei mai collegare in nessuna forma questi divertimenti di una fantasia arguta con i risultati che se ne potrebbero trarre come modelli nella vita reale. Sono un mondo a sé stante almeno quanto lo è il paese delle fate. Prendete uno dei personaggi, maschio o femmina (sono simili con poche eccezioni), e mettetelo in una pièce moderna: ne nascerà un’indignazione virtuosa contro il mascalzone dissoluto, un’indignazione appassionata come la vogliono i Catoni della platea, perché in una pièce moderna devo giudicare il bene e il male. Il metro della società è la misura della giustizia politica . L’atmosfera lo rovinerà; non può viverci. Si è inserito in un mondo morale dove non c’entra niente e dal quale deve cadere a testa all’in giù – con le vertigini e incapace di stare in piedi come uno spirito maligno di Swedenborg che senza accorgersene abbia sconfinato nella sfera di uno dei suoi Uomini Buoni o Angeli. Ma quando è nel suo mondo, sentiamo che la creatura è così cattiva? I Fainall e i Mirabel, i Dorimant e le varie Lady Touchwood 124 nella loro sfera non offendono il mio senso morale; in realtà non si appellano affatto ad esso. Sembrano impegnati nel loro elemento, non rompono leggi o vincoli della coscienza; non ne conoscono. Sono usciti dalla Cristianità per entrare nella terra – come devo chiamarla? – dell’adulterio – l’utopia della galanteria, dove il piacere è un dovere e le maniere perfetta libertà. È un mondo di cose fantastiche che non ha alcun riferimento al mondo reale. Nessuna persona buona può giustamente

123 John Milton, Il Penseroso , 28-30. 124 Personaggi rispettivamente di The Way of the World di Congreve, The Inconstant di Farquhar, The Man of Mode (L’uomo alla moda) di Etherege, The Double Dealer (Il doppiogiochista) di Congreve.

54 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

offendersi come spettatore, perché nessuna persona buona soffre sul palcoscenico. Se giudicato moralmente, ogni personaggio in queste pièce – le poche eccezioni sono solo errori – è al tempo stesso essenzialmente vano e inutile. La grande arte di Congreve si dimostra specialmente nel fatto che ha completamente escluso dalle scene – forse a parte alcuni piccoli gesti generosi nel ruolo di Angelica –125 non solo qualcosa come un personaggio senza colpe, ma anche qualsiasi pretesa di bontà o di buoni sentimenti. Che l’abbia fatto di proposito o istintivamente, l’effetto è felice quanto era audace il progetto (se si tratta di progetto). Mi sono sempre stupito dello strano potere che in particolare The Way of the World possiede di interessarci per tutto il tempo delle azioni di personaggi di cui non ci importa assolutamente niente – poiché non li amiamo né li odiamo – e credo che sia dovuto proprio all’indifferenza verso ciascuno di loro che li tolleriamo tutti. L’autore ha sparso sulle sue creazioni un’assenza di luce morale, come preferirei chiamarla piuttosto che con il brutto nome di tangibile oscurità, 126 e le sue ombre vi guizzano senza distinzione o preferenza. Se avesse introdotto un personaggio buono, un singolo impeto di senso morale, una repulsione della ragione verso la vita vera e i doveri reali, l’estraneo Goshen 127 avrebbe solo fatto luce sulla scoperta di deformità, che ora non ci sono perché pensiamo che non ci siano. Trasportati nella vita reale i suoi personaggi e quelli dell’amico Wycherley sono dissoluti e puttane; quello che fanno nella loro breve esistenza è perseguire continuamente una galanteria senza regole. Non si riconosce nessun’altra molla per l’azione né altri possibili motivi di comportamento – principi che, agiti da tutti, necessariamente riducono questo stato di cose a un caos. Ma sbagliamo a spiegarli così: nessun effetto del genere si produce nel loro mondo. Tra di loro, siamo in mezzo a gente caotica. Non dobbiamo giudicarli secondo i nostri costumi. La loro condotta non offende istituzioni venerabili, perché non ne hanno. Non violano la pace delle famiglie, perché non ci sono legami familiari tra di loro. Nessuna purezza del letto coniugale viene macchiata, perché non si suppone che ne esista. Affetti profondi non sono turbati, nessun legame matrimoniale è sciolto perché la profondità dell’affetto e la fedeltà coniugale non crescono su quel terreno. Non ci sono né bene né male, né gratitudine né il suo opposto, diritti o doveri, amore paterno o filiale. Che importanza ha per la virtù, o che cosa

125 In Love for Love di William Congreve. 126 Forse una citazione da Paradise Lost , XII, 188. 127 Goshen è secondo la Bibbia il luogo dell’Egitto che il Faraone dette agli Ebrei e che Dio preservò dalle piaghe. Lamb in Essays of Elia usa l’espressione per indicare un posto protetto.

55 Charles Lamb, Theatralia

le interessa, se Sir Simon o Dapperwit rapiscono Miss Martha, 128 o chi sia il padre dei figli di Lord Froth o di Sir Paul Pliant?129 È tutto uno spettacolo effimero e dovremmo starcene seduti senza preoccuparci dell’esito, se di vita o di morte, come fossimo alla guerra dei topi e delle rane. Invece, come Don Chisciotte, ci schieriamo contro i burattini e come lui in modo insolente. Non abbiamo il coraggio di immaginare un’Atlantide, un sistema in cui la nostra presuntuosa morale sia esclusa in un breve momento di pace. Non osiamo immaginare uno stato di cose in cui non ci siano ricompense o punizioni. Siamo attaccati alla dolorosa necessità del peccato e della vergogna. Accuseremmo persino i nostri sogni. Tra le circostanze deprimenti del diventar vecchi, è pur sempre qualcosa aver visto The School for Scandal in tutto il suo splendore. Questa commedia ebbe origine in Congreve e Wycherley ma riunì dei tratti della commedia sentimentale successiva. Ora sarebbe impossibile recitarla , anche se continua ad essere annunciata sulle locandine di tanto in tanto. L’eroe, almeno quando lo interpretò Palmer, era Joseph Surface. Quando mi rammento della sfacciataggine giocosa, della plausibilità raffinata e solenne, dei passi misurati, della voce insinuante – per dirlo in una parola, della totale e recitata depravazione del personaggio, così diversa dalla vera malvagità consapevole, assunzione ipocrita dell’ipocrisia – che fece meritatamente di Jack un beniamino in quella parte, devo per forza dedurre che l’attuale generazione di chi va a teatro sia più virtuosa di me, oppure più ottusa. Confesso liberamente che per me lui condivideva il primo posto con il fratello buono – di fatto, mi piaceva altrettanto. Certo che ci sono passaggi – come quello per esempio quando Joseph deve rifiutare un’elemosina a un parente povero –, incongruenze cui Sheridan fu costretto nel tentativo di unire la commedia artificiale con quella sentimentale, ciascuna delle quali distrugge l’altra; ma al di sopra di questi impedimenti, i modi di Jack lo facevano svolazzare leggero, tanto che un suo rifiuto non scandalizzava più di quanto la serena condiscendenza di Charles non desse in realtà piacere – si superava la trascurabile questione il più velocemente possibile per tornare nel regno della pura commedia, dove nessuna fredda morale detta legge. Le maniere estremamente artificiali di Palmer in questo personaggio neutralizzavano tutte le impressioni negative che si potevano ricavare dal contrasto tra i due fratelli, supponendoli persone reali. Non si credeva in Joseph con la stessa fede con la quale si credeva in Charles. Questi era una piacevole realtà, l’altro un altrettanto piacevole opposto poetico. La commedia, come ho detto, è incoerente – una mistura di Congreve e di incompatibilità sentimentali; la comicità

128 Personaggi di William Wycherley, Love in a Wood, or, St. James’s Park (Amore nel parco, 1671). 129 Personaggi di William Congreve, The Double-Dealer .

56 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

dell’insieme è positiva ma ci voleva l’arte esperta di Palmer per riconciliare gli elementi discordanti. Un attore con il talento di Jack, se ne avessimo uno ora, non oserebbe recitare la parte nello stesso modo. Istintivamente eviterebbe qualsiasi elemento che potesse essere irrealistico e quindi rendere affascinante il personaggio. Dovrebbe prendere l’imbeccata dal pubblico che si aspetterebbe un uomo cattivo e uno buono nettamente opposti tra di loro come sono contrari sul letto di morte nelle stampe che, mi spiace dirlo, sono scomparse dalle vetrine del mio vecchio amico Carington Bowles 130 un tempo in St. Paul’s Churchyard – una mostra venerabile come la vicina cattedrale, e forse coeva – dei cattivi e dei buoni nell’ora della morte, dove le terrificanti preoccupazioni di quelli (e in realtà il truce fantasma con il forcone non è da disdegnare) contrastano così tanto con l’accettazione mite e serena, come se si trattasse di mangiare burro e miele, con cui questi si sottomettono alla falce del gentile flebotomo, il Tempo, che maneggia la lancetta con le dita attente di un giovane e popolare chirurgo da signore. Quale carne, come erba amabile, non desidererebbe andare incontro al colpo di un mietitore così delicato? John Palmer era due volte attore in questa raffinata parte: recitava per voi per tutto il tempo in cui recitava con Sir Peter e la sua signora. Avevate il primo accenno di un sentimento prima che fosse sulle sue labbra. La voce alterata era per voi, e dovevate supporre che i personaggi fittizi che si muovevano con lui sul palcoscenico non se ne accorgessero affatto. Che cosa vi importava se quella mezza realtà, il marito, era ingannato dalla falsità, o se quella cosa debole (la reputazione di Lady Teazle) era convinta di morire di pletora? Il destino di Otello e di Desdemona non era coinvolto. Il povero Jack se ne è andato dal palcoscenico al momento giusto e non ha vissuto fino a questa nostra epoca di serietà. Anche il divertente Teazle, King, se n’è andato al momento giusto. I suoi modi sarebbero poco accettabili ai nostri giorni. Ora dobbiamo amare o odiare, assolvere o condannare, censurare o compatire, esercitare su tutto la nostra detestabile e affettata moralità. Joseph Surface, per essere accettato ora, deve essere davvero un malvagio disgustoso – senza compromessi; la sua prima apparizione deve scandalizzare e fare orrore; i suoi ragionamenti ingannevoli, che i nostri antenati con la loro attitudine alla piacevolezza accoglievano con calore, sapendo che nessun danno (neanche drammatico) ne poteva derivare o era previsto che ne derivasse, devono ispirare una gelida e letale repulsione. Charles (la persona realmente ipocrita sulla scena – poiché l’ipocrisia di Joseph ha dei validi fini nascosti, ma la professione di bontà del fratello si basa su un assoluto autocompiacimento) deve essere amato e Joseph deve essere odiato .

130 Carington Bowles (1724-1793) lavorò prima come editore con il padre e poi subentrò allo zio nella stamperia al n. 69 di St. Paul’s Churchyard a Londra. Era famoso per le sue carte geografiche e le incisioni.

57 Charles Lamb, Theatralia

Per bilanciare una realtà sgradevole con un’altra, Sir Peter Teazle non deve più corrispondere all’idea comica di un vecchio scapolo irascibile i cui scherzi (quando lo recitava King) erano evidentemente diretti a voi almeno quanto dovevano interessare chi era sulla scena; deve essere una persona reale, capace di subire dei danni davanti alla legge – una persona verso la quale si devono riconoscere degli obblighi, il vero antagonista in una causa di adulterio del perfido seduttore Joseph. Per realizzare meglio il personaggio, le sue sofferenze per il legame sfortunato devono avere l’assoluta acredine della vita, devono (o dovrebbero) rendervi non allegri ma inquieti, proprio come vi renderebbe la stessa situazione nei confronti di un vicino o di un vecchio amico. Le scene deliziose che danno alla pièce il titolo e il gusto devono colpirvi in modo serio come se sentiste che la reputazione di una cara amica viene attaccata in vostra presenza. Crabtree e Sir Benjamin, quei poveri serpenti che vivono al sole della vostra allegria, devono in questa crescita da serra svilupparsi fino a diventare aspidi o anfisbene, e Mrs. Candour – spaventoso! – diventare un cobra. Oh, chiunque ricordi Parsons e Dodd – la vespa e la farfalla di The School for Scandal – in quei due personaggi, e l’affascinante, naturale Miss Pope, la perfetta signora, diversa dalla signora bene della commedia, nella parte di Mrs. Candour, rinuncerebbe forse al vero piacere teatrale, la fuga dalla vita, l’oblio delle conseguenze, la vacanza che impedisce alla pedante riflessione di entrare, quei saturnalia di due o tre brevi ore ben portate via al mondo, per sedere invece a una delle nostre pièce moderne, per eccitare la sua coscienza vigliacca (che davvero non si deve abbandonare neanche per un momento) con richiami continui, per offuscarla piuttosto, e mitigarla, come deve essere una facoltà senza pace, e per accontentare la propria vanità con immagini di giustizia astratta, beneficenza astratta, vite salvate senza che lo spettatore rischi, e fortune date via che non costano niente all’autore? Forse in nessuna pièce tutte le parti erano assegnate in modo così riuscito come in questa commedia dell’impresario .131 Nella parte di Lady Teazle, Miss Farren era succeduta a Mrs. Abington e Smith, il Charles originale, si era già ritirato quando l’ho vista per la prima volta. Tutti gli altri personaggi, con pochissime eccezioni, erano rimasti gli stessi. Ricordo quando era di moda screditare John Kemble 132 che assunse il ruolo di Charles dopo Smith, ma credo fosse ingiusto. Smith, a mio parere, era più scanzonato e colpiva

131 Sheridan era direttore del Drury Lane quando la sua commedia, The School for Scandal , fu prodotta. 132 Gli amici dell’attore, parlando di questo strano tentativo di recitare un ruolo comico, lo definirono la “Restaurazione di Charles”, ma alcuni spiritosi dissero che era il “Martirio di Charles”, ovviamente intendendo quelli Carlo II ritornato sul trono e questi Carlo I, giustiziato durante la rivoluzione puritana. Un signore che era stato insultato da Kemble pretese come riparazione che promettesse di non recitare mai più quella parte (cfr. la nota di Percy Fitzgerald a Lamb’s Dramatic Essays , Remington & Co., London 1885, p. 227).

58 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

per una certa giovialità nella sua persona. Non aveva cupi segni di tragedia. Non doveva, come Kemble, espiare la colpa di essere piaciuto prima per le sue declamazioni elevate. Non aveva i peccati di Amleto o di Riccardo di cui fare ammenda. Il fallimento di Smith in questi ruoli tragici era un lasciapassare per avere successo in un genere così opposto. Per quanto posso giudicare, la serietà di Kemble fece pensare a un’incapacità personale più di quanto ne fosse responsabile. I suoi toni più aspri in questo ruolo furono impregnati di buon umore e addolciti. Fece dei suoi difetti una virtù. Il suo preciso modo declamatorio, per come lo gestiva, serviva soltanto a comunicare il senso del dialogo con più esattezza; sembrava indirizzare le frecce per spingerle più a fondo. Nessuna delle sue frasi brillanti andava perduta. Ricordo in dettaglio come le diceva, in successione, e non riesco a immaginare, nonostante gli sforzi, come avrebbero potuto essere cambiate in meglio. Nessuno riusciva a sostenere un dialogo brillante – quello di Congreve e di Wycherley – perché nessuno lo capiva bene neanche la metà di John Kemble. Il suo Valentine, in Love for Love , era impeccabile a quanto mi ricordo. A volte, recitando la tragedia, si placava negli intervalli della passione. Si assopiva sulle parti piatte di un personaggio eroico. Il suo Macbeth era stato visto con il capo che gli ciondolava dal sonno. Ma a me è sempre sembrato particolarmente vivace nel dialogo spiritoso e tagliente. I momenti di leggerezza distensiva nella tragedia non sono stati uguagliati dopo di lui; lo spirito scherzoso, cortese, con cui si abbassava al livello degli attori in Hamlet , la liberazione giocosa che immetteva nei recessi oscuri di Riccardo, sono scomparsi con lui. Aveva i suoi modi apatici, i torpori, ma erano pietre su cui fermarsi e luoghi in cui riposare nella tragedia – pause e risparmi accorti del respiro, parsimonia dei polmoni, dove la natura lo indicava come economo, e non erano secondo me errori di giudizio. Nel peggiore dei casi, erano meno dolorosi dell’eterna vigilanza tormentosa e inesorabile, degli “occhi di drago senza palpebre” 133 dell’attuale tragedia alla moda.

John Kemble e la tragedia Antonio di Godwin 134 La storia che inghiottisse pastiglie di oppio per tenersi sveglio alla prima di una certa tragedia immagino fosse una scherzosa ritorsione da parte dell’autore maltrattato. Ma di sicuro John possedeva al di là di qualsiasi suo contemporaneo l’arte di diffondere una monotonia compiaciuta e costante (e non si sapeva in che punto dissentire) su una pièce che non gli piaceva. John Kemble molto presto aveva deciso che tutte le buone tragedie che potevano essere scritte erano già state scritte e non tollerava nuovi

133 S.T. Coleridge, Ode to the Departing Year (Ode all’anno che finisce), 145. 134 Questo saggio originariamente faceva parte di quello su “La commedia artificiale del secolo scorso” stampato su London Magazine nell’aprile 1822. Successivamente Lamb lo omise (vedi nota 121).

59 Charles Lamb, Theatralia

tentativi. Ne aveva gli scaffali pieni e i vecchi modelli erano un campo vasto abbastanza per la sua ambizione; vi si muoveva in modo assoluto, e “eccelleva chiaramente in Otway ma totalmente in Shakespeare”. 135 Succedette ai vecchi monarchi legittimi e non gli interessava di rischiare avventurosamente con un Sir Edward Mortimer 136 o con qualsiasi altro speculatore si offrisse. Ricordo, fin troppo bene per sentirmi sereno, come raffreddò mortalmente la tragedia Antonio del mio amico G. 137 Questi, sazio di visioni di giustizia politica (forse impossibili da realizzare nella nostra epoca), o desideroso di far vedere agli scettici di questo mondo che le sue anticipazioni del futuro non gli impedivano di provare una cordiale empatia per gli uomini come sono e come sono stati, scrisse una tragedia. Scelse una storia emozionante, romantica, spagnola: la trama semplice senza essere spoglia, gli avvenimenti insoliti senza essere esagerati. Antonio, che dà il titolo alla pièce, è un giovane castigliano sensibile che in un accesso di onore, tipico del suo paese, sacrifica la sorella. Ma non devo anticipare la catastrofe. L’opera, lettore, esiste ancora, in un bell’inglese, e spenderai saggiamente una mezza corona se vai a cercarla. La concezione era ardita, e lo scioglimento, considerati l’epoca e il luogo in cui l’eroe viveva, appropriato; pure, bisogna riconoscere che c’era bisogno di delicatezza nel renderla sia da parte dell’autore che da quella dell’interprete, per non scandalizzare un moderno pubblico inglese. G., a parere mio, aveva fatto la sua parte. John, che era in termini amichevoli con il filosofo, aveva accettato di recitare la parte di Antonio. Erano nate grandi aspettative: la prima opera teatrale di un filosofo era un momento memorabile. La serata arrivò. Mi fu cortesemente dato un posto in un palco in posizione favorevole, tra l’autore e il suo amico M. 138 G. era allegro e fiducioso. Nello sguardo del suo amico M., che aveva letto il manoscritto, scorsi un po’ di terrore. Antonio, nella persona di John Philip Kemble, dopo un po’ apparve, con una gorgiera inamidata che nessuno poteva contestare e con dei baffi irreprensibili. In queste occasioni John vestiva sempre in modo provocatoriamente corretto. Il primo atto scivolò via, solenne e in silenzio. Passò, come G. garantì a M., esattamente come dovrebbe passare il primo atto di un’opera – la protasis . Quello che gli spettatori dovevano fare era stare muti; i personaggi erano solo all’introduzione, le passioni e gli eventi sarebbero stati sviluppati in seguito; perciò gli applausi sarebbero stati fuori luogo e un’attenzione silenziosa era l’effetto più desiderabile. Il

135 Alexander Pope, Imitations of Horace (1737), v. 277: “And full in Shakespeare, fair in Otway shone”, e il soggetto è lo spirito tragico. 136 Protagonista di The Iron Chest (Il baule di ferro, 1796) di George Colman the Younger. 137 La tragedia del filosofo e scrittore William Godwin (1756-1836) fu prodotta il 13 dicembre 1800 al Drury Lane e Lamb ne aveva scritto l’epilogo. 138 James Marshall, leale amico di Godwin.

60 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

povero M. non si oppose, ma sul suo volto onesto e amichevole vidi un’espressione che rivelava quanto più accettabile sarebbe stato l’applauso di una sola persona (anche se fuori luogo) piuttosto che tutto questo ragionamento. Nel secondo atto (come deve accadere) crebbe un po’ l’interesse; ma John tratteneva ancora la sua energia – una strategia, come avrebbe detto G. – e il pubblico era attento in modo molto compiacente. La protasis , di fatto, non era ancora del tutto realizzata: l’interesse si sarebbe acceso nell’atto successivo nel quale accadeva un fatto speciale. M. si asciugava la faccia arrossata e amichevolmente sudata – è la maniera che M. ha di mostrare il suo trasporto, “da ogni suo poro trasuda profumo”: 139 un modo che ammiro al di sopra di quello di Alessandro. Una o due volte durante quest’atto aveva congiunto le mani nel debole tentativo di produrre un suono, ma otteneva solo un rumore solitario senza eco: nessuna cavità rispondeva alla sua azione. Più volte G. lo pregò di starsene tranquillo. Alla fine, il terzo atto portò in scena ciò che doveva progressivamente scaldare la pièce fino al finale incendiarsi della catastrofe. Una calma filosofica si stese sul volto sereno di G. mentre questa si avvicinava. Le labbra di M. tremavano. Una sfida fu lanciata sul palcoscenico e ci fu la promessa di un combattimento. Gli spettatori si risvegliarono in questa straordinaria occasione e, come in genere fanno, sembrarono pronti a mettersi in cerchio, quando all’improvviso Antonio, che era lo sfidato, rovesciando la situazione nei confronti del suo focoso sfidante, Don Gusman (il quale, tra l’altro, ne avrebbe sposato la sorella), mette da parte il suo stato d’animo, e contemporaneamente le ragionevoli aspettative del pubblico, con dei discorsi tratti dalla nuova filosofia contro i duelli. Gli spettatori erano ora molto presi, il loro coraggio era forte e in allerta; qualche colpo, ding-dong , come il drammaturgo R s140 mi disse dopo, avrebbe risolto il problema – quando il più raffinato senso morale fu chiamato a sostenere la mortificante negazione del loro piacere. Non riuscirono ad applaudire per la delusione: non volevano condannare per amore della moralità. L’interesse restò pietrificato e i modi di John non erano affatto studiati per ammorbidirlo. Era il periodo di Natale e l’atmosfera offriva il pretesto di qualche affezione asmatica. Uno cominciò a tossire; il vicino solidarizzò con lui, finché la tosse diventò epidemica. Ma quando, da essere semi-artificiale in platea, la tosse diventò terribilmente comune tra i personaggi fittizi del dramma e Antonio stesso (per quanto non fosse indicato nelle didascalie) sembrò più attento a dare sollievo ai suoi polmoni che al disagio dell’autore e dei suoi amici, allora G. “per la

139 Nathaniel Lee, The Rival Queens, or the Death of Alexander the Great (Le regine rivali, o La morte di Alessandro Magno), I. 3. È Statira, una delle due mogli di Alessandro Magno a parlare in questi termini del marito. 140 Possibile riferimento a Frederic Reynolds (1764-1841), autore di The Dramatist e di altre pièce.

61 Charles Lamb, Theatralia

prima volta conobbe la paura” e, rivolgendosi gentilmente a M., disse che non sapeva che Mr. Kemble avesse il raffreddore e che la rappresentazione avrebbe potuto essere rimandata proficuamente di qualche giorno – sempre mantenendo la stessa espressione serena, mentre M. sudava come un toro. Sarebbe oltraggioso insistere sul destino di questa serata nata sotto cattiva stella. Invano la trama si infittiva nelle scene seguenti, invano il dialogo era più appassionato e commovente, e il sentimento cresceva puntando sempre più chiaramente all’arduo sviluppo imminente. Invano l’azione era accelerata mentre la recitazione restava immobile. Dall’inizio John aveva preso una posizione – si era ammantato di una piatta modalità di declamazione solenne, da cui nessuno o nessuna esigenza di dialogo avrebbe potuto farlo deviare neppure per un istante. Il sogno che si animasse man mano che la scena andava avanti (trucco comune agli attori) era assurdo: dal principio si era piantato, come fosse su un terrazzo, in una posizione molto in alto, al di sopra del pubblico, e tenne quel livello sublime fino alla fine. Guardava come dal suo trono di sentimenti elevati giù in basso al mondo degli spettatori con un sovrano disprezzo che gli si addiceva. Uno straordinario pathos veniva lanciato verso di loro. Se lo volevano ricevere, bene; se non lo volevano ricevere, bene lo stesso. In tutto questo non c’era offesa contro il decoro, niente da condannare; non si sentì neanche il segno irriverente di un suono. La verbosità avanzò altera per il quarto e quinto atto e nessuno osava predire come sarebbe finita quando, verso la conclusione, Antonio, con un gesto non pertinente che sembrò stupire persino Elvira – che stava freddamente dibattendo con lui sul punto d’onore – di colpo tira fuori un pugnale e colpisce sua sorella al cuore. Fu come se fosse stato commesso un delitto a sangue freddo. L’intero teatro si sollevò con una clamorosa indignazione, domandando giustizia. L’emozione salì molto oltre i fischi. Credo che in quel momento, se l’avessero preso, avrebbero fatto a pezzi lo sfortunato autore. L’atto in sé non era così esagerato o di un genere diverso da quello che loro stessi avrebbero applaudito in un’altra occasione in un Bruto o in un Appio 141 ma, non avendo prestato attenzione alle parole di Antonio, che tangibilmente portavano ad aspettarsi un evento non meno efferato, e invece essendo sedotti dai suoi modi , che sembravano promettere un sonno meno allarmante di quello che la sua parte prevedeva infliggesse a Elvira, si ritrovarono traditi e complici di un delitto, un perfetto omicidio, mentre sognavano tutt’altro.

141 Bruto in Giulio Cesare di Shakespeare oppure nell’opera Brutus di John Howard Payne, amico di Lamb, prodotta il 3 dicembre 1818, in cui Bruto uccide il figlio. Appio è probabilmente un riferimento alla tragedia di Sheridan Knowles, Virginius , in cui il protagonista Virginius uccide la figlia per proteggerla da Appius.

62 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

M., credo, fu la sola persona che soffrì moltissimo per il fallimento; perché G. da allora in poi, 142 con una serenità irraggiungibile se non dalla vera filosofia, abbandonando una precaria popolarità, si ritirò nella sua roccaforte speculativa – un dramma in cui il mondo sarebbe stato il suo camerino e i lontani posteri al tempo stesso i suoi spettatori plaudenti e i suoi attori.

I vecchi attori 143 Non conosco niente di più mortificante dell’essere consapevole di un piacere passato e non ricordare più la persona o la situazione che l’avevano procurato. In sogno spesso mi sforzo di ricordare la fisionomia di Edwin, che vidi una volta in Peeping Tom ,144 ma non riesco a visualizzarlo. Per me non è più di Nokes o Pinkethman. Parsons, e ancora di più Dodd, erano lì lì per essere completamente dimenticati fino a che la mia memoria è stata rinfrescata l’altro giorno dai loro ritratti (una bella sorpresa) nella galleria di Mr. Mathews 145 a Highgate che, a parte i quadri di Hogarth esposti qualche anno fa in Pall Mall, 146 è la collezione più bella che abbia potuto visitare. C’erano gli attori, ritratti da soli o in scene di gruppo, dalla Restaurazione in poi – i vari Betterton, Booth, Garrick – a confermare l’opinione che abbiamo di loro; le attrici Bracegirdle, Mountfort, Oldfield, vivaci come le ha descritte Cibber; 147 la Woffington (un vero Hogarth) 148 su un divano, oziosa e pericolosa; la scena del paravento nella famosa

142 In realtà scrisse un’altra opera, Faulkener , per la quale Lamb scrisse il prologo e che ebbe un discreto successo. 143 Pubblicato nel numero di ottobre del 1822 di The London Magazine . Si veda la nota 80. 144 Peeping Tom of Coventry (Il guardone di Coventry), farsa di John O’Keeffe, 1784. 145 Si tratta dell’attore Charles Mathews che raccolse circa quattrocento ritratti di attori, acquistandoli in parte da altre collezioni (per esempio dalla vendita di quelle di Kemble, di Garrick e di Thomas Harris) o commissionandoli a pittori, tra cui specialmente Samuel De Wilde. Nella sua casa ai margini di Kenwood Estate a nord di Londra aveva fatto costruire una galleria in cui esporre molti dei suoi quadri. Aveva chiesto a Lamb di redigere un catalogo della sua collezione ma questi aveva declinato l’invito. Ridotto in povertà tentò senza successo di vendere la sua collezione, che alla fine fu ceduta sottocosto al neonato Garrick Club. 146 Il riferimento è probabilmente alla British Institution for Promoting the Fine Arts in the United Kingdom (Istituzione britannica per la promozione delle Belle arti nel Regno Unito), una società privata che aveva rilevato i locali della Shakespeare Gallery, aperta in Pall Mall a Londra nel 1789 per mostrare i dipinti di scene shakespeariane che John Boydell (1719-1804) aveva commissionato a pittori diversi e di cui vendeva le stampe. La British Institution (conosciuta anche come Pall Mall Picture Galleries ) nel 1813 dette il via a esposizioni di pittori del passato e l’anno successivo dedicò una mostra a Gainsborough, Hogarth (presente con 58 dipinti), Wilson e Zoffani. 147 Colley Cibber descrisse in modo aneddotico la vita teatrale della sua epoca in An Apology for the Life of Colley Cibber (1740). 148 Il ritratto in questione è in realtà di un anonimo artista, forse francese. Mathews, che l’aveva acquistato da Henry Angelo, lo considerava di Hogarth ed è stato spesso attribuito all’artista.

63 Charles Lamb, Theatralia

commedia di Brinsley, con Smith e Mrs. Abington, che non ho visto; e gli altri che ho visto, e che vedo ancora lì. C’è Henderson, che non aveva rivali come Comus, che io avevo riconosciuto in Harley; Harley, il rivale di Holman, nella parte di Horatio; Holman, con i denti lucidi e brillanti, come Lothario, 149 e con i profondi sospiri nel ruolo di Romeo, l’Amleto più allegro (“nostro figlio è grasso”) che abbia mai visto, nonostante i tentativi lodevoli (per una persona simpatica) di sembrare melanconico; e Pope, 150 il re della commedia e della tragedia che ora ha abdicato, nella parte di Enrico VIII e in quella di Lord Townley. 151 C’erano i ritratti dei due Aickin, fratelli nella mediocrità; quello di Wroughton, che facendo Kitely 152 sembrava aver dimenticato che in tempi migliori aveva recitato Alessandro; c’era la bella figura di John Palmer e la particolare insolenza di Bobby; e il piccolo Quick (l’imperatore di Islington 153 ora ritiratosi) con il suo squittio da violino da fiera. Ci sono le sembianze fisse e immobili, fredde come erano nella realtà, di Moody il quale, per paura di andare oltre la natura talvolta si tratteneva, e l’agitazione irrequieta di Lewis che, non avendo questa paura, spesso sconfinava nell’altro estremo. C’erano i ritratti di Farren e Whitfield, di Burton e Phillimore – nomi che allora contavano poco ma che, rammentati ora o riportati casualmente alla memoria dalla vista di un vecchio programma con i ricordi associati ad esso, possono “inondare gli occhi non usi a piangere”. 154 C’è la prima Mrs. Pope, con il suo piacevole aspetto comune, morta non molto dopo gli altri; la sua voce, non sfibrata dall’età, nei suoi giorni migliori doveva aver gareggiato con le note argentine della stessa Barry, tanto me la ricordo incantevole anche da anziana – tra tutti i suoi ruoli da signora superava se stessa in Lady Quakeress di O’Keeffe (lì la terra toccava il cielo), quando recitava insieme a Lewis che faceva il “cugino allegro”. Ci sono anche Mrs. Mattocks, la più sensibile delle megere, e Miss Pope, sempre una signora ma al limite della scortesia, con i complimenti di Churchill 155 che ancora brillavano sulle sue seducenti labbra di miele. Ci sono i due Bannister e Sedgwick, e Kelly, e Dignum (Diggy), e le perdute fattezze di Mrs. Ward, incomparabile in Lady Loverule, 156 e lo splendore collettivo di tutta la famiglia Kemble, e (la donna di Shakespeare) Dora Jordan, che sia nei primi tempi che negli

149 Sia Horatio che Lothario sono personaggi di The Fair Penitent (La bella penitente, 1703), tragedia in versi di Nicholas Rowe. 150 Alexander Pope (1763-1835). 151 In The Provoked Husband (Il marito provocato) di John Vanbrugh e Colley Cibber. 152 In Every Man in His Humour (Ognuno nel suo umore) di Ben Jonson. 153 La zona di Londra in cui Quick abitava dopo aver lasciato le scene. 154 William Shakespeare, sonetto 30. 155 Charles Churchill, autore di un poema satirico sugli attori contemporanei, The Rosciad (1761), nel quale lodava Miss Pope. Il riferimento alle labbra di miele (“honeycomb lips”) era nel poema di Churchill un’allusione a Polly Honeycombe, personaggio dell’omonimo racconto drammatico in un atto di George Colman the Elder, recitato appunto da Miss Pope. 156 Personaggio di The Devil to Pay (1731), un’opera di Charles Coffey.

64 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

ultimi con le sue due buffonate ci ha incantato e fatto dimenticare i nostri dolori. Cercheremo di rammentare i suoi ritratti per ottenerle la simpatia di coloro che forse non hanno avuto il vantaggio di vedere questa impareggiabile collezione di Highgate.

La recitazione di Munden 157 Non molte sere fa ero tornato a casa dopo aver visto questo straordinario attore nella parte di Cockletop, 158 e quando sono andato a letto la sua strana immagine mi è rimasta appiccicata e non mi faceva dormire. Invano ho tentato di togliermela di dosso associandovi le cose più diverse. Decisi di essere serio e sollevai le questioni più gravi della vita, dell’infelicità personale, delle calamità pubbliche. Ma niente funzionava:

Lì stava seduto il buffone A deridere la nostra condizione –159 la sua bizzarra fisionomia, lo sconcertante costume, tutte le cose curiose che aveva messo assieme, la frusta serpentina che gli penzolava dalla tasca, la lacrima di Cleopatra e tutte le altre reliquie, la feroce satira di O’Keeffe, e il suo commento ancora più feroce, finché la forza della comicità, come l’eccessivo dolore, si liberò del suo stesso peso invitando il sonno che all’inizio aveva tenuto lontano. Ma non sarei sfuggito così facilmente. Appena fui addormentato la stessa immagine, solo più sconcertante, mi assalì in forma di sogno. Non un solo Munden, ma cinquecento Munden mi danzavano davanti, come i volti che appaiono, che lo vogliate o no, quando avete fumato dell’oppio – tutte le strane espressioni che costui, che era il più strano di tutti gli strani mortali, aveva assunto sul suo vero volto, dal giorno in cui fu ingaggiato per asciugare le lacrime della città che piangeva la perdita di Edwin, 160 ora quasi dimenticato. Se la penna avesse potuto fissarle quando mi svegliai! Una o due stagioni fa fu esposta una collezione di quadri di Hogarth; non vedo perché non ci dovrebbe essere una collezione di ritratti di Munden. Per ricchezza e varietà questa non sarebbe affatto inferiore a quella. C’è un volto di Farley, un volto di Knight, uno (e che volto!) di Liston, ma Munden non ha un volto che si possa propriamente fissare e dire suo . Quando pensate che abbia esaurito la sua riserva di espressioni, tutte inspiegabilmente in conflitto con la vostra serietà, all’improvviso spunta

157 L’articolo apparso nell’ottobre 1822 sul London Magazine (cfr. nota 80) era stato ripreso da Lamb con lievi modifiche da quello pubblicato su The Examiner nei giorni 7 e 8 novembre 1819. 158 In The Farce of the Modern Antiques, or the Merry Mourners (La farsa delle antichità moderne, o Gli allegri piagnoni), farsa di John O’Keeffe (1747-1833), 1792. 159 Richard II , 3.2.162-163. 160 Il riferimento è a John Edwin the Elder.

65 Charles Lamb, Theatralia

fuori con una serie completamente nuova, come l’Idra. 161 Non è uno solo, ma una legione, non un attore comico ma un’intera compagnia. Se si potesse moltiplicare il suo nome come il suo aspetto, potrebbe riempire un programma di sala. Lui, e solo lui, cambia faccia letteralmente; per qualsiasi altra persona la frase è solo una figura che denota certe modificazioni del volto umano. Lui cerca dei volti in qualche invisibile guardaroba, come il suo amico Suett fa con le parrucche, e li tira fuori con altrettanta facilità. Non mi sorprenderebbe vederlo un giorno tirare fuori la testa di un ippopotamo o uscirsene come una pavoncella, in una qualche metamorfosi pennuta. Ho visto questo attore così dotato in Sir Christopher Curry, nel vecchio Dornton, 162 far ardere un sentimento che ha fatto battere all’unisono il polso di un teatro affollato, quando è venuto in aiuto al pulpito, facendo del bene alla moralità della gente. Ho visto in altri attori una debole somiglianza con questo genere di eccellenza, ma nella grandiosa farsa burlesca Munden emerge solitario come Hogarth. Hogarth, strano a dirsi, non ebbe seguaci. La scuola di Munden è cominciata e deve finire con lui. Chi può meravigliarsi come lui? Chi può vedere fantasmi come lui? O lottare con la sua ombra, “Sessa”, 163 come fa lui in quella pièce stranamente dimenticata, The Cobbler of Preston (Il ciabattino di Preston ),164 dove le sue trasformazioni da ciabattino a nobile, e da nobile a ciabattino, tengono il cervello degli spettatori in vivo fermento come se fossero recitate davanti a loro le Mille e una notte ? Chi come lui può rendere straordinariamente interessanti gli oggetti più comuni della vita quotidiana, o provare a farlo? Un tavolo o uno sgabello, immaginati da lui, assumono una dignità pari al trono di Cassiopea: diventano di un’importanza stellare. Non se ne parlerebbe con più rispetto se fossero ascesi al firmamento. Un mendicante, dice Fuseli, 165 nelle mani di Michelangelo diventò il Patriarca della povertà; così il gusto di Munden rende antico e nobile tutto ciò che tocca. Le sue pentole e i suoi mestoli sono grandiosi e primordiali come le pignatte e le falci nell’antica visione profetica. 166 Un mastello di burro, considerato da lui, equivale a un’idea platonica. Lui capisce una coscia di montone nella

161 L’Idra di Lerna è un mostro mitologico, sconfitto da Ercole: aveva un numero impressionante di teste che ricrescevano doppie appena tagliate. 162 Personaggi rispettivamente di Inkle and Yarico , opera comica su libretto di George Colman the Younger e musica di Samuel Arnold (1787), e della commedia The Road to Ruin (La strada verso la rovina) di Thomas Holcroft (1792). 163 Esclamazione di significato incerto usata da Shakespeare. 164 Commedia basata su The Taming of the Shrew (La bisbetica domata) scritta nel 1716 da Charles Johnson. 165 Johann Heinrich Füssli (conosciuto in Inghilterra come Henry Fuseli, 1741-1825), pittore e letterato romantico nato a Zurigo ma vissuto prevalentemente in Inghilterra e in Italia. 166 Possibili riferimenti a Geremia 1.13, Giobbe 41.1-2 e 20, e Isaia 2.4.

66 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

sua quiddità. Sta lì a meditare, tra gli oggetti comuni della vita, come un uomo primitivo con attorno il sole e le stelle.

L’addio di Munden 167 Chi va regolarmente a teatro dovrebbe mettersi a lutto perché il re della commedia popolare è morto per il palcoscenico. Ahimè! Munden non c’è più! – date il via al dolore. Può ancora passeggiare in città, camminare per strada come se vivesse, può mangiare, bere e salutare gli amici con tutta l’apparenza della realtà; ma Munden, quel Munden, il Munden con un mucchio di fisionomie, un sacco di volti, è andato via per sempre lontano dalle luci e, per quanto riguarda la commedia, è morto quanto Garrick! Quando un attore si ritira (metteremo l’idea del suicidio nel modo più dolce possibile) quante persone di valore muoiono con lui! Insieme a Munden Sir Peter Teazle ha un colpo, Sir Robert Bramble rende l’anima, Crack smette di respirare. Senza Munden che ne sarà di Dozey? Dove cercheremo Jemmy Jumps? Nipperkin 168 e un migliaio di altri ammirevoli lazzi si riducono a niente, e la dipartita di Munden è una calamità drammatica. La serata in cui questo inestimabile umorista prese congedo dal pubblico, fu anche la sua beneficiata – un beneficio cui il pubblico non partecipò di certo. In cartellone c’era Poor Gentleman (Il povero gentiluomo) di Colman con la farsa Past Ten o’Clock (Dopo le dieci) di Tom Dibdin. Lettori, noi tutti conosciamo Munden nella parte di Sir Robert Bramble e del vecchio Dozey con la pelle color tabacco; abbiamo visto tutti l’anziano cordiale baronetto con il mantello celeste color del cielo e il raffinato tricorno, e abbiamo visto tutti il vecchio pensionato segnato dal tempo, il caro vecchio Dozey, andare su e giù per il palcoscenico con l’uniforme di colore blu intenso, ubriaco che di più non si può sperare e intrepido nel ricordare. In questa serata Munden sembrava, come il gladiatore, “raccogliere tutta l’energia vitale per morire”; poiché eravamo presenti a questa grande esibizione della sua forza, e poiché questa sarà l’ultima occasione che ci sarà mai offerta di parlare di questo ammirevole attore, “gli dedicheremo”, come dice il vecchio John Buncle, 169 “un paragrafo”. Il teatro era pieno. Pieno! Puah! È una parola vuota! Il teatro era colmo, stipato di persone – stipato dalla porta di ingresso in platea fino all’ultimo

167 Pubblicato sul London Magazine nel luglio 1824. L’articolo non è firmato ma è stato attribuito a Lamb dal figlio di Munden, Thomas Shepherd Munden, che fu anche biografo del padre. Si vedano anche ultra , le note 236 e 237. 168 La lista di personaggi fa riferimento rispettivamente alle seguenti commedie: The School for Scandal di Sheridan, The Poor Gentleman di Colman (citato anche successivamente), The Turnpike Gate (La barriera, 1799) di Thomas Knight, Past Ten O’Clock, and a Rainy Night (1815) di Thomas Dibdin, The Farmer (L’agricoltore, 1787) di John O’Keeffe, Sprigs of Laurel (Rami di alloro, 1796), sempre di O’Keeffe. 169 Riferimento a The Life of John Buncle, Esq. (Vita di John Buncle, 1756), romanzo di Thomas Amory (1691?-1788), libro amato da Hazlitt e da Lamb.

67 Charles Lamb, Theatralia

posto sul fondo del loggione a uno scellino. Nel gergo di un vinaio si potrebbe dire che un quartino di pubblico era stato aggiunto a forza in un litro di teatro. Tutti i londinesi cordiali, frequentatori di teatri, che si ricordavano di Munden anni prima, avevano trovato il coraggio e il denaro per questa beneficiata e perciò non erano poche le persone di mezz’età. La commedia 170 scelta per l’occasione procede a lungo senza nessuno che la conduca – fino al terzo o quarto atto quando, mi sembra, Sir Robert Bramble non fa la sua comparsa sul palcoscenico. Quando Munden entrò in scena fu ricevuto in modo sincero, rumoroso, esagerato: cappelli e fazzoletti che sventolavano, urla assordanti, un sonoro battere di bastoni – in quest’occasione si ricorse a tutti i vari modi in cui il cuore è abituato a manifestare la sua gioia. Mrs. Bamfield distrusse un ventaglio da due soldi agitandolo finché si trovò a muovere solo dei ferretti nudi. Mr. Whittington ruppe il bastone del suo nuovo ombrello da quasi mezza sterlina. La gratitudine fece grandi danni in quell’occasione festosa. Il vecchio attore, il veterano, come giustamente disse di se stesso nel discorso di commiato, era davvero sopraffatto: teneva le mani giunte, ne premeva una saldamente sul petto, si inchinava, andava di qua e di là, piangeva. Quando il rumore cessò (come invariabilmente accade alla fine) la commedia procedette, e Munden offrì uno splendido ritratto del ricco, vecchio baronetto scapolo, eccentrico e caritatevole, che gira con Humphrey Dobbin alle calcagna e la filantropia nel cuore. In che modo scontroso eppure gentile reagisce alle contraddizioni di Humphrey, come si mette subito nella condizione di ribattere, con quanta tenerezza libera il suo cuore quando viene a sapere del duello di Frederick. In verità Munden recitò Sir Robert nel modo più perfetto, e fu impossibile non sentire mescolato al piacere il rammarico che fosse lì, davanti a noi, per l’ultima volta. Nella farsa diventò sempre più divertente. Il vecchio Dozey è un prodotto di Greenwich. La faccia color bronzo come il collo, la lunga palandrana, i capelli bianchi in disordine, l’inclinazione, il debole per il grog, sono tutti di Greenwich. Munden nel ruolo di Dozey sembra non essere mai stato lontano dall’azione, dal sole e dall’alcol. Sembra (ahimè, sembrava!) a prova di fuoco. Il volto e la gola erano secchi come un chicco di uvetta e le sue gambe si muovevano per effetto del rum con l’indecisione che quella inestimabile bevanda in genere provoca. È in realtà ondeggiare, non camminare. Vira davanti a un tavolo e la marea del grog di tanto in tanto lo conduce fuori strada. Quella sera sembrava destinato a cadere in azione, e perciò lo guardavamo come si dice che alcuni marinai della Victory guardassero Nelson, con la consapevolezza che era l’ultima volta che mostrava il suo impeto e la sua uniforme. Nella scena in cui Dozey descrive una battaglia navale, l’attore fu grande come non mai, e sembrava la

170 The Poor Gentleman (1806) di George Colman the Younger.

68 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

personificazione di una vecchia cannoniera! Il mantello penzolava come una bandiera a poppa, la sua fisionomia non era meno scura di uno di quei visi lucidi che in genere sono al comando di una nave. C’era qualcosa di gravoso, incerto e impressionante nelle sue virate. Una volta al largo, sembrava impossibile che andasse a ormeggiarsi e una volta all’ancora, non sembrava facile farlo salpare. Comunque, arrivò il momento in cui il sipario calò e fu finita per Munden. Era terminata la farsa della serata, era terminata la farsa di una commedia lunga quarant’anni. Venne avanti non nei panni di Dozey, ma in quelli di Munden, e lo udimmo rivolgersi a noi dal palcoscenico per l’ultima volta. Si affidò – poco saggiamente, crediamo – a un foglio scritto. Lesse di “ricordi accorati” e di “impressioni indelebili”, balbettava e si premeva sul cuore, e si metteva gli occhiali e prendeva delle papere leggendo i ringraziamenti, e si asciugava gli occhi, si inchinava e si rialzava, e alla fine uscì per sempre barcollando. Il programma del suo addio era pessimo, ma la lunga vita di perfezione che rese patetico il suo commiato superò ogni difetto, e il pubblico e Joe Munden si separarono da innamorati. Bene! Addio al Vecchio Cuore Generoso. Possa il tuo ritiro essere pieno di riposo come la vita pubblica fu piena di meriti. Dobbiamo tutti avere il nostro spettacolo di addio, uno alla volta.

Autobiografia di Mr. Munden 171 Sentite, Signor Editore, una parola all’orecchio. Mi dicono che mi stamperete – mi stamperete, signore; che pubblicherete la mia vita. Ma che cosa vi importa della mia vita, signore? Che cosa vi importa che io abbia vissuto? La mia vita è una vita buonissima, signore. Sono assicurato con la Pelican, signore. Ho sessantasei anni – sei, attenzione signore; ma posso recitare Polonio, cosa che credo pochi dei vostri corri – corrispondenti possano fare, signore. Sospetto che sia uno scherzo, signore; sento puzzo di bruciato, è vero, è vero. Volete barare con me, lo volete davvero. Ma ve lo impedirò, signore. Vorreste farmi discendere da Guglielmo il Conquistatore, accidenti a voi. Ma non è affatto vero e la gente lo sa: hanno cominciato a subodorare i vostri trucchi, signore. Mr. Liston può essere nato dove desidera, signore, ma io non voglio essere nato a Lup – Lupton Magna per far piacere a qualcuno, signore. Mio figlio e io abbiamo guardato insieme la grande mappa del Kent e non abbiamo trovato questo posto che vorreste imporci, signore – imporci, dico. Né Magna né Parva, dice mio figlio; e lui sa il latino, signore – il latino. Se scrivete la mia vita vera, signore, dovete scrivere che io, Joseph Munden, attore comico, sono venuto al mondo il giorno di Ognissanti, nell’anno del Signore 1759 – 1759; né prima né dopo, signore; e che ho visto la luce – la luce, ricordate,

171 Pubblicato su London Magazine nel numero di febbraio 1825. Si tratta ovviamente di un’autobiografia fittizia.

69 Charles Lamb, Theatralia

signore, a Stoke Pogis – Stoke Pogis, comitatu Bucks, 172 e non a Lup – Lup Magna che io credo non sia altro che una fandonia – una fandonia, mi sentite, signore? Mi chiedo come possiate dire queste sciocchezze su di me; davvero, sul serio. Non è da voi, signore; dico io – dico io. E mio padre era un onesto negoziante, signore: commerciava in malto e luppolo, signore, e apparteneva a una corporazione, signore, e alla Chiesa di Inghilterra, signore, non era un presbiteriano, né un ana – anabattista, signore, per quanto voi siate disposto a far credere il contrario alla gente onesta, signore. Le vostre bufale sono state scoperte, signore. La città non sarà più la vostra discarica, signore; e voi non dovete più avvilire noi gente allegra, signore – noi che siamo attori comici – non dovete avvilirci, signore. Niente sepolcri, signore. Non è nella nostra costituzione, signore, ve lo dico io – ve lo dico io. Ero un animale buffo fino dalla culla. Venni al mondo ridacchiando, e la levatrice ridacchiava, e le donne versarono il cordiale a forza di ridere e quando fui portato al fonte battesimale il parroco non mi poté battezzare dal ridere. Così non sono mai stato battezzato più che a metà. E quando ero il piccolo Joey, li facevo ridere tutti: non si vedeva neanche una faccia triste a Pogis. Solo natura, signore: ero nato comico. Il vecchio Screwup, il becchino, potrebbe dirvelo, signore, se fosse ancora vivo. Bene, ero obbligato a starmene chiuso ogni volta che c’era un funerale a Pogis. Sì sì – davvero, signore! Facevo le boccacce ai muli, come diceva lui, e li disturbavo con versacci e smorfie tanto che non stavano fermi davanti a una porta per colpa mia. E quando ero chiuso in casa e c’era solo un gatto a tenermi compagnia, seguivo la mia inclinazione, cercando di farlo ridere; qualche volta lo faceva e qualche volta no. Il mio maestro non mi capiva. Bastava che spingessi la lingua contro la guancia – contro la guancia, signore – e la verga gli cadeva di mano; così la mia istruzione è stata limitata, signore. Poi diventai un ragazzo e si pensò fosse opportuno farmi intraprendere una qualche professione che mi facesse diventare serio; ma non funzionò, signore. Diventai apprendista presso un mesticatore. Mio padre gli dette quaranta sterline come compenso per il mio addestramento, signore. Posso mostrare il cont – con – contratto, signore. Ma ero nato per fare il comico, signore; così scappai via e mi misi con gli attori, signore. E recitai al meglio a Amersham e a Gerrards Cross, e recitai mio padre davanti a lui, nella sua città di Pogis, nel ruolo di Gripe, quando non avevo ancora diciassette anni; e lui non mi riconobbe, ma dopo mi riconobbe e allora rise e io risi e, meglio ancora, il mesticatore rise e rinunciò alle condizioni del contratto per via dello scherzo; e così dopo andai in tribunale con le mani pulite – con le mani pulite – vedete, signore?

[Qui il manoscritto diventa illeggibile per due o tre fogli successivi, e pensiamo che la causa sia l’assenza di Mr. Munden junior che chiaramente

172 Cioè nella contea del Buckinghamshire.

70 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

l’ha trascritto per la stampa fino a questo punto. Il resto (a eccezione del paragrafo conclusivo, che apparentemente riprende con la prima grafia) sembra contenere un confuso resoconto di una qualche causa legale in cui fu impegnato Munden padre, con una storia circostanziata degli atti di un caso di rottura di una promessa di matrimonio, fatta a o da Jemima Munden, zitella – forse la cugina del comico, perché non pare che avesse sorelle; con delle date, conservate meglio, degli impegni di questo grande attore – del tipo “Cheltenham [scritto Cheltnam], 1776”, “Bath, 1779”, “Londra, 1789”, con gli aneddoti teatrali di Edwin, Wilson, Lee, 173 Lewis, ecc., sui quali ci siamo sforzati gli occhi senza risultato, nella speranza di offrire al pubblico qualcosa di divertente. Verso la fine, il manoscritto diventa un po’ più chiaro, come abbiamo detto, e si conclude in questo modo:]

– stato davanti a loro per trentasei anni [immaginiamo che qui Mr. Munden stia parlando del suo addio finale alle scene] per essere infine mandato via. Ma sono stato su di spirito fino alla fine, signore. Che vuol dire se qualche lacrima è scesa sulle guance del vecchio veterano – chi poteva evitarle, signore? Sono stato un gigante quella sera, e avrei potuto recitare cinquanta parti, ognuna difficile come Dozey. Le mie capacità non sono mai state migliori, signore. Ma dovevo essere riposto sullo scaffale. Non andava più bene al pubblico ridere con il loro vecchio servitore, signore. [in questo punto un po’ di umidità ha cancellato una o due frasi.] Però posso ancora interpretare Polonio, signore; davvero, sul serio. Servo vostro, signore Joseph Munden

Biografia di Mr. Liston 174 Il soggetto di questa Biografia discende in linea diretta da Johan de L’Estonne (si veda il Domesday Book ,175 dove è scritto così), che arrivò con il Conquistatore ed ebbe in ricompensa delle terre a Lupton Magna, nel Kent. Fabyan, 176 sulla cui autorità mi baso, ha dimenticato di specificare i suoi meriti particolari e i servizi resi, o forse non l’ha ritenuto importante. Fuller 177 pensa che fosse un alfiere di Hugo de Agmondesham, un potente

173 Si tratta forse di James Nathaniel Lee, un attore non famoso ma molto attivo al Covent Garden. 174 Pubblicato sul London Magazine nel gennaio 1825. L’articolo non era firmato ma in una lettera scritta a Miss Hutchinson Lamb se ne attribuiva la paternità e si vantava di aver inventato totalmente questa biografia che invece era stata presa per vera e ripubblicata su giornali e programmi teatrali. 175 Censimento ordinato da Guglielmo il Conquistatore e terminato nel 1086. 176 Robert Fabyan (morto nel 1513 circa), autore di una Cronaca di Francia e Inghilterra , che narrava storie parallele delle due nazioni dalla creazione al regno di Enrico VII Tudor, e che fu pubblicata postuma nel 1516. 177 Thomas Fuller (1608-1661), religioso e storico.

71 Charles Lamb, Theatralia

barone normanno che fu ucciso per mano di Aroldo stesso nella fatale battaglia di Hastings. Sia come sia, qualche secolo dopo troviamo in quella contea una famiglia florida che porta quel nome. John Delliston, cavaliere, era High Sheriff del Kent, secondo Fabyan, quinto Henrici Sexti ; e se ne può rintracciare la linea genealogica discendente – l’ortografia varia secondo l’uso instabile del tempo, da Delleston a Leston o Liston, tra i quali pare si alternasse finché, nell’ultima parte del regno di Giacomo I, finalmente si fissò nella forma bisillabica definita e piacevole che mantiene ancora. Aminadab Liston, il più anziano rappresentante della famiglia a quel tempo, apparteneva alla setta più rigida dei puritani. Mr. Foss, di Pall Mall, mi ha gentilmente informato di un trattato sicuramente suo, che ha solo le iniziali A. L. ed è intitolato “Lo specchio ridente, ovvero il Ritratto dell’attore, dove la fisionomia oltraggiosa di indecenti istrioni della scena si riflette potentemente sulle loro mostruosità mimiche, come ha (finora) brutalmente corrotto i suoi adepti con vili vanità”: uno strano titolo, che però mostra quelle stesse assurdità di cui abbondavano i frontespizi di quell’epoca creatrice di libelli. L’opera reca la data 1617; precedette Histriomastix 178 di quindici anni e, anche se l’ha preceduto nel tempo non ne è però molto lontano come virulenza. È divertente trovare un antenato di Liston che getta fango sugli attori all’inizio del diciassettesimo secolo in questo modo: “Pensa forse (l’attore) con le sue stitiche smorfie di strappare un’anima angosciata al suo dolore, o deturpando la divina denotazione di dignità destinata (degnamente descritta nel volto umano e in nessun altro luogo) di riproporre la similitudine del paradiso con un’approssimazione nuova e scandalosa (non come prima intenzione) di quelle corrispondenze aborrite, brutte e proibite da Dio, con il gergo canzonatorio di scimmie beffarde, e balbettando come babbuini, di distorcere l’aspetto di ogni misura modesta, come se i nostri peccati non fossero sufficienti a piegarci la schiena senza che lui strappi e pieghi le sue membra per un’allegria inopportuna (o piuttosto per malvagità) in modo deforme, lanciando occhiate lascive quando dovrebbe imparare, ciarlando invece di pregare, strabuzzando gli occhi (che farebbe meglio a volgere in alto in cerca di grazia), laddove nel Paradiso terrestre (se possiamo spingerci così in alto per la sua professione) quel demoniaco serpente appare per certo il suo predecessore dotandosi per primo di una maschera come un qualche Roscio corrotto e chiassoso (sputo su tutti loro) per ingannare con spettacoli da palcoscenico la Donna in ammirazione, il cui sesso è stato sempre il principale sostenitore di

178 Hystriomastix: the Players Scourge (Histriomastix: la frusta dell’attore, 1632) è un’invettiva contro il teatro scritta dal puritano William Prynne; l’autore fu condannato alla gogna e al taglio delle orecchie, ma il saggio rappresenta bene il culmine della polemica e delle accuse contro gli attori che avrebbe di lì a poco, all’inizio della guerra civile, portato alla chiusura dei teatri.

72 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

questi Misteri e si vocifera che sia il principale frequentatore di teatri dove, mi si dice, l’abitudine è comunemente quella di biascicare (negli intervalli) mele, non ambiguamente derivate da quel frutto funesto (peggiore nei suoi effetti del pomo della discordia), e dove talvolta i fischi di dissenso, sento dire, fanno risuonare in modo vivace quelle uscite serpentine e diaboliche nel Paradiso terrestre”. La vivacità puritana dei primi presbiteriani sembra essersi calmata con il tempo e l’opinione degli antenati più vicini al nostro soggetto piano piano pare placata in una specie di calvinismo moderato. Comunque, ci si poteva aspettare un po’ del vecchio pregiudizio tra i posteri di A. L. Il nostro eroe era l’unico figlio di Habakkuk Liston, stabilitosi come ministro anabattista sul suolo ereditato dai suoi antenati. C’è un documento formale, registrato in questo modo nel libro della chiesa a Lupton Magna: “Johannes, filius Habakkuk er Rebeccae Liston, Dissentientium, natus quinto Decembri, 1780, baptizatus sexto Februarii sequentis; Sponsoribus J. et W. Wollaston, una cum Maria Merryweather”. La stranezza di un ministro anabattista che si conforma ai riti battesimali della Chiesa mi avrebbe invogliato a dubitare dell’autenticità di questa annotazione, se non mi fosse stata fatta leggere come favore personale da Mr. Minns, l’amministratore intelligente e rispettabile della chiesa di Lupton. Forse l’aspettativa di vantaggi terreni da parte di alcuni dei protettori potrebbe aver indotto questa deviazione impropria, tale deve essere sembrata, dalla pratica e dai principi di quella setta generalmente rigida. Il termine Dissentientium forse era inteso dal religioso ortodosso come una critica per la presunta incongruenza. Che cosa o di quale natura fossero le aspettative cui abbiamo accennato, ora non abbiamo modo di appurare. Ormai dei Woollaston non c’è traccia in paese, mentre il nome di Merryweather si trova sull’insegna di un negozio di droghiere all’estremità occidentale di Lupton. Del piccolo Liston non ci sono eventi registrati prima dei quattro anni quando un serio attacco di morbillo rischiò di privare la generazione successiva di un capitale di divertimento innocente. La sua malattia era del tipo più grave e per una settimana o due si disperò di salvare la vita del bambino. La sua guarigione, lui l’ha sempre attribuita (dopo che al cielo) all’intervento umano di un certo Dr. Wilhelm Richter, un praticone tedesco, che in quel momento difficile prescrisse una abbondante dieta di sauer- kraut , e si vide che il bambino ne mangiava avidamente, quando ogni altro cibo lo disgustava: da questo cambio di dieta la sua ripresa fu rapida e completa. Gli abbiamo sentito spesso citare questa circostanza con gratitudine e non è assolutamente sorprendente che per tutta la vita l’abbia accompagnato il piacere per questo tipo di alimento, così ripugnante e sgradevole per i normali gusti inglesi. Quando è invitato a cena da

73 Charles Lamb, Theatralia

qualcuno dei suoi amici, Mr. Liston non manca mai di trovare accanto al coltello e alla forchetta un piatto di sauer-kraut . A nove anni eccolo sotto la tutela del Rev. Goodenough (dato che la salute di suo padre probabilmente non gli permetteva di dargli lui stesso un’istruzione) dal quale imparò una buona quantità di greco e di latino, oltre a un po’ di matematica, fino a che la morte di Mr. Goodenough, a settant’anni quando Liston ne aveva undici, mise fine per il momento ai suoi progressi classici. Abbiamo sentito il nostro eroe descrivere, con un’emozione che fa onore al suo cuore, le terribili circostanze della morte di questo rispettabile anziano gentiluomo. Sembra che stessero passeggiando insieme, maestro e allievo, in un bel tramonto più di un chilometro a ovest di Lupton, quando Mr. Goodenough ebbe l’improvvisa curiosità di guardare giù da un crepaccio dove di recente era stato scavato un pozzo per una speculazione mineraria (che Sir Ralph Shepperton, cavaliere e membro del parlamento per la contea stava allora progettando ma che fu abbandonata subito dopo). L’anziano religioso, sporgendosi, o per disattenzione o per un’improvvisa vertigine (probabilmente l’insieme delle due cose), di colpo perse l’appoggio e, per usare la frase di Mr. Liston, scomparve, e sicuramente fu ridotto in un migliaio di pezzi. Il rumore della sua testa, ecc., che sbatteva via via sui massi sporgenti del precipizio fece così effetto al bambino che gli venne una seria malattia; e per molti anni persino dopo che si era ristabilito non fu mai visto sorridere neanche una volta. La morte di tutti e due i genitori, che avvenne non molti mesi dopo questo incidente disastroso e forse ne fu accelerata (per uno dei due o per entrambi), mise il giovane sotto la protezione della prozia materna, Mrs. Sittingbourn. Non l’abbiamo mai sentito parlare di questa zia se non in termini quasi reverenziali. Ha sempre attribuito ai consigli e ai modi di lei la fermezza con cui in anni più adulti è stato in grado, pur vivendo una vita generalmente non la più adatta all’austerità e alla solitudine, di mantenere un carattere serio, non alterato dalle frivolezze connesse alla sua professione. Ann Sittingbourn (ne abbiamo visto il ritratto fatto da Hudson) era imponente, rigida, alta, con delle fattezze straordinariamente somiglianti al soggetto di questa memoria. La sua tenuta nel Kent era vasta e piena di verde; la casa era una di quelle venerabili dimore che colpiscono nell’infanzia e non sono facilmente dimenticate negli anni successivi. Nell’antica solitudine di Charnwood, all’ombra fitta di querce e di betulle (il suo albero preferito), il giovane Liston si dedicò alle abitudini contemplative che non l’hanno mai più completamente abbandonato. Lo si incontrava di solito nei mesi estivi che meditava con un libro in mano – non un testo drammatico. Per un po’ il volume amato furono le Riflessioni di Boyle che fu poi sostituito da Night Thoughts (Pensieri notturni) di Young, un libro che per tutta la vita ha continuato a far presa su di lui. Se lo porta

74 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

sempre dietro, e non è insolito vederlo, quando riposa nei momenti di pausa della sua occupazione, appoggiato a una quinta, in una posizione alla Herbert of Cherbury, 179 che sfoglia un’edizione tascabile del suo autore preferito. Ma la solitudine di Charnwood non era destinata a oscurare per sempre il cammino del nostro giovane eroe. La morte prematura di Mrs. Sittingbourn, a settant’anni, causata dall’incauto uso di un braciere di carbone nella sua camera, lo lasciò a diciannove anni quasi senza risorse. Il fatto che proprio il teatro si presentasse come il luogo idoneo per il suo talento e, in particolare, che scegliesse una linea così lontana da quella che sembrava la sua inclinazione, potrebbe richiedere una qualche spiegazione. A Charnwood, dunque, lo vediamo pensieroso, serio e ascetico. Fino dalla culla era avverso alla carne e ai liquori forti; astemio persino al di là della disposizione del luogo e quasi contro le rimostranze della sua prozia, severa ma non rigida – la sua bevanda abituale era l’acqua, e il suo cibo poco più che noci e ghiande dei suoi alberi preferiti. È un dato medico che questo tipo di dieta, per quanto favorevole alla forza contemplativa dei primitivi eremiti, etc., sia poco adatta alle menti e ai corpi meno robusti delle generazioni successive. Ne deriva quasi sempre l’ipocondria, e così fu nel caso del giovane Liston. Divenne preda di deliri e aveva visioni. Quelle ghiande aride, distillate da una costituzione riarsa per natura, salirono in un occipitale già pronto ad infiammarsi a causa della lunga reclusione e per lo zelo delle rigide idee calviniste. Nella depressione di Charnwood fu assalito da allucinazioni di genere simile a quelle di cui si parla a proposito di Sant’Antonio da Padova. Volti folli di buffoni di tanto in tanto si affacciavano al suo sensorio. Che chiudesse gli occhi o li tenesse aperti, erano sempre presenti le stesse visioni. Più i suoi pensieri erano oscuri e profondi, più le apparizioni erano bizzarre e buffe. Gli ronzavano intorno fitte come mosche, urtandolo, deridendolo, gridandogli nell’orecchio, eppure con delle appendici così comiche che ciò che prima era un tormento alla fine diventò un sollievo, e lui non desiderò compagnia migliore di quella offerta da questi allegri fantasmi. Ora vedremo in che modo questo notevole fenomeno influenzò il suo futuro destino. Alla morte di Mrs. Sittingbourn lo troviamo accolto nella famiglia di Mr. Willoughby, un illustre mercante, residente in Birchin Lane, a Londra, che faceva affari con la Turchia. Qui perdiamo un po’ il filo della sua storia – e non sappiamo quali motivi spinsero questo gentiluomo a decidere di ospitarlo a casa sua. Forse aveva avuto dell’affetto per Mrs. Sittingbourn in passato ma, comunque fosse, il giovane era trattato più come un figlio che come impiegato, anche se ufficialmente non era che questo. Svaghi diversi, il cambio di scena, con l’alternanza di lavoro e divertimento che si può

179 Il riferimento è al ritratto di Edward Herbert of Cherbury, fatto da Isaac Oliver nel 1610, in cui il nobile è ripreso mentre si riposa sotto un albero.

75 Charles Lamb, Theatralia

avere nella sua forma più perfetta solo a Londra, sembra che l’abbiano liberato in breve tempo dalle manifestazioni ipocondriache che l’avevano assalito a Charnwood. Nei tre anni che seguirono il suo trasferimento in Birchin Lane, sappiamo che fece più di un viaggio in Oriente, in qualità di agente di Mr. Willoughby presso la Sublime Porta. Sarebbe facile riempire la nostra biografia con i brani divertenti che gli abbiamo sentito raccontare come accaduti a Costantinopoli – come quando fu preso perché sospettato di aver progettato di entrare nel Serraglio ecc. –, ma pur essendo convinti della sincerità di questo gentiluomo pensiamo che alcune delle storie siano di natura così strana e altre di natura così romantica che, pur essendo divertenti, sarebbero fuori posto in una narrazione di questo tipo, che tende non solo alla pura verità ma anche a evitare persino l’apparenza del contrario. Ora lo riporteremo di nuovo sul mare e lo immaginiamo nell’ufficio commerciale in Birchin Lane, dove il suo protettore è soddisfatto del ritorno del suo agente, e tutto va così bene che ci aspetteremmo di trovare alla fine Mr. Liston divenuto un ricco mercante presso la Borsa, come la chiamano. Ma guardate gli scherzi del destino! Durante una gita d’estate a Norfolk, nell’anno 1801, la vista casuale della bella Sally Parker, come si chiamava (allora nella compagnia di Norfolk), distolse di colpo la sua inclinazione dal commercio e fu, come si direbbe in una banale biografia, preso dal sacro fuoco del teatro. Ed è stato un bene per gli amanti dell’allegria che il nostro eroe abbia preso questa strada, altrimenti ora sarebbe un tipo per niente divertente: un laborioso mercante londinese. Pertanto, lo troviamo poco dopo che debutta, come si dice, sulle scene di Norwich, nella stagione di quell’anno, ormai ventiduenne. Avendo una naturale inclinazione per la tragedia, scelse la parte di Pirro in The Distressed Mother (La madre addolorata), 180 con Sally Parker come Ermione. Dopo lo troviamo nei ruoli di Barnwell, Altamont, Chamont, 181 etc., ma come se la natura l’avesse destinato al socco, una inevitabile malattia lo rese assolutamente inadatto alla tragedia. La sua persona, in quest’ultimo periodo di cui sto parlando, era piacevole e persino maestosa; la sua fisionomia inclinava alla serietà: aveva il potere di fermare l’attenzione del pubblico a prima vista quasi più di qualsiasi altro attore tragico, ma non riusciva a trattenerla. Per comprendere questo ostacolo, dobbiamo tornare indietro di qualche anno a quegli spaventosi sogni ad occhi aperti di Charnwood. Queste allucinazioni, che erano scomparse davanti alla distrazione di una vita meno reclusa e di una compagnia più libera, ora, nei

180 Tragedia di Ambrose Philips (1674-1749), scritta nel 1712 come traduzione e adattamento dell’ Andromaque di Racine. 181 Personaggi delle opere The London Merchant (Il mercante londinese) di George Lillo (1731), The Fair Penitent (1702) di Nicholas Rowe, e The Orphan (L’orfana) di Thomas Otway.

76 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

solitari studi drammatici e con l’intensa richiesta emotiva connessa alla recitazione tragica, ripresero con intensità decuplicata. A metà di qualche passaggio molto patetico (per esempio Jaffier 182 che prende congedo dall’amico morente), di colpo veniva sorpreso da un accesso di risate sguaiate. Mentre gli spettatori singhiozzavano tutti davanti a lui per l’emozione, all’improvviso una di quelle facce grottesche facevano capolino e lui non riusciva a resistere all’impulso. Una scusa tempestiva era servita allo scopo una o due volte, ma non ci si può aspettare che il pubblico tolleri ripetutamente questa violazione della continuità emotiva. Lui descrive queste visioni come fossero molti demoni che lo perseguitavano e paralizzavano ogni effetto. Persino ora, mi si dice, non può recitare il famoso soliloquio di Amleto neanche in privato, senza scoppiare smodatamente a ridere. Comunque, quello che non ebbe la forza razionale di vincere ebbe abbastanza buon senso di cambiare in profitto, e decise di fare della sua malattia un vantaggio. Sagacemente cambiò il coturno in socco e le visioni cessarono all’istante o, anche se per un po’ si presentarono, aiutavano ad aggiungere una nota vivace alla sua vena comica – alcune delle sue facce più attraenti sono (come dice lui) poco più che trascrizioni e copie di quegli straordinari fantasmi. Abbiamo delineato la vita del nostro eroe fino al periodo in cui stava per incontrare per la prima volta le simpatie del pubblico londinese. I particolari del suo successo da allora sono davanti agli occhi di tutti perché serva un resoconto dettagliato. Dirò solo che Mr. Willoughby, ora che il suo risentimento ha avuto il tempo di placarsi, è uno degli amici più veri del suo vecchio agente rinnegato; e che, dopo che le speranze di Mr. Liston su Miss Parker furono svanite con il suo fallimento al servizio di Melpomene, nell’autunno del 1811 sposò l’attuale moglie da cui ha avuto un figlio, Philip, e due figlie, Ann e Augustina.

L’illusione teatrale 183 Si sostiene che un’opera teatrale sia recitata bene o male in rapporto all’illusione scenica prodotta. Il problema non è se questa illusione possa comunque essere perfetta. Si dice che il momento più vicino a raggiungerla è quando l’attore sembra totalmente inconsapevole della presenza degli spettatori. Nella tragedia – in tutto ciò che deve suscitare emozioni – questa attenzione assoluta sul gioco scenico sembra indispensabile. Eppure, di fatto, i nostri più bravi attori tragici ne fanno a meno ogni giorno e anche se i riferimenti a un pubblico, sotto forma di invettiva o di emozione esagerata, non sono troppo frequenti o palesi, possiamo dire che ciò

182 Venice Preserved di Thomas Otway. 183 Il saggio fu pubblicato la prima volta col titolo Imperfect Dramatic Illusion (L’illusione drammatica imperfetta) su The London Magazine , il 1 agosto 1825; poi fu ripubblicato come Stage Illusion in The Last Essays of Elia , London, Edward Moxon, 1833.

77 Charles Lamb, Theatralia

nonostante si produce lo stesso una quantità di illusione sufficiente a suscitare interesse drammatico. Ma, a parte la tragedia, ci si può chiedere se in certi personaggi della commedia, specialmente in quelli un po’ bizzarri o che implicano una qualche idea contraria al senso morale, non sia una prova della migliore abilità dell’attore comico quando questi, senza assolutamente rivolgersi al pubblico, mantenga con esso una tacita intesa e lo renda, senza che gli spettatori se ne accorgano, parte della scena. Per farlo è richiesta la massima finezza; ma parliamo solo dei grandi artisti che esercitano questa professione. Il difetto più umiliante nella natura umana che proviamo in noi stessi o che vediamo negli altri è forse la vigliaccheria. Vedere un vigliacco fatto alla perfezione sul palcoscenico produce solo ilarità. Molti di noi ricordano i vigliacchi di Jack Bannister. Ci potrebbe essere niente di più divertente o di più piacevole? Amavamo questi furfanti. E questo, come avveniva se non per la perfetta arte dell’attore che subdolamente dava a intendere a noi spettatori che persino nel bel mezzo dell’attacco di panico non era neanche per metà vigliacco come noi lo consideravamo? Vedevamo in lui tutti i sintomi della malattia – il labbro tremante, le ginocchia che tremolano, i denti che battono – e avremmo potuto giurare che “quell’uomo era terrorizzato”. Ma dimenticavamo per tutto quel tempo – o lo tenevamo per noi quasi come un segreto – che lui non aveva perso mai il controllo neanche per una volta, che aveva rivelato con un migliaio di sguardi e gesti divertenti – indirizzati a noi e immaginati come invisibili ai suoi compagni in scena – che la sicurezza nelle sue risorse non l’aveva mai abbandonato. Era il ritratto genuino di un vigliacco o non piuttosto un’immagine che l’abile artista era riuscito a manipolare per noi al posto dell’originale, mentre segretamente eravamo conniventi con questa illusione, allo scopo di ottenere più piacere di quello che ci avrebbe dato una rappresentazione più genuina dell’imbecillità, dell’inettitudine e della rinuncia che sappiamo connesse alla vigliaccheria? Perché gli avari sono così detestabili nel mondo e così tollerabili sul palcoscenico se non perché l’abile attore, con una specie di allusione piuttosto che rivolgendosi direttamente a noi, spoglia il personaggio di un bel po’ della sua spregevolezza e sembra sollecitare la nostra compassione per come sono insicuri i suoi documenti e le borse del denaro? Attraverso questo sottile spiraglio metà dell’odiosità del personaggio – la chiusura su se stesso con cui nella vita reale si rannicchia lontano dalla simpatia umana – evapora. L’avaro diventa umano, cioè, non è un vero avaro. Di nuovo qui una somiglianza divertente sostituisce una realtà molto sgradevole. Il malumore, l’irritabilità, gli acciacchi penosi dei vecchi, che nella realtà producono solo dolore a vedersi, falsificati su un palcoscenico divertono non solo per le aggiunte comiche ma in parte anche per una convinzione interiore che vengano recitati davanti a noi, che siano solo simili al vero ma

78 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

non veri. Ci piacciono perché sono resi al di sotto della vita, o a lato, ma non come la vita vera . Quando Gattie recita la parte di un vecchio, è davvero arrabbiato? O è soltanto una piacevole finta, somigliante quanto basta per riconoscerla, senza imporci un inquietante senso di realtà? Per quanto sembri paradossale, gli attori possono essere fin troppo naturali. Questo era il caso di un vecchio attore. Niente poteva essere più serio o vero delle maniere di Mr. Emery; ciò funzionava in modo eccellente nel suo Tyke 184 e nei personaggi tragici. Ma quando portava nella commedia la stessa rigida e esclusiva attenzione al gioco scenico e la volontaria cecità e insensibilità per tutto ciò che stava oltre il sipario, produceva un effetto duro e dissonante. Non era in accordo con il resto delle dramatis personae . C’era tra lui e loro un legame esile quanto quello tra lui e il pubblico. Era un terzo stato: asciutto, scostante e antisociale con tutti. Considerata singolarmente la sua interpretazione era magistrale, ma la commedia non è questa cosa rigida – perciò non viene richiesto lo stesso grado di credibilità come nelle scene serie. Il grado di credibilità che viene richiesto ai due generi può essere esemplificato dal tipo diverso di verità che ci aspettiamo quando uno ci racconta una storia triste o una storia allegra. Nel primo caso, se sospettiamo che sia falsa anche per un nonnulla, la rifiutiamo totalmente. Le lacrime si rifiutano di scendere se sospettiamo un inganno, ma a chi racconta una storia allegra è concessa libertà d’azione. Ci contentiamo di molto meno della verità assoluta. Con l’illusione drammatica è la stessa cosa. Confessiamo che nella commedia ci piace vedere un pubblico ammesso dietro le scene – preso dall’interesse per il dramma, benvenuto come testimone, almeno. C’è qualcosa di sgarbato in un attore comico che si tiene distante dal partecipare o interessarsi a coloro che sono venuti perché lui li faccia divertire. Macbeth deve vedere il pugnale e dirlo solo a se stesso, ma un vecchio bacucco in una farsa può pensare di vedere qualcosa e esprimerlo con parole e sguardi consapevoli, nel modo più semplice possibile, alla platea, ai palchi e alla galleria. Quando un impertinente in una tragedia, un Osric 185 per esempio, rompe le passioni serie della scena, approviamo il disprezzo con cui viene trattato. Ma quando il piacevole insolente della commedia, in una pièce intesa puramente a dare piacere e a creare ilarità da situazioni bizzarre, disturbasse l’erudito facendogli perdere tempo, o occupando la sua casa, lo stesso genere di disprezzo espresso (sebbene naturale ) distruggerebbe l’equilibrio del piacere negli spettatori. Perché l’intrusione sia comica, l’attore che recita la parte dell’uomo infastidito deve lasciare un po’ perdere la natura; in breve, deve pensare al pubblico ed esprimere solo

184 Personaggio di The School of Reform, or How to Rule a Husband (La scuola della correzione; ovvero, Come dominare un marito, 1805), commedia di Thomas Morton (1764?-1838). 185 Personaggio secondario in Amleto : un cortigiano ridicolo che diventa lo zimbello del principe.

79 Charles Lamb, Theatralia

quel tanto di malcontento e di collera che sia coerente con il piacere della commedia. In altri termini, la sua confusione deve sembrare semi-fasulla. Se scaccia l’intruso con il viso sobrio e composto di un uomo che fa sul serio e specialmente se esprime le sue rimostranze in un tono che nella realtà provocherebbe senza dubbio un duello, questo suo modo realistico distrugge l’esistenza bizzarra e puramente drammatica dell’altro personaggio (che per renderla comica necessita di una comicità antagonista da parte di chi si trova davanti), e trasforma ciò che voleva essere oggetto di svago, piuttosto che di fede, in un esempio assoluto di sfacciataggine vera, che non susciterebbe in noi divertimento bensì sofferenza a vederla inflitta seriamente a qualunque degna persona. Un attore molto assennato (nella maggior parte dei suoi ruoli) pare essere incorso in un errore del genere recitando con Mr. Wrench nella farsa Free and Easy (Liberi e disinvolti). 186 Sarebbe noioso fare molti esempi: questi possono essere sufficienti a mostrare che la recitazione comica non domanda sempre all’interprete di astrarsi totalmente da ogni riferimento a un pubblico come è richiesto, ma che in alcuni casi può aver luogo una specie di compromesso e che si possono raggiungere tutti gli scopi del piacere teatrale con una intesa giudiziosa, non annunciata troppo apertamente, tra le signore e i signori di qua e di là dal sipario.

Barbara S 187 A mezzogiorno del 14 novembre 1743 o 1744 – non mi ricordo in quale dei due anni – non appena l’orologio ebbe suonato, Barbara S , con la sua solita puntualità salì la lunga scala sconnessa inframezzata da disagevoli pianerottoli, che conduceva all’ufficio o, meglio, a una specie di palco con dentro una scrivania, dove sedeva quello che allora era il tesoriere del vecchio Bath Theatre 188 (forse pochi dei nostri lettori lo ricordano). In tutto il paese era abitudine, e lo è ancora, credo, fino ad oggi, che gli attori ricevessero la paga settimanale il sabato. Non era molto quello che Barbara doveva avere. La ragazzina aveva appena compiuto dieci anni, ma la sua importante posizione nel teatro, tale le sembrava, insieme a quello che metteva via dei

186 Non è chiaro a chi faccia riferimento. La farsa Arbitration , or Free and Easy di Frederick Reynolds (1764-1841) secondo la Biographia Dramatica fu recitata al Covent Garden nella stagione 1806-1807, ma mai pubblicata. 187 Pubblicato su London Magazine , aprile 1825. Secondo Brander Matthews, la storia fu raccontata a Lamb dall’attrice Fanny Kelly, ma sicuramente lui vi mescolò molto di immaginario; di fatto dietro il nome fittizio di Barbara S. si cela la stessa Kelly. 188 Negli anni cui fa riferimento Lamb, il teatro doveva essere quello aperto nel 1723 a Bath, in Kingsmead Street, e chiuso definitivamente nel 1751, poi sostituito da un nuovo teatro in Orchard Street che divenne il primo Theatre Royal fuori Londra, nel 1768. Il proprietario del vecchio teatro di Bath era Mr. Dimond, non Diamond, come scrive Lamb.

80 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

suoi guadagni con diligente impegno, avevano dato un’aria di donna adulta al suo modo di camminare e di comportarsi. L’avreste presa per una persona più grande di almeno cinque anni. Fino a poco prima era stata semplicemente impiegata nei cori o dove c’era bisogno di bambini per riempire la scena. Ma l’impresario, vedendo in lei una precisione e un’abilità al di sopra della sua età, da qualche mese le aveva affidato l’interpretazione di parti intere. Potete immaginare l’importanza che Barbara si dava per questa promozione. Aveva già pianto nel ruolo del giovane Arthur, aveva preso in giro Richard con petulanza infantile nella parte del duca di York, e a sua volta aveva rimproverato quella stessa petulanza quando era Principe di Galles. 189 Avrebbe reso in modo perfetto il figlio maggiore nell’ afterpiece patetico di Morton, ma Children in the Wood non era ancora stato scritto. 190 Molto dopo che questa bambina era diventata una signora anziana, ho visto alcune di queste particine, ognuna delle quali prendeva due o tre pagine al massimo, copiate nella rozza grafia del suggeritore di allora, che senza dubbio le aveva trascritte un po’ meglio e con più attenzione per le attrici tragiche adulte della compagnia. Ma così com’erano, piene di macchie e di scarabocchi, scritte per un bambino, lei le aveva conservate tutte, e quando successivamente era all’apice della sua fama erano piacevoli da guardare rilegate in costoso marocchino in cui ogni parte singola, piccola, costituiva un libro , con bei fermagli dorati, ecc. Le aveva tenute coscienziosamente come le erano state affidate; neanche una macchia era stata cancellata o alterata. Le erano preziose per la loro capacità di suscitare ricordi commoventi. Erano i suoi principi, i rudimenti, gli atomi elementari, i piccoli passi con cui si era spinta avanti verso la perfezione. Diceva: “Che cosa avrebbe potuto fare la gomma o la pietra pomice per questi tesori?” Non ho fretta di cominciare la mia storia – in realtà ho poco o quasi niente da dire – così riferirò soltanto di una sua osservazione relativa a quel periodo interessante. Non molto tempo prima che morisse avevo parlato con lei della quantità di reale emozione che un grande attore tragico prova mentre recita. Osavo pensare che anche se all’inizio questi attori dovevano aver provato i sentimenti che suscitavano tanto fortemente negli altri, con la ripetizione frequente queste emozioni dovevano indebolirsi in grande misura e l’esecutore doveva affidarsi al ricordo di passate emozioni, piuttosto che esprimerne una presente. Lei, indignata, respinse l’idea che per un attore

189 Rispettivamente Arthur in King John , Richard di York e poi Edward, principe di Galles, in Richard III . 190 Children in the Wood (rappresentato al Drury Lane nel 1793 e pubblicato nel 1794) era un’opera in due atti su libretto di Thomas Morton (1764-1838) e musica di Samuel Arnold (1740-1802).

81 Charles Lamb, Theatralia

tragico veramente grande ciò che creava questi effetti sul pubblico potesse mai degradarsi in qualcosa di puramente meccanico. Con molta delicatezza, evitando di portare a esempio la sua esperienza, mi disse che tanto tempo prima, quando recitava la parte del figlioletto di Isabella, 191 interpretata da Mrs. Porter (mi pare fosse lei), nel momento in cui quella notevole attrice si era chinata su di lei per dirle qualcosa di straziante, aveva sentito che stava versando delle vere calde lacrime che (per usare la sua forte espressione) le avevano completamente bruciato la schiena. Non sono del tutto sicuro che fosse Mrs. Porter; era comunque qualche grande attrice di quel periodo. Non importa il nome, ma ricordo perfettamente il fatto delle lacrime cocenti. Mi è sempre piaciuto stare in compagnia degli attori e sono sicuro che un disturbo nel mio modo di parlare (che certamente mi ha tenuto lontano dal pulpito), ancora più che non certe inabilità personali, sulle quali in quella professione spesso si chiude un occhio, non mi hanno impedito in un certo periodo della mia vita di frequentarli. Una volta ho avuto l’onore (devo sempre chiamarlo così) di essere ammesso alla tavola di Miss Kelly, ho giocato a whist con Mr. Liston, ho chiacchierato con Mrs. Kemble, che era sempre di buonumore, ho conversato in amicizia con il suo bravissimo marito, Charles Kemble. Mi è stato permesso di avere una conversazione “classica” con Macready 192 e di vedere la galleria di ritratti degli attori a casa di Mr. Mathews 193 quando il gentile proprietario, per ricompensarmi del mio amore per i vecchi interpreti, che anche lui amava così tanto, la visitò insieme a me, dando alla sua eccezionale collezione la sola cosa che l’artista non poteva averle dato: la voce e il movimento. Antiche voci, quasi sbiadite, di Dodd e dei Parson e di Bedeley, a un suo ordine hanno ripreso vita per me. Solo Edwin non ha potuto far rivivere. Ho cenato con – Ma sto diventando vanesio. Come stavo per dire, alla scrivania del tesoriere di allora del vecchio Bath Theatre – non a quella di Diamond – si presentò la piccola Barbara S . I suoi genitori avevano una posizione rispettabile. Il padre era stato, credo, un farmacista della città, ma la sua professione, per cause che provando una debolezza simile alla sua non posso accusare, o forse semplicemente per quella sfortuna che accompagna alcune persone nel loro cammino lungo la vita e che è impossibile attribuire all’imprudenza, ora era ridotta a niente. Di fatto erano alla fame quando l’impresario, che li conosceva e li rispettava in tempi migliori, prese la piccola Barbara nella sua compagnia.

191 In The Fatal Marriage di Southerne. L’aneddoto è riportato nel diario di Henry Crabb Robinson (1775–1867) e si riferisce in realtà a una recita di King John in cui Miss Kelly recitava la parte di Arthur e Mrs. Siddons (non Mrs. Porter) quella di Constance. 192 William Charles Macready (1793-1873), che aveva una cultura classica superiore a quella di altri attori, avendo studiato da giovane alla Rugby School. 193 Cfr. il saggio “I vecchi attori”, in particolare la nota 145.

82 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Nel periodo di cui ho parlato all’inizio, i magri guadagni di lei erano il solo sostegno della famiglia, incluse le due sorelle minori. Devo gettare un velo pietoso su delle circostanze mortificanti. Basti dire che la sua paga del sabato era la sola occasione di mangiare carne alla domenica (generalmente la loro unica occasione di mangiare carne). Accennerò solo a una cosa: che nella parte di un bambino, 194 in cui doveva come personaggio teatrale mangiare un pollo arrosto (che gioia per Barbara!) un comico che quella sera forniva quella prelibatezza, con un errato senso dell’umorismo del suo ruolo, sparse sul piatto una tale quantità di sale (che pena e che dolore per Barbara!) che quando gliene ficcò in bocca un pezzo, lei fu obbligata a sputarlo. E, un po’ per la vergogna di aver recitato male la sua parte e un po’ per il dolore della fame vera nel perdere quella leccornia, il suo cuoricino pianse fino a spezzarsi, finché un fiotto di lacrime, che gli spettatori ben nutriti furono assolutamente incapaci di capire, caritatevolmente le diede sollievo. Questa era la piccola affamata e meritevole che stava lì in piedi davanti al vecchio Ravenscroft, l’economo, per avere la paga del sabato. Ravenscroft era, come ho sentito dire da molti vecchi teatranti oltre che da lei stessa, uno degli uomini meno adatti a fare l’economo. Non era bravo con i conti, pagava a caso, non teneva quasi libri contabili e, tirando le somme alla fine della settimana, se trovava che mancava una sterlina o giù di là, era contento che non fosse andata peggio. Ora, la paga settimanale di Barbara era appena una mezza ghinea. Per sbaglio gliene mise in mano – una intera. Barbara andò via saltellando. All’inizio era assolutamente ignara dell’errore. Dio sa che Ravenscroft non l’avrebbe mai scoperto. Ma quando fu scesa fino al primo di quei pianerottoli sconnessi, si rese conto dell’insolito peso del metallo che premeva nella sua manina. Ora notate il dilemma. Per natura era una bambina buona. Non aveva subito influenze negative dai genitori né da chi le stava intorno. Ma non le avevano insegnato niente. Le casupole fumose dei poveri non sono sempre portici di filosofia morale. Questa piccola non aveva l’istinto del male, ma si poteva dire che non avesse principi saldi. Aveva sentito lodare l’onestà ma non aveva neppure immaginato che si potesse applicare a lei. Pensava che fosse qualcosa che riguardava gli adulti, uomini e donne. Non aveva mai conosciuto la tentazione, né pensato di dovervi predisporre una resistenza. Il suo primo impulso fu di tornare dal vecchio economo e di spiegargli l’errore. Era già così confuso per l’età oltre a una naturale assenza di precisione, che lei avrebbe avuto delle difficoltà a farglielo capire. Questo , le fu chiaro in un attimo. E poi era così tanto denaro! E allora le venne in

194 In Children in the Wood di Morton.

83 Charles Lamb, Theatralia

mente l’immagine di una porzione più grande di carne sulla loro tavola il giorno dopo e i suoi piccoli occhi brillarono e le si inumidì la bocca. Ma Mr. Ravenscroft era sempre stato così amabile, era sempre stato suo amico dietro le quinte e aveva persino raccomandato di affidarle alcune delle sue particine. E poi si pensava che il vecchio avesse un sacco di soldi. Si pensava che il teatro gli rendesse cinquanta sterline all’anno. E allora si figurò le sorelline senza calze e senza scarpe. E quando guardò le sue calze bianche di cotone, pulite, che il suo impiego a teatro aveva reso indispensabile che la madre le procurasse con duro lavoro e sottraendo qualcosa alla famiglia, pensò quanto sarebbe stata felice di coprire i loro piedini con calze come quelle e come allora avrebbero potuto accompagnarla alle prove, cosa che non avevano potuto fare fino ad allora perché non abbigliate alla moda – immersa in questi pensieri era arrivata al secondo pianerottolo – intendo il secondo a partire dall’alto, e ne aveva ancora un altro da attraversare. Che la virtù sostenga Barbara! Quell’amica che mai viene meno sopraggiunse: in quel momento una forza non sua, l’ho sentita dire, si rivelò – una ragione oltre il ragionamento – e senza che lei agisse, apparentemente (poiché non sentì mai che le si muovessero i piedi), si ritrovò alla scrivania singola che aveva appena lasciato e sentì la sua mano nella vecchia mano di Ravenscroft, che prese in silenzio il tesoro restituito e che era rimasto seduto (quel buon uomo) inconsapevole di quei minuti che per lei erano stati secoli angosciosi. Da quel momento una profonda pace scese nel cuore di lei e così seppe che cosa è l’onestà. Un anno o due in cui, senza lamentarsi, si dedicò alla sua professione migliorarono i piedi e il futuro delle sue sorelline, rimisero in sesto l’intera famiglia e la liberarono dalla difficoltà di discutere dogmi morali su un pianerottolo. Le ho sentito dire che per lei fu una sorpresa, non molto diversa dalla mortificazione, vedere la calma con cui il vecchio mise in tasca la differenza che le aveva causato quella terribile agonia. Ho saputo questo aneddoto su di lei nel 1800 dalla defunta Mrs. Crawford, 195 che allora aveva sessantasette anni (morì poco dopo). Spesso ho pensato che dovesse alle sue pene in quest’occasione quel potere di straziare il cuore nel rappresentare emozioni in conflitto, per cui anni dopo fu considerata di poco inferiore (e forse non inferiore affatto nella parte di Lady Randolph) 196 persino a Mrs. Siddons.

195 Il nome da ragazza di questa signora era Street, e lo cambiò in successivi matrimoni, in Dancer, Barry e Crawford. Era Mrs. Crawford, vedova per la terza volta, quando la conobbi. [Nota dell’Autore.] 196 In Douglas di John Home (1780).

84 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

La religione degli attori 197 Finora il mondo si è dato così poca pena circa la religione di una comunità, la quale per altri aspetti contribuisce molto al suo divertimento, che prima della disgrazia occorsa di recente a un famoso attore tragico 198 a malapena si degnava di osservare la condotta di un singolo attore, e ancora meno di indagare sulle cause nascoste delle sue azioni. In realtà dobbiamo far violenza alla nostra immaginazione per concepire un attore in mezzo alle relazioni della sua vita privata, tanto identifichiamo queste persone nella nostra mente con i personaggi che interpretano sul palcoscenico. Quanto sembra strano venire a sapere che la povera Miss Pope, per esempio – per l’opinione che abbiamo di lei come Mrs. Candour –199 era una buona figlia, una sorella amorosa, esemplare in tutte le attività della vita domestica! È ancora più difficile pensare a una chiesa e immaginare Liston inginocchiato su un cuscino o Munden che dice pie giaculatorie – “e fa le boccacce all’evento invisibile” 200 . Ma i tempi migliorano velocemente; e se il processo di santità avviato sotto i felici auspici dell’attuale detentore della licenza 201 andrà avanti fino al completamento, sarà necessario che un attore giustifichi la sua fede così come la sua condotta. Fawcett deve studiare i cinque punti 202 e Dicky Suett, se fosse vivo, dovrebbe rispolverare il catechismo. Gli effetti cominciano già a farsi vedere. Un famoso interprete ha pensato bene di offrire al mondo una confessione della sua fede, o Religio Dramatici di Br—203 . Questo gentiluomo, nel lodevole tentativo di allontanare dalla sua persona l’onta dell’ebraismo, con la sfrontatezza di uno appena convertito, tentando di provare troppo ha, secondo l’opinione di molti, provato troppo poco. Una semplice dichiarazione di essere cristiano era sufficiente, ma strano a dirsi la sua apologia non ne parla affatto. Non ci resta che capirlo da alcune espressioni che implicano che sia protestante, ma non ci interessava analizzare le sottigliezze della sua ortodossia. Per i suoi amici della vecchia religione la distinzione non era

197 Pubblicato su The New Monthly Magazine , aprile 1826. 198 L’attore è Edmund Kean e la “disgrazia” è la causa di adulterio intentatagli nel 1824 da Cox, un rispettabile consigliere della City, che Kean perse: dovette pagare 800 sterline, fu lasciato dalla moglie e fu oggetto di ostracismo da parte della stampa e del pubblico. 199 Personaggio di The School for Scandal di Sheridan. 200 Hamlet , 4.4.50. 201 George Colman the Younger (1762-1836), che dal 1824 ricoprì con eccessiva severità la carica di censore. 202 I cinque punti del calvinismo, talvolta chiamati le dottrine della grazia, sono un sommario dei canoni teologici del Sinodo di Dordrecht e rispecchiano la soteriologia tipica di questo movimento. Essi interpretano la natura della grazia di Dio nella salvezza della creatura umana. 203 Il riferimento è forse al tenore John Braham e a qualche sua presa di posizione contro un possibile accenno alla sua origine ebraica sulla stampa. Il titolo mima scherzosamente quello di Religio medici (1642), il famoso testo del medico Thomas Browne che discuteva del conflitto tra scienza e religione.

85 Charles Lamb, Theatralia

pertinente; poiché, che cosa interessano al rabbino Ben Kimchi le differenze che sono intervenute dopo? Per la massa dei cristiani che crede nella supremazia del papa – cioè per la maggior parte del mondo cristiano – la sua religione sembrerà confusa come al solito. Ma forse lui pensava che tutti i cristiani fossero protestanti, così come i bambini e la gente comune chiama cristiano chiunque non sia un animale. L’errore non era molto grave in un proselito così giovane, che poteva credere che il generale (come dicono i logici) fosse contenuto nel particolare. Tutti i protestanti sono cristiani; io sono un protestante, ergo , ecc.: come se uno scimmiotto, sostenendo di essere un uomo, saltando quel termine come troppo generico e volgare, dovesse subito decisamente proclamarsi gentiluomo. L’argomento sarebbe, come si dice, ex abundanti .204 Da qualsiasi fonte derivi questo excessus in terminis , non possiamo fare altro che congratularci con lo stato generale della Cristianità per l’adesione di un convertito così straordinario. Chi sia il lieto strumento di questa conversione dobbiamo ancora scoprirlo: è molto simile al tentativo del defunto pio Dr. Watts 205 di cristianizzare i Salmi del Vecchio Testamento. Un po’ della vecchia indecenza ebraica si perde nella trasformazione, ma un bel po’ dell’asprezza è addolcita e ridotta nell’adattamento. La comparsa di un trattato così singolare in questa circostanza ci ha spinto a fare un’indagine generale sullo stato attuale della religione in teatro. Con il favore degli amministratori delle chiese di St. Martin-in-the-Fields e di St. Paul’s a Covent Garden, che ci hanno aiutato nel nostro scopo prontamente e con grande gentilezza, siamo ora in grado di offrire al pubblico i seguenti particolari. In senso stretto le due grandi istituzioni 206 non sono religiose nel loro insieme. Ci aspettavamo di trovare un cappellano, come in St. Stephen’s e in altri istituti e siamo stati molto sorpresi che non ci fosse, poiché il defunto Mr. Bengough in uno dei due teatri e Mr. Powell nell’altro mostravano decisamente, per la serietà dei loro discorsi e del loro comportamento, oltre che per l’abitudine di vestirsi di nero quando comparivano per la prima volta all’inizio del quinto atto o alla fine del quarto, di essere qualificati per tale carica. Poiché queste corporazioni non sono propriamente delle congregazioni, dobbiamo dunque cercare la soluzione alla nostra domanda nei gusti, negli obiettivi, nell’educazione e nella cultura dei loro singoli membri. Come ci aspettavamo, la maggioranza in entrambi i teatri appartiene alla Chiesa ufficiale – soltanto che in uno dei due si sospetta un forte fermento di cattolicesimo romano; il

204 Espressione legale ( ex abundanti cautela ) che significa “in modo più che sufficiente”. 205 Isaac Watts (1674-1748), teologo e scrittore di inni, che mise in versi i salmi in prospettiva cristiana. 206 Le compagnie del Drury Lane e del Covent Garden.

86 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

che, considerato che l’impresario 207 ha notoriamente ricevuto la sua istruzione in un seminario straniero, non ci deve stupire molto. Alcuni sono arrivati a dire che Mr. T—y, 208 in particolare, appartiene a un ordine religioso che è stato recentemente ripristinato sul continente. Possiamo smentirlo: quel gentiluomo è membro della Chiesa scozzese e il suo nome si trova, con suo grande onore, nella lista dei separatisti dalla congregazione di Mr. Fletcher. Mentre la maggior parte di loro, come abbiamo detto, sono contenti di continuare nei sicuri confini dell’ortodossia nazionale, i sintomi di uno spirito settario sono emersi laddove meno li avremmo cercati. Alcune delle signore in entrambi i teatri sono impegnate su punti controversi. Miss F., ci hanno informato in modo convincente, è una Sub- e Madame V. una Supra-Lapsarian. 209 Mr. Pope è l’ultimo membro della scomparsa setta dei Ranters. Mr. Sinclair si è unito agli Shakers. Mr. Grimaldi Senior, dopo essere stato a lungo un Jumper, 210 è recentemente finito in alcune strane teorie sulla caduta dell’uomo, che lui interpreta come un reale ruzzolone , non allegorico – con il quale l’intera umanità divenne, per così dire, disabile a fare opere buone. Per lui l’orgoglio non sarà altro che un torcicollo; l’incertezza, nervi scossi; l’inclinazione a seguire vie sinistre, una stortura nelle articolazioni; la morte spirituale, una paralisi; la mancanza di carità, una contrazione delle dita; il disprezzo della legge, una testa rotta; il cerotto, un sermone; la garza per fasciarla, il testo sacro; gli anatomisti, i predicatori; un paio di grucce, il Vecchio e il Nuovo Testamento; una fasciatura, l’obbligo religioso – un modo fantasioso di illustrare, derivato dagli eventi e dalle abitudini della sua passata vocazione spiritualizzata , piuttosto che non da una approfondita conoscenza del testo ebraico, di cui si dice sia solo uno studioso inesperto. Mr. Elliston, per quanto ne possiamo sapere, deve ancora scegliere la sua religione, sebbene alcuni lo ritengano muggletoniano. 211

207 Si tratta di Charles Kemble, al tempo manager del Covent Garden. Come i suoi fratelli maschi fu educato alla fede cattolica del padre e studiò a Douai nel nord della Francia, nel collegio gesuita frequentato da ragazzi cattolici inglesi. 208 Daniel Terry, attore, impresario e drammaturgo. 209 Le due attrici in questione sono forse Miss Foote e Madame Vestris. I due termini si riferiscono a delle sette religiose che credevano rispettivamente che Dio avesse previsto e permesso la caduta dell’uomo o che l’uomo fosse predestinato alla salvezza oppure alla dannazione addirittura prima della creazione e della caduta. 210 Tutti nomi di congregazioni protestanti calviniste emerse durante il Commonwealth (1649-1660) o nel diciottesimo secolo, alcune delle quali seguaci di bizzarre cerimonie, come i Jumpers che gridavano e saltavano nelle assemblee per mostrare gioia. 211 Movimento protestante di piccole dimensioni nato durante la Guerra Civile che prese il nome dal religioso Lodowicke Muggleton.

87 Charles Lamb, Theatralia

Dedicato all’ombra di Elliston 212 Tu, il più giocondo di tutti gli spiriti che un tempo avevano un corpo, dove te ne sei volato via? In quale regione amica possiamo immaginare tu sia fuggito? Stai ancora seminando avena selvatica 213 (il tempo del raccolto doveva ancora venire per te) sulle sabbie precarie dell’Averno? O fai Il libertino 214 (come ci piacerebbe di più pensare) vagando tra i ruscelli elisi? Questa struttura mortale, al tempo in cui recitavi le tue brevi buffonate tra noi, in realtà per te non era che una prigione, come il vano sogno platonico di questo corpo non è più che un carcere di provincia, davvero, oppure una qualche vile casa di detenzione, in cui i cinque sensi sono le catene. Sapevi bene che non ti dovevi affrettare a toglierti questi ceppi; e capisti di dovertene andare, temo, prima di essere pronto ad abbandonare questo edificio di carne. Era la tua Casa dei Piaceri, il Palazzo delle Delizie rare, il tuo Louvre o il tuo Whitehall. In quali misteriosi alloggi sei sistemato ora? E quando possiamo aspettarci la tua festa aerea di inaugurazione? Conosciamo il Tartaro e abbiamo letto delle Ombre Beate; ora posso comprensibilmente figurarti in uno dei due. È forse troppo azzardare l’ipotesi che (come gli Scolastici ammettevano ci fosse un luogo separato per i patriarchi e gli infanti non battezzati) possa esistere da qualche parte – magari non lontano da quel deposito di tutte le vanità che Milton vide nelle sue visioni –215 un LIMBO per gli ATTORI? E immaginare che

Lassù, come vapori aerei salgono Le cose del teatro e chi in quegli oggetti Basò vane speranze di gloria o fama eterna? Tutte le opere incompiute degli autori, Fallite, mostruose, o fatte male, Dannate in terra, finiscono là – Drammi, Opere, Farse e le loro assurdità. 216

Là, vicino alla luna (che alcuni supponevano non impropriamente fosse il tuo pianeta guida sulla terra), non potresti ancora recitare le tue burle

212 Fu pubblicato insieme al saggio “Ellistoniana”, su Englishman’s Magazine , nell’agosto 1831, subito dopo la morte dell’attore. Forse si trattava di un unico testo, diviso in due per comparire due volte nell’indice. Nel preparare Essays of Elia per la stampa Lamb li rivide entrambi e li corresse a fondo. 213 Modo di dire che significa “spassandotela”. 214 The Libertine , opera di Thomas Shadwell pubblicata nel 1676, adattamento del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina. 215 Cfr. nota 103. 216 Rivisitazione di Lamb in chiave teatrale dei versi che Milton dedica al Limbo delle Vanità (Paradise Lost , III, 445 e sgg).

88 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

manageriali, grande Impresario incorporeo? Ma sei ancora Impresario e ancora direttore? Nel retropalco, invisibile per l’occhio umano, la musa ti guarda esercitare un potere postumo. Fantasmi sottili di Figuranti (mai stati in carne sulla terra) ti circondano all’infinito e il loro canto è sempre “Vergogna, fantasia peccaminosa!”. 217 Le tue bizzarrie su questa terra erano magnifiche, ROBERT WILLIAM ELLISTON!, poiché ancora non sappiamo il tuo nuovo nome in cielo. Mi secca pensare che, privato delle tue vesti regali, tu debba traghettare, una povera ombra biforcuta, in una folle chiatta sullo Stige. Mi pare di udire il vecchio barcaiolo, che pagaia vicino al pontile pieno di erbacce, urlare con la voce rauca “voga, voga!” e tu, salutando con la mano e con un gesto maestoso, non lo degni di altra risposta che di due brevi parole: “No, rema”. Ma le leggi del regno di Plutone fanno poca differenza tra un re e un ciabattino, tra un impresario e un buttafuori, e se per caso le date della vostra vita coincidevano, stai tranquillamente attraversando, gomito a gomito (Oh, ignobile livellamento della morte!) con l’ombra di qualche spegnimoccolo recentemente scomparso. Misericordia! Quali denudamenti, quali svestizioni di costumi teatrali, e di vanità private! Quali spoliazioni fino all’osso, prima che il torvo Traghettatore ti conceda di posare un piede sul suo barcone malconcio! Corone, scettri; scudo, spada e mazza; i tuoi abiti per l’incoronazione (poiché tu hai portato con te tutti gli oggetti del guardarobiere, abbastanza da affondare una nave); l’ermellino del giudice, la parrucca del damerino, la tabacchiera à la Foppington –218 devono essere tutti buttati a mare, lui dichiara decisamente. E quell’Antico Marinaio non tollera rifiuti, perché fino dal noioso monodramma del vecchio citaredo tracio, 219 dobbiamo credere che Caronte abbia mostrato poco amore per gli spettacoli teatrali. Ecco fatto: ora sei senza peso, pura et puta anima . Mio Dio, come sembri piccolo ! Così sembreremo tutti, re e imperatori – nudi per l’ultimo viaggio. Ma il sinistro ribaldo se ne va, spingendo sui remi. Addio, bella e piacevole ombra! Con tutti i miei ringraziamenti per tante ore tristi della vita rischiarate dalle tue innocue stravaganze, pubbliche o private. Rhadamanthus – che giudica le cause minori laggiù, lasciando quelle più serie ai suoi due fratelli –220 l’onesto Rhadamanthus, sempre parziale verso

217 “Fie on Sinful Phantasy” è la canzone danzata dalle fate in The Merry Wives of Windsor (Le allegre comari di Windsor) 5.5.92. Non si conosce la musica originale. 218 Lord Foppington è il damerino alla moda nella commedia della Restaurazione The Relapse (1696) di John Vanbrugh. 219 Orfeo. 220 Eaco e Minosse.

89 Charles Lamb, Theatralia

gli attori, che pesa la loro esistenza variopinta qui sulla terra, facendo il conto delle poche debolezze che possono aver macchiato la tua vita reale , come la chiamiamo (per quanto, sostanzialmente, poco meno aerea delle tue futili bizzarrie sulle scene del Drury), così come delle tante eco, ripercussioni naturali, e risultati che possiamo ipotizzare dalle stravaganze che assumesti nella tua vita secondaria , o finta , ogni sera su un palcoscenico – dopo un castigo clemente con una verga più leggera dei riccioli della Medusa, ma sufficiente a “eliminare da te l’Adamo colpevole”, 221 ti manderà via dall’uscita a destra – il lato “corte” dell’Ade – che porta ai masques e alle feste nel Teatro Reale di Proserpina.

Ellistoniana 222 La mia conoscenza con la simpatica persona di cui tutti lamentiamo la scomparsa era solo superficiale. La prima volta che fui presentato a E. – questa presentazione poi crebbe fino a diventare conoscenza, ma un po’ meno che familiarità – fu a un banco della Libreria di Leamington Spa, acquistata recentemente da un ramo della sua famiglia. E., per il quale niente era sconveniente – per avviare, immagino, un interessamento filiale e farlo proseguire con successo – stava servendo di persona due belle signorine che erano entrate nel negozio evidentemente per informarsi di qualche nuova pubblicazione, ma in realtà per dare un’occhiata all’illustre commerciante, con la speranza di poter parlare con lui. Con che aria tirò giù il volume, dando senza emozioni la sua opinione sul valore dell’opera in questione, e lanciandosi in una dissertazione sui suoi meriti in confronto a quelli di certe pubblicazioni rivali, di genere simile! Le clienti affascinate pendevano giustamente dalle sue labbra, soggiogate dal giudizio autorevole. Così ho visto un uomo in una commedia recitare la parte del negoziante, così Lovelace vendeva i suoi guanti in King Street. 223 Ammirai l’arte istrionica con cui riusciva a spazzar via qualsiasi idea di infamia dall’occupazione che aveva assunto così generosamente; e da quel momento in poi l’ho giudicato, senza pentirmene in seguito, una persona della quale sarebbe stato bello approfondire la conoscenza. Trattare dei suoi meriti come attore comico sarebbe superfluo. Io mi occupo solo delle sue abitudini a un tempo private e professionali – quella fusione armoniosa dei modi dell’attore con quelli della vita quotidiana che portava il palcoscenico sulla strada e nei salotti, continuando la commedia quando la commedia era finita. “Mi piace Wrench”, un giorno gli disse un amico, “perché sul palcoscenico è la stessa persona semplice e naturale che è fuori

221 Citazione da Henry V , 1.1.30. 222 Pubblicato insieme a “Dedicato all’ombra di Elliston” su Englishman’s Magazine , numero di agosto 1831 (cfr. nota 212). 223 Nel romanzo Clarissa di Samuel Richardson.

90 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

dalle scene”. “Proprio il caso mio”, rispose Elliston, dimenticando in modo disarmante che il rovescio di una frase non sempre porta alla stessa conclusione, “Io fuori dal palcoscenico sono uguale a come sono sulla scena”. L’implicazione a prima vista sembra identica, ma esaminatela un po’ e vedrete che ammette solo che uno dei due attori non recita mai, e l’altro sempre. In realtà questo era il fascino del comportamento di Elliston in privato. Avevate una brillante interpretazione che vi si svolgeva davanti agli occhi, senza pagare niente. Come quando un re passa la notte in un alloggio di fortuna, la più povera stamberga che lui onora dormendoci diventa per quel periodo di tempo ipso facto un palazzo, così ogni volta che Elliston camminava, si sedeva o stava fermo in piedi, lì era il teatro. Si portava dietro la sua platea, i palchi e le gallerie, e sistemava il suo teatro portatile agli angoli delle strade e nei mercati. Sui selciati più duri calcava sempre le scene, e se il suo tema era per caso appassionato, il tappeto di panno verde della tragedia sorgeva spontaneamente sotto i suoi piedi. 224 E questo era generoso e dimostrava amore per la sua arte. Così Apelle dipingeva sempre – col pensiero. Così G. D. 225 scrive sempre poesia. Odio un artista tiepido: conosco attori – e alcuni dello stampo di Elliston – che vi avrebbero divertito piacevolmente interpretando un libertino o un damerino, per le due o tre ore in cui questi personaggi hanno vita in teatro; ma non appena cala il sipario con il suo rumore metallico uno spirito plumbeo sembra afferrare tutte le loro facoltà. Riemergono come persone acide, tetre, intollerabili per le loro famiglie, per i servi, ecc. Un attore vi allarga il cuore con atti e sentimenti generosi fino a farlo battere per un afflato di simpatia universale; volete assolutamente andare a casa e fare qualche buona azione, l’opera vi sembra noiosa fino al momento di uscire dal teatro e realizzare le vostre lodevoli intenzioni. Alla fine il campanello suona per l’ultima volta e questo cordiale rappresentante di tutto ciò che è amabile nel cuore umano viene avanti – un miserabile. Elliston era molto più coerente. Recitava Ranger 226 e Ranger riempiva di felicità il cuore di tutto il pubblico? Perché lui non doveva essere Ranger e diffondere la stessa calda felicità nella sua cerchia privata? Con il suo temperamento, la sua carica vitale, la sua generosità, con le sue follie, forse, cos’altro poteva fare se non identificarsi con il personaggio? Dobbiamo amare un simpatico libertino, o un damerino, sulle scene e darci le arie di avere in odio lo stesso personaggio se lo incontriamo nella vita reale? Oppure, che cosa ci avrebbe guadagnato l’attore a spogliarsi della sua interpretazione? Poteva Elliston come uomo

224 Il cosiddetto “tappeto tragico” di panno verde veniva steso sul palcoscenico prima delle scene di violenza per impedire che gli attori si rovinassero gli abiti sulle nude assi di legno quando dovevano cadere e morire in scena. 225 George Dyer, un letterato eccentrico. 226 Personaggio di The Suspicious Husband (Il marito sospettoso) di Benjamin Hoadley (1747).

91 Charles Lamb, Theatralia

essere essenzialmente differente dal suo ruolo se avesse evitato deliberatamente di presentarci, nei circoli privati, la vivacità leggera, la sfrontatezza, gli imbrogli dell’originale? “Ma c’è qualcosa di non naturale in questo continuo recitare ; vogliamo l’uomo vero”. Siete proprio sicuri che non sia l’uomo stesso che non potete, o non volete, vedere sotto i segni esteriori che, comunque, non sono affatto incompatibili con lui? Non potrebbe essere nella natura di alcuni uomini essere estremamente artificiali? La colpa è meno biasimevole negli attori . Cibber era il suo Foppington, con tutto lo spirito che Vanbrugh poteva attribuirgli. “L’opinione che ho di questa persona” – Ben Jonson diceva di Lord Bacon – “non fu mai accresciuta dalla sua posizione o dai suoi onori . L’ho rispettato e lo rispetto per la grandezza che gli era propria; perché mi è sempre sembrato uno degli uomini più grandi che siano esistiti nella storia. Nelle sue avversità ho sempre pregato che il cielo gli desse forza, poiché la grandezza non gli mancava”. La qualità che qui viene elogiata era evidente nel soggetto di questi futili ricordi almeno quanto in Lord Verulam. 227 Chi ha immaginato che essere innalzato in modo inatteso alla direzione di un grande teatro londinese avesse influenzato la posizione di Elliston o cambiato la sua natura, non conosceva la grandezza fondamentale dell’uomo che denigrava. Ho avuto la fortuna di incontrarlo vicino alla chiesa di St. Dunstan (che, con i suoi puntuali giganti, 228 ora non è altro che polvere e ombra) 229 la mattina della sua nomina a quell’importante incarico. Afferrandomi la mano con uno sguardo significativo, disse solo: “Avete sentito la notizia?”. Poi, con un’altra occhiata che seguì la sorpresa, aggiunse: “Sono il futuro direttore del Drury Lane Theatre”. Mi vide senza fiato e non rimase ad aspettare congratulazioni o una risposta, ma se ne andò via in silenzio e mi lasciò lì a digerire con calma la sua nuova carica. Di fatto, non c’era niente che si potesse dire. Solo un silenzio espressivo poteva riflettere i suoi meriti. Questo era il suo grande stile. Ma era forse meno grande (siate testimoni, voi o potenze dell’imparzialità che avete sostenuto, nelle rovine di Cartagine, l’esilio del console 230 e trasformato più di recente, per un esilio ancora più illustre, l’arido governatorato dell’Elba in un’immagine della Francia imperiale) quando,

227 Si parla qui di Sir Francis Bacon, Lord Verulam (italianizzato in Francesco Bacone), filosofo e saggista. 228 L’antica chiesa di St. Dunstan, su Fleet Street, fu dotata nel 1671 di un orologio (il primo orologio pubblico a Londra con la lancetta dei minuti) che sostituiva quello distrutto nell’incendio di Londra del 1666. Il nuovo meccanismo aveva due automi, due giganti di legno che attiravano la folla per vederli suonare le campane a ogni quarto d’ora. Nel 1830 la vecchia chiesa fu demolita e i giganti venduti all’asta. 229 Orazio, Odi , IV, 7. 230 Annibale, condottiero cartaginese, sconfitto dai romani nella seconda guerra punica.

92 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

qualche triste anno dopo, lo incontrai di nuovo, quasi nello stesso posto, quando quello scettro gli era stato strappato di mano, e il suo impero era ridotto all’insignificante direzione e in parte proprietà del piccolo Olympic, la sua Elba ? Recitava ancora ogni sera sul palcoscenico del Drury ma in ruoli, ahimè, che gli venivano assegnati, e non magnificamente distribuiti da lui. Trattando la sua grande perdita come fosse niente e riducendo in modo splendido il senso di una grandezza materiale decaduta in un risentimento più moderato per come le sue più alte pretese intellettuali fossero state svalutate, “Avete sentito” (il suo esordio abituale) – “avete sentito”, disse, “come mi trattano? Mi hanno messo in commedia ”. Io pensai – ma con un dito sulle labbra proibì ogni interruzione – “in quel luogo migliore avrebbero potuto mettervi?”. Poi, dopo una pausa – “dove prima recitavo Romeo, ora recito Mercuzio”; e così, ancora una volta, se andò via, senza aspettare risposte né preoccuparsene. Oh! Fu una bella scena – ma solo Sir A— C—,231 il migliore dei narratori e dei chirurghi, che aggiusta un racconto zoppo come mette a posto una frattura, poteva renderle giustizia – quella di cui fui testimone nella sala ingiallita (un tempo la stanza riservata agli attori) di quello stesso piccolo Olympic. Lì, dopo la sua deposizione dall’imperiale Drury, aveva piazzato il suo trono. Quel monte Olimpo era il suo “eccelso cielo” e lui stesso era “Giove in soglio”. Sedeva sul suo scranno mentre davanti a lui, per una denuncia del suggeritore, fu condotta in giudizio – come posso descriverla? – una di quelle piccole creature da poco che fanno sempre le civette in fondo al coro, una novizia per la società, la più insolente puttanella, la sudicia appendice del fumo delle lampade 232 che, pare, per un qualche dissenso espresso da un pubblico “molto rispettabile” aveva lasciato di corsa il suo posto sul palcoscenico e tolto di lì il suo poco talento con aria disgustata. “Come osate”, disse il direttore, assumendo una severità che avrebbe disintegrato la sicurezza di una Vestris e disinnescato le bizze professionali della bella Ribelle stessa – credo davvero che immaginasse di avere quella in piedi davanti a lui – “come osate, signora, allontanarvi, senza avvisare, dai vostri doveri teatrali?”. “Sono stata fischiata, signore”. “E avete la presunzione di decidere del gusto della gente?”. “Non lo so, signore, ma non starò mai lì a farmi fischiare”, fu la replica della giovane Sicumera. Allora lui, riunendo nei suoi lineamenti meraviglia, pietà, indignazione e biasimo, in una lezione che non sarebbe andata perduta per una creatura

231 Sir Anthony Carlisle, chirurgo, che Lamb altrove descrive come “il miglior narratore che abbia mai sentito”. 232 Quelle che illuminavano il palcoscenico, prima a kerosene e poi a olio, che avevano sostituito le candele. Il senso è che la ragazza conta in scena poco più del fumo delle lampade.

93 Charles Lamb, Theatralia

meno sfrontata di quella che stava davanti a lui, disse queste parole: “Hanno fischiato me ”. Era l’identico argomento a fortiori usato dal figlio di Peleo con Licaone 233 tremante sotto la sua lancia per persuaderlo ad accettare il suo destino con onore: “Anche io sono mortale”. E c’è da credere che in entrambi i casi la retorica fallì per la mancanza di una vera capacità di comprendere in entrambi i destinatari. “È proprio una platea da teatro d’opera”, mi disse mentre mi stava accompagnando cortesemente al di là delle panche del suo Surrey Theatre –234 l’ultimo ritiro e rifugio della sua grandezza quotidiana in declino. Chi ha conosciuto Elliston saprà in quale modo abbia pronunciato le parole della frase che sto per riportare. Un giorno di cui sono orgoglioso egli mangiò da noi al Temple del montone arrosto, cui io avevo aggiunto un pesce con cui cominciare il pranzo. Dopo avere condiviso abbondantemente il magro banchetto, innaffiato con la più umile delle bevande, chiesi scusa per la modestia del cibo, osservando che da parte mia non mangiavo mai più di un piatto a pranzo. “Anch’io non mangio mai che una cosa sola a pranzo”, fu la sua risposta; poi, dopo una pausa – “considerando il pesce come niente”. Il modo era tutto. Era come se con una sola frase perentoria avesse decretato la cancellazione di tutte le cose edibili e saporite che l’oceano fornitore di cibo nutriente riversa sulla povera umanità dal suo seno acqueo. Questa era grandezza , temperata con una cortese considerazione per i sentimenti del suo ospite povero ma accogliente. Fosti grande in vita, Robert William Elliston! E non sminuito nella morte, se è vera la storia che tu abbia ordinato che le tue spoglie mortali non riposino sotto nessun’altra epigrafe se non una in puro latino. Hai avuto un’istruzione classica! E fu bello il sentimento sul tuo letto di morte che, collegando l’uomo con il bambino, ti riportò indietro all’ultimo esercizio di fantasia e ai giorni in cui, non sognando teatri e direzioni, eri uno studente, e anche precoce, sotto il tetto costruito dal pio e munifico Colet. 235 Per te piangono le muse paoline. Canteranno le tue lodi in elegie, che metteranno a tacere questa rozza prosa.

233 Iliade, XXI, 106-107. 234 Nel 1809 Elliston aveva trasformato in teatro un edificio in Blackfriars Road usato per rappresentazioni con cavalli o con cani (Royal Circus) e lo gestì fino al 1814. In quell’anno Elliston cominciò ad occuparsi dell’Olympic e il Surrey Theatre fu di nuovo convertito in un circo. 235 John Colet (1467-1519) fondatore della St. Paul’s school e decano di St. Paul.

94 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

La morte di Munden 236 Lettera indirizzata all’editore di The Athenaeum

Caro Signore, la notizia che mi avete dato della morte di Munden mi ha fatto piangere. Ora, signore, io non sono incline alle lacrime, ma in questo periodo così serio la perdita di metà della comicità del mondo non è una privazione da poco. Fu una perdita per me (o dovrei dire un guadagno?) non aver mai visto Munden recitare nei primi tempi in cui andavo a teatro. C’erano solo lui e Lewis al Covent Garden mentre il Drury Lane abbondava in attori comici, con Parsons, Dodd, etc – una compagnia quale il teatro non ha mai avuto. Perciò, al tramonto della mia vita, ho avuto Munden tutto per me, più maturo, forse più ricco di sempre. Non so dire che effetto mi facesse il suo cambiare volto. Non era recitare. Lui non era uno dei miei “vecchi attori”. Poteva essere meglio che recitare. La sua forza era straordinaria. Lo vidi una sera fare tre personaggi ubriachi. Furono rappresentate tre farse; una parte era Dozey – ho dimenticato le altre, ma erano così diverse che un estraneo avrebbe potuto vederle tutte e tre e non avrebbe immaginato che stava vedendo lo stesso attore. Sono geloso degli attori della mia giovinezza. Lui non era un Parsons o un Dodd, ma era più stupefacente: pareva che potesse fare qualsiasi cosa. Non era un attore ma qualcosa di meglio , se mi consentite. Devo fare l’esempio del Vecchio Foresight in Love for Love , in cui Parsons era al tempo stesso il vecchio, l’astrologo, ecc.? Munden aveva eliminato il vecchio senile – che caratterizza il personaggio – e l’aveva sostituito con una figura stralunata, una perfetta astrazione terrestre ma che sembrava appena arrivata da un altro pianeta. Ora, questo non è ciò che io chiamo recitare . Poteva essere meglio. Lui era immaginativo, sapeva imprimere sul pubblico un’ idea – magari bassa, di un coscio di montone con le rape; ma tale era la grandiosità e l’unicità delle sue espressioni che quella singola espressione avrebbe comunicato a tutto l’uditorio un’idea di tutti i piaceri che tutti avevano ricevuto da tutti i cosci di montone con le rape che avessero mai mangiato nella loro vita. Ora, questo non è recitare e io non metto Munden tra i miei vecchi attori. Era solo un uomo meraviglioso, che mostrava le sue vive impressioni

236 La lettera, pubblicata su Athenaeum l’11 febbraio 1832, è preceduta da un editoriale in cui si dice che il giornale si apprestava a pubblicare un breve ma doveroso ricordo di Munden (morto il 6 febbraio 1832) quando fu ricevuta la lettera di Lamb, subito accettata perché ritenuta “migliore di un intero volume di scarne biografie”. In fondo al saggio Lamb cita il testo di un “gentiluomo” che viene riportato a seguire. La firma T. N. T. è quella di Sir Thomas Noon Talfourd (1795-1854), amico di Lamb, avvocato e drammaturgo, oltre che per un certo periodo della sua vita, critico teatrale. Secondo W. Macdonald, curatore dell’edizione dei Critical Essays di Lamb (London, Dent, 1903), lo stile di Talfourd indica che fu questi a scrivere “Munden’s Farewell” (“L’addio di Munden”) che invece è comunemente attribuito a Lamb.

95 Charles Lamb, Theatralia

attraverso il mezzo del palcoscenico. In una sola occasione l’ho visto recitare – cioè sostenere un personaggio: era in una misera farsa intitolata Johnny Gilpin a beneficio di Dowton, in cui egli faceva un cockney. 237 La pièce fu rappresentata solo per una serata, ma quando dico che Lubin Log 238 non era niente al confronto, dico poco – fu eccezionale. E qui lasciatemi dire a proposito degli attori – attori invidiosi – che Liston parlava sempre di Munden quasi con l’entusiasmo riservato ai morti, in termini di riconosciuta superiorità nei confronti di qualsiasi attore teatrale, e questo in un momento in cui Munden era passato nella stima delle persone; ciò mi ha convinto che gli artisti (in questo termine includo poeti, pittori, ecc.) non sono invidiosi come il mondo pensa. Ho poco tempo e perciò accludo una critica sul vecchio Dozey di Munden e sulla sua recitazione in generale, scritta da un gentiluomo che ora si occupa di queste cose meno di prima, ma il cui giudizio ritengo magistrale.

“Mr. Munden ci sembra il più classico degli attori. È nella farsa brillante ciò che Kemble era nella tragedia elevata. Dobbiamo ammettere che i profili di questi grandi artisti sono abbastanza diversi, ma in entrambi ci sono gli stessi elementi, la stessa onestà di scopo, la stessa unicità di obiettivo, la stessa concentrazione di forza, la stessa precisione statuaria di gesto, movimento e atteggiamento. L’eroe della farsa è poco influenzato dagli impulsi che gli arrivano da fuori, come il principe degli attori tragici ora ritiratosi. C’è qualcosa di solido, puro, quasi adamantino, nella costruzione dei suoi personaggi più grotteschi. Quando fissa il suo volto miracoloso in una delle più stupefacenti varietà, sembra che l’immagine sia stata incisa su una roccia dalla natura in vena di scherzi, e che possa restare così per sempre. È come immaginiamo dovesse essere una maschera dell’antica commedia greca, solo che questa vive, respira, e cambia. I suoi gesti più fantastici sono il grandioso ideale della farsa. Sembra essere appartenuto alla prima, alla più grande età della commedia quando questa, invece di stranezze superficiali e di inconsistenti varietà di moda, aveva le grandi asperità dell’uomo su cui lavorare, quando le sue immagini grottesche possedevano qualcosa di romantico e quando l’umorismo e la parodia erano essi stessi eroici. Le sue espressioni di sentimenti e le fiammate di entusiasmo sono le più genuine che abbiamo mai provato. Sembrano salire da un’emozione profonda nel cuore e rompere l’involucro solido delle

237 Era il 28 aprile 1817: nella beneficiata di Dowton era stata recitata la commedia di Sheridan, The Rivals , e la farsa successiva era appunto Johnny Gilpin , in cui Dowton era il personaggio eponimo e Munden faceva la parte di un cockney di nome Anthony Brittle (si veda la biografia scritta dal figlio di Munden, Memoirs of Joseph Shepherd Munden, Comedian , 1844). 238 Lubin Log è un personaggio della farsa di James Kenney Love, Law and Physic (Amore, legge e medicina), interpretato con successo da Liston al Covent Garden fino dalla prima il 20 novembre 1812.

96 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

maniere con una forza che pare decuplicata dall’ostacolo reale e vigoroso. L’attività del suo spirito dà l’impressione di ingrandire la sua persona, fino a farci meravigliare che sia così piccola di taglia; perché lo spazio che occupa nell’immaginazione è così reale che quasi lo confondiamo con quello delle dimensioni corporee. Il vecchio Dozey, nell’eccellente farsa Past Ten o’Clock è la sua prova più grande di questo genere e non conosciamo niente di più bello. Sembra davvero avere un ‘cuore di quercia’. La sua descrizione di una battaglia navale è il pezzo più pieno di passione, più nobile e trionfante che ricordiamo. È come se lo spirito di un intero equipaggio di eroi senza nome ‘gli crescesse in petto’. Non abbiamo mai provato una partecipazione così ardente e orgogliosa al valore dell’Inghilterra di quando abbiamo udito questo racconto. Che abbia salute a lungo, in modo da far del bene ai nostri cuori, perché non abbiamo mai visto un attore le cui qualità somiglino minimamente alle sue, neanche come specie, e quando il suo genio si ritirerà dal palcoscenico non ci rimarrà neppure una parola per descriverlo in modo appropriato. T. N. T.”.

Recensioni

Il Richard III di Cooke 239 Alcuni di noi ricordano di aver visto Quin, e Garrick, e Barry, e tutti abbiamo sentito i nostri padri parlare di loro; così ci restano delle vaghe informazioni convenzionali dei loro modi in scene particolari e dello stile con cui recitavano certe frasi enfatiche. Per questo il fatto che faccia la sua comparsa un nuovo Amleto o un nuovo Riccardo suscita la nostra curiosità di sapere in primo luogo come ha recitato nella scena con la madre, nella scena della tenda; che aspetto aveva e come ha sobbalzato quando è apparso lo spettro, e come ha gridato

Tagliategli la testa. Basta così per Buckingham. 240

Non ci rimproveriamo questa tendenza a fare paragoni circostanziati; al contrario, la consideriamo un piacevole artificio con cui colleghiamo i divertimenti del passato a quelli della generazione attuale, ciò che piaceva ai nostri padri a ciò che piace a noi. Amiamo osservare gli attaccamenti ostinati, i pregiudizi inattaccabili (così ci sembrano) dei vecchi, più anziani

239 Il pezzo apparve sul Morning Post il 4 gennaio 1802. È una delle prime recensioni teatrali scritte da Lamb, e fu pubblicata in un giornale con il quale non collaborò più dal mese di gennaio di quell’anno, perché il direttore voleva che le critiche uscissero il mattino successive allo spettacolo e Lamb riteneva impossibile scrivere facendo le corse con il tempo. 240 La famosissima battuta in realtà non è nell’originale shakespeariano, bensì nell’ultima scena dell’atto IV (quando Catesby annuncia a Richard che Buckingham è stato catturato dal nemico) del fortunato adattamento (1700) di Colley Cibber di Richard III .

97 Charles Lamb, Theatralia

di noi, la gratificazione bizzarra che sembrano avere proprio dal rifiuto di essere gratificati; sentirli parlare dei bravi attori di un tempo , la cui razza è ormai estinta. Con queste sensazioni, sono andato lo scorso inverno alla prima di Mr. Cooke nel ruolo di Riccardo III. Pensavo che “trafficasse” in scena con lo stesso spirito e lo stesso effetto di tutti i suoi predecessori che ricordiamo in questo ruolo, e che fosse all’altezza in tutti quei memorabili discorsi e quelle sfuriate che la norma ha stabilito come criteri di confronto. Ora che il beneficio della novità è svanito e che Mr. Cooke non è più un principiante candidato all’approvazione del pubblico, mi propongo di affrontare la questione – se quell’attore famoso abbia ragione o torto nel concepire il grandioso profilo del personaggio, quelle forti differenze essenziali che separano Riccardo da tutte le altre creazioni di Shakespeare. Dico “di Shakespeare” sebbene la pièce che passa per sua sul palcoscenico sia sostanzialmente diversa da quella con lo stesso titolo che ha scritto lui, e sia di fatto poco più che una compilazione o un centone di brani estratti da altre sue opere e inseriti con una volgare violazione della proprietà (sono pronto in qualsiasi momento a dimostrarlo), oltre ad alcune misere aggiunte che lui non avrebbe mai potuto scrivere, e l’insieme produca un’inevitabile incoerenza del personaggio, sufficiente a sconcertare e disorientare anche l’attore più bravo . Eppure, in questo caos e in questa confusione, penso che un attore debba mostrare il suo gusto, aderendo il più possibile allo spirito e alle intenzioni dell’autore originale, e mettersi al sicuro virando verso la luce che Shakespeare gli mostra, come una grande stella guida. In base a questi principi, voglio criticare Mr. Cooke, anche se sono pronto a riconoscere che questo attore ci mostra un ritratto molto originale e molto efficace (se non dell’ uomo Riccardo disegnato da Shakespeare) del mostro Riccardo come esiste nell’immaginario popolare, nel suo autolesionismo esagerato e intelligente, nella rappresentazione forzata di tutti quelli che furono vittime della sua ambizione e, soprattutto, nelle scene sordide e estranee messe lì assurdamente da chi ha pensato di essere in grado di aggiungerle a ciò che aveva scritto Shakespeare. Ma parliamo del Riccardo di Mr. Cooke: 1. La sua simulazione predominante e magistrale . Ha una lingua che può convincere quanto il Demonio. 241 In tutti i tempi la politica di quell’antico e cupo simulatore è sempre stata di nascondere le corna e gli artigli. Il Riccardo di Mr. Cooke li mostra continuamente. Vediamo che i suoi inganni hanno regolarmente successo, ma non capiamo come ci riescano. Possiamo, con una finzione molto comune, metterci nei panni di quelli che li subiscono e dire che in casi simili non saremmo stati così ingenui. L’ipocrisia è troppo visibile e ovvia. Somiglia più alla furbizia superficiale di una mente che è vittima essa stessa

241 C. Cibber, Richard III , 2.1.

98 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

che non all’arte profonda e esperta di un intelletto potente come quello di Riccardo. È troppo chiassosa e insistente e esplode in trionfi e in applausi per il suo successo, come un novizio non addestrato agli imbrogli. Non ha niente della sicurezza silenziosa e del fermo autocontrollo del politico navigato; non ha niente di quell’abilità di parola necessaria per ingannare il cuore di Lady Anne, o per avere la meglio sulla mente meno pronta del Lord Mayor e dei Cittadini. 2. La sua giocosità abituale , effetto dello spirito positivo, e una mente elastica, che gode della sua forza e del successo delle sue macchinazioni. Questa qualità di instancabile allegria accompagna Riccardo ed è una caratteristica principale del suo carattere. Non lo abbandona mai; nelle trame, negli stratagemmi, e nel bel mezzo dei suoi espedienti sanguinari lo spinge continuamente verso l’arguzia, gli scherzi, la satira personale, le allusioni fantasiose e la singolare felicità del suo linguaggio. È uno degli artifici principali con cui il maestro perfetto degli effetti drammatici è riuscito ad alleviare gli orrori della scena e a farci considerare con piacere un personaggio sanguinario e feroce. Da nessuna parte, in nessuno dei suoi drammi, si trova un dialogo così vivacemente colloquiale e dei soliloqui di vero umorismo, come in Riccardo . Mr. Cooke sembra aver scavalcato completamente questa forma di spontanea allegria e averla sostituita con l’umore grossolano e sarcastico e con la goffa contentezza di un volgare assassino. 3. La sua deformità fisica . Quando il Riccardo di Mr. Cooke fa allusioni alla sua forma, queste sembrano accompagnate da puro disgusto e da dolore, come un’idea importuna e tormentosa – ma di certo il Riccardo di Shakespeare mescola in queste allusioni continui riferimenti ai suoi poteri e alle sue capacità, attraverso i quali può superare ostacoli insignificanti; e la gioia di aver vinto un difetto o di averlo trasformato in un vantaggio è un motivo di queste stesse allusioni e della soddisfazione con cui la sua mente vi ritorna. Le allusioni stesse sono fatte con uno spirito di esagerazione ironico e ilare – la più amara è nel soliloquio in cui si congratula con se stesso, nel momento culminante della sua gioia per aver avuto successo in un corteggiamento senza precedenti. Nessuna perfezione nei particolari può rimediare a questa assenza di una giusta idea generale – altrimenti dovremmo ammettere che, nel recitare singole frasi, nel gettare nuova luce, spesso indovinata, su passaggi vecchi e finora fraintesi, nessun attore che abbiamo visto fin qui abbia superato Mr. Cooke. È sempre pronto alla scena che ha davanti, e con la forza e la novità del suo modo di recitare, è probabile che infonda del sangue caldo nel gelido stile declamatorio in cui i nostri teatri da un po’ di tempo sono scaduti.

99 Charles Lamb, Theatralia

Mr. Cooke nei panni di Lear 242 Covent Garden

Mr. Cooke ieri sera ha recitato in questo teatro la parte di Lear, nella tragedia omonima. È un personaggio che poco si attaglia alle sue doti. Il suo cavallo di battaglia sarà sempre nell’esprimere passioni forti e tempestose, ma gli manca la dolcezza e la delicatezza per le scene commoventi e melanconiche. Perciò, qualunque sia la sua bravura nel personaggio ambizioso e eroico di Riccardo, chi ha valutato in modo corretto le sue peculiari qualità non poteva aspettarsi molto dalla rappresentazione dell’afflitto Lear. Non ci può essere un principio più chiaro di quello che osserva che la crudeltà e l’ingratitudine sono malvage in proporzione a quanto il loro oggetto è debole e impotente. Perciò il grande maestro del cuore umano fa sì che questo buon vecchio re si rappresenti come un uomo giunto al limite estremo della vita – un uomo “di ottant’anni e più”. 243 È dal fatto di buttare fuori dalla porta un uomo così, e da parte delle figlie ingrate, “a fare da bersaglio all’impietosa tempesta”, che soprattutto nasce l’interesse. In questo verso, marcato in modo così chiaro dal poeta, Mr. Cooke ha mostrato un’assoluta mancanza di comprensione. Camminava in modo uniforme e risoluto e tutto il suo portamento era troppo vigoroso per l’età. Il cuore perciò non poteva sentire la pietà che suscita sempre la vista di un oggetto esemplare, incapace fisicamente di lottare contro avversità che non merita. Anche il suo eloquio, chiaro e forte, non aveva affatto il tremore della vecchiaia debole e raramente è riuscito a modulare la voce in toni abbastanza lamentosi e fragili da esprimere il tormento di un cuore spezzato. La scena in cui lancia una maledizione contro l’irrispettosa Goneril è stata resa con energia ma senza l’angoscia che deve stringere il cuore di un genitore in una situazione del genere. Anche la scena della follia con Edgar è stata una prova di recitazione molto imperfetta e pochi dei bei brani di cui il dramma è pieno hanno avuto quel meraviglioso colore e l’enfasi con cui Mr. Kemble nello stesso ruolo riceve tanti plausi nell’altro teatro.244 Siccome Mr. Cooke si è messo a confronto in così modo evidente questo accenno non può essere giudicato offensivo. – Questa nuova prova dovrebbe tuttavia renderlo più cauto ad avventurarsi oltre le sue capacità, e giustifica la mia idea che egli non possieda un’elasticità mentale, una flessibilità di energia che gli permetta di inseguire il rivale attraverso i suoi diversi personaggi con lo stesso successo con cui lo affronta sul campo di battaglia di Bosworth.

242 Pubblicato sul Morning Post il 9 gennaio 1802. Fu l’ultimo pezzo scritto per questo giornale (cfr. nota 239). 243 King Lear , 4.7.60. 244 Cioè al Drury Lane.

100 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Mr. H. Siddons è stato un eccellente Edgar: le scene di pazzia hanno dimostrato una recitazione pulita e naturale e diversi passaggi erano contraddistinti da una bellezza dovuta personalmente a lui. La sua rappresentazione di questo personaggio sarebbe stata ancora più interessante se nei suoi modi avesse messo più tenerezza per il suo amore, Cordelia, 245 e per suo padre, lo sfortunato duca di Gloucester. Miss Murray, di cui conosciamo bene la qualità nei personaggi di semplice pathos, ha fatto un ritratto di Cordelia molto interessante. Ha recitato la sua parte con grande delicatezza e sentimento, dolcezza e semplicità. Mr. Hull nella parte di Gloucester era naturale e convincente, e Mr. Waddy, pur se un duca di Kent un po’ grossolano, ha reso un buon ritratto della schietta onestà nel suo umile travestimento come Caius. Gli altri personaggi non avevano molto valore e non meritano molta attenzione.

Il nuovo stile di recitazione 246 La differenza dell’attuale genia di attori da quelli che ricordo sembra essere che per esercitare la professione ora è necessario meno studio di quanto fosse ritenuto indispensabile un tempo. Parsons e Dodd devono aver riflettuto un bel po’ prima di aver perfezionato interpretazioni come Foresight e Aguecheek. 247 Non mancano ora attori capaci, ma raggiungono il loro scopo con minore impegno. Il metodo che adoperano è raggiungere una specie di familiarità con il pubblico, iniziare una sorta di amicizia personale, del tipo “salve amici, bentrovati”; quegli eccellenti comici, Bannister e Dowton, che non avevano assolutamente bisogno di questi artifici, non hanno però disdegnato di usarli. Si vede già alla prima entrata in scena uno scambio di saluti e di consenso tra loro e il teatro. È stupefacente quanta trascuratezza nella recitazione si introduca a causa di questo rapporto. Dopo tutto, è uno sbaglio bonario e nascono molti sentimenti generosi nelle gallerie per questo procedimento, sentimenti che sono meglio delle critiche. Il Jerry Sneak 248 di Russell mi sembra una delle parti di più ricca coloritura che abbiamo ora in scena in ambito comico sempre che poi, in realtà, sia del tutto comico perché l’effetto che ha su di me, in certi passaggi, è persino patetico. Il tono innocente, bonario, con cui Sneak cerca inutilmente di catturare la comprensione del crudele e sprezzante traditore del suo onore,

245 Evidentemente Lamb si sta riferendo all’adattamento di Nahum Tate che aveva inserito in King Lear una storia d’amore tra Edgar e Cordelia e trasformato il finale in un happy ending . Questa versione, in cui era assente il saggio e amaro fool , fu rappresentata al posto dell’originale fino a metà dell’800. 246 Pubblicato sull’ Examiner del 18 luglio 1813. 247 Personaggi rispettivamente di Love for Love di Congreve e di Twelfth Night di Shakespeare. 248 Nella farsa The Mayor of Garratt (Il sindaco di Garratt, 1764) di Samuel Foote, Jerry Sneak è un personaggio dominato dalla moglie.

101 Charles Lamb, Theatralia

il Maggiore; il leggero pizzico di dabbenaggine che l’attore è riuscito a mettere nella parte (che Foote, oserei dire, non ha mai neanche immaginato), che tuttavia ha il felice effetto di trasformare quello che sarebbe stato disprezzo, passione sgarbata che ferisce, in pietà e compassione, sono alcuni dei migliori effetti e tendono a rendere meno volgare la parte, se mi si consente l’espressione. – Come pezzo di puro divertimento, il Lord Grizzle 249 di Liston non ha eguali. Non è commedia e non è farsa. Non è natura né un’esagerazione della natura. È una creazione originale dell’attore. Grizzle sembra una creatura di un altro mondo, di quelle che Nicolaus Klimius avrebbe potuto vedere alle fantastiche corti del suo Mondo sotterraneo .250 È un’idea astratta delle qualità di corte – un’apoteosi dell’apatia. Le astrazioni di cortigiani fatte da Ben Jonson in Cynthia’s Revels (I festeggiamenti per Cinzia) e in Every Man out of his Humour (Ognuno fuori dal suo umore): che delizia sarebbe vederle sul palcoscenico rappresentate allo stesso modo! Quello che ho perso maggiormente la speranza di rivedere sono una serie di attrici come Mrs. Mattocks, Miss Pope e Mrs. Jordan. Questa abitudine di civettare è portata a un eccesso scandaloso da alcune delle signore che recitano le parti principali nella cosiddetta commedia elegante. Invece di usare le loro graziose attenzioni per l’amante sulla scena, come si accontentavano di fare Mrs. Abington o Mrs. Cibber, o come faceva prima di loro Mrs. Oldfield, tutta la batteria del loro fascino è ora impiegata per irretire – chi? – beh, tutto il pubblico – un migliaio di signori, forse – per questa bestia dalle tante teste aprono e chiudono il ventaglio, e imparano a piegare le labbra in sorrisi e a gonfiare il petto in modo eloquente. Queste doti personali, che di solito servivano da condimento piccante per l’epilogo, ora danno sapore a tutta la commedia. Temo che un’attrice che le trascurasse, non ne trarrebbe vantaggio. Sono certo che l’assenza di questo difetto in Miss Kelly, e l’attenzione giudiziosa che dà alla sua parte, facendo poco o per niente riferimento agli spettatori, sia il motivo per cui le sue tante qualità, anche se ora cominciano ad essere percepite, si sono fatte strada nel favore del pubblico più lentamente di quanto meritassero. Altri due o tre esempi simili avrebbero riformato il teatro e buttato fuori le Glover, le Johnston e le St. Leger. Oh, quando vedremo una parte femminile recitata nel modo tranquillo, non seducente, in cui Miss Pope interpretava Mrs. Candour? Quando ci sbarazzeremo di queste Dalile del teatro?

249 Personaggio di Tom Thumb (Pollicino, 1730) di Henry Fielding. 250 Il riferimento è al romanzo satirico Nicolai Klimii Iter Subterraneum (Il viaggio sotterraneo di Niels Klim, 1741) di Ludvig Holberg (1684-1754).

102 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Ricordi teatrali 251 Una volta ero seduto nella platea del Drury Lane accanto a un cieco che, seppi dopo, era un musicista di strada molto conosciuto a Londra. L’opera in programma era Richard III ed era strano osservare l’interesse che egli provava una scena dopo l’altra, in modo molto più vivace di quanto si poteva notare in tutti quelli attorno a lui. Durante quei dialoghi patetici tra la Regina e la Duchessa di York dopo l’uccisione dei bambini, gli occhi (o meglio, il luogo dove sarebbero dovuti essere) sprigionarono fiotti di lacrime e lui sedeva rapito mentre tutti lì vicino ridacchiavano, un po’ di lui e un po’ delle figure grottesche e della pessima recitazione delle donne che erano state scelte con gusto da impresario per impersonare quelle regali lamentatrici. Non avendo lo svantaggio della vista che riducesse la sua sensibilità, semplicemente assisteva alla scena e ne riceveva un’impressione genuina. Così la sua luce celestiale più splendeva dentro .252 Mi piacque l’osservazione che fece quando gli chiesi se gli piaceva Kemble, che interpretava Riccardo. Avrei pensato (disse lui) che costui leggesse qualcosa da un libro, se non avessi saputo che mi trovo in un teatro. Una volta fui divertito in modo diverso da un gruppetto di campagnoli che erano venuti a vedere una pièce in quello stesso teatro. Sembravano assolutamente disattenti a tutti i migliori attori per uno o due atti, sebbene l’opera fosse recitata in modo ammirevole, e invece continuavano a leggere attentamente il programma e evidentemente stavano aspettando che comparisse uno che doveva essere la fonte del loro massimo divertimento quella sera. Alla fine arrivò l’attore atteso, che aveva una particina molto insignificante, non molto più di un mulo. Vidi un debole tentativo da parte loro di scatenare un applauso quando quello comparve, e la delusione per il fatto che nessuno del pubblico lì assecondò. Vidi che cercavano di ammirare qualcosa di meraviglioso in lui e si stupivano tutto il tempo dell’effetto limitato che suscitava. Vidi il loro piacere e l’interesse alla fine ridursi a una piatta mortificazione, e di colpo il mistero si risolse perché mi ricordai che questo attore aveva lo stesso nome di un altro che era allora all’apice della celebrità, al Covent Garden, ma che recentemente ha terminato la sua carriera teatrale e la sua vita dall’altra parte dell’Atlantico. Erano venuti a vedere Mr. C---,253 ma nel teatro sbagliato. È fuori luogo osservare che ho sempre pensato che in teatro l’interesse sia suscitato in proporzione inversa al prezzo pagato per entrare? Prima, quando la mia vista e il mio udito erano migliori e la mia borsa lo era

251 Con il titolo generale di Table-Talk , il pezzo fu pubblicato su Examiner il 19 dicembre 1813; Lamb poi lo ripubblicò con il titolo attuale su The Indicator di Leigh Hunt il 13 dicembre 1819. 252 La citazione, leggermente cambiata è dall’invocazione alla luce in Milton, Paradise Lost , III, 51-52. 253 George Frederick Cooke. Il Cooke che i due campagnoli avevano visto era forse T. P. Cooke (1786-1864) che divenne poi famoso nei ruoli di marinai.

103 Charles Lamb, Theatralia

meno, ero un frequentatore del loggione nei vecchi teatri. L’attenzione viva, l’ascolto col fiato sospeso, l’ansia di non perdere neanche una parola, l’attesa vigile del significato della scena (tutti i sensi tenuti per così dire sul chi vive), mostrati da chi occupa quei posti più in alto e ora quasi fuori dalla visuale (quelli che andando di rado a teatro non possono permettersi di perdere niente per non essere stati attenti), diminuiscono di poco quando si scende a un ordine di posti più bassi, da due scellini: la gioia è ancora viva e pura, salvo che per qualche intrusione delle buone maniere, e ci si aspetta che essa venga espressa con un po’ meno della sua naturale vivacità. Qui gli applausi legnosi dei costruttori di bauli sarebbero considerati un po’ sopra le righe. – In platea comincia quella maledetta facoltà critica che, rendendo un uomo giudice dei suoi piaceri, troppo spesso ne fa un carnefice sia dei piaceri suoi che di quelli degli altri! Vi si può vedere l’imbarazzo di essere divertiti ingiustificatamente, la paura di essere scoperti in ammirazione; in breve, il vile spirito critico, che striscia e si sparge, diffondendosi dai cipigli e dagli sguardi imbronciati dei saggi della prima fila e dei recensori di giornali (in cui esso risiede in modo appropriato), fino a infettare e a stendersi sopra le espressioni vuote, incoscienti, dei mercanti inglesi, di impiegati di banca che, se non fosse per quella vicinanza, si sarebbero accontentati di ridere senza regole e di divertirsi senza sapere perché. Sedersi accanto a un critico è contagioso. Eppure, di tanto in tanto, tra di loro si trovano degli spettatori genuini, un negoziante con la sua famiglia, per i quali gli stimoli onesti a divertirsi, le risate generose di approvazione non possono attendere o prendere con comodo l’imbeccata dalle facce aspre e giudicatrici vicino a loro. Fortunatamente non hanno mai nemmeno immaginato che ci siano in natura animali come i critici o i recensori; persino l’idea di un autore può essere un concetto cui non hanno mai pensato; prendono l’allegria che trovano come pura emanazione degli attori, messi lì allo scopo di farli divertire. Adoro la gratitudine non inquisitoria di questi spettatori. Quanto ai palchi, non capisco che cosa porti le persone ad andarci. Vedo una tale fredda indifferenza, una partecipazione così disinteressata, una tale impenetrabilità al piacere o al suo contrario, uno stare nel teatro e non essere parte di esso , che di certo li rende più vicini alla natura degli dei , almeno secondo il sistema di Lucrezio, di quegli onesti mortali, cordiali, divertiti, partecipativi che, da tempo immemore, si sono chiamati così unicamente sulla base della posizione assegnata loro. 254 Prendete il teatro intero: in generale c’è meno divertimento di quanto ce n’era di solito. Un tempo si poteva vedere l’effetto di novità su un cittadino, sua moglie e le figlie, giù in platea, la loro curiosità a ogni viso

254 The Gods , gli dei, è il nome del loggione nei teatri inglesi, come paradis lo è in francese. Molto più prosaicamente, in italiano si parla di piccionaia. Lucrezio nel De rerum natura immagina che gli dei siano al di sopra delle passioni, incuranti del mondo e in assoluta pace.

104 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

nuovo che entrava in palcoscenico. Come erano entrati in teatro, e che folla c’era in qualche occasione precedente, erano l’argomento fino a che il sipario veniva tirato su. La gente ora va troppo spesso a teatro perché l’ingresso o l’uscita siano importanti. Ragazzini di sette anni parlano degli attori in modo familiare, e con consapevolezza (secondo il parere comune) come gli adulti; molto più degli adulti ai miei tempi. Quando mai dimenticherò la prima volta che ho visto una pièce teatrale, a cinque o sei anni? 255 Era Artaxerses . Non so chi vi recitasse o cantasse. Non mi vennero neanche in mente idee così modeste come i nomi degli attori o le loro qualità. Il mistero del piacere non era stato sviscerato e dissolto per me da chi mi aveva condotto lì. Erano Artaserse, e Arbace e Mandane che vedevo, non Mr. Beard, o Mr. Leoni o Mrs. Kennedy. Tutto era incanto e sogno. Da allora non ho più provato un piacere come quello se non sognando. Fui in Persia per tutto il tempo e l’idolo fiammeggiante della loro devozione nel Tempio mi convertì quasi in un adoratore. Ero sbalordito e credetti che quello fosse più che realmente fuoco. Come Uriel, ero nel sole. 256 – Che cosa ci avrei guadagnato a sapere (come avrei fatto se fossi nato trent’anni dopo) che quella immagine solare era solo una scena dipinta che non aveva in sé né fuoco né luce e che i fantasmi regali che passavano in rassegna davanti a me non erano altro che comuni mortali come quelli che potevo vedere ogni giorno dalla finestra di mio padre? Distruggiamo la facoltà del piacere e della meraviglia nei bambini spiegando tutto. Li portiamo alle sorgenti del Nilo, e mostriamo loro un piccolo rigagnolo invece di lasciare che l’origine di quel fiume sette volte più grande resti in un’oscurità impenetrabile, misterioso motivo di meraviglia e di piacere per le epoche a venire.

Il Don Giovanni di Miss Burrell

Olympic Theatre 257

Questo teatro, dotato di nuove decorazioni raffinate, è stato inaugurato lunedì con una burletta basata su una divertente avventura che si dice sia

255 Si veda il saggio “La mia prima volta a teatro”. 256 Nel III libro di Paradise Lost , Uriel è a guardia della sfera del Sole e funziona come l’occhio di Dio. 257 Il saggio era una recensione dello spettacolo parodico Giovanni in London , e fu pubblicato sull’ Examiner il 22 novembre 1818. Che sia di Lamb, anche se non firmato, è provato da uno scritto di Talfourd su Miss Burrell. L’Olympic Theatre, aperto nel 1806, fu poi venduto a Elliston che lo risistemò e lo riaprì con il nome Little Drury Lane, inaugurandolo con una commedia di Moncrieff nel 1813. Sarebbe poi stato demolito nel 1904 per far posto all’attuale Aldwych.

105 Charles Lamb, Theatralia

capitata a Wilmot, il “matto” Lord Rochester. 258 Il teatro, così rinnovato, è proprio quello che tutti i teatri dovrebbero essere, e come erano una volta, a cominciare dalla dimensione, adattata in modo ammirevole per vedere e udire, e forse solo troppo illuminato. La luce è una cosa buona, ma preservarsi gli occhi è ancora meglio. Elliston e Mrs. Edwin hanno interpretato perfettamente uno spirito arguto e una bella donna della corte di Carlo II. Ma la cosa più affascinante della serata secondo noi, lo confesso, fu la recitazione di Mrs. T. Gould (un tempo Miss Burrell) nella parodia “Don Giovanni” 259 che seguì. Questa eccellente buffonata riprende il nostro eroe dove il dramma originale lo lascia – sul “bitume ardente”. Ci viene mostrata una bella mappa del Tartaro, il cane con tre teste, le Furie, i Tormentatori e il Don, prostrato, colpito dal fulmine. Ma c’è un’energia nel carattere originale di questo strano uomo , come l’avrebbe chiamato Richardson. Non è di quelli che cambiano cambiando luogo. Porta con sé nella nuova dimora passioni vivaci e costanti come quelle che trova sul posto. Non appena si è riavuto dalla prima sorpresa ricade nel suo vecchio commercio, è trovato ad “adocchiare Prosperina” e flirta con due diavolesse alla volta, finché rende il posto troppo caldo per restarvi , e Plutone (in cui una saggia gelosia sembra produrre effetti di generosità) lo prende per il collo e lo butta fuori dal suo regno – con grande soddisfazione di Giovanni che, rubando una barca a Caronte, e prendendo un paio di calzari alati a Mercurio o (come lui lo chiama con familiarità) “Murky” se ne va con successo portando nel mondo celeste le anime di tre damigelle, appena fuggite dallo Stige, per confortare in viaggio la sua tenera neonata spiritualità. Arrivato sulla terra (supponiamo con un corpo nuovo ma con le vecchie abitudini), capita à propos in una taverna a Londra sulla cui porta tre allegre tessitrici, vedove, stanno cantando una canzoncina in segno di vittoria sui loro mariti defunti:

Giacciono in quel cimitero A riposo – come noi.

I loro compagni deceduti mostrano di essere proprio quei fantasmi femmina che hanno accompagnato il Don in volo e che lui ora deposita in perfetta salute e in buone condizioni, senza che abbiano risentito neanche un po’ del viaggio, con infinita sorpresa e costernazione, malcelate, delle loro sfortunate compagne, di nuovo sotto il giogo. Le galanterie del Don nel suo secondo periodo di prova, l’incontro con Leporello, con Donna

258 John Wilmot, conte di Rochester, poeta e drammaturgo della corte di Carlo II. Noto libertino e scrittore satirico fu amante e protettore dell’attrice Elizabeth Barry cui si dice abbia dato lezioni di recitazione. La burletta di W. T. Moncrieff (1794-1857) si intitolava Rochester; or, King Charles II’s Merry Days (Rochester; ovvero La divertente epoca di Carlo II). 259 Si tratta della burletta di W. T. Moncrieff, Giovanni in London; or, The Libertine Reclaimed , che fu rappresentata per la prima volta all’Olympic Theatre il 26 dicembre 1817.

106 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Anna e inoltre con una caterva infinita di vergini offese, che fanno penitenza nell’umile professione di venditrici di mele, pescivendole, friggitrici di salsicce nei dintorni di Billingsgate e di Covent Garden, fino alla sua completa rieducazione con cui diventa un uomo onesto, e mette su una famiglia da buon cittadino inglese: tutto questo, anche se infinitamente divertente nello spettacolo, sarebbe noioso a raccontarsi. Comunque va detto qualcosa dell’interprete. Abbiamo visto Mrs. Jordan in ruoli maschili e altre signore che vorremmo ricordare, ma nessuna che si attagliasse così totalmente alla figura del Don Giovanni parodico. Questa parte, come viene recitata al Gran Teatro 260 a Haymarket (ombra di Mozart, e voi ammiratori viventi di Ambrogetti, perdonate la barbarie!) ha sempre avuto per noi qualcosa di repellente e di sgradevole. Non riusciamo ad amare la brutale esposizione che Leporello fa del catalogo , e siamo rimasti scioccati (e non siamo dei seri moralisti) dagli applausi, dalla tolleranza , dovremmo piuttosto dire, che la moda e la bellezza hanno offerto a questo disgustoso insulto all’infelicità femminile. Il Leporello dell’Olympic Theatre non è del genere più raffinato, ma tolleriamo più un furfante inglese che non lo spietato italiano. Però Giovanni – libero, bello, una creatura con uno spirito franco e un cuore sincero, che trasforma ogni bricconata in un divertimento innocuo come i giochi o le finzioni infantili – con quale elogio possiamo ripagare in modo adeguato il piacere che ci hai dato? Faremmo meglio a stare zitti, perché tu non hai un nome e dartene uno potrebbe sembrare stravagante. Hai tolto il pungiglione dal male ma non sappiamo con quale magia, dato che ci sono attrici che hanno qualità e attributi migliori di te. Il nostro spirito sarà con te e con il tuo Giovanni ogni volta che ci toccheranno in sorte pena o sofferenza. Ti abbiamo visto trionfare sulle potenze infernali: il dolore, Erebo e le forze oscure sono d’ora in poi “forme di un sogno”.

Miss Kelly a Bath 261 Caro G ,  ieri pensavo ai vecchi tempi in cui andavamo a teatro, alla tua e alla mia parzialità verso Mrs. Jordan, alle nostre discussioni sui meriti di Dodd e di Parsons e su chi, se Smith o Jack Palmer, fosse il più signorile. Il motivo per cui ho cominciato a pensare a tutte queste cose è stato che ho letto sul giornale che Miss Kelly farà una visita al Bath Theatre (il tuo teatro, mi dispiace di aver saputo, è chiuso, per motivi economici o per

260 King’s Theatre a Haymarket. Il Don Giovanni mozartiano fu prodotto lì nel 1817 con Ambrogetti nel cast. Giuseppe Ambrogetti (1780-dopo il 1838) era un cantante d’opera del genere basso buffo, ammirato più come attore che come cantante. 261 L’articolo riproduce una lettera che Lamb scrisse all’amico John Matthew Gutch, e che questi pubblicò su un giornale di provincia, il Felix Farley’s Bristol Journal (30 gennaio 1819). Leigh Hunt la ripropose pochi giorni dopo, sull’ Examiner del 7 e 8 febbraio 1819, come una straordinaria critica all’attrice.

107 Charles Lamb, Theatralia

l’influenza di princìpi ). 262 Per lungo tempo questa signora è stata classificata tra le più eminenti attrici di Londra. Se ce ne sono una o due che hanno una fama più grande, devo attribuirlo al fatto che lei non è piombata di colpo sulla città nella piena maturità della sua energia – è un gran vantaggio per le débutants che hanno passato gli anni dell’apprendistato in teatri di provincia: non le sentiamo accordare gli strumenti. Lei ha fatto strada pazientemente dalle posizioni più umili fino alla reputazione che ora ha raggiunto, sugli stessi palcoscenici che hanno visto le sue prime piccole affermazioni come corista. Vorrei davvero che tu andassi a vederla. Non vedrai Mrs. Jordan, ma qualcos’altro – qualcosa tutto sommato molto poco inferiore, se mai lo si può dire, a quella che era Mrs. Jordan nei suoi giorni migliori. Non posso sperare che tu lo penserai, non desidero neanche che tu lo faccia. I nostri lontani ricordi sono assolutamente sacri e rispetterò il pregiudizio che ti impedirà di avere di Miss Kelly un’opinione così favorevole come la mia. Non so neanche bene come tracciare un parallelo tra questi due diversi modi di recitare; mi pare di riconoscere in entrambi la stessa piacevolezza e la stessa natura. Quello di Mrs. Jordan era la spensieratezza di un bambino; il suo spirito infantile toglieva agli spettatori il peso degli anni. Sembrava che gli affanni non potessero avvicinarla – un essere privilegiato inviato a insegnare all’umanità la cosa che più le manca: la gioiosità. Perciò se avevamo un piacere più puro dalle sue interpretazioni forse però vi partecipavamo meno di quanto facciamo con quelle dell’attrice che le è succeduta. Questa ha la gioia di uno spirito liberato che sfugge alla preoccupazione, come un uccellino che sia stato invischiato. I suoi sorrisi, se posso usare l’espressione, sembrano salvati da un incendio – relitti che uno spirito buono ha afferrato perché più facilmente trasportabili. I suoi malumori sono visitatori, non inquilini; può accantonarli completamente e quando lo fa non sono sicuro che non sia lei la più grande. In realtà, non è una comune attrice tragica. La sua Yarico 263 è la prova di recitazione più intensa che abbia mai visto, lo spettacolo più straziante. Vederla chinarsi su quel miserabile incostante, il suo amante – mostrarne il vero carattere sarebbe un oltraggio morale, se non fosse per la credulità fedele e nobile di lei – vederla chinarsi su quel pezzente e con la forza della passione immaginarlo un dio è una delle lezioni più dolorose del desiderio del cuore umano e dei suoi errori che sia mai stata vista su un palcoscenico. La rappresentazione è interamente africana, fervida, brillante. E tutto questo non è altro che la meravigliosa forza dell’immaginazione in quest’attrice; cambiate la scena e la vedrete apparire in un qualche personaggio gentile, domestico, di una campagnola, una Phoebe o una

262 La parola che qui manca nell’edizione di Bristol pensiamo sia “Metodisti” [Nota dell’Autore]. 263 In Inkle and Yarico , di George Colman the Younger (1787).

108 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Dinah Cropley, 264 e giurereste che i suoi pensieri non abbiano mai vagato fuori dai confini della latteria o della fattoria, o che il suo animo non abbia mai conosciuto passioni meno tranquille di quelle che può aver provato tra le pecore, sue compagne all’aria aperta. E ancora vedetela in parti puramente comiche, come nella cameriera in Merry Mourners ,265 dove il suo modo di tenere la scopa in mano dopo averla fatta volteggiare quando incontra inaspettatamente il suo innamorato nel personaggio del servo, è assolutamente uguale all’allegra ebrezza di Mrs. Jordan nell’impersonare Nell. 266 Non so se non sia un onore per lei non riuscire nelle parti dette “da signora elegante”. Il nostro amico C  una volta ha osservato che nessun uomo di genio ha mai rappresentato con successo un gentiluomo. 267 Né una donna dotata della sensibilità di Mrs. Jordan o di Miss Kelly ha mai cercato di eccellere come signora elegante – poiché la vera essenza di questo personaggio consiste nella totale repressione del genio e dei sentimenti. Per sostenere un ruolo di questo tipo in modo perfetto un’attrice deve continuamente e ossessivamente riferirsi a se stessa, deve pensare sempre alla sua persona e al suo aspetto, e a come si comporta nella percezione degli spettatori, mentre il piacere delle attrici dotate di veri sentimenti, e la loro forza principale, è eludere l’attenzione personale del pubblico, fuggire nei loro ruoli e nascondersi sotto la copertura del personaggio che recitano. Il loro massimo autocontrollo è di fatto dimenticarsi di sé – l’oblio a un tempo di se stesse e degli spettatori. Per questa ragione le attrici più acclamate come interpreti di epiloghi sono sempre state le signore meno dotate di questa qualità di autocancellazione; e io credo di aver visto l’amabile attrice in questione provare dell’imbarazzo quando ha dovuto recitare un brano di quel genere, quando il velo modesto dell’interpretazione che l’aveva mezzo nascosta al pubblico le veniva tolto all’improvviso e lei si è trovata esposta davanti agli spettatori senza mediazioni soddisfacenti. Mi scuserei per la lunghezza di questa lettera se non ricordassi il vivo interesse che hai sempre avuto per gli interpreti teatrali. Il tuo ecc. ecc. 7 febbraio 1819

264 Personaggi rispettivamente di Rosina , opera comica di Frances Brooke (1783) e di The Touchstone (La pietra di paragone, 1817) di Miss Kenney. Sembra però che Kelly non abbia mai recitato Dinah Cropley e forse Lamb si confondeva con il personaggio di Dinah Primrose in Young Quaker (Il giovane quacchero) di O’Keeffe (1747-1833). 265 The Farce of Modern Antiques, or the Merry Mourners (1792), di John O’Keeffe. 266 Nell era il personaggio della farsa The Devil to Pay di C. Coffey (1731), una pièce di successo (vedi nota 84). 267 Lamb si riferisce a S.T. Coleridge e a una sua frase nella Biographia Literaria .

109 Charles Lamb, Theatralia

A Jovial Crew di Richard Brome 268 A Jovial Crew or The Merry Beggars è stata ripresa qui [all’English Opera ] dopo sette anni di intervallo, come dice la locandina. Possibile che sia passato tanto tempo (sembra solo ieri) da quando ho visto il povero Lovegrove nei panni del giudice Clack? La sua voce acuta, infantile, mi risuona ancora negli orecchi: “Frustateli, frustateli, frustateli”. L’altra sera Dowton faceva l’impiegato del giudice e mi ha fatto morire dal ridere. Era in vena di buffonate e ho riso a crepapelle. Eppure, mi sembra che ci fosse una vena di assurdità ancora più grande nel suo predecessore, che i suoi occhi distillassero una senilità più intensa. Forse, dopo tutto, era un mio errore di memoria. La bravura passata ci torna in mente in modo strano. Wrench, piacevole e naturale, era Springlove – forse una figura troppo tranquilla per interpretare quel personaggio, nel quale la voce degli uccelli sveglia un istinto inquieto di vagabondare, che era rimasto assopito tutto l’inverno. Miss Stevenson di sicuro non fa rimpiangere per niente l’assenza dell’attrice, per quanto piacevole, che aveva recitato prima di lei la parte di Meriel. Miss Stevenson è una ragazza bella, con una espressione aperta e modi magnifici da bambina. Ma la Principessa dei Pitocchi e la Prima donna dai toni contraffatti da mendicante, era lei 269 che rappresentava Rachel. Le sue suppliche sussurrate e lacrimose, il tono come quello che abbiamo udito ai margini di vecchi boschi 270 quando una faccia irresistibile di colpo ha fatto capolino con i ricci neri e una voce – come descriverla? – una voce che per natura non intendeva comunicare altro che verità e bontà, ma si era distorta per motivi contingenti fino a rivelare che stava dicendo una bugia; quello scatto sorprendente del dito disonesto e irrefutabile, quelle note da cantante di ballate, così volgari eppure così non volgari; quella sicurezza così simile all’impudenza eppure lontana da questa infinite miglia; il suo scherno che preferirei sopportare per un’intera lunga giornata estiva piuttosto che essere blandito dai complimenti di altre signore; il suo volto con una grazia selvaggia, da vita all’aperto – Tutto sommato, non ho mai avuto la fortuna di incontrare in questo mondo supplicante una coppia di mendicanti più romantiche. La più giovane

268 La recensione fu pubblicata anonima (firmata con degli asterischi) sull’ Examiner del 4 e 5 luglio 1819. A Jovial Crew, or the Merry Beggars (La ciurma gioviale; ovvero Gli allegri mendicanti) è una commedia di Richard Brome (1590?-1652), messa in scena nel 1641 o 1642 e pubblicata nel 1652. La rappresentazione cui si riferisce Lamb ebbe luogo il 29 giugno del 1819. Solo due settimane dopo l’uscita del saggio Lamb scrisse una lettera a Fanny Kelly chiedendole di sposarlo, e fu rifiutato. 269 Cioè Fanny Kelly. 270 Dove in genere si accampavano zingari e mendicanti.

110 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

avrebbe potuto posare per la “bella Bessy”, 271 figlia di un duca, la cui storia ancora adorna le porte della mia padrona di casa a Bethnal Green, e l’altra poteva essere addirittura la “mendicante” che fu corteggiata da Re Cophetua. 272 “Che ragazza sarebbe quella”, disse uno sconosciuto seduto accanto a me, parlando di Miss Kelly nel personaggio di Rachel, “per andarci insieme a fare zingarate per il mondo!”. Confesso di aver desiderato di lasciarle cadere in grembo una moneta, tanto era brava a chiedere l’elemosina. Attenzione: questa è la vera “Opera del mendicante”, l’altra 273 avrebbe dovuto essere intitolata “Lo specchio per briganti”. È sorprendente che le società per la Soppressione dell’Accattonaggio 274 (e altre belle cose) non si mettano insieme per farla finita con questa famigerata dimostrazione in favore dell’aria, della pura libertà, della licenza onesta e dell’inattaccabile principio che all’uomo sia stato concesso fin dall’origine il benedetto privilegio di cieli azzurri, e vagabondaggio, e niente da fare. 4 luglio 1819

The Hypocrite di Isaac Bickerstaff 275 Per una di quelle storture che muovono i poveri mortali al posto delle motivazioni (per persuaderci che siamo liberi di agire, immagino) fino all’altra sera non avevo mai visto Dowton [all’English Opera ] nella parte del Dr. Cantwell. Per un virtuoso inganno operato da Mr. Arnold che, con un procedimento semplice come alcuni di quelli usati da Mathews per cambiare la sua persona, ha trasformato la commedia in un’opera – trasformazione tra l’altro per cui gli sono immensamente debitore –, ho avuto il piacere di vedere questa bella novità nel mio teatro preferito. Sembra un po’ sciocco arrivare in ritardo con una testimonianza postuma delle qualità di una rappresentazione di cui si è parlato a lungo in città, ma non posso fare a meno di sottolineare, nella recitazione di Mr. Dowton, le

271 The Beggar’s Daughter of Bednall-Green (La figlia del mendicante di Bednall Green), un’antica ballata dei tempi di Elisabetta I, inclusa in Reliques of Ancient English Poetry (Reliquie dell’antica poesia inglese, 1765) di Thomas Percy. 272 Secondo una leggenda medievale il re africano Cophetua si innamorò di una mendicante sconosciuta e, dopo averla cercata e trovata, la sposò e visse con lei felicemente. La storia è citata più volte da Shakespeare. 273 Cioè The Beggar’s Opera (1728) di John Gay. 274 Come Elia, Lamb attaccò di nuovo la Società per la Soppressione dell’Accattonaggio nel saggio “On the Decay of Beggars” nel 1822. 275 Il saggio, firmato solo con asterischi, fu pubblicato sull’ Examiner del 1 e 2 agosto 1819. The Hypocrite (L’ipocrita) è una commedia dell’autore irlandese Isaac Bickerstaff (1733-1812?), rappresentata nel 1768 e pubblicata l’anno successivo. È un adattamento della versione inglese, di Colley Cibber, del Tartuffe di Molière scritto, a quanto dice l’autore nell’introduzione, su suggerimento di Garrick. La commedia fu rappresentata in forma di opera il 27 luglio 1819 alla English Opera House, di cui Samuel James Arnold (1774-1852) era direttore.

111 Charles Lamb, Theatralia

gradazioni sottili dell’ipocrisia, la durata cui questa può arrivare in proporzione a quanto il destinatario è capace di assorbirla; il modo grossolano e evidente con cui lui somministra la dose tutta intera alla vecchia Lady Lambert, la ricca fanatica; il modo in un certo senso più attento con cui la vende, solo per il tempo che lui può tollerare, al figlio di lei, un po’ meno maniaco; e la quasi totale assenza di ipocrisia davanti ai membri più giovani della famiglia quando non c’è nessun altro in giro; come il piede caprino appare sempre di più finché la natura diabolica alla fine viene fuori in una rivelazione completa della sua orribile essenza. Che grandiosa insolenza nel tono che assume quando ordina a Sir John di lasciare la sua casa, e poi il tormento e la sofferenza quando alla fine viene scoperto! È in queste emozioni che forse è più grande di sempre e sarei ingiusto se non confrontassi questa parte della sua interpretazione, per certi versi preferendola, con la recitazione di Mr. Kean in una situazione quasi analoga, nel finale di The City Madam . 276 Cantwell mostra il suo dolore con forza simile ma senza l’aiuto di quelle contorsioni che trasformano Luke, scoperto, in una specie di tigre impazzita o in un demonio schiumante. Dowton non lo recita né come una bestia né come un demonio, ma semplicemente come dovrebbe essere – un uomo cattivo e audace spinto all’estremo; l’umanità non è mai oltrepassata, neanche una volta. È mai stata notata la splendida modulazione con cui dice lentamente la parola “Charles” quando chiama il suo segretario, così umile, così serafico, così rassegnato? La donna più diabolica che io abbia mai conosciuto dava alle sue parole demoniache e melliflue una dolcezza simile come di canto religioso. Lo spirito di Whitefield 277 sembra librarsi nell’aria per aspirare i suoni beati così simili ai suoi sulla terra; Lady Huntingdon 278 sbatte le sue ali bianche candide e lo rimanda in cielo perché i santi lo approvino. Miss Kelly non è proprio a suo agio nel ruolo di Charlotte; è troppo buona per ruoli simili. La sua parte deve essere naturale, e lei non riesce ad assumere le maniere della vita artificiale e fare la civetta come ci si aspetta; c’è una schiettezza nella sua voce che contraddice la sua intenzione. Non ho potuto fare a meno di chiedermi perché il suo innamorato (Mr. Pearman) avesse un aspetto così triste; avevo dimenticato che lei si stava dando delle arie e sembrava averlo dimenticato lei stessa, trasformando il suo comportamento in una giocosità che non poteva far dubitare neanche per un momento da che parte tendesse la sua inclinazione. In realtà non è fatta per irritare o tormentare nemmeno per gioco, ma per pronunciare un cordiale Sì o No, accettare o rifiutare con una nobile sincerità. Non ho il piacere di conoscerla personalmente, ma mi hanno detto che ha le stesse

276 The City Madam (La signora di città), dramma di Philip Massinger (1632). 277 George Whitefield o Whitfield (1714- 1770), fondatore del metodismo e del movimento evangelico. 278 Lady Selina Shirley, contessa di Huntingdon (1707-1791), religiosa legata a Whitefield.

112 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

maniere cordiali nella sua vita privata. Ho anche sentito dire di certe virtù che lei pratica, ma sono di un genere che si ricompensa da solo e né io né il pubblico abbiamo niente a che fare con esse. Una parola su Wrench, che ha interpretato il Colonnello. È mai stato infelice quest’uomo? Sembra che non abbia mai avuto nessuna pena, come se la iella non l’avesse mai colpito; voglio che gli accada qualche disgrazia, che lo riporti giù da noi. È una vergogna che gli sia concesso di andarsene in giro con il suo volto bello e felice, e con una voce che insulta noi, sparuta razza di critici, irritabili e irritanti. 2 agosto 1819

Opere nuove al Lyceum 279 È scoppiata una congiura in questo teatro. C’è stata una lite tra attori e attrici e le donne hanno deciso di organizzarsi per conto loro. Sette “Dame senza damerini”, 280 così si chiamano, si sono impegnate a metter su una pièce senza l’aiuto degli uomini, e secondo me, hanno raggiunto il loro scopo con molto successo. C’è Miss Carew con la sua voce argentina, e Miss Stevenson che mescola deliziosamente la scolara e la cameriera, e Miss Kelly, sicura di primeggiare in ogni monelleria, e Mrs. Chatterley, con una recitazione tra le migliori che io abbia mai visto, e Miss Love, degna del suo nome, e Mrs. Grove, che fa rima con lei, e Mrs. Richardson, che avrebbe potuto per generosità avere una parte di dialogo un po’ più lunga. L’effetto era incantevole – intendo, per una volta. Non voglio incoraggiare queste vanità da amazzoni. Una o due volte ho desiderato vedere Wrench affaccendarsi tra di loro. Una signora seduta vicino a me è stata vista sbadigliare per mancanza di varietà. Per me era delicata quintessenza – un dolce di mele fatto solo di cotogne. Mi ricordo l’ultima commedia del povero Holcroft, 281 che fece decisamente fiasco per l’eccesso opposto: era piena di uomini fino a soffocarne e fallì per esubero di maschi. C’erano cinque protagonisti maschili e solo una donna, e di carattere non molto ambiguo. Mrs. Harlowe, per rendere giustizia al ruolo, scelse di recitarlo vestita di rosso.

279 Pubblicato sull’ Examiner , 8 e 9 agosto 1819, come sempre con degli asterischi al posto della firma. Il saggio era introdotto da una nota di Leigh Hunt in cui raccontava di aver scritto la mattina presto una lunga e meditata critica sulla sera precedente al Lyceum, quando un amico, migliore critico di lui, gli aveva fatto recapitare la recensione che lui aveva scelto di stampare al posto della sua. 280 Belles without Beaux , forse una versione della commedia francese tutta femminile Le Jeune prude; ou Les femmes entre elles (1804) di E. Dupaty, da cui fu tratta anche Ladies at Home; or, Gentlemen, We can do Without You (Signore a casa; o, Signori possiamo fare a meno di voi) di J.G. Millingen, prodotta nello stesso anno dello spettacolo cui fa riferimento Lamb, che fu recitato il 6 agosto del 1819. 281 The Vindictive Man di cui Lamb parla nel saggio sui fischi a teatro.

113 Charles Lamb, Theatralia

Non conoscevo prima le qualità di Mrs. Chatterley; interpreta, con una recitazione assolutamente eccellente, una moralista che deve essere convinta ad abbandonare il suo moralismo da Miss Kelly (non ho colto il nome del personaggio in scena) che, con indosso i vestiti e il ruolo di un fratello diciassettenne, fa deliziosi approcci platonici per niente allarmanti e che, nel segno modestissimo di un attacco morale, alla fine conquista la freddezza dei suoi scrupoli, la coinvolge in un pasticcio infinito e poi, con il suo infinito buon umore, mette tutto a posto e la tira di nuovo in salvo senza una spiegazione. L’imbarazzo di Mrs. Chatterley era magistrale. Il turbamento di Miss Stevenson, la sua cameriera, nel sorprendere un giovane nella camera della sua padrona a mezzanotte era altrettanto buono. Di Miss Kelly non voglio dire niente, perché sono stato accusato di adularla. La verità è che questa signorina mette in ogni parte che recita tanta intelligenza e buon senso che non c’è modo di dar conto onestamente dei suoi meriti senza suscitare un sospetto del genere. Ma che cosa me ne viene a lodare Miss Kelly? Tutto sommato, questa piccola repubblica di donne, questo esperimento provocatorio, è passato senza problemi. A volte penso: come sarebbe bello un mondo tutto fatto di donne ! Ma poi temo di cadere senza accorgermene in errore a fare questa ipotesi; in qualche modo mi immagino come uno degli spettatori o qualcosa del genere. Dopo questa pièce ho visto Wilkinson in Walk for a Wager .282 Che immagine di speranza perduta, di solitudine e di umiliante indigenza! Sembra non avere altri amici al mondo che le sue gambe e perciò le usa. Cammina come in un moto perpetuo; la sua presenza continua, in movimento, ha la funzione di un coro greco. È il gentiluomo che cammina nella pièce – un peripatetico che farebbe ridere uno stoico ma che invece mi ha fatto piangere. Il suo Muffincap in Amateurs and Actors 283 è un’altra prova simile di recitazione. Ho visto trovatelli, di St. Clement’s e di Farringdon Without, 284 che sembravano vecchi come lui, in cui ogni traccia di gioventù era spenta in un abbandono miserabile e senza speranza – potevano avere qualsiasi età tra quindici e cinquant’anni. Se Mr. Peake è l’autore di queste opere non ha motivo di essere irritato per come sono state ricevute. Mi devo scusare per una svista nel mio articolo della settimana scorsa. L’allusione all’interpretazione di Luke da parte di Mr. Kean in City Madam non riguardava affatto la parte né la commedia. Pensavo a come aveva recitato nelle scene finali di The New Way to Pay Old Debts .285 Ho confuso

282 Walk for a Wager; or, a Bailiff's Bet (Camminare per scommessa; ovvero, La puntata dell’ufficiale giudiziario, 1819), farsa musicale di Richard Brinsley Peake. 283 Amateurs and Actors (Dilettanti e attori, 1818), farsa musicale di Richard Brinsley Peake. 284 St. Clement Danes (San Clemente dei Danesi), Chiesa anglicana sullo Strand a Londra; Farrington Without è una zona della City di Londra. 285 The New Way to Pay Old Debts (Il modo nuovo di pagare vecchi debiti, ca. 1625, pubbl. 1633), commedia di Philip Massinger.

114 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

uno degli strani eroi di Massinger con l’altro. Era Sir Giles Overreach che intendevo, e non sono neanche sicuro che la mia osservazione fosse giusta, neppure con questa spiegazione. Se consideriamo l’intensità con cui Mr. Kean ritiene giusto (e probabilmente ha ragione quanto il suo critico che ha preso un abbaglio) enfatizzare il temperamento di quel personaggio mostruoso fin dall’inizio, ne consegue logicamente che quando quest’uomo violento, irrefrenabile, arriva a essere ostacolato nei suoi propositi la sua passione dovrebbe assumere una modalità delirante che è assolutamente assurdo aspettarsi identica ai modi del cauto e riservato Cantwell, anche quando questi si libera di tutti i vincoli nel tormento del suo smascheramento finale. Non ho mai percepito in modo più forte quanto buon senso ci sia nel detto: “I confronti sono detestabili”. Non di rado ci spingono a fare gravi errori di valutazione e a volte, come in questo caso, a prendere abbagli concreti. Ma ho ritrattato. Agosto 1819

Mr. Kean nei panni di Amleto 286

Theatre Drury Lane

Hamlet è andato in scena sabato. L’interpretazione di Kean del Principe di Danimarca ha attratto meno pubblico del dovuto vista la considerazione che tutti hanno dell’attore. La platea era piena ma nei palchi c’era poca gente. L’energia e la vitalità di Kean sono ovviamente ritenute negative per potere rappresentare lo spirito romantico e addolorato di Amleto e il personaggio è di sicuro uno degli ultimi in cui le qualità peculiari di questo popolare attore possano emergere. Sarebbe inutile ripetere qui le caratteristiche di Kean: sono note a tutti. Non sono sicuro però che siano note a lui stesso. Forse deve ancora imparare che la profondità e la solennità del pathos di Shakespeare, quella sensibilità grandiosa e intensa che solleva l’anima intera come la marea solleva l’oceano, gli è negata, e su questo potrebbe riflettere circa la sua scelta di recitare Amleto. Ma il personaggio ha una natura varia ed era impossibile che lo sguardo dell’attore, vivace com’è, librandosi su di esso, non trovasse dei luoghi prominenti e chiari rispetto a tutto ciò che si stende attorno e che gli è proibito, così da scendervi e prenderne possesso. Kean ha tenuta alta la sua reputazione in certi punti originali della tragedia. È stato formidabile nel dialogo con lo spettro. La scena con Ofelia era piuttosto violenta, ma con

286 Il saggio fu pubblicato anonimo, come spesso avveniva, sul New Times del 28 agosto 1820. William Macdonald, curatore della raccolta dei Critical Essays (London, Dent, 1903), lo ha attribuito a Lamb sulla base di prove stilistiche. Se non fosse di Lamb, secondo Macdonald, potrebbe essere di Thomas Noon Talfourd che, fin da giovane, aveva contribuito con degli articoli ai giornali più importanti di Londra.

115 Charles Lamb, Theatralia

dei tratti felici di tenerezza. Il dialogo con la regina è stato acceso e in alcune parti aveva un tono ammirevole. Nella scena del cimitero ha recitato come hanno recitato tutti quelli prima di lui e oso pensare che tutti abbiano recitato nel modo sbagliato. Ha parlato con la mesta lentezza che è generalmente il modo in cui si parla nei cimiteri. Ha fatto la predica come tutti prima di lui. Questo mi sembra un risultato per il quale Shakespeare non aveva dato disposizioni. La mia idea di Amleto non è quella comune che lui sia un filosofo, oppresso nel momento cruciale della pièce da un dolore estremo e spinto da questo verso una sicura punizione, anche se rimandata. Mi sembra che la sua caratteristica sia la semplice sensibilità, la forza profonda dell’inquietudine, dolorosamente viva e fuggevole come un fulmine. Un uomo così trova della giocosità dove altri scoprono solo un richiamo alla serietà. Il suo dolore è imprevedibile come la sua allegria; vive in un mondo di immaginazione; i suoi progetti hanno poco dell’architettura solida e consequenziale della terra; i suoi castelli sono fatti di nuvole e dove gli altri vedono solo l’incommensurabile rollio di vapori lui vede figure che si formano nello sfarzo e nella bellezza, e si rallegra, o figure che si disperdono, e si addolora. Questo umorista cammina sull’orlo della follia e si salva da essa solo per l’infinita varietà delle sue esaltazioni. Laddove una sola impressione domina tutte le altre, un uomo così è folle e vede “più demoni di quanti ne contenga l’inferno”. 287

287 Midsummer Night’s Dream , 5.1.9: è il discorso di Teseo sull’immaginazione, secondo lui appannaggio di pazzi, amanti e poeti.

116 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Attrici e attori citati da Lamb

Abington, Frances (nata Barton, 1737-1815). Dopo aver debuttato in una piccola compagnia fondata da Theophilus Cibber, iniziò a lavorare al Drury Lane nel 1756 nella parte di Lady Pliant in The Double Dealer di Congreve. Fu presto messa in ombra dalla fama di Kitty Clive e di Mrs. Pritchard. Nel 1759 sposò un attore minore, James Abington, e nello stesso anno lasciò Londra per Dublino, dove il suo successo fu immediato e portò allo scioglimento del suo matrimonio. Tornò al Drury Lane su richiesta di Garrick nel 1765 e continuò a recitare in quel teatro anche dopo che l’attore si fu ritirato dalle scene. Nel 1777 Sheridan, che aveva preso il posto di Garrick come direttore del Drury Lane, scrisse The School for Scandal pensando alla Abington nel creare il ruolo di Lady Teazle, e questa divenne infatti la parte più famosa interpretata dall’attrice. Nel 1782 si trasferì al Covent Garden dove recitò stabilmente fino al 1787-88. Fu essenzialmente interprete di commedie. Morì nel 1815. Molti gli artisti che ne hanno fatto ritratti: tra questi il più famoso è Reynolds che la dipinse nel ruolo di Miss Prue e in quello di Musa comica.

Aickin, Francis (?-1805). Nato a Dublino e figlio di un tessitore. Lasciò il mestiere paterno nel 1754, per seguire le orme del fratello minore James che recitava con una compagnia itinerante. Dopo aver lavorato in Irlanda, nel 1765 debuttò a Londra al Drury Lane di Garrick con il quale rimase fino al 1774, e successivamente al Covent Garden. Fu anche impresario a Liverpool, dove riuscì a ingaggiare gli attori più famosi del momento, e a Edimburgo. La sua ultima apparizione sulle scene fu nel 1792. Non era particolarmente brillante come attore e per la sua recitazione di personaggi cattivi fu chiamato “Aickin il tiranno”.

Aickin, James (c. 1735-1803). Fratello minore di Francis Aickin, nato anche lui a Dublino. Dopo aver recitato in Irlanda e in Scozia, si recò a Londra nel 1767. Fu al Drury Lane, e a Haymarket in estate, per tutta la sua carriera. Fece per lo più parti secondarie e già dalla fine degli anni ottanta la sua salute non fu buona. Nel 1792 sfidò a duello Kemble per una divergenza sulla gestione del Drury Lane, ma mancò il famoso attore, questi rinunciò a sparare e i due si riconciliarono. Da anziano fu soprannominato “Pancione” per la sua figura fisica.

Baddeley, Robert (1733-1794). Attore comico. Sembra che da giovane fosse cuoco di Samuel Foote e che da lui avesse preso l’interesse per il teatro. Debuttò a Londra nel 1760 a Haymarket in una commedia di Foote e poi al Drury Lane nello stesso ruolo. In questo teatro rimase per il resto della sua carriera, a parte occasionali recite in altri teatri e in altre città. Fu l’originale Moses in The School for Scandal di Sheridan (1777), ruolo nel quale fu ritratto da Zoffany. Fu membro della “Scuola di Garrick”, una società fondata dopo la morte del grande attore. La moglie Sophia (Mrs. Baddeley) divenne un’attrice e cantante di successo ma le sue avventure amorose spinsero Baddeley a sfidare a duello il fratello di Garrick, fortunatamente senza conseguenze grazie alle suppliche di Mrs. Baddeley stessa. Nel suo testamento Baddeley lasciò parte dei suoi beni al Fondo teatrale del Drury Lane, che si occupava del sostegno di attori indigenti.

Bannister, Charles (1741-1804). Attore comico e cantante. Dopo aver recitato in compagnie di dilettanti a Deptford cercò di entrare al Drury Lane ma fu rifiutato da Garrick. Successivamente ebbe un certo successo come imitatore di attori e cantanti famosi in spettacoli prodotti da Foote a Haymarket, ma recitò anche nei due maggiori teatri. Aveva una bella voce di basso e una grande vis comica; si narra che nel 1782 una signora fu colta da un riso irresistibile mentre assisteva alla rappresentazione della Beggar’s Opera di Gay, in cui Bannister recitava Polly en travesti, e

117 Charles Lamb, Theatralia

non riuscendo più a frenarsi morì la mattina successiva. Bannister si ritirò nel 1799, quando il figlio John era ormai un attore conosciuto.

Bannister, John (Jack) (1760-1836). Era nato a Depford, figlio di Charles Bannister. Prima di intraprendere la carriera teatrale aveva studiato pittura. Debuttò a Haymarket nel 1778 e poi lavorò al Drury Lane, dove recitò spesso con il padre. Come attore tragico fu oscurato dalla fama di Kemble ma trovò la sua vena nella commedia, dove ebbe molto successo e recitò fino al 1815, anno in cui si ritirò, oscurato dalla crescente fama di Kean. Pare che nella sua lunga carriera abbia intrepretato circa 425 personaggi diversi. Continuò a dipingere e fu amico di artisti come Thomas Gainsborough e Sir Joshua Reynolds. Piaceva molto sia a Hazlitt che a Lamb.

Barry, Elizabeth (1658?-1713). Prima grande attrice inglese alla riapertura dei teatri nel periodo della Restaurazione. Sembra che John Wilmot, conte di Rochester, si sia occupato della sua istruzione teatrale. Ne fu l’amante e gli dette due figlie. Recitò in tutte le tragedie di Otway, e dal 1680-81 in poi nella Duke’s Company, con Betterton come partner. Ebbe relazioni con Otway e con Etherege. Aveva debuttato nel 1673 e nel 1682 era ancora la più importante delle attrici della compagnia nata dall’unione dei King’s e Duke’s. Famosa per la sua abilità nei ruoli patetici. Si ritirò nel 1710. Gildon parla per voce di Betterton della recitazione della Barry, lodandone la naturalezza e il controllo. Pare che non fosse dotata né vocalmente né fisicamente, ma riuscì sempre a superare ogni difetto con la sua attrazione magnetica.

Barry, Spranger (1717?-1777). Attore irlandese. Debuttò a Dublino nel 1744 e nel 1746 si presentò nel ruolo di Otello al Drury Lane di Londra, con Macklin come Iago. Il suo successo come Romeo ingelosì Garrick e nel 1750 Spranger si trasferì al Covent Garden, con Mrs. Cibber che recitava la parte di Giulietta accanto a lui e Macklin come Mercutio. Nella stessa serata, nel teatro rivale, Garrick, Miss Bellamy e Woodward recitavano le stesse parti. Questo dette inizio a una guerra tra i due, finché Mrs. Cibber si stancò e questo permise al Drury Lane e a Garrick di averla vinta con un’ultima performance. La rivalità, o il confronto, con Garrick proseguì, con l’interpretazione di Lear nel 1756, e anche dopo la loro relazione non fu mai facile. Barry aprì teatri in Irlanda, a Dublino e a Cork, con speculazioni azzardate che lo rovinarono e lo costrinsero a far ritorno in Inghilterra. Sposò in seconde nozze l’attrice Mrs. Dancer, con la quale recitò anche per Garrick. La sua ultima apparizione sulle scene fu nel novembre 1776, e morì poche settimane dopo. Fu sepolto nel chiostro di Westminster Abbey.

Barrymore, William (nome vero Blewit, 1759-1830). Attore di discreta qualità. Debuttò nel 1782 in Love in a Village senza troppo rilievo. Per anni fu l’attore principale nella stagione estiva al Haymarket e il suo nome figura nel libro paga del Drury Lane dal 1789 fino al 1806. Fu accusato di avere problemi di memoria e il suo declino sulle scene fu dovuto anche a gravi malattie che lo colpirono a più riprese.

Beard, John (1716?-1791). Attore e uno dei più famosi cantanti della sua epoca; Händel compose per lui molti dei grandi ruoli da tenore negli oratori religiosi e profani. Beard lavorò sia al Drury Lane che al Covent Garden, del quale divenne parzialmente proprietario e impresario, alla morte di John Rich, padre della sua seconda moglie. La sordità lo costrinse prematuramente a lasciare le scene nel 1767. Si ritirò a Hampton dove aveva comprato una villa vicino a quella di Garrick.

118 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Bengough, Henry. Attore di secondo piano di cui si hanno scarse notizie. Quando nel 1813 Remorse di S. T. Coleridge fece fiasco alla prima rappresentazione a Bristol, un critico attribuì l’insuccesso a Henry Bengough e a Mrs. Weston, due attori locali abituati al melodramma, accusati di aver recitato da cani. Sembra fosse un uomo grosso con la voce forte e modi da spaccone. Il nome di Bengough appare ancora negli anni venti nelle locandine del Drury Lane.

Bensley, Robert (1742-1817). Attore spesso confuso con altri nomi e sul quale i dati biografici non sempre concordano. Nel 1765 debuttò al Drury Lane come Pierre in Venice Preserved e nei dieci anni successivi fu attivo sia in quel teatro che al Covent Garden. Dal 1775 fino a che si ritirò dalle scene nel 1796 rimase al Drury Lane, recitando talvolta a Haymarket durante l’estate e anche a Bristol. I critici parlarono di difetti nei gesti e nella voce monotona; Garrick e altri lo associarono allo stile rigido di Quin, poco naturale e superato. Lamb ne apprezzò la dignità nel ruolo di Malvolio da Twelfth Night, ma sembra sia stato l’unico a recensirlo positivamente.

Benson, Robert (1765-1796). Ebbe vari ruoli secondari nei teatri di Londra, incluso il Drury Lane. Aveva debuttato al Haymarket nel 1778 e nel 1783 sposò una sorella di Mrs. Stephen Kemble. Scrisse anche una o due pièce. Ebbe problemi di follia e si uccise a 31 anni gettandosi dalla finestra della sua casa.

Betterton, Thomas (1635-1710). Il più grande attore del teatro della Restaurazione, molto ammirato dai contemporanei, tanto che Samuel Pepys lo definì “il miglior attore del mondo”. Fece parte della compagnia che recitò nel 1660, all’apertura del Cockpit; si trasferì poi al Lincoln’s Inn Fields Theatre per lavorare con William Davenant, alla cui morte nel 1668 prese le redini della compagnia che trasferì nel nuovo Dorset Garden. Più di una volta si recò in Francia per osservare le produzioni delle opere a Parigi e reclutare danzatori. Nel 1682 le due compagnie esistenti furono riunite al Theatre Royal, gestito da Christopher Rich. Betterton dopo qualche anno, nel 1695, ruppe con la direzione del Theatre Royal e insieme a Elizabeth Barry e a Anne Bracegirdle riaprì il Lincoln’s Inn Fields Theatre con grande successo. Buon impresario e ottimo attore, sia nella commedia che nella tragedia, fu anche drammaturgo, e adattò molte opere di Shakespeare seguendo il gusto dell’epoca. Sua moglie, Mary Sanderson, fu una delle prime attrici inglesi. Era noto per la sua interpretazione di Amleto. Nel 1704 cedette a John Vanbrugh la gestione del Lincoln’s Inn Fields dedicandosi da allora in poi solo alla recitazione e all’insegnamento; gli ultimi anni della sua vita però furono segnati dalla povertà e dalla malattia mentale della moglie.

Booth, Junius Brutus (1796-1852). A diciassette anni già recitava e dopo qualche anno di lavoro in provincia debuttò al Covent Garden come Riccardo III. In questo ruolo divenne rivale di Kean. Nel 1820 andò al Drury Lane dove recitò con Kean i personaggi di Iago in Othello, di Edgar in King Lear e di Pierre in Venice Preserv’d di Otway. Passò gli ultimi anni della sua vita in America dove si dice abbia inaugurato la tradizione della recitazione tragica. Fece l’ultima apparizione a New York nel ruolo di Riccardo III. Sembra sia stato un attore dotato di voce potente e con uno stile grandioso e pieno di energia. Forse aveva una vena di follia che i figli ereditarono. Uno di loro, John Wilkes, fu l’assassino del presidente Lincoln.

Bracegirdle, Anne (c. 1663-1748). Il suo nome compare tra gli attori della compagnia del Lord Chamberlain nel 1688. Fu allieva e pupilla di Betterton e la sua fama crebbe fino a che fu considerata una delle attrici più importanti della United Company, nata nel 1682 dalla fusione delle due compagnie

119 Charles Lamb, Theatralia

esistenti: i King’s e Duke’s. Con Betterton e Elizabeth Barry, nel 1695, si ribellò alla gestione tirannica del direttore Christopher Rich ed ebbe il permesso dal re di fondare una nuova compagnia. Congreve e Rowe scrissero per lei e fu ammirata da molti corteggiatori. Nel 1707 recitò l’ultimo ruolo, quello di Lavinia in Caius Marius di Otway, e poi si ritirò dalle scene. Anne Oldfield prese il suo posto e Anne Bracegirdle ritornò sul palco solo per una volta due anni dopo per una rappresentazione di Love for Love di Congreve, una beneficiata per Betterton.

Braham, John (vero cognome Abraham, 1777-1856). Tenore nato a Londra da famiglia ebrea, che diventò famosissimo e molto ricco. Studiò musica e canto con Michael Leoni, che era suo zio. A dieci anni cantò al Covent Garden e al Royalty Theatre in Wellclose Square. Dal 1796 ebbe un indiscusso successo e fu acclamato come uno dei migliori cantanti inglesi. Nel 1798 debuttò in Italia, alla Pergola di Firenze, e poi cantò in diverse città italiane; a Venezia Cimarosa cominciò a scrivere un’opera per lui, Artemisia, che però rimase incompiuta. Tornato in patria, in seguito a un litigio con Kemble lasciò il Covent Garden per il Drury Lane, dove continuò la sua carriera. Walter Scott lo definì «una bestia come attore, ma un angelo come cantante». Dette lezioni alla figlia di Nelson e cantò davanti a Giuseppina, la moglie di Napoleone.

Burrell, Miss, vedi Gould, T.

Burton, John (?-1797). Figlio dell’attore Edmund Burton, presente sul palcoscenico del Drury Lane dal 1762 nelle parti di paggetto o di bambino, spesso recitando con il padre. Con la maturità recitò parti secondarie al Drury Lane e a Haymarket e fu un attore tuttofare. Il suo ritratto nel catalogo della collezione di Mathews di cui parla Lamb (ora al Garrick Club) riporta per errore il nome William, confondendolo con un altro attore e scenografo.

Carew, Miss Margaret Felicité Anne (1799-?). A quattordici anni entrò nel coro di Covent Garden e cominciò a recitare piccole parti fino a che sostituì Miss Stephens che si era ammalata e fu tale il suo successo che venne ingaggiata a Haymarket come prima donna dove debuttò nel 1816. Due anni dopo comparve alla English Opera ottenendo un notevole successo come cantante. Fu poi nella compagnia del Drury Lane fino al suo ritiro dalle scene poco tempo dopo.

Catalani, Angelica (1780-1849). Soprano. Era nata a Senigallia e debuttò alla Fenice di Venezia appena diciassettenne. Ebbe grandissimo successo e fu richiesta dagli impresari di tutta Italia, che se la contendevano con alti compensi. Si esibì poi in Portogallo e lì conobbe un attaché dell’ambasciata francese che sarebbe diventato suo marito. Con lui viaggiò e cantò a Madrid e a Parigi, dove Napoleone le offrì di rimanere: un invito che lei rifiutò per recarsi a Londra. Ovunque riscosse un enorme successo. Luigi XVIII le affidò la direzione del Théâtre Italien. Dal 1816 continuò a viaggiare in tutta Europa fino al 1830, anno in cui cantò per l’ultima volta in pubblico. Dopo tale data si ritirò nei pressi di Firenze in una sua villa dove fondò una scuola di musica e di canto. Morì a Parigi di colera. Fu ritratta da L.E. Vigée Le Brun e Aristodemo Costoli, allievo di Lorenzo Bartolini, realizzò il suo monumento funebre nel cimitero di Pisa.

Chatterley, Louisa (nata Simeon, 1797-?). Moglie dell’attore William Simmonds Chatterley (1787-1821) che la sposò nel 1813 e la portò sulla scena. Il suo primo ruolo fu Giulietta nel 1814 a Bath e in seguito divenne più attiva e più famosa del marito. Recitò nel dramma gotico The Vampire di Planché nel 1820 e poi almeno fino al 1826 lavorò al Covent Garden. Pare che interpretasse in modo speciale le donne francesi.

120 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Cibber, Colley (1671-1757). Attore, impresario e drammaturgo. Contro il volere dei suoi, iniziò a lavorare con la United Company al Drury Lane quando aveva 19 anni. Poco dopo, nel 1693, sposò Katherine Shore, una cantante allieva di Henry Purcell. Continuò con piccole parti fino a che dovette sostituire Kynaston in The Double Dealer di Congreve, facendosi notare dall’autore che lo raccomandò agli impresari del teatro. Scrisse diverse commedie e adattò opere di Shakespeare. Molti drammaturghi pensarono dei ruoli comici che si attagliassero alla sua recitazione. Ebbe successo nelle parti di fop (damerino alla moda), ma ricevette recensioni negative quando si cimentò con la tragedia, e si fece molti nemici nel mondo teatrale come impresario del Drury Lane. Nel 1730 divenne Poeta Laureato, una carica che suscitò reazioni derisorie e sdegnate; soprattutto fu preso di mira da Alexander Pope che ne fece lo zimbello della sua satira in The Dunciad (L’Asineide). La sua opera più importante è l’autobiografia, An Apology for the Life of Mr Colley Cibber (1740), notevole fonte di informazione sulla vita del teatro londinese tra Betterton e Garrick. Si ritirò dalle scene nel 1745, all’età di 73 anni.

Cibber, Susannah Maria (nata Arne, 1714-1766). Sorella del famoso compositore Thomas Arne e seconda moglie di Theophilus Cibber, fu nota sia come cantante che come attrice tragica. Sembra che abbia cominciato a cantare quando aveva appena 14 anni ma la prima notizia ufficiale della sua presenza sulla scena è del 1732 quando ebbe un ruolo da protagonista a Haymarket ma rimase ancora per qualche anno, almeno fino al 1736, una sconosciuta, pur continuando a esibirsi. All’inizio cantò come soprano ma la sua voce con il tempo divenne quella di un contralto. Händel, che l’ammirava, scrisse molte parti per lei e inserì ruoli per la sua voce negli oratori. La Cibber fu anche un’eccellente attrice sia per la tragedia che per la commedia e recitò con i più importanti attori e le migliori attrici dell’epoca; nel 1753 si unì definitivamente alla compagnia di Garrick al Drury Lane, ma con il tempo fu spesso in disaccordo con il grande attore. Smise di recitare nella stagione 1764-1765. La sua vita familiare fu complicata dalla relazione con un “amico di famiglia”, William Sloper, da cui ebbe anche dei figli. Il marito stesso l’aveva spinta tra le braccia dell’uomo cui doveva del denaro, ma poi portò in tribunale la coppia forse nella speranza di ricavare dei benefici economici dalla condanna di Sloper.

Cooke, George Frederick (1756-1812). Eccentrico attore irlandese. Debuttò a Brentford nel 1776 e due anni dopo a Londra a Haymarket. Recitò a lungo a Manchester e in altre città. Nel 1801 approdò al Covent Garden come Riccardo III, e la sua fama rimase a lungo legata a questo personaggio e a quello di Shylock. Fu spesso confrontato con Kemble nella tragedia, e nel 1803 i due attori recitarono insieme in Richard III. Cooke conduceva una vita dissipata tra alcol e debiti, e le sue esibizioni divennero sempre più fallimentari. La sua ultima apparizione fu nel 1810, dopo di che si trasferì a New York: lì ebbe un effimero successo ricadendo quasi subito negli stessi problemi che aveva avuto a Londra. Morì e fu sepolto a New York, dove Edmund Kean fece erigere un monumento alla sua memoria.

Crawford, Ann (nata Street, poi Dancer, poi Barry, 1734-1801). Miss Street, quando già recitava in provincia, sposò William Dancer, un attore della compagnia di York e lo seguì nei suoi giri. Nella stagione 1758-1759 i due furono ingaggiati a Dublino da Spranger Barry. Alla morte del marito nel 1759 Ann rimase in Irlanda nella compagnia di Barry, ottenendo un discreto successo. Debuttò al Drury Lane nel 1767-8 e acquisì una buona fama, interpretando numerosi ruoli. Nel 1768 sposò l’attore Spranger Barry, con il quale recitò sia a Londra sia a Dublino, e alla sua morte divenne la moglie di Thomas Crawford, un uomo più giovane di lei. Con il nome di Mrs. Crawford tornò a recitare a Londra a Haymarket, dove interpretò il personaggio di Lady Randolph in Douglas

121 Charles Lamb, Theatralia

di John Home (1780), ruolo in cui fu molto apprezzata e con cui chiuse la sua carriera anni dopo, nel 1798, al Covent Garden.

Dignum, Charles (1765-1827). Cantante e attore. Allievo di Thomas Linley, debuttò al Drury Lane nel 1784, nell’opera comica Love in a Village dovei interpretava il ruolo di Young Meadows, in cui ebbe successo soprattutto per la qualità della sua voce di tenore. Recitò molte altre parti in cui eccelleva e fu sempre un beniamino del pubblico. Compose anche molte canzoni, alcune delle quali furono pubblicate.

Dodd, James William (1740?-1796). Dopo aver lavorato in provincia debuttò al Drury Lane nel 1765 e rimase nello stesso teatro fino al 1796, quando si ritirò. Era un attore perfetto nelle parti di damerini e nei ruoli fatui. Recitò famosi ruoli delle commedie di Sheridan. È noto il riferimento a lui fatto da Lamb che lo vide nel ruolo di Aguecheek in Twelfth Night e che ne descrisse le espressioni del volto nel saggio The Old Actors (1822).

Dowton, William (1764-1851). Uno dei principali attori comici. Dopo aver diretto una compagnia itinerante, fu ingaggiato da Sheridan e debuttò a Londra, al Drury Lane, nel 1796, dove rimase trentasei anni, pur continuando a fare tournée in altre città. Nel 1836 andò in America, ma non ebbe grande successo. Attore versatile, acquisì fama nei ruoli di personaggi anziani, fu ammirato in quello di Falstaff e considerato il miglior interprete di Malvolio. Fece la sua ultima comparsa in palcoscenico nel 1840.

Edwin, John the Elder (1749-1790). Uno dei grandi attori comici della sua epoca, cantante e compositore. Iniziò a recitare nel 1765 in varie città e poi a Bath dove rimase diversi anni. A Londra dapprima lavorò solo d’estate a Haymarket poi dal 1779 fino alla morte divenne una grande attrazione al Covent Garden d’inverno e a Haymarket nella bella stagione. Molto amico del drammaturgo O’Keeffe, fu ritratto da Thomas Gainsborough. Anche il figlio, John Edwin the Younger (1769?-1805), fu attore e cantante, ma morì giovane forse per il vizio di bere, ereditato dal padre.

Edwin, Elizabeth Rebecca (1771?-1854). Moglie di John Edwin the Younger e attrice. Rimasta vedova, recitò a Dublino e a Edimburgo. Poi, su suggerimento di Sheridan, fu ingaggiata al Drury Lane e restò nella compagnia di quel teatro dal 1809 al 1815; dopo tale data si hanno poche notizie della sua attività teatrale. La sua ultima apparizione sembra essere stata nell’opera comica The Duenna di Sheridan nel 1821.

Elliston, Robert William (1774-1831). Attore, cantante, impresario e drammaturgo. Nato a Londra e figlio di un orologiaio. Fu istruito da uno zio che era direttore del Sidney College a Cambridge. Scappò di casa a 17 anni e divenne attore attirando subito l’attenzione su di sé. Dopo aver girato la provincia nella compagnia di Tate Wilkinson, recitò con successo a Bath per qualche anno. Nel 1796 a Londra, a Haymarket, fu lodato per una parte in cui John Philip Kemble era stato criticato negativamente e subito gli impresari di tutti e due i teatri lo invitarono per la stagione invernale. Per qualche anno però continuò a esibirsi a Bath e a Edimburgo e in altre città; solo nel 1804 debuttò al Drury Lane. Quando cinque anni dopo il teatro fu distrutto dal fuoco, Elliston iniziò una carriera di impresario, acquistando una serie di teatri e organizzando spettacoli musicali. Attore molto famoso ai suoi tempi, pur eccentrico e

122 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

bevitore, fu considerato da Leigh Hunt secondo solo a Garrick nella tragedia. All’apice del suo impero teatrale, ottenne la direzione del Drury Lane nel 1819. Ingaggiò un’eccellente compagnia, compreso Edmund Kean, ma nel 1826 fu costretto dai proprietari a “abdicare” per i tanti debiti e dovette dichiarare bancarotta per le sue stravaganti speculazioni. Lamb e i suoi amici scrissero sul London Magazine lamentando che fosse stato trattato male. Elliston recitò al Surrey Theatre fino a pochi giorni prima della morte.

Emery, John (1777-1822). Attore, cantante, violinista, compositore e pittore. Figlio d’arte, fu considerato uno dei migliori attori del tempo, specializzato in ruoli di campagnoli. Debuttò a Brighton nel 1792 nella farsa Peeping Tom, e recitò poi a Londra, a Haymarket e soprattutto al Covent Garden per ventiquattro anni, fino alla morte. In questo teatro aveva preso il posto di John Quick. Fu molto lodato come Calibano, Sir Toby Belch in Twelfth Night e Dogberry in Much Ado About Nothing. Era anche pittore e tra il 1801 e il 1817 mostrò spesso le sue opere alla Royal Academy. Dedito all’alcol, morì giovane e i suoi compagni attori dovettero fare una colletta per aiutare la vedova e i sette figli.

Farley, Charles (1771-1859). Attore, danzatore e coreografo, cantante, impresario e stage manager. Cominciò a recitare da giovanissimo: a tredici anni comparve al Covent Garden nella parte del principe Edward in Richard III. Fu eccellente nei melodrammi. In seguito, dal 1806 al 1834, si dedicò anche alla produzione della popolare pantomima al Covent Garden, pur non trascurando la sua carriera di attore. Recitò moltissimi ruoli e si ritirò dalle scene nel 1834. Famoso per alcuni personaggi shakespeariani: Cloten, Osric, Barnardine, Roderigo. Aveva modi enfatici, un brutto volto e una voce forte e fu maestro del famoso clown Joseph Grimaldi.

Farren, Elizabeth (1762-1829). Attrice e cantante. Figlia di attori girovaghi, con i quali recitò fin da piccola. Debuttò a Londra nel 1777 a Haymarket e poi si trasferì al Drury Lane dove, per la sua naturale eleganza e la figura slanciata, era particolarmente adatta a interpretare i ruoli di signore raffinate che erano stati di Mrs. Abington. Si ritirò dalle scene nel 1797, anno in cui si sposò con il Duca di Derby appena rimasto vedovo. Fu famosa per l’interpretazione di Lady Teazle, nella commedia The School for Scandal di Sheridan, parte che recitò anche per l’ultima apparizione sulle scene.

Farren William (1754-1795). Debuttò forse a Birmingham nel 1774 e l’anno dopo al Drury Lane, dove rimase per qualche anno. Nel 1784 lasciò questo teatro per un impegno con il Covent Garden dove recitò fino all’anno della sua morte, sia in ruoli secondari che come protagonista.

Fawcett John (1768-1837). Era figlio di due attori e, nonostante il padre pensasse per lui a un mestiere diverso, a diciotto anni si unì alla compagnia di Charles Mates e cominciò a recitare sotto falso nome. Nel 1787 debuttò a York come tragico ma Tate Wilkinson ne intuì le potenzialità di attore comico e come tale ebbe grande successo. Debuttò al Covent Garden di Londra nel 1791, e sembrò adatto a sostituire John Edwin, che era morto nel 1790. Per molti anni fu stage manager del Covent Garden, fino a che, nel 1829, inaspettatamente, fu sostituito. Lasciò le scene l’anno dopo. Per circa quarant’anni era stato un ottimo interprete di personaggi bassi, rustici e di ruoli comici che prevedevano il canto. Aveva un repertorio molto ampio e George Colman the Younger scrisse per lui ruoli adatti alle sue qualità.

123 Charles Lamb, Theatralia

Foote, Maria (1797?-1867). Attrice. Figlia di Samuel T. Foote, manager del teatro di Plymouth, recitò giovanissima nel teatro del padre. Nel 1814 debuttò al Covent Garden. Bella ma limitata come attrice, recitò comunque anche in Irlanda e in Scozia. Da una relazione con il Colonnello William Berkeley ebbe due figli. La causa intentata a Joseph Hayne per non aver mantenuto la sua promessa di matrimonio la rese famosa. Nel 1831 lasciò le scene e sposò Charles Stanhope, conte di Harrington.

Garrick, David (1717-1779). Uno dei più grandi attori inglesi, che cambiò radicalmente lo stile di recitazione, allontanandosi da quello declamatorio di James Quin per un modo più “naturale”. Come direttore del Drury Lane, carica che tenne per molti anni, introdusse molte innovazioni, quali l’illuminazione della scena con luci nascoste al pubblico e la proibizione che gli spettatori salissero sul palcoscenico. Iniziò a recitare molto presto, ma debuttò formalmente nel ruolo di Riccardo III al Goodman’s Fields nel 1741. Il successo fu tale che fu immediatamente ingaggiato al Drury Lane e dal 1742 la sua fama fu sempre crescente. Grandissimo nella tragedia, nonostante fosse piccolo di statura, così come nella commedia. Per il suo carattere e il suo snobismo, oltre che per il potere e la fama acquisiti nel mondo del teatro, si attirò inimicizie e spesso si ritrovò coinvolto in controversie e liti. Adattò molti lavori altrui per il palcoscenico e scrisse anche pregevoli opere originali. Dal 1763 al 1765 viaggiò sul continente, particolarmente in Francia dove fu accolto con grande calore. Nel 1769 organizzò lo Shakespeare Jubilee a Stratford, incrementando la cosiddetta “bardolatria”. Fece la sua recita di addio nel 1776 e poi si ritirò a Hampton, dove morì pochi anni dopo. È sepolto a Westminster Abbey. Fu ritratto da molti pittori dell’epoca, tra cui Raynolds, Hogarth, Gainsborough.

Gattie, Henry (1774-1844). Nato vicino a Bath, debuttò nella sua città dal 1807 al 1812 e poi dall’anno successivo recitò a Londra, al Lyceum e al Drury Lane fino al suo ritiro nel 1833. Spesso sostituì Munden, Dowton, Terry o Mathews, pur non essendo alla loro altezza. Famoso per la sua interpretazione di personaggi francesi. Lasciato il teatro aprì un negozio di sigari a Oxford.

Glover, Juliana (nata Betterton, in realtà Butterton, 1779-1850). Fu detta “Julia” per tutta la sua carriera. I genitori erano entrambi attori e Julia recitò fino da piccola. Nel 1797 fece il suo debutto al Covent Garden dove era stata ingaggiata per cinque anni. Nel 1802 debuttò al Drury Lane e da allora si alternò tra i due teatri e fu spesso in scena con Kean e Macready. Fu l’originale Alhadra in Remorse di Coleridge, del 1813. Si ritirò nel 1850 ma era già malata e morì subito dopo la sua ultima rappresentazione. Migliore come attrice comica che non come interprete tragica.

Gould, T. (nata Burrell). Donna di aspetto e modi mascolini tanto da ricevere il soprannome di “Joe” Gould. Nel 1818 Lamb in un articolo sull’Examiner parla della sua recitazione in panni maschili del ruolo di Don Giovanni in Giovanni in London (1817), parodia di W. T. Moncrieff: una parte successivamente recitata dalla più famosa Madame Vestris. Poco dopo Miss Burrell, attrice non eccezionale, si sposò con un certo Gold (o Gould) e scomparve dalle scene.

Grimaldi, Giuseppe (1713-1788). Detto Signor Grimaldi, fu danzatore e attore di pantomime, nato a Genova o forse a Malta. Fu anche dentista, occupazione tradizionale della sua famiglia. Sul suo lavoro come danzatore spesso è confuso con il padre John Baptist. Si esibì dapprima in fiere in Italia e in Francia, poi debuttò a Londra a Haymarket e successivamente, nella stagione 1758-1759, al Drury Lane e al Covent Garden. Nel primo dei due teatri rappresentò una sua pantomima,

124 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

The Millers, considerata un’innovazione per il palcoscenico inglese. Lavorò al Drury Lane fino alla morte come maitre de ballet, “primo buffo”, Pantalone e in altri ruoli. Negli ultimi anni della sua carriera lavorò anche a Haymarket dove fece la sua ultima apparizione sulle scene nel 1786. Notizie sulla sua vita si ricavano dalle memorie del figlio Joseph (1779-1837), e soprattutto dalle correzioni nelle note al testo scritte da Charles Dickens, che lo pubblicò postumo nel 1838. Il figlio fu un famoso attore di pantomima e creatore all’interno del genere Harlequinade (una variante inglese della pantomima, originatasi dalla fusione del dumbshow e della commedia dell’arte) di un personaggio assolutamente nuovo, Clown, che mostrava sul palcoscenico la sua abilità come ballerino, cantante, acrobata. Dal 1806 Joseph Grimaldi lavorò al Covent Garden, che lasciò nel 1823 per ritirarsi pochi anni dopo, nel 1828.

Grove, Mrs. Attrice non meglio identificata: forse la moglie dell’attore Grove, bravo a impersonare vecchi e servi intriganti.

Harley, George Davies (?-1811). Attore e poeta, era nato probabilmente alla fine degli anni sessanta a Londra. Era amico dell’attore John Henderson che lo incitò a recitare e gli diede lezioni. Debuttò a Norwich nel 1785 e qualche anno dopo recitò con Mrs. Siddons in occasione di una visita della famosa attrice in quella città. Nel 1789 al Covent Garden impersonò Riccardo III e Iago, oltre ad altri ruoli importanti come Shylock e King Lear. In quella prima stagione recitò anche la parte di Horatio in The Fair Penitent di Rowe, cui fa riferimento Lamb nel citare il suo nome. Pochi anni dopo però la sua carriera divenne sempre più povera e lasciò le scene londinesi per andare in provincia, dove comunque continuò a recitare con discreto successo. Fu presente nei cartelloni di molte città fino ai primi anni dell’Ottocento.

Harlowe, Mrs. Sarah (1765-1852). Forse lo pseudonimo di Miss Wilson; era un’attrice da commedia popolare. Aveva iniziato a recitare in provincia, e nel 1787 aveva conosciuto l’attore Francis Godolphin Waldron, più vecchio di lei di ventun anni, diventandone l’amante e vivendo con lui fino alla sua morte, nel 1818. Con il suo aiuto aveva debuttato a Londra, prima come attrice di pantomime e cantante, poi al Covent Garden, nel 1790. Successivamente recitò a Haymarket, e a fine secolo ebbe un ingaggio al Drury Lane, ma cantava anche nella compagnia della British Opera al Lyceum. Era particolarmente adatta a ruoli maschili o en travesti e recitò con successo molti ruoli che erano di Mrs. Jordan. Si ritirò dalle scene nel 1826 e morì molti anni dopo, a 86 anni, di un attacco cardiaco.

Henderson, John (1747-1785). Attore. Garrick dopo avergli fatto un’audizione lo presentò all’impresario di Bath, dove con il nome di Courtney, Henderson debuttò nel 1772 come Amleto, recitando subito dopo Riccardo III e altri personaggi, circa venti, già nella sua prima stagione. Richard Cumberland e altri lo raccomandarono a Garrick per il Drury Lane, però Henderson non accettò le condizioni restrittive poste dal grande attore e manager. Il debutto londinese avvenne nel 1777 a Haymarket come Shylock ma i critici furono tiepidi. Recitò poi a Liverpool, a Edimburgo e in Irlanda e nei teatri di Londra, soprattutto al Covent Garden dove nel 1784 interpretò Comus, ruolo per il quale lo nomina Lamb.

Holman, Joseph George (1764-1817). Nato a Londra, doveva intraprendere la carriera ecclesiastica ma fu attratto dal teatro e nel 1784 debuttò al Covent Garden nel ruolo di Romeo. Viaggiò spesso anche in provincia e dal 1790 cominciò a scrivere drammi e adattamenti. Dopo il 1800 non recitò più a Londra durante l’inverno ma continuò a lavorarci d’estate a Haymarket. Attirato dal successo di Cooke in America, andò a New York nel 1812 con la figlia e recitarono in diverse città.

125 Charles Lamb, Theatralia

Qualche anno dopo divenne direttore del teatro di Charleston. A Londra fu lodata dalla critica la sua interpretazione di Lord Townly in The Provoked Husband. Morì di febbre o di un colpo due soli giorni dopo il matrimonio con Miss Lattimore, un’attrice di Liverpool.

Hull, Thomas (1728-1808). Attore, cantante, impresario, drammaturgo e romanziere. Cominciò a recitare dopo aver interrotto l’apprendistato alla professione di apotecario, che era quella del padre. Lavorò dapprima a Dublino e a Bath e poi debuttò al Covent Garden nel 1759; rimase in quel teatro per ben 48 anni, recitando in altre città durante l'estate. Nella sua lunga carriera interpretò oltre 220 personaggi; scrisse molte opere teatrali e un romanzo. Nel 1765 istituì un fondo del Covent Garden per aiutare gli attori indigenti o vecchi.

Johnston, Nanette (Nanette Parker, nata nel 1782). Attrice, ballerina e cantante. Il padre era proprietario del Circus a Edimburgo e forse la giovane Nanette vi si esibì molto giovane. Sposò nel 1796 Henry Erskine Johnston (1777- 1845), il “Roscio scozzese”, con il quale debuttò a Londra nel 1797, recitando successivamente al Covent Garden e a Haymarket con successo, nonostante venisse accusata di essere arrogante e presuntuosa. Dopo la separazione dal marito visse con Henry Harris, impresario del Covent Garden che poi lasciò per un banchiere. Sembra che la sua ultima apparizione sulle scene sia stata nel 1816.

Jordan, Dorothy (o Dorothea, nata Bland e nota talvolta come Miss Phillips e Miss Francis, 1761-1816). Anglo-irlandese, la più grande attrice comica della sua epoca, famosa per i ruoli da maschiaccio o in cui doveva travestirsi da uomo, dato che le sue gambe erano considerate bellissime. Era sorella dell’attore George Bland, ma non aveva mai usato il cognome del padre naturale e si fece conoscere a Dublino, dove debuttò nel 1777, come Miss Francis. Nel 1782 arrivò in Inghilterra, a Leeds, e prese il nome di Mrs. Jordan, anche se non fu mai sposata. Tre anni dopo si trasferì al Drury Lane dove recitò per molti anni. I suoi ruoli più famosi furono Nell in The Devil to Pay di Coffey, Lady Teazle (The School for Scandal), Imogen (Cymbeline) e Rosalind (As You Like It). Fu molto lodata da Hazlitt, Lamb e Leigh Hunt. Ebbe molte relazioni, la più importante delle quali con il Duca di Clarence, divenuto poi William IV, con cui ebbe dieci figli. Dopo la separazione dal Duca nel 1811, ottenne la custodia delle figlie femmine e un vitalizio a patto che non recitasse più. Nel 1814 per pagare i debiti di un genero tornò sulle scene e il duca si riprese le figlie e interruppe l’appannaggio. A quel punto si trasferì a Parigi dove morì. Fu ritratta da Reynolds, Gainsborough, Hoppner e Romney.

Kean, Edmund (1787-1833). Il più grande attore tragico dei suoi tempi. Recitò fino da bambino e poi visse anni duri come attore girovago. Dal suo debutto al Drury Lane nel ruolo di Shylock il 26 gennaio del 1814, cominciò una carriera costellata di successi. Nel personaggio di Shylock ruppe con la tradizione di rappresentarlo con la barba rossa e la parrucca e lo interpretò invece come un demonio con un coltello da macellaio e lo sguardo sanguinario. La sua maggiore abilità sembra essere stata l’interpretazione di personaggi malvagi, mentre non eccelleva nella commedia. Fu al centro di scandali per il suo comportamento considerato sregolato e incline all’alcol, che rischiò in diverse circostanze di alienargli il favore del pubblico. Fece la sua ultima apparizione nel 1833 come Riccardo II al Drury Lane e come Otello al Covent Garden. Qui ebbe un collasso durante lo spettacolo e morì poche settimane dopo. Alexandre Dumas padre scrisse su di lui il dramma Kean, ou désordre et génie (1836), adattato poi da Jean-Paul Sartre per l’attore Pierre Brasseur nel 1953. Il figlio Charles fu attore e direttore del Princess’s Theatre, famoso per le sue produzioni storicamente accurate. Hazlitt recensì ripetutamente, con grande attenzione, le sue interpretazioni.

126 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Kelly, Frances Maria (Fanny) (1790-1882). Era la nipote di Michael Kelly, cantante e compositore d’opera che aveva conosciuto Mozart e aveva cantato nella prima rappresentazione de Le nozze di Figaro. Fanny debuttò al Drury Lane nel 1798 in Bluebeard (Barbablù), con la musica dello zio, e recitò prevalentemente in quel teatro. Fu grande amica dei Lamb; Charles si era innamorato di lei ma la ragazza rifiutò una sua offerta di matrimonio nel 1819. Attrice di grande versatilità e talento oltre che cantante di capacità al di sopra della media, ebbe successo nelle parti comiche che erano state di Mrs. Jordan e nel melodramma domestico. Costruì il teatrino di Dean Street, ma ne ricavò poco. Si ritirò nel 1835 e da allora si dedicò alla formazione di giovani attrici.

Kelly, Michael (1762-1826). Attore, cantante, compositore, impresario e direttore musicale. Debuttò nel 1777 cantando in un’opera di Piccinni, con grande successo. Fu poi mandato dal padre a studiare in Italia. Nel 1784 cantò a Vienna, al teatro di corte; in quell’ambiente conobbe Haydn e Gluck, e divenne amico di Mozart, interpretando Basilio e Don Curzio alla prima delle Nozze di Figaro nel 1786. Solo l’anno dopo debuttò a Londra al Drury Lane, iniziando così la sua carriera di cantante in Inghilterra che terminò nel 1811, secondo le sue memorie (Reminiscences, pubblicate nel 1826). Continuò a comporre e a occuparsi di opera come impresario.

Kemble, Charles (1775-1854). Attore e impresario. Fratello minore di John Philip Kemble e di Sarah Siddons. Debuttò a Londra nel 1794 in una produzione di Macbeth dove il fratello recitava la parte del protagonista. Recitò soprattutto parti di innamorati romantici e di gentiluomini. Attorno al 1800 il suo modo di recitare era molto migliorato dagli inizi, e Hazlitt e Hunt lo apprezzarono nel ruolo di Cassio in Othello. Nel 1813 lasciò il Covent Garden, dove la presenza del fratello maggiore e più famoso lo metteva in ombra e con la moglie andarono in tournée in Gran Bretagna e in Francia. Si recò anche in Germania, alla ricerca di testi da tradurre per il pubblico inglese. Due anni dopo riprese a recitare a Londra. Quando il fratello si ritirò, nel 1817, gli lasciò la sua parte di azioni del Covent Garden, ma la direzione del teatro si rivelò difficile e non redditizia. Dal 1822 inaugurò con successo la moda delle rappresentazioni storicamente accurate. Nel 1827 si recò con altri attori inglesi a Parigi per mostrare al pubblico francese i drammi inglesi e cinque anni dopo con la figlia Fanny Kemble (1809-1893) fu accolto con entusiasmo in America. Lasciò le scene nel 1836, dopo una carriera di 44 anni: nella serata finale la polizia dovette intervenire per allontanare chi non era riuscito a entrare e il pubblico nel quale era anche la principessa Victoria gli tributò dieci minuti di ovazioni. Nel 1840 recitò ancora su richiesta della regina che voleva che il consorte Albert potesse vederlo e qualche anno dopo per lei fece una lettura di Cymbeline.

Kemble, Maria Theresa (nata De Camp, 1775-1838). Figlia del musicista George Louis De Camp, aveva danzato fino da bambina e debuttato al Drury Lane a soli 11 anni. Si specializzò nei ruoli di cameriera e di ingénue. Si sposò con Charles Kemble, con il quale aveva lavorato spesso; dopo il matrimonio il sodalizio artistico continuò a Londra e altrove. Si ritirò dalle scene nel 1819. La figlia, Fanny Kemble, ebbe successo come scrittrice e come attrice, ma nel 1834 si ritirò per sposare un ricco americano conosciuto durante la tournée che aveva fatto con il padre.

Kemble, John Philip (1757-1823). Famosissimo attore tragico del tempo, fratello di Mrs. Siddons. Aveva recitato fino da bambino con i genitori ma poi era andato all’estero a completare la sua istruzione. Apparve in pubblico per la prima volta nel 1776 e poi debuttò al Drury Lane nel 1783 come Amleto, suscitando interesse e dividendo la critica a proposito dell’originalità delle enfasi e delle pause: un giudizio contrario a quello dato in seguito alla sua declamazione statica e ferma,

127 Charles Lamb, Theatralia

più legata al concetto di dignità che a quello di passione. Alla morte di Henderson divenne l’attore tragico senza rivali, la cui posizione professionale e sociale divenne via via sempre più solida. Spesso recitò con la sorella Mrs. Siddons, e ogni loro rappresentazione era un avvenimento. Dalla data del suo debutto fino al 1802 recitò oltre centoventi personaggi, interpretando tutti i ruoli tragici del repertorio, shakespeariani e non. La sua recitazione era severa e statuaria, il che lo rendeva poco adatto alla commedia o ai drammi sentimentali; sembra che la sua interpretazione di Amleto durasse venti minuti di più di quella di tutti gli altri attori. Fu impresario del Drury Lane dal 1788 al 1801 e successivamente, nel 1803, diventò direttore del Covent Garden, dove portò nella compagnia tutta la sua famiglia. Nel 1808 il teatro fu distrutto dal fuoco in cui si persero anche costumi, scenografie e una importante biblioteca musicale con manoscritti di Händel e di Arne. Amici e il re stesso offrirono denaro per ricostruirlo, ma il nuovo teatro, eretto in fretta, risultò enorme, e con una acustica imperfetta. L’aumento “necessario” dei prezzi scatenò una rivolta tra gli spettatori che gridarono “Old prices!” (vecchi prezzi) tutta la sera girando le spalle al palcoscenico. Le proteste andarono avanti per 67 sere. Recitò Macbeth nella serata dell’addio alle scene di Mrs. Siddons e pianse per la commozione. Molti critici, tra cui Hunt, lo abbandonarono per seguire il nuovo idolo, Kean, ma Hazlitt ne riconobbe la grandezza. Si ritirò dalle scene il 23 giugno del 1817 con una rappresentazione di Coriolanus davanti a un pubblico che lo salutò con una standing ovation. Negli anni successivi viaggiò con la moglie in Scozia e poi in Francia e in Italia. Morì a Losanna, dove fu sepolto. Prima del ritiro aveva venduto al duca di Devonshire la sua enorme collezione di 4000 drammi, tra cui degli in- quarto elisabettiani, e di 40 volumi di locandine, custodita ora, insieme ad una altrettanto numerosa collezione del duca stesso, alla Huntington Library. Anche il resto delle sue proprietà – lettere, annotazioni, stampe, manoscritti – sono conservati sia alla British Library che a Harvard e alla Folger Library. Fu ritratto in varie pose da molti artisti dell’epoca.

Kennedy, Margaret (nata Doyle, morta nel 1793). Inizialmente conosciuta con il nome di Mrs. Farrell dal cognome del primo marito e successivamente come Mrs. Kennedy, avendo sposato in seconde nozze nel 1779 il medico irlandese Morgan Hugh Kennedy, amico di David Garrick e di Samuel Foote. Contralto, allieva di Thomas Arne, debuttò al Covent Garden nel 1776 e cantò poi in opere importanti, soprattutto in quel teatro e a Haymarket. Ebbe grande successo in parti maschili e la sua interpretazione del capitano Macheath, protagonista della Beggar’s Opera di John Gay, suscitò delle proteste. Cantò in pubblico per l’ultima volta nel 1789 forse per degli screzi con l’impresario del Covent Garden, Thomas Harris.

King, Thomas (1730-1805). Era un attore comico di prima qualità. Fu anche drammaturgo, e impresario del Sadler’s Wells e poi stage manager del Drury Lane dove era stato ingaggiato da giovane da Garrick nel 1748; calcò le scene per più di mezzo secolo. Allo Stratford Jubilee di Garrick, un festival dedicato a Shakespeare, King interpretò la parte di un damerino detrattore del grande poeta, in cui erano riconoscibili le critiche di Voltaire. Fu l’originale di molti personaggi comici e soprattutto di Sir Peter Teazle in The School for Scandal di Sheridan (1777) parte che interpretò con successo fino a che si ritirò nel 1802.

Knight, Edward (1774-1826). Attore comico eccentrico, conosciuto come “piccolo cavaliere”. Studiò pittura ma, innamoratosi del teatro, volle fare l’attore. La prima volta che calcò le scene fu preso dal panico e non riuscì dire una sola parola; superato in seguito il problema recitò a lungo in provincia dove fu ingaggiato da Tate Wilkinson, e debuttò infine a Londra nel 1809, al Lyceum, dato che il Drury Lane, dove era stato assunto, era stato distrutto da un incendio. Quando il teatro fu ricostruito vi si trasferì con tutta la compagnia e vi rimase fino alla morte. Non aveva uguali nelle parti di domestici, contadini e vecchi.

128 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Lee, James Nathaniel (attivo 1788-1815). Attore e cantante. Lavorò al Covent Garden in ruoli secondari. Sembra essere stato un uomo effeminato e circolavano aneddoti sugli scherzi che i colleghi gli facevano. Si sa molto poco della sua vita privata.

Leoni, Michael (ca. 1750-1797). Tenore di fama e zio del famoso cantante John Braham, di cui fu anche maestro. Il suo vero nome era Myer Lyon e iniziò come cantante nella Grande sinagoga di Londra. Circa l’avvio della sua carriera teatrale nel 1760, pare che, scoperto da Garrick, avesse ricevuto il permesso degli anziani di esibirsi in pubblico. Quello che si sa per certo è che per molto tempo portò avanti una duplice carriera, in sinagoga e sul palcoscenico. Divenne famoso negli anni settanta, al Covent Garden, e nel 1783 fondò con il compositore Tommaso Giordani la English Opera House a Dublino, un’impresa fallita presto perché il teatro era troppo piccolo. Attorno al 1790, per sfuggire ai creditori, andò a vivere a Kingston, in Jamaica, nella comunità ebraica, dove morì.

Lewis, William Thomas (c. 1746-1811). Calcò le scene fino da piccolo con la madre e il patrigno in Irlanda; debuttò a Dublino nel 1761 e fu raccomandato a Garrick che non mostrò interesse. Nel 1773, dopo una fama crescente acquisita in Irlanda, Lewis fu ingaggiato al Covent Garden dove rimase fino a che si ritirò nel 1809. Nei primi anni dell’Ottocento divenne comproprietario di teatri a Liverpool e a Manchester. Era vivace e coscienzioso e per questo molto amato dalla compagnia. Non adatto alla tragedia, ma insuperabile nella commedia brillante: la sua eleganza e affabilità gli valsero il soprannome di “Gentleman” Lewis. Nella sua carriera recitò quasi duecento parti diverse.

Liston, John (1776?-1846). Attore comico che, dopo aver recitato per anni in provincia con la compagnia di Stephen Kemble, fu scoperto da Charles Kemble e debuttò a Haymarket nel 1805. Fu poi ingaggiato al Covent Garden dove recitò fino al 1822, per passare successivamente al Drury Lane. Fu anche popolare in provincia e per trent’anni restò uno dei principali attori di Londra fino al suo ritiro nel 1837. Fece la fortuna di impresari e autori e fu il primo comico ad avere una paga superiore a quella degli attori tragici. Tentò anche di recitare tragedie, ma senza successo. Aveva una fisionomia grottesca, ma non sgradevole, ed era noto proprio per la sua espressione. Fu lodato per la sua interpretazione di Lord Grizzle in Tom Thumb di Fielding. Hazlitt ne parla spesso bene.

Love, Miss (1801-?). Figlia di un ufficiale. Ancora giovane fu lanciata al Lyceum e poi assunta al Covent Garden. La sua bravura fu chiara al pubblico quando dovette sostituire un’altra attrice ed ebbe solo 24 ore per studiare la parte. Era brava a recitare i ruoli di servette.

Lovegrove, William (1778-1816). Acquisì popolarità in provincia e fece la sua comparsa a Londra nel 1810, dove entrò nella compagnia del Drury Lane che recitava temporaneamente al Lyceum. Depresso dal dolore per la perdita della moglie e della figlioletta, dopo il 1814 fu visto raramente sulle scene. Noto nei ruoli di vecchie commedie e come Peter Fidget in The Boarding House. Lamb lodò la sua recitazione di Aguecheek ne La dodicesima notte. Era molto riservato e aveva pochi amici.

Macready, William Charles (1793-1873). Figlio di un impresario teatrale di provincia, aveva studiato alla Rugby School con la speranza di poter proseguire gli studi a Oxford, ma dovette poi scegliere una carriera

129 Charles Lamb, Theatralia

teatrale: debuttò nel 1810 a Birmingham e nel 1816 a Londra e qualche anno dopo era già conteso dal Covent Garden e dal Drury Lane dove i suoi Lear, Amleto e Macbeth avevano una grande popolarità. Fu direttore di entrambi i teatri e riportò sulle scene molte opere shakespeariane nel testo originale, sfrondandole delle alterazioni e degli adattamenti della Restaurazione. Era il solo concorrente di Edmund Kean come attore tragico. La sua popolarità anche fuori dall’Inghilterra fu un fenomeno di massa e la rivalità tra Macready e un attore americano, Edwin Forrest, entrambi specializzati in ruoli shakespeariani, scatenò una rivolta popolare a New York nel 1849, quando due fazioni, in favore dell’uno o dell’altro attore, combatterono di fronte all’Astor Opera House: venticinque persone rimasero uccise e ci furono più di cento feriti. Macready si ritirò dalle scene nel 1851, dopo aver recitato Macbeth al Drury Lane. Nella sua lunga vita fu amico di molti autori vittoriani tra cui Dickens, Browning, Bulwer Lytton. Ha scritto un diario, pregevole come ritratto di vita contemporanea.

Mathews, Charles (1776-1835). Uno dei migliori attori comici e mimi del suo tempo, famoso per le imitazioni. Aveva recitato a Richmond nel 1793 e poi debuttato a Dublino nel 1794. Arrivò a Londra nel 1803, dove a Haymarket si guadagnò una reputazione di eccentricità. Nel 1808 ebbe l’idea di creare spettacoli, poi chiamati “a casa”, condotti da lui soltanto, in cui recitava diversi personaggi: una formula legata da allora al suo nome e che si trasformò in brevi commedie, scritte anche da altri per lui. Recitò circa quattrocento ruoli differenti. Fece una tournée negli Stati Uniti nel 1822-23 dove ottenne un gran successo. Vi tornò nel 1834 con la speranza di migliorare la sua situazione economica, ma si ammalò durante il viaggio e poté recitare solo poche volte. Al suo ritorno in Inghilterra dopo sei mesi di tournée americana, morì. Tra i critici, Hazlitt non lo stimava particolarmente. La sua famosa collezione di ritratti teatrali fu comprata nel 1836 dal Garrick Club.

Mattocks, Isabella (nata Hallam, 1746-1826). Apparteneva a una famiglia di attori e lei stessa recitava già da bambina, forse a quattro o cinque anni. Apparve per la prima volta da adulta al Covent Garden nel 1761 nel ruolo di Giulietta. Qualche anno dopo sposò contro il volere della sua famiglia George Mattocks, attore e in seguito impresario a Liverpool. Il matrimonio non fu felice e sembra che lei abbia avuto una relazione con Robert Bensley, del quale Lamb scrive con ammirazione. Mrs. Mattocks recitò sia a Liverpool che al Covent Garden, come attrice comica, vero pilastro del teatro, dove interpretò un numero enorme di ruoli dal 1761 fino al 1808, anno del suo ritiro.

Moody, John (1727?-1812). Secondo una fonte si chiamava John Cochran, ed era nato a Cork, in Irlanda; aveva cambiato nome per sembrare inglese. Era andato in Giamaica e lì aveva iniziato a recitare. Tornato a Londra era stato assunto al Drury Lane, nel 1759, dove recitò per parecchi anni specialmente ruoli comici di irlandesi spesso scritti per lui. Restò in quel teatro fino al 1796, quando Garrick si era ormai ritirato, ma quando Sheridan ne divenne l’impresario ebbe problemi come altri attori per avere quanto gli era dovuto di salario. Tornò sulle scene solo una volta, nel 1804 in uno spettacolo a beneficio del Bayswater Hospital. Fu famoso in molti ruoli tra i quali Teague in The Committee, in cui fu ritratto varie volte.

Mountfort, Susanna (1690-1720). Figlia di due attori. Alla morte del padre la madre sposò l’attore John Verbruggen. Susanna recitò con la compagnia di Betterton al Lincoln’s Inn Fields e poi al Drury Lane. Ebbe una relazione con l’attore Barton Booth e si dice – pur se improbabile – che fosse impazzita quando questi sposò la sua migliore amica, al punto di dover essere rinchiusa. Dal luogo della sua detenzione era però fuggita per andare in teatro avendo saputo che vi si rappresentava Hamlet; si era nascosta ed era entrata poi in palcoscenico per recitare lei stessa

130 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

la scena della follia di Ofelia, in modo ovviamente molto realistico. Alla fine si era sentita male e pochi giorni dopo era morta.

Munden, Joseph Shepherd (1758-1832). Attore, cantante e impresario. Dopo essere stato apprendista presso un avvocato, aveva cominciato a recitare in provincia, con sporadiche presenze a Londra dal 1779 al 1790, dopo di che, essendosi fatto una reputazione come attore comico, fu assunto al Covent Garden dove recitò continuativamente fino al 1811, tranne tournée estive in altre città o rappresentazioni a Haymarket. Nella sua carriera interpretò tra 200 e 300 ruoli diversi. Negli ultimi anni della sua carriera lavorò al Drury Lane, dal 1813 al 1824. Per Hazlitt l’attore esagerava con le smorfie e con gli atteggiamenti caricaturali, ma era invece l’attore preferito di Charles Lamb che ne ha fatto una bella descrizione. Molto marcato nella sua comicità, era però particolarmente ammirato quanto recitava scene di ubriachezza. Dette l’addio alle scene il 31 maggio 1824.

Murray, Harriet, vedi Siddons, Harriet.

Nokes, James (?-1696). Attore della compagnia di Davenant alla riapertura dei teatri, fu anche revisore dei conti insieme a Thomas Betterton. Di solito recitava le parti di vecchi mariti sciocchi e damerini ottusi, ma anche di vecchie signore ridicole. Sembra che abbia lasciato le scene attorno al 1691-1692. Fu lodato da Dryden e da Colley Cibber, che diceva di avere imparato molto da lui.

Oldfield, Anne (1683-1730). Secondo un biografo fu scoperta dal drammaturgo George Farquhar, raccomandata a Christopher Rich e assunta al Drury Lane a partire dal 1699, dove rimase per tutto il resto della sua carriera. Era succeduta a Mrs. Bracegirdle come attrice della compagnia nata dalla fusione delle due esistenti. Fu attaccata da altre attrici che l’accusavano di non tollerare che altri condividessero il suo successo. Aveva un repertorio limitato e recitava a ogni stagione gli stessi ruoli con grande successo. Pur essendo brava nella tragedia, amava di più recitare testi comici. La sua ultima apparizione sul palcoscenico fu nel 1730. Aveva una voce particolarmente chiara e bella, tanto che Voltaire disse di lei che era l’unica attrice inglese che lui potesse seguire senza sforzo. Pope la rappresentò come Narcissa nei Moral Essays. È sepolta a Westminster Abbey sotto il monumento di Congreve.

Packer, John Hayman (1730-1806). Aveva lavorato in provincia prima di debuttare al Covent Garden nel 1758, alla presenza di Garrick che lo ingaggiò per il Drury Lane, dove rimase per tutta la sua lunga carriera. Si ritirò nel 1805 dopo aver interpretato ruoli secondari per almeno 4800 serate. Negli ultimi anni era conosciuto per i ruoli di vecchi nelle tragedie e nelle commedie sentimentali.

Palmer, John (1744-1798). Uno dei maggiori attori comici del ’700, conosciuto anche come «Plausible Jack» (nome che gli derivava da un personaggio della commedia di Wycherley, The Plain Dealer, ma anche dal suo amore per gli intrighi e le finzioni) per distinguerlo dall’attore omonimo detto «Gentleman Palmer». Era figlio di Robert Palmer, che lavorava come usciere al Drury Lane. Tentò senza successo di attirare l’attenzione di Garrick, fino a che fu assoldato al Drury Lane per una paga molto bassa per recitare parti minori, ma la sua fortuna cambiò quando nel 1767 sostituì con onore il suo omonimo “Gentleman John” che si era ammalato, in una commedia di Garrick, The Country Girl. Recitò spesso con il fratello più giovane Robert e la sua popolarità crebbe rapidamente. Cercò di avere un suo teatro eludendo la legge che

131 Charles Lamb, Theatralia

concedeva solo due licenze per i drammi “parlati”, senza musica – al Drury Lane e al Covent Garden e, solo per l’estate, al Haymarket. Fece costruire il Royalty Theatre in Wellclose Square ma alla sua apertura si opposero i tre direttori degli altri teatri e dopo un anno di polemiche e denunce il teatro fu chiuso lasciando solo debiti. Palmer fu l’originale Joseph Surface, spesso considerato il suo ruolo migliore. Nella sua carriera recitò quasi 400 parti. Morì a Liverpool in palcoscenico, mentre recitava The Stranger di Benjamin Thompson, adattamento da Menschenhass und Reue (Misantropia e pentimento) di Kotzebue: si diceva che fosse deceduto dopo aver pronunciato le parole “C’è un altro mondo migliore!”. Pare fosse uomo senza scrupoli e conducesse una vita depravata, pur essendo simpatico e affascinante.

Palmer, Robert (1757-1817). Cantante, attore e ballerino. Fratello minore di John Palmer, fu allievo del danzatore Grimaldi. Fece la sua prima esibizione importante nel 1773 e fu assunto al Drury Lane. Visse sempre nell’ombra del fratello John: lo seguì anche in tournée in Scozia e sostenne il suo progetto del Royalty Theatre. Bravo nei ruoli di damerini e di banditi. Charles Lamb fa dei rilievi interessanti su entrambi i fratelli.

Parker, Sally (?). The Tespian Dictionary parla di una Mrs. Parker attrice di pantomime al Sadler’s Wells e al Circus, elegante e vivace, che ha recitato il ruolo di Colombina al Covent Garden nel 1798.

Parsons, William (1736-1795). Uno degli attori preferiti di Lamb, noto come “Roscio comico”. Con William Powell e Charles Holland, che sarebbero diventati anche loro attori importanti a Londra, cominciò a recitare in spettacoli da dilettanti. Attorno al 1757 si unì alla compagnia di Edimburgo fino al 1762 quando fu ingaggiato al Drury Lane di Garrick dove recitò in The Beggar’s Opera e le sue capacità emersero subito. Rimase in quel teatro per 32 stagioni lavorando d’estate al Haymarket e recandosi qualche volta a Edimburgo e a Bristol. Bravo nel recitare parti di vecchi, fu l’originale Crabtree ne La scuola della maldicenza di Sheridan (1777) e Foresight, personaggio di Love for Love di Congreve, era un suo cavallo di battaglia. Ebbe molti imitatori che però non riuscirono a eguagliarlo. Soffriva di attacchi di asma e per anni affannò nel recitare tanto da sembrare ubriaco. Fu anche pittore e fece una fortuna come mercante d’arte.

Pearman, William (1792-ca.1825). Da ragazzo aveva fatto il marinaio, ma era stato ferito in battaglia e aveva lasciato il servizio. Dopo aver tentato senza successo di fare l’attore aveva iniziato a cantare a Londra al Sans Pareil Theatre, che poi sarebbe diventato l’Adelphi. Fece il suo debutto all’English Opera House nel 1817 e, nonostante la sua voce non fosse potente, divenne un tenore molto famoso. Lodato come il miglior Capitano Macheath in The Beggar’s Opera.

Phillimore, John (?-1799). Attore e cantante. Fece particine al Drury Lane dal 1777 fino alla morte, recitando d’estate in altre città.

Pinkethman, Willliam (?-1725). Spesso scritto Penkethman. Attore comico, cantante, ballerino e impresario. I primi anni della sua carriera sono oscuri; forse recitava piccole parti con la compagnia di Betterton, già nel 1682. Diventò un membro della compagnia del Drury Lane, sotto la direzione di Cibber, che scrisse per lui alcuni ruoli minori. Era bravo nel recitare prologhi e epiloghi e faceva anche spettacoli di varietà nella Fiera di S. Bartolomeo e in quella di Southwark. La sua

132 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

comicità era un po’ volgare e clownesca. Continuò a lavorare fino all’anno precedente la sua morte.

Pope, Alexander (1762-1835). Attore e drammaturgo irlandese. Studiò pittura a Dublino e debuttò in teatro nel 1783 a Cork e due anni dopo a Londra, al Covent Garden. Leigh Hunt, come altri critici, gli rimproverarono una fisionomia dura e un portamento senza espressione. Lavorò spesso con la moglie Elizabeth, ma ebbe sempre un ruolo meno importante di lei. Alla sua morte Pope si risposò con un’altra attrice, con la quale recitò al Covent Garden e in Scozia e Irlanda. Nel 1802 entrambi si trasferirono al Drury Lane. Rimasto vedovo una seconda volta si sposò con una miniaturista. Alternò la carriera di attore a Londra e in provincia con quella di pittore ritrattista. Sebbene non fosse un attore eccezionale, ebbe una carriera lunga 44 anni.

Pope, Elizabeth (nata Younge, 1740-1797). Prima moglie dell’attore Alexander Pope, più anziana di lui di 22 anni. Fu ritenuta un’attrice non bella ma espressiva. Ebbe talmente tanto successo al suo debutto nel 1768 che subito le fu aumentato il salario. Recitò sempre ruoli importanti sia tragici che comici. Fu Cordelia accanto a Garrick nel 1776 quando l’attore fece la sua penultima recita impersonando Lear. Nel 1785 sposò Alexander Pope che aveva conosciuto in Irlanda l’anno prima e che aveva raccomandato al Covent Garden. Fu attrice stimata e ammirata anche dal re Giorgio III.

Pope, Jane (1742-1818). Debuttò al Drury Lane nel 1759 e continuò la sua carriera in quel teatro e successivamente a Haymarket, fino al 1808, anno in cui si ritirò. Sia Lamb che Hazlitt lodarono la sua recitazione comica. Ottima attrice nei ruoli di soubrette, fu l’originale Mrs. Candour in The School for Scandal di Sheridan (1777). Anche da anziana continuava a recitare con la stessa verve che aveva da giovane. Fu sempre amica di Kitty Clive cui fece erigere un monumento nel cimitero di Twickenham.

Porter, Mary (?-1765). Non era né bella né dotata di una bella voce, ma fu grande nei ruoli di Lady Macbeth, di Alicia in Jane Shore e Ermione in The Distressed Mother. Booth, il grande attore, lodò la sua Belvidera e il Dr. Johnson disse che non aveva mai visto un’attrice tragica così appassionata e veemente. Per molti anni, resa zoppa da un incidente in cui si era lussata l’anca, aveva recitato con una stampella; si narra che, interpretando Elisabetta I in The Rival Queens, nell’agitazione per aver firmato la condanna a morte di Maria Stuarda, aveva colpito violentemente il palcoscenico con il bastone, suscitando un grande applauso. Fece la sua ultima apparizione sulla scena nel 1743.

Powell, Mr. Non meglio identificato. Forse si tratta di John (1755-1836) che debuttò al Drury Lane nel 1798 dove continuò a recitare per trent’anni. Ormai anziano, viaggiò in America e morì in Canada.

Powell, Jane (nata Palmer?, prima Mrs. Farmer e poi Mrs. Renaud, 1761-1831). Attrice e cantante, moglie di William Powell (1762-1812), fece la sua comparsa a Londra attorno al 1787 e recitò al Drury Lane fino al 1811. Sembra che sia stata la prima attrice a interpretare il personaggio di Amleto. Generalmente veniva impiegata in parti serie e spesso recitò con Mrs. Siddons. Alla morte di Powell si risposò con John James Renaud, un attore di provincia dal quale si separò subito dopo ma da allora fu conosciuta come Mrs. Renaud. Dal 1816, dopo aver girato in provincia, si stabilì a Edimburgo dove recitò per altri 11 anni. Si ritirò nel 1829 recitando la parte di Gertrude in un Hamlet con Kean protagonista.

133 Charles Lamb, Theatralia

Quick, John (1748-1831). Era un bravo attore comico. Sembra avesse iniziato nel Kent e nel Surrey all’età di 12 anni. Debuttò a Londra al Covent Garden nel 1767, e vi lavorò per diverse stagioni senza avere nessuna opportunità di migliorare o ampliare il repertorio. Negli anni settanta finalmente iniziò il suo successo e fu sempre rispettato nella sua lunga carriera. Si ritirò dalle scene nel 1798 (anche se comparve ancora sulle scene sporadicamente fino al 1813). Fu il primo Tony Lumpkin in She Stoops to Conquer di Oliver Goldsmith. Detto il «piccolo» Quick per la sua statura, vivace e con le guance paffute, era l’attore preferito del re Giorgio III.

Quin, James (1693-1766). Aveva recitato a Dublino prima di debuttare a Londra al Drury Lane e poi al Lincoln’s Inn Fields Theatre nel 1718 nel ruolo di Hotspur in Henry IV, parte prima. Rimase in quel teatro per sedici anni, recitando Otello, Lear, Falstaff, Buckingham in Richard III, lo spettro in Hamlet. Nel 1732 si trasferì al Covent Garden e poi al Drury Lane, figurando anche nelle stagioni a Dublino. Apparve sulle scene per l’ultima volta nel 1753. Fu l’ultimo di una scuola di recitazione declamatoria, che Garrick aveva minato alle fondamenta. Il contrasto tra i due grandi attori fu chiaramente visibile quando nel 1746-1747 si trovarono entrambi al Covent Garden e si esibirono nei loro ruoli famosi e poi recitarono anche insieme. Cumberland, che era presente, scrisse che quando Garrick entrò in scena sembrò che un secolo intero fosse stato scavalcato d’un balzo. C’è una descrizione della sua intemperanza nel bere nel romanzo Humphry Clinker di Smollett (1771).

Richardson, Mrs. Non si sono trovate notizie di questa attrice. Poteva essere la moglie di John Richardson (?- 1811), un attore della compagnia del Covent Garden oppure la vedova (?-1823?) del drammaturgo Joseph Richardson (1755-1803), autrice di due tragedie che lavorò al Drury Lane e al Lyceum.

Russell, Samuel Thomas (1770-1845). Figlio di un attore di provincia, cominciò a recitare da bambino. Pensando fosse per lui un invito del re, in realtà rivolto al padre, nel 1795 si recò a Londra, dove debuttò al Drury Lane, creando sconcerto nel sovrano che comunque apprezzò la sua recitazione. In provincia era considerato una stella, e a Londra era amato soprattutto per il suo ruolo più famoso: Jerry Sneak in The Mayor of Garratt di Samuel Foote (1763), nel quale fu ritratto da Samuel de Wilde. Sempre più si dedicò alla direzione – fu stage manager del Surrey, dell’Olympic e del Drury Lane – anche se continuò a recitare, in particolare ruoli comici. Si ritirò nel 1842.

St Ledger, Catherine M. (talvolta St. Leger, nata Williams, attiva 1794-1829). Attrice e danzatrice irlandese, cominciò a recitare con il nome da sposata nel 1797 e debuttò a Londra nel 1799. Lavorò regolarmente al Covent Garden e a Haymarket e ci sono sue notizie fino al 1810. Nel 1829 se ne parla come di Mrs. Cairnes.

Sedgwick, Thomas (?-1803). Era un venditore di ferramenta a Londra e per la sua bella voce veniva invitato spesso a cantare in club privati. Debuttò al Drury Lane nel 1787, in una ripresa di Artaxerses di Arne, insieme a Dignum e a Kelly. La sua carriera in ruoli minori continuò a Londra e in provincia senza particolari successi.

Sheridan, Elizabeth Ann (nata Linley, 1754-1792). Cantante, figlia del compositore Thomas Linley, fu la più dotata musicalmente dei suoi dodici figli. Iniziò la sua carriera a Bath, esibendosi con il fratello minore Thomas, che era violinista e amico di Mozart. Elizabeth era già famosa da adolescente per la sua voce di

134 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

soprano e per la bellezza che aveva attirato l’attenzione del re stesso. Innamoratasi del drammaturgo Richard Brinsley Sheridan, ruppe il fidanzamento con un ricco e anziano gentiluomo cui l’aveva destinata il padre. La storia divenne oggetto di satira nella commedia The Maid of Bath di Samuel Foote (1771) e i due innamorati, entrambi ancora minorenni, fuggirono in Francia e alla fine ottennero il permesso di sposarsi dal padre di lei. Dopo il matrimonio Elizabeth smise di cantare in pubblico e la sua ultima apparizione sulle scene sembra esser stata nel 1773. La loro vita matrimoniale non fu facile e dalla relazione con Lord Edward Fitzgerald Elizabeth ebbe una figlia che Sheridan comunque riconobbe. Fu dipinta sia con la sorella Mary che con il fratello Thomas da Thomas Gainsborough.

Siddons, Henry (1774-1815). Figlio maggiore di Sarah Siddons. Ancora adolescente, aveva fatto parte della compagnia dello zio Stephen Kemble e viaggiato in varie città. Alcune delle farse che aveva scritto furono rappresentate. Nel 1801 debuttò a Londra, al Covent Garden, dove rimase diverse stagioni. Divenne impresario del teatro di Edimburgo, anche grazie all’interessamento di Walter Scott. Morì a Edimburgo di tubercolosi ancora giovane; fu un buon manager ma come attore subì sempre il confronto con la madre e i fratelli di lei.

Siddons, Harriet (nata Murray, 1783-1844). Attrice, cantante e impresaria. Era la figlia dell’attore Charles Murray e cominciò a recitare da bambina. Il suo debutto londinese fu al Covent Garden nel 1798 come Perdita in The Winter’s Tale. Piacque sempre nei ruoli sentimentali dove univa pathos e semplicità. Nel 1802 sposò Henry Siddons, figlio maggiore di Sarah Siddons. Con lui recitò in entrambi i teatri di Londra e poi si trasferirono a Edimburgo dove Henry divenne manager del teatro. Alla sua morte nel 1815 Harriet lo sostituì per ben 15 anni. Nel 1830 recitò un discorso di addio alle scene scritto da Sir Walter Scott, amico e sostenitore dei Siddons.

Siddons, Sarah (nata Kemble, 1755-1831). La primogenita di dodici figli, era figlia di un impresario di provincia e di un’attrice; i suoi fratelli, John Philip, Charles e Stephen, furono tutti attori più o meno famosi. A diciotto anni sposò l’attore e drammaturgo William Siddons. Il debutto nel 1775 al Drury Lane, che era allora diretto da Garrick, fu un fiasco e questo la costrinse a tornare in provincia. Al secondo tentativo di presentarsi sulla scena londinese, nel 1782, fu subito acclamata come grande attrice, una fama che non avrebbe più perduto per tutta la sua carriera. Per molti anni alternò gli inverni londinesi a tournée nel resto del paese durante le estati, con un repertorio che includeva tutti i maggiori personaggi tragici. All’inizio del secolo rimase per un anno in Irlanda. Recitò al Covent Garden dal 1806 e fu molto ammirata da Byron, da Lamb, da Hazlitt e da Hunt. Per tutti fu un mito e rappresentò la musa stessa della Tragedia. Diede uno spettacolo di addio nel 1812, interpretando Lady Macbeth. Qualche anno dopo, tuttavia, nel 1819, tornò sul palcoscenico per una beneficiata in onore del fratello Charles, e sembrò l’ombra della grande attrice che era stata. Verso la fine della sua carriera il suo modo di recitare apparve monotono e fuori moda, ma la critica fu sempre unanime nel tributarle i più alti riconoscimenti. Amica di Horace Walpole e del Dr. Johnson, fu ritratta da pittori famosi, tra cui Reynolds, Lawrence e Gainsborough.

Sinclair, John (1791-1857). Cantante. Era nato a Edimburgo e aveva debuttato a Londra, a Haymarket, nel 1810, dopo di che per qualche anno cantò al Covent Garden. Nel 1819 andò a Parigi per studiare con Pellegrini e poi a Milano dove seguì le lezioni di Banderali al Conservatorio. Cantò poi in diverse città italiane e Rossini scrisse per lui la parte di Idreno nella Semiramide. Tornato a Londra continuò a esibirsi fino al 1830, anno in cui si ritirò a Margate, dove diresse per qualche tempo il Tivoli Gardens. Aveva una bella voce di tenore e un falsetto piacevole.

135 Charles Lamb, Theatralia

Smith, William (1730-1819). Dal 1753, anno del suo debutto, recitò al Covent Garden per ventun anni. I suoi modi gli valsero il soprannome di “gentiluomo”. Nonostante la critica lo accusasse di imitare Barry, la sua reputazione crebbe e si consolidò con il tempo. Nel 1774 interpretò Riccardo III sotto Garrick al Drury Lane, teatro nel quale recitò per il resto della sua carriera. Il suo ruolo maggiore fu Charles Surface nella commedia The School for Scandal (1777) di Sheridan, nel quale fece anche la sua ultima apparizione sulle scene nel 1788. Recitò ancora solo una volta nel 1798 in una beneficiata per l’amico Tom King, quando ormai era anziano e quasi dimenticato dal pubblico.

Stevenson, Isabella (1799-1831). Diventata più tardi Mrs. Weippert avendo sposato nel 1821 John Thomas Lewis Weippert (1798-1843). Recitò al Drury Lane e fu ammirata da Charles Lamb.

Suett, Richard (Dicky) (1758?-1805). Attore comico molto popolare, ma anche cantante e compositore. Dopo aver cantato nei cori di St. Paul e di Westminster Abbey e aver lavorato in provincia, apparve al Drury Lane per la prima volta nel 1780 e vi rimase fino alla fine della sua carriera, oltre a essere impegnato d’estate al Haymarket. Era famoso per le sue parrucche che erano elementi importanti della sua comicità. I suoi ruoli migliori furono i fools in Shakespeare e Lamb nel saggio Su alcuni vecchi attori dice che «Shakespeare lo aveva previsto quando aveva creato i suoi matti e i buffoni».

Terry, Daniel (1789-1829). Dopo un periodo passato con la compagnia di Stephen Kemble nel nord dell’Inghilterra, debuttò a Edimburgo nel 1809 sotto la guida di Henry Siddons, e a Londra nel 1812 a Haymarket. Era amico di Walter Scott, che imitava nella calligrafia e nel modo di parlare e del quale adattò molti romanzi per il palcoscenico. Dal 1813 al 1822 fu un membro della compagnia del Covent Garden ma recitò talvolta anche al Drury Lane. Nel 1825 prese il teatro Adelphi, però l’impresa non ebbe successo e si ritirò quasi subito.

Vestris, Lucia Elizabeth (nata Bartolozzi e conosciuta anche con il nome del secondo marito Mathews, 1797-1856). Attrice e cantante. Il padre era uno stampatore e incisore, la madre una pianista cui Haydn aveva dedicato cinque pezzi. Lucia sposò nel 1813 Armand Vestris, ballerino di origini italiane. Con il nome di Madame Vestris, Lucia debuttò nel 1815 a Londra e l’anno successivo seguì il marito a Parigi, esibendosi al Théâtre des Italiens. Rientrò in Inghilterra nel 1819 e fu assunta al Drury Lane dove fece scalpore la sua interpretazione del protagonista della parodia musicale Giovanni in London, in cui appariva in abiti maschili mostrando le gambe. Da allora il suo successo fu garantito. Nel 1830 rilevò il teatro Olympic dove riuscì a convogliare un pubblico elegante e alla moda, ma dopo qualche anno non poté evitare il fallimento. Nel 1838 sposò Charles James Mathews, figlio dell’attore Charles, con il quale lavorò in altri teatri, sperimentando un modo innovativo e “realistico” di recitare. Oltre alle difficoltà finanziarie la malattia la costrinse a ritirarsi nel 1854.

Waddy, John (1751-1814). Attore e cantante irlandese. Già nel 1774 recitava a Dublino in una compagnia estiva e fece la sua prima apparizione in Inghilterra a Doncaster nella stagione 1777-1778 recitando Mosca in Volpone di Ben Jonson e altri ruoli. Assunto poi dal Covent Garden nel 1796 vi rimase per diverse stagioni ampliando il suo repertorio, fino al 1810. Era specializzato nei personaggi irlandesi ma spesso si era voluto cimentare in parti regali o di figure importanti, senza averne la raffinatezza.

136 AAR Anno IX, numero 17 – Maggio 2019

Ward, Sarah (nata Hoare, 1756?-1838?). Sposò nel 1771 Thomas Achurch Ward, un attore della compagnia di Birmingham. Recitò con il marito e lo seguì a Londra dove fu ingaggiata al Covent Garden a partire dal 1776. Poche le notizie successive fino al 1782, quando cominciò a recitare al Drury Lane: in questo teatro nella stagione 1788-1789 interpretò Lady Loverule in The Devil to Pay, ruolo nel quale Lamb in seguito la definì “incomparabile”. Nel 1793 lasciò Londra e per anni ancora, fino al 1812, recitò a Manchester e in altre città inglesi.

Whitfield, John (1752-1814). Fu attore, cantante, impresario e drammaturgo. Il padre era sarto e guardarobiere e anche la madre faceva la costumista al Covent Garden. Gli inizi della sua carriera non sono noti, ma sicuramente recitò in provincia, a Norwich e in altre città. Debuttò al Covent Garden nella stagione 1774-1775 come Trueman in George Barnwell. Fu impiegato successivamente anche al Drury Lane, sia insieme alla moglie che da solo. Interpretò molti ruoli minori shakespeariani e molti critici lamentarono il fatto che le sue capacità non fossero mai messe alla prova come meritavano.

Wilkinson, John Penbury. Questo il nome secondo una nota nell’edizione Delphi Classics dei Complete Works of Charles and Mary Lamb. Non è stato però possibile rintracciare alcuna notizia di questo attore.

Wilson, Richard (1744-1796). Attore, cantante, drammaturgo e impresario. Pare che abbia esordito come corista nella cattedrale di Durham, dove il padre era ministro del culto. Rimasto orfano fu mandato a Londra come apprendista da uno zio gioielliere, ma preferì diventare attore girovago in Scozia e nel nord dell’Inghilterra. Nel 1775 fece il suo debutto a Londra, al Covent Garden. Fu l’originale Jerome in The Duenna, un’opera comica di Sheridan che ebbe grande successo. Nella sua carriera lavorò anche in Irlanda e in Scozia, oltre che al Covent Garden e a Haymarket. Incarcerato per debiti morì nella prigione del King’s Bench. La sua recitazione di vecchi balordi fu lodata dai critici.

Woffington, Margaret (“Peg” Woffington, 1717?-1760). Poco si conosce delle sue origini. Da giovane divenne una protegée della Signora Violante, un’equilibrista italiana che aveva una compagnia di bambini con la quale rappresentava opere in musica, prima in Irlanda e successivamente anche a Londra. Non vi sono notizie certe fino al 1740 quando debuttò al Covent Garden dove recitò in panni maschili. La sua bellezza le procurò molti ammiratori. Fu in seguito ingaggiata al Drury Lane e recitò con Garrick con il quale ebbe una relazione e con il quale collaborò ancora anni dopo, quando l’attore prese la direzione del teatro. Nel 1748 a Parigi fece la conoscenza di intellettuali come Voltaire; negli ultimi dieci anni di vita recitò in Irlanda e poi al Covent Garden, con grande successo. Nel 1757 fu colpita da ictus in scena e da allora non poté più recitare. La sua voce era considerata dissonante ma altri meriti fecero dimenticare questo difetto. Fu ritratta moltissime volte, in veste privata e come attrice.

Wrench, Benjamin (1778?-1843). Preferì il teatro alla vita militare che un parente gli aveva offerto alla morte del padre. Dopo aver recitato in diverse compagnie in varie città, prese il posto di Elliston quando questi lasciò Bath. Nel 1809 fece il suo debutto a Londra al Drury Lane che lasciò qualche anno dopo, nel 1815; da allora divenne abbastanza famoso come attore comico e si divise tra la provincia e diversi teatri di Londra – il Lyceum, l’Adelphi, il Covent Garden e il Haymarket.

137 Charles Lamb, Theatralia

Wroughton, Richard (1748-1822). Fece il suo debutto al Covent Garden nel 1768 dove continuò per quindici stagioni. Aveva acquistato parte del Sadler’s Wells, che diresse personalmente rendendo il teatro popolare e redditizio. Dal 1800 per qualche anno fu manager al Drury Lane e prima di ritirarsi nel 1814 tentò senza successo di ottenere dal re la licenza per un terzo teatro a Londra. Fece circa 200 ruoli primari, sia tragici che comici, oltre a un’enorme quantità di parti secondarie. Nonostante la critica gli attribuisse molti difetti – una voce rauca, un volto inespressivo – ebbe successo per le sue qualità personali di bonarietà e di affabilità.

138