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MERRY CHRISTMAS

MERRY CHRISTMAS

Il primo riff del mio primo concerto nel lontano 1983 era un potentissimo “LA/SOL/FA” con ritorno di “FA/SOL/LA”.

Questi erano gli accordi di una canzone che potrebbe suonare chiunque e che con la mia band (ebbene sì, anche io ho militato in una Cover-Band; n.d.a.) potevamo permetterci, senza grosse difficoltà, di proporre ad un pubblico di amici, conoscenti e soprattutto parenti.

Ricordo che era un sabato sera di inizio inverno e la location l’oratorio “prestato” per il grande evento parrocchiale: il Rock Concert dei Casual Connection Crew (questo il nome creato da Gigi, il bassista dell’allora quartetto rock; alle tastiere Alex, alla batteria mio fratello Alberto e, ahimè alla voce e alla chitarra – perfetta imitazione di una Fender Stratocaster – il sottoscritto).

Il prete si raccomandò di non esagerare con il baccano e di terminare lo show entro le ore 22.00, evidentemente non andò così! Don Antonio era un amante del Rock Sudista e, per rabbonirlo, mentivamo spudoratamente circa la scaletta proposta: Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, The Marshall Tucker Band (sicuramente buon rock ma nulla a che vedere con quel che avevamo in realtà in mente! N.d.a.).

Quando don Antonio si trovò di fronte al “muro del suono” di “God Save The Queen dei Sex Pistols, Live Wire degli AC/DC, Smoke On The Water dei Deep Purple, I Can’t Explain degli Who e Chasing Shadows degli Uriah Heep iniziò a sbracciarsi dall’ultima fila minacciando inizialmente di staccare la spina dell’impianto voci e arrivando infine a garantire la scomunica per tutti i componenti dei “Casual Connection Crew”.

Gli accordi citati con cui aprimmo il primo memorabile live, erano quelli di “I Just Want to Have Something to Do” dell’ “Road To Ruin” dei mitici RAMONES!

Gruppo cui sono grato per avermi permesso di lasciare le lezioni classiche di pianoforte e avermi scaraventato di getto sui generi che amo fin dall’infanzia tra tutti l’Hard Rock.

Quartetto newyorkese formatosi nel 1974, i RAMONES hanno anticipato di qualche anno la “nascita ufficiale” del movimento punk inglese ispirando alcuni gruppi d’oltreoceano come Clash, Sex Pistols, Damned e influenzato molto anche band USA come The Germs, The Dead Kennedys e Bad Religion. Look accattivante ed identico per tutti: giubbotti di pelle nera, jeans stracciati, t-shirt e scarpe da ginnastica.

I componenti originari (purtroppo tutti deceduti; n.d.a.) scelsero tutti il cognome d’arte “Ramone” per dare maggior compattezza alla band: Joey Ramone (1951- †2001) (Jeffrey Ross Hyman) – voce, Johnny Ramone (1948-†2004) (John Cummings) – chitarra, Dee Dee Ramone (1951-†2002) (Douglas Glenn Colvin) – basso e voce d’accompagnamento e Tommy Ramone (1952-†2014) (Tamás Erdélyi) – batteria.

La dimostrazione dell’influenza musicale dei RAMONES sta nel fatto che band di calibro internazionale, hanno inserito (Motörhead) ed inseriscono a tutt’oggi (Pearl Jam, ) le loro cover nei rispettivi live.

Con questo breve ricordo volevo fare gli auguri di Natale a tutti i lettori della nostra rubrica MUSIC di BetaPress.it e lasciarvi con un: “Merry Christmas (I Don’t Want To Fight Tonight)”!!!

PERTH

PAYABLE ON DEATH

PAYABLE ON DEATH

Ho amato i P.O.D. sin dal primo accordo di “Set it Off” prima traccia di Satellite, quarto album (2001) della band di San Diego al cui interno trova posto “”, traccia diventata una vera e propria hit planetaria.

La formazione è composta da Paul “Sonny” Sandoval al microfono, alla chitarra (sostituito tra il 2003 ed il 2006 da ), Mark “Traa” Daniels al basso e Noah “Wuv” Bernardo alla batteria.

Perché oggi vi parlo dei P.O.D.? Perché me l’ha chiesto mia figlia Sara che adora una song dell’album della band Californiana e cioè “Beautiful” (tra l’altro suoneria della mia sveglia quotidiana nel iPhone; n.d.a.).

“Beautiful” parla della “Bellezza” che vince la solitudine e le avversità ed è curiosa nel video della canzone, la figura di Slender Man (creata da una leggenda metropolitana americana che lo dipingeva come rapitore e assassino di bambini; n.d.a.) che invece diventa amico e alleato del ragazzo protagonista, gli fa compagnia quando è solo e lo difende dai soprusi della baby-gang del quartiere.

P.O.D. è l’acronimo di «Payable On Death» che indica un tipo di conto corrente che alla morte dell’intestatario prevede la donazione in beneficenza della somma contenuta. In realtà l’espressione «Payable On Death» si riferisce anche alla crocifissione di Gesù Cristo, che secondo la fede cristiana si è sacrificato per “lavare “i peccati dell’umanità.

Inconfutabile la discendenza diretta del quartetto Californiano dai Run DMC/Aerosmith e Public Enemy/Anthrax, chiare in tutta la discografia le inclusioni di strofe hip-hop innestate in strutture musicali fatte di riff duri ed una metrica vicina al funk caratterizzata da frequenti stop & go.

Durissimi (musicalmente! N.d.a.) paladini della “rivoluzione positiva”, i P.O.D. hanno avuto la lucidità di sperimentare con coraggio e determinazione nuove strade in ogni lavoro prodotto, raggiungendo una maturità compositiva difficilmente riscontrabili nel genere cosiddetto “numetal” (il lettore abituale sa quel che il sottoscritto pensa delle categorie Metal e dei suoi sottogeneri, vedi “METAL? IT’S ONLY ROCK’N’ROLL” del 29 novembre 2016; n.d.a.).

Infatti a differenza delle band che hanno solcato le scene dei fine anni ’90 e primi anni Zero, si ricordino tra tutti Limp Bizkit, , System Of A Down, Ill Niňo, Coal Chamber, Sevendust, Soulflye, Incubus, Deftones, Godsmack e Slipknot, i P.O.D. hanno avuto il coraggio di mostrare apertamente la propria intimità, i propri traumi, il proprio passato e la propria fede!

“Abortion is Murder” e “Who Is Right?” del primo lavoro Snuff Punk, “Follow me” di The Fundamental Elements of Southtown, lo splendido inno alla vita di “Alive” e la già citata “Youth of the Nation” di Satellite, “It Can’t Rain Everyday” una delle loro più belle ballate tratte da When Angels & Serpents Dance, “Lost in Forever” e “Beautiful” di Murdered Love sono solo alcune delle canzoni che hanno reso immortali i P.O.D. fino ad arrivare al 2015 con la pubblicazione, a mio avviso, di un vero e proprio capolavoro The Awakening.

The Awakening è un Concept-Album incentrato sulla storia di un protagonista, Tim, del quale ripercorre le gesta ed esplora le conseguenze delle sue decisioni, intervallando ogni canzone con delle parti recitate: “Somebody’s Trying to Kill Me” e “This Goes Out of You” assolutamente i pezzi da ascoltare.

In ogni brano sono evidenti il gusto della vita, la ribellione alle influenze negative e la fede!

«Non saliamo sul palco per offrire sermoni», ha spiegato il cantante della formazione di San Diego “Sonny” Sandoval, «non vogliamo forzare il pubblico, cantiamo solo della nostra vita».

Le lyrics dei P.O.D. infatti, non sono mai imbevute fino al midollo di una fede fervente o di esortazioni a seguire la religione cristiana, invitano piuttosto ad una compagnia, esaltando un messaggio di speranza, di amore e di misericordia. Personalmente non sopporto le ostentazioni della fede cattolica, il limite di tanta arte cristiana contemporanea è purtroppo quello di essere troppo didascalica, cioè di preoccuparsi eccessivamente di trasmettere insegnamenti perdendo la dimensione della realtà.

I P.O.D. parlano attraverso la bellezza e coinvolgono emotivamente, con la massima libertà creativa ed il coraggio della sincerità. “Sonny”, Marcos, “Traa” e “Wuv” vivendo da credenti ci fanno capire che la fede non deve essere pura didattica ma deve trasparire nell’ opera.

Un giorno un caro amico mi scrisse: “E’ se opera!” https://www.youtube.com/watch?v=Wquq4DTbC9E

PERTH

“THEY HUNG HIM ON A CROSS”

“THEY HUNG HIM ON A CROSS” Una delle frasi più rappresentative di Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883 – Kierling, 3 giugno 1924) grande scrittore praghese di lingua tedesca, una delle maggiori figure della letteratura del XX secolo ed importante esponente del modernismo è stata: «C’è una meta, ma non una via». Premetto che non amo Kafka, lo ritengo pedante nella scrittura ed assolutamente poco avvincente dal punto di vista del pensiero.

La frase in questione è di un cinismo disarmante, la disperazione nichilista, se non esiste alcuna «via», è l’unica cosa che rimane, la «meta» diventa infatti un ideale utopico ed irraggiungibile.

Molti poeti, scrittori, artisti e musicisti hanno avvalorato la frase di Kafka fino a giungere all’atto estremo, Kurt Cobain, leader dei Nirvana, è uno di questi.

L’8 aprile 1994, il suo corpo privo di vita viene trovato nella sua casa di Seattle con accanto un fucile ed una lettera scritta di getto in cui si rivolge all’amico immaginario della sua infanzia, “Boddah”, confessandogli la sua disperazione.

Un testo drammatico, che cita il Neil Young di “My My, Hey Hey (Out Of The Blue)” – “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.

Riporto qui di seguito alcuni stralci: «A Boddah. (…) Non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. (…). Il fatto è che non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. (…). Sono troppo sensibile. Ho bisogno di stordirmi per ritrovare quell’entusiasmo che avevo da bambino. (…). C’è del buono in ognuno di noi e credo di amare troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile, ingrato, pezzo dell’uomo Gesù! Perché non ti diverti e basta? Non lo so. (…). Non posso sopportare l’idea che Frances (sua figlia avuta dalla moglie Courtney Love, Leader delle Hole; n.d.a.) diventi una miserabile, autodistruttiva rocker come me. Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono grato, ma è dall’età di sette anni che sono avverso al genere umano. Solo perché a tutti sembra così tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco (…), non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. Ti prego Courtney tieni duro, per Frances. Per la sua vita, che sarà molto più felice senza di me. VI AMO. VI AMO.»

Struggente!

Quando la lessi in quel lontano 1994 piansi.

Chi segue la nostra rubrica “MUSIC” sa quanto è caro a chi vi scrive il leader dei Nirvana e le mie lacrime erano lacrime più di rabbia che di dolore.

Anche Kurt pensai non è riuscito a trovare la «via» eppure quella ricerca di «qualcosa» che rispondesse a tutte le domande esistenziali, Kurt l’aveva sfiorato, l’aveva intravisto e l’aveva voluto cantare.

Infatti tra le numerosissime cover realizzate sui brani di Leadbelly, (nome d’arte di Huddie William Ledbetter – Mooringsport, 23 gennaio 1885 – New York, 6 dicembre 1949, grandissimo cantante e chitarrista statunitense che invito ad ascoltare; n.d.a.), la più sorprendente è quella di “They hung him on a cross”, dei Nirvana, contenuta nel box-set “With the Lights Out”.

Kurt fu profondamente attratto dall’ascolto dell’album del folksinger americano (Lead Belly’s Last Sessions). Membri dei “Nirvana” e degli “Screaming Trees”, riuniti nel progetto denominato “The Jury”, registrarono nel 1989 la cover di quattro canzoni di quell’album: “Where did you sleep last night?”, una versione strumentale di “Grey goose”, “Ain’t it a shame” e “They hung him on a cross”, che Cobain volle senza remore interpretare da solo.

“Lo hanno appeso a una croce” (“They hung him on a cross”) Lo hanno appeso a una croce PER ME/ Un giorno, quando ero perso/ Lo hanno appeso a una croce/ Lo hanno appeso su una croce PER ME/ Lo frustarono su per la collina/ Lo frustarono su per la collina/ Lo frustarono su per la collina PER ME/ Non disse loro una parola/ Non disse loro una parola/ Non disse loro una parola, PER ME/ Lo ferirono nel fianco/ Lo ferirono nel fianco/ Lo ferirono nel fianco, PER ME/ Sollevò la testa e morì/ Sollevò la testa e morì/ Sollevò la testa e morì, PER ME// PER ME!

Kurt non ha creduto fino in fondo che il mistero potesse bussare alla sua porta.

In tutta la sua vita ha cercato questa «via» e, seppur toccandola in modo evidente in alcuni dei suoi brani, non ha mai creduto seriamente potesse essere «PER LUI»! Ha visto un Dio che si è avvicinato al suo cuore ma che subito è scivolato via, un’intuizione (“sollevò la testa e morì, per me”) senza una «carne», un Dio che presto è divenuto immaginario… riconosciuto come «meta» ma staccato dalla «via».

Il suicidio di Kurt Cobain è stata la fuga consapevole dall’insanabile disperazione, il gesto finale di una ricerca della «via» non trovata, la perfetta raffigurazione della frase di Kafka.

Ma Kafka non ha mai fatto i conti veramente con un Fatto accaduto: Dio («la meta») non si può conoscere! Ma «la via»… “Chi viene frustato (PER ME)”, “Chi viene ferito ad un fianco (PER ME)”, “Chi viene appeso alla croce (PER ME)” e “Chi solleva la testa e poi muore…PER ME”… oh quella sì che si può conoscere!

PERTH METAL? IT’S ONLY ROCK’N’ROLL!

METAL? IT’S ONLY ROCK’N’ROLL! Un caro amico “metallaro” mi ha chiesto se io “etichetto” i generi musicali, gli ho prontamente risposto di no.

Ma senza “etichette” come facciamo ad orientarci nel mondo del Rock? Questa è una domanda cui ho promesso di rispondere, dando la mia personale interpretazione.

Ho provocato il giovane amico dicendogli: “se hai bisogno di etichettare la musica vuol dire che non la comprendi fino in fondo! Vuol dire che non comprendi quel che gli artisti vogliono dire con le loro song, vuol dire che non permetti loro di sperimentare”!

Mi ha prontamente sciorinato dieci sottogeneri del metal senza pensarci… dal black-metal al gothic-metal al progressive-metal etc…

Ogni rock-fan pensa di sapere che cosa sia ’heavy-metall ma definirlo come genere musicale è quasi impossibile.

Tutti concordano sul fatto che sia molto “loud” (pesante e rumoroso) e basato quasi completamente sulle chitarre ma oltre a questo non ci sono due persone che siano d’accordo su altre definizioni… forse è per questo che c’è bisogno di categorizzare e sotto categorizzare?

Il termine “heavy-metal” fu usato per descrivere uno stile di pop-music per la prima volta da Lester Bangs sulla rivista Creem.

Pare che fosse ispirato da “Born To Be Wild” degli Steppenwolf, che contiene la frase “heavy metal thunder”. L’etimologia del termine “heavy-metal” è più incerta.

La maggior parte delle fonti (ad es. L’Enciclopedia del Rock & Roll del Magazine ) riporta William Burroughs come inventore del termine nel suo romanzo <> (William Seward Burroughs – Saint Louis, 5 febbraio 1914 – Lawrence, 2 agosto 1997 – è stato uno scrittore, saggista e pittore statunitense, vicino al movimento della Beat Generation.

Considerato uno degli artisti più importanti e innovativi del ventesimo secolo, ha collaborato con numerosi musicisti e performer; n.d.a.), anche gli scienziati usano lo stesso termine per indicare alcuni isotopi radioattivi… sta di fatto che una cosa non è mai cambiata: quasi nessuno (tranne Rob Halford dei Judas Priest e pochissimi altri) vuole che la sua musica sia chiamata “heavy-metal”.

Rispondendo al mio giovane amico “metallaro” dico che bisogna liberarci dagli stereotipi che una certa critica musicale continua ad imporre.

Scovando varie interviste, sul tema in questione farò rispondere alcuni dei “diretti interessati”.

Angus Young (Lead Guitar degli AC/DC): “Noi ci consideriamo una rock and roll band, e crediamo di essere abbastanza unici nel nostro genere (assolutamente vero! N.d.a.). Chiameresti i Rolling Sotnes o gli Who una heavy-metal band? Noi non vogliamo avere un’etichetta del genere appiccicata addosso né vogliamo essere accomunati ad altre 100 bands che non hanno nulla a che vedere con noi! Questa storia delle etichette è veramente ridicola. Nel ’76 i critici ci definirono Punk, poi arrivarono i Sex Pistols e si accorsero che i Punk erano loro poi ci definirono power pop…ogni settimana da allora ci hanno etichettato con un genere diverso… noi siamo gli AC/DC”!

Eric Bloom (Blue Oyster Cult): “Io non penso a noi come ad un gruppo heavy- metal… forse l’unico gruppo haevy-metal nella storia (unico!) sono i Black Sabbath con la loro linearità nei contenuti dei loro testi e nelle strutture degli accordi. Non si alleggeriscono mai, mentre io penso che ci alleggeriamo.”

Robert Plant (Led Zeppelin): “No non siamo una band heavy-metal, il primo album dei Led Zeppelin con <>, <> e <> era tutto tranne che heavy… era etereo”.

Edward Van Halen (Van Halen): “No, io il sound dei VH lo chiamo rock’n’roll, forse, se esiste davvero, l’heavy-metal è da scovare in qualche riff dei Judas Priest”. Bruce Dickinson (Iron Maiden): “Qual è il tuo punto di vista? Io non chiamerei gli UFO una band heavy-metal, forse gli Human League lo sono, se sei un fan dei Motörhead allora gli UFO non sono heavy-metal. Se io dicessi che noi siamo heavy metal, non farebbe molta differenza per il modo in cui suoniamo. E’ una categoria del c****!”

Ted Nugent: “Io non considero la mia musica heavy-metal, sono stato svezzato con il rock’n’roll, ho ascoltato Chuck Berry, Lonnie Mack e Duane Eddy and The Ventures, quindi essere chiamato in modo diverso da rock’n’roll non mi va bene, capito?”

Potrei andare avanti all’infinito ma sta di fatto che… IT’S ONLY ROCK’N’ROLL!!! PERTH

UN TESTIMONE DELLA SPERANZA: FERENC FRICSAY

UN TESTIMONE DELLA SPERANZA: FERENC FRICSAY Alcuni lettori stimolati dall’articolo “Play With Perth: Feel the Music”, pubblicato il 06 novembre nella nostra rubrica Music, mi hanno scritto chiedendomi di dare maggior spazio alla musica classica.

Prontamente rispondo dalle “Onde on-line” di BetaPress.it.

Alcuni anni fa mi è capitato di guardare un video straordinario: la registrazione delle prove della “Moldava” di Bedřich Smetana (Litomyšl, 2 marzo 1824 – Praga, 12 maggio 1884), effettuata il 14 giugno 1960 da Ferenc Fricsay (Budapest, 9 agosto 1914 – Basilea, 20 febbraio 1963), grandissimo direttore d’orchestra ungherese naturalizzato austriaco.

Un filmato davvero toccante ed illuminante riguardo alle capacità e sensibilità del direttore ungherese e alla sua “irriducibile volontà di vivere”, insomma una vera e propria esperienza che voglio proporvi!

Per chi non conosce il poema sinfonico: “la Moldava” di Smetana premetto che è il più celebre dei sei poemi sinfonici del ciclo “La mia patria” (“Ma Vlast”), scritto tra il 1874 e il 1879 e dedicato dal compositore boemo alla sua patria. L’opera descrive perfettamente l’amore e la devozione del popolo ceco alla propria patria.

Dalla nascita sino alla foce, il corso del fiume è descritto quasi con un carattere simbolico, sempre con intento evocativo e nobilmente celebrativo: esso diviene una sorta di luogo sacro, il luogo centrale della storia di una terra dove da millenni scorre ora impetuoso, ora maestosamente lento e silenzioso.

Smetana segue il corso del fiume boemo dalle sue sorgenti nei boschi della Boemia fino alla “dorata” Praga. Le due sorgenti, la calda e la fredda, si uniscono e il corso del fiume è descritto tra valli e foreste dove gli abitanti lo celebrano allegramente. Il tema principale tanto orecchiabile è derivato da un’antichissima melodia europea di viandanti.

Fricsay che fu chiamato a dirigere la Südfunk Sinfonieorchester “l’orchestra sinfonica della radio di Stoccarda” era allora molto malato (sarebbe morto pochi anni dopo; n.d.a.), aveva subito più operazioni e non era proprio, come si suole dire, “in forma” per la registrazione, avrebbe infatti voluto sospendere le prove, ma per poco più di un’ora trovò la forza di condurre l’orchestra.

Ho assistito ad uno spettacolo toccante in cui Fricsay, per ottenere la giusta interpretazione, esponeva con grandissima passione agli orchestrali (tutti professori d’orchestra! N.d.a.) il significato che la Moldava aveva per lui (visibile nel video la gioia dei professori; n.d.a.).

La sua inesauribile voglia di vivere e l’infuocato amore per la musica avevano suscitato in me una tale commozione da arrivare a versare qualche lacrima.

Mi è piaciuta la sua testimonianza di positività e di speranza pur dentro il dolore fisico della malattia.

Evidente la passione, la finezza e la precisione con cui ha condotto gli orchestrali a comprendere l’intimo della musica di Smetana, musica che, raccontando la nascita e lo scorrere di un fiume, ho capito essere la figura del fluire della vita stessa.

Da brividi quando, all’inizio del quinto spezzone, il direttore (conscio di essere nel momento più buio della sua esistenza), si ferma e, per spiegare un passaggio orchestrale ai musicisti, dice: «Perché è veramente bello vivere!».

Una grande testimonianza di un uomo che vi esorto a seguire! Buona visione ed… ascolto!

PERTH

Scott Weiland: semplicemente Scott!

Scott Weiland: semplicemente Scott! Trovato senza vita in uno sperduto paesino del Minnesota mentre era in tour con la sua band i Wildabouts, a quasi un anno dalla scomparsa (3 dicembre dello scorso anno; n.d.a.), voglio ricordare una delle più grandi voci del Hard Rock (Grunge, Post Grunge, Alternative sono solo convenzioni sterili; n.d.a.): Scott Weiland.

Superfluo precisarlo… sì!

Sono uno sfegatato fan di Scott dai tempi di “Plush” che nel 1994 regalò a lui ed ai suoi Stone Temple Pilots il Grammy Award (uno dei premi più importanti degli Stati Uniti, per i risultati conseguiti nel settore della musica, generalmente considerato come l’equivalente dei premi Oscar nel mondo del cinema; n.d.a.).

Essendo all’epoca follemente innamorato del quadrinomio “batteria basso- chitarra-voce”, il fermento musicale di Seattle, Los Angeles e San Diego di quegli anni produceva in me un’eccitazione pressoché giornaliera.

Infatti erano molti i Gruppi che di colpo emergevano dal substrato dei locali e dei festival semisconosciuti, portando a galla di colpo dei veri capolavori di autentico Hard Rock. L’inseparabile walkman suonava “a nastro” le mitiche cassette TDK con registrate le tracce di “Core”, primo ed inimitabile album degli STP (per chi ha vissuto solo l’era del mp3 preciso che “a nastro” non è un eufemismo essendo il “walkman” un supporto fonografico a nastro magnetico; n.d.a.).

Gli Stone Temple Pilots nascono a San Diego, all’estremo sud della California, sul finire degli anni ’80, i fratelli Dean e Robert DeLeo (di origine italiana) rispettivamente alla chitarra e basso, Eric Kretz alla batteria e appunto Scott alla voce. Non citerò nessuna delle Band che a partire da quegli anni hanno fatto da vitale contorno agli STP ed hanno segnato la mia storia, avremo largo modo di parlarne in futuro proprio in questa rubrica, tengo a precisare però che Scott & Co. sono stati motivo di personale riflessione in merito alla novità stilistica delle loro composizioni.

Talento visionario ed eclettico, amato ed odiato dai fans che non sono riusciti a comprenderlo fino in fondo negli straordinari cambiamenti di rotta della sua carriera, è stato un sublime songwriter ed una delle voci tra le più cangianti e versatili del rock contemporaneo in grado di sussurrare dolcemente ed in un lampo passare alle urla più laceranti.

Basti ascoltare capolavori come “Creep”, “Interstate Love Song”, “Hollywood Bitch”, “Bi-Polar Bear” (emblematica! N.d.a.) e la già citata “Plush” per rendersi immediatamente conto del talento innato di Scott.

Scott è stato un personaggio controverso, gli atteggiamenti autodistruttivi sono stati forse il vero problema, era affetto da una grave forma di disturbo bipolare (sindrome di interesse psichiatrico caratterizzato da un alternarsi tra stati emotivi diversi, da eccitazione a depressione; n.d.a.), fortemente dipendente da sostanze stupefacenti, soprattutto cocaina ed eroina ma un talento indiscutibile!

Sebbene impegnato in estenuanti tour con le Band di cui è stato il leader (STP, Velvet Revolver, Wildabouts) e costretto (dagli amici degli STP; n.d.a.) a frequenti ricoveri in cliniche di disintossicazione, Scott è riuscito a fare a sprazzi anche il marito (Janina Castenada, Mary Forsberg e Jamie Wachtel sono state le coniugi; n.d.a.) ed il padre di due splendidi bimbi (Lucy Olivia – oggi 14 anni e Noah Mercer – 16 anni; n.d.a.) avuti dalla seconda moglie la modella statunitense Mary Forsberg.

Proprio su Mary vorrei soffermarmi. Il 9 dicembre 2015 a pochi giorni dalla morte di Scott l’ex moglie e modella scrive una lettera aperta al magazine Rolling Stone che ad una prima lettura ho giudicato un affronto alla memoria del mio… eh sì idolo! Ve ne riporto alcuni stralci: “Il 3 dicembre 2015 non è il giorno in cui è morto Scott Weiland. È il giorno ufficiale in cui il pubblico lo piangerà, ed è stato l’ultimo giorno in cui è stato messo davanti a un microfono per i benefici economici o il divertimento di altri. Il fiume di condoglianze e preghiere offerte ai nostri figli, Noah e Lucy, è stato travolgente, apprezzato e anche di conforto.

Ma la verità è, come per molti altri bambini, che loro hanno perso il loro papà anni fa […]. Non vogliamo svilire il formidabile talento di Scott, la sua presenza o la sua abilità di accendere qualsiasi palco con il suo sfavillante entusiasmo. Molte persone sono state così gentili da lodare il suo talento.

Ma, a un certo punto, c’è bisogno che qualcuno si alzi e sottolinei che certo, questo accadrà ancora perché siamo noi intesi come società a incoraggiarlo.

Leggiamo critiche di concerti orrendi, vediamo video con artisti che cadono letteralmente a terra, incapaci di ricordare i loro testi anche se scorrono su un gobbo elettronico a pochi metri di distanza.

E quindi clicchiamo su ‘aggiungi al carrello’ perché ciò che in realtà è roba da ospedale in genere viene considerata arte”.

E continua: “In realtà, ciò di cui non volete rendervi conto è che si trattava di un paranoico che non era in grado di ricordare le sue canzoni e che è stato fotografato con i suoi figli pochissime volte in 15 anni di paternità.

Ho sempre voluto condividere più di quanto gli altri fossero disposti ad ascoltare.

Quando ho scritto un libro, anni fa, ho sofferto a glissare su questo dolore e su questi sacrifici, ma l’ho fatto perché pensavo fosse la cosa migliore per Noah e Lucy.

Sapevo che un giorno avrebbero visto e provato tutto ciò da cui avevo cercato di proteggerli, e che sarebbero stati così coraggiosi da dire: ‘Quel disastro è stato nostro padre. Lo abbiamo amato, ma un profondo mix di amore e delusione ha caratterizzato la maggior parte del nostro rapporto con lui’ […]”.

Il resto è un monito ai “padri assenti”, un’accusa al mondo “maledetto” del Rock ed altre ridondanti baggianate, uno sfogo di una moglie e madre che vomita al pubblico la sua drammatica vicenda.

Ritengo che perdere un padre per overdose debba essere per un figlio uno di quei dolori da portare alla pazzia (figuriamoci il contrario!), ma di primo acchito ho pensato che la lettera fosse una speculazione dell’ex signora Weiland (il divorzio è stato nel 2004; n.d.a.)!

Mary Forsberg, ex moglie, ex tossica e pure ex malata psichiatrica (mi sono informato; n.d.a.) avrebbe fatto meglio a non scrivere pubblicamente e a risparmiarmi una lezioncina che sa molto di protagonismo! Ed in merito al coinvolgimento dei figli?

Sono arciconvinto che un figlio amerà sempre il suo papà! Anche il papà più “sbagliato” del mondo (come peraltro Scott ha confessato di essere alla stessa ex moglie; n.d.a.), e allora perché testimoniare pubblicamente il suo “dolore” rimproverando l’ex marito dopo la sua tragica scomparsa usando i figli per andare sui giornali?

E soprattutto perché far dire a due ragazzini “…quel disastro era nostro padre?” coinvolgendoli in una cosa più grande di loro?

Ho riletto la sua lettera tre o quattro volte e alla fine ho “salvato” la signora Forsberg pensando che il suo gesto non fosse nient’altro che un grido! Un grido di dolore! Ho voluto credere all’amore tra lei e Scott, ho voluto credere a quel che poteva essere per lei la felicità con Scott ma che non potrà essere più!

Molti amici tra cui Dave Navarro, storico chitarrista dei Jane’s Addiction, Nikki Sixx dei Mötley Crüe, Alice Cooper, dei , Zach Meyers degli Shinedown, Dave Kushner e Duff McKagan dei Velvet Revolver hanno gridato anche loro (a loro modo! N.d.a.) la perdita di Scott ma quel che più mi ha commosso sono le parole di estremo saluto di coloro i quali gli hanno fatto maggior compagnia nella sua vita e cioè gli amici di sempre (come riconosciuto più volte dallo stesso Scott; n.d.a.) Dean, Robert ed Eric… gli Stone Temple Pilots: “Caro Scott, lasciaci iniziare ringraziandoti per aver condiviso la tua vita con noi. Insieme abbiamo creato una eredità musicale che ha dato a tantissime persone sia felicità che bei ricordi. I nostri ricordi sono tanti, e molto profondi. Noi sappiamo che nei momenti buoni e in quelli cattivi, tu hai sempre lottato, ancora e ancora. E’ ciò che ti ha reso quel che eri. Le parole non possono esprimere quanto eri dotato, Scott. Parte di quel tuo dono era anche parte della tua maledizione. Con grande tristezza per te e per la tua famiglia, ci spiace molto vederti andare. Con tutto il nostro amore e rispetto, ci mancherai, Fratello.”

Scott non ce l’ha fatta a fare il bravo padre, il bravo marito, il brav’uomo, Scott non ce l’ha fatta a vincere i suoi demoni qui giù da noi ma certamente ora sta calcando i palchi del cielo tra gli angeli assieme a Kurt (Cobain) e Layne (Staley)!

PERTH

PLAY WITH PERTH: FEEL THE MUSIC

PLAY WITH PERTH: FEEL THE MUSIC Non ho mai rinnegato, pur essendo follemente innamorato del Rock, i miei studi classici di pianoforte, non di rado a tutt’oggi ascolto della sana e autentica musica classica.

Ho analizzato varie volte spartiti di musicisti e compositori del passato e, così, quasi per scherzo, ho provato a fare delle analogie con alcuni dei maggiori testimoni della musica contemporanea. Premetto che lo spettro da analizzare è talmente amplio che non sarebbe pensabile poter trattare in modo esaustivo tutta la musica, gli artisti ed i compositori equiparando generi e sottogeneri che vanno dal Black Metal al Chemical Beat, dal Funky all’Industrial fino ad arrivare al Liscio.

Tralascio pure chiarimenti circa l’evoluzione della musica dal punto di vista tecnico (vi sono saggi che illustrano in modo eccellente i paradigmi del cambiamento della musica negli ultimi secoli; n.d.a.). Si tratta di un puro gioco, un passatempo che vi invito a provare, anche il lettore meno preparato infatti, potrà dilettarsi confrontando i propri beniamini contemporanei con artisti classici.

Premesso ciò, per quel che mi riguarda ho suggerito di sovente ad alcuni amici con cui condivido la passione per la musica Rock, un raffronto con la classica e, all’ascolto di melodie del XVII, XVIII e XIV secolo mi hanno risposto di tutto e di più ma, incrociando brani di alcuni interpreti e musicisti della scena Rock e Pop, ci siamo trovati tutti d’accordo.

Per inciso ho provato a comparare alcuni artisti Jazz e Blues che ascolto spesso ma non ho voluto addentrarmi troppo in paragoni dopo aver letto tempo fa una geniale frase di André Previn (Berlino, 6 aprile 1929, pianista, direttore d’orchestra e compositore tedesco naturalizzato statunitense, autore di colonne sonore cinematografiche e di musical, famosissima la colonna sonora di My Fair Lady; n.d.a): “La differenza fondamentale tra la musica classica e il jazz è che nella prima la musica è sempre più grande della sua esecuzione laddove il modo in cui il jazz viene eseguito è sempre più importante di ciò che viene suonato”.

Tornando al nostro gioco pensate a Wagner ed alla sua “Cavalcata delle Valchirie” sicuramente il paragone con “Enter Sandman” di James Hetfield dei Metallica è azzeccatissimo! Mozart poi potrebbe tranquillamente essere raffrontato con The Edge degli U2, Beethoven sicuramente con Eddie Vedder dei Pearl Jam, Béla Bartók con Andy Summers dei Police e Bedřich Smetana con Brian May dei Queen. Perfino alcuni artisti italiani a me molto cari si prestano al gioco ed infatti alcuni brani di Ghigo Renzulli dei Litfiba sono simili a composizioni di Bach, il mitico (non più fra noi; n.d.a.) Fabio Cappanera della Strana Officina somiglia a Brahms ed il sound dell’amico Omar Pedrini (Timoria) si rifà parecchio alle melodie di Schubert. Ho provato pure con musiche di Zucchero, Nek, Vasco Rossi, Biagio Antonacci, Laura Pausini, Ligabue, Eros Ramazzotti, Tiziano Ferro, Jovanotti, Max Pezzali ed altri “mostri sacri” della canzone(tta!) italiana e qualcosa è pure venuto fuori, soprattutto ascoltando Mina, Celentano e tutta la schiera dei cantautori da Dalla a De Gregori passando per Battisti (di cui ho un rispetto infinito; n.d.a.). Con stupore vi dico che il mio gioco ha mostrato un risultato semplice, un filo conduttore tra presente e passato: la tensione alla bellezza e la ricerca della felicità! Questo è il risultato del mio gioco!

Ah… a qualcuno potrà sembrare molto difficile trovare un paragone classico (Dvorak – Stone Temple Pilots? N.d.a.) in Band “estreme” come i Soundgarden, gli Alice in Chains, i Clash, o i Sex Pistols, ma perfino il “dolore del vivere” del Grunge o la “contestazione ribelle” del Punk hanno palesato in varie forme la tensione stilistica al bello ed una domanda di felicità. Caro lettore ti invito a cimentarti in questo semplice e divertente gioco.

Classica o Moderna: ascolta pure quel che vuoi ma ti auguro di poter scoprire anche una sola nota, un accordo, una melodia che contenga un accento di nostalgia della vera Bellezza che ha ispirato i veri Artisti!

PLAY WITH ME!

PERTH

IL GRANDE ZOO

Il Grande Zoo Ho avuto in anteprima il loro secondo album uscito lo scorso 20 ottobre regalatomi personalmente da Enrico Carugno, eclettico drummer della “lineup” patavina assieme ad Alex Boscaro (chitarra e voce) e Valerio Nalini (basso e voce). Stiamo parlando dei CAPOBRANCO (una tra le band più interessanti nel panorama musicale degli ultimi anni, n.d.a.) e del loro maxi-EP di 6 tracce, pubblicato da Jetglow Recordings e registrato allo Studio2 di Padova sotto la supervisione del producer Cristopher Bacco: “Il Grande Zoo”. La critica cosiddetta “specializzata” sicuramente potrà anche etichettare il nuovo lavoro dei Capobranco nelle forme più svariate avvicinandolo a dischi di colleghi più famosi. Niente di più sbagliato! Il disco è puro ed originale rock! “Il Rock è Fuori Moda” è il singolo che ha preceduto l’uscita dell’EP con uno splendido videoclip contenente un messaggio coraggioso e molto caro a chi vi scrive. Palpabile la sana ironia in merito a band “tribute” & “cover” che, in un Italia perseguitata dagli “scimmiottatori” di U2, Vasco, Liga e migliaia di altre band e/o cantanti famosi (famosi già abbastanza senza che qualcuno li copra di ridicolo; n.d.a.), rende giustizia a tutti quegli artisti che, con la loro musica, vogliono esprimere qualcosa di proprio.

Abbiamo raggiunto Enrico e gli abbiamo posto alcune domande: PERTH: Ciao Enrico, dal 2012 (anno di costituzione della band; n.d.a.) ad oggi quali sono state le tappe più importanti della vita dei Capobranco? ENRICO: Difficile dirlo in quanto, a mio parere, ogni evento che una band vive contribuisce alla sua formazione e crescita. Ovviamente per chi fa musica propria lo studio è il banco di prova più importante ed anche il più impietoso. Si entra in studio con molte idee ma quando si esce non è detto che si siano concretizzate tutte. Questo per noi è molto stimolante ma può essere anche molto frustrante. Per quanto riguarda i live citerei una nostra apertura ai Fratelli Calafuria uno dei nostri gruppi preferiti. Tra l’altro, visto che si sono sciolti da poco, abbiamo deciso di inserire in scaletta una loro cover… un tributo alla memoria! PERTH: Come mai un trio? ENRICO: E’ stata una cosa abbastanza naturale. Alex, Valerio ed io abbiamo fatto parte per anni di un altro progetto musicale (The Vintage; n.d.a.) con un quarto elemento alla voce e cantavamo in inglese. Il progetto ad un certo punto si è esaurito ma con Alex e Valerio abbiamo continuato a suonare insieme e a gettare le basi di quello che in futuro sarebbe diventato il Capobranco senza sentire il bisogno di coinvolgere altri elementi. E poi la formula del trio ha un qualcosa di romantico (Enrico ride!) che mi ricorda le grandi rock band degli anni ’70 come la Experience di Hendrix o i Cream (Baker, Bruce, Clapton; n.d.a.) o i Grand Funk Railroad di Kulick (ex Kiss; n.d.a.). PERTH: La produzione del vostro secondo lavoro sembra molto più matura rispetto al precedente disco d’esordio, quanto ha influito la collaborazione con il Producer Cristopher Bacco? ENRICO: Sicuramente molto, Cris è uno che in studio riesce a tirare fuori l’anima della band. Ma anche noi siamo più maturi. E non intendo come musicisti ma come band e come progetto. Individualmente noi tre venivamo da anni di esperienze live e studio, ma nel momento in cui abbiamo registrato il primo disco il Capobranco era ancora una creatura embrionale ed avevamo le idee non troppo chiare dettate da alcune nostre ingenuità. Oggi ci riteniamo soddisfatti del corpo che ha preso tale creatura. PERTH: Mi pare che abbiate un po’ ribaltato i tradizionali schemi di produzione inserendo le liriche “dritte-dritte” sul groove basso-batteria e sulle note taglienti della chitarra di Alex… ENRICO: Diciamo di sì per ciò che riguarda le produzioni esistenti in Italia. Negli Stati Uniti l’ascoltatore medio è più abituato a questo tipo di approccio ed è la norma seguire band molto più “estreme” come i RATM (Rage Against the Machine; n.d.a.), i Jane’s Addiction e gran parte del rock mainstream americano degli anni ’90 o generi come Hip Hop o R’n’B. PERTH: Il singolo appare quasi un tormentone con toni freschi, orecchiabili ma mai banali, anche questo è dovuto alla collaborazione con Bacco? ENRICO: La verità è che “Il Rock è Fuori Moda” è un pezzo scritto pochi giorni prima di entrare in studio ed è forse l’unico pezzo che non ha subìto alcuna modifica in fase di registrazione. Ovviamente Cris ci ha messo la sua arte nel fare in modo che suonasse come doveva suonare. Questo è fuori discussione. PERTH: Siete legati o vi ispirate ad un genere particolare? Come puoi descrivere il sound di questo album in rapporto al primo lavoro? ENRICO: Ognuno di noi ha le sue influenze musicali e che tu voglia o no queste influenze vengono fuori in quello che fai. Alex è sicuramente l’anima più R’n’R del Capobranco, Valerio è fortemente influenzato dall’ degli anni ’90: Jane’s Addiction, Red Hot Chili Peppers, Pearl Jam ecc. Io invece ascolto veramente di tutto, cerco di essere sempre aperto a nuovi generi ed ogni volta che posso, frequento musicisti molto più esperti e bravi di me per attingere idee dalla loro libreria e dalla loro cultura musicali. Credo che questo sia l’unico modo per tentare di essere originali. In questo periodo ascolto molto Jazz e Musica Africana ma ovviamente (Enrico mostra “I Love You” – simbolo dei Rockers – con la mano!) il Rock è il primo amore e non si scorda mai. PERTH: Avete una forte connotazione live, lo dimostrano le centinaia di date che vi hanno portato a suonare perfino alle Canarie. Avete già iniziato con la promozione de “Il Grande Zoo”? ENRICO: Si. Per quanto riguarda la promozione in questo mese stiamo facendo live ed interviste per le radio in attesa della prima presentazione ufficiale del disco che si terrà al Dakota a Capriccio di Vigonza (PD) il 30 ottobre, ne seguiranno altre a breve. PERTH: I testi sono molto ironici e scanzonati pur denotando un giudizio che non è facile trovare nelle band emergenti. È il vostro punto di vista sulla vita? ENRICO: Non direi punto di vista perché definendolo in questo modo potrebbe passare il messaggio che vogliamo esprimere un giudizio sulla vita e questa non è assolutamente nostra intenzione. Il Capobranco con i suoi pezzi osserva e propone agli ascoltatori argomenti che possono toccare chiunque. Argomenti un po’ provocatori ma senza malizia, anzi con simpatia, invitano alla riflessione. PERTH: La composizione dei testi spetta ad Alex? ENRICO: Il nostro paroliere ufficiale è Valerio. Di solito il concetto del testo viene deciso insieme ma chi mette le parole sulla musica alla fine è lui. PERTH: Ho visto uno dei Vostri live in provincia di Venezia lo scorso anno e non ho potuto fare a meno di notare che il vostro pubblico non perde tempo a fare selfie e video perché troppo impegnato a ballare e ad infiammarsi un bel po’. Cosa volete trasmettere ai fan che vi seguono nei live? ENRICO: Che si può essere spensierati senza per forza essere stupidi. Viviamo in un momento in cui (anche nella musica) bisogna per forza essere seri e fare gli intellettuali oppure darsi alla più sfrenata idiozia. Far capire ai ragazzi di oggi che tra “Il Teatro degli Orrori” (gruppo Alternative Rock italiano; n.d.a.) e “Fabio Rovazzi” (suo il tormentone “Andiamo a Comandare”; n.d.a.) esistono varie sfumature. Della serie: se non parlo di poeti africani non devo per forza passare direttamente ad essere l’italiano medio del film di “Maccio Capatonda” (“Italiano Medio” è un film comico del 2015 diretto, appunto da Maccio Capatonda al suo debutto cinematografico; n.d.a.), ma posso anche comunicare cose più semplici senza per questo dire cretinate. Questo è il messaggio credo: semplicità e divertimento! PERTH: Nella tracklist oltre al singolo già citato mi hanno colpito “La solitudine del fonico” e “Ad un tratto”, brani decisi e trascinanti ma forse meno orecchiabili rispetto a “Il Rock è Fuori Moda”… ENRICO: “La solitudine del fonico” è un tributo ad una figura senza la quale il nostro mondo non potrebbe esistere ma, che di fatto, per la maggior parte della gente “non addetta ai lavori” è una figura impalpabile se non inesistente. Il Capobranco voleva rivendicarne l’importanza e anche prendere per i fondelli un po’ di amici fonici. “Ad un tratto” nasce dai problemi che Valerio ha avuto sul lavoro a causa dei trattori che ogni giorno lo rallentano. Il pezzo è sicuramente uno dei miei preferiti e, dato l’argomento “agreste”, abbiamo cercato di aprire il pezzo ispirandoci ad un sound Southern/Country. PERTH: Siete alcuni tra i protagonisti degli “anni Zero”. A mio avviso questi ultimi 20 anni hanno visto una evidente desertificazione dell’arte musicale soprattutto in Italia. La creatività è rimasta sommersa all’interno dei generi, senza trovare la forza d’urto per uscirne testimonianza di ciò è che le Majors (Case Discografiche legate a multinazionali che detengono gran parte del mercato musicale mondiale; n.d.a.) anziché promuovere band emergenti tengono in vita cariatidi che arrivano sin dai lontani anni ‘80. Qual è secondo te la soluzione a questo vuoto spinto? ENRICO: Mah questa è una domanda difficile. Secondo me è un riflesso del fatto che oramai la musica ha perso di valore, viene data quasi per scontata e di conseguenza gli investimenti diminuiscono. Credo che il problema siano le persone non l’industria, lo spiega il fatto che i locali che propongono musica live si svuotano e la gente preferisce stare a casa ad ascoltarti con spotify. Le cariatidi di cui parli tu sono venute fuori in anni in cui le etichette affiancavano figure professionali ai musicisti e alle band per consentir loro di esprimere al massimo il potenziale. Ora c’è moltissima offerta e pochissima domanda di conseguenza questo meccanismo non è sostenibile. Io credo che il talento non sia mai scomparso dal mondo della musica, anzi! La vera differenza con i “big” del passato è che un tempo si suonava continuamente e si producevano molti dischi oggi suonare è il punto di arrivo di centinaia di attività che con la musica hanno poco a che fare. Di conseguenza: tanta comunicazione, tante chiacchiere, tanti social, pochissimi concerti! PERTH: La felicità! Ne parlate in modo sottile e pungente a volte con pure allusioni a volte con indicazioni più marcate e questo mi ha colpito molto. Cos’è per voi la felicità? ENRICO: Il giorno in cui lo capirò sarai la prima persona che chiamerò! PERTH: Grazie Enrico, puoi chiudere con un messaggio ai tuoi e vostri fan? ENRICO: Non importa quello che ti vogliono far credere…l’importante è essere…..BELLI DENTRO!

PERTH

Enrico Carugno, eclettico drummer della “lineup” patavina assieme ad Alex Boscaro (chitarra e voce) e Valerio Nalini (basso e voce). La profezia di Sant’ Ermanno

La profezia di Sant’ Ermanno Ho iniziato a segnare in agenda il 24 settembre dall’anno in cui, un caro amico mi “passò” un mp3 con registrata una conferenza tenuta dalProf Luigi Giovanni Giussani (Desio, 1922 – Milano, 2005) chiedendomi di ascoltarla con attenzione e, ridendo, mi disse che avrei scoperto alcune cose che mi avrebbero stupito.

Così feci.

Il giorno dopo infatti, in uno dei miei viaggi di lavoro, misi la “chiavetta” nell’USB dell’auto ed iniziai l’ascolto.

La lezione trattava la vita di un monaco vissuto nella prima metà dell’XI secolo (Altshausen, 1013 – Isola di Reichenau 1054) Ermanno di Reichenau detto “lo storpio” (Reichenau è una località sul lago di Costanza; n.d.a.).

Pensai: “e quindi”?

La vita pallosissima di un monaco vissuto oltre mille anni fa?

Il sonno non era poco ed avrei voluto spegnere ed ascoltare uno dei dischi che più mi tiene sveglio in auto, Time to Move degli H-Blockx, ma non commisi il grave errore!

Giussani nella sua lezione sul suddetto monaco citò Cyril Charles Martindale (Londra, 1879 – 1963; gesuita inglese che si appassionò alla storia del “monaco- mostriciattolo” dopo il ritrovamento a metà degli anni 50 del secolo scorso nella biblioteca di Oxford di un volume in latino che ne riferiva la vita; n.d.a.) e descrisse il personaggio con un’enfasi così coinvolgente che mi ero svegliato del tutto e pian piano stavo facendomi catturare da quella strana figura di grave handicappato (il suo palato e la sua lingua erano “incollati”, le sue mani rattrappite e non riusciva neanche a sedersi senza provare dolore persistente; n.d.a.).

Non stento a credere alle parole (“sante parole!”; n.d.a.) di Giussani nella sua prefazione: “…in un mondo pagano egli sarebbe stato, senza esitazione di sorta, lasciato morire all’atto stesso della nascita (…) non avrebbe mai dovuto nascere (…) un simile aborto avrebbe dovuto essere eliminato senza dolore”.

Un elemento della società impedito in tutto! Un elemento per la società inutile! Quasi imbarazzante! Da occultare!

Da… eliminare!

E invece? Questo essere deforme iniziò a costruire astrolabi, orologi, strumenti musicali a corda e a fiato, a scrivere trattati scientifici ma soprattutto comporre due capolavori di musica sacra: il Salve Regina e l’Alma Redemptoris Mater.

Handicappato? Rifiuto della società? Mi dissi: “Questo è veramente un figo!”

In Ermanno spiccavano un’umanità ricca, una sensibilità rigogliosa, un’eccezionalità attraente, la biografia raffigurava un uomopiacevole, “ amichevole, conversevole; sempre ridente; tollerante; gaio; sforzandosi in ogni occasione di essere galantuomo con tutti”.

La lezione stava diventando un avvincente audio-film e ad un tratto cominciò a salire lungo la schiena uno di quei brividi che capitano all’ascolto di toccanti melodie, alla vista di favolosi paesaggi autunnali o alla vibrazione che si prova quando stai incontrando (seppure in modo indiretto; n.d.a.) una persona grande!

Viva! Eccezionale!

Arrivò infatti il punto atteso e che il mio amico aveva ben compreso essere affascinante per me: “In quanto alla musica egli afferma che un buon musico dovrebbe essere capace di comporre un motivo passabile, o almeno di giudicarlo, e poi di cantarlo. In generale i cantori, egli dice, si curano del terzo punto soltanto, e non pensano mai.

Essi cantano, o, per meglio dire, si sgolano, senza rendersi conto che nessuno può cantar bene se la sua mente non è in armonia con la sua voce.

Per tali cantanti da strapazzo una voce forte è tutto ciò che conta.

Il che è peggio di ciò che fanno iciuchi i quali, dopotutto, fanno assai più rumore, ma non alterano mai un raglio con un muggito.

Nessuno tollera, egli dice, gli errori di grammatica; tuttavia le regole della grammatica sono artificiali mentre ‘la musica sgorga diritta dalla natura‘ e in essa non soltanto gli uomini non correggono gli errori che commettono, ma giungono fino al punto di sostenerli…”

I brividi lasciarono il posto ad una gioia incontenibile!

“Questo breve pezzo è profezia pura!” gridai.

Profezia di un piccolo essere deforme che (scusate!) disse questo più di mille (MILLE!!!) anni fa e (scusate nuovamente!) fu il compositore dello stupendo inno Salve Regina con quella sua caratteristica melodia in canto fermo che ancor oggi si canta in tutte le chiese cattoliche del mondo!

Magari i ciuchi… (oops!) i cantanti d’oggi studiassero a memoria le sue parole! Ci sarebbero più artisti e meno boy band made in Mediaset!

Un inciso.

Rileggendo l’inno del piccolo essere deforme mi venne in mente la canzone “They hung him on a cross” (“Lo hanno appeso ad una croce”; n.d.a.) cantata da Kurt Cobain (cover dall’album “Lead Belly’s Last Sessions” del folksinger americano Huddie William Ledbetter) e pensai che il dolore non significa infelicità, né il piacere felicità, pensai inoltre alla differenza tra la “bellezza gioiosa” di Ermanno e la “disperazione nichilista” del leader dei Nirvana.

Ma di questo ne parlerò un’altra volta.

PERTH

MAKE SOME NOISE

MAKE SOME NOISE Sono tornate le “margherite” di John Coraby.

“Make Some Noise”, il terzo album in studio, uscito il 05 agosto scorso (avevo prenotato l’album già ad aprile! n.d.a.) ha regalato al sottoscritto ed ai fans un capolavoro di puro Rock’n’Roll e soprattutto sancito il concetto cheThe Dead Daisies non sono un progetto parallelo!

Non sono una parentesi temporanea di un Supergruppo che cerca di arrotondare con un paio di album e relativi live il proprio patrimonio e quello dei promoters. No! The Dead Daisies sono una Hard Rock Band che sta trovando larghissimi consensi tra il pubblico soprattutto di giovanissimi e che ha girato il mondo non fermandosi mai (prossime date in Italia il 29 novembre a Milano, il 16 dicembre a Treviso ed il 17 dicembre a Grottammare; n.d.a.).

La ricetta dei The Dead Daisies è semplice: grandi show e grandissima potenza, Hard Rock genuino e carisma autentico! The Dead Daisies nascono nel 2012 cambiando formazione varie volte ma dal 2014 John Corabi (The Scream, Mötley Crüe, Union, Ratt, ESP) prende di peso la band e ne fa un combo esplosivo.

Rispetto ai primi due album (The Dead Daisies e Revolución), Make Some Noise ha lasciato più spazio alle chitarre e con l’avvento di Doug Aldrich (Lion, House Of Lords, Dio, Whitesnake) il risultato è stato quello di un sound ancor più potente.

Da un primo ascolto l’album risulta essere energico, intenso. Dieci capolavori che spaziano dall’Hard Blues al più granitico Hard Rock anni ’90 e due magnifiche cover (“Fortunate Son” dei Creedence Clearwater Revival e “Join Together” degli Who) rivisitate da Corabi & Co. in stile The Dead Daisies.

In “Long Way To Go” i riff di Aldrich e Lowy lasciano immediatamente spazio al groove di Mendoza che ad occhi chiusi pare quasi di sentire il martellante basso di Cliff Williams degli AC/DC.

La potente voce di John Corabi non è invecchiata di un giorno dai tempi di “Let It Scream” (primo album degli Scream del 1991; n.d.a.), assolutamente degno di nota il solo centrale di Aldrich.

La successiva “We All Fall Down” colpisce l’ascoltatore per i toni più melodici ed un bridge veramente moderno, Mendoza propone una linea di basso accattivante ed il muro iniziale e finale di chitarre, basso e batteria è da brividi.

“Song and Prayer”, una ballata energica è in linea con il brano precedente, ritmo classico e moderno sono mixati in modo magistrale, cori seducenti e bridge esplosivi rendono il pezzo una delle best song dell’album, grandioso anche questa volta il superbo solo di Aldrich.

La successiva “Mainline” dal ritmo serratissimo tende a ricordare il punk di “Dookie” dei Green Day, riff e soli velocissimi che farebbero moshare o pogare (mosh e pogo sono sorte di “balli collettivi” che si praticano abitualmente durante i concerti punk, rock e metal; n.d.a.) anche il più sfigato dei nerd.

La titletrack “Make Some Noise” è una dedica al Metal degli anni ’80 da parte di Corabi & Co. Sembra di ascoltare “Tooth and Nail” e “Breakin’ the Chains” dei Dokken (band a me molto cara avendovi militato tra il 2002 ed il 2003 il caro amico e grande chitarrista patavino Alex De Rosso).

Linee di chitarra semplici ma decise e la voce di Corabi all’unisono con il ritmo serrato di crash, timpani e tom della batteria di Tichy.

“Fortunate Son” dei Creedence Clearwater Revival ha una piega contemporanea e più veloce dell’originale in puro stile The Dead Daisies, voce roca, grinta e chitarra spinta al massimo.

“Last Time I Saw The Sun” è un autentico inno al Glam, omaggio agli Scream di Corabi e più in là agli Stryper dei fratelli Sweet, l’intro di Aldrich sembra avere il setup di Malcolm Young degli AC/DC in “Flick of The Switch”.

Con “Mine All Mine” e “How Does It Feel”, Corabi & Co. riescono ancora una volta a coniugare la maestria del Class Rock con l’irriverenza del compatto Hard Rock d’oltreoceano ed ancora una volta l’immenso Aldrich in due soli da brividi. “Freedom” è un’altra dedica al punk rock con choirs che ricordano molto Stanley-Simmons dei KISS di “Monster”, ancora straripante e sparato Rock’n’Roll!

La voce di John Corabi dà veramente il massimo in “All The Same”: pressante e adulatrice fino al ritornello, forse la canzone più ballabile (difficile restare fermi per l’intero album! N.d.a.).

“Join Together”, la seconda cover degli Who, chiude l’album ed è come se ci dicesse: “siete proprio sicuri che il Rock è morto?”. Un consiglio: ascoltate Make Some Noise con il volume “a palla”.

Mi ringrazierete! PERTH