<<

leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it

1. GLI ESORDI

Le prime diecimila lire che Lucio ha guadagnato, suonando ai giar- dini Margherita, le ha divise con me. La mamma gli ha cucito la camicia con cui è andato per la prima volta al Festival di Sanremo, però poi aveva aggiunto: «peccato la indossi Lucio, è troppo brutto». Stefano Bonaga

Il Reno è il fi ume che attraversa l’Emilia. Ha lo stesso nome del suo ben più lungo omologo che bagna diversi Stati europei del Nord. È tradizione che le città fl uviali stabiliscano un rapporto molto signifi cativo con la musica, a cominciare da New Orleans, ed è dunque comprensibile che sia stato il maggior corso d’acqua sul lato est della pianura Padana a dare il nome a uno dei più co- nosciuti ensemble jazz italiani fi n dagli anni Cinquanta: la Rehno Dixeland Band. Fondata nel 1952 da Nardo Giardina e Gherar- do Casaglia all’interno dell’Università di Bologna come Superior Magistratus Ragtime Band, nel 1956 diventa Panigal Jazz Band – altro riferimento alla toponomastica felsinea – e quindi Rehno Dixieland Band nel 1959 fi no al 1972, quando cambiò ancora nome in Doctor Dixie Jazz Band. Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino

Bologna in effetti è la città più jazz d’Italia, sede di un festival dove si esibiscono tra gli altri Thelonius Monk e Chet Baker, con cui un giovane Lucio Dalla ha occasione di dividere il palco. Que- sto «combo» aperto a sempre diverse collaborazioni viene ricorda- to perché tra 1959 e 1962 vi suonano il clarinetto due personaggi destinati di lì a breve a passare alla storia: il futuro regista cine- matografi co Pupi Avati e il protagonista di questo libro, appunto Lucio Dalla. Anzi, sarà proprio Avati che più tardi racconterà le vicende del gruppo di musicisti in tre fi lm, Jazz Band, Dancing Paradise e Accadde a Bologna, l’ultimo girato in parte nella cantina dove ogni venerdì era solita riunirsi la Doctor Dixie. Nel 1960 la Rheno Dixieland Band, con Avati e Dalla in for- mazione, vince il primo festival europeo di jazz ad Antibes-Juan les Pins. In quell’occasione è proprio Dalla a farsi notare da un’or- chestra di professionisti del Lazio, la Second Roman New Orleans Jazz Band, con cui ha la prima esperienza in sala d’incisione: nel brano strumentale Telstar, pubblicato dalla RCA in 45 giri, accom- pagnato dal fedele clarinetto. Avati e Dalla sono colleghi, non esattamente amici, anche se si sono conosciuti a sei anni quando Lucio, bambino, suonava la fi - sarmonica e ballava il tip tap in formazioni locali. Tra di loro, anzi, nasce in fretta una forte rivalità. Prima dell’arrivo di Lucio nella band era Pupi, di cinque anni più vecchio, a essere considerato il clarinettista di riferimento, poi il talento del nuovo arrivato man- da in crisi il collega. Avati ha raccontato questa storia più volte e nel 2005 vi ha persino dedicato un fi lm, Ma quando arrivano le ragazze?, dove i protagonisti sono Gianca (cioè lui), interpreta- to da Paolo Briguglia, e Nick (Lucio Dalla) il cui volto è quello Gli esordi di Claudio Santamaria. «Gianca», dice Pupi Avati, «alla fi ne deve prendere atto della propria mancanza di talento. Cosa di cui Nick, Lucio Dalla, è invece misteriosamente dotato.» In un’intervista di Michele Brambilla uscita su «La Stampa» del 2 marzo 2013 il regista ha confessato la sua frustrazione: «Dalla era veramente toccato da una grazia speciale. Io mi applicavo, ascoltavo dischi, studiavo. E mi illudevo. Lui non aveva bisogno di impegnarsi, e infatti non si impegnava. Era genialità pura». Per smontarne il talento dice agli amici che non sa suonare, e per anni ha avuto un rapporto davvero problematico con lui, e qualche tratto di odio. Confesserà più tardi: «Il suo successo nella musica era lo specchio del mio insuccesso, e quindi una ferita aperta. Una volta a Barcellona, sul tetto della Sagrada Familia, ebbi la tentazione di buttarlo giù». I due si riconciliano solo col tempo, quando Avati si imporrà nel cinema: «È l’uomo che ha cambiato la mia vita», dice, «senza l’incontro con lui, senza il confronto per me umiliante con la sua bravura, non avrei smesso di suonare e non sarei diventato un regista.» Anche Nardo Giardina, decano della Band tuttora in attività e libero docente di ostetricia e ginecologia, ricorda a Davide Turri- ni de «Il Fatto Quotidiano» l’episodio di Barcellona e l’acerrima rivalità: «Pupi suonava in modo scolastico, faceva le sue scale al clarinetto, s’impegnava. Ma quando arrivò Lucio fece tre note e ce lo prendemmo subito». La pace defi nitiva tra Avati e Dalla avverrà diversi anni più tardi negli studi televisivi di Che tempo che fa. Davanti a Fabio Fazio il regista confessa di aver provato una forte ostilità e in qualche modo si pente di aver osteggiato una persona così dotata solo a Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino causa della propria invidia. Ne nasce un divertente siparietto e l’incidente, seppur con decenni di ritardo, sembra chiuso.

Un tempo si chiamavano complessi, soprattutto quando si proponevano con atteggiamenti e look sopra le righe rispetto ai costumi castigati e formali della musica italiana dei primi anni Sessanta, aspettando che il beat giungesse prorompente a cambia- re tutto. Nel 1962 Lucio Dalla entra a far parte dei Flippers, in origine formati da Jimmy Polosa al pianoforte, poi sostituito da Franco Bracardi, Massimo Catalano alla tromba, Maurizio Cata- lano al contrabbasso, Romolo Forlai al vibrafono e percussioni, Fabrizio Zampa alla batteria. Lucio è voce solista e suona il sax e il clarinetto. Davvero un’altra era, dominata dall’entusiasmo per la nuova musica giovane. Sembra incredibile ma i Flippers vendono oltre quattro milioni di dischi, uno soltanto con I Watussi insieme a Edoardo Vianello che spesso accompagnano dal vivo e in studio. Suonano nei locali storici del boom economico del dopoguerra: la Bussola e la Capannina in Versilia, il Barracuda di Santa Mar- gherita Ligure, l’Hotel Excelsior al Lido di Venezia. Nel loro re- pertorio brani e standard jazz tradotti in versione cha cha cha, twist, surf, hully gully. Uno dei primi successi è Jada, il cha cha cha dell’impiccato, dal testo pressoché demenziale. Con I Watussi arrivano secondi al Cantagiro. Lavorano nel cinema con Totò e in uno dei tanti musicarelli di allora, Questo pazzo, pazzo mondo della canzone (1965) diretto da Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi. Lucio Dalla rappresenta certamente il valore aggiunto di questo complesso. Fin dall’inizio ha una gran presenza scenica, nono- Gli esordi stante sia giovane, di piccola statura e con pochi capelli. Canta in inglese, anzi in una lingua inventata con parole che perlopiù non esistono, divertendosi a storpiare le hit di Ray Charles. Fabrizio Zampa, suo compagno nei The Flippers poi apprezzato giornali- sta musicale, racconta di una sera in cui qualcuno dal pubblico chiede loro di cantare Georgia on My Mind: Dalla inventa tutte le parole, tranne il titolo, eppure riceve molti applausi anche se la gente non lo capisce. La sua vera passione si chiama però James Brown, il nuovo re del soul americano, e senz’altro il modo di usare la voce con estem- poranei gorgheggi in stile scat è ispirato a quello che considera il suo maestro. Il brano Hey You, raccolto nell’antologia «At Full Tilt», è il primo esempio di un registro che di fatto non lascerà mai. «Dalla», racconta Michele Monina, «ama svisare con la voce, abbandonare momentaneamente la linea melodica principale, alla maniera dei soulman d’oltreoceano, andando poi a ritrovarsi sul canone a fi ne giro armonico.» Ha il vizio di esibirsi a piedi nudi, e ciò non piace per esempio ai proprietari de Le Roi Lutrario, una nota sala da ballo torinese progettata dall’architetto Carlo Mollino – ma fonti diverse cita- no un’altro locale in città, l’Arlecchino – dove Dalla è di scena: lo disapprovano affi bbiandogli l’etichetta di «disadattato senza calzini». Per ovviare all’inconveniente l’ironico Lucio si pittura i piedi, così in pochi se ne accorgono. Il successo dei Flippers va al di là del mondo discografi co: sono simpatici, scanzonati e hanno in Dalla un ottimo frontman. Vengono chiamati per il Carosello pubblicitario della camicia Dinamic, girato da Paolo e Vittorio Taviani nel traffi co di Roma: suonano e cantano un motivo ac- Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino cattivante a bordo di un’auto d’epoca, vestiti tutti uguali in puro stile dixieland. Queste prime performance gli portano fortuna, la personalità è già prorompente e se ne accorge Gino Paoli, arrivato al succes- so con La gatta, Il cielo in una stanza e Senza fi ne. È proprio il cantautore genovese che suggerisce a Lucio di lasciare i Flippers per intraprendere la carriera solista. Paoli ne ammira la capacità performativa, la voce, il polistrumentismo da autodidatta e ne ap- prezza al contempo il suo fare da gigione. Lo convince a staccarsi dal clarino e provare a cantare. Gli altri del gruppo non la prendo- no affatto bene. Negli stessi mesi conosce anche Gianni Moran- di, già affermatissimo, al Teatro Greco di Taormina durante uno show televisivo per l’estate.

Nel 1964 Lucio Dalla pubblica il suo primo 45 giri con l’eti- chetta ARC distribuita da RCA. Entrambe le canzoni sono cover di brani americani, Lei (non è per me), nell’originale Careless Love cantata da Bessie Smith e in seguito da Ray Charles, tradotta in italiano da Sergio Bardotti e Gino Paoli; sul lato B c’è invece Ma questa sera, cover di Hey Little Girl, interpretata da Major Lance e scritta da Curtis Mayfi eld. Al Cantagiro però riceve fi schi e lanci di ortaggi. Non proprio un successo. L’anno successivo, il 1965, Dalla torna al concorso canoro con L’ora di piangere, brano melo- dico non particolarmente signifi cativo. Niente per cui scoraggiarsi più di tanto, soprattutto agli esordi, tenuto conto del fatto che la musica italiana non è ancora pron- ta alla svolta beat, che comunque sta per maturare. Il Festival di Sanremo, paludato e tradizionale allora come oggi, resta il palco- Gli esordi scenico con cui misurarsi, per farsi conoscere dal grande pubblico televisivo. In effetti Dalla pensa a Sanremo fi n da quando forma, nello stesso 1965, il proprio gruppo d’accompagnamento, Gli Ido- li, con i quali incide il suo primo album, dal titolo decisamente fantascientifi co per l’epoca: «1999». Originari di Bologna, Gli Idoli accompagneranno Lucio nei dischi e nei concerti fi no al 1974. La formazione è composta da Beppe Barlozzari, voce e chitarra, Gior- gio Lecardi, chitarra e batteria, Bruno Cabassi, tastiere, Emanuele Ardemagni, basso, Renzo Fontanella, violino, fl auto e basso, Re- migio Ducros, tastiere e Luciano Bovi, basso. Percorrono l’Emilia Romagna a bordo di un pullmino Volkswagen, molto in voga all’e- poca; Lucio, racconta Gianfranco Baldazzi, stupisce i compagni con look sempre molto particolari, come un poncho messicano che gli copre la già pronunciata pancetta e da cui esce la barba incolta. Il disco, pubblicato da RCA e prodotto da Gianfranco Reverbe- ri, autore della maggior parte delle musiche, con Sergio Bardotti che ne scrive diversi testi, contiene quattordici brani piuttosto discontinui tra loro. Non si capisce, insomma, verso quale dire- zione Dalla voglia andare: la matrice prevalente è pop, contami- nata però da infl uenze jazz e soul. Se a «1999» manca in qualche misura l’amalgama, alcuni brani funzionano però come singoli: oltre alla ripresa di Lei (non è per me), escono a 45 giri Quando ero soldato e Tutto il male del mondo. Nell’album Dalla canta in inglese un pezzo di James Brown, I Got You e ne traduce un altro, più famoso, It’s Man’s Man’s Man’s World, con il titolo Un mondo di uomini. L’accoglienza del disco, che la RCA non ristamperà fi no al 1989, è molto tiepida, eppure Lucio Dalla riesce ugualmente a parteci- Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino pare nel gennaio 1966 al Festival di Sanremo con il brano Paff… bum, incluso nel 33. La XVI edizione della più nota competizione di musica leggera italiana, presentata da Mike Bongiorno, ha di- versi motivi d’interesse e soprattutto comincia a segnare i primi cambiamenti epocali del Paese. Vince Domenico Modugno, in coppia con Gigliola Cinquetti, con Dio come ti amo, un brano molto bello ma altrettanto tradizionale. Ben diverso il mood della seconda classifi cata, Caterina Caselli con Nessuno mi può giudi- care, che anticipa la rivoluzione beat attraverso una canzone che rivendica un ruolo diverso per i giovani e per le donne. Ma San- remo 1966 passerà alla storia soprattutto per Il ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano, che non arriva in fi nale eppure di- venterà un brano immortale della canzone italiana. Lucio Dalla e Gino Paoli, che partecipa con La carta vincente, non superano nemmeno la fase eliminatoria. Nella storia del Festival, accanto ai cantanti melodici, è sempre stata abitudine inserire interpreti scanzonati, buffi , irregolari, ca- paci con le loro stranezze di attrarre l’interesse del pubblico più giovane, in un tempo in cui i dischi si vendevano molto. Lucio sembra perfetto per giocarsi questo ruolo con un pezzo divertente, onomatopeico fi n dal titolo, dove i più colti potranno ritrovarci addirittura una citazione futurista, oppure più semplicemente il linguaggio pop dei fumetti, che torneranno nella prima parte della carriera di Dalla, quasi fossimo in un quadro di Roy Lichtenstein. Altra consuetudine di allora, accoppiare il cantante italiano a un collega straniero, e Paff… bum viene eseguita sul palco di San- remo nientemeno che dagli Yardbirds, uno dei gruppi più impor- tanti della storia del rock inglese, dove hanno suonato tra gli altri Gli esordi

Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, futuro chitarrista dei Led Zeppelin. Ma agli italiani questo nome non dice ancora molto. Il motivo comunque piace, è orecchiabile, in diversi lo canticchia- no: certamente rappresenta il primo passo di Lucio Dalla verso la popolarità. L’anno dopo, il 1967, Dalla torna a Sanremo con una canzone più forte e convincente, Bisogna saper perdere, in coppia con i Ro- kes di Shel Shapiro, in un Festival funestato dalla tragica morte di Luigi Tenco, escluso dalla fi nale con il brano Ciao, amore ciao. Lo stesso Dalla racconta: «Con Tenco avevo avuto rapporti di amici- zia e di collaborazione. Andammo a Sanremo insieme, prendem- mo la camera vicina e la sua morte mi sconvolse, non dormii per un mese». Una fi ne assurda e sconvolgente. Lucio, che ha sempre sofferto di ulcera, dice che la malattia gli è venuta proprio a causa del tragico avvenimento. Tutto passa in secondo piano, dunque: la vittoria di Claudio Villa e Iva Zanicchi con Non pensare a me, i tanti big stranieri come Sonny & Cher, Dionne Warwick e Marianne Faithfull, la presenza del simpatico francese Antoine e il suo Pietre, il successo di Don Backy con L’immensità e di Little Tony che canta Cuore matto. Bisogna saper perdere si classifi ca al sesto posto e fi n dalla copertina del 45 giri si intuisce che Dalla ha colto in pieno la svolta beat, inventandosi uno slogan che esprime una fi losofi a di vita e che trae ispirazione dal mondo dello sport. Il cantante bo- lognese è fotografato seduto a gambe incrociate, maglietta rossa e pantaloni verdi, mentre la grafi ca gli disegna intorno un motivo psichedelico di ispirazione fl oreal-californiana. Il pezzo viene usa- to peraltro come sigla della rubrica televisiva Giovani, di Cresci e Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino

Pinelli, andata in onda nello stesso 1967: evidentemente Lucio vuole intercettare questa nuova fascia di pubblico che rappresenta il maggiore utente discografi co del momento. Eppure il 1967 deve essere ricordato non tanto per l’affermazio- ne sanremese, quanto per un insperato e brillante esordio di Lucio Dalla nel cinema d’autore. Paolo e Vittorio Taviani lo scelgono tra gli attori protagonisti del loro fi lm I sovversivi, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Questa l’elegante sintesi che ne fa Fernaldo Di Giammatteo nel suo Dizionario Universale del Cine- ma: «Durante i funerali di Palmiro Togliatti a Roma, nell’agosto ’64, si intrecciano le vicende di alcuni personaggi che vivono, pur senza mai incontrarsi, diversi sintomi di una stessa crisi. Ermanno (Lucio Dalla), un laureato in fi losofi a incerto sul proprio futuro, cerca inutilmente nella fotografi a un mezzo per decifrare la realtà che lo circonda; Sebastiano (Giorgio Arlorio), un funzionario del Partito Comunista, resta sconvolto dal legame omosessuale che nasce tra la moglie e una sua amica; Ludovico (Ferruccio De Cere- sa), un regista invalido che progetta un fi lm su Leonardo da Vinci, si accorge che l’esperienza artistica non è suffi ciente a giustifi care l’esistenza; Ettore (Giulio Brogi), un esule venezuelano, conclude frettolosamente una storia d’amore con una ragazza romana, pres- sato dai compagni di lotta, che lo costringono a ritornare in patria per agire nella clandestinità». Lucio Dalla, che nel fi lm viene doppiato, rivela doti attoriali che in pochi conoscono, nonostante i cammei in alcune comme- die precedenti. Per i Fratelli Taviani non interpreta se stesso, ma un vero e proprio personaggio. Curiosità: in una scena intima, mentre fa il bagno con la propria compagna, si spoglia a torso Gli esordi nudo rivelando quello che poi diventerà un segno caratteristico del suo fi sico, una fi tta trama di peli che gli ricopre busto, schiena e spalle. Il cinema italiano nella seconda metà degli anni Sessanta è ca- ratterizzato da un fenomeno molto interessante: tra fi lm d’autore e di genere vi è un continuo travaso di maestranze e di energie, segno indubitabile che i due ambiti non sono poi così diversi tra loro. Se a un livello alto si considerano maestri quali Pasolini, Visconti, Fellini, commedie, «spaghetti », «poliziotteschi» e horror rappresentano un fenomeno produttivo di vastissima portata. Basti pensare al caso Sergio Leone, nato come regista po- polare e incensato quale grande autore pochi anni dopo. Mentre viene coinvolto nel cinema d’autore dai Taviani, Dalla partecipa al curioso mix tra e western all’italiana di Little Rita nel Far West di Ferdinando Baldi, dove accanto alla protagonista Rita Pavone, reduce da Giamburrasca e dai successi discografi ci, recita- no il marito Teddy Reno, il culturista e Terence Hill; lì Lucio interpreta il personaggio di Franz Fitzgerald Grawz e canta diversi brani della colonna sonora, tra cui Piruliruli, in duetto con Rita, nel quale dimostra, accanto alle doti vocali, una impressionante verve comica. Lucio Dalla aveva bagnato il suo debutto cinematografi co già due anni prima, nel 1965, partecipando ad altri due musicarel- li; Altissima pressione di Enzo Trapani, dove interpreta, vestito in giacca e cravatta, L’ora di piangere sul palco di un locale che nel fi lm si chiama Caciotta Club e che molto probabilmente è il Piper di via Tagliamento a Roma, almeno a giudicare dalle scenogra- fi e dell’artista romano Claudio Cintoli. L’altro fi lm è il già citato Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino

Questo pazzo pazzo mondo della canzone, con i Flippers, dove ese- gue il brano Questa sera. Nel ’66 è in Europa canta di José Luis Merino e nel ’67 in Quando dico che ti amo di Giorgio Bianchi, che nel titolo cita la canzone di un’interprete oggi dimenticata, Annarita Spinaci. Un’altra sua partecipazione, nell’intenso 1967, è nel fi lm «generazionale» I ragazzi del Bandiera gialla diretto da Mariano Laurenti, ispirato all’omonima canzone di Gianni Pet- tenati e alla trasmissione radiofonica di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni: insieme a lui, Rocky Roberts, il cantante soul di Stasera mi butto, Patty Pravo, ovvero la ragazza del Piper, The Pri- mitives con Mal, l’Equipe 84 e un giovanissimo Renato Zero. In un palco decisamente underground, mentre intorno gli balla una folla di ragazzi, canta l’autobiografi ca Lucio dove vai? lato B di «Bisogna saper perdere». Nel 1968 Lucio torna sugli schermi insieme ai comici del mo- mento, Franchi & Ingrassia, nel fi lm a episodi Franco e Ciccio e le vedove allegre, diretto da , dove tra gli attori comprimari compaiono Raimondo Vianello e Margaret Lee: Dal- la, nel ruolo di se stesso, interpreta Il cielo. Proprio questi due brani segnano un ulteriore passo in avanti nella primissima fase della carriera canora di Dalla. Non solo di puro divertissement si tratta, infatti, e si introducono signifi cati diversi e più profondi. Ne Il cielo si parla ad esempio di preghiera, un concetto che il Dalla maturo declinerà più volte, a conferma di una sua attrazione metafi sica e di un richiamo verso la religione cattolica fi n dai primordi. Nel 1967 con questa canzone partecipa al Festival delle Rose, svoltosi all’Hotel Hilton di Roma, e vince il premio della critica. Eppure Il cielo non gli è mai piaciuta molto: Gli esordi troppo melodica, impossibile giocare con la voce né sperimentare. Lucio dove vai? ha, invece, contenuti decisamente più beat, quasi una bozza preparatoria di ciò che poi troveremo in Piazza Grande. L’alterego del cantante, senza fi ssa dimora, chiede a se stesso «dove dormirai… sempre in giro a cercare per le strade», esprimendo una malinconia di fondo nel tentativo di cercare di coprire «col berretto rosso il grigio che c’è in te». L’interessante forma retorica è quella di porre a se stesso interrogativi esistenziali cui dare rispo- ste interlocutorie, sintomo di una generazione ancora incerta ma che sta vivendo e capendo i cambiamenti.

Dalla comincia a essere considerato tra i nuovi personaggi più interessanti della musica leggera italiana e sulle sue strava- ganze cominciano a circolare alcune leggende. Pare che i portieri dell’Hilton volessero impedirgli di partecipare alla serata fi nale del concorso perché il suo aspetto non era abbastanza presentabile. Si dice che andasse in giro con delle ciliegie che gli pendevano dalle orecchie e con una gallina al guinzaglio. Impossibile, in ogni caso, non notare questo ragazzo poco più che ventenne che ama fare stranezze di ogni genere, dimostrandosi fi n dall’inizio un abi- le performer. Altra attività del funambolico Lucio di quegli anni è quella del disc jockey: ogni tanto, con Baldazzi, fa ballare la gente al Whisky a Go Go, locale alla moda di Bologna. Mette mano inoltre al progetto di teatro-cabaret in un vecchio scantinato nel quartiere universitario, soprannominato La locanda: ma il gestore non ne vuol sapere di pagare nonostante il buon successo delle serate, dunque l’esperimento fi nisce presto. Oltre al cinema Dalla scopre la televisione, ed è spesso ospite a Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino

Studio 1 nel 1966, all’Anna Moffo Show del ’67, a Canzonissima e Un’ora per voi nel 1968. È il 3 marzo 1970 quando debutta in Rai, nella fascia pomeridiana dedicata ai ragazzi, il programma Gli eroi di cartone. Andata in onda per tre stagioni fi no al 1973, ogni martedì alle 18.15, è una trasmissione incentrata sul nuovo linguaggio dei fumetti che sta vivendo un periodo molto inten- so, proponendosi come una delle arti nuove nell’era del Pop. Gli autori de Gli eroi di cartone sono Luciano Pinelli, Nicola Garrone e Gianni Rondolino, sostituiti nella terza edizione da Nicoletta Artom e Sergio Trinchero. Ogni serie ha un conduttore diverso: comincia Lucio Dalla, continua con Francesco Mulé, per fi nire con Roberto Galve. La sigla, cantata da Dalla, si intitola Fumetto, ed è un piccolo brano di soli due minuti che accompagna le immagini animate sullo sfondo senza particolare precisione iconografi ca. Lucio cita Superman, Nembo Kid, l’Uomo ragno, Braccio di ferro, Asterix, in un mix tra supereroi del fumetto più commerciale con altri dalla pretesa decisamente più autoriale. Ha un ritmo sincopato e divertente che si fa ricordare, ed è un ulteriore tassello per la po- polarità del cantante, che si trova molto a suo agio anche da con- duttore televisivo per un pubblico formato da ragazzi e da amatori dei cartoon.

È al fi lo della memoria e dei luoghi d’infanzia che si lega il suo secondo album, «Terra di Gaibola». Gaibola è una frazione di Bo- logna dove Lucio, tifosissimo fi n da ragazzo della squadra di calcio cittadina e, per il basket, della Virtus, trascorre il tempo giocan- do a pallone, a pallacanestro, e andando in giro in motorino. I Gli esordi suoi storici amici d’infanzia sono Stefano Bonaga, che diventerà fi losofo e professore universitario, Angelo Battistini, che farà lo psicanalista a Rimini, Carlo Poma Zanfrognini, futuro poeta e fumettista, autore della biografi a Lucio Dalla vero, Paolo Bonetti, avvocato, che tornerà più avanti come un enigmatico personaggio della giovinezza. Il titolo dell’album, dunque, pubblicato nel 1970 ancora per RCA e accompagnato da Gli Idoli, è un omaggio ai suoi luoghi di formazione. In copertina un disegno colorato e non la foto che Dalla vorrebbe per restituire la temperatura del disco: psichedeli- co, sperimentale, molto vario, contenente i diversi registri stilistici cui l’autore ci sta abituando. Prodotto da Roberto Formentini e arrangiato da Guido e Maurizio De Angelis, che negli anni Set- tanta saranno conosciuti come Oliver Onions, esperti in colonne sonore, «Terra di Gaibola» contiene dodici tracce. Uno solo dei brani, Non sono matto (o la capra Elisabetta), ha il testo scritto da Lucio, che invece compone le musiche di tutto l’album. Il re- pertorio, si diceva, è molto vario. Contiene, per cominciare, uno standard jazz Stars Fell on Alabama, versione strumentale di un brano del 1934 interpretato da Ella Fitzgerald, Frank Sinatra, e in Italia da Mina; l’improvvisazione scat ABCDEFG, dove Dalla si tro- va molto a suo agio; alcuni pezzi che saranno interpretati da altri, come Dolce Susanna, per la voce di Ron, Il mio cuore nero, cover di una canzone americana incisa poi da Patty Pravo, e soprattutto Occhi di ragazza portata al successo da Gianni Morandi. Non sono matto, invece, è scritta dall’amico Gino Paoli. Oltre a Fumetto, che già conosciamo, il singolo tratto dal disco è Sylvie (sul lato B c’è Orfeo bianco dove tra le righe emerge per la prima volta il tema Per i ladri e le puttane sono Gesùbambino politico degli operai), che di «Terra di Gaibola», dal bel crescendo spiritual, fi nisce per essere la canzone più celebre, a lungo rimasta nel repertorio del cantante. Il fi ume e la città, dal tono progressive, sarà invece la seconda facciata di 4-3-1943. Il Lucio di fi ne anni Sessanta è un giovane uomo insofferente alle regole. Si autodefi nisce un proletario della canzone e se ne frega delle convenzioni. Non sa cosa vuole dalla vita, se il successo o la tranquillità, ma in fondo odia la musica leggera e non crede nella pura e semplice protesta dilagante. Per lui è più importante l’immagine, il fatto scenico, le sole parole. Ecco perché fatica a en- trare nel mondo dei cantautori. Sembra divertirsi molto, eppure non sopporta la routine. Sta aspettando qualcosa che gli cambi la vita, un episodio davvero importante, una svolta, insomma.