‘Noi c’eravamo sempre. Peccato che nessuno se ne accorgesse’

L’inesperienza e la memoria degli anni Settanta dal punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano contemporaneo

Rachelle Gloudemans

In copertina: Daniele Luchetti, reg., Anni felici, Babe Film 2013, [00.34.01].

‘Noi c’eravamo sempre. Peccato che nessuno se ne accorgesse’: L’inesperienza e la memoria degli anni Settanta dal punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano contemporaneo

Rachelle Melanie Gloudemans numero di matricola: 10192042 Tesi di laurea in rMA Literary Studies [email protected] Relatrice: M.B. Urban Università di Amsterdam Correlatore: E.A. Baldi

1 luglio 2018 2

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Indice

Introduzione: gli anni Settanta fra memoria rimossa e iper-esposizione 6

1. Una non-storia degli anni Settanta: la memoria fra mediazione, inesperienza e infanzia 13 1.1. L’inesperienza fra narrazione pubblica e memoria privata 14 1.2. Il ritorno all’infanzia e l’io memoriale 24 1.3. Storia o non-storia: gli anni Settanta oltre il discorso collettivo 29

2. ‘L’innocenza rivoluzionaria’ dell’infanzia e il punto di vista del bambino 32 2.1. Vedere ed essere visti: ‘gli spettatori muti’ in Anni felici 34 2.2. Lo sguardo ostacolato del bambino in La prima cosa bella 39 2.3. Il bambino miope in La kryptonite nella borsa 44

3. Gli spazi per la ribellione: il bambino contro gli anni Settanta 51 3.1. I rapporti famigliari e il bambino diseredato 52 3.2. Il rifugio felice: gli anni Settanta fra non-luoghi e utopie 63

Conclusione 71

Bibliografia 77

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Introduzione: gli anni Settanta fra memoria rimossa e iper-esposizione

In Un paese senza (1980), Alberto Arbasino previde il carattere traumatico della memoria collettiva degli anni Settanta e la difficoltà di fare i conti con gli ‘anni di piombo.’ Ancora in mezzo alle vicende del terrorismo, lo scrittore sostenne che ‘[i]l terrorismo sarà drammatico, sarà tragico, sarà una tragedia nazionale lunghissima, intensamente sofferta da tutti come quelle tragedie interminabili dell’età barocca […].’1 Infatti, nel terzo millennio il terrorismo degli anni Settanta si è mostrato un tema ricorrente che suscita ancora discussioni, ricerche e (re-)interpretazioni in vari ambiti della società, in particolare nella letteratura e nel cinema, ma anche più spesso in graphic novel e blogs.2 Mentre alcuni studiosi, come Ruth Glynn e Andrea Hajek, hanno definito il trauma del terrorismo come un aspetto rimosso della memoria collettiva italiana, questa tendenza dimostra che nell’ambito culturale si ha tuttavia tentato di liberare gli anni Settanta da un tale tabù memoriale.3 Continuando il suo discorso in modo provocatorio, Alberto Arbasino anticipò la questione della (post-) memoria rimossa oppure ‘iper-esposta’ degli anni Settanta: Ma è interessante, o è ripetitivo e noioso, noioso come la sua letteratura, i suoi documenti, i suoi scritti? Si può morire di una malattia noiosa. Anzi di solito si muore per malattie noiose; e che sia il terrorismo o l’infarto o il cancro, cambia finalmente poi molto? Ma trovare interessante il terrorismo sarà come trovare interessante il cancro, scrivere e leggere romanzi sul cancro, le testimonianze di chi l’ha avuto e ha tenuto diari […]?4

1 Alberto Arbasino, Un paese senza: Addio agli anni settanta italiani. Un congedo da un decennio poco amato, Roma: Garzanti 1980, p. 120. 2 Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Roma: Minimum Fax 2008; Silvia Ballestra, I giorni della Rotanda, Milano: Rizzoli 2009; Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice, Palermo: Sellerio 2013; Marco Bellocchio, reg., Buongiorno, notte, Filmalbatros 2003; Daniele Luchetti, reg., Mio fratello è figlio unico, Cattleya Studios 2007; Marco Tullio Giordana, reg., Romanzo di una strage, Cattleya Studios 2012; Graziano Diana, Gli anni spezzati, Rai Fiction 2014. 3 Si vedano: Ruth Glynn, Women, Terrorism, and Trauma in Italian Culture, New York: Palgrave Macmillan 2013; Andrea Hajek, ‘Lo stragismo sul grande schermo: terrorismo, didattica e le strategie dell'oblio in Italia’, in: Storia e Futuro [online], no. 29 (2012). 4 Alberto Arbasino, Un paese senza, cit., p. 120. 6

Riferendosi all’intensità e alla frequenza con cui sono state pubblicate e discusse le opere sugli anni di piombo, Cecilia Ghidotti (2015) si chiede se forse gli anni Settanta non siano ormai ‘iper-esposti.’5 La Ghidotti, riprendendo il giudizio di Domenico Starnone, sostiene che si rischi di ridurre gli anni Settanta ad ‘un apparato storico’, cioè ad una serie di immagini stereotipe che continuano ad enfatizzare il carattere traumatico della memoria agli anni Settanta, ancorandola nel predicato ‘anni di piombo.’6 Senza negare la possibilità di un trauma collettivo e senza denunciare le singole espressioni culturali che trattano il terrorismo, la Ghidotti critica la tendenza editoriale che, a partire dagli ultimi anni Novanta, ha presentato ogni nuovo romanzo che tratta il decennio come il romanzo sugli anni Settanta. La studiosa enfatizza che ‘tenere l’attenzione principalmente incentrata sul dato della violenza politica, seppur rispondente a dati di realtà, rischia così di essere fuorviante perché finisce con l’ancorare l’immagine degli anni Settanta alla violenza […].’7 Nonostante il contenuto critico, l’articolo della Ghidotti lascia in sospeso la possibilità di un’immagine alternativa degli anni Settanta che riesca ad attenuare, minare o andare oltre la memoria collettiva raccontata in chiave della violenza politica. Questa tesi parte dalla premessa che ‘l’iper-esposizione’ del discorso letterario e cinematografico sul terrorismo ha escluso dall’ambito culturale le memorie di un ampio gruppo di italiani che ha vissuto gli anni Settanta, ma non ne ha memorie di violenza. Alla luce di questa proposta, Alan O’Leary (2010) ci segnala che il termine ‘anni di piombo’, oltre un riferimento metaforico ai proiettili sparati dai terroristi dell’estrema sinistra, simbolizza la pesantezza del momento storico nel Ventesimo secolo italiano.8 Questa tesi aggiunge a tale osservazione che la circolazione del termine ‘anni di piombo’, e i temi e le immagini a esso collegati, non solo indica una preferenza per la

5 Cecilia Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine.” Tra rimosso e iper-esposizione: scrittori italiani contemporanei e racconto degli anni settanta’, in: Studi Culturali, no. 2 (2015), p. 6. 6 Ivi, p. 14. 7 Ivi, p. 2. 8 Alan O’Leary, ‘Italian cinema and the ‘anni di piombo’, in: Journal of European Studies, no. 3 (2010), p. 244. 7 narrazione del terrorismo di sinistra, ma esclude anche la memoria di chi non si ricorda il decennio come periodo di violenza politica, e di conseguenza pesa sul discorso con cui si può riferire agli anni Settanta.9 Questa ipotesi si sviluppa in concordanza con i processi della mediazione della memoria collettiva: ci ricorda Joanne Garde-Hansen (2011) che la memoria collettiva è una narrazione necessariamente passata e ripetuta attraverso i vari media, i cui linguaggi influenzano, modificano o opprimono le memorie individuali o alternative.10 Si può rintracciare quest’osservazione nel discorso di Giorgio Agamben; il filosofo sostiene in Infanzia e storia (1978) che il linguaggio filosofico e scientifico abbiano ‘distrutto’ la possibilità di narrare memorie autentiche, perché ormai ‘l’esperienza ha il suo necessario correlato non nella conoscenza, ma nell'autorità, cioè nella parola e nel racconto.’11 Mentre Ann Rigney (2006) mette in evidenza che ‘[m]emories are always “scarce” in relation to everything that theoretically might have been remembered, but is now forgotten.’, la dominanza del racconto di storie e contro-storie degli ‘anni di piombo’ dimostra infatti la difficoltà di rivendicare una memoria ‘autentica’ e individuale che non coincide con il discorso sul terrorismo.12 Su ciò riflette anche (2006) che, riprendendo l’argomento di Agamben, afferma che la letteratura e il cinema contemporaneo vengono caratterizzati non più dalle esperienze

9 Francesco Caviglia e Leonardo Cecchini dimostrano attraverso un’analisi storico-linguistico come il discorso e il linguaggio hanno fin dall’inizio influenzato l’esperienza politica e la memoria storica della generazione cresciuta negli anni Sessanta e Settanta, in: Francesco Caviglia and Leonardo Cecchini, ‘Narrative Models of Political Violence: Vicarious Experience and ‘Violentization’ in 1970s Italy’, in: Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary (a cura di), Imagining Terrorism: The Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, , New York: Legenda 2009, pp. 139-152. Si veda anche: Marita Rampazi e Anna Lisa Tota, Il linguaggio del passato: memoria collettiva, mass media e discorso pubblico, Roma: Carocci 2005. 10 Joanne Garde-Hansen, Media and Memory, Edinburgh: Edinburgh University Press, 2011, p. 42. Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen (2014) definiscono la memoria mediata come: ‘the idea that the act of remembering an individual or collective past today is entirely mediated through documentaries, films, literature, digital storytelling and video diaries.’, in: Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen, ’Introduction: Television and the Fictional Rewriting of History in Italy’s Second Republic’, in: The Italianist, no. 1 (2014), p. 145. 11 Giorgio Agamben, Infanzia e storia: distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi 1978 e 2001, p. 6. 12 Ann Rigney, ‘Plenitude, scarcity and the circulation of cultural memory’, in: Journal of European Studies, no. 1 (2006), p. 17. 8 vissute, ma invece dall’inesperienza, che risulta come una ‘condizione trascendentale dell’esperienza attuale.’13 Questa tesi riprende il concetto dell’inesperienza, come formulato da Agamben e Scurati, per poter ripensare gli anni Settanta oltre la rappresentazione di Storia e contro-storia in chiave degli ‘anni di piombo’, partendo dal punto di vista del bambino nel cinema. In quanto non è esperto, rispetto all’adulto, e non ha esperienze vissute, il bambino è uno ‘strumento’ con cui si potrebbe immaginare gli anni Settanta in termini di un’assenza di esperienze. A ciò si lega il concetto di infanzia, introdotto da Agamben per intendere un’esperienza ‘muta’, che potrebbe minare il linguaggio collettivo.14 Anche se si tratta, paradossalmente, di infanzia ricostruita dall’adulto, il concetto di infanzia si rapporta sia in modo letterale che in modo metaforico al bambino protagonista: in quanto infante – o ‘senza lingua’ -, il bambino non si è ancora appropriato del linguaggio comune e non ha ancora potuto trasformare la sua esperienza in una narrazione collettiva, né tale narrazione è ancora entrata nel mondo del bambino.15 A tale proposito, Eleonora Conti (2015) suggerisce che il bambino- protagonista nella letteratura e nel cinema sia potenzialmente in grado di offrire ‘un’alternativa meno tragica della realtà in cui è costretto a vivere e che non sa interpretare razionalmente.’16 Utilizzando sia in modo letterale che in modo metaforico il concetto di infanzia, questa tesi chiede come il bambino-protagonista nel cinema dà accesso al racconto della vita ordinaria e esplora di conseguenza come il bambino si ribella all’assenza di esperienze distinte della ‘grande Storia.’

13 Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Milano: Bompiani 2006, pp. 33-45; 14 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 35. 15 Anche se Agamben non esplicita fino a quale età un bambino può essere considerato infante, e le definizioni nei dizionari non concordano, in questa tesi si segue la definizione odierna esplicata da Giovanna de Luca, che suggerisce che l’infanzia riguarda ‘la fascia d’età tra i quattro e i dodici anni’, quindi fino alla prima adolescenza. Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese, Napoli: Liguori 2009, p. 2. Si veda: “Infanzia”, in: Mario Cannella e Beata Lazzarini (a cura di), Lo Zingarelli: Vocabolario della lingua italiana, , no. 12., Pioltello 2014. 16 Eleonora Conti, ‘L'infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni Duemila’, in: Natalie Dupré, Monica Jansen, Srecko Jurisic e Inge Lanslots (a cura di), Narrazioni della crisi. Proposte italiane per il nuovo millennio, , Firenze: Franco Cesati Editore 2016, pp. 25. 9

Danielle Hipkins (2014) nota che il punto di vista del bambino nel cinema italiano dopo il neorealismo è stato soltanto marginalmente studiato, mentre i childhood studies hanno sottovalutato il genere della commedia e l’influenza degli anni Settanta.17 Anche se il punto di vista del bambino non è assente nella narrativa sugli ‘anni di piombo’, questa tesi cerca di colmare le lacune suggerendo che il topos del bambino offre la possibilità di creare una memoria alternativa degli anni Settanta, che compromette la dominanza della violenza politica.18 Il punto di vista del bambino sugli anni Settanta è stato proposto da tre film dell’ultimo decennio: La prima cosa bella (2010) di Paolo Virzì racconta la storia di Anna, la mamma di due bambini, che lascia il marito per perseguire il suo sogno di diventare attrice.19 Portando con sé i suoi figli, Anna vive gli anni Settanta fra precarietà economica, continui traslochi ed amanti occasionali. Tanti anni dopo, negli ultimi giorni della vita di sua madre, il figlio Bruno, ormai adulto, rilegge con rancore e nostalgia la sua infanzia e la relazione conflittuale con sua madre. La kryptonite nella borsa (2011) di Ivan Cotroneo, tratto dal romanzo omonimo dello scrittore-regista, è situato nella Napoli del 1973 e si concentra su Peppino, ragazzo di nove anni, che diventa la vittima principale dell’adulterio del padre e della depressione della madre.20 In modo da proteggersi dai problemi della sua famiglia, dai nonni troppo severi e tradizionali, dai dispetti dei compagni di classe e dalla vita hippy dei suoi zii, Peppino vive gli anni Settanta con l’aiuto di suo cugino morto, che torna nell’immaginazione del bambino come il Superman napoletano. Infine, Anni felici (2013) di Daniele Luchetti mette in scena l’estate del 1974 attraverso la voce narrante di Dario, il figlio di un'aspirante artista d'avanguardia e una femminista indecisa nella fase di sperimentazione sessuale.21

17 Danielle Hipkins,‘The Child in Italian Cinema: an Introduction’, in: Danielle Hipkins e Roger Pitt (a cura di), New Visions of the Child in Italian Cinema, Oxford: Peter Lang 2014, p.11, p. 24 18 Si ricorda per esempio Giorgio Vasta, Il tempo materiale, cit. 19 Paolo Virzì, reg., La prima cosa bella, Medusa Film 2010. Siccome il film copre sia l’infanzia che l’adolescenza del protagonista, questa tesi si focalizza, ma non si limita, alla prima parte in cui il protagonista richiama le sue memorie infantili. 20 Ivan Cotroneo, reg., La kryptonite nella borsa, Indigo Film 2011. 21 Daniele Luchetti, reg., Anni felici, Babe Film 2013. 10

La separazione dei genitori implica per Dario una maggiore indipendenza e la responsabilità di crearsi una sua identità in un mondo che sta cambiano e che non riesce a comprendere del tutto. Attraverso l’analisi di questi film alla luce della teoria dell’inesperienza e dell’infanzia, si cerca di rispondere alla domanda: in che modo contribuisce il punto di vista del bambino in La prima cosa bella (Virzì, 2010), La Kryptonite nella borsa (Cotroneo, 2011) e Anni felici (Luchetti, 2012) alla memoria collettiva degli anni Settanta e alla creazione di una narrazione alternativa del decennio? Si cerca di capire come il punto di vista del bambino in questi film sia una posizione critica, non perché reinterpreta i fatti di cronaca da una prospettiva nuova, come si fa creando una ‘contra-storia’, ma perché dà voce a chi non ha vissuto gli avvenimenti che hanno fatto la ‘grande’ Storia degli anni Settanta. In quanto tale, si ipotizza nel primo capitolo che il punto di vista dell’infanzia nei tre film rappresenti dei frammenti di ‘non-storia’, ovvero una narrazione che mette in scena un momento storico determinato da cui mancano i riferimenti ai topoi comuni della memoria collettiva. Attraverso un’analisi teorica del rapporto fra la mediazione della memoria collettiva, la pesantezza del discorso storico e il concetto di infanzia, si cerca di delineare le condizioni per poter rivendicare una memoria degli anni Settanta oltre i temi e i linguaggi relazionati alla violenza politica del decennio. Partendo dalle premesse esposte nel primo capitolo e dall’ambigua presenza del bambino nella memoria, si propone nel secondo capitolo un’analisi della focalizzazione del bambino, mostrando particolare attenzione per il modo in cui i tre film cercano di mettere in scena l’esclusione del bambino dal mondo degli adulti e la possibilità di rivendicare un’esperienza metaforicamente ‘muta.’ Una volta stabiliti allora i meccanismi e le conseguenze del punto di vista del bambino nei tre film, nel terzo capitolo si procede all’analisi del modo in cui la figura del bambino offre uno sguardo nuovo o sovversivo sui temi degli anni Settanta. Nel primo paragrafo si analizza l’interpretazione del bambino dei cambiamenti dei rapporti famigliari, focalizzando in particolare sull’(in)dipendenza dai genitori. Nel secondo paragrafo si osserva in seguito il rapporto particolare del bambino con gli spazi, 11 ipotizzando che attraverso il punto di vista innocente e colorato del bambino sia ancora possibile immaginare i (non-)luoghi degli anni Settanta in modo utopico, invece di traumatico.

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1. Una non-storia degli anni Settanta: la memoria fra mediazione, inesperienza e infanzia

Nell’introduzione di Patria: 1976-1977, Enrico Deaglio ci ricorda che ‘[d]al 1967 al 1977 in Italia ci sono stati almeno otto “grandi” tentativi di colpi di stato, almeno venti “grandi” attentati alle linee ferroviarie e a luoghi pubblici con l’obiettivo di creare paura e di instaurare una nuova forma di governo. Non hanno mai vinto, ma non hanno mai perso veramente.’22 Remo Ceserani e David Ward notano che, anche se Patria cerca di offrire un approccio panoramico e inclusivo del decennio, l’enfasi sulle ‘grandi’ vicende di violenza politica, caratterizza il modo in cui gli anni Settanta vengono ampiamente ricordati non come un’epoca pluridimensionale, ma piuttosto come una catena di istanti di violenza. 23 Si è osservato che tale atteggiamento memoriale rischia di diventare acritico perché dà spazio agli attori della violenza di diventare ‘i protagonisti’ della Storia e ciò esclude la voce di chi non ha esperienze di violenza politica.24 Sottolineando l’importanza della costruzione mediatica e linguistica della memoria collettiva, si ipotizza in questo capitolo che l’enfasi sugli istanti di violenza politica abbia creato un discorso di memorie e contro-memorie degli anni Settanta che ha impedito la possibilità di narrare delle esperienze alternative, e in particolare quelle dell’infanzia. In primo luogo, si cerca di mettere in evidenza che la mediazione, che caratterizza la narrazione dell’epoca, confonde in modo profondo le memorie private e collettive, e contribuisce perciò ad una condizione di ‘inesperienza’ rispetto agli anni

22 Enrico Deaglio, Patria: 1967-1977, Milano: Feltrinelli 2017, p. 18; Deaglio copre l’altra metà degli ‘anni di piombo’, a partire dal rapimento di Aldo Moro, in Patria: 1978-2010: Enrico Deaglio, Patria: 1978-2010, Milano: Feltrinelli 2010. 23 Remo Ceserani, ‘Il caso di un montaggio di cronache, ricordi, documenti e interpretazioni della realtà che sembrano costruire un romanzo italiano: Patria di Enrico Deaglio’, in: Hanna Serkowska (a cura di), Finzione, Cronaca, Realtà: scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, Massa: Transeuropa 2011, pp. 81-94; David Ward, Contemporary Italian Narrative and 1970s Terrorism : Stranger Than Fact, London: Palgrave Macmillan 2017, p. 118. 24 Enrico Deaglio, Patria: 1967-1977, cit., p. 18; Al contrario, Giovanni De Luna sostiene che l’attenzione e l’empatia per le vittime dei ‘grandi’ eventi storici rischi di creare un ‘paradigma vittimario’ che impedisce ugualmente uno sguardo critico sulla Storia, in: Giovanni de Luna, del dolore: le memorie di un’Italia divisa, Milano: Feltrinelli 2011. 13

Settanta. Legando in seguito il fatto proprio alla condizione del bambino, si esplora come un ritorno all’infanzia si colloca nella memoria collettiva. Infine, si vedrà nel terzo paragrafo come il punto di vista dell’infanzia potrebbe rivendicare una narrazione di ‘non-storia’ che possa includere proprio quest’inesperienza e che cerca di smantellare il sistema binario del discorso memoriale degli ‘anni di piombo.’

1.1 L’inesperienza fra narrazione pubblica e memoria privata Mentre la complessità della memoria degli ‘anni di piombo’ suscita ancora giustamente grande interesse nell’ambito pubblico e accademico,25 alcuni studiosi, fra cui Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, hanno osservato che la rappresentazione e la re- interpretazione del terrorismo organizzato e della violenza politica tende a dividere il dibattito pubblico sul periodo fra memorie e contro-memorie degli instanti straordinari, mentre opprime delle voci e delle memorie private e alternative.26 L’intreccio fra memoria privata e memoria pubblica è un problema centrale nell’ambito degli studi della memoria. Infatti, Aleida Asmann richiama l’attenzione al carattere necessariamente narrativo delle memorie, sostenendo che ‘[u]nless they [le memorie individuali, ed.] are integrated into a narrative, which invests them with shape, significance, and meaning, they are fragmented, presenting only isolated scenes without temporal or spatial continuity.’27 Anche se tale osservazione sottolinea il rapporto narrativo fra la memoria collettiva e quella privata, essa sembra presupporre l’esistenza di memorie individuali a priori alla loro integrazione nella narrazione collettiva, mentre si potrebbe osservare che la memoria individuale sia necessariamente condizionata dal racconto collettivo. Perciò si cerca di evidenziare in questo paragrafo che la mediazione

25 Si veda per esempio: Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary, ‘Introduction’, in: Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary (a cura di), Imagining Terrorism: The Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, London: Legenda 2009, pp. 1-15. 26 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970s through the Looking Glass’, in: Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio (a cura di), Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politic in Italy in the 1970s, London: Legenda 2006, p. 1. 27 Aleida Assmann, ‘Re-framing memory. Between individual and collective forms of constructing the past’, in: Karin Tilmans, Frank van Vree and Jay Winter (a cura di.), Performing the Past: Memory, History, and Identity in Modern Europe, Amsterdam: Amsterdam University Press 2010, p. 4. 14 attraverso vari canali di trasmissione, fra cui il linguaggio stesso, caratterizza la memoria degli anni Settanta e che ciò risulta in una condizione di inesperienza di fronte al periodo. Riprendendo il giudizio di Gianluigi Simonetti, Cecilia Ghidotti identifica tre fasi nello sviluppo della memoria collettiva degli anni Settanta, come proposta da rappresentazioni letterarie e cinematografiche. In un primo momento che coincide largamente con il periodo del terrorismo, si è cercato di reagire ai fatti di cronaca esprimendosi in modo più o meno diretto contro la militanza politica, come dimostrano, fra tanti altri esempi, L’affaire Moro (1978) di e In questo stato (1978) di Alberto Arbasino.28 A ciò aggiunge Alan O’Leary che nell’ambito cinematografico, il poliziesco e la commedia all’italiana hanno particolarmente contribuito alla risposta ‘a caldo’ al terrorismo italiano, fornendo interpretazioni di carattere cospiratore o psicoanalitico.29 La seconda fase si caratterizza per l’elaborazione di testimonianze da parte di chi ha trascorso gli anni Settanta come militante politico, di cui Il prigioniero (1998) di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella è l’esempio più noto.30 A partire dal nuovo millennio si è passato infine alla rielaborazione dei temi e i dati degli anni Settanta da parte di scrittori che non sono stati testimoni diretti della violenza politica. Questa terza fase, che entra nella post-memoria, si riflette nella concezione che la letteratura non nasce necessariamente dalle esperienze vissute, ma che si occupa sempre più spesso di una (re-)interpretazione di esperienze indirette.31 In tale atteggiamento, che Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen ritengono esemplare per la reinterpretazione della Storia nazionale dagli anni Novanta

28 Cecilia Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine.”, cit., p. 2; Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Palermo: Sellerio 1978; Alberto Arbasino, In questo stato, Milano: Garzanti 1978.Questa tendenza è stata analizzata da Marco Belpoliti in: Marco Belpoliti, Settanta, Torino: Einaudi 2001. 29 Alan O’Leary, ‘Italian cinema and the ‘anni di piombo’, cit., p. 245. O’Leary discute per esempio Cadaveri Eccellenti di Franscesco Rosi (1976) e Mordi e fuggi di Dino Risi (1973). 30 Cecilia Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine.”, cit., p. 2. Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, Il prigioniero, Milano: Feltrinelli 1998. 31 Cecilia Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine.”, cit., p. 2. 15 in poi, si collocano per esempio I giorni della Rotonda (2009) di Silvia Ballestra e Il tempo materiale (2008) di Giorgio Vasta.32 L’ipotesi proposta dalla Ghidotti dimostra che la memoria collettiva come si è sviluppata finora è necessariamente stata influenzata, oppure pre-mediata, dalle varie narrazioni precedenti e che ciò raggiunge un culmine nell’ultima fase in cui la distinzione fra media e memoria è stata sospesa. L’idea che le esperienze degli anni Settanta vengono ormai in primo luogo caratterizzate da testi e immagini pre-mediati, proposti e ripetuti attraverso i mass media, risulta esemplare per l’osservazione di Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen che ‘[t]he binary opposition between media as ‘mass’, ‘popular’, and ‘artificial’, on the one hand, and memory as lived, authentic, and experienced, on the other, should be reconsidered as being blurred.’33 A tale proposito, Claudia Bernardi osserva che negli anni Novanta alcuni giovani scrittori, fra cui Silvia Ballestra, Rossana Campo e Aldo Nove, hanno tentato di privatizzare la memoria degli anni Settanta intrecciando la loro infanzia (autobiografica) nella memoria collettiva. Il romanzo di Giorgio Vasta, però, risulta particolarmente esemplare per il venir meno dell’opposizione binaria fra media e memoria.34 Il tempo materiale è incentrato sulla tensione fra la narrazione d’infanzia del protagonista e il carattere indiretto e mediatico della memoria agli anni Settanta e riflette sul modo in cui i mass media hanno fin dall’inizio influenzato la narrazione degli ‘anni di piombo.’35 Non solo lo scrittore, in quanto non è stato testimone diretto della violenza politica, ha dovuto documentarsi sui dati di cronaca ed è stato influenzato dalle narrazioni

32 Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen, ‘Introduction’, cit., p. 142. 33 Ivi, pp. 145-146. Si veda anche: Joanne Garde-Hansen, Media and Memory, cit., pp. 38-39. 34 Claudia Bernardi discute Il ’68 di chi non c’era (ancora), il volume di racconti edito da Raul Montanari, sostenendo che i racconti presentano ‘a direct reflection on the part of their authors on the effects of their childhood years on their lives and writings.’ In: Claudia Bernardi, ‘Collective Memory and Childhood Narratives: Rewriting the 1970s in the 1990s’, in: Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio (a cura di), Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politic in Italy in the 1970s, London: Legenda 2006, p. 187; Si veda anche: Raul Montanari (a cura di), Il ’68 di chi non c’era (ancora), Milano: Rizzoli 1998. 35 Per un’analisi della mediazione dell’esperienza nel romanzo di Vasta, si veda per esempio: Matteo Martelli, ‘Memorie sensibili di fronte alla storia: i bambini ideologici di Giorgio Vasta’, in: Federica Lorenzi and Lia Parrone (eds.), Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, Ravenna: Giorgio Pozzi Editore 2015, pp. 102-118; oppure: David Ward, Contemporary Italian Narrative and 1970s Terrorism, cit., pp. 60-65. 16 precedenti, anche l’atteggiamento dei tre protagonisti infantili del romanzo viene fortemente influenzato dall’immaginario che emerge dai mass media e risulta in un atto di violenza eseguito dai bambini. Perciò, Raffaele Donnarumma conclude che: ‘[p]er Nimbo, Volo e Raggio il terrorismo è prima di tutto qualcosa di cui si parla: un fatto linguistico, un’invenzione verbale […].’36 In quanto l’esperienza individuale dei tre bambini-protagonisti viene caratterizzata da tale confusione fra lingua, media e memoria, il romanzo risulta esemplare per una condizione di ‘inesperienza’ di fronte alla Storia degli anni Settanta. In La letteratura dell’inesperienza, Antonio Scurati si esprime in modo critico sul dissolversi dei confini fra media e memoria e sostiene che l’onnipresenza di mezzi mediatici come la televisione sia una causa della sparizione di una letteratura che si fonde sulla testimonianza di esperienze vissute, come quella proposta da in Il sentiero dei nidi di ragno.37 Mentre Calvino scrive nella famosa prefazione al libro che ‘[l]e letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno’, Scurati sostiene che tale unità sia corrotta a causa della mancanza di testimonianze del mondo vissuto.38 Perciò, Scurati introduce il concetto di inesperienza per intendere che ormai le esperienze, e per estensione la memoria, si confondono con la conoscenza implicita del mondo, cioè con l’immagine diffusa dai mass media: ‘[i]l mondo oggi non “si vive”, e la sua conoscenza non riposa più sull’esperienza. Al contrario, l’inesperienza è la condizione trascendentale dell’esperienza attuale.’39 L’inesperienza non è dunque il contrario dell’esperienza in quanto un’assenza assoluta di esperienze, ma comprende invece la condizione che risulta dalla mediazione della memoria e dalla conseguente appropriazione di esperienze non vissute. Di ciò è esemplare l’osservazione di Claudia

36 Raffaele Donnarumma, ‘Giorgio Vasta – Il tempo materiale’, January/June 2009, in: Allegoria online [sito web], http://www.allegoriaonline.it/index.php/raccolte-tremila-battute/allegoria-60/300-giorgio-vasta-qil- tempo-materialeq, consultato 30 giugno 2018. 37 Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., p. 30. 38 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino: Einaudi 1947 e 1964, p. 9; Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., pp. 19-20. Per un’analisi critica del libro di Scurati e il suo rapporto con il romanzo di Calvino, si veda: Monica Jansen, ‘Laboratory NIE: Mutations in Progress’, in: Journal of Romance Studies, no. 1 (2010), pp. 97-109. 39 Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., p. 34. 17

Bernardi che i bambini, che per la maggior parte non sono stati testimoni diretti della violenza politica, vengono inevitabilmente confrontati con ‘[t]he contradiction of having to negotiate their narratives of the 1970s between private childhood memory and adult public perception of the time.’40 Scurati deriva il concetto di inesperienza da Giorgio Agamben, la cui filosofia si basa sull’ipotesi di una distruzione della possibilità di narrare e trasmettere delle esperienze ‘autentiche’, ‘dirette’ o ‘vissute’ nell’epoca moderna.41 Agamben sostiene che la fondazione della metafisica occidentale ci abbia privato della possibilità di trasmettere l’esperienza nella forma di testimonianza, perché l’approccio metafisico ha proposto una preferenza per la conoscenza trascendentale, cioè per la regola astratta e generalizzata, e di conseguenza ha svalutato la conoscenza del mondo fondata sulle esperienze individualmente vissute.42 Ciò vuol dire che, anche se la persona viene ancora confrontata con degli eventi significativi, l’autorità della mediazione linguistica impedisce la possibilità di tradurre questi eventi in esperienza ‘autentica.’43 Agamben sostiene che tale autorità favorisca il racconto dello straordinario, di cui si possa essere soltanto il testimone passivo.44 Seguendo questo ragionamento, quindi, si potrebbe constatare che la narrazione collettiva pre-esiste alla memoria individuale, per cui essa ne è necessariamente influenzata. A causa di ciò, le memorie individuali o alternative non esistono a priori alla memoria collettiva, ma vengono deformate nella narrazione pre-esistente, oppure non possono esistere come entità memoriali.

40 Claudia Bernardi, ‘Collective Memory and Childhood Narratives’, cit., p. 187. 41 Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., p. 42; Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 6. 42 Ibidem. 43 Riferendosi a Walter Benjamin, Agamben gioca con la differenza intraducibile fra Erfahrung, cioè l’accumulazione di conoscenza di vita, e Erlebnis, cioè l’assistenza a degli eventi significativi. Nel pensiero agambeniano, è soprattutto la possibilità di Erfahrung che è stata distrutta dalla metafisica occidentale: ‘È questa incapacità di tradursi in esperienza che rende oggi insopportabile – come mai in passato – l’esistenza quotidiana, e non una pretesa cattiva qualità o insignificanza della vita contemporanea rispetto a quella del passato (anzi, forse mai come oggi l’esistenza quotidiana e stata tanto ricca di eventi significativi.’ In: Ivi, pp. 5-6. Si veda anche: Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical Introduction, Stanford: Stanford University Press 2009, p. 85. 44 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 7; Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese’, cit., p. 25. 18

A ciò si lega l’idea della ‘pesantezza’ delle ‘parole che usiamo’ per riferirci agli anni Settanta, che risuona nell’analisi del termine ‘anni di piombo’ proposta da Alan O’Leary: il termine riferisce non soltanto al modo in cui il trauma del terrorismo pesa ancora sul presente, le sue associazioni metaforiche dimostrano anche la centralità del linguaggio nella creazione di una memoria collettiva.45 Dall’articolo di O’Leary emerge il discorso binario che caratterizza la narrazione collettiva degli anni Settanta: destra-sinistra, comunista-fascista, operaio-borghese, padre-figlio, maschio-femmina, vittima-carnefice, memoria-contro-memoria. La tensione dialettica caratterizza anche il discorso memoriale in quanto gli anni Settanta vengono interpretati e spiegati con termini che racchiudono una tensione fra due forze opposte: ‘the juxtaposition of conflicting discourses’, ‘the generational conflict’, ‘the chiaroscuro national epic’, e ciò emerge in più dal concetto di ‘divided memory’ proposto da John Foot.46 La traccia binaria e il conseguente carattere dialettico della memoria degli anni Settanta è esemplare per l’idea ‘dell’immanentizzazione dell’antagonismo’ di Roberto Esposito, secondo la quale il conflitto fra alternative non-mediabili è inerente alla cultura italiana e crea ‘una realtà che non è possibile trascendere in una dimensione differente.’47 In quanto tale, la negoziazione fra memorie e contro-memorie e fra esperienze individuali e narrazioni collettive, rimane all’interno dello stesso discorso collettivo; o come esplicitano O’Leary e Pierpaolo Antonello: ‘[w]hen speaking of the representation of terrorism we have in mind the production of texts that are located within the interpretative socio-historical discourse of those years.’48 L’autorità di tale discorso binario e la sua preferenza per il racconto dello straordinario, esclude di conseguenza la possibilità di rivendicare una posizione oltre il contesto interpretativo per cui diventa difficile raccontare gli anni Settanta oltre i ‘grandi’ eventi della Storia.

45 Alan O’Leary, ‘Italian cinema and the ‘anni di piombo’, cit., p. 244. L’idea diffusa che il termine esprime una preferenza per una narrazione sul terrorismo di sinistra è stata spiegata nell’introduzione. 46 Ivi, p. 249, p. 254, p. 255; John Foot, Italy’s divided memory, New York: Palgrave Macmillan 2009. 47 Roberto Esposito, Pensiero vivente: origine e attualità della filosofia italiana, Torino: Einaudi 2010, p. 26. 48 Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary, ‘Introduction’, cit., p. 3. 19

Vista la difficoltà di fornire memorie alternative, si potrebbe argomentare che l’inesperienza a causa della profonda mediazione della memoria degli anni Settanta abbia una doppia conseguenza sulla memoria d’infanzia: l’inesperienza risulta non solo come condizione trascendentale dell’appropriazione di narrazioni e memorie non direttamente vissute, come propone Antonio Scurati, ma essa definisce anche la memoria dell’epoca che non coincide con la narrazione collettiva. In quanto tale, si suggerisce che l’inesperienza caratterizza la condizione del bambino in primo luogo perché è privo di esperienza di fronte ai ‘grandi’ eventi di violenza politica, ma anche perché ciò risulta necessariamente nella sua esclusione dalla memoria collettiva. Si vedrà che i tre film cercano di negoziare questa doppia inesperienza del bambino- protagonista, dimostrando in linea con Lesley Caldwell che la rappresentazione cinematografica del bambino, con il suo ‘[l]ack of experience and an untouchedness’, invita un’interpretazione in cui i bambini-protagonisti sono ‘[c]ompletely at odds with the narratives in which they are placed […].’49 Il fatto che i bambini-protagonisti si rapportano al contesto storico degli anni Settanta in modo anomalo emerge dalla messa in scena del bambino nei tre film. La prima cosa bella di Paolo Virzì dimostra come la memoria di Bruno degli anni Settanta è stata influenzata dal racconto collettivo, ma sceglie esplicitamente di non dare importanza alla violenza politica che caratterizza la memoria collettiva dell’epoca. Il film propone un punto di vista lontano sugli anni Settanta, in quanto il personaggio di Bruno rivive la sua infanzia attraverso i flashback.50 Con questa tecnica narrativa, il film non solo problematizza la possibilità di raccontare le esperienze ‘a caldo’ e mette in dubbio l’autenticità della memoria, ma enfatizza in particolare che le memorie d’infanzia di Bruno sono condizionate dal suo sguardo da adulto e quindi non possono esistere a priori ad una narrazione collettiva. Perciò, da narratore della cornice narrativa,

49 Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato? Children in Italian Cinema’, in: Danielle Hipkins e Roger Pitt (a cura di), New Visions of the Child in Italian Cinema, Oxford: Peter Lang 2014, p. 62. 50 La distinzione fra una narrazione dell’infanzia da lontano o da vicino è stata proposta da Giovanna de Luca e verrà esplicata nel secondo capitolo, in: Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese’, cit., p. 2. 20

Bruno-adulto ci mostra la tensione fra la narrazione dei ‘grandi’ eventi della Storia e la sua propria inesperienza da bambino (figura 1): mentre il narratore racconta una scena che si svolge di fronte all’officina del Partito Comunista Italiano, che propaga una militanza politica attraverso i manifesti attaccati alla parete, il punto di vista di Bruno- bambino ignora tale indicazione politica, ma richiama alla memoria la cultura popolare dell’epoca, mostrando sua madre che canta le prime frasi della canzone ‘La prima cosa bella’, suonata da Nicola di Bari al festival di Sanremo nel 1970.51 Il bambino, quindi, si allontana sia in modo letterale - in quanto si gira dall’altro lato della strada - che in modo metaforico dal contesto storico-politico, spingendo ai margini i riferimenti storici e opponendoli con una sua memoria alternativa degli anni Settanta.

Figura 1 – La prima cosa bella (00.17.28)

Anni felici di Daniele Luchetti segue un approccio simile, in cui i riferimenti alle ‘grandi’ vicende dell’epoca proposti da un narratore esterno non vengono percepiti dal bambino-protagonista. Attraverso un manifesto alla parete che cita ‘Le donne della famiglia Cervi votano no’, il film situa la storia immediatamente nel contesto storico-

51 Il riferimento nostalgico a questa canzone verrà esplicata nel terzo capitolo. 21 politico (figura 2): il manifesto non è soltanto un riferimento al referendum sul divorzio, indetto nel 1974, ma anche alla famosa famiglia Cervi che svolge un ruolo importante nell’immaginario della Resistenza negli anni Settanta.52 Tuttavia, lo sguardo del bambino Dario si fissa soltanto sul disegno del ‘cane pirata’ della pubblicità dell’epoca e ignora il manifesto politico, minando la mediazione dell’immaginario collettivo. In questo modo, il film esplicita l’inesperienza del suo protagonista, dimostrando che, anche se la storia della vita ordinaria è intrecciata nella Storia dei ‘grandi’ fatti, si riesce attraverso l’infanzia a visualizzare ciò che non entra nel discorso storico-memoriale.

Figura 2 – Anni felici (00.01.25)

La Kryptonite nella borsa, invece, presenta un punto di vista sull’infanzia da vicino, che coincide direttamente con lo sguardo del bambino-protagonista, per cui riesce a evitare la voce dell’adulto che interpreta la memoria con il senno di poi. Il narratore esterno introduce la storia di Peppino esplicitamente evitando di ancorarla nel

52 La famiglia Cervi, i cui uomini furono uccisi dai fascisti durante la Resistenza, svolge un ruolo importante nell’immaginario dei militanti di sinistra degli anni Settanta. Questo riferimento alla ‘founding narrative’ di una ‘Resistenza tradita’ verrà approfondito nel terzo capitolo. Si veda anche: Philip Cooke, ‘The Neo- Resistance of the 1970s’, in: Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio (a cura di), Speaking out and silencing Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politic in Italy in the 1970s, London: Legenda 2006. 22 contesto storico-politico, riferendosi invece al tema universale dell’amore: ‘Questa è la storia di un bambino con gli occhiali, di una famiglia e di un supereroe. Ma non è una storia sull’infanzia, questa è una storia sull’amore.’53 Alla luce dell’osservazione di Aine O’Healy che ‘if childhood is time- and context-bound, the experience of young people and the meanings attached to childhood […] must surely possess distinctive contours that reflect the city’s complicated social history and cultural terrain’,54 l’omissione paradossale del narratore – il film tratta inevitabilmente dell’infanzia del suo protagonista - rappresenta il tentativo di non dotare la storia di Peppino del carico storico-politico che caratterizza la memoria collettiva ed enfatizza di conseguenza l’inesperienza del bambino di fronte a tale contesto. Alla luce dell’osservazione di Claudia Bernardi che l’infanzia negli anni Settanta rappresenta per i bambini ‘a period of their lives when they could not choose whether or not to act in the public and political sphere, but which was nonetheless marked by the historical events’,55 si è visto che i film cercano di respingere la narrazione degli eventi storici in modo da de-marginalizzare la vita ordinaria del bambino. In quanto non si collocano nella tradizione di re-interpretare i fatti di cronaca e nascondono i riferimenti al contesto storico dallo sguardo del bambino-protagonista, i film situano l’inesperienza del bambino nel suo non-coincidere con i ‘grandi’ eventi della Storia. In quanto tale, i film non propongono una forza interpretativa contro la memoria collettiva, e quindi non creano una ‘contro-memoria’, ma utilizzano la figura del bambino per poter resistere al discorso comune. Paradossalmente, quindi, con un ritorno all’infanzia i tre film esplorano, come si vedrà nel prossimo paragrafo, la possibilità di inquadrare e ricordare gli anni Settanta oltre le memorie e contro-memorie

53 Ivan Cotroneo, La Kryptonite nella borsa, [00.04.53]. 54 Aine O’Healy, ‘A Neapolitan Childhood: Seduction and Betrayal in Pianse Nunzio 14 anni a Maggio’, in: Anne Hardcastle, Roberta Morosini e Kendall Tarte (a cura di), Coming of Age on Film: Stories of Transformation in World Cinema, Newcastle: Cambridge Scholars Publishing 2009, p. 14. L’analisi di O’Healy riguarda il rapporto fra l’infanzia del protagonista e la città di Napoli nel film Pianese Nunzio 14 anni a Maggio (1996) di Antonio Capuana. Tale rapporto in La Kryptonite nella borsa verrà discuso nel terzo capitolo. 55 Claudia Bernardi, ‘Collective Memory and Childhood Narratives: cit., p. 185. 23 collettive. I bambini nei tre film rappresentano perciò, nelle parole di Cento Bull e Giorgio, ‘[a] nostalgia for something they could experience for themselves.’56

1.2 Il ritorno all’infanzia e l’io memoriale Di fronte al discorso storico-memoriale che impedisce la testimonianza dell’esperienza vissuta, Giorgio Agamben sostiene paradossalmente che ‘esperire significa necessariamente […] riaccedere all’infanzia come patria trascendentale della storia.’57 In virtù della sua doppia inesperienza, il bambino è costretto a costruirsi un linguaggio attraverso il quale poter esprimere una sua prospettiva storica. Perciò, il ritorno all’infanzia, come esemplificato dai tre film, potrebbe essere considerato come uno strumento per situare la storia del bambino al di fuori del discorso sui ‘grandi’ eventi storici. In questo paragrafo si cerca perciò di evidenziare come il bambino-protagonista, come simbolo di un ritorno all’infanzia, rappresenta il tentativo di creare una narrazione che si incentra sull’esperienza della vita ordinaria, e in quanto tale cerca di minare il carattere conflittuale del discorso memoriale agli anni Settanta. Mentre Scurati situa l’inesperienza innanzitutto nel fatto che la conoscenza del mondo viene ormai mediata dai vari canali di trasmissione, e particolarmente dai mass media, Giorgio Agamben enfatizza in Infanzia e Storia che la questione dell’(in)esperienza abbia necessariamente origine nella struttura del linguaggio umano. Interessato nel modo in cui l’essere umano, in quanto non dispone del linguaggio fin dalla nascita, acquista il linguaggio durante la vita e quindi ‘entra’ in un linguaggio pre- mediato quando inizia a parlare, lo studioso propone il concetto ambiguo di ‘infanzia’ per intendere il momento in cui le esperienze siano ancora potenzialmente possibili. L’idea di infanzia, che Agamben relaziona al bambino sia in modo letterale che in modo simbolico, si basa sull’etimologia della parola; derivato dal latino in-fans, infanzia significa ‘muto’, ‘che non sa parlare’, e il termine viene comunemente definito come ‘il

56 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970s through the Looking Glass’, cit., p. 7. 57 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 51. 24 tempo fino all’acquisizione dell’uso completo della parola.’58 Sfruttando allo stesso tempo il significato letterale e metaforico, Agamben argomenta che l’infanzia caratterizza l’essere umano nella sua assenza del linguaggio, e per estensione riferisce al periodo in cui il bambino si dimostra capace di parlare, ma non si è ancora appropriato dell’uso politico-sociale del discorso.59 Secondo Agamben, la condizione infantile del bambino risulta esemplare per la distinzione fra il semiotico e il semantico, come proposta da Emile Benveniste. Partendo dalla teoria benvenistiana, Agamben considera l’infanzia un’esperienza trascendentale che coincide con le origini del linguaggio, in cui la differenza fra il semiotico, cioè l’ambito del segno linguistico, e il semantico, cioè l’ambito del discorso, è ancora percepibile.60 In quanto tale, l’infanzia è il momento in cui il linguaggio non si è ancora trasformato in discorso. Un ritorno all’infanzia rappresenta allora un ritorno alla possibilità di un’esperienza ‘muta’: Un’esperienza originaria, lungi dall’essere qualcosa di soggettivo, non potrebbe essere allora che ciò che, nell’uomo, e prima del soggetto, cioè prima del linguaggio: un’esperienza “muta” nel senso letterale del termine, una in-fanzia dell’uomo, di cui il linguaggio dovrebbe, appunto, segnare il limite.61

Alla luce di tale osservazione, bisogna enfatizzare che l’infanzia nel pensiero agambeniano non è necessariamente un ritorno cronologico ad un tempo o uno spazio che precede il linguaggio, ma che il concetto rappresenta l’esperienza del linguaggio

58 Ivi, p. 45; “Infanzia”, in: (s.a.), Treccani vocabolario on line, http://www.treccani.it/vocabolario/infanzia/, consultato 30 giugno 2018; “Infante”, in: (s.a.), Dizionario etimologico online, https://www.etimo.it/?term=infante&find=Cerca, consultato 30 giugno 2018; “Infanzia”, in: Mario Cannella and Beata Lazzarini (a cura di), Lo Zingarelli: Vocabolario della lingua italiana, 12° ed., Pioltello: Zanichelli 2014. 59 Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben, cit., pp. 92-93. 60 Giorgio Agamben, Infanzia e Storia, cit., p. 50. Bisogna enfatizzare che sia Agamben che Benveniste vedono la realtà linguistica come una singola entità nella quale non c’è distinzione fra il semantico e il semiotico. Nell’uso pratico del linguaggio, quindi, lingua e discorso sono necessariamente inseparabili. Si enfatizza perciò che anche in questa tesi il ritorno all’infanzia va soprattutto interpretata in modo metaforico, come simbolo della possibilità di minare precedere la memoria collettiva. Si veda: Ivi, pp. xi-xii. 61 Ivi, p. 45. Enfasi nel testo originale. 25 prima che viene trasformato in discorso.62 In quanto tale, l’infanzia è la radicale potenzialità del linguaggio, in cui la posizione politico-ideologica non è ancora definita. Nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, il bambino entra nel linguaggio gradualmente: il suo ‘linguaggio puro’, come Agamben chiama il linguaggio preideologico e spregiudicato del bambino, si trasforma in discorso. Tale passaggio rappresenta, secondo Agamben, l’entrata nella Storia: ‘È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio.’63 Nell’uso del bambino come topos dell’infanzia, si riconosce quindi il tentativo di rappresentare una sospensione dell’accesso alla Storia dei ‘grandi’ fatti: il bambino, ancora non completamente familiare con l’uso del semantico e quindi non ancora entrato nell’ambito del discorso, è potenzialmente in grado di rivendicare l’esperienza non-mediata, ovvero uno sguardo sul mondo che non coincide con il discorso storico-politico. Tuttavia, mentre il concetto di infanzia immagina la possibilità di un’esperienza ‘muta’ o ‘senza parola’ che mina la pesantezza del discorso, Agamben enfatizza che quando espressa, l’esperienza diventa subito inautentica, perché entra nell’ambito di un discorso che è necessariamente pre-mediato: ‘la costituzione del soggetto nel linguaggio e attraverso il linguaggio è precisamente l’espropriazione di questa esperienza “muta”, è, cioè, sempre già “parola.”64 Ciò significa che la rivendicazione dell’esperienza avviene soltanto nella sua rappresentazione metaforica o finzionale. A tale proposito, Giovanna de Luca estende la teoria agembeniana all’ambito del cinema, sostenendo che: Applicando l’assunto agambeniano all’uso del punto di vista infantile nel cinema, è possibile affermare che quest’ultimo ha il compito di trasformare l’esperienza muta in esperienza discorsiva, ovvero di

62 Alex Murray, ‘Beyond Spectacle and the Image: The Poetics of Guy Debord and Agamben’, in: Justin Clemens, Nicholas Heron and Alex Murray (eds.), Work of Giorgio Agamben: Law, Literature, Life, Edinburgh: Edinburgh University Press 2008, pp. 164-179; Agamben immagina che ogni espressione viene preceduta da un attimo di infanzia, in cui tale espressione non è ancorata nel linguaggio ed è quindi ancora potenziale. 63 Giorgio Agamben, Infanzia e Storia, cit., p. 51. 64 Ivi, cit., p. 45. 26

trasmettere allo spettatore adulto, spogliato dell’esperienza, una visione del reale ricca di interpretazioni. Lo sguardo infantile riesce quindi ancora a costruire un ponte tra significato e significante in quanto la iper- sviluppata sensorialità del bambino è alla instancabile ricerca di un codice attraverso cui esprimere tali percezioni.65

L’argomento della de Luca presuppone che lo sguardo del bambino nel cinema non coincide con un punto di vista discorsivo, e di conseguenza considera l’immagine cinematografica come esempio di un’espressione ‘muta’, per cui è in grado di rappresentare un’interpretazione nuova e spregiudicata del mondo intorno.66 Secondo la de Luca infatti, ‘visualizzando l’infanzia e ritornando alla nostra infanzia, si realizza così la costruzione di una nuova storia del discorso umano’, in quanto il bambino rappresenta un ‘nuovo interprete della realtà la cui visione porta ad una riscoperta dell’umanità non attraverso insegnamenti morali, quanto tramite la poetica riflessione sul reale.’67 Anche se il mezzo cinematografico non è privo di discorso, perché anche esso è mediato da immagini pre-esistenti, l’approccio della de Luca dimostra che il punto di vista del bambino nel cinema potrebbe diventare simbolo della possibilità di reinventare il linguaggio con cui riferirsi alla Storia. Ciò viene confermato da Vickey Lebeau che nell’ambito dei childhood studies, in virtù della sovversione simbolica della parola, riconosce nel cinema un mezzo privilegiato per accedere all’infanzia, in quanto l’immagine cinematografica è capace di mostrare e narrare contemporaneamente.68 Dal pensiero agambeniano sull’infanzia risulta inoltre centrale l’idea che, siccome l’essere umano non dispone del linguaggio fin dalla nascita, per accedere al sistema linguistico, deve ‘prendere la parola’: ‘L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, […] per parlare, deve costituirsi come soggetto del linguaggio, deve dire io.’69 In modo da entrare nel discorso, e quindi di posizionarsi nella narrazione storica, l’essere umano deve costruirsi come un io

65 Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese, cit., p. 26. 66 Ivi, cit., p. 20. 67 Ivi, p. 1, p. 3. 68 Vickey Lebeau, Childhood and Cinema, London: Reaktion Books 2008, pp. 16-17. 69 Agamben, Infanzia e Storia, cit., p. 50. Enfasi nel testo originale. 27 linguistico. In quanto tale, Agamben sostiene che la soggettività sia un effetto del linguaggio e che l’identità del soggetto dipenda dalle condizioni poste dal discorso.70 Ciò vuol dire che il bambino può rivendicare una sua soggettività, oppure una sua identità memoriale, soltanto quando esso coincide con il discorso. Trasferendo il concetto dell’infanzia all’ambito della memoria, si ipotizza che per poter rivendicare la soggettività memoriale, essa debba essere facilitata dal discorso che caratterizza la memoria collettiva. Mentre di solito il bambino entra nello spazio del discorso attraverso il linguaggio dei suoi parenti o maestri, si è visto che la memoria collettiva degli anni Settanta viene occupata dal discorso sulla violenza politica che non lascia spazio alla narrazione della vita ordinaria.71 Per poter entrare nella Storia degli anni Settanta, quindi, il bambino si deve costruire un ‘io-memoriale’ che coincide con la traccia binaria del discorso collettivo. Perciò, si ipotizza che la possibilità di fare resistenza al discorso memoriale sugli ‘anni di piombo’, abbia luogo soltanto prima che il bambino entri nel discorso, cioè soltanto durante l’infanzia. Nel secondo capitolo, si vedrà perciò come i tre film utilizzano la focalizzazione del bambino per poter creare degli instanti di infanzia nei quali è possibile minare l’antagonismo interno che occupa il discorso storico-memoriale degli anni Settanta. Dunque, il concetto di infanzia come proposto da Agamben si rivela uno strumento per poter criticare la tensione antagonista che caratterizza il discorso degli anni Settanta, offrendo, come si vedrà nei prossimi capitoli, un’alternativa in cui la posizione discorsiva, e quindi ideologica e politica, non è ancora definita.72 Presentando il punto di vista dell’infanzia, i tre film propongono di inventare un nuovo codice interpretativo degli anni Settanta e di raccontare l’esperienza del bambino in quanto ancora ‘muta.’ Si vedrà nel prossimo paragrafo che tale (in)esperienza ‘muta’, in quanto

70 Ivi, pp. 42-43. Si veda anche: Kevin Attell, Giorgio Agamben: Beyond the Threshold of Deconstruction, [ebook], New York: Fordham University Press 2015. 71 L’interruzione di tale passaggio verrà approfondita nel terzo capitolo. 72 Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben, cit., p. 81. 28 esclusa dal discorso storico-memoriale, porta alla rivendicazione di una ‘non-storia’ come alternativa alla memoria collettiva degli ‘anni di piombo.’

1.3 Storia o non-storia: gli anni Settanta oltre il discorso collettivo Riguardo La Storia (1974) di , Marco Belpoliti sostiene che attraverso il bambino-protagonista Useppe, la scrittrice è in grado di privilegiare delle ‘storie che rendono narrabile la Grande Storia, magari per antitesi, per opposizione […].’73 In quanto tale, lo studioso ipotizza che l’opera della Morante sfidi la Storia in modo paradossale, svelando ‘l’irrealtà’ della testimonianza dei ‘grandi fatti.’74 In questo paragrafo si cerca di dimostrare che i tre film si collocano in tale posizione in quanto emerge dal ritorno all’infanzia una simile opposizione alla Storia dei ‘grandi’ fatti. Si ipotizza che il punto di vista cinematografico del bambino non risulti in una narrazione di contro-storia, ma che la privazione dell’accesso alla Storia e la conseguente inesperienza del bambino crea un’opposizione più radicale; una non-(ancora)-storia. La possibilità di una non-storia è compresa nell’idea agambeniana che la Storia si svolge nel passaggio dal linguaggio ‘puro’ al discorso. Tale ipotesi implica la sospensione della Storia quando il passaggio non è ancora avvenuto: ciò vuol dire che l’esperienza ‘muta’ del bambino è ancora in grado di minare il discorso binario degli anni Settanta e la classificazione della memoria collettiva in identità fisse. Si nota che il termine non-storia fu utilizzato da Benedetto Croce per intendere ‘una realtà che non sia storica, in quanto priva dei movimenti concreti di una concreta esperienza.’75 Seguendo la nozione crociana, poi, Ernesto di Martino aggiunge che il concetto di ‘non- storia’ si riferisce a ciò che è ‘estranea ai grandi cambiamenti avvenuti dall’epoca.’76

73 Elsa Morante, La Storia, Torino: Einaudi 1974; Marco Belpoliti, Settanta, cit., p. 38. 74 Ibidem. 75 Fulvio Tessitore, Contributi alla Storia e alla Teoria dello Storicismo, Roma: Edizioni di Storia e Letteratura 2000, pp. 285-286 76 Giuseppe Lupo, ‘L’Unità d’Italia nella narrativa della non-storia, dell’antistoria e della controstoria’, in: Italianistica, no. 2 (2011), p. 212. Bisogna notare che Croce e Di Martino si riferiscono in particolare all’epoca del Risorgimento e formulano la nozione di non-storia per intendere l’assenza di uno sviluppo progressivo nell’Italia meridionale. In questa tesi, il termine non-storia viene ri-contestualizzato negli anni Settanta, per cui scompare la connotazione temporale e spaziale della teoria crociana. 29

Nonostante che Croce e di Martino leghino il concetto in particolare all’assenza di uno sviluppo progressivo della Storia, si osserva che l’inesperienza del bambino di fronte alla storia degli anni Settanta risulta infatti dalla sua estraneità ai grandi fatti e dalla seguente impossibilità di rivendicare esperienze oltre il discorso collettivo. Prendendo in prestito il termine di Rosi Braidotti, il bambino viene ridotto ad un ruolo ‘a- signifying’, cioè all’impossibilità di far diventare storica la sua storia.77 In quanto tale, l’esperienza del bambino può soltanto essere ciò che non viene interpretato, ciò che non è discorso e quindi ciò che non è Storia. Tale idea si riflette nell’ambito cinematografico nel quale, secondo Lesley Caldwell, spesso ‘[t]he child is rendered innocent of the contradictions which flaw our interaction with the world.’78 Il bambino non è entrato nel discorso, per cui non ha ancora definito la sua posizione politico-ideologico; non è né a destra, né a sinistra; né comunista, né fascista; né operaio, né borghese; né vittima, né carnefice; e in quanto tale né Storia, né contro-storia. Tale possibilità di sovversione delle categorie fisse che caratterizza il ruolo ambiguo e potenziale del bambino, emerge per esempio da La Kryptonite nella borsa, quando Peppino e sua zia attendono una riunione femminista: “Zio Salvatore non viene con noi?’ –‘No, sono ammesse solo donne’ -‘E io allora?’ - ‘Tu non conti, tu sei un bambino.”79 Quindi, l’infanzia, in quanto precede il discorso dominante, è la condizione potenziale della Storia e in quanto tale, il bambino simbolizza ciò che non è (ancora) Storia. Dall’osservazione di Belpoliti, citata qui sopra, emerge che La storia della Morante gioca con la nozione di Storia, dimostrando che il punto di vista del bambino è in grado di intrecciare la Storia con delle storie. Siccome nella lingua italiana la differenza fra storia, inteso come racconto, e Storia, inteso come la narrazione collettiva delle ‘grandi’ vicende di cronaca, diventa esplicita soltanto nel linguaggio scritto, tale differenza appartiene necessariamente all’ambito del discorso, da cui il bambino è

77 Rosi Braidotti, Transpositions: On Nomadic Ethics, Cambridge: Polity 2006, p. 167. 78 Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato’, cit., p. 67. 79 Ivan Cotroneo, La Kryptonite nella borsa, cit., [00.39.24]. 30 escluso. Perciò, il ritorno all’infanzia decostruisce la differenza fra storia individuale e Storia collettiva. Similmente all’opera della Morante, quindi, i tre film confermano questo assunto. Si è visto dunque che l’altro della ‘Storia’ non è la contro-Storia, ma la non- storia, ed è soltanto tale non-storia del bambino che riesce a sfuggire la traccia binaria del discorso memoriale sugli anni Settanta. Il termine non-storia enfatizza non soltanto l’assenza della percezione dei ‘grandi’ fatti della Storia degli ‘anni di piombo’ nel racconto infantile, ma anche il suo necessario legame ad esso: la non-storia del bambino sembra essere infatti l’ordinario che rende straordinari i ‘grandi’ fatti; la storia che rende narrabile la ‘Grande Storia.’80 In quanto tale, si vedrà nel prossimo capitolo che il bambino riesca ancora a visualizzare una memoria frammentata, incompleta e destabilizzante che, come osserva Aleida Assmann, caratterizza la memoria individuale prima che entra nel discorso collettivo.81 Nel prossimo capitolo si vedrà come l’inesperienza del bambino e la sua infanzia vengono sfruttate nei tre film per poter recuperare il suo sguardo che è in grado di offrire ‘un’alternativa meno tragica della realtà.’82

80 Marco Belpoliti, Settanta, cit., p. 38. 81 Aleida Assmann, ‘Re-framing memory’, cit., p. 4. 82 Eleonora Conti, ‘L'infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni Duemila’, cit., p. 25. 31

2. ‘L’innocenza rivoluzionaria’ dell’infanzia e il punto di vista del bambino

L’assenza del punto di vista del bambino nella memoria degli anni Settanta contrasta con la sua iper-presenza nel cinema italiano fin dal secondo dopoguerra. Patrizia Bettella situa le origini della preoccupazione con il bambino nel cinema in I bambini ci guardano (1943) di Vittorio de Sica, nel quale viene sfruttata l’idea dell’infanzia come il ‘topos dell’innocenza rivoluzionaria.’83 Secondo la Bettella, le opere di De Sica, e successivamente quelle di registi come Luigi Comencini, e Francesca Archibugi, propongono una duplice prospettiva sui bambini i quali si configurano sia come gli oggetti più deboli della società che come spiriti liberi ‘[w]ho stare directly and provocatively because their gaze is still not structured by society and culture.’84 A ciò si aggiunge che la continuità del topos del bambino risiede soprattutto nel suo ruolo come testimone dell’ansia degli adulti, come simbolo della speranza e del rinnovamento e come nostalgia per il passato. Giovanna de Luca lo chiama infatti il ‘termometro verificatore dello status della società’ che viene utilizzato soprattutto in momenti storici particolarmente difficili.85 Anche se l’iper-presenza di bambini nel cinema è stata messa in luce da alcuni studiosi, Lesley Caldwell sostiene che la figura del bambino sia spesso stata data per scontato, riducendola ad un oggetto stereotipato, e sottolinea che ‘[t]his taken-for-grantedness is itself one of the issues at stake in the ubiquity of the child’s place in Italian cinema and in Italian culture more generally.’86 L’idea della presenza ambigua del bambino, in quanto oggetto e soggetto, presente e ignorato allo stesso tempo, si riflette in un lamento del bambino-protagonista Dario in Anni felici:

83 Patrizia Bettella, ‘Introduction’, in: Quaderni d’italianistica, no. 2 (2013), p. 5; Vittorio de Sica, I bambini ci guardano, Scalera Film (1943). La Bettella nota una discrepanza fra la presenza di bambini nel cinema e i film indirizzati ad un pubblico infantile. Anche se quest’osservazione è interessante per quanto riguarda l’assenza di film ambientati negli anni Settanta per i bambini, l’analisi di tale assenza è oltre lo scopo di questa tesi. 84 Patrizia Bettella, ‘Introduction’, cit., p. 5. 85 Danielle Hipkins, ‘The child in Italian Cinema’, cit., p. 2; Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese, cit., p. 3; si veda anche: Eleonora Conti, ‘L'infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni Duemila’, cit., p. 25. 86 Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato?’, cit., p. 65. 32

‘Noi [io e mio fratello, ed.] c’eravamo sempre. Peccato che nessuno se ne accorgesse.’87

Questo lamento di Dario, in primo luogo indirizzato ai genitori egocentrici, simbolizza non solo l’ambigua presenza dei bambini nel cinema, ma anche nel discorso sugli anni Settanta. Attraverso la voce narrante, Dario riflette sulla tensione fra la sua esperienza infantile e l’impossibilità di essere riconosciuto come soggetto nel discorso memoriale. Seppure rischia di diventare un’idea cliché, Karen Lury e Peter Verstraten notano che l’inesperienza del bambino rispetto all’adulto, ma anche rispetto al discorso collettivo, contribuisce alla sua focalizzazione della realtà in modo non convenzionale, e in quanto tale la figura del bambino resiste un’interpretazione lineare e coerente della storia.88 In questo capitolo si analizza perciò in che modo il punto di vista del bambino viene strumentalizzato per poter realizzare un ritorno all’infanzia attraverso cui si riesce a trasmette un’immagine alternativa degli anni Settanta. Proponendo un’analisi della focalizzazione e dell’inquadratura cinematografica dei bambini in Anni felici, La prima cosa bella e La kryptonite nella borsa, si esplora come i concetti dell’inesperienza e dell’infanzia si riflettono nel punto di vista del bambino, per cui emergono dai rispettivi film frammenti di una non-storia degli anni Settanta. Riguardo il punto di vista del bambino nel cinema, Karen Lury richiama l’attenzione alla differenza fra vedere e mostrare, che è inerente al medium. Lury sostiene che, mentre il punto di vista cinematografico tenda a mostrare una storia, ciò sia un approccio ‘da adulto’ il cui sguardo fisso giudica, dimostra, classifica e àncora la narrazione in un contesto storico.89 Senza pretendere che il punto di vista del bambino sia universale, Lury suggerisce che dalla curiosità infantile per vedere il mondo emerge ‘a fascination and a sense in which effects (what is seen) are closer to affect (what is felt).’90 Si vedrà che tale interpretazione sottolinea la differenza fra il bambino come

87 Paolo Virzì, Anni felici, cit., [00.13.09]. 88 Karen Lury, ‘The Child in Film and Television: Introduction’, in: Screen, no. 3 (2005), p. 308; Peter Verstraten, Handboek Filmnarratologie, Nijmegen: Vantilt 2008, p. 106. 89 Karen Lury, ‘The Child in Film and television’, cit., pp. 308-309. 90 Ivi, p. 308. 33 oggetto focalizzato e il suo sguardo da focalizzatore, con cui giocano i tre film per poter enfatizzare l’inesperienza dei loro giovani protagonisti.

2.1. Vedere ed essere visto: ‘Gli spettatori muti’ in Anni felici Alla luce del lamento di Dario, citato qui sopra, è interessante notare che i tre film considerati prendono proprio l’esclusione del bambino dalla narrazione, e per estensione dal discorso, come punto di partenza, prima che il suo punto di vista venga strumentalizzato per un ‘ritorno all’infanzia.’ Il topos del bambino come la presenza esclusa o il ‘silent witness’ è stato sfruttato nel cinema italiano fin dai primi anni Quaranta e dimostra, secondo Lesley Caldwell, ‘[a] disjunction between ideas about children as prioritized […] and the reality of the positions they occupy in the narratives, where they are overlooked, neglected, alone, or vehicles for parental ambition.’91 A proposito di Anni felici, Lorenzo Taddei richiama all’attenzione il fatto che Luchetti ‘[l]i chiama “spettatori muti”, quei ragazzini ai quali non restava che assistere, in balia della propria confusione mista ad impotenza, a quelle interminabili discussioni in cui due adulti si bestemmiavano contro le ingiurie più impensabili.’92 Alla luce delle osservazioni di Caldwell e Taddei, il lamento di Dario mette in rilievo l’ambiguità del bambino-spettatore che da un lato viene considerato il testimone passivo, senza lingua, che richiede di essere visto, mentre tale condizione gli dà anche la possibilità di vedere o focalizzare il mondo da una prospettiva insolita. In modo da enfatizzare l’ambigua presenza di Dario e suo fratello minore Paolo, i bambini vengono presentati in primo luogo come estensioni dei genitori che trascinano i figli con sé e che decidono per i figli a quali ‘esperienze’ possono assistere. All’inizio del film, per esempio, il personaggio del padre Guido spinge i bambini fuori dalla porta del suo studio, mentre la scena continua a svolgersi all’interno. In questo momento, il punto di vista cinematografico coincide con un narratore esterno e

91 Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato?’, cit., p. 65. 92 Lorenzo Taddei, ‘Anni felici di Daniele Luchetti’, s.d., in: Ondacinema webzine, http://www.ondacinema.it/film/recensione/anni_felici.html, consultato 30 giugno 2018. 34 onnipresente che favorisce l’esclusione del bambino dalla scena e lo inquadra come oggetto a volte visto, a volte anche non. Tale esclusione del bambino enfatizza la sua inesperienza, non solo in quanto non assiste agli eventi ‘degli adulti’, ma anche in quanto emerge una discrepanza fra ciò che succede e ciò che il bambino è in grado di recuperare. Infatti la voce narrante di Dario che accompagna la scena è esemplare per l’interpretazione mistificante, non-lineare e non-interpretativa del bambino inesperto: ‘nello studio di mio padre avvenivano delle cose strane; il gesto liquido diventava solido; le impalcature diventavano figure; e le cose altre cose.’93 Il film tende in primo luogo a immaginare i bambini come degli specchi dei sentimenti dei genitori per cui il loro linguaggio echeggia quello degli adulti. Mentre Dario è un bambino di poche parole – e in questo senso veramente ‘muto’ per gran parte del film - il piccolo Paolo in particolare sembra essere estraniato da un linguaggio suo, creando una discrepanza fra la figura del bambino e il linguaggio copiato. Poco dopo aver assistito ad un litigio fra i genitori, Paolo commenta sulla situazione, spiegando alla madre Serena che ‘[p]apà quando dice “convenzionale” vuol dire che gli fa schifo.’94 A causa dell’assenza di una voce propriamente sua nella situazione tesa in cui si trova, il bambino diventa una presenza sovversiva, a volte comica, che si riflette nell’osservazione di David Oswell che il bambino si trova spesso in ‘[a]n empty space [that] is a consequence of man finding himself in language without a voice.’95 L’idea del bambino senza voce viene rafforzata, e poi invalidata, al livello tecnico del film: il punto di vista di Dario viene ostacolato dal narratore esterno, per cui esso è incassato nella focalizzazione esterna. Invece di mostrare delle riprese soggettive che coincidono con il campo visivo del bambino, il film utilizza la tecnica ‘over-the- shoulder’ in cui il bambino viene inquadrato – solitamente infatti di spalle, ma a volte

93 Paolo Virzì, Anni felici, cit., [00.02.47]. 94 Paolo Virzì, Anni felici, cit., [00.08.03]. 95 David Oswell, ‘Infancy and Experience: Voice, Politics and Bare Life’, in: European Journal of Social Theory, no. 1 (2009), p. 136, p. 141. 35 anche di fronte - mentre la macchina da presa lo segue.96 Ciò vuol dire che non si vede la storia attraverso gli occhi di Dario, ma attraverso il narratore che mostra ciò che il bambino vede. In quanto tale, Dario non riesce a rivendicare delle riprese soggettive, ma, anche se la storia è sua, viene ridotto infatti a uno spettatore passivo, caratterizzato dall’inesperienza di fronte agli eventi a cui assiste.

Figura 3 – Anni felici [00.07.11]

Tale condizione sembra esemplare per il bambino inesperto in quanto il suo modo di vedere il mondo è, secondo Karen Lury, non-regolato e sovversivo.97 La tecnica cinematografica più utilizzata per inquadrare le riprese soggettive è il montaggio ‘eyeline match’, in cui la ripresa che inquadra il personaggio-focalizzatore viene seguita dalla ripresa del suo campo visivo, e vice versa. Invece, lo sguardo di Dario è quello tipico del bambino, cioè è uno sguardo non-regolato, sfuggente e iper-mobile, che spesso è diretto fuori l’inquadratura del film, oppure il bambino si isola chiudendosi gli occhi per non dover vedere la scena (figura 3). Siccome lo sguardo infantile di Dario

96 La differenza sottile fra la ripresa soggettiva, in cui il punto di vista coincide con il campo visivo del personaggio, e la ripresa ‘over-the-shoulder’, in cui la focalizzazione è incassata nel narratore esterno, è stata descritta anche da Peter Verstraten in: Peter Verstraten, Handboek Filmnarratologie, cit., pp. 104-105. 97 Karen Lury, ‘The child in film and television’, cit., p. 308. 36 nel film è vagante – e a volte vacante – la macchina da presa non riesce a catturarlo.98 Tale atteggiamento ostacola la possibilità dell’eyeline match, per cui il film non può focalizzare attraverso il bambino. A causa di ciò, Dario non può costruirsi come soggetto nel linguaggio (cinematografico) e allora rimane privo di soggettività.

Figura 4 – Anni felici [00.35.02]

Tutto questo cambia però quando Dario ottiene la cinepresa Super8, regalatogli dalla nonna materna. Grazie alla cinepresa, il bambino si trasforma da oggetto passivo in testimone ‘muto’: Dario riesce a provocare il narratore esterno, rivolgendo il Super8 in modo diretto alla macchina da presa (figura 4). Anche se il suo campo visivo è possibile soltanto quando filtrato attraverso la cinepresa, in questo modo Dario rivendica la possibilità dell’eyeline match e quindi riesce a trasmettere delle riprese soggettive che coincidono con il punto di vista del bambino. Le riprese del Super8 inserite nel complesso del film creano una narrazione a cornice che si distingue dalla narrazione esterna per l’uso di inquadrature e colori diversi, particolari per il formato

98 Per l’implicazioni di questa tecnica, si veda anche: Edward Branigan, Point of View in the Cinema: A Theory of Narration and Subjectivity in Classical Film, Berlin: Mouton Publishers 1984, p. 123 e p. 130. 37 del Super8 (figura 5).99 I filmati di Dario riflettono il mondo innocente e affettivo del bambino, che contrasta con quello degli adulti: si focalizzano sulla natura e gli animali, sull’atteggiamento ingenuo del fratello minore e sulla gioia del gioco, mentre imitano lo sguardo vagante del bambino attraverso i movimenti instabili e la sequenza non- narrativa delle riprese. Grazie anche al fatto che le riprese sono privi di suoni e voci, Dario inventa un linguaggio visivo essenzialmente diverso dal discorso degli adulti in cui sono inseriti, simbolizzando infatti un ritorno ai modi dell’infanzia. Quindi, le riprese soggettive di Dario attraverso il Super8 sono esemplari per una non-storia composta da ricordi affettivi dell’infanzia, in quanto sono frammentati, non strutturati attraverso un montaggio narrativo e quindi non (ancora) interpretati in un discorso coerente. Dunque, Anni felici prende spunto dall’esclusione del bambino dal linguaggio letterale e visivo del film, enfatizzando la doppia inesperienza dei bambini protagonisti attraverso il linguaggio, l’inquadratura e la focalizzazione esterna. Però, invece di rivendicare il suo punto di vista entrando nel linguaggio degli adulti, Dario non subisce il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, come nel classico Bildungsroman¸ ma riesce ad inventare un linguaggio metaforicamente muto, diverso dal discorso degli adulti, che simbolizza nel complesso del film un ritorno all’infanzia.100 Tale interpretazione paradossale viene confermata dalla voce narrante di Dario quando commenta che ‘[…] avevamo perso la nostra innocenza. O meglio sarebbe dire che l’avevamo guadagnata.’101 In quanto tale, lo sguardo di Dario, filtrato dalla nostalgica cinepresa Super8, favorisce la possibilità di frammenti di non-storia degli anni Settanta, incentrata

99 Il formato Super8 fu introdotto nel 1965 e rilanciato in 1973 da Kodak. L’uso del Super8 nel film si colloca in una tendenza nostalgica che si caratterizza per l’idea che quando si pensa ad un periodo, risaltano in mente le materie con cui sono fatte le sue immagini: in quanto tale, i colori particolari del Super8 hanno definito la memoria nostalgica agli anni Settanta. Questa tendenza viene confermata dal fatto che Kodak ha annunciato un rilancio del formato Super8 nel 2018. Per i processi della nostalgia agli anni Settanta, si veda anche: Emiliano Morreale, L’invenzione della nostalgia, cit., pp. 5-6. 100 In questo senso, il film segue la traccia opposta a quella seguita dal regista in Mio fratello è figlio unico (2007), che dimostra infatti come la costruzione dell’identità durante l’adolescenza coincide con la presa di una posizione politica. 101 Daniele Luchetti, Anni felici, cit., [00.59.23]. 38 sui modi innocenti e affettivi del bambino per vedere il mondo da cui è altrimenti escluso.

Figura 5 – Anni felici [00.45.36]

2.2. Lo sguardo ostacolato del bambino in La prima cosa bella Riguardo lo stereotipo dell’innocenza e dell’inesperienza del bambino nel cinema, Danielle Hipkins enfatizza la centralità della domanda che cosa si sta evitando quando si investe nella figura del bambino per un ritorno all’infanzia.102 Per Bruno in La prima cosa bella il ritorno alle memorie d’infanzia attraverso i flashback rappresenta in primo luogo una fuga dalla sua realtà contemporanea, in cui il personaggio adulto si vede confrontato con una mamma malata terminale, con degli rapporti ardui con la famiglia, con la città natale, Livorno, lasciata anni prima per il lavoro a Milano, e con un contesto politicizzato.103 I graffiti sui muri a favore e contro i partiti politici – in particolare la Lega Nord - e i cartelli stradali memoriali, per esempio per il parco Walter Tobagi,

102 Danielle Hipkins, ‘The Child in Italian Cinema’, cit., p. 22. 103 Eleonora Conti e Lesley Caldwell dimostrano che quest’implicazione del flashback viene spesso legato al topos del bambino. Eleonora Conti, ‘L'infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni Duemila’, cit., p. 25; Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato?, cit., p. 64. 39 vengono enfatizzati dai movimenti della macchina da presa e rimandano inevitabilmente alla polemica politica nella quale risuona la memoria degli ‘anni di piombo’ (figura 6).104 In secondo luogo però, la tecnica del flashback enfatizza l’idea, proposta fra l’altro da Lesley Caldwell, che il bambino rappresenta ‘[t]he site of the former self.’105 In quanto tale, i flashback rappresentano un tentativo di recuperare una sua esperienza individuale dell’epoca con cui affrontare il presente, segnata però dalla parzialità e dalla frammentazione del suo sguardo infantile.

Figura 6 – La prima cosa bella [00.06.46]

Il flashback come tecnica narrativa che favorisce il ritorno all’infanzia è un approccio ‘da lontano’, nel senso descritto da Giovanna de Luca: ‘[l]o sguardo da lontano è quello dell’adulto su sé stesso nella revisione mnemonica della propria

104 Walter Tobagi fu uno scrittore e giornalista per la Corriere della Sera, assassinato dalle Brigate Rosse il 28 maggio 1980 dopo aver indagato sul terrorismo di sinistra. Rappresentando il punto di vista della vittima degli ‘anni di piombo’, la figlia Benedetta, all’epoca bambina di tre anni, ha scritto il romanzo ‘Come mi batte forte il tuo cuore’ in cui tenta di rivendicare la memoria del padre: Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore, Torino: Einaudi 2009. Si veda anche: Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen, ‘Introduction’, cit., p. 148. Il modo in cui i luoghi vengono politicizzati nei tre film verrà approfondito nel terzo capitolo. 105 Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato?, cit., p. 62. 40 infanzia.’106 Ciò comprende necessariamente un narratore che coincide con il punto di vista dell’adulto e implica l’inesperienza come condizione di una memoria profondamente mediata. Iniziando i flashback dalla prospettiva a volo d’uccello, Bruno- adulto si presenta come narratore esterno oggettivo che non si limita a rivisitare se stesso da bambino, ma che cerca di comprendere il panorama della sua infanzia negli anni Settanta.107 Perciò, Bruno-adulto è in grado di narrare delle esperienze a cui non ha assistito da bambino e non possono essere memorie strettamente sue. In quanto oggetto della focalizzazione del narratore adulto, il bambino non trova spazio per poter rivendicare le esperienze ‘pure’ e affettive che caratterizzano il suo mondo. A causa del flashback, quindi, il film confronta il bambino con una doppia esclusione dall’esperienza: non solo il bambino è soltanto oggetto della focalizzazione, tale focalizzazione enfatizza l’esclusione di Bruno e sua sorella minore Valeria sul piano dell’inquadratura. Ciò è la conseguenza del fatto che i bambini vengono spesso lasciati da soli. Le scene in cui i bambini non possono partecipare al mondo degli adulti sono numerose: quando la madre porta i bambini ad una festa, sono costretti a trascorrere la serata nella cucina della villa lussuosa; i bambini vengono lasciati da soli alla casetta a Castiglioncello quando la madre aspirante attrice si dirige verso il film set a Livorno; i bambini trascorrono delle giornate intere nella cantina del negozio dove la madre lavora di giorno; la zia non gli permette di giocare con gli altri bambini e quindi rimangono chiusi in casa. A causa di ciò, i bambini percepiscono poco della vita sociale, culturale e politica dell’epoca. Tale esclusione viene rafforzata dalla focalizzazione onnipresente di Bruno-adulto, che non rimane fedele all’immagine di se stesso da bambino, ma vaga per poter enfatizzare ciò che il bambino non ha vissuto. Tuttavia, il film presenta tre scene in cui Bruno-bambino è in grado di provocare la macchina da presa rivendicando il suo punto di vista. Grazie alla tecnica dell’eyeline match, che viene iniziata da un close-up di Bruno seguito dalla ripresa del

106 Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese, cit., p. 2. 107 Per una spiegazione dell’uso della prospettiva a volo d’uccello come tecnica che implica l’oggettività, si veda: Peter Verstraten, Handboek Filmnarratologie, cit., pp. 120-121. 41 suo campo di vista, queste scene vengono focalizzate dall’interno attraverso uno sguardo che coincide con quello del bambino (figura 7). Le scene focalizzate da Bruno- bambino sono quelle in cui è il testimone ‘muto’ della violenza subita dalla madre. Portando avanti il tema dell’esclusione del bambino dal mondo degli adulti, il film ostacola lo sguardo del bambino: nascondendosi dietro i cespugli, i fogli ostacolano il suo campo di vista quando Bruno spia la mamma e il producente del cinema, per cui il bambino non è in grado di vedere la scena in modo diretto. Una scena simile accade quando Bruno è il testimone dell’abuso della madre da parte del padre, ma percepisce la scena attraverso il buco della serratura (figura 8) o quando il bambino riesce a vedere attraverso la porta socchiusa soltanto frammenti di una scena in cui la madre viene violentata. Mentre Morena Marsilio osserva che i bambini ‘condividono il desiderio di far proprie le esperienze che per antonomasia caratterizzano l’età adulta, il sesso e la violenza’, lo sguardo ostacolato del bambino dimostra proprio l’impossibilità del bambino di integrare il discorso adulto nel suo linguaggio.108 Anche qui, come in Anni felici, il ritorno all’infanzia non rappresenta la formazione del bambino, ma la possibilità di ritornare a un luogo simbolico in cui il linguaggio del bambino è ancora privo di implicazioni discorsive. Vedendo soltanto instanti di violenza, Bruno, in quanto simbolo di ‘un’innocenza rivoluzionaria’, non è in grado di creare una narrazione coerente della scena e la sua confusione viene rafforzata dai movimenti tremanti della macchina da presa, che imitano lo sguardo mobile e ansioso del bambino.109 Attraverso questo ‘linguaggio’ cinematografico, il film, riflettendo l’osservazione di Giovanna de Luca che il bambino è sospeso dall’interpretazione razionale, si collega in modo simbolico allo stereotipo del bambino innocente e ‘muto’, che riesce a trasmettere delle

108 Morena Marsilio, ‘Immaginari infantili nelle prose degli anni Zero’, in: Richard e Piggle, no. 2 (2016), p. 158. 109 Patrizia Bettella, ‘Introduction’, cit., p. 5; In questa scena, i movimenti della macchina da presa sono collegati alla focalizzazione interna del bambino. Per un’analisi di questa tecnica narrativa, si veda: Peter Verstraten, Handboek Filmnaratologie, cit., p. 77. 42 immagini e delle emozioni senza dover interpretarli in un discorso lineare, coerente o collettivo.110

Figura 7 – La prima cosa bella [00.38.15]

Figura 8 – La prima cosa bella [00.15.51]

110 Giovanna de Luca, ‘I bambini e noi: l’infanzia nel cinema di Luigi Comencini’, in: Quaderni d’italianistica, no. 2 (2013), p. 93. 43

In conclusione, si è visto che, similmente a Anni felici, il bambino in La prima cosa bella viene in primo luogo immaginato come l’oggetto passivo che, a causa della sua esclusione dall’inquadratura e dalla focalizzazione esterna, si trova nel mondo dell’adulto senza una sua voce. Mentre i flashback focalizzati da Bruno-adulto cercano di interpretare il passato in modo da farne una spiegazione per il presente, il film dimostra che il vero trauma dell’epoca è quello individuale, percepito soltanto in modo ostacolato e parziale. Il punto di vista dell’infanzia rappresenta quindi la possibilità di un’esperienza ‘muta’ che resiste l’interpretazione adulta della scena e precede una narrazione coerente. Bruno è in grado di mettere in rilievo la storia di violenza anonima, dimostrando che il bambino riesce soltanto parzialmente a interpretare la violenza privata, mentre ignora del tutto i riferimenti alla violenza pubblica. Grazie alla focalizzazione del bambino, il film è in grado di trasmettere una memoria individuale degli anni Settanta caratterizzata dalla frammentazione e la parzialità dello sguardo infantile.

2.3. Il bambino miope in La kryptonite nella borsa

‘Peppì, devi fare finta di non aver visto niente. Se no, non ti portiamo più.’111

Dalla raccomandazione dello zio ventenne Salvatore emerge subito che lo sguardo di Peppino, il bambino-protagonista in La kryptonite nella borsa, svolge un ruolo centrale nel film. Lo sguardo del bambino ha accesso infatti a degli eventi e luoghi nuovi o segreti – quella della cultura hippy a Napoli – da cui sono esclusi gli altri adulti della sua famiglia conservativa. Però, siccome gli viene proibito di parlarne, Peppino non può traslare le sue esperienze in una narrazione, per cui rimane il testimone muto e inesperto nel senso agambeniano. Facendo finta che non vede le cose che vede, e poi vedendo delle cose che nessun’altro può vedere, lo sguardo particolare del bambino miope,

111 Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa, cit., [00.42.05]. 44 aiutato dagli occhiali prominenti, crea una realtà parallela a quella degli adulti e riesce a visualizzare una storia alternativa.

Figura 9 – La Kryptonite nella borsa [00.31.16]

In modo simile a Dario e Bruno nei film già citati, anche Peppino viene esplicitamente escluso dal mondo degli adulti per cui la sua ambigua presenza, in quanto presente e ignorato, viene enfatizzata. Nella scena in cui i nonni di Peppino organizzano una riunione per decidere chi si deve occupare del bambino in assenza dei genitori, il bambino è seduto su uno sgabellino nel buio al lato estremo dell’inquadratura, per cui non solo gli adulti non gli prestano attenzione, ma anche lo spettatore ha difficoltà a trovarlo (figura 9).112 A ciò contribuisce il fatto che il focalizzatore esterno si rivolge verso gli adulti, mostrandoli uno per uno, ma ignora Peppino. Perciò, il bambino non è soltanto il testimone muto della scena, ma anche un’oggetto deliberatamente escluso sia dal discorso adulto che tratta di Peppino senza includerlo, che dalla focalizzazione. Rappresentando in modo visivo questa marginalità di Peppino, il film riflette sulla difficoltà per il bambino di essere visto e ascoltato, e per estensione sulla sua incapacità di assumersi una sua soggettività che viene riconosciuta dal discorso adulto.

112 I rapporti famigliari e l’assenza (relativa) dei genitori di Peppino verranno discusso nel terzo capitolo. 45

Perciò, il bambino si vede costretto ad inventare un altro modo per poter visualizzare una sua identità. La prima scena del film - priva di suoni, voci e musica e quindi letteralmente ‘muta’- mostra la riflessione di Peppino nello specchio (figura 10). Nell’analisi di Vicky Lebeau, lo specchio ha un ruolo significativo per il bambino cinematografico: la studiosa osserva che i bambini vengono spesso confrontati con ‘[t]he mirror that does not “look back”, the mirror from which one’s own image is missing’, che simbolizza la loro ansia e solitudine.113 Qui invece la presenza della riflessione sembra essere una rappresentazione ‘pura’ del bambino in cui Peppino vede se stesso senza la mediazione del linguaggio altrui: la riflessione trasforma la solitudine del bambino-protagonista in una capacità di poter visualizzare un’identità da cui manca la caratterizzazione attraverso gli altri personaggi o attraverso un focalizzatore esterno. In quanto tale, il bambino-protagonista si presenta come un soggetto che non si è ancora posizionato nel linguaggio, cioè come un io ancora ‘muto.’ In più, questa ripresa dimostra che anche l’implicazione opposta all’osservazione della Lebeau potrebbe funzionare nel cinema: la riflessione di Peppino, in quanto lo sguardo del bambino è diretto soltanto verso se stesso, preannuncia che la visione del bambino trova risonanza soprattutto nella propria fantasia. La riflessione di Peppino rappresenta quindi la possibilità, almeno nel cinema, di visualizzare l’infanzia nel suo non-coincidere con un discorso pre-mediato e apre lo spazio a uno sguardo non-mediato del bambino. L’alternanza fra la focalizzazione esterna, che ignora Peppino, e quella interna che invece coincide con lo sguardo del bambino, enfatizza la discrepanza fra il mondo degli adulti e l’interpretazione del bambino. Grazie a tale discrepanza, Peppino viene visualizzato come un essere essenzialmente diverso dagli adulti, che non parla la loro lingua. Alla luce dell’idea proposta da Karen Lury che ‘[t]he essential understanding of the child is the child as being rather than becoming’, il film infatti non propone il bambino come il divenire adulto o l’adulto mancante – topos spesso sfruttato nei film

113 Vicky Lebeau, Childhood and cinema, cit., p. 63. 46 del neorealismo - ma lo localizza nel suo essere diverso dagli altri. 114 Questo motivo della diversità viene rafforzato sul piano della caratterizzazione. Prima ancora che lo spettatore abbia potuto vedere il bambino, esso viene caratterizzato dalla giovane zia Titina come ‘proprio brutto’, e dallo zio Salvatore come ‘non brutto brutto, ma un tipo.’115 Tale bruttezza è dovuta soprattutto agli occhiali prominenti, che rendono il bambino diverso dagli altri e che sono la fonte dei dispetti dei compagni di classe: ‘L’evento più straordinario della vita di Peppino fu la scoperta della sua miopia. Antonio e Rosaria [i genitori, ed.] non conoscevano altri bambini con gli occhiali.’116 Questi occhiali ‘brutti’ e ‘diversi’ diventano il simbolo della visione alternativa del bambino in quanto non aiutano Peppino semplicemente a guardare, ma a vedere il mondo da un punto di vista tutto suo. Gli occhiali, in quanto mezzo visivo, rappresentano quindi la diversità e la particolarità del punto di vista con cui il bambino affronta il mondo.

Figura 10 – La Kryptonite nella borsa [00.00.46]

Tale particolarità risiede, secondo Eleonora Conti, soprattutto nel fatto che i bambini ‘con leggerezza, fantasia e tenacia riescono, almeno per un po’ e nonostante la fragilità che necessariamente li caratterizza, a sopravvivere in un mondo pietroso e inospitale. […] Questa resistenza ha un potere di trasformazione, di metamorfosi, che

114 Karen Lury, ‘The child in film and television’, cit., p. 308. 115 Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa, cit., [00.02.06]. 116 Ivi, [00.03.12]. 47

[…] implica una “dissoluzione della compattezza del mondo.’117 Mentre le riprese imitano lo sguardo sfocato e quindi incomprensibile del bambino miope senza gli occhiali, quando si mette gli occhiali, invece, Peppino è in grado di visualizzare una dimensione fantastica in cui richiama alla vita il cugino morto Gennaro, vestito da Superman. In questo modo, Peppino riesce a resistere all’ardua realtà: si rivolge a Gennaro Superman quando i compagni di classe gli fanno i dispetti e quando sua madre cade in depressione. Un’altra scena esemplare è quella in cui la madre di Peppino e la zia Titina litigano sui rapporti fra uomini e donne, cambiati dall’68 in poi: mentre la madre di Peppino preferisce il ruolo tradizionale della donna, la zia più giovane si esprime in favore di rapporti sessuali liberi, creando una tensione generazionale quando sostiene che ‘sono tempi diversi, sono altri anni, tutto è cambiato.’ 118 In quanto infante, però, il piccolo Peppino è ancora sospeso da tale discorso socio-politico e rincorre alla fantasia per poter sfuggire dalla situazione tesa: attraverso la tecnica eyeline match, il suo sguardo confuso incontra il fantasma di Gennaro Superman (figura 11). Grazie a questa dimensione fantastica, Peppino riesce a minare l’antagonismo binario che caratterizza la lite fra la madre tradizionale e la zia progressiva, proponendo un’alternativa felice e speranzosa. L’inserimento della strana figura colorata di Gennaro, con la tipica tuta blu e il mantellino rosso, nei luoghi altrimenti bui e degradati, enfatizza che si tratta del punto di vista di Peppino. Da ciò emerge che la focalizzazione attraverso il colore è parte integrante del linguaggio del bambino, che propone un mondo decisamente più vibrante di quello degli adulti. Per quanto riguarda il rapporto particolare fra il bambino e gli animali, proposto spesso dalla letteratura e dal cinema, Eleonora Conti nota che essi ‘possono vivere in pace perché si intendono perfettamente e parlano la stessa lingua.’119

117 Eleonora Conti, ‘La Storia sulle spalle. Strategie infantili per affrontare la catastrofe’, in: Bollettino ‘900, no. 12 (2015), p. 155. 118 Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa, cit., [00.14.15]; L’analisi del punto di vista del bambino sui rapporti famigliari negli anni Settanta verrà approfondito nel prossimo capitolo. 119 Eleonora Conti, ‘La Storia sulle spalle’, cit., p. 156. La Conti si riferisce in particolare al rapporto fra Useppe e il cane Bella in La Storia di Elsa Morante. 48

In modo simile, Peppino condivide il suo punto di vista con Gennaro, per cui le due figure anomale del film possono visualizzare, come si vedrà nel prossimo capitolo, ‘una sorta di rifugio felice dalla Storia’ nel quale si può ancora credere ai supereroi. 120 Dunque, la focalizzazione nel film segue una doppia traccia che enfatizza l’inesperienza e l’alterità dello sguardo del bambino: la leggerezza dello sguardo di Peppino crea un mondo parallelo rispetto a quello tradizionale e problematico degli adulti, rappresentato dalla focalizzazione esterna. In modo simile a Dario e Bruno, quello di Peppino non è un percorso dall’infanzia all’adolescenza, ma un ritorno all’infanzia che consiste in un tentativo di offrire un linguaggio innocente, affettivo e colorato con cui affrontare la Storia. La sua è quindi una non-storia, non solo perché riesce a minare le categorie fisse della memoria collettiva proponendo una narrazione di vita ordinaria da cui mancano i luoghi comuni degli ‘anni di piombo’, ma anche perché il suo sguardo fantastico riesce a inventare un mondo abbellito e colorato in cui si confondono il reale e il non-reale.

Figura 11 – La Kryptonite nella borsa [00.14.32]

In conclusione, anche se i film non riescono completamente a decostruire lo stereotipo del bambino come oggetto passivo, innocente o muto, tale condizione infantile viene utilizzata sia in modo letterale che simbolico per poter enfatizzare

120 Ibidem. 49 l’ambigua presenza dei bambini nella narrazione degli anni Settanta. Giocando con la focalizzazione del bambino sia come oggetto focalizzato che come focalizzatore, i film mettono in crisi l’idea, proposta da Giovanna de Luca, che i bambini sono in grado di trasmettere ‘il reale senza filtri.’121 Si è visto infatti che gli sguardi dei bambini sono sempre filtrati da un mezzo che rende diversa la sua visione del mondo – il Super8, il buco della serratura, gli occhiali – ed è sempre tale filtro, simbolo dell’innocenza e della fantasia esemplare per i bambini, che favorisce un ritorno all’infanzia, grazie a cui il bambino riesce a rivendicare un suo punto di vista. Tale punto di vista riflette la particolarità e il carattere frammentario della memoria individuale, come notato da Aleida Assmann, per cui è escluso dalla memoria collettiva.122 Nel prossimo capitolo si vedrà come il punto di vista dell’infanzia e la non-storia del bambino contribuiscono a una narrazione sovversiva dei temi degli anni Settanta, di cui i bambini sono gli eredi ambigui.

121 Giovanna de Luca, ‘I bambini e noi’, cit., p. 86. 122 Aleida Assmann, ‘Re-framing memory’, cit., p. 4. 50

3. Gli spazi per la ribellione: i bambini contro la memoria degli anni Settanta

La famiglia italiana tradizionale, come visualizzata nei tre film, è radicata nel sistema patriarcale in cui il padre è il capofamiglia, la madre è la responsabile dei servizi domestici e il bambino è sottoposto ai genitori. Anche se la crisi della famiglia patriarcale è stata osservata prima degli anni Settanta, per esempio in alcuni film degli anni Quaranta e Cinquanta, quest’epoca vede per la prima volta una contestazione politica all’autorità dell’uomo sulla donna.123 Le rivolte studentesche degli anni Sessanta - di cui è simbolo il movimento del Sessantotto - e lo sviluppo del femminismo portano negli anni Settanta un’aria di cambiamento, iniziando, secondo Anna Cento Bull e Adalgiso Giorgio, ‘a crucial period for Italy, initiating changes and trends which have manifested themselves, and, in some cases, entered the mainstream only in recent years.’124 Sia al livello politico che privato entrano in crisi le strutture autoritarie e patriarcali per cui vengono sfidati i rapporti famigliari tradizionali: di ciò sono le pietre miliari il referendum sul divorzio nel 1974, la legge sulla riforma del diritto di famiglia, approvata nel 1975 e l’approvazione della legge sull’aborto nel 1978. In una scena di La kryptonite nella borsa, la giovane Zia Titina, ispirata dalla cultura giovanile hippy, spiega infatti che ‘i rapporti fra uomini e donne non sono più la stessa cosa.’125 Nonostante le conquiste politiche e giuridiche portino a un nuovo equilibrio all’interno delle famiglie, cambiando anche il rapporto tra genitore e figlio, dall’osservazione di zia Titina emerge ancora la mancanza della voce dell’infanzia in questa tematica. Mentre nei capitoli precedenti si è visto che il bambino è stato escluso dalle esperienze concrete della grande Storia, in questo capitolo si cerca di indagare dove la figura del bambino nei tre film trova ancora lo spazio per ribellarsi a tale condizione. Nel primo paragrafo si analizza perciò come i bambini sfidano i rapporti famigliari, messi sotto accusa in quel periodo, e in particolare come essi, affrontando una maggiore

123 Patrizia Bettella, ‘Introduction’, cit., p. 2, p. 6; La Bettella analizza questo topos in I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica. 124 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970s through the looking glass’, cit., p. 2. 125 Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa, cit., [00.14.18] 51

(in)dipendenza dai genitori, problematizzano il tema dell’eredità, sia sul piano famigliare che al livello storico-culturale. Nel secondo paragrafo si analizza invece in che modo il bambino interagisce con gli spazi reali, simbolici e immaginati degli anni Settanta, per poter crearsi un rifugio felice nel quale sia ancora possibile ribellarsi agli adulti attraverso instanti di avventura infantile.

3.1 I rapporti famigliari e l’eredità distorta Citando Rainer Maria Rilke, Giorgio Agamben sostiene che l’inesperienza del bambino vada accompagnata dalla diseredità, in quanto il bambino è necessariamente sospeso fra il passato e il futuro: ‘ogni epoca ha dei tali diseredati ai quali ciò che fu non appartiene più e ciò che sarà non ancora.’126 Il bambino si trova perciò ancorato nel presente in uno stato di confusione fra tradizione e cambiamento. In linea con ciò, Eleonora Conti sostiene che il bambino sia ‘pronto a raccogliere un’eredità distorta che, invece di avvicinare, allontana le generazioni. È un eredità infruttuosa.’127 Alla luce di tale analisi, si ipotizza in questo paragrafo che i bambini nei tre film cerchino di ribellarsi ai genitori, tentando di sbarazzarsi di un’eredità che non gli appartiene. In modo da sottolineare tale ribellione infantile, si analizza come i cambiamenti sociali degli anni Settanta risuonano nella vita quotidiana del bambino e influenzano in modo profondo il suo rapporto con i genitori, a cui il bambino cerca paradossalmente di avvicinarsi e distanziarsi allo stesso tempo. Il tema dell’eredità ha già negli anni Settanta fornito una chiave interpretativa degli avvenimenti socio-politici dell’epoca. Da un lato, la disillusione della generazione giovanile è stata interpretata alla luce di un conflitto generazionale che consisteva nel rifiuto della classe politica dei ‘padri.’ 128 Dall’altro lato, però, il mito dell’erede fu alla base della fondazione delle Brigate Rosse, i cui membri giustificarono la violenza terroristica con l’idealizzazione della ‘Resistenza tradita.’ In una scena famosa del libro-

126 Giorgio Agamben, Infanzia e Storia, cit., p. 40. 127 Eleonora Conti, ‘La Storia sulle spalle’, cit., p. 155. 128 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970s through the Looking Glass’, cit., p. 2. 52 testimonianza Mara, Renato e io (1988), Alberto Franceschini, ex-membro delle BR, dichiara di aver assunto il compito di continuare la lotta del padre partigiano contro lo Stato fascista: ‘non fu solo una consegna d’armi: mi stava affidando i suoi ideali, la sua giovinezza e la sua forza che non c’era più […] Erano i nostri padri e un figlio diventa adulto solo quando gli viene passato un testimone.’129 Al contrario, Eleonora Conti ipotizza, in linea con le premesse agambeniane esposte nel primo capitolo, che i conflitti ideologici e i cambiamenti sociali degli anni Settanta esemplifichino invece l’interruzione del ‘naturale passaggio del testimone fra le generazioni, la consegna dell’esperienza.’130 Alla luce di tale interpretazione, la figura del bambino è non solo simbolo di una eredità distorta fra il genitore e il figlio, ma anche del rifiuto del mito dell’erede, per cui si distacca dalla continuità storica immaginata da Franceschini. Perciò, il ritorno all’infanzia nei tre film potrebbe essere interpretato come un tentativo di liberarsi dei miti di fondazione, offrendo come alternativa l’immagine del bambino innocente sospeso dall’eredità storico-culturale.131 Un esempio della presa di distanza dall’eredità storico-culturale che ha diviso la società degli anni Settanta emerge da una scena in Anni felici. A casa della nonna paterna, donna tradizionale, statica e severa, a Dario è chiesto di modellare una figurina di argilla di un partigiano ‘che muore per la libertà.’132 Il bambino non ci riesce per cui si frustra e si ribella alla nonna: ‘come faccio chi muore per la libertà con un po’ di argilla?’133 Questa scena fornisce un momento chiave nella rappresentazione del bambino come diseredato del passato: il bambino, non sapendo rispondere alla richiesta della nonna, esprime la difficoltà di identificarsi con una memoria (pre-mediata) al passato che non ha vissuto e a cui non appartiene più.

129 Alberto Franceschini, Pier Vittorio Buffo e Franco Giustolisi, Mara Renato e io: Storia dei fondatori delle BR, Milano: Mondadori 1988, pp. 4-6. Si veda anche: Philip Cooke, ‘The Neo-Resistance of the 1970s’, cit., p. 172. 130 Eleonora Conti, ‘La Storia sulle spalle’, cit., p. 155. 131 L’idea del bambino come simbolo dell’impedimento di una continuità storica viene richiamata anche da Giorgio Agamben in: Giorgio Agamben, Infanzia e Storia, cit., p. 92. 132 Daniele Luchetti, Anni felici, cit., [00.14.46]. 133 Ivi, [00.14.48]. 53

A proposito dell’ambientazione del suo film negli anni Settanta, Daniele Luchetti spiega in un’intervista che ‘[è] stato un momento in cui i conflitti erano molto chiari, cioè le persone tendevano ad immaginare un futuro migliore, a voler cambiare il mondo attraverso le idee, l'arte, il cinema, la musica, il teatro, la politica. Questo è fonte di mille spunti narrativi.’134 Anche se il film cerca di esporre i conflitti, l’idea del bambino sospeso fra passato e presente è fonte del rifiuto dell’eredità famigliare, evocato al livello emotivo e visivo del film. La famiglia di Dario è influenzata dallo spirito di cambiamento degli anni Settanta, ma non ha ancora fatto i conti con le idee tradizionali del rapporto fra uomo e donna, fonte delle liti fra i genitori: il padre aspirante artista d’avanguardia con formazione classica e la madre borghese aspirante femminista sembrano troppo coinvolti nell’esplorazione di nuovi rapporti sessuali – fra di loro e con gli altri - per occuparsi dei bambini, che sono perciò costretti a cavarsela da soli.135 A tale proposito nota Lorenzo Taddei che alla presenza dei bambini ‘si contrappone l'assenza dei genitori, infelici, con la testa altrove. Si percepisce una profonda alleanza fra i due bambini, a protezione da una realtà a tratti poco comprensibile.’136 L’incomprensibilità della situazione famigliare sfocia in una presa di distanza dei genitori. Dario, infatti, non chiama mai i genitori ‘mamma’ o ‘papà’, ma si riferisce a loro con i nomi propri: Serena e Guido. Tale distanza viene rafforzata dall’onnipresenza di riprese campo/controcampo che creano un’opposizione visiva fra i genitori e il figlio. Di ciò è esemplare una scena in cui questa tecnica narrativa allude a un rapporto a triangolo fra Guido, Serena e Dario, quando i genitori discutono i rapporti amorosi che minacciano il loro matrimonio. Le riprese dei due adulti vengono alternate con la ripresa del figlio, ascoltatore in mezzo alla loro discussione, da cui emerge l’effetto emotivo sul bambino dell’opposizione fra moglie e marito. La distanza fra i tre personaggi in questa scena risulta in un atto di ribellione con il quale Dario si

134 Daniele Luchetti, come citato in: Camillo de Marco, ‘I miei Anni felici tra arte e passione’, 1 ottobre 2013, in: CineEuropa, http://cineuropa.org/it/interview/244812/, consultato 30 giugno 2018. 135 Giovanna De Luca osserva un processo simile a proposito di Voltati Eugenio (1980) di Luigi Comencini, in: Giovanna de Luca, ‘I bambini e noi’, cit., p. 88. 136 Lorenzo Taddei, ‘Anni Felici di Daniele Luchetti’, cit. 54 vuole liberare dalle continue tensioni fra il padre e la madre e, di conseguenza, fra l’immagine tradizionale della famiglia e i cambiamenti sociali. Queste scelte narrative dimostrano come Dario sfida il rapporto naturale e stretto tra genitore e figlio, per cui ostacola la possibilità di ereditare l’esperienza.

Figura 12 – Anni felici [00.14.20]

Il film rappresenta inoltre la differenza conflittuale fra la nonna materna, commerciante borghese, e la nonna paterna, su cui il voice-over commenta: ‘i parenti di mia madre; tutti commercianti. Infatti parlavano sempre di soldi, soldi, e soldi. Guido aveva con loro lo stesso atteggiamento che mostrava nei confronti di Serena. Diceva di non sopportarli, ma in realtà non poteva fare a meno del loro calore. Un calore che non c’era a casa di sua madre.’137 Anche se osservata da Dario come voice-over, e quindi interpretata in retrospettiva, la differenza fra i due tipi di struttura famigliare risulta poco importante per il personaggio infantile, in quanto si sente ugualmente distaccato dall’eredità delle due famiglie. Ciò viene rafforzato dall’inquadratura del bambino: nella scena che tratta di un pranzo di famiglia alla casa estiva della nonna materna, Dario

137 Daniele Luchetti, Anni felici, cit., [00.14.13]. 55 viene seguito dalla macchina da presa da vicino per cui si percepiscono i parenti da una distanza (figura 12). A causa di ciò, il bambino sembra isolato e non fa parte dell’unità famigliare. In quanto, infatti, né tradizionale, né borghese, né artista, né femminista, il bambino nel film risulta una presenza isolata, che, sospeso dai conflitti esposti nel film, sembra non aver spazio nel complesso della Storia degli anni Settanta. L’idea della posizione indecisa, esemplare per il bambino non ancora entrato nel discorso storico, emerge dalla scena in Anni felici nella quale il cugino di Dario gli chiede: ‘Se tu dovresti scegliere per forza fra Guido e Serena. Tu chi sceglieresti? […] Mettiamo che loro due si divorziano, tu con chi vai?’ Il fratellino Paolo risponde: ‘Tutti e due’, dopodiché Dario ritiene che la domanda sia ‘cretina.’ L’idea di un divorzio fra i genitori preoccupa il bambino per cui non prende posizione pro o contro il divorzio, ma, cercando di proteggersi, rifiuta la domanda in sé. In quanto tale, l’interpretazione del bambino precede le posizioni politiche e offre una risposta emotiva alla possibilità del divorzio, sottolineando infatti l’assenza della voce bambina e la dimenticanza della sua presenza nella tematica. Tale risposta emotiva all’impatto dei cambiamenti sociali sui piccoli nuclei è assente nella memoria collettiva, per cui la posizione non-politica di Dario diventa paradossalmente politica. Dario ritorna sulla possibilità del divorzio fra i genitori, confrontando sua madre con una domanda a tale proposito: ‘Ora che c’è la legge, tu e papà vi divorziate, vero?’138 Questa scena risulta esemplare per il rapporto distorto fra Dario e sua madre: cercando di consolare il figlio – e se stesso – Serena non risponde alla domanda ma lo abbraccia, mentre Dario cerca di distaccarsi: ‘Non te la puoi cavare sempre con gli abbracci. Serena, lasciami! Serena, lasciami!’139 Siccome questa scena si svolge dopo la scena in cui Dario ha ottenuto la sua cinepresa, la ribellione alla madre coincide con l’acquisizione del punto di vista indipendente. Con la sua scarsa possibilità di

138 Ivi, [00.36.23]. 139 Ivi, [00.36.47]. 56 trasmettere la sua interpretazione del mondo intorno, il bambino sembra quindi opporsi alla nuova situazione famigliare.

Figura 13 – Anni felici [00.18.59]

Vicky Lebeau sostiene che il cinema tenda spesso a stabilire il rapporto fra madre e figlio a livello visivo attraverso la rappresentazione di uno sguardo riflessivo: la faccia della madre funziona come uno specchio per il bambino nel quale si sviluppa un senso di identità in concordanza con quella della madre.140 Da ciò emerge infatti il classico topos cinematografico del bambino come il complemento della figura materna che va interpreto come lo specchio dei sogni e desideri dell’adulto.141 Il rapporto di Dario con sua madre si svolge sul piano visivo indicato dalla Lebeau, ma inverte le premesse dello sguardo riflessivo: in una scena in macchina, Serena vuole stabilire un rapporto con il figlio e cerca gli occhi di Dario attraverso lo specchietto retrovisore (figura 13). Dario, però, chiude gli occhi e non risponde alla richiesta della madre. In questo modo, Dario ostacola il meccanismo dello sguardo riflessivo, implicando un

140 Vicky Lebeau, Childhood and cinema, cit., p. 63. 141 Patrizia Bettella, ‘Introduction’, cit., p. 6. 57 rapporto distorto con la madre e il rifiuto di un’identità trasmessa attraverso le generazioni. Anche La kryptonite nella borsa utilizza l’impedimento dello sguardo riflessivo per indicare lo stato del rapporto tra Peppino e sua madre. Qui però non è il figlio che si ribella alla mamma, ma la mamma che viene a mancare per cui il bambino si sente isolato ed è costretto a diventare più indipendente. Peppino si afferra all’idea tradizionale della mamma, propagata dalla sua severa maestra a scuola: ‘Ricordatevi sempre che ognuno di voi ha tre mamme. Tre. La prima mamma è quella che sta a casa, fa i servizi e tiene tutto pulito. La seconda mamma è quella che sta in cielo, è la nostra mamma Madonnina. E la terza mamma, eccola qua, è quella che sta a scuola, è la vostra maestra che vi ha dato il Signore.’142 Perciò, la depressione della madre viene percepita da Peppino come una perdita della ‘prima’ mamma: nella sua fantasia, il bambino visualizza come sua madre scende dalla prima posizione del podio, lasciando il bambino nelle mani delle altre due ‘mamme’ (figura 14). La perdita della madre viene sottolineata nella scena in cui Rosaria dà la buonanotte a suo figlio: Peppino, senza gli occhiali che funzionano da filtro felice, non riesce a distinguere la faccia di sua madre e la vede svanire quando lei chiude la porta (figura 15). Anche qui viene ostacolato lo sguardo riflessivo fra madre e figlio, per cui il bambino risulta isolato e distaccato dalla madre rappresentante di un’immagine tradizionale che sta per cambiare. Tale distacco involontario si trasforma in alcuni instanti in ribellione alla mamma. Dal film emerge chiaramente la duplicità del bambino, spiegata da Giovanna de Luca come ‘un’esistenza “between”, a metà tra dipendenza dall’adulto e desiderio di indipendenza e autosufficienza.’143 Mentre la mamma depressa rimane sempre chiusa in casa, ciò offre a Peppino la libertà di immergersi nella cultura hippy dell’epoca con i due zii. Il distacco ribelle dalla madre è più evidente nella scena in cui Peppino si prepara per andare a una festa con la zia Titina: quando Peppino informa la mamma di

142 Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa, cit., [00.08.40]. 143 Giovanna De Luca, ‘I bambini e noi’, cit., p. 87. 58 andarsene, si volta e dà le spalle alla madre, così fuori dalla sua vista, si toglie la giacca mettendo in mostra i vestiti colorati che richiamano quelli dei ‘figli dei fiori.’ La scena viene accompagnata da un brano musicale disco che aumenta di volume, enfatizzando la crescente distanza fra la madre e il figlio. In tal modo, Peppino decostruisce il tradizionale topos del bambino come complemento della madre e rappresenta invece la possibilità di distanziarsi dalla madre ancorata in una immagine invecchiata.

Figura 14 – La kryptonite nella borsa [00.20.33]

Figura 15 – La kryptonite nella borsa [00.34.58]

59

Mentre Peppino è costretto a distaccarsi dalla madre per poter liberarsi dalla sua immagine tradizionale – anche se il bambino è ancora sospeso fra dipendenza e autosufficienza -, Bruno in La prima cosa bella si ribella alla mamma perché si vergogna della sua libertà ingenua, dimostrando infatti l’impatto dei cambiamenti sociali sulla vita del bambino. Da ciò emerge un’immagine del bambino che sembra a volte più maturo della madre: la necessità di autosufficienza risulta, per esempio, dalla scena in cui Bruno informa la madre all’ora di cena che ‘il sugo è già pronto, va solo scaldato’144, sperando di essere stimato dalla madre, che invece lo ignora. Mentre Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio interpretano i cambiamenti sociali che si svolgono negli anni Settanta come un conflitto generazionale in cui non solo la figura paterna, ma anche quella materna viene contestata: ‘[i]n the 1970s, they [i figli, ed.] appeared to reject the mother, who was put under scrutiny both as a victim of patriarchal norms and an active enforcer of these same norms upon the daughters’145, la ribellione di Bruno, come quella di Dario, non risulta da un conflitto generazionale, ma dalla sua condizione confusa di bambino sospeso fra tradizione e cambiamento. Tale confusione emerge dal fatto che Bruno non solo si distanza dalla madre ispirata dalla cultura libera dell’epoca, ma anche dal padre, maresciallo violento, afferrato nell’idea della famiglia tradizionale. Il disprezzo del bambino per il padre, assente per la maggior parte del film, è evidente fin dall’inizio del film e viene rafforzato quando il bambino è il testimone della violenza domestica. La distanza fra Bruno e il padre raggiunge un culmine però in una delle scene chiave del film, nella quale Bruno scopre che il nuovo amante della mamma è proprio il padre lasciato poco prima. Quando Bruno confronta il padre, la scena si svolge in modo tale che emerge una discrepanza non solo fra il bambino e l’adulto, ma anche fra la figura del bambino e il suo tentativo di guadagnarsi l’autonomia e l’indipendenza (figura 16). La scena presenta una ripresa campo/controcampo che gioca con l’apparenza del bambino: quando Bruno affronta il

144 Paolo Virzì, La prima cosa bella, cit., [01.01.41]. 145 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970s through the Looking Glass’, cit., p. 2. 60 padre, si vede il bambino da dietro per cui appare più grande di quanto lo è in realtà, indicando il suo senso di autonomia (figura 17). Il controcampo però mette in scena il bambino dal punto di vista del padre: l’aspetto proprio infantile di Bruno in mutande contrasta con il suo tentativo di apparire indipendente. In questo modo, il film sottolinea la discrepanza fra l’immagine che il bambino ha di se stesso e quella che gli viene assegnata dagli adulti. Mentre il padre cerca di imporre una sua immagine sul bambino, il bambino cerca invece di ribellarsi alla trasmissione dell’eredità del padre. Giovanna de Luca sostiene che la tematica della diseredita e della ribellione verso i genitori vada accompagnata con la simbolica condizione di orfano. Analizzando i bambini nel cinema di Luigi Comencini, e in particolare il piccolo Eugenio di Voltati Eugenio (1980) che scappa via dai genitori ex-sessantottini, la De Luca conclude che ‘proprio nell’atto della ricerca e non nel ritrovamento si esaurisce e completa la nuova condizione di orfano.’ I bambini si ribellano sia all’immagine tradizionale della famiglia - rifiutano i padri severi e assenti e perdono la madre nel senso tradizionale - sia ai cambiamenti sociali che si svolgeranno, perché hanno un impatto imponente sulla loro vita quotidiana. Siccome il bambino è ancorato in questa condizione ‘in between’ fra i movimenti storici, egli non trova spazio nel discorso binario che caratterizza la memoria degli anni Settanta e perciò potrebbe essere interpretato come l’orfano della Storia. In conclusione, come in Voltati Eugenio di Comencini, si è visto che anche nei tre film qui considerati i bambini si distaccano dalle tendenze politico-sociali ribellandosi ai genitori. Nonostante che dalle sequenze narrative dei film questa ribellione non emerga sempre in modo esplicito, si crea una distanza visiva ed emotiva fra i genitori e i figli attraverso la messa in scena. Da ciò risulta che Dario, Bruno e Peppino non cercano di far parte della Storia, ma vogliono far riconoscere le loro (non-) storie in quanto diverse dalle narrative dei genitori nelle quali sono involontariamente coinvolti. La ribellione ai genitori risulta in una condizione simbolica di orfano, che àncora il bambino nella confusione di un presente non-(ancora)-storico. Distaccandosi dai genitori, i bambini rifiutano sia la tradizione del passato che i cambiamenti per il futuro, per cui dimostrano la realtà ‘in between’ fra gli eventi storici 61 degli anni Settanta. Nel prossimo paragrafo si vedrà come la non-storia del bambino si rapporta ai luoghi in cui si rifugia per poter ribellarsi alle dinamiche degli anni Settanta.

Figura 16 – La prima cosa bella [01.06.11]

Figura 17 – La prima cosa bella [01.05.58]

62

3.2 Il rifugio felice: gli anni Settanta fra non-luoghi e utopie La pratica di ricordare gli anni Settanta attraverso gli eventi straordinari, come si è stabilito nel primo capitolo, ha come conseguenza anche la visualizzazione della Storia in termini topografici. Da ciò emerge un percorso memoriale fra i luoghi più spesso associati con le stragi e la violenza politica dell’epoca, come Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, via Fani a Roma e la stazione centrale di Bologna. Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary suggeriscono che questi luoghi siano infatti ‘public spaces, stripped of their anonymity to act as memorial toponyms of a crucial and contested period of Italian history.’146 Alla luce di una non-storia degli anni Settanta però, si ipotizza in questo paragrafo che il bambino, per poter evitare questi toponomi memoriali, si rifugi in dei non-luoghi ancora da abbellire con il suo punto di vista alternativo. In linea con tale ipotesi, ci si chiede come i bambini nei tre film interagiscano con lo spazio reale e immaginato in modo da poter crearsi un rifugio felice nel quale sia ancora possibile ribellarsi al mondo degli adulti e visualizzarsi il gioco infantile. Eleonora Conti osserva un rapporto stretto fra i sogni e i desideri del bambino e la rappresentazione di luoghi reali o immaginati nella narrativa. La studiosa suggerisce che il ‘sogno di un mondo possibile, formulato da un bambino, in alternativa alla realtà convenzionale e costituita, fondata dagli adulti’, rappresenti non il classico ‘u-topos’ in quanto luogo inesistente, ma ‘l’eu-topos’, ovvero il luogo felice come lo intendeva per esempio Italo Calvino.147 Le rappresentazioni di luoghi felici dal punto di vista del bambino che cerca di proteggersi almeno nell’immaginazione, abbondano, secondo la Conti, ‘in concomitanza con momenti storici particolarmente difficili.’148 Da ciò si potrebbe dedurre infatti che il punto di vista del bambino sugli anni Settanta offre non

146 Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary, ‘Introduction’, cit., p. 7. 147 Eleonora Conti, ‘L’infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni duemila’, cit., p. 25. 148 Eleonora Conti, ‘L’infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni duemila’, cit., p. 25. 63 solo uno sguardo alternativo sulla memoria, ma che ciò vada inevitabilmente accompagnato da una re-invenzione dello spazio. Prima di tutto, i tre film rincorrono in modo simile al topos del rapporto con le città per poter dislocare i bambini dai luoghi comuni di violenza. In linea con l’argomentazione di Conti, i film sembrano suggerire che ‘[l]a città è percepita come pericolosa, sia da un punto di vista logistico (automobilisti avventati, mancanza di strisce pedonali, auto parcheggiate in cortili e marciapiedi, luoghi un tempo deputati al tempo libero autonomo), sia da quello delle relazioni umane (bombardamento mediatico su casi di cronaca nera che abbiano per vittime bambini e ragazzini).’149 A ciò sembrano aggiungere, però, che le città – Roma in Anni Felici, Napoli in La kryptonite nella borsa e Livorno in La prima cosa bella - si caratterizzino per un’immagine mediata, stereotipata e politicizzata in cui i bambini non trovano spazio. I tre film, perciò, portano via i loro bambini-protagonisti dalle città e li offrono come alternativa, fra l’altro, il mare e la spiaggia. Alla luce dei cambiamenti sociali degli anni Settanta, questi non sono solo posti marginali, nei quali si può letteralmente e simbolicamente sfuggire dagli epicentri della violenza, il mare e la spiaggia sono anche simboli di un’immagine di non-storia degli anni Settanta. Come osserva Enrico Deaglio, gli anni Settanta sono gli anni dell’acquisizione di più tempo libero, del ‘weekend’ e della vacanza al livello di massa, grazie a cui si trova lo spazio per il ‘non- fare.’ Di questa quotidianità per eccellenza sono esemplari le gite di famiglia in spiaggia.150 I non-luoghi sono intesi quindi non come luoghi inesistenti, ma come luoghi non determinati da eventi storici dove è ancora possibile la ribellione del bambino al mondo pietroso degli adulti – e della memoria. Mentre il topos del mare e della spiaggia come luoghi di rifugio viene sfruttato in tutti e tre i film, Anni felici porta la funzione sovversiva della spiaggia ai limiti: in modo da sfuggire dai problemi famigliari e culturali a Roma, la mamma Serena porta i

149 Ivi, p. 28. 150 Enrico Deaglio, Patria 1967-1977, cit., p. 19. 64 bambini al mare in Francia, cioè lontano dai capoluoghi italiani degli anni Settanta. Questo spazio indeterminato, ampio e libero dal controllo degli adulti viene per la maggior parte inquadrato con la cinepresa Super8 di Dario, dal quale emerge l’esperienza ‘muta’ e sovversiva del bambino che sembra allora possibile soltanto ai margini della realtà. Sulla spiaggia si realizza l’utopia come luogo esistente, ma alternativa alla realtà conosciuta: Dario re-inventa il performance artistico fallito del padre e lo spoglia dalla serietà adulta e dalle implicazioni culturali, rivendicando così uno spazio felice e colorato nel quale è possibile il semplice e innocente gioco del bambino (figura 18). Grazie a ciò, questo luogo marginale diventa infatti uno spazio in cui i bambini, con i loro corpi dipinti di tutti i colori, possono ancora essere i protagonisti della Storia.

Figura 18 – Anni felici [00.51.47]

I bambini di Anni felici sono in continua ricerca per un tale spazio per il gioco e lo trovano anche nella stradina desolata dietro lo studio del padre dal quale sono esclusi. Fuori vista dai genitori, il gioco di Dario e Paolo consiste nella demolizione di una vecchia macchina parcheggiata con martelli e cacciaviti presi in prestito dal padre. I bambini, altrimenti esclusi dal gioco perché trascinati dietro ai genitori, sono

65 finalmente lasciati liberi per cui coltivano questo spazio e si vedono costretti a difenderlo. Infatti, quando la vicina di casa si lamenta per il rumore, Dario e Paolo la insultano e la scacciano in un tentativo di garantirsi il loro ‘spazio gioco.’ Gli adulti non sono semplicemente esclusi dallo spazio del bambino, ma i bambini si sentono i padroni dell’unico spazio in cui possono giocare in modo libero. La rivendicazione di luoghi per il gioco e per la fantasia emerge anche da La kryptonite nella borsa, nel quale la Napoli degli anni Settanta, tormentata da vari attentati terroristici, corruzione, mafia e l’epidemia di colera, diventa l’utopia bella e speranzosa dove si sviluppa l’amicizia immaginaria fra Peppino e Gennaro Superman. La Napoli di Peppino non è quella iper-esposta dei rioni violenti né quella stereotipata da antica cartolina, ma è caratterizzata da luoghi anonimi, dai quali manca l’immaginazione collettiva e quindi sono ancora disponibili allo sguardo inventivo del bambino. Peppino è perciò in grado di abbellire la città, offrendone un’immagine diversa da quella degli adulti. Ciò emerge già dalla prima scena del film nella quale è presente l’interpretazione della città sia dal punto di vista dell’adulto che del bambino: quando Peppino e la mamma Rosaria salgono le scale per andare a casa, Rosaria viene inquadrata dall’alto enfatizzando lo sforzo della salita. Peppino invece, viene seguito dal basso in alto, riflettendo con i movimenti della macchina da presa la descrizione della scena nel romanzo omonimo: ‘Peppino, accanto a lei [Rosaria, ed.], le dava la mano con una specie di fiducia incosciente, come se dopo quei gradini si aspettasse di essere condotto chissà dove.’151 Questa speranza per la città come luogo felice e avventuroso, che contrasta con l’idea adulta della città come un ostacolo, viene confermata dall’apparizione colorata di Gennaro Superman che promette al bambino un’avventura accessibile solo ai suoi occhi: ‘ti aspetto alla prossima avventura.’152 Attraverso l’invenzione fantastica di Gennaro, il film dimostra con Eleonora Conti che

151 Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa, Milano Bompiani 2007 e 2012, p. 5. 152 Ivan Cotroneo, La kryptonite nella borsa, cit., [00.04.57]. 66 nella presenza della figura bambina, ‘[i] luoghi tendono allora a diventare mitici […].’153 Quella di Peppino è infatti un’immagine dei luoghi a metà fra realtà e fantasia. Per Peppino, i luoghi da esplorare offrono un’alternativa avventurosa alla casa dove prevale la tristezza della mamma. La casa e il palazzo buio, grigio e degradato rispecchiano infatti i sentimenti della madre, dal quale il bambino cerca di liberarsi. A ciò fa da contrasto il mondo hippy degli zii, dove, anche se il bambino – e in realtà nemmeno gli zii – non conosce i motivi politici del movimento, Peppino incontra un mondo nuovo, felice e iper-colorato che riflette la sua speranza per la felicità e per l’avventura. Karen Lury propone il concetto di ‘Crazyspace’ per intendere questi spazi all’interno del mondo adulto che ottiene una nuova dimensione nell’uso e nell’interpretazione infantile: In Crazyspace children are impossible either because they exceed the bounds of realism (in that events are magical or simply implausible) or because they behave in ways that are apparently irrational, 'crazy' - at least from the adult's point of view. Significantly, Crazyspace takes place to one side of, or even 'inside', the adult world (whether this is the spare bedroom, or in bulging trouser pockets illicitly stuffed with food). It is therefore often a space which the adult recognizes, knows and even owns, but its meaning and its 'use' is determined by the child.154

La stanza di Titina e Salvatore potrebbe essere interpretata come un tale ‘Crazyspace’: all’interno della casa buia, la stanza degli zii hippy è lo spazio nel quale Peppino visualizza tutta sua famiglia che balla insieme sulle note di Lust for life (1977) di Iggy Pop.155 Nell’interpretazione del bambino – non si sa se accaduto realmente o soltanto immaginato da Peppino – questo ‘Crazyspace’ fornisce un rifugio nel quale la felicità prevale sui problemi famigliari e la nostalgia per la musica popolare dell’epoca predomina sulla necessità di ricorda la ‘grande Storia.’

153 Eleonora Conti, ‘La storia sulle spalle’, cit., p. 156. 154 Karen Lury, ‘The child in film and television’, cit., p. 312. 155 Si nota l’incoerenza storica: la canzone è stata prodotta quattro anni dopo le vicende del film, che si svolge nel 1973. 67

La ricerca di un rifugio felice viene ultimamente confermato nella scena finale del film, quando Peppino, aggrappato alla schiena di Gennaro Superman, vola sopra Napoli. La sua fuga dal reale sembra non solo un tentativo di immaginare la città come luogo utopico, ma anche di compromettere la sua inesperienza con la rivendicazione di un’esperienza fantastica, sognata o immaginata (figura 19). La Napoli vista dall’alto attraverso gli occhi di Peppino è quindi un luogo di rifugio che trascende la Storia e nel quale sia possibile l’avventura infantile. Accompagnata da Life on Mars? (1971) di David Bowie, la scena finale del film potrebbe essere interpretata come una fuga dalla disillusione di una realtà intrecciata da immagini mediate per arrivare in una realtà parallela, ‘muta’ in quanto inaccessibile al discorso storico. Questo mondo colorato del bambino contrasta con i luoghi comuni e mina come antitesi la memoria topografica degli anni Settanta.

Figura 19 – La kryptonite nella borsa [01.28.47]

A proposito di La prima cosa bella, Lorenzo Ciofani osserva infine che ‘la politica è solo sfiorata nei luoghi.’156 Alla luce di tale interpretazione è interessante notare che proprio all’inizio del film, la madre sfugge dalla casa nel centro di Livorno - dove, come si è visto nel primo capitolo, non solo la famiglia è esposta alla violenza,

156 Lorenzo Ciofani, ‘La prima cosa bella. Regia di Paolo Virzì’, s.d., in: FilmTV, https://www.filmtv.it/film/40728/la-prima-cosa-bella/recensioni/456117/#rfr:none, consultato 30 giugno 2018. 68 ma sono anche onnipresenti i manifesti politici soprattutto del PCI - per rifugiarsi con i due bambini ai margini della città: prima in un albergo anonimo, ‘bellissimo’ agli occhi dei bambini, e poi in una casetta al mare a Castiglioncello, che i bambini trovano ‘bellina, come la casina dei Sette Nani.’157 In questo film, quindi, è lo sforzo della madre che porta via i bambini dagli epicentri della violenza, cercando in modo conscio di creare un rifugio felice per i figli. Per Bruno allora i luoghi degli anni Settanta diventano utopici soprattutto in retrospettiva. È il fatto che egli deve tornare a Livorno, cioè alla città dell’infanzia, che mette in moto una topografia nostalgica, alternativa al percorso memoriale della memoria collettiva. Tale sguardo nostalgico emerge prima di tutto dalla tonalità vintage dei colori nei flashback, e passa inoltre per la cultura popolare dell’epoca.158 Il bambino abita perciò in un luogo nostalgico nel quale prevalgono le canzoni del festival di Sanremo, fra cui La prima cosa bella (1970) di Nicola di Bari e Eternità (1970) dei Camaleonti, e il cinema dell’epoca: come luogo della nostalgia va notato infatti il riferimento intertestuale alla commedia all’italiana di Dino Risi in quanto i bambini assistono al set di La moglie del prete (1971) nel quale la mamma fa da figurante (figura 20).159 La scelta specifica per questo film ‘minore’ del regista risulta non solo temporale o spaziale, ma anche tematica; mentre si è brevemente visto nel primo capitolo che la commedia, fra cui Mordi e fuggi (1973), I nuovi mostri (1977) e Caro papà (1979) dello stesso regista, fu un genere che fornì una risposta a caldo alla violenza degli anni Settanta, il primo film evita in realtà la violenza, le dinamiche famigliari e le vicende degli anni di piombo.160 Lo sguardo utopico sugli anni Settanta, come proposto da Bruno, emerge quindi dai ricordi della cultura popolare con i quali riesce a evitare i luoghi politici.

157 Paolo Virzì, La prima cosa bella, cit., [00.36.42]. 158 Emiliano Morreale, L’invenzione della nostalgia, cit., p. 6. 159 Dino Risi, reg., La moglie del prete, Compagnia Cinematografica 1970. 160 Alan O’Leary, ‘Italian cinema and the “anni di piombo”, cit., p. 247;. Dino Risi, reg., Mordi e fuggi, Compagnia Cinematografica 1973. Dino Risi, e Ettore Scola, reg., I nuovi mostri, 1977. Dino Risi, reg., Caro papà, Dean Film 1979. 69

Mentre Aine O’Healy sostiene che non sia possibile immaginare l’infanzia senza fare riferimento agli eventi storici che caratterizzano le città, la visualizzazione dei non-luoghi degli anni Settanta nella presenza del bambino suggerisce la possibilità del bambino di rivendicare a tratti un luogo per l’esperienza infantile.161 I tre film dimostrano che i luoghi dell’infanzia sono infatti quelli ‘muti’ che non entrano nel discorso collettivo: i bambini si rifugiano nei luoghi dove non si svolge la grande Storia, per cui i film nel loro complesso non sono costretti a trattare la violenza politica. Siccome questi luoghi sono anonimi e marginati, il bambino può appropriarsi di uno spazio felice e colorato dove è ancora possibile il gioco, la fantasia o la nostalgia in un periodo nel quale questi elementi dell’infanzia sembrino impossibili. Ribellandosi alla famiglia e rifugiandosi nelle scarse utopie dell’infanzia, i bambini nei tre film resistono quindi in alcuni momenti al dovere di fare parte di un’immagine mediata degli anni Settanta.

Figura 20 – La prima cosa bella [00.34.44]

161 Aine O’Healy, ‘A Neapolitan Childhood’, cit., p. 14. 70

Conclusione

È difficile essere bambini negli anni Settanta. Non solo l’infanzia di Dario, Bruno e Peppino è caratterizzata da dispetti, esclusioni, confusioni, liti e problemi famigliari, si è visto anche che la mediazione di una memoria collettiva incentrata sui grandi eventi storici sembra aver cancellato i ricordi di infanzia per cui la figura del bambino è diventata ugualmente impossibile nella memoria collettiva e privata dell’epoca. Vickey Lebeau ci ricorda a tale proposito che il bambino è l’essere condiviso che va inevitabilmente dimenticato nel complesso della Storia: ‘[b]ordering on an otherness within, a space and time that we have all known without knowing it, this is a child that must be left behind – or, more dramatically, put to death – if we are to find our way in to the worlds of language, culture and community.’162 Anche se l’immaginazione del bambino, con la sua innocenza e inesperienza storica, potrebbe offrire un terreno comune che precede la divisione della memoria degli anni Settanta, si è visto che l’infanzia rappresenta una lacuna nella memoria in quanto il punto di vista del bambino che ha vissuto l’epoca ma non è stato testimone della violenza politica, non entra facilmente nel dominio della memoria collettiva. Al fine di poter situare La prima cosa bella, La kryptonite nella borsa e Anni felici, e i suoi tre bambini-protagonisti, nel paradigma della memoria contemporanea degli anni Settanta, si è visto nel primo capitolo che la memoria collettiva degli anni Settanta si caratterizza per la continua (ri)mediazione di immagini comuni attraverso vari canali di trasmissione che hanno propagato un’interpretazione binaria dell’epoca che si concentra sull’antagonismo fra memoria e contro-memorie. Secondo Scurati e Agamben, ciò ha risultato in una condizione di inesperienza in quanto la conoscenza del mondo coincide ormai con la sua rappresentazione. A ciò si è aggiunto che i bambini- protagonisti affrontano una doppia inesperienza perché la sua memoria dell’epoca non coincide con il discorso collettivo per cui sono costretti a negoziare fra l’immagine

162 Vickey Lebeau, Childhood and cinema, cit., p. 16. 71 pubblica e la memoria privata dell’infanzia. Tale negoziazione è rappresentata nei tre film attraverso la messa in scena del bambino che risulta estraniato dalla ‘grande’ Storia nel quale è messo: anche se i film presentano riferimenti alla situazione socio-politico dell’epoca attraverso un narratore esterno, essi vengono ignorati dai protagonisti infantili, innocenti e pre-politici. Da ciò risulta una discrepanza che si è dimostrata esemplare per l’idea che l’inesperienza del bambino diventa nei tre film uno strumento per poter minare la narrazione collettiva che àncora gli anni Settanta nell’immagine della violenza politica: in linea con Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, si è visto che attraverso i bambini-protagonisti i tre film tentano ‘to shift the focus from the phenomenon of organized terrorism and political violence which has until now dominated analyses of the period, to other, equally important, aspects.’163 Utilizzando il concetto di infanzia come proposto da Agamben, si è in seguito stabilito che il punto di vista del bambino è in grado di avviare tale passaggio Anche se necessariamente scritti e prodotti da registi adulti, i film dimostrano che il ritorno all’infanzia potrebbe fornire uno strumento per inventare un nuovo codice interpretativo che sfugge dall’interpretazione binaria proposta dalla memoria collettiva. Il concetto di infanzia, anche se interpretato in modo simbolico, dà accesso ad un’esperienza ‘muta’ attraverso cui si è metaforicamente in grado di minare la traccia binaria che pesa sulla memoria degli anni Settanta. Nell’uso del bambino-protagonista come topos dell’infanzia, si riconosce il tentativo di rappresentare una sospensione dell’accesso alla Storia dei ‘grandi’ fatti, in favore di un’immagine di non-storia. Tale non-storia risulta non solo dall’assenza di un’esperienza concreta, ma anche dal fatto che il bambino, in quanto non è né a destra, né a sinistra; né comunista, né fascista; né operaio, né borghese; né vittima, né carnefice, non riesce a far diventare storica la sua storia. In quanto tale, si è ipotizzato che il ritorno all’infanzia sia paradossalmente uno strumento con implicazioni politiche, con il quale i film cercano di recuperare la voce bambina prima che si perda nella memoria collettiva.

163 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970’s through the looking glass’, cit., p. 1. 72

Si è visto che a tale obiettivo il mezzo cinematografico risulta a tratti capace di favorire l’esperienza metaforicamente ‘muta’ del bambino, in quanto, nonostante anch’essa spesso premediata, l’immagine dà più facile accesso allo sguardo del bambino. Sfruttando la differenza fra il mostrare della storia da parte del focalizzatore esterno, e il vedere spregiudicato e innocente della focalizzazione infantile, il bambino può simbolicamente rivendicare un’esperienza innocente e frammentata che non rischia di ricadere nel percorso binario che caratterizza la memoria collettiva. Nel secondo capitolo si è dimostrato come i bambini nei tre film negoziano fra la loro esclusione dalla Storia e la creazione di una soggettività infantile. Si è partito dalla discrepanza fra l’iper-presenza del bambino nella tradizione cinematografica italiana e il suo stereotipo come testimone muto: da ciò emerge l’ambiguità della presenza del bambino in quanto spesso dato per scontato, presente e ignorato allo stesso tempo. Ciò non viene solo riflesso dal lamento esplicito di Dario in Anni felici, ma anche dalla continua mediazione fra il bambino come oggetto focalizzato e come focalizzatore. Mettendo in scena tale ambiguità, si è visto che i tre film sfidano sia lo stereotipo cinematografico del bambino-oggetto che la sua assenza dalla Storia. Anni felici cerca di svelare proprio tale tensione, dimostrando la difficoltà di focalizzare attraverso il punto di vista di Dario, che, in quanto sia esplicitamente ostacolato dal narratore esterno che esemplare per lo sguardo non-regolato, sfuggente e iper-mobile del bambino, impedisce la possibilità dell’eyeline match. Però, grazie alla cinepresa Super8 che funziona da filtro, il bambino è in grado di diventare focalizzatore, presentando un linguaggio alternativo, muto in senso letterale e simbolico, con il quale riesce a trasmettere frammenti di non-storia. Il ritorno all’infanzia nel film inverte le premesse Bildungsroman, dimostrando che il bambino è in grado di riprendere il suo sguardo innocente di cui era stato privato nel discorso storico-memoriale. In quanto tale, ci si potrebbe chiedere se il film propone un prequel, un’antitesi o una riflessione critica del più noto Mio fratello è figlio unico (2007) dello stesso regista: anche se ambedue i film cercano di rappresentare le opposizioni binarie che caratterizzano l’epoca

73 all’interno di una famiglia, il ritorno all’infanzia in Anni felici è ancora in grado di dimostrarne l’effetto sul bambino. La prima cosa bella offre un approccio agli anni Settanta fra rancore e nostalgia: i flashback di Bruno sulla sua infanzia dimostrano in primo luogo un rifugio nostalgico in un periodo non-politico, nel quale cerca di sfuggire dalla sua realtà adulta. Tale sguardo da lontano sull’infanzia, però, conferma l’esclusione del bambino dal mondo intorno: il flashback non solo dimostra la mediazione dell’infanzia attraverso gli occhi di un protagonista adulto, la focalizzazione di Bruno-adulto è anche in grado di recuperare memorie a cui non ha assistito da bambino, simbolizzando infatti la doppia inesperienza del bambino. In secondo luogo, il ritorno all’infanzia nel film è un tentativo di mettere in primo piano la violenza privata, subita dalla madre, ma che risuona anche sulla vita quotidiana del bambino, che è stata esclusa dalla memoria collettiva dell’epoca. Il film dimostra che tale esclusione è dovuta alla parzialità dell’esperienza del bambino, il cui sguardo ostacolato è in grado di focalizzare soltanto momenti frammentati, non-lineari e incoerenti di violenza che perciò non entrano nel discorso collettivo, ma rimangono esperienze isolate. Il film più sovversivo però è La kryptonite nella borsa in quanto riesce, a differenza degli altri film, di mostrare il bambino da vicino, mostrandolo come essenzialmente altro e incompreso dal discorso adulto. Grazie alla rivendicazione di un suo sguardo ‘muto’, filtrato dagli occhiali che rendono il bambino ‘anomalo’, Peppino è in grado di visualizzare una realtà a metà fra realtà e fantasia, confermando con Eleonora Conti che ‘[s]e il protagonista è un bambino o un ragazzo il modo della rappresentazione storica spesso non si limita al realismo, ma sconfina in “modi” come il fantastico, il realismo magico, l’epica, la favola o la fiaba.’164 Attraverso la focalizzazione visiva e di colore del bambino, si crea una realtà parallela che dissolve la compattezza del mondo adulto e si incontra un linguaggio sovversivo dove si può ancora credere alla felicità e ai supereroi. Quindi, grazie al filtro simbolico dello sguardo

164 Eleonora Conti, ‘La storia sulle spalle’, cit., p. 156. 74 infantile, presente in tutti e tre i film, si è visto che i tre film favoriscono degli instanti di non-storia, composta da ricordi affettivi o persino fantastici dell’infanzia, con la quale i bambini-protagonisti si ribellano all’interpretazione che identifica gli anni Settanta con la violenza politica. Stabilito allora come i tre film negoziano fra l’assenza e la presenza del punto di vista del bambino, nel terzo capitolo si è visto come i piccoli protagonisti riescono a ribellarsi all’immagine comune degli anni Settanta, dimostrando che i luoghi nei quali è ancora possibile la ribellione infantile sono necessariamente quelli privati. La ribellione del bambino risulta prima di tutto dalla presa di distanza dell’eredità famigliare – e per estensione storica - a cui il bambino non appartiene. Dario, Peppino e Bruno si trovano infatti sospesi dalla tensione fra la tradizione e il sogno di rinnovamenti sociali. I tre film dimostrano la crescente distanza fra i genitori e figli, rappresentata per esempio dalle riprese campo/controcampo e dal fallimento dello sguardo riflessivo tra madre e figlio, da cui emerge l’impatto delle dinamiche degli anni Settanta sulla vita quotidiana del bambino. Il rifugio dall’eredità non porta necessariamente a uno scontro generazionale, ma mette in scena l’esperienza affettiva degli anni Settanta, che, attraverso gli occhi del bambino, non è diventata storica. Inoltre, si è visto che i tre film cercano di re-inventare gli spazi degli anni Settanta: cercando di ribellarsi al mondo dell’adulto, i bambini si rifugiano in non- luoghi; luoghi anonimi, come le spiagge e le stradine della periferia, dove non si svolge la Storia e dove possono ancora essere bambini innocenti. In questi luoghi anonimi, mitici, utopici e strenuamente difesi dai bambini, è ancora possibile il gioco innocente in Anni felici, la fantasia in La kryptonite nella borsa e la nostalgia in La prima cosa bella. Paradossalmente, solo in questi luoghi marginali della realtà, si riesce a de- marginalizzare la vita quotidiana del bambino negli anni Settanta. Nonostante che il punto di vista dell’infanzia favorisca frammenti di non- storia, con la quale si è in grado di minare l’iper-esposizione di una memoria collettiva incentrata sui dati di cronaca, gli scontri ideologici e la violenza politica, i bambini – e anche le bambine che non hanno voce nemmeno nei tre film qui discussi – sono ancora 75 esclusi dalla memoria collettiva e riescono solo in modo marginale ad alleggerire la Storia degli anni Settanta. Da ciò emergono due conseguenze: in primo luogo, si decostruisce lo stereotipo del bambino come ‘facile sentimentalizzazione’ di una Storia dalla quale sono omesse le tensioni e le dinamiche storiche, 165 mentre in secondo luogo, si afferma la pesantezza della memoria mediata sull’esperienza del bambino e quindi si enfatizza la difficoltà di essere bambini negli anni Settanta. Perciò, si conclude con Karen Lury che ‘rather than being apolitical, the revisiting of a childhood curiosity, with its hallucinatory quality and creative mix of fact and fiction, may actively encourage spectators to explore and engage with the political and social implications of a particularly traumatic period of Italian history.’166 In conclusione, i bambini-protagonisti veicolano momenti di accesso a un’esperienza frammentaria e alternativa degli anni Settanta, che non coincide con i topoi comuni della memoria collettiva. Cercando di oltrepassare la memoria collettiva, i tre film fanno un simbolico passo indietro, cioè all’unico periodo nel quale la memoria collettiva è assente, e di conseguenza essa è assente nella memoria collettiva. Alla fine di Anni felici, Dario riflette in voice-over sulla sua infanzia negli anni Settanta e sintetizza l’essenza del topos del bambino nella memoria, osservando proprio la discrepanza fra l’immagine ancorata nella violenza politica e la realtà quotidiana del bambino come esposta nei tre film considerati, concludendo che: ‘[i]ndubbiamente erano anni felici, peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto.’167

165 Danielle Hipkins, ‘The child in Italian cinema’, cit., p. 5. 166 Karen Lury, ‘The child in film and television: introduction’, in: Screen, no. 3 (2005), pp. 307-314. 167 Daniele Luchetti, Anni felici, cit., [01.40.57]. 76

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