LE FORNACI DI ALBINIA (GR) E LA PRODUZIONE DI ANFORE NELLA BASSA VALLE DELL’

Premessa

L’attenzione dell’archeologia per la vasta pianura che si estende attorno al basso corso e alla foce dell’Albegna ha preso corpo alla fine degli anni ‘70. La segnalazione di probabili impianti produttivi di anfore romane repubblica- ne nell’area di Albinia (comune di , GR) da parte di D.P.S. Peacock (1977), i lavori di D. Manacorda (1980; 1981) e di F. Cambi (1994), ma so- prattutto gli scavi della Soprintendenza per i Beni archeologici della Toscana diretti da G. Ciampoltrini tra il 1983 e il 1988 (CIAMPOLTRINI 1997) hanno avuto il merito di focalizzare l’attenzione della comunità scientifica sulla complessità e l’enorme estensione delle emergenze archeologiche alla foce dell’Albegna, corrispondenti a un vasto insediamento di età romana, ricordato dalle fonti itinerarie antiche, che fu verosimilmente articolato in strutture produttive, aree di servizio legate all’antica via Aurelia e scalo portuale. Dall’anno 2000 il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bo- logna, da anni impegnato con una propria missione negli scavi archeologici dell’oppidum celtico di Bibracte e interessato agli aspetti della produzione e diffusione del vino romano in area gallica, ha messo in atto un programma di ricerca pluriennale in collaborazione con ricercatori francesi, sostenuto in parte dai programmi Galileo/Galilée (Egide) (CALASTRI et alii 2004; OLMER, VITALI, CALASTRI 2002). Da quattro anni le operazioni di scavo ad Albinia, dirette dal nostro Dipartimento, titolare di una concessione ministeriale, si muovono in collaborazione con il CNRS (fino al 2001 con l’UMR 5594 di Digione, poi con l’UMR 7041 di Nanterre), con l’Ecole Française de Rome, con il Centre Archéologique Européen du Mont Beuvray e con il Collège de France. Essen- ziale è stata da allora la collaborazione del Comune di Orbetello1.

1 Le ricerche archeologiche ad Albinia sono finanziate dall’Università di Bologna – capitolo fondi pluriennali per gli scavi archeologici del Dipartimento di Archeologia – dal Collège de France, dal CNRS-UMR 7041 Nanterre, dal Comune di Orbetello (GR). Dal 2005 tali ricerche sono cofinanziate dal MIUR come programma dal titolo Fabbricanti di anfore, produttori di vino: archeologia ed economia del vino tra l’Etruria romana e il mondo gallico (II sec. a.C.- I sec. d.C.) con coordinatore scientifico D. Vitali. Desideriamo ringraziare per

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale L’ager Cosanus in età tardorepubblicana: produttori di vino, fabbricanti di anfore

Come attestano le ricerche di superficie condotte nel territorio di Cosa dall’Università di Siena (CELUZZA, REGOLI 1982; ATTOLINI et alii 1982; IIDEM 1983; da ultimi CARANDINI, CAMBI 2002), fra la metà del III e la metà del II secolo a.C. il paesaggio della colonia appare dominato dalla piccola proprietà contadina, orientata verso un’agricoltura di sussistenza i cui prodotti erano protagonisti di un modesto mercato a scala regionale. Successivamente, a partire dalla metà del II secolo a.C., in seguito allo sviluppo di un’agricoltu- ra intensiva orientata principalmente alla produzione vitivinicola, nell’ager Cosanus s’innesca un processo di differenziazione sociale a scapito della piccola proprietà coloniaria. Quest’ultima venne ulteriormente colpita dalla crisi seguita alle guerre civili tra Mario e Silla, che all’inizio del I secolo a.C. causarono un generale fenomeno di spopolamento delle campagne. Parallelamente al declino e alla perdita di funzioni del centro urbano di Cosa, la piccola proprietà contadina viene progressivamente soppiantata dall’affermarsi di grandi villae a conduzione schiavistica, verosimilmente legate ai fondi di importanti famiglie senatorie che si impongono come i soggetti economici di maggiore spicco: nella parte meridionale dell’agro, in particolare nella fertile piana della Valle d’Oro, monopolio della famiglia dei Sestii, le grandi ville con fronte turrita, come Settefinestre, vanno ad occupare l’antico territorio centuriato rispettandone i limiti, ma accorpando i lotti coloniari del III e II secolo a.C. (CARANDINI, CAMBI 2002, pp. 145-154; CALASTRI 2004; CALASTRI, COTTAFAVA 2004; DYSON 2002). La parte settentrionale dell’ager Cosanus si sarebbe trovata invece sotto il controllo della famiglia dei Domitii Ahenobarbi (MANACORDA 1980; MANACORDA 1981), più volte citati dalle fonti classiche, la cui base operativa, la Domitia- na Positio menzionata nell’Itinerarium Maritimum, è stata riconosciuta nella grande villa marittima di Santa Liberata, ubicata lungo la costa dell’Argenta- rio, in prossimità del tombolo della . Le proprietà degli Enobarbi, che presumibilmente detenevano il controllo dello scalo commerciale nel porto fluviale e marittimo di Albinia, dovevano concentrarsi nella bassa valle dell’Albegna, dove le villae tendono per lo più a riutilizzare, ampliandole e ristrutturandole, le vecchie fattorie di III e II secolo a.C. Accanto ai Sestii e ai Domitii, sembra che anche altre famiglie aristo- cratiche come i Titii e i Valerii e i Gavii abbiano avuto proprietà ed affari

la disponibilità e la collaborazione Pamela Gambogi della Soprintendenza Archeologica della Toscana, Franco Fabbri, amministratore delegato della società Mare Blu, proprietaria dell’area di scavo, il Sindaco R. Di Vincenzo, l’Assessore Antonio Capuano e le dott.sse Scala e Ferrarese, funzionarie del Comune di Orbetello.

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale nella zona, anche se resta difficile definirne e valutarne il peso: queste gentes, documentate da scarni cenni della storiografia romana o dall’epigrafia, furo- no proprietarie di fundi (e quindi di produzioni agricole), o di manifatture artigianali, o di navi da trasporto, ovvero anche di tutte queste cose insieme (CARANDINI, CAMBI 2002, pp. 148-149). Tra le scarse notizie delle fonti lette- rarie antiche, si ricordi in proposito la citazione di Cicerone, che menziona le luculenta navigia di proprietà di Publius Sestius il Cosanus, suo amico (Cic., Ad Att., 15, 27, 1; 29, 1; 16, 4, 4).

Le fornaci per anfore alla foce dell’Albegna e nel territorio cosano

I resti di fornaci segnalati da Peacock e Ciampoltrini ad Albinia, ai due lati della via Aurelia e in corrispondenza della foce del fiume Albegna, sem- brano indicare una pluralità di strutture produttive nell’ambito di un unico, vasto e composito insediamento; strutture che, considerando i tipi e le varianti delle produzioni attestate dai rinvenimenti di superficie (anfore greco-italiche; Dressel 1 A, B, C; Dressel 2/4), dovettero svolgere la propria attività tutte insieme, in un arco cronologico che va dagli ultimi decenni del II sec. a.C. alla prima età imperiale. Finora sono stati individuati due distinti complessi di fornaci: uno è quello già segnalato da Peacock negli anni ’70 e dal 2001 in corso di scavo da parte del Dipartimento di Archeologia di Bologna; l’altro, appena intravisto in alcuni sbancamenti degli anni ’70 e mai scavato, si colloca in un lotto di terreno recintato, posto circa 300 m a meridione del forte di Torre Saline, fra il canale nuovo di Fibbia a nord, la strada provinciale della Giannella a est e sud e la riva sinistra dell’Albegna a ovest (‘area S’: CIAMPOLTRINI 1997, pp. 255-256). I cospicui resti di strutture abitativo-residenziali, di murature, di elementi architettonici lapidei (blocchi squadrati, basi di colonna, pietre di soglia), di frammenti fittili e ceramici in affioramento costante nell’area circostante la foce dell’Albegna indicano da un lato l’importanza nell’antichità di questo centro, la cui ampiezza può orientativamente essere ricostruita in circa 1 kmq attorno alla foce del fiume, e dall’altro le notevoli potenzialità future per la continuazione delle ricerche sul campo. L’esistenza di un terzo complesso con fornaci, più decentrato, è ipotiz- zabile circa 2 km a monte delle aree indagate, presso la riva destra dell’Al- begna, dove, in una recente foto aerea, abbiamo rilevato una vasta anomalia cromatica, molto simile a quella della zona nella quale stiamo scavando e dove auspichiamo di poter effettuare quanto prima alcune ricognizioni e verifiche anche con sondaggi di scavo. Altri impianti produttivi di età romana sono stati in passato localizzati nel territorio limitrofo alla città di Cosa e nella vasta pianura alluvionale del fiume Albegna; alcuni di essi sono stati individuati e parzialmente indagati

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 1 – Distribuzione topografica delle fornaci e degli scarichi anforici nella zona tra Albinia, Orbetello e l’antica Cosa.

con limitate campagne di scavo, mentre altri sono stati ipotizzati per la pre- senza in loco di scarichi di frammenti mal cotti. La distribuzione topografica delle fornaci e degli scarichi anforici si presta a un’interessante osservazio- ne; la maggior parte di essi sorge infatti presso i principali siti portuali del comprensorio (Fig. 1): almeno due casi ad Albinia, uno in corso di scavo, un altro con presenza superficiale di scarti e mattoni refrattari; poi a ridosso del promontorio di Cosa-, nell’area del Portus Feniliae, anche qui con presenza di scarti e mattoni da fornace (CALASTRI 1999; OLMER 2003); e infine, sul versante opposto del promontorio, nell’area del Portus Cosanus della Tagliata, dove ad un vasto scarico di frammenti di anfora e di mattoni (MANACORDA 1978) si possono aggiungere i resti di una fornace per vasellame ceramico recentemente intercettati (CIAMPOLTRINI et alii 1999) e dove in un breve sopralluogo F. Laubenheimer e D. Vitali hanno recuperato numerosi frr. di orli di anfore Dressel 1, uno dei quali con timbro dei Sestii.

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Nessuno di questi impianti nasce in stretta relazione topografica con le villae rustiche del territorio interno, dove si svolgeva la vera e propria produ- zione vitivinicola. Gli ateliers costieri sembrano dunque funzionare per una committenza che non produceva anfore in proprio, e che invece si serviva di manifatture artigianali organizzate su vasta scala e localizzate accanto alle grandi vie di comunicazione marittime e terrestri. Allo stato attuale delle conoscenze, soltanto lo scarico di frammenti di anfore identificato in località Parrina potrebbe essere collegato ad una fornace satellite di una villa rustica dell’entroterra albiniese; mancano però elementi archeologici decisivi in merito (MANACORDA 1980, p. 175; ID. 1981). Altre fornaci ‘isolate’ si possono riconoscere nello scarico di Tricosto, presso la Valle d’Oro (CARANDINI, CAMBI 2002, p. 148, ove la fornace si collega all’atti- vità figlina dei Gavii) e nelle ben conservate (e per ora inedite) fornaci di San Donato, nelle valle dell’Albegna; ma entrambi i complessi sembrano destinati, almeno nella fase meglio leggibile dei resti archeologici, alla produzione di laterizi piuttosto che di contenitori vinari. In particolare il complesso di San Donato merita attenzione per le strette analogie tipologiche con l’atelier di Albinia in corso di scavo da parte nostra (fornaci gemelle a pianta rettangolare, parallele sul lato lungo, collegate da camera di prefurnio unica); diversamente da quanto si riscontra ad Albinia, nelle immediate vicinanze dei resti di San Donato non si rileva la presenza di strutture durevoli riferibili ad un insedia- mento collegato. Ma per quanto concerne le infrastrutture di tipo utilitario (capannoni, laboratori, etc.) si potevano avere anche solamente spazi coperti in materiali deperibili. D’altronde non si può escludere che, accanto ai grandi ateliers spe- cializzati, siano esistite produzioni anforiche di entità minore, destinate al fabbisogno di ogni singola azienda agricola, quindi impianti di fornaci meno estesi e organizzati, localizzati nei pressi delle villae rustiche maggiormente articolate. Le tracce archeologiche di questi siti sono però, si è detto, piutto- sto labili; la stessa villa di Settefinestre, fra le più complesse e monumentali di tutto l’agro Cosano, è dotata di un proprio torchio vinario ma non di un forno per la produzione di anfore. Lo scarico della Parrina, da solo, non può costituire, al momento, un’eccezione rilevante a questa tendenza. La sostanziale omogeneità cronologica delle testimonianze sui siti pro- duttivi cosani suggerisce un panorama economico in età tardorepubblicana alquanto ramificato e complesso, nonché una serie di spunti di riflessione già proposti da D. Manacorda, che auspicava si potessero attivare specifiche ricerche archeologiche proprio ad Albinia (MANACORDA 1980, pp. 176-178). La distribuzione topografica litoranea e ‘urbana’ dei forni e le caratteristiche strutturali del vasto impianto artigianale di Albinia sembrano infatti far emer- gere in modo evidente una categoria economica di fabbricanti di anfore che produssero contenitori vinari in maniera industriale ‘per conto’ di terzi. In questo caso la produzione ‘al pubblico’ non si limitò alle anfore, ma incluse

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale anche altre classi di fittili (dai laterizi – tegulae, imbrices, mattoni etc. – fino al vasellame comune – doli, mortai, brocche, coperchi, etc. – MANACORDA 1981). I nuclei artigianali si concentravano principalmente in aree strutturate in prossimità dei punti di smistamento economico del ‘prodotto vino’, ovvero i porti del litorale e la statio di Albinia sull’Aurelia antica (CIAMPOLTRINI 1997, pp. 290-291). In quest’ottica il vino prodotto nelle villae dell’interno doveva giungere in contenitori più capienti al luogo di raccolta dove si trovavano anfore cotte e prive di difetti, e lì direttamente travasato, sigillato/ tappato e spedito nei mercati via terra o piuttosto via mare. Rimane ancora difficoltoso, al momento, definire in modo preciso legami di relazione fra i proprietari terrieri e i produttori di anfore; a chi appartenevano i grandi forni del litorale cosano? L’ipotesi più plausibile è che gli stessi grandi viticoltori delle villae dell’entroterra fossero proprietari degli ateliers artigianali di anfore e che preferissero portare il loro vino sfuso dalle aziende presso i porti e lì prepararlo per i mercati, piuttosto che servirsi di forni individuali nelle aree più lontane e meno collegate dell’interno. Non meno verosimile è però l’ipotesi di un ceto imprenditoriale, forse di origine libertina, che si occupasse soltanto di cuocere anfore, senza produrre vino; la contemporaneità di entrambe le circostanze non è peraltro escludibile a priori. In ogni caso questo aspetto deve essere precisato lungo i due secoli e oltre di produzione anforica e soprattutto analizzato tenendo conto della ricchissima documentazione epigrafica identificata sulle anfore di Albinia. Individuata tra- mite i nostri scavi una delle aree di fabbricazione di anfore, occorre andare oltre e definire i caratteri, l’estensione e l’organizzazione degli impianti, la durata e le fasi della loro attività, i tipi delle produzioni e, partendo dalla molteplicità di bolli coi quali vennero marcate le anfore, le generazioni di ‘responsabili’ dell’atelier che si affiancarono o succedettero gli uni agli altri. A questi risultati va poi aggiunto uno studio dedicato alle dinamiche del commercio marittimo, che richiedeva un’organizzazione particolare integrato con le esigenze della terraferma, dall’area di produzione a quella di redistribuzione. L’indagine stratigrafica di un centro di produzione di anfore tipo Dres- sel 1 e Dressel 2/4 nel territorio di Albinia apre dunque nuovi scenari nella ricostruzione di una particolare via commerciale dell’antichità, che sembra avere privilegiato una merce come il vino romano. Le anfore col loro conte- nuto partirono infatti a decine di migliaia dalle foci dell’Albegna, risalirono il Tirreno per giungere in Gallia ovvero, ancora verso ovest, altre località del Mediterraneo occidentale (LOUGHTON 2003, pp. 185 ss.). In quest’ottica occorre tenere presenti i risultati delle nuove ricerche che riguardano l’ager Pisanus e Volterranus tra Pisa e la val Cecina, che incrementano il numero di siti noti che produssero sia Dressel 1 sia Dressel 2/4 a nord del territorio cosano, contribuendo a colmare le lacune di un tratto di costa toscana che prima sembrava ‘vuoto’ (MENCHELLI 1990-91).

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Per il II-I sec. a.C. un numero considerevole di relitti – luculenta navi- gia naufragati – è stato localizzato lungo la rotta del Tirreno diretta in Gallia (PARKER 1992; CAMBI 1994, p. 499). A testimonianza dell’importanza delle produzioni albiniesi nell’ambito di questo commercio ‘internazionale’ del vino in età tardorepubblicana, basti menzionare il carico di anfore sicuramente prodotte ad Albinia e affondato a 8-10 m di profondità insieme alla nave che le trasportava a 1 km da Fos-sur-Mer, in Francia (csd. ‘Fos A’: GIACOBBI LEQUÉMENT 1987).

Gli impianti produttivi di Albinia

Le campagne di scavo avviate nel 2001 ad Albinia sotto la direzione di D. Vitali hanno messo in luce un vasto complesso artigianale, dedicato alla produzione principalmente di anfore vinarie, ma anche di vasellame e laterizi; l’estensione dell’insediamento messo in luce sino ad oggi è di circa 2.000 mq (Figg. 2 a, b).

Fornaci 1 e 2

Una struttura muraria di contenimento in blocchi di calcare, rinforzata da contrafforti esterni quadrangolari, ingloba i resti di due grandi fornaci affiancate e parallele, a pianta rettangolare. Le ripetute arature hanno com- promesso i livelli superiori delle strutture sepolte, che già nell’antichità ave- vano subito abbattimenti, rasature e colmate per la creazione di nuovi spazi con funzioni diverse da quelle produttive. Le due fornaci rientrano nel tipo a pianta quadrangolare, a corridoio centrale e a sviluppo verticale: la camera di cottura era sovrapposta alla camera di combustione e ne era separata per mezzo di una suola (Fig. 3). Un corridoio di ingresso (praefurnium), delimitato longitudinalmente da muretti in mattoni e da una copertura a volta formata da una sequenza continua di arcate a mattoni, immetteva nella camera di combustione (furnium) entro la quale era introdotto il combustibile; all’estre- mità della camera vi era un camino per il tiraggio, formato da un’appendice quadrangolare. Il furnium si presenta come un canale rettilineo lungo circa 6 m e largo 1,20 m circa, accuratamente pavimentato con mattoni quadrati; lungo i due lati sono disposti a pettine dei muretti, contrapposti due a due (9 per la fornace 1; 7 per la fornace 2) che in origine erano raccordati tra loro da archi, la cui funzione era quella di sorreggere la suola, comunque questa fosse realizzata. Le due fornaci (lunghe in totale 8 m e larghe 3,50 m) presentano un muro perimetrale in mattoni refrattari che costituiva la parete della camera di cottura; all’esterno di questo è ancora conservato uno strato di frammenti di anfore (pareti, anse, orli, fondi) in piano, separati e intercalati a strati di

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 2 a-b – Il complesso artigianale di Albinia.

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 3 – Le fornaci 1 e 2.

argilla compattata (spessore dello strato 20-30 cm), che ebbe la funzione di isolamento termico della fornace: servì ad evitare la dispersione del calore al di fuori della camera di cottura e allo stesso tempo ne costituì l’elemento di accumulazione termica. Questa camicia di ‘coibentazione’, soggetta ad un veloce deperimento, fu demolita e sostituita diverse volte e proprio per questo essa utilizzò come materiale incoerente frammenti fittili di diverse tipologie (più frammenti di anfore che di ceramiche domestiche), che consentono di definire varie facies con orizzonti cronologici più o meno particolari.

Fornace 3

Una piccola fornace per la cottura di vasellame ceramico di uso comune è stata scoperta tra il primo e il secondo contrafforte esterno al muro nord- occidentale (Figg. 2a, 4); il piccolo forno venne attivato quando le due fornaci gemelle erano ormai fuori uso. La struttura si imposta sui muri ormai demoliti e rasati dell’edificio maggiore e per la propria costruzione riutilizza materiali fittili di risulta delle murature precedenti. La lunghezza totale si attesta attorno ai due metri: una piccola fossa sub-circolare si apre davanti al praefurnium,

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 4 – La fornace 3.

lungo 35 cm, che immette nella camera di combustione a pianta quadrata (1,40×1,40 m). Di questa si conserva il piano originale, regolarizzato con una spalmatura di argilla rubefatta, nella quale sono ancora inglobati o si inseri- scono alcuni elementi di sostegno per il piano forato che portava il carico da cuocere: si tratta in particolare di una coppia di pilastrini formati da mattoni quadrati, e di una coppia di colonnette, ciascuna delle quali è costituita da un collo d’anfora entro il quale è conficcato un tubulo in terracotta. Anche questa piccola fornace, dopo numerosi rifacimenti, venne demolita ed obliterata: lo studio del materiale contenuto nei riempimenti della struttura, costituito principalmente da piccoli contenitori per il trasporto di liquidi (anforette ad imitazione delle Dressel 2/4, brocche, bottiglie e relativi coperchi) che vanno ad affiancarsi o forse a sostituire le anfore di grandi dimensioni, costituisce ulteriore conferma di quanto ipotizzato dagli studiosi circa il declino dell’eco- nomia vitivinicola dell’ager Cosanus a partire dall’età augustea.

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 5 – Il grande vano a ovest delle fornaci e, a destra, il drenaggio con anfore.

Elementi e strutture accessorie

Una ventina di metri ad ovest dell’edificio delle fornaci gemelle si trova un grande vano (Fig. 5) sulla cui esatta destinazione permangono ancora alcune incertezze. La notevole profondità raggiunta dai robusti muri in pietra e malta che lo formano, la presenza di un setto interno con un’interruzione mediana, i resti di un tubo in piombo ancora inglobato nel muro e tagliato di netto alle due estremità e sicuramente destinato ad immettere acqua all’interno del vano, la presenza di uno spesso strato di argilla che mostra diversi punti di prelievo fino al livello di falda, e ancora la vicinanza della falda idrica, ci hanno portato ad interpretare questa struttura come un vano per la decantazione o più in generale per lo stoccaggio e la preparazione dell’argilla. Almeno questa sem- bra essere stata una delle sue funzioni finali. Infatti, all’analisi delle strutture murarie che la delimitano, si scorge una molteplicità di interventi (tra cui un vano di porta tamponato) che dovremo interpretare con la prosecuzione degli scavi. In una fase tarda questa struttura, abbandonata la funzione di area di prelievo dell’argilla, venne utilizzata come discarica e interamente colmata con mattoni provenienti dalla demolizione delle fornaci e con numerosi scarti di anfore quasi esclusivamente di tipo Dressel 1 (per lo più nella variante Dressel 1C). Molto interessante la presenza di grossi blocchi di pece grezza e di resina

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale di pino/ abete (in corso di studio da parte di Laura Cattani) che, utilizzata per impermeabilizzare l’interno delle anfore, fu gettata forse perché la produzione di anfore era finita. Un’esondazione dell’Albegna ricoprì tutto il settore fino a quando una bonifica ed un nuovo piano di calpestio furono realizzati sopra questo ‘vano’ ormai non più visibile.

Un muro di chiusura

Circa 30 metri ad ovest della vasca interrata, con andamento parallelo al lato occidentale di questa, è stato intercettato un lungo muro in pietra, già intravisto nel 2001, che sembra interpretabile come parete di chiusura del complesso edilizio con fornaci e grande vasca (Fig. 2a-b). Tra la vasca e il muro di chiusura occidentale, alle spalle delle due fornaci, lo spazio è scandito da una maglia regolare di basi di pilastro quadrate, realizzate in tecnica accurata e caratterizzate da una notevole profondità di interro. Esse misurano 0,90 m di lato (3 piedi); sono collocate alla distanza di 3,60 m (12 piedi) l’una dall’altra e dovevano sostenere i pilastri destinati a portare gli elementi di copertura, che proteggevano un’area di molte centinaia di mq. Tali spazi coperti erano necessari per lo svolgimento di altre fasi del ciclo produttivo quali la model- lazione delle parti, il montaggio delle anfore e la loro essiccazione, in attesa della cottura. Lo stoccaggio del prodotto finito poteva avvenire altrove, non necessariamente sotto uno spazio coperto. Una situazione analoga era stata riscontrata alle spalle delle due fornaci gemelle, dove gli scavi del 2001 avevano messo in luce 5 basi di pilastri delle stesse dimensioni, tecnica e materiali di quelli appena ricordati. Le basi alle spalle delle fornaci sono state spogliate o fortemente intaccate dalle arature e di esse rimangono oggi appena 20 cm di elevato contro i 90 e oltre della parte opposta.

Drenaggi

Tra il grande vano interrato e il muro di chiusura occidentale, durante la campagna 2003 è stata messa in luce un’impressionante distesa di centinaia di anfore ‘intere’, messe a terra orizzontalmente allo scopo di bonificare una zona umida, vicina al corso dell’Albegna (Figg. 5, 6). Le piene del fiume, con effetti talora devastanti, sono documentate in questo settore per ben quattro volte. Almeno tre sono infatti le distese sovrapposte di frammenti di anfore o di mattoni create per drenare e consolidare, documentate prima di questa radicale soluzione, che raggiungono i 40 cm di spessore. Esse testimoniano i ripetuti tentativi di realizzare piani di calpestio solidi e asciutti sopra sedimen- tazioni di argilla quasi pura portata dal fiume. L’inefficacia di queste soluzioni,

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 6 – Rilievo delle anfore utilizzate come drenaggio.

che vedevano di volta in volta affondare il materiale solido nel sottofondo d’argilla naturale, portò alla realizzazione dell’ultima imponente opera di drenaggio: a partire dal lato esterno del muro occidentale del vano interrato furono deposte su uno stesso piano sabbioso alcune centinaia di anfore, di- sposte in file parallele e compatte, che raggiunsero il muro esterno di chiusura occidentale. All’interno di ogni fila le anfore vennero incastrate l’una nell’altra con modalità costante: il puntale della seconda si trovava infilato per circa una

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale ventina di centimetri nella bocca o nella parte superiore del collo dell’anfora precedente (Fig. 6). La presenza dei pilastri, che ostacolava lo sviluppo inin- terrotto delle file di anfore, costrinse ad aggirare gli ostacoli utilizzando parti di anfora, soprattutto colli, anziché anfore intere. Per riempire le depressioni tra anfora ed anfora e per livellare questa struttura furono utilizzati frammenti di anfore e frammenti di mattoni semicotti, provenienti dalla demolizione di fornaci preesistenti, fatto che permette di datare questa preparazione per un ‘suolo’ di circolazione, non più conservato, alle ultime fasi di utilizzo della vasca di stoccaggio dell’argilla e di attività delle fornaci grandi. L’esplorazione, per il momento solo parziale, dell’area del drenaggio ha portato al recupero di un centinaio di anfore su 14 file nel 2003 (45 esemplari interi su un totale di 114 labbri e 91 fondi) e di altri 55 esemplari durante la campagna 2004: tuttavia alcuni sondaggi hanno permesso di accertare che la grande opera di risanamento si estende su di una superficie di almeno 200 mq, per un totale ipotizzabile di circa 400/500 anfore impiegate anticamente per la realizzazione della bonifica (Figg. 6, 7). Il drenaggio scoperto ad Albinia, composto quasi esclusivamente da anfore tipo Dressel 1, si attesta come uno dei più antichi sinora conosciuti per l’età repubblicana, pur collocandosi all’interno di una vera e propria tradizione che vede l’impiego di questa classe di materiale per la realizzazione di opere di risanamento idrico: a Marsiglia, nel IV secolo a.C., una zona paludosa del porto venne bonificata con la messa in posa di due strati di anfore marsigliesi intere; in età più recente, in Gallia e in Italia sono attestati casi di protezione di piani pavimentali e di muri o sistemazioni di argini che utilizzano anfore di tipo Dressel 1 (LAUBENHEIMER 1998). A Ostia, nella casa dell’Atrio, una vera e propria muraglia di anfore su diversi livelli risulta costituita essenzialmente da Dressel 1, alcune delle quali potrebbero provenire da Albinia, nonché da anfore più recenti che permettono di datare la realizzazione del sistema al terzo quarto del I secolo a.C. Anche per quanto riguarda la disposizione delle anfore, infilate le une dentro le altre e disposte per linee parallele, è possibile trovare riscontri in particolare nell’oppidum di Montfo (Hérault), sempre nell’ambi- to di una bonifica realizzata con Dressel 1, ma anche a Concordia Sagittaria (VE), dove allineamenti di Dressel 2/4, di anfore con ‘collo ad imbuto’ e di Dressel 6B di piccole dimensioni sono ricoperti da frammenti di tegole, di anfore e pietre (CROCE DA VILLA, SANDRINI 1998). D’altronde, il caso messo in luce dai nostri scavi pare non avere costituito un unicum neppure all’interno dello stesso sito di Albinia: alla fine degli anni ’70, infatti, un lotto molto importante di anfore recuperato durante lavori di riassestamento di canali alle foci dell’Albegna e in occasione di numerosi interventi di risistemazione del fiume, pare indicare l’esistenza di strutture con anfore intere analoghe a quelle del nostro drenaggio (CIAMPOLTRINI 1997, p. 256, p. 263, nota 13). Gli scavi condotti da Giulio Ciampoltrini negli anni ’80 a Torre Saline, infine, hanno messo in luce un altro sistema di drenaggio formato da due o quattro

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 7 – Tipologia delle anfore utilizzate per il drenaggio.

file di anfore amputate del collo e conficcate nel substrato argilloso, in modo da formare una «sorta di palizzata di rinforzo all’esterno di uno dei muri del settore O» (CIAMPOLTRINI 1997, p. 263, fig. 6d). La quasi totalità degli esemplari anforici impiegati per la realizzazione del drenaggio di Albinia appartiene al tipo Dressel 12. Gli oltre 150 individui

2 Solo cinque esemplari, rinvenuti durante la campagna 2003, si differenziano dalle Dres- sel 1 per la piccola taglia (83 cm di altezza; peso variabile tra i 16 e i 20 kg; capacità stimabile in 24,6 litri) e per alcune caratteristiche morfologiche: corpo ovoide, corte anse con profilo ad S, largo attacco superiore caratterizzato da striature sulla faccia esterna, collo bitroncoco- nico e piede corto e pieno. Queste anfore sembrano corrispondere ad una serie limitata, non timbrata, sul cui contenuto si possono formulare solo ipotesi. Confronti morfologici possono essere stabiliti con anfore rinvenute in alcune officine della costa meridionale del Lazio, che pure fabbricarono Dressel 1 e Dressel 2/4, come gli ateliers di Canneto o di Astura (EMPEREUR, HESNARD 1987), con un esemplare proveniente da un silo del sito spagnolo di Burriac (MIRO 1991) e con altri due esemplari dal relitto B di Sant’Andrea, Portoferraio (MAGGIANI 1982).

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 8 – I bolli AE sulle anfore utilizzate per il drenaggio.

identificati rappresentano un insieme notevolmente omogeneo dal punto di vista tipologico: si tratta di esemplari la cui altezza si attesta in media sui 115 cm, con labbro verticale o leggermente incurvato alto mediamente 5,6 cm, caratterizzati da un collo rastremato verso la base e da una spalla a spigolo vivo; il piede, alto in media 19 cm, può presentarsi leggermente svasato all’estremità, oppure può essere di forma troncoconica. Il peso, consistente, si attesta sui 30 kg, mentre la capacità, ove calcolabile, risulta di circa 31 litri, per un rapporto peso/volume vicino a 1/1, quindi di poca resa: le caratteristiche morfologiche e dimensionali di questi solidi contenitori permettono di attribuire i nostri esemplari al tipo Dressel 1B, le cui prime produzioni si datano all’inizio del I secolo a.C. (TCHERNIA 1986, pp. 309-320). La notevole omogeneità del materiale impiegato per la realizzazione del drenaggio emerge chiaramente anche dall’analisi dei bolli apposti sulle anfore finora recuperate: sugli oltre centocinquanta esemplari sono stati rilevati una novantina di timbri, generalmente mal realizzati, appartenenti al tipo AE in legatura entro un cartiglio ovale, apposti orizzontalmente sul

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale labbro o verticalmente sul piede dei contenitori, talora su entrambe le parti di una medesima anfora, mai alla base delle anse (Fig. 8). Non molto si conosce riguardo alla diffusione di questo bollo, di per sé già di difficile lettura: esso sembra differenziarsi dai bolli a due lettere AE apposti alla base delle anse all’interno di cartigli rettangolari scoperti, ad esempio, al Mont Beuvray (LAUBENHEIMER 1991, n. 20) o nel sito di Malain (Côte d’Or) (ROUSSEL 1988, pp. 233-236) o ancora nel relitto di Fourmigue C, tra Cannes e Antibes (BAUDOUIN, LIOU, LONG 1994) e dovrebbe forse essere interpretato come un bollo nominale (AE[NOBARBI]?). Dal drenaggio solo pochissimi esemplari recano bolli che si differenziano da questa serie omogenea: è il caso di un attacco inferiore e di un’ansa dove si trova impresso il timbro P retrogrado, appartenente alla serie di bolli ad una lettera, noto anche nell’oppidum di Bibracte, spesso su matrice identica (OLMER 2003, n. 375). O ancora, su due labbri si legge, ripetuto due volte, retrogrado e non, il timbro NIC.I, all’in- terno di un cartiglio di forma ovale: non è certo che il timbro incompleto NIC[-] in cartiglio rettangolare scoperto a Bibracte su un frammento di diversa matrice debba essere ricollegato alla medesima origine (OLMER 2003). Infine, il bollo S.A. retrogrado, apposto su un attacco inferiore, sembra appartenere ai timbri ‘cifrati’ a due lettere e risulta noto da un identico esemplare rinve- nuto a Vieille-Toulouse (FOUET 1958), nonché da un esemplare di Tharros, in Sardegna (BLANC-DIJON et alii 1998). L’analisi del materiale rinvenuto in occasione dell’esplorazione del drenaggio indica chiaramente che ci troviamo in presenza di una partita di scarto molto omogenea, rappresentata essenzialmente dal lotto di anfore timbrate AE, che, grazie all’eccezionale quantità di attestazioni, permetterà studi statistici e tipologici che in generale sono difficili da realizzare. Da uno studio approfondito degli esemplari rinvenuti in situ nell’atelier di Albinia è stato inoltre possibile ricavare una straordinaria quantità di informazioni re- lative al processo di lavorazione di questi contenitori. Si è osservato anzitutto che le pance, nel punto di maggiore estensione del diametro, non sono mai perfettamente arrotondate, bensì presentano un appiattimento più o meno accentuato: si tratta con ogni probabilità del risultato del cedimento che le anfore, a causa del loro stesso peso, subivano a contatto con il terreno durante fase di essiccatura, che doveva evidentemente avvenire in posizione orizzontale. Inoltre, si è notato che le spaccature orizzontali presenti sul collo o al livello della carena oppure sulla pancia o ancora sul piede di numerose anfore non possono essere attribuite ad uno shock meccanico, che provoca fenditure a raggiera intorno al punto di impatto, ma devono essere presumibilmente in- terpretate come rotture caratteristiche del momento del raffreddamento post cottura: un’essiccatura imperfetta di questi contenitori, pesanti e di notevole spessore, in un ambiente umido come quello dell’atelier sulle rive dell’Albegna sembra essere la causa più verosimile per il fallimento della cottura di questo lotto di anfore.

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Conclusioni

È indubbio che le ricerche da noi avviate ad Albinia assumono un’im- portanza crescente e imprevedibile in termini di conseguenze positive, per il potenziale enorme celato nei depositi archeologici. Mano a mano che gli scavi avanzano, affiorano prospettive di ricerca nuove e inaspettate, ricche di spunti per approfondire la storia del territorio della bassa Albegna nell’antichità e per conoscere ancora meglio le vicende dell’economia, delle produzioni e degli scambi albiniesi in età romana repubblicana. Andando avanti nel lavoro di scavo e di riflessione si potranno delineare molti aspetti della società im- prenditoriale e produttiva che in Albinia ha investito, ma si potrà definire con precisione l’organizzazione del lavoro in un atelier che – tra alti e bassi – sem- bra avere funzionato per un secolo e mezzo/due secoli tra l’età repubblicana e il primo impero. Ad Albinia si possono articolare le facies delle produzioni che privilegiarono grandi contenitori vinari e che si orientarono anche nella produzione di altre classi di ceramiche più o meno complementari (mortaria, dolia, lucerne a becco multiplo, coperchi, olle…). Come abbiamo detto all’inizio, l’estensione di questo settore pro- duttivo non è ancora ben definita ma appare molto vasta; questo impianto si colloca all’interno di un insediamento piuttosto esteso che, malgrado la frammentazione del territorio causata dalle infrastrutture residenziali e via- rie moderne, si può seguire per qualche chilometro lungo la sponda sinistra attuale dell’Albegna e che non è ancora ben conosciuto sulla sponda opposta. Anche questo aspetto verrà indagato dalle ricerche future. Albinia consente di studiare le produzioni anforiche direttamente sul luogo di produzione, e di giungere ad una seriazione di tipi, varianti e varietà dei contenitori vinari oggi classificati sensu lato come di tipo greco-italico, Dressel 1 A, B, C e Dressel 2/4. Le fogge e i tipi di anfore dovranno essere correlati con le paste che per duecento anni costituirono la materia prima per la fabbricazione di tali contenitori. Un altro elemento eccezionale è la serie di nuovi bolli anforici che abbiamo individuato fino ad oggi: i circa trecento bolli di Albinia usciti a partire dal 2001 formano un corpus quasi unico, che permetterà di delineare la complessità delle situazioni di modi di produzione/gestione della produ- zione/proprietà dell’atelier/proprietà dei domini viticoli del territorio. Tale documentazione epigrafica consentirà poi di individuare i percorsi seguiti dalle anfore e dal loro contenuto in numerosi siti della Gallia (il territorio degli Edui con Bibracte in primis, ma anche le regioni alleate: i Segusiavi, i Lingoni, i Leuci, fino alla Gallia del Nord e dell’Est, fino alla valle della Loira) e in altri centri del Mediterraneo occidentale. In questa ricostruzione delle dinamiche del commercio si dovrà tenere conto anche delle altre aree di produzione viticola dell’ager cosanus (dei Sestii in particolare) che agirono

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© 2005 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale o in complementarità o in concorrenza con le produzioni che gravarono su Albinia e delle altre aree della costa tirrenica, specialmente dell’ager pisano- lunense, che stanno emergendo dalle nuove ricerche dei colleghi pisani (M. PASQUINUCCI, A. DEL RIO, S. MENCHELLI 1998).

DANIELE VITALI, FANETTE LAUBENHEIMER, LAURENCE BENQUET, ELENA COTTAFAVA, CLAUDIO CALASTRI

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