RASSEGNA STAMPA di lunedì 27 gennaio 2020

SOMMARIO

“Desidero dedicare il Messaggio di quest’anno al tema della narrazione, perché credo che per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone – scrive Papa Francesco all’inizio del suo Messaggio per la 54a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra domenica 24 maggio, solennità dell’Ascensione (testo integrale qui in Rassegna): storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia gu ardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri”. E poi, più avanti, così afferma: “La storia di Cristo non è un patrimonio del passato, è la nostra storia, sempre attuale. Essa ci mostra che Dio ha preso a cuore l’uomo, la nostra carne, la nostra storia, fino a farsi uomo, c arne e storia. Ci dice pure che non esistono storie umane insignificanti o piccole. Dopo che Dio si è fatto storia, ogni storia umana è, in un certo senso, storia divina. Nella storia di ogni uomo il Padre rivede la storia del suo Figlio sceso in terra. Ogni storia umana ha una dignità insopprimibile. Perciò l’umanità merita racconti che siano alla sua altezza, a quell’altezza vertiginosa e affascinante alla quale Gesù l’ha elevata… Lo Spirito Santo, l’amore di Dio, scrive in noi. E scrivendoci dentro fissa in noi il bene, ce lo ricorda. Ri-cordare significa infatti portare al cuore, “scrivere” sul cuore. Per opera dello Spirito Santo ogni storia, anche quella più dimenticata, anche quella che sembra scritta sulle righe più storte, può diventare ispirata, può rinascere come capolavoro, diventando un’appendice di Vangelo. Come le Confessioni di Agostino. Come il Racconto del Pellegrino di Ignazio. Come la Storia di un’anima di Teresina di Gesù Bambino. Come i Promessi Sposi, come I fratelli Karamazov. Come innumerevoli altre storie, che hanno mirabilmente sceneggiato l’incontro tra la libertà di Dio e quella dell’uomo. Ciascuno di noi conosce diverse storie che profumano di Vangelo, che hanno testimoniato l’Amore che trasforma la vita. Queste storie reclamano di essere condivise, raccontate, fatte vivere in ogni tempo, con ogni linguaggio, con ogni mezzo. In ogni grande racconto entra in gioco il nostro racconto. Mentre leggiamo la Scrittura, le storie dei santi, e anche quei testi che hanno saputo leggere l’anima dell’uomo e portarne alla luce la bellezza, lo Spirito Santo è libero di scrivere nel nostro cuore, rinnovando in noi la memoria di quello che siamo agli occhi di Dio. Quando facciamo memoria dell’amore che ci ha creati e salvati, quando immettiamo amore nelle nostre storie quotidiane, quando tessiamo di misericordia le trame dei nostri giorni, allora voltiamo pagina. Non rimaniamo più annodati ai rimpianti e alle tristezze, legati a una memoria malata che ci imprigiona il cuore ma, aprendoci agli altri, ci apriamo alla visione stessa del Narratore. Raccontare a Dio la nostra storia non è mai inutile: anche se la cronaca degli eventi rimane invariata, cambiano il senso e la prospettiva. Raccontarsi al Signore è entrare nel suo sguardo di amore compassionevole verso di noi e verso gli altri. A Lui possiamo narrare le storie che viviamo, portare le persone, affidare le situazioni. Con Lui possiamo riannodare il tessuto della vita, ricucendo le rotture e gli strappi. Quanto ne abbiamo bisogno, tutti! Con lo sguardo del Narratore - l’unico che ha il punto di vista finale - ci avviciniamo poi ai protagonisti, ai nostri fratelli e sorelle, attori accanto a noi della storia di oggi. Sì, perché nessuno è una comparsa nella scena del mondo e la storia di ognuno è aperta a un possibile cambiamento. Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio. Non si tratta perciò di inseguire le logiche dello storytelling, né di fare o farsi pubblicità, ma di fare memoria di ciò che siamo agli occhi di Dio, di testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori, di rivelare a ciascuno che la sua storia contiene meraviglie stupe nde. Per poterlo fare, affidiamoci a una donna che ha tessuto l’umanità di Dio nel grembo e, dice il Vangelo, ha tessuto insieme tutto quanto le avveniva. La Vergine Maria tutto infatti ha custodito, meditandolo nel cuore. Chiediamo aiuto a lei, che ha saputo sciogliere i nodi della vita con la forza mite dell’amore: O Maria, donna e madre, tu hai tessuto nel grembo la Parola divina, tu hai narrato con la tua vita le opere magnifiche di Dio. Ascolta le nostre storie, custodiscile nel tuo cuore e fai tue anche quelle storie che nessuno vuole ascoltare. Insegnaci a riconoscere il filo buono che guida la storia. Guarda il cumulo di nodi in cui si è aggrovigliata la nostra vita, paralizzando la nostra memoria. Dalle tue mani delicate ogni nodo pu ò essere sciolto. Donna dello Spirito, madre della fiducia, ispira anche noi. Aiutaci a costruire storie di pace, storie di futuro. E indicaci la via per percorrerle insieme ”. (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 22 Padre Gonzalo, il prete di strada segretario del Papa di Gian Guido Vecchi Uruguayano, ha 40 anni. Scelto da Bergoglio, lavora con i ragazzi fragili

LA REPUBBLICA Pag 25 Dalle periferie al Vaticano, ecco il prete di strada che sarà l’ombra del Papa di Paolo Rodari Padre Gonzalo Aemilius, 40 anni, è il nuovo segretario personale di Francesco

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 26 gennaio 2020 Il racconto e la Parola: acqua di vita per la sete dell’uomo smarrito di Andrea Monda Il nesso tra il Messaggio per la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali e la Domenica della Parola

Il Signore è venuto per i peccatori non per i perfetti Durante l’udienza alla Rota romana il Papa mette in guardia contro la tentazione di una pastorale d’élite che dimentica il popolo

AVVENIRE di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Oltre l’eclissi della Parola di Mimmo Muolo Questa Domenica voluta dal Papa

CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 13 «Liberi di scegliere altre strade» di Gian Guido Vecchi Il presidente della Cei Bassetti attacca chi critica il Papa : «No al distruttismo, va cercato il bene della Chiesa»

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 25 gennaio 2020 Ritrovare il senso della storia e del racconto di Paolo Ruffini

Per una narrazione vera che parli del bene e del bello degli uomini Messaggio del Pontefice per la 54a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra domenica 24 maggio, solennità dell’Ascensione

AVVENIRE di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Alla sorgente della verità di Marina Corradi Raccontare il bene nascosto del mondo

Pag 2 Docili alla Parola di Dio per essere buoni cristiani di Salvatore Mazza

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE di domenica 26 gennaio 2020 Pag 3 Il futuro di un Paese cammina con le famgiie, anche immigrate di Maurizio Ambrosini Una celebrazione cristiana che ricorda qualcosa di decisivo per tutti i cittadini

AVVENIRE di sabato 25 gennaio 2020 Pag 3 Motivato elogio del liceo al tempo degli specialismi di Roberto Carnero Un percorso scolastico interdisciplinare e controcorrente

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 13 “Luminarie a San Barnaba apprezzate dai residenti” I promotori

CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 11 Bugliesi: «Sono disponibile a guidare un progetto civico se ci sono le condizioni» di Claudia Fornasier ll rettore apre alla candidatura a sindaco per il centrosinistra

La NUOVA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 2 Auchan di Mestre. La scure Conad: «I cento esuberi entro giugno» di Francesco Furlan Il riassetto dei grandi gruppi e il destino incerto della città. Mobilitazione dei lavoratori, assemblea e flessibilità bloccata. A rischiare il posto sono quasi tutte donne

Pag 21 “Quelle luci a San Barnaba non sono accettabili”

8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Nordest: baby-tossici, uno su quattro fuma droga tutti i giorni di Raffaella Ianuale

CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Il pericolo del (fu) ceto medio di Luca Romano La società veneta

Pag 3 La campagna elettorale, il termometro e la febbre di Stefano Allievi

CORRIERE DEL VENETO di sabato 25 gennaio 2020 Pag 5 Baratta out, l’ira di Cacciari: «È stata una scemenza totale». Sgarbi non ci sta: «Giusto così» di Sara D’Ascenzo I successi del manager, dall’Arsenale alle sale fino a Forte Marghera. Toto-nomi, spunta Bugliesi. Ma il critico d’arte si candida: sarebbe un sogno

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Come cambiano gli equilibri di Massimo Franco

Pag 1 In memoria di Sophie di Alessandro D’Avenia

Pag 3 La maggioranza sulla linea del Reno. Il premier si sente più stabile di Francesco Verderami Conte era pronto a qualsiasi risultato. Si allontana lo scenario di un avvicendamento

LA REPUBBLICA Pag 1 Stalingrado non è caduta di Massimo Giannini

Pag 1 Ma il governo soffrirà ancora di Stefano Folli

Pag 30 La memoria a metà di Enzo Bianchi

IL GAZZETTINO Pag 1 Un segnale al governo ma anche al centrodestra di Alessandro Campi

LA NUOVA Pag 10 L’isolamento resta ancora la miglior difesa dal virus di Gianpiero Dalla Zuanna

Pag 10 Poca collaborazione internazionale, è molto difficile organizzare i rimpatri di Piero Innocenti

CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Il modello delle donne leader di Francesco Giavazzi Il divario, le quote

Pag 1 L’assalto di Salvini al «modello riformista» in una regione spaccata di Aldo Cazzullo Emilia-Romagna contesa

IL GAZZETTINO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Finalmente la Brexit ma il peggio comincia ora di Romano Prodi

LA NUOVA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 6 Oggi il governo si affida a Bonaccini per respirare un po' di Fabio Bordignon

CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Pechino, tra verità e reticenze di Guido Santevecchi Il potere e la crisi

Pag 1 La solitudine di Romolo di Francesco Verderami

AVVENIRE di sabato 25 gennaio 2020 Pag 3 Oltre la volgarità dei tempi tornare a studiare la politica di Carlo Cardia Si assiste a una forte decadenza della società e della vita pubblica, alla quale però si può ancora reagire

IL GAZZETTINO di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Effetto-urne, la fuga dal M5s e il ritorno destra-sinistra di Luca Ricolfi

Pag 1 Tre mesi di tempo per la spallata al governo di Bruno Vespa

LA NUOVA di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Che vinca o perda il Pd deve cambiare di Bruno Manfellotto

Pag 18 M5S e un declino inarrestabile tra inadeguatezza e scelte ideologiche di Renzo Guolo

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3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 22 Padre Gonzalo, il prete di strada segretario del Papa di Gian Guido Vecchi Uruguayano, ha 40 anni. Scelto da Bergoglio, lavora con i ragazzi fragili

Città del vaticano. «Voglio farvi conoscere un prete che da tempo lavora con i ragazzi di strada, con i derelitti. Ha aperto una scuola, ha fatto tante cose per loro, e ora tutti questi ragazzi e ragazze lavorano grazie allo studio compiuto, e amano Gesù. Pregate per lui. Gonzalo, vieni qui a salutare la gente!». Erano passati quattro giorni dalla sua elezione quando Francesco, il 17 marzo 2013, prima domenica da Papa, celebrò una messa nella parrocchia vaticana di Sant’Anna e chiamò accanto a sé un amico che aveva riconosciuto tra i fedeli, un giovane prete «callejero» come lui: padre Gonzalo Aemilius, uruguayano, oggi ha 40 anni e Francesco l’ha richiamato a Roma come suo nuovo segretario personale. Padre Gonzalo sostituisce Fabián Pedacchio Leaniz e ora affiancherà il segretario particolare, padre . Con Bergoglio si conoscono dal 2001, quando il cardinale di Buenos Aires gli telefonò nel giorno del suo ventiduesimo compleanno perché aveva sentito parlare dell’impegno di quel giovane non ancora sacerdote con i ragazzi di strada. Nato il 18 settembre 1979, Gonzalo Aemilius viene da una famiglia benestante di Montevideo, è stato ordinato sacerdote nel 2006 e ha studiato teologia a Roma. La nonna era ebrea, i genitori non credenti. Raccontò di essersi convertito negli anni del liceo, colpito dal sorriso sul volto di alcuni sacerdoti che aiutavano i ragazzi di strada nonostante le minacce di morte. E poi ci fu quella telefonata di auguri dell’arcivescovo di Buenos Aires, spiegò all’Osservatore Romano: «Pensai allo scherzo di un amico. Quando mi resi conto che era lui, capii anche che stava cambiando la mia vita. Ognuno di noi, se decide di fare una scelta, ha bisogno di un modello. Mi colpì il suo modo di essere padre, prima di tutto delle persone povere. In una favela, Giovedì Santo, fece la lavanda dei piedi a tossicodipendenti e malati di Aids con una tenerezza sconvolgente».

LA REPUBBLICA Pag 25 Dalle periferie al Vaticano, ecco il prete di strada che sarà l’ombra del Papa di Paolo Rodari Padre Gonzalo Aemilius, 40 anni, è il nuovo segretario personale di Francesco

Città del Vaticano - Proviene da una famiglia benestante dell'Uruguay, la nonna ebrea e i genitori non credenti. È prete, ed è impegnato a Montevideo coi ragazzi di strada. Ha quarant'anni e si chiama padre Gonzalo Aemilius. È il nuovo segretario personale di Francesco. Succede all'argentino Fabián Pedacchio Leaniz, tornato a tempo pieno nel suo incarico presso la Congregazione dei vescovi. Va ad affiancare l'altro segretario, l'egiziano Yoannis Lahzi Gaid. Francesco l'ha conosciuto nel 2006. Allora arcivescovo di Buenos Aires, chiamò Aemilius perché colpito dal suo lavoro fra gli ultimi, ragazzi senza famiglia, alcuni schiavi della droga. Non era ancora prete, l'incontro con il cardinale Bergoglio lo segnò nel profondo: «Mi colpì molto - disse nel 2013 all'Osservatore Romano - quando, durante la messa del giovedì santo celebrata in un quartiere simile a una favela brasiliana, dove circolava molta droga, (Bergoglio, ndr) fece la lavanda dei piedi a tossicodipendenti e malati di Aids con una tenerezza sconvolgente. E con il suo gesto riscattò tantissimi abitanti del quartiere, prigionieri di quel meccanismo tremendo che sono la droga e la sua strada». E ancora: «Oggi la sua battaglia è la mia. La combatto per strappare i giovani dal flagello della droga, per dare loro un futuro che non sia quello della strada». Ordinato sacerdote nel 2006, Aemilius è dottore in teologia. Di lui si parlò il 17 marzo del 2013, pochi giorni dopo l'elezione di Francesco. Il Papa stava per celebrare messa nella parrocchia di Sant'Anna, appena dentro le mura vaticane. Lo vide lì fuori e lo invitò a entrare. Quindi lo presentò a tutti: «Un prete che da tempo lavora con i ragazzi di strada, con i drogati». Per loro, disse, «ha aperto una scuola, ha fatto tante cose per far conoscere Gesù, e tutti questi ragazzi e ragazze di strada oggi lavorano con lo studio che hanno compiuto, hanno capacità di lavoro, credono e amano Gesù. Gonzalo, vieni per salutare la gente: pregate per lui». In Uruguay, Aemilius era direttore del Liceo Jubilar Juan Pablo II. A Roma dovrà gestire insieme a Gaid gli affari di segreteria del Papa, telefonate, mail, appuntamenti. Prima di Bergoglio, i collaboratori dei vescovi di Roma lasciavano a fine pontificato e con promozioni più o meno importanti. Georg Gänswein, ancora oggi segretario di Ratzinger, è divenuto arcivescovo e prefetto della Casa pontificia. Stanislaw Dziwisz, segretario di Wojtyla, è stato creato cardinale e arcivescovo di Cracovia. Pasquale Macchi e Loris Capovilla, rispettivamente segretari di Montini e Roncalli, divennero arcivescovo il primo, prelato nullius e delegato pontificio il secondo, di Loreto. Francesco desidera che l'assunzione di ogni incarico sia svolta in un'ottica di servizio e senza ambizioni di carriera. Come tale, dopo un certo periodo, si può tornare a fare ciò che si faceva precedentemente. Così, non a caso, è l'accordo che hanno preso il Papa e il capo dei gesuiti padre Arturo Sosa in merito alla nomina del nuovo prefetto della Segreteria per l'Economia, Juan Antonio Guerrero Alves. Il gesuita è nominato senza il grado episcopale, alla fine del suo mandato tornerà a lavorare come semplice religioso. In futuro anche Gaid potrebbe lasciare. Anche se per il momento è lui ad avere un filo diretto con il Grande Imam Al-Tayyib al fine di cercare di raggiungere gli obiettivi del Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato dal Papa e dall'Imam il 4 febbraio scorso ad Abu Dhabi. La "famiglia" del Papa è formata oggi anche dai due aiutanti di camera, i laici Sandro Mariotti e Piergiorgio Zanetti. Con loro anche monsignor Assuntino Scotti, che cura la lista di chi partecipa alla messa del mattino celebrata dal Pontefice e inizia i preparativi per il rito.

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 26 gennaio 2020 Il racconto e la Parola: acqua di vita per la sete dell’uomo smarrito di Andrea Monda Il nesso tra il Messaggio per la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali e la Domenica della Parola

Esiste un evidente nesso tra il Messaggio pubblicato il 24 gennaio da Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali e la Domenica della Parola, l’iniziativa voluta dal Santo Padre che comincia proprio oggi. Il collegamento lo si può rintracciare nel titolo e nell’incipit del Messaggio che quest’anno il Papa ha voluto dedicare «al tema della narrazione, perché credo che per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone». La Domenica della Parola ha al suo centro la Bibbia, una narrazione ricca della verità delle storie buone, un testo, un “tessuto” di storie che hanno il potere di farci respirare, cioè di farci vivere, respingendo quello smarrimento che accompagna la vita di ogni uomo. Non è un libro di teorie astratte la Bibbia ma una raccolta di narrazioni, una biblioteca (dal greco Tà Biblìa, I Libri) di 73 libri pieni di racconti, di storie che insieme compongono “la storia della salvezza”. Ogni storia umana è una storia di salvezza, è questo il senso ultimo della letteratura: l’uomo conosce lo smarrimento che la vita porta con sé («la dritta via era smarrita» canta Dante nel suo celebre incipit) e affronta l’abisso senza nome della morte. La letteratura è il racconto di questa esperienza: l’uomo che torna vivo dalla morte può raccontare, perché il male, come afferma Paul Ricoeur, non si può spiegare, è anzi l’assenza della spiegazione, ma si può raccontare. I primi uomini tornavano dalla caccia (portando morti e feriti con loro) e attorno al fuoco raccontavano l’avventura e spesso qualcuno ne faceva arte, dipingendo quelle storie sulle pareti della caverna, perché «la vita si fa storia» come recita il titolo del Messaggio papale. I poemi degli antichi non a caso sono dei “nostoi”, dei ritorni dall’orrore della guerra, come quello di Ulisse, ma anche nella modernità, come nel romanzo di Melville: Ismaele, l’unico sopravvissuto della Pequod, abbarbicato alla bara galleggiante, torna dalla morte e racconta. Così avviene nel Vangelo, che è una narrazione scaturita dal big-bang delle apparizioni di Cristo risorto ai suoi discepoli. Anche oggi, nel mondo contemporaneo, iper-connesso e “iper-comunicativo”, raccontare storie è, ricorda il Papa, questione di vita o di morte. Si deve dare spazio alle parole, alla Parola, altrimenti si muore soffocati dalle chiacchiere perché è la chiacchiera il vero nemico, l’opposto della parola, non il silenzio. Parola e silenzio vivono uno grazie all’altra, uno dell’altra perché il silenzio è il grembo della parola e così come silenzio e parola generano e rigenerano la vita, la chiacchiera invece produce morte, uccide. La Domenica della Parola ricorda la centralità nella vita del cristiano della parola di Dio raccolta nella Bibbia, un tema su cui Papa Francesco è spesso tornato nella sua predicazione. Nella Bibbia il cristiano può contemplare come «la vita si fa storia»: il Dio trinitario, creatore della vita, nella seconda persona del Verbo, cioè della Parola, «si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi», ha percorso le strade polverose degli uomini. È il mistero della kenosis di Cristo, del suo “abbassamento”, fino alla morte in croce che ha generato molto frutto, la vita e la salvezza per tutti gli uomini sue creature. Cristo è il Verbo, la Parola di Dio che, come dice il profeta Isaia, opera come la pioggia e la neve che «scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata», proprio così Gesù, cioè la vita di Dio fatta storia, compie la sua missione d’amore «fino alla fine». Sono storie “buone” quelle della Bibbia? Certo, ma in che senso? La notizia che esse portano è il Vangelo, La Buona Notizia, la redenzione degli uomini operata da Cristo, ma sono buone innanzitutto perché sono storie “vere”. Da questo punto di vista il testo biblico possiede un realismo straordinario, che non fa nessuno sconto alla crudezza della vita e a tutte le sue zone d’ombra. Se Platone in Grecia raccomandava agli artisti di non raccontare le oscenità e le turpitudini della vita, non così accade per gli autori ispirati del testo biblico. Uccisioni, tradimenti, fallimenti, niente di tutto questo è risparmiato al lettore della Bibbia che invano cercherà un “happy end” assente nella maggior parte delle vicende in essa raccontate. I personaggi di quelle vicende entrano in scena con tutta la loro verità fatta di nobiltà intrecciata alla meschinità e anche i più “grandi” sono visti nella loro costitutiva fragilità (si pensi ad esempio al grande Re David) cioè umanità. Il punto è che le storie che la Bibbia racconta sono buone, cioè portano la buona notizia, ma non sono “dolci”, c’è più sale che miele nella parola di Dio che è come dice la Lettera agli Ebrei: «Viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore». Di questa parola tagliente ha bisogno l’uomo di ogni epoca e oggi anche gli stessi cristiani perché il rischio è quello di cadere nella tentazione di toglierle il pungiglione, così come ha intuito il critico letterario Northrop Frye (sua la definizione della Bibbia “Grande Codice” della letteratura): «La normale reazione degli uomini di fronte ad una grande costruzione culturale come la Bibbia è fare quello che i Filistei fecero a Sansone: ridurla all’impotenza e quindi rinchiuderla in un mulino a macinare i nostri risentimenti e pregiudizi...». Contro questa tentazione “accomodante” si batte Papa Francesco e anche l’iniziativa della Domenica della Parola deve essere letta all’interno di questa lotta, un combattimento che il Pontefice conduce con grande fiducia nella forza di quella Parola, perché, come conclude lo stesso Frye: «...ma i suoi capelli come quelli di Sansone, potrebbero forse anche lì cominciare a ricrescere».

Il Signore è venuto per i peccatori non per i perfetti Durante l’udienza alla Rota romana il Papa mette in guardia contro la tentazione di una pastorale d’élite che dimentica il popolo

«Il Signore è venuto a cercare i peccatori, non i perfetti». Lo ha ricordato Papa Francesco ricevendo nella Sala Clementina, nella mattina di sabato 25 gennaio, i prelati uditori, gli officiali, gli avvocati e i collaboratori del Tribunale della Rota romana in occasione della solenne inaugurazione dell’anno giudiziario. All’inizio dell’udienza il decano Pio Vito Pinto ha rivolto al Pontefice un saluto a nome dei presenti, tutti impegnati «a rispondere con sapienza e competenza alle attese dei fedeli in cerca della verità sul loro vincolo coniugale». In proposito ha fatto riferimento alla «giurisprudenza rotale fattasi voce del magistero» petrino nel considerare «la figura di “buio della fede” come circostanza determinante per la dichiarazione di nullità». Quindi ha accennato alla Riforma del processo matrimoniale che «nonostante le immense e immancabili difficoltà giunge ai fedeli come una speranza inattesa», destando sentimenti di «gratitudine verso il vescovo di Roma» sia nei Tribunali diocesani, sia tra molte coppie di sposi. Anche perché, ha aggiunto, «questo strumento di grazia si avvera in tempi contenuti ben differentemente dal passato». Del resto, ha concluso, «come confessiamo che le decisioni della Romana Rota erano date in tempi troppo lunghi, così ora dobbiamo dire che questo Dicastero può essere titolo di sollecitudine pastorale e di pronta risposta».

Signor Decano, Reverendissimi Prelati Uditori, cari Officiali nella Rota Romana! Sono felice di potermi oggi incontrare con voi in occasione dell’inaugurazione del Nuovo Anno Giudiziario di codesto Tribunale. Ringrazio vivamente Sua Eccellenza il Decano per le nobili parole a me rivolte e per i saggi propositi metodologici formulati. Desidero ricollegarmi alla catechesi svolta nell’udienza generale di mercoledì 13 novembre 2019, offrendo oggi a voi un’ulteriore riflessione sul ruolo primario della coppia di sposi Aquila e Priscilla come modelli di vita coniugale. Infatti la Chiesa, per seguire Gesù, deve operare secondo tre condizioni avvalorate dallo stesso divino Maestro: itineranza, prontezza e decisione (cfr. Angelus, 30 giugno 2019). La Chiesa è, per sua natura, in movimento, non resta tranquilla nel proprio recinto, è aperta ai più vasti orizzonti. La Chiesa è inviata a portare il Vangelo nelle strade e raggiungere periferie umane ed esistenziali. Ci fa ricordare la coppia di sposi neotestamentaria Aquila e Priscilla. Lo Spirito Santo ha voluto porre accanto all’Apostolo [Paolo] questo esempio mirabile di coppia di sposi itineranti: difatti, sia negli Atti degli Apostoli sia nella descrizione di Paolo non sono mai fermi, ma sempre in continuo movimento. E ci domandiamo come mai questo modello di sposi itineranti non abbia avuto, nella pastorale della Chiesa, una propria identità di sposi evangelizzatori per molti secoli. È quello di cui avrebbero bisogno le nostre parrocchie, soprattutto nelle zone urbane, nelle quali il parroco e i suoi collaboratori chierici mai potranno avere tempo e forza per raggiungere fedeli che, pur dichiarandosi cristiani, restano assenti dalla frequenza dei Sacramenti e privi, o quasi, della conoscenza di Cristo. Sorprende quindi, a distanza di tanti secoli, l’immagine moderna di questi santi sposi in movimento perché Cristo sia conosciuto: evangelizzavano essendo maestri della passione per il Signore e per il Vangelo, una passione del cuore che si traduce in gesti concreti di prossimità, di vicinanza ai fratelli più bisognosi, di accoglienza e di cura. Nel proemio alla riforma del Processo matrimoniale, ho insistito sulle due perle: prossimità e gratuità. Non va dimenticato questo. San Paolo trovò in questi sposi il modo di essere prossimo ai lontani, e li amò vivendo con loro più di un anno, a Corinto, perché sposi maestri di gratuità. Tante volte sento paura davanti al giudizio di Dio che noi avremo su queste due cose. Nel giudicare, sono stato prossimo al cuore della gente? Nel giudicare, ho aperto il cuore alla gratuità o sono stato preso da interessi commerciali? Il giudizio di Dio sarà molto forte su questo. Gli sposi cristiani dovrebbero apprendere da Aquila e Priscilla come innamorarsi di Cristo e farsi prossimi alle famiglie, prive spesso della luce della fede, non per la loro colpa soggettiva, ma perché lasciate al margine della nostra pastorale: pastorale d’élite che dimentica il popolo. Quanto vorrei che questo discorso non restasse soltanto una sinfonia di parole, ma spingesse, da una parte, i pastori, i vescovi, i parroci a cercare di amare, come fece l’Apostolo Paolo, coppie di sposi quali missionari umili e disponibili a raggiungere quelle piazze e quei palazzi delle nostre metropoli, nelle quali la luce del Vangelo e la voce di Gesù non giunge e non penetra. E, d’altra parte, sposi cristiani che abbiano l’ardire di scuotere il sonno, come fecero Aquila e Priscilla, capaci di essere agenti non diciamo in modo autonomo, ma certo carichi di coraggio fino al punto di svegliare dal torpore e dal sonno i pastori, forse troppo fermi o bloccati dalla filosofia del piccolo circolo dei perfetti. Il Signore è venuto a cercare i peccatori, non i perfetti. San Paolo VI, nella Lettera Enciclica Ecclesiam suam, osservava: «Bisogna, prima ancora di parlare, ascoltare la voce, anzi, il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo» (n. 90). Ascoltare il cuore dell’uomo. Si tratta, come ho raccomandato ai Vescovi italiani, di «ascoltare il gregge, [...] porsi accanto alla gente, attenti a impararne la lingua, ad accostare ognuno con carità, affiancando le persone lungo le notti delle loro solitudini, delle loro inquietudini e dei loro fallimenti» (Discorso all’Assemblea generale della C.E.I., 19 maggio 2014). Dobbiamo essere consapevoli che non sono i pastori ad inventare, con la loro umana intraprendenza - sia pure in buona fede - le sante coppie cristiane; esse sono opera dello Spirito Santo, che è il protagonista della missione, sempre, e sono già presenti nelle nostre comunità territoriali. Sta a noi pastori illuminarle, dare loro visibilità, farne sorgenti di nuova capacità nel vivere il matrimonio cristiano; e anche custodirle perché non cadano nelle ideologie. Queste coppie, che lo Spirito certamente continua ad animare, devono essere pronte «a uscire da se stessi, aprirsi agli altri, a vivere la prossimità, lo stile di vita insieme, che trasforma ogni relazione interpersonale in un’esperienza di fraternità» (Catechesi 16 ottobre 2019). Pensiamo al lavoro pastorale nel catecumenato prematrimoniale e post-matrimoniale: sono queste coppie che devono farlo e andare avanti. Occorre vigilare perché non cadano nel pericolo del particolarismo, scegliendo di vivere in gruppi prescelti; al contrario, occorre «aprirsi all’universalità della salvezza» (ibid.). Infatti, se siamo grati a Dio per la presenza nella Chiesa di movimenti e associazioni che non trascurano la formazione di sposi cristiani, d’altronde si deve con forza affermare che la parrocchia è per sé il luogo ecclesiale dell’annuncio e della testimonianza; perché è in quel contesto territoriale che già vivono sposi cristiani degni di far luce, i quali possono essere testimoni attivi della bellezza e dell’amore coniugale e familiare (cfr. Esort. ap. postsin. , 126-130). L’azione apostolica delle parrocchie, dunque, nella Chiesa si illumina della presenza di sposi come quelli del Nuovo Testamento, descritti da Paolo e da Luca: mai fermi, sempre in movimento, certamente con prole, secondo quanto ci è tramandato dall’iconografia delle Chiese orientali. Pertanto, i Pastori si lascino illuminare dallo Spirito anche oggi, affinché si avveri questo annuncio salvifico da parte di coppie spesso già pronte, ma non chiamate. Ci sono. Ecco, di coppie di sposi in movimento necessita oggi la Chiesa, dovunque nel mondo; partendo però idealmente dalle radici della Chiesa dei primi quattro secoli e cioè dalle catacombe, come fece San Paolo VI alla fine del Concilio recandosi nelle Catacombe di Domitilla. In quelle Catacombe, quel santo Pontefice affermò: «Qui il cristianesimo affondò le sue radici nella povertà, nell’ostracismo dei poteri costituiti, nella sofferenza di ingiuste e sanguinose persecuzioni; qui la Chiesa fu spoglia di ogni umano potere, fu povera, fu umile, fu pia, fu oppressa, fu eroica. Qui il primato dello Spirito di cui ci parla il Vangelo ebbe la sua oscura, quasi misteriosa, ma invitta affermazione, la sua testimonianza incomparabile, il suo martirio» (Omelia, 12 settembre 1965). Se lo Spirito non è invocato e dunque rimane sconosciuto e assente (cfr. Omelia a S. Marta, 9 maggio 2016) nel contesto delle nostre Chiese particolari, saremo privi di quella forza che faccia delle coppie di sposi cristiani l’anima e la forma dell’evangelizzazione. In concreto: vivendo la parrocchia come quel territorio giuridico- salvifico, perché «casa tra le case», famiglia di famiglie (cfr. Omelia ad Albano, 21 settembre 2019); Chiesa - cioè parrocchia - povera per i poveri; catena di sposi entusiasti e innamorati della loro fede nel Risorto, capaci di una nuova rivoluzione della tenerezza dell’amore, come Aquila e Priscilla, mai appagati o ripiegati su sé stessi. Verrebbe da pensare che questi santi sposi del Nuovo Testamento non ebbero tempo di mostrarsi stanchi. Così, in effetti, sono descritti da Paolo e da Luca, per i quali furono compagni quasi indispensabili, proprio perché non chiamati da Paolo ma suscitati dallo Spirito di Gesù. È qui che si fonda la loro dignità apostolica di sposi cristiani. È lo Spirito che li ha suscitati. Pensiamo a quando arriva il missionario in un posto: lì già c’è lo Spirito Santo che lo aspetta. Certo, lascia alquanto perplessi il fatto del lungo silenzio, nei secoli trascorsi, su queste sante figure della prima Chiesa. Invito e sollecito i fratelli Vescovi e i Pastori tutti a indicare questi santi sposi della prima Chiesa come compagni fedeli e luminosi dei Pastori di allora; come sostegno, oggi, ed esempio di come gli sposi cristiani, giovani e anziani, possano rendere il matrimonio cristiano sempre fecondo di figli in Cristo. Dobbiamo essere convinti, e vorrei dire sicuri, che nella Chiesa simili coppie di sposi sono già un dono di Dio e non per nostro merito, per il fatto che sono frutto dell’azione dello Spirito, che mai abbandona la Chiesa. Piuttosto, lo Spirito si attende l’ardore da parte dei Pastori, affinché non venga spenta la luce che queste coppie diffondono nelle periferie del mondo (cfr. Gaudium et spes, 4-10). Lasciate, perciò, che rinnovi lo Spirito a non rassegnarsi a una Chiesa di pochi, quasi a gradire di rimanere solo lievito isolato, privi di quella capacità degli sposi del Nuovo Testamento di moltiplicarsi nell’umiltà e nell’obbedienza allo Spirito. Lo Spirito che illumina ed è capace di rendere salvifica la nostra attività umana e la nostra stessa povertà; è capace di rendere salvifica tutta la nostra attività; restando convinti che la Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione - la testimonianza di queste persone attira -, e assicurando sempre e comunque la firma della testimonianza. Di Aquila e Priscilla non sappiamo se morirono martiri, ma di certo essi sono, per i nostri sposi di oggi, segno del martirio, almeno spirituale, cioè testimoni capaci di essere lievito che va nella farina, di essere lievito nella massa, che muore per diventare la massa (cfr. Discorso alle Associazioni di famiglie cattoliche in Europa, 1 giugno 2017). Questo è possibile oggi, dovunque. Cari Giudici della Rota Romana, il buio della fede o il deserto della fede che le vostre decisioni, a partire già da un ventennio, hanno denunciato come possibile circostanza causale della nullità del consenso, offrono a me, come già al mio predecessore Benedetto XVI (cfr. Allocuzioni alla Rota Romana 23 gennaio 2015 e 22 gennaio 2016; 22 gennaio 2011; cfr. art. 14 Ratio procedendi del Mitis Iudex Dominus Iesus), il motivo di un grave e pressante invito ai figli della Chiesa nell’epoca che viviamo, a sentirsi tutti e singoli chiamati a consegnare al futuro la bellezza della famiglia cristiana. La Chiesa necessita ubicunque terrarum di coppie di sposi come Aquila e Priscilla, che parlino e vivano con l’autorità del Battesimo, che «non consiste nel comandare e farsi sentire, ma nell’essere coerenti, essere testimoni e per questo essere compagni di strada nella via del Signore» (Omelia a S. Marta, 14 gennaio 2020). Rendo grazie al Signore perché dà ancora oggi ai figli della Chiesa il coraggio e la luce per tornare agli inizi della fede e ritrovare la passione degli sposi Aquila e Priscilla, che siano riconoscibili in ogni matrimonio celebrato in Cristo Gesù.

AVVENIRE di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Oltre l’eclissi della Parola di Mimmo Muolo Questa Domenica voluta dal Papa

La Domenica della Parola di Dio, istituita da papa Francesco, riconsegna nelle mani di ognuno di noi un immenso patrimonio di fede e di cultura, che – diciamolo francamente – molti hanno ormai smarrito o relegato alla polvere delle librerie di casa. Il valore di questa iniziativa, come ha sottolineato l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, è senz’altro legata a un nuovo annuncio (specie nelle nostre società secolarizzate) e ha perciò notevoli applicazioni di carattere pastorale ed ecumenico. Del resto la stessa scelta del nome, con il riferimento alla Parola di Dio e non solo alla Scrittura, rimanda direttamente al Concilio e alla Dei Verbum (n. 9) in particolare. Ma, al di là di questo non può essere sottovalutata neanche la sua portata culturale. Specie se intendiamo la cultura non come una cittadella ideale abitata da un ristretto numero di eletti, ma come il sostrato profondo che orienta la nostra vita e le nostre azioni quotidiane, individuali e comunitarie. Da questo punto di vista non c’è dubbio che la Parola di Dio (così come fissata nella Bibbia e illuminata dalla Tradizione) debba essere considerata non solo il grande codice culturale dell’Occidente (sarebbe restrittivo considerarla tale), ma dell’umano tout court. Anche Antonio Rosmini, nella seconda delle sue “Cinque Piaghe”, la definisce «veramente il libro del genere umano (…) per antonomasia». E aggiunge che «in un tal codice l’umanità è dipinta dal principio sino alla fine». Perciò non è lontano dal vero affermare che il declino di questa fonte di perenne ispirazione per le generazioni degli ultimi due millenni abbia comportato l’eclissi di Dio a più riprese denunciata dal Magistero e abbia aperto le porte non solo alla crisi di fede oggi così palese, ma anche a quel sonno della ragione che specie nel Novecento ha generato mostri come i totalitarismi atei, i lager di ogni colore politico e, da ultimo, l’individualismo che tende a fare di ogni uomo un’isola nella corrente di una vita senza senso, con il corollario di povertà esistenziali e materiali ben note. L’iniziativa del Papa assomiglia, dunque, a una specie di punto e a capo. Una pietra d’inciampo che ci mette nuovamente di fronte a un’eredità da molti ritenuta sorpassata e ci “costringe” a fare i conti con la sua inesauribile vitalità. Occorre riflettere su ciò che il cardinale presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, ricordava nella sua introduzione al Consiglio permanente di questa settimana. Quell’episodio in cui uno scrittore, trovandosi a cena con amici, citava un passo della Scrittura dando per scontata la sua conoscenza da parte degli interlocutori e scoprendo invece che per loro si trattava di un inedito è la spia di quanta ignoranza biblica si sia venuta accumulando nelle nostre teste, nei nostri cuori e conseguentemente nelle nostre condotte. E dà pure conto della sorpresa con cui gli osservatori anche più raffinati guardano a certe derive etiche, sociali e, perché no, anche elettorali del nostro tempo. Gratta gratta, alla radice di tutto questo che cosa si scopre? L’eclissi appunto – o per lo meno l’affievolirsi – del riferimento a quel Codice che l’alfabeto dell’umano ha fondato sin dalle dieci parole consegnate a Mosè e alle quali il Cristo morto e risorto ne ha aggiunta un’undicesima e definitiva. Sarà un bene, dunque, per la nostra umanità stressata da tante parole che rischiano di soffocare il suono incarnato dell’unico Verbo, celebrare questa Domenica (e prolungarla nella vita dei prossimi 365 giorni). Sarà un bene riflettere e guardarsi intorno e magari riaccorgersi che la nostra arte, la nostra letteratura, la nostra musica devono a quel Libro la massima parte della loro ispirazione e dunque non sarebbero intellegibili senza la conoscenza degli archetipi narrativi in esso contenuti. Come si può leggere l’incontro tra l’Innominato e il cardinale Borromeo senza conoscere la parabola del Figliol Prodigo, che di fatto Manzoni riscrive in quella meravigliosa pagina de “I Promessi Sposi”? Come si può comprendere “Il Deserto dei Tartari” senza ricordare il Maranathà che conclude la Bibbia, di cui Buzzati si fa assetato interprete? Come si può prendere in mano il Pinocchio di Collodi ignorando i molti riferimenti biblici (a partire dal Geppetto novello Giona nel ventre della Balena) che esso racchiude? Come si può ascoltare il “Va’ pensiero” di Verdi senza riandare all’esilio babilonese degli ebrei? Come si vede – e la citazione di autori anche non dichiaratamente credenti è puramente voluto – il dinamismo vitale dell’ispirazione biblica prosegue (a volte sommerso o subliminale) anche ai nostri giorni. Basterebbe leggere i testi di cantautori come Bruce Springsteen, Bob Dylan o Bono Vox per rendersene conto. O vedere con occhio attento quei film (Matrix, Star Wars ad esempio) che il filone della cosiddetta pop theology ha cominciato a indagare con risultati sorprendenti, per averne conferma. Ora questa Domenica “provvidenziale” ci offre un’immancabile occasione per riannodare i fili di un percorso anche culturale, oltre che spirituale e pastorale. E del resto, come diceva san Giovanni Paolo II, «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Come sarebbe bello, dunque, che questa occasione fosse recepita anche e soprattutto dalle nostre agenzie educative, in primis la scuola. Rimettere nelle mani dei nostri ragazzi i versi meravigliosi del Cantico dei Cantici e dei Salmi, invece delle brutture di certi rapper e trapper, l’incanto del racconto della creazione («E Dio vide che era cosa buona»), invece dei videogiochi violenti, lo storytelling luminoso delle parabole evangeliche al posto di certi fantasy splatter o addirittura demoniaci sarebbe oltre tutto un’opera di sana ecologia. Ecologia della mente e del cuore. In una parola umana ecologia integrale, che non a caso papa Francesco pone a fondamento di tutti i discorsi – oggi tanto in crescita, specie tra i giovani – di attenzione alla “casa comune”, così seriamente minacciata anche e soprattutto dall’eclissi della Parola nelle nostre vite.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 13 «Liberi di scegliere altre strade» di Gian Guido Vecchi Il presidente della Cei Bassetti attacca chi critica il Papa: «No al distruttismo, va cercato il bene della Chiesa»

Città del Vaticano. «Se a qualcuno non piace questo Papa lo dica perché è libero di scegliere altre strade. Criticare va bene, ma questo “distruttismo” no». Il cardinale Gualtiero Bassetti, 77 anni, presidente dei vescovi italiani, è un uomo di indole mite e alza la voce assai di rado. Così, quello che lo stesso arcivescovo di Perugia definisce «uno sfogo», dà la misura della tensione che si respira nella Chiesa per la fronda ricorrente della parte più tradizionalista al pontificato attuale: «C’è troppa gente che parla del Papa e a qualcuno io ho detto “fai la scelta di evangelico, se non ti va bene la Chiesa cattolica, se è troppo stretta questa barca”. I nostri fratelli protestanti non hanno né il Papa né il vescovo, ognuno faccia le sue scelte», ha esclamato, prima di sorridere: «Scusatemi per lo sfogo, ma l’obiettivo di tutti deve essere quello di cercare risposte per il bene della Chiesa e dell’umanità». Il cardinale parlava nella sua città, mentre spiegava ai giornalisti il senso dell’incontro «Mediterraneo, frontiera di pace» organizzato dalla Cei a Bari fra il 19 e il 23 febbraio. I vescovi dell’area parleranno anche della tragedia dei naufraghi «che si consuma nel silenzio assordante delle acque del mare». Ma non tratta soltanto delle denunce del Papa in favore dei migranti. Ogni occasione è buona, come dimostra il recente pasticcio editoriale legato alla pubblicazione del libro del cardinale conservatore Robert Sarah, «Dal profondo del nostro cuore», con relative polemiche intorno al fatto che Benedetto XVI ne fosse o meno il «coautore» e quindi all’«ingerenza» sul magistero del successore Francesco. Il Sinodo sull’Amazzonia ha proposto in ottobre di permettere l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati nelle zone più remote, per compensare la carenza di clero, l’ultima parola spetterà al Papa e il documento di Francesco è atteso a giorni. Era inevitabile che la pubblicazione del libro, che si oppone a qualsiasi eccezione sul celibato sacerdotale, fosse vista come una forma di pressione sul Papa, dato che si fondava sul nome del predecessore. L’arcivescovo Georg Gänswein, parlando di un «malinteso», ha chiamato il cardinale Sarah per chiedergli «su indicazione del Papa emerito» di «togliere il nome di Benedetto XVI come coautore del libro stesso»: Ratzinger, su richiesta di Sarah, aveva solo concesso come contributo un saggio sul sacerdozio già scritto. Sarah ha sempre sostenuto che Benedetto XVI fosse d’accordo su tutto, ha detto di averlo incontrato e che «non c’è stato alcun malinteso». Al di là delle versioni contrapposte, sul clima che si respira in questi giorni la dice lunga già solo il fatto che un cardinale abbia chiesto al Papa emerito un testo per un libro che si oppone alle proposte del Sinodo prima che si pronunci il Papa in carica. Francesco, peraltro, appare tranquillo. Ieri, parlando alla Rota Romana, ha invitato a evitare «una pastorale di élite che dimentica il popolo» e a «svegliare dal torpore e dal sonno i pastori, forse troppo fermi o bloccati dalla filosofia del piccolo circolo dei perfetti: il Signore è venuto a cercare i peccatori, non i perfetti».

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 25 gennaio 2020 Ritrovare il senso della storia e del racconto di Paolo Ruffini

«Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita». «Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio». Con queste due frasi, l’una posta subito dopo l’inizio e l’altra verso la fine del suo Messaggio per la cinquantaquattresima giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, Papa Francesco ci riporta con le sue parole all’essenza di un tema intorno al quale da tanto tempo giriamo in tondo. Come in un vortice che rischia di farci perdere la bussola, la stella polare, la direzione; con il paradosso che l’era della comunicazione rischia di coincidere con quella della incomunicabilità; e il trionfo dei big data con la sconfitta della sapienza necessaria per leggere e raccontare il senso di ogni storia, e con esso il significato della Storia. Narrare viene da gnarus, fare esperienza. Ma senza la capacità di ricondurre l’esperienza a unità, non c’è sapienza, e nemmeno conoscenza; tutto si riduce a una elencazione senza senso. A questo serve narrare. Solo il racconto (sempre, anche nella scienza, serve una ipotesi di ricerca, una chiave di lettura delle cose) è capace di rivelare ciò che non è immediatamente visibile agli occhi, ciò che è nascosto, ciò che richiede il tempo della conoscenza per essere svelato. Con il suo messaggio il Papa parla ai comunicatori, certo; ai giornalisti, sicuramente; ma parla in generale a tutti. Perché tutti comunichiamo. Tutti siamo responsabili del mondo che la nostra narrazione ricama. I nostri racconti sono infiniti. Sono scritti, parlati, filmati; tessuti di parole, immagini, musica; memoria del passato e visione di futuro. I nostri racconti sono la vita che tramandiamo. E a tutti il Papa chiede qual è la storia che ci raccontiamo? Quanto l’abbiamo davvero vissuta, meditata, riflettuta, capita, prima di raccontarla? È una storia vera? È una storia dinamica? O è una storia falsa? È una storia immobile? È una storia dove c’è l’uomo, e c’è il mistero che lo racchiude o è una storia che cancella la nostra umanità? È una storia raccontata bene o è una storia raccontata male? È una storia aperta alla speranza o una storia chiusa? Una storia che si compiace del male o che cerca sempre, in ogni situazione, la scintilla di bene capace di riscattarla? Tutte le storie si comprendono solo alla fine. Qual è la fine delle nostre storie? Quale spazio è lasciato al mistero di Dio, alla possibilità della redenzione? Dov’è la sapienza del racconto? «I grandi sapienti del passato - ha scritto il Papa nella Laudato si’ - correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell’informazione. …La vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale». Non sempre ci rendiamo conto di quanto importante sia il ruolo della comunicazione (e in essa di ognuno di noi quando comunica) nell’essere strumenti di comprensione o di fraintendimento, nel costruire o nel distruggere una consapevolezza responsabile, nel nutrire o nel mal-nutrire le nostre identità in divenire. Da queste domande, da questa assunzione di responsabilità che ci riguarda tutti, possiamo riprendere il cammino. E riprenderlo, da credenti, con la consapevolezza di un evento che ha cambiato la storia, illuminandola nel mistero di Dio che si fa uomo proprio per redimerla. Di fronte a questo mistero i Re Magi, sapienti di quella sapienza che rischiamo di perdere nel trambusto delle nostre vite, per proteggere la storia che era stata loro rivelata e il Dio Bambino che la incarnava, furono avvertiti in sogno che per tornare a casa occorreva scegliere un altro cammino. Conviene anche a noi, per ritrovare il luogo che custodisce il senso della storia e del racconto, scegliere un cammino diverso rispetto a quello che ci ha portato sin qui. Per ripartire serve un altro cammino, un’altra storia, un altro modo di vedere, di raccontare, di fare memoria, di costruire - narrandolo - il futuro.

Per una narrazione vera che parli del bene e del bello degli uomini Messaggio del Pontefice per la 54a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra domenica 24 maggio, solennità dell’Ascensione

«Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria» (Es 10, 2). La vita si fa storia

Desidero dedicare il Messaggio di quest’anno al tema della narrazione, perché credo che per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri. 1. Tessere storie L’uomo è un essere narrante. Fin da piccoli abbiamo fame di storie come abbiamo fame di cibo. Che siano in forma di fiabe, di romanzi, di film, di canzoni, di notizie..., le storie influenzano la nostra vita, anche se non ne siamo consapevoli. Spesso decidiamo che cosa sia giusto o sbagliato in base ai personaggi e alle storie che abbiamo assimilato. I racconti ci segnano, plasmano le nostre convinzioni e i nostri comportamenti, possono aiutarci a capire e a dire chi siamo. L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr. Gen 3, 21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti: infatti, la capacità umana di “tessere” conduce sia ai tessuti, sia ai testi. Le storie di ogni tempo hanno un “telaio” comune: la struttura prevede degli “eroi”, anche quotidiani, che per inseguire un sogno affrontano situazioni difficili, combattono il male sospinti da una forza che li rende coraggiosi, quella dell’amore. Immergendoci nelle storie, possiamo ritrovare motivazioni eroiche per affrontare le sfide della vita. L’uomo è un essere narrante perché è un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni. Ma, fin dagli inizi, il nostro racconto è minacciato: nella storia serpeggia il male.

2. Non tutte le storie sono buone «Se mangerai, diventerai come Dio» (cfr. Gen 3, 4): la tentazione del serpente inserisce nella trama della storia un nodo duro da sciogliere. “Se possederai, diventerai, raggiungerai...”, sussurra ancora oggi chi si serve del cosiddetto storytelling per scopi strumentali. Quante storie ci narcotizzano, convincendoci che per essere felici abbiamo continuamente bisogno di avere, di possedere, di consumare. Quasi non ci accorgiamo di quanto diventiamo avidi di chiacchiere e di pettegolezzi, di quanta violenza e falsità consumiamo. Spesso sui telai della comunicazione, anziché racconti costruttivi, che sono un collante dei legami sociali e del tessuto culturale, si producono storie distruttive e provocatorie, che logorano e spezzano i fili fragili della convivenza. Mettendo insieme informazioni non verificate, ripetendo discorsi banali e falsamente persuasivi, colpendo con proclami di odio, non si tesse la storia umana, ma si spoglia l’uomo di dignità. Ma mentre le storie usate a fini strumentali e di potere hanno vita breve, una buona storia è in grado di travalicare i confini dello spazio e del tempo. A distanza di secoli rimane attuale, perché nutre la vita. In un’epoca in cui la falsificazione si rivela sempre più sofisticata, raggiungendo livelli esponenziali (il deepfake), abbiamo bisogno di sapienza per accogliere e creare racconti belli, veri e buoni. Abbiamo bisogno di coraggio per respingere quelli falsi e malvagi. Abbiamo bisogno di pazienza e discernimento per riscoprire storie che ci aiutino a non perdere il filo tra le tante lacerazioni dell’oggi; storie che riportino alla luce la verità di quel che siamo, anche nell’eroicità ignorata del quotidiano.

3. La Storia delle storie La Sacra Scrittura è una Storia di storie. Quante vicende, popoli, persone ci presenta! Essa ci mostra fin dall’inizio un Dio che è creatore e nello stesso tempo narratore. Egli infatti pronuncia la sua Parola e le cose esistono (cfr. Gen 1). Attraverso il suo narrare Dio chiama alla vita le cose e, al culmine, crea l’uomo e la donna come suoi liberi interlocutori, generatori di storia insieme a Lui. In un Salmo, la creatura racconta al Creatore: «Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda [...]. Non ti erano nascoste le mie ossa, quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra» (139,13-15). Non siamo nati compiuti, ma abbiamo bisogno di essere costantemente “tessuti” e “ricamati”. La vita ci è stata donata come invito a continuare a tessere quella “meraviglia stupenda” che siamo. In questo senso la Bibbia è la grande storia d’amore tra Dio e l’umanità. Al centro c’è Gesù: la sua storia porta a compimento l’amore di Dio per l’uomo e al tempo stesso la storia d’amore dell’uomo per Dio. L’uomo sarà così chiamato, di generazione in generazione, a raccontare e fissare nella memoria gli episodi più significativi di questa Storia di storie, quelli capaci di comunicare il senso di ciò che è accaduto. Il titolo di questo Messaggio è tratto dal libro dell’Esodo, racconto biblico fondamentale che vede Dio intervenire nella storia del suo popolo. Infatti, quando i figli d’Israele schiavizzati gridano a Lui, Dio ascolta e si ricorda: «Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero» (Es 2, 24-25). Dalla memoria di Dio scaturisce la liberazione dall’oppressione, che avviene attraverso segni e prodigi. È a questo punto che il Signore consegna a Mosè il senso di tutti questi segni: «perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio e del figlio di tuo figlio i segni che ho compiuti: così saprete che io sono il Signore!» (Es 10, 2). L’esperienza dell’Esodo ci insegna che la conoscenza di Dio si trasmette soprattutto raccontando, di generazione in generazione, come Egli continua a farsi presente. Il Dio della vita si comunica raccontando la vita. Gesù stesso parlava di Dio non con discorsi astratti, ma con le parabole, brevi narrazioni, tratte dalla vita di tutti i giorni. Qui la vita si fa storia e poi, per l’ascoltatore, la storia si fa vita: quella narrazione entra nella vita di chi l’ascolta e la trasforma. Anche i Vangeli, non a caso, sono dei racconti. Mentre ci informano su Gesù, ci “performano” [Cfr. BENEDETTO XVI, Enc. Spe salvi, 2: «Il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita»] a Gesù, ci conformano a Lui: il Vangelo chiede al lettore di partecipare alla stessa fede per condividere la stessa vita. Il Vangelo di Giovanni ci dice che il Narratore per eccellenza — il Verbo, la Parola — si è fatto narrazione: «Il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha raccontato» (Gv 1, 18). Ho usato il termine “raccontato” perché l’originale exeghésato può essere tradotto sia “rivelato” sia “raccontato”. Dio si è personalmente intessuto nella nostra umanità, dandoci così un nuovo modo di tessere le nostre storie.

4. Una storia che si rinnova La storia di Cristo non è un patrimonio del passato, è la nostra storia, sempre attuale. Essa ci mostra che Dio ha preso a cuore l’uomo, la nostra carne, la nostra storia, fino a farsi uomo, carne e storia. Ci dice pure che non esistono storie umane insignificanti o piccole. Dopo che Dio si è fatto storia, ogni storia umana è, in un certo senso, storia divina. Nella storia di ogni uomo il Padre rivede la storia del suo Figlio sceso in terra. Ogni storia umana ha una dignità insopprimibile. Perciò l’umanità merita racconti che siano alla sua altezza, a quell’altezza vertiginosa e affascinante alla quale Gesù l’ha elevata. «Voi — scriveva San Paolo — siete una lettera di Cristo scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani» (2 Cor 3, 3). Lo Spirito Santo, l’amore di Dio, scrive in noi. E scrivendoci dentro fissa in noi il bene, ce lo ricorda. Ri-cordare significa infatti portare al cuore, “scrivere” sul cuore. Per opera dello Spirito Santo ogni storia, anche quella più dimenticata, anche quella che sembra scritta sulle righe più storte, può diventare ispirata, può rinascere come capolavoro, diventando un’appendice di Vangelo. Come le Confessioni di Agostino. Come il Racconto del Pellegrino di Ignazio. Come la Storia di un’anima di Teresina di Gesù Bambino. Come i Promessi Sposi, come I fratelli Karamazov. Come innumerevoli altre storie, che hanno mirabilmente sceneggiato l’incontro tra la libertà di Dio e quella dell’uomo. Ciascuno di noi conosce diverse storie che profumano di Vangelo, che hanno testimoniato l’Amore che trasforma la vita. Queste storie reclamano di essere condivise, raccontate, fatte vivere in ogni tempo, con ogni linguaggio, con ogni mezzo.

5. Una storia che ci rinnova In ogni grande racconto entra in gioco il nostro racconto. Mentre leggiamo la Scrittura, le storie dei santi, e anche quei testi che hanno saputo leggere l’anima dell’uomo e portarne alla luce la bellezza, lo Spirito Santo è libero di scrivere nel nostro cuore, rinnovando in noi la memoria di quello che siamo agli occhi di Dio. Quando facciamo memoria dell’amore che ci ha creati e salvati, quando immettiamo amore nelle nostre storie quotidiane, quando tessiamo di misericordia le trame dei nostri giorni, allora voltiamo pagina. Non rimaniamo più annodati ai rimpianti e alle tristezze, legati a una memoria malata che ci imprigiona il cuore ma, aprendoci agli altri, ci apriamo alla visione stessa del Narratore. Raccontare a Dio la nostra storia non è mai inutile: anche se la cronaca degli eventi rimane invariata, cambiano il senso e la prospettiva. Raccontarsi al Signore è entrare nel suo sguardo di amore compassionevole verso di noi e verso gli altri. A Lui possiamo narrare le storie che viviamo, portare le persone, affidare le situazioni. Con Lui possiamo riannodare il tessuto della vita, ricucendo le rotture e gli strappi. Quanto ne abbiamo bisogno, tutti! Con lo sguardo del Narratore — l’unico che ha il punto di vista finale — ci avviciniamo poi ai protagonisti, ai nostri fratelli e sorelle, attori accanto a noi della storia di oggi. Sì, perché nessuno è una comparsa nella scena del mondo e la storia di ognuno è aperta a un possibile cambiamento. Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio. Non si tratta perciò di inseguire le logiche dello storytelling, né di fare o farsi pubblicità, ma di fare memoria di ciò che siamo agli occhi di Dio, di testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori, di rivelare a ciascuno che la sua storia contiene meraviglie stupende. Per poterlo fare, affidiamoci a una donna che ha tessuto l’umanità di Dio nel grembo e, dice il Vangelo, ha tessuto insieme tutto quanto le avveniva. La Vergine Maria tutto infatti ha custodito, meditandolo nel cuore (cfr. Lc 2, 19). Chiediamo aiuto a lei, che ha saputo sciogliere i nodi della vita con la forza mite dell’amore:

O Maria, donna e madre, tu hai tessuto nel grembo la Parola divina, tu hai narrato con la tua vita le opere magnifiche di Dio. Ascolta le nostre storie, custodiscile nel tuo cuore e fai tue anche quelle storie che nessuno vuole ascoltare. Insegnaci a riconoscere il filo buono che guida la storia. Guarda il cumulo di nodi in cui si è aggrovigliata la nostra vita, paralizzando la nostra memoria. Dalle tue mani delicate ogni nodo può essere sciolto. Donna dello Spirito, madre della fiducia, ispira anche noi. Aiutaci a costruire storie di pace, storie di futuro. E indicaci la via per percorrerle insieme.

Roma, presso San Giovanni in Laterano, 24 gennaio 2020, Memoria di San Francesco di Sales

AVVENIRE di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Alla sorgente della verità di Marina Corradi Raccontare il bene nascosto del mondo

«Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme». Lo scrive Francesco nel Messaggio per la 54esima Giornata delle Comunicazioni sociali. Quanto è vero, lo sappiamo tutti. Ci sono giorni in cui tg e giornali e web da tutto il mondo riferiscono di una tale mole di ingiustizia e violenza, che viene da disperare. Da dirsi che questo mondo è così sbagliato e inquinato dal male, che non c’è nulla da fare. Voglia di non leggere né vedere più nulla: di non sapere. Ma, insiste Francesco, occorre «una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri». È la sfida che accompagna chi fa comunicazione e non vuole fare audience allargando paure, sospetti, talvolta anche orrore. È facile gonfiare i contatti sul web, raccontando i minimi dettagli di un omicidio: c’è qualcosa, nel male, che segretamente ci affascina. Più difficile è scorgere anche nel male e nel dolore un punto, magari minimo, di umanità, di nostalgia di bene: perfino dentro una storia turpe, oppure in una di quelle sciagure naturali che annientano gli uomini, come fossero solo formiche. Penso a certe mattine lontane nella nebbia di un’altra Milano, agli spacciatori ammazzati nei regolamenti di conti notturni. All’alba erano ancora stesi su un marciapiede di periferia. La giovane cronista di 'nera' che ero ascoltava i commenti dei passanti. «Tanto meglio, uno di meno», dicevano, e tiravano diritto. Ma il morto aveva vent’anni, e quando suonavi alla porta di casa trovavi una madre, muta di dolore e di vergogna. Che dopo un po’, guardando fisso per terra, cominciava a dire di quando lui era un bambino che andava in bicicletta in cortile, e correva su sorridente, all’ora di cena. «Da piccolo, sa – diceva quella donna quasi con timidezza – mio figlio non era cattivo». E allora avresti voluto scrivere un’altra storia, non di droga e esecuzioni: la storia di una madre venuta dal Sud con tanti figli, della sua grande fatica, della sua impotenza. La storia – tra quei brutti palazzi uguali, tra quei passanti ostili – di un povero grande amore. Oppure, tanti anni dopo, quella stessa cronista nell’Indonesia devastata dallo tsunami. Uno scenario terrificante: ponti divelti, Tir accartocciati come dalla mano di un gigante. E cadaveri, dopo dieci giorni, ancora galleggianti nel fango, sotto agli occhi della popolazione annichilita, immobile sulle soglie delle case rimaste in piedi. L’apocalisse, pensavi, pure tu annientata da quella massa di melma nera che copriva ogni cosa. Ma, vicino a un molo, degli ambulanti avevano rimesso su dei miseri banchetti con verdura, e polli; e da una radio, per caso, suonava, struggente come una preghiera, la voce di Bob Dylan, Knockin’ on Heaven’s door, bussando alla porta del paradiso. E in quell’umile ansia di tornare a vivere c’era già un’altra storia, buona. Come nell’ostinazione del giovane missionario camilliano americano che, la gran croce sulla tonaca, percorreva a lunghi passi la distesa di fango e prometteva: «Qui faremo un ospedale». O, ancora, nella Rimini della notte, trovarsi a seguire don Oreste Benzi fra le prostitute. Alla luce dei falò ai bordi dei viali di periferia quei volti di donne assenti, come diventate automi. Ma a volte il vecchio prete in tonaca nera riusciva a sciogliere il muro, e una di loro si metteva a raccontargli la sua storia. Gli occhi vivi sotto il trucco pesante, nell’audacia di confessare un sogno: «Sai, mi piacerebbe smettere».

Pag 2 Docili alla Parola di Dio per essere buoni cristiani di Salvatore Mazza

Quando iniziamo a corromperci? Quando, e come, la nostra vita comincia a sfaldarsi, e a smarrirsi, a scivolare verso quella inesorabile perdita di 'umanità', all’inseguimento dell’illusione di poter bastare a se stessi? Papa Francesco l’ha voluto chiedere l’altro giorno, nell’omelia della Messa mattutina a Santa Marta, sottolineando come il segreto per essere «buoni cristiani» sta nell’essere «obbedienti a Dio». Che vuol dire «docilità», ovvero accondiscendenza nel seguire la volontà del Signore sempre e comunque, anche quando sembrerebbe metterci «nei guai». Può apparire semplice detto così. Ma per arrivare a quel livello di abbandono alla parola del Signore è indispensabile mettersi davvero in ascolto di ciò che Dio ha da dirci, che ci ripete di continuo, su tutto ciò – giustizia, carità, perdono e misericordia – che distingue la vita dei credenti. Se al contrario questa obbedienza, questa docilità manca, è allora che inizia la corruzione, che passo dopo passo ci consuma l’anima. Si incomincia «con una piccola disobbedienza, una mancanza di docilità, e si va avanti, avanti, avanti...». E così, a forza di pensare, supporre, interpretare, smussare, edulcorare, si finisce con il «preferire ciò che io penso e non quello che mi comanda il Signore e che forse non capisco». Ci ribelliamo alla volontà di Dio, e in tal modo commentiamo «un peccato di divinazione». Come se, mentre affermiamo È di credere in Dio, «si andasse dall’indovina a farsi leggere le mani 'per sicurezza'». Ma questa non è altro che idolatria, perché «quando tu ti ostini davanti alla volontà del Signore sei un idolatra, perché preferisci quello che pensi tu, quell’idolo, alla volontà del Signore... Tante volte noi preferiamo le nostre interpretazioni del Vangelo o della Parola del Signore al Vangelo e alla Parola del Signore. Per esempio, quando cadiamo nelle casistiche, nelle casistiche morali... Questa non è la volontà del Signore». È la stessa cosa che nel giugno del 2011 disse Benedetto XV, che in una catechesi del mercoledì mise in evidenza come l’idolatria sia sempre in agguato anche tra i credenti, che «si illudono di poter servire due padroni, e di poter servire l’Onnipotente riponendo la loro fiducia anche in un Dio impotente fatto dagli uomini». Ma l’idolo rimane muto: «Pensato dall’uomo come qualcosa di cui si può disporre e che si può gestire con le proprie forze, la adorazione degli idoli anziché aprire il cuore all’alterità che permette di uscire dagli orizzonti angusti dell’egoismo, chiude la persona nel cerchio esclusivo e disperante della ricerca di sé». Tutto questo quando, ha aggiunto Francesco l’altro giorno, la volontà di Dio è invece «chiara»: «La fa vedere con i comandamenti nella Bibbia e te la fa vedere con lo Spirito Santo dentro il tuo cuore. Ma quando io sono ostinato e trasformo la Parola del Signore in ideologia sono un idolatra, non sono docile. La docilità, l’obbedienza». A vincere su questa idolatria, e a vincere e sulla superbia che a essa è sempre strettamente connessa, è la Parola del Signore che «sempre è novità, ci porta avanti sempre... vince sempre, è meglio di tutto. Vince l’idolatria, vince la superbia e vince questo atteggiamento di essere troppo sicuri di se stessi, non per la Parola del Signore ma per le ideologie che io ho costruito attorno alla Parola del Signore». Per questo, dunque, essere un buon cristiano vuole dire essere «docile» alla Parola di Dio, e non essere «incoerenti nella vita», usando «una ideologia per potere andare avanti». Bisogna fidarsi di Dio, questa è la chiave di tutto.

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE di domenica 26 gennaio 2020 Pag 3 Il futuro di un Paese cammina con le famgiie, anche immigrate di Maurizio Ambrosini Una celebrazione cristiana che ricorda qualcosa di decisivo per tutti i cittadini

Oggi la vasta diocesi ambrosiana celebra la festa della Sacra Famiglia. Le Chiese di rito romano l’hanno celebrata poche settimane fa. Nel cuore dell’inverno, poco dopo Natale, la Chiesa cattolica ricorda che Gesù è nato e cresciuto in una famiglia umana, e con la sua famiglia è stato perseguitato ed esiliato. Guardando all’icona della Sacra Famiglia, i cattolici sono chiamati a porre al centro delle loro sollecitudini le famiglie odierne, in carne, ossa, relazioni e sentimenti. Quando però in Italia si parla di famiglia e di valori familiari, quando si organizzano convegni e iniziative a sostegno della famiglia, scatta una sorta di riflesso condizionato: le famiglie che si vogliono (giustamente) tutelare sono immaginate e rappresentate come italiane, per nascita, cittadinanza, formazione culturale. Per converso, quando si parla d’immigrazione, l’immaginario più ricorrente evoca giovani uomini soli, oggi soprattutto africani e sbarcati dal mare. Forse potrà apparire ad alcuni sorprendente, ma l’immigrazione in Italia, come negli altri Paesi sviluppati, sta invece assumendo sempre più un profilo familiare. Anche nel 2018, come negli anni precedenti, la maggioranza dei nuovi permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi extra-Ue (il 52,4%), sono stati concessi per motivi familiari. I cittadini della Ue non ne hanno bisogno, così come i lavoratori ad alta qualificazione: possono portare con sé le famiglie senza particolari vincoli. In aggiunta, degli oltre 5 milioni di stranieri residenti 1,1 è nato in Italia da genitori stranieri. Mediante le famiglie cresce la mescolanza e si formano nuove identità culturali. Le popolazioni immigrate diventano sempre più simili a quelle autoctone, fino a confondersi con loro. Questi processi non sono tuttavia privi di tensioni e difficoltà. Nell’epoca contemporanea le famiglie immigrate raramente arrivano insieme. I primi a muoversi sono di norma giovani adulti, uomini e donne (la maggioranza in Italia e in Europa), che lasciano i familiari in patria. L’immigrazione comporta una separazione delle famiglie: una fase in cui gli affetti vengono tenuti vivi da telefonate e (oggi) videochiamate, dagli aiuti materiali e dai doni inviati a casa, dalle visite quando è possibile. Rendere più agevoli i ricongiungimenti familiari, consentire a genitori e figli di ritrovarsi e vivere insieme, favorire la 'cittadinanza genitoriale', dovrebbe essere il primo obiettivo di politiche familiari davvero inclusive. Ricongiungere la famiglia tuttavia è solo un primo passo: dopo anni di lontananza tutti i protagonisti si accorgono di essere cambiati, e non soltanto perché i figli sono cresciuti. Il ricongiungimento non è un lieto fine, ma un nuovo inizio, carico di incertezze, sfide, nuovi equilibri da conseguire. Il secondo obiettivo dunque dovrebbe essere: accompagnare i processi di ricongiungimento, aiutare le famiglie immigrate a ricominciare un percorso di vita comune. Si potrebbe pensare, per esempio, a famiglie- tutor che in ambito locale si 'gemellino' con quelle neo-arrivate, diventando un punto di riferimento per orientarsi in un ambiente sociale per molti versi sconosciuto. L’inserimento dei figli nel nuovo contesto è un altro passaggio cruciale. Più sono cresciuti, più diventa difficile per loro adattarsi. Serve una scuola accogliente, ma servono anche luoghi extrascolastici in cui possano sviluppare esperienze di socialità e apprendimento informale. Già oratori, doposcuola, società sportive fanno molto in questo campo. Forse però occorre andare oltre la spontaneità, sviluppando consapevolezza, competenze, cammini più strutturati. Quando i figli sono nati qui (ormai, la maggioranza), i luoghi extrascolastici accessibili e a basso costo risultano parimenti preziosi per offrire opportunità di aggregazione, divertimento, sviluppo educativo, a cui altrimenti le famiglie con pochi mezzi avrebbero difficoltà ad arrivare. Vanno infine ricordate le coppie e famiglie miste: oltre il 12% dei matrimoni. In più di 3 casi su quattro, sono uomini italiani che sposano donne straniere, provenienti perlopiù dall’Europa Orientale. Qui le occasioni di scambio culturale e integrazione sociale sono per definizione esaltate, ma sorgono anche questioni delicate e complesse, che spaziano dalle reazioni dell’ambiente, al rapporto con le famiglie di origine, agli squilibri di potere, all’educazione religiosa dei figli che nascono da unioni interconfessionali. Anche in questo caso, accoglienza e accompagnamento possono fornire un apporto decisivo. E le coppie miste possono diventare un esempio per le comunità. Il futuro di un Paese cammina insieme alle sue famiglie. È ora di renderci conto che le famiglie dell’Italia di domani sono anche queste, arrivate da lontano per ringiovanire un Paese in declino.

AVVENIRE di sabato 25 gennaio 2020 Pag 3 Motivato elogio del liceo al tempo degli specialismi di Roberto Carnero Un percorso scolastico interdisciplinare e controcorrente

In questi giorni migliaia di famiglie italiane i cui ragazzi frequentano la terza media sono alle prese con la scelta della scuola superiore (c’è tempo fino al 31 gennaio). A tale proposito, pur riconoscendo l’importanza degli istituti tecnici e professionali (che possono essere consigliati in presenza di specifiche attitudini nei ragazzi), vorrei tessere qui un elogio del nostro caro, vecchio e spesso – a torto – vituperato liceo (in tutti i suoi indirizzi: classico, scientifico, linguistico ecc). Non tanto per ragioni corporative (il sottoscritto insegna in un liceo) quanto perché, anno dopo anno, e nonostante il mutare della società, continuo a riscontrare in questo tipo di scuola tanti pregi e tante ragioni di opportunità. Mi sembra che la prima qualità del percorso liceale sia il suo essere contro corrente. Il mondo in cui viviamo va sempre più verso un’attitudine allo specialismo. Una figura come quella di Leonardo da Vinci, che lo scorso anno abbiamo tanto celebrato in occasione dei 500 anni dalla morte, in realtà è quanto di meno attuale si possa immaginare. Il suo eclettismo, la sua capacità di unire quelle che nel Novecento si sarebbero chiamate 'le due culture' (tecnico-scientifica e artistico- umanistica), la tendenza a spaziare nei più svariati campi del sapere e del fare, sembrano atteggiamenti molto lontani da quella parcellizzazione delle conoscenze e da quella concentrazione dei saperi negli specialismi che connota in modi sempre più rigidi il mondo di oggi. Pensiamo, per esempio, a un campo come quello della scienza medica, dove il discorso etico dovrebbe essere importante, anzi centrale (il rapporto medico-paziente in primis come relazione tra due esseri umani, uno dei quali spesso fragile e sofferente), eppure purtroppo molte volte finisce con il passare in secondo piano rispetto ad altre componenti, come quella tecnico- operativa. Ebbene, il nostro liceo continua ad avere la capacità di aprire gli studenti a una pluralità di saperi e di punti di vista, per cui il ragazzo non diventa subito specialista di una disciplina specifica, ma viene posto di fronte a una panoramica piuttosto ampia. Al liceo vengono parimenti valorizzate l’intelligenza logico-formale (in discipline come Matematica o Informatica) e la sensibilità linguistica ed estetica (in Italiano o in Storia dell’arte). Per paradosso, si potrebbe persino dire che il giovane che esce dal liceo ha uno sguardo più vasto, più curioso, più aperto di quello che esce dall’università, per quanto quest’ultimo sia certamente forte degli approfondimenti disciplinari legati al particolare curriculum accademico prescelto e, se ha studiato con intelligenza, abbia mantenuto quella forma mentisbasata sull’apertura al resto dello scibile umano. Quando uno studente liceale mi chiede perché debba occuparsi di Letteratura quando magari ha già deciso che all’università si iscriverà a Ingegneria, o – viceversa – perché debba rompersi il capo sui problemi di fisica quando, una volta conseguita la maturità, intende poi laurearsi in Lettere, cerco di fargli capire quale grande ricchezza sia offerta da tale approccio multidisciplinare e interdisciplinare, sebbene quest’ultima dimensione (l’interdisciplinarità) a scuola non sia sempre adeguatamente coltivata attraverso opportuni legami tra le programmazioni dei diversi docenti (ciascuno dei quali troppe volte va ancora per conto suo). Nel 1979 usciva negli Stati Uniti un saggio del sociologo Neil Postman, destinato a diventare celebre: ' Teaching as a Conserving Activity'. Potremmo tradurre il titolo, letteralmente, con 'L’insegnamento come attività di conservazione', anche se l’edizione italiana (ripubblicata recentemente da Armando Editore) porta un titolo diverso: 'Ecologia dei media. La scuola come contropotere'. Mi sembra molto bella l’idea che la scuola possa avere nella società un ruolo di «resistenza» e di «contropotere », per esempio rispetto all’invadenza tecnologica e all’onnipresenza delle macchine (in senso lato: dalle automobili, che inquinano l’aria, ai computer e ai telefoni cellulari, che talora finiscono per inquinare i nostri pensieri...), attraverso una 'conservazione', cioè una preservazione, un mantenimento, una valorizzazione delle ragioni umane, contro il rischio di una crescente disumanizzazione della nostra società. E sono convinto che il liceo continui ad assolvere in maniera importante questa funzione per le nuove generazioni.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 13 “Luminarie a San Barnaba apprezzate dai residenti” I promotori

Luminarie a San Barnaba: le critiche dello scenografo Ezio Toffolutti hanno lasciato il segno. Ma hanno trovato anche una replica. Quella di Antonella Maione, presidente dell'associazione Do.Ve, che difende la scelta e invita Toffolutti e altri bravi professionisti a collaborare gratuitamente con i volontari per il bene di Venezia. «Purtroppo lo scenografo non ci ha contattati altrimenti avremmo potuto rassicurarlo», spiega Maione «che di cura nelle nostre iniziative ne mettiamo molta. Sicuramente il suo intento è benevolo e la critica costruttiva. C'è sempre bisogno di persone che facciano e che affianchino i volontari di Do.Ve per dare un contributo gratuito e disinteressato alla città. La stragrande maggioranza delle persone residenti e non residenti ha apprezzato il progetto ed ha compreso quanto di miracoloso abbia il fatto che, malgrado le difficoltà dell'acqua alta. E teniamo a precisare che ogni nostra iniziativa viene sottoposta al Comune e nulla viene fatto senza prima ottenere i permessi. Un discorso a parte merita lo Ied che è stato nominato del tutto a sproposito, perché nulla ha a che fare con le luminarie natalizie».

CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 11 Bugliesi: «Sono disponibile a guidare un progetto civico se ci sono le condizioni» di Claudia Fornasier ll rettore apre alla candidatura a sindaco per il centrosinistra

Rettore. è disponibile a candidarsi a sindaco per il centrosinistra? «Sono disponibile a partecipare a un progetto civico, cioè un progetto che non sia determinato dalle forze politiche, in cui abbiano un ruolo, che ci credano, aiutino a realizzarlo ma lascino che abbia una sua agenda. Se c’è questo progetto a me va di parteciparvi». Michele Bugliesi, rettore di Ca’ Foscari in scadenza di mandato, è indicato come uno dei possibili candidati sindaci del centrosinistra. Da alcune settimane è uno dei due nomi - l’altro è Gianfranco Bettin - su cui si è polarizzata la discussione delle forze politiche. A pochi giorni dalla decisione, rompe il rigoroso silenzio di questi mesi. Un progetto civico, a lei pare che ci sia? «Va costruito, è una richiesta che arriva da gran parte della cittadinanza. Non si parte da zero. C’è stato il lavoro dei cento tavoli del Pd che hanno esibito delle idee, quello di Un’altra città possibile, le istanze del Gruppo 25 Aprile. L’agenda ha dei temi evidenti, il nodo è come si risolvono, con quale capacità innovativa, con quali persone. Tra le forze politiche è in atto un percorso che più che a una convergenza sembra stia portando a un avvitamento. Penso che il tavolo politico, in questo momento, dovrebbe esprimere la disponibilità a consegnare a qualcuno l’interpretazione di questa agenda, chiedere, nei modi che ritiene, ma convintamente, una disponibilità e lasciare spazio a chi raccoglie la richiesta di dare la sua agenda, rispettosa di una visione sociale e politica». A quale visione si riferisce? «Parto da una considerazione verso la quale c’è stata poca attenzione: è il concetto per il quale l’interesse pubblico sarebbe la somma degli interessi privati. Non è così, l’interesse pubblico è per il bene comune. In questi anni, invece abbiamo visto l’interesse del bene pubblico ridotto a oneri compensativi. Se l’obiettivo è valorizzare il bene pubblico, bisogna ascoltarne gli interpreti, che non sono le categorie che partecipano a utilizzarlo, ma tutte le articolazioni di segmenti sociali che fanno il bene pubblico e con il bene pubblico convivono, ne fanno parte, lo alimentano. Così non è stato in questi cinque anni». Finora non si è mai esposto, perché? «Avevo un compito da svolgere, il rettorato. Il mio ruolo attuale non è stato incompatibile con un progetto civico, il mio programma da rettore è stato molto legato alla città, alla speranza di far diventare residenti gli studenti, costruendo intorno a loro una città capace di accoglierli e valorizzarli, al di là del turismo. Io stesso sono l’espressione di quello che può succedere: non sono veneziano, sono venuto qui perché è una città interessante, che mi ha dato la possibilità di svolgere un lavoro interessante. E ho un affezionamento che mi deriva dall’averla vissuta nella sua fragilità e nel suo essere speciale». Rettore, chi glielo fa fare? «Non lo sto facendo ancora, aspettiamo. Questa città è appassionante, sono disponibile a farlo se capisco che c’è lo spirito per condurre una battaglia come va condotta, non se percepisco un senso latente di scetticismo. Se è così, troviamo qualcuno verso il quale questo scetticismo non ci sia». Le forze di sinistra spingono per le primarie, le farebbe? «Non mi hanno mai appassionato e non mi pare che in passato abbiano dato grandi risultati, tendono a dividere all’interno di un campo. Sento dire che servono a liberare energie, io spero che le energie di tutti ci siano, che non si debbano liberare solo nella contrapposizione interna». Nel centrosinistra c’è chi dice che lei non ha esperienza politica e che se si perde, non saprebbe fare il leader dell’opposizione. «Partire con l’idea di cosa fai se perdi non è il modo migliore di affrontare un progetto. Dobbiamo fare una cosa per perdere bene o per vincere? Quando dico sostenere convintamente un progetto civico intendo questo, identificare bene qual è l’obiettivo. Dopodiché può esserci un piano B, ma dipende da cosa esce, se c’è un movimento dietro, convinto, coeso anche se si perde e che sostiene un progetto in cui crede anche se non ha avuto successo subito. Non ho esperienza politica ma ho esperienza amministrativa e ho delle idee». Quali idee? «Partiamo da una domanda: come sta la città? A vedere tutti gli indicatori macroeconomici direi che non sta affatto bene. Dunque partiamo da tutto quello che ridà vita alla comunità e da qui si ramificano gli altri temi. Primo: ripopolare con metodo Venezia e Mestre dove va trasformato il tessuto sociale con professionalità alte». Due città, stessi progetti? «Dopo il referendum la città va gestita nella sua complessità, riconoscendone le specificità. Venezia è un luogo iconico dove puoi sviluppare un’agenda dell’innovazione in tutti i campi, che porti qui giovani; Marghera è il laboratorio ideale dell’economia circolare ecocompatibile. Mestre ha luoghi che possono essere catalizzatori di investimenti per rilanciare l’impresa e il commercio. Penso all’Umberto I: possiamo farne un luogo dove, anche con risorse pubbliche, incentiviamo le startup. E allora puoi invertire il flusso, avere gente che lavora a Mestre e vive a Venezia, dove le case ci sono perché un freno agli 8400 alloggi su airbnb va messo. Poi c’è un’agenda di servizi, scuola a tempo pieno, welfare rigenerativo dei luoghi, l’ambiente come elemento di sviluppo. Posso aggiungere una cosa?» Prego… «Partecipazione. Le municipalità non sono nemici, ma le istituzioni che hanno la conoscenza dei problemi del territorio. E’ come se io avessi tolto risorse ai dipartimenti... una follia». Quale pensa sia la coalizione più forte per vincere le elezioni? Più larga possibile o più moderata possibile? «Più larga è meglio è, ma non è questo il punto. C’è la tendenza a fare una sommatoria di pezzi che dia un numero magico - 50,01 - ma non funziona se prevale l’istanza identitaria, se ogni forza politica vuole rivendicare ruolo, visibilità. Funziona se i partiti fanno un passo a lato, sostenendo la persona che pensano possa interpretare correttamente il progetto e che sono convinti sarà vincente. Bisogna creare energia, liberarla, pensare diversamente, riattivare la partecipazione per esempio dei giovani. Lo dico da elettore: serve un candidato in grado di dare entusiasmo e di far capire che ce la può fare». Ma secondo lei ce la può fare? «”Qualunque cosa sogni di intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia”. E’ una frase che viene attribuita a Goethe. Mi piace leggerla qualche volta la mattina».

La NUOVA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 2 Auchan di Mestre. La scure Conad: «I cento esuberi entro giugno» di Francesco Furlan Il riassetto dei grandi gruppi e il destino incerto della città. Mobilitazione dei lavoratori, assemblea e flessibilità bloccata. A rischiare il posto sono quasi tutte donne

Mestre. Nel puzzle impazzito del riassetto della grande distribuzione italiana c'è una tessera che dovrà adattarsi a uno spazio striminzito, ed è la tessera dell'area commerciale di Mestre. Dopo la prima grande abbuffata dei principali attori del mercato - mentre altri si preparano a sbarcare nell'area di Zelarino - i conti non tornano più. I numeri Nelle scorso ore Conad ha formalizzato la procedura di licenziamento, a livello nazionale, di 817 dipendenti, annunciando la chiusura del vertenza per il prossimo giugno. Per ciò che riguarda il Veneto gli esuberi previsti sono 147: 100 su 242 all'Auchan di Mestre, 20 su 177 al Centro Giotto di Padova, 27 alla sede amministrativa di Vicenza. Per i lavoratori in esubero «l'unica strada che offre l'impresa è un incentivo al licenziamento o un percorso di ricollocazione esterna», dice la Filcams Cgil. L'accordo riguarda i punti vendita di Margherita Distribuzione, la newco che ha unito tutte le ex società della multinazionale francese che facevano capo ad Auchan, e che ora invece fanno capo a Bdc Italia, società costituita da Conad con il 51% del capitale, e dalla lussemburghese Pop 18 Sarl che appartiene al gruppo Wrm del finanziere Raffaele Mincione. Il piano industriale della nuova proprietà prevede la cessione di alcuni punti vendita e il passaggio di altri al marchio Conad.Focus sul VenetoDei 23 punti vendita ex marchio Auchan 14 saranno assorbiti da Conad e 9 ceduti a soggetti terzi. L'Auchan di Mestre è tra quelli che diventeranno a marchio Conad, e il cambio delle insegne potrebbe arrivare già a giugno. «I vertici del gruppo», spiega la sindacalista Maurizia Rizzo, alla guida della Fisascat Cisl del Veneto, «sostengono che in Veneto i punti vendita ex Auchan registrano perdite mensili di circa il 10%, e che quindi andare oltre giugno sarebbe pericoloso, perché si rischierebbe di minare l'equilibrio economico- finanziario. Ma noi è da un anno, da quando Auchan si è fatta da parte, che chiediamo di conoscere il piano industriale di Conad». Tra i gruppi interessati all'acquisto di uno o più dei negozi in vendita ci sarebbero nomi come Esselunga e Carrefour (partnership commerciali sono già state realizzare in Lombardia) e anche gruppi locali come Unicomm, Alì e Despar.MobilitazioneSul fronte di Mestre invece l'arrivo di Conad porterà a una rivoluzione degli spazi all'interno del centro commerciale. Oggi Auchan ne occupa 1500, Conad con ogni probabilità si attesterà sui 700. Il primo piano verrà quindi liberato - e con ogni probabilità dato in affitto - mentre anche il piano terra potrebbe essere rimpicciolito. Una drastica riduzione della superficie di vendita leggibile anche nel numero degli esuberi. «Dei 100 dipendenti che verranno lasciati a casa a Mestre», prosegue La Fisascat Cisl, «circa il 90% sono donne». Molte hanno un contratto part- time, e una parte è anche mono-reddito. Davanti a loro si aprono strade diverse: accettare una buonuscita (ma di quanto sarà?) e andarsene, entrare in cassa integrazione, accettare di frequentare uno di quei corsi per la ricollocazione che troppo spesso non portano da nessuna parte. «L'azienda», prosegue il sindacato, «non può scaricare la responsabilità sullo Stato e sulle istituzioni locali, ma deve giocare un ruolo responsabile». I lavoratori intanto, che in questi mesi non hanno mai abbassato la guardia, si preparano alla mobilitazione. Il prossimo 29 gennaio è in programma l'assemblea e, nel frattempo, potrebbe essere già deciso il blocco della flessibilità dei turni - che è invece determinante per organizzare i turni di lavoro - e che potrebbe mettere in crisi l'attività dell'ipermercato di Mestre. E anche le istituzioni locali si stanno muovendo: il Comune di Venezia, che ha anche chiesto un incontro con la proprietà, e la Regione. Per discutere le modalità di uscita dei lavoratori verranno organizzato tavoli territoriali.

Mestre. La maggior parte dei 242 dipendenti di Auchan di Mestre sono donne. Il taglio previsto, dunque, come non mancano di far notare a più riprese le delegate Nicoletta Bottos, della Filcams Cgil e Monica Mencherini della Fisascat Cisl, è un taglio "rosa", che potrebbe lasciare senza lavoro madri di famiglia che portano a casa lo stipendio, donne di mezza età spesso separate e con figli a carico, e lavoratrici che prima di vedere l'agognato tempo indeterminato, hanno sgobbato per anni. E questo è un motivo in più che vede in prima linea le delegate a difendere le lavoratrici. Queste ultime non hanno dimenticato il cartello che era apparso nei corridoi dell'ipermercato qualche giorno dopo il sit-in di Natale, un messaggio della direzione che ringraziava chi non aveva fatto sciopero il 23 dicembre. «Grazie a tutti coloro che ieri, con il loro impegno profuso, ci hanno permesso di servire oltre 7.900 clienti per un fatturato di 280.000 euro senza creare disagi. Marco». Un cartello che aveva fatto molto discutere chi era entrato a lavorare senza partecipare al presidio con la promessa che non sarebbe stato lasciato casa e che non ci sarebbero stati esuberi, e che oggi rende ancora più amaro per le donne a rischio posto, mandare giù i tanti sforzi fatti: turni, domeniche, straordinari. Nell'iper, inoltre, lavorano diverse coppie, alcune delle quali hanno messo su famiglia lavorando all'Auchan, marito e moglie, con figli a carico. Ed è chiaro - come spiegavano Monica e Andrea qualche giorno fa - che uno dei due perderà il posto, mettendo a rischio la famiglia intera.

Pag 21 “Quelle luci a San Barnaba non sono accettabili”

Fa discutere la facciata della chiesa di San Barnaba illuminata da oltre un mese - e così resterà sino alla fine di Carnevale - da luci psichedeliche multicolori accese nelle ore serali e notturne, rendendola bianca, rossa, viola o verde.L'iniziativa è dell'Associazione Do.Ve (Dors. oduro Venezia) nata da circa un anno e mezzo per iniziativa di una sessantina di esercenti, ma anche residenti dell'area di Dorsoduro Ovest, che vogliono così contribuire a rivitalizzare questa parte di città. «Capisco l'esigenza di rivitalizzazione dell'Asssociazione - commenta il noto scenografo e regista veneziano Ezio Toffolutti - ma non si possono "sparare" luci da discoteca sulla facciata di San Barnaba, appiattendola completamente e facendone sparire completamente l'architettura. So che hanno fatto tutto a loro spese, ma l'illuminazione andava studiata per valorizzare la facciata, non per mortificarla. Ho letto che vogliono contattare i ragazzi dell'Istituto Europeo del Design per aiutarli. Forse dovevano pensarci prima, coinvolgendo magari anche l'Accademia di Belle Arti. Quella povera chiesa di San Barnaba già ospita quella imbarazzante mostra permanente di macchine "leonardesche". Mi chiedo perché la Curia Patriarcale non pensi per la chiesa a qualcosa di più degno, magari ospitando gli studenti dell'Accademia di Belle Arti per i loro laboratori, visto che l'istituzione è in cerca di spazi. Capisco la voglia di partecipazione e di iniziativa, ma le cose vanno fatte con un po' di cura».

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8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Nordest: baby-tossici, uno su quattro fuma droga tutti i giorni di Raffaella Ianuale

Iniziano a consumare sostanze stupefacenti sempre più giovani e le droghe in circolazione sono pericolose. Dalla cannabis cinque volte più potente di quella di un tempo alle droghe sintetiche acquistabili online, passando per l'eroina in tutte le sue variabili e la cocaina. «La situazione è drammatica, i ragazzi si avvicinano alle sostanze già a partire dalle medie», dice Giovanni Serpelloni, responsabile del Dipartimento delle Dipendenze dell'Aulss 9 di Verona che assieme agli Uffici scolastici territoriali ha realizzato un'indagine sull'uso di droghe tra gli studenti. Uno studio che conferma quanto successo a Treviso in questi giorni con un ragazzino chiamato a deporre in qualità di cliente di un pusher. Il testimone ora ha 14 anni, ma la vicenda risale a quando ne aveva 11. «Sì, è vero - ha detto al pm - fumo quasi quotidianamente e conosco altri miei coetanei che lo fanno». Nella ricerca fatta tra gli studenti il 43% degli intervistati ha affermato di aver visto girare sostanze nella propria scuola, il 28,5% di aver provato a consumare droghe, il 35,5% di aver iniziato a farne uso a 14 anni e il 31% a 15 anni. L'indagine è stata svolta nelle scuole di Verona su duemila studenti, un campione significativo che può dare uno spaccato di cosa sta succedendo anche nel resto del Veneto. I ragazzi raggiunti hanno età tra i 13 anni (frequentano la terza media) e i 18 (ultimi anni delle superiori). Del 28,5% che ha ammesso di far uso di sostanze, il 25,9 dice di assumerle quotidianamente, il 26,6% di farne un uso settimanale e il 44,1% occasionale. Alla domanda pensi di smettere quando vuoi il 77,6% ha risposto di sì. «Questo significa che non hanno consapevolezza dei pericoli che corrono - spiega Serpelloni - quasi il 70% dei ragazzi ha dichiarato di aver iniziato ad assumere sostanze tra 14-15 anni e rispetto all'analoga indagine svolta l'anno precedente è aumentato dell'11% il numero di studenti che ha ammesso di aver fatto uso di sostanza; questo dimostra che ci troviamo di fronte ad un fenomeno che è in rapida espansione». GLI INTERVENTI - L'esplosione della droga tra i giovanissimi è nota sia ai servizi pubblici che si occupano di dipendenze che al privato sociale. Eppure in tutto il territorio regionale c'è una sola comunità, a Conegliano, per minori tossicodipendenti e ne può accogliere al massimo una ventina. In Regione Veneto è stato aperto un tavolo tecnico a cui partecipano le Aziende sanitarie, i responsabili dei Serd e i rappresentanti del privato sociale per elaborare un piano di intervento per il prossimo triennio. «Aumentano gli episodi che coinvolgono giovanissimi: ci chiamano per consulenze su abusi di sostanze nei reparti di pediatria o nei pronto soccorso, non era mai successo prima» spiega Marcello Mazzo, responsabile del Serd di Rovigo e tra i partecipanti al tavolo regionale. Ma quello che arriva ai servizi è solo la punta di un iceberg, «servirebbe invece monitorare il consumo» prosegue Mazzo parlando di ragazzi che usano cannabis, ma anche eccitanti e anfetamine. «Ormai è stato dimostrato e accolto dalla comunità scientifica che l'uso dei cannabinoidi crea danni allo sviluppo celebrale di un adolescente - prosegue il responsabile del Serd - comporta modifiche funzionali e anche incide su alcune patologie: è importante intervenire non solo sulle dipendenze, ma anche sui consumatori problematici». Parla di ragazzini che fanno uso quotidiano di sostanze e di famiglie in difficoltà Angelo Benvegnù, vice-presidente nazionale del Ceis (Centro Italiano di Solidarietà Don Lorenzo Milani). Lavora nel Ceis di Mestre impegnato sul fronte dipendenze a 360 gradi e con una comunità per abuso di alcol, cocaina e gioco diventata punto di riferimento nazionale. «Ora abbiamo attivato un progetto per le giovani donne perché sempre più numerose entrano nel ciclo delle dipendenze e anche con situazioni molto difficili» spiega Benvegnù. Ma l'esperienza lo ha portato a incontrare giovanissimi in grado di mettere all'angolo i genitori: «Che gli adolescenti vogliano trasgredire è un dato di fatto - dice - ma ci troviamo di fronte famiglie in crisi e genitori spaventati da gestire». Tra le sostanze usate la cannabis con un principio attivo cinque volte superiore a quello di un tempo, ma anche ecstasy e mda, oltre alla diffusione di farmaci quali il Fentanil, un potente analgesico oppioide sintetico nato per sostituire la morfina e che negli Stati Uniti ha già fatto migliaia di morti. «Il problema - conclude il responsabile del Ceis - è che ci sono sempre meno fondi per fare prevenzione, recupero e inserimento lavorativo». I SERVIZI - Ha una visione regionale del fenomeno Fabio Ferrari, responsabile del Covest, il Coordinamento veneto strutture terapeutiche. «La forbice di chi usa sostanze si sta allargando - spiega - si va dai ragazzini delle medie ai vecchi dipendenti da eroina e cocaina che ormai hanno 55-60 anni». Il privato sociale gestisce servizi residenziali e semi-residenziali per chi è già in cura. Ma le tipologie di intervento sono molteplici. «Si va dal centro di pronta accoglienza all'intervento motivazionale - conclude - di fronte ad un fenomeno che sta colpendo le fasce di età più giovani bisognerebbe però investire di più sulla prevenzione». E l'importanza di intervenire già nelle scuole viene riconosciuta da Elena Donazzan, assessore all'Istruzione del Veneto: «Il consumo di droghe è una tra le emergenze sociali più devastanti - dice - occorre, nell'ambito delle norme e coinvolgendo famiglie, insegnanti e capi istituto, attivare la possibilità di promuovere una fase di test nelle scuole e intraprendere azioni durissime contro chi spaccia».

Duemila ragazzi intervistati nelle scuole di Verona nell'anno 2018-19, un lavoro promosso dal Dipartimento delle dipendenze dell'Aulss 9 e dagli Uffici scolastici territoriali. Uno spaccato significativo di quanto succede tra gli studenti del Veneto, già a partire dalla terza media. Gli interpellati sono equamente divisi tra maschi e femmine, con età tra i 13 e i 18 anni. Un quarto degli intervistati è nella fascia 13-14 anni e il 56,4% in quella 15-17. L'85,3% dei ragazzi ritiene che il problema della droga tra gli studenti esista e che la scuola dovrebbe affrontarlo. Il 43,5% ha detto di aver visto circolare a scuola droga, un 10% in meno rispetto all'analoga inchiesta promossa l'anno precedente. A ridurre la quantità di sostanze in classe l'intensificarsi dell'attività delle forze di polizia con i cani antidroga negli istituti scolastici. Il 28,5% ha detto di aver assunto droghe, l'11% in più rispetto all'anno precedente, soprattutto marijuana (41,7%), seguita da hashish (9,1%), cocaina (1,9%) codeina (0,8%) ed eroina (0,2%), mentre il 38,5% ha parlato di altre sostanze. Due terzi dei ragazzi ha iniziato tra i 14 e i 15 anni e il 56,8% lo ha fatto per curiosità. Il 70% ha detto di aver avuto mal di testa, nausea e vertigini. Altro dato significativo che allarga la platea è che il 51% ha dichiarato che anche gli amici usano droghe, un 14% in più rispetto all'anno precedente. Quanto ai luoghi scelti per l'assunzione ci sono parchi (36,5%), stazioni (22,9%), casa (14,9%) e scuola (10,1%). Il 60% sostiene che i genitori non sanno nulla, ma il 21% ha affermato che mamma e papà sono a conoscenza del fatto che il figlio usa droga.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Il pericolo del (fu) ceto medio di Luca Romano La società veneta

In tempi di impressionante incertezza, chi può dire come sarà il 2020? Il libro di Luca Ricolfi, La società signorile di massa è un «pugno nello stomaco», copyright Claudio Magris mutuato direttamente da Franz Kafka, per come sconvolge la tradizionale visione della società. Ricordiamone le tesi: in Italia le persone con più di 14 anni che non lavorano superano quelle che lavorano; ciò nonostante, in virtù della ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, i consumi, anche di lusso, hanno dimensioni di massa, non sono d’élite; questi squilibri non possono che determinare una stagnazione economica permanente. Il pugno di Magris era riferito al fatto che il livello di benessere di massa è reso possibile anche dal «paraschiavismo» di una quota ampia del lavoro sommerso, precario, sottopagato. Questo schema è adattabile alla società veneta? In parte sì, ma se ne differenzia perché il non lavoro non la spunta ancora sul lavoro, per poco. Ma ci fornisce uno spunto per cambiare chiave di lettura, dopo questi dieci anni, sulla società veneta. Un 20% della popolazione si può infatti collocare in una categoria di «patrimonializzati» – che detengono ricchezza accumulata dalle due ultime generazioni, ma che sono anche «dinamici», ovvero investono quote di questa ricchezza, non solo la conservano ma la sviluppano secondo una logica classicamente capitalistica. Il partito del Pil è questo ma come si vede dai numeri è intrinsecamente minoritario se si volesse porre come elemento egemone del consenso politico. È diventato minoritario per la sorte del ceto medio, un 60/70% della popolazione che potremmo definire così se questa espressione non fosse invecchiata rapidamente in questo decennio di crisi o stagnazione prolungata alla Ricolfi. Il ceto medio è attraversato in realtà da una frattura sempre più ampia tra i «patrimonializzati» e i «dinamici». Questi lavorano, proprio perché hanno difficoltà a fare margini che permettano di patrimonializzare una quota da reinvestire. Sono i giovani dei lavoretti, certo, ma anche molti professionisti, piccoli artigiani, commercianti e operatori dei servizi, molti precari dei servizi pubblici. I «patrimonializzati» invece sono facilitati da una disponibilità ereditata, ma non vogliono, o a volte non possono, svilupparla con investimenti e intraprendenza. In questa frattura cova molto del rancore che caratterizza la narrazione del sociale. Il rancore verso quelli che stanno in alto, verso le élite, è inferiore a quello interno al (ex?) ceto medio. Lavorare molto senza fare margini, oltre all’asfissia del combinato disposto burocrazia fisco, suscita rancore nei confronti dei propri «simili» dell’ex ceto medio, i fortunati che si possono ancora permettere consumi voluttuari. Non agiscono, oggi, meccanismi di mercato che trasferiscono i «patrimoni» in ricchezza per i dinamici non patrimonializzati. Infine ci sono i non patrimonializzati e non dinamici – l’ultimo 10/20% - che sono i pensionati non benestanti, i disoccupati strutturali, gli assistiti dalla spesa pubblica, i nuovi poveri tra indebitamenti e dipendenze. Non siamo alla polarizzazione di Christophe Guilluy, il geografo francese che per primo ha visto la frattura tra la Francia di Parigi e delle altre aree metropolitane e il resto della Francia «periferica», il vastissimo «mondo di sotto» che ha alimentato le rivolte dei gilet gialli. Non ci siamo ancora, ma se si allarga la frattura nel (fu) ceto medio, questa diventa una faglia.

Pag 3 La campagna elettorale, il termometro e la febbre di Stefano Allievi

«Per chi è crocefisso alla sua razionalità straziante, / macerato dal puritanesimo, non ha più senso / che un’aristocratica, e ahi, impopolare opposizione». Sono versi del più impegnato dei poeti civili, il più citato e il meno letto, Pier Paolo Pasolini. Per caso, o forse non del tutto, mi sono ricapitati tra le mani proprio nel giorno della conclusione della peggiore delle campagne elettorali possibili (e, lo so, mi sorprendo a dirlo dopo ogni campagna elettorale, ormai: a testimonianza del fatto che riusciamo sempre a migliorarci nel nostro peggiorare, raggiungendo abissi impensabili, dicendo cose che si pensavano indicibili, ascoltando parole che si pensavano inaudite e inudibili). Certo, lo spunto è troppo elevato, rispetto alla bassezza, alla pochezza del linguaggio politico ascoltato e subìto in queste settimane, tanto da sembrare surreale: invece è iperrealismo, e forse spiega, molto più di tante analisi politologiche, il rifiuto di stare al gioco, il richiamo all’astensionismo, di molti. Anche senza bisogno di sentirsi aristocratici: diversi, sì, però – forse anche totalmente altri. Fanno orrore gli slogan vuoti, la politica come corpo del leader (sudato, imbolsito, imbruttito), come smorfia volgare, come disprezzo truce per il nemico (scomparsi gli avversari), come tifo calcistico idiota (perché non ha uno straccio di ragione e motivazione: solo «noi» contro «loro», chissà per fare cosa…), la polemica fine a se stessa, la distanza siderale dalle cose (inclusi progetti e programmi), il selfie come fine ultimo della mobilitazione (io ci sono: per fare che, non ho idea e non importa…), il giornalismo come megafono alle parole del capo (per quanto orrorifiche, le si riportano come se non lo fossero, senza la capacità di rintuzzarle – no, non è la BBC… – e come fossero normali, veicoli di messaggi dicibili), la ricerca del capro espiatorio come obiettivo, il bullismo organizzato come metodo, l’abbrutimento della razionalità e l’impoverimento del linguaggio come cifra stilistica, forse come destino. Ma intristisce anche la miseria della ragione senza messaggio, della pacatezza senza sentimento, le buone cose senza bontà, l’ordinario senza grandezza. Solo segnale positivo, si è allargata la ferita dell’indignazione: non ancora al punto da far sgorgare tutto l’orrendo pus e ricoprirlo con una salvifica per quanto dolorosa crosta di ristabilimento dello stato di salute – perché tutto il verminaio che emerge, evidentemente è dentro la società, chiunque la governi o gli dia voce. Non sarà imbellettandolo che si porterà il paziente a guarigione. Questa campagna elettorale è stata insomma il termometro, non la febbre: che peraltro è a sua volta solo il segnale della malattia, non il male stesso. Un termometro che ci ha permesso di rilevare l’entità della febbre che pervade la società, e dunque l’entità del suo male, ma anche la presenza di anticorpi, non sappiamo ancora quanto potenti. La febbre, sorda, la coviamo dentro di noi, perché è ammalata metà del corpo sociale; l’altra metà forse è sana, ma gravemente indebolita dallo stato di prostrazione complessivo. Il problema è che la maggior parte dei medici e aspiranti tali, per lo più tragicamente impreparati, che si accostano al capezzale del malato, se la prendono chi con il termometro, chi con la febbre, cercando di abbassarla. Meglio di niente, ma niente di risolutivo. Se non si aggredisce davvero la malattia (e per farlo, bisogna avere la capacità di riconoscerla), il corpo sociale non potrà che stare peggio. La febbre si alzerà ulteriormente. E il termometro non potrà che registrarlo. È stata tutto questo, quest’ultima campagna elettorale. Il che ci fa temere per la prossima, che sarà in Veneto.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 25 gennaio 2020 Pag 5 Baratta out, l’ira di Cacciari: «È stata una scemenza totale». Sgarbi non ci sta: «Giusto così» di Sara D’Ascenzo I successi del manager, dall’Arsenale alle sale fino a Forte Marghera. Toto-nomi, spunta Bugliesi. Ma il critico d’arte si candida: sarebbe un sogno

«Alla fine la battaglia l’abbiamo fatta solo noi. Un po’ paradossale...». Il proverbiale pragmatismo dell’assessore regionale alla Cultura, il leghista Cristiano Corazzari, sintetizza gli stati d’animo del giorno dopo. Con il Pd che non può lamentarsi perché è stata arrestata la corsa del «suo» Paolo Baratta alla quarta presidenza consecutiva alla Biennale, e la Lega che s’intesta la sconfitta di una partita giocata con la maglia degli avversari. E la confusione nella quale si può dire concluso il ventennio dell’ex ministro alla guida della fondazione culturale più importante d’Italia, è la stessa che vive la politica in queste ore. Appesa da Nord a Sud alle elezioni regionali in Emilia Romagna. Come finirà per la Biennale? L’altroieri l’ultima possibilità di legare per altri quattro anni il destino della fondazione a quello di Baratta è sfumata. Ora a chiunque si chieda cosa accadrà, la risposta è sempre la stessa: aspettiamo lunedì. Cioè aspettiamo l’esito delle urne. Nel frattempo il ritratto del successore è sempre più difficile: non un ex ministro della Cultura, non un politico, ma un tecnico. Tra le reticenze filtra il nome del rettore di Ca’ Foscari, in scadenza, Michele Bugliesi, il cui nome circola anche come possibile sfidante di Luigi Brugnaro alle prossime amministrative a Venezia. Qualche ipotesi la fa anche l’ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, che lancia Germano Celant e Luca Massimo Barbero, ma non manca di sottolineare la sua indignazione per come è finita con Baratta: «Hanno fatto una scemenza totale - sbotta il professore - Baratta si è dimostrato bravissimo. È noto che l’ho portato io e che poi l’ho sostenuto. Erano d’accordo a prolungargli il mandato anche Brugnaro e Zaia, vuol dire che era proprio bravo, al di là di qualsiasi valutazione politica. Così bravi in giro non ce ne sono. Certo, potremmo discutere sulle scelte artistiche: a me le ultime Biennali sono sembrate delle “fetenzie”, e ho qualche riserva sui direttori di settore, ma pensare a uno diverso da lui è folle. Cosa vogliono? Tornare alle Biennali storiche, in cui pagava Pantalone? Se lo sognano. Baratta è riuscito a fare Biennali di successo con pochi soldi, trovando sponsor al di fuori di papà Stato. Tra quelli che ci sono in giro penso che Celant abbia quel profilo: mette insieme conoscenze nel campo dell’arte con grosse capacità manageriali, ma non lo sceglieranno mai. Per non dire di Barbero: è giovane, è bravo, capace, conosce le difficoltà economico-finanziarie di portare avanti istituzioni di questo genere». Ma, precisa Cacciari, «a me nessuno chiede mai niente. Mi chiamano solo quando c’è da raccogliere qualche voto». Di tutt’altro parere Vittorio Sgarbi: «Sono stato io a dire a Urbani che doveva andarsene nel 2001 - rivendica il critico - e non capisco l’insistenza della Lega in questa vicenda, come se di bravo ci fosse solo lui in giro. È stato un bravo manager con buoni rapporti, adesso ci vorrebbe un artista: Paolo Sorrentino, Renzo Piano, Riccardo Muti, lo stesso Cacciari, Pupi Avati, Gianni Amelio o Martin Scorsese, che provammo a portare alla Mostra del Cinema. Chiunque verrà, la prima cosa da fare, comunque, è revocare la nomina a Cecilia Alemani, direttrice di Arte, nomina familistica. Metterei Luca Beatrice o Vincenzo Trione». Sgarbi no? «Beh... sarebbe un sogno», ammette.

A contarli tutti, gli anni delle presidenze Baratta, non basterebbero comunque due mani. Perché è vero che la corsa dell’ingegnere milanese approdato a Venezia a 59 anni si è arrestata alla vigilia di un ipotetico quarto mandato consecutivo. Ma è anche vero che l’ex ministro aveva già testato la guida della macchina-Biennale dal 1998 al 2001, elevando così gli anni al comando a 15, distribuiti nell’arco di poco più di un ventennio. Un ventennio che ha cambiato radicalmente il volto dell’istituzione veneziana. La prima volta che si cominciò ad alzare il sopracciglio constatando che qualcosa nella Biennale così fascinosa ma così difficile da far camminare verso il nuovo Millennio poteva mutare, fu nel 1999, quando Paolo Baratta, allora fresco sessantenne, attraversò il ponte della Libertà che collega Venezia a Mestre organizzando la rassegna di Teatro «La pista e la scena» in un tendone da circo al parco della Bissuola. Circensi, teatranti, burattinai, ma anche un giovanissimo Filippo Timi diretto da Giorgio Barberio Corsetti e perfino i due fratelli Forman, figli del premio Oscar Milos, si riversarono in quell’angolo di mondo circondato da blocchi di cemento. Il concetto di «recuperare spazi», di aprire nuove finestre, di guardare il mondo attraverso nuove poltroncine ignifughe, è stata sempre la filosofia che ha guidato Baratta, insieme, certo, al desiderio di tenere i conti in ordine. Non a caso, la prima Biennale d’Arte sotto la sua presidenza fu «dAPERTuttO», l’esposizione d’arte curata da Harald Szeemann che abolì le sezioni e istituì il concetto di mostra internazionale, che ancora oggi guida la ratio delle mostre della Biennale. E per essere «dappertutto» serviva spazio: furono così aperti gli spazi dell’Arsenale. Le Artiglierie, l’Isolotto, le Tese, le Gaggiandre, aggiungendo ogni anno un tassello (e un Paese) in più alla geografia della Biennale. Le esposizioni - sia Arte che Architettura - sono passate dagli iniziali quattro o cinque agli attuali sei e i numeri sono lievitati: l’ultima Biennale è stata visitata da 600 mila persone; nel 2001 furono 243 mila: più o meno come la Biennale del 1895. E poi venne il Cinema. E l’occhio del presidente quasi lacrimò nell’annus horribilis della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia: il «buco» lasciato dal nuovo palazzo del Cinema, col cantiere bloccato perché pieno d’amianto, aveva deturpato lo skyline del Lido; i giornalisti avevano dovuto abbandonare in fretta e furia la sala stampa, al Casinò, perché pioveva inesorabilmente sui loro computer e le file per entrare in sala erano lo specchio che rifletteva più di un problema. Fu da quell’anno che partì la riscossa: Baratta trovò i fondi per restaurare la Sala Grande; poi fu la volta del Palagalileo, nata come arena coperta e trasformata dai lavori di restauro in Sala Darsena. Poi le ruspe arrivarono e finalmente nel 2016 coprirono il «buco» con piante, fontane e un «Cubo rosso» da 416 posti, lievitati a 580 nell’ultima edizione. E poi la «riapertura», seppure solo della hall e in un’operazione molto nostalgia, del Grand hotel Des Bains: chiuso dal 2010, il palazzo caro a Visconti è stato riaperto per ospitare due mostre di fotografie curate da Barbera nel 2018 e nel 2019, ma unicamente nel periodo della Mostra. E ancora, sul versante Mestre, non si può tacere l’«apertura» dell’Esposizione d’Arte a Forte Marghera (fortemente voluta dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro) e il ritorno, lì dove la rivoluzione era cominciata, lo scorso settembre, al Parco della Bissuola, per inaugurare il Cimm, il Centro informatico musicale multimediale, a disposizione dei giovani. Così come ai giovani è dedicato il College, l’articolazione nei diversi settori di un’offerta formativa per giovani registi, produttori, ballerini, coreografi, musicisti. Non avrebbe mai potuto fare tutto questo senza l’appoggio delle istituzioni che oggi lo rimpiangono: il Comune di Venezia e la Regione, in primis. La ricerca degli sponsor, non facile in anni di crisi nera. E uno standing internazionale che trova una raffigurazione plastica nella statuetta degli Oscar. Perché mai come negli ultimi sei sette anni Venezia è stata l’anticamera del Dolby Theatre di Los Angeles.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Come cambiano gli equilibri di Massimo Franco

L’Emilia-Romagna ha respinto la spallata di Matteo Salvini contro il governo nazionale. La sinistra perde nettamente in Calabria, ma vince la sfida più difficile. Il Movimento Cinque Stelle, invece, crolla dovunque, proiettando un’ombra sull’esecutivo di Giuseppe Conte. Il capo del Carroccio subisce una sconfitta pesante dopo due anni di trionfi: tanto più bruciante perché è stato proprio lui a dare al voto un significato strategico, additandolo come un avviso di sfratto al premier da Palazzo Chigi. A compensare la battuta d’arresto non basta che la Lega contenda al Pd il primato come partito nella «regione rossa». Non l’ha conquistata. Perché è inutile girarci intorno: quelle di ieri sono state le «sue» elezioni, nel bene e nel male; più che le altre in Calabria, dove si registra la vittoria netta del centrodestra a guida berlusconiana. I risultati sono legittimati da un’impennata della partecipazione, soprattutto in Emilia-Romagna. Le analisi a freddo diranno se a portare tanti elettori alle urne sia stata la campagna martellante di Salvini, il suo tentativo disperato e frustrato di trasformare il voto in un referendum sul governo Conte. Oppure se il salto sia dovuto alla mobilitazione giovanile delle «sardine» di Mattia Santori, con il loro allarme contro la strategia del Carroccio. I l risultato è comunque positivo, e il merito va a entrambi, al di là di chi vincerà. Nelle piazze che le «sardine» hanno riempito probabilmente erano presenti elettori di sinistra che avevano ingrossato le file dell’astensione, o in parte si erano mossi verso le forze populiste. È difficile prevedere quale sarà l’evoluzione di una realtà magmatica che esprime esigenze e frustrazioni prima di proposte politiche. Ma se sono state anche loro a far lievitare la partecipazione, il contagio non è arrivato se non in minima parte in Calabria. Lì si è registrato un leggero aumento dei votanti, ma la sensazione è che la regione si sia sentita e sia stata trascurata a livello nazionale. Lo stesso Salvini, proteso verso la conquista della roccaforte storica della sinistra nel nord, ha trattato il voto calabrese come una pratica secondaria: forse perché la destra era sicura di vincere; e perché la candidata, Jole Santelli, è una berlusconiana doc. Comunque, simbolicamente non rappresentava abbastanza per opposizioni tese a delegittimare in ogni modo l’alleanza M5S-Pd. In parte, l’obiettivo è stato raggiunto con l’aiuto dei Cinque Stelle. L’annichilimento del Movimento di Beppe Grillo è il dato più vistoso. Era prevedibile che avrebbe perso migliaia di voti. Ma il risultato è doppiamente umiliante, in Calabria e in Emilia Romagna. Dal punto di vista numerico, si conferma una parabola discendente che rispetto alle elezioni politiche di marzo 2018 mostra un grillismo sovrarappresentato in Parlamento ma in rotta nel Paese. Politicamente, la scelta di presentare liste senza allearsi col Pd lo ha fatto apparire insieme inaffidabile e ininfluente. I Cinque Stelle rischiano di assumere un ruolo, più che marginale, residuale. E certo non ha contribuito alla loro credibilità il passo indietro del leader Luigi Di Maio a tre giorni dal voto. Sotto questo aspetto, la previsione di Salvini sul tracollo del partito di maggioranza relativa in Parlamento si è rivelata esatta. Ma si rivelerà una vittoria amara sugli ex alleati di governo, se l’esito finale del voto di ieri dovesse essere l’elezione del candidato della sinistra. Per il carattere nazionale che la destra, soprattutto Salvini e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, hanno impresso alla consultazione, perdere non significherebbe solo una sconfitta. Di rimbalzo darebbe ossigeno a un governo finora asfittico per le sue magagne interne; e incapace di accreditarsi come un‘alleanza politica. Potrebbe stabilizzare un premier, Conte, che Salvini addita da mesi con epiteti al limite dell’insulto politico; e una segreteria del Pd che, pur giocando una partita in difesa, sarebbe riuscita con Nicola Zingaretti a fermare l’onda salviniana in un passaggio. Comunque finisca, si apre un’incognita anche per la configurazione della destra e la sua politica. Se la «strategia della spallata» scelta da Salvini si rivelerà un boomerang, qualcuno gli chiederà una linea meno elettoralistica e meno estremista. Anche perché sullo sfondo rimane la collocazione europea del suo Carroccio: tema dirimente, sebbene si tenda a sottovalutarlo. Per andare a Palazzo Chigi, la destra di oggi ha bisogno di solide sponde continentali. Ma per ora le ha solo Silvio Berlusconi col Ppe, e Meloni con i conservatori. Ora si aspetta di capire se Salvini sarà costretto a rivedere non solo la strategia italiana ma le sue alleanze europee, impresentabili nelle cancellerie occidentali. E se lo farà da vincitore o da sconfitto.

Pag 1 In memoria di Sophie di Alessandro D’Avenia

«Che cosa hanno fatto?» chiede il bambino tremante osservando i quattro impiccati penzolare sulla piazza della città. «Quello che potevano», risponde la madre con rassegnata fermezza. È una delle scene chiave di Jojo Rabbit, bellissimo film che racconta, con equilibrio raro tra comico e tragico, la Germania nazista dal punto di vista di un bambino di dieci anni appena entrato nella Hitlerjugend, la Gioventù hitleriana. «Quello che potevano» è per me la didascalia del Giorno della Memoria: mette al riparo da una ritualità emotiva che fa sentire buoni, ma senza conseguenze. La «retorica della memoria» mostra foglie e fiori splendenti ma di plastica, a differenza della «memoria viva», una radice che invece genera frutti reali. Ricordare una delle più atroci ingiustizie della storia ha senso se diventa opposizione attiva all’ingiustizia quotidiana. Non si può commemorare la Shoah durante la prima ora e, la seconda, dire a uno studente «non vali niente». Le ipocrisie della memoria demoliscono la memoria. Per fare memoria non basta narrare l’olocausto e mostrarne i testimoni, per fare memoria bisogna «farsi» memoria. Per questo voglio raccontare una vicenda memorabile ma meno nota: quella della «Rosa Bianca», un gruppo di studenti che, nel giugno del 1942, per opporsi al regime nazista, al suo apogeo, fecero tutto «quello che potevano». Comprarono a proprie spese un ciclostile, scrissero e distribuirono volantini per risvegliare le coscienze assopite o complici. Li spargevano di nascosto in università e nelle cassette della posta. Al sesto volantino, nel febbraio 1943, la Gestapo li scoprì: erano ragazzi poco più che diciottenni e qualche professore. Tutti torturati, dopo un finto processo, per 15 di loro la sorte fu la ghigliottina, per altri 38 il carcere (vicenda narrata con maestria nel film La Rosa Bianca - Sophie Scholl di Marc Rothemund). «Opponete la resistenza passiva ovunque voi siate» diceva il primo opuscolo e dell’eccidio degli ebrei, che la gente fingeva di non vedere, rivelava senza mezzi termini: «Vediamo compiersi il peggior crimine contro la dignità umana, non ha confronti nell’intera storia. Perché il popolo tedesco è rimasto così inerte? Attraverso questo atteggiamento apatico ha fornito a uomini malvagi l’opportunità di fare ciò che hanno fatto». Ogni volantino riportava passi dei classici, da Aristotele a Goethe, dalla Bibbia a Novalis, e si chiudeva con: «Per favore fai più copie che puoi di questo volantino e distribuiscilo». Fai quel che puoi, cioè tutto il possibile, in prima persona. Il prezzo fu la vita per i fondatori del movimento, i due fratelli Scholl. All’esecuzione capitale, Hans, 24 anni, urlò: «Libertà!»; e Sophie, 22, disse: «Una giornata di sole così bella, e io me ne devo andare. Ma che importa la mia morte, se attraverso di noi migliaia di persone si sono risvegliate?». Aveva ragione: di lì a poco saranno gli aerei inglesi a far piovere i volantini della Rosa Bianca sulle città tedesche. Già al funzionario che le chiedeva se fosse pentita, Sophie aveva risposto: «Al contrario! Credo di aver fatto la cosa migliore per il mio popolo e per tutti gli uomini». Da dove veniva tale fermezza? Erano un gruppo di compagni di scuola, il liceo di Ulm, legati da amicizia, cultura e fede. All’inizio la loro fu una «opposizione interiore»: entravano a scuola, nottetempo, per leggere insieme opere letterarie, in particolare quelle vietate dal regime. Erano stati segnati da Socrate, ucciso per mostrare ai suoi discepoli che una città prospera solo se chi la guida cerca il giusto prima dell’utile: ciò che è bene è utile, non viceversa. Quei giovani, leggendo nel manifesto di Goebbels, ministro della propaganda nazista: «Bene è tutto ciò che ci aiuta a vincere!», riconobbero subito la menzogna. Per Hitler e i suoi, giusto diventava tutto ciò che portava alla vittoria: qualsiasi cosa era lecita per ottenere potere. Socrate, non Goebbels, diceva il vero: un’azione che garantisce il successo ma non è giusta è un’azione malvagia, da evitare e ostacolare se non si vuole esserne complici. Così la loro «opposizione interiore», maturata nello studio e nell’amicizia, e resa sicura dalla fede, divenne poi «resistenza passiva»: scrivevano, stampavano, distribuivano gli opuscoli, perché era tutto ciò che potevano fare. Pagarono con la prigione o la vita. Per me memoria è ricordare la resistenza alla Shoah e alla guerra fatta da studenti che, sui banchi di scuola e nei loro maestri, avevano trovato indipendenza di pensiero e cultura della vita. Non è così in un Paese in cui la scuola langue, vittima di una complice apatia civile e di un’agenda politica dettata da consenso o mantenimento del potere. Per questo credo che serva memorizzare una frase che i ragazzi, a costo della vita, scrissero nel primo volantino: «Non dimenticate che ciascun popolo merita il regime che accetta di sopportare».

Pag 3 La maggioranza sulla linea del Reno. Il premier si sente più stabile di Francesco Verderami Conte era pronto a qualsiasi risultato. Si allontana lo scenario di un avvicendamento

Sulla «linea del Reno» Conte e Salvini si sono giocati un pezzo del loro futuro. L’Emilia- Romagna era ormai diventata una sorta di Piave che i due acerrimi rivali dovevano tenere o conquistare per non veder compromesso in prospettiva il proprio disegno. Non a caso nelle riunioni riservate della vigilia, le loro analisi sugli effetti politici delle Regionali coincidevano. Entrambi consideravano il voto in Emilia-Romagna un «test politico»: solo che il premier doveva pubblicamente negarlo per non caricarne il peso su Bonaccini e sul suo governo, mentre il leader della Lega voleva sottolinearlo proprio per mettere pressione sul candidato del Pd e sull’esecutivo. Entrambi poi sapevano che il test non avrebbe influito sulle sorti della legislatura: e se in questo caso il presidente del Consiglio lo evidenziava per mettere preventivamente al riparo il suo gabinetto, il secondo lo smentiva per evitare che il suo progetto perdesse forza. La sfida non contemplava una tregua, e quando nella notte è parso chiaro che stava prevalendo Bonaccini, Conte ha potuto proclamare «sconfitto l’uomo degli slogan» che pensava di «dare una spallata» all’esecutivo: «E così come ha fatto il presidente dell’Emilia- Romagna governando bene la sua regione, governando bene l’Italia batteremo Salvini e i sovranisti nel 2023. Perché non si guida un Paese attraverso i social». Lo scontro tra i due era obbligato e il risultato emette un primo verdetto: si blinda la legislatura e forse anche il premier, che intanto si cautela annunciando per i prossimi giorni «il confronto con la maggioranza» per una agenda che arrivi fino al termine del quinquennio. Si vedrà se andrà davvero così, se ci sarà ancora lui al termine del percorso, perché non sarà semplice gestire una maggioranza che non è un’alleanza, fare i conti con la grave crisi dei grillini, prosciugati nel loro consenso e marginalizzati alle Regionali, pur essendo ancora il primo partito in Parlamento. Certo, Conte ha evitato di dover ricorrere al «piano B», che in caso di sconfitta prevedeva l’arroccamento a palazzo Chigi. In quel caso un pezzo di Pd avrebbe puntato a una exit strategy: «Perché, avesse vinto Salvini - spiegava un ministro dem ieri notte - non avremmo potuto resistere. Così avremmo fatto la fine dei socialisti francesi». Ma la mission di questa maggioranza era e resta arrivare all’elezione del capo dello Stato, e dunque l’ala governista del Pd avrebbe comunque cercato un’altra soluzione. Conte sapeva che pur di far durare la legislatura, le forze di governo avrebbero potuto mettere nel conto un rimpasto o addirittura il suo sacrificio. Questo era stato il destino di D’Alema quando da Palazzo Chigi aveva perso le Regionali. Ma allora - al contrario di quanto sostenevano certi analisti smemorati - non si andò al voto, si cambiò il presidente del Consiglio. E arrivò Amato. In fondo era stato questo il senso sottile e ultimo della dichiarazione di Berlusconi, che l’altro giorno in campagna elettorale aveva elogiato il comportamento tenuto da D’Alema. Perché - ecco il punto - nessuno, tranne Salvini, voleva e vuole andare alle elezioni anticipate. Forza Italia e Fratelli d’Italia formalmente sono al fianco del leader leghista ma in realtà hanno altri interessi e obiettivi, e confidano di arrivare al 2023: i primi per tentare di rilanciarsi, i secondi per cercare di consolidarsi. Entrambi puntano a depotenziare il capo del Carroccio, che nel suo campo oggi appare ancora come un dominus incontrastabile. Ma proprio per questo la sua corsa era e resta solitaria, perciò è stato costretto a trasformare le Regionali in un referendum sulla sua leadership. Salvini sapeva che in caso di sconfitta anche i suoi alleati avrebbero preso a criticarlo, che la linea adottata sarebbe stata sovrapposta a quella perdente del Renzi che trasformò il referendum sulla riforma costituzionale in un plebiscito su se stesso. L’ex ministro dell’Interno vede già i picadores con le loro banderillas, ma non aveva scelta. Anche se la sua strategia di campagna elettorale conteneva una contro-indicazione: esponendosi al punto da monopolizzare l’attenzione su se stesso, avrebbe stimolato una parte di opinione pubblica «in sonno» e a lui ostile. Il rischio c’era, lo ammettevano anche nella Lega: «Magari i compagni si tureranno il naso e andranno a votare». L’alta percentuale di votanti ha testimoniato come i cittadini avessero compreso che la battaglia di Roma si sarebbe giocata sulla «linea del Reno». Ora la lunga marcia di Salvini verso Palazzo Chigi si fa più difficile. E al pari del Pd anche altri festeggiano nel Palazzo, davanti alla sua prima battuta d’arresto. La messe di consensi ottenuta dal Carroccio non inganni: alle Europee il centro-destra era davanti ai suoi avversari. Qualcosa ieri sera è cambiato.

LA REPUBBLICA Pag 1 Stalingrado non è caduta di Massimo Giannini

Testo non disponibile

Pag 1 Ma il governo soffrirà ancora di Stefano Folli

Stamane nessuno citofonerà al Quirinale per reclamare le elezioni anticipate. Chi ha fatto questa promessa, nel centrodestra a guida Salvini, ha peccato per eccesso di sicurezza, mostrando anche una certa arroganza. Come dire, due errori in uno, imperdonabili quando si sfida la sorte in una partita estrema. È quello che ha fatto il leader leghista: tutto su un numero, un referendum su se stesso in una regione un tempo inespugnabile e oggi contendibile. Ma in definitiva ancora in grado respingere l'offensiva della Lega "sovranista" nel segno di quel che resta della vecchia egemonia culturale e politica della sinistra. Il voto racchiude alcune lezioni che è impossibile ignorare. Riguardano entrambi i poli in cui si è diviso il voto. Due poli, certo, perché l' Emilia Romagna ha ridotto i Cinque Stelle a un'entità trascurabile. Il che apre un notevole punto interrogativo a Roma: fino a che punto la dissoluzione rapida del "grillismo" (il 33 per cento dei voti nelle elezioni politiche meno di due anni fa) può avvenire senza ripercussioni destabilizzanti nella maggioranza di governo, nata in un sistema a tre gambe che oggi non esiste più? Il che vale anche per la Calabria, dove la destra ha vinto facilmente senza che qualcuno voglia illudersi di bilanciare la sconfitta a Bologna con il successo a Reggio e Catanzaro. Però anche nel Sud, loro territorio privilegiato, il ridimensionamento dei 5S è perentorio, definitivo. La differenza è che in Emilia Romagna il collasso porta acqua al mulino del Pd, mentre in Calabria sembra ingrossare l'esercito della destra. In ogni caso, si sta creando un "buco nero" dove prima c'era un movimento molto ambizioso. Il premier Conte ha evitato il contraccolpo salviniano sul governo, ma ora dovrà fronteggiare questa seconda minaccia, non meno insidiosa. Lo vedremo subito con il tema cruciale della prescrizione giudiziaria e poi con le concessioni autostradali. Con i 5S cancellati o quasi nel Paese, ma ancora significativi in Parlamento, cosa intende fare il Pd? Logica vorrebbe che non concedesse nulla a un partner in così evidente difficoltà. Tanto più che la pressione dei renziani si farà sentire, come è logico. Il partito di Zingaretti è ormai in grado di assorbire una quota considerevole della diaspora grillina. Ma sarebbe singolare se un tale processo avvenisse attraverso cedimenti progressivi sul programma e quindi, in definitiva, sul profilo riformista di una forza che aspira a tornare in pianta stabile oltre il 20 per cento. E allora, di nuovo a titolo di esempio: sulla prescrizione il Pd intende tenere il punto, a costo di irritare un partner che sembra ormai una tigre di carta? Oppure si dispone ad attirare il mondo grillino rinunciando alla propria identità per assumere, almeno in parte, quella del socio in crisi? Tutti uniti dal desiderio di far durare la legislatura. S'intende però che il protagonista numero uno del post-elezioni è Salvini. In Emilia Romagna è riuscito solo a scuotere l'albero. Ha impaurito i suoi avversari che hanno saputo mobilitarsi e il leghista ha imparato a sue spese la lezione di Machiavelli, secondo cui irridere o ferire l'avversario senza avere la forza per prevalere espone lo sfidante ad amare conseguenze. Per Salvini questo significa la certezza di non poter ricominciare da capo come se niente fosse, un'altra tappa dell'eterna campagna elettorale. Ma l'uomo non sembra capace di altra strategia che non sia il comizio nelle piazze e il talk show in tv. È la strada che ha portato lontano e tuttavia lo ha esposto ora a un insuccesso che conferma l'urgenza di cambiare qualcosa nel messaggio mediatico e nel modo stesso d'intendere la politica. Soprattutto se, in assenza di elezioni generali a breve, avremo il nuovo sistema elettorale proporzionale. Un modello che cambia le regole e rende debole la leadership salviniana su Berlusconi o Giorgia Meloni.

Pag 30 La memoria a metà di Enzo Bianchi

È tornato il Giorno della Memoria, ricorrenza istituzionalizzata per non dimenticare ciò che è accaduto, la catastrofe (Shoah) per milioni di persone, soprattutto ebrei, ma anche zingari, scarti della società, quelli che risultavano "diversi". Nel fare questa memoria, vissuta in modo sempre più superficiale, si assiste anche a una banale semplificazione: si dice che sono stati solo i nazisti tedeschi, imbevuti di quella folle ideologia, a scegliere il male assoluto. E così si dimentica che alla Shoah hanno contribuito, in modi diversi ma con piena responsabilità, anche gli altri europei, e tra di essi innanzitutto noi italiani. I nazisti non avrebbero potuto realizzare i loro progetti di sterminio se non avessero beneficiato di collaboratori, di quanti cioè denunciavano e spiavano, di quelli che vedevano ma preferivano non dire nulla e lasciare che tutto avvenisse. Se invece si prosegue sulla strada di questa semplificazione, la Shoah rischia di diventare solo narrazione e oggetto di memoria pubblica, un evento da ricordare tra gli altri. E se noi conosciamo l'inferno attraverso le testimonianze, non possiamo dimenticare che gli ebrei, l'inferno, l'hanno vissuto. Certo, sappiamo bene che stragi, massacri, pulizie etniche e genocidi sono stati perpetrati prima e dopo, anche negli ultimi decenni, ma non dovremmo mai dimenticare l'unicità della Shoah: in essa sono stati sterminati non dei nemici, non dei diversi per etnia, non dei nomadi, ma semplicemente uomini e donne in quanto ebrei, figli di Israele, che anche noi italiani abbiamo imparato a odiare, diventando incapaci di riconoscere e difendere la dignità di ogni altro essere umano in quanto tale. Se in Italia i "giusti tra le nazioni" sono stati riconosciuti in numero di circa cinquecento, quanti sono stati ingiusti perché non dissero nulla ma collaborarono alla catastrofe? Quanti furono i credenti cristiani che, anziché vedere negli ebrei dei fratelli e sorelle nella fede, non vollero accorgersi di nulla, o causa di un viscerale antigiudaismo giudicarono questo sterminio l'adempimento di un giudizio di Dio? Per questo ritengo sia stolta la domanda «dov'era Dio ad Auschwitz?», che andrebbe piuttosto declinata come «dov'era l'uomo, dov'era l'umanità?». Il Giorno della Memoria è giorno della vergogna. Non dobbiamo fare domande su Dio, bensì su di noi, e farcele ancora oggi. Nella convinzione che, se c'è qualche speranza, essa può affermarsi solo a partire dall'umanità nella quale continuano ad esservi dei giusti: pochi uomini e donne che, credendo che il male non è onnipotente, sanno opporre resistenza. Sì, la giornata della memoria dev'essere un'occasione per scrutare e vedere quello che ancora oggi e qui viene perpetrato contro l'insopprimibile dignità degli esseri umani. Sono nato durante la Shoah e sono cresciuto senza mai dimenticarla. Ma ora, a differenza di ieri, confesso che ho paura: forme inedite, ma sempre nutrite da odio e follia, si affacciano al nostro orizzonte come intolleranza, disprezzo e violenza, verso quelli che giudichiamo "diversi" e indegni di vivere con noi.

IL GAZZETTINO Pag 1 Un segnale al governo ma anche al centrodestra di Alessandro Campi

Stando ai primissimi exit poll, in Emilia Romagna è avanti Stefano Bonaccini. In Calabria, con molto più scarto, Jole Santelli. Se Salvini sperava di prendersi il Parco della Vittoria, rischia di doversi accontentare del Vicolo Corto (dove vincente sarebbe peraltro una candidata berlusconiana). Non sembrerebbe riuscita la spallata che doveva mandare a casa, oltre al socialismo appenninico al potere da decenni, anche il governo giallo-rosso al comando da pochi mesi. L'attesa per questo voto era grandissima, probabilmente eccessiva quanto ai suoi possibili effetti sulla politica nazionale. Lo dimostra l'affluenza alle urne. Nel 2014 (quando Bonaccini vinse per la prima volta) aveva toccato il minimo storico: solo il 37,7% degli aventi diritto era andato ai seggi, un misto di stanchezza e disaffezione incredibile in un territorio che da sempre gode d'un grande benessere collettivo e d'un radicato sentimento civico. Stavolta ha votato una quota vicina all'afflusso delle ultime europee: 67,3%. Lo scontro è stato molto (troppo) polarizzato su base nazionale e l'incertezza era, sondaggi alla mano, in effetti grande: è stata una di quelle occasioni in cui l'elettore ha l'impressione che il suo voto conti (politicamente) e possa anzi essere decisivo (su piano dei numeri). E dunque va al seggio con grande motivazione. In Calabria, dove il risultato sembrava più scontato e c'è stato meno accanimento ideologico, non si è avuto lo stesso effetto: nel 2014 ha votato il 44% dei cittadini, stavolta più o meno la stessa percentuale. E proprio questa massiccia corsa al voto (soprattutto nelle zone urbane storicamente più orientate a sinistra) potrebbe aver favorito Bonaccini. La sua missione, per ribaltare i sondaggi a lui lungamente sfavorevoli, era chiara ma tutt'altro che semplice: riportare a sinistra quegli elettori che nel frattempo erano andati a destra, prendersi il più possibile dei voti grillini in libera uscita (anche attraverso il meccanismo del voto disgiunto) e, soprattutto, dare nuove motivazioni al popolo storico della sinistra affinché riscoprisse il giusto della partecipazione e dell'impegno. Su quest'ultimo punto, in caso di vittoria, bisogna riconoscere che un aiuto obiettivo gli è venuto dal movimento cosiddetto delle sardine': grazie all'intuizione quasi goliardica in chiave anti-salviniana di quattro ragazzi bolognesi, da subito ben sostenuta dalla macchina politico-mediatica della sinistra, si è creato un clima di mobilitazione e d'attivismo che ha riempito le piazze emiliano- romagnole e che per contagio ha investito anche altre parti d'Italia. Ma diamo anche a Bonaccini quel che gli spetta. Innanzitutto, l'essere considerato trasversalmente un buon amministratore qualcosa dovrebbe aver contato a suo favore. Quando poi ha fiutato l'aria per lui pericolosa ha fatto una scelta radicale. Per dirla in soldoni, s'è astutamente e sobriamente padanizzato: niente simboli del Partito democratico nella sua propaganda, il verde già leghista scelto come colore della sua campagna elettorale, continui richiami all'orgoglio emiliano e alle radici popolari, l'ammissione implicita che sugli immigrati la sinistra ha sbagliato dal momento che nessun Paese può accogliere chiunque, la pubblicità a pagamento sul Secolo d'Italia, l'abbigliamento informale, sbarazzino e vacanziero, molto Rimini, Rimini, che ha esibito spesso nei comizi negli incontri elettorali. Segno che la politica identitaria tutta giocata sulle appartenenze localistiche esclusive, così come il protagonismo del leader che fa tutto da solo, sono carte che oggi non sfrutta solo Salvini: sono il codice della politica contemporanea. Passata la grande paura, il rischio che il Pd rischia ora di commettere è scambiare una vittoria tonificante (se sarà confermata) per una vittoria risolutiva. Va bene che lo si sostenga nelle dichiarazioni ufficiali, l'importante è non pensarlo sul serio. Negli ultimi due anni e mezzo, su quattordici elezioni regionali (comprese le ultime), il centrodestra ha vinto ben 12 volte: invertire questo trend profondo non è facile, specie se il governo in carica continuerà a dare l'impressione di essere solo un governo in carica. Stavolta sembrerebbe aver funzionato l'appello alle armi in chiave allarmistica contro il barbaro' xenofobo e un po' fascista che stava per mettere su una terra di antiche e perduranti memorie partigiane. Ma attenzione, nel prossimo futuro, alla sardinizzazione del Pd e all'idea che dalla mobilitazione antifascista permanente possano nascere una politica economica per lo sviluppo o le riforme sociali di cui l'Italia ha bisogno. La piazza politica un po' esaltata ha fatto la sua parte, da domani toccherà alla politica fatta dai partiti - a meno di non voler sposare anche a sinistra la contro-democrazia diretta grillina proprio nella fase in cui il grillinismo sta drammaticamente esaurendo la sua spinta propulsiva. Quanto a Salvini, che prendendosi l'Emilia Romagna avrebbe avuto sotto la sua guida tutta l'Italia che produce, un'eventuale sconfitta della sua candidata Borgonzoni dovrebbe fargli capire che i referendum su una persona stimolano simpatie ma cumulano anche le antipatie di tutti gli avversari, spingendoli a mettersi insieme. Il solo contro tutti alla fine sfianca chi lo promuove e soprattutto stanca chi è chiamato a scegliere. D'ora in avanti, il suo problema sarà mostrarsi all'altezza del 30% dei consensi che possiede: troppi per continuare a fare il capopopolo che si limita ad aizzare i bassi istinti, come ha talvolta fatto anche durante questa campagna elettorale. Si diceva dell'eccesso di aspettative circa i possibili riflessi sul governo di questo voto amministrativo. L'eventuale vittoria di Bonaccini nell'immediato lo stabilizzerebbe, nonostante il risultato al limite del tracollo ma largamente atteso che il M5S sembra aver ottenuto (anche in Calabria è andato male): un partito senza linea politica, poco organizzato sul territorio e con troppi capi che decidono non può che perdere elettori a rotta di collo. Se confermato dallo spoglio dei voti di partito, ciò potrà naturalmente comportare qualche fibrillazione dentro l'esecutivo, con il Pd zingarettiano che alzerà sicuramente la posta nei rapporti con l'alleato grillino e con quest'ultimo che per non sparire non potrà che continuare a sostenerlo. Ma la vita di questo governo è legata ad altro: la mano protettrice su di esso dell'Europa e del Quirinale, la mancanza di alternative reali, l'istinto di autoconservazione dei parlamentari e, sul piano più tecnico, il referendum primaverile sulla riduzione dei parlamentari che impedisce un rapido scioglimento della legislatura. Il problema semmai per questo governo è un altro: che la stabilità faccia rima con l'immobilità. Le forze oggi in maggioranza hanno in testa un disegno politico o un programma da realizzare? Ci sarà la tanto attesa verifica (magari accompagnata da un rimpasto nel governo e dall'allargamento della base parlamentare che lo sostiene) o si continuerà con la politica del galleggiamento? Da questo voto, se i dati saranno conferamti, più che stravolgimenti radicali sembrerebbero insomma nascere diverse sfide speculari e convergenti in vista di un voto che non sarà imminente e che si svolgerà con un nuovo meccanismo di voto proporzionale (mentre si registra un progressivo ritorno al classico schema destra-sinistra). Il centrodestra - che Salvini non è riuscito ad egemonizzare - dovrà ridefinire la sua offerta politica e rivedere i tempi della sua battaglia. I grillini, per non sparire, dovranno superare le divisioni che li hanno sin qui lacerati, trasformarsi in una realtà organizzativa solida e rendersi nuovamente riconoscibile agli occhi dei suoi storici sostenitori. Il Pd dovrà decidere se inseguire il movimentismo delle sardine o integrare il vitalismo di queste ultime in un nuovo progetto politico che non si limiti all'ennesimo cambio di nome. Il governo guidato da Conte dovrà infine farci capire cosa intende fare e mostrarci cosa sa fare.

LA NUOVA Pag 10 L’isolamento resta ancora la miglior difesa dal virus di Gianpiero Dalla Zuanna

Sono impressionanti i dati sulle misure messe in atto in Cina per contrastare la diffusione del coronavirus: città di milioni di abitanti messe in quarantena, mobilità limitata per decine di milioni di persone, migliaia di medici spostati a sostegno delle città al centro dell'epidemia. Fin dall'inizio, le autorità cinesi hanno collaborato strettamente con l'Organizzazione Mondiale della Sanità e con gli altri paesi del mondo per bloccare il contagio.Queste azioni affondano le loro radici nella storia, quando segnarono la nascita della medicina pubblica moderna. La peste nera del 1347-49 arrivò dall'Oriente nel porto di Messina, dopo 500 anni in cui la peste aveva lasciato l'Europa. Trovò un continente in piena espansione commerciale, ma totalmente sguarnito di fronte al contagio: secoli di assenza del morbo avevano indebolito le resistenze immunitarie, mentre città e governi non avevano alcun sistema per contrastare una malattia di cui - peraltro - si ignoravano i meccanismi di contagio. Nel giro di tre anni, la peste arrivò fino in Scandinavia e in Russia, sterminando un terzo della popolazione europea. Anche nel '700 nessuno aveva ancora compreso come faceva la peste a passare da a uomo, né c'erano medicine in grado di contrastarla. Tuttavia, quando nel 1743 la peste ritornò nel porto di Messina, il governo isolò subito la città con tre corone di fucilieri, che impedivano a tutti di entrare e di uscire. Per Messina la peste del 1743 fu un'apocalisse: in un anno la sua popolazione passò da 40 a 12 mila persone! Tuttavia il suo sacrificio non fu vano, perché il resto della Sicilia e l'Italia intera furono risparmiate dall'epidemia. Anche la peste che colpì più volte i Balcani nel corso del '700 non riuscì ad arrivare in Italia, grazie all'efficace organizzazione di sanità della Repubblica di Venezia, che impose quarantene e blocchi navali e commerciali. Sono inoltre documentati gli intensi scambi di informazione fra le autorità sanitarie delle diverse città italiane ed europee, per isolare le zone contagiate e bloccare gli individui infetti. Così, dopo la peste del Manzoni del 1630 - che fece stragi simili a quelle del 1348 - il morbo abbandonò le città e le campagne dell'Italia del Nord.Oggi la medicina moderna sa (quasi) tutto sulla peste, e grazie ai farmaci riesce a contrastare (quasi) tutte le malattie infettive. Tuttavia, gli strumenti di prevenzione, quarantena e isolamento dei malati non hanno affatto perso la loro utilità. Al giorno d'oggi queste misure - per essere efficaci - esigono una organizzazione e un coordinamento planetario, data la rapidità degli spostamenti degli uomini e delle merci. Esigono anche una politica di assoluta trasparenza da parte dello Stato dove un'epidemia inizia a diffondersi.Da questo punto di vista le autorità cinesi - che con la SARS del 2002 si erano mal comportate, cercando fino all'ultimo di negare la gravità dell'epidemia - hanno fatto un enorme passo avanti. Perché la globalizzazione degli uomini e delle merci esige una medicina pubblica anch'essa fortemente globalizzata.

Pag 10 Poca collaborazione internazionale, è molto difficile organizzare i rimpatri di Piero Innocenti

I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) degli stranieri "irregolari" sul territorio nazionale sono tornati al centro dell'attenzione mediatica dopo la morte, avvenuta alcuni giorni fa, di un cittadino georgiano nel Centro di Gradisca. In attesa che la Procura della Repubblica di Gorizia chiarisca alcuni aspetti della vicenda sulla quale è stata avanzata anche l'ipotesi, tutta da verificare, di un intervento violento di operatori delle forze dell'ordine per sedare una lite del georgiano con un altro straniero, proviamo a fare qualche considerazione su queste strutture nate molti anni fa per il "trattenimento" degli stranieri da espellere.Tutto accade, peraltro, in concomitanza con la pubblicazione del rapporto del Comitato antitortura del Consiglio d'Europa, nel quale si sottolineano maltrattamenti inflitti deliberatamente ad alcuni detenuti nelle carceri di Milano-Opera, Biella e Saluzzo visitate nel marzo del 2019.Ma, tornando ai Cpr, è noto come la percentuale dei rimpatriati rispetto al totale dei provvedimenti di allontanamento sia sempre stata percentualmente bassa mentre si è ritenuto "di primaria importanza per l'efficacia dell'azione di rimpatrio " l'ampliamento dei posti disponibili anche attraverso l'apertura di nuove strutture (Cpr, ndr)" disposto con il decreto legge 113/2018 che ha aumentato a 180 giorni, anziché 90, il periodo massimo di trattenimento in un Cpr, con l'ulteriore previsione di costruirne o ristrutturarne altri attraverso procedure semplificate in un arco temporale di tre anni.Naturalmente tra "il dire e il fare c'è di mezzo il mare" e di ampliamento dei centri, con l'obiettivo di portare la capacità ricettiva totale dai circa 400 del 2018 ai 1.600 come indicato nella relazione tecnica al disegno di legge di conversione del dl 13 aprile 2017, n. 46 (lo stesso decreto con cui si è modificato il nome dei Centri di identificazione e di espulsione in Centri di permanenza per il rimpatrio), non vi è traccia. Tanto più che si voleva ampliare la rete dei Centri, di capienza limitata (100 posti) "in modo da assicurare la distribuzione sull'intero territorio nazionale", privilegiando siti e aree esterne ai centri urbani (ben note le forti resistenze a tali strutture da parte di amministratori e comunità locali). Senza contare che la dislocazione attuale dei sette Centri (uno, quello di Macomer in Sardegna attivato alcuni giorni fa) in cinque regioni, in tutto il territorio nazionale, comporta un dispendio notevole di risorse umane della Polizia di Stato.Si è sostenuto sempre che un maggior numero di Cpr sia fondamentale per incrementare il tasso dei rimpatri mentre, in realtà, analizzando i dati degli ultimi cinque anni delle persone rimpatriate dopo essere transitate nei Cie/Cpr, si è registrata una percentuale intorno al 50%. Un risultato, come aveva già sottolineato il rapporto sui Cpr (dicembre 2017- Senato della Repubblica) redatto dalla Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, "che non è stato mai attribuito al sovraffollamento delle strutture o alla loro collocazione in determinate città, bensì alle difficoltà legate all'accertamento dell'identità delle persone trattenute in relazione all'intervento delle autorità consolari dei paesi di provenienza".Su queste ultime, allora, si dovrebbe eventualmente intervenire per una più sollecita collaborazione oltre che a stipulare accordi con i Paesi di provenienza, che spesso non ne vogliono proprio sentir parlare.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Il modello delle donne leader di Francesco Giavazzi Il divario, le quote

Dal 1993 l’India applica quote di genere nelle elezioni dei consigli di villaggio, con il risultato che la percentuale di donne fra i capi-villaggio è cresciuta rapidamente: da meno del 5% a più del 40%. Nel Bengala Occidentale le quote sono applicate stabilendo che un terzo (scelto a caso) di tutti i villaggi abbia un capo-villaggio donna. Esther Duflo, l’economista francese che lo scorso ottobre ha ricevuto il premio Nobel, ha studiato le differenze fra i villaggi bengalesi in cui il capo villaggio è una donna e quelli in cui è un uomo, scoprendo un fatto sorprendente. Nei villaggi amministrati da una donna, il divario di genere nelle aspirazioni degli adolescenti di età compresa tra 11 e 15 anni è scomparso. Cioè, dopo aver vissuto per un po’ di anni con un capo-villaggio donna, le bambine, e i loro genitori, che prima pensavano di abbandonare la scuola a 15 anni, ora avevano le stesse aspirazioni dei maschi, cioè avrebbero continuato a studiare oltre i 15 anni. E le aspirazioni si traducono in risultati. Ad esempio, una volta adulti, il divario fra maschi e femmine nella capacità di leggere e scrivere scompariva. Vivere in un villaggio amministrato da una donna cambiava anche la vita quotidiana delle ragazze: nei villaggi che non hanno mai avuto leader femminili, le ragazze in genere trascorrono 79 minuti in più al giorno rispetto ai maschi nelle faccende domestiche. Nei villaggi in cui le donne sono state capo-villaggio per almeno due volte, questa disparità si riduce di 18 minuti. Esther Duflo pensa che questo cambiamento nelle aspirazioni e nei comportamenti sia dovuto a un effetto «modello»: vedere donne al comando ha persuaso gli adolescenti e i loro genitori che le donne possono amministrare non solo la loro casa ma anche il villaggio, e spesso meglio degli uomini. Questa esperienza ha reso le ragazze più ambiziose, convincendole che anche loro, se studiano, potranno avere un impatto sul mondo. L’importanza di essere esposti a un «modello» si ritrova anche in altri esperimenti. Ad esempio, se in un villaggio c’è un ragazzo o una ragazza che eccelle in uno sport, vincendo gare in luoghi lontani dal villaggio, le aspirazioni di tutti i ragazzi del villaggio cambiano, e con le aspirazioni il loro impegno negli allenamenti e quindi anche i loro risultati. La differenza è che mentre in questo caso le aspirazioni dipendono da un fatto accidentale (la nascita di un ragazzo o una ragazza con particolari attitudini sportive) il modello delle donne al comando può essere guidato introducendo le quote di genere, come è stato fatto in Bengala. Ma l’esposizione a un «modello» può funzionare anche in società avanzate? Per le donne certamente sì, come insegnano varie regole volte a introdurre la parità di genere. Ma può funzionare anche in ambiti diversi, ad esempio esponendo un imprenditore all’esperienza di altri che sono riusciti a rompere un tabù. Pensiamo al nostro Mezzogiorno. Supporre che quella parte del Paese possa crescere «per contaminazione» dalle zone più avanzate dell’Italia (ad esempio importando il «modello di Milano» come qualcuno suggerisce) è evidentemente un’illusione. Una società cresce se ha l’incentivo per farlo, non perché ha importato un modello dall’esterno. In Bengala le adolescenti, e i loro genitori, decidevano di continuare a studiare perché, osservando una donna a capo del villaggio, era cambiata la loro percezione sul ruolo e le capacità delle donne. Affinché una cosa analoga accada nel Mezzogiorno sono quindi necessari dei modelli «locali»: un’università che eccelle, un’azienda che vince sui mercati internazionali, etc. Fortunatamente modelli di eccellenza nel Mezzogiorno esistono, più di quanto non si pensi. Ad esempio ricercatori dell’università Federico II di Napoli hanno vinto, negli ultimi anni, 16 finanziamenti dell’European Research Council, l’ente europeo oggi più prestigioso e rigoroso nel selezionare e finanziare progetti di ricerca. I progetti finanziati a Napoli (con contributi significativi, 1-2 milioni di euro ciascuno) spaziano dalla geometria, all’immunologia, all’astrofisica, alla storia moderna e la papirologia. Apple nel 2016 ha aperto a Napoli, in collaborazione con la Federico II, una Developers Academy (la seconda al mondo dopo la sede di Cupertino in California) dove vengono formati sviluppatori di app. A Cosenza, sempre in collaborazione con l’università, si è sviluppato un distretto industriale sulla sicurezza informatica dove si applicano alla cybersecurity tecniche di blockchain e intelligenza artificiale. Sempre a Cosenza Ntt, la grande multinazionale giapponese, ha installato uno dei suoi tre centri di ricerca in Data Science, gli altri sono a Tokyo e in California. Nel distretto aerospaziale pugliese operano, fra Bari e Lecce, una trentina di aziende e centri di ricerca con un totale di circa 6.000 addetti. In Sicilia, a Sciacca e a Palermo, Rocco Forte gestisce due alberghi. Sono così belli che i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, organizzano da alcuni anni, in quello di Sciacca, il Google Camp, appuntamento estivo dei Ceo delle maggiori aziende tecnologiche al mondo. È da questi semi di eccellenza che può ripartire il Mezzogiorno. Ci sono poche cose che lo Stato deve fare e due che non deve fare per consentire a questo modello di diffondersi. Innanzitutto deve far sentire la propria presenza, evitando che provincie intere siano di fatto fuori dal controllo dello Stato: il distretto della cybersecurity di Cosenza è un buon segnale. E poi deve consentire alle persone di condurre una vita normale, che vuol dire trasporti, scuole e ospedali. Ciò che invece lo Stato non deve fare è sostituirsi alle imprese illudendosi di essere più bravo di loro. Né, ancor peggio, inondarle di sussidi che puntualmente finiscono non alle imprese più promettenti, che non ne hanno bisogno, ma a quelle inefficienti o addirittura illegali, che li usano per far concorrenza sleale alle prime.

Pag 1 L’assalto di Salvini al «modello riformista» in una regione spaccata di Aldo Cazzullo Emilia-Romagna contesa

Tra Salvini e la clamorosa rivincita c’è un solo ostacolo: Salvini stesso. Il vento di destra spazza anche la più rossa delle Regioni: stasera la sinistra rischia davvero parecchio. Ma Salvini, alla ricerca del riscatto dopo la caduta estiva, sta esagerando. Dopo la sceneggiata del citofono, al Pilastro c’è stata una fiaccolata con 500 persone, guidate dal sindaco di Bologna Merola che è cresciuto qui e torna talora a trovare l’anziana madre: «Non è vero che siamo un ghetto!». Ieri il capo della Lega ha annullato il suo pranzo bolognese da 150 invitati presso Il Pirata del Porto, sostenendo che il ristoratore aveva ricevuto minacce; ma il suddetto pirata ha smentito, «siamo chiusi per guasto, una fuga di gas». Ecco, l’unica speranza per il Pd è che, a forza di chiamare un referendum su di sé, Salvini finisca per mobilitare gli elettori di sinistra disillusi, distratti, in passato tentati dai 5 Stelle, che potrebbero tornare alle urne per fermare l’invasore milanese. Lucia Borgonzoni - cresciuta tra il Dams, i centri sociali e i punkabbestia - non si vede quasi mai. Oggi dovrebbe raccogliere non molto più degli 850 mila voti che prese Anna Maria Bernini cinque anni fa. Sono i voti di sinistra a essere crollati: nel 2005 Vasco Errani ne aveva più di un milione e mezzo; nel 2010 scese sotto un milione e 200 mila; ora negli ultimi sondaggi Stefano Bonaccini insegue. Ha chiuso la campagna in musica, con il figlio di Pierangelo Bertoli e quello di Raoul Casadei, l’impegno «a muso duro» e la mazurca di periferia. Qualcuno lo racconta impazzito per amore, o per una crisi di mezza età: il presidente gira senza calzini - a gennaio -, t-shirt bianca al posto della camicia a fasciare i muscoli da culturista, occhiali a goccia, barba grunge e abbigliamento da discoteca. Basterà a intercettare la mutazione antropologica del giovane emiliano e romagnolo, tutto tatuaggi e mojito, più simile al Salvini del Papeete che al nonno comunista e al papà democratico? La Regione del resto non è mai stata monolitica. Non è neppure mai stata unita, bensì divisa tra duchi e Papi. Non va pensata in termini Nord-Sud, come si fa di solito per l’Italia, ma Est-Ovest: dal ducato di Parma e Piacenza, avvolto nelle nebbie lombarde, dove si mangia polenta condita con il burro, al mare e al sole di Rimini, dove si mangia pesce condito con l’olio. Restano rosse le province più ricche: Reggio rivitalizzata dall’alta velocità, la Modena dei prodigi - Vasco e la Ferrari, Pavarotti e Bottura il più grande cuoco al mondo -, Bologna capitale. La Lega conquista le zone di confine: a Bettola, il paese di Bersani, è al 57%; a Goro, il paese di Milva sotto il delta del Po, è al 64; Salvini sfonda nella Romagna un tempo anticlericale e anarchica, e sull’Appennino. «A dire il vero, la montagna non è mai stata comunista. Semmai Dc» spiega uno che sull’Appennino è nato ed è tornato: Francesco Guccini. «A Pavana, il mio borgo, il sindaco era democristiano; ora è di sinistra. Grazie anche agli elfi, duecento hippy venuti ad abitare le baite abbandonate: siccome hanno il numero civico, votano, e non certo a destra. Io invece voto a Bologna e farò il mio dovere, anche se è durissima. La propaganda di Salvini è martellante, ha speso pure un sacco di soldi. A Suviana, il paese sul lago dove vado d’estate, non trovi uno che non abbia fatto il selfie con lui». «È impressionante: dove passa Matteo, il paese cambia segno» conferma Claudio Borghi, l’economista della Lega che è qui a Bologna per Artefiera, vestito da collezionista, maglioncino beige sotto giacca scozzese. «Le appartenenze sono saltate. Tutti vanno a farsi la foto con lui, e si affrettano a postarla: «Matteo è amico mio, e io lo voto». Un sindacalista Cgil, Cristian Lanzi, da due mesi in malattia, non ha resistito ed è andato in piazza a Minerbio per un selfie con il Capitano: il padrone l’ha visto in tv e l’ha licenziato. Ovviamente non è solo questione di propaganda. Dice Guccini che, a prescindere dal risultato di oggi, «è finito il modello emiliano»: partito, sindacato, cooperativa, municipalizzata, cassa di risparmio, Arci, Casa del Popolo, a Pavana sorta direttamente nella Casa del Fascio. Ora le municipalizzate si sono fuse in giganti tipo Hera e Iren, le Coop non hanno più l’esclusiva degli appalti, le casse di risparmio - erano 19 - sono fallite o sono state inglobate dalle grandi banche milanesi, come la fiera del mobile e quella dell’edilizia; non si fa più neanche il Motor Show. «Ma il punto vero - sintetizza Guccini - è che non c’è più il Partito comunista». Non c’è più «il capitalismo gestito da noi». E non c’è più neppure quella «subcultura rossa», come la chiama Salvatore Vassallo, il direttore dell’Istituto Cattaneo, per cui anche chi non era di sinistra subiva l’egemonia di un modo di organizzare l’economia, la società, il tempo libero. «L’agenda del Pd è complessa: ambiente, sostenibilità, innovazione, diritti civili - nota Vassallo -. Quella di Salvini è semplicissima: gli immigrati sono troppi; prima gli italiani». Non solo il modello emiliano è finito; di questo passo finiranno pure gli emiliani. Trent’anni fa Bologna aveva 430 mila abitanti, e l’80% era nato in Emilia-Romagna. Oggi ne ha 380 mila, e quasi metà viene da fuori; gli stranieri sono aumentati del 616%. Nel 1987 duecento giovani bolognesi emigrarono all’estero; oggi emigrano 1.200 all’anno, «quasi tutti laureati e di sinistra» fa notare Filippo Andreatta, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’università di Bologna, figlio di Beniamino inventore dell’Ulivo. Andreatta è rimasto colpito dal modo in cui Salvini ha raccolto consenso usando e dissacrando il mito emiliano per eccellenza: il cibo. «In altri tempi un politico che si fosse fatto fotografare mentre mangiava i tortellini con il sugo di salsiccia sarebbe stato messo ai margini della comunità. Salvini invece ha infranto tutti i tabù del luogo. Di solito ogni città emiliana è gelosissima delle sue specialità, e odia quelle delle altre. Lui ha mangiato anolini a Parma, tortellini a Modena, cappelletti a Forlì senza che nessuno si risentisse, tranne forse il suo colesterolo. Ha baciato culatelli, prosciutti, mortadelle, nel tripudio generale. Il messaggio non poteva essere più chiaro: sono uno di voi. Anche se è milanese. Tutti dicono che Bonaccini ha governato bene; ed è vero. Ma nella storia talora gli uomini non vogliono scegliere come essere governati, ma da chi essere governati». Fabio Roversi Monaco, che dell’università è stato rettore per quindici anni, voterà per la prima volta Pd in vita sua; proprio ora che per la prima volta forse il Pd perde. Guazzaloca c’entra poco; in fondo era un vecchio democristiano. «La Borgonzoni è il nulla. Non ho mai avuto il piacere di firmare una sua laurea - nota Roversi Monaco -. Bologna tiene, perché le cose vanno bene: la Philip Morris ha investito qui, l’Audi pure, la Lamborghini si è rilanciata». Pure lo sport dà soddisfazioni: l’Emilia ha quattro squadre in serie A, la Virtus è in testa al campionato di basket. «Bonaccini ha l’appoggio della Curia del cardinale Zuppi e della Confindustria delle dinastie, i Vacchi, i Seràgnoli. Ma basta uscire fuoriporta per vedere la base sociale sgretolarsi». Non ci sono più gli artigiani rossi: i figli non hanno voluto saperne di restare in bottega, sono andati in università a farsi firmare la laurea da Roversi Monaco, «ma abbiamo troppi sociologi e pure troppi avvocati». Si vota a destra anche per frustrazione. La partita resta aperta, il parossismo è tale che Salvini raccomanda a tutti di fare due croci, non solo sul simbolo della Lega ma pure sul nome della Borgonzoni; teme che gli scrutatori comunisti traccino di nascosto la croce mancante su Bonaccini, e spostino così quelle poche migliaia di voti cui sono appese stanotte l’Emilia, la Romagna, e l’Italia.

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IL GAZZETTINO di domenica 26 gennaio 2020 Pag 1 Finalmente la Brexit ma il peggio comincia ora di Romano Prodi

Dopo tre anni e mezzo di agonia, con il sigillo della Regina, la Brexit sta arrivando al suo compimento. Venerdì a mezzanotte (ora italiana) la Gran Bretagna lascerà definitivamente l'Unione Europea. Il processo di messa in atto del referendum è stato così lungo e penoso che a Bruxelles anche coloro che non volevano il distacco della Gran Bretagna (ed erano nettamente la maggioranza) stanno ora tirando un respiro di sollievo. Con la consumazione del divorzio molti leader europei, a cominciare dalla Cancelliera tedesca, che pure era ad esso contraria, sono stati infatti quasi costretti ad essere contenti di porre fine alle incertezze di un paese che ha finito con il rallentare ulteriormente la già lenta capacità di decisione degli altri ventisette. Non pensiamo però che i problemi siano finiti. In primo luogo, presa la decisione politica, i negoziati per regolare il divorzio, dopo un matrimonio durato oltre quarantacinque anni, si presentano molto complicati. Un matrimonio per effetto del quale non solo abbiamo in comune migliaia di leggi e regolamenti, ma un infinito numero di imprese che condividono proprietà, mercati e strategie produttive. Senza contare i progetti condivisi nel campo della ricerca e i milioni di lavoratori che si sono mossi dall'Europa alla Gran Bretagna e viceversa. Per portare a termine quest'impressionante mole di lavoro, il primo ministro britannico si è dato un anno di tempo: uno spazio che gli esperti ritengono insufficiente, ma su cui Boris Johnson si è fortemente impegnato di fronte al Parlamento e all'opinione pubblica. Anche se non possiamo tracciare gli itinerari precisi di questo percorso, cercheremo almeno, sperando che il tutto avvenga nei tempi stabiliti e in un clima di collaborazione reciproca, di riflettere su come saranno in linea di massima regolati, a partire dal 1 gennaio 2021, i flussi dei turisti, i diritti dei lavoratori, i pagamenti a carico degli studenti universitari, i nuovi regolamenti doganali e gli infiniti problemi ad essi connessi. Le informazioni e le indiscrezioni sulle dispute riguardanti questi temi ci perseguiteranno a lungo e, data la loro importanza, bisogna che i responsabili di Bruxelles e anche i nostri governanti esercitino una quotidiana attenzione sulle trattative. Finora il raffinato tentativo britannico di dividerci è andato fallito, ma i prossimi negoziati non saranno carezze. In linea di massima non ci saranno ostacoli insormontabili per regolare in modo positivo i flussi commerciali: gli interessi al mantenimento di un mercato aperto sono troppo forti da entrambi i lati, anche se si profilano già notevoli differenze riguardo agli standard ambientali, alle regole sul lavoro e, soprattutto, riguardo alle politiche fiscali. A Bruxelles si è già preoccupati sulle possibili chiusure del mercato del lavoro, anche perché la restrizione dei flussi migratori è stata uno dei temi dominanti della campagna in favore della Brexit. Le cose infatti non promettono bene in questo campo: mentre, solo per fare un esempio, la Camera dei Lord si era pronunciata a favore del proseguimento dell'adesione britannica al progetto Erasmus per la mobilità degli studenti, la Camera dei Comuni (che è la vera responsabile della decisione) ha preso le distanze da questa apertura. La preoccupazione dominante nei corridoi di Bruxelles riguarda tuttavia il pericolo di avere di fronte all'uscio di casa un paese grande e con il mercato finanziario più sofisticato d'Europa (e forse del mondo) che usa la leva fiscale come strumento di concorrenza con molta più sistematicità e ampiezza di quanto stanno già purtroppo facendo Irlanda, Olanda e Lussemburgo. Prepariamoci quindi ad assistere a una battaglia senza esclusione di colpi, nella quale si dovrà trovare un compromesso sui diritti dei lavoratori, sulla mobilità degli studenti e sulle regole della protezione dell'ambiente. Si tratta di problemi enormi: basti pensare che, in questo momento, vi sono 3,5 milioni di cittadini comunitari residenti nel Regno Unito e 1,2 milioni di cittadini britannici nell'Unione Europea. Un altro grande interrogativo riguarda i possibili cambiamenti nel campo della politica estera. L'uscita della Gran Bretagna spingerà ad un alleggerimento delle sanzioni con l'Iran e la Russia, sanzioni che pur essendo appoggiate da un notevole numero di paesi europei, trovavano nella Gran Bretagna la posizione più intransigente? E questo ci porta all'interrogativo fondamentale: vi sarà (come è sempre stata ferma convinzione dei sostenitori della Brexit) un rapporto economico e politico privilegiato fra il Regno Unito e gli Stati Uniti? E, nel caso, quale sarà la reazione dell'Europa? Le incognite non sono finite, a partire dalla politica energetica. Senza dimenticare che, mentre un accordo sul flusso delle merci non è ostacolo insormontabile, nel campo dei servizi i problemi sono molto più complicati, a cominciare da quelli finanziari, settore nel quale i paesi europei, a partire dalla Francia, stanno già operando per riportare in patria funzioni fino ad ora accentrate nel mercato di Londra. È quindi certo che, prima della fine dei negoziati, ne vedremo di tutti i colori. Su un solo punto non vi è incertezza: la lingua franca dell'Unione Europea rimarrà l'inglese, anche se essa sarà la lingua madre solo dell'1% dei suoi cittadini.

LA NUOVA di domenica 26 gennaio 2020 Pag 6 Oggi il governo si affida a Bonaccini per respirare un po' di Fabio Bordignon

C'era un tempo in cui l'effetto più rilevante del voto in Emilia-Romagna sarebbe stato uno sbadiglio. Monotono e monocromatico, del resto, è stato, fino a ieri, l'esito delle Regionali. Oggi, invece, tutti col fiato sospeso, in ansiosa ricerca del segnale decisivo, dell'ultima dose di sondaggi clandestini. Perché la partita è diventata incerta anche dove non c'era partita. Certo, Guazzaloca ha espugnato Bologna oltre vent'anni fa. Ma allora si trattava di un incidente: un "gronchi rosa". Oggi, sta diventando la norma. Il cuore rosso di cui scriveva Francesco Ramella ha smesso di battere. E nell'Italia di mezzo, ex- isola felice in spasmodica ricerca di novità, se ne vedono di tutti i colori. Prima il giallo, del M5s. Ora il verde leghista.Eppure, tanta attesa si scontra con la difficoltà nel prefigurare le conseguenze del risultato. Almeno per quanto riguarda l'esecutivo. Con il M5s fuorigioco, un possibile sfondamento del centro-destra, a chiusura di un lungo filotto di vittorie a livello locale (che potrebbe poi allungarsi in primavera), aumenterebbe la fibrillazione interna al governo. Ma non necessariamente ne provocherebbe la caduta. Non è anzi da escludere che le due debolezze da cui esso origina decidano di serrare ulteriormente i ranghi, nel nome della resistenza anti-salviniana. Paradossalmente, a rischiare qualcosa è anche Salvini, qualora la spallata dovesse fallire. Gli elettori emiliano-romagnoli e calabresi lo sanno bene: il nome del leader leghista è la vera opzione non-scritta sulla scheda che oggi si troveranno di fronte. L'ennesimo referendum personale. Di più, la guerra tra due mondi. Nella quale Salvini è riuscito peraltro a mobilitare l'opposizione "sociale" delle Sardine che questa sera, inevitabilmente, figureranno a loro volta nella lista dei vincitori oppure in quella degli sconfitti.Quello che in passato, per il centro-destra, sarebbe stato un match in trasferta, in un campo quasi inespugnabile, si è allora trasformato in un redde rationem. E, qualora Bonaccini dovesse spuntarla, il governo (nazionale) potrebbe respirare. Mentre le dinamiche dell'opinione pubblica potrebbero "girare" in modo imprevisto. Non tutto, ma molto dello scenario politico dei prossimi mesi passa dunque attraverso il verdetto di stasera. Ma già in giornata potrebbe materializzarsi un primo risultato di questa cruenta campagna: il ritorno della partecipazione. Difficile, del resto, fare peggio delle precedenti Regionali, quando il partito del non-voto toccò il 62%. Questo risultato sarebbe però il frutto della crescita della conflittualità. Della polarizzazione. Da una parte, Salvini e il suo tentativo di liberazione: dai "rossi" e dal Conte II. Dall'altra, la resistenza: al capitano e ai suoi "pieni poteri". Meglio uno sbadiglio?

CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Pechino, tra verità e reticenze di Guido Santevecchi Il potere e la crisi

La comunità internazionale ha chiesto trasparenza a Pechino di fronte all’emergenza sanitaria, al coronavirus che ci allarma. E nella comunicazione verso il mondo esterno si è visto un nuovo atteggiamento. I ricercatori cinesi hanno subito pubblicato e messo a disposizione della scienza globalizzata il genoma del virus, da loro identificato con discreta rapidità. Erano passati mesi di silenzio colpevole nel 2002, ai tempi della Sars. Ma c’è anche la solita reticenza nell’informare la popolazione cinese. E si somma il dubbio che la burocrazia del Partito-Stato sia inadeguata alle ambizioni di una nascente superpotenza politica, al «sogno cinese» di Xi Jinping. È il calendario di questa crisi che spiega il sospetto. Ora sappiamo che il primo paziente con sintomi collegati al virus polmonare a Wuhan è arrivato in ospedale l’8 dicembre. Un nuovo virus naturalmente va scoperto. Ma si è cominciato a parlare di «malattia misteriosa», con causa sconosciuta. È andata avanti così fino all’11 gennaio. Poi l’allargarsi dei contagi ha imposto un’accelerazione. È stato decifrato il genoma del virus a forma di corona, pubblicato sul web, sono cominciati i contatti tra Pechino e l’Organizzazione mondiale della sanità. Molto confortante. Però, ancora sabato scorso, il 18, le autorità sanitarie cinesi insistevano a dire che i contagiati erano solo una cinquantina. Ci sono voluti due pronunciamenti dall’estero per richiamare alla realtà. Gli americani che hanno cominciato a controllare i passeggeri dei voli in arrivo da Wuhan; gli epidemiologi dell’Imperial College di London i quali, con un semplice calcolo statistico, hanno avvisato che i contagiati in Cina non potevano essere meno di 1.700. E diversi si erano messi in viaggio, portando nei polmoni l’infezione. Subito dopo, il 19, i cinesi hanno «scoperto» che i casi erano diventati più di 200 e c’erano stati i primi morti. Ma ancora ci si illudeva, ci si voleva illudere a Pechino, che il contagio fosse solo circoscritto al mercato del pesce e di esotici animali più o meno commestibili nel mercato di Wuhan. Finalmente, il 20, un benemerito virologo cinese ha detto che si era verificato il «passaggio tra esseri umani». Il medico ha abbattuto la grande muraglia di omertà ed è significativo che fosse stato chiamato al soccorso anche nel 2002, per la Sars. Contemporaneamente ha rotto il silenzio Xi Jinping, ordinando prevenzione e controllo epidemiologico, perché la sicurezza e la salute della popolazione sono la priorità massima. Servire il popolo (anche del mondo), dunque. Trasparenza, un po’ tardiva forse, ma nuova per le caratteristiche cinesi. Però, mentre lo scienziato Zhong annunciava il pericoloso salto del virus tra uomo e uomo, a Wuhan si era appena tenuto un enorme banchetto per 10 mila famiglie, 40 mila persone invitate senza alcuna precauzione, su iniziativa dei funzionari locali (servire il popolo anche a tavola può aiutare a far carriera). Mancanza di senso comune, rifiuto di trasparenza verso i propri concittadini radunare una folla del genere a tavola mentre in città si parla ancora di malattia misteriosa. Si è saputo anche che giorni prima erano stati infettati da un solo paziente 15 membri di una équipe operatoria della città. Se il fatto fosse stato comunicato subito, si sarebbe risparmiato tempo prezioso e cruciale nella comprensione dell’evidenza: il passaggio del virus tra persone. Trasparenza, più o meno, verso l’esterno, consueta opacità all’interno, anche nello scambio di dati cruciali tra dipartimenti statali. La svolta: il 21, martedì scorso, il Partito-Stato ha detto ai quadri che «chi nascondesse informazioni sul virus sarà punito severamente e inchiodato per l’eternità alla colonna dell’infamia». Pochi giorni dopo, le stesse autorità del grande banchetto hanno messo in quarantena tutta Wuhan, impedendo di viaggiare a 11 milioni di cittadini. Ora che una dopo l’altra altre città dello Hubei chiudono stazioni e aeroporti per non far viaggiare il virus, ci sono poche speranze scientifiche che il provvedimento sia sufficiente. Dal solo aeroporto di Wuhan, per almeno sette settimane erano partite 30 mila persone al giorno. Il virus non si schiaccia certo nel vetro della nuova trasparenza invocata da Xi. E ci si chiede se a Pechino abbiano numeri ancora più gravi sull’estensione del contagio, per aver preso misure così drammatiche. È un pessimo Anno del Topo che si prospetta per il presidente della Repubblica, nonché segretario generale del Partito e capo della Commissione militare centrale. In pratica un uomo solo al comando. Resta a suo merito il fatto che Xi ha parlato del virus chiedendo una battaglia per arrestarlo, non ha taciuto come i suoi predecessori ai tempi della Sars. Allora, nel 2002, la leadership cinese era collettiva e debole, la burocrazia si dimostrò inadeguata all’inizio dell’epidemia. Ora c’è un presidente a vita, un uomo forte. Perché allora la burocrazia si è dimostrata altrettanto lenta allo scoppio del coronavirus? Un problema di sistema piuttosto che di capi supremi. Un virus nel potere cinese. Una falla nella seconda economia del mondo che resterà anche quando il virus sarà debellato (speriamo presto). Perché c’è una teoria che circola da mesi: molti funzionari dell’enorme apparato sono terrorizzati dalla possibilità di sbagliare, dalla minaccia di punizione. Sono paralizzati, agiscono solo se c’è un ordine dal centro del potere e perciò tardano a reagire alle emergenze.

Pag 1 La solitudine di Romolo di Francesco Verderami

Erano i Romolo e Remo della Terza Repubblica, e come leggenda vuole ne è rimasto uno solo. In questi giorni però Salvini ha ordinato ai leghisti di non attaccare Di Maio e i 5 Stelle, semmai di colpire Grillo e di affondare il colpo contro il Pd, perché c’è un disegno da portare a compimento. Il disegno risale alla primavera di due anni fa, quando il Carroccio entrò a Palazzo Chigi insieme ai grillini con un duplice obiettivo politico. Il primo era drenare i voti che M5S aveva sottratto al centro-destra «in modo politicamente fraudolento», come disse l’allora ministro Fontana in un vertice di partito: «In realtà sono la quinta colonna del sistema ma la dimensione governativa li ridimensionerà». Giorgetti, teorico del progetto, osservando le dinamiche del Movimento si era convinto che l’esperienza giallo-verde non sarebbe durata «perché loro sono come eravamo noi nel ’94», quando una Lega alle prime armi resistette appena sei mesi al governo. Ma il «contratto» era funzionale al secondo obiettivo di Salvini: puntare in prospettiva alla scissione dei grillini e con una costola dei 5S costruire una nuova coalizione, nella quale il «nuovo» alleato avrebbe sostituito il «vecchio», cioè Berlusconi. Incrociando alla Camera l’azzurro Giacomoni, che è uno dei consiglieri del Cavaliere, l’allora sottosegretario Molteni lo spiegò chiaramente: «Voi crollerete prima». In corso d’opera però Salvini fu chiamato a gestire il malumore dei suoi verso i 5S. «Dovrebbero darci un’onorificenza al merito della Repubblica», disse il viceministro Galli in una riunione: «In questo momento ci stiamo sacrificando perché il Paese possa rendersi conto che i grillini non sono capaci di governare». La resilienza venne ripagata con il voto alle Europee, quando il Carroccio aprì M5S come una scatoletta di tonno. Visto che ora c’è l’esecutivo giallorosso e non ci sono state le elezioni, è evidente che il piano si sia inceppato. È vero che «Remo» si è dimesso da capo dei grillini, ma il «nuovo bipolarismo» immaginato da «Romolo» è minacciato da una riforma della legge elettorale di stampo proporzionale, dalla consapevolezza che la legislatura durerà fino al termine e dall’avvento di altri competitori sulla scena. Due anni fa la Meloni non era considerata un problema da Salvini. Ora lo è, per la sua capacità di mostrarsi leale con l’alleato e di marcare al tempo stesso una differenza di postura e di linea che le sta facendo conquistare voti. Non a caso il capo del Carroccio tenta di frenarla: l’ultimo indizio è il veto posto al candidato di FdI in Puglia, dopo che la Meloni era restata «ai patti», assecondando la scelta della Borgonzoni in Emilia- Romagna e lasciando la guida del Copasir al leghista Volpi: «Matteo, dato che ci tieni così tanto, dirò al mio Urso di fare un passo indietro». Certo, oggi la popolarità e il consenso sono decisamente dalla parte di Salvini: in questi giorni, nonostante alcuni gesti politicamente scostumati, persino un gruppo di suore impegnate nell’accoglienza dei migranti ha voluto fargli sapere che «preghiamo per te». Ma adesso l’ex ministro dell’Interno, che sembra avere un profilo da leader scattista, è atteso a una lunga maratona prima di arrivare alla sfida per Palazzo Chigi. «Se sarà una maratona - sorride il governatore lombardo Fontana - vorrà dire che la divideremo in tante gare da cento metri». A cui andranno aggiunti però gli ostacoli. Non sarà facile reggere alla distanza dopo aver caricato il Paese di aspettative, per quanto Salvini si sia rivelato finora un formidabile comunicatore. Ieri per esempio ha invitato il Guardasigilli Bonafede a dimettersi per una gaffe sulla prescrizione, un pasticcio giuridico diventato legge proprio grazie a Salvini. Ma finché va tutto bene gli elettori dimenticano. E se andrà tutto bene, anche il piano di due anni fa sarà riesumato. Non sarebbe una riedizione dell’alleanza con i 5S, «non mi piacciono le minestre riscaldate», dice infatti Salvini. Sarebbe piuttosto un accordo con una costola dei 5S. Ora che «Remo» è caduto, «Romolo» ha campo libero ma deve far da solo. Per tener fede alla leggenda e per smentire una profezia che Berlusconi sussurrò in uno studio televisivo alla vigilia del voto europeo: «Salvini-Di Maio, Di Maio-Salvini... Prima o poi la gente si stuferà».

AVVENIRE di sabato 25 gennaio 2020 Pag 3 Oltre la volgarità dei tempi tornare a studiare la politica di Carlo Cardia Si assiste a una forte decadenza della società e della vita pubblica, alla quale però si può ancora reagire

Con un bell’articolo sul 'Corriere della Sera', sul Trattato delle piccole virtùdi Carlo Ossola, Claudio Magris ha come allargato lo sguardo sulla fase storica che stiamo vivendo, in una analisi apparentemente minimalista. Ha visto – ed è uno sguardo niente affatto nuovo per chi frequenta le colonne di 'Avvenire' – questa nostra epoca segnata da una spinta alla volgarità che investe il linguaggio quotidiano, la discussione pubblica, e ha rilanciato con il suo autorevole timbro un allarme che merita attenzione: «L’urbanità è la grande assente nel mondo in cui viviamo. La volgarità è stata completamente sdoganata, il turpiloquio è il nuovo galateo, l’insulto è la forma più diffusa del dialogo. Volgarità nelle assemblee politiche, nelle risse ai talk show televisivi, nei confronti ideologici che diventano ingiurie, non meno rozze ma meno schiette e autentiche di quelle all’osteria». P otrebbe sembrare un piccolo manifesto delle degenerazioni che sperimentiamo tutti i giorni con inconsapevole assuefazione. Tuttavia, la sensazione che queste parole suscitano è intrisa di realismo, ci tocca così da vicino da suggerire un supplemento di riflessione (sollecitata anche ieri dall’episodio di grave antisemitismo avvenuto a Mondovì). Ricordiamo tutti l’antico adagio appreso sui banchi di scuola per il quale si esibiscono spesso pubbliche virtù per meglio praticare vizi privati, ci si dimostra saggi e buoni, per poter essere cattivi e stolti nella vita di tutti i giorni. Con un virtuosismo filosofico, che Seneca persino rivendica in una lettera a Lucilio, tutti i potenti della terra hanno sempre steso un velo d’ipocrisia sulla propria vita, magari degradata, ammantandola di pubbliche virtù e dignità per ricevere lodi e onori. Ebbene, constata da par suo Magris, anche questo velo è ormai caduto, s’è rovesciato l’adagio antico. Le virtù, per alcuni, sono rimesse nel privato, ma i vizi e l’aggressione si praticano in pubblico, senza vergogna, con ostentazione, anche perché indicano il livello di potere che s’è raggiunto. Un esito triste, avvertito a fatica, una decadenza della nostra società e della nostra politica, al quale però si può reagire. C’è una piccola spia di questo rovesciamento di valori in un giudizio prevalso acriticamente sul fenomeno delle Sardine, di quei giovani che si sono fatti sentire negli ultimi mesi, ai quali s’è rimproverato di opporsi innaturalmente all’opposizione, mentre tutti i movimenti dovrebbero contestare le forze che governano e sono maggioranza parlamentare. La realtà è tutta all’opposto, per genesi e per sostanza po- litica, perché le Sardine sono nate poche settimane dopo che le forze sovraniste e populiste hanno governato l’Italia per oltre un anno, esibendo il peggio di sé, offendendo tutto e tutti, facendosi padroni dei media in modo sfacciato, predicando disprezzo per i diversi, sbeffeggiandoli, e lo hanno fatto dai posti del Governo e del potere, causando così una legittima e fondata paura di poter cadere ancora più in basso. Questa la genesi di un movimento che ha sorpreso tante persone, e che in realtà ha voluto rivendicare le piccole/grandi virtù che abbiamo perso, per lasciar spazio alla sopraffazione, alla pretesa di occupare il potere senza averne legittimazione, e chiedono una politica nuova, dialogante, nutrita d’intelligenza, impegnata sui temi basilari della corretta dell’informazione, del rapporto tra i popoli, dell’accettazione degli altri. In questo senso, Magris ha suggerito un altro elemento decisivo, per il quale i leader sovranisti sono diventati, anche oltre i loro demeriti, il sintomo di una malattia più grave che sta pervadendo il nostro vivere civile. La volgarità non implica solo cattivo gusto o carenza di galateo, essa ha investito e coinvolge sempre più la vita pubblica, il governo delle istituzioni, l’atmosfera complessiva che siamo indotti a respirare, sempre più inquinata. Per questa ragione, la protesta dei giovani ha centrato il problema quando ha reclamato ad alta voce che essi vogliono rimanere sani, puliti, vivere in un orizzonte democratico, immuni dai fantasmi del razzismo o analoghe patologie. E questo elemento lascia sperare che essi continuino a svolgere il ruolo di sentinelle di una vita civile fondata sul rispetto della dignità degli altri. Ernesto Galli Della Loggia ha ripreso il tema nella sua complessità e ha proposto di dire all’Italia e agli italiani la verità, suggerendo così altre riflessioni. La convivenza politica democratica chiede sempre una solidarietà minima che non può essere messa da parte per qualunque piccolo egoismo, ma è proprio ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi tutti i giorni. Ci sono settori politici, al centro e nella sinistra, che stanno svolgendo un ruolo importante per evitare i disastri che il populismo provoca un po’ dovunque. Esse hanno riportato serenità di azione politica ed economica, hanno cancellato dal dibattito pubblico le forme più sguaiate di propaganda e di allarmismo. Con lo sguardo al futuro, però, sappiamo che occorre chiedere di più. Si ha quasi la sensazione che l’obiettivo principale sia quello di gestire con equilibrio una situazione economica molto difficile, ma senza avere consapevolezza che la nostra è una società da ricostruire, anche perché presa da uno spaesamento che provoca disaffezione, che disorienta. In questa incertezza d’orizzonte s’avverte sempre più la necessità di tornare a 'studiare la politica'. Prendiamo il tema dell’immigrazione. Studiare la politica vuol dire coniugare accoglienza e sicurezza, valorizzando la grande tradizione di solidarietà che è propria del nostro Paese, e rafforzando accordi europei e internazionali per governare un fenomeno che tutti riconoscono come epocale. Davvero non dovrebbe essere impossibile raggiungere un traguardo del genere, per un popolo come quello italiano che, osservava nel 1877 Fëdor Dostoevskij, «si sente depositario di un’idea universale, e chi non sa lo intuisce», mentre per V. S. Solov’ëv, alla nazione italiana ha sempre interessato soprattutto ciò «che avrebbe potuto dar loro un certo valore agli occhi degli altri, quello che avrebbe conferito loro un significato universale». Valorizzare questo spirito dialogante con i popoli toglierebbe una delle armi più insidiose che i sovranisti brandiscono in ogni parte del mondo con spietatezza, mentre uno dei nostri caratteri più radicati darebbe anima e concretezza a scelte indispensabili proprio nell’era della globalizzazione. Tutti ormai riconoscono che il magistero di papa Francesco riflette una strategia ben precisa quando insiste sulla necessità di lavorare a una progetto di pace universale, con il quale soccorrere, aiutare, integrare, quanti non hanno più patria, né terra, su cui stare, e per rendere il pianeta una casa comune per tutti i popoli; ma forse non è chiaro a tutti che la strategia del Papa si sta rivelando la più ricca e pregna di realismo politico, proprio perché fondata su un radicamento nella storia dell’uomo e delle sue conquiste, che nessuna ideologia protezionistica può vantare. Studiare la politica vuol dire mettere al posto di ogni progetto il tema della scuola e delle nuove generazioni, abbandonato da tempo, quasi lasciato alle illusioni e alle scorribande di alcune tendenze tecnologiche (ben diverse dal progresso scientifico) e dell’ideologia relativista. Relativismo e technicality, se lasciati a sé stessi, promuovono la convinzione che ogni tassello tecnico è una conquista di sapere, che ogni corollario relativista accresce lo spazio libertario. Nel frattempo, invece, si sfilaccia il rapporto tra scuola e famiglia, s’accentua la voglia di esemplificazione e superficialità, diminuisce quella di conoscere e studiare la storia, nelle sue fatiche e nei suoi traguardi, rischiando così di perdere il senso dell’evoluzione umana e del ruolo dei suoi protagonisti. Se guardiamo dentro la crisi del mondo della scuola, possiamo scorgere che anche le denunce prima evocate, l’involgarimento dell’informazione, la perdita di dignità nel governo delle istituzioni, sono frutto di un impoverimento umanistico che colpisce l’Italia più d’altri Paesi, anche perché più forte è la nostra tradizione di riflessione, pacatezza, lungimiranza. Infine, studiare la politica vuol dire non lasciarsi andare a discussioni e livelli che alcuni vorrebbero imporre, e dettare un nuovo registro che aiuti anche una certa destra incattivita a uscire dal buio nel quale s’è cacciata, e soprattutto contribuire a riconquistare e affascinare giovani e meno giovani per quegli ideali e quegli obiettivi che hanno segnato e reso migliore la nostra modernità. Si possono aggiungere altri tasselli a questo progetto, ma ognuno d’essi dovrebbe avere alcuni caratteri, dare risposte sagge a domande giuste, anziché cedere impulsi più o meno perversi, combattere piccoli vizi che presto si ingigantiscono, riattivare l’amore per le virtù pubbliche che ridanno dignità ai cittadini e alle istituzioni che li governano.

IL GAZZETTINO di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Effetto-urne, la fuga dal M5s e il ritorno destra-sinistra di Luca Ricolfi

Anche se le Regioni che vanno al voto sono due (Emilia Romagna e Calabria), inutile nasconderselo, è sull'Emilia Romagna che sono puntati i riflettori. Perché, lo si voglia o no, la sfida Bonaccini-Borgonzoni si è trasformata in una specie di giudizio di Dio sul governo nazionale. Non sarebbe stato così se, una volta caduto il governo giallo-verde, sinistra e Cinque Stelle avessero avuto il coraggio di tornare di fronte all'elettorato, come succede nei paesi normali allorché un'elezione non restituisce un vincitore chiaro. In quel caso i confronti regionali sarebbero rimasti nell'alveo giusto, quello di una competizione locale fra due candidati locali. Poiché, invece, si è scelto di stare al governo a dispetto dei santi, ci si trova a fronteggiare l'insofferenza di quella parte dell'elettorato emiliano-romagnolo che sente l'insediamento del governo giallo-rosso come un vulnus alla democrazia sostanziale. Dunque, è inevitabile. L'esito delle elezioni in Emilia Romagna non potrà che assumere un significato nazionale. E lo farà chiunque vinca: dopo il voto del 26 gennaio il sistema politico italiano non sarà più quello di prima. Ma che differenza può fare una vittoria del Pd o una vittoria del centro-destra? Per certi versi nessuna. In entrambi i casi diventerà evidente che il nostro sistema politico è tornato bipolare. Il conflitto politico, dopo la breve stagione tripolare 2013- 2019, tornerà ad essere strutturato intorno all'opposizione fra destra e sinistra. Certo, i partiti di centro potranno avere uno spazio più o meno grande e risultare più o meno decisivi, ma la scelta elettorale di fondo tornerà ad essere quella classica, fra il blocco di centro-sinistra (più o meno europeista) e il blocco di centro-destra (più o meno sovranista). C'è un'altra conseguenza che pare difficile evitare, chiunque vinca: l'ulteriore indebolimento del Movimento Cinque Stelle. Questo esito, a mio parere, non ha la sua origine principale negli errori tattici e relazionali di Di Maio, dalle epurazioni alla cacciata di Gianluigi Paragone, ma nella rinuncia a sfruttare l'occasione irripetibile che il governo giallo-rosso aveva offerto ai Cinque stelle: quella di diventare la gamba popolare del centro-sinistra. Se avessero seguito il loro Dna, fondamentalmente assistenziale e anti-migranti, i Cinque Stelle avrebbero potuto, anche grazie alla sponda e alla legittimazione ricevute dalla loro alleanza con il partito dell'establishment (il Pd di Zingaretti), provare a coprire un segmento elettorale che esiste, e tuttavia non ha rappresentanza: quello di quanti chiedono più protezione sia sul versante economico (salario minimo e reddito di cittadinanza) sia su quello sociale (difesa dei confini e controllo del territorio). Con un Pd paladino dell'accoglienza e sempre incerto fra riformismo e assistenzialismo, i Cinque Stelle non avrebbero avuto difficoltà a coltivare e rappresentare questo segmento dell'elettorato. Ma gli esiti comuni ai due scenari, quello di una vittoria di Bonaccini e quello di una vittoria di Borgonzoni, si fermano qui. Per il resto credo che le cose andrebbero assai diversamente nei due casi. Dovesse vincere Bonaccini, il Pd si sentirà elettrizzato da un successo di cui ben pochi erano sicuri, Zingaretti si sentirà legittimato a guidare risolutamente il processo di costruzione del partito nuovo (qualunque cosa l'aggettivo significhi), le Sardine non esiteranno ad attribuirsi ogni merito per la vittoria, e naturalmente esigeranno di avere un peso elevato nel processo di ricostruzione (e ridenominazione, a quanto pare) del Pd, che nonostante la scissione di Renzi e la concorrenza cinquestelle resta pur sempre il maggior partito della sinistra. Quanto al governo, tutto lascia immaginare che si sentirà legittimato a continuare, magari con un rimpasto che tolga qualche ministero ai Cinque Stelle e li assegni al Pd. In questo scenario il destino dei Cinque Stelle è di diventare una riottosa ruota di scorta del Pd, e probabilmente anche di subire la scissione di quanti (Di Battista?) non vogliono restare alleati per sempre del partito di Bibbiano. Dovesse vincere la Borgonzoni, tutto cambia. E' anche possibile che il governo nazionale provi a resistere, ma è difficile che riesca nell'intento. In quel caso, infatti, si sommerebbero almeno due spinte del medesimo segno. Da una parte, il grido di dolore del popolo leghista e più in generale dell'elettorato di centro-destra, sempre più convinto (erroneamente, Costituzione alla mano) che tornare al voto sia un proprio inalienabile diritto. Dall'altra, il ben più prosaico interesse dei parlamentari a tornare al voto molto rapidamente, prima che il referendum sulla riforma costituzionale cancelli 345 seggi, rendendo drammaticamente più difficile essere rieletti. E' vero che, sulla carta, una strada alternativa per conservare il posto ci sarebbe, e sarebbe quella di resistere, resistere, resistere fino al 2023. Ma è forse ancor più vero che, nel caso di un trionfo del centro-destra, sui parlamentari di maggioranza si aggirerebbe uno spettro difficile da esorcizzare: quello di un governo che resiste qualche mese, magari un anno, e cade troppo tardi, ossia dopo che il referendum ha drasticamente potato i posti disponibili. Sarebbe il danno e la beffa: non poter arrivare al 2023, in tempo per eleggere il successore di Mattarella, e dover andare al voto giusto subito dopo aver segato il ramo su cui si è seduti.

Pag 1 Tre mesi di tempo per la spallata al governo di Bruno Vespa

«Il voto di domenica non riguarda la sopravvivenza del governo», ha ripetuto ieri seccamente Giuseppe Conte. Probabilmente ha ragione, ma l'archivio della politica italiana trasmette segnali poco rassicuranti. Alla vigilia delle elezioni regionali del 16 aprile 2000, il presidente del Consiglio era Massimo D'Alema. «Sono un professionista disse col tono che conosciamo e vi dico che vinceremo in 10 e forse 11 regioni su 15». Vinse il centrodestra 8 a 7, compreso l'imprendibile Lazio, guidato da Francesco Storace al quale il perfino Berlusconi aveva imposto una drastica cura dimagrante. D'Alema tentò di resistere, ma da Mastella in su l'alleanza si squagliò e lui fu costretto a dimettersi. Il 17 febbraio 2009 Walter Veltroni, fresco segretario del Pd, perse la Sardegna, su cui aveva puntato tutto e si dimise. «L'ho fatto per salvare il partito mi disse -. Per colpire me, avrebbero ammazzato il Pd». Il suo amico D'Alema aveva scelto Pierluigi Bersani. Lui riprese a scrivere libri in attesa di tempi migliori.Oggi la situazione è diversa, ma occorre considerare che negli ultimi due anni il centrodestra ha tolto al centrosinistra otto regioni su otto. La Calabria potrebbe essere la nona e se si aggiungesse l'Emilia Romagna sarebbe difficile far finta di niente. Per il Pd sarebbe un colpo tremendo. L'Emilia è la coperta di Linus, la cassaforte di famiglia, rossa dalla caduta del Duce in poi. Ma nel mondo in cui viviamo, dicono i sociologi, non basta più star bene. C'è voglia di sicurezza, di protezione, di tasse più leggere... Eppure, dopo la scissione di Renzi, che senso avrebbe far cadere Zingaretti? Il segretario ha rivitalizzato il partito e soprattutto gli ha dato una prospettiva di sinistra contando sull'alleanza con Conte e con l'ala governativa dei 5 Stelle guidata dal ministro Patuanelli. Lo spicchio di elettorato più moderato è ormai conteso da Renzi e Calenda che finiranno per unirsi, forse anche con la Bonino. Al Pd (o come si chiamerà) resterà il ruolo di grande partito socialista con venature di sinistra più accese di quelle di un Blair e di un Clinton, senza arrivare all'isterismo ideologico di un Corbyn o di una Warren. Il governo può contare sul disperato desiderio di auto conservazione dei deputati e senatori di ogni colore. Non a caso avrebbe deciso di anticipare ad aprile il referendum confermativo del drastico taglio dei parlamentari (da 945 a 600) per evitare che si voti con l'attuale composizione delle Camere. Salvini avrebbe dunque meno di tre mesi per dare la spallata all'esecutivo prima che il terrore dei sediari si propaghi. A meno che incamerate le 400 nomine nelle società partecipate in programma entro maggio il governo non ceda di schianto. Ma questa, per ora, è fantapolitica. Le variabili sono due: Di Maio e Renzi. Il primo non ha nessuna intenzione di ritirarsi e meno che mai di alimentare l'alleanza tra Zingaretti e Conte, che accusa di averlo tradito. Non ha mai accettato fino in fondo l'alleanza col Pd e vorrebbe guidare la componente moderata del Movimento. Lui, come Renzi, avrebbe interesse a votare con un parlamento di 945 seggi. Ma avrà voglia di staccare la spina? E Mattarella scioglierebbe le Camere alla vigilia di un referendum? Certo, se il centrosinistra vincesse in Emilia Romagna tutta la maggioranza respirerebbe a polmoni pieni. Salvini è convinto di farcela lui. Così prima di lunedì all'alba ogni previsione è priva di senso.

LA NUOVA di sabato 25 gennaio 2020 Pag 1 Che vinca o perda il Pd deve cambiare di Bruno Manfellotto

Ora Bonaccini può riposare un po', e Borgonzoni tornare a casa: la battaglia riprenderà domani sera, quando finalmente sapremo chi ha vinto e chi ha perso nella caldissima disfida emiliana. Stavolta, però, comunque vadano le cose, tutto cambierà, perché in gioco non c'è solo la guida della Regione, e nemmeno le sorti del governo e basta, ma l'assetto politico generale da cui tutto il resto discende. Magari mi sbaglio, ma pare proprio che nessuno dei contendenti abbia davvero voglia di andare al voto subito. Non lo vuole la maggioranza del Pd, perché il quadro delle alleanze è confuso, e perché guarda all'appuntamento del dopo Mattarella. Non lo vogliono i 5S senza leader né strategia che perderebbero una pattuglia parlamentare sovradimensionata rispetto a sondaggi e le fughe. Forse non lo vuole nemmeno Salvini, anche se dovesse conquistare l'Emilia: magari gli basterà vedere gli sconquassi provocati negli sconfitti, perché se poi gli toccasse governare dovrebbe misurarsi lui con l'incubo della clausola di salvaguardia, un'altra ventina di miliardi da trovare. Vorrebbe evitarlo Mattarella perché sarebbero eletti 945 parlamentari mentre un referendum potrebbe dichiararne fuorilegge un terzo. Già, il referendum: il via libera della Cassazione ha reso più impervia la strada del voto anticipato. Certo, l'Italia del terzo millennio ci ha già riservato sorprese d'ogni genere, e in Emilia può succedere di tutto. Però il dato di fondo resta: si chiude una stagione che vedeva sulla scena tre protagonisti, e se ne apre una - come dire? - del bipolarismo imperfetto. La destra di Salvini contro l'indefinita alleanza Pd-M5S. Che chiama il Pd alla prova decisiva: che vinca o perda, è obbligato a cambiare. Una sconfitta suonerebbe come l'ultimo campanello d'allarme, dall'Emilia rossa, poi; ma una vittoria, per giunta non schiacciante, lascerebbe aperta la domanda di fondo: perché la Lega sfonda anche dove la sinistra ha governato (bene) per decenni? Intendiamoci, il partito di Zingaretti ha fatto un piccolo miracolo: ha tenuto la posizione nonostante le difficoltà; ha costretto i grillini alla resa dei conti; ha mandato Salvini all'opposizione; si è assunto la responsabilità di frenare il sovranismo parolaio, di riportare l'Italia in Europa e di garantire la vita di governo e maggioranza. E ora, con i 5S nel caos, dovrà continuare l'impresa. Ma anche se Bonaccini ce la farà, il Pd non dovrà smettere di cercare una risposta a molte domande: perché l'azione del partito si ferma al centro delle città e non sfonda nelle periferie? Perché sui temi più caldi - migrazione, sicurezza, droga - non trova risposte tali da frenare la corsa a destra? Perché appare, spesso a torto, il partito dei garantiti e non dei precari mentre è proprio della sinistra riformista tutelare i primi senza danneggiare, anzi aiutando, i secondi? Dovrà ripartire da qui. O il pericolo scongiurato si ripresenterebbe, e più grave di prima.

Pag 18 M5S e un declino inarrestabile tra inadeguatezza e scelte ideologiche di Renzo Guolo

Luigi di Maio lascia la guida dei Cinquestelle prima delle cruciali elezioni dell'Emilia- Romagna. Un voto che per il M5S sembra assumere i tratti della cronaca di una sconfitta annunciata. Esito che, unito alla probabile debacle calabra, non farebbe che certificare il progressivo smottamento elettorale e l'inarrestabile crisi di un soggetto politico che, al centro del sistema dopo le elezioni del 4 marzo, ha dimostrato una totale incapacità nello svolgere quel ruolo chiave. MoVimento vittima, oltre che dell'inadeguatezza del suo improvvisato ceto politico, della volontà di non essere "né di sinistra, né di destra" , in nome di un irrealistico post-modernismo spaziale. La crisi dei Cinquestelle passa di qui. Dal fingere che non ci siano soluzioni valorialmente orientate, ma solo problemi; dalla politica ridotta a tecnica amministrativa, peraltro politicizzata da un populismo demagogico che carica di ideologia qualsiasi risposta "tecnica". Tanto più deteriore nel momento in cui il M5S, che si proclamava suo scardinatore, si incista in tutte le pieghe del sistema. Ma anche in politica funziona il principio di realtà. Da qui le convulsioni del MoVimento, diviso tra quanti ritengono sia necessario decidere in quale campo stare e quanti, pur con accenti diversi, si cullano ancora nell'adolescenziale illusione che non si debba scegliere: nel tentativo di recuperare la "purezza" dell'essere "contro tutti" all'origine del "vaffismo" grillino. Fratture che hanno separato Di Maio non solo dai "campisti di sinistra" Grillo, Conte e Fico, ma anche dai "campisti di destra" , nostalgici della Lega e del populismo sovranista, come Di Battista e Paragone. Il famoso "fuoco amico" evocato da un "capo politico" , tanto presente nei media quanto poco in grado di controllare le spinte centrifughe innescate dai suoi. A mostrare la corda, però, non è solo il giovane leader, al quale si è, peraltro, affidato un ruolo di governo che esigerebbe altro profilo e esperienza, ma lo stesso modello organizzativo del partito che è tale ma non vuole esserlo. Un "capo politico" - già una simile espressione, con tutto ciò che storicamente evoca, avrebbe dovuto far suonare un campanello d'allarme, ma nessun dubbio simile può attecchire in un movimento senza storia, senza cultura politica, senza memoria, per di più nato sull'onda dello slogan "uno vale uno" - selezionato attraverso meccanismi che rinviano al plebiscitarismo, appunto, politico. Un modello organizzativo, che a partire dal ruolo dei fondatori e della piattaforma Rousseau, appare quanto di più verticistico ci sia e disfunzionale nel gestire fasi in cui servirebbero discussione vere e meccanismi di consultazione meno orientati. L'approdo a una guida formalmente più collegiale, anche se dalla denominazione fantasiosa, è l'inevitabile sigillo al fallimento di quel modello. È andata come doveva andare, anche se ormai sembra troppo tardi.

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