-Demoniache presenze” (1982) Regia:

Regia: Tobe Hooper Genere: Horror Sceneggiatura: , Michael Grais, Mark Victor Interpreti: Craig Nelson, JoBeth Williams, Oliver Robins, Heather O'Rourke Fotografia: Matthew F. Leonetti Musiche: Jerry Goldsmith Scenografia: James H. Spencer Montaggio: Michael Kahn e Steven Spielberg Durata: 113 min.

Una tranquilla famigliola americana, Steve e Diane Freeling con i loro tre figli (due femmine e un maschio) si trasferisce nel quartiere residenziale di Cuesta Verde. Si dovranno destreggiare tra oggetti volanti, sedie vaganti (che inizialmente divertono Diane) alberi assassini. La piccola di casa, infatti, la biondissima Carol Anne, inizierà a chiacchierare con il televisore, spesso anche dopo che la programmazione è terminata... i familiari attoniti non sanno darsi una spiegazione…la piccola comunica attraverso la TV con le anime irrequiete dei defunti, bramosi di tornare a vita terrena. Improvvisamente Carol Anne sparirà inghiottita dal televisore. Per farla tornare da quella dimensione intermedia, limbo tra la vita e la morte ci vorranno tutto l’amore e la fatica dei suoi genitori ac- compagnati da una medium e da tre esperti in parapsicologia. Ma ciò non basta: ancora più incattiviti i Poltergeist (parola di origine tedesca che let- teralmente si traduce con “spirito chiassoso”) si mostrano anche fisicamente: ed ecco allora che i corpi senza vita sepolti in un cimitero sottostante la casa emergono im- provvisamente dal suolo. Si scoprirà, infatti, che sotto le case di Cuesta Verde c’era una vera e propria necropoli indiana lasciata lì da un costruttore senza scrupoli. Tobe Hooper con la regia di “Poltergeist” risale un po’ la china della sua carriera, in ripida discesa dopo una serie di passi falsi successivi alla sua prima insuperabile ope- ra “Non aprite quella porta”, la mano di Steven Spielberg, ufficialmente in veste di produttore, ma è noto che c’è del suo anche nella gestione tecnica, fa il resto. Il film, infatti, riesce a districarsi tra critica sociale, effetti speciali d’avanguardia, una buona dose di tensione e tanto gore (va citata la scena in cui Diane praticamente nuo- ta in un lago di cadaveri, sequenza che ritroviamo nel 1985 in “Phenomena”). La pellicola, infatti, presenta situazioni che riflettono condizioni reali ed è piena di spunti e tematiche che usa coerentemente. Primo esempio fra tutti la scelta del televi- sore come luogo da cui comunicano gli spiriti. Protagonista indiscussa del secolo scorso, spesso migliore compagna di giochi dei più piccoli, alle vecchie cantine buie i bimbi non ci credono più, alle chiese sconsacrate e ai cimiteri tanto meno… di un televisore, invece, qualunque bambino si fiderebbe ciecamente. Altro argomento esplicitamente e aspramente criticato, le speculazioni edilizie. Le manifestazioni spi- ritiche sono, in fondo, le fatali conseguenze dell’avidità e dell’egoismo del costrutto- re. Una grande conferma di come con un budget ridotto si può girare un bel film che ol- tre vent’anni dopo non perde carattere. “Poltergeist” è stato un successo di botteghino mondiale, diventando l’ottava distri- buzione di sempre e il film horror dal più elevato guadagno del 1982 e la Metro- Goldwyn-Mayer ha annunciato un rifacimento nel 2008. Infine, due parole sulla celebre leggenda che vuole “Poltergeist” film maledetto. Pur- troppo la lista è lunga: la prima a incontrare sorte sfortunata fu Dominique Dunne (in- terpretava la figlia più grande Dana) che morì strangolata dall’ex-ragazzo, dopo di lei toccò a Heather O’Rourke: se ne andò nel 1988 per un’infezione intestinale, inoltre, durante le riprese del secondo e terzo sequel si verificarono altri due decessi. Per non parlare delle storie (la cui veridicità non è mai stata accertata) che circolano intorno a ciò che avvenne durante la lavorazione del film: feriti, esorcismi, incendi. “Amityville Horror” (1979) Regia: Stuart Rosenberg

Regia: Stuart Rosemberg Genere: Horror Sceneggiatura: Sandor Stern Interpreti: Rod Steiger, James Brolin, Margot Kidder, John Larch Fotografia: Fred J. Koenekamp Musiche: Lalo Schifrin Scenografia: Kim Swados Montaggio: Robert Brown Jr. Durata: 116 min.

Dal libro di Jay Anson: il 18 dicembre 1975 1974: in una casa in riva al fiume, in una piccola città americana, un ragazzo uccide i propri genitori ed i suoi fratelli, spinto a suo dire, da voci misteriose. L’anno successivo, i coniugi George e Kathy Lutz acquistano la casa in riva al fiume incoraggiati dal prezzo particolarmente basso, e ci vanno a vivere con i tre figli di lei, avuti da un precedente matrimonio. Un amico di Kathy, il reverendo Delaney, però è convinto che la casa sia sotto l’influsso del Diavolo, perchè è stata costruita in un luo- go dove tempo addietro si svolgevano riti satanici; ma dopo aver cercato inutilmente di mettere in guardia i Lutz, padre Delaney muore di una malattia misteriosa, mentre la vita della famiglia Lutz è turbata da strani fenomeni, il carattere di George cambia spaventosamente e la piccola Missy dice di parlare spesso con un’amica invisibile. Stuart Rosenberg, regista discontinuo e incline a una certa virulenza, in questo film ha lavorato con efficacia. “Gli invasati-The Haunting” (1963) Regia: Robert Wise

Regia: Robert Wise Genere: Horror Sceneggiatura: Interpreti: Claire Bloom, Lois Maxwell, Richard Johnson, Julie Harris Fotografia: Davis Boulton Musiche: Humphrey Searle Scenografia: Elliot Scott e John Jarvis Montaggio: Ernest Walter Durata: 112 min.

Nei suoi 90 anni di esistenza, Hill House, la dimora dei Crain, si è costruita una sini- stra fama. Qui hanno trovato morte violenta le due mogli del proprietario. Vi è invec- chiata, senza mai lasciare la camera dei bambini, la figlia Abigail; ed è stata trovata impiccata, suicida, la sua dama di compagnia, che aveva ereditato la magione. Si rac- conta che strani fenomeni accadano tra le pareti senza angoli retti e gli accessi sbilen- chi dell'enorme casa. Studioso di parapsicologia, il dottor Johnson riunisce nella dimora di Hill House (New England), per un esperimento di percezione extrasensoriale, tre persone: l’erede della proprietà e due donne. Viene raggiunto dalla moglie. Epilogo tragico. Nel 1959 la scrittrice Shirley Jackson scrive “The Haunting of Hill House”. Quattro anni dopo, Robert Wise dirige “Gli invasati” che diventerà un capostipite della cine- matografia horror dove l’elemento psicologico la fa da padrone e dove il fuori campo e l’elemento sonoro (quest’ultimo nella fattispecie) contribuiscono a creare la paura. Molto di quello che viene suggerito allo spettatore viene palesemente nascosto visiva- mente e lasciato all’immaginazione dello spettatore stesso che viene catapultato in un contesto psicologico impegnativo dove la predisposizione mentale di chi assiste alla visione può fare la vera differenza emozionale agli eventi che si succedono.In una ideale classifica dei film di fantasmi o, più in generale, del cinema di paura, “Gli in- vasati” figurerebbe ai primi posti. Il capolavoro di Robert Wise, secondo la maggior parte dei critici; un horror potente ed ambiguo, giocato su minimi elementi visivi e sonori, in grado di costituire un modello inarrivabile di tensione e costruzione narrati- va. Pur senza trascurare la dimensione visiva (corridoi, porte, scale), Robert Wise punta sulla colonna sonora, su voci e rumori attraverso i quali la casa maledetta s’imposses- sa dei suoi visitatori e spaventa gli spettatori. Giocato sull’omissione, il dubbio, l’in- certezza, il film rimane ambivalente, sul doppio binario dell’obiettività e della sogget- tività, senza decidere mai se gli avvenimenti straordinari, o paranormali, vissuti dai personaggi sono il risultato di un’azione dell’ambientare o il frutto della sensibilità ipereccitata di qualcuno di loro. La casa era davvero stregata o i protagonisti, in preda ad un delirio allucinatorio erano loro stessi gli artefici dei fenomeni percepiti? Uno dei più bei film sulle case stregate di tutti i tempi, dove l’orecchio prevale sul- l’occhio come veicolo di angoscia. Avveniristica cura degli effetti sonori e delle mu- siche di Humphrey Searle che usò effetti elettronici e a scale musicali incise a rove- scio divenne il punto di riferimento per gli anni a venire. Non da meno la scelta di Wise di girare in bianco e nero quando già nel ‘60 il colore era diventato oramai uno standard di fatto, decisione che inutile negarlo volse senza ombra di dubbio a vantag- gio dell’atmosfera del film. Bravi gli attori. “Possession” (1981) Regia: Andreij Zulawski

Regia: Andreij Zulawski Genere: Horror Sceneggiatura: Frederic Tuten, Andreij Zulawski Interpreti: Isabelle Adjani, Sam Neill, Margit Carstensen, Johanna Hofer Fotografia: Bruno Nuytten Musiche: Andrzej Korzynski Montaggio: Marie-Sophie Dubus, Suzanne Lang-Willar Durata: 120 min.

Semplicemente uno dei film più allucinanti e disturbanti di ogni tempo. Il cinema di Andrzej Zulawski è considerato una sorta di tumore informe all’interno della cinematografia mondiale, e “Possession” ne è la pellicola più emblematica, in cui Isabelle Adjani (premiata a Cannes) mette i brividi e firma la sua interpretazione più convincente. Si è scritto tanto su “Possession”, film maledetto (ancora oggi non è chiara la sua du- rata effettiva), venerato da David Lynch, il quale alla consegna del Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 2006 lo definì la pellicola più completa degli ultimi trent’anni: horror metafisico, boutade onirico-visiva, opera provocante e malata. In realtà il film più celebre e celebrato di Zulawski altro non è che una storia sul falli- mento del rapporto di coppia. Certo, i motivi di ermetismo, se non di vero e proprio depistaggio, sono molti e disseminati non sempre con coerenza (o forse proprio per via dei numerosi tagli che la pellicola ha dovuto subire) durante tutta la durata della pellicola. Solo altri film maledetti come “Salò o le 120 giornate di Sodoma” e “Can- nibal Holocaust” hanno subito sequestri ed incomprensioni da parte della critica al pari di “Possession”. Siamo nella Berlino della cortina di ferro; una Berlino immaginaria, le cui strade e piazze sono vuote quasi come se ci si trovasse all’interno di un sogno, o di un’opera di De Chirico, o ancor meglio, di Magritte. In un appartamento a ridosso del muro, metaforicamente a simboleggiare il bene e il male, maschile e femminile, vivono Marc ed Anna, interpretati da due bravissimi Sam Neal e Isabelle Adjani, coppia spo- sata con pargoletto di cinque anni. I due sono in crisi; Marc scopre che la moglie lo tradisce con Heinrich, uno strano personaggio (interpretato da un altrettanto straordi- nario Heinz Bennet) dedito all’uso costante di droghe che lo aiutano ad intraprendere dei favolosi viaggi onirici in cerca di Dio. Per questo motivo Marc, che lavora nei servizi segreti tedeschi, decide di abbandona- re il lavoro. I suoi datori di lavoro (loschi agenti segreti berlinesi) gli propongono un periodo di riflessione e nel frattempo lo incaricano di un tanto bizzarro quanto miste- rioso incarico: ritrovare uno strano tizio ricercato il cui unico indizio sembra essere quello di portare dei calzini rosa. Esasperato dai comportamenti di Anna, Marc si affida quindi ad un investigatore pri- vato. Questi, dopo averla pedinata lungo le strade di una Berlino inquietante ed irrea- le, la segue con una scusa fin dentro l’appartamento che la donna ha preso in affitto. Da lì scopre l’orripilante verità. Anna ha un secondo amante, un rivoltante essere po- lipesco con il quale si accoppia regolarmente. Anna elimina quindi il poliziotto ed il suo successivo aiutante che si era recato nell’appartamento a cercarlo. A questo punto Marc si rivolge ad Heinrich e questi decide a sua volta di far visita ad Anna. Dopo avere anch’egli scoperto l’allucinante verità, si salva dalle pugnalate di un’inferocita Anna, ma viene ucciso da Marc nei bagni del bar situato proprio sotto la casa di lei. Da qui il grande ed apocalittico finale: scopriamo che Anna ha generato l’essere polipesco con un processo di partenogenesi nei corridoi della metropolitana di Berlino, in quella che viene definita una delle scene più schoccanti della storia del cinema. Anna ha partorito due esseri: bene e male, nero e bianco, est ed ovest, ma- schile e femminile. Il bene si è sviluppato in un’Anna ideale, buona compagna di Marc e materna ed amorevole maestra d’asilo del piccolo figlio della coppia. Anna ha custodito e allevato la parte maligna, il Male (il bene per Zulawski non è altro che un riflesso del male) per farlo diventare un superuomo, il Marc ideale. In questa visione nichilista si trova però uno spiraglio di luce: anche il male può diventare bene. Ma a quale prezzo? Si potrebbero scrivere fiumi di inchiostro sull’opera più controversa del grande regi- sta polacco, che si addentra in territori così estremi da essere quasi impossibile ana- lizzarli (in ultimo il suicidio finale del bambino, davvero terrificante: la coppia forse nemmeno in questo momento può dirsi perfetta). Citando Freud, Nietschze e Platone ed entrando nella metafisica junghiana Zulawski mantiene una forte lucidità ideologica anche se non sempre unita ad una linearità nar- rativa (alla fine si scoprirà che l’uomo ricercato da Marc altri non è, forse, proprio co- lui che gli ha affidato l’incarico). Il muro di Berlino è metaforico; tanto che in una scena, forse tagliata in fase di mon- taggio, il protagonista rinato avrebbe dovuto scappare attraverso i tetti della città pro- prio in quella Berlino Est temuta e sconosciuta, come sconosciuto è il nostro incon- scio. Bene e Male devono unirsi: non dobbiamo avere paura della nostra Ombra se vogliamo arrivare alla verità. “Possession” fu presentato al Festival di Cannes nel 1981 e scandalizzò subito gli spettatori benpensanti. Alcune scene furono immediatamente tagliate ma l’impatto con la critica fu forte: Isabelle Adjani vinse la Palma d’Oro come miglior attrice pro- tagonista e la pellicola incontrò i favori del pubblico non omologato. A colpire gli spettatori furono soprattutto i dialoghi esasperati, le carrellate vorticose e le scene di estrema violenza, o più che altro di una violenza fastidiosa, sconcertante, sconveniente. La Adjani che si isola dal mondo (vero o inconscio?) eliminando tutti coloro che cercano di entrarvi, mette davvero i brividi ed i messaggi che Zulawski vuole lanciare vanno ben oltre l’horror metafisico. Tuttavia, ritornando a quanto scritto in precedenza, l’opera di Zulawski può essere considerata semplicemente come il tentativo di raccontare lo sfacelo di una coppia borghese in crisi: in un’intervista lo stesso regista ha ammesso che in parte si è ispira- to nello scrivere la sceneggiatura ad una sua vicenda personale. Nemmeno altri film grandiosi quali “Eyes Wide Shut” o “Shining” sono forse riusciti ad esprimere così bene la crisi di un uomo e una donna che forse si amano, ma non riescono a comprendersi. “Inferno” (1980) Regia: Dario Argento

Regia: Dario Argento Genere: Horror Sceneggiatura: Dario Argento Interpreti: Eleonora Giorgi, Alida Valli, Daria Nicolodi, Gabriele Lavia, S. Pitoeff Fotografia: Romano Albani Musiche: Keith Emerson Montaggio: Franco Fraticelli Scenografia: Giuseppe Bassan Durata: 107 min.

Il film è incentrato su Rose Elliot, giovane poetessa newyorkese, che acquista un anti- co libro intitolato “Le Tre Madri”, scritto da Emilio Varelli, architetto alchimista di cui si sono perse le tracce. Il libro racconta che Varelli ha conosciuto le tre madri de- gli Inferi: Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri, Mater Lacrimarum, la Madre del- le Lacrime e Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre e per loro ha costruito tre case: una a Friburgo, una a Roma e una a New York. Qui, ella scopre un appartamento sotterraneo completamente sommerso dall’acqua: in un tripudio di rumori fuori sincrono, è aggredita da un cadavere decomposto e dal quale con difficoltà riesce a liberarsi e tornare in superficie. Ha trovato l’antro di Ma- ter Tenebrarum, una delle tre madri che governano il mondo e a cui l’architetto Va- relli ha costruito tre dimore: questa di New York, un’altra a Friburgo abitata da Mater Sospiriorum e l’ultima a Roma, dove impera Mater Lachrimorum la più bella e gio- vane delle tre. Ancora una volta elemento fondamentale è la musica, sia per quanto riguarda la splendida colonna sonora composta da Keith Emerson, sia quando fa da accompagnamento alle sequenze più terribili. Classico esempio è il massacro della collega di studi di Mark e del suo vicino di casa, dove sulla base del “Và pensiero” di Verdi e in un alternarsi di efficienza di energia elettrica si consumano i due omicidi, con una sincronia di musica ed immagini veramente agghiacciante. È qui l’essenza di “Inferno”, l’assurdità delle situazioni con la consapevolezza che ad orchestrare tutto c’è il male assoluto, l’inferno tra noi. Film quindi apparentemente poco comprensibile, affascinante, estremamente violento e suggestivo, in cui la maestria nel girare di Argento si è fatta ancor più raffinata: car- rellate esemplari come la sequenza dell’auditorium a Roma, dettagli di serrature che si chiudono, la macchina da presa che segue le onde sonore attraverso dei tubi fino alla orecchie di qualche oscuro ascoltatore nella dimora maledetta di New York. Tutto questo il pubblico lo premiò con ottimi incassi, in molte parti del mondo