Beni culturali della Comunita’ Montana di TESTI:

Gianpaolo Angelini, Maria Lorenza Bertoletti, Tiziana Forni, Egidio Gugiatti, Nicoletta Moretti, Mario Giovanni Simonelli, Giovanna Virgilio, Maurizio Zucchi.

FOTOGRAFIE:

Federico Pollini (se non diversamente specifi cato)

IMPAGINAZIONE, GRAFICA E MAPPE:

Mario Vigo

REALIZZAZIONE CD E SOFTWARE:

Tania Alberti, Stefano Mozzi, Daniela Vanotti, Mario Vigo

COORDINAMENTO EDITORIALE:

Servizio cultura: Elena Castellini e Giampaolo Palmieri

STAMPA:

Bonazzi grafi ca srl Sondrio

HANNO COLLABORATO, IN QUALITÀ DI RILEVATORI AL CENSIMENTO DEI BENI CULTURALI:

Petra Colombo, Luca De Paoli, Romina Pedrotti, Francesca Polatti, Erio Poletti, Chiara Porta, Daniela Zaccaro.

RINGRAZIAMENTI:

I Comuni di , , , , Castello dell’Acqua, , , , , , Fae- do Valtellino, , , , , , , , , , , le Parrocchie ivi ubicate e la Diocesi di Como. Si ringraziano inoltre i pro- prietari dei beni culturali ritratti per la collaborazione e la disponibilità dimostrata. Indice

Pag. 5 INTRODUZIONE

pag. 7 PREMESSA

Testi

pag. 15 GLI INSEDIAMENTI RURALI COME ELEMENTI DELLA COSTRUZIONE DEL TERRITORIO Egidio Gugiatti

pag. 33 CASA DEL DIO, CASA DELL’UOMO Mario Giovanni Simonelli

pag. 57 LA DIMORA RURALE E LE SUE TESTIMONIANZE Tiziana Forni

pag. 79 I PALAZZI Gianpaolo Angelini pag. 105 “MIRA QUESTE PIAGE O PECHATORE…” Spunti di lettura sugli affreschi devozionali di ambito popolare. Lorenza Bertoletti Nicoletta Moretti Maurizio Zucchi pag. 127 DIPINTI E SCULTURE NEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA VALTELLINA DI SONDRIO TRA IL XV E IL XVIII SECOLO Giovanna Virgilio

Appendice

pag 145 MAPPE DI INQUADRAMENTO NEL TERRITORIO Mario Vigo

Introduzione

L’azione della Comunità Montana Valtellina di Sondrio si è sviluppata con l’intento di preservare la documentazione del passato e le radici dell’identità culturale del territorio. Salvaguardare il vissuto storico della nostra comuni- tà ci permette di meglio comprendere la realtà e l’intima essenza del vivere quotidiano. Il senso di identità e di appartenenza dei valtellinesi è uno dei fattori primi di convivenza e di viver civile: “dal senso di solidarietà al rispet- to del territorio”. Lo stesso sviluppo economico trae forza e vigore da questa consapevolezza. Il turismo, ad esempio, è nostra vocazione naturale: qui gli ospiti non trovano solo bellezze naturalistiche e paesaggistiche o impianti sportivi per le discipline invernali. La Valtellina sa infatti di doversi rappresen- tare nel suo complesso, di essere capace di “far sistema”, di comunicare la sua essenza di organismo unico: un territorio fi sico e paesaggistico ma anche un ambiente sociale con propri valori e una propria identità. La capacità di “affascinazione” risiede nel saper esprimere la propria identità culturale, nel saper comunicare il proprio modo d’essere, ma questo presuppone ovvia- mente il pieno rispetto del patrimonio culturale e la volontà di preservarlo e valorizzarlo. Il rintracciare le proprie basi culturali e il valorizzare il patrimonio storico e documentale sono quindi gli obiettivi centrali dell’azione di governo della Comunità Montana Valtellina di Sondrio.

Il Presidente

Aldo Faggi

5 Vorremmo che si provasse il fascino di trovare denominatori comuni, il fascino di unire tracce del passato per creare “disegni” leggibili in teoremi. Sono sforzi che spesso restituiscono quadri e scenari monchi poiché gran parte della documentazione culturale è stata cancellata dal tempo o perché tali contesti non si sono mai neppure completati per il sovrapporsi contempo- raneo, o lo scontrarsi, di altre realtà e di altre culture. Questa è una sfi da per l’intelletto. Questa è la gioia di scoprire e leggere il passato e le tracce che ci giungono. Il nostro patrimonio culturale ci riserva spesso delle sorprese note- voli: il profi lo artistico, talvolta modesto, viene molte volte compensato dalla stupefacente ingegnosità dei manufatti, dalla funzionalità delle attrezzature, dall’estetica “inconsapevole” dell’architettura rurale o dei poderosi terrazza- menti. Tracce di un passato che si è appena chiuso ma che velocemente sem- bra cancellarsi alle nostre spalle. La Comunità Montana Valtellina di Sondrio ha attuato una politica articolata di interventi per preservare questo patrimo- nio storico e culturale: si è operato nel campo del restauro, dello studio, della rilevazione e della catalogazione dei beni; si sono inoltre attuate molte azioni e progetti di valorizzazione affi nché quanto recuperato divenisse anche una risorsa. Un’antica fucina ritornata ora ad essere perfettamente funzionante, vari mulini ad acqua restaurati e riportati in piena effi cienza sono ora meta di scolaresche, ma anche dei turisti più attenti e curiosi. Si stanno recuperando e “restaurando” percorsi storici, etnografi ci e dei beni artistici. Itinerari che collegano più beni culturali in una sorta di viaggio non solo nello spazio ma anche nel tempo e nella memoria. Una salvaguardia delle testimonianze che comunque si estende a tutto il patrimonio culturale: dalle incisioni rupestri agli archivi parrocchiali e comunali. Un’azione che ha voluto essere sempre a trecentosessanta gradi e che si è prefi ssa l’obiettivo di ottimizzare la fruizio- ne dei beni e di rendere disponibile al cittadino gli studi e la documentazione attinente a tale patrimonio.

Assessore alla Cultura

Giordano Caprari

6 Premessa

La realizzazione di questa pubblicazione nasce dall’obiettivo di valorizza- re e di far conoscere il patrimonio storico ed artistico locale. Con questa opera si è voluto evidenziare il lungo e paziente lavoro che la Comunità Montana Valtellina di Sondrio ha affrontato nell’inventariazione e catalogazione di al- cune fondamentali tipologie dei beni culturali (architettonici, storico-artistici ed etnografi ci) presenti nel suo territorio. Un progetto durato molti anni ed articolato in più interventi che ha dato risultati importanti e che ora si vuole porre a disposizione dei cittadini e degli studiosi. I beni culturali della Valtellina raramente possono competere per il loro valore artistico con quelli presenti nelle diverse città d’arte italiane. Eppure, visti nel loro contesto, hanno un fascino del tutto particolare: sono capaci di parlarci di una realtà di ieri, ormai anni luce distante da noi, sanno evocare una storia che è composta da mille voci e da mille vite, da quella fi tta trama di quotidianità che è il tessuto stesso della “Storia”: … della “Storia” appresa dai libri e che, nelle ore di studio, ci appariva così lontana. Questi beni sono le tracce del passato che induce a rifl ettere, a indagare, a ricercare i fi li con- duttori. Ogni bravo “investigatore” deve però sapere entrare nella psiche e nella mentalità degli attori del dramma affi nché le antiche cose possano di- schiudere i propri segreti sulle culture che le hanno prodotte; nel contempo solo tramite questi oggetti, questi manufatti, possiamo rivivere e capire un mondo che non ci appartiene più. La tumultuosa trasformazione economica e sociale ha infatti completamente cancellato e trasformato stili di vita che erano ancora vivi fi no a tempi relativamente recenti. Il nostro mondo è caratterizzato dalla velocità, dalla rapida trasforma- zione, dalla comunicazione, dalla connessione globale quanto in passato lo era della lentezza, della resistenza e della conservazione. Anche il senso dello spazio è diverso: il lavoro e la vita stessa si svolge- vano fondamentalmente all’esterno, quasi indifferentemente dalle situazioni meteorologiche ed erano regolati semplicemente dal volgere delle stagioni e dalla lunghezza del giorno. Ne maturava quindi anche un rapporto con la natura molto diverso dal nostro, molto più integrato con essa; la natura come elemento tangibile e vissuto, entità benefi ca e matrigna. Uno stile di vita ed un vivere l’ambiente che si rifl ettevano anche nella religiosità e nei segni ad essa collegati. Nel corso di questo lavoro abbiamo ritrovato traccia e sono riaffi orati aspetti che stavano naufragando in un oblio collettivo. Le immagini devozio- nali, ad esempio, erano molto diffuse nel nostro territorio: erano realizzate sulle abitazioni affi nché le proteggessero; erano lungo i sentieri che condu- cevano ai luoghi del lavoro agricolo, campi, boschi, maggenghi ed alpeggi; punteggiavano i percorsi dei pellegrini. Esse scandivano l’andare segnando i punti di “posa”, sacralizzando i momenti di riposo, ritmando l’incedere ma an-

7 che i pensieri fra il reale ed il divino. L’immagine sacra era realizzata per pro- teggere il territorio ed il viandante. Ponendo un’attenzione maggiore alla loro dislocazione ed ai loro diversi signifi cati possiamo cogliere la trama sottile che disvela nuove letture del territorio. I Santi dei pellegrini (San Giacomo, San Rocco, ...) o dei guadi (San Cristoforo) possono, ad esempio, permetterci di rintracciare gli antichi percorsi della fede; l’approssimarsi e il cadenzarsi degli xenodochi e degli ostelli dei pellegrini è segnalato da santi quali Santa Agne- se, San Colombano, San Martino, San Remigio, San Pietro e Santa Marta. I dipinti murari erano i mezzi mediatici principali di un passato dove l’analfabetismo era ; erano nella quasi totalità immagini sacre che rispondevano, a volte, anche a logiche sottili che rifl ettevano le tensioni e le trasformazioni di una chiesa militante che si contrapponeva ad una vicina area protestante. Colpisce come elementi simbolici, elementi evocatori di fatti e di concetti, siano ormai completamente oscuri ai più. Un linguaggio che è risultato comune alle molte generazioni che ci hanno preceduto e che ormai ci è precluso.

8 La pubblicazione

Questo libro nasce con l’intenzione di valorizzare i beni culturali pre- senti nel nostro territorio e di presentare il lungo lavoro di censimento e di catalogazione che ha impegnato per anni la Comunità Montana Valtellina di Sondrio. Abbiamo coinvolto in questa opera editoriale alcuni studiosi indivi- duati sulla base di una consolidata esperienza conoscitiva, da essi maturata a vario titolo, affi nché potessero suggerire, ciascuno secondo il proprio ap- proccio metodologico, elementi di rifl essione, tracce e stimoli per avvicinarsi a questo variegato patrimonio di testimonianze storiche ed artistiche. I con- tributi presenti nel libro hanno quindi il fi ne di proporre angolature nuove di lettura attraverso un linguaggio semplice e divulgativo. I testi proposti non sono quindi saggi esaustivi delle diverse tematiche ma una sorta di “taccuini di viaggio” di cultori curiosi che annotano le loro osservazioni e propongono un loro itinerario della mente, prima ancora che dei luoghi. Annotazioni e bibliografi a vengono proposti come utili strumenti di approfondimento e, per agevolare la consultazione, sono stati forniti al termine di ogni contributo, secondo il criterio ritenuto più opportuno da ciascun autore. Questa opera editoriale è corredata da un Compact Disk che riporta un esempio sintetico dell’opera di schedatura effettuata. In esso, per ragioni di sicurezza e di tutela del patrimonio, sono state omesse le ubicazioni dei beni culturali asportabili quali dipinti e sculture.

Il progetto

Il primo censimento dei Beni Culturali è stato realizzato dalla Comuni- tà Montana Valtellina di Sondrio negli anni 1984 e 1985. In quell’intervento vennero rilevati circa 400 beni culturali presenti nei ventuno Comuni del ter- ritorio e in quello di Sondrio. L’intervento fu un interessante banco di prova e punto di partenza per indagini più approfondite. L’alluvione del luglio del 1987 evidenziò l’interesse e l’importanza del censimento appena realizzato: tale studio infatti permise di procedere ad una ricognizione dei danni subiti dai beni artistici e culturali minori e di stilare le priorità di intervento nei restauri e nelle opere di salvaguardia. In questo modo si è dimostrato che la conoscenza e la consapevolezza del valore di un bene è la miglior difesa e il più importante intervento per la sua conservazione. L’attuazione della “Legge Valtellina” ha permesso alle parrocchie di in- tervenire nella sistemazione di molte chiese e la Comunità Montana ha potuto concentrare la propria attenzione su beni etnografi ci di particolare interesse come testimonianza del lavoro dell’uomo quali, le fucine ed i mulini. Sono

9 stati effettuati importanti intervenuti di restauro di affreschi e di chiese e si è cercato di abbinare azioni di promozione che ne evidenziassero anche la va- lenza di risorsa turistica, di ricchezza del territorio e di elemento di identità (e a volte anche di aggregazione) che gli stessi assumono per la comunità.

Impostazione metodologica

In base ai risultati della precedente catalogazione ed alle problematiche emerse si studiò la metodologia per realizzare un censimento il più possibile esaustivo. Si analizzarono i tipi di schede utilizzate per la catalogazione in altri Enti ed in particolare si prese contatto, al riguardo, con la Soprintendenza. Quest’ultima però era in procinto di cambiare anch’essa i propri modelli per permettere una agevole archiviazione dei dati anche in modo informatico. L’ideazione di una nostra scheda nasceva con diversi obiettivi, tra i quali: -l’informatizzazione degli elementi raccolti in modo da permettere una “navigazione” ed una ricerca per emergenze signifi cative, -una strutturazione molto precisa e dettagliata che potesse ridurre al minimo il fattore di variabilità legata alla sensibilità ed alle preparazione del rilevatore; elemento, questo, considerato di particolare importanza in un progetto che si sarebbe articolato in più anni ed in più rilevazioni e, quindi, presumibilmente, con ditte e rilevatori diversi. Per il conseguimento di quest’ultimo obiettivo si sono predisposti modelli di scheda diversi per le varie tipologie (chiese, campanili, palazzi nobiliari, ar- chitettura rurale, nuclei di antica formazione, dipinti e sculture) creando una struttura analitica di ampio ventaglio per l’acquisizione dei dati. Si è cercato cioè di prevedere l’ampia casistica che il rilevatore poteva incontrare ma, nel contempo, si è lasciata anche la possibilità, in ogni segmento della scheda, di aggiungere note come in un sistema aperto. Anche nella redazione della descrizione di sintesi del bene catalogato è stata prevista una griglia fi ssa che il rilevatore doveva seguire. Il lavoro dei rilevatori incaricati è stato organizzato in più fasi. Nella pri- ma si provvedeva alla raccolta delle informazioni sui i beni culturali presenti avvalendosi della letteratura in materia e quindi intervistando i “conoscitori” del territorio presenti in ogni Comune. I catalogatori poi dovevano effettuare le ricognizioni per individuare i beni che reputavano importante segnalare, dando la precedenza a quelli maggiormente sottoposti a rischio di degrado naturale e antropico (motivo per cui, fra gli affreschi, è stata data la priorità a quelli ubicati sulle pareti esterne degli edifi ci e delle edicole, maggiormente esposti al degrado atmosferico piuttosto che ai grandi cicli, seppure di mag-

10 giore rilevanza artistica, sulle pareti interne di chiese e palazzi). Ne scaturiva così un elenco-censimento di beni diviso per tipologia che costituiva, di fatto, anche la proposta di catalogazione da sottoporre agli Uffi ci dell’Ente. La Co- munità Montana, a sua volta, per assicurare la completezza d’indagine e nel contempo per coinvolgere le amministrazioni locali, le parrocchie e le associa- zioni operanti sul territorio, sollecitava integrazioni o contributi culturali sulla base degli elenchi predisposti. I rilevatori, oltre agli elenchi iniziali di censimento ed alle schede di cata- logazione (corredate di materiale iconografi co quali corografi e, foto e piante), dovevano predisporre una mappatura dei beni e digitalizzare i dati raccolti.

11 Le rilevazioni effettuate

Le rilevazioni effettuate si sono articolate in interventi che hanno riguar- dato gruppi omogenei di Comuni. Il censimento e la seguente catalogazione, che ha portato alla produzio- ne di circa 1.900 schede, è stata completata in circa 12 anni. Questo deter- mina, sin d’ora, la necessità di compiere ulteriori verifi che e aggiornamenti sull’intero data-base, sottraendo momentaneamente a tutti gli interessati la possibilità di consultazione delle schede.

L’informatizzazione dei dati

L’informatizzazione dei dati raccolti divenne subito un obiettivo primario. Si reputò infatti necessario avere un archivio di dati facilmente consultabile e da porre a disposizione di ogni persona interessata. Sul fi nire degli anni 80 la tecnologia informatica era poco evoluta e, per quanto avessimo studiato le problematiche e seguito con attenzione le varie esperienze, non si poté intraprendere subito tale strada. Solo nel 1994, si riuscì a realizzare una in- formatizzazione dei dati utilizzando uno dei primi data base “relazionali” che comparivano sul mercato. Il risultato fu di notevole impatto anche perché uti- lizzava un’interfaccia grafi ca gradevole e moderna. Questo tipo di informatiz- zazione permise di rendere facilmente accessibile la grande mole di dati fi no ad ora raccolti. Questo sbocco del progetto, in passato teorizzato, ma solo ora reso concreto, permetteva di aprire nuove prospettive e soprattutto creava un archivio che non era confi nato agli armadi e ad una consultazione accessi- bile solo agli studiosi ed agli specialisti. Si provvide successivamente ad orga- nizzare meglio i dati e a dare un’impostazione maggiormente professionale al prodotto realizzando un Compact Disk che disponeva di tutti i dati censiti fi no al 1997. Con il completarsi del censimento e della catalogazione dei beni su tutti i Comuni del territorio della Comunità Montana si è sentita la necessità di creare un nuovo prodotto informatico che recepisse il contributo dei nuovi rilievi e nel contempo fosse aggiornato con l’evoluzione tecnologica. Il completamento del censimento e la realizzazione di questa pubblica- zione non sono certo considerati dei punti d’arrivo ma solo uno dei traguardi raggiunti dalla Comunità Montana nell’ambito dei programmi di salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali. E’ già in programma, per le necessità di revisione e di aggiornamento dell’intero data-base, una ricognizione di tutte le schede censite, affi dando a singoli esperti dei vari settori il compito di provvedere alla verifi ca e alla loro armonizzazione. Questo impegno ha già trovato un primo banco di verifi ca proprio nella stesura del presente volume. A ciò si aggiunge l’esigenza di operare un raccordo con gli altri Enti che svolgono attività di catalogazione

12 sul territorio e, in primo luogo, con la Soprintendenza, la Regione Lombardia e la Provincia di Sondrio. Inoltre, reputiamo importante, anzi centrale, porre i dati informatizzati sulla rete. E’ un modo per valorizzare i beni culturali e rendere questo archi- vio un utile strumento a servizio di tutti i cittadini. La nostra speranza è che questa banca dati divenga un punto di condensazione del sapere, degli ap- profondimenti, degli studi e dei progetti che verranno realizzati per passione o per lavoro.

Il Servizio Cultura

Elena Castellini Giampaolo Palmieri

Un grazie particolare alla Società Compagnia Generale Ripreseaeree per la collaborazione dimostrata.

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GLI INSEDIAMENTI RURALI COME ELEMENTI DELLA CO- STRUZIONE DEL TERRITORIO

Egidio Gugiatti

Il paesaggio della provincia di Sondrio, nella sua confi gurazione attuale, è il risultato di un millenario processo di trasformazione e domesticazione del diffi cile e spesso estremo ambiente naturale alpino, processo non sempre lineare e continuo, talvolta scosso da forti accelerazioni e brusche inversioni di tendenza. Gli archivi dei comuni della bassa Valtellina ci restituiscono, per il IX secolo, l’immagine di un uso non specializzato del territorio, sul quale, al- l’interno dei complessi patrimoniali, si alternano vite, campi, prati da sfalcio, maggenghi e pascoli d’alpe, boschi, selve, castagneti, diritti sui beni comuni. Una policoltura quindi, orientata a soddisfare i bisogni con le risorse locali. Questa organizzazione sembra comunque lasciare allo stato naturale molte zone, specialmente nella media e alta valle. Nel 1055 ad esempio i monaci dell’ospizio di S. Remigio (Villa di ) possono mettere a coltura molte terre “novali”, non solo nel fondovalle, ma anche sulle pendici rivolte a sud del versante retico. Siamo in presenza di un “paesaggio disgregato” (E.Sereni, 1955) nel quale l’insediamento è concentrato in piccoli nuclei di scarsa consi- Comune di Torre Santa Maria, con- stenza, intercalati spesso ai coltivi, con rari edifi ci isolati. Nella seconda metà trada Melirolo: del 1800 i catasti comunali e le numerose indagini statistiche ci restituiscono, L’edifi cazione ser- rata segna il pro- a più di 800 anni di distanza, una situazione ancora in evoluzione nella quale, prio limite e dialoga ad esempio, il fondovalle si presenta in parte paludoso ed inospitale. Questo con l’intorno (Foto n°1) lungo processo avrà, almeno fi no alle grandi trasformazioni sociali degli anni

15 A sinistra, Comune di Castione Andevenno, località Cà Barboni inferiore: Nucleo rurale ancora in parte stabilmente abitato; sono leggibili i segni degli interventi di manutenzione più recenti. (Foto n°2)

‘50/60, proprio nel nucleo rurale, inteso come avamposto della colonizzazione ed elemento anche simbolico della presa di possesso dell’ambiente, il caratte- re di maggior forza e persistenza. (foto n°1) Ci troviamo, quindi, dinnanzi a forme insediative solo in alcuni casi da- tabili con precisione, quasi del tutto prive di caratteri compositivi mutuati dall’architettura colta, prodotte in buona misura dagli stessi utenti e sicura- mente soggette ad un continuo lavorio di manutenzione, aggiustamenti, am- pliamenti (foto n°2). Di fronte a queste caratteristiche appare molto diffi cile ogni tipo di approccio che non si ponga come obiettivo principale quello di orientare il lettore, aiutandolo nel tessere all’interno dell’eterogeneo insieme dei nuclei rurali della Comunità Montana Valtellina di Sondrio un sottile fi lo rosso di comprensione. Senza rischiare di cadere in un’eccessiva semplifi cazione, si può ipo- tizzare che le prime e più signifi cative spinte alla costruzione del paesaggio valtellinese siano da collegare all’introduzione dell’allevamento bovino e alla pratica dell’alpeggio. Le caratteristiche della mandria, che non ha le stesse capacità di mobilità e autonomia del gregge, unita sia a condizioni ambientali: la particolare orografi a e le condizioni del fondovalle scarsamente utilizzabile, sia a condizionamenti culturali, favoriscono il prevalere di una tipologia inse- A destra, Comune di diativa organizzata su terrazze altimetriche e climatiche, dove i nuclei rurali Berbenno di consentono alla comunità di distribuirsi e muoversi su tutto il versante, e non Valtellina, località Maroggia: Esempio raramente anche nelle valli limitrofe. Il sistema di antropizzazione si struttura, di insediamento quindi, tra nuclei principali, maggenghi (con molta probabilità antichi pascoli sulla fascia dei terrazzamenti vitati di mezzo) e stazioni d’alpeggio in quota. Il modello prevalente è quindi quello del versante retico. che preferisce la mobilità del bestiame, alla base dell’insediamento decentra- (Foto n°3)

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Comune di Castello to, piuttosto che il trasporto di foraggio e letame, all’origine dell’insediamento dell’Acqua, località centralizzato. (D. GIOVANOLI, IN D. BENETTI, S. LANGÈ, 1996) Tizzone basso: In quest’area del L’assetto delle comunità rurali, fondate quasi unicamente su agricoltura versanto orobico di sussistenza e allevamento bovino, organizzate in una rete coordinata di si trova spesso nella casa unitaria insediamenti stabili, subisce un signifi cativo aumento di complessità con lo un particolare sviluppo della viticoltura. impiego del legno Senza addentrarci nella irrisolta questione dell’origine della coltivazione per le strutture orizzontali. nelle valli dell’Adda e della Mera, si può affermare con certezza che la presen- (Foto n°4) za del vigneto nella media Valtellina è consolidata già nel XII secolo. Nel 1531 la superfi cie vitata è di circa 3000 ettari, pari al doppio di quella attuale, il set-

tore vitivinicolo costituisce circa 1/3 dell’intera economia provinciale. (D. ZOIA, 2004) Questo fenomeno ha notevoli ripercussioni anche a livello insediativo, in particolare nell’area di indagine, dove il vigneto arriva ad espandersi su tutti i terreni ritenuti minimamente idonei. Possibilità di conservazione, relativa facilità di trasporto e richiesta del mercato sono le chiavi del successo del prodotto. Il coltivatore dispone di una risorsa preziosa che, pur con le forti limitazioni esercitate dal regime della proprietà e dai controlli sui processi di trasformazione, permette un sensibile miglioramento delle condizioni di vita. L’alta intensità di lavorazione richiesta dalla vite, spesso abbinata ad altre colture, e la necessità di ridurre il consumo di aree vocate, favoriscono la dispersione degli insediamenti sul territorio e il loro connotarsi con forma compatta. Al loro interno si trovano spesso attrezzature di uso collettivo per la trasformazione dell’uva e le cantine situate ai piani interrati delle abitazioni (foto n°3). Altre colture hanno inoltre contribuito al consolidarsi del paesaggio valtellinese. Patate e grano saraceno, resistenti ai climi freddi, hanno reso possibile l’abitare stabilmente a quote elevate. La produzione di castagne, specialmente sul versante orobico, è tanto importante da determinare l’or- ganizzazione spaziale della dimora rurale (Arigna). Altrove, come a Cevo in Valmasino, si arriva addirittura alla costruzione di appositi fabbricati: i “gràt” o “gré.

L’elemento alla base del nucleo rurale è la casa unitaria (F.DEMATTEIS, 1987), che racchiude sotto lo stesso tetto residenza e rustico: stalla, fi enile, essiccatoi, cantina ecc.. (foto n°4) Questa cellula insediativa può distribuirsi Pagine seguenti, sul territorio con differenti modalità: da costruzione isolata e autonoma come Comune di nel maso alpino, a insieme compatto, nel quale la singola dimora può apparire Montagna in Valtellina, contrada addirittura priva di carattere compiuto. Insediamenti sparsi, del primo tipo, si S.Maria: Il possono trovare per esempio in Valchiavenna, a , in , mentre, percorso interno al nucleo organizza all’interno della Comunità Montana di Sondrio, prevale la seconda tipologia. e distribuisce gli Questa è defi nita di tipo aperto, nel quale cioè la costruzione unitaria coin- accessi ai singoli volge lo spazio collettivo circostante con porticati, balconi, logge, scale, pas- edifi ci. (Foto n°5) saggi coperti ecc.. L’integrazione tra privato e collettivo, interno ed esterno

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contribuisce in maniera determinante allo sviluppo del senso di appartenenza Comune di Faedo alla comunità (foto n°5). Valtellino, località Gaggi: Pietra e Per quanto riguarda l’uso dei materiali, Valtellina e Valchiavenna si col- legno applicate ad locano sulla fascia di separazione tra “l’area del legno”, di infl uenza germani- un preciso impianto urbanistico, ca, e “l’area della pietra”, di infl uenza neo-latina.(N.T UBI, M.P. SILVA, 2003) un’esempio di Nella zona d’indagine appare netta la prevalenza della pietra, con modernità. l’impiego del legno limitato alle strutture orizzontali e di copertura (foto n°6). (Foto n°6) Non mancano, specialmente nelle valli laterali e alle quote più elevate, signi- fi cativi esempi di uso combinato di entrambe le tecnologie. La disponibilità in loco e la perfetta conoscenza delle proprietà specifi che del materiale impiegato sono sicuramente alla base delle scelte costruttive.

22 La pietra, se escludiamo le aree interessate da una storica attività estrattiva, solo raramente è utilizzata in grandi blocchi posati a secco, mentre è più diffu- so l’impiego in pezzature medio-piccole. Queste, ricavate spesso anche dalla bonifi ca dei campi, sono facilmente maneggiabili anche da singoli costruttori, Pagine seguenti, e vengono legate, dove questa è disponibile, con malta di calce. Tessiture Comune di Caiolo, località Cà Rosse: murarie con elementi lapidei di grandi dimensioni si trovano invece nelle Logica insediativa e opere di costruzione del paesaggio agrario e nella fi tta rete dei collegamenti, razionalità costrut- tiva fi nalizzate evidentemente risultato di varie forme di lavoro a partecipazione collettiva. all’utilizzazione Al di là delle generali categorie interpretative alle quali si è accenna- delle risorse del to, appare evidente l’impossibilità di ridurre l’eterogeneo insieme dei nuclei fondovalle. (Foto n°7) rurali a semplici schematizzazioni, che lascino in qualche modo intravedere

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un’ipotetica e unitaria “tipologia alpina locale”. E’ senz’altro più utile cercare di riannodare le trame del discorso attraverso brevi esempi. Gli insediamenti maggiori si attestano sulle prime terrazze dei versanti e sui conoidi principali. Il carattere compatto dei centri di più antica formazione si frastaglia in un’articolata rete di “paesi-contrada”, (E.BERTOLINA, G.BETTINI,

I. FASSIN, 1979) che spesso meglio conservano la connotazione architettonica originale. Qui la casa unitaria, nella sua forma più compiuta e curata, origina Pagine seguenti: addensamenti urbanisticamente funzionali e coerenti con le attività agricole prevalenti. A questi, normalmente disposti lungo le curve di livello, si colle- Comune di Torre Santa gano talvolta piccoli nuclei di fabbricati esclusivamente rustici (stalle-fi enili), Maria, contrada collocati anche sul fondovalle (foto n°7). Ad una quota più elevata il maggen- Cagnoletti: La veduta aerea go tende a riprodurre, in scala minore, le caratteristiche del centro principale, sottolinea anche se la dimora appare spesso più modesta e, a volte, isolata (foto n°8). l’impianto Spesso la rottura dello schema che dispone residenza e rustico sotto lo insediativo e la relazione tra stesso tetto origina tipologie ulteriormente diversifi cate. In Valmalenco si tro- residenze e chiesa. vano insediamenti nei quali l’abitazione (“cà”) è separata dalla stalla-fi enile (Foto n°9) (“masün”). A Savogno, in val Bregaglia, il nucleo composto da stalle-fi enili è Di seguito, collocato a monte, distanziato dalle case. Comune di Postalesio, Alpe Nella stessa area geografi ca si possono trovare soluzioni molto diffe- Colina: Nel tessuto renziate. Sempre in Valmalenco, contrade addensate intorno ad un nucleo di storico dell’alpeggio si colgono gli indizi riferimento, (foto n°9) piazzetta, chiesa o fontana (Zarri, Marveggia), si con- del riuso moderno. frontano con l’originale disposizione “a cascata” di Scilironi (Spriana), che si (Foto n°10) sviluppa lungo la linea di massima pendenza.

26 Anche la colonizzazione dei pascoli d’alpe è contrassegnata da numerose Comune di variabili, non solo ambientali. Per quanto riguarda l’uso dei materiali, pietra Montagna in e legno, si combinano in molte forme, forse più che altrove dettate dalla di- Valtellina, località S.Giovanni: sponibilità dei materiali. Si passa dall’impiego esclusivo della pietra, emble- Maggengo del matiche in val di Togno le strutture con copertura lapidea a pseudo-cupola, versante retico, i campi che a soluzioni miste. Non sembrano comunque esserci costruzioni interamente circondavano in legno, peraltro presenti in altre zone ( per es. Livigno, Valfurva). L’uso l’edifi cato si sono individuale piuttosto che collettivo del pascolo condiziona le modalità inse- trasformati in prati e boschi. diative dei fabbricati. Nel primo caso questi possono presentarsi numerosi e (Foto n°8) relativamente sparsi, come in Alpe Colina (Postalesio), dove troviamo circa 30 ricoveri pressoché uguali (Foto n°10). Nel secondo invece pochi edifi ci di maggior dimensione attrezzano le principali stazioni di monticazione, i pa- scoli più ridotti e lontani sono forniti di minuscoli rifugi per il pastore. Una grande varietà di soluzioni contraddistingue la presa di possesso dell’ambiente naturale da parte delle comunità rurali. Queste si sedimentano per stratifi cazioni successive, nelle quali è comunque possibile riconoscere degli aspetti di continuità, che costituiscono il carattere più autentico del nu- cleo rurale. La localizzazione dell’insediamento non è mai casuale, ma sempre tesa alla salvaguardia dell’elemento territoriale e all’ottimizzazione dei fattori climatici, ambientali, orografi ci. L’edifi cato non si limita a fornire risposte ra- zionali alle esigenze abitative, ma riesce a radunare ed enfatizzare lo spirito del luogo. Il risultato sono un’urbanistica e un’architettura “senza tempo”,

(E. BERTOLINA, G. BETTINI, I.FASSIN, 1979) ma di straordinaria modernità. Questi sono gli aspetti che, più di altri, dovranno guidare tutte le rifl essioni sul futuro di questo patrimonio.

BIBLIOGRAFIA

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E. BERTOLINA, G. BETTINI, I. FASSIN, Case rurali e territorio in Valtellina e Valchiavenna, Sondrio 1979.

L. DEMATTEIS, Case contadine in Valtellina e Valchiavenna, Ivrea 1987.

E. SERENI, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955.

F. SÜSS, Architettura contadina in Valtellina, Milano 1981.

N. TUBI, M.P. SILVA, Gli edifi ci in pietra, Napoli 2003.

D. ZOIA, Vite e vino in Valtellina e Valchiavenna, la risorsa di una valle alpina, Sondrio 2004.

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CASA DEL DIO, CASA DELL’UOMO

Mario Giovanni Simonelli

La Valtellina è costellata di numerosi sacri edifi ci: edicole immerse nel- l’esuberanza della natura, chiesette abbarbicate sulle alture, templi avvinti alle abitazioni e taumaturgici santuari. A sinistra, L’iniziativa di edifi care un luogo di culto si fa risalire, nella letteratura Chiesa di San Salvatore (Val sapienziale arcaica, direttamente a un nume tutelare. La fondazione è solen- Livrio, Albosaggia) nizzata con riti suggestivi che hanno l’intento di delimitare lo spazio profano – Tempio protocristiano e di sottrarlo all’uso mondano. Sono numerosi i sacri recinti preistorici giunti che, secondo F. S. fi no a noi1. Il cristianesimo primitivo assimila l’antica consuetudine della con- Quadrio, esisteva già nel 537 e fu sacrazione di un terreno: la chiesa, il cimitero, l’ossario e la casa parrocchiale, costruito su un infatti, sono solitamente racchiusi in un’area appartata, quasi una città santa luogo di culto romano, sacro agli all’interno di quella secolare. L’uomo, invero, per incontrare il Dio ha bisogno dei Mani. di un luogo particolare – talvolta anche solo psicologico – nel quale percepire

2 Pagine seguenti, lo sprigionarsi dell’energia vitale che asseconda il mistico congiungimento . Chiesa di S.Pietro Sono esigue, purtroppo, in Valtellina le tracce dei recinti cristiani scampati al in Via (Berbenno 3 di Valtellina) - turbine novatore della rivoluzione francese . Antichissima chiesa Alcune chiese disseminate sul territorio della Comunità Montana Val- battesimale che racchiudeva un tellina di Sondrio appaiono modeste, altre sontuose. In talune si percepisce importantissimo persino la presenza - armoniosamente ricapitolata, ancorché non sempre do- documento storico: un’epigrafe cumentabile - delle reliquie cultuali precristiane. paleocristiana risalente con tutta La chiesa plebana di Berbenno, dedicata a San Pietro in Via4, ha origini probabilità, al secolo VI o VII. antichissime e ha subìto numerosi rifacimenti5. Nel 1614 il Vescovo di Como

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mons. Filippo Archinti annota, durante la visita pastorale, che uno dei pochi altari consacrati è «quello in fondo alla chiesa dove c’è l’iscrizione “Qui giace la beata Erundo eccetera” [...]»6. Tarcisio Salice esamina a fondo la questio- ne: «[...] si poteva leggere incisa su una pietra questa iscrizione Hic jacet B[onae] M[emoriae] famula Christi Irondo etc. Si trattava evidentemente di una epigrafe paleocristiana, attribuibile al VI o al VII secolo e pertanto di som- mo interesse non solo per la storia della pieve, ma anche per quella dell’intera regione valligiana; essa, infatti, è l’unica in Valtellina, della cui esistenza si sia trovata memoria. Purtroppo ora, per i ripetuti rialzi del pavimento della chiesa, l’iscrizione non è più visibile[...]»7. Il toponimo Berbenno discende, con tutta probabilità, dal personale romano Berbeno, già nord-etrusco Berbenno8. La presenza romana, ancor- ché circoscritta, è attestata, tra l’altro, dal ritrovamento, avvenuto nel 1950 presso la località La Selva, di un tesoretto composto da 40 monete in bronzo coniate sotto gli imperatori Diocleziano, Massimiliano, Galerio, Massenzio e Costantino. Le zecche di emissioni rivelano con precisione il contesto cronolo- gico che oscilla tra il 294 e il 3129. Si può, quindi, formulare l’ipotesi - teme- raria e tutta da verifi care - che la chiesa di San Pietro in Via sia innalzata su un’area sacra ad un Dio romano protettore dei viandanti e dei mercanti10. Il mistero della fi ammella «vagolante la notte per i verdi prati ed i vigneti aprichi» nelle adiacenze del tempio indica, inoltre, che la località è impregna- ta di antiche leggende11. La fabulazione, anche quando si fonda su elementi razionali, persegue lo scopo di esorcizzare l’ignoto e di sottrarre alla ferialità il tempo e lo spazio12.

Le vicende sottese alla fondazione del tempio di Sant’Antero, eretto in un boschetto sopra Caiolo, sono oscure13. Nessuna guida della Valtellina ne riporta l’ubicazione e la descrizione. Neppure i prelati comaschi e i visitatori apostolici ne fanno cenno negli atti pastorali. Il prevosto di Caiolo riferisce che negli archivi non si conservano documenti14. L’attuale singolare struttura ri- sale, quasi sicuramente, al secolo XVII e presenta un primitivo orientamento rivolto verso il sole nascente del solstizio d’estate15. Si manifesta insolita la dedicazione del tempietto. Sant’Antero eletto papa il 21 novembre del 235, dopo soli 43 giorni di pontifi cato, il 3 gennaio 236, subisce il martirio per ordine dell’imperatore Massimo il Trace. Scarne le altre notizie pervenuteci: di origine greca, soggiorna per alcuni anni a Polica- stro in Calabria e durante la sua missione apostolica si impegna nella ricerca e nella trasmissione degli atti dei martiri. Indizi della sua sepoltura sono rinve- nuti, nel 1854, presso le catacombe di san Callisto. A Caiolo - ancorché borgo ragguardevole - chi e per quale ragione può essere rimasto affascinato da un santo papa greco, pressoché sconosciuto, vissuto nel III secolo?16. La domanda, in mancanza di testimonianze storiche, per il momento rimane senza risposta. Uno degli altari laterali della chiesetta, tuttavia, è

36 Chiesa di dedicato a san Luigi Gonzaga. Tarda attestazione che nel boschetto si invoca Sant’Antero la protezione del santo della purezza per contrastare possibili manifestazio- (Caiolo) – La settecentesca ni erotiche, favorite dal luogo ameno e isolato. Forse sant’Antero subentra, struttura come fuoco d’amore purifi catore, al Dio romano Antéro17. Lasciamo, ad ogni architettonica edifi cata su modo, che il mistero continui ad avvolgere l’inquietante luco di Caiolo. probabili fondazioni pre-cristiane. L’antichissima chiesa titolata a San Salvatore, pertinente alla parrocchia di Albosaggia, è così descritta da Feliciano Ninguarda: «Sulla montagna a tre miglia dalla parrocchia, vi è la chiesa di San Salvatore in cui si seppelliscono i morti della Valle Mala»18. Quasi due secoli dopo il Quadrio completa: «A tali Iddii [gli dei Mani] erano in ispezieltà i loro Sepolcri dalla Antichità intitola-

Pagine seguenti, ti[...]. Ora che queste Deità fossero nella Rezia Cisalpina ancor venerate, Chiesa di San dubbio alcuno non ve ne lascia la Valle, che tuttavia de’ Mani è appellata; co- Bernardo (Faedo munque corrottamente in oggi da que’ Paesani Val Mane si nomini. Ivi erano Valtellino) – Accanto alla per avventura diversi Sepolcri altresì: poichè indi non lungi antichissima Chie- chiesa il «crap sa, benchè rifatta, tuttavia sussiste, che da’ primi Secoli della Chiesa esser del diàul»: una leggenda popolare ivi dovette fondata, dove Cimitero pur era; nella quale dovette qualche Ara a’ ripropone, con detti Dei Mani eretta esser da’ primi Predicatori della Cristiana Religione tra- ingenua incisività, sformata; santifi cando quel Luogo, che prima serviva alle idolatriche vanità, e la lotta tra la luce e le tenebre. a’ sepolcri de’ lor Maggiori, con convertirlo cattolicamente ad uso de’ Fedeli di

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Cristo»19. L’abate, inoltre, precisa che una testimonianza epigrafi ca fa risalire la fondazione della chiesa all’anno 53720. Con tutta probabilità, quindi, l’ori- ginario edifi cio cristiano di San Salvatore – come conferma anche la vetusta dedicazione - è germinato da un contesto cultuale pagano21. Non mancano suggestive leggende a rafforzare il convincimento22.

L’antica chiesa parrocchiale di Faedo, dedicata a San Bernardo, sembra anch’essa, in qualche modo, poggiare su fondamenta arcaiche. È innalzata, infatti, accanto al «crap del diàul». Singolare una leggenda, tramandata in di- verse versioni. Si racconta che «in quel tempo» mentre san Bernardo risaliva la Val Venina per portare la luce della fede su quelle balze, incappava in un furioso temporale. Il monaco trovava riparo sotto un grosso masso erratico. D’improvviso una risata beffarda lo faceva trasalire: era il demonio che riven- dicava la signoria sul territorio. San Bernardo, per tutta risposta, intrecciava una croce con alcuni rami. Il diavolo, furibondo per la provocazione, scagliava il macigno in un pianoro. Il santo con la croce innalzata e benedicente, senza perdersi d’animo, metteva in fuga il demonio. Il principe delle tenebre, prima di andarsene, sferrava un formidabile pugno sul blocco roccioso e vomitava dalla bocca, rabbiosamente, espressioni scurrili. Il masso si squarciava nella parte sommitale e dava la stura a fetide esalazioni di zolfo e di sterco. Sul «crap del diàul», ancor oggi durante le sagre, mani inconsapevoli si insinuano nella fenditura demoniaca23. Per ricordare l’avvenimento il popolo di Faedo erigeva la chiesa che ancor oggi ammiriamo. Racconti simili che mettono in contrapposizione il diavolo e i santi, le tenebre e la luce, il male e il bene si rintracciano in numerose località alpine24.

Testimonianze pagane che si innestano su quelle cristiane sono, inoltre, nitidamente documentate in tutta la Valtellina. Soffermiamoci a considerare, per lo più, il territorio oggetto dei rilevamenti. A Torre Santa Maria, presso la località Ca’ Bianchi, un’edicola, fronteggia una lastra litica incisa con una trentina di coppelle25. Così pure nel territorio di , in prossimità del Dos de la Forca meri- dionale, una piccola cappella26 è situata a margine dell’antica via Valeriana27. L’arcaico itinere, incavato nella roccia, è ricco di numerose incisioni a coppel- la, a polissoir e a forma di φ (ovvero fi morfoidi)28. Il frammento stelico di Chiuro, rinvenuto il 16 maggio 1986, era parte integrante di una «santela» diroccata29. L’anonimo oratorio del XVII secolo che si staglia sul culmine della rocca di Tresivio, denominata Calvario, è radicato in un sito denso di testimonianze preistoriche e romane 30. Ancora a Tresivio sul dosso Tronchedo - spianato nel 1701 – si rintracciano, quasi in sequenza stratigrafi ca: reperti risalenti all’età del Rame, del Bronzo, del Ferro e della Romanità, una baxilica dedicata a Santa Maria - documentata già nel 109431 - , il primo tempietto innalzato nel

40 1646 in onore della Madonna di Loreto e l’attuale Santa Casa edificata in suc- cessivi periodi32. Il santuario lauretano, quindi, si affaccia sul colle come una imponente matrioska che custodisce nel grembo i semi vitali dei culti pagani, protocristiani e medievali33. Ciò significa, tra l’altro, che il potere evocativo delle antiche liturgie - interdette con l’avvento del Cristianesimo - non si dis- solve facilmente nella memoria collettiva.

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La storia della Valtellina è complessa e intricata: dopo la romanizza- zione, l’influsso bizantino, longobardo e franco (secoli VI – VIII), l’impero

Il Calvario e il carolingio attecchisce nel refrattario terreno sociale della Valle e introduce le Dosso Tronchedo prime istituzioni amministrative. Nel frattempo il cristianesimo si espande an- (Tresivio) – Siti 34 con testimonianze che nel contado e si organizza su principi gerarchici . Siamo oramai al declino antropiche databili del Medioevo35. almeno dall’età del Rame. Il Le chiese censite, con competenza e puntualità, dai ricercatori della Co- santuario lauretano munità Montana Valtellina di Sondrio risalgono, nella configurazione attuale, custodisce in sé tracce di sacri per lo più al Medioevo e al Rinascimento. edifici medievali Il declino del Medioevo è connotato da una condizione economica e so- che poggiano sulla feconda area ciale di grave depressione. Le epidemie ricorrenti falcidiano i più deboli e il archeologica. continuo ricorso alle armi per ottenere giustizia contro i soprusi, aggrava la situazione. Dal punto di vista religioso si riscontra, verso la fi ne del XV secolo, un diffuso decadimento: numerosi preti vivono in condizione di concubinato36 e praticano l’usura. La clericalizzazione dei riti non favorisce il coinvolgimento dei fedeli nelle azioni liturgiche e il popolo, conseguentemente, si discosta dai sacramenti37. Nei secoli XVI e XVII, al contrario, in tutto l’arco alpino è documenta- to un risveglio religioso che è intercettato e organicamente intensifi cato dal Concilio di Trento. Nonostante le pestilenze – sono tristemente note quelle del 1576, del 1630 e del 166538 -, il perdurante ricorso alle armi, il forte contrasto sociale e religioso con l’occupante grigione39 e le nefaste azioni di rifeudaliz- zazione, in molti borghi della Valtellina si pongono le fondamenta di nuove chiese e si restaurano quelle diroccate. Malgrado le diffi coltà, questo periodo è contrassegnato da un vigoroso incremento demografi co e da uno slancio di fede favoriti, verosimilmente, dal desiderio di ricomporre un’identità sociale frantumata e minacciata. Sono gli ordini religiosi – specialmente i cappuccini, i domenicani e i gesuiti –, i facoltosi committenti locali e le confraternite che sostengono gli onerosi progetti. La gente contribuisce materialmente all’edifi - cazione dei luoghi di culto sotto la direzione dei mastri costruttori. Il popolo valtellinese, dalla fi ne del secolo XVI a tutto il XVII, si dedica, anche per spirito di emulazione, ad aprire sacri cantieri: «Risulta quindi ab- bastanza chiaramente che in un’epoca ben individuabile si pensò al sistema di edifi ci religiosi valtellinesi come a uno scenario che accompagnasse in modo continuo chi la percorreva e nello stesso tempo si ponesse come un sistema di riferimento importante, quasi come scena stabile per la vita quotidiana dei residenti, secondo un programma di sacralizzazione globale del territorio»40. Il fervore costruttivo richiede, tuttavia, specifi che direttive. Nel dicembre del 1563 i padri conciliari, convocati a Trento, emanano nella XXV sessione un decreto che prescrive di accentuare gli aspetti didattici nelle sacre espressio- ni artistiche41. Il documento, inoltre, suggerisce e impone la realizzazione di manufatti che siano pedagogicamente effi caci oltre che pregevoli nella forma. Il vero e il bello devono, quindi, coesistere e anzi fondersi nell’opera. I Vescovi, rientrati nelle loro diocesi, attuano le indicazioni tridentine con apposite istruzioni. La più celebre è quella redatta da san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, titolata Instructionum fabricæ et supellectilis ecclesia- Chiesa di San Pietro sticæ. Libri Duo. Le disposizioni contenute nel trattato diventano leggi eccle- martire (parrocchia siastiche, tramite i Vescovi locali, per buona parte dell’Italia settentrionale. di Boffetto, Gli atti visitali del XVII e del XVIII secolo riguardanti la Valtellina fanno tra- Piateda) – Chiesa di origine medievale, sparire, nei questionari e nelle puntuali interrogazioni dei sacerdoti, l’impron- recentemente ta riformatrice del Borromeo. restaurata: il suggestivo Nelle circostanziate relazioni stilate dagli scribi curiali sono molteplici campanile le raccomandazioni e gli ordini impartiti ai parroci per adeguare le chiese, le riedifi cato su una diroccata torre di cappelle e gli oratori alla decorosa celebrazione dei sacri misteri. L’Eucaristia vedetta sul fi ume e il culto eucaristico occupano un posto di tutto rilievo. Meticolose le indica- Adda.

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zioni per l’erezione dell’altare maggiore: «[...] potrà essere posizionato in un luogo della sua cappella tale che, dal gradino più basso dell’altare stesso ai cancelli che la delimitano, vi sia uno spazio di otto cubiti [...]42. La mensa per il sacrifi cio - non più rivolta verso il popolo - è disposta in modo da essere ben visibile dai fedeli e, quindi, sopraelevata per mezzo di predelle. Il tabernacolo – si consiglia fastoso - è innalzato sopra l’altare e diventa il punto focale del tempio. L’arca custodisce, giorno e notte, le specie eucaristiche. Si sottolinea così – in radicale contrasto con la dottrina riformata o protestante - la presen- za reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati43. Una o più lampade pensili ardono perennemente davanti al SS. Sacramento. Le frequenti ispezioni nelle chiese della Valle sono molto rigorose nel rilevare l’inosservanza delle minu- ziose direttive. L’edifi cio, in questo periodo, è realizzato ispirandosi, prevalentemente, a due moduli. Il presbiterio giustapposto: è il luogo, separato dall’aula-sala, dove si celebrano i sacramenti. È il caso dell’ossario di San Martino a Castione Andevenno, della chiesa di San Giovanni Battista a Lanzada e di San Giorgio a Montagna. Il presbiterio integrato, invece, si evidenzia come un prolun- gamento dell’aula, pur in presenza di lesene o di pilastri e di un modesto innalzamento del pavimento. Modello costruttivo, quest’ultimo, palese nel santuario di San Luigi Gonzaga a Sazzo44, voluto dai gesuiti, e nella chiesa di San Carlo a Chiuro45. È il trionfo del barocco46.

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Nel complesso del sacro edifi cio il campanile si eleva affi ancato o inglo- bato nel tempio e diffonde nel villaggio la voce di Dio. La torre campanaria svetta verso l’alto, la guglia punta verso il cielo e canalizza sulla terra la gra- zia divina. Simbolo ascensionale, quindi, e medium della comunicazione tra l’uomo e il Dio47. La sua edifi cazione, tuttavia, non sempre poggia su fondazione pacifi ca. Antiche torri difensive e offensive, opportunamente modifi cate, non di rado sono convertite in campanili. Così è accaduto, ad esempio, nelle chiese di S. Rocco a Ponte in Valtellina e di S. Pietro martire a Boffetto48. Il suono delle campane è anche voce dell’uomo e scandisce i ritmi della vita quotidiana. Squillano i bronzi per risvegliare il villaggio, per convocare Edicola di alla preghiera, per ordinare la pausa dal lavoro, per annunciare un evento fe- Ca’ Bianchi (Torre lice, un pericolo, un lutto, per scongiurare la grandine e, infi ne, per dichiarare di Santa Maria) – Culti cristiani e culti conclusa la giornata. arcaici affi ancati Risale all’antichità l’usanza di benedire le campane, cioè di collocarle nella piazzetta. In primo piano il nell’ambito del sacro e dell’allegoria, accrescendo la loro potenzialità sopran- masso levigato naturale49. Il simbolismo della campana non è, tuttavia, patrimonio esclusivo che porta inciso del cristianesimo. In India il rintocco propaga la ripercussione della vibrazio- una trentina di coppelle. ne primordiale. Nell’Islam richiama la rivelazione coranica, evoca la potenza

45 divina e dissolve la fragilità della condizione umana. In Cina lo scampanare assume una connotazione regale e raffigura l’armonica fusione dei principi universali. Una rappresentazione peculiare è insita nella campanella tibetana, la tilpu: il tintinnare riproduce il mondo dell’apparenza che si dilegua come un’eco sfumata. Nell’interpretazione teosofica, infine, il batacchio della cam- pana adombra gli esseri animati sospesi tra terra e cielo, anelanti al ricon- giungimento con il Tutto50.

Le architetture sacre sparse qua e là per il nostro territorio sono dunque Chiesa di Sant’Agostino casa del Dio: nell’intimità la divinità si rivela con potenza e con tenerezza51. (Cedrasco)– Il luogo di culto, nello stesso tempo, si manifesta come casa dell’uomo. La Edificio rinascimentale creatura, infatti, nel sacro recinto percorre le tappe più significative della sua incastonato nel storia: la nascita, la maturità, le scelte di vita e la morte. Memoriali e riti che centro storico. immergono l’essere nell’Essere. NOTE

1 M. ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Torino 1981, 380-398. Per quanto riguarda la Valtellina, accenni di un cromlech, ovvero circolo di pietre,

ad Albosaggia, in R. SERTOLI SALIS, Presentazione a E. ANATI, Arte preistorica in Valtellina, Sondrio 1967, 9.

2 E. ZOLLA, Il dio dell’ebbrezza, Torino 1988, V–CVIII.

3 S. LANGÉ, G. PACCIAROTTI, Barocco alpino. Arte e architettura religiosa del Seicento: spazio e fi guratività, Milano 1994, 49: si illustra come esempi di recinti sacri quelli di Albosaggia e di Caspano. In un altro saggio l’autore cita anche la «Chiesa di San Giacomo di Roncaglia di , che conserva intatto

tutto il sistema del “sacro recinto”» e quella di Pendolasco: S. LANGÈ, L’imma- gine del territorio, in Sondrio e il suo territorio, Milano 2001, 176. 4 In alcuni antichi documenti la chiesa risulta dedicata ai Santi Pietro e Paolo in Via. 5 F. S. QUADRIO, Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua delle Alpi oggi detta Valtellina, Milano 1755, II, 536- 537. La costruzione risalireb- be a prima dell’anno mille secondo F. NINGUARDA, La Valtellina negli atti della visita pastorale diocesana, Sondrio 1963, 63. 6 F. ARCHINTI, VESCOVO DI COMO (1595-1621), Visita pastorale alla diocesi, in Archivio storico della diocesi di Como, 6 (1995), 531. Vedi anche gli atti del vescovo Sisto Carcano redatti durante la visita compiuta in Valtellina nel 1624. 7 T. SALICE, Il San Pietro di Berbenno Valtellina e il suo costruttore, in Bol- lettino della Società Storica Valtellinese, 30 (1977), 62. Si consulti parimenti San Pietro di Berbenno. Chiesa di San Pietro, in F. BORMETTI, M. SASSELLA (a cura di), Chiese torri castelli palazzi. I 62 monumenti della Legge Valtellina, Sondrio 2000, 38–41. Vedi anche il documentato e fondamentale studio C.

SCAMOZZI, La pieve di Berbenno e le sue chiese, Sondrio 1994, 105-117.

8 G. R. ORSINI, Toponomastica lariana e valtellinese, in Rivista archeologica

della provincia di Como, 115 (1937), 197; R. SERTOLI SALIS, I principali topo-

nomi in Valtellina e Val , Milano 1955, 22; D. OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 19612, 80

9 G. MUFFATTI MUSSELLI, Rinvenimenti archeologici nelle valli dell’Adda e della Mera, Sondrio 1985, 46-49.

10 Auterovole la tesi sostenuta e documentata da G. CORADAZZI, La pieve, Pagine seguenti, Travagliato (BS) 1980, 41: «Non solo è verosimile ma certo, in seguito alle Chiesa di San esplorazioni archeologiche, che molte di queste chiese battesimali, almeno Matteo (Fusine, Valmadre): fra quelle più antiche [...] abbiano sostituito in più di un caso nel vicus più Complesso importante [...] o nei punti nevralgici della viabilità (incroci stradali, ponti, medievale che evidenzia un sacro fora, dove si svolgevano mercati e cerimonie religiose) [...] il tempio pagano recinto arcaico stesso che non mancava mai in questi luoghi, (il cosidetto compitum o fanum) composto da tempio, cimitero e servito da sacerdoti addetti al culto imperiale o a quello della religione locale- pertinenze. agreste [...]».

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11 A. GIUSSANI, Berbenno di Valtellina e la sua basilica, in Rivista archeolo- gica della provincia di Como, 82–83-84 (1922), 173-179.

12 GIUSSANI, 1922, 174-179, riporta le ipotesi formulate sulla comparsa, nella notte, di una misteriosa fi ammella che appare a circa 700 metri di di- stanza dalla casa parrocchiale, attraversa la contrada Dusone, raggiunge la strada che conduce a Polaggia e presso il crocicchio assume la forma di nuvo- letta. Penetra, quindi, nella vigna Dea antistante la Chiesa di San Pietro in Via e talora si estingue sul sacro edifi cio; altre volte percorre a ritroso l’itinerario in forma di striscia luminosa. Mons. Carlo Fabiani nel 1897 elabora un tenta- tivo di spiegazione scientifi ca del fenomeno; il prof. Antonio Schlachter, nel 1902, al contrario afferma: «Per conclusione mi sia lecito esporre un’ipotesi che non venne fi nora considerata. Non si potrebbe spiegare animisticamente questo fenomeno, ove fallissero tutti gli altri modi di spiegazione più semplici? Se il signor Francesco Kaiber nel n. 9 dell’annata 1901 cita l’ipotesi spiritisti- ca, non si dovrebbe dapprima prendere in considerazione l’animismo, che si trova alquanto più da vicino?». Si consulti anche La «misteriosa fi ammella» di Berbenno, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 27 (1974), 48–52. 13 AA.VV. Caiolo tra cronaca e storia, Sondrio 1987, 62. 14 Don Renato Longhi mi ha riferito che fi no a pochi anni fa non era certa neppure la dedicazione del tempio alpestre. La gente riferiva «Sant’Autero» oppure «Sant’Altero». Il sacerdote, avvalendosi di un affresco dipinto all’in- gresso della chiesa, ha chiarito, con certezza, la titolazione della chiesetta al papa martire sant’Antero. 15 La generosa comunità di Caiolo ha provveduto, recentemente, ad im- prorogabili restauri conservativi. Nel passato, per altro, l’oratorio è stato og- getto di inqualifi cabili atti vandalici e, come si evinceva dalle moderne iscri- zioni, da torbidi conciliaboli. 16 La ricerca condotta avvalendomi anche di internet permette di determi- nare che sono esigue, in Italia, le comunità parrocchiali titolate a sant’Antero. La città più ragguardevole che si affi da alla protezione del papa martire è Ca- salbuono in provincia di Salerno. Il tre gennaio, festa patronale, sono portate in processione le reliquie del Santo e si svolge una fi era di animali. 17 ’Aντέρως (Àntéros) nella mitologia greca appare come fi glio di Ares e di Afrodite, nonché fratello di Eros. Simboleggia l’amore terreno, l’amore istintivo corrisposto, in contrapposizione ad Eros, Dio dell’Amore celeste. Il suo culto era molto diffuso in Grecia. Dei numerosi templi a lui dedicati non rimangono che poche tracce. Antérus, nella mitologia romana, è tramandato come fi glio di Marte e di Venere, generato per offrire un compagno di giochi al fratello Eros. Gli artisti lo raffi gurano come un putto o un efebo alato che con- tende al fratello un ramo di palma. Così in E. DEL FELICE, Dizionario dei nomi italiani, Milano 1986, 68: «[...] il nome originario è greco Antēròs latinizzato in Antérus (frequente in Roma come nome di schiavi o di liberti), già nome di un dio pederastico fratello di Eros, formato da antí ‘contrapposto, diverso’,

50 e érōs ‘amore’» Si comprende, quindi, come nel contesto culturale greco An- téro simboleggi, in tutte le sue variazioni, l’amore sensuale corrisposto. Per i romani rappresenta, per lo più, il Dio degli amori “particolari”. Per un appro- fondimento: P. GRIMAL, Enciclopedia dei miti, Brescia 1995, 256-259; D. CINTI,

Dizionario mitologico, Milano 1996, 29; G. SECHI MESTICA, Dizionario universale di mitologia, Milano 2003, 19. J. SCHMIDT, Dizionario della mitologia greca e latina, Roma 2003, 30.

18 NINGUARDA, 1963, 84.

19 QUADRIO, 1755,II, 10.

20 QUADRIO, 1755,II, 532-533. 21 I Mani nella credenza romana rappresentano le anime dei defunti. A queste divinità del mondo sotterraneo, per placarne l’ira, si offrono in sacrifi - cio i prodotti della natura (vino, latte, miele, fi ori...). 22 Numerose le leggende e le arcaiche testimonianze riguardanti la chiesa di San Salvatore. Ne riporto, succintamente, alcune. Durante i furiosi tempo- rali o nelle esondazioni dei torrenti i fedeli tracciava segni di croce sul sagrato e gettava manciate di sale alle spalle invocando l’aiuto della divinità. Come noto nell’ossario erano accatastate e conservate con cura reliquie ossee di grandi dimensioni, oggetto di culto. Nell’imminenza di pericoli o di calamità la donna più anziana del borgo - si intuisce che anticamente questo compito era attribuito allo sciamano (che poteva essere anche una donna)- si “introduceva orante nell’ossario e dopo aver afferrato, con timore riverente, un grosso teschio, si dirigeva al vicino torrente per compiere un rito purifi ca- tore. Si racconta, ancora, che il diavolo abbia tentato più volte di svellere la chiesa di San Salvatore e di scagliarla nel fondovalle. Non riuscì mai nell’im- presa per l’intervento divino. Tuttavia, le impronte demoniache sono ancor oggi impresse sul masso collocato accanto al corso d’acqua lustrale. Per una puntuale documentazione: G. B. GIANOLI, La chiesa di S. Salvatore in Val del

Livrio, “Corriere della Valtellina”, 28.11.1959; G. SCHIEGHI, L’antica chiesa di S.

Salvatore in Albosaggia, “Quaderni Valtellinesi”, 22 (1987), 33-35; C. PAGANO-

NI, San Salvatore. Miti, riti, leggenda e storia, “Notiziario della Banca popolare di Sondrio”, 71 (1996), 110-117; D. SOSIO, C. PAGANONI, Albosaggia. Appunti di storia e di arte, vita contadina, tradizioni e leggende, Sondrio 1987, 83-91.

23 A. DE BERNARDI, Il sasso del diavolo, “Alpes Agia”, febbraio-marzo 1985.

A. S. PARUSCIO (a cura di), Inventario dei toponimi valtellinesi e valchiavenna- schi. Territorio comunale di Faedo, 25, 2002, 57-58. Un partico- lare ringraziamento per la collaborazione al parroco di Faedo-Busteggia don Livio De Petri.

24 M. G. SIMONELLI, L’arce di Boffalora, in Mons Braulius. Studi storici in me- moria di Albino Garzetti, Sondrio 2000, 291-302; M. G. SIMONELLI, Bronzetto romano rinvenuto in Val Fontana e donato, nel 1884, al Gabinetto Archeo- logico di Sondrio, in Magister et Magistri. Studi storico-artistici in memoria

51 di Battista Leoni, Sondrio 2002, 325-330. Per un approfondimento del feno- meno si rimanda AA.VV. Bestie, Santi, Divinità. Maschere animali dell’Europa tradizionale, Torino 2003.

25 U. SANSONI, S. GAVALDO, C. GASTALDI, Simboli sulla roccia. L’arte rupestre della Valtellina centrale. Dalle armi del Bronzo ai segni cristiani, Capo di Pon- te 1999, 133; 166.Complesso e controverso il signifi cato della coppella. Gli studiosi si orientano, prevalentemente, verso un’interpretazione cultuale op- pure geometrico-topografi ca. Bibliografi a essenziale in F. BUFFONI, E. ZUCCATO, L’arte rupestre del lago Maggiore, Novara 1999, 10-22. Fondamentali i saggi datati, ma ancora attuali, di A. MAGNI, Pietre a scodella, in Rivista archeologica della Provincia e antica Diocesi di Como, 51 (1906), 3-42. A. MAGNI, Il masso con le impronte di piedi umani a Soglio, in Rivista archeologica della Provincia di Como. 86–87 (1924), 3–15. 26 L’edicola è stata recentemente restaurata dall’Istituto Archeologico Valtellinese, grazie anche alla disponibilità del prof. Pierluigi Annibaldi e del geom. Claudio Valli. 27 Gli studiosi non hanno ancora risolto il problema dell’arcaicità della stra- da «Valeriana» o «Valleriana»: strada romana, secondo P. RAJNA, in Bollettino della Società Storica Valtellinese anni I fasc. I (1932), 14; itinere medievale per U. CAVALLARI, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 14 (1960), 25- 28. Sulla questione interviene, tendenzialmente in favore della “romanità” A. SALA, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 56 (2003), pp. 17-20. 28 D. PACE, Nuove acquisizioni antiquarie nel territorio di Teglio. Tellina opuscula 1, Milano 1972, 11-12: tavv. XVI-XXV. M. G. SIMONELLI, in Escursione nell’antichità della Valtellina: da Teglio a , Villa di Tirano 1985, 111- 113. SANSONI, GAVALDO, GASTALDI, 1999, 33-41. D. PACE. Petroglifi fi morfoidi di Teglio, in Atti del II convegno archeologico provinciale, Sondrio 1999, 75 – 94. 29 F. MONTEFORTE, E. FACCINELLI (a cura di), Chiuro. Territorio, economia e storia di una comunità umana, Sondrio 1989, 39 -40. 30 Il toponimo deriva, secondo alcuni studiosi, dal ligure calv che indica una rupe sporgente. Termine in seguito cristianizzato in riferimento al monte sacro della cristianità: in G. BELLOCCHIO, Preistoria e protostoria della Valtellina, Associazione Archeologica Lombarda, Milano 1982, 45. Opinioni discordanti in R. SERTOLI SALIS, 1955, 31: derivazione medievale dall’omonimo Calvario evangelico; OLIVIERI, 1961, 129: potrebbe, per assonanza con Calvairate, pro- venire dal nome personale romano Calvarius o Calverius. 31 E. BESTA, Le Valli dell’Adda e della Mera nel corso dei secoli,1, Pisa 1940, 117. G. R. ORSINI, Vescovi, Abbazie, Chiese e i loro possessi valtellinesi in Ar- chivio storico lombardo, Serie Ottava-Vol. IX-1959, 37-38. La chiesetta nel 1106 dipende dal monastero di Sant’Abbondio in Como e appare molto ricca di lasciti. Viene ristrutturata nel medievo e attualmente, dopo un crollo e con- seguenti rimaneggiamenti nel XVIII secolo, fa parte della cripta incastonata nella vasta basilica lauretana.

52 32 AA.VV.,Tresivio. Sondrio 1999, 39-42: nel testo si possono sintetica- mente cogliere i molteplici sviluppi successivi delle costruzioni e anche la mutazione di collocazione degli edifi ci sacri.

33 R. POGGIANI KELLER, Valtellina e mondo alpino nella preistoria, Modena

1989, 32-38. SANSONI, GAVALDO, GASTALDI, 1999, 25

34 G. R. ORSINI, Storia di (con riferimento ai paesi viciniori e alla

Valtellina), Sondrio 1959, 20–64. E. MAZZALI, G. SPINI, Storia della Valtellina e della Valchiavenna, I, Sondrio 1968, D. BENETTI, M. GUIDETTI, Storia di Valtellina e Valchiavenna. Una introduzione, Milano 1990, 27–58. 35 Naturalmente non si intende riproporre l’asserzione, ormai superata da studi rigorosi, del medioevo come periodo storico buio. Interessante, a que- sto proposito, la tesi di laurea di L. PORTA, Aspetti dell’economia e della società valtellinese fra Tre e Quattrocento: Gaudenzio e Stefano Quadrio. Universi- tà degli studi di Milano. Facoltà di Lettere e Filosofi a, relatore prof. G. SOLDI

RONDININI, anno accademico 1982–1983. Il crepuscolo del medioevo, tuttavia, fa accrescere, soprattutto nelle campagne, le miserabili condizioni di vita del popolo. Per una lettura complessiva e sintetica dell’epoca: AA.VV., Valtellina e Valchiavenna nel Medioevo. Contributi di storia su arte, cultura, società, Sondrio 1993.

36 E. CANOBBIO (a cura di), Visita pastorale di Gerardo Landriani alla diocesi di Como (1444-1445), Abbiategrasso (MI) 2001, segnala numerosi casi di concubinato. Ne riportiamo alcuni: Presbiter Iohannes Franciscus benefi tialis ecclesie de la Fuxinis, Iacobus de Mapello benefi tialis ecclesie de Postalexio, Bernardus de Leucho capelanum in Berbeno, frate Nicholao de Mantua co- morante in loco de Cayolo, Presbiter Paxino de Castiono, Andreas de Rabiis rector ecclesie de Malencho, Presbiter Martinus de Palanzo, Frater Melchion minister Sancti Antonii Sondrii, Bartholomeus archipresbiter ecclesie de Trixi- vio, Presbiter Stefanus capelanus in ecclesia de Ponte. Inoltre: presbiteri de Tillio, de Blanzono, de Stazona, de Avriga, archipresbiter de Maze et presbi- ter de Groxio. Sconcertanti le risposte, sotto giuramento, degli ecclesiastici interrogati. A titolo di esempio si riporta la testimonianza di Frate Nicolino da Mantova, dell’ordine religioso dei Celestini, benefi cale a Caiolo: Interrogatus« si honeste vivit, respondet quod non potest se abstinere a coytu et quod ipse secum retinuit et retinet unam mulierem in concubinam nomine Donatam, cum qua carnaliter usus fuit»: CANOBBIO, 2001, 149 e nota 1.

37 CANOBBIO, 2001, 140, 149, 163. 38 La peste, unitamente ad altre malattie, era quasi endemica nel se- colo XVII. Una interessante testimonianza si ritrova nell’inedito Libro di Valle[...]Consiglio di Valle, 1667-1686: «Il Signor Dottore Luigi Venosta con sua lettera mi suggerisce, come l’Illustrissimo Signor Podestà di Tirano há ricevuto lettere da Santa Maria scrittagli dal Signor Stapo e manda la me- desima carta, qual contiene haver l’Illustrissimi Signori Capi della Rezia con- cesso il transito a tre milla Alemanni di passaggio per il Stato di Milano con

53 [obbligo] di prestargli l’alloggi e provizioni. E perchè il passaggio di grossi Alemanni seco porta l’evidente pericolo della peste, prego lor Signori Deputati alla Sanità portarsi a Sondrio dimani di sera per unirsi tutti doppodinanzi e veder[colloquio?] dell’eccelso Principe di porre rimedio a tanto pericolo della Valtellina, che si scopre evidente e per essere affare di rilievo e di fretta l’at- tendo dinanzi sera senza fatto[...].Sondrio 31 ottobre 1681. Il Governatore Paolo Buol». Manoscritto conservato, in copia fotostatica, presso il mio archi- vio e proveniente dalla biblioteca del Generale Romualdo Bonfadini. 39 A questo proposito può essere utile accostarsi ad alcuni saggi - genui- namente schierati, pur se redatti in periodi non omogenei - elaborati dai due schieramenti confessionali contrapposti: i riformati e i cattolici. P. D. ROSIO DE

PORTA, Compendio della storia della Rezia si’ civile, che ecclesiastica, (si tro- va vendibile in Chiavenna) 1787. J. A. VULPIUS, Historia Rætica translatada et scritta in lingua vulgara ladina, Huossa promovüda alla in il text ori- ginal tras CONRADIN DE MOOR, Coira 1866. A. GIUSSANI, La riscossa dei Valtellinesi contro i Grigioni nel 1620, Como 1935.

40 LANGÉ, 2001, 159–160.

41 Decreti del Concilio di Trento, sessione XXV, in H. DENZINGER, A. SCHÖNMET-

ZER, Enchiridion symbolorum defi nitionum et declarationum de rebus fi dei et morum, Barcinone – Friburgi Brisgoviae – Romae 197636 , n. 1824.

42 S. DELLA TORRE, M. MARINELLI (a cura di), C. Borromeo. Istructionum fa- bricæ et supellectilis ecclesiasticæ. Libri Duo, Milano 2000, 31.

43 G. L. GARBELLINI, Fasto barocco e fede. Il tabernacolo ligneo, in Il Sei e Settecento in Valtellina e Valchiavenna. Sondrio 2002, 117–146. 44 La costruzione del santuario inizia nel 1608 e viene interrotta per ordine del governatore di valle, Paolo Walthier, l’8 settembre 1612 contestualmente con l’espulsione dei Gesuiti: Archivio Storico Sondrio, Notarile, vol. 3633, ff. 7v-17r.

45 LANGÉ, PACCIAROTTI, 1994, 93. S. LANGÉ, L’architettura sacra nell’età della riforma in Valtellina e Valchiavenna, in Il Sei e Settecento in Valtellina e Val- chiavenna, Sondrio 2002, 47–92.

46 G. L. GARBELLINI, Barocco in Valtellina: Il Santuario di S. Luigi Gonzaga di Sazzo, estratto da Vicende orobiche, Villa di Tirano 1986.

47 M. BATTISTINI, Simboli e allegorie, Milano 2002, 272.

48 AA.VV., Cadde violento l’albero, Villa di Tirano 1983. O. ZASTROW, Anno- tazioni sulle architetture dell’oratorio di San Rocco, a Ponte in Valtellina, in

Bollettino della Società Storica Valtellinese, 54 (2001), 43–56. M. G. SIMONEL-

LI, Rinvenimenti a San Rocco di Ponte in Valtellina, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 54 (2001), 15–20. Altri esempi sono documentati in Val- tellina e in Valchiavenna, vedi: E. PEDROTTI, Castelli e torri Valtellinesi, Milano

1957; G. C. BASCAPÈ, C. PEREGALLI, Torri e castelli di Valtellina e Val Chiavenna, Sondrio 1966.

54 49 Rituale romano. Benedizionale, Borgo San Dalmazzo 1992, nn. 1455- 1458, 596.

50 J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, Dizionario dei simboli, Milano 1986, 180–182.

51 Per un approfondimento sui culti precristiani: F. FACCINI, P. MAGNANI (a cura di), Miti e riti della preistoria. Un secolo di studi sull’origine del senso del sacro, Milano 2000. AA.VV., Kult der Vorzeit in den Alpen. Opfergaben,

Opferplätze, Opferbrauchtum, 1 e 2, Bozen 2002. A. TERINO, Le origini. Bibbia e mitologia, Milano 2003.

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LA DIMORA RURALE E LE SUE TESTIMONIANZE

Tiziana Forni

Inquadramento storico e territoriale

L’arco alpino si è posto da sempre come cerniera tra culture e realtà diverse. Nel XV secolo la Valtellina rappresentava un’estesa area di confi ne tra potenti entità politico-territoriali: Ducato di Milano, Repubblica di Venezia, Leghe Grigie. Questa predisposizione naturale a fungere da ‘ponte culturale’ favorì, al suo interno, uno scambio di idee: le valli confi nali assorbivano e diffondevano le diverse culture con tracce visibili nelle abitudini della sua gente, nei dialetti, negli usi e costumi. Il contatto tra diverse entità infl uenzò, di conseguenza, anche il modo d’intendere la tipologia della dimora e degli insediamenti rurali tradizionali. Con la dominazione dei Grigioni (1512-1797) ed il potenziamento dei percorsi alpini attraverso il passo di S.Marco, Dordona, , Septimer, Muretto ed altri, i traffi ci commerciali per il Centro Europa trovarono nuovo slancio favorendo un signifi cativo sviluppo dell’area valtellinese sotto il profi lo economico e soprattutto culturale. L’opera di colonizzazione della montagna da parte di popolazioni migranti da aree di confi ne contribuì ulteriormente ad una differenziazione dei tipi edilizi con infl ussi ladino-atesini nell’area di Albosaggia: , grigione-engadinesi nell’area di Livigno e dell’Alta Valle Spluga, tici- Veduta della nesi in Valchiavenna, bergamaschi e veneti in Bassa Valle ed in generale nel caratteristica Casa Contrio comprensorio orobico.

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Nel territorio della Comunità Montana di Sondrio emblematico è Valmadre (Fusine), l’esempio, dimostrato da una copiosa documentazione d’archivio, della Cava- Frazione Caprini: laria della Valmadre la quale, nel corso del XVI secolo, collegando la Valtellina Caratteristica costruzione alpina con la Serenissima, introdusse sul versante orobico una tipologia tipica ber- del versante gamasca legata all’attività del luogo: l’estrazione del ferro dalle cave ‘metal- orobico (Foto n. 1) lorum’, la sua lavorazione nei forni fusori a monte e nelle fucine a valle. Tipici esempi di questa ‘contaminazione’ sono presenti a Caprini e Valmadre nella valle omonima e nella stessa Fusine; insediamenti caratterizzati dalla presen- za di numerosi forni fusori e fucine costruiti alla “bergamasca”. (Foto n. 1) Anche la differente composizione e conformazione del terreno, unita- mente ad una gestione del territorio basata sulle tipiche attività agricole, sil- vopastorali ed estrattive, ha infl uenzato le tecniche di sfruttamento del suolo, determinando l’insorgere di differenti modalità di insediamento umano e condizionando la stessa tipologia storica edilizia. A causa delle caratteristiche geo-morfologiche del territorio e delle risorse primarie tipiche dell’economia contadina, la dimora rurale ha seguito un ideale percorso di trasformazione attraverso il quale l’uomo è divenuto artefi ce di modalità di insediamento eterogenee ma che, allo stesso tempo, si intrecciano e mutano adattandosi all’ambiente e coesistendo tra loro.

L’impiego dei materiali

Effettuando un’analisi sistematica, si può osservare come un evidente elemento di differenziazione delle tipologie abitative fosse dato dal variare delle attività antropiche e dal materiale costruttivo, generalmente reperibile in loco e scelto in base alle caratteristiche tecniche specifi che. Per quanto riguarda la Valtellina e, in particolare, il territorio della Co- munità Montana di Sondrio, l’utilizzo pressoché esclusivo dei materiali locali, legno e pietra, era legato sia al particolare contesto economico-sociale, che al razionale sfruttamento delle loro caratteristiche costruttive e strutturali. Quando entrambi gli elementi erano disponibili e tra loro compatibili venivano utilizzati coerentemente con le rispettive specifi cità: il legno nelle strutture resistenti a trazione e fl essione (solai, architravi, strutture di copertura), la pietra nelle strutture a compressione (muri, fondazioni, piedritti). L’uso di questi materiali ha naturalmente condizionato forme e proporzioni delle di- more rurali della Valle. Le dimensioni degli edifi ci erano commisurate alla lunghezza delle travi di legno (tronchi degli alberi) reperibili in zona e le falde del tetto proporzionate una all’altra per equilibrare pesi che variano rapidam- ente quando nevica o quando la neve viene appesantita dalla pioggia. I muri erano dimensionati su carichi variabili e capaci di assorbirli in modo elastico (strutture in legno) o rigido (strutture di pietra) e di distribuirne sul terreno uniformemente gli effetti. Le fi nestre e le aperture erano proporzionate con

59 i carichi e calibrate alle esigenze di aerazione e di illuminazione in modo da non creare ponti di dispersione termica; i dettagli del tetto, incastri e giunti, spesso prefabbricati e tali da richiedere un’accurata progettazione. Il pi- etrame prevalentemente utilizzato per le dimore temporanee veniva posato a secco o attraverso l’uso di leganti poveri; i muri, a seconda della tipologia dell’edificio, potevano essere costituiti da pietre informi o da massi più grandi squadrati. (Foto n. 2,3) Con riferimento all’utilizzo di materiale lapideo spicca, nel comprensorio della Comunità Montana di Sondrio, l’esempio della Valmalenco, ricca di ar- desia e di scisti, rocce idonee alla preparazioni di pietre ai fini edificatori, la quale sviluppò notevolmente l’utilizzo del pietrame anche per le coperture a ‘piode’. L’impiego del legname fu piuttosto raro tanto che solamente alcune località della Valmalenco presentano edifici con struttura mista pietra-legno. Il legno, quando veniva usato, era limitato alle strutture orizzontali, a quelle di copertura e soprattutto alle specchiature di aerazione dei fienili. (Foto n. 4,5) In alcuni casi sporadici, come all’Alpe Lago, all’Alpe Pirlo e all’Alpe Prato Sotto, Albosaggia, di Mezzo (Chiesa in Valmalenco), ci sono edifici rurali interamente costruiti Nucleo dei con il sistema a ‘block-bau’, caratterizzato dall’utilizzo dei tronchi incardinati. Mosconi: Tipici edifici rurali (Foto n. 6) La tecnica, molto antica e di derivazione nordica, era diffusa in tut- in pietra ta l’Europa centrale. Essa prevedeva un sistema ortogonale di travi in legno, (Foto n. 2) Sopra, incastrate negli angoli attraverso la realizzazione di due incavi, uno inferiore Caiolo, Località Cà e l’altro superiore, a circa 20/30 centimetri dall’estremità. L’intera struttura di Rosa: Caratteristico in legno poggiava generalmente sopra un basamento costruito in muratura utilizzo del di pietrame per garantire l’isolamento del legname dall’umidità del terreno, materiale lapideo per la costruzione dalla pioggia e dalla neve. La prevalente costruzione in legno della casa era degli edifi ci. diffusa per lo più a quote elevate (Alta Valtellina; Livigno) in corrispondenza (Foto n. 3) con la presenza di vasti patrimoni di conifere e fustaie di resinose. Nelle valli orobiche, ove abbondante è la diffusione del bosco ceduo e del castagno in particolare, si riduceva l’uso del legno da costruzione, utilizzato in travi più corte a sezione ridotta. La disponibilità di legname ha condizionato molti as- petti della vita delle popolazioni valtellinesi e, di rifl esso, l’architettura rurale che presenta una forte traccia di questa “dipendenza”. La scarsa disponibilità di legno o di pietra portava ad ampliare la gamma di impiego del materiale a portata di mano determinando l’utilizzazione ben oltre le normali vocazioni strutturali: rare ma presenti sono le pareti alla “tedesca” o a graticcio costi- tuite da muratura sottile contenuta e interrotta da murali in legno verticali e diagonali (Casa nordica, Castione Andevenno).

61 In questo contesto l’architettura alpina ha sperimentato, per secoli, l’uso coerente di tecnologie limitate, al fi ne di far fronte a condizioni cli- matiche estreme, con precipitazioni abbondanti, vento e carichi di neve, de- clivi pronunciati soggetti a frane e slavine e di diffi cile praticabilità.

Risorse ambientali e strutture insediative

La possibilità di giungere a tipologie di costruzioni stabili ed altamente fungibili è stata condizionata dalla capacità ed abilità di sfruttare al meglio, coordinandole e correlandole, le risorse ambientali, in relazione alle condizio- ni fi siche dei luoghi. L’attitudine a variare ed innovare i tradizionali e rigorosi schemi strutturali-compositivi, permetteva di costruire edifi ci sempre diversi, ottenendo uno spettro di soluzioni e di risultati architettonici molto più vario di quanto possa apparire ad uno sguardo superfi ciale sulle testimonianze ar- chitettoniche. Così come per l’utilizzo dei materiali, anche per le tipologie abitative non v’erano forme fi sse e rigide: in base alle risorse disponibili, al clima ed alle attività produttive, la dimora contadina mutava i suoi spazi. Le peculiarità abitative non erano tanto legate all’area geografi ca defi nita dalla latitudine e dall’altitudine, quanto, piuttosto, alla modalità di gestione del territorio de- terminata dalla morfologia del terreno e dalle caratteristiche climatiche della zona. Emblematico di questo fenomeno era lo spostamento primaverile ed estivo delle famiglie con il bestiame. Gli insediamenti rurali, inseriti in una complessa rete di percorsi che garantivano l’utilizzazione degli alpeggi sul versante alpino, a tutte le quote, nelle stagioni più propizie, erano inevitabil- mente condizionati dall’attività della transumanza. L’assetto delle comunità rurali, organizzate inizialmente secondo un’economia di sussistenza legata all’agricoltura ed all’allevamento del bestiame, si modifi cò ulteriormente con lo sviluppo della coltivazione a vigneto su terrazzamento attraverso un signifi - cativo intervento antropico del territorio. Superata una certa quota, al posto della vite si coltivavano diverse specie di cereali, l’avena, il miglio, il panìco ed il mais. Un’altra risorsa fondamentale, prevalentemente diffusa sul versante orobico, era lo sfruttamento dei castagneti i quali favorirono una coltivazione intensiva e, in alcune zone, un certo tipo di monocoltura. Dove il terreno non era adatto alla coltivazione era mantenuto a prato. Questi fenomeni avevano notevoli ripercussioni anche a livello insedia- tivo in quanto gli aspetti del ciclo produttivo condizionavano direttamente la struttura della dimora. Le caratteristiche architettoniche - volumetria edilizia, tipologia - erano strettamente legate alle risorse economiche disponibili sul territorio (vigneti, castagneti, pascoli, allevamento) e in tal senso è possibile individuare specifi che tipologie connesse ai caratteri della produzione agricola di una zona. I comuni di Postalesio, Montagna, Castione erano contraddis-

62 tinti da un modello di dimora pensata per le esigenze della coltivazione dei ‘vigneti’; Arigna, e in generale gli insediamenti orobici di mezza costa, dalla dimora dei ‘castagneti’. Altre motivazioni e vocazioni potevano influire sulle caratteristiche della costruzione, come ad esempio la necessità di controllare il territorio attra- Chiesa in verso una rete strategica di fortificazioni. LaTorre di Melirolo e la Torre di Cà Valmalenco, Località Carotte: de Risc a Torre S. Maria, la Torre di Caiolo, l’Edificio a torrea Castione Ande- Struttura mista in venno sono solo alcuni esempi di queste ‘atipiche dimore’ di cui è costellata la pietra e legno (Foto n. 4) Valle. Al riguardo, è interessante sottolineare come molti degli insediamenti, sia valtellinesi che grigionesi, hanno come matrice comune la “casa a torre” (S. Langé, La dimora alpina, Sondrio 1996). L’impronta originaria era data da una primitiva forma di casa a torre (6/7 metri per lato) con, al piano terra, il ricovero del bestiame ed al primo piano le diverse stanze di abitazione. La struttura compatta, la cui forma chiusa ed essenziale sottolinea l’originaria esigenza di difesa e protezione, si articolava, in relazione al luogo ed alle cir- costanze, in strutture miste in legno e pietra e, in tempi successivi, dopo il 1600, in più complesse insediamenti a corte. Da recenti studi (Santino Langé in collaborazione con il Politecnico di Milano e l’Università di Genova) è em- Chiesa in erso come la casa di tipo romanico in pietra fu sottoposta, nel corso dei secoli, Valmalenco, Località Primolo: ad un’opera di integrazione e trasformazione adeguandosi alle tipologie nor- Caratteristico diche. Tra queste spiccano il modello di casa in legno block-bau e quello a utilizzo del legno per le specchiature graticcio, tecnica propria di popolazioni tedesche, in particolare di popolazioni dei fi enili walser che attraversarono le Alpi in senso trasversale verso la fi ne del XV (Foto n.5) secolo.

64 Chiesa in Valmalenco, Alpe Prato di Mezzo: Edifi cio rurale costruito con la tecnica dei tronchi incardinati (block - bau) (Foto n. 6) foto: archivio CM

Insediamenti umani e tipologie abitative

In Valtellina, risalendo l’Adda, possiamo riscontrare l’evolversi delle tipologie edilizie tradizionali, da modelli ancora infl uenzati dalla cascina padana, con edifi ci distribuiti intorno ad una corte, a tipologie sempre più marcatamente alpine. Il senso di appartenenza alla comunità, intesa come solidarietà paesana e intreccio stretto di relazioni con momenti di cooperazione nelle attività lavorative, predominante in numerose realtà valtellinesi, è tuttora evidente in alcune contrade di Ponte, Chiuro, Postalesio e Spriana. La traduzione tangibile di tale complessità è percepibile nell’intrico di collegamenti interni, percorsi che talora si sviluppavano al di sotto delle case, passaggi ad arco, voltine e sostegni, scalette aeree, cortili intersecantisi o contigui organizzati in una complessa rete topografi ca. Man mano che si risale la valle, le corti tendono a farsi più chiuse, stringendosi e così divenendo un elemento annesso alla singola abitazione. Esempio limite di questa corte comune è la ‘trüna’ tipica della Valmalenco. In essa la corte diviene una galleria coperta, con funzione di collegamento tra gli edifi ci, su cui prospettano le porte delle cucine e dei focolari con un arco di entrata e uno di uscita, come si può riscontrare nella trüna alla contrada Bricalli a Caspoggio, e in quella nel centro di Lanzada.

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Da questo insediamento di tipo ‘compatto’, caratterizzato dalla presenza in alcuni casi di veri e propri edifi ci collettivi, ‘plurimi’ (località Costi, Chiesa Valmalenco) in cui gli spazi erano condivisi secondo un’organizzazione famili- are e sociale comunitaria, si passa, in alta Valtellina (ed in Valchiavenna), ad un modello di casa tendenzialmente ‘unitario’ dove la dimora, ben riconosci- bile ed isolata, racchiudeva sia spazi di destinazione rurale che residenziale. Le diverse categorie spesso s’intrecciano e convivono in una medesima area ed il passaggio dall’una all’altra è sempre stemperato da questa connessione e commistione di tipologie. Elemento comune della casa rurale è costituito dal coesistere di ambienti in cui si svolgeva la vita domestica, il lavoro, la vita sociale; ambienti tra loro organizzati in modo molto libero. Nella struttura di questi organismi lo spazio ‘privato’ è minimo. La dimora rurale è strettamente legata all’attività produttiva: residenza e lavoro sono intesi in modo unitario. Per quanto riguarda il comprensorio della Comunità Montana di Sondrio, le relazioni e le compenetrazioni tra l’abitazione domestica ed il rustico iner- ente l’attività produttiva variano a seconda delle condizioni geo-antropiche. Nelle vallate del versante settentrionale, come la Valmalenco, la carat- teristica principale della dimora permanente consiste nella divisione tra ab- itazione (cà) e stalla-fi enile (masun) dislocate in un rustico separato. Talvolta l’insieme della dimora si tripartisce con l’aggiunta di una piccola costruzione, il “casèl’, per la conservazione dei prodotti caseari. Sul versante orobico si trovano dimore sia del tipo unitario, con stalla e fi enile affi ancati nella stessa costruzione, sia con la parte rurale divisa dall’abitazione. In alcuni casi, come nelle dimore della Valmadre, solo il fi enile è isolato dal resto del complesso. In relazione alle diverse caratteristiche della produzione agricola, diversi tipi di edifi ci ausiliari compaiono a completamento della dimora rurale. Nella zona dei vigneti troviamo il ‘casel de l’üga’, in quella dei castagneti, come ad Arigna, la ‘cüsina de la grat’, per l’essicazione delle castagne. Nel terri- torio orobico, dove intensa era la coltivazione delle castagne, emblematico è l’esempio della frazione di Rodolo (Colorina), in cui anticamente erano stati edifi cati numerosi ‘metati’. Tale costruzione autonoma a due piani, conosciuta anche con il nome di ‘agrèe’, era caratterizzata da una soletta in graticcio di legno posizionata sopra il focolare, sulla quale erano adagiate le castagne ad essiccare. Il legno, usato ai piani superiori, è spesso evidente nei ballatoi posti sul- la facciata principale e protetti dall’aggetto dei tetti. (Foto n. 7) I ‘lòbi’, tipici dell’architettura rurale, caratterizzano l’aspetto esterno delle facciate in modo spesso originale anche se ispirati a criteri costruttivi di grande semplicità. Il Torre di graticcio, formato da montanti e pertiche orizzontali, era adibito a contenere Santa Maria, Frazione Tornadù: e ad appendere in vario modo i prodotti agricoli: fi eno, mais, segale, cast- Tipico esempio di agne e canapa. La balaustra, oltre ad essere utilizzata come essiccatoio per dimora rurale con i prodotti agricoli, poteva avere anche la funzione di deposito di brandelli di ballatoio in legno (Foto n. 7) maglia con cui si tessevano i pezzotti. Nella zona di Arigna, dove era partico-

67 Fusine, Località “La Civetta”: Portale medioevale con architrave caratterizzato da bassorilievi che rappresentano simboli di varia natura (Foto n. 8)

larmente diffusa questa attività, si trovano i ballatoi ‘a cassetta’, caratterizzati da una balaustra chiusa posta a protezione delle donne durante la lavorazione artigianale dei tessuti. Quando l’attività dell’uomo lo richiedeva, alcuni edifi ci erano destinati esclusivamente ad impianti produttivi: esempi di mulino o pila, maglio, forno, torchio, segheria, tornio, erano presenti su tutto il territorio della Comunità Montana di Sondrio. Il Mulino sul Davaglione a Montagna, la Casa del Maglio a Chiuro, il Forno di Gudenz a Poggi, il Torchio Lombardi a Caiolo, il Mulino e Pila a Castello dell’Acqua, i Torni di Valbrutta a Lanzada sono solo alcuni es- empi. Sul versante orobico, legato all’attività dell’estrazione del ferro, erano diffusi presso le cave metallifere i forni fusori; le fucine, a volte annesse alle case d’abitazione, erano situate a valle (Fucina in via Predane, Fusine).

68 A quote più elevate la dimora non era più costituita da un insediamento vero e proprio, ma da semplici ripari, per il bestiame e per i pastori, o da piccole baite poste in prossimità degli abbeveratoi. In Valmalenco, la dimora temporanea del maggengo tendeva ad essere piuttosto accentrata anche se esistono esempi di nuclei sparsi. In quest’ambito i caratteri distintivi si at- tenuano a favore di scelte essenziali dettate dall’austerità dell’ambiente: dalla baita d’alpeggio e dal ricovero elementare e smontabile del “calecc” si passa al “bàet” in legno, prefabbricato minimo ed essenziale per il riparo notturno, utilizzato soprattutto sul versante orobico.

Elementi decorativi nella dimora alpina

Quella che precede rappresenta soltanto l’inizio di un’analisi “tipologica”. L’indagine deve essere tuttavia estesa ad eventuali altri fattori, forse meno evidenti, ma altrettanto, od addirittura, più profondi. Deve considerare uno stile di vita ed un vivere l’ambiente che si rifl ettevano anche nella religiosità e nei segni ad essa collegati, una natura percepita come elemento tangibile, entità benefi ca o matrigna, un ambiente inteso come fonte energetica ed alimentare, rifugio, risorsa per l’edilizia, materia prima per le attrezzature da lavoro. Sorgono, allora, domande di diversa natura: quale era la percezione spazio-temporale dell’abitante delle convalli? Quali erano i ‘signifi cati’ della dimora? Perché sorgeva la necessità di lasciare dei ‘segni’ sul fabbricato? Il linguaggio architettonico della dimora rurale esprime, invero, una concezione di vita, integrando le forme e i volumi con ‘segni’ simbolici e decorativi, non solo per la necessità di un degno completamento dell’opera. A questo riguardo signifi cativi appaiono gli esempi nella zona di Fusine e della Valmadre. Nella Casa della Civetta l’architrave, sorretto da due mensole sagomate sporgenti dai piedritti, è decorato con veri e propri bassorilievi, caratterizzati da simboli rappresentanti l’incudine e il martello, l’aratro, un oggetto segnato con una croce e, nel mezzo, una fi gura serpentiforme che si può interpretare come il simbolo visconteo. (Foto n. 8) Sull’architrave della Casa al Cornello, presso Fusine, è scolpita un’insolita forma allungata, simile ad una tenaglia. (Foto n. 9) Simboli simili ad una balestra, a ruote e a strumenti di lavoro si ripetono incisi su diversi piedritti e portali della zona. (Foto n. 10) Sorprendente appare la varietà di forme espressive e decorative legate all’architettura rurale; la ‘millesimazione’ (datazione) dei fabbricati è sicuramente uno degli aspetti più ricorrenti e signifi cativi. Su molti di questi portali e fi nestre sono incisi dei simboli di varia natura, legati alla sfera reli- giosa (come croci e trigrammi) ovvero all’attività lavorativa (tenaglie e aratri) a volte accompagnati dalle date di posa delle pietre. E’ questa la forma più diretta della simbolizzazione dell’abitare. Diffusa era anche la modalità di incorniciare le ‘bucature’ delle costru-

69 zioni in pietra (accessi o fi nestre) attraverso l’uso, nella composizione de- gli stipiti, di elementi lapidei; sul versante orobico esempio interessante è l’utilizzo della fi nestra trilitica come nella Casa a Presio nel comune di Colo- rina o in località Cà di Rosa a Caiolo. (Foto n. 3) Gli stipiti relativi agli ingressi erano sormontati da una struttura monolitica che poteva avere, a seconda dei casi, forma ‘lunettata’ oppure triangolare a timpano, ovvero ancora, sem- plicemente, rettilinea ad architrave. In esempi meno frequenti, le strutture verticali del portale sorreggono degli elementi arcuati: due conci arcuati che poggiano l’uno contro l’altro in chiave componendo un arco a sesto acuto (Portale rustico, Ambria). Queste particolari ‘architetture di soglia’, pur riproducendo sempre lo stesso schema, non propongono mai due forme identiche e, costituendo parte integrante del paramento, riescono ad evidenziare e ad enfatizzare con ef- fi cacia l’ingresso dell’edifi cio a cui appartengono. Il portale costituisce, del resto, un elemento fondamentale della casa e la sua origine simbolica va ricercata nella tradizione celtica. In esso viene riproposto, simbolicamente, il tema del passaggio (ingresso) nell’ambito privato della casa e della famiglia, mediante stipiti pronunciati od attraverso grandi architravi, a volte privi di gi- ustificazione funzionale. La presenza di elementi dotati di un esplicito riman- do archetipo è enfatizzato, in alcuni esempi di portale, dall’utilizzo di grandi strutture dal valore altamente simbolico o di pietre a cuspide monolitiche che suggeriscono la forma e la materia stessa del Monte Calvario, mettendo in atto una poetica metonimica nella rappresentazione simbolica del Sacro (G. Buzzi, La dimora alpina, Sondrio 1996). Queste testimonianze di espressione simbolico-religiosa esprimono con evidenza una complessa necessità di mani- festazione fi gurativa. Il progresso economico, lo sviluppo degli scambi commerciali, l’uso sempre più intenso di alcuni percorsi alpini e vie storiche, il diffondersi di esigenze sempre più complesse, potenziarono tali espressioni artistiche presenti nell’ambito culturale che si era costituito nei secoli precedenti. In questo contesto la decorazione degli edifi ci in muratura nelle varie , forme pittura e graffi to, contribuì, tra il ‘400 ed il ‘600, alla diffusione e ripetizione di motivi stilistici e formali nell’area valtellinese. Si tratta spesso di forme meditate e razionali, di raffi nata complessità decorativa, varietà di soluzioni e di idee utilizzate con fantasia ed ironia, estese nel tempo e nello spazio mediante la funzione scaramantica e propiziatoria di segni, disegni e colori (Ex Convento a Paleari, Piateda; Casa a Marveggia, Spriana). (Foto n. 11) Le porte e le fi nestre sono un elemento privilegiato e caratteristico della decorazione, poiché rappresentano i soli punti in cui lo spazio interno della dimora dell’uomo comunica con l’esterno. In molti casi, nelle dimore più semplici, le fi nestre sono incorniciate con una larga fascia di intonaco di calce che riveste le mazzette, il vano fi nestra e la superfi cie del muro esterno per 30/40 centimetri. (Foto n. 12) Numerosissime altre decorazioni, eseguite su intonaco di calce, si trovano in diverse particolari posizioni come nel timpano sotto la trave di colmo.

70 Fusine, Casa al Cornello: Particolare dell’architrave scolpito (Foto n. 9) Cedrasco, Casa Bricalli Menatti:Architrave inciso raffi gurante simboli legati all’attività lavorativa (Foto n. 10)

La dimora nello spazio e nel tempo

Questi esempi mostrano che l’architettura rurale, divisa per scelte tec- nologiche motivate da precise necessità culturali, ambientali e socioeconomi- che, si ritrova spesso unita in un tema che rivela, in innumerevoli variazioni, una concezione formale e stilistica organica e comune del senso della vita. Risulta quindi impensabile parlare di ‘signifi cato della dimora’. Sarebbe, forse, più opportuno parlare di signifi cati e funzioni di questo ‘contenitore di vita e di storia’. La residenza temporanea, adibita essenzialmente alla sopravvivenza, al riparo ed al deposito di attrezzi (Bàit; Calecc), si integrava con la dimora res- idenziale stabile, caratterizzata da uno spazio domestico legato all’importanza del nucleo famigliare. Essa rappresentava il simbolo della famiglia, con funzi- one di sacrario del nome della stirpe - dove stemmi e sigilli del casato ornavano i punti centrali della casa - e, contemporaneamente, oggetto di divisione. La parcellizzazione del patrimonio domestico veniva ideata e progettata, divisa o divisibile, in molteplici unità abitative ereditarie per una famiglia numerosa e allargata. Quest’idea simbolica di proprietà e di attaccamento ai beni (res) portava con sé una concezione architettonica ben evidente in dimore ove le strutture risultano organizzate in modo da favorire la spartizione fra gli eredi e per questo motivo spesso già divise verticalmente e con ingressi separati. Ma la dimora non incarnava solo un simbolismo fi sico, materiale. In essa l’uomo inseriva anche elementi del sacro, inteso come labile confi ne tra magi- co e religioso: spazi legati ad operazioni del vivere quotidiano quasi rituali (vinifi cazione, trebbiatura, preparazione del pane, lavorazione dei metalli…) convivevano con la simbologia magica, religiosa e propiziatoria.

72 Altro simbolo che intensamente caratterizzava la dimora era il focolare, fulcro della vita domestica. Esiste infatti una stretta identità fra gruppo famili- are, casa e focolare. I termini fuoco e fumo indicano contemporaneamente la casa ed il gruppo familiare: una dimora abitata è un fuoco fumante. Il ‘capo- fuoco’, rappresentante della famiglia nell’assemblea dei vicini, è titolare di un diritto che appartiene al nucleo familiare. L’iniziale probabile natura difensiva dell’edifi cio a torre si è successivamente coniugata con il senso più profondo della simbolizzazione dell’insediamento originario del fuoco, cioè del nucleo familiare, che veniva caratterizzato e perpetuato dalla presenza di questo ele- mento tipico. La tecnica muraria, in alcuni casi megalitica, alludeva anch’essa ad un principio collettivo del costruire, confermando il carattere complesso della struttura sociale fra l’articolazione delle famiglie e i rapporti di vicinato (G. Buzzi, La dimora alpina, Sondrio 1996). Questi elementi architettonici testimoniano di un uomo che attraverso l’abitazione esprime l’immagine di sé e del suo contesto sociale; di un uomo legato ad una cultura che si rispecchia nel proprio passato, anche remoto e nelle proprie origini e che va oltre alla situazione storico-politica del mo- mento. Le dimore rurali non sono testimoniate da documenti scritti (la scrittura è privilegio di pochi). Esse sono entità concrete, materiali; la loro stessa es- istenza, la loro presenza caratterizza e vincola il paesaggio, trasmettendo un messaggio di carattere storico. Esse sono, in questa accezione, documenti ar- chitettonici della vita e della storia dell’uomo. Sono documenti che testimoni- ano un fenomeno infrastrutturale, legato all’economia, alla tecnica dei sistemi produttivi ed all’attività del luogo. Un chiaro esempio è dato dalle fucine, dal metato, dai mulini, edifi ci che, oltre a testimoniare una tecnica costruttiva, tramandano specifi ci caratteri economico-sociali. Ne consegue che, attraver- so lo studio di questi documenti, è possibile apprendere informazioni riguardo i mezzi di produzione che l’uomo ricavava dalle risorse naturali, gli strumenti di lavoro ed i prodotti e materiali ottenuti. All’interno di questa prospettiva la dimora assume molteplici signifi cati che si intrecciano e coesistono senza elidersi. La testimonianza rurale può as- sumere, al contempo, un signifi cato sociale, economico, religioso, artistico ed a volte simbolico; un signifi cato ricco di valori così da rendere la casa oggetto primario e fondamentale di conservazione e di studio, testimonianza della comunità alpina. L’uomo, artefi ce ed architetto, artigiano, pastore e contadino, nell’edifi care ed abitare la dimora trasfonde in essa i suoi caratteri e la sua cultura. La stessa cultura che si trasmette a noi attraverso questa entità mate- riale.

73 BIBLIOGRAFIA

AA.VV., Valli segrete in Valtellina e Valchiavenna, L’umana Dimora, Sondrio Spriana, Località Marveggia: 1997 Originale T. BAGIOTTI, Storia economica della Valtellina e della Valchiavenna, Sondrio decorazione 1958 delle aperture che enfatizzano A. BENETTI, D. BENETTI, Valtellina e Valchiavenna. Dimore rurali, Milano gli ingressi alla 1984 dimora. Simili decorazioni D. BENETTI, M. GUIDETTI, Storia di Valtellina e Valchiavenna, Sondrio 1998 si ritrovano in D. BENETTI, S. LANGÈ (a cura di), La dimora alpina, Sondrio 1996 altre località alpine E. BERTOLINA, G. BETTINI, I. FASSIN, Case rurali e territorio in Valtellina e come in Val Locana (To), Zernez, Zuoz Valchiavenna, Sondrio 1979 (Engadina CH) A. BORROMEO (a cura di ), La Valtellina crocevia dell’Europa, Milano 1998 (Foto n. 11) G. DA PRADA, La Magnifi ca Comunità et li homini delle Fusine, I,II,III,IV, Sondrio 1980 L. DE BERNARDI, Valmalenco una lunga storia, Sondrio 1986 L. DEMATTEIS, Case contadine in Valtellina e Valchiavenna, Ivrea 1989 A. DONATI, Monti, uomini e pietre, Locarno 1993 S. LANGÈ, L’eredità romanica. La casa europea in pietra, Milano 1989 E. MAZZALI, G. SPINI, Storia della Valtellina e Valchiavenna, II, Sondrio 1969 C. SAIBENE, Il versante orobico valtellinese, Roma 1959 F. SUSS, Architettura contadina in Valtellina, Milano 1981

Pagine seguenti, Berbenno di Valtellina, Località Monastero: Tipiche fi nestre “incorniciate” che caratterizzano le facciate delle dimore rurali (Foto n. 12)

74

I PALAZZI

Gianpaolo Angelini

Le dimore nobiliari valtellinesi tra ’500 e ’700

Un’area geografi ca apparentemente periferica, le Valli dell’Adda e della Mera, sottoposte dal 1512 al 1796 alla dominazione grigiona, non avevano però cessato di gravitare culturalmente sulla Lombardia ed in particolare sul Lario. L’adozione di tipologie colte provenienti da queste aree si confrontava con i caratteri tipici della dimora alpina, in un rapporto dialettico non sempre facile e lineare. Alcuni esempi possono aiutarci a fare il punto della questio- ne. Il Palazzo Besta di Teglio rappresenta il defi nitivo passaggio dalle ar- chitetture castellane medievali al nuovo modello di dimora nobiliare rina- scimentale, benché forme ancora legate al tema della casa-forte merlata quattrocentesca si incontrino sino a tutto il Cinquecento, come prova il caso della contrada fortifi cata di Pedenale a Mazzo. La riqualifi cazione di Palazzo Besta secondo i nuovi canoni rinascimentali si compie entro il 1519 con sin- golare unità progettuale, sulla base di edifi ci più antichi. Nell’edifi cio temi tratti dall’edilizia lombarda del Quattrocento, come l’ingresso eccentrico che infi la il lato meridionale del quadriportico (Palazzo Fontana Silvestri a Milano Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria e Palazzo Mozzanica a Lodi), si legano con motivi desunti dalla più aggiornata Pontaschelli, loggia trattatistica architettonica (Alberti e Cesariano). Il nucleo centrale del Palazzo lignea nella corte rustica. è appunto il cortile quadrangolare, cui le murature preesistenti si adeguano

79 non senza diffi coltà, come denun- Ponte in Valtellina, ciano alcune intercapedini leggibili Palazzo Guicciardi, lunette dipinte del in pianta. All’interno gli ambienti sottogronda. principali sono il salone d’onore, la «stüa» cinquecentesca e la sala del- Ponte in Valtellina, Palazzo Guicciardi, la Creazione, allineate in bell’ordine pianta del piano lungo il prospetto principale, a cui si nobile. aggiunge una camera nella torre an- golare, collegata al corpo principale del Palazzo da un passaggio esterno e forse anticamente destinata a stu- diolo o archivio. Al modello di Palazzo Besta fanno riferimento, in modo più o meno dichiarato, altre case nobili cinquecentesche. Palazzo Lambertenghi a Stazzona reca nel coronamento del sottogronda la data 1524, ma anch’esso deriva dall’unione e rettifi cazione di corpi di fabbrica più antichi, come sta a dimostrare l’emergenza turriforme in facciata. A Sondrio, nel rione oltre , si è discretamente conservata la Casa Carbonera Bonomi, già di un ramo dei Parravicini, il cui portale è da- tato 1535. Rilevante in modo particolare è il fronte settentrionale del cortile interno, con un sistema di portici e logge su tre livelli caratterizzato da una scansione piuttosto regolare, ma che traduce in modo più grossolano alcuni dettagli del cortile del Palazzo Besta (le colonne sommariamente abbozza- te, la corrispondenza 1:2 degli interassi tra il portico e i loggiati superiori, la decorazione a graffi to degli intonaci). Una «versione rurale, più aperta e funzionale, del sistema portico-loggiato» (Rovetta, 2000) si può individuare nella Corte dei Leli a Ponte, dove altre case dispongono di cortili con due livelli di aperture (Casa Quadrio ora Tentori in via Guicciardi). Le tipologie variano

80 sino ad una significativa combinazione di forme e materiali della tradizione contadina, come nella Casa Maura Chistolini di Caspano in cui la loggia lignea del cortile è sostenuta da un pilastro tondo in muratura con mensola-capitello pure in legno. Dopo la grande stagione del Rinascimento, tra la fine del Sei e l’inizio del Settecento prese avvio una nuova fase di rinnovamento nell’architettura in Valtellina. Delle molte dimore nobiliari settecentesche meritano attenzione il Palazzo Sertoli di Sondrio, riformato dopo la metà del secolo su disegno Ponte in Valtellina, di Pietro Solari da Bolvedro (notizie dal 1757 all’81), in cui architettura e Palazzo Quadrio residenza si compenetrano in modo rilevante. Negli altri casi siamo invece Curzio ora Pontiggia, facciata affrescata. in presenza di semplici interventi di decorazione attuati entro involucri archi- tettonici preesistenti che rimangono prevalentemente invariati. Si segnalano Sopra,Chiuro, comunque Palazzo Merizzi a Tirano, con cortile quadrangolare porticato su Casa Balgera, davanzale scolpito tre lati, e Palazzo Cattani Morelli a Teglio, un po’ tardo (tra l’ottavo e il nono quattrocentesco decennio del secolo), con notevole scala a quattro sostegni. Al tipo della villa lombarda settecentesca fanno invece chiaro riferimento il Palazzetto Salis a Chiavenna (intorno al 1755-60), con fronte tripartita e corpo centrale avanzato, occupato a piano terreno dal salone, e il Palazzetto Besta a (dai primi del Seicento in poi, con interventi interni suc- cessivi al 1752), con impianto a L, in cui il lato breve presenta un portico e una loggia. Ancora a Sondrio dobbiamo segnalare il Palazzo Carbonera in via dell’Angelo Custode. Dal cortile, dove si conservano rimanenze medievali, si accede ad un secondo più raccolto spazio aperto, cinto da una balconata con balaustra in ferro battuto su tutti i quattro lati, con notevoli pilastrini in pietra a base quadrata. Attraverso una porta sovrastata da fi gure allegoriche dipinte si accede ad un piccolo atrio e quindi alla famosa scala elicoidale, culminante in un lanternino. Un’iscrizione ricorda che i lavori di restauro si erano conclu- si nel 1778. La complessità dei percorsi e dei volumi disposti in successione entro una struttura più antica ribadisce la varietà delle soluzioni residenziali adottate da architetti e committenti in ambito residenzale. A Pietro Solari si deve anche il Palazzo Malacrida a Morbegno, iniziato dopo la metà del secolo e concluso tra il ’58 e il ’62, dopo una lunga e faticosa campagna di acquisti di terreni e case preesistenti. Al secondo piano, desta particolare attenzione la presenza di camere di residenza direttamente affac- ciate sul salone d’onore a due piani, probabilmente una soluzione di ripiego determinata da esigenze di spazio. Infatti si era soliti disporre le logge sui sa-

82 loni in corrispondenza di passaggi di servizio o mezzanini. Questi ultimi sono per altro assenti, come anche in Palazzo Sertoli. A Palazzo Malacrida cinque stanze per la servitù erano poste all’ultimo piano, in pratica un sottotetto, se- gnato in facciata dalla presenza di oculi. La compressione degli spazi, rispetto ai grandi palazzi cittadini di Milano o Pavia, è una costante dell’architettura residenziale valtellinese, ma non indica necessariamente stili di vita più pove- ri, bensì diversi e meno formalizzati. In ogni caso le due fabbriche di Palazzo Sertoli e Palazzo Malacrida dichiarano la cultura aggiornata del loro progetti- sta, Pietro Solari da Bolvedro, del quale si suppone l’origine dalla Val d’Intelvi, luogo di emigrazione di pittori, decoratori e architetti altamente qualifi cati.

Ponte in Valtellina

Il centro storico di Ponte conserva il numero maggiore di dimore e palaz- zi nobiliari. Nonostante il loro stato di conservazione non sia sempre ottima- le, è nella sostanza ancora valida l’intensa descrizione di Leonardo Borgese: «Entriamo in Ponte, paese non assurdo ma logico, paese che andrebbe tutto descritto pietra per pietra, casa per casa, palazzo per palazzo. Ponte è un unico organismo, un conglomerato naturale ed artistico, un nido di celle, un convento e una fortezza […]». Non potendo qui soddisfare il desiderio di Bor- gese, ci limiteremo ad una scelta campionatura. Dei vari Palazzi Piazzi, raccolti tra le vie Ron, Piazzi e S. Francesco Save- Sotto, Chiuro, rio, tutti di origine cinquecentesca, emerge per mole il Palazzo ora Giacomo- Palazzo Cilichini, Scena di vita ni. Esso sorge in stretta correlazione con altri edifi ci dell’isolato, aderendo a cortese. ovest al Palazzo Piazzi Bertoletti e a est, tramite un cavalcavia su via Piazzi,

Chiuro, Palazzo a Casa Quadrio Brunasi. Dalla strada si scorge solamente il grande corpo pa- Cilichini, scorcio rallelepipedo le cui semplici facciate sono scandite dalla successione regolare del cortile cinquecentesco. della aperture, prive di cornici, e dal coronamento di oculi nel sottotetto. La struttura è con buona probabilità seicentesca e rappresenta la volontà della famiglia Piazzi di dotarsi di una dimora che fosse al passo con le nuove esi- genze rappresentative e residenziali, esigenze a cui i palazzi aviti evidente- mente non rispondevano più. All’interno lo schema distributivo è tipico: un appartamento doppio con camere in infi lata sui due lati e salone a due piani affacciato sull’ampio giardino tramite una terrazza. Il salone presenta decora- zioni prospettiche sul soffi tto e cornici dipinte intorno alle porte e alle fi nestre. La tipologia abitativa e alcune soluzioni, come quella del soffi tto ligneo del sa- lone a passasotto (cioè decorato al di sotto della trama dei travicelli), ancora seicentesca rispetto alle volte affrescate delle dimore del Settecento inoltrato, sono segnali di una timida ma reale ricezione delle tendenze dell’architettura residenziale barocchetta. Anche la torre-altana è indice di una svolta, poiché ormai tipologicamente estranea alla tradizione delle torri-colombaie (un raf- fronto diretto nell’adiacente Palazzo Bertoletti). La sequenza delle case dei Guicciardi lungo l’omonima strada ci riporta indietro al XVI secolo e pone una serie di quesiti diversi. La residenza princi- pale della famiglia, eretta nel XVI secolo, si affaccia su via Chiuro e presenta una facciata molto semplice con un portale in pietra e fi nestre architravate munite di artistiche inferiate. Al di sotto della gronda è un bel fregio a mo- nocromo con sirene, volute e stemmi. La pendenza della strada e l’innesto su questa fronte dei due cavalcavia sei-settecenteschi rendono diffi coltoso l’apprezzamento dell’originaria euritmia, che insieme alle tracce di affreschi

A sinistra, Ponte in Valtellina, Palazzo Piazzi Giacomoni, pianta dell’appartamento al piano nobile.

A destra, Ponte in Valtellina, Casa Quadrio Curzio ora Pontiggia, contesto urbano.

85

A sinistra, recentemente rinvenuti (2000) nelle Chiuro, Casa de’ sale interne suggerisce di avvicinare Gatti, facciata e torre-colombaia da l’edifi cio al gruppo di case ispirate via Opifi ci. più o meno direttamente al modello

A destra, di Palazzo Besta, senza considerare Ponte in Valtellina, poi legami di parentela tra le due Palazzo Guicciardi famiglie (Andrea Guicciardi aveva Cavalieri di S. Stefano, pianta del sposato Ippolita Alberti, vedova di piano nobile. Azzo I Besta, e per conto del fi glia- stro Azzo II aveva seguito il cantiere di Teglio). I dipinti interni, forse col- locabili cronologicamente prima del 1576 (data sul soffi tto di una stüa intagliata) sono da collegarsi a quelli da poco emersi nella Torre di Pendolasco (vedi infra). Al Cinquecento risale anche il corpo all’angolo con via Guicciar- di, con coronamento di lunette in cui si alternano oculi e affreschi con fi gure mitologiche; all’interno sono conservati fregi a fresco tardo-cinquecenteschi. Il prospetto sud-est, verso valle, presenta pure una decorazione a fresco, connessa alla presenza della colombaia. Nel Settecento l’esigenza di nuovi spazi muove i proprietari del Palazzo ad un ampliamento, che nel solco della tradizione si limita ad un nuovo semplice edifi cio sul lato opposto della strada, collegato al nucleo più antico dai due cavalcavia già citati (uno dei quali era però già attestato nel Seicento). In via Ginnasio si segnala un altro Palazzo Guicciardi, del ramo detto dei Cavalieri di S. Stefano, iniziato con Guicciardo di Nicolò (1658-1733), a cui si può riferire il restauro barocco della casa cinquecentesca. Anche in questo caso gli interventi sono contenuti, limitandosi alle incorniciature delle fi nestre con stucchi colorati e alla decorazione pittorica di un soffi tto interno, ma lasciando inalterata la struttura muraria preesistente (bifora architravata cinquecentesca sulla fronte posteriore). Ai Guicciardi è legata anche una singolare costruzione, detta «La Guic- ciarda», in località Casacce, quasi una dimora extra-urbana dove la tradizione vuole che la famiglia si ritirasse nel 1630 per sfuggire alla peste. Di sicuro si sa che Giovanni Maria (1508-96) l’aveva abbellita e poi Giovanni (1584-1664) aveva eretto la cappella. La casa civile e gli edifi ci rustici si affacciano su un cortile con portico e passerelle, su cui dà un salone con volte dipinte. Tuttavia in ambiente alpino la tipologia della villa ha scarse e contraddittorie attesta- zioni, mancando quel rapporto città-campagna che era alla base della civiltà padana. Ad essa si può però riferire il caso di Palazzo Vertemate Franchi a , residenza secondaria e estiva della ricca famiglia di commercianti che nel borgo aveva un grande palazzo (spazzato via dall’alluvione del 1618). Un ultimo edifi cio merita una menzione: la quattrocentesca Casa Qua- drio Curzio ora Pontiggia in piazzetta Curzio, a monte della chiesa dei Gesuiti.

87 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, sala dell’appartamento al piano nobile (stemma Quadrio).

Essa ha uno schema a U, in cui la facciata dell’ala sinistra presenta un’este- sa decorazione pittorica che inquadra le due fi nestre al primo piano ed una colombaia nel sottotetto, nonché al centro gli stemmi delle Tre Leghe. Di estremo interesse il contesto urbano: la facciata dipinta è infatti in asse con in vicolo di accesso alla piazzetta (in pratica un cortile cinto da antiche case) quasi a voler dare il massimo risalto all’esibizione araldica.

Chiuro

Le storia di Chiuro è indissolubilmente legata al nome dei Quadrio, il cui stemma raffi gurante tre quadrati ricorre su una gran parte di portali di ac- cesso a case sicuramente appartenute ad uno o più rami della famiglia (in via Ghibellini, via Medici, via Visconti, via Rusca). Il più noto esponente del casato fu Stefano Quadrio (1366?-1437/38) dominus et vir, egregius et spectabilis miles, capo della fazione ghibellina.

88 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, quadrature in una sala al piano nobile (part.).

A Stefano, che abitò la casa paterna in contrada Gera sino al 1391 per poi trasferirsi a Sazzo, la tradizione narra che Filippo Maria Visconti, duca di Mi- lano, per ringraziarlo della fedeltà e dei servigi, donasse nel cuore del borgo il palazzo fortifi cato che tuttora vediamo nonostante le manomissioni. Esso occupa l’intero isolato compreso tra le vie Campanile, Torre e Ghibellini, ma abitazioni di pertinenza si trovano anche sui lati opposti delle vie. L’edifi cio conserva un moncone di torre all’imbocco dell’omonima via e una bella cadi- toia a cappa, memorie del suo passato fortifi cato. Sulla facciata prospiciente piazza Stefano Quadrio sono accostati, a testimonianza del lungo utilizzo del caseggiato, una feritoia a croce medievale, un portale architravato con stem- ma Quadrio (XVI secolo), un secondo portalino seicentesco con profi lo mistili- neo sormontato da un balconcino in ferro battuto su cui dà una porta-fi nestra in pietra scolpita con un motivo a rosette cinquecentesco. Allo stesso complesso appartiene, con buona probabilità, la Casa Bori- nelli che costituisce l’estremità orientale dell’isolato. All’interno, superato il bel portale a sesto acuto (altro stemma Quadrio), si entra in un cortile con

89 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, sala dell’appartamento al piano nobile.

portico, il cui soffi tto ligneo cassettonato è una soluzione di rado utilizzata ne- gli spazi esterni se non in edifi ci residenziali di prestigio. La data 1475, incisa all’inizio delle rampe della scala, può essere assunto come generico termine ante quem. La Casa ora Fratelli Balgera presenta due notevoli fronti quattrocente- sche su via Torre e su via Roma. Gli elementi di maggior pregio sono il vasto portale in pietra a sesto acuto con decorazione a cordone e le cinque fi nestre archiacute pure in pietra allineate in bell’ordine su via Roma. Di queste ben tre presentano un davanzale decorato con lo stesso motivo a cordone; una in particolare aveva suggerito al Mulazzani (1983) un legame stilistico con le fi nestre in cotto del Quattrocento milanese. I legami militari ed economici di Stefano possono almeno in parte giustifi care l’ipotesi di un fi ltrato trapasso di forme architettoniche. Una vivida testimonianza della civiltà nobiliare esistente nel XVI secolo a Chiuro e delle sue colte letture di poemi amorosi ci è trasmessa da un’iscri- zione presente sull’architrave di una fi nestra in pietra con motivo a rosette e stemma Quadrio in via Opifi ci,: P[er] TROPO AMAR CON PVRA FEDE Ò FERITO

90 EL [core] | COMO TV VEDE, in cui core è rappresentato da un cuore trafi tto inciso nella pietra. Alla stessa eletta cultura appartiene anche la «camera picta» riscoperta in anni recenti nella Casa Cilichini in via Rusca. Alla casa si accede dopo aver varcato un portale con stemma Quadrio e aver attraversato un androne con volta a botte e unghiature. Sul cortile si affaccia un notevole prospetto com- posto da tre livelli: portico a due archi ribassati su pilastro in muratura, log- giato su colonnine in pietra e sottotetto con colombaie a disegni geometrici. Si tratta a tutti gli effetti di una riedizione semplifi cata del modulo del cortile Besta, sul tipo della pontasca Corte dei Leli. L’affresco frammentario, solo in parte liberato dagli intonaci sovrammessi, si trova in un locale nel corpo più antico dello stabile, verso via Rusca. Esso rappresenta un corteo di fi gure in costumi fastosi, tra cui si segnalano episodi allegorici (le tre coppie che si ten- gono per mano sono verisimilmente le tre età della vita) e di genere (musici e animali fantastici). Testimonianze orali ricordano, al di sotto dell’intonaco, la presenza di scene paesistiche (ruscello e prato) e iscrizioni (probabilmen- te motti edifi canti). La cronologia del dipinto è genericamente riferita alla metà del XV secolo, ma potrebbe essere posticipata di qualche decennio sulla scorta di alcune analogie con una arcaica e anonima Madonna con Bambino e sante nella Casa Quadrio ora Menaglio in via Medici, datata 151[5?] (la lettura 1414, talvolta proposta, è basata su una erronea interpretazione dei caratteri paleografi ci), in cui il volto della Vergine sembra rivelare qualche parentela con le fi sionomie di Casa Cilichini. Tuttavia ogni affermazione in merito va rimandata sino a che non saranno condotti studi specifi ci sull’ico- nografi a e sull’abbigliamento (copricapi e accessori in particolare) delle fi gure rappresentate. La camera picta di Casa Cilichini è comunque una testimo- nianza importante dell’allestimento interno dei palazzi nobiliari, nonché uno dei rari cicli pittorici a soggetto profano in Valtellina, tra i quali si ricordano la «Camera del Falcone» di Casa Berti Grolli a Teglio e la «camera picta» con fi gure allegoriche di Casa Vertemate a (1534), entrambe ricostruite in Palazzo Besta. Sulla stessa via Rusca è la Casa de’ Gatti, del XVI secolo, ma con suc- cessivi interventi. Colpisce l’altezza dei singoli piani, altezza che risalta tanto più nella facciata posteriore sul cortile (visibile da via Opifi ci). L’impianto a L della dimora presenta su questa fronte una torre colombaia innestata sul lato breve e una sovrapposizione di cinque livelli sul lato lungo (portico, loggiato su colonne, piano fi nestrato, seconda loggia con pilastri in muratura, sotto- tetto con fi nestroli quadrati). È singolare il rilievo che viene dato in più di un caso alle colombaie, sia dal punto di vista architettonico, come in Casa de’ Gatti, sia decorativo. Infatti esse erano talvolta sottolineate in facciata da dipinti raffi guranti balaustre, motivi geometrici, stormi di uccelli in volo (a Chiuro in Casa Gandola Quadrio in via Borgofrancone; a Ponte in Casa Quadrio Pontiggia, in Palazzo Guicciardi e in un edifi cio in vicolo Canaletta annesso al Palazzo Quadrio Matteani).

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Il Settecento ha lasciato il suo maggiore segno a Chiuro nel Palazzo Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli. L’edifi cio ha un impianto a T dovuto proba- Quadrio de Maria bilmente a successive aggregazioni edilizie. Il nucleo più antico a nord risale Pontaschelli, soffi tto decorato a stucco in infatti al XV-XVI secolo come prova la presenza del portale archiacuto e del una sala del piano portico nella porzione settentrionale dell’ala mediana. Nel XVIII secolo ven- nobile. nero aggiunti i balconcini in ferro battuto decorati a stucco e il grande portale barocchetto che dà accesso al cortile. Una scala che parte sotto il portico conduce al primo piano, dove si apre il ricco appartamento composto da un’infi lata di quattro sale con raffi nati stucchi e medaglie dipinte con scene mitologiche e bibliche (Ratto di Europa, Storie di Mosè, Storie di Giuseppe, Storie di Giuditta). L’attribuzione al bergamasco Giuseppe Prina ha ormai lasciato il posto a quella al luganese Giuseppe Antonio Torricelli (Agustoni, 1998), spostando la cronologia dei dipinti chiuraschi alla metà del Settecen- to. Di particolare rilievo sono gli stucchi della volta della prima sala, in cui l’anonima ma espertissima équipe di plasticatori (forse ticinesi?) impiega un variegato repertorio di fi gure mitologiche e allegoriche entro una rete di grot- tesche e arabeschi. Nel Palazzo era conservata anche una stüa dai ricchissimi intagli sulle pareti (cariatidi e testine) e sul soffi tto (insegne araldiche), venduta nel- l’Ottocento ed ora nel palazzo Schwerdt di Arlesford (Inghilterra). Il Salice suggerisce un collegamento all’intagliatore Johannes Schmit di Lipsia, autore del coro ligneo nella parrocchiale di Berbenno, morto nel 1678 e più volte do- cumentato a Chiuro. Benché l’ipotesi non sia verifi cabile sulla base delle sole fotografi e d’epoca, essa concorda con un radicale piano di adattamento del- l’edifi cio rinascimentale alla nuova moda barocchetta a partire dal passaggio di proprietà ai Quadrio de Maria nel 1665. Un piano che però non prevedeva una riqualifi cazione dei prospetti esterni, fatta salva la vistosa inserzione del portale. Si tratta di una tendenza in un certo senso introspettiva, tutta con- centrata sugli spazi interni, diversa da quella operante invece nei casi di fab- briche affi date ad architetti forestieri (Pietro Solari a Morbegno e Sondrio) o legate a grandi casati non valtellinesi (Palazzi Salis a Tirano e Chiavenna).

Castione Andevenno

Nelle sparse contrade di mezza costa che compongono il comune di Ca- stione Andevenno sono diversi i casi di dimore padronali connesse ad edifi ci rustici, quasi a costituire piccole aziende agricole. Castione d’altro canto van- tava in epoca storica una fi orente attività economica legata alla produzione ed al commercio del vino che, come ricorda il governatore grigione Guler (1616), era il «migliore e più squisito in tutta la valle […] che dai mercanti viene esportato per venderlo alla corte degli imperatori, dei re, dei principi e dei più nobili signori». Tra i casi più ragguardevoli e meglio conservati ricor-

93 diamo la Casa Sertoli nei pressi della chiesa di S. Rocco, risalente al tardo Chiuro, Casa Cinquecento o agli inizi del Seicento, periodo al quale verosimilmente si può Gandola Quadrio, balaustra dipinta. datare anche la Casa. La presenza del torchio, del frantoio e dei due piani interrati di cantina conferma le affermazioni del Guler circa un’intensa attività produttiva. Nella contrada centrale del paese si incontrano due dimore signorili non legate alla pratica della viticoltura, la Casa Moroni e la Casa Parravicini. Entrambe sono caratterizzate da impianti irregolari. La prima presenta ac- cessi differenziati su due livelli: a piano terreno da un portale si accede ad un ampio androne che immette nelle can- tine e nei locali di servizio; una terrazza consente l’ingresso al piano nobile. Un corridoio centrale, secondo una tipolo- gia diffusa soprattutto nel Settecento, collega i diversi locali. Ad un capo di questo corridoio si trova lo scalone pure settecentesco, a due rampe, con quat- tro sostegni verticali costituiti da colon- nine in pietra e aperture ovali che dan- no luce al vano. Il modello è lo stesso Castione, Casa di Palazzo Cattani Morelli a Teglio ed è Parravicini, pianta riscontrabile in diverse dimore lombar- del piano nobile.

94 de del XVIII secolo. Dirimpetto è la Casa Parravicini, altrimenti detta «Villa» per il vasto giardino che la circonda. L’impianto è a U, con ali diseguali; inoltre il corpo settentrionale verso strada presenta un profi lo sghembo che si ac- corda al tracciato viario. Questi elementi suggeriscono l’accorpamento in fasi successive di fabbricati precedenti. L’ingresso avviene da un portalino nella facciata di fondo della corte. All’interno si trovano una scala in marmo con colonnine e alcuni ambienti voltati e decorati a stucco, nonché una notevole stüa con pigna in maiolica. Al primo piano la particolare conformazione a U ha suggerito di collocare sul lato dell’ingresso una specie di galleria di disbrigo dei locali.

Berbenno di Valtellina

Una certa varietà e complessità negli schemi planimetrici si incontra anche nelle numerose case nobiliari di Berbennno, paese in cui a partire dal XV secolo si concentrarono alcune importanti famiglie, quali gli Odescalchi di Como, i Sebregondi di Domaso, i Parravicini, i Noghera. Nella contrada centrale del paese spiccano le moli compatte di alcune dimore nobiliari. La cinquecentesca Casa Negri ha impianto a U e cortile con portico su pilastri e loggiato superiore già in antico tamponato; all’interno conservava un camino in pietra con lo stemma dei Parravicini, antichi pro- prietari dell’edifi cio. La Casa Odescalchi (XV-XVI secolo), addossata alla Torre medievale dei Capitanei, possiede portali in pietra fi nemente scolpiti sulla fronte sud-est; la complessità planimetrica è giustifi cata dal dislivello del ter- reno e dall’appartenenza dell’edifi cio alla contrada fortifi cata facente perno sulla Torre stessa. La settecentesca Casa Mucat già Noghera ha una lunga facciata cui si affi anca il corpo quasi cubico della cappella eretta nel 1724. In località Crotti è un’altra Casa Parravicini, con impianto a L, torretta colom- baia, portale con incisa la data 1563 e loggiato su pilastri al secondo piano. Sulla facciata, al di sotto di questo loggiato, spicca un affresco con insegne araldiche dei Parravicini e di alcune famiglie imparentate con l’illustre casato. Infi ne a Polaggia, frazione prevalentemente agricola, sorge la Casa Ranzetti, pure con impianto a U, in cui il corpo di fondo del cortile appare traforato da un doppio loggiato ad arco su colonnine in pietra che dà luce al vano scale. Le due ali laterali sono inoltre svasate per dare maggior respiro alla corte inter- na; in una di esse era ubicato un ampio salone di rappresentanza. L’edifi cio rivela pertanto una sapiente e disinvolta capacità di adattamento degli sche- mi planimetrici alle esigenze abitative. Un cenno a parte merita la Casa Piccioli in località Palasio, per la deco- razione a fresco tardo-cinquecentesca che collega con cornici geometriche, fregi e losanghe le aperture della fronte nord. Quella delle facciate dipinte è infatti una tipologia un tempo assai diffusa nelle case civili della valle, ma che

95 a causa di sventurate vicende conservative solo di recente è stata riproposta all’attenzione degli studiosi. Nei pressi sorge anche la Casa Sassi de’ Lavizzari (XVII-XVIII secolo), con portale bugnato di grandi dimensioni, ai lati del quale due salienti in muratura, con base in pietra, posti in tralìce, fungono da invito all’ingresso della dimora.

I borghi della costa orobica

I comuni della sponda orobica sono storicamente caratterizzati da uno sviluppo edilizio minore rispetto a quelli del versante retico. Tuttavia grazie allo sfruttamento di alcune risorse naturali, quali le miniere di ferro della Val- madre, e alla presenza di percorsi viari connessi al porto di S. Gregorio nei pressi della Sirta, anche i borghi di Fusine, Cedrasco e Caiolo a partire dal XIV secolo godettero di una certa fl oridezza che raggiunse il culmine circa due secoli più tardi quando in particolare Fusine e Caiolo giunsero a contare duecento famiglie. Segni di questo passato si scorgono nelle chiese e, in misura minore, in alcune case da nobile. A Fusine si devono ricordare la cosiddetta Casa al Chioso del XVI secolo, con un bel portalino in pietra sul cui architrave è scolpito lo stemma del notaio bergamasco Viviano Cattaneo, e la Casa detta dei Conti, di poco successiva, legata ad un ramo dell’importante consorteria familiare dei Salis, che qui si insediò dal Seicento in poi, per interessi legati al controllo dell’attività di estrazione mineraria. La spaziosa facciata su tre piani, con regolare distribuzione delle aperture intorno all’asse del portale ad arco in pietra lavorata, e l’assetto interno, con atrio e scala a due rampe in posizione frontale, sono caratteri tipici dell’architettura residenziale colta. A Cedrasco si segnala la Casa Bonini-Pomona, più tarda (XVIII secolo), con bel portale in pietra sagomata dalle linee concave, sormontato da balconcino in ferro battuto. La presenza di un affresco di soggetto sacro sulla facciata è coerente con il diffuso senso religioso della popolazione a tutti i livelli sociali. La casa è documento di un residuo sviluppo economico ed edilizio in questi paesi anche dopo il Seicento. A Caiolo è pure presente un ramo della famiglia Salis. Una Casa Salici si trova poco a monte della contrada di S. Pietro e pre- senta resti di decorazione a graffi to e la data 1646. In paese, lungo la via Roi, merita un cenno una Casa seicentesca con portale in pietra datato 1678, atrio con colonna centrale che sorregge le volte a crociera e corpo turriforme sul lato posteriore (colombaia). L’edifi cio, nonostante l’inequivocabile carattere residenziale, conservava nell’atrio a pian terreno un torchio per la spremitura dell’uva. Sul conoide di deiezione del torrente Torchione, che discende dalle Orobie, si è sviluppata, sino da epoca antica, Albosaggia, già «vicinanza» di Sondrio e quindi comune autonomo dal tardo Trecento. Vi furono infeudati in

96 successione i Quadrio e i Paribelli. Il Castello, tuttora appartenente agli eredi di questi ultimi, è in realtà un’articolata costruzione residenziale sorta nel XVI secolo a cingere l’antica Torre dei Quadrio risalente forse al XII secolo, tutto- ra ben leggibile in pianta per il massiccio spessore dei muri (nel corso degli ultimi lavori di restauro è emerso un lacerto di affresco medievale con una Madonna e un Santo vescovo). È il caso forse più lampante di un procedimen- to di aggregazione-amplimento-sostituzione di antiche strutture difensive medievali che è comune a molta architettura residenziale valtellinese. Conse- guenza di questa tendenza edilizia è una scarsa caratterizzazione delle fronti esterne, che come nel caso presente sono piuttosto semplici, nonostante la committenza elevata. Il complesso conserva ambienti interni di pregio, tra cui una stüa tardo-cinquecentesca recante sul soffi tto lo stemma Paribelli e due sale con quadrature settecentesche di Giuseppe Porro. Da un edifi cio rustico proviene l’affresco d’inizio Cinquecento raffi gurante la Madonna col Bambino e il martirio di Simoncino da Trento, attribuito a Battista Malacrida da Musso, testimonianza preziosa della diffusione del culto anti-semita di questo beato nelle valli alpine (da Trento a Bormio). Addossata alla cinta muraria accanto al cancello d’ingresso si trova la cappella gentilizia dedicata a S. Nicola da Tolentino, eretta dai Carbonera (pregevole il portale in pietra, datato 1558, con fregi ispirati ad un certo gusto per l’antico diffuso in valle già dai primi del secolo).

Affreschi e decorazioni interne

La decorazione interna dei palazzi valtellinesi attende ancora uno studio complessivo, che non si fermi alle emergenze maggiori ma si proponga di tro- vare caratteri stilistici comuni e di rintracciare singole personalità o botteghe di artisti, sia sul fronte della pittura sia su quello della decorazione a stucco. Spesso l’analisi dei complementi decorativi consente di precisare la cronolo- gia delle fabbriche edilizie e di evidenziare mutamenti nel gusto e nelle mo- dalità dell’abitare. Il Palazzo Guicciardi di Tresivio, ora in parte sede del Muni- cipio, presenta sale con riquadri affrescati con vedute di Roma evidentemente tratte da stampe cinquecentesche e sale con volte a stucco barocchette. La stratifi cazione delle fasi costruttive è infatti palese a chi osservi il Palazzo dal giardino retrostante, dove sulla lunga fronte si succedono il corpo sporgente della cappella seicentesca, l’emergenza di una torre-colombaia e di un portico con loggiato cinquecentesco. Merita un cenno supplementare la Casa della Torre di Pendolasco, che s’innalza sul dosso detto Boisio alle spalle della chiesa di S. Fedele (Pog- giridenti). Una fortuita scoperta nel 1996 ha rivelato nelle stanze interne dell’edifi cio (un semplice parallelepipedo in pietra con grossi conci angolari) la presenza di un vasto ciclo decorativo a fresco al di sotto dello scialbo. Le

97 accurate ricerche documentarie di Franca Prandi consentono ora di precisare, oltre all’origine almeno tardo-trecentesca della Torre, l’entità e la cronologia dei restauri cinquecenteschi. Tra il 1551 e il ’59 infatti l’edificio, ormai fati- scente, passava in proprietà ad Antonio Sermondi, il cui figlio Giovan Andrea, già noto agli studiosi per la sua biblioteca erudita, dava avvio ai lavori. La data 1560 in cifre romane compare su un asse della gronda del tetto come indizio di un primo sopralzo dell’edificio. Pertanto il ciclo di affreschi va col- locato, in via ipotetica, tra il ’60 e il ’69, anno di morte di Giovan Andrea. In Albosaggia, Castello Paribelli, stüa al questo modo gli affreschi di Pendolasco si vanno ad affiancare a quel corpus piano nobile. di affreschi attribuibili al gruppo di pittori che tra il sesto e il settimo decennio del secolo raccolse l’eredità della bottega di Vincenzo De Barberis, autore dei due maggiori cicli pittorici di Palazzo Besta. Gli stessi pittori si suole vedere al- l’opera sui ponteggi del Palazzo Quadrio Venosta di Mazzo (1564) e ora anche della Casa Spini Valenti di (che però, in virtù del carattere specifi co dell’opera e della documentata presenza del De Barberis a Talamona intorno al ’27-’35, noi riteniamo di mano dello stesso bresciano). Il tipo di decorazio- ne presente a Pendolasco rivela una singolare unità di concezione, ma non ci pare di poter scorgere particolari elementi di novità, limitandosi di fatto il pittore all’assemblaggio di fi gure (cariatidi) e fregi di repertorio, sia pur ad un elevato livello qualitativo.

Canoniche, scholae laicorum e un esempio di edilizia pubblica

Le case annesse a edifi ci di culto, con funzioni spesso diversifi cate da caso a caso, costituiscono una tipologia a sé, con propri caratteri, che talvolta attinge anche al repertorio della tradizione residenziale. Lo schema distribu- tivo più diffuso a livello locale è quello con corridoio centrale e rampa unica di scale, che si ritrova nelle case parrocchiali di Montagna e di Primolo (cin- quecentesca la prima e settecentesca la seconda). All’interno delle canoniche doveva essere consueta, almeno per le parrocchie più antiche e ricche, la pre- senza di dipinti e decorazioni, talvolta di insegne araldiche dei curati. È il caso ancora ben documentabile della casa parrocchiale di Berbenno, a fi anco della chiesa di S. Maria Assunta. L’edifi cio, di origini quattrocentesche ma rifabbri- cata nel 1703 dal capomastro ticinese G.B. Cassarini, conserva sulle pareti dell’atrio una teoria di blasoni tra cui quelli di Guidotus de Casteliono (1452) e Bartolomeo Salis (1520-63). Gli arcipreti di Berbenno possedevano inoltre una dimora estiva in località Crotti, anch’essa ristrutturata da Cassarini e aiu- ti nel 1706, sulla cui facciata è dipinta un’Assunta del 1709. Era all’epoca ar- ciprete Bernardo Piazzi di Ponte. Una tipologia a sé stante è rap- presentata dagli edifi ci sorti per ospita- re le scholae laicorum legate alle con- fraternite ed ai santuari. Due esempi notevoli si trovano a Ponte. Il primo è la Scuola di S. Marta, a fi anco della chiesa di S. Maurizio ed ora inglobata nella casa parrocchiale. Essa era in Albosaggia, Castello origine costituita da un oratorio aperto Paribelli, planimetria (in evidenza la torre al piano terreno e da un’aula magna e del XII sec.). due sale al primo piano (ora teatro co-

99 munale, con resti di architetture antiche). Così la descrive il vescovo Archinti Albosaggia, Castello Paribelli, Madonna e negli Atti della sua visita pastorale del 1614-15: «[…] portico con cappella e Santo vescovo. altare di S. Marta, appartiene agli scolari di S. Marta. In detto altare si ce- lebra, ma la cappella è aperta su due lati». La cappella, i cui affreschi sono attribuiti Fermo Stella (ca. 1526-28), venne chiusa durante i lavori di amplia- mento del 1582, data che compare in un’iscrizione sulla facciata. Il cortile è porticato sui lati sud e est, mentre sul lato nord un scala esterna consente l’accesso al piano superiore. Il secondo edifi cio è il Palazzo cinquecentesco annesso al santuario della Beata Vergine di Campagna, eretto nel 1568, come ricorda l’Archinti, «per riporvi le elemosine di vino e grano […] affi ancata da un magazzino per riporvi le merci da vendere» in occasione delle fi ere nelle ricorrenze mariane. Il Palazzo presenta una facciata su due livelli, dominata dal portale in conci di marmo e dalla soprastante bifora architravata con co- lonnina e abbellita da un fregio dipinto nel sottogronda. Tutte le fi nestre sono in pietra con architravi e davanzali modanati. All’interno un atrio con volte a crociera distribuisce i locali, dotati di volte ad ombrello e camini in pietra. La qualità elevata delle fi niture si accorda pienamente con la rielaborazione di modelli residenziali (Palazzo Besta), in modo speciale nella facciata. L’edilizia pubblica è un settore che condivide con l’architettura residen- ziale diversi caratteri sia tipologici sia stilistici. Purtroppo gli esempi conser- vati sono pochissimi e pressoché illeggibili. Emerge dai dati raccolti in sede di censimento il caso della cosiddetta Cà di Tudesch a Lanzada, in frazione Tornadri. Sorge in vicinanza alla chiesa di S. Pietro (inizio XVII secolo), lungo l’antico percorso per Campo Franscia, un tempo frequentata via di collega- mento con la Svizzera, attraverso la Val Poschiavina. Durante la dominazione grigiona, nel secolo XVII, vi si trovava la dogana. Va ricordato, infatti, che Lanzada prima del 1620 contava bel diciotto famiglie di protestanti, a testi- monianza degli intensi rapporti con le regioni d’oltralpe. La struttura presenta un passaggio voltato sulla strada, alcuni ambienti interni riconoscibili come carceri e camera delle guardie e altri locali al piano seminterrato con accessi autonomi. L’affresco su una delle facciate, raffi gurante S. Giovanni Nepomu- ceno, protettore dei ponti e dei passaggi, si accorda perfettamente con l’an- tica funzione dell’edifi cio.

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BIBLIOGRAFIA

Le diffi coltà di accesso e le numerose manomissioni, nel caso di edifi ci Tresivio, Palazzo Guicciardi, di proprietà privata, hanno negativamente infl uito sul progresso degli studi. decorazione a Solo recentemente sono apparsi contributi sul tema dell’architettura civile: stucco di una sala al A. ROVETTA, L’architettura, in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il piano nobile. secondo Cinquecento e il Seicento, Bergamo 1998, pp. 47-75; L. CORRIERI, Esempi di architettura civile nel Rinascimento in Valtellina e contadi, in Il Ri- nascimento in Valtellina e Valchiavenna. Contributi di storia sociale, Sondrio 1999, pp. 131-143; A. ROVETTA, L’architettura in Valtellina dall’età sforzesca al pieno Cinquecento, in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Medioe- vo e il primo Cinquecento, Bergamo 2000, pp. 83-133. Su singoli edifi ci e palazzi citati nel testo: G.G ALLETTI-G. MULAZZANI, Il Pa- lazzo Besta di Teglio. Una dimora rinascimentale in Valtellina, Sondrio 1983; Un paese di nome Ponte. Piccola guida al comune di Ponte in Valtellina, a cura di P.G. Picceni, Ponte in Valtellina 1983; Chiuro. Territorio, economia e storia di una comunità umana, a cura di F. Monteforte e E. Faccinelli, Chiuro 1989; A. CORBELLINI, Indagini su sei secoli di storia, in La chiesa della Madonna di Campagna, Ponte in Valtellina 1993, pp. 13-54; F. PRANDI, La casa della torre di Pendolasco, in BSSV, 52, 1999, pp. 45-88; EAD., Aggiunte a «La casa della torre di Pendolasco», in BSSV, 53, 2000, pp. 89-118; Chiese, torri, castelli, palazzi. I 62 monumenti della Legge Valtellina, a cura di F. Bormetti e M. Sassella, Sondrio 2004 (2° ediz. aggiornata). Sugli affreschi presenti nei palazzi: S. COPPA, La pittura di paesaggio nella tradizione artistica valtellinese dal Medioevo al Settecento, in Il paesag- gio valtellinese dal romanticismo all’astrattismo, Milano 1990, pp. 32 sgg.; F. MONTEFORTE, Settecento privato: l’antica dimora dei Quadrio Pontaschelli a Chiuro, in «Contract», 13, 1991, pp. 17-19; E. NOÈ, «Chiuro, palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli», in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Set- tecento, Bergamo 1994, pp. 233-235; L. MELI BASSI, Di un affresco quattro- centesco a Chiuro, in BSSV, 49, 1996, pp. 33-36. Sugli arredi lignei: A. GIUSSANI, Stufe artistiche valtellinesi, in «Rassegna Archeologica della Antica Provincia e Diocesi di Como», fasc. 59-61, 1909, pp. 139-161; E. BASSI, La Valtellina. Guida turistica illustrata, Milano 1927-28, rist. Sondrio 1995, passim; T. SALICE, Johannes Schmit von Leipzig e i suoi lavori d’intaglio e d’intarsio nella chiesa dell’Assunta in Berbenno, in «Voltu- rena». Miscellanea di scritti in memoria di Egidio Pedrotti, Sondrio 1965, pp. 101-113. Sulla nobiltà valtellinese: Stemmi della «Rezia Minore». Gli armoriali conservati nella Biblioteca Civica «Pio Rajna» di Sondrio, a cura di F. Palazzi Trivelli, M. Praolini Corazza e N. Orsini De Marzo, Sondrio 1996. In particolare sui Guicciardi di Ponte: Albero genealogico costruito dall’ing. dott. Guiscardo Guicciardi di Luigi di Gaudenzio da Sondrio, in BSSV, 53, 2000, pp. 345-373. Sull’insediamento dei Salis a Caiolo e Fusine: L. DELL’AVANZO STEFANI, L’estra- zione e la lavorazione del ferro a Fusine, in BSSV, 42, 1989, pp. 229-244.

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“MIRA QUESTE PIAGE O PECHATORE…” Spunti di lettura sugli affreschi devozionali di ambito popolare.

Lorenza Bertoletti Nicoletta Moretti Maurizio Zucchi

“Dalla Samaria è giunto fi no a qui, a Roma, la capitale dell’impero. Si- mon Mago è una vera minaccia per la nascente comunità cristiana. Certo è un impostore. Ma i Cristiani, vedendolo fare i suoi trucchi, che cosa penseranno? Non ne saranno confusi o turbati nella loro fede? Eccolo, che si libra in volo sopra il Foro… Signore, Signore, ti prego, fa’ che cada e le sue menzogne ven- gano alla luce…”. Così implora Pietro inginocchiato su due lastroni di pietra. Il Signore ascoltò l’invocazione e Simon Mago cadde rovinosamente fratturan- dosi la gamba in tre punti. La scena, che richiama una tra le numerose leggende raccontate in testi apocrifi intorno al personaggio del santo, è rappresentata sulla facciata dell’ex monastero di san Benigno a Berbenno; un soggetto curioso e inconsueto, che non trova altri diretti riscontri sul nostro territorio. Tuttavia il motivo ispira- tore di questa singolare raffi gurazione potrebbe proporsi come uno dei possi- bili fi li conduttori nella lettura del vasto patrimonio iconografi co locale. In che misura il bisogno di protezione dal male, sia inteso come Satana, sia come malattia, disgrazia, eresia, può aver infl uenzato la produzione iconografi ca di Berbenno di Valtellina, località carattere popolare? E quanto questa si caratterizza per le singolari e dolorose Monastero, via esperienze vissute dalla Valtellina tra il XV e il XIX secolo, ambito cronologico Medici. Affresco raffi gurante san entro il quale si colloca la maggior parte delle nostre santelle? Pietro inginocchiato I soggetti più di frequente rappresentati sul nostro territorio (santi guer- e Simon Mago alzato in volo. rieri, taumaturghi, apostoli, patroni delle attività agro-pastorali, santi della

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Poggiridenti, “Controriforma”, la Vergine nelle molteplici varianti iconografi che), se stretta- contrada Surana. mente riferiti al vissuto delle comunità locali, si arricchiscono di signifi cati che Particolare dell’affresco vanno al di là dei comuni stereotipi agiografi ci e che consentono, a loro volta, raffi gurante il una migliore comprensione della comunità di cui sono espressione. martire tebano san Fedele. La raffi gurazione dei santi non solo rispondeva al bisogno psicologico dei fedeli di rassicurazione, ma rendeva comprensibili anche al pubblico meno preparato gli elementi più diffi cili della fede e della religione: una sorta di teologia popolare, strumento per la trasmissione della dottrina cattolica e la preservazione della sua ortodossia. Interessanti spunti nell’iconografi a locale sono suggeriti dai soldati della legione Tebea, titolari di alcune antiche parrocchie nella Media Valtellina: san Vittore, san Fedele, san Maurizio, sant’Alessandro1. Secondo una versione poco diffusa del loro martirio, i legionari tebani avrebbero dovuto massacrare i contadini galli già cristianizzati, ribellatisi ai Romani pagani. Il loro rifi uto e il conseguente martirio assumono anche il signifi cato dell’impegno contro la tracotanza dei dominatori e la persecuzione religiosa: l’iconografi a poteva, nella Valtellina costretta nella dolorosa esperienza del dominio straniero e protestante, rilanciare e rinnovare anche questo messaggio. Gli affreschi de- vozionali ispirati a questi santi ripropongono la stessa tipologia iconografi ca caratterizzata dalla bellezza giovanile, dalla posizione eretta che contraddis- tingue la persona pronta ad agire. Nella gamma cromatica ricorrono il rosso del fuoco e del sangue, la palma simbolo del martirio, ma anche di vittoria. Il martire tebano è talora raffi gurato in sella ad uno scalpitante cavallo, come il san Fedele sulla santella in posizione dominante a Ca’ Ranin. Un destriero ricorre in un’altra fi gura di santo legata ad un mondo av- venturoso e fi abesco: quella di san Giorgio cavaliere coraggioso che vince il drago e libera la principessa estratta a sorte per essere offerta in pasto al mostro. Il santo, con la lunga lancia infi lzata tra le scaglie viscide della bestia, raffi gurato sul muro di una vecchia casa a Caiolo, testimonia il desiderio del devoto di poter vincere le avversità e i malanni. Che cosa dire di un angelo guerriero? Quello chiamato Signifer, colui che, secondo l’Apocalisse, porta l’insegna alla testa della schiera degli angeli che combattono contro il dragone. Nimbato e giovanile, Michele veste di corazza ed elmo, talvolta regge una spada fi ammeggiante, oppure la bilancia2. La sua popolarità sul nostro territorio è attestata non solo dagli affreschi votivi, ma anche dalla frequenza nell’onomastica, dal riferimento alla sua festa (29

1 Secondo un’ipotesi accreditata, il culto dei martiri tebani nell’arco alpino si snoda lungo le antiche vie di comunicazione e di traffi co: gli stessi corridoi attraverso i quali penetrarono vari culti pagani, e, più tardi, il Cristianesimo tracciò il proprio itinerario per l’evangelizzazione. 2 Guardiano della Chiesa contro i demoni, avvocato difensore nel giudizio fi nale accompagna in cielo le anime del purgatorio; patrono delle Confraternite seppellitrici, protettore dei doratori perché rappresentato con la corazza dorata, e di tutti i mestieri che si servono della bilancia.

107 Caiolo, via Pelafi chi. Affresco seicentesco raffi gurante san Giorgio a cavallo che sconfi gge il drago.

settembre) come scadenza per il pagamento dei contratti d’affi tto3, dall’uso dell’espressione “Far san Michele” nel signifi cato di traslocare o sgomberare, e, ancora, dalla familiarità con cui lo si evocava in una semplice cantilena alla coccinella: “Pola pola gula an ciel, che ’l te ciama al san Michel, san Michel l’è ’ndacc a Pauia, pola pola gula uia”. Un’altra idea suggerita dalla fi lastrocca è quella del richiamo alla matrice longobarda della devozione al santo. Vivis- sima fi n dai primi secoli in oriente, è legata in occidente ai Longobardi che attribuirono all’Arcangelo la vittoria ottenuta sui Saraceni e si fecero diffusori del suo culto dedicandogli le più belle chiese, come quella, appunto, di Pavia. Patrono degli uomini d’arme, l’iconografi a locale lo presenta soprattutto nei luoghi che sono legati ad un antico castello, della cui chiesetta era il titolare come, nel Terziere di mezzo, a Sazzo, Castello dell’Acqua, Tresivio, Berben- no.

3 “...libras quinque et soldos decem hinc ad festum Santi Michaelis proxime futurum” : Archivio

108 Per molti versi in contrasto con quella dell’Arcangelo è la fi gura di san Giuseppe. Negli affreschi devozionali più antichi si intravvede, defi lata, la sua immagine di vecchio con la barba, canuto, forse per il bisogno popolare di rendere più spiegabile il misterioso rapporto di fedeltà e di protezione alla Vergine. Un cliché iconografi co sulla mansueta, taciturna pazienza del “vec- chio” padre putativo. In epoca più tarda viene raffi gurato giovane, con gli at- trezzi del falegname, sempre con un bastone fi orito simbolo di una scelta di vita4; è patrono della famiglia, dei moribondi e della buona morte. Invocato contro la morte improvvisa5 è san Cristoforo, molto venerato in Valtellina soprattutto nel Medioevo. Il santo garantiva la salvezza al sem- plice sguardo a viandanti e pellegrini. Occorreva quindi che la sua immagine fosse ben visibile da lontano; per questo domina sulla parete esterna delle chiese, come alla Sassella, Caiolo, Faedo, Ponte, suggerendo la ricostruzione di antichi itinerari di transito6 . La sua statura gigantesca contrasta con la minuscola fi gura del bimbo sulla spalla, aggrappato ad un ciuffo di capelli; le gambe del santo, come colonne, sprofondano nell’acqua dove guizzano pesci o mostri marini non privi di antichi signifi cati simbolici. Racconta la Legenda aurea che le quattrocento frecce dei soldati che dovevano colpirlo rimasero sospese intorno alla sua persona; una sola tornò indietro e colpì un occhio del re che aveva ordinato l’esecuzione. Per questo san Cristoforo è patrono degli arcieri e forse la fi gura che campeggia a Chiuro, sul portale in faccia alla torre dei Rusca, è legata agli uomini d’arme di questa famiglia7. Cristoforo era inoltre protettore dei traghettatori, in ricordo dell’episodio in cui trasportò il bambino Gesù dall’altra parte di un fi ume impetuoso: un legame con l’acqua

Stato Sondrio, Notarile, vol. 215, Quadrio Antonio, 1475. “…stara otto di segale consegnate alla casa del signor padrone nel giorno di San Michele d’ogni anno”: ASSo, Notarile, vol. 8850, Paini Antonio, 1773. 4 La fi oritura del bastone rimanda ad Aronne, indicato come sacerdote perché il suo bastone aveva fi ori e frutti di mandorlo. Può alludere anche all’episodio descritto negli apocrifi della tentazione di Giuseppe, quando il diavolo gli disse, per beffa, che la maternità della sua sposa era divina come poteva fi orire il bastone secco che aveva in mano: e il bastone fi orì. 5 Viene anche invocata protettrice dalla morte improvvisa Santa Barbara; una vicenda, la sua, tramandata con sapore di favola edifi cante. Il padre, che l’aveva rinchiusa in una torre di bronzo e che le infl isse il colpo mortale fu incenerito da un fulmine a ciel sereno. Per questo l’iconografi a la rappresenta con la torre alle spalle e una pisside in mano, attributi che nascono dal patronato contro la morte cattiva e improvvisa. Il fulmine vendicatore ha ispirato il suo pa- tronato contro le folgori, esteso a tutti quanti hanno a che fare con gli esplosivi come i minatori della Valmalenco, da cui è venerata. 6 Lungo l’asse vallivo esistono ancora i riferimenti di Cosio, Villapinta, Sassella, Ponte, Chiuro, Boalzo di Bianzone, , , Bormio, che ricostruiscono la strada di fondovalle. Quelli invece di Talamona, S. Bernardo di Caiolo, S. Rocco di Ponte in Valtellina, Molina in , quello sommerso dall’invaso di Cancano a San Giacomo di Fraele, e quello di Uzza in Valfurva, rivelano i collegamenti con le valli laterali. Vedi E. BERTOLINA, L’iconografi a di S. Cristoforo, in L’altra Lombardia, Milano 1974, pp. 176-189. 7 In data 1 aprile 1483 il nobile Maffi olo fu Simone fu Visconte de Rusconibus di Chiuro lascia ai suoi eredi l’onere di far dipingere l’immagine della Vergine e quella di San Cristoforo davanti alla porta della chiesa di san Giacomo di Chiuro. ASSo, Notarile, vol. 348, Guicciardi Giacomo, 1483.

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Caiolo, cui si allude nella tarda raffi gurazione del santo sulla casa presso il lago Palù, Chiesa di San Bernardo. a Chiesa in Valmalenco. Affresco Il santo che per eccellenza si lega alle acque è Giovanni Nepomuceno, raffi gurante san Cristoforo rappresentato in abito talare, rivestito dei paramenti religiosi, con il crocifi sso con il Bambino in mano e le stelle intorno al capo. Lo si trova sui ponti, sulle edicole con sulla spalla che regge altri santi, in luoghi soggetti al passaggio delle acque da cui si invocava la il mondo. protezione. Anche il capitello di San Michele a Chiuro, sempre scampato alla frequente furia del torrente Valfontana, era in realtà dedicato a san Giovanni Nepomuceno, che vi era raffi gurato nell’atto di essere gettato nella Moldava. Potrebbe essere legata all’acqua, più propriamente agli antichi mest- ieri che facevano uso delle ruote idrauliche, la devozione per santa Caterina d’Alessandria, non a caso diffusa ad Albosaggia, Boffetto, Castello dell’Acqua, dove numerosi erano i mulini. Fu una tra le leggendarie sante dei primi secoli. Battuta con gli scorpioni e rinchiusa in carcere, fu sottoposta al tormento di quattro ruote con chiodi appuntiti. Effi giata in abiti principeschi, con la corona regale in testa e con una ruota accanto, raggiunse la massima popolarità alla fi ne del Medioevo, quando la sua festa fu considerata un giorno propizio per trovare marito. Questa virtù riconosciuta a santa Caterina sollecita curiosi interrogativi: la sua mediazione per un buon matrimonio, così come la bened- izione della maternità evocata dalla raffi gurazione dell’Angelo che annuncia a Maria la nascita di Gesù potrebbero essere stati motivi ispiratori di alcune santelle nella zona di Castello dell’Acqua, dove, in modo quasi esclusivo ris- petto all’iconografi a devozionale della Media Valtellina, è presente il tema dell’Annunciazione. A dar vita alle singole realizzazioni c’è sempre una oc- casione privata, ma in che misura il ripetersi, su un’area territoriale limitata, degli stessi soggetti o degli stessi moduli, può essere espressione di bisogni sentiti e condivisi da un’intera comunità? Si tratta piuttosto di una moda (il santo o il tema del momento), o del desiderio di emulazione da parte del committente o dell’esecutore dell’opera? Nella religiosità locale spesso il culto dei santi e il culto delle fonti si sovrappongono. Oltre al caso delle acque di san Carlo in Alta Valtellina, em- blematico è quello della fonte di san Luigi a Sazzo. Durante la costruzione del santuario, sulla preesistente chiesa di San Michele, “scaturì d’improvviso una sorgente d’acqua limpidissima che oltre agli usi bisognevoli dell’edifi zio, ha servito anche moltissimo al comodo degli Abitanti; e talvolta per fi no a sollievo degli infermi, che per devozione ne bevevano in vece di medicina”8. Il capi- tello che oggi sorge sul luogo del miracolo è senz’altro uno dei più particolari, perché rappresenta, oltre a san Luigi in cotta bianca da novizio gesuita, con il giglio e il crocifi sso, anche la gente che si reca a riempire brocche d’acqua alla fonte miracolosa. E’ una folla di signori, contadini, popolani, a testimonianza

8 V. CEPPARI, Vita di San Luigi Gonzaga, Venezia 1789, p. 228.

111 A lato, Poggiridenti, contrada Surana. Particolare dell’affresco raffigurante san Giovanni Nepomuceno e sant’Antonio da Padova.

Sotto, Castello dell’Acqua, località Raina. Affresco raffigurante la Madonna del Buon Consiglio, santa Caterina d’Alessandria e san Giovanni Evangelista. di una venerazione che univa tutti, indipendentemente dalla classe sociale. Il culto di san Luigi e san Carlo, nuovi santi proclamati successivamente al Concilio di Trento, è legato alla Controriforma, della quale possono dirsi dei campioni. La devozione per san Luigi, territorialmente più circoscritta, ma così intensa nei paesi vicini al santuario di Sazzo da farlo considerare il santo per antonomasia, è da ricondursi, oltre agli eventi miracolosi, alla promozi- one che ne fecero i Gesuiti, signifi cativamente presenti e attivi nella zona. San Carlo e san Luigi non tardarono a farsi posto tra i santi invocati contro le epidemie, grazie alla dedizione dimostrata nel portare sollievo spirituale ai moribondi. Nella diffusione iconografi ca i due santi sembrano prendere il posto dei vecchi e familiari protettori contro le malattie e pestilenze, senza però riuscire ad eguagliarne la popolarità. E’ san Rocco che in questo campo occupa una posizione privilegiata, per la notevole quantità di chiese a lui dedicate. Presenta un’iconografi a riconos- cibile: una gamba scoperta per mostrare la ferita della peste e un cagnolino al suo fi anco a ricordo dell’animale che ogni giorno portava al santo ammalato un pane avanzato dalla mensa del padrone. Ipotetiche vie di san Rocco, itin- erari di fede, miracolo, preghiera, possono essere suggerite dalle numerosis- sime cappelle e santelle disseminate sul nostro territorio. Contende la popolarità a san Rocco un altro santo taumaturgo: una fi gura inconfondibile dalla lunga barba bianca, vestita con un saio monacale, con un bastone a forma di tau a cui è appeso un campanello. Rara è l’iconografi a con la fi amma in mano, come nell’affresco in località Orsolino, dove sant’Antonio Abate appare arguto e giovanile. Non manca ai suoi piedi il porcellino che lo accompagnò all’inferno quando andò a prendere il fuoco che mancava sulla terra. La leggenda racconta che, mentre sulla soglia sant’Antonio tentava di Pagine seguenti, Ponte in Valtellina, convincere il diavolo a lasciarlo entrare, il maialino furtivamente sgattaiolò località Guicciarda. all’interno, scorazzò dappertutto, sconvolse la società dei diavoli e ne uscì Affresco fi nalmente con un tizzone ardente in bocca. Di gran lunga è il santo più rap- raffi gurante la Vergine con il presentato, sia sulla facciata delle case nobiliari sia su quelle rurali e anche Bambino, san sopra i portoni delle stalle, perché non solo è un santo taumaturgo invocato Giuseppe, san Rocco e san per il cosiddetto “fuoco di sant’Antonio”, ma anche patrono degli animali che Sebastiano. Il nel giorno della sua festa, in alcune località, vengono ancora oggi portati sulla committente, 9 Giovanni piazza e benedetti . L’appropriazione del santo da parte del nostro mondo Guicciardi, rurale è testimoniata, oltre che dall’onomastica (peraltro diffusa anche in am- fece realizzare l’opera come biente aristocratico: l’Antoniolo contro il più umile Toni-Tugnin), anche dalle ringraziamento fi lastrocche locali che lo vedono protagonista, magari promosso cittadino per lo scampato onorario come il sant’Antoni del Rumbel. Il detto popolare “sant’Antoni dela pericolo dalla peste del 1630. barba bianca fam truà quel che me manca” sembra invece testimoniare la

9 Secondo una simpatica tradizione popolare, la notte della vigilia del diciassette gennaio gli animali della stalla parlano tra di loro.

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sovrapposizione tra sant’Antonio Abate e il suo omonimo sant’Antonio da Pa- Berbenno di dova. L’immagine di quest’ultimo, per la verità giovanile e sbarbato, compare Valtellina, località Motta alta. Affresco nella consueta iconografi a con Gesù Bambino, il Vangelo in mano ad indicare raffi gurante la la sapienza, e il giglio, simbolo di purezza. Perché l’immagine di sant’Antonio Madonna in trono, incoronata, che da Padova ricorre nella maggior parte degli affreschi devozionali a partire allatta Gesù. dal XVII secolo, da quando il santo gode fama di far trovare gli oggetti per- Ai suoi lati sant’Antonio abate duti?10 e san Cristoforo con il Bambino.

10 Una tradizione devozionale è fondata sulla certezza del suo aiuto; se si chiede si ottiene: Si quaeris miracula - mors, error, calamitas - daemon, lepra fugiunt; - aegri surgunt sani... (se chiedi i miracoli - morte, errore, disgrazia - demoni, lebbra fuggono; - i malati si alzano gua-

116 I santi non sono mai soli. Al centro dell’immagine fi gurativa è quasi sem- pre la Vergine in molteplici tipologie. La diffusione dell’iconografi a mariana è legata al fi orire degli ordini religiosi, alla vicinanza con le terre originarie dei movimenti eretici, alla presenza dei collegi gesuitici di Ponte e Bormio, alla capillare geografi a devozionale offerta dalle confraternite locali. Le Confraternite del SS. Rosario, fondate in molte parrocchie dai do- menicani del convento di Morbegno, hanno diffuso l’immagine di Maria con il piccolo Gesù e la corona del rosario11. L’Ordine Carmelitano aprì la strada alla devozione per la Madonna del Carmelo, iconografi camente rappresentata con

riti). Sequenza di frate Giuliano da Spira, richiamata nella raffi gurazione di sant’Antonio della santella di casa Paruscio in località Concile, a Ponte in Valtellina. 11 Alla Vergine del Rosario fu attribuita l’esaltante vittoria sui Turchi nella battaglia di Lepanto del 1571; lo stesso anno venne istituita la festa liturgica da parte di papa Pio V, già zelante inquisitore nella Valtellina governata dai protestanti.

Ponte in Valtellina, località Orsolino. Affresco raffi gurante la Madonna incoronata con il Bambino, san Bernardo e sant’Antonio abate.

Berbenno di il Bambino in braccio e con lo scapolare in mano12. L’immagine venerata col Valtellina, località titolo di Madonna del Buon Consiglio rimanda al quadro di Maria che, stac- Monastero, via Medici. catosi dall’altare in una chiesa di Scutari guidò l’esercito degli Albanesi verso Antico affresco Roma. raffi gurante la Madonna in trono Secoli di incuria non hanno appannato l’impatto emotivo che suscitano con il Bambino; le maestose Madonne assise su troni elaborati, talvolta fi ssate in alto sui muri sul libro aperto delle case, oppure come singolari addobbi tra il portone e la fi nestra del primo compare la scritta: “Omne che passa piano delle abitazioni (zona Fusine, Berbenno). Se non sono riconducibili ad per questa via un unico pennello, presentano elementi comuni: vivacità della cromia, compo- sempre invoca la Vergine Maria. Pax sizione scenica di solenne monumentalità, posizione frontale dell’immagine, tecum”. abito dallo scollo rotondo e ampio manto che avvolge la fi gura della Vergine, allargato e aperto sul grembo dove si appoggia il Bambino benedicente, con il globo in mano. Diversi invece appaiono gli indugi decorativi degli artisti. Sono affreschi che si distinguono per una committenza patrizia o benestante, che non esita a farsi raffi gurare inginocchiata, o a far rappresentare il proprio stemma in un angolo della scena. La motivazione è richiesta di grazia, segnalata attraverso la formula di rito P.G.R (per grazia ricevuta), ma anche semplice devozione (F.F.P.S.D: fece fare per sua devozione), riconoscenza, ricordo dei familiari defunti. Ecco nel bosco di Piateda il contadino disperato, con le braccia alzate, che assiste impotente al rovinoso precipitare della propria moglie giù dal burrone13. La narrazione dell’immagine votiva costituisce un esempio del felice scioglimen- to del patto tra il devoto e il divino e consente la partecipazione corale alla fi ducia nella Vergine. Accanto ai singoli privati, anche la collettività ha chiesto a volte la pro- tezione divina per le proprie famiglie e le proprie case14. Come promotori della realizzazione di santelle e capitelli emergono dagli antichi verbali delle deliberazioni consiliari i decani della Comunità15. Le stesse fonti documentarie danno veridicità alla tradizione orale secondo la quale i forestieri che chie- devano di essere accettati nella Comunità dovevano utilizzare per la realiz- zazione di immagini votive16 i denari della taglia a loro imposta. Tappa obbligata in particolari momenti liturgici come processioni e rogazioni, gli affreschi devozionali investivano non solo la sfera del sacro ma

12 Lo scapolare è il ricordo del lembo di stoffa dell’abito monacale che la Vergine affi dò al priore dei Carmelitani san Simone Stock, nel 1230, quando apparve ai piedi del Carmelo. 13 Pittura murale a Piateda, in contrada Barozzera. 14 Si veda ad esempio l’edicola votiva in località Tornadù, a Torre Santa Maria in Valmalenco, raffi gurante la Vergine, santa Barbara e sant’Antonio da Padova. 15 “Per oviar alle ruine che cadono dalle montagne sopra le nostre campagne, strade e case, son venuti in sentimento di far fare un capitello in cima della Roncola et ivi far dipingere li Santi Gloriosi Martiri (…), che preghino Nostro Signore a difenderci da quel fl agello”: Archivio Comunale Ponte, Verbali vecchi, 1710. 16 Giuseppe Poletti detto Mascarino viene accolto dalla Comunità di Ponte dopo aver impiegato i 25 fi lippi della taglia “nella fabbrica della Santella”: ACP, Verbali vecchi, 1712.

119 anche quella economica e sociale: presenti nella toponomastica locale, oggi A sinistra, Colorina, contrada come ieri17, ricordati nei lasciti testamentari18, scelti come luoghi di incontro Bocchetti. Antico per stringere accordi e sancire contratti19, luoghi protetti di sosta e raccogli- affresco raffi gurante mento. la Madonna in trono con il Bambino. Ogni mattina, prima di andare a scuola, il ragazzino del fornaio scendeva da Ponte verso il borgo di Chiuro, con una gerla che pesava sulle sue spalle A destra, e che profumava l’aria di pane. All’inizio del paese si fermava a riposare sulla Piateda, Località san Bartolomeo. grossa pietra sporgente e guardava la pittura sopra il portone: la Vergine con Affresco raffi gurante sant’Antonio abate che benedice gli animali. 17 “…in campanea ad capitellum”: ASSo, Notarile, vol. 784, Quadrio De Maria Andrea, 1557. “…petia terre campive trosate iacens in territorio Clurii ubi dicitur ad Capitellum della Mariola”: Pagine seguenti, ASSo, Notarile, vol. 5169, Quadrio Giovanni Antonio, 1669. Ponte in Valtellina, 18 Cipriano Gamboni lascia 16 lire imperiali “alla Madonna in contrada Bondio”: ASSo, Notarile, località Rivaccia. vol. 5683, Rusca Giovanni Angelo, 1680. Gerolamo Quadrio Peranda lascia alla fi gura della Capitello all’incrocio Beata Vergine dipinta sul muro della sua abitazione 22 lire imperiali e mezza, ogni anno in tra via Chiuro e via perpetuo, da convertire in olio per l’illuminazione serale quando si cantano le litanie; in caso Rivaccia; raffi gura non possano essere cantate le litanie, che sia illuminata il sabato, i giorni festivi e le solennità la Vergine con il di Gesù Cristo: ASSo, Notarile, vol. 3740, Sottovia Simone, 1630. Bambino e Santi tra 19 Atto di vendita di tre appezzamenti di terreno nel comune di Piateda, in località Mon, tra i i quali san Giovanni fratelli Gregorio e Giovanni Taloni e Antonio Gianoncelli, alla presenza degli estimatori e dei Nepomuceno.

120 Sopra, Lanzada, località Vetto. Affresco raffi gurante la Madonna del Buon Consiglio con il Bambino in braccio, sant’Antonio da Padova, san Pietro, san Giuseppe e san Giovanni Battista.

il corpo del Figlio abbandonato sulle ginocchia, i santi Andrea e Giacomo. Ma era la scritta sotto il dipinto che più attirava la sua attenzione: “Mira queste piage o pechatore e pensa bene al tuo erore, fato contro uno Dio, tuo re- dentore”; la leggeva e rileggeva interrogandosi sull’autore, stupito e insieme compiaciuto di non essere il solo ad esprimersi in un italiano tanto sgrammat- icato. Oggi la scritta sul muro di quella casa non si legge più, ma ben chiara è rimasta nel ricordo del bambino di allora, divenuto adulto20.

testimoni, tutti “sedentes singulis lapidibus existentibus prope capitellum situm in Vallebona ubi similia fi eri solent”: ASSo, Notarile, vol. 5169, Quadrio Giovanni Antonio, 31 agosto 1668. 20 Comunicazione orale fornita nel 2004.

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DIPINTI E SCULTURE NEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA VALTELLINA DI SONDRIO TRA IL XV E IL XVIII SECOLO

Giovanna Virgilio

Una delle fi nalità principali dell’attività di catalogazione, precocemente avviata in questo territorio con la pubblicazione di un volume appositamen- te dedicato alla provincia di Sondrio nella collana Inventario degli oggetti d’arte d’Italia (1938), consiste nella classifi cazione di edifi ci e manufatti per consentire un’analisi progressivamente dettagliata in ordine ad alcuni aspetti fondamentali, tra i quali la materia del supporto, la tecnica di esecuzione, il soggetto iconografi co e così via. Questa operazione che “sminuzza” il più possibile le informazioni, risponde anche alla fi nalità di poter recuperare i dati attraverso ricerche effettuate con l’uso di parole-chiave, mediante l’utilizza- zione del mezzo informatico. D’altra parte, è opportuno che la fase analitica sia seguita da una sintesi del materiale raccolto. La classifi cazione, infatti, è un’operazione mentale che non trova riscontro nel carattere assolutamente unitario della produzione artistica. Ciò emerge anche dalle numerose ricer- che e dagli approfondimenti che negli ultimi decenni hanno confi gurato un panorama estremamente ricco e, nel contempo, unitario dell’architettura e delle arti fi gurative fi orite nel territorio in cui sono inseriti, dal punto di vista geografi co e culturale, i paesi della Comunità Montana Valtellina di Sondrio, nonostante l’inevitabile perdita di una parte del patrimonio artistico, soprat- tutto per il periodo medievale. La prima metà del Quattrocento fu caratterizzata da un ambiente ag- giornato sulla cultura viscontea, mentre, nella seconda metà del secolo, un Giacomo del Maino, Ancona signifi cativo infl usso di motivi rinascimentali di ascendenza ferrarese fu eser-

127 citato da scultori e disegnatori di vetrate attivi nei grandi cantieri di Milano e di Pavia. Un’opera di particolare importanza, in questa fase di transizione, è rappresentata dall’ancona con la Madonna della Misericordia di Gottardo Scotti, attualmente conservata presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano. Le ri- cerche hanno dimostrato la provenienza di quest’opera da Mazzo in Valtellina, dove lo Scotti - come più tardi Andrea De Passeri - contribuì ad aggiornare la situazione artistica locale sulle innovazioni in atto nella capitale sforzesca. Tra la fi ne del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento si assiste all’intensifi cazione della produzione artistica, grazie, anche, alla mobilità di botteghe specializzate nella realizzazione di affreschi e ancone che, essendo frutto di una stretta collaborazione tra pittori e intagliatori, favorirono la cir- colazione di formule stilistiche e di categorie estetiche da un settore artistico all’altro. Così, per esempio, la Madonna in trono col Bambino e santi, dipinta da Battista Malacrida nel 1501 sulla parete sinistra della chiesa parrocchiale di San Maurizio a Ponte in Valtellina, può essere considerata, al pari di analoghe raffi gurazioni, una sorta di polittico ad affresco nel quale si avverte l’aggior- namento su Bergognone e Bramante. Uno dei referenti di quest’opera è stato rintracciato nella Madonna del tappeto dipinta dal celebre pittore di Fossano nel transetto della Certosa di Pavia, il cui cantiere continuava a rappresentare un importante punto di riferimento, anche in virtù della presenza di Giacomo del Maino a Ponte, nel 1491, per la realizzazione dell’ancona lignea nella cap- pella della Vergine della citata chiesa di San Maurizio. L’opera dell’intagliatore milanese - del quale sono note le frequentazioni pavesi - è composta da due registri, coronati dalla lunetta con il Cristo in pietà: quello inferiore ospita, nella nicchia centrale, la statua della Madonna, a sua volta fi ancheggiata, ai lati, da sei episodi della Vita di san Gioacchino e sant’Anna; l’ordine superiore, invece, è scandito da quattro nicchie che accolgono le statue di San Rocco, San Bernardino da Siena, San Pietro Martire e San Sebastiano. L’elevata qualità del manufatto, come spesso accade, è direttamente proporzionale al livello della committenza, qui rappresentata dalla confraternita della Beata Vergine, che, dopo aver ingaggiato il Del Maino, commissionò nel 1498 il ri- facimento del presbiterio della medesima chiesa a Tommaso Rodari, uno dei più importanti protagonisti del rinnovamento rinascimentale del duomo di Como. Questi intervenne, insieme al fratello Giacomo, presumibilmente su un progetto preesistente impostato dall’Amadeo. Importante contributo della bottega rodariana è poi costituito dai portali lapidei delle chiesa di Santo Ste- fano a Mazzo e della prepositurale di Sant’Eufemia a Teglio, che favorirono la diffusione di repertori antiquari, ancora presenti nell’elegante portale di San Pietro a Berbenno (1563). Tornando all’attività di Giacomo del Maino in Valtellina, ne ricordiamo il trittico datato tra il 1490 e il 1500 nell’oratorio di San Pietro Martire a Caiolo, con le statue della Madonna al centro, San Pietro Martire a destra e San Domenico a sinistra, la prima delle quali è caratterizzata dall’inserimento

128 Andrea da Saronno, Ancona

della Vergine tra le rocce. Questa formula iconografi ca, immortalata da Leo- nardo nella celeberrima opera del Louvre, è stata da alcuni studiosi messa in relazione con il mistero dell’Immacolata Concezione, sostenuto inizialmente dall’ordine francescano, ma non dai domenicani che, invece, compaiono nelle nicchie laterali dell’opera valtellinese. Sempre a Ponte nel 1505 è presente, con il pittore Felice Scotti, lo scul- tore Giovan Angelo del Maino - fi glio del citato Giacomo - che, con la sua im-

129 portante produzione lombarda, esercitò un’infl uenza determinante sull’evo- luzione in senso prospettico e illusionistico della rappresentazione fi gurativa, tanto in scultura quanto in pittura. Le stesse modalità lavorative adottate nel- l’ambito delle botteghe facilitarono il profi cuo rapporto di scambio di idee e di competenze tecniche tra gli artisti. Da questo punto di visto, il trittico con la Madonna col Bambino tra due santi, conservato presso il Museo Valtellinese di Storia e Arte di Sondrio, rappresenta un caso signifi cativo di collaborazione famigliare; infatti, nonostante l’opera sia fi rmata dal pittore Alvise De Donati (1512) la parte scultorea è dovuta a Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio, suoi fratelli, specializzati nell’arte lignaria. La tavola, di impostazione braman- tesca e zenaliana, arricchita da elementi leonardeschi, proviene dall’altare maggiore della chiesa di San Benigno del monastero di Berbenno e faceva probabilmente parte di una struttura a più registri successivamente smem- brata. Sorte analoga toccò a due statue dei suddetti De Donati raffi guranti, rispettivamente, San Lorenzo e San Rocco (1500-1510), pure custodite nel Museo di Sondrio, ma provenienti dalla parrocchiale di San Lorenzo a Fusine. Il recente restauro ha permesso di evidenziarne la tecnica esecutiva basata sulla modellazione di un unico tronco di pioppo avvenuta “per piani sottoli- neando spigoli e angolosità” (CASCIARO, 2002, 313) che costituiscono una nota caratteristica dello stile degli intagliatori milanesi. Ad anni inoltrati del Cinquecento risale, invece, l’ancona lignea nella parrocchiale di San Vittore a Caiolo, intagliata tra il 1537 e il 1538 da Andrea da Saronno e dipinta da Vincenzo De Barberis nel 1539. L’opera è formata da uno scomparto centrale centinato con il gruppo della Natività, a sua volta affi ancato da due nicchie per parte, dove restano, inferiormente, le statue di San Pietro e di San Paolo, mentre nella cimasa è collocato Cristo in pietà (le statue delle nicchie superiori sono state, purtroppo, trafugate). Le sculture sono caratterizzate da compostezza classica e dolcezza espressiva tipiche del linguaggio fi gurativo valtellinese del terzo e quarto decennio del Cinquecento. Questo orientamento, che in pittura fu portato ai massimi livelli dalla Madon- na col Bambino affrescata da Bernardino Luini nella lunetta del portale della parrocchiale di San Maurizio a Ponte, si rintraccia anche nelle quattro tempe- re con le Storie della Vergine che chiudevano la citata ancona della Madonna in San Maurizio, oggi conservate nel Museo parrocchiale del paese. I dipinti sono caratterizzati da infl ussi bramantiniani, luineschi e gaudenziani, che ne hanno suggerito la datazione all’inizio del terzo decennio e l’attribuzione al milanese Bernardino De Donati. Costui fu profondamente toccato dall’arrivo a Morbegno di Gaudenzio Ferrari che, tra il 1520 e il 1526, fu pagato con il caravaggino Fermo Stella per la decorazione pittorica dell’ancona dell’Assun- ta, nell’omonimo santuario, intagliata alcuni anni prima da Giovan Angelo del Maino. Il linguaggio del maestro piemontese, carico di coinvolgente senso affettivo, fu largamente diffuso grazie all’operato di vari artisti, tra i quali lo stesso Stella, il comasco Sigismondo De Magistris, al quale è stata assegnata

130 la tavola con la Natività del Museo di Sondrio, proveniente dalla parrocchiale di Santa Caterina di Albosaggia, e il bresciano Vincenzo De Barberis, nel cui ambito è stata recentemente ricondotta - per quanto riguarda l’area di nostro interesse - l’ancona con l’Adorazione del Bambino e santi della parrocchiale di Torre Santa Maria (1530). A questo pittore, dopo la morte di Bernardino De Donati (1530), spettò la riorganizzazione della bottega e la divulgazione di questo linguaggio carico di riferimenti alla cultura fi gurativa milanese e bresciana, che si rintraccia anche nei dipinti che compongono l’Annunciazione nella chiesa arcipretale di Santa Maria Assunta a Berbenno, dominati da un gusto accentuato per la caratterizzazione prospettica. Dopo l’ultima fase della ricca stagione rinascimentale si assiste, nella seconda metà del secolo, a una sorta di stasi, giustifi cata dalla diffi cile con-

Bernardino de Donati e bottega, Sposalizio della Vergine 132 giuntura politica e religiosa della Valtellina. La ripetizione di formule stereoti- pate è esemplifi cata dall’abbondante produzione del grosino Cipriano Valorsa, direttamente presente con la sua bottega, nel territorio in questione, a Chiuro (1563), Piateda (1592), Sazzo (1596) e, probabilmente sul fi nire del secolo, a Tresivio, nella chiesa di Sant’Abbondio, dove si trova l’inedita tela con San- t’Abbondio tra sant’Antonio da Padova e san Bernardo (?). Il pittore, indiffe- rente alle sollecitazioni del tardo-Manierismo, fu probabilmente condizionato da esigenze di carattere didascalico fi nalizzate alla necessità di contrastare la divulgazione delle idee protestanti. A cavallo tra il XVI e il XVII secolo un generale incremento della produ- zione artistica fu favorito dalla ripresa delle committenze religiose, anche su sollecitazione dello zelo pastorale di Feliciano Ninguarda, vescovo di Como, sotto la cui giurisdizione ecclesiastica ricadeva il territorio valtellinese. Il convergere delle ricerche archivistiche con gli esiti più aggiornati degli studi specialistici, relativi tanto alla pittura quanto alla decorazione plastica e alla produzione lignea della Valtellina e della Valchiavenna, ha delineato un quadro molto chiaro sulle vicende fi gurative del Sei e del Settecento, met- tendone in luce la stretta connessione con il fenomeno dell’emigrazione, non solo di artisti. I valtellinesi, che espatriavano in Veneto, nei grandi porti del sud e oltre le Alpi, si riunivano in confraternite che perseguivano scopi cari- tativi e di mutuo soccorso. Il legame con il paese d’origine era rinforzato con l’invio di opere d’arte - quadri, paramenti e suppellettili destinati alle chiese - che, indirettamente, fungevano da stimolo per il rinnovamento della cultura fi gurativa locale. Per quanto riguarda la pittura è stata rilevata la presenza dominante dei seguaci di area comasca e ticinese del varesino Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone. Tra questi, Giovan Battista Recchi è attestato, per l’area in esame, ad Albosaggia e a Ponte, mentre Cristoforo Caresana da Cureglia partecipò alla ricca decorazione della cappella del Rosario nella parrocchiale di San Lorenzo a Fusine (1628-1629). Numerosi sono i dipinti anonimi ispirati al linguaggio effi cace e comunicativo del Morazzone, tra i quali la miscono- sciuta Annunciazione nella casa arcipretale di Berbenno, vicina alle opere dei citati Recchi e del campionesse Isidoro Bianchi, databile al quinto decennio del Seicento. La scuola milanese del Cerano è, invece, rappresentata dal Mar- tirio di san Giorgio di Melchiorre Gherardini (1643), nell’omonima arcipretale di Montagna e dal meno noto San Francesco in preghiera, assegnabile a Or- tensio Crespi, nella locale chiesa dei Cappuccini a Colda, ma di provenienza milanese. Per le presenze non lombarde ricordiamo: il toscano Luigi Reali, che eseguì per la chiesa di San Carlo a Chiuro una tela con lo Sposalizio della

Cipriano Valorsa, Vergine (1650 circa) e il veneto Pietro Damini, autore della pala con l’Assunta Sant’Abbondio tra della parrocchiale di San Martino a Castione Andevenno, pervasa da intense sant’Antonio da Padova e un santo suggestioni tizianesche e veronesiane (fi ne del terzo decennio del Seicento). cistercense Tra le botteghe locali si segnala, invece, quella del chiavennasco Giovan Bat-

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tista Macolino, al quale appartengono il dipinto con la Madonna del Rosario tra santa Caterina da Siena e san Domenico (1654) nella chiesa parrocchiale di San Luigi a Sazzo di Ponte e la tela con Sant’Orsola (1659), giunta dalla Valchiavenna nell’oratorio della Madonna del Carmine. Oltre ai pittori, anche gli stuccatori e gli intagliatori “contribuivano a rendere l’ambiente capace di suggestionare l’osservatore per la spettacolarità

e per il virtuosismo, anche al di là del messaggio simbolico e religioso” (LAN-

GÉ-PACCIAROTTI, 1994, 120). I plasticatori erano per lo più di origine comasca e ticinese, come Alessandro Casella da Carona e Francesco Silva da Morbio. Il primo fu attivo tra il terzo e il quarto decennio del Seicento ad Albosaggia (parrocchiale di Santa Caterina), a Fusine (parrocchiale di San Lorenzo),a Castione Andevenno (parrocchiale di San Martino), a Caiolo (parrocchiale di San Vittore) e a Chiuro (chiesa di San Carlo), mentre il secondo eseguì, nel 1629, la decorazione dell’arco trionfale, del presbiterio e dell’altar maggiore dell’arcipretale di San Giorgio a Montagna . In questi artisti gli infl ussi mo- razzoniani e le suggestioni di Cerano e di Giulio Cesare Procaccini approdano ad “esiti personali di bellezza decorativa e di introspezione psicologica, che fa affi orare, soprattutto nell’espressionismo teso e dolente del Casella, il trava-

glio religioso e morale del periodo” (COPPA, 2002, 74). Gli intagliatori, oltre che dall’area comasca (i Pino e gli Albiolo), giungevano dalla zona bresciana (Gio- van Pietro Ramus) e trentina (Michele Cogoli) o tirolese. Queste diverse pro- venienze si spiegano, da un lato, con le secolari consuetudini itineranti degli artisti provenienti dal territorio dei laghi lombardi, e, dall’altro, con la specia- lizzazione in settori particolari della lavorazione dei materiali che richiedevano specifi che competenze tecniche tramandate nell’ambito delle botteghe fami- gliari. Una maggiore predisposizione agli spostamenti era comunque richiesta ai plasticatori, in virtù del fatto che lo stucco poteva essere modellato se era fresco e, dunque, richiedeva la presenza diretta dello scultore all’interno del cantiere. Diversamente, per l’intagliatore era possibile operare nel proprio laboratorio e, a lavoro ultimato, inviare il prodotto a destinazione. Spesso gli artisti si ispiravano alle opere più famose e apprezzate nel clima rigoristico post-tridentino, eseguendone numerose copie. A titolo esemplifi cativo si può citare il caso della tela di Giovan Battista Recchi con il Martirio di san Sebastiano nella chiesa parrocchiale di Santa Caterina ad Albosaggia, derivata da un dipinto di Domenico Carpinoni nella chiesa di San Bartolomeo a Como. Ma il primato, in questo settore, è detenuto dai prototipi del Morazzone, la cui conoscenza era garantita dalla fi tta circolazione dei car- toni delle sue opere. Così, la tela con la Natività della Vergine nel presbiterio della parrocchiale di Santa Maria a Berbenno rappresenta l’ennesima duplica- zione del dipinto di soggetto analogo del maestro varesino, conservato nella cappella della Madonna della Cintura nella chiesa di Sant’ Agostino a Como. Alessandro Casella, decorazione D’altra parte dobbiamo rilevare che, a differenza del valore dispregiativo at- plastica (1627) tualmente riservato alle copie, in passato era proprio la committenza - non

135

A sinistra, Giovan Battista Recchi, Martirio di san Sebastiano

Francesco Silva, San Sebastiano (1629)

137 Albosaggia, chiesa parrocchiale di Santa Caterina. Giovan Battista Recchi, Martirio di san Sebastiano Michele Cogoli, necessariamente sprovvista di mezzi economici - a richiederne l’esecuzione, ciborio d’altare restandone peraltro soddisfatta. Non a caso il cardinale milanese Federico (1692) Borromeo, aveva “assoldato” copisti specializzati che, con la loro prestazione, assolvevano all’importante compito di tramandare la memoria della tradizio- ne artistica - soprattutto cristiana - riposta in alcuni capolavori della pittura e della scultura delle epoche precedenti. Inoltre l’esecuzione di copie costituì in passato un’importante occasione di lavoro per gli artisti, soprattutto quando i mezzi di riproduzione seriale delle immagini erano limitati. Nel Settecento si verifi cò la fi oritura di una vera e propria scuola artistica locale, grazie all’operato di pittori come Gianolo Parravicino e Pietro Ligari, ai quali si affi ancarono i forestieri come Giuseppe Brina. Mentre proseguiva con intensità l’invio da fuori di manufatti tessili e di suppellettile ecclesiastica, diminuiva quello dei dipinti, tra i quali ricordiamo la mutila Assunzione della Vergine di Gaetano Gandolfi , giunta da Bologna nel 1773 nella chiesa della Madonna di Campagna a Ponte, ora conservata nel Museo parrocchiale del paese. Il prevalente orientamento della pittura valtellinese verso Milano si al- largò a comprendere stimoli della cultura artistica veneziana e del rococò in- ternazionale, anche su sollecitazione degli artisti attivi prevalentemente come frescanti (il valtellinese Giovan Pietro Romegialli, Pietro Bianchi da Como, l’intelvese Carlo Innocenzo Carloni) e quadraturisti (il comasco Giuseppe Co- duri e i luganesi Giuseppe Antonio e Giovanni Antonio Torricelli). L’interesse classicista di Pietro Ligari, titolare di una fi orente bottega locale, si aprì verso il quinto decennio ad accogliere infl ussi della pittura lagunare, anche su in- coraggiamento del fi glio Cesare, del quale ricordiamo la piazzettesca Morte di san Giuseppe nella parrocchiale di Santa Caterina ad Albosaggia (1739). Vittoria - l’altra fi glia di Pietro dedita alla pittura - è conosciuta principalmente per l’esecuzione di copie dei dipinti della bottega ligariana, come è esempli- fi cato dalla Madonna Addolorata con i santi Francesco di Paola, Maria Mad- dalena e Vincenzo Ferreri di Lanzada. D’altra parte è noto che, ad eccezione di alcuni casi ragguardevoli, fi no a tempi relativamente recenti la dedizione delle donne all’arte pittorica, inserita nel corredo di attività manuali previste per l’educazione femminile nei ceti più abbienti, seguì quasi necessariamente una pratica dilettantesca. Infl ussi del tardo barocco genovese sono stati rinvenuti nelle prime tele del ticinese Giuseppe Antonio Petrini, particolarmente apprezzate non solo per le qualità estetiche di cromia luminosa e di eleganza stilistica, ma anche per il profondo rigore morale di cui sono intrise. Non a caso, le grandi pale d’altare eseguite dall’artista tra il quinto e il sesto decennio del Settecento, tra cui il San Vincenzo Ferreri, già nella chiesa di San Carlo a Chiuro, sono Pagine seguenti, state messe in relazione con il clima riformistico muratoriano. Pietro Ligari, Alla fi ne del secolo, una timida ricezione locale degli infl ussi neoclassici Nascita della Vergine si avverte nell’opera dell’intelvese Carlo Scotti di Laino, conosciuto in Valtel-

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Giuseppe Antonio lina prevalentemente come quadraturista, ma operoso anche come pittore Petrini, San di figura, al quale è stata assegnata la tela con San Lorenzo in Gloria (1780) Vincenzo Ferreri della parrocchiale di San Lorenzo a Fusine.

Questo saggio, che prende in considerazione soltanto le opere presenti nei comuni della Comunità Montana Valtellina di Sondrio, è stato elaborato

sulla base della seguente bibliografia essenziale: M. GNOLI LENZI, Provincia di

Sondrio, Roma, 1938; S. COPPA, Il Seicento in Valtellina. Pittura e decora- zione in stucco, “Arte Lombarda”, 88/89 (1989); Civiltà artistica in Valtellina

e Valchiavenna. Il Settecento, a cura di S. Coppa, Milano 1994; S. LANGÉ-G.

PACCIAROTTI, Barocco alpino. Arte e architettura religiosa del Seicento. Spazio e figurativita, Milano 1994; Pittura in Alto Lario e in Valtellina dall’Alto me- dioevo al Settecento, a cura di M. Gregori, Milano 1995; Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il secondo Cinquecento e il Seicento, a cura di S.

Coppa, Bergamo 1998; G. SCARAMELLINI-S COPPA, I Macolino, pittori chiavenna- schi del Seicento, Chiavenna 1996; Pietro Ligari o la professione dell’artista, a cura di L. Giordano, Sondrio 1998; Civiltà artistica in Valtellina e Valchiaven- na. Il Medioevo e il primo Cinquecento, a cura di S. Coppa, Milano 2000; R.

CASCIARO,La scultura lignea lombarda del Rinascimento, Ginevra-Milano 2000;

F. BIANCHI-E. AGUSTONI, I Casella di Carona, Lugano 2002; Il Seicento e Sette- cento in Valtellina e Valchiavenna. Contributi di storia su società, economia, religione e arte, Sondrio 2002; I tesori degli emigranti. I doni degli emigranti della provincia di Sondrio alle chiese di origine nei secoli XVI-XIX,catalogo della mostra a cura di G. Scaramellini e coordinamento generale a cura di M. Sassella, Milano 2002.

Colgo l’occasione per ringraziare la dottoressa Simonetta Coppa (So- printendenza per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico di Milano), per la consueta disponibilità nel fornirmi consigli e suggerimenti, e il personale del Museo Valtellinese di Storia e di Arte di Sondrio per la gen- tilezza nel mostrarmi le opere del museo citate in questo saggio e i relativi materiali di studio.

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Indice dei Comuni

pag. 146 Albosaggia pag. 148 Berbenno di Valtellina pag. 150 Caiolo pag. 152 Caspoggio pag. 154 Castello dell’Acqua pag. 156 Castione Andevenno pag. 158 Cedrasco pag. 160 Chiesa in Valmalenco pag. 162 Chiuro pag. 164 Colorina pag. 166 pag. 168 Fusine pag. 170 Lanzada pag. 172 Montagna in Valtellina pag. 174 Piateda pag. 176 Poggiridenti pag. 178 Ponte in Valtellina pag. 180 Postalesio pag. 182 Spriana pag. 184 Torre di Santa Maria pag. 186 Tresivio 1 2 3 4

1) Fraz. Centro, Chiesa di S.Caterina 2) Castello e torre Paribelli 3) Casa Contrio, Fraz. Centro, Madonna con Angelo Musicante 4) Contrada Mosconi 147 1 2 3 4

1) Portale della Chie- sa di S.Pietro 2) Fraz. Polaggia, Chiesa di S.Abbondio 3) Chiesa di S.Maria Assunta 4) Fraz. Maroggia 149 Caiolo

1 2 3 4

1) Località Ca’ Rosse 2) Chiesa di S.Vittore 3) Torre 4) Località Ca’ di Rosa 151 Caspoggio

1 2 3 4

1) Località Braccia 2) Centro, Madonna, S.Pietro e S.Rocco 3) Centro, Casa Miotti 4) Località Curada Caspoggio

153 Castello

1 2 3 4

1) Contrada Bruga 2) Chiesa Parrocchiale di S.Michele 3) Contrada Tizzone Basso 4) Contrada Le Pile 155 Castione

1 2 3 4 5

1) V. De Barberis e B. De Donati, Madonna in trono col Bambino, santi e donatore 2) Cappella di San Carlo 3) Località Vendolo, Madonna del Rosario 4) Località Balzarro 5) Località Vendolo 157 1 2 3 4

1) Via Veneto Madon- na con SS. Anna, Rocco, Agostino 2) Casa Bonini 3) Contrada Bugli 4) Chiesa di S.Anna 159 1 2

3

1) Frazione Primolo, Santuario della Madonna delle Grazie 2) Primolo, Madonna delle Grazie con S. Antonio Abate S. Giovanni Nepo- muceno 3) Località Ca’ Rotte 161 1 2 3 4 5

1) Palazzo Quadrio- Pontaschelli 2) Casa Basci 3) G. Brina, Miracolo della Madonna della Neve (1716) 4) Chiesa di S.Carlo 5) Castionetto di Chiuro 163 Colorina

1 2 3 4

1) Chiesa della Beata Vergine di Caravaggio o Madonnina 2) Località Valle, Chiesa di S.Margherita 3) San Bernardo 4) Fraz. Romito 165 Faedo

1 3 2 4

1) Località Gaggio 2)4) Località S.Carlo 3) Chiesa di San Bernardo 167 Fusine

1 2 3

1) Chiesa di S.Rocco 2) Casa civetta in Località Masoni 3) Nucleo di Caprini in Valmadre Fusine

169 Lanzada

1 2 3 4

1) Architettura rurale con fienile in Località Ponte 2) Crocifissione 3) Vittoria Ligari, Madonna Addolorata e santi (1756) 4) Alpe Prabello 171 Montagna

1

2 3

1) Contrada S.Maria di Perlungo 2) Casa Visconti-Venosta 3) Chiesa dei Cappuccini a Colda, Ortensio Crespi, San Francesco d’Assisi in preghiera 173 Piateda

2 1

3

1) Chiesa di S.Vittore 2) Ambria, Edificio rurale 3) Nucleo di Ambria 175 1 2

3

1) Contrada Surana 2) Contrada Surana, Ca’ Ranin, S.Fedele 3) Forno in contrada Zocca 177 1 2 3 4 5 6

1) Località Sazzo, Capitello di S.Luigi 2) Chiesa di S.Maurizio Tabernacolo a muro (1536) 3) Abside 4) Chiesa di S.Rocco 5) Curt di Leli 6) Contrada Berola 179 1

2 3

1) Ca’ Moroni - Rustico 2,3) Ca’ Moroni, Madonna in trono con Santi Antonio Abate e Giovanni Battista.

181 1 2 3 4

1) Contrada Portola-Cao 2) Contrada Spotolo 3,4) Contrada Marveggia 183 1

2 3

1) Contrada Cagnoletti 2) Ca’ de Risc, Torre di segnalazione 3) Vincenzo De Barberis, Adorazione del Bambino con la Madonna e santi (1530) 185 1 2 3

4

1) Contrada S.Antonio 2) Contrada Torchio, Madonna in trono con S.Pietro e S.Rocco 3) Santuario della Santa Casa 4) Palazzo Guicciardi 187

Beni culturali della Comunita’ Montana Valtellina di Sondrio TESTI:

Gianpaolo Angelini, Maria Lorenza Bertoletti, Tiziana Forni, Egidio Gugiatti, Nicoletta Moretti, Mario Giovanni Simonelli, Giovanna Virgilio, Maurizio Zucchi.

FOTOGRAFIE:

Federico Pollini (se non diversamente specifi cato)

IMPAGINAZIONE, GRAFICA E MAPPE:

Mario Vigo

REALIZZAZIONE CD E SOFTWARE:

Tania Alberti, Stefano Mozzi, Daniela Vanotti, Mario Vigo

COORDINAMENTO EDITORIALE:

Servizio cultura: Elena Castellini e Giampaolo Palmieri

STAMPA:

Bonazzi grafi ca srl Sondrio

HANNO COLLABORATO, IN QUALITÀ DI RILEVATORI AL CENSIMENTO DEI BENI CULTURALI:

Petra Colombo, Luca De Paoli, Romina Pedrotti, Francesca Polatti, Erio Poletti, Chiara Porta, Daniela Zaccaro.

RINGRAZIAMENTI:

I Comuni di Albosaggia, Berbenno di Valtellina, Caiolo, Caspoggio, Castello dell’Acqua, Castione Andevenno, Cedrasco, Chiesa in Valmalenco, Chiuro, Colorina, Fae- do Valtellino, Fusine, Lanzada, Montagna in Valtellina, Piateda, Poggiridenti, Ponte in Valtellina, Postalesio, Spriana, Torre di Santa Maria, Tresivio, le Parrocchie ivi ubicate e la Diocesi di Como. Si ringraziano inoltre i pro- prietari dei beni culturali ritratti per la collaborazione e la disponibilità dimostrata. Indice

Pag. 5 INTRODUZIONE

pag. 7 PREMESSA

Testi

pag. 15 GLI INSEDIAMENTI RURALI COME ELEMENTI DELLA COSTRUZIONE DEL TERRITORIO Egidio Gugiatti

pag. 33 CASA DEL DIO, CASA DELL’UOMO Mario Giovanni Simonelli

pag. 57 LA DIMORA RURALE E LE SUE TESTIMONIANZE Tiziana Forni

pag. 79 I PALAZZI Gianpaolo Angelini pag. 105 “MIRA QUESTE PIAGE O PECHATORE…” Spunti di lettura sugli affreschi devozionali di ambito popolare. Lorenza Bertoletti Nicoletta Moretti Maurizio Zucchi pag. 127 DIPINTI E SCULTURE NEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA VALTELLINA DI SONDRIO TRA IL XV E IL XVIII SECOLO Giovanna Virgilio

Appendice

pag 145 MAPPE DI INQUADRAMENTO NEL TERRITORIO Mario Vigo

Introduzione

L’azione della Comunità Montana Valtellina di Sondrio si è sviluppata con l’intento di preservare la documentazione del passato e le radici dell’identità culturale del territorio. Salvaguardare il vissuto storico della nostra comuni- tà ci permette di meglio comprendere la realtà e l’intima essenza del vivere quotidiano. Il senso di identità e di appartenenza dei valtellinesi è uno dei fattori primi di convivenza e di viver civile: “dal senso di solidarietà al rispet- to del territorio”. Lo stesso sviluppo economico trae forza e vigore da questa consapevolezza. Il turismo, ad esempio, è nostra vocazione naturale: qui gli ospiti non trovano solo bellezze naturalistiche e paesaggistiche o impianti sportivi per le discipline invernali. La Valtellina sa infatti di doversi rappresen- tare nel suo complesso, di essere capace di “far sistema”, di comunicare la sua essenza di organismo unico: un territorio fi sico e paesaggistico ma anche un ambiente sociale con propri valori e una propria identità. La capacità di “affascinazione” risiede nel saper esprimere la propria identità culturale, nel saper comunicare il proprio modo d’essere, ma questo presuppone ovvia- mente il pieno rispetto del patrimonio culturale e la volontà di preservarlo e valorizzarlo. Il rintracciare le proprie basi culturali e il valorizzare il patrimonio storico e documentale sono quindi gli obiettivi centrali dell’azione di governo della Comunità Montana Valtellina di Sondrio.

Il Presidente

Aldo Faggi

5 Vorremmo che si provasse il fascino di trovare denominatori comuni, il fascino di unire tracce del passato per creare “disegni” leggibili in teoremi. Sono sforzi che spesso restituiscono quadri e scenari monchi poiché gran parte della documentazione culturale è stata cancellata dal tempo o perché tali contesti non si sono mai neppure completati per il sovrapporsi contempo- raneo, o lo scontrarsi, di altre realtà e di altre culture. Questa è una sfi da per l’intelletto. Questa è la gioia di scoprire e leggere il passato e le tracce che ci giungono. Il nostro patrimonio culturale ci riserva spesso delle sorprese note- voli: il profi lo artistico, talvolta modesto, viene molte volte compensato dalla stupefacente ingegnosità dei manufatti, dalla funzionalità delle attrezzature, dall’estetica “inconsapevole” dell’architettura rurale o dei poderosi terrazza- menti. Tracce di un passato che si è appena chiuso ma che velocemente sem- bra cancellarsi alle nostre spalle. La Comunità Montana Valtellina di Sondrio ha attuato una politica articolata di interventi per preservare questo patrimo- nio storico e culturale: si è operato nel campo del restauro, dello studio, della rilevazione e della catalogazione dei beni; si sono inoltre attuate molte azioni e progetti di valorizzazione affi nché quanto recuperato divenisse anche una risorsa. Un’antica fucina ritornata ora ad essere perfettamente funzionante, vari mulini ad acqua restaurati e riportati in piena effi cienza sono ora meta di scolaresche, ma anche dei turisti più attenti e curiosi. Si stanno recuperando e “restaurando” percorsi storici, etnografi ci e dei beni artistici. Itinerari che collegano più beni culturali in una sorta di viaggio non solo nello spazio ma anche nel tempo e nella memoria. Una salvaguardia delle testimonianze che comunque si estende a tutto il patrimonio culturale: dalle incisioni rupestri agli archivi parrocchiali e comunali. Un’azione che ha voluto essere sempre a trecentosessanta gradi e che si è prefi ssa l’obiettivo di ottimizzare la fruizio- ne dei beni e di rendere disponibile al cittadino gli studi e la documentazione attinente a tale patrimonio.

Assessore alla Cultura

Giordano Caprari

6 Premessa

La realizzazione di questa pubblicazione nasce dall’obiettivo di valorizza- re e di far conoscere il patrimonio storico ed artistico locale. Con questa opera si è voluto evidenziare il lungo e paziente lavoro che la Comunità Montana Valtellina di Sondrio ha affrontato nell’inventariazione e catalogazione di al- cune fondamentali tipologie dei beni culturali (architettonici, storico-artistici ed etnografi ci) presenti nel suo territorio. Un progetto durato molti anni ed articolato in più interventi che ha dato risultati importanti e che ora si vuole porre a disposizione dei cittadini e degli studiosi. I beni culturali della Valtellina raramente possono competere per il loro valore artistico con quelli presenti nelle diverse città d’arte italiane. Eppure, visti nel loro contesto, hanno un fascino del tutto particolare: sono capaci di parlarci di una realtà di ieri, ormai anni luce distante da noi, sanno evocare una storia che è composta da mille voci e da mille vite, da quella fi tta trama di quotidianità che è il tessuto stesso della “Storia”: … della “Storia” appresa dai libri e che, nelle ore di studio, ci appariva così lontana. Questi beni sono le tracce del passato che induce a rifl ettere, a indagare, a ricercare i fi li con- duttori. Ogni bravo “investigatore” deve però sapere entrare nella psiche e nella mentalità degli attori del dramma affi nché le antiche cose possano di- schiudere i propri segreti sulle culture che le hanno prodotte; nel contempo solo tramite questi oggetti, questi manufatti, possiamo rivivere e capire un mondo che non ci appartiene più. La tumultuosa trasformazione economica e sociale ha infatti completamente cancellato e trasformato stili di vita che erano ancora vivi fi no a tempi relativamente recenti. Il nostro mondo è caratterizzato dalla velocità, dalla rapida trasforma- zione, dalla comunicazione, dalla connessione globale quanto in passato lo era della lentezza, della resistenza e della conservazione. Anche il senso dello spazio è diverso: il lavoro e la vita stessa si svolge- vano fondamentalmente all’esterno, quasi indifferentemente dalle situazioni meteorologiche ed erano regolati semplicemente dal volgere delle stagioni e dalla lunghezza del giorno. Ne maturava quindi anche un rapporto con la natura molto diverso dal nostro, molto più integrato con essa; la natura come elemento tangibile e vissuto, entità benefi ca e matrigna. Uno stile di vita ed un vivere l’ambiente che si rifl ettevano anche nella religiosità e nei segni ad essa collegati. Nel corso di questo lavoro abbiamo ritrovato traccia e sono riaffi orati aspetti che stavano naufragando in un oblio collettivo. Le immagini devozio- nali, ad esempio, erano molto diffuse nel nostro territorio: erano realizzate sulle abitazioni affi nché le proteggessero; erano lungo i sentieri che condu- cevano ai luoghi del lavoro agricolo, campi, boschi, maggenghi ed alpeggi; punteggiavano i percorsi dei pellegrini. Esse scandivano l’andare segnando i punti di “posa”, sacralizzando i momenti di riposo, ritmando l’incedere ma an-

7 che i pensieri fra il reale ed il divino. L’immagine sacra era realizzata per pro- teggere il territorio ed il viandante. Ponendo un’attenzione maggiore alla loro dislocazione ed ai loro diversi signifi cati possiamo cogliere la trama sottile che disvela nuove letture del territorio. I Santi dei pellegrini (San Giacomo, San Rocco, ...) o dei guadi (San Cristoforo) possono, ad esempio, permetterci di rintracciare gli antichi percorsi della fede; l’approssimarsi e il cadenzarsi degli xenodochi e degli ostelli dei pellegrini è segnalato da santi quali Santa Agne- se, San Colombano, San Martino, San Remigio, San Pietro e Santa Marta. I dipinti murari erano i mezzi mediatici principali di un passato dove l’analfabetismo era comune; erano nella quasi totalità immagini sacre che rispondevano, a volte, anche a logiche sottili che rifl ettevano le tensioni e le trasformazioni di una chiesa militante che si contrapponeva ad una vicina area protestante. Colpisce come elementi simbolici, elementi evocatori di fatti e di concetti, siano ormai completamente oscuri ai più. Un linguaggio che è risultato comune alle molte generazioni che ci hanno preceduto e che ormai ci è precluso.

8 La pubblicazione

Questo libro nasce con l’intenzione di valorizzare i beni culturali pre- senti nel nostro territorio e di presentare il lungo lavoro di censimento e di catalogazione che ha impegnato per anni la Comunità Montana Valtellina di Sondrio. Abbiamo coinvolto in questa opera editoriale alcuni studiosi indivi- duati sulla base di una consolidata esperienza conoscitiva, da essi maturata a vario titolo, affi nché potessero suggerire, ciascuno secondo il proprio ap- proccio metodologico, elementi di rifl essione, tracce e stimoli per avvicinarsi a questo variegato patrimonio di testimonianze storiche ed artistiche. I con- tributi presenti nel libro hanno quindi il fi ne di proporre angolature nuove di lettura attraverso un linguaggio semplice e divulgativo. I testi proposti non sono quindi saggi esaustivi delle diverse tematiche ma una sorta di “taccuini di viaggio” di cultori curiosi che annotano le loro osservazioni e propongono un loro itinerario della mente, prima ancora che dei luoghi. Annotazioni e bibliografi a vengono proposti come utili strumenti di approfondimento e, per agevolare la consultazione, sono stati forniti al termine di ogni contributo, secondo il criterio ritenuto più opportuno da ciascun autore. Questa opera editoriale è corredata da un Compact Disk che riporta un esempio sintetico dell’opera di schedatura effettuata. In esso, per ragioni di sicurezza e di tutela del patrimonio, sono state omesse le ubicazioni dei beni culturali asportabili quali dipinti e sculture.

Il progetto

Il primo censimento dei Beni Culturali è stato realizzato dalla Comuni- tà Montana Valtellina di Sondrio negli anni 1984 e 1985. In quell’intervento vennero rilevati circa 400 beni culturali presenti nei ventuno Comuni del ter- ritorio e in quello di Sondrio. L’intervento fu un interessante banco di prova e punto di partenza per indagini più approfondite. L’alluvione del luglio del 1987 evidenziò l’interesse e l’importanza del censimento appena realizzato: tale studio infatti permise di procedere ad una ricognizione dei danni subiti dai beni artistici e culturali minori e di stilare le priorità di intervento nei restauri e nelle opere di salvaguardia. In questo modo si è dimostrato che la conoscenza e la consapevolezza del valore di un bene è la miglior difesa e il più importante intervento per la sua conservazione. L’attuazione della “Legge Valtellina” ha permesso alle parrocchie di in- tervenire nella sistemazione di molte chiese e la Comunità Montana ha potuto concentrare la propria attenzione su beni etnografi ci di particolare interesse come testimonianza del lavoro dell’uomo quali, le fucine ed i mulini. Sono

9 stati effettuati importanti intervenuti di restauro di affreschi e di chiese e si è cercato di abbinare azioni di promozione che ne evidenziassero anche la va- lenza di risorsa turistica, di ricchezza del territorio e di elemento di identità (e a volte anche di aggregazione) che gli stessi assumono per la comunità.

Impostazione metodologica

In base ai risultati della precedente catalogazione ed alle problematiche emerse si studiò la metodologia per realizzare un censimento il più possibile esaustivo. Si analizzarono i tipi di schede utilizzate per la catalogazione in altri Enti ed in particolare si prese contatto, al riguardo, con la Soprintendenza. Quest’ultima però era in procinto di cambiare anch’essa i propri modelli per permettere una agevole archiviazione dei dati anche in modo informatico. L’ideazione di una nostra scheda nasceva con diversi obiettivi, tra i quali: -l’informatizzazione degli elementi raccolti in modo da permettere una “navigazione” ed una ricerca per emergenze signifi cative, -una strutturazione molto precisa e dettagliata che potesse ridurre al minimo il fattore di variabilità legata alla sensibilità ed alle preparazione del rilevatore; elemento, questo, considerato di particolare importanza in un progetto che si sarebbe articolato in più anni ed in più rilevazioni e, quindi, presumibilmente, con ditte e rilevatori diversi. Per il conseguimento di quest’ultimo obiettivo si sono predisposti modelli di scheda diversi per le varie tipologie (chiese, campanili, palazzi nobiliari, ar- chitettura rurale, nuclei di antica formazione, dipinti e sculture) creando una struttura analitica di ampio ventaglio per l’acquisizione dei dati. Si è cercato cioè di prevedere l’ampia casistica che il rilevatore poteva incontrare ma, nel contempo, si è lasciata anche la possibilità, in ogni segmento della scheda, di aggiungere note come in un sistema aperto. Anche nella redazione della descrizione di sintesi del bene catalogato è stata prevista una griglia fi ssa che il rilevatore doveva seguire. Il lavoro dei rilevatori incaricati è stato organizzato in più fasi. Nella pri- ma si provvedeva alla raccolta delle informazioni sui i beni culturali presenti avvalendosi della letteratura in materia e quindi intervistando i “conoscitori” del territorio presenti in ogni Comune. I catalogatori poi dovevano effettuare le ricognizioni per individuare i beni che reputavano importante segnalare, dando la precedenza a quelli maggiormente sottoposti a rischio di degrado naturale e antropico (motivo per cui, fra gli affreschi, è stata data la priorità a quelli ubicati sulle pareti esterne degli edifi ci e delle edicole, maggiormente esposti al degrado atmosferico piuttosto che ai grandi cicli, seppure di mag-

10 giore rilevanza artistica, sulle pareti interne di chiese e palazzi). Ne scaturiva così un elenco-censimento di beni diviso per tipologia che costituiva, di fatto, anche la proposta di catalogazione da sottoporre agli Uffi ci dell’Ente. La Co- munità Montana, a sua volta, per assicurare la completezza d’indagine e nel contempo per coinvolgere le amministrazioni locali, le parrocchie e le associa- zioni operanti sul territorio, sollecitava integrazioni o contributi culturali sulla base degli elenchi predisposti. I rilevatori, oltre agli elenchi iniziali di censimento ed alle schede di cata- logazione (corredate di materiale iconografi co quali corografi e, foto e piante), dovevano predisporre una mappatura dei beni e digitalizzare i dati raccolti.

11 Le rilevazioni effettuate

Le rilevazioni effettuate si sono articolate in interventi che hanno riguar- dato gruppi omogenei di Comuni. Il censimento e la seguente catalogazione, che ha portato alla produzio- ne di circa 1.900 schede, è stata completata in circa 12 anni. Questo deter- mina, sin d’ora, la necessità di compiere ulteriori verifi che e aggiornamenti sull’intero data-base, sottraendo momentaneamente a tutti gli interessati la possibilità di consultazione delle schede.

L’informatizzazione dei dati

L’informatizzazione dei dati raccolti divenne subito un obiettivo primario. Si reputò infatti necessario avere un archivio di dati facilmente consultabile e da porre a disposizione di ogni persona interessata. Sul fi nire degli anni 80 la tecnologia informatica era poco evoluta e, per quanto avessimo studiato le problematiche e seguito con attenzione le varie esperienze, non si poté intraprendere subito tale strada. Solo nel 1994, si riuscì a realizzare una in- formatizzazione dei dati utilizzando uno dei primi data base “relazionali” che comparivano sul mercato. Il risultato fu di notevole impatto anche perché uti- lizzava un’interfaccia grafi ca gradevole e moderna. Questo tipo di informatiz- zazione permise di rendere facilmente accessibile la grande mole di dati fi no ad ora raccolti. Questo sbocco del progetto, in passato teorizzato, ma solo ora reso concreto, permetteva di aprire nuove prospettive e soprattutto creava un archivio che non era confi nato agli armadi e ad una consultazione accessi- bile solo agli studiosi ed agli specialisti. Si provvide successivamente ad orga- nizzare meglio i dati e a dare un’impostazione maggiormente professionale al prodotto realizzando un Compact Disk che disponeva di tutti i dati censiti fi no al 1997. Con il completarsi del censimento e della catalogazione dei beni su tutti i Comuni del territorio della Comunità Montana si è sentita la necessità di creare un nuovo prodotto informatico che recepisse il contributo dei nuovi rilievi e nel contempo fosse aggiornato con l’evoluzione tecnologica. Il completamento del censimento e la realizzazione di questa pubblica- zione non sono certo considerati dei punti d’arrivo ma solo uno dei traguardi raggiunti dalla Comunità Montana nell’ambito dei programmi di salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali. E’ già in programma, per le necessità di revisione e di aggiornamento dell’intero data-base, una ricognizione di tutte le schede censite, affi dando a singoli esperti dei vari settori il compito di provvedere alla verifi ca e alla loro armonizzazione. Questo impegno ha già trovato un primo banco di verifi ca proprio nella stesura del presente volume. A ciò si aggiunge l’esigenza di operare un raccordo con gli altri Enti che svolgono attività di catalogazione

12 sul territorio e, in primo luogo, con la Soprintendenza, la Regione Lombardia e la Provincia di Sondrio. Inoltre, reputiamo importante, anzi centrale, porre i dati informatizzati sulla rete. E’ un modo per valorizzare i beni culturali e rendere questo archi- vio un utile strumento a servizio di tutti i cittadini. La nostra speranza è che questa banca dati divenga un punto di condensazione del sapere, degli ap- profondimenti, degli studi e dei progetti che verranno realizzati per passione o per lavoro.

Il Servizio Cultura

Elena Castellini Giampaolo Palmieri

Un grazie particolare alla Società Compagnia Generale Ripreseaeree per la collaborazione dimostrata.

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GLI INSEDIAMENTI RURALI COME ELEMENTI DELLA CO- STRUZIONE DEL TERRITORIO

Egidio Gugiatti

Il paesaggio della provincia di Sondrio, nella sua confi gurazione attuale, è il risultato di un millenario processo di trasformazione e domesticazione del diffi cile e spesso estremo ambiente naturale alpino, processo non sempre lineare e continuo, talvolta scosso da forti accelerazioni e brusche inversioni di tendenza. Gli archivi dei comuni della bassa Valtellina ci restituiscono, per il IX secolo, l’immagine di un uso non specializzato del territorio, sul quale, al- l’interno dei complessi patrimoniali, si alternano vite, campi, prati da sfalcio, maggenghi e pascoli d’alpe, boschi, selve, castagneti, diritti sui beni comuni. Una policoltura quindi, orientata a soddisfare i bisogni con le risorse locali. Questa organizzazione sembra comunque lasciare allo stato naturale molte zone, specialmente nella media e alta valle. Nel 1055 ad esempio i monaci dell’ospizio di S. Remigio (Villa di Tirano) possono mettere a coltura molte terre “novali”, non solo nel fondovalle, ma anche sulle pendici rivolte a sud del versante retico. Siamo in presenza di un “paesaggio disgregato” (E.Sereni, 1955) nel quale l’insediamento è concentrato in piccoli nuclei di scarsa consi- Comune di Torre Santa Maria, con- stenza, intercalati spesso ai coltivi, con rari edifi ci isolati. Nella seconda metà trada Melirolo: del 1800 i catasti comunali e le numerose indagini statistiche ci restituiscono, L’edifi cazione ser- rata segna il pro- a più di 800 anni di distanza, una situazione ancora in evoluzione nella quale, prio limite e dialoga ad esempio, il fondovalle si presenta in parte paludoso ed inospitale. Questo con l’intorno (Foto n°1) lungo processo avrà, almeno fi no alle grandi trasformazioni sociali degli anni

15 A sinistra, Comune di Castione Andevenno, località Cà Barboni inferiore: Nucleo rurale ancora in parte stabilmente abitato; sono leggibili i segni degli interventi di manutenzione più recenti. (Foto n°2)

‘50/60, proprio nel nucleo rurale, inteso come avamposto della colonizzazione ed elemento anche simbolico della presa di possesso dell’ambiente, il caratte- re di maggior forza e persistenza. (foto n°1) Ci troviamo, quindi, dinnanzi a forme insediative solo in alcuni casi da- tabili con precisione, quasi del tutto prive di caratteri compositivi mutuati dall’architettura colta, prodotte in buona misura dagli stessi utenti e sicura- mente soggette ad un continuo lavorio di manutenzione, aggiustamenti, am- pliamenti (foto n°2). Di fronte a queste caratteristiche appare molto diffi cile ogni tipo di approccio che non si ponga come obiettivo principale quello di orientare il lettore, aiutandolo nel tessere all’interno dell’eterogeneo insieme dei nuclei rurali della Comunità Montana Valtellina di Sondrio un sottile fi lo rosso di comprensione. Senza rischiare di cadere in un’eccessiva semplifi cazione, si può ipo- tizzare che le prime e più signifi cative spinte alla costruzione del paesaggio valtellinese siano da collegare all’introduzione dell’allevamento bovino e alla pratica dell’alpeggio. Le caratteristiche della mandria, che non ha le stesse capacità di mobilità e autonomia del gregge, unita sia a condizioni ambientali: la particolare orografi a e le condizioni del fondovalle scarsamente utilizzabile, sia a condizionamenti culturali, favoriscono il prevalere di una tipologia inse- A destra, Comune di diativa organizzata su terrazze altimetriche e climatiche, dove i nuclei rurali Berbenno di consentono alla comunità di distribuirsi e muoversi su tutto il versante, e non Valtellina, località Maroggia: Esempio raramente anche nelle valli limitrofe. Il sistema di antropizzazione si struttura, di insediamento quindi, tra nuclei principali, maggenghi (con molta probabilità antichi pascoli sulla fascia dei terrazzamenti vitati di mezzo) e stazioni d’alpeggio in quota. Il modello prevalente è quindi quello del versante retico. che preferisce la mobilità del bestiame, alla base dell’insediamento decentra- (Foto n°3)

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Comune di Castello to, piuttosto che il trasporto di foraggio e letame, all’origine dell’insediamento dell’Acqua, località centralizzato. (D. GIOVANOLI, IN D. BENETTI, S. LANGÈ, 1996) Tizzone basso: In quest’area del L’assetto delle comunità rurali, fondate quasi unicamente su agricoltura versanto orobico di sussistenza e allevamento bovino, organizzate in una rete coordinata di si trova spesso nella casa unitaria insediamenti stabili, subisce un signifi cativo aumento di complessità con lo un particolare sviluppo della viticoltura. impiego del legno Senza addentrarci nella irrisolta questione dell’origine della coltivazione per le strutture orizzontali. nelle valli dell’Adda e della Mera, si può affermare con certezza che la presen- (Foto n°4) za del vigneto nella media Valtellina è consolidata già nel XII secolo. Nel 1531 la superfi cie vitata è di circa 3000 ettari, pari al doppio di quella attuale, il set-

tore vitivinicolo costituisce circa 1/3 dell’intera economia provinciale. (D. ZOIA, 2004) Questo fenomeno ha notevoli ripercussioni anche a livello insediativo, in particolare nell’area di indagine, dove il vigneto arriva ad espandersi su tutti i terreni ritenuti minimamente idonei. Possibilità di conservazione, relativa facilità di trasporto e richiesta del mercato sono le chiavi del successo del prodotto. Il coltivatore dispone di una risorsa preziosa che, pur con le forti limitazioni esercitate dal regime della proprietà e dai controlli sui processi di trasformazione, permette un sensibile miglioramento delle condizioni di vita. L’alta intensità di lavorazione richiesta dalla vite, spesso abbinata ad altre colture, e la necessità di ridurre il consumo di aree vocate, favoriscono la dispersione degli insediamenti sul territorio e il loro connotarsi con forma compatta. Al loro interno si trovano spesso attrezzature di uso collettivo per la trasformazione dell’uva e le cantine situate ai piani interrati delle abitazioni (foto n°3). Altre colture hanno inoltre contribuito al consolidarsi del paesaggio valtellinese. Patate e grano saraceno, resistenti ai climi freddi, hanno reso possibile l’abitare stabilmente a quote elevate. La produzione di castagne, specialmente sul versante orobico, è tanto importante da determinare l’or- ganizzazione spaziale della dimora rurale (Arigna). Altrove, come a Cevo in Valmasino, si arriva addirittura alla costruzione di appositi fabbricati: i “gràt” o “gré.

L’elemento alla base del nucleo rurale è la casa unitaria (F.DEMATTEIS, 1987), che racchiude sotto lo stesso tetto residenza e rustico: stalla, fi enile, essiccatoi, cantina ecc.. (foto n°4) Questa cellula insediativa può distribuirsi Pagine seguenti, sul territorio con differenti modalità: da costruzione isolata e autonoma come Comune di nel maso alpino, a insieme compatto, nel quale la singola dimora può apparire Montagna in Valtellina, contrada addirittura priva di carattere compiuto. Insediamenti sparsi, del primo tipo, si S.Maria: Il possono trovare per esempio in Valchiavenna, a Livigno, in Valfurva, mentre, percorso interno al nucleo organizza all’interno della Comunità Montana di Sondrio, prevale la seconda tipologia. e distribuisce gli Questa è defi nita di tipo aperto, nel quale cioè la costruzione unitaria coin- accessi ai singoli volge lo spazio collettivo circostante con porticati, balconi, logge, scale, pas- edifi ci. (Foto n°5) saggi coperti ecc.. L’integrazione tra privato e collettivo, interno ed esterno

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contribuisce in maniera determinante allo sviluppo del senso di appartenenza Comune di Faedo alla comunità (foto n°5). Valtellino, località Gaggi: Pietra e Per quanto riguarda l’uso dei materiali, Valtellina e Valchiavenna si col- legno applicate ad locano sulla fascia di separazione tra “l’area del legno”, di infl uenza germani- un preciso impianto urbanistico, ca, e “l’area della pietra”, di infl uenza neo-latina.(N.T UBI, M.P. SILVA, 2003) un’esempio di Nella zona d’indagine appare netta la prevalenza della pietra, con modernità. l’impiego del legno limitato alle strutture orizzontali e di copertura (foto n°6). (Foto n°6) Non mancano, specialmente nelle valli laterali e alle quote più elevate, signi- fi cativi esempi di uso combinato di entrambe le tecnologie. La disponibilità in loco e la perfetta conoscenza delle proprietà specifi che del materiale impiegato sono sicuramente alla base delle scelte costruttive.

22 La pietra, se escludiamo le aree interessate da una storica attività estrattiva, solo raramente è utilizzata in grandi blocchi posati a secco, mentre è più diffu- so l’impiego in pezzature medio-piccole. Queste, ricavate spesso anche dalla bonifi ca dei campi, sono facilmente maneggiabili anche da singoli costruttori, Pagine seguenti, e vengono legate, dove questa è disponibile, con malta di calce. Tessiture Comune di Caiolo, località Cà Rosse: murarie con elementi lapidei di grandi dimensioni si trovano invece nelle Logica insediativa e opere di costruzione del paesaggio agrario e nella fi tta rete dei collegamenti, razionalità costrut- tiva fi nalizzate evidentemente risultato di varie forme di lavoro a partecipazione collettiva. all’utilizzazione Al di là delle generali categorie interpretative alle quali si è accenna- delle risorse del to, appare evidente l’impossibilità di ridurre l’eterogeneo insieme dei nuclei fondovalle. (Foto n°7) rurali a semplici schematizzazioni, che lascino in qualche modo intravedere

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un’ipotetica e unitaria “tipologia alpina locale”. E’ senz’altro più utile cercare di riannodare le trame del discorso attraverso brevi esempi. Gli insediamenti maggiori si attestano sulle prime terrazze dei versanti e sui conoidi principali. Il carattere compatto dei centri di più antica formazione si frastaglia in un’articolata rete di “paesi-contrada”, (E.BERTOLINA, G.BETTINI,

I. FASSIN, 1979) che spesso meglio conservano la connotazione architettonica originale. Qui la casa unitaria, nella sua forma più compiuta e curata, origina Pagine seguenti: addensamenti urbanisticamente funzionali e coerenti con le attività agricole prevalenti. A questi, normalmente disposti lungo le curve di livello, si colle- Comune di Torre Santa gano talvolta piccoli nuclei di fabbricati esclusivamente rustici (stalle-fi enili), Maria, contrada collocati anche sul fondovalle (foto n°7). Ad una quota più elevata il maggen- Cagnoletti: La veduta aerea go tende a riprodurre, in scala minore, le caratteristiche del centro principale, sottolinea anche se la dimora appare spesso più modesta e, a volte, isolata (foto n°8). l’impianto Spesso la rottura dello schema che dispone residenza e rustico sotto lo insediativo e la relazione tra stesso tetto origina tipologie ulteriormente diversifi cate. In Valmalenco si tro- residenze e chiesa. vano insediamenti nei quali l’abitazione (“cà”) è separata dalla stalla-fi enile (Foto n°9) (“masün”). A Savogno, in val Bregaglia, il nucleo composto da stalle-fi enili è Di seguito, collocato a monte, distanziato dalle case. Comune di Postalesio, Alpe Nella stessa area geografi ca si possono trovare soluzioni molto diffe- Colina: Nel tessuto renziate. Sempre in Valmalenco, contrade addensate intorno ad un nucleo di storico dell’alpeggio si colgono gli indizi riferimento, (foto n°9) piazzetta, chiesa o fontana (Zarri, Marveggia), si con- del riuso moderno. frontano con l’originale disposizione “a cascata” di Scilironi (Spriana), che si (Foto n°10) sviluppa lungo la linea di massima pendenza.

26 Anche la colonizzazione dei pascoli d’alpe è contrassegnata da numerose Comune di variabili, non solo ambientali. Per quanto riguarda l’uso dei materiali, pietra Montagna in e legno, si combinano in molte forme, forse più che altrove dettate dalla di- Valtellina, località S.Giovanni: sponibilità dei materiali. Si passa dall’impiego esclusivo della pietra, emble- Maggengo del matiche in val di Togno le strutture con copertura lapidea a pseudo-cupola, versante retico, i campi che a soluzioni miste. Non sembrano comunque esserci costruzioni interamente circondavano in legno, peraltro presenti in altre zone ( per es. Livigno, Valfurva). L’uso l’edifi cato si sono individuale piuttosto che collettivo del pascolo condiziona le modalità inse- trasformati in prati e boschi. diative dei fabbricati. Nel primo caso questi possono presentarsi numerosi e (Foto n°8) relativamente sparsi, come in Alpe Colina (Postalesio), dove troviamo circa 30 ricoveri pressoché uguali (Foto n°10). Nel secondo invece pochi edifi ci di maggior dimensione attrezzano le principali stazioni di monticazione, i pa- scoli più ridotti e lontani sono forniti di minuscoli rifugi per il pastore. Una grande varietà di soluzioni contraddistingue la presa di possesso dell’ambiente naturale da parte delle comunità rurali. Queste si sedimentano per stratifi cazioni successive, nelle quali è comunque possibile riconoscere degli aspetti di continuità, che costituiscono il carattere più autentico del nu- cleo rurale. La localizzazione dell’insediamento non è mai casuale, ma sempre tesa alla salvaguardia dell’elemento territoriale e all’ottimizzazione dei fattori climatici, ambientali, orografi ci. L’edifi cato non si limita a fornire risposte ra- zionali alle esigenze abitative, ma riesce a radunare ed enfatizzare lo spirito del luogo. Il risultato sono un’urbanistica e un’architettura “senza tempo”,

(E. BERTOLINA, G. BETTINI, I.FASSIN, 1979) ma di straordinaria modernità. Questi sono gli aspetti che, più di altri, dovranno guidare tutte le rifl essioni sul futuro di questo patrimonio.

BIBLIOGRAFIA

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E. SERENI, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955.

F. SÜSS, Architettura contadina in Valtellina, Milano 1981.

N. TUBI, M.P. SILVA, Gli edifi ci in pietra, Napoli 2003.

D. ZOIA, Vite e vino in Valtellina e Valchiavenna, la risorsa di una valle alpina, Sondrio 2004.

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CASA DEL DIO, CASA DELL’UOMO

Mario Giovanni Simonelli

La Valtellina è costellata di numerosi sacri edifi ci: edicole immerse nel- l’esuberanza della natura, chiesette abbarbicate sulle alture, templi avvinti alle abitazioni e taumaturgici santuari. A sinistra, L’iniziativa di edifi care un luogo di culto si fa risalire, nella letteratura Chiesa di San Salvatore (Val sapienziale arcaica, direttamente a un nume tutelare. La fondazione è solen- Livrio, Albosaggia) nizzata con riti suggestivi che hanno l’intento di delimitare lo spazio profano – Tempio protocristiano e di sottrarlo all’uso mondano. Sono numerosi i sacri recinti preistorici giunti che, secondo F. S. fi no a noi1. Il cristianesimo primitivo assimila l’antica consuetudine della con- Quadrio, esisteva già nel 537 e fu sacrazione di un terreno: la chiesa, il cimitero, l’ossario e la casa parrocchiale, costruito su un infatti, sono solitamente racchiusi in un’area appartata, quasi una città santa luogo di culto romano, sacro agli all’interno di quella secolare. L’uomo, invero, per incontrare il Dio ha bisogno dei Mani. di un luogo particolare – talvolta anche solo psicologico – nel quale percepire

2 Pagine seguenti, lo sprigionarsi dell’energia vitale che asseconda il mistico congiungimento . Chiesa di S.Pietro Sono esigue, purtroppo, in Valtellina le tracce dei recinti cristiani scampati al in Via (Berbenno 3 di Valtellina) - turbine novatore della rivoluzione francese . Antichissima chiesa Alcune chiese disseminate sul territorio della Comunità Montana Val- battesimale che racchiudeva un tellina di Sondrio appaiono modeste, altre sontuose. In talune si percepisce importantissimo persino la presenza - armoniosamente ricapitolata, ancorché non sempre do- documento storico: un’epigrafe cumentabile - delle reliquie cultuali precristiane. paleocristiana risalente con tutta La chiesa plebana di Berbenno, dedicata a San Pietro in Via4, ha origini probabilità, al secolo VI o VII. antichissime e ha subìto numerosi rifacimenti5. Nel 1614 il Vescovo di Como

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mons. Filippo Archinti annota, durante la visita pastorale, che uno dei pochi altari consacrati è «quello in fondo alla chiesa dove c’è l’iscrizione “Qui giace la beata Erundo eccetera” [...]»6. Tarcisio Salice esamina a fondo la questio- ne: «[...] si poteva leggere incisa su una pietra questa iscrizione Hic jacet B[onae] M[emoriae] famula Christi Irondo etc. Si trattava evidentemente di una epigrafe paleocristiana, attribuibile al VI o al VII secolo e pertanto di som- mo interesse non solo per la storia della pieve, ma anche per quella dell’intera regione valligiana; essa, infatti, è l’unica in Valtellina, della cui esistenza si sia trovata memoria. Purtroppo ora, per i ripetuti rialzi del pavimento della chiesa, l’iscrizione non è più visibile[...]»7. Il toponimo Berbenno discende, con tutta probabilità, dal personale romano Berbeno, già nord-etrusco Berbenno8. La presenza romana, ancor- ché circoscritta, è attestata, tra l’altro, dal ritrovamento, avvenuto nel 1950 presso la località La Selva, di un tesoretto composto da 40 monete in bronzo coniate sotto gli imperatori Diocleziano, Massimiliano, Galerio, Massenzio e Costantino. Le zecche di emissioni rivelano con precisione il contesto cronolo- gico che oscilla tra il 294 e il 3129. Si può, quindi, formulare l’ipotesi - teme- raria e tutta da verifi care - che la chiesa di San Pietro in Via sia innalzata su un’area sacra ad un Dio romano protettore dei viandanti e dei mercanti10. Il mistero della fi ammella «vagolante la notte per i verdi prati ed i vigneti aprichi» nelle adiacenze del tempio indica, inoltre, che la località è impregna- ta di antiche leggende11. La fabulazione, anche quando si fonda su elementi razionali, persegue lo scopo di esorcizzare l’ignoto e di sottrarre alla ferialità il tempo e lo spazio12.

Le vicende sottese alla fondazione del tempio di Sant’Antero, eretto in un boschetto sopra Caiolo, sono oscure13. Nessuna guida della Valtellina ne riporta l’ubicazione e la descrizione. Neppure i prelati comaschi e i visitatori apostolici ne fanno cenno negli atti pastorali. Il prevosto di Caiolo riferisce che negli archivi non si conservano documenti14. L’attuale singolare struttura ri- sale, quasi sicuramente, al secolo XVII e presenta un primitivo orientamento rivolto verso il sole nascente del solstizio d’estate15. Si manifesta insolita la dedicazione del tempietto. Sant’Antero eletto papa il 21 novembre del 235, dopo soli 43 giorni di pontifi cato, il 3 gennaio 236, subisce il martirio per ordine dell’imperatore Massimo il Trace. Scarne le altre notizie pervenuteci: di origine greca, soggiorna per alcuni anni a Polica- stro in Calabria e durante la sua missione apostolica si impegna nella ricerca e nella trasmissione degli atti dei martiri. Indizi della sua sepoltura sono rinve- nuti, nel 1854, presso le catacombe di san Callisto. A Caiolo - ancorché borgo ragguardevole - chi e per quale ragione può essere rimasto affascinato da un santo papa greco, pressoché sconosciuto, vissuto nel III secolo?16. La domanda, in mancanza di testimonianze storiche, per il momento rimane senza risposta. Uno degli altari laterali della chiesetta, tuttavia, è

36 Chiesa di dedicato a san Luigi Gonzaga. Tarda attestazione che nel boschetto si invoca Sant’Antero la protezione del santo della purezza per contrastare possibili manifestazio- (Caiolo) – La settecentesca ni erotiche, favorite dal luogo ameno e isolato. Forse sant’Antero subentra, struttura come fuoco d’amore purifi catore, al Dio romano Antéro17. Lasciamo, ad ogni architettonica edifi cata su modo, che il mistero continui ad avvolgere l’inquietante luco di Caiolo. probabili fondazioni pre-cristiane. L’antichissima chiesa titolata a San Salvatore, pertinente alla parrocchia di Albosaggia, è così descritta da Feliciano Ninguarda: «Sulla montagna a tre miglia dalla parrocchia, vi è la chiesa di San Salvatore in cui si seppelliscono i morti della Valle Mala»18. Quasi due secoli dopo il Quadrio completa: «A tali Iddii [gli dei Mani] erano in ispezieltà i loro Sepolcri dalla Antichità intitola-

Pagine seguenti, ti[...]. Ora che queste Deità fossero nella Rezia Cisalpina ancor venerate, Chiesa di San dubbio alcuno non ve ne lascia la Valle, che tuttavia de’ Mani è appellata; co- Bernardo (Faedo munque corrottamente in oggi da que’ Paesani Val Mane si nomini. Ivi erano Valtellino) – Accanto alla per avventura diversi Sepolcri altresì: poichè indi non lungi antichissima Chie- chiesa il «crap sa, benchè rifatta, tuttavia sussiste, che da’ primi Secoli della Chiesa esser del diàul»: una leggenda popolare ivi dovette fondata, dove Cimitero pur era; nella quale dovette qualche Ara a’ ripropone, con detti Dei Mani eretta esser da’ primi Predicatori della Cristiana Religione tra- ingenua incisività, sformata; santifi cando quel Luogo, che prima serviva alle idolatriche vanità, e la lotta tra la luce e le tenebre. a’ sepolcri de’ lor Maggiori, con convertirlo cattolicamente ad uso de’ Fedeli di

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Cristo»19. L’abate, inoltre, precisa che una testimonianza epigrafi ca fa risalire la fondazione della chiesa all’anno 53720. Con tutta probabilità, quindi, l’ori- ginario edifi cio cristiano di San Salvatore – come conferma anche la vetusta dedicazione - è germinato da un contesto cultuale pagano21. Non mancano suggestive leggende a rafforzare il convincimento22.

L’antica chiesa parrocchiale di Faedo, dedicata a San Bernardo, sembra anch’essa, in qualche modo, poggiare su fondamenta arcaiche. È innalzata, infatti, accanto al «crap del diàul». Singolare una leggenda, tramandata in di- verse versioni. Si racconta che «in quel tempo» mentre san Bernardo risaliva la Val Venina per portare la luce della fede su quelle balze, incappava in un furioso temporale. Il monaco trovava riparo sotto un grosso masso erratico. D’improvviso una risata beffarda lo faceva trasalire: era il demonio che riven- dicava la signoria sul territorio. San Bernardo, per tutta risposta, intrecciava una croce con alcuni rami. Il diavolo, furibondo per la provocazione, scagliava il macigno in un pianoro. Il santo con la croce innalzata e benedicente, senza perdersi d’animo, metteva in fuga il demonio. Il principe delle tenebre, prima di andarsene, sferrava un formidabile pugno sul blocco roccioso e vomitava dalla bocca, rabbiosamente, espressioni scurrili. Il masso si squarciava nella parte sommitale e dava la stura a fetide esalazioni di zolfo e di sterco. Sul «crap del diàul», ancor oggi durante le sagre, mani inconsapevoli si insinuano nella fenditura demoniaca23. Per ricordare l’avvenimento il popolo di Faedo erigeva la chiesa che ancor oggi ammiriamo. Racconti simili che mettono in contrapposizione il diavolo e i santi, le tenebre e la luce, il male e il bene si rintracciano in numerose località alpine24.

Testimonianze pagane che si innestano su quelle cristiane sono, inoltre, nitidamente documentate in tutta la Valtellina. Soffermiamoci a considerare, per lo più, il territorio oggetto dei rilevamenti. A Torre Santa Maria, presso la località Ca’ Bianchi, un’edicola, fronteggia una lastra litica incisa con una trentina di coppelle25. Così pure nel territorio di Teglio, in prossimità del Dos de la Forca meri- dionale, una piccola cappella26 è situata a margine dell’antica via Valeriana27. L’arcaico itinere, incavato nella roccia, è ricco di numerose incisioni a coppel- la, a polissoir e a forma di φ (ovvero fi morfoidi)28. Il frammento stelico di Chiuro, rinvenuto il 16 maggio 1986, era parte integrante di una «santela» diroccata29. L’anonimo oratorio del XVII secolo che si staglia sul culmine della rocca di Tresivio, denominata Calvario, è radicato in un sito denso di testimonianze preistoriche e romane 30. Ancora a Tresivio sul dosso Tronchedo - spianato nel 1701 – si rintracciano, quasi in sequenza stratigrafi ca: reperti risalenti all’età del Rame, del Bronzo, del Ferro e della Romanità, una baxilica dedicata a Santa Maria - documentata già nel 109431 - , il primo tempietto innalzato nel

40 1646 in onore della Madonna di Loreto e l’attuale Santa Casa edificata in suc- cessivi periodi32. Il santuario lauretano, quindi, si affaccia sul colle come una imponente matrioska che custodisce nel grembo i semi vitali dei culti pagani, protocristiani e medievali33. Ciò significa, tra l’altro, che il potere evocativo delle antiche liturgie - interdette con l’avvento del Cristianesimo - non si dis- solve facilmente nella memoria collettiva.

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La storia della Valtellina è complessa e intricata: dopo la romanizza- zione, l’influsso bizantino, longobardo e franco (secoli VI – VIII), l’impero

Il Calvario e il carolingio attecchisce nel refrattario terreno sociale della Valle e introduce le Dosso Tronchedo prime istituzioni amministrative. Nel frattempo il cristianesimo si espande an- (Tresivio) – Siti 34 con testimonianze che nel contado e si organizza su principi gerarchici . Siamo oramai al declino antropiche databili del Medioevo35. almeno dall’età del Rame. Il Le chiese censite, con competenza e puntualità, dai ricercatori della Co- santuario lauretano munità Montana Valtellina di Sondrio risalgono, nella configurazione attuale, custodisce in sé tracce di sacri per lo più al Medioevo e al Rinascimento. edifici medievali Il declino del Medioevo è connotato da una condizione economica e so- che poggiano sulla feconda area ciale di grave depressione. Le epidemie ricorrenti falcidiano i più deboli e il archeologica. continuo ricorso alle armi per ottenere giustizia contro i soprusi, aggrava la situazione. Dal punto di vista religioso si riscontra, verso la fi ne del XV secolo, un diffuso decadimento: numerosi preti vivono in condizione di concubinato36 e praticano l’usura. La clericalizzazione dei riti non favorisce il coinvolgimento dei fedeli nelle azioni liturgiche e il popolo, conseguentemente, si discosta dai sacramenti37. Nei secoli XVI e XVII, al contrario, in tutto l’arco alpino è documenta- to un risveglio religioso che è intercettato e organicamente intensifi cato dal Concilio di Trento. Nonostante le pestilenze – sono tristemente note quelle del 1576, del 1630 e del 166538 -, il perdurante ricorso alle armi, il forte contrasto sociale e religioso con l’occupante grigione39 e le nefaste azioni di rifeudaliz- zazione, in molti borghi della Valtellina si pongono le fondamenta di nuove chiese e si restaurano quelle diroccate. Malgrado le diffi coltà, questo periodo è contrassegnato da un vigoroso incremento demografi co e da uno slancio di fede favoriti, verosimilmente, dal desiderio di ricomporre un’identità sociale frantumata e minacciata. Sono gli ordini religiosi – specialmente i cappuccini, i domenicani e i gesuiti –, i facoltosi committenti locali e le confraternite che sostengono gli onerosi progetti. La gente contribuisce materialmente all’edifi - cazione dei luoghi di culto sotto la direzione dei mastri costruttori. Il popolo valtellinese, dalla fi ne del secolo XVI a tutto il XVII, si dedica, anche per spirito di emulazione, ad aprire sacri cantieri: «Risulta quindi ab- bastanza chiaramente che in un’epoca ben individuabile si pensò al sistema di edifi ci religiosi valtellinesi come a uno scenario che accompagnasse in modo continuo chi la percorreva e nello stesso tempo si ponesse come un sistema di riferimento importante, quasi come scena stabile per la vita quotidiana dei residenti, secondo un programma di sacralizzazione globale del territorio»40. Il fervore costruttivo richiede, tuttavia, specifi che direttive. Nel dicembre del 1563 i padri conciliari, convocati a Trento, emanano nella XXV sessione un decreto che prescrive di accentuare gli aspetti didattici nelle sacre espressio- ni artistiche41. Il documento, inoltre, suggerisce e impone la realizzazione di manufatti che siano pedagogicamente effi caci oltre che pregevoli nella forma. Il vero e il bello devono, quindi, coesistere e anzi fondersi nell’opera. I Vescovi, rientrati nelle loro diocesi, attuano le indicazioni tridentine con apposite istruzioni. La più celebre è quella redatta da san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, titolata Instructionum fabricæ et supellectilis ecclesia- Chiesa di San Pietro sticæ. Libri Duo. Le disposizioni contenute nel trattato diventano leggi eccle- martire (parrocchia siastiche, tramite i Vescovi locali, per buona parte dell’Italia settentrionale. di Boffetto, Gli atti visitali del XVII e del XVIII secolo riguardanti la Valtellina fanno tra- Piateda) – Chiesa di origine medievale, sparire, nei questionari e nelle puntuali interrogazioni dei sacerdoti, l’impron- recentemente ta riformatrice del Borromeo. restaurata: il suggestivo Nelle circostanziate relazioni stilate dagli scribi curiali sono molteplici campanile le raccomandazioni e gli ordini impartiti ai parroci per adeguare le chiese, le riedifi cato su una diroccata torre di cappelle e gli oratori alla decorosa celebrazione dei sacri misteri. L’Eucaristia vedetta sul fi ume e il culto eucaristico occupano un posto di tutto rilievo. Meticolose le indica- Adda.

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zioni per l’erezione dell’altare maggiore: «[...] potrà essere posizionato in un luogo della sua cappella tale che, dal gradino più basso dell’altare stesso ai cancelli che la delimitano, vi sia uno spazio di otto cubiti [...]42. La mensa per il sacrifi cio - non più rivolta verso il popolo - è disposta in modo da essere ben visibile dai fedeli e, quindi, sopraelevata per mezzo di predelle. Il tabernacolo – si consiglia fastoso - è innalzato sopra l’altare e diventa il punto focale del tempio. L’arca custodisce, giorno e notte, le specie eucaristiche. Si sottolinea così – in radicale contrasto con la dottrina riformata o protestante - la presen- za reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati43. Una o più lampade pensili ardono perennemente davanti al SS. Sacramento. Le frequenti ispezioni nelle chiese della Valle sono molto rigorose nel rilevare l’inosservanza delle minu- ziose direttive. L’edifi cio, in questo periodo, è realizzato ispirandosi, prevalentemente, a due moduli. Il presbiterio giustapposto: è il luogo, separato dall’aula-sala, dove si celebrano i sacramenti. È il caso dell’ossario di San Martino a Castione Andevenno, della chiesa di San Giovanni Battista a Lanzada e di San Giorgio a Montagna. Il presbiterio integrato, invece, si evidenzia come un prolun- gamento dell’aula, pur in presenza di lesene o di pilastri e di un modesto innalzamento del pavimento. Modello costruttivo, quest’ultimo, palese nel santuario di San Luigi Gonzaga a Sazzo44, voluto dai gesuiti, e nella chiesa di San Carlo a Chiuro45. È il trionfo del barocco46.

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Nel complesso del sacro edifi cio il campanile si eleva affi ancato o inglo- bato nel tempio e diffonde nel villaggio la voce di Dio. La torre campanaria svetta verso l’alto, la guglia punta verso il cielo e canalizza sulla terra la gra- zia divina. Simbolo ascensionale, quindi, e medium della comunicazione tra l’uomo e il Dio47. La sua edifi cazione, tuttavia, non sempre poggia su fondazione pacifi ca. Antiche torri difensive e offensive, opportunamente modifi cate, non di rado sono convertite in campanili. Così è accaduto, ad esempio, nelle chiese di S. Rocco a Ponte in Valtellina e di S. Pietro martire a Boffetto48. Il suono delle campane è anche voce dell’uomo e scandisce i ritmi della vita quotidiana. Squillano i bronzi per risvegliare il villaggio, per convocare Edicola di alla preghiera, per ordinare la pausa dal lavoro, per annunciare un evento fe- Ca’ Bianchi (Torre lice, un pericolo, un lutto, per scongiurare la grandine e, infi ne, per dichiarare di Santa Maria) – Culti cristiani e culti conclusa la giornata. arcaici affi ancati Risale all’antichità l’usanza di benedire le campane, cioè di collocarle nella piazzetta. In primo piano il nell’ambito del sacro e dell’allegoria, accrescendo la loro potenzialità sopran- masso levigato naturale49. Il simbolismo della campana non è, tuttavia, patrimonio esclusivo che porta inciso del cristianesimo. In India il rintocco propaga la ripercussione della vibrazio- una trentina di coppelle. ne primordiale. Nell’Islam richiama la rivelazione coranica, evoca la potenza

45 divina e dissolve la fragilità della condizione umana. In Cina lo scampanare assume una connotazione regale e raffigura l’armonica fusione dei principi universali. Una rappresentazione peculiare è insita nella campanella tibetana, la tilpu: il tintinnare riproduce il mondo dell’apparenza che si dilegua come un’eco sfumata. Nell’interpretazione teosofica, infine, il batacchio della cam- pana adombra gli esseri animati sospesi tra terra e cielo, anelanti al ricon- giungimento con il Tutto50.

Le architetture sacre sparse qua e là per il nostro territorio sono dunque Chiesa di Sant’Agostino casa del Dio: nell’intimità la divinità si rivela con potenza e con tenerezza51. (Cedrasco)– Il luogo di culto, nello stesso tempo, si manifesta come casa dell’uomo. La Edificio rinascimentale creatura, infatti, nel sacro recinto percorre le tappe più significative della sua incastonato nel storia: la nascita, la maturità, le scelte di vita e la morte. Memoriali e riti che centro storico. immergono l’essere nell’Essere. NOTE

1 M. ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Torino 1981, 380-398. Per quanto riguarda la Valtellina, accenni di un cromlech, ovvero circolo di pietre,

ad Albosaggia, in R. SERTOLI SALIS, Presentazione a E. ANATI, Arte preistorica in Valtellina, Sondrio 1967, 9.

2 E. ZOLLA, Il dio dell’ebbrezza, Torino 1988, V–CVIII.

3 S. LANGÉ, G. PACCIAROTTI, Barocco alpino. Arte e architettura religiosa del Seicento: spazio e fi guratività, Milano 1994, 49: si illustra come esempi di recinti sacri quelli di Albosaggia e di Caspano. In un altro saggio l’autore cita anche la «Chiesa di San Giacomo di Roncaglia di Civo, che conserva intatto

tutto il sistema del “sacro recinto”» e quella di Pendolasco: S. LANGÈ, L’imma- gine del territorio, in Sondrio e il suo territorio, Milano 2001, 176. 4 In alcuni antichi documenti la chiesa risulta dedicata ai Santi Pietro e Paolo in Via. 5 F. S. QUADRIO, Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua delle Alpi oggi detta Valtellina, Milano 1755, II, 536- 537. La costruzione risalireb- be a prima dell’anno mille secondo F. NINGUARDA, La Valtellina negli atti della visita pastorale diocesana, Sondrio 1963, 63. 6 F. ARCHINTI, VESCOVO DI COMO (1595-1621), Visita pastorale alla diocesi, in Archivio storico della diocesi di Como, 6 (1995), 531. Vedi anche gli atti del vescovo Sisto Carcano redatti durante la visita compiuta in Valtellina nel 1624. 7 T. SALICE, Il San Pietro di Berbenno Valtellina e il suo costruttore, in Bol- lettino della Società Storica Valtellinese, 30 (1977), 62. Si consulti parimenti San Pietro di Berbenno. Chiesa di San Pietro, in F. BORMETTI, M. SASSELLA (a cura di), Chiese torri castelli palazzi. I 62 monumenti della Legge Valtellina, Sondrio 2000, 38–41. Vedi anche il documentato e fondamentale studio C.

SCAMOZZI, La pieve di Berbenno e le sue chiese, Sondrio 1994, 105-117.

8 G. R. ORSINI, Toponomastica lariana e valtellinese, in Rivista archeologica

della provincia di Como, 115 (1937), 197; R. SERTOLI SALIS, I principali topo-

nomi in Valtellina e Val Chiavenna, Milano 1955, 22; D. OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 19612, 80

9 G. MUFFATTI MUSSELLI, Rinvenimenti archeologici nelle valli dell’Adda e della Mera, Sondrio 1985, 46-49.

10 Auterovole la tesi sostenuta e documentata da G. CORADAZZI, La pieve, Pagine seguenti, Travagliato (BS) 1980, 41: «Non solo è verosimile ma certo, in seguito alle Chiesa di San esplorazioni archeologiche, che molte di queste chiese battesimali, almeno Matteo (Fusine, Valmadre): fra quelle più antiche [...] abbiano sostituito in più di un caso nel vicus più Complesso importante [...] o nei punti nevralgici della viabilità (incroci stradali, ponti, medievale che evidenzia un sacro fora, dove si svolgevano mercati e cerimonie religiose) [...] il tempio pagano recinto arcaico stesso che non mancava mai in questi luoghi, (il cosidetto compitum o fanum) composto da tempio, cimitero e servito da sacerdoti addetti al culto imperiale o a quello della religione locale- pertinenze. agreste [...]».

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11 A. GIUSSANI, Berbenno di Valtellina e la sua basilica, in Rivista archeolo- gica della provincia di Como, 82–83-84 (1922), 173-179.

12 GIUSSANI, 1922, 174-179, riporta le ipotesi formulate sulla comparsa, nella notte, di una misteriosa fi ammella che appare a circa 700 metri di di- stanza dalla casa parrocchiale, attraversa la contrada Dusone, raggiunge la strada che conduce a Polaggia e presso il crocicchio assume la forma di nuvo- letta. Penetra, quindi, nella vigna Dea antistante la Chiesa di San Pietro in Via e talora si estingue sul sacro edifi cio; altre volte percorre a ritroso l’itinerario in forma di striscia luminosa. Mons. Carlo Fabiani nel 1897 elabora un tenta- tivo di spiegazione scientifi ca del fenomeno; il prof. Antonio Schlachter, nel 1902, al contrario afferma: «Per conclusione mi sia lecito esporre un’ipotesi che non venne fi nora considerata. Non si potrebbe spiegare animisticamente questo fenomeno, ove fallissero tutti gli altri modi di spiegazione più semplici? Se il signor Francesco Kaiber nel n. 9 dell’annata 1901 cita l’ipotesi spiritisti- ca, non si dovrebbe dapprima prendere in considerazione l’animismo, che si trova alquanto più da vicino?». Si consulti anche La «misteriosa fi ammella» di Berbenno, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 27 (1974), 48–52. 13 AA.VV. Caiolo tra cronaca e storia, Sondrio 1987, 62. 14 Don Renato Longhi mi ha riferito che fi no a pochi anni fa non era certa neppure la dedicazione del tempio alpestre. La gente riferiva «Sant’Autero» oppure «Sant’Altero». Il sacerdote, avvalendosi di un affresco dipinto all’in- gresso della chiesa, ha chiarito, con certezza, la titolazione della chiesetta al papa martire sant’Antero. 15 La generosa comunità di Caiolo ha provveduto, recentemente, ad im- prorogabili restauri conservativi. Nel passato, per altro, l’oratorio è stato og- getto di inqualifi cabili atti vandalici e, come si evinceva dalle moderne iscri- zioni, da torbidi conciliaboli. 16 La ricerca condotta avvalendomi anche di internet permette di determi- nare che sono esigue, in Italia, le comunità parrocchiali titolate a sant’Antero. La città più ragguardevole che si affi da alla protezione del papa martire è Ca- salbuono in provincia di Salerno. Il tre gennaio, festa patronale, sono portate in processione le reliquie del Santo e si svolge una fi era di animali. 17 ’Aντέρως (Àntéros) nella mitologia greca appare come fi glio di Ares e di Afrodite, nonché fratello di Eros. Simboleggia l’amore terreno, l’amore istintivo corrisposto, in contrapposizione ad Eros, Dio dell’Amore celeste. Il suo culto era molto diffuso in Grecia. Dei numerosi templi a lui dedicati non rimangono che poche tracce. Antérus, nella mitologia romana, è tramandato come fi glio di Marte e di Venere, generato per offrire un compagno di giochi al fratello Eros. Gli artisti lo raffi gurano come un putto o un efebo alato che con- tende al fratello un ramo di palma. Così in E. DEL FELICE, Dizionario dei nomi italiani, Milano 1986, 68: «[...] il nome originario è greco Antēròs latinizzato in Antérus (frequente in Roma come nome di schiavi o di liberti), già nome di un dio pederastico fratello di Eros, formato da antí ‘contrapposto, diverso’,

50 e érōs ‘amore’» Si comprende, quindi, come nel contesto culturale greco An- téro simboleggi, in tutte le sue variazioni, l’amore sensuale corrisposto. Per i romani rappresenta, per lo più, il Dio degli amori “particolari”. Per un appro- fondimento: P. GRIMAL, Enciclopedia dei miti, Brescia 1995, 256-259; D. CINTI,

Dizionario mitologico, Milano 1996, 29; G. SECHI MESTICA, Dizionario universale di mitologia, Milano 2003, 19. J. SCHMIDT, Dizionario della mitologia greca e latina, Roma 2003, 30.

18 NINGUARDA, 1963, 84.

19 QUADRIO, 1755,II, 10.

20 QUADRIO, 1755,II, 532-533. 21 I Mani nella credenza romana rappresentano le anime dei defunti. A queste divinità del mondo sotterraneo, per placarne l’ira, si offrono in sacrifi - cio i prodotti della natura (vino, latte, miele, fi ori...). 22 Numerose le leggende e le arcaiche testimonianze riguardanti la chiesa di San Salvatore. Ne riporto, succintamente, alcune. Durante i furiosi tempo- rali o nelle esondazioni dei torrenti i fedeli tracciava segni di croce sul sagrato e gettava manciate di sale alle spalle invocando l’aiuto della divinità. Come noto nell’ossario erano accatastate e conservate con cura reliquie ossee di grandi dimensioni, oggetto di culto. Nell’imminenza di pericoli o di calamità la donna più anziana del borgo - si intuisce che anticamente questo compito era attribuito allo sciamano (che poteva essere anche una donna)- si “introduceva orante nell’ossario e dopo aver afferrato, con timore riverente, un grosso teschio, si dirigeva al vicino torrente per compiere un rito purifi ca- tore. Si racconta, ancora, che il diavolo abbia tentato più volte di svellere la chiesa di San Salvatore e di scagliarla nel fondovalle. Non riuscì mai nell’im- presa per l’intervento divino. Tuttavia, le impronte demoniache sono ancor oggi impresse sul masso collocato accanto al corso d’acqua lustrale. Per una puntuale documentazione: G. B. GIANOLI, La chiesa di S. Salvatore in Val del

Livrio, “Corriere della Valtellina”, 28.11.1959; G. SCHIEGHI, L’antica chiesa di S.

Salvatore in Albosaggia, “Quaderni Valtellinesi”, 22 (1987), 33-35; C. PAGANO-

NI, San Salvatore. Miti, riti, leggenda e storia, “Notiziario della Banca popolare di Sondrio”, 71 (1996), 110-117; D. SOSIO, C. PAGANONI, Albosaggia. Appunti di storia e di arte, vita contadina, tradizioni e leggende, Sondrio 1987, 83-91.

23 A. DE BERNARDI, Il sasso del diavolo, “Alpes Agia”, febbraio-marzo 1985.

A. S. PARUSCIO (a cura di), Inventario dei toponimi valtellinesi e valchiavenna- schi. Territorio comunale di Faedo, 25, Villa di Tirano 2002, 57-58. Un partico- lare ringraziamento per la collaborazione al parroco di Faedo-Busteggia don Livio De Petri.

24 M. G. SIMONELLI, L’arce di Boffalora, in Mons Braulius. Studi storici in me- moria di Albino Garzetti, Sondrio 2000, 291-302; M. G. SIMONELLI, Bronzetto romano rinvenuto in Val Fontana e donato, nel 1884, al Gabinetto Archeo- logico di Sondrio, in Magister et Magistri. Studi storico-artistici in memoria

51 di Battista Leoni, Sondrio 2002, 325-330. Per un approfondimento del feno- meno si rimanda AA.VV. Bestie, Santi, Divinità. Maschere animali dell’Europa tradizionale, Torino 2003.

25 U. SANSONI, S. GAVALDO, C. GASTALDI, Simboli sulla roccia. L’arte rupestre della Valtellina centrale. Dalle armi del Bronzo ai segni cristiani, Capo di Pon- te 1999, 133; 166.Complesso e controverso il signifi cato della coppella. Gli studiosi si orientano, prevalentemente, verso un’interpretazione cultuale op- pure geometrico-topografi ca. Bibliografi a essenziale in F. BUFFONI, E. ZUCCATO, L’arte rupestre del lago Maggiore, Novara 1999, 10-22. Fondamentali i saggi datati, ma ancora attuali, di A. MAGNI, Pietre a scodella, in Rivista archeologica della Provincia e antica Diocesi di Como, 51 (1906), 3-42. A. MAGNI, Il masso con le impronte di piedi umani a Soglio, in Rivista archeologica della Provincia di Como. 86–87 (1924), 3–15. 26 L’edicola è stata recentemente restaurata dall’Istituto Archeologico Valtellinese, grazie anche alla disponibilità del prof. Pierluigi Annibaldi e del geom. Claudio Valli. 27 Gli studiosi non hanno ancora risolto il problema dell’arcaicità della stra- da «Valeriana» o «Valleriana»: strada romana, secondo P. RAJNA, in Bollettino della Società Storica Valtellinese anni I fasc. I (1932), 14; itinere medievale per U. CAVALLARI, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 14 (1960), 25- 28. Sulla questione interviene, tendenzialmente in favore della “romanità” A. SALA, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 56 (2003), pp. 17-20. 28 D. PACE, Nuove acquisizioni antiquarie nel territorio di Teglio. Tellina opuscula 1, Milano 1972, 11-12: tavv. XVI-XXV. M. G. SIMONELLI, in Escursione nell’antichità della Valtellina: da Teglio a Grosio, Villa di Tirano 1985, 111- 113. SANSONI, GAVALDO, GASTALDI, 1999, 33-41. D. PACE. Petroglifi fi morfoidi di Teglio, in Atti del II convegno archeologico provinciale, Sondrio 1999, 75 – 94. 29 F. MONTEFORTE, E. FACCINELLI (a cura di), Chiuro. Territorio, economia e storia di una comunità umana, Sondrio 1989, 39 -40. 30 Il toponimo deriva, secondo alcuni studiosi, dal ligure calv che indica una rupe sporgente. Termine in seguito cristianizzato in riferimento al monte sacro della cristianità: in G. BELLOCCHIO, Preistoria e protostoria della Valtellina, Associazione Archeologica Lombarda, Milano 1982, 45. Opinioni discordanti in R. SERTOLI SALIS, 1955, 31: derivazione medievale dall’omonimo Calvario evangelico; OLIVIERI, 1961, 129: potrebbe, per assonanza con Calvairate, pro- venire dal nome personale romano Calvarius o Calverius. 31 E. BESTA, Le Valli dell’Adda e della Mera nel corso dei secoli,1, Pisa 1940, 117. G. R. ORSINI, Vescovi, Abbazie, Chiese e i loro possessi valtellinesi in Ar- chivio storico lombardo, Serie Ottava-Vol. IX-1959, 37-38. La chiesetta nel 1106 dipende dal monastero di Sant’Abbondio in Como e appare molto ricca di lasciti. Viene ristrutturata nel medievo e attualmente, dopo un crollo e con- seguenti rimaneggiamenti nel XVIII secolo, fa parte della cripta incastonata nella vasta basilica lauretana.

52 32 AA.VV.,Tresivio. Sondrio 1999, 39-42: nel testo si possono sintetica- mente cogliere i molteplici sviluppi successivi delle costruzioni e anche la mutazione di collocazione degli edifi ci sacri.

33 R. POGGIANI KELLER, Valtellina e mondo alpino nella preistoria, Modena

1989, 32-38. SANSONI, GAVALDO, GASTALDI, 1999, 25

34 G. R. ORSINI, Storia di Morbegno (con riferimento ai paesi viciniori e alla

Valtellina), Sondrio 1959, 20–64. E. MAZZALI, G. SPINI, Storia della Valtellina e della Valchiavenna, I, Sondrio 1968, D. BENETTI, M. GUIDETTI, Storia di Valtellina e Valchiavenna. Una introduzione, Milano 1990, 27–58. 35 Naturalmente non si intende riproporre l’asserzione, ormai superata da studi rigorosi, del medioevo come periodo storico buio. Interessante, a que- sto proposito, la tesi di laurea di L. PORTA, Aspetti dell’economia e della società valtellinese fra Tre e Quattrocento: Gaudenzio e Stefano Quadrio. Universi- tà degli studi di Milano. Facoltà di Lettere e Filosofi a, relatore prof. G. SOLDI

RONDININI, anno accademico 1982–1983. Il crepuscolo del medioevo, tuttavia, fa accrescere, soprattutto nelle campagne, le miserabili condizioni di vita del popolo. Per una lettura complessiva e sintetica dell’epoca: AA.VV., Valtellina e Valchiavenna nel Medioevo. Contributi di storia su arte, cultura, società, Sondrio 1993.

36 E. CANOBBIO (a cura di), Visita pastorale di Gerardo Landriani alla diocesi di Como (1444-1445), Abbiategrasso (MI) 2001, segnala numerosi casi di concubinato. Ne riportiamo alcuni: Presbiter Iohannes Franciscus benefi tialis ecclesie de la Fuxinis, Iacobus de Mapello benefi tialis ecclesie de Postalexio, Bernardus de Leucho capelanum in Berbeno, frate Nicholao de Mantua co- morante in loco de Cayolo, Presbiter Paxino de Castiono, Andreas de Rabiis rector ecclesie de Malencho, Presbiter Martinus de Palanzo, Frater Melchion minister Sancti Antonii Sondrii, Bartholomeus archipresbiter ecclesie de Trixi- vio, Presbiter Stefanus capelanus in ecclesia de Ponte. Inoltre: presbiteri de Tillio, de Blanzono, de Stazona, de Avriga, archipresbiter de Maze et presbi- ter de Groxio. Sconcertanti le risposte, sotto giuramento, degli ecclesiastici interrogati. A titolo di esempio si riporta la testimonianza di Frate Nicolino da Mantova, dell’ordine religioso dei Celestini, benefi cale a Caiolo: Interrogatus« si honeste vivit, respondet quod non potest se abstinere a coytu et quod ipse secum retinuit et retinet unam mulierem in concubinam nomine Donatam, cum qua carnaliter usus fuit»: CANOBBIO, 2001, 149 e nota 1.

37 CANOBBIO, 2001, 140, 149, 163. 38 La peste, unitamente ad altre malattie, era quasi endemica nel se- colo XVII. Una interessante testimonianza si ritrova nell’inedito Libro di Valle[...]Consiglio di Valle, 1667-1686: «Il Signor Dottore Luigi Venosta con sua lettera mi suggerisce, come l’Illustrissimo Signor Podestà di Tirano há ricevuto lettere da Santa Maria scrittagli dal Signor Stapo e manda la me- desima carta, qual contiene haver l’Illustrissimi Signori Capi della Rezia con- cesso il transito a tre milla Alemanni di passaggio per il Stato di Milano con

53 [obbligo] di prestargli l’alloggi e provizioni. E perchè il passaggio di grossi Alemanni seco porta l’evidente pericolo della peste, prego lor Signori Deputati alla Sanità portarsi a Sondrio dimani di sera per unirsi tutti doppodinanzi e veder[colloquio?] dell’eccelso Principe di porre rimedio a tanto pericolo della Valtellina, che si scopre evidente e per essere affare di rilievo e di fretta l’at- tendo dinanzi sera senza fatto[...].Sondrio 31 ottobre 1681. Il Governatore Paolo Buol». Manoscritto conservato, in copia fotostatica, presso il mio archi- vio e proveniente dalla biblioteca del Generale Romualdo Bonfadini. 39 A questo proposito può essere utile accostarsi ad alcuni saggi - genui- namente schierati, pur se redatti in periodi non omogenei - elaborati dai due schieramenti confessionali contrapposti: i riformati e i cattolici. P. D. ROSIO DE

PORTA, Compendio della storia della Rezia si’ civile, che ecclesiastica, (si tro- va vendibile in Chiavenna) 1787. J. A. VULPIUS, Historia Rætica translatada et scritta in lingua vulgara ladina, Huossa promovüda alla stampa in il text ori- ginal tras CONRADIN DE MOOR, Coira 1866. A. GIUSSANI, La riscossa dei Valtellinesi contro i Grigioni nel 1620, Como 1935.

40 LANGÉ, 2001, 159–160.

41 Decreti del Concilio di Trento, sessione XXV, in H. DENZINGER, A. SCHÖNMET-

ZER, Enchiridion symbolorum defi nitionum et declarationum de rebus fi dei et morum, Barcinone – Friburgi Brisgoviae – Romae 197636 , n. 1824.

42 S. DELLA TORRE, M. MARINELLI (a cura di), C. Borromeo. Istructionum fa- bricæ et supellectilis ecclesiasticæ. Libri Duo, Milano 2000, 31.

43 G. L. GARBELLINI, Fasto barocco e fede. Il tabernacolo ligneo, in Il Sei e Settecento in Valtellina e Valchiavenna. Sondrio 2002, 117–146. 44 La costruzione del santuario inizia nel 1608 e viene interrotta per ordine del governatore di valle, Paolo Walthier, l’8 settembre 1612 contestualmente con l’espulsione dei Gesuiti: Archivio Storico Sondrio, Notarile, vol. 3633, ff. 7v-17r.

45 LANGÉ, PACCIAROTTI, 1994, 93. S. LANGÉ, L’architettura sacra nell’età della riforma in Valtellina e Valchiavenna, in Il Sei e Settecento in Valtellina e Val- chiavenna, Sondrio 2002, 47–92.

46 G. L. GARBELLINI, Barocco in Valtellina: Il Santuario di S. Luigi Gonzaga di Sazzo, estratto da Vicende orobiche, Villa di Tirano 1986.

47 M. BATTISTINI, Simboli e allegorie, Milano 2002, 272.

48 AA.VV., Cadde violento l’albero, Villa di Tirano 1983. O. ZASTROW, Anno- tazioni sulle architetture dell’oratorio di San Rocco, a Ponte in Valtellina, in

Bollettino della Società Storica Valtellinese, 54 (2001), 43–56. M. G. SIMONEL-

LI, Rinvenimenti a San Rocco di Ponte in Valtellina, in Bollettino della Società Storica Valtellinese, 54 (2001), 15–20. Altri esempi sono documentati in Val- tellina e in Valchiavenna, vedi: E. PEDROTTI, Castelli e torri Valtellinesi, Milano

1957; G. C. BASCAPÈ, C. PEREGALLI, Torri e castelli di Valtellina e Val Chiavenna, Sondrio 1966.

54 49 Rituale romano. Benedizionale, Borgo San Dalmazzo 1992, nn. 1455- 1458, 596.

50 J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, Dizionario dei simboli, Milano 1986, 180–182.

51 Per un approfondimento sui culti precristiani: F. FACCINI, P. MAGNANI (a cura di), Miti e riti della preistoria. Un secolo di studi sull’origine del senso del sacro, Milano 2000. AA.VV., Kult der Vorzeit in den Alpen. Opfergaben,

Opferplätze, Opferbrauchtum, 1 e 2, Bozen 2002. A. TERINO, Le origini. Bibbia e mitologia, Milano 2003.

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LA DIMORA RURALE E LE SUE TESTIMONIANZE

Tiziana Forni

Inquadramento storico e territoriale

L’arco alpino si è posto da sempre come cerniera tra culture e realtà diverse. Nel XV secolo la Valtellina rappresentava un’estesa area di confi ne tra potenti entità politico-territoriali: Ducato di Milano, Repubblica di Venezia, Leghe Grigie. Questa predisposizione naturale a fungere da ‘ponte culturale’ favorì, al suo interno, uno scambio di idee: le valli confi nali assorbivano e diffondevano le diverse culture con tracce visibili nelle abitudini della sua gente, nei dialetti, negli usi e costumi. Il contatto tra diverse entità infl uenzò, di conseguenza, anche il modo d’intendere la tipologia della dimora e degli insediamenti rurali tradizionali. Con la dominazione dei Grigioni (1512-1797) ed il potenziamento dei percorsi alpini attraverso il passo di S.Marco, Dordona, Aprica, Septimer, Muretto ed altri, i traffi ci commerciali per il Centro Europa trovarono nuovo slancio favorendo un signifi cativo sviluppo dell’area valtellinese sotto il profi lo economico e soprattutto culturale. L’opera di colonizzazione della montagna da parte di popolazioni migranti da aree di confi ne contribuì ulteriormente ad una differenziazione dei tipi edilizi con infl ussi ladino-atesini nell’area di Albosaggia: Bormio, grigione-engadinesi nell’area di Livigno e dell’Alta Valle Spluga, tici- Veduta della nesi in Valchiavenna, bergamaschi e veneti in Bassa Valle ed in generale nel caratteristica Casa Contrio comprensorio orobico.

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Nel territorio della Comunità Montana di Sondrio emblematico è Valmadre (Fusine), l’esempio, dimostrato da una copiosa documentazione d’archivio, della Cava- Frazione Caprini: laria della Valmadre la quale, nel corso del XVI secolo, collegando la Valtellina Caratteristica costruzione alpina con la Serenissima, introdusse sul versante orobico una tipologia tipica ber- del versante gamasca legata all’attività del luogo: l’estrazione del ferro dalle cave ‘metal- orobico (Foto n. 1) lorum’, la sua lavorazione nei forni fusori a monte e nelle fucine a valle. Tipici esempi di questa ‘contaminazione’ sono presenti a Caprini e Valmadre nella valle omonima e nella stessa Fusine; insediamenti caratterizzati dalla presen- za di numerosi forni fusori e fucine costruiti alla “bergamasca”. (Foto n. 1) Anche la differente composizione e conformazione del terreno, unita- mente ad una gestione del territorio basata sulle tipiche attività agricole, sil- vopastorali ed estrattive, ha infl uenzato le tecniche di sfruttamento del suolo, determinando l’insorgere di differenti modalità di insediamento umano e condizionando la stessa tipologia storica edilizia. A causa delle caratteristiche geo-morfologiche del territorio e delle risorse primarie tipiche dell’economia contadina, la dimora rurale ha seguito un ideale percorso di trasformazione attraverso il quale l’uomo è divenuto artefi ce di modalità di insediamento eterogenee ma che, allo stesso tempo, si intrecciano e mutano adattandosi all’ambiente e coesistendo tra loro.

L’impiego dei materiali

Effettuando un’analisi sistematica, si può osservare come un evidente elemento di differenziazione delle tipologie abitative fosse dato dal variare delle attività antropiche e dal materiale costruttivo, generalmente reperibile in loco e scelto in base alle caratteristiche tecniche specifi che. Per quanto riguarda la Valtellina e, in particolare, il territorio della Co- munità Montana di Sondrio, l’utilizzo pressoché esclusivo dei materiali locali, legno e pietra, era legato sia al particolare contesto economico-sociale, che al razionale sfruttamento delle loro caratteristiche costruttive e strutturali. Quando entrambi gli elementi erano disponibili e tra loro compatibili venivano utilizzati coerentemente con le rispettive specifi cità: il legno nelle strutture resistenti a trazione e fl essione (solai, architravi, strutture di copertura), la pietra nelle strutture a compressione (muri, fondazioni, piedritti). L’uso di questi materiali ha naturalmente condizionato forme e proporzioni delle di- more rurali della Valle. Le dimensioni degli edifi ci erano commisurate alla lunghezza delle travi di legno (tronchi degli alberi) reperibili in zona e le falde del tetto proporzionate una all’altra per equilibrare pesi che variano rapidam- ente quando nevica o quando la neve viene appesantita dalla pioggia. I muri erano dimensionati su carichi variabili e capaci di assorbirli in modo elastico (strutture in legno) o rigido (strutture di pietra) e di distribuirne sul terreno uniformemente gli effetti. Le fi nestre e le aperture erano proporzionate con

59 i carichi e calibrate alle esigenze di aerazione e di illuminazione in modo da non creare ponti di dispersione termica; i dettagli del tetto, incastri e giunti, spesso prefabbricati e tali da richiedere un’accurata progettazione. Il pi- etrame prevalentemente utilizzato per le dimore temporanee veniva posato a secco o attraverso l’uso di leganti poveri; i muri, a seconda della tipologia dell’edificio, potevano essere costituiti da pietre informi o da massi più grandi squadrati. (Foto n. 2,3) Con riferimento all’utilizzo di materiale lapideo spicca, nel comprensorio della Comunità Montana di Sondrio, l’esempio della Valmalenco, ricca di ar- desia e di scisti, rocce idonee alla preparazioni di pietre ai fini edificatori, la quale sviluppò notevolmente l’utilizzo del pietrame anche per le coperture a ‘piode’. L’impiego del legname fu piuttosto raro tanto che solamente alcune località della Valmalenco presentano edifici con struttura mista pietra-legno. Il legno, quando veniva usato, era limitato alle strutture orizzontali, a quelle di copertura e soprattutto alle specchiature di aerazione dei fienili. (Foto n. 4,5) In alcuni casi sporadici, come all’Alpe Lago, all’Alpe Pirlo e all’Alpe Prato Sotto, Albosaggia, di Mezzo (Chiesa in Valmalenco), ci sono edifici rurali interamente costruiti Nucleo dei con il sistema a ‘block-bau’, caratterizzato dall’utilizzo dei tronchi incardinati. Mosconi: Tipici edifici rurali (Foto n. 6) La tecnica, molto antica e di derivazione nordica, era diffusa in tut- in pietra ta l’Europa centrale. Essa prevedeva un sistema ortogonale di travi in legno, (Foto n. 2) Sopra, incastrate negli angoli attraverso la realizzazione di due incavi, uno inferiore Caiolo, Località Cà e l’altro superiore, a circa 20/30 centimetri dall’estremità. L’intera struttura di Rosa: Caratteristico in legno poggiava generalmente sopra un basamento costruito in muratura utilizzo del di pietrame per garantire l’isolamento del legname dall’umidità del terreno, materiale lapideo per la costruzione dalla pioggia e dalla neve. La prevalente costruzione in legno della casa era degli edifi ci. diffusa per lo più a quote elevate (Alta Valtellina; Livigno) in corrispondenza (Foto n. 3) con la presenza di vasti patrimoni di conifere e fustaie di resinose. Nelle valli orobiche, ove abbondante è la diffusione del bosco ceduo e del castagno in particolare, si riduceva l’uso del legno da costruzione, utilizzato in travi più corte a sezione ridotta. La disponibilità di legname ha condizionato molti as- petti della vita delle popolazioni valtellinesi e, di rifl esso, l’architettura rurale che presenta una forte traccia di questa “dipendenza”. La scarsa disponibilità di legno o di pietra portava ad ampliare la gamma di impiego del materiale a portata di mano determinando l’utilizzazione ben oltre le normali vocazioni strutturali: rare ma presenti sono le pareti alla “tedesca” o a graticcio costi- tuite da muratura sottile contenuta e interrotta da murali in legno verticali e diagonali (Casa nordica, Castione Andevenno).

61 In questo contesto l’architettura alpina ha sperimentato, per secoli, l’uso coerente di tecnologie limitate, al fi ne di far fronte a condizioni cli- matiche estreme, con precipitazioni abbondanti, vento e carichi di neve, de- clivi pronunciati soggetti a frane e slavine e di diffi cile praticabilità.

Risorse ambientali e strutture insediative

La possibilità di giungere a tipologie di costruzioni stabili ed altamente fungibili è stata condizionata dalla capacità ed abilità di sfruttare al meglio, coordinandole e correlandole, le risorse ambientali, in relazione alle condizio- ni fi siche dei luoghi. L’attitudine a variare ed innovare i tradizionali e rigorosi schemi strutturali-compositivi, permetteva di costruire edifi ci sempre diversi, ottenendo uno spettro di soluzioni e di risultati architettonici molto più vario di quanto possa apparire ad uno sguardo superfi ciale sulle testimonianze ar- chitettoniche. Così come per l’utilizzo dei materiali, anche per le tipologie abitative non v’erano forme fi sse e rigide: in base alle risorse disponibili, al clima ed alle attività produttive, la dimora contadina mutava i suoi spazi. Le peculiarità abitative non erano tanto legate all’area geografi ca defi nita dalla latitudine e dall’altitudine, quanto, piuttosto, alla modalità di gestione del territorio de- terminata dalla morfologia del terreno e dalle caratteristiche climatiche della zona. Emblematico di questo fenomeno era lo spostamento primaverile ed estivo delle famiglie con il bestiame. Gli insediamenti rurali, inseriti in una complessa rete di percorsi che garantivano l’utilizzazione degli alpeggi sul versante alpino, a tutte le quote, nelle stagioni più propizie, erano inevitabil- mente condizionati dall’attività della transumanza. L’assetto delle comunità rurali, organizzate inizialmente secondo un’economia di sussistenza legata all’agricoltura ed all’allevamento del bestiame, si modifi cò ulteriormente con lo sviluppo della coltivazione a vigneto su terrazzamento attraverso un signifi - cativo intervento antropico del territorio. Superata una certa quota, al posto della vite si coltivavano diverse specie di cereali, l’avena, il miglio, il panìco ed il mais. Un’altra risorsa fondamentale, prevalentemente diffusa sul versante orobico, era lo sfruttamento dei castagneti i quali favorirono una coltivazione intensiva e, in alcune zone, un certo tipo di monocoltura. Dove il terreno non era adatto alla coltivazione era mantenuto a prato. Questi fenomeni avevano notevoli ripercussioni anche a livello insedia- tivo in quanto gli aspetti del ciclo produttivo condizionavano direttamente la struttura della dimora. Le caratteristiche architettoniche - volumetria edilizia, tipologia - erano strettamente legate alle risorse economiche disponibili sul territorio (vigneti, castagneti, pascoli, allevamento) e in tal senso è possibile individuare specifi che tipologie connesse ai caratteri della produzione agricola di una zona. I comuni di Postalesio, Montagna, Castione erano contraddis-

62 tinti da un modello di dimora pensata per le esigenze della coltivazione dei ‘vigneti’; Arigna, e in generale gli insediamenti orobici di mezza costa, dalla dimora dei ‘castagneti’. Altre motivazioni e vocazioni potevano influire sulle caratteristiche della costruzione, come ad esempio la necessità di controllare il territorio attra- Chiesa in verso una rete strategica di fortificazioni. LaTorre di Melirolo e la Torre di Cà Valmalenco, Località Carotte: de Risc a Torre S. Maria, la Torre di Caiolo, l’Edificio a torrea Castione Ande- Struttura mista in venno sono solo alcuni esempi di queste ‘atipiche dimore’ di cui è costellata la pietra e legno (Foto n. 4) Valle. Al riguardo, è interessante sottolineare come molti degli insediamenti, sia valtellinesi che grigionesi, hanno come matrice comune la “casa a torre” (S. Langé, La dimora alpina, Sondrio 1996). L’impronta originaria era data da una primitiva forma di casa a torre (6/7 metri per lato) con, al piano terra, il ricovero del bestiame ed al primo piano le diverse stanze di abitazione. La struttura compatta, la cui forma chiusa ed essenziale sottolinea l’originaria esigenza di difesa e protezione, si articolava, in relazione al luogo ed alle cir- costanze, in strutture miste in legno e pietra e, in tempi successivi, dopo il 1600, in più complesse insediamenti a corte. Da recenti studi (Santino Langé in collaborazione con il Politecnico di Milano e l’Università di Genova) è em- Chiesa in erso come la casa di tipo romanico in pietra fu sottoposta, nel corso dei secoli, Valmalenco, Località Primolo: ad un’opera di integrazione e trasformazione adeguandosi alle tipologie nor- Caratteristico diche. Tra queste spiccano il modello di casa in legno block-bau e quello a utilizzo del legno per le specchiature graticcio, tecnica propria di popolazioni tedesche, in particolare di popolazioni dei fi enili walser che attraversarono le Alpi in senso trasversale verso la fi ne del XV (Foto n.5) secolo.

64 Chiesa in Valmalenco, Alpe Prato di Mezzo: Edifi cio rurale costruito con la tecnica dei tronchi incardinati (block - bau) (Foto n. 6) foto: archivio CM

Insediamenti umani e tipologie abitative

In Valtellina, risalendo l’Adda, possiamo riscontrare l’evolversi delle tipologie edilizie tradizionali, da modelli ancora infl uenzati dalla cascina padana, con edifi ci distribuiti intorno ad una corte, a tipologie sempre più marcatamente alpine. Il senso di appartenenza alla comunità, intesa come solidarietà paesana e intreccio stretto di relazioni con momenti di cooperazione nelle attività lavorative, predominante in numerose realtà valtellinesi, è tuttora evidente in alcune contrade di Ponte, Chiuro, Postalesio e Spriana. La traduzione tangibile di tale complessità è percepibile nell’intrico di collegamenti interni, percorsi che talora si sviluppavano al di sotto delle case, passaggi ad arco, voltine e sostegni, scalette aeree, cortili intersecantisi o contigui organizzati in una complessa rete topografi ca. Man mano che si risale la valle, le corti tendono a farsi più chiuse, stringendosi e così divenendo un elemento annesso alla singola abitazione. Esempio limite di questa corte comune è la ‘trüna’ tipica della Valmalenco. In essa la corte diviene una galleria coperta, con funzione di collegamento tra gli edifi ci, su cui prospettano le porte delle cucine e dei focolari con un arco di entrata e uno di uscita, come si può riscontrare nella trüna alla contrada Bricalli a Caspoggio, e in quella nel centro di Lanzada.

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Da questo insediamento di tipo ‘compatto’, caratterizzato dalla presenza in alcuni casi di veri e propri edifi ci collettivi, ‘plurimi’ (località Costi, Chiesa Valmalenco) in cui gli spazi erano condivisi secondo un’organizzazione famili- are e sociale comunitaria, si passa, in alta Valtellina (ed in Valchiavenna), ad un modello di casa tendenzialmente ‘unitario’ dove la dimora, ben riconosci- bile ed isolata, racchiudeva sia spazi di destinazione rurale che residenziale. Le diverse categorie spesso s’intrecciano e convivono in una medesima area ed il passaggio dall’una all’altra è sempre stemperato da questa connessione e commistione di tipologie. Elemento comune della casa rurale è costituito dal coesistere di ambienti in cui si svolgeva la vita domestica, il lavoro, la vita sociale; ambienti tra loro organizzati in modo molto libero. Nella struttura di questi organismi lo spazio ‘privato’ è minimo. La dimora rurale è strettamente legata all’attività produttiva: residenza e lavoro sono intesi in modo unitario. Per quanto riguarda il comprensorio della Comunità Montana di Sondrio, le relazioni e le compenetrazioni tra l’abitazione domestica ed il rustico iner- ente l’attività produttiva variano a seconda delle condizioni geo-antropiche. Nelle vallate del versante settentrionale, come la Valmalenco, la carat- teristica principale della dimora permanente consiste nella divisione tra ab- itazione (cà) e stalla-fi enile (masun) dislocate in un rustico separato. Talvolta l’insieme della dimora si tripartisce con l’aggiunta di una piccola costruzione, il “casèl’, per la conservazione dei prodotti caseari. Sul versante orobico si trovano dimore sia del tipo unitario, con stalla e fi enile affi ancati nella stessa costruzione, sia con la parte rurale divisa dall’abitazione. In alcuni casi, come nelle dimore della Valmadre, solo il fi enile è isolato dal resto del complesso. In relazione alle diverse caratteristiche della produzione agricola, diversi tipi di edifi ci ausiliari compaiono a completamento della dimora rurale. Nella zona dei vigneti troviamo il ‘casel de l’üga’, in quella dei castagneti, come ad Arigna, la ‘cüsina de la grat’, per l’essicazione delle castagne. Nel terri- torio orobico, dove intensa era la coltivazione delle castagne, emblematico è l’esempio della frazione di Rodolo (Colorina), in cui anticamente erano stati edifi cati numerosi ‘metati’. Tale costruzione autonoma a due piani, conosciuta anche con il nome di ‘agrèe’, era caratterizzata da una soletta in graticcio di legno posizionata sopra il focolare, sulla quale erano adagiate le castagne ad essiccare. Il legno, usato ai piani superiori, è spesso evidente nei ballatoi posti sul- la facciata principale e protetti dall’aggetto dei tetti. (Foto n. 7) I ‘lòbi’, tipici dell’architettura rurale, caratterizzano l’aspetto esterno delle facciate in modo spesso originale anche se ispirati a criteri costruttivi di grande semplicità. Il Torre di graticcio, formato da montanti e pertiche orizzontali, era adibito a contenere Santa Maria, Frazione Tornadù: e ad appendere in vario modo i prodotti agricoli: fi eno, mais, segale, cast- Tipico esempio di agne e canapa. La balaustra, oltre ad essere utilizzata come essiccatoio per dimora rurale con i prodotti agricoli, poteva avere anche la funzione di deposito di brandelli di ballatoio in legno (Foto n. 7) maglia con cui si tessevano i pezzotti. Nella zona di Arigna, dove era partico-

67 Fusine, Località “La Civetta”: Portale medioevale con architrave caratterizzato da bassorilievi che rappresentano simboli di varia natura (Foto n. 8)

larmente diffusa questa attività, si trovano i ballatoi ‘a cassetta’, caratterizzati da una balaustra chiusa posta a protezione delle donne durante la lavorazione artigianale dei tessuti. Quando l’attività dell’uomo lo richiedeva, alcuni edifi ci erano destinati esclusivamente ad impianti produttivi: esempi di mulino o pila, maglio, forno, torchio, segheria, tornio, erano presenti su tutto il territorio della Comunità Montana di Sondrio. Il Mulino sul Davaglione a Montagna, la Casa del Maglio a Chiuro, il Forno di Gudenz a Poggi, il Torchio Lombardi a Caiolo, il Mulino e Pila a Castello dell’Acqua, i Torni di Valbrutta a Lanzada sono solo alcuni es- empi. Sul versante orobico, legato all’attività dell’estrazione del ferro, erano diffusi presso le cave metallifere i forni fusori; le fucine, a volte annesse alle case d’abitazione, erano situate a valle (Fucina in via Predane, Fusine).

68 A quote più elevate la dimora non era più costituita da un insediamento vero e proprio, ma da semplici ripari, per il bestiame e per i pastori, o da piccole baite poste in prossimità degli abbeveratoi. In Valmalenco, la dimora temporanea del maggengo tendeva ad essere piuttosto accentrata anche se esistono esempi di nuclei sparsi. In quest’ambito i caratteri distintivi si at- tenuano a favore di scelte essenziali dettate dall’austerità dell’ambiente: dalla baita d’alpeggio e dal ricovero elementare e smontabile del “calecc” si passa al “bàet” in legno, prefabbricato minimo ed essenziale per il riparo notturno, utilizzato soprattutto sul versante orobico.

Elementi decorativi nella dimora alpina

Quella che precede rappresenta soltanto l’inizio di un’analisi “tipologica”. L’indagine deve essere tuttavia estesa ad eventuali altri fattori, forse meno evidenti, ma altrettanto, od addirittura, più profondi. Deve considerare uno stile di vita ed un vivere l’ambiente che si rifl ettevano anche nella religiosità e nei segni ad essa collegati, una natura percepita come elemento tangibile, entità benefi ca o matrigna, un ambiente inteso come fonte energetica ed alimentare, rifugio, risorsa per l’edilizia, materia prima per le attrezzature da lavoro. Sorgono, allora, domande di diversa natura: quale era la percezione spazio-temporale dell’abitante delle convalli? Quali erano i ‘signifi cati’ della dimora? Perché sorgeva la necessità di lasciare dei ‘segni’ sul fabbricato? Il linguaggio architettonico della dimora rurale esprime, invero, una concezione di vita, integrando le forme e i volumi con ‘segni’ simbolici e decorativi, non solo per la necessità di un degno completamento dell’opera. A questo riguardo signifi cativi appaiono gli esempi nella zona di Fusine e della Valmadre. Nella Casa della Civetta l’architrave, sorretto da due mensole sagomate sporgenti dai piedritti, è decorato con veri e propri bassorilievi, caratterizzati da simboli rappresentanti l’incudine e il martello, l’aratro, un oggetto segnato con una croce e, nel mezzo, una fi gura serpentiforme che si può interpretare come il simbolo visconteo. (Foto n. 8) Sull’architrave della Casa al Cornello, presso Fusine, è scolpita un’insolita forma allungata, simile ad una tenaglia. (Foto n. 9) Simboli simili ad una balestra, a ruote e a strumenti di lavoro si ripetono incisi su diversi piedritti e portali della zona. (Foto n. 10) Sorprendente appare la varietà di forme espressive e decorative legate all’architettura rurale; la ‘millesimazione’ (datazione) dei fabbricati è sicuramente uno degli aspetti più ricorrenti e signifi cativi. Su molti di questi portali e fi nestre sono incisi dei simboli di varia natura, legati alla sfera reli- giosa (come croci e trigrammi) ovvero all’attività lavorativa (tenaglie e aratri) a volte accompagnati dalle date di posa delle pietre. E’ questa la forma più diretta della simbolizzazione dell’abitare. Diffusa era anche la modalità di incorniciare le ‘bucature’ delle costru-

69 zioni in pietra (accessi o fi nestre) attraverso l’uso, nella composizione de- gli stipiti, di elementi lapidei; sul versante orobico esempio interessante è l’utilizzo della fi nestra trilitica come nella Casa a Presio nel comune di Colo- rina o in località Cà di Rosa a Caiolo. (Foto n. 3) Gli stipiti relativi agli ingressi erano sormontati da una struttura monolitica che poteva avere, a seconda dei casi, forma ‘lunettata’ oppure triangolare a timpano, ovvero ancora, sem- plicemente, rettilinea ad architrave. In esempi meno frequenti, le strutture verticali del portale sorreggono degli elementi arcuati: due conci arcuati che poggiano l’uno contro l’altro in chiave componendo un arco a sesto acuto (Portale rustico, Ambria). Queste particolari ‘architetture di soglia’, pur riproducendo sempre lo stesso schema, non propongono mai due forme identiche e, costituendo parte integrante del paramento, riescono ad evidenziare e ad enfatizzare con ef- fi cacia l’ingresso dell’edifi cio a cui appartengono. Il portale costituisce, del resto, un elemento fondamentale della casa e la sua origine simbolica va ricercata nella tradizione celtica. In esso viene riproposto, simbolicamente, il tema del passaggio (ingresso) nell’ambito privato della casa e della famiglia, mediante stipiti pronunciati od attraverso grandi architravi, a volte privi di gi- ustificazione funzionale. La presenza di elementi dotati di un esplicito riman- do archetipo è enfatizzato, in alcuni esempi di portale, dall’utilizzo di grandi strutture dal valore altamente simbolico o di pietre a cuspide monolitiche che suggeriscono la forma e la materia stessa del Monte Calvario, mettendo in atto una poetica metonimica nella rappresentazione simbolica del Sacro (G. Buzzi, La dimora alpina, Sondrio 1996). Queste testimonianze di espressione simbolico-religiosa esprimono con evidenza una complessa necessità di mani- festazione fi gurativa. Il progresso economico, lo sviluppo degli scambi commerciali, l’uso sempre più intenso di alcuni percorsi alpini e vie storiche, il diffondersi di esigenze sempre più complesse, potenziarono tali espressioni artistiche presenti nell’ambito culturale che si era costituito nei secoli precedenti. In questo contesto la decorazione degli edifi ci in muratura nelle varie , forme pittura e graffi to, contribuì, tra il ‘400 ed il ‘600, alla diffusione e ripetizione di motivi stilistici e formali nell’area valtellinese. Si tratta spesso di forme meditate e razionali, di raffi nata complessità decorativa, varietà di soluzioni e di idee utilizzate con fantasia ed ironia, estese nel tempo e nello spazio mediante la funzione scaramantica e propiziatoria di segni, disegni e colori (Ex Convento a Paleari, Piateda; Casa a Marveggia, Spriana). (Foto n. 11) Le porte e le fi nestre sono un elemento privilegiato e caratteristico della decorazione, poiché rappresentano i soli punti in cui lo spazio interno della dimora dell’uomo comunica con l’esterno. In molti casi, nelle dimore più semplici, le fi nestre sono incorniciate con una larga fascia di intonaco di calce che riveste le mazzette, il vano fi nestra e la superfi cie del muro esterno per 30/40 centimetri. (Foto n. 12) Numerosissime altre decorazioni, eseguite su intonaco di calce, si trovano in diverse particolari posizioni come nel timpano sotto la trave di colmo.

70 Fusine, Casa al Cornello: Particolare dell’architrave scolpito (Foto n. 9) Cedrasco, Casa Bricalli Menatti:Architrave inciso raffi gurante simboli legati all’attività lavorativa (Foto n. 10)

La dimora nello spazio e nel tempo

Questi esempi mostrano che l’architettura rurale, divisa per scelte tec- nologiche motivate da precise necessità culturali, ambientali e socioeconomi- che, si ritrova spesso unita in un tema che rivela, in innumerevoli variazioni, una concezione formale e stilistica organica e comune del senso della vita. Risulta quindi impensabile parlare di ‘signifi cato della dimora’. Sarebbe, forse, più opportuno parlare di signifi cati e funzioni di questo ‘contenitore di vita e di storia’. La residenza temporanea, adibita essenzialmente alla sopravvivenza, al riparo ed al deposito di attrezzi (Bàit; Calecc), si integrava con la dimora res- idenziale stabile, caratterizzata da uno spazio domestico legato all’importanza del nucleo famigliare. Essa rappresentava il simbolo della famiglia, con funzi- one di sacrario del nome della stirpe - dove stemmi e sigilli del casato ornavano i punti centrali della casa - e, contemporaneamente, oggetto di divisione. La parcellizzazione del patrimonio domestico veniva ideata e progettata, divisa o divisibile, in molteplici unità abitative ereditarie per una famiglia numerosa e allargata. Quest’idea simbolica di proprietà e di attaccamento ai beni (res) portava con sé una concezione architettonica ben evidente in dimore ove le strutture risultano organizzate in modo da favorire la spartizione fra gli eredi e per questo motivo spesso già divise verticalmente e con ingressi separati. Ma la dimora non incarnava solo un simbolismo fi sico, materiale. In essa l’uomo inseriva anche elementi del sacro, inteso come labile confi ne tra magi- co e religioso: spazi legati ad operazioni del vivere quotidiano quasi rituali (vinifi cazione, trebbiatura, preparazione del pane, lavorazione dei metalli…) convivevano con la simbologia magica, religiosa e propiziatoria.

72 Altro simbolo che intensamente caratterizzava la dimora era il focolare, fulcro della vita domestica. Esiste infatti una stretta identità fra gruppo famili- are, casa e focolare. I termini fuoco e fumo indicano contemporaneamente la casa ed il gruppo familiare: una dimora abitata è un fuoco fumante. Il ‘capo- fuoco’, rappresentante della famiglia nell’assemblea dei vicini, è titolare di un diritto che appartiene al nucleo familiare. L’iniziale probabile natura difensiva dell’edifi cio a torre si è successivamente coniugata con il senso più profondo della simbolizzazione dell’insediamento originario del fuoco, cioè del nucleo familiare, che veniva caratterizzato e perpetuato dalla presenza di questo ele- mento tipico. La tecnica muraria, in alcuni casi megalitica, alludeva anch’essa ad un principio collettivo del costruire, confermando il carattere complesso della struttura sociale fra l’articolazione delle famiglie e i rapporti di vicinato (G. Buzzi, La dimora alpina, Sondrio 1996). Questi elementi architettonici testimoniano di un uomo che attraverso l’abitazione esprime l’immagine di sé e del suo contesto sociale; di un uomo legato ad una cultura che si rispecchia nel proprio passato, anche remoto e nelle proprie origini e che va oltre alla situazione storico-politica del mo- mento. Le dimore rurali non sono testimoniate da documenti scritti (la scrittura è privilegio di pochi). Esse sono entità concrete, materiali; la loro stessa es- istenza, la loro presenza caratterizza e vincola il paesaggio, trasmettendo un messaggio di carattere storico. Esse sono, in questa accezione, documenti ar- chitettonici della vita e della storia dell’uomo. Sono documenti che testimoni- ano un fenomeno infrastrutturale, legato all’economia, alla tecnica dei sistemi produttivi ed all’attività del luogo. Un chiaro esempio è dato dalle fucine, dal metato, dai mulini, edifi ci che, oltre a testimoniare una tecnica costruttiva, tramandano specifi ci caratteri economico-sociali. Ne consegue che, attraver- so lo studio di questi documenti, è possibile apprendere informazioni riguardo i mezzi di produzione che l’uomo ricavava dalle risorse naturali, gli strumenti di lavoro ed i prodotti e materiali ottenuti. All’interno di questa prospettiva la dimora assume molteplici signifi cati che si intrecciano e coesistono senza elidersi. La testimonianza rurale può as- sumere, al contempo, un signifi cato sociale, economico, religioso, artistico ed a volte simbolico; un signifi cato ricco di valori così da rendere la casa oggetto primario e fondamentale di conservazione e di studio, testimonianza della comunità alpina. L’uomo, artefi ce ed architetto, artigiano, pastore e contadino, nell’edifi care ed abitare la dimora trasfonde in essa i suoi caratteri e la sua cultura. La stessa cultura che si trasmette a noi attraverso questa entità mate- riale.

73 BIBLIOGRAFIA

AA.VV., Valli segrete in Valtellina e Valchiavenna, L’umana Dimora, Sondrio Spriana, Località Marveggia: 1997 Originale T. BAGIOTTI, Storia economica della Valtellina e della Valchiavenna, Sondrio decorazione 1958 delle aperture che enfatizzano A. BENETTI, D. BENETTI, Valtellina e Valchiavenna. Dimore rurali, Milano gli ingressi alla 1984 dimora. Simili decorazioni D. BENETTI, M. GUIDETTI, Storia di Valtellina e Valchiavenna, Sondrio 1998 si ritrovano in D. BENETTI, S. LANGÈ (a cura di), La dimora alpina, Sondrio 1996 altre località alpine E. BERTOLINA, G. BETTINI, I. FASSIN, Case rurali e territorio in Valtellina e come in Val Locana (To), Zernez, Zuoz Valchiavenna, Sondrio 1979 (Engadina CH) A. BORROMEO (a cura di ), La Valtellina crocevia dell’Europa, Milano 1998 (Foto n. 11) G. DA PRADA, La Magnifi ca Comunità et li homini delle Fusine, I,II,III,IV, Sondrio 1980 L. DE BERNARDI, Valmalenco una lunga storia, Sondrio 1986 L. DEMATTEIS, Case contadine in Valtellina e Valchiavenna, Ivrea 1989 A. DONATI, Monti, uomini e pietre, Locarno 1993 S. LANGÈ, L’eredità romanica. La casa europea in pietra, Milano 1989 E. MAZZALI, G. SPINI, Storia della Valtellina e Valchiavenna, II, Sondrio 1969 C. SAIBENE, Il versante orobico valtellinese, Roma 1959 F. SUSS, Architettura contadina in Valtellina, Milano 1981

Pagine seguenti, Berbenno di Valtellina, Località Monastero: Tipiche fi nestre “incorniciate” che caratterizzano le facciate delle dimore rurali (Foto n. 12)

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I PALAZZI

Gianpaolo Angelini

Le dimore nobiliari valtellinesi tra ’500 e ’700

Un’area geografi ca apparentemente periferica, le Valli dell’Adda e della Mera, sottoposte dal 1512 al 1796 alla dominazione grigiona, non avevano però cessato di gravitare culturalmente sulla Lombardia ed in particolare sul Lario. L’adozione di tipologie colte provenienti da queste aree si confrontava con i caratteri tipici della dimora alpina, in un rapporto dialettico non sempre facile e lineare. Alcuni esempi possono aiutarci a fare il punto della questio- ne. Il Palazzo Besta di Teglio rappresenta il defi nitivo passaggio dalle ar- chitetture castellane medievali al nuovo modello di dimora nobiliare rina- scimentale, benché forme ancora legate al tema della casa-forte merlata quattrocentesca si incontrino sino a tutto il Cinquecento, come prova il caso della contrada fortifi cata di Pedenale a Mazzo. La riqualifi cazione di Palazzo Besta secondo i nuovi canoni rinascimentali si compie entro il 1519 con sin- golare unità progettuale, sulla base di edifi ci più antichi. Nell’edifi cio temi tratti dall’edilizia lombarda del Quattrocento, come l’ingresso eccentrico che infi la il lato meridionale del quadriportico (Palazzo Fontana Silvestri a Milano Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria e Palazzo Mozzanica a Lodi), si legano con motivi desunti dalla più aggiornata Pontaschelli, loggia trattatistica architettonica (Alberti e Cesariano). Il nucleo centrale del Palazzo lignea nella corte rustica. è appunto il cortile quadrangolare, cui le murature preesistenti si adeguano

79 non senza diffi coltà, come denun- Ponte in Valtellina, ciano alcune intercapedini leggibili Palazzo Guicciardi, lunette dipinte del in pianta. All’interno gli ambienti sottogronda. principali sono il salone d’onore, la «stüa» cinquecentesca e la sala del- Ponte in Valtellina, Palazzo Guicciardi, la Creazione, allineate in bell’ordine pianta del piano lungo il prospetto principale, a cui si nobile. aggiunge una camera nella torre an- golare, collegata al corpo principale del Palazzo da un passaggio esterno e forse anticamente destinata a stu- diolo o archivio. Al modello di Palazzo Besta fanno riferimento, in modo più o meno dichiarato, altre case nobili cinquecentesche. Palazzo Lambertenghi a Stazzona reca nel coronamento del sottogronda la data 1524, ma anch’esso deriva dall’unione e rettifi cazione di corpi di fabbrica più antichi, come sta a dimostrare l’emergenza turriforme in facciata. A Sondrio, nel rione oltre Mallero, si è discretamente conservata la Casa Carbonera Bonomi, già di un ramo dei Parravicini, il cui portale è da- tato 1535. Rilevante in modo particolare è il fronte settentrionale del cortile interno, con un sistema di portici e logge su tre livelli caratterizzato da una scansione piuttosto regolare, ma che traduce in modo più grossolano alcuni dettagli del cortile del Palazzo Besta (le colonne sommariamente abbozza- te, la corrispondenza 1:2 degli interassi tra il portico e i loggiati superiori, la decorazione a graffi to degli intonaci). Una «versione rurale, più aperta e funzionale, del sistema portico-loggiato» (Rovetta, 2000) si può individuare nella Corte dei Leli a Ponte, dove altre case dispongono di cortili con due livelli di aperture (Casa Quadrio ora Tentori in via Guicciardi). Le tipologie variano

80 sino ad una significativa combinazione di forme e materiali della tradizione contadina, come nella Casa Maura Chistolini di Caspano in cui la loggia lignea del cortile è sostenuta da un pilastro tondo in muratura con mensola-capitello pure in legno. Dopo la grande stagione del Rinascimento, tra la fine del Sei e l’inizio del Settecento prese avvio una nuova fase di rinnovamento nell’architettura in Valtellina. Delle molte dimore nobiliari settecentesche meritano attenzione il Palazzo Sertoli di Sondrio, riformato dopo la metà del secolo su disegno Ponte in Valtellina, di Pietro Solari da Bolvedro (notizie dal 1757 all’81), in cui architettura e Palazzo Quadrio residenza si compenetrano in modo rilevante. Negli altri casi siamo invece Curzio ora Pontiggia, facciata affrescata. in presenza di semplici interventi di decorazione attuati entro involucri archi- tettonici preesistenti che rimangono prevalentemente invariati. Si segnalano Sopra,Chiuro, comunque Palazzo Merizzi a Tirano, con cortile quadrangolare porticato su Casa Balgera, davanzale scolpito tre lati, e Palazzo Cattani Morelli a Teglio, un po’ tardo (tra l’ottavo e il nono quattrocentesco decennio del secolo), con notevole scala a quattro sostegni. Al tipo della villa lombarda settecentesca fanno invece chiaro riferimento il Palazzetto Salis a Chiavenna (intorno al 1755-60), con fronte tripartita e corpo centrale avanzato, occupato a piano terreno dal salone, e il Palazzetto Besta a Bianzone (dai primi del Seicento in poi, con interventi interni suc- cessivi al 1752), con impianto a L, in cui il lato breve presenta un portico e una loggia. Ancora a Sondrio dobbiamo segnalare il Palazzo Carbonera in via dell’Angelo Custode. Dal cortile, dove si conservano rimanenze medievali, si accede ad un secondo più raccolto spazio aperto, cinto da una balconata con balaustra in ferro battuto su tutti i quattro lati, con notevoli pilastrini in pietra a base quadrata. Attraverso una porta sovrastata da fi gure allegoriche dipinte si accede ad un piccolo atrio e quindi alla famosa scala elicoidale, culminante in un lanternino. Un’iscrizione ricorda che i lavori di restauro si erano conclu- si nel 1778. La complessità dei percorsi e dei volumi disposti in successione entro una struttura più antica ribadisce la varietà delle soluzioni residenziali adottate da architetti e committenti in ambito residenzale. A Pietro Solari si deve anche il Palazzo Malacrida a Morbegno, iniziato dopo la metà del secolo e concluso tra il ’58 e il ’62, dopo una lunga e faticosa campagna di acquisti di terreni e case preesistenti. Al secondo piano, desta particolare attenzione la presenza di camere di residenza direttamente affac- ciate sul salone d’onore a due piani, probabilmente una soluzione di ripiego determinata da esigenze di spazio. Infatti si era soliti disporre le logge sui sa-

82 loni in corrispondenza di passaggi di servizio o mezzanini. Questi ultimi sono per altro assenti, come anche in Palazzo Sertoli. A Palazzo Malacrida cinque stanze per la servitù erano poste all’ultimo piano, in pratica un sottotetto, se- gnato in facciata dalla presenza di oculi. La compressione degli spazi, rispetto ai grandi palazzi cittadini di Milano o Pavia, è una costante dell’architettura residenziale valtellinese, ma non indica necessariamente stili di vita più pove- ri, bensì diversi e meno formalizzati. In ogni caso le due fabbriche di Palazzo Sertoli e Palazzo Malacrida dichiarano la cultura aggiornata del loro progetti- sta, Pietro Solari da Bolvedro, del quale si suppone l’origine dalla Val d’Intelvi, luogo di emigrazione di pittori, decoratori e architetti altamente qualifi cati.

Ponte in Valtellina

Il centro storico di Ponte conserva il numero maggiore di dimore e palaz- zi nobiliari. Nonostante il loro stato di conservazione non sia sempre ottima- le, è nella sostanza ancora valida l’intensa descrizione di Leonardo Borgese: «Entriamo in Ponte, paese non assurdo ma logico, paese che andrebbe tutto descritto pietra per pietra, casa per casa, palazzo per palazzo. Ponte è un unico organismo, un conglomerato naturale ed artistico, un nido di celle, un convento e una fortezza […]». Non potendo qui soddisfare il desiderio di Bor- gese, ci limiteremo ad una scelta campionatura. Dei vari Palazzi Piazzi, raccolti tra le vie Ron, Piazzi e S. Francesco Save- Sotto, Chiuro, rio, tutti di origine cinquecentesca, emerge per mole il Palazzo ora Giacomo- Palazzo Cilichini, Scena di vita ni. Esso sorge in stretta correlazione con altri edifi ci dell’isolato, aderendo a cortese. ovest al Palazzo Piazzi Bertoletti e a est, tramite un cavalcavia su via Piazzi,

Chiuro, Palazzo a Casa Quadrio Brunasi. Dalla strada si scorge solamente il grande corpo pa- Cilichini, scorcio rallelepipedo le cui semplici facciate sono scandite dalla successione regolare del cortile cinquecentesco. della aperture, prive di cornici, e dal coronamento di oculi nel sottotetto. La struttura è con buona probabilità seicentesca e rappresenta la volontà della famiglia Piazzi di dotarsi di una dimora che fosse al passo con le nuove esi- genze rappresentative e residenziali, esigenze a cui i palazzi aviti evidente- mente non rispondevano più. All’interno lo schema distributivo è tipico: un appartamento doppio con camere in infi lata sui due lati e salone a due piani affacciato sull’ampio giardino tramite una terrazza. Il salone presenta decora- zioni prospettiche sul soffi tto e cornici dipinte intorno alle porte e alle fi nestre. La tipologia abitativa e alcune soluzioni, come quella del soffi tto ligneo del sa- lone a passasotto (cioè decorato al di sotto della trama dei travicelli), ancora seicentesca rispetto alle volte affrescate delle dimore del Settecento inoltrato, sono segnali di una timida ma reale ricezione delle tendenze dell’architettura residenziale barocchetta. Anche la torre-altana è indice di una svolta, poiché ormai tipologicamente estranea alla tradizione delle torri-colombaie (un raf- fronto diretto nell’adiacente Palazzo Bertoletti). La sequenza delle case dei Guicciardi lungo l’omonima strada ci riporta indietro al XVI secolo e pone una serie di quesiti diversi. La residenza princi- pale della famiglia, eretta nel XVI secolo, si affaccia su via Chiuro e presenta una facciata molto semplice con un portale in pietra e fi nestre architravate munite di artistiche inferiate. Al di sotto della gronda è un bel fregio a mo- nocromo con sirene, volute e stemmi. La pendenza della strada e l’innesto su questa fronte dei due cavalcavia sei-settecenteschi rendono diffi coltoso l’apprezzamento dell’originaria euritmia, che insieme alle tracce di affreschi

A sinistra, Ponte in Valtellina, Palazzo Piazzi Giacomoni, pianta dell’appartamento al piano nobile.

A destra, Ponte in Valtellina, Casa Quadrio Curzio ora Pontiggia, contesto urbano.

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A sinistra, recentemente rinvenuti (2000) nelle Chiuro, Casa de’ sale interne suggerisce di avvicinare Gatti, facciata e torre-colombaia da l’edifi cio al gruppo di case ispirate via Opifi ci. più o meno direttamente al modello

A destra, di Palazzo Besta, senza considerare Ponte in Valtellina, poi legami di parentela tra le due Palazzo Guicciardi famiglie (Andrea Guicciardi aveva Cavalieri di S. Stefano, pianta del sposato Ippolita Alberti, vedova di piano nobile. Azzo I Besta, e per conto del fi glia- stro Azzo II aveva seguito il cantiere di Teglio). I dipinti interni, forse col- locabili cronologicamente prima del 1576 (data sul soffi tto di una stüa intagliata) sono da collegarsi a quelli da poco emersi nella Torre di Pendolasco (vedi infra). Al Cinquecento risale anche il corpo all’angolo con via Guicciar- di, con coronamento di lunette in cui si alternano oculi e affreschi con fi gure mitologiche; all’interno sono conservati fregi a fresco tardo-cinquecenteschi. Il prospetto sud-est, verso valle, presenta pure una decorazione a fresco, connessa alla presenza della colombaia. Nel Settecento l’esigenza di nuovi spazi muove i proprietari del Palazzo ad un ampliamento, che nel solco della tradizione si limita ad un nuovo semplice edifi cio sul lato opposto della strada, collegato al nucleo più antico dai due cavalcavia già citati (uno dei quali era però già attestato nel Seicento). In via Ginnasio si segnala un altro Palazzo Guicciardi, del ramo detto dei Cavalieri di S. Stefano, iniziato con Guicciardo di Nicolò (1658-1733), a cui si può riferire il restauro barocco della casa cinquecentesca. Anche in questo caso gli interventi sono contenuti, limitandosi alle incorniciature delle fi nestre con stucchi colorati e alla decorazione pittorica di un soffi tto interno, ma lasciando inalterata la struttura muraria preesistente (bifora architravata cinquecentesca sulla fronte posteriore). Ai Guicciardi è legata anche una singolare costruzione, detta «La Guic- ciarda», in località Casacce, quasi una dimora extra-urbana dove la tradizione vuole che la famiglia si ritirasse nel 1630 per sfuggire alla peste. Di sicuro si sa che Giovanni Maria (1508-96) l’aveva abbellita e poi Giovanni (1584-1664) aveva eretto la cappella. La casa civile e gli edifi ci rustici si affacciano su un cortile con portico e passerelle, su cui dà un salone con volte dipinte. Tuttavia in ambiente alpino la tipologia della villa ha scarse e contraddittorie attesta- zioni, mancando quel rapporto città-campagna che era alla base della civiltà padana. Ad essa si può però riferire il caso di Palazzo Vertemate Franchi a Piuro, residenza secondaria e estiva della ricca famiglia di commercianti che nel borgo aveva un grande palazzo (spazzato via dall’alluvione del 1618). Un ultimo edifi cio merita una menzione: la quattrocentesca Casa Qua- drio Curzio ora Pontiggia in piazzetta Curzio, a monte della chiesa dei Gesuiti.

87 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, sala dell’appartamento al piano nobile (stemma Quadrio).

Essa ha uno schema a U, in cui la facciata dell’ala sinistra presenta un’este- sa decorazione pittorica che inquadra le due fi nestre al primo piano ed una colombaia nel sottotetto, nonché al centro gli stemmi delle Tre Leghe. Di estremo interesse il contesto urbano: la facciata dipinta è infatti in asse con in vicolo di accesso alla piazzetta (in pratica un cortile cinto da antiche case) quasi a voler dare il massimo risalto all’esibizione araldica.

Chiuro

Le storia di Chiuro è indissolubilmente legata al nome dei Quadrio, il cui stemma raffi gurante tre quadrati ricorre su una gran parte di portali di ac- cesso a case sicuramente appartenute ad uno o più rami della famiglia (in via Ghibellini, via Medici, via Visconti, via Rusca). Il più noto esponente del casato fu Stefano Quadrio (1366?-1437/38) dominus et vir, egregius et spectabilis miles, capo della fazione ghibellina.

88 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, quadrature in una sala al piano nobile (part.).

A Stefano, che abitò la casa paterna in contrada Gera sino al 1391 per poi trasferirsi a Sazzo, la tradizione narra che Filippo Maria Visconti, duca di Mi- lano, per ringraziarlo della fedeltà e dei servigi, donasse nel cuore del borgo il palazzo fortifi cato che tuttora vediamo nonostante le manomissioni. Esso occupa l’intero isolato compreso tra le vie Campanile, Torre e Ghibellini, ma abitazioni di pertinenza si trovano anche sui lati opposti delle vie. L’edifi cio conserva un moncone di torre all’imbocco dell’omonima via e una bella cadi- toia a cappa, memorie del suo passato fortifi cato. Sulla facciata prospiciente piazza Stefano Quadrio sono accostati, a testimonianza del lungo utilizzo del caseggiato, una feritoia a croce medievale, un portale architravato con stem- ma Quadrio (XVI secolo), un secondo portalino seicentesco con profi lo mistili- neo sormontato da un balconcino in ferro battuto su cui dà una porta-fi nestra in pietra scolpita con un motivo a rosette cinquecentesco. Allo stesso complesso appartiene, con buona probabilità, la Casa Bori- nelli che costituisce l’estremità orientale dell’isolato. All’interno, superato il bel portale a sesto acuto (altro stemma Quadrio), si entra in un cortile con

89 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, sala dell’appartamento al piano nobile.

portico, il cui soffi tto ligneo cassettonato è una soluzione di rado utilizzata ne- gli spazi esterni se non in edifi ci residenziali di prestigio. La data 1475, incisa all’inizio delle rampe della scala, può essere assunto come generico termine ante quem. La Casa ora Fratelli Balgera presenta due notevoli fronti quattrocente- sche su via Torre e su via Roma. Gli elementi di maggior pregio sono il vasto portale in pietra a sesto acuto con decorazione a cordone e le cinque fi nestre archiacute pure in pietra allineate in bell’ordine su via Roma. Di queste ben tre presentano un davanzale decorato con lo stesso motivo a cordone; una in particolare aveva suggerito al Mulazzani (1983) un legame stilistico con le fi nestre in cotto del Quattrocento milanese. I legami militari ed economici di Stefano possono almeno in parte giustifi care l’ipotesi di un fi ltrato trapasso di forme architettoniche. Una vivida testimonianza della civiltà nobiliare esistente nel XVI secolo a Chiuro e delle sue colte letture di poemi amorosi ci è trasmessa da un’iscri- zione presente sull’architrave di una fi nestra in pietra con motivo a rosette e stemma Quadrio in via Opifi ci,: P[er] TROPO AMAR CON PVRA FEDE Ò FERITO

90 EL [core] | COMO TV VEDE, in cui core è rappresentato da un cuore trafi tto inciso nella pietra. Alla stessa eletta cultura appartiene anche la «camera picta» riscoperta in anni recenti nella Casa Cilichini in via Rusca. Alla casa si accede dopo aver varcato un portale con stemma Quadrio e aver attraversato un androne con volta a botte e unghiature. Sul cortile si affaccia un notevole prospetto com- posto da tre livelli: portico a due archi ribassati su pilastro in muratura, log- giato su colonnine in pietra e sottotetto con colombaie a disegni geometrici. Si tratta a tutti gli effetti di una riedizione semplifi cata del modulo del cortile Besta, sul tipo della pontasca Corte dei Leli. L’affresco frammentario, solo in parte liberato dagli intonaci sovrammessi, si trova in un locale nel corpo più antico dello stabile, verso via Rusca. Esso rappresenta un corteo di fi gure in costumi fastosi, tra cui si segnalano episodi allegorici (le tre coppie che si ten- gono per mano sono verisimilmente le tre età della vita) e di genere (musici e animali fantastici). Testimonianze orali ricordano, al di sotto dell’intonaco, la presenza di scene paesistiche (ruscello e prato) e iscrizioni (probabilmen- te motti edifi canti). La cronologia del dipinto è genericamente riferita alla metà del XV secolo, ma potrebbe essere posticipata di qualche decennio sulla scorta di alcune analogie con una arcaica e anonima Madonna con Bambino e sante nella Casa Quadrio ora Menaglio in via Medici, datata 151[5?] (la lettura 1414, talvolta proposta, è basata su una erronea interpretazione dei caratteri paleografi ci), in cui il volto della Vergine sembra rivelare qualche parentela con le fi sionomie di Casa Cilichini. Tuttavia ogni affermazione in merito va rimandata sino a che non saranno condotti studi specifi ci sull’ico- nografi a e sull’abbigliamento (copricapi e accessori in particolare) delle fi gure rappresentate. La camera picta di Casa Cilichini è comunque una testimo- nianza importante dell’allestimento interno dei palazzi nobiliari, nonché uno dei rari cicli pittorici a soggetto profano in Valtellina, tra i quali si ricordano la «Camera del Falcone» di Casa Berti Grolli a Teglio e la «camera picta» con fi gure allegoriche di Casa Vertemate a Traona (1534), entrambe ricostruite in Palazzo Besta. Sulla stessa via Rusca è la Casa de’ Gatti, del XVI secolo, ma con suc- cessivi interventi. Colpisce l’altezza dei singoli piani, altezza che risalta tanto più nella facciata posteriore sul cortile (visibile da via Opifi ci). L’impianto a L della dimora presenta su questa fronte una torre colombaia innestata sul lato breve e una sovrapposizione di cinque livelli sul lato lungo (portico, loggiato su colonne, piano fi nestrato, seconda loggia con pilastri in muratura, sotto- tetto con fi nestroli quadrati). È singolare il rilievo che viene dato in più di un caso alle colombaie, sia dal punto di vista architettonico, come in Casa de’ Gatti, sia decorativo. Infatti esse erano talvolta sottolineate in facciata da dipinti raffi guranti balaustre, motivi geometrici, stormi di uccelli in volo (a Chiuro in Casa Gandola Quadrio in via Borgofrancone; a Ponte in Casa Quadrio Pontiggia, in Palazzo Guicciardi e in un edifi cio in vicolo Canaletta annesso al Palazzo Quadrio Matteani).

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Il Settecento ha lasciato il suo maggiore segno a Chiuro nel Palazzo Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli. L’edifi cio ha un impianto a T dovuto proba- Quadrio de Maria bilmente a successive aggregazioni edilizie. Il nucleo più antico a nord risale Pontaschelli, soffi tto decorato a stucco in infatti al XV-XVI secolo come prova la presenza del portale archiacuto e del una sala del piano portico nella porzione settentrionale dell’ala mediana. Nel XVIII secolo ven- nobile. nero aggiunti i balconcini in ferro battuto decorati a stucco e il grande portale barocchetto che dà accesso al cortile. Una scala che parte sotto il portico conduce al primo piano, dove si apre il ricco appartamento composto da un’infi lata di quattro sale con raffi nati stucchi e medaglie dipinte con scene mitologiche e bibliche (Ratto di Europa, Storie di Mosè, Storie di Giuseppe, Storie di Giuditta). L’attribuzione al bergamasco Giuseppe Prina ha ormai lasciato il posto a quella al luganese Giuseppe Antonio Torricelli (Agustoni, 1998), spostando la cronologia dei dipinti chiuraschi alla metà del Settecen- to. Di particolare rilievo sono gli stucchi della volta della prima sala, in cui l’anonima ma espertissima équipe di plasticatori (forse ticinesi?) impiega un variegato repertorio di fi gure mitologiche e allegoriche entro una rete di grot- tesche e arabeschi. Nel Palazzo era conservata anche una stüa dai ricchissimi intagli sulle pareti (cariatidi e testine) e sul soffi tto (insegne araldiche), venduta nel- l’Ottocento ed ora nel palazzo Schwerdt di Arlesford (Inghilterra). Il Salice suggerisce un collegamento all’intagliatore Johannes Schmit di Lipsia, autore del coro ligneo nella parrocchiale di Berbenno, morto nel 1678 e più volte do- cumentato a Chiuro. Benché l’ipotesi non sia verifi cabile sulla base delle sole fotografi e d’epoca, essa concorda con un radicale piano di adattamento del- l’edifi cio rinascimentale alla nuova moda barocchetta a partire dal passaggio di proprietà ai Quadrio de Maria nel 1665. Un piano che però non prevedeva una riqualifi cazione dei prospetti esterni, fatta salva la vistosa inserzione del portale. Si tratta di una tendenza in un certo senso introspettiva, tutta con- centrata sugli spazi interni, diversa da quella operante invece nei casi di fab- briche affi date ad architetti forestieri (Pietro Solari a Morbegno e Sondrio) o legate a grandi casati non valtellinesi (Palazzi Salis a Tirano e Chiavenna).

Castione Andevenno

Nelle sparse contrade di mezza costa che compongono il comune di Ca- stione Andevenno sono diversi i casi di dimore padronali connesse ad edifi ci rustici, quasi a costituire piccole aziende agricole. Castione d’altro canto van- tava in epoca storica una fi orente attività economica legata alla produzione ed al commercio del vino che, come ricorda il governatore grigione Guler (1616), era il «migliore e più squisito in tutta la valle […] che dai mercanti viene esportato per venderlo alla corte degli imperatori, dei re, dei principi e dei più nobili signori». Tra i casi più ragguardevoli e meglio conservati ricor-

93 diamo la Casa Sertoli nei pressi della chiesa di S. Rocco, risalente al tardo Chiuro, Casa Cinquecento o agli inizi del Seicento, periodo al quale verosimilmente si può Gandola Quadrio, balaustra dipinta. datare anche la Casa. La presenza del torchio, del frantoio e dei due piani interrati di cantina conferma le affermazioni del Guler circa un’intensa attività produttiva. Nella contrada centrale del paese si incontrano due dimore signorili non legate alla pratica della viticoltura, la Casa Moroni e la Casa Parravicini. Entrambe sono caratterizzate da impianti irregolari. La prima presenta ac- cessi differenziati su due livelli: a piano terreno da un portale si accede ad un ampio androne che immette nelle can- tine e nei locali di servizio; una terrazza consente l’ingresso al piano nobile. Un corridoio centrale, secondo una tipolo- gia diffusa soprattutto nel Settecento, collega i diversi locali. Ad un capo di questo corridoio si trova lo scalone pure settecentesco, a due rampe, con quat- tro sostegni verticali costituiti da colon- nine in pietra e aperture ovali che dan- no luce al vano. Il modello è lo stesso Castione, Casa di Palazzo Cattani Morelli a Teglio ed è Parravicini, pianta riscontrabile in diverse dimore lombar- del piano nobile.

94 de del XVIII secolo. Dirimpetto è la Casa Parravicini, altrimenti detta «Villa» per il vasto giardino che la circonda. L’impianto è a U, con ali diseguali; inoltre il corpo settentrionale verso strada presenta un profi lo sghembo che si ac- corda al tracciato viario. Questi elementi suggeriscono l’accorpamento in fasi successive di fabbricati precedenti. L’ingresso avviene da un portalino nella facciata di fondo della corte. All’interno si trovano una scala in marmo con colonnine e alcuni ambienti voltati e decorati a stucco, nonché una notevole stüa con pigna in maiolica. Al primo piano la particolare conformazione a U ha suggerito di collocare sul lato dell’ingresso una specie di galleria di disbrigo dei locali.

Berbenno di Valtellina

Una certa varietà e complessità negli schemi planimetrici si incontra anche nelle numerose case nobiliari di Berbennno, paese in cui a partire dal XV secolo si concentrarono alcune importanti famiglie, quali gli Odescalchi di Como, i Sebregondi di Domaso, i Parravicini, i Noghera. Nella contrada centrale del paese spiccano le moli compatte di alcune dimore nobiliari. La cinquecentesca Casa Negri ha impianto a U e cortile con portico su pilastri e loggiato superiore già in antico tamponato; all’interno conservava un camino in pietra con lo stemma dei Parravicini, antichi pro- prietari dell’edifi cio. La Casa Odescalchi (XV-XVI secolo), addossata alla Torre medievale dei Capitanei, possiede portali in pietra fi nemente scolpiti sulla fronte sud-est; la complessità planimetrica è giustifi cata dal dislivello del ter- reno e dall’appartenenza dell’edifi cio alla contrada fortifi cata facente perno sulla Torre stessa. La settecentesca Casa Mucat già Noghera ha una lunga facciata cui si affi anca il corpo quasi cubico della cappella eretta nel 1724. In località Crotti è un’altra Casa Parravicini, con impianto a L, torretta colom- baia, portale con incisa la data 1563 e loggiato su pilastri al secondo piano. Sulla facciata, al di sotto di questo loggiato, spicca un affresco con insegne araldiche dei Parravicini e di alcune famiglie imparentate con l’illustre casato. Infi ne a Polaggia, frazione prevalentemente agricola, sorge la Casa Ranzetti, pure con impianto a U, in cui il corpo di fondo del cortile appare traforato da un doppio loggiato ad arco su colonnine in pietra che dà luce al vano scale. Le due ali laterali sono inoltre svasate per dare maggior respiro alla corte inter- na; in una di esse era ubicato un ampio salone di rappresentanza. L’edifi cio rivela pertanto una sapiente e disinvolta capacità di adattamento degli sche- mi planimetrici alle esigenze abitative. Un cenno a parte merita la Casa Piccioli in località Palasio, per la deco- razione a fresco tardo-cinquecentesca che collega con cornici geometriche, fregi e losanghe le aperture della fronte nord. Quella delle facciate dipinte è infatti una tipologia un tempo assai diffusa nelle case civili della valle, ma che

95 a causa di sventurate vicende conservative solo di recente è stata riproposta all’attenzione degli studiosi. Nei pressi sorge anche la Casa Sassi de’ Lavizzari (XVII-XVIII secolo), con portale bugnato di grandi dimensioni, ai lati del quale due salienti in muratura, con base in pietra, posti in tralìce, fungono da invito all’ingresso della dimora.

I borghi della costa orobica

I comuni della sponda orobica sono storicamente caratterizzati da uno sviluppo edilizio minore rispetto a quelli del versante retico. Tuttavia grazie allo sfruttamento di alcune risorse naturali, quali le miniere di ferro della Val- madre, e alla presenza di percorsi viari connessi al porto di S. Gregorio nei pressi della Sirta, anche i borghi di Fusine, Cedrasco e Caiolo a partire dal XIV secolo godettero di una certa fl oridezza che raggiunse il culmine circa due secoli più tardi quando in particolare Fusine e Caiolo giunsero a contare duecento famiglie. Segni di questo passato si scorgono nelle chiese e, in misura minore, in alcune case da nobile. A Fusine si devono ricordare la cosiddetta Casa al Chioso del XVI secolo, con un bel portalino in pietra sul cui architrave è scolpito lo stemma del notaio bergamasco Viviano Cattaneo, e la Casa detta dei Conti, di poco successiva, legata ad un ramo dell’importante consorteria familiare dei Salis, che qui si insediò dal Seicento in poi, per interessi legati al controllo dell’attività di estrazione mineraria. La spaziosa facciata su tre piani, con regolare distribuzione delle aperture intorno all’asse del portale ad arco in pietra lavorata, e l’assetto interno, con atrio e scala a due rampe in posizione frontale, sono caratteri tipici dell’architettura residenziale colta. A Cedrasco si segnala la Casa Bonini-Pomona, più tarda (XVIII secolo), con bel portale in pietra sagomata dalle linee concave, sormontato da balconcino in ferro battuto. La presenza di un affresco di soggetto sacro sulla facciata è coerente con il diffuso senso religioso della popolazione a tutti i livelli sociali. La casa è documento di un residuo sviluppo economico ed edilizio in questi paesi anche dopo il Seicento. A Caiolo è pure presente un ramo della famiglia Salis. Una Casa Salici si trova poco a monte della contrada di S. Pietro e pre- senta resti di decorazione a graffi to e la data 1646. In paese, lungo la via Roi, merita un cenno una Casa seicentesca con portale in pietra datato 1678, atrio con colonna centrale che sorregge le volte a crociera e corpo turriforme sul lato posteriore (colombaia). L’edifi cio, nonostante l’inequivocabile carattere residenziale, conservava nell’atrio a pian terreno un torchio per la spremitura dell’uva. Sul conoide di deiezione del torrente Torchione, che discende dalle Orobie, si è sviluppata, sino da epoca antica, Albosaggia, già «vicinanza» di Sondrio e quindi comune autonomo dal tardo Trecento. Vi furono infeudati in

96 successione i Quadrio e i Paribelli. Il Castello, tuttora appartenente agli eredi di questi ultimi, è in realtà un’articolata costruzione residenziale sorta nel XVI secolo a cingere l’antica Torre dei Quadrio risalente forse al XII secolo, tutto- ra ben leggibile in pianta per il massiccio spessore dei muri (nel corso degli ultimi lavori di restauro è emerso un lacerto di affresco medievale con una Madonna e un Santo vescovo). È il caso forse più lampante di un procedimen- to di aggregazione-amplimento-sostituzione di antiche strutture difensive medievali che è comune a molta architettura residenziale valtellinese. Conse- guenza di questa tendenza edilizia è una scarsa caratterizzazione delle fronti esterne, che come nel caso presente sono piuttosto semplici, nonostante la committenza elevata. Il complesso conserva ambienti interni di pregio, tra cui una stüa tardo-cinquecentesca recante sul soffi tto lo stemma Paribelli e due sale con quadrature settecentesche di Giuseppe Porro. Da un edifi cio rustico proviene l’affresco d’inizio Cinquecento raffi gurante la Madonna col Bambino e il martirio di Simoncino da Trento, attribuito a Battista Malacrida da Musso, testimonianza preziosa della diffusione del culto anti-semita di questo beato nelle valli alpine (da Trento a Bormio). Addossata alla cinta muraria accanto al cancello d’ingresso si trova la cappella gentilizia dedicata a S. Nicola da Tolentino, eretta dai Carbonera (pregevole il portale in pietra, datato 1558, con fregi ispirati ad un certo gusto per l’antico diffuso in valle già dai primi del secolo).

Affreschi e decorazioni interne

La decorazione interna dei palazzi valtellinesi attende ancora uno studio complessivo, che non si fermi alle emergenze maggiori ma si proponga di tro- vare caratteri stilistici comuni e di rintracciare singole personalità o botteghe di artisti, sia sul fronte della pittura sia su quello della decorazione a stucco. Spesso l’analisi dei complementi decorativi consente di precisare la cronolo- gia delle fabbriche edilizie e di evidenziare mutamenti nel gusto e nelle mo- dalità dell’abitare. Il Palazzo Guicciardi di Tresivio, ora in parte sede del Muni- cipio, presenta sale con riquadri affrescati con vedute di Roma evidentemente tratte da stampe cinquecentesche e sale con volte a stucco barocchette. La stratifi cazione delle fasi costruttive è infatti palese a chi osservi il Palazzo dal giardino retrostante, dove sulla lunga fronte si succedono il corpo sporgente della cappella seicentesca, l’emergenza di una torre-colombaia e di un portico con loggiato cinquecentesco. Merita un cenno supplementare la Casa della Torre di Pendolasco, che s’innalza sul dosso detto Boisio alle spalle della chiesa di S. Fedele (Pog- giridenti). Una fortuita scoperta nel 1996 ha rivelato nelle stanze interne dell’edifi cio (un semplice parallelepipedo in pietra con grossi conci angolari) la presenza di un vasto ciclo decorativo a fresco al di sotto dello scialbo. Le

97 accurate ricerche documentarie di Franca Prandi consentono ora di precisare, oltre all’origine almeno tardo-trecentesca della Torre, l’entità e la cronologia dei restauri cinquecenteschi. Tra il 1551 e il ’59 infatti l’edificio, ormai fati- scente, passava in proprietà ad Antonio Sermondi, il cui figlio Giovan Andrea, già noto agli studiosi per la sua biblioteca erudita, dava avvio ai lavori. La data 1560 in cifre romane compare su un asse della gronda del tetto come indizio di un primo sopralzo dell’edificio. Pertanto il ciclo di affreschi va col- locato, in via ipotetica, tra il ’60 e il ’69, anno di morte di Giovan Andrea. In Albosaggia, Castello Paribelli, stüa al questo modo gli affreschi di Pendolasco si vanno ad affiancare a quel corpus piano nobile. di affreschi attribuibili al gruppo di pittori che tra il sesto e il settimo decennio del secolo raccolse l’eredità della bottega di Vincenzo De Barberis, autore dei due maggiori cicli pittorici di Palazzo Besta. Gli stessi pittori si suole vedere al- l’opera sui ponteggi del Palazzo Quadrio Venosta di Mazzo (1564) e ora anche della Casa Spini Valenti di Talamona (che però, in virtù del carattere specifi co dell’opera e della documentata presenza del De Barberis a Talamona intorno al ’27-’35, noi riteniamo di mano dello stesso bresciano). Il tipo di decorazio- ne presente a Pendolasco rivela una singolare unità di concezione, ma non ci pare di poter scorgere particolari elementi di novità, limitandosi di fatto il pittore all’assemblaggio di fi gure (cariatidi) e fregi di repertorio, sia pur ad un elevato livello qualitativo.

Canoniche, scholae laicorum e un esempio di edilizia pubblica

Le case annesse a edifi ci di culto, con funzioni spesso diversifi cate da caso a caso, costituiscono una tipologia a sé, con propri caratteri, che talvolta attinge anche al repertorio della tradizione residenziale. Lo schema distribu- tivo più diffuso a livello locale è quello con corridoio centrale e rampa unica di scale, che si ritrova nelle case parrocchiali di Montagna e di Primolo (cin- quecentesca la prima e settecentesca la seconda). All’interno delle canoniche doveva essere consueta, almeno per le parrocchie più antiche e ricche, la pre- senza di dipinti e decorazioni, talvolta di insegne araldiche dei curati. È il caso ancora ben documentabile della casa parrocchiale di Berbenno, a fi anco della chiesa di S. Maria Assunta. L’edifi cio, di origini quattrocentesche ma rifabbri- cata nel 1703 dal capomastro ticinese G.B. Cassarini, conserva sulle pareti dell’atrio una teoria di blasoni tra cui quelli di Guidotus de Casteliono (1452) e Bartolomeo Salis (1520-63). Gli arcipreti di Berbenno possedevano inoltre una dimora estiva in località Crotti, anch’essa ristrutturata da Cassarini e aiu- ti nel 1706, sulla cui facciata è dipinta un’Assunta del 1709. Era all’epoca ar- ciprete Bernardo Piazzi di Ponte. Una tipologia a sé stante è rap- presentata dagli edifi ci sorti per ospita- re le scholae laicorum legate alle con- fraternite ed ai santuari. Due esempi notevoli si trovano a Ponte. Il primo è la Scuola di S. Marta, a fi anco della chiesa di S. Maurizio ed ora inglobata nella casa parrocchiale. Essa era in Albosaggia, Castello origine costituita da un oratorio aperto Paribelli, planimetria (in evidenza la torre al piano terreno e da un’aula magna e del XII sec.). due sale al primo piano (ora teatro co-

99 munale, con resti di architetture antiche). Così la descrive il vescovo Archinti Albosaggia, Castello Paribelli, Madonna e negli Atti della sua visita pastorale del 1614-15: «[…] portico con cappella e Santo vescovo. altare di S. Marta, appartiene agli scolari di S. Marta. In detto altare si ce- lebra, ma la cappella è aperta su due lati». La cappella, i cui affreschi sono attribuiti Fermo Stella (ca. 1526-28), venne chiusa durante i lavori di amplia- mento del 1582, data che compare in un’iscrizione sulla facciata. Il cortile è porticato sui lati sud e est, mentre sul lato nord un scala esterna consente l’accesso al piano superiore. Il secondo edifi cio è il Palazzo cinquecentesco annesso al santuario della Beata Vergine di Campagna, eretto nel 1568, come ricorda l’Archinti, «per riporvi le elemosine di vino e grano […] affi ancata da un magazzino per riporvi le merci da vendere» in occasione delle fi ere nelle ricorrenze mariane. Il Palazzo presenta una facciata su due livelli, dominata dal portale in conci di marmo e dalla soprastante bifora architravata con co- lonnina e abbellita da un fregio dipinto nel sottogronda. Tutte le fi nestre sono in pietra con architravi e davanzali modanati. All’interno un atrio con volte a crociera distribuisce i locali, dotati di volte ad ombrello e camini in pietra. La qualità elevata delle fi niture si accorda pienamente con la rielaborazione di modelli residenziali (Palazzo Besta), in modo speciale nella facciata. L’edilizia pubblica è un settore che condivide con l’architettura residen- ziale diversi caratteri sia tipologici sia stilistici. Purtroppo gli esempi conser- vati sono pochissimi e pressoché illeggibili. Emerge dai dati raccolti in sede di censimento il caso della cosiddetta Cà di Tudesch a Lanzada, in frazione Tornadri. Sorge in vicinanza alla chiesa di S. Pietro (inizio XVII secolo), lungo l’antico percorso per Campo Franscia, un tempo frequentata via di collega- mento con la Svizzera, attraverso la Val Poschiavina. Durante la dominazione grigiona, nel secolo XVII, vi si trovava la dogana. Va ricordato, infatti, che Lanzada prima del 1620 contava bel diciotto famiglie di protestanti, a testi- monianza degli intensi rapporti con le regioni d’oltralpe. La struttura presenta un passaggio voltato sulla strada, alcuni ambienti interni riconoscibili come carceri e camera delle guardie e altri locali al piano seminterrato con accessi autonomi. L’affresco su una delle facciate, raffi gurante S. Giovanni Nepomu- ceno, protettore dei ponti e dei passaggi, si accorda perfettamente con l’an- tica funzione dell’edifi cio.

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BIBLIOGRAFIA

Le diffi coltà di accesso e le numerose manomissioni, nel caso di edifi ci Tresivio, Palazzo Guicciardi, di proprietà privata, hanno negativamente infl uito sul progresso degli studi. decorazione a Solo recentemente sono apparsi contributi sul tema dell’architettura civile: stucco di una sala al A. ROVETTA, L’architettura, in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il piano nobile. secondo Cinquecento e il Seicento, Bergamo 1998, pp. 47-75; L. CORRIERI, Esempi di architettura civile nel Rinascimento in Valtellina e contadi, in Il Ri- nascimento in Valtellina e Valchiavenna. Contributi di storia sociale, Sondrio 1999, pp. 131-143; A. ROVETTA, L’architettura in Valtellina dall’età sforzesca al pieno Cinquecento, in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Medioe- vo e il primo Cinquecento, Bergamo 2000, pp. 83-133. Su singoli edifi ci e palazzi citati nel testo: G.G ALLETTI-G. MULAZZANI, Il Pa- lazzo Besta di Teglio. Una dimora rinascimentale in Valtellina, Sondrio 1983; Un paese di nome Ponte. Piccola guida al comune di Ponte in Valtellina, a cura di P.G. Picceni, Ponte in Valtellina 1983; Chiuro. Territorio, economia e storia di una comunità umana, a cura di F. Monteforte e E. Faccinelli, Chiuro 1989; A. CORBELLINI, Indagini su sei secoli di storia, in La chiesa della Madonna di Campagna, Ponte in Valtellina 1993, pp. 13-54; F. PRANDI, La casa della torre di Pendolasco, in BSSV, 52, 1999, pp. 45-88; EAD., Aggiunte a «La casa della torre di Pendolasco», in BSSV, 53, 2000, pp. 89-118; Chiese, torri, castelli, palazzi. I 62 monumenti della Legge Valtellina, a cura di F. Bormetti e M. Sassella, Sondrio 2004 (2° ediz. aggiornata). Sugli affreschi presenti nei palazzi: S. COPPA, La pittura di paesaggio nella tradizione artistica valtellinese dal Medioevo al Settecento, in Il paesag- gio valtellinese dal romanticismo all’astrattismo, Milano 1990, pp. 32 sgg.; F. MONTEFORTE, Settecento privato: l’antica dimora dei Quadrio Pontaschelli a Chiuro, in «Contract», 13, 1991, pp. 17-19; E. NOÈ, «Chiuro, palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli», in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Set- tecento, Bergamo 1994, pp. 233-235; L. MELI BASSI, Di un affresco quattro- centesco a Chiuro, in BSSV, 49, 1996, pp. 33-36. Sugli arredi lignei: A. GIUSSANI, Stufe artistiche valtellinesi, in «Rassegna Archeologica della Antica Provincia e Diocesi di Como», fasc. 59-61, 1909, pp. 139-161; E. BASSI, La Valtellina. Guida turistica illustrata, Milano 1927-28, rist. Sondrio 1995, passim; T. SALICE, Johannes Schmit von Leipzig e i suoi lavori d’intaglio e d’intarsio nella chiesa dell’Assunta in Berbenno, in «Voltu- rena». Miscellanea di scritti in memoria di Egidio Pedrotti, Sondrio 1965, pp. 101-113. Sulla nobiltà valtellinese: Stemmi della «Rezia Minore». Gli armoriali conservati nella Biblioteca Civica «Pio Rajna» di Sondrio, a cura di F. Palazzi Trivelli, M. Praolini Corazza e N. Orsini De Marzo, Sondrio 1996. In particolare sui Guicciardi di Ponte: Albero genealogico costruito dall’ing. dott. Guiscardo Guicciardi di Luigi di Gaudenzio da Sondrio, in BSSV, 53, 2000, pp. 345-373. Sull’insediamento dei Salis a Caiolo e Fusine: L. DELL’AVANZO STEFANI, L’estra- zione e la lavorazione del ferro a Fusine, in BSSV, 42, 1989, pp. 229-244.

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“MIRA QUESTE PIAGE O PECHATORE…” Spunti di lettura sugli affreschi devozionali di ambito popolare.

Lorenza Bertoletti Nicoletta Moretti Maurizio Zucchi

“Dalla Samaria è giunto fi no a qui, a Roma, la capitale dell’impero. Si- mon Mago è una vera minaccia per la nascente comunità cristiana. Certo è un impostore. Ma i Cristiani, vedendolo fare i suoi trucchi, che cosa penseranno? Non ne saranno confusi o turbati nella loro fede? Eccolo, che si libra in volo sopra il Foro… Signore, Signore, ti prego, fa’ che cada e le sue menzogne ven- gano alla luce…”. Così implora Pietro inginocchiato su due lastroni di pietra. Il Signore ascoltò l’invocazione e Simon Mago cadde rovinosamente fratturan- dosi la gamba in tre punti. La scena, che richiama una tra le numerose leggende raccontate in testi apocrifi intorno al personaggio del santo, è rappresentata sulla facciata dell’ex monastero di san Benigno a Berbenno; un soggetto curioso e inconsueto, che non trova altri diretti riscontri sul nostro territorio. Tuttavia il motivo ispira- tore di questa singolare raffi gurazione potrebbe proporsi come uno dei possi- bili fi li conduttori nella lettura del vasto patrimonio iconografi co locale. In che misura il bisogno di protezione dal male, sia inteso come Satana, sia come malattia, disgrazia, eresia, può aver infl uenzato la produzione iconografi ca di Berbenno di Valtellina, località carattere popolare? E quanto questa si caratterizza per le singolari e dolorose Monastero, via esperienze vissute dalla Valtellina tra il XV e il XIX secolo, ambito cronologico Medici. Affresco raffi gurante san entro il quale si colloca la maggior parte delle nostre santelle? Pietro inginocchiato I soggetti più di frequente rappresentati sul nostro territorio (santi guer- e Simon Mago alzato in volo. rieri, taumaturghi, apostoli, patroni delle attività agro-pastorali, santi della

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Poggiridenti, “Controriforma”, la Vergine nelle molteplici varianti iconografi che), se stretta- contrada Surana. mente riferiti al vissuto delle comunità locali, si arricchiscono di signifi cati che Particolare dell’affresco vanno al di là dei comuni stereotipi agiografi ci e che consentono, a loro volta, raffi gurante il una migliore comprensione della comunità di cui sono espressione. martire tebano san Fedele. La raffi gurazione dei santi non solo rispondeva al bisogno psicologico dei fedeli di rassicurazione, ma rendeva comprensibili anche al pubblico meno preparato gli elementi più diffi cili della fede e della religione: una sorta di teologia popolare, strumento per la trasmissione della dottrina cattolica e la preservazione della sua ortodossia. Interessanti spunti nell’iconografi a locale sono suggeriti dai soldati della legione Tebea, titolari di alcune antiche parrocchie nella Media Valtellina: san Vittore, san Fedele, san Maurizio, sant’Alessandro1. Secondo una versione poco diffusa del loro martirio, i legionari tebani avrebbero dovuto massacrare i contadini galli già cristianizzati, ribellatisi ai Romani pagani. Il loro rifi uto e il conseguente martirio assumono anche il signifi cato dell’impegno contro la tracotanza dei dominatori e la persecuzione religiosa: l’iconografi a poteva, nella Valtellina costretta nella dolorosa esperienza del dominio straniero e protestante, rilanciare e rinnovare anche questo messaggio. Gli affreschi de- vozionali ispirati a questi santi ripropongono la stessa tipologia iconografi ca caratterizzata dalla bellezza giovanile, dalla posizione eretta che contraddis- tingue la persona pronta ad agire. Nella gamma cromatica ricorrono il rosso del fuoco e del sangue, la palma simbolo del martirio, ma anche di vittoria. Il martire tebano è talora raffi gurato in sella ad uno scalpitante cavallo, come il san Fedele sulla santella in posizione dominante a Ca’ Ranin. Un destriero ricorre in un’altra fi gura di santo legata ad un mondo av- venturoso e fi abesco: quella di san Giorgio cavaliere coraggioso che vince il drago e libera la principessa estratta a sorte per essere offerta in pasto al mostro. Il santo, con la lunga lancia infi lzata tra le scaglie viscide della bestia, raffi gurato sul muro di una vecchia casa a Caiolo, testimonia il desiderio del devoto di poter vincere le avversità e i malanni. Che cosa dire di un angelo guerriero? Quello chiamato Signifer, colui che, secondo l’Apocalisse, porta l’insegna alla testa della schiera degli angeli che combattono contro il dragone. Nimbato e giovanile, Michele veste di corazza ed elmo, talvolta regge una spada fi ammeggiante, oppure la bilancia2. La sua popolarità sul nostro territorio è attestata non solo dagli affreschi votivi, ma anche dalla frequenza nell’onomastica, dal riferimento alla sua festa (29

1 Secondo un’ipotesi accreditata, il culto dei martiri tebani nell’arco alpino si snoda lungo le antiche vie di comunicazione e di traffi co: gli stessi corridoi attraverso i quali penetrarono vari culti pagani, e, più tardi, il Cristianesimo tracciò il proprio itinerario per l’evangelizzazione. 2 Guardiano della Chiesa contro i demoni, avvocato difensore nel giudizio fi nale accompagna in cielo le anime del purgatorio; patrono delle Confraternite seppellitrici, protettore dei doratori perché rappresentato con la corazza dorata, e di tutti i mestieri che si servono della bilancia.

107 Caiolo, via Pelafi chi. Affresco seicentesco raffi gurante san Giorgio a cavallo che sconfi gge il drago.

settembre) come scadenza per il pagamento dei contratti d’affi tto3, dall’uso dell’espressione “Far san Michele” nel signifi cato di traslocare o sgomberare, e, ancora, dalla familiarità con cui lo si evocava in una semplice cantilena alla coccinella: “Pola pola gula an ciel, che ’l te ciama al san Michel, san Michel l’è ’ndacc a Pauia, pola pola gula uia”. Un’altra idea suggerita dalla fi lastrocca è quella del richiamo alla matrice longobarda della devozione al santo. Vivis- sima fi n dai primi secoli in oriente, è legata in occidente ai Longobardi che attribuirono all’Arcangelo la vittoria ottenuta sui Saraceni e si fecero diffusori del suo culto dedicandogli le più belle chiese, come quella, appunto, di Pavia. Patrono degli uomini d’arme, l’iconografi a locale lo presenta soprattutto nei luoghi che sono legati ad un antico castello, della cui chiesetta era il titolare come, nel Terziere di mezzo, a Sazzo, Castello dell’Acqua, Tresivio, Berben- no.

3 “...libras quinque et soldos decem hinc ad festum Santi Michaelis proxime futurum” : Archivio

108 Per molti versi in contrasto con quella dell’Arcangelo è la fi gura di san Giuseppe. Negli affreschi devozionali più antichi si intravvede, defi lata, la sua immagine di vecchio con la barba, canuto, forse per il bisogno popolare di rendere più spiegabile il misterioso rapporto di fedeltà e di protezione alla Vergine. Un cliché iconografi co sulla mansueta, taciturna pazienza del “vec- chio” padre putativo. In epoca più tarda viene raffi gurato giovane, con gli at- trezzi del falegname, sempre con un bastone fi orito simbolo di una scelta di vita4; è patrono della famiglia, dei moribondi e della buona morte. Invocato contro la morte improvvisa5 è san Cristoforo, molto venerato in Valtellina soprattutto nel Medioevo. Il santo garantiva la salvezza al sem- plice sguardo a viandanti e pellegrini. Occorreva quindi che la sua immagine fosse ben visibile da lontano; per questo domina sulla parete esterna delle chiese, come alla Sassella, Caiolo, Faedo, Ponte, suggerendo la ricostruzione di antichi itinerari di transito6 . La sua statura gigantesca contrasta con la minuscola fi gura del bimbo sulla spalla, aggrappato ad un ciuffo di capelli; le gambe del santo, come colonne, sprofondano nell’acqua dove guizzano pesci o mostri marini non privi di antichi signifi cati simbolici. Racconta la Legenda aurea che le quattrocento frecce dei soldati che dovevano colpirlo rimasero sospese intorno alla sua persona; una sola tornò indietro e colpì un occhio del re che aveva ordinato l’esecuzione. Per questo san Cristoforo è patrono degli arcieri e forse la fi gura che campeggia a Chiuro, sul portale in faccia alla torre dei Rusca, è legata agli uomini d’arme di questa famiglia7. Cristoforo era inoltre protettore dei traghettatori, in ricordo dell’episodio in cui trasportò il bambino Gesù dall’altra parte di un fi ume impetuoso: un legame con l’acqua

Stato Sondrio, Notarile, vol. 215, Quadrio Antonio, 1475. “…stara otto di segale consegnate alla casa del signor padrone nel giorno di San Michele d’ogni anno”: ASSo, Notarile, vol. 8850, Paini Antonio, 1773. 4 La fi oritura del bastone rimanda ad Aronne, indicato come sacerdote perché il suo bastone aveva fi ori e frutti di mandorlo. Può alludere anche all’episodio descritto negli apocrifi della tentazione di Giuseppe, quando il diavolo gli disse, per beffa, che la maternità della sua sposa era divina come poteva fi orire il bastone secco che aveva in mano: e il bastone fi orì. 5 Viene anche invocata protettrice dalla morte improvvisa Santa Barbara; una vicenda, la sua, tramandata con sapore di favola edifi cante. Il padre, che l’aveva rinchiusa in una torre di bronzo e che le infl isse il colpo mortale fu incenerito da un fulmine a ciel sereno. Per questo l’iconografi a la rappresenta con la torre alle spalle e una pisside in mano, attributi che nascono dal patronato contro la morte cattiva e improvvisa. Il fulmine vendicatore ha ispirato il suo pa- tronato contro le folgori, esteso a tutti quanti hanno a che fare con gli esplosivi come i minatori della Valmalenco, da cui è venerata. 6 Lungo l’asse vallivo esistono ancora i riferimenti di Cosio, Villapinta, Sassella, Ponte, Chiuro, Boalzo di Bianzone, Lovero, Sondalo, Bormio, che ricostruiscono la strada di fondovalle. Quelli invece di Talamona, S. Bernardo di Caiolo, S. Rocco di Ponte in Valtellina, Molina in Valdidentro, quello sommerso dall’invaso di Cancano a San Giacomo di Fraele, e quello di Uzza in Valfurva, rivelano i collegamenti con le valli laterali. Vedi E. BERTOLINA, L’iconografi a di S. Cristoforo, in L’altra Lombardia, Milano 1974, pp. 176-189. 7 In data 1 aprile 1483 il nobile Maffi olo fu Simone fu Visconte de Rusconibus di Chiuro lascia ai suoi eredi l’onere di far dipingere l’immagine della Vergine e quella di San Cristoforo davanti alla porta della chiesa di san Giacomo di Chiuro. ASSo, Notarile, vol. 348, Guicciardi Giacomo, 1483.

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Caiolo, cui si allude nella tarda raffi gurazione del santo sulla casa presso il lago Palù, Chiesa di San Bernardo. a Chiesa in Valmalenco. Affresco Il santo che per eccellenza si lega alle acque è Giovanni Nepomuceno, raffi gurante san Cristoforo rappresentato in abito talare, rivestito dei paramenti religiosi, con il crocifi sso con il Bambino in mano e le stelle intorno al capo. Lo si trova sui ponti, sulle edicole con sulla spalla che regge altri santi, in luoghi soggetti al passaggio delle acque da cui si invocava la il mondo. protezione. Anche il capitello di San Michele a Chiuro, sempre scampato alla frequente furia del torrente Valfontana, era in realtà dedicato a san Giovanni Nepomuceno, che vi era raffi gurato nell’atto di essere gettato nella Moldava. Potrebbe essere legata all’acqua, più propriamente agli antichi mest- ieri che facevano uso delle ruote idrauliche, la devozione per santa Caterina d’Alessandria, non a caso diffusa ad Albosaggia, Boffetto, Castello dell’Acqua, dove numerosi erano i mulini. Fu una tra le leggendarie sante dei primi secoli. Battuta con gli scorpioni e rinchiusa in carcere, fu sottoposta al tormento di quattro ruote con chiodi appuntiti. Effi giata in abiti principeschi, con la corona regale in testa e con una ruota accanto, raggiunse la massima popolarità alla fi ne del Medioevo, quando la sua festa fu considerata un giorno propizio per trovare marito. Questa virtù riconosciuta a santa Caterina sollecita curiosi interrogativi: la sua mediazione per un buon matrimonio, così come la bened- izione della maternità evocata dalla raffi gurazione dell’Angelo che annuncia a Maria la nascita di Gesù potrebbero essere stati motivi ispiratori di alcune santelle nella zona di Castello dell’Acqua, dove, in modo quasi esclusivo ris- petto all’iconografi a devozionale della Media Valtellina, è presente il tema dell’Annunciazione. A dar vita alle singole realizzazioni c’è sempre una oc- casione privata, ma in che misura il ripetersi, su un’area territoriale limitata, degli stessi soggetti o degli stessi moduli, può essere espressione di bisogni sentiti e condivisi da un’intera comunità? Si tratta piuttosto di una moda (il santo o il tema del momento), o del desiderio di emulazione da parte del committente o dell’esecutore dell’opera? Nella religiosità locale spesso il culto dei santi e il culto delle fonti si sovrappongono. Oltre al caso delle acque di san Carlo in Alta Valtellina, em- blematico è quello della fonte di san Luigi a Sazzo. Durante la costruzione del santuario, sulla preesistente chiesa di San Michele, “scaturì d’improvviso una sorgente d’acqua limpidissima che oltre agli usi bisognevoli dell’edifi zio, ha servito anche moltissimo al comodo degli Abitanti; e talvolta per fi no a sollievo degli infermi, che per devozione ne bevevano in vece di medicina”8. Il capi- tello che oggi sorge sul luogo del miracolo è senz’altro uno dei più particolari, perché rappresenta, oltre a san Luigi in cotta bianca da novizio gesuita, con il giglio e il crocifi sso, anche la gente che si reca a riempire brocche d’acqua alla fonte miracolosa. E’ una folla di signori, contadini, popolani, a testimonianza

8 V. CEPPARI, Vita di San Luigi Gonzaga, Venezia 1789, p. 228.

111 A lato, Poggiridenti, contrada Surana. Particolare dell’affresco raffigurante san Giovanni Nepomuceno e sant’Antonio da Padova.

Sotto, Castello dell’Acqua, località Raina. Affresco raffigurante la Madonna del Buon Consiglio, santa Caterina d’Alessandria e san Giovanni Evangelista. di una venerazione che univa tutti, indipendentemente dalla classe sociale. Il culto di san Luigi e san Carlo, nuovi santi proclamati successivamente al Concilio di Trento, è legato alla Controriforma, della quale possono dirsi dei campioni. La devozione per san Luigi, territorialmente più circoscritta, ma così intensa nei paesi vicini al santuario di Sazzo da farlo considerare il santo per antonomasia, è da ricondursi, oltre agli eventi miracolosi, alla promozi- one che ne fecero i Gesuiti, signifi cativamente presenti e attivi nella zona. San Carlo e san Luigi non tardarono a farsi posto tra i santi invocati contro le epidemie, grazie alla dedizione dimostrata nel portare sollievo spirituale ai moribondi. Nella diffusione iconografi ca i due santi sembrano prendere il posto dei vecchi e familiari protettori contro le malattie e pestilenze, senza però riuscire ad eguagliarne la popolarità. E’ san Rocco che in questo campo occupa una posizione privilegiata, per la notevole quantità di chiese a lui dedicate. Presenta un’iconografi a riconos- cibile: una gamba scoperta per mostrare la ferita della peste e un cagnolino al suo fi anco a ricordo dell’animale che ogni giorno portava al santo ammalato un pane avanzato dalla mensa del padrone. Ipotetiche vie di san Rocco, itin- erari di fede, miracolo, preghiera, possono essere suggerite dalle numerosis- sime cappelle e santelle disseminate sul nostro territorio. Contende la popolarità a san Rocco un altro santo taumaturgo: una fi gura inconfondibile dalla lunga barba bianca, vestita con un saio monacale, con un bastone a forma di tau a cui è appeso un campanello. Rara è l’iconografi a con la fi amma in mano, come nell’affresco in località Orsolino, dove sant’Antonio Abate appare arguto e giovanile. Non manca ai suoi piedi il porcellino che lo accompagnò all’inferno quando andò a prendere il fuoco che mancava sulla terra. La leggenda racconta che, mentre sulla soglia sant’Antonio tentava di Pagine seguenti, Ponte in Valtellina, convincere il diavolo a lasciarlo entrare, il maialino furtivamente sgattaiolò località Guicciarda. all’interno, scorazzò dappertutto, sconvolse la società dei diavoli e ne uscì Affresco fi nalmente con un tizzone ardente in bocca. Di gran lunga è il santo più rap- raffi gurante la Vergine con il presentato, sia sulla facciata delle case nobiliari sia su quelle rurali e anche Bambino, san sopra i portoni delle stalle, perché non solo è un santo taumaturgo invocato Giuseppe, san Rocco e san per il cosiddetto “fuoco di sant’Antonio”, ma anche patrono degli animali che Sebastiano. Il nel giorno della sua festa, in alcune località, vengono ancora oggi portati sulla committente, 9 Giovanni piazza e benedetti . L’appropriazione del santo da parte del nostro mondo Guicciardi, rurale è testimoniata, oltre che dall’onomastica (peraltro diffusa anche in am- fece realizzare l’opera come biente aristocratico: l’Antoniolo contro il più umile Toni-Tugnin), anche dalle ringraziamento fi lastrocche locali che lo vedono protagonista, magari promosso cittadino per lo scampato onorario come il sant’Antoni del Rumbel. Il detto popolare “sant’Antoni dela pericolo dalla peste del 1630. barba bianca fam truà quel che me manca” sembra invece testimoniare la

9 Secondo una simpatica tradizione popolare, la notte della vigilia del diciassette gennaio gli animali della stalla parlano tra di loro.

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sovrapposizione tra sant’Antonio Abate e il suo omonimo sant’Antonio da Pa- Berbenno di dova. L’immagine di quest’ultimo, per la verità giovanile e sbarbato, compare Valtellina, località Motta alta. Affresco nella consueta iconografi a con Gesù Bambino, il Vangelo in mano ad indicare raffi gurante la la sapienza, e il giglio, simbolo di purezza. Perché l’immagine di sant’Antonio Madonna in trono, incoronata, che da Padova ricorre nella maggior parte degli affreschi devozionali a partire allatta Gesù. dal XVII secolo, da quando il santo gode fama di far trovare gli oggetti per- Ai suoi lati sant’Antonio abate duti?10 e san Cristoforo con il Bambino.

10 Una tradizione devozionale è fondata sulla certezza del suo aiuto; se si chiede si ottiene: Si quaeris miracula - mors, error, calamitas - daemon, lepra fugiunt; - aegri surgunt sani... (se chiedi i miracoli - morte, errore, disgrazia - demoni, lebbra fuggono; - i malati si alzano gua-

116 I santi non sono mai soli. Al centro dell’immagine fi gurativa è quasi sem- pre la Vergine in molteplici tipologie. La diffusione dell’iconografi a mariana è legata al fi orire degli ordini religiosi, alla vicinanza con le terre originarie dei movimenti eretici, alla presenza dei collegi gesuitici di Ponte e Bormio, alla capillare geografi a devozionale offerta dalle confraternite locali. Le Confraternite del SS. Rosario, fondate in molte parrocchie dai do- menicani del convento di Morbegno, hanno diffuso l’immagine di Maria con il piccolo Gesù e la corona del rosario11. L’Ordine Carmelitano aprì la strada alla devozione per la Madonna del Carmelo, iconografi camente rappresentata con

riti). Sequenza di frate Giuliano da Spira, richiamata nella raffi gurazione di sant’Antonio della santella di casa Paruscio in località Concile, a Ponte in Valtellina. 11 Alla Vergine del Rosario fu attribuita l’esaltante vittoria sui Turchi nella battaglia di Lepanto del 1571; lo stesso anno venne istituita la festa liturgica da parte di papa Pio V, già zelante inquisitore nella Valtellina governata dai protestanti.

Ponte in Valtellina, località Orsolino. Affresco raffi gurante la Madonna incoronata con il Bambino, san Bernardo e sant’Antonio abate.

Berbenno di il Bambino in braccio e con lo scapolare in mano12. L’immagine venerata col Valtellina, località titolo di Madonna del Buon Consiglio rimanda al quadro di Maria che, stac- Monastero, via Medici. catosi dall’altare in una chiesa di Scutari guidò l’esercito degli Albanesi verso Antico affresco Roma. raffi gurante la Madonna in trono Secoli di incuria non hanno appannato l’impatto emotivo che suscitano con il Bambino; le maestose Madonne assise su troni elaborati, talvolta fi ssate in alto sui muri sul libro aperto delle case, oppure come singolari addobbi tra il portone e la fi nestra del primo compare la scritta: “Omne che passa piano delle abitazioni (zona Fusine, Berbenno). Se non sono riconducibili ad per questa via un unico pennello, presentano elementi comuni: vivacità della cromia, compo- sempre invoca la Vergine Maria. Pax sizione scenica di solenne monumentalità, posizione frontale dell’immagine, tecum”. abito dallo scollo rotondo e ampio manto che avvolge la fi gura della Vergine, allargato e aperto sul grembo dove si appoggia il Bambino benedicente, con il globo in mano. Diversi invece appaiono gli indugi decorativi degli artisti. Sono affreschi che si distinguono per una committenza patrizia o benestante, che non esita a farsi raffi gurare inginocchiata, o a far rappresentare il proprio stemma in un angolo della scena. La motivazione è richiesta di grazia, segnalata attraverso la formula di rito P.G.R (per grazia ricevuta), ma anche semplice devozione (F.F.P.S.D: fece fare per sua devozione), riconoscenza, ricordo dei familiari defunti. Ecco nel bosco di Piateda il contadino disperato, con le braccia alzate, che assiste impotente al rovinoso precipitare della propria moglie giù dal burrone13. La narrazione dell’immagine votiva costituisce un esempio del felice scioglimen- to del patto tra il devoto e il divino e consente la partecipazione corale alla fi ducia nella Vergine. Accanto ai singoli privati, anche la collettività ha chiesto a volte la pro- tezione divina per le proprie famiglie e le proprie case14. Come promotori della realizzazione di santelle e capitelli emergono dagli antichi verbali delle deliberazioni consiliari i decani della Comunità15. Le stesse fonti documentarie danno veridicità alla tradizione orale secondo la quale i forestieri che chie- devano di essere accettati nella Comunità dovevano utilizzare per la realiz- zazione di immagini votive16 i denari della taglia a loro imposta. Tappa obbligata in particolari momenti liturgici come processioni e rogazioni, gli affreschi devozionali investivano non solo la sfera del sacro ma

12 Lo scapolare è il ricordo del lembo di stoffa dell’abito monacale che la Vergine affi dò al priore dei Carmelitani san Simone Stock, nel 1230, quando apparve ai piedi del Carmelo. 13 Pittura murale a Piateda, in contrada Barozzera. 14 Si veda ad esempio l’edicola votiva in località Tornadù, a Torre Santa Maria in Valmalenco, raffi gurante la Vergine, santa Barbara e sant’Antonio da Padova. 15 “Per oviar alle ruine che cadono dalle montagne sopra le nostre campagne, strade e case, son venuti in sentimento di far fare un capitello in cima della Roncola et ivi far dipingere li Santi Gloriosi Martiri (…), che preghino Nostro Signore a difenderci da quel fl agello”: Archivio Comunale Ponte, Verbali vecchi, 1710. 16 Giuseppe Poletti detto Mascarino viene accolto dalla Comunità di Ponte dopo aver impiegato i 25 fi lippi della taglia “nella fabbrica della Santella”: ACP, Verbali vecchi, 1712.

119 anche quella economica e sociale: presenti nella toponomastica locale, oggi A sinistra, Colorina, contrada come ieri17, ricordati nei lasciti testamentari18, scelti come luoghi di incontro Bocchetti. Antico per stringere accordi e sancire contratti19, luoghi protetti di sosta e raccogli- affresco raffi gurante mento. la Madonna in trono con il Bambino. Ogni mattina, prima di andare a scuola, il ragazzino del fornaio scendeva da Ponte verso il borgo di Chiuro, con una gerla che pesava sulle sue spalle A destra, e che profumava l’aria di pane. All’inizio del paese si fermava a riposare sulla Piateda, Località san Bartolomeo. grossa pietra sporgente e guardava la pittura sopra il portone: la Vergine con Affresco raffi gurante sant’Antonio abate che benedice gli animali. 17 “…in campanea ad capitellum”: ASSo, Notarile, vol. 784, Quadrio De Maria Andrea, 1557. “…petia terre campive trosate iacens in territorio Clurii ubi dicitur ad Capitellum della Mariola”: Pagine seguenti, ASSo, Notarile, vol. 5169, Quadrio Giovanni Antonio, 1669. Ponte in Valtellina, 18 Cipriano Gamboni lascia 16 lire imperiali “alla Madonna in contrada Bondio”: ASSo, Notarile, località Rivaccia. vol. 5683, Rusca Giovanni Angelo, 1680. Gerolamo Quadrio Peranda lascia alla fi gura della Capitello all’incrocio Beata Vergine dipinta sul muro della sua abitazione 22 lire imperiali e mezza, ogni anno in tra via Chiuro e via perpetuo, da convertire in olio per l’illuminazione serale quando si cantano le litanie; in caso Rivaccia; raffi gura non possano essere cantate le litanie, che sia illuminata il sabato, i giorni festivi e le solennità la Vergine con il di Gesù Cristo: ASSo, Notarile, vol. 3740, Sottovia Simone, 1630. Bambino e Santi tra 19 Atto di vendita di tre appezzamenti di terreno nel comune di Piateda, in località Mon, tra i i quali san Giovanni fratelli Gregorio e Giovanni Taloni e Antonio Gianoncelli, alla presenza degli estimatori e dei Nepomuceno.

120 Sopra, Lanzada, località Vetto. Affresco raffi gurante la Madonna del Buon Consiglio con il Bambino in braccio, sant’Antonio da Padova, san Pietro, san Giuseppe e san Giovanni Battista.

il corpo del Figlio abbandonato sulle ginocchia, i santi Andrea e Giacomo. Ma era la scritta sotto il dipinto che più attirava la sua attenzione: “Mira queste piage o pechatore e pensa bene al tuo erore, fato contro uno Dio, tuo re- dentore”; la leggeva e rileggeva interrogandosi sull’autore, stupito e insieme compiaciuto di non essere il solo ad esprimersi in un italiano tanto sgrammat- icato. Oggi la scritta sul muro di quella casa non si legge più, ma ben chiara è rimasta nel ricordo del bambino di allora, divenuto adulto20.

testimoni, tutti “sedentes singulis lapidibus existentibus prope capitellum situm in Vallebona ubi similia fi eri solent”: ASSo, Notarile, vol. 5169, Quadrio Giovanni Antonio, 31 agosto 1668. 20 Comunicazione orale fornita nel 2004.

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DIPINTI E SCULTURE NEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA VALTELLINA DI SONDRIO TRA IL XV E IL XVIII SECOLO

Giovanna Virgilio

Una delle fi nalità principali dell’attività di catalogazione, precocemente avviata in questo territorio con la pubblicazione di un volume appositamen- te dedicato alla provincia di Sondrio nella collana Inventario degli oggetti d’arte d’Italia (1938), consiste nella classifi cazione di edifi ci e manufatti per consentire un’analisi progressivamente dettagliata in ordine ad alcuni aspetti fondamentali, tra i quali la materia del supporto, la tecnica di esecuzione, il soggetto iconografi co e così via. Questa operazione che “sminuzza” il più possibile le informazioni, risponde anche alla fi nalità di poter recuperare i dati attraverso ricerche effettuate con l’uso di parole-chiave, mediante l’utilizza- zione del mezzo informatico. D’altra parte, è opportuno che la fase analitica sia seguita da una sintesi del materiale raccolto. La classifi cazione, infatti, è un’operazione mentale che non trova riscontro nel carattere assolutamente unitario della produzione artistica. Ciò emerge anche dalle numerose ricer- che e dagli approfondimenti che negli ultimi decenni hanno confi gurato un panorama estremamente ricco e, nel contempo, unitario dell’architettura e delle arti fi gurative fi orite nel territorio in cui sono inseriti, dal punto di vista geografi co e culturale, i paesi della Comunità Montana Valtellina di Sondrio, nonostante l’inevitabile perdita di una parte del patrimonio artistico, soprat- tutto per il periodo medievale. La prima metà del Quattrocento fu caratterizzata da un ambiente ag- giornato sulla cultura viscontea, mentre, nella seconda metà del secolo, un Giacomo del Maino, Ancona signifi cativo infl usso di motivi rinascimentali di ascendenza ferrarese fu eser-

127 citato da scultori e disegnatori di vetrate attivi nei grandi cantieri di Milano e di Pavia. Un’opera di particolare importanza, in questa fase di transizione, è rappresentata dall’ancona con la Madonna della Misericordia di Gottardo Scotti, attualmente conservata presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano. Le ri- cerche hanno dimostrato la provenienza di quest’opera da Mazzo in Valtellina, dove lo Scotti - come più tardi Andrea De Passeri - contribuì ad aggiornare la situazione artistica locale sulle innovazioni in atto nella capitale sforzesca. Tra la fi ne del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento si assiste all’intensifi cazione della produzione artistica, grazie, anche, alla mobilità di botteghe specializzate nella realizzazione di affreschi e ancone che, essendo frutto di una stretta collaborazione tra pittori e intagliatori, favorirono la cir- colazione di formule stilistiche e di categorie estetiche da un settore artistico all’altro. Così, per esempio, la Madonna in trono col Bambino e santi, dipinta da Battista Malacrida nel 1501 sulla parete sinistra della chiesa parrocchiale di San Maurizio a Ponte in Valtellina, può essere considerata, al pari di analoghe raffi gurazioni, una sorta di polittico ad affresco nel quale si avverte l’aggior- namento su Bergognone e Bramante. Uno dei referenti di quest’opera è stato rintracciato nella Madonna del tappeto dipinta dal celebre pittore di Fossano nel transetto della Certosa di Pavia, il cui cantiere continuava a rappresentare un importante punto di riferimento, anche in virtù della presenza di Giacomo del Maino a Ponte, nel 1491, per la realizzazione dell’ancona lignea nella cap- pella della Vergine della citata chiesa di San Maurizio. L’opera dell’intagliatore milanese - del quale sono note le frequentazioni pavesi - è composta da due registri, coronati dalla lunetta con il Cristo in pietà: quello inferiore ospita, nella nicchia centrale, la statua della Madonna, a sua volta fi ancheggiata, ai lati, da sei episodi della Vita di san Gioacchino e sant’Anna; l’ordine superiore, invece, è scandito da quattro nicchie che accolgono le statue di San Rocco, San Bernardino da Siena, San Pietro Martire e San Sebastiano. L’elevata qualità del manufatto, come spesso accade, è direttamente proporzionale al livello della committenza, qui rappresentata dalla confraternita della Beata Vergine, che, dopo aver ingaggiato il Del Maino, commissionò nel 1498 il ri- facimento del presbiterio della medesima chiesa a Tommaso Rodari, uno dei più importanti protagonisti del rinnovamento rinascimentale del duomo di Como. Questi intervenne, insieme al fratello Giacomo, presumibilmente su un progetto preesistente impostato dall’Amadeo. Importante contributo della bottega rodariana è poi costituito dai portali lapidei delle chiesa di Santo Ste- fano a Mazzo e della prepositurale di Sant’Eufemia a Teglio, che favorirono la diffusione di repertori antiquari, ancora presenti nell’elegante portale di San Pietro a Berbenno (1563). Tornando all’attività di Giacomo del Maino in Valtellina, ne ricordiamo il trittico datato tra il 1490 e il 1500 nell’oratorio di San Pietro Martire a Caiolo, con le statue della Madonna al centro, San Pietro Martire a destra e San Domenico a sinistra, la prima delle quali è caratterizzata dall’inserimento

128 Andrea da Saronno, Ancona

della Vergine tra le rocce. Questa formula iconografi ca, immortalata da Leo- nardo nella celeberrima opera del Louvre, è stata da alcuni studiosi messa in relazione con il mistero dell’Immacolata Concezione, sostenuto inizialmente dall’ordine francescano, ma non dai domenicani che, invece, compaiono nelle nicchie laterali dell’opera valtellinese. Sempre a Ponte nel 1505 è presente, con il pittore Felice Scotti, lo scul- tore Giovan Angelo del Maino - fi glio del citato Giacomo - che, con la sua im-

129 portante produzione lombarda, esercitò un’infl uenza determinante sull’evo- luzione in senso prospettico e illusionistico della rappresentazione fi gurativa, tanto in scultura quanto in pittura. Le stesse modalità lavorative adottate nel- l’ambito delle botteghe facilitarono il profi cuo rapporto di scambio di idee e di competenze tecniche tra gli artisti. Da questo punto di visto, il trittico con la Madonna col Bambino tra due santi, conservato presso il Museo Valtellinese di Storia e Arte di Sondrio, rappresenta un caso signifi cativo di collaborazione famigliare; infatti, nonostante l’opera sia fi rmata dal pittore Alvise De Donati (1512) la parte scultorea è dovuta a Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio, suoi fratelli, specializzati nell’arte lignaria. La tavola, di impostazione braman- tesca e zenaliana, arricchita da elementi leonardeschi, proviene dall’altare maggiore della chiesa di San Benigno del monastero di Berbenno e faceva probabilmente parte di una struttura a più registri successivamente smem- brata. Sorte analoga toccò a due statue dei suddetti De Donati raffi guranti, rispettivamente, San Lorenzo e San Rocco (1500-1510), pure custodite nel Museo di Sondrio, ma provenienti dalla parrocchiale di San Lorenzo a Fusine. Il recente restauro ha permesso di evidenziarne la tecnica esecutiva basata sulla modellazione di un unico tronco di pioppo avvenuta “per piani sottoli- neando spigoli e angolosità” (CASCIARO, 2002, 313) che costituiscono una nota caratteristica dello stile degli intagliatori milanesi. Ad anni inoltrati del Cinquecento risale, invece, l’ancona lignea nella parrocchiale di San Vittore a Caiolo, intagliata tra il 1537 e il 1538 da Andrea da Saronno e dipinta da Vincenzo De Barberis nel 1539. L’opera è formata da uno scomparto centrale centinato con il gruppo della Natività, a sua volta affi ancato da due nicchie per parte, dove restano, inferiormente, le statue di San Pietro e di San Paolo, mentre nella cimasa è collocato Cristo in pietà (le statue delle nicchie superiori sono state, purtroppo, trafugate). Le sculture sono caratterizzate da compostezza classica e dolcezza espressiva tipiche del linguaggio fi gurativo valtellinese del terzo e quarto decennio del Cinquecento. Questo orientamento, che in pittura fu portato ai massimi livelli dalla Madon- na col Bambino affrescata da Bernardino Luini nella lunetta del portale della parrocchiale di San Maurizio a Ponte, si rintraccia anche nelle quattro tempe- re con le Storie della Vergine che chiudevano la citata ancona della Madonna in San Maurizio, oggi conservate nel Museo parrocchiale del paese. I dipinti sono caratterizzati da infl ussi bramantiniani, luineschi e gaudenziani, che ne hanno suggerito la datazione all’inizio del terzo decennio e l’attribuzione al milanese Bernardino De Donati. Costui fu profondamente toccato dall’arrivo a Morbegno di Gaudenzio Ferrari che, tra il 1520 e il 1526, fu pagato con il caravaggino Fermo Stella per la decorazione pittorica dell’ancona dell’Assun- ta, nell’omonimo santuario, intagliata alcuni anni prima da Giovan Angelo del Maino. Il linguaggio del maestro piemontese, carico di coinvolgente senso affettivo, fu largamente diffuso grazie all’operato di vari artisti, tra i quali lo stesso Stella, il comasco Sigismondo De Magistris, al quale è stata assegnata

130 la tavola con la Natività del Museo di Sondrio, proveniente dalla parrocchiale di Santa Caterina di Albosaggia, e il bresciano Vincenzo De Barberis, nel cui ambito è stata recentemente ricondotta - per quanto riguarda l’area di nostro interesse - l’ancona con l’Adorazione del Bambino e santi della parrocchiale di Torre Santa Maria (1530). A questo pittore, dopo la morte di Bernardino De Donati (1530), spettò la riorganizzazione della bottega e la divulgazione di questo linguaggio carico di riferimenti alla cultura fi gurativa milanese e bresciana, che si rintraccia anche nei dipinti che compongono l’Annunciazione nella chiesa arcipretale di Santa Maria Assunta a Berbenno, dominati da un gusto accentuato per la caratterizzazione prospettica. Dopo l’ultima fase della ricca stagione rinascimentale si assiste, nella seconda metà del secolo, a una sorta di stasi, giustifi cata dalla diffi cile con-

Bernardino de Donati e bottega, Sposalizio della Vergine 132 giuntura politica e religiosa della Valtellina. La ripetizione di formule stereoti- pate è esemplifi cata dall’abbondante produzione del grosino Cipriano Valorsa, direttamente presente con la sua bottega, nel territorio in questione, a Chiuro (1563), Piateda (1592), Sazzo (1596) e, probabilmente sul fi nire del secolo, a Tresivio, nella chiesa di Sant’Abbondio, dove si trova l’inedita tela con San- t’Abbondio tra sant’Antonio da Padova e san Bernardo (?). Il pittore, indiffe- rente alle sollecitazioni del tardo-Manierismo, fu probabilmente condizionato da esigenze di carattere didascalico fi nalizzate alla necessità di contrastare la divulgazione delle idee protestanti. A cavallo tra il XVI e il XVII secolo un generale incremento della produ- zione artistica fu favorito dalla ripresa delle committenze religiose, anche su sollecitazione dello zelo pastorale di Feliciano Ninguarda, vescovo di Como, sotto la cui giurisdizione ecclesiastica ricadeva il territorio valtellinese. Il convergere delle ricerche archivistiche con gli esiti più aggiornati degli studi specialistici, relativi tanto alla pittura quanto alla decorazione plastica e alla produzione lignea della Valtellina e della Valchiavenna, ha delineato un quadro molto chiaro sulle vicende fi gurative del Sei e del Settecento, met- tendone in luce la stretta connessione con il fenomeno dell’emigrazione, non solo di artisti. I valtellinesi, che espatriavano in Veneto, nei grandi porti del sud e oltre le Alpi, si riunivano in confraternite che perseguivano scopi cari- tativi e di mutuo soccorso. Il legame con il paese d’origine era rinforzato con l’invio di opere d’arte - quadri, paramenti e suppellettili destinati alle chiese - che, indirettamente, fungevano da stimolo per il rinnovamento della cultura fi gurativa locale. Per quanto riguarda la pittura è stata rilevata la presenza dominante dei seguaci di area comasca e ticinese del varesino Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone. Tra questi, Giovan Battista Recchi è attestato, per l’area in esame, ad Albosaggia e a Ponte, mentre Cristoforo Caresana da Cureglia partecipò alla ricca decorazione della cappella del Rosario nella parrocchiale di San Lorenzo a Fusine (1628-1629). Numerosi sono i dipinti anonimi ispirati al linguaggio effi cace e comunicativo del Morazzone, tra i quali la miscono- sciuta Annunciazione nella casa arcipretale di Berbenno, vicina alle opere dei citati Recchi e del campionesse Isidoro Bianchi, databile al quinto decennio del Seicento. La scuola milanese del Cerano è, invece, rappresentata dal Mar- tirio di san Giorgio di Melchiorre Gherardini (1643), nell’omonima arcipretale di Montagna e dal meno noto San Francesco in preghiera, assegnabile a Or- tensio Crespi, nella locale chiesa dei Cappuccini a Colda, ma di provenienza milanese. Per le presenze non lombarde ricordiamo: il toscano Luigi Reali, che eseguì per la chiesa di San Carlo a Chiuro una tela con lo Sposalizio della

Cipriano Valorsa, Vergine (1650 circa) e il veneto Pietro Damini, autore della pala con l’Assunta Sant’Abbondio tra della parrocchiale di San Martino a Castione Andevenno, pervasa da intense sant’Antonio da Padova e un santo suggestioni tizianesche e veronesiane (fi ne del terzo decennio del Seicento). cistercense Tra le botteghe locali si segnala, invece, quella del chiavennasco Giovan Bat-

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tista Macolino, al quale appartengono il dipinto con la Madonna del Rosario tra santa Caterina da Siena e san Domenico (1654) nella chiesa parrocchiale di San Luigi a Sazzo di Ponte e la tela con Sant’Orsola (1659), giunta dalla Valchiavenna nell’oratorio della Madonna del Carmine. Oltre ai pittori, anche gli stuccatori e gli intagliatori “contribuivano a rendere l’ambiente capace di suggestionare l’osservatore per la spettacolarità

e per il virtuosismo, anche al di là del messaggio simbolico e religioso” (LAN-

GÉ-PACCIAROTTI, 1994, 120). I plasticatori erano per lo più di origine comasca e ticinese, come Alessandro Casella da Carona e Francesco Silva da Morbio. Il primo fu attivo tra il terzo e il quarto decennio del Seicento ad Albosaggia (parrocchiale di Santa Caterina), a Fusine (parrocchiale di San Lorenzo),a Castione Andevenno (parrocchiale di San Martino), a Caiolo (parrocchiale di San Vittore) e a Chiuro (chiesa di San Carlo), mentre il secondo eseguì, nel 1629, la decorazione dell’arco trionfale, del presbiterio e dell’altar maggiore dell’arcipretale di San Giorgio a Montagna . In questi artisti gli infl ussi mo- razzoniani e le suggestioni di Cerano e di Giulio Cesare Procaccini approdano ad “esiti personali di bellezza decorativa e di introspezione psicologica, che fa affi orare, soprattutto nell’espressionismo teso e dolente del Casella, il trava-

glio religioso e morale del periodo” (COPPA, 2002, 74). Gli intagliatori, oltre che dall’area comasca (i Pino e gli Albiolo), giungevano dalla zona bresciana (Gio- van Pietro Ramus) e trentina (Michele Cogoli) o tirolese. Queste diverse pro- venienze si spiegano, da un lato, con le secolari consuetudini itineranti degli artisti provenienti dal territorio dei laghi lombardi, e, dall’altro, con la specia- lizzazione in settori particolari della lavorazione dei materiali che richiedevano specifi che competenze tecniche tramandate nell’ambito delle botteghe fami- gliari. Una maggiore predisposizione agli spostamenti era comunque richiesta ai plasticatori, in virtù del fatto che lo stucco poteva essere modellato se era fresco e, dunque, richiedeva la presenza diretta dello scultore all’interno del cantiere. Diversamente, per l’intagliatore era possibile operare nel proprio laboratorio e, a lavoro ultimato, inviare il prodotto a destinazione. Spesso gli artisti si ispiravano alle opere più famose e apprezzate nel clima rigoristico post-tridentino, eseguendone numerose copie. A titolo esemplifi cativo si può citare il caso della tela di Giovan Battista Recchi con il Martirio di san Sebastiano nella chiesa parrocchiale di Santa Caterina ad Albosaggia, derivata da un dipinto di Domenico Carpinoni nella chiesa di San Bartolomeo a Como. Ma il primato, in questo settore, è detenuto dai prototipi del Morazzone, la cui conoscenza era garantita dalla fi tta circolazione dei car- toni delle sue opere. Così, la tela con la Natività della Vergine nel presbiterio della parrocchiale di Santa Maria a Berbenno rappresenta l’ennesima duplica- zione del dipinto di soggetto analogo del maestro varesino, conservato nella cappella della Madonna della Cintura nella chiesa di Sant’ Agostino a Como. Alessandro Casella, decorazione D’altra parte dobbiamo rilevare che, a differenza del valore dispregiativo at- plastica (1627) tualmente riservato alle copie, in passato era proprio la committenza - non

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A sinistra, Giovan Battista Recchi, Martirio di san Sebastiano

Francesco Silva, San Sebastiano (1629)

137 Albosaggia, chiesa parrocchiale di Santa Caterina. Giovan Battista Recchi, Martirio di san Sebastiano Michele Cogoli, necessariamente sprovvista di mezzi economici - a richiederne l’esecuzione, ciborio d’altare restandone peraltro soddisfatta. Non a caso il cardinale milanese Federico (1692) Borromeo, aveva “assoldato” copisti specializzati che, con la loro prestazione, assolvevano all’importante compito di tramandare la memoria della tradizio- ne artistica - soprattutto cristiana - riposta in alcuni capolavori della pittura e della scultura delle epoche precedenti. Inoltre l’esecuzione di copie costituì in passato un’importante occasione di lavoro per gli artisti, soprattutto quando i mezzi di riproduzione seriale delle immagini erano limitati. Nel Settecento si verifi cò la fi oritura di una vera e propria scuola artistica locale, grazie all’operato di pittori come Gianolo Parravicino e Pietro Ligari, ai quali si affi ancarono i forestieri come Giuseppe Brina. Mentre proseguiva con intensità l’invio da fuori di manufatti tessili e di suppellettile ecclesiastica, diminuiva quello dei dipinti, tra i quali ricordiamo la mutila Assunzione della Vergine di Gaetano Gandolfi , giunta da Bologna nel 1773 nella chiesa della Madonna di Campagna a Ponte, ora conservata nel Museo parrocchiale del paese. Il prevalente orientamento della pittura valtellinese verso Milano si al- largò a comprendere stimoli della cultura artistica veneziana e del rococò in- ternazionale, anche su sollecitazione degli artisti attivi prevalentemente come frescanti (il valtellinese Giovan Pietro Romegialli, Pietro Bianchi da Como, l’intelvese Carlo Innocenzo Carloni) e quadraturisti (il comasco Giuseppe Co- duri e i luganesi Giuseppe Antonio e Giovanni Antonio Torricelli). L’interesse classicista di Pietro Ligari, titolare di una fi orente bottega locale, si aprì verso il quinto decennio ad accogliere infl ussi della pittura lagunare, anche su in- coraggiamento del fi glio Cesare, del quale ricordiamo la piazzettesca Morte di san Giuseppe nella parrocchiale di Santa Caterina ad Albosaggia (1739). Vittoria - l’altra fi glia di Pietro dedita alla pittura - è conosciuta principalmente per l’esecuzione di copie dei dipinti della bottega ligariana, come è esempli- fi cato dalla Madonna Addolorata con i santi Francesco di Paola, Maria Mad- dalena e Vincenzo Ferreri di Lanzada. D’altra parte è noto che, ad eccezione di alcuni casi ragguardevoli, fi no a tempi relativamente recenti la dedizione delle donne all’arte pittorica, inserita nel corredo di attività manuali previste per l’educazione femminile nei ceti più abbienti, seguì quasi necessariamente una pratica dilettantesca. Infl ussi del tardo barocco genovese sono stati rinvenuti nelle prime tele del ticinese Giuseppe Antonio Petrini, particolarmente apprezzate non solo per le qualità estetiche di cromia luminosa e di eleganza stilistica, ma anche per il profondo rigore morale di cui sono intrise. Non a caso, le grandi pale d’altare eseguite dall’artista tra il quinto e il sesto decennio del Settecento, tra cui il San Vincenzo Ferreri, già nella chiesa di San Carlo a Chiuro, sono Pagine seguenti, state messe in relazione con il clima riformistico muratoriano. Pietro Ligari, Alla fi ne del secolo, una timida ricezione locale degli infl ussi neoclassici Nascita della Vergine si avverte nell’opera dell’intelvese Carlo Scotti di Laino, conosciuto in Valtel-

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Giuseppe Antonio lina prevalentemente come quadraturista, ma operoso anche come pittore Petrini, San di figura, al quale è stata assegnata la tela con San Lorenzo in Gloria (1780) Vincenzo Ferreri della parrocchiale di San Lorenzo a Fusine.

Questo saggio, che prende in considerazione soltanto le opere presenti nei comuni della Comunità Montana Valtellina di Sondrio, è stato elaborato

sulla base della seguente bibliografia essenziale: M. GNOLI LENZI, Provincia di

Sondrio, Roma, 1938; S. COPPA, Il Seicento in Valtellina. Pittura e decora- zione in stucco, “Arte Lombarda”, 88/89 (1989); Civiltà artistica in Valtellina

e Valchiavenna. Il Settecento, a cura di S. Coppa, Milano 1994; S. LANGÉ-G.

PACCIAROTTI, Barocco alpino. Arte e architettura religiosa del Seicento. Spazio e figurativita, Milano 1994; Pittura in Alto Lario e in Valtellina dall’Alto me- dioevo al Settecento, a cura di M. Gregori, Milano 1995; Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il secondo Cinquecento e il Seicento, a cura di S.

Coppa, Bergamo 1998; G. SCARAMELLINI-S COPPA, I Macolino, pittori chiavenna- schi del Seicento, Chiavenna 1996; Pietro Ligari o la professione dell’artista, a cura di L. Giordano, Sondrio 1998; Civiltà artistica in Valtellina e Valchiaven- na. Il Medioevo e il primo Cinquecento, a cura di S. Coppa, Milano 2000; R.

CASCIARO,La scultura lignea lombarda del Rinascimento, Ginevra-Milano 2000;

F. BIANCHI-E. AGUSTONI, I Casella di Carona, Lugano 2002; Il Seicento e Sette- cento in Valtellina e Valchiavenna. Contributi di storia su società, economia, religione e arte, Sondrio 2002; I tesori degli emigranti. I doni degli emigranti della provincia di Sondrio alle chiese di origine nei secoli XVI-XIX,catalogo della mostra a cura di G. Scaramellini e coordinamento generale a cura di M. Sassella, Milano 2002.

Colgo l’occasione per ringraziare la dottoressa Simonetta Coppa (So- printendenza per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico di Milano), per la consueta disponibilità nel fornirmi consigli e suggerimenti, e il personale del Museo Valtellinese di Storia e di Arte di Sondrio per la gen- tilezza nel mostrarmi le opere del museo citate in questo saggio e i relativi materiali di studio.

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Indice dei Comuni

pag. 146 Albosaggia pag. 148 Berbenno di Valtellina pag. 150 Caiolo pag. 152 Caspoggio pag. 154 Castello dell’Acqua pag. 156 Castione Andevenno pag. 158 Cedrasco pag. 160 Chiesa in Valmalenco pag. 162 Chiuro pag. 164 Colorina pag. 166 Faedo Valtellino pag. 168 Fusine pag. 170 Lanzada pag. 172 Montagna in Valtellina pag. 174 Piateda pag. 176 Poggiridenti pag. 178 Ponte in Valtellina pag. 180 Postalesio pag. 182 Spriana pag. 184 Torre di Santa Maria pag. 186 Tresivio 1 2 3 4

1) Fraz. Centro, Chiesa di S.Caterina 2) Castello e torre Paribelli 3) Casa Contrio, Fraz. Centro, Madonna con Angelo Musicante 4) Contrada Mosconi 147 1 2 3 4

1) Portale della Chie- sa di S.Pietro 2) Fraz. Polaggia, Chiesa di S.Abbondio 3) Chiesa di S.Maria Assunta 4) Fraz. Maroggia 149 Caiolo

1 2 3 4

1) Località Ca’ Rosse 2) Chiesa di S.Vittore 3) Torre 4) Località Ca’ di Rosa 151 Caspoggio

1 2 3 4

1) Località Braccia 2) Centro, Madonna, S.Pietro e S.Rocco 3) Centro, Casa Miotti 4) Località Curada Caspoggio

153 Castello

1 2 3 4

1) Contrada Bruga 2) Chiesa Parrocchiale di S.Michele 3) Contrada Tizzone Basso 4) Contrada Le Pile 155 Castione

1 2 3 4 5

1) V. De Barberis e B. De Donati, Madonna in trono col Bambino, santi e donatore 2) Cappella di San Carlo 3) Località Vendolo, Madonna del Rosario 4) Località Balzarro 5) Località Vendolo 157 1 2 3 4

1) Via Veneto Madon- na con SS. Anna, Rocco, Agostino 2) Casa Bonini 3) Contrada Bugli 4) Chiesa di S.Anna 159 1 2

3

1) Frazione Primolo, Santuario della Madonna delle Grazie 2) Primolo, Madonna delle Grazie con S. Antonio Abate S. Giovanni Nepo- muceno 3) Località Ca’ Rotte 161 1 2 3 4 5

1) Palazzo Quadrio- Pontaschelli 2) Casa Basci 3) G. Brina, Miracolo della Madonna della Neve (1716) 4) Chiesa di S.Carlo 5) Castionetto di Chiuro 163 Colorina

1 2 3 4

1) Chiesa della Beata Vergine di Caravaggio o Madonnina 2) Località Valle, Chiesa di S.Margherita 3) San Bernardo 4) Fraz. Romito 165 Faedo

1 3 2 4

1) Località Gaggio 2)4) Località S.Carlo 3) Chiesa di San Bernardo 167 Fusine

1 2 3

1) Chiesa di S.Rocco 2) Casa civetta in Località Masoni 3) Nucleo di Caprini in Valmadre Fusine

169 Lanzada

1 2 3 4

1) Architettura rurale con fienile in Località Ponte 2) Crocifissione 3) Vittoria Ligari, Madonna Addolorata e santi (1756) 4) Alpe Prabello 171 Montagna

1

2 3

1) Contrada S.Maria di Perlungo 2) Casa Visconti-Venosta 3) Chiesa dei Cappuccini a Colda, Ortensio Crespi, San Francesco d’Assisi in preghiera 173 Piateda

2 1

3

1) Chiesa di S.Vittore 2) Ambria, Edificio rurale 3) Nucleo di Ambria 175 1 2

3

1) Contrada Surana 2) Contrada Surana, Ca’ Ranin, S.Fedele 3) Forno in contrada Zocca 177 1 2 3 4 5 6

1) Località Sazzo, Capitello di S.Luigi 2) Chiesa di S.Maurizio Tabernacolo a muro (1536) 3) Abside 4) Chiesa di S.Rocco 5) Curt di Leli 6) Contrada Berola 179 1

2 3

1) Ca’ Moroni - Rustico 2,3) Ca’ Moroni, Madonna in trono con Santi Antonio Abate e Giovanni Battista.

181 1 2 3 4

1) Contrada Portola-Cao 2) Contrada Spotolo 3,4) Contrada Marveggia 183 1

2 3

1) Contrada Cagnoletti 2) Ca’ de Risc, Torre di segnalazione 3) Vincenzo De Barberis, Adorazione del Bambino con la Madonna e santi (1530) 185 1 2 3

4

1) Contrada S.Antonio 2) Contrada Torchio, Madonna in trono con S.Pietro e S.Rocco 3) Santuario della Santa Casa 4) Palazzo Guicciardi 187