Nahtjak89 Fernando Pessoa IL LIBRO DELL’ INQUIETUDINE DI BERNARDO SOARES

Il testo contiene le centinaia di riflessioni del celebre eteronimo dell'autore, Bernardo Soares, raccolte in maniera disordinata e "aperta": tragico, ironico, profondo e irrequieto, Soares riflette sulla vita, sulla morte e sull'anima, ma anche sulle sue memorie più intime e sullo scorrere del tempo, sui colori e le emozioni che osserva intorno a sé e dentro di sé. Titolo originale: Livro do Desassossego Traduzione di Piero Ceccucci e Orietta Abbati

Prima edizione ebook: dicembre 2010 © 2006 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-2837-8 www.newtoncompton.com

Fernando Pessoa Il libro dell’inquietudine

(di Bernardo Soares) A cura di Piero Ceccucci

Edizione integrale

Newton Compton editori

L’acqua e la spugna. Per una poetica delle sensazioni

L’incontro con Pessoa è sempre inizio e motivo di turbamento e sconcerto; di ansia e angoscia. Di inquietudine. Immergersi nella lettura dei testi pessoani, significa abbandonare i sentieri certi e sicuri del conosciuto e dello sperimentato e inoltrarsi per cammini deserti ed impervi: verso le terre dell’incognito e del mistero del nostro mondo interiore, pozzo cupo e spaventoso dal cui fondo – per suprema contraddizione e disperazione – vediamo risplendere, immote e lontane, le ignare stelle, impassibili al dolore umano. Significa essere pronti a mettersi in discussione e a mettere in discussione tutto l’universo di convinzioni e convenzioni, rassicurante e tranquillo, in cui abbiamo condotto la nostra vita fino ad oggi, avvolgendo – corazzandola – la nostra esistenza, consumata e scandita secondo i ritmi psicologici della “normalità” quotidiana del dire e del fare. Significa, in altri termini, uscire allo scoperto; confrontarsi indifesi, più che con gli altri e con il mondo esterno, con noi stessi negli spazi tenebrosi del non-cosciente e del sogno: problematizzare e problematizzarsi per giungere, in campo metafisico, ad una risposta soddisfacente e plausibile ai mille perché suscitati da tale immersione, in un processo infinito di continui rinvii e rimandi, per trovare l’arcano principio di tutte le cose che sempre, immancabilmente, lasciandoci confusi e disorientati, ci sfugge e svanisce. Ma se tutto questo accade ogni volta che ci accostiamo a un testo pessoano, ortonimo o eteronimo, ancor più succede con questo Libro dell’inquietudine, del semieteronimo Bernardo Soares. Un libro di “confessioni”, una specie di diario esistenziale che, tuttavia, al di là di possibili, più o meno plausibili, definizioni di genere, ci si configura essenzialmente come diario dell’anima, una «autobiografia senza fatti», come la definisce lo stesso Bernardo Soares, che perscruta e narra, attraverso un interrogarsi e un indagare ansioso e tormentato, l’oscuro universo del subconscio che muove e determina le modalità di rapportarsi del protagonista – come di ognuno di noi – con il mondo esterno della cosiddetta realtà sensibile. Eppure Il libro dell’inquietudine non va letto in chiave psicologica o, tanto meno, psicanalitica; è molto di più, perché il suo discorso poetico-narrativo eccede ogni confine di genere e sfocia in un ibridismo pluridiscorsivo, che apre la lettura a un ampio e mai esaustivo ventaglio interpretativo, in cui forse quello più emotivamente coinvolgente è il meno certo. Comunque il meno attendile. Sicuramente fuorviante. Nell’accingersi, dunque, alla lettura di questo straordinario documento letterario – perché, appunto, di letteratura si tratta – bisogna lasciare da parte la propria emotività, non lasciarsi coinvolgere dalla pena esistenziale di un uomo, nella quale non è difficile empaticamente riconoscersi, per mettere in campo processi ermeneutici ad ampio spettro che consentano di intellegere la complessa letterarietà del testo. Bisogna, insomma, mantenendo lucidità intellettiva, aprirsi per recepire le molteplici istanze che il discorso letterario veicola. Vediamo. Non c’è dubbio che la prima questione che il testo pone, al di là della definizione del genere, è la sua collocazione nell’area culturale di fine secolo e del primo Novecento europeo, il suo rapportarsi con le principali correnti di pensiero del tempo, come anche il suo intrecciarsi e dialogare con i movimenti estetico-letterari allora in voga. La bibliografia critica, come è da attendersi, su tale punto è vastissima e, spesso, nell’insieme, anche contraddittoria. Tuttavia, credo che non possiamo esimerci in questa sede dal porre alcuni capisaldi ampiamente condivisi che, sul filosofico, per certi aspetti, rimandano al pensiero nietzschiano e, per altri, a quello di Kierkegaard e di Bergson; mentre, su quello puramente letterario, svelano strette connessioni con il decadentismo e il simbolismo e, forse anche, andando più indietro nel tempo, con lo stesso romanticismo. Se è vero che la sensazione di smarrimento di fronte alle cose e agli esseri, come comune condizione spirituale generazionale, a cavallo dei due secoli di riferimento, pervade il pensiero filosofico di impronta decadentistica, e se è vero – come è vero – che, sul piano della riflessione esistenziale e su quello prettamente letterario, il fenomeno dilaga per tutta l’opera pessoana, è altrettanto certo che tale fenomeno nel Libro dell’inquietudine si fa pregnante e pervasivo, tingendo di colore scuro l’anima di Bernardo Soares che, in quanto semieteronimo, condivide con Fernando Pessoa, in quanto persona reale, il vuoto della negazione e della tendenza alla dispersione dell’io. E come non giova a Pessoa, nell’istituirsi e accettarsi come pluralità autonoma di autori e nell’assumersi sempre come un altro, l’essersi inventato molteplice, l’essersi cioè creato attorno fittiziamente, con gli eteronimi, una folla di personaggi – «autori reali e diversi in quanto autonomi creatori di poesie diverse, di scritti diversi che incarnano diverse visioni del mondo»1 – con i quali intrattenere una sorta di insistito dialogo per colmare la propria infinita solitudine e per superare o, quanto meno, accettare il male di ; ugualmente non giova a Bernardo Soares rifugiarsi nel sogno, nella funzione onirica lenitiva, per oltrepassare la frustrazione e il senso di vuoto esistenziale di chi è nato, «forse, spiritualmente, in una corta giornata invernale»2 e vede giungere «presto la notte sul [suo] essere»3, a oscurare il suo cammino. In tal senso, rispetto a questo male di vivere, Bernardo Soares viene a costituirsi, nello statuto della scrittura autobiografica, come specchio o, se si vuole, come alter-ego, dello stesso Pessoa che, ben lontano dall’accettare stoicamente il dolore e la nobiltà della sofferenza, trasferisce su di lui, sull’oscuro aiuto contabile di Rua dos Douradores, la carica e il peso spiritualmente devastante del nichilismo che, nascendo dalla sensazione irrimediabile ma mai del tutto accettata della “caduta”, del crollo di tutte le illusioni e dei castelli di sogno, scuote la sua persona e permea tutta la sua opera letteraria, nonostante le ripetute autoesortazioni all’astensione e alla abdicazione. Ma Bernardo Soares, personaggio di finzione, a differenza di Pessoa, entità reale che vive il tempo storico, ontologico, in cui l’io nella sua frantumazione e dispersione si fa sempre più nebuloso e indecifrabile, travolto dalla casualità degli eventi, ma che tenta di lottare e di resistere, mettendo in atto geniali sistemi di autoprotezione, quale la creazione eteronimica; Bernardo Soares, dicevo, la cui voce opaca e tremula svela l’inanità della speranza, applica la strategia psicologica dell’indifferenza e della desistenza, fluttuando, vinto, negli accadimenti quotidiani che lo investono. In effetti, se, come sostiene Eduardo Lourenço, gli eteronimi Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis si configurano come tentativi pessoani di resistenza e, allo stesso tempo, di conciliazione con l’Universo, proponendosi come sogni diversi, «modi diversi di fingere che è possibile scoprire un significato per la nostra esistenza, sapere che (e chi, n.d.c.) siamo, immaginare che conosciamo il cammino e indoviniamo il destino che la vita e la storia inventano per noi»4, Bernardo Soares, il triste e inquieto rêveur di Rua dos Douradores, in quanto non esiste come si sogna, traduce il fallimento delle illusioni, proponendosi «senza difese come orfano, volontario escluso dagli altri e dalla vita, sognatore di tutti i sogni, soprattutto di quelli improbabili […]; interiormente fratello gemello di Luigi di Baviera, prigioniero come lui di identici fantasmi»5. Bernardo Soares, insomma, oltrepassa e porta fino alle estreme distruttive conseguenze non solo il doloroso seppure geniale – non privo tuttavia di un glaciale fondo di ironia e di divertissement – «dramma in gente» di Pessoa, ma anche la di lui stessa postura «del sorriso nel mezzo del disastro, del significato immaginario all’interno dell’assoluto senza-senso e del naufragio»6, modulando per sé e per tutti i vinti di sempre la poetica dell’indifferenza ed elevandola a livello di epopea nichilista. Rispetto a Pessoa «lui-stesso», difatti, in Bernardo Soares prende campo un’altra disposizione psicologica che gli fa abbandonare – collocandolo nella indifferenza del non vivere, nell’apatia e nel distacco abulico dalla quotidianità – la dimensione del presente, trasformando poeticamente il suo sentimento e la sua visione del mondo e portandolo in quella del sogno, del «puro sogno», nei brevi momenti del quale ritorna a percepire l’intimo flusso vitale dell’essere. Adagiandosi nell’intervallo del sogno e lasciandosi embalar, cullare, dal suo movimento consequenziale, in lui alla noia della routine subentra la calda e lieve nostalgia, al tedio della monotonia quotidiana la dolce e suadente evocazione, finendo per invaghirsi del suo mondo, in cui narcisisticamente – ma anche masochisticamente – si rispecchia e si aggrappa. Ma in tal modo si autoesilia e, negandosi all’altro, si incammina verso il cupo pozzo della disperazione. Rigettando del mondo reale, lucidamente, tutto ciò a cui gli altri cercano di aggrapparsi, giunge a quella dolorosa e disperata definizione di sé, che si configura come freddo interludio di pietra tra due negazioni: un ponte levatoio tra ciò che non ha e ciò che non desidera. E pare concludere a mo’ di corollario, avvolgendosi definitivamente nel sudario del vuoto assoluto, in un deserto di sabbia dove nulla cresce, che il suo conscio è una serie confusa di intervalli tra cose che non esistono. Ne consegue che, in tale condizione psicologica – ma anche spirituale – di separatezza e di chiusura, la sua dimensione specifica diviene, come direbbe Jankélévitch, quella del «tempo dell’inazione e dell’ozio: il tempo necessariamente disinteressato»7; il tempo sfaccendato ricercato, che «scorre ai margini dell’ingombrante quotidianità e dei sui prosaici doveri»8. In tale tempo, diffluente e invertebrato, mediante il sogno, Bernardo Soares, raccogliendosi in se stesso, nell’intérieur del sé, in cui si verifica il naufragio delle percezioni e i suoni, i colori e i profumi si confondono, tende a “sabotare” il tempo dell’efficienza e a cercare scampo nella strategia dell’inazione che, abbandonando il presente, lo porta al-ibi, altrove, e lo sospinge a trovare, magari in un piccolo particolare del tutto insignificante, la sollecitazione al sogno e l’evasione verso un altrove, ossia un altro luogo e un altro tempo improbabili. Verso un Alibi difatti irraggiungibile: la patria metafisica, metafora dell’alibi perpetuo, «presenza insituabile e infinitamente assente, virtualità mobile, evasiva e fugace»9, lontananza incommensurabile. Frutto dolce-amaro del sogno, che lo porta a precipitare tragicamente nel desassossego, nell’inquietudine, perenne come inamovibile condizione esistenziale: che inquietudine se sento, che sconforto se penso, che inutilità se desidero! […] Nuvole… Mi interrogo e non mi riconosco. Non ho fatto niente di utile né farò qualcosa di giustificabile […] Oggettivamente e soggettivamente, sono stufo di me. Sono stufo di tutto, e del tutto di tutto… […] Nuvole… Sono come me, un passaggio cancellato fra il cielo e la terra. […] Nuvole… Continuano a passare, continuano sempre a passare, passeranno sempre di continuo, in un avvolgimento discontinuo di matasse opache, in un diffuso prolungamento di falso cielo disfatto10. In tale atteggiarsi di Bernardo Soares, in questa sua sensazione di disorientamento e di caduta, in questo tedio cosmico, in questa sua ansia frustrata di andare oltre, di tentare invano di superare la finitudine umana, pur non essendo fuori luogo cogliere una condizione di disagio spirituale, proveniente direttamente dal romanticismo – si pensi, solo per fare qualche esempio, al dolce naufragar del Leopardi o al René deraciné di Chateaubriand o, forse, più ancora all’Oberman, il protagonista del romanzo di Sénancour, in cui ritroviamo alcuni elementi propri della non-vita di Bernardo Soares – non si può, come sopra ricordato, non rilevare soprattutto la presenza di certi accenti delle filosofie della decadenza di un Nietzsche, di un Kierkegaard o di un Bergson. In effetti, in questo straordinario testo, l’insignificante aiuto contabile di un oscuro emporio di tessuti di Lisbona, sovrastato dall’angoscia panica di una desolazione notturna umana, densa e intatta, si fa paradigma dell’intera umanità privata del sole in attesa del mattino che tale angoscia dissolverà; di una umanità, cioè, che brancola nel buio metafisico della realtà non-realtà e che tenta invano di trovare nello spazio del sogno se non la via di fuga e di salvezza, almeno quella di pausa e intervallo dal dolore. È, questo, lo spazio, quasi compiaciuto, in relazione all’aspetto notturno dell’esperienza umana. E, tuttavia, questo è lo spazio proprio di un confinario dell’anima, come Kierkegaard, come Nietzsche, cui è restata solo l’assenza, l’abisso come termine di dialogo e non il Dio che per Kierkegaard, ma non per Nietzsche, veniva a consustanziarlo. Nello spazio ancora in fieri e senza profilo immaginabile, ma designato come «morte di Dio», il luogo di Bernardo Soares è da qualche parte tra Kierkegaard e Nietzsche, assumendo del primo, nella affannosa ricerca di un senso, seppure non religioso, all’esistenza umana, il culto dell’intuizione, e del secondo l’intento di saltare quegli abissi, in cui questa stessa esistenza umana è in procinto di precipitare11. A conferma di ciò, chiosa Bernardo: Sono nato in un’epoca in cui la maggior parte dei giovani aveva perduto la fede in Dio, per la stessa ragione per la quale i loro padri l’avevano avuta – senza sapere perché. […] Così, non sapendo credere in Dio, e non potendo credere in una somma di animali, sono rimasto, come altri a margine delle genti, in quella distanza da tutto ciò che comunemente è chiamato Decadenza12. In tale modo e per mille altri aspetti ancora, che non è qui il caso di rimarcare, Bernardo, anche per lo sprezzante rifiuto del raziocinio positivista, può essere verosimilmente accostato alle filosofie dell’età del decadentismo, nella misura in cui vede un mondo dominato dall’insignificanza di quella che viene definita la realtà esterna, ontologica, che non offre più punti di riferimento certi e nella quale tutto non è che degenerazione di tutto; una realtà, dunque, vista come mistero inestricabile, che sospinge verso il ripiegamento interiore, alla discesa nei gorghi profondi della psiche, in cui campeggia l’io soggettivo, demiurgo e creatore di un mondo altro, ugualmente soggettivo. La chiusura, pertanto, nel proprio “ego” fa di Bernardo Soares un eroe antieroe decadente che, pur assistendo alla deriva del mondo, non sente e non vede se non la propria deriva, convinto che chi «soffre, soffre da solo». E glossa con toni non privi di accenti cinici, chiudendo le porte al mondo e limitandosi ad assisterne al crollo, esiliato nell’abisso della propria solitudine, che tutto ciò che non tocca direttamente la sua anima, per quanto non lo voglia, è per lui solo «scenario e decorazione». Il dramma degli altri non trova udienza in lui, tutto chiuso nel proprio mondo interiore, «narciso cieco», che si specchia nelle acque intorbidite del proprio io e sconsolato si chiede, come direbbe l’ortonimo Pessoa, se: Non ci sarà una stanchezza Delle cose, Di tutte le cose, […] Una stanchezza di esistere, Di essere Solo di essere?13

In questi sconsolati interrogativi, tuttavia, non c’è solo la tragedia di un’anima tutta arroccata in se stessa che del mondo esterno non coglie se non il diffuso e universale dolore, al quale non sa e non vuole trovare una spiegazione. C’è il fallimento epocale di un’intera generazione, di cui, come detto, Bernardo Soares, si configura come supremo paradigma. Rivela, invero, Bernardo Soares: Scrivo, triste, nella mia stanza quieta, solo come sempre sono stato, solo come sempre sarò. E penso se la mia voce, apparentemente così poca cosa, non incarni la sostanza di migliaia di voci, la fame di dirsi di migliaia di vite, la pazienza di milioni d’anime sottomesse come la mia al destino quotidiano, al sogno inutile, alla speranza senza fondamento14. In fondo questo pianto sconsolato, che accoglie il dolore universale, non è altro che una sorta di “poetica della depressione”, che nel simbolismo aveva già trovato in Mallarmé e nel poeta portoghese Camilo Pessanha, ma soprattutto in Pessoa, l’unica espressione poetica geniale, anche se quest’ultimo, nel negargli ogni validità estetica, rifiuta sprezzantemente ogni contatto. Pertanto, anche sul piano del discorso strettamente letterario, davvero flagranti sono le interconnessioni discorsive con il decadentismo e il simbolismo. Infatti, non solo l’intera opera poetica di Pessoa, come ha ampiamente dimostrato la studiosa portoghese Teresa Rita Lopes15, ma anche e soprattutto Il libro dell’inquietudine – per le atmosfere umbratili e notturne, per il riferimento costante, quasi ossessivo, al linguaggio dei colori, all’evocazione di profumi, all’attenzione prestata a suoni e rumori, insistentemente e sinesteticamente convocati e trasfusi a piene mani nel testo; per l’ampio ricorso all’uso dell’analogia fra i diversi ordini di sensazioni che alludono ad un’arcana e profonda unità dell’essere con la conseguente svalutazione della realtà oggettiva; per altre motivazioni ancora, su alcune delle quali torneremo fra poco – va senz’altro ricollocato nell’alveo delle grandi correnti letterarie, in primis crepuscolarismo e simbolismo, di fine Ottocento e inizio Novecento. Pur dando un rapido sguardo a un brano qualsiasi, fra i tanti, che compongono Il libro, non possiamo non rilevare quanto forte nell’intero testo si respiri l’aria del simbolismo, specie nelle immagini evocate di paesaggi e stati d’animo, nell’abbandono alla suggestione dei sensi, nella mistica fusione con l’ignoto, nel rigetto dello storicismo romantico, per cui la vita non è più vista come divenire e creazione continua, ma come fantasmatica, casuale successione di attimi di rivelazioni improvvise, inframmezzati dal grigiore di un’esistenza quotidiana vana e senza scopo. Si veda, per esempio, il seguente passo di Bernardo di impressionante rievocazione intertestuale di alcune delle più suggestive immagini delle poesie di Camilo Pessanha, il maggior poeta simbolista portoghese: In ogni goccia di acqua la mia vita fallita piange nella natura. C’è un po’ della mia inquietudine nel goccia a goccia, negli acquazzoni con cui la tristezza del giorno si rovescia inutilmente sopra la terra. Piove tanto, tanto. La mia anima è umida a forza di sentirlo. […] Indolentemente, lamentosamente, la pioggia batte contro la vetrata. Una mano fredda mi stringe la gola e non mi fa respirare la vita. Tutto muore in me, persino il sapere che posso sognare16. Oppure questo altro breve brano in cui, a sottolineare il senso del fallimento dell’esistenza umana, vengono evocati figure e linguaggio, di chiara impronta simbolista, dell’altro grande poeta portoghese di inizio Novecento, Mário de Sá-Carneiro, «amigo de alma» di Fernando Pessoa: Vesti il tuo corpo dell’oro del meriggio morto, come un re deposto in un mattino di rose, con il maggio nelle nuvole bianche e il sorriso delle vergini nelle erme ville di campagna. La tua ansia muoia fra i mirti, il tuo tedio svanisca fra i tamarindi e il rumore dell’acqua accompagni tutto questo come un imbrunire in prossimità di rive, e porti il fiume, senza altro senso che quello di scorrere, eterno, verso maree lontane17. In questo brano, tuttavia, non è neppure difficile incontrare elementi che intertestualmente richiamano a tante pagine dei più consacrati simbolisti europei, non ultime – pur non essendoci influenza diretta accertata – a quelle del nostro D’Annunzio de La pioggia nel pineto18, assimilabili e riconducibili, in modo impressionante, a un’identica atmosfera di arcana consonanza e intima comunione dell’anima umana con l’anima delle cose, accolta e adombrata, in una sorta di immedesimazione panica, da una ricercata e insistita musicalità, cifra consustanziale al canone simbolista, su cui passano – come glosserebbe il poeta italiano – i più tenui riflessi della vita interiore. La tematica della rimembranza, poi, così fortemente diffusa, così pregnante e, allo stesso tempo, così diversa nelle modalità evocative lungo tutto l’asse del discorso narrativo del Libro, pur presentando possibili addentellati con la proustiana memoria involontaria, è per lo più condotta secondo codificati stilemi simbolisti, tutti giocati tra sinestesie, modulazioni musicali e cadenze ritmiche: il ricordo, più che da un’immagine vista o ricreata, incomincia ad affiorare sull’onda di un suono o di un profumo i quali, colmando vuoti spazio-temporali, sollecitano sensazioni che mettono in moto lo srotolarsi del filo del pensiero, stabilendo ponti e intessendo connessioni di memoria. Non si tratta del tempo ritrovato, ma piuttosto di un’ansia che non trovando accoglienza e risposta nel tempo presente o futuro, sembra venire trasferita con il sogno in un altrove nostalgico, in una dimensione mitica del passato, consentendo, mediante la trasfigurazione mnemonica propria del viaggio a ritroso, di giungere al porto infinito: l’infanzia, l’Infanzia archetipica, locus amoenus, immaterialmente ubicato nella distanza – tra l’altro eternato in modo sublime nella Ode Marítima di Álvaro de Campos19. Ora, giunti a questo punto, allontanandoci dall’ansia delle influenze, per usare una fortunata espressione di Harold Bloom, o più propriamente dalla questione della collocazione epocale, filosofica e letteraria, del testo, ritengo non più dilazionabile introdurre alcune riflessioni sul tema delle sensazioni che, centrale e fondante, nel macrotesto tutto, orto-eteronimo, di Pessoa, trova la sua più alta definizione nel Libro dell’inquietudine, tanto da costituirne l’asse portante della poetica – una «poetica delle sensazioni» che, sul piano teorico, il poeta portoghese era andato definendo negli anni, a partire dal biennio 1914-1915, e che nel volume in oggetto si fa carne, vita vissuta, nella alterità letteraria, rappresentata proprio dalla figura di Bernardo Soares, le cui performances sono dettate e scandite dai ritmi e dal pulsare intervallato delle sensazioni che imprimono la sua anima. Queste, pur generate dall’azione iniziale dei sensi, tutti sempre tenuti in massima allerta per cogliere anche il minimo e più insignificante stimolo, proveniente dal mondo esterno, subiscono nel teatro dell’anima una trasformazione e astrazione concettuale, di tipo epistemologico, divenendo da oggetto passivo – un qualcosa prodotto da qualche altra cosa – soggetto attivo, strumento operoso e indeclinabile di conoscenza. In tal senso e accogliendo i suggerimenti del filosofo portoghese José Gil20, si può anche correttamente parlare di metafisica delle sensazioni. Questo tipo di poetica delle sensazioni che nel delta degli ismi pessoani si è venuta concretizzando nella corrente del sensazionismo, di cui Álvaro de Campos si erge a corifeo e interprete principe, pervade l’intero Libro dell’inquietudine, penetrando negli interstizi della testualità e indirizzandone lettura e ricezione. Così, se da un lato Bernardo Soares, in quanto semieteronimo e, quindi figura “mutilata” nel raziocinio e nella affettività, prepotenti in Pessoa, sembra essere dotato solo dei sensi, in primis vista e udito, del tutto aperti sul mondo, dall’altro vediamo che sono le sensazioni interiori che, come processo intellettivo di conoscenza, consentono di conferire significato e leggibilità al discorso testuale. La intellettualizzazione delle sensazioni viene a costituirsi, tramite la postura autoriflessiva di Bernardo Soares, come momento in cui le impressioni fisiche ricevute si mutano, sul limitare del sogno, dapprima in emozioni e sentimenti, in stati di coscienza precari, abbassati, e, poi, a un grado di astrazione superiore, in sensazioni intellettive mediante un processo continuo di estraniazione dal mondo sensibile, che porta a lacerare il velo del mistero sul significato della vita umana. In tal modo, Il libro dell’inquietudine si configura come luogo privilegiato delle sensazioni, laddove vi si instaura e vi si istituisce – come laboratorio della sperimentazione – l’officina poetica per eccellenza di Fernando Pessoa, nella misura in cui il verbo sentire, connesso all’azione del sentire, si pone come piattaforma insistita e ossessivamente reiterata del processo di astrazione: canale funzionale, come apparato pratico-teorico e come terminologia della fuggevole prospettiva dei processi intuitivi. Ripetutamente, nel testo, ci imbattiamo in affermazioni in cui il protagonista manifesta l’aspirazione, che si fa ansia e tormento, di giungere a forme di conoscenza immediata, di «conoscere senza conoscenza», direttamente con i sensi, in modo tattile e sensibile. Quasi dall’interno stesso dell’oggetto, in un rapporto di stretta interdipendenza, come fa «l’acqua con la spugna». Nella suggestiva metafora dell’acqua assorbita dall’oggetto-spugna si sottolinea e si sostantiva nella finzione letteraria l’aspirazione pessoana quasi di sentire e conoscere intuitivamente, saltando gli stadi intermedi dei processi cognitivi: manifestazione di una idea che permea il testo tutto e che, continuamente accostata al sogno, innalza questo, da semplice espressione onirica in cui, come sostiene Freud, l’inconscio si rivela, a condizione psichica necessaria, nella quale – nell’abbattimento di tutte le barriere spazio-temporali – si perdono le distinzioni, si dà campo alla non-distinzione inconscia (che non è volontà di fondere, di unificare, ma luogo di incontro e coesistenza dei distinti), la quale favorisce il sorgere della sensazione. Questa, facendosi potenzialità letteraria, conduce il lettore, più che l’io poetante, alla conoscenza intuitiva. Sentire, dunque. Sentire in tutte le maniere e in tutte le persone possibili. Sentire e farsi plurali come l’universo, movimenti persi tra tempo e spazio indistinti. Bernardo Soares, in quanto io poetante, perennemente immerso nel flusso delle sensazioni dell’universo dell’indistinto, eletto il sogno come luogo e momento della progressiva e incontrollata discesa nel buio dell’indistinzione, si perde e si annulla come soggetto, per dischiudersi al divenire-altro, di cui parla José Gil21, che è coscienza di uno spazio-altro e di un tempo-altro, modalità di integrarsi nella compagine infinita e cosmica del sentire. È, questo, in fondo, uno dei tanti paradossi pessoani. Forse il più enigmaticamente sostanziale. Il paradosso per antonomasia e che tutti gli altri include e definisce: annullarsi come io raziocinante, per raggiungere, tramite il sogno che libera e colloca in uno spazio interiore di non-coscienza, il sentire, il sentire in tutte le maniere, che è presupposto di conoscenza; di conoscenza di grado superiore; di conoscenza di ordine metafisico. Eloquenti e folgoranti, a questo proposito giungono le parole di Bernardo Soares: Considero la vita una locanda, dove devo fermarmi fino all’arrivo della diligenza dell’abisso. Non so dove mi condurrà, perché non so niente. Potrei considerare questa locanda una prigione, perché in essa sono costretto all’attesa; potrei considerarla un luogo in cui socializzare, perché qui mi ritrovo insieme ad altri. […] Mi siedo alla porta e imbevo i miei occhi e orecchi dei colori e dei suoni del paesaggio, e canto sommessamente, solo per me, vaghe canzoni che compongo nell’attesa. Per tutti noi scenderà la notte e arriverà la diligenza. Godo della brezza che mi è data e dell’anima che mi è stata data per goderla, e non mi pongo altre domande né cerco altro. Se ciò che lascerò scritto nel libro dei clienti, riletto un giorno da qualcuno, potrà intrattenerlo nel transito, andrà bene. Se nessuno lo leggerà, né si intratterrà, andrà ugualmente bene22. Credo che non ci siano altre parole da aggiungere a questa toccante testimonianza, e credo anche che con questa sia anche giunto il momento di chiudere queste brevi note su uno dei più importanti e significativi testi della letteratura del XX secolo. Bernardo Soares è balzato da poco, quasi cinquanta anni dopo la morte del suo autore, fuori dal famoso baule, dove era stato rinchiuso insieme a tutti gli altri “compagni di viaggio” dell’universo eteronimico pessoano, in attesa della diligenza che avrebbe portato lui e gli altri per le strade del mondo a cantare l’eterna canzone di accompagnamento alla vita e alla morte degli uomini, anche essi viaggiatori; che ne scandisse i ritmi e ne sottolineasse l’andatura. Perennemente. Perché perenne è il canto che la poesia innalza sulle vette della bellezza. Bernardo Soares non è più in Rua dos Doradores, nella sua Lisbona, dove comunque non è dimenticato; dove un giorno, in una oscura trattoria, lo ha incontrato Fernando Pessoa e dove ha scoperto, quale impareggiabile dono degli dèi, che la sua patria è la lingua portoghese; dono che egli ha trasmesso e lasciato in eredità, con la sua opera, ai suoi conterranei. Non è più in Rua dos Doradores e neppure nell’amata Lisbona. È qui con noi, cittadini del mondo, che ci accostiamo al suo Libro dell’inquietudine; è in tutti i luoghi del mondo, dove c’è un posto per l’Arte. Per sempre, finché la poesia troverà accoglienza nel cuore dell’uomo e, come canta il poeta23, finché «il Sole risplenderà sulle sciagure umane».

PIERO CECCUCCI

Nota biobibliografica

Fernando António Nogueira Pessoa nasce a Lisbona il 13 giugno 1888, primogenito di Joaquim de Seabra Pessoa, funzionario pubblico e critico musicale del quotidiano «Diário de Notícias» di Lisbona, e di Maria Madalena Pinheiro Nogueira, originaria delle Azzorre, donna colta e di spiccata sensibilità artistica, fatto certo non comune per l’epoca, che insegna a leggere e a scrivere in età precoce al figlio Fernando. Nel 1893, nasce il fratello Jorge, e lo stesso anno vede la scomparsa prematura del padre malato di tubercolosi, cui segue nel 1894 anche la morte del fratellino Jorge. Questi eventi condizionano l’infanzia e i primi anni di formazione di Fernando. Nello stesso anno la madre conosce un ufficiale della marina, João Miguel Rosa, che sposa per procura nel 1895, dopo che l’ufficiale era stato nominato console del Portogallo a Durban, capitale della colonia inglese di Natal, in Sudafrica. Così, nel gennaio 1896, Fernando Pessoa segue la madre in Africa. Qui Fernando prosegue e completa il suo percorso scolastico, iscrivendosi alla Convent School, una scuola di suore irlandesi e, dopo tre anni, alla Durban High School, che frequenta da studente brillante, – nel 1901, ottiene il “First Class School Higher Certificate” dall’Università del Capo di Buona Speranza, dopo aver compiuto i corsi di quattro annualità in poco più di due anni – ricevendo una solida educazione e formazione inglese. Nel frattempo, nel 1900, era nato un altro fratello, Luís Miguel. Durante la sua adolescenza in Sudafrica, Pessoa si nutre prevalentemente di letteratura inglese. Shakespeare, i romantici Shelly e Byron, Keats, Wordsworth, i prosatori Dickens e Carlyle, sono gli autori più frequentati; conosce e ama molto anche l’opera di Edgar Allan Poe. La prima villeggiatura in Portogallo – Azzorre e Lisbona – con la famiglia, tra il 1901e il 1902, segna il momento in cui Pessoa inizia a scrivere in portoghese. Articoli giornalistici inventati, con giornalisti fittizi, alcuni già con una propria biografia, sciarade, aneddoti, critica, poesie. Nel mese di luglio pubblica la sua prima poesia su un giornale di Lisbona. A settembre ritorna a Durban dove si iscrive alla Commercial School. Nel 1903 nasce il fratello João Maria. Nello stesso anno supera l’esame di Iscrizione all’Università del Capo e vince il premio Regina Vittoria per il miglior saggio in inglese, primo su 899 candidati, nonostante sia uno straniero. Nel 1904 pur avendo ottenuto il voto più alto della provincia di Natal, nell’Intermediate Arts Examination, che gli avrebbe assegnato una borsa di studio per frequentare l’Università di Oxford o Cambridge, si vede costretto a rinunciare per ragioni burocratiche. Nel frattempo, Pessoa comincia a creare il suo primo alter ego o proto-eteronimo inglese: Charles Robert Anon, autore abbastanza prolifico, di cui pubblica una poesia satirica in The Natal Mercury; a Charles Anon si aggiunge il più conosciuto Alexander Search, sorto nel mondo letterario di Pessoa a Durban e che segue il suo creatore anche a Lisbona. Nello stesso anno Pessoa si iscrive ancora alla Durban High School, dove frequenta il primo anno di studi universitari, di cui l’Università del Capo riconosceva gli esami. Ben presto, però, abbandona tale progetto e, nel 1905, torna da solo, e definitivamente, a Lisbona, dove si iscrive alla Facoltà di Lettere, vivendo in casa della zia Anica. Da questo momento Pessoa risiederà quasi esclusivamente a Lisbona, limitando i suoi brevi viaggi all’interno del Portogallo, ma elaborando una raffinata e affascinante capacità di trasformarsi in grande viaggiatore mentale. Lisbona diviene, così, lo spazio privilegiato della sua esistenza tanto reale quanto letteraria, in un rapporto inscindibile e complesso che tende a fare dell’autore il simbolo stesso di questa città, come Kafka con Praga, o Joyce con Dublino. Lisbona sarà l’interlocutore sempre presente, anche in absentia, evocata in una forma di nostalgia trasfigurata letterariamente, con cui Pessoa intrattiene un dialogo intimo e rassicurante, fino a configurarsi essa stessa come alter ego dell’autore, in modo speciale nel Libro dell’inquietudine. Anche a Lisbona la carriera di studente è destinata a subire una battuta d’arresto, dato che Pessoa non si presenta agli esami del primo anno, perché malato; il secondo anno, invece, è segnato da uno sciopero accademico che blocca i corsi. Siamo nel 1907 e Pessoa rinuncia definitivamente alla formazione accademica, ma continua instancabilmente a studiare frequentando con assiduità la Biblioteca Nazionale di Lisbona. Colma le lacune letterarie relative alla cultura portoghese accumulate nel periodo africano; legge le opere dei maggiori autori europei, soprattutto in francese e inglese e studia la filosofia greca e tedesca, le religioni, la psicologia, il darwinismo. È ottimo conoscitore anche della letteratura italiana. Ma mentre divora i testi, continua anche a scrivere. Scrive poco in portoghese concentrando il suo interesse prevalentemente sull’inglese, convinto come è, di diventare un poeta proprio in questa lingua. Nello stesso anno muore la nonna paterna Dionisia che lascia una piccola rendita al nipote Fernando, suo unico erede. Con l’eredità, nel 1909, Pessoa si trasferisce in un appartamento e apre una piccola casa editrice e tipografia, la Impresa Ibis, destinata però a vita breve. In questo periodo vive facendo il traduttore e il redattore di lettere in francese, in inglese presso diverse ditte commerciali. Intanto, nel 1910 il Portogallo assiste alla caduta della monarchia e alla nascita della repubblica. Pessoa, in questo periodo, diviene sempre più consapevole della sua vocazione letteraria, alla quale vorrebbe dedicarsi in modo esclusivo. A tale scopo, accetta solo impieghi presso ditte che gli permettano un orario molto flessibile, potendo così concentrare la sua attenzione su quella che arriva a concepire come la missione di cui egli si sente investito: risollevare le sorti letterarie e culturali di un Portogallo ormai decaduto e privo di identità, renderlo cosmopolita e farne conoscere la cultura al resto dell’Europa. Conduce una vita esteriormente banale, certamente non agiata, quasi insignificante o inesistente sul lato affettivo, ma febbricitante dal punto di vista intellettuale, facendosi conoscere e riconoscere, sin dalle prime uscite, come figura autorevole nel mondo intellettuale portoghese. Non a caso, nel 1912 pubblica sulla rivista «A Águia», di Oporto, organo del movimento culturale Renascença Portuguesa, due lunghi articoli sulla nuova poesia portoghese, analizzata in una prospettiva “sociologica” nel primo e “psicologica” nel secondo, dove illustra le linee essenziali del suo compito culturale. Qui Pessoa fa già intuire una elaborata consapevolezza e aspettativa del ruolo che attribuisce a se stesso, certo di scavalcare la figura possente e immortale di Luís de Camões, il poeta del XVI secolo che, su tutti, incarna l’essenza e l’immaginario del Portogallo, fissato nei versi epici de I Lusiadi. Il 1912 è, del resto, un anno cruciale per la vita e per l’attività letteraria di Pessoa. Conosce quello che diverrà il suo migliore amico, «l’amico dell’anima», il poeta Mário de Sá-Carneiro (1890-1916), con cui condivide sensibilità e prospettive estetiche, ma che risiede però per lunghi periodi a Parigi. Questa circostanza dà inizio a una frenetica e feconda corrispondenza, non solo confessionale ma anche letteraria, fra i due, – quella di Pessoa, purtroppo risulta quasi integralmente scomparsa poiché, con la tragica scomparsa dell’amico, il grosso delle sue lettere non è stato mai ritrovato. Ma intanto, l’attività di Pessoa prosegue, e ben presto, spinto dall’esigenza di elaborare liberamente una propria poetica e sentendo come superate e per lui anguste le posizioni estetico-ideologiche della rivista «A Águia», imbevuta ancora di residui del simbolismo, si stacca dal gruppo della rivista di Oporto, dopo avervi pubblicato, nel 1913, un primo testo in prosa, un frammento del Libro dell’inquietudine, opera alla quale lavorerà durante tutta la vita. Nello stesso anno scrive anche Epithalamium, un lungo poema in inglese a sfondo fortemente erotico, nelle cui motivazioni sta la volontà dell’autore di liberarsi delle pulsioni erotiche che, a suo vedere, avrebbero potuto interferire negativamente con la sua ben più utile attività intellettuale. Nell’anno successivo pubblica le prime poesie della maturità, esordendo sul numero unico della rivista «A Renascença» con la poesia Impressioni del crepuscolo, testo che origina il primo ismo pessoano, il Paulismo, di breve durata. Ma il 1914 è certamente un anno straordinario nella vita letteraria di Pessoa. Infatti, come lo stesso autore scrive in una nota redatta nel 1935 e indirizzata ad Adolfo Casais Monteiro, direttore della prestigiosa rivista «Presença», in quell’anno, esattamente l’8 marzo, definito da Pessoa come «giorno trionfale», accade l’evento cruciale della sua creazione letteraria: nascono tre grandi poeti portoghesi, fra i maggiori del XX secolo. Si chiamano Alberto Caeiro, Álvaro de Campos, Ricardo Reis, e con essi nasce anche il loro grande padre, il poeta Fernando Pessoa, “se-stesso”. Nulla di paradossale, ma certo sconcertante e straordinario. I tre poeti, sono “eteronomi” di Pessoa, come lui stesso si adopera a definirli, volendo con questo termine stabilire una differenza concettuale con la più comune forma di pseudonimia. In effetti, ai nomi di Alberto Caeiro, Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Pessoa associa una realtà esistenziale, seppure fittizia. Così attribuisce loro una data di nascita e una biografia piuttosto particolareggiata, soprattutto in termini fisici, psicologici e caratteriali, oltre, naturalmente, a definirne il mondo poetico. Qui sta il fatto straordinario e l’originalità pessoana. Del resto, la tendenza a creare personaggi inventati, succedanei di reali compagni di gioco nell’infanzia, come il Chevalier de Pas dei suoi sei anni, attraverso cui il piccolo Fernando inviava lettere a se stesso, è stata sempre molto accentuata e di essa lo stesso Pessoa è ben consapevole. Indubbiamente un fatto del genere può far scatenare ogni tipo di curiosità psicanalitica. Ma, lasciando da parte questo aspetto, che pur è stato a lungo indagato, interessa tornare al fenomeno come fatto letterario. Spiega Pessoa che, al di là dell’ipotesi che si possa trattare di una forma psico-patologica, di cui teme spesso di essere vittima, in lui la creazione eteronimica ubbidisce a un’esigenza essenzialmente estetica; l’eteronimia cioè, è condizione necessaria per poter creare poesia. Pessoa concepisce il suo progetto letterario come «dramma in gente»; una sorta di opera teatrale in cui al posto degli atti, sul “palco” agiscono le sensazioni che, per la loro essenza complessa e multipla, hanno bisogno di diversi personaggi che le rappresentino, ossia di vari poeti, – uno solo sarebbe insufficiente e non esprimerebbe la complessità – che, come gli alchimisti, le possano sperimentare, analizzare e farne una trasposizione intellettuale, per giungere, infine a un testo esteticamente valido, ossia alla poesia. Questo, in sintesi, è il nucleo della poetica pessoana, realizzata per tappe successive, nella conosciuta poesia intersezionista e, a un grado più complesso, nel sensazionismo, che proprio Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis, e lo stesso Fernando Pessoa “ortonimo” inscenano sul palco del teatro immaginario, dove il “burattinaio” Pessoa si muove con la disinvoltura che gli viene meno nel mondo reale. Si aggiunga a questo la forte convinzione di Pessoa che non potesse esistere l’unità neppure in una minima cosa. Non si deve dimenticare, del resto, che l’epoca di Pessoa è quella dello sfaldamento in termini filosofici e psicanalitici dell’unità del soggetto e dell’io, che necessariamente hanno risonanze nella letteratura europea del periodo. Chi sono, dunque gli eteronomi? Sempre nella stessa lettera Pessoa fornisce una efficace quanto stupefacente biografia delle sue creature letterarie e, nel farlo, è pienamente consapevole di prevedere la propria grandezza letteraria, creando il mito di se stesso, con questa che apparirà in seguito come una operazione posticipata e lucidamente organizzata a tale scopo. In effetti, nella lettera Pessoa rivela che il primo eteronimo che gli è apparso la sera del fatidico 8 marzo 1914, è Alberto Caeiro, riconosciuto come suo maestro, e che in quella notte ha scritto, sotto una specie di estasi, la maggior parte del lungo componimento Il guardiano di greggi costituito da ben 49 poesie, alcune anche molto estese. Solo con i successivi studi filologici e di critica genetica si è dimostrato che Pessoa aveva ricostruito ad arte, condensandolo nella mirabolante frenesia creativa di un’unica notte, quello che invece è stato un lavoro più diluito nel corso degli anni. In ogni caso, i primi componimenti citati sono stati scritti in due settimane. Alberto Caeiro nasce a Lisbona nel 1889 e muore nel 1915; vive quasi esclusivamente in campagna e ha un’istruzione scolastica elementare, pur essendo riconosciuto subito da Pessoa ortonimo e dagli eteronimi come maestro. È il poeta della Natura, il neopagano prima dell’esistenza del paganesimo, che afferma la non esistenza della filosofia e della metafisica; l’assenza di mistero dietro la realtà oggettiva, stabilendo così il primato di una conoscenza immediata affidata ai sensi, dove «l’unico senso intimo delle cose è che esse non hanno nessun senso intimo». Ma la sua visione della natura è talmente essenziale che arriva ad essere quasi una pura entità astratta, base limpida e lineare da cui partono gli altri eteronomi e il loro creatore ortonimo. Da qui il suo essere la fonte della poetica del «dramma in gente», il suo assurgere a maestro. Álvaro de Campos nasce a Tavira, in Algarve, nel 1890, diventa ingegnere navale a Glasgow, viaggia in oriente e in Inghilterra per poi tornare a Lisbona dove vive senza esercitare la professione. È il cantore inesausto della civiltà contemporanea e dei suoi eccessi, e su questi fonda una poesia in cui predomina una libertà formale, che veicola e introduce in Portogallo il Modernismo nella sua variante futurista. Álvaro de Campos è certamente debitore del poeta americano Walt Whitman, forse la personalità poetica che maggiormente ha influito sull’estetica modernista pessoana e sulla sua poesia, sul cui modello l’eteronimo realizza la poetica sensazionista più piena, sintetizzabile nel conosciutissimo verso «sentire tutto in tutte le maniere». Sul rovescio dell’esuberanza senzazionista, Campos è anche il poeta della disillusione, della presa d’atto della plausibilità del reale, della resa malinconica, del ripiegamento lucido e solitario presente nella straordinaria poesia Tabaccheria. Ricardo Reis nasce a Oporto nel 1887, educato in un collegio di gesuiti, è medico. Convinto sostenitore della monarchia, quando il movimento monarchico, che a Oporto aveva il suo centro di resistenza, viene sconfitto dopo aver preso temporaneamente il potere nel 1919, Ricardo Reis, deluso, emigra in Brasile. Pessoa non dà notizia della sua morte, tanto che la circostanza, alcuni decenni più tardi, offre lo spunto allo scrittore José Saramago per scrivere un romanzo straordinario, L’anno della morte di Ricardo Reis, che vede come protagonista l’eteronimo pessoano di ritorno in Portogallo nel 1936, subito dopo la scomparsa del suo primo creatore, Fernando Pessoa. Ricardo Reis, definito dallo stesso Pessoa come «un Orazio greco che scrive in portoghese», è il poeta neoclassico che realizza nelle sue Odi, dalla struttura arcaizzante e impregnate di stoicismo ed epicureismo, l’idea del Neopaganesimo, del rinascimento neo-greco, prefigurato da Alberto Caeiro in forma incipiente e prepagana. A questi due eteronomi Fernando Pessoa affianca un altro eteronimo, il filosofo Antonio Mora, espressamente concepito come il continuatore di Caeiro, cui affida la redazione di un’opera dal titolo esplicito Il ritorno degli Dèi, progetto rimasto incompiuto. Nella citata lettera inviata al direttore di «Presença», Pessoa accenna anche a un altro autore fittizio, definito da lui come «semieteronimo». Si tratta di Bernardo Soares, al quale, nel 1929, dopo varie ipotesi eteronimiche, il suo creatore attribuisce la redazione de Il libro dell’inquietudine, il più inquietante, profondo e intrigante testo in prosa di Pessoa. Questi sono gli eteronimi più definiti, ma molti altri, effimeri o non del tutto abbozzati, fanno da corollario alla già abbondante coterie inesistente. Fra essi c’è un traduttore, un frate, l’astrologo Rafael Baldaia, diaristi, un nobile suicida. Dunque, nel 1914 Pessoa si trova in buona compagnia, il che rende la sua attività letteraria straordinariamente movimentata. Infatti, l’anno successivo segna un punto fermo di non ritorno non solo nella vita intellettuale di Pessoa, ma soprattutto nel panorama culturale e letterario del Portogallo. Con un gruppo di amici intellettuali, e con Mário de Sá-Carneiro, fonda «Orpheu», la rivista che introduce in Portogallo quello che più tardi verrà definito Modernismo. Ne escono solo due numeri, entrambi nello stesso anno, ma sufficienti a scatenare un piccolo maremoto nelle acque stagnanti del contesto letterario del paese. Nella rivista trovano spazio le avanguardie e i movimenti letterari europei, dal cubismo al futurismo, trasportati dalla corrispondenza parigina di Sá-Carneiro e dai contatti e letture di Pessoa delle novità in Gran Bretagna, Spagna e Francia. La reazione dell’intellettualità conservatrice è feroce e denigratoria, pur riconoscendo a Pessoa un certo valore artistico. Su «Orpheu», Álvaro de Campos pubblica tre importanti poesie: Oppiario, Ode trionfale e Ode marittima. Lo stesso Pessoa vi pubblica testi fondamentali, come il “dramma statico” Il marinaio, unica opera teatrale portata termine, e le sei poesie intersezioniste di Pioggia Obliqua. Sempre nel 1915 inizia a tradurre le opere di teosofia di Elena Blavatsky e di altri autori teosofici. Scrive Antinous, un lungo poema in inglese a sfondo omosessuale. Anche il 1916 è un anno importante, segnato dalla morte dell’amico Mário de Sá-Carneiro, che si suicida in un hotel a Parigi. Sarà un grande dolore per Pessoa, che si fa carico del destino dell’opera del poeta che più di tutti sente in sintonia con se stesso. In questo anno Pessoa sperimenta la scrittura automatica a seguito di fenomeni medianici, attraverso cui entra in comunicazione con Henry More (1614-1687) e altri spiriti astrali. Collabora alle riviste «Exílio» e «Centauro». Nel 1917 pubblica, sulla rivista «Portugal Futurista», l’Ultimatum di Álvaro de Campos, un manifesto dai forti toni di invettiva, che tuona contro i mandarini politici e culturali d’Europa. La rivista viene sequestrata dalla polizia. Nello stesso anno, con un colpo di Stato, sale al potere il dittatore Sidónio Pais. Nel 1918 Pessoa pubblica a proprie spese il poema in inglese Antinous e 35 Sonnets, anche questi composti in un inglese elisabettiano. L’autore, ne invia alcune copie a diversi giornali inglesi, ricevendone critiche abbastanza positive. In questo anno muoiono anche due grandi artisti portoghesi legati al modernismo, Santa Rita Pintor e il grande Amadeu de Sousa-Cardoso, amico caro di Modigliani. Nel mese di dicembre dello stesso anno Sidónio Pais viene assassinato, fatto che suscita sconcerto nel paese. Nel 1919, il 19 gennaio, a Oporto e Lisbona viene proclamata la Monarchia da parte di giunte militari. Solo un mese più tardi, però, le forze monarchiche saranno sconfitte al nord del paese. Il questo periodo Pessoa collabora al giornale sidonista «Acção», fortemente antirepubblicano. Nello stesso anno a Pretoria muore il patrigno. Sempre nel 1919 Pessoa conosce Ofélia Queiroz, una giovane segretaria assunta in una ditta vicino a quella in cui lavora lui. Nel mese di marzo del 1920 inizia una relazione sentimentale con Ofélia, che, per quanto è dato conoscere, si sviluppa prevalentemente su un piano intellettuale, scandita dalla corrispondenza, di estremo interesse personale e letterario, che Pessoa le invia regolarmente e che fa sì che tra i due non si vada oltre un rapporto platonico. Tuttavia, la storia dura soltanto nove mesi interrotta da Pessoa con una lettera perentoria, ancorché affettuosa. A partire da quel momento, Pessoa decide di dedicarsi anima e corpo alla sua opera letteraria. Nello stesso anno la famiglia di Pessoa – madre e tre fratellastri – torna a Lisbona. I fratelli João e Luís partono per l’Inghilterra, Fernando Pessoa si stabilisce con la madre e la sorella Henriqueta, nella casa di via Coelho da Rocha, dove risiederà ininterrottamente fino alla morte. Nel 1921 fonda, per la seconda volta, una piccola casa editrice, la Olisipo, dove pubblica due volumi di poesie inglesi English Poems I e II e English Poems III . Nel 1922 la Olisipo riedita le Canzoni del poeta António Botto, omosessuale dichiarato, (già pubblicate nel 1920). Nel maggio dello stesso anno Pessoa pubblica un opuscolo di satira dialettica, intitolato Il banchiere anarchico sulla rivista «Contemporânea», di cui è fondatore insieme a José Pacheco, già curatore della grafica di «Orpheu». Nel mese di ottobre pubblica sulla stessa rivista «Mare Portoghese», un gruppo di poesie, undici delle quali in seguito faranno parte di Messaggio. L’anno successivo la Olisipo esce con un opuscolo di Raul Leal, uno dei collaboratori di «Orpheu», intitolato Sodoma divinizzata. Il fatto provoca una campagna di protesta di un gruppo conservatore di studenti di Lisbona, a seguito della quale interviene il governatore civile che ordina il sequestro di vari libri immorali tra cui anche Sodoma divinizzata e le Canzoni di António Botto. Pessoa pubblica due interventi, uno con il suo nome, l’altro a firma di Álvaro de Campos, dove critica gli studenti e prende le difese di Raul Leal. Come responsabile della Olisipo, Pessoa viene citato in tribunale e la casa editrice finirà per chiudere. Nel frattempo Álvaro de Campos pubblica sulla rivista «Contemporânea», una delle sue più note e straordinarie liriche, Lisbon Revisited. Anche il 1924 è un anno importante per l’attività letteraria di Pessoa. Con l’amico Rui Vaz, fonda e dirige la raffinata rivista «Athena», espressamente creata per dare spazio all’eteronimo oraziano Ricardo Reis, di cui vengono pubblicate venti Odi nel primo numero di ottobre. Fino ad allora Ricardo Reis era sconosciuto ai lettori. La rivista prosegue anche nel 1925, anno in cui escono il quarto e quinto numero che sarà anche l’ultimo. Vi vengono pubblicate trentanove poesie di Alberto Caeiro, presentato per la prima volta al pubblico. A marzo dello stesso anno la madre di Pessoa muore e a novembre nasce l’unica nipote, Manuela Nogueira. Nel 1926 Pessoa fonda e dirige con il cognato la «Revista de Comércio e Contabilidade», di cui escono sei numeri, dove pubblica articoli su argomenti economico-sociali. Traduce anche il romanzo La lettera scarlatta, dell’americano Nathaniel Hawtorne, pubblicato in appendice sulla rivista «Ilustração». Nel maggio dello stesso anno un colpo di stato istaura la dittatura militare. Il 1927 segna la nascita a Coimbra della rivista «Presença», diretta da José Régio e João Gaspar Simões, ai quali ni seguito si aggiungerà Adolfo Casais Monteiro, giovani intellettuali che per primi consacrano Pessoa, poco conosciuto fino ad allora, come uno dei più interessanti e significativi poeti viventi in Portogallo. La loro azione di valorizzazione di Pessoa si concretizza anche con la pubblicazione assidua sulla rivista di sue collaborazioni. João Gaspar Simões pubblicherà anche la prima monumentale biografia di Fernando Pessoa nel 1950. Pessoa segue anche la vita politica nazionale, scrivendo testi di analisi politico-sociologica. Nel 1928 pubblica un opuscolo, L’interregno, in cui giustifica e difende la dittatura militare come fase di transizione necessaria in un Portogallo politicamente instabile e privo di un ideale nazionale che faccia da collante a un opinione pubblica consapevole. Ma in una nota bibliografica redatta nel 1935 Pessoa ripudierà L’interregno. Intanto Álvaro de Campos scrive Tabaccheria, una delle sue migliori poesie. Pessoa crea l’ultimo eteronimo, il Barone di Teive che, incapace di portare a compimento le opere iniziate, morirà suicida. Salazar diventa ministro delle Finanze. Nel 1929 pubblica per la prima volta dal 1913 alcuni brani del Libro dell’inquietudine, attribuiti ora al semieteronimo Bernardo Soares. Nel mese di settembre riprende il rapporto sentimentale con Ofélia, sempre scandito da rari incontri e scambi epistolari. A dicembre dello stesso anno, Pessoa manda una lettera all’editore di Aleister Crowley che contiene la correzione dell’oroscopo del mago inglese pubblicato nell’autobiografia. Crowley (1875-1974), riconoscendo l’errore, inizia uno scambio epistolare con Pessoa. João Gaspar Simões inserisce nel suo testo di critica letteraria Temas il primo saggio su Pessoa. Il 1930 segna la fine della relazione di Pessoa con Ofélia, alla quale invia l’ultima lettera l’11 gennaio. A settembre Crowley arriva a Lisbona per incontrare personalmente Fernando Pessoa. Crowley, dopo essere stato abbandonato dalla sua accompagnatrice, scompare misteriosamente, inscenando un suicidio con la complicità di Pessoa. Questo fatto sarà argomento di attenzione da parte della stampa nazionale e internazionale. Sulla scia di tale evento Pessoa progetta di scrivere in inglese un racconto poliziesco. Nel 1931 nasce l’unico nipote, Luís Miguel Rosa Dias. Il 1932 è l’anno in cui Pessoa si dedica con fervore alla redazione dei testi più significativi del suo percorso letterario e spirituale della conoscenza iniziatica e delle filosofie occultiste. Redige la prefazione al testo di poesie Anima errante dell’ebreo russo, emigrato a Lisbona, Eliezer Kamenezky, dove analizza il Giudaismo, le tradizioni ermetiche, come la Cabala, la Massoneria, e i Rosa-Croce. A settembre concorre, senza ottenerlo, a un posto presso la Biblioteca di Cascais. Salazar viene nominato Presidente del Consiglio, carica che sancisce il suo potere dittatoriale. Intanto la salute di Pessoa comincia a vacillare, ma questo non lo distoglie dall’intenso lavoro alla sua opera, come a quella affidatagli da Mário de Sá-Carneiro. Prepara infatti l’edizione delle poesie dell’amico Indizi di Oro che solo nel 1937 uscirà su «Presença». Inizia il lungo periodo politico dello Stato Nuovo di Salazar. Nel 1934 completa l’opera poetica Messaggio, che pubblica nel mese di ottobre, partecipando con essa al concorso letterario Antero de Quental indetto dal Segretariato della propaganda Nazionale, nel quale si classifica come secondo. Si tratta dell’unica opera integrale pubblicata in vita da Pessoa. Testo complesso, percorso da influssi di un esoterismo nazionalista, nel quale il poeta ricostruisce in chiave mitico-simbolica, imbevuta di profetismo, la storia del Portogallo. Il 4 febbraio 1935 pubblica sul «Diário de Lisboa» un duro articolo contro il progetto di legge che mira a chiudere le associazioni segrete, in particolare la Massoneria. La legge sarà poi approvata ad aprile. Nell’ultimo periodo della sua vita, Pessoa inizia a scrivere poesie antisalazariste, reagendo ad un richiamo all’ordine e alla morale indirizzato da Salazar agli scrittori. Il 28 novembre la salute si aggrava e Pessoa viene ricoverato all’Ospedale di S. Luigi dei Francesi, vittima di una forte crisi epatica. Il 29 scrive in inglese le sue ultime parole «I know not what tomorrow will bring». Il «giorno dopo» spirerà. Il 2 dicembre viene sepolto a Lisbona nel Cimitero dei Piaceri, nella tomba di famiglia. Nel 1985, allo scadere dei cinquanta anni dalla scomparsa, Pessoa viene traslato presso il Monastero dei Geronimini, famoso tempio di Lisbona, in cui – come in S. Croce a Firenze – vengono tumulate le salme dei grandi del Portogallo. Sulla lapide, accanto al suo nome, appaiono i nomi dei suoi inseparabili amici, gli eteronimi, insieme ai quali è divenuto un caso letterario del XX secolo, unico e affascinante. «Il libro dell’inquietudine». La sublimazione del frammento

Questo straordinario testo pessoano è la testimonianza ancora in fieri della non esistenza di un Libro, malgrado il suo titolo. Un titolo sotto al quale, però, come se si aprisse una botola, le pagine scompaiono, si staccano, si mescolano, si sottraggono invece di disporsi secondo un ordine logico e compiuto. Il libro dell’inquietudine, effettivamente, non è mai esistito, se non nel solo atto di progettarlo sotto un titolo al quale ricondurre una ibrida e innumerevole quantità di pagine scritte, «frammenti, tutto frammenti» come rivela Pessoa in una lettera. È, prendendo in prestito le parole di Richard Zenith, «il libro in potenza, il libro in piena rovina […] l’antilibro, oltre ogni letteratura».1 È il testo postmoderno prima del postmodernismo, ma per Pessoa non si realizza in una formale destrutturazione del discorso, al contrario, nella sua disordinata frammentazione cela e rivela con discrezione tutta l’esperienza intima di un’anima inquieta, profonda come l’abisso. Non meno importante, in esso l’autore, costruisce il suo laboratorio di chimica delle sensazioni, spazio privilegiato di sperimentazione, dunque frammenti sconnessi fra loro ma certamente legati alla grandiosa geometria del progetto letterario di Pessoa. Si sa che l’autore lo ha concepito ancor prima della nascita degli eteronomi Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis, quando nel 1913 pubblica, con il nome di Fernando Pessoa Nella foresta dell’alienazione, la prima prosa di finzione destinata al Libro dell’inquietudine. Poi, per molti anni, fino al 1929 il libro torna nell’ombra, sebbene Pessoa non abbia mai smesso di lavorarvi, senza tuttavia tracciarne un piano definitivo, un limite, una fine, anzi, l’incompiutezza si ripresenta sempre di più di fronte ad ogni apparente avanzamento dell’opera. Del resto, Il Libro dell’inquietudine spesso si fa anche metatesto, allorché il tema dell’incompiutezza, ripetutamente occupa le riflessioni del suo autore. Testo sfuggente, che lo stesso Pessoa non riesce a fissare, di un ibridismo errabondo che gli fa assumere diverse forme anche sul versante autorale, prima che venisse definitivamente scelto Bernardo Soares, si presenta piuttosto accidentato. Inizialmente, la prima prosa di finzione sopra citata porta il nome di Fernando Pessoa, ma poi, quando i frammenti assumono un carattere diaristico, Pessoa, seguendo la propria tendenza alla dissimulazione, sceglie il nome di Vicente Guedes, che diventa l’autore dei frammenti del diario che dovevano far parte del Libro dell’inquietudine. Prima di diventare il diarista di Pessoa, Vicente Guedes fa il traduttore di testi letterari e scrive anche racconti e poesie. Tra le firme fittizie messe in campo da Pessoa compare anche il Barone di Teive, ma come collaboratore, che scrive un unico manoscritto intitolato L’educazione dello stoico. Il resto sono frammenti sul cui destino Pessoa esita. Il nobile portoghese soffre di tedio come Bernardo Soares, al quale lo accomuna un linguaggio simile. Successivamente Pessoa fissa l’autore definitivo dell’intero Libro dell’inquietudine come Bernardo Soares, presentato nel sottotitolo che così recita: «composto da Bernardo Soares, aiuto contabile nella città di Lisbona». Nella lettera del 1935, inviata a Casais Monteiro, direttore di «Presença», Pessoa ne descrive la personalità e il carattere, come aveva fatto per gli altri eteronimi. Come spiega lo stesso Pessoa, Bernardo Soares non è un vero eteronimo, ma un semieteronimo, perché ha una personalità molto simile alla sua, seppure mutilata. Dunque, Bernardo Soares è una sorta di Fernando Pessoa a cui sia stato tolto qualcosa. In effetti l’aiuto contabile ha una personalità debole e nessun senso dell’umorismo, che invece il suo creatore possiede in abbondanza. Come Pessoa, anche Bernardo Soares è impiegato nel quartiere della Baixa di Lisbona, dove abita in una stanza ammobiliata, al quarto piano di un palazzo in Rua dos Douradores. Ma ha un orario di lavoro fisso e, dunque, conduce una vita abitudinaria scandita dai ritmi dell’ufficio. Contrariamente agli eteronomi, Bernardo Soares non ha una vera e propria biografia, si tratta soprattutto di una personalità letteraria della cui reale esistenza fisica sembrano conservarsi la vista e l’udito, potenti strumenti di percezione che strutturano in gran parte tutto il Libro. Si potrebbe affermare che Bernardo Soares sia davvero la maschera di Fernando Pessoa, il suo alter ego più manifesto. Nonostante alla fine Pessoa si sia premurato di indicare il titolo definitivo del Libro dell’inquietudine, esso non è mai esistito in quanto tale, rimanendo chiuso nel famoso baule, come gran parte dell’opera pessoana, in attesa di venire “composto”. In vita Pessoa ne aveva pubblicati solo dodici brani. Finalmente, negli anni Ottanta, a quasi cinquant’anni dalla sua morte, Il libro dell’inquietudine, costituito da circa 450 frammenti, appare per la prima volta al pubblico, edito nel 1982 dalla casa Editrice Ática, che a partire dagli anni Quaranta aveva pubblicato le poesie di Pessoa. Nel 1990-91, per i tipi di Presença, esce una nuova edizione, corretta, riorganizzata e ampliata, a cura di Teresa Sobral Cunha. Una successiva edizione della Casa Editrice Relógio de Água appare nel 1997, che ripubblica il primo volume della precedente edizione, nuovamente rivista. Nel 1998 esce l’edizione, al momento più completa, di Richard Zenith, per l’editrice Assírio & Alvim. A questa seguono altre tre edizioni, riviste e ampliate, a responsabilità dello stesso curatore, il cui intento è quello di avvicinarsi sempre più ad un Libro che sembra non volersi arrendere alla possibilità di fissarsi, rimandando sempre alla sua sostanza virtuale, di cui ci rimangono solo frammenti, ma che proprio per questo ne fa il capolavoro del genio di Fernando Pessoa.

ORIETTA ABBATI

Il libro dell’inquietudine composto da Bernardo Soares, aiuto contabile nella città di Lisbona

Il poeta è un fingitore finge così totalmente da fingere che è dolore il dolore che davvero sente.

Pessoa, Autopsicografia

Frontespizio originariamente dattiloscritto dallo stesso Fernando Pessoa per Il libro dell’inquietudine.

Prefazione di Fernando Pessoa

C’è a Lisbona un piccolo numero di ristoranti o di osterie in cui, nella parte superiore di un esercizio dall’aspetto di dignitosa taverna, si eleva un mezzanino inelegante e casalingo, simile a quei ristoranti di cittadine non raggiunte dalla ferrovia. In tali mezzanini, salvo la domenica poco frequentati, non è raro incontrare tipi curiosi, facce insignificanti, una serie di emarginati dalla vita. Il desiderio di quiete e i prezzi convenienti mi hanno condotto, in un dato periodo della mia vita, a frequentare uno di questi locali. Accadeva che, quando vi cenavo attorno alle sette, incontravo quasi sempre un individuo il cui aspetto, pur non colpendomi all’inizio, a poco a poco ha incominciato a suscitare in me interesse. Era un uomo di circa trenta anni, magro, abbastanza alto; esageratamente incurvato quando stava seduto, meno se in piedi; non del tutto trasandato, sebbene vestisse con una certa trascuratezza. Sul volto pallido e inespressivo un’aria di sofferenza non aggiungeva interesse, ed era difficile definire quale specie di pena questa aria indicasse – sembrava mostrarne varie: privazioni, angustie, e quel tipo di patimento che nasce dall’indifferenza, proveniente, a sua volta, dall’aver molto sofferto. Cenava sempre moderatamente e terminava fumando tabacco di pessima qualità. Guardava in modo insolito le persone presenti, non sospettosamente, ma con attenzione; osservandole, però, non come chi volesse scrutarle a fondo, ma come chi pur interessandosi a loro non volesse fissarne le sembianze o volesse rilevare in modo particolare le fisionomie. È stato questo curioso atteggiamento, che in principio ha destato in me interesse per lui. Mi sono messo ad osservarlo meglio. Ho potuto costatare che una determinata aria di intelligenza animava in modo indefinibile i lineamenti del suo volto. Ma l’avvilimento, la fredda angustia persistente, si diffondeva cosi regolarmente sul suo aspetto che, oltre a quello era difficile scorgere un altro atteggiamento. Da un inserviente del ristorante, sono riuscito a sapere che era contabile in una ditta commerciale lì vicino. Un giorno, per strada, proprio sotto le finestre del ristorante, è accaduto un fatto inatteso – una rissa tra due individui. I presenti nel mezzanino sono accorsi alle finestre, e anche io, e anche la persona di cui sto parlando. Ho scambiato con lui una frase casuale, e lui ha risposto con lo stesso tono. La sua voce era spenta e tremula, come quella di chi non spera in nulla, perché sa che è perfettamente inutile sperare in qualcosa. Non so perché, ma da quel momento abbiamo cominciato a salutarci. Un giorno, avvicinati forse dalla insolita coincidenza di trovarci entrambi a cenare alle nove e mezzo, abbiamo avviato una conversazione di circostanza. Ad un certo punto mi ha chiesto se scrivessi. Ho risposto di sì. Gli ho parlato della rivista «Orpheu»1, apparsa da poco. L’ha elogiata, elogiata abbastanza; al che mi sono davvero meravigliato. Mi sono permesso di fargli presente il mio stupore, perché l’arte di coloro che scrivono su «Orpheu» suole essere per pochi. Mi ha risposto che forse lui era uno dei pochi. Del resto, ha aggiunto, quell’arte non gli aveva arrecato alcuna novità: e timidamente ha osservato che anche lui, non avendo dove andare né cosa fare, né amici da visitare, né interesse per letture prolungate, era solito passare le notti, nella sua stanza in affitto, a scrivere.

* * *

Aveva mobiliato – è impossibile che ciò non fosse avvenuto senza rinunciare ad alcune cose essenziali – con un certo e approssimato lusso le sue due stanze. Si era preoccupato soprattutto delle sedie – a braccioli, capaci, morbide –, dei tendaggi e dei tappeti. Diceva che in tal modo si era creato un interno «per conservare la dignità del tedio». Nelle stanze moderne il tedio si muta in sconforto, in patimento fisico. Mai nulla lo aveva obbligato a fare qualcosa. Da bambino era vissuto isolato. Non gli era mai capitato di entrare in qualche gruppo. Non aveva mai frequentato un corso. Non aveva mai fatto parte delle masse. Si era verificato con lui il curioso fenomeno di tanti – forse, a ben vedere, di tutti – che le circostanze occasionali della vita si fossero conformate a immagine e somiglianza della inclinazione dei suoi istinti, tutti di inerzia e di separazione. Non si era mai dovuto confrontare con le regole dello stato o della società. Si era sottratto persino ai condizionamenti dei suoi istinti. Nessuna cosa lo aveva mai avvicinato ad amici o ad amanti. Io sono stato l’unico che, in qualche maniera, sia entrato in intimità con lui. Ma – malgrado venissi sempre a contatto con una sua falsa personalità e sospetti che non mi abbia mai considerato realmente un amico – ho avuto sempre la sensazione che dovesse avvicinare qualcuno per lasciargli il libro che ha lasciato. Mi piace comunque pensare che, sebbene all’inizio la cosa mi rammaricasse, vedendo alla fine l’intera vicenda unicamente con occhi degni di uno psicologo, sono divenuto ugualmente suo amico, coinvolto dal fine per il quale mi aveva avvicinato a sé – la pubblicazione di questo suo libro. Persino in questo – è curioso notarlo – le circostanze, ponendo di fronte a lui chi, per carattere, gli potesse essere utile, gli erano state favorevoli.

Introduzione1

(di Bernardo Soares)

Sono nato in un’epoca in cui la maggior parte dei giovani aveva perduto la fede in Dio, per la stessa ragione per la quale i loro padri l’avevano avuta – senza sapere perché. E allora, poiché lo spirito umano tende naturalmente a criticare perché sente, e non perché pensa, la maggior parte di quei giovani ha scelto l’Umanità come surrogato di Dio. Appartengo, però, a quella specie di uomini che se ne stanno ai margini di quel mondo di cui fanno parte, e che non rivolgono lo sguardo solo alla massa cui appartengono, ma anche verso i grandi spazi che sono a lato. Per questo non ho completamente abbandonato Dio come loro, né ho mai accettato l’Umanità. Ho considerato che Dio, pur essendo improbabile, potrebbe anche esistere e che, pertanto, si poteva adorare; ma che l’Umanità, essendo una mera idea biologica, e non significando altro che la specie animale umana, non era degna di adorazione più di qualsiasi altra specie animale. Questo culto dell’Umanità, con i suoi riti di Libertà e di Uguaglianza, mi è sempre parso una reviviscenza di culti antichi, in cui degli animali erano come dèi, o gli dèi avevano teste di animali. Così, non sapendo credere in Dio, e non potendo credere in una somma di animali, sono rimasto, come altri a margine delle genti, in quella distanza da tutto ciò che comunemente è chiamato Decadenza. La Decadenza è la perdita totale dell’incoscienza; perché l’incoscienza è il fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe. In tal modo, a chi, come me, che vivendo non sa vivere, cosa resta se non, come ai pochi altri simili a me, la rinuncia per metodo e la contemplazione per fine? Non sapendo cosa sia la vita religiosa, né potendo saperlo, perché non si ha fede per mezzo della ragione; non potendo avere fede nell’astrazione dell’uomo, né ugualmente non sapendo cosa fare di essa in mezzo a noi, non ci rimaneva, per il fatto di avere anima, che la contemplazione estetica della vita. E, così estranei alla solennità di tutti i mondi, indifferenti al divino e sprezzanti dell’umano, ci diamo futilmente alle sensazioni senza proposito, coltivate nell’epicureismo più sottile, come conviene ai nostri nervi cerebrali. Accettando, della scienza, solamente il precetto fondamentale, secondo cui tutto è soggetto alle leggi del fato, contro cui non si reagisce liberamente, in quanto reagire vuol dire che sono state quelle leggi a provocare la nostra reazione; e verificando come questo precetto si adatta all’altro, più antico, della divina fatalità delle cose, rinunciamo allo sforzo come i fiacchi agli esercizi degli atleti, e ci curviamo sul libro delle sensazioni con il grande scrupolo di sentita erudizione. Non prendendo niente sul serio, e considerando che non ci è data, per certa, altra realtà che non le nostre sensazioni, ci rifugiamo in esse, e le esploriamo come grandi paesi sconosciuti. E, se ci impegniamo con costanza, non solo nella contemplazione estetica ma anche nell’espressione dei suoi modi e risultati, è perchè la prosa o il verso che scriviamo, privi del proposito di voler influenzare gli altrui intenti o smuovere l’altrui volontà, sono solo come un puro atto di lettura ad alta voce, che si fa per dare piena oggettività al piacere soggettivo della lettura. Sappiamo bene che ogni opera è necessariamente imperfetta, e che la meno sicura delle nostre contemplazioni estetiche sarà quella di cui scriviamo. Ma tutto è imperfetto, non c’è tramonto così bello da non poterlo essere di più, o brezza lieve che invita al sonno che non possa favorire un sonno ancora più sereno. E così, uguali contemplatori delle montagne e delle statue, godendo dei giorni come dei libri, sognando tutto, soprattutto, per trasformarlo nella nostra intima sostanza, procederemo anche a descrizioni e analisi, che, una volta fatte, diventeranno cose estranee, che possiamo assaporare come se ci giungessero sul far della sera. Questa non è la concezione dei pessimisti, alla De Vigny2, secondo il quale la vita è una prigione, dove intessere paglia per distrarsi. Essere pessimista vuol dire prendere ogni cosa come tragica, e questo atteggiamento è un’esagerazione e un fastidio. Non possediamo, è certo, un concetto di valore da applicare all’opera che produciamo. La produciamo sicuramente per distrarci: non come il prigioniero che intesse paglia, per non pensare al Destino, ma come la fanciulla che ricama cuscini, per distrarsi; niente di più. Considero la vita una locanda, dove devo fermarmi fino all’arrivo della diligenza dell’abisso. Non so dove mi condurrà, perché non so niente. Potrei considerare questa locanda una prigione, perché in essa sono costretto all’attesa; potrei considerarla un luogo in cui socializzare, perché qui mi ritrovo insieme ad altri. Non sono, però, né impaziente né spontaneamente naturale. Lascio a quello che sono, coloro che si chiudono nella stanza, mollemente sdraiati sul letto dove aspettano insonni; lascio a quello che fanno, coloro che conversano nelle sale, da dove musiche e voci giungono facilmente fino a me. Mi siedo alla porta e imbevo i miei occhi e orecchi dei colori e dei suoni del paesaggio, e canto sommessamente, solo per me, vaghe canzoni che compongo nell’attesa. Per tutti noi scenderà la notte e arriverà la diligenza. Godo della brezza che mi è data e dell’anima che mi è stata data per goderla, e non mi pongo altre domande né cerco altro. Se ciò che lascerò scritto nel libro dei clienti, riletto un giorno da qualcuno, potrà intrattenerlo nel transito, andrà bene. Se nessuno lo leggerà, né si intratterrà, andrà ugualmente bene. Lisbona, 29-03-1930

* * *

Invidio – ma non so se sia invidia – coloro di cui si può scrivere una biografia, o chi può scrivere la propria. In queste mie impressioni senza nesso, né desiderio di nesso, narro indifferentemente la mia biografia senza fatti, la mia storia senza vita. Sono le mie Confessioni e, se in esse non dico nulla, è perché non ho nulla da dire. Cosa si dovrebbe confessare che abbia un valore o serva a qualcosa? Quello che è ci è accaduto, o è accaduto a tutti gli altri o solamente a noi; nel primo caso non è una novità, nel secondo non interessa che sia compreso. Se scrivo ciò che sento è perché in tal modo diminuisco la febbre di sentire. Ciò che confesso non ha importanza: niente, del resto, ha importanza. Faccio paesaggi con ciò che sento. Faccio ferie delle sensazioni. Comprendo bene le ricamatrici per afflizione e quelle che fanno la calza perché c’è vita. La mia vecchia zia faceva solitari durante le infinite serate. Queste confessioni sul modo di sentire sono i miei solitari. Non li interpreto, come chi usasse le carte per leggere il destino. Non li ascolto, perché nei solitari le carte non hanno propriamente valore. Mi srotolo come una matassa multicolore, o faccio con me figure di bassa letteratura, come quelle che si intrecciano intorno alle mani tenute diritte e si passano poi da un bambino all’altro. Faccio solo attenzione che il pollice non manchi il laccio giusto. Poi giro la mano e l’immagine è differente. E ricomincio. Vivere è fare la calza con una intenzione altrui. Ma, nel farla, il pensiero è libero, e tutti i principi incantati possono passeggiare nei loro giardini tra un’immersione e l’altra dell’ago di avorio con la punta ritorta. Uncinetto delle cose… Intervallo… Niente… Del resto, su quale cosa di me posso contare? Una orribile acutezza delle sensazioni, e la comprensione profonda di stare sentendo… Una intelligenza acuta per distruggermi, e un potere di sogno avido di intrattenermi… Una volontà morta e una riflessione che la sta cullando, come un figlio vivo… Sì, uncinetto…

Frammenti di un’autobiografia

Dapprima mi hanno interessato le speculazioni metafisiche, poi le idee scientifiche. Infine mi hanno attratto le idee […] sociologiche. Ma in nessuno di questi stadi della mia ricerca della verità ho trovato sicurezza e sollievo. Leggevo poco, a prescindere da qualsiasi tipo di interesse. Ma nel poco che leggevo, mi stancavo di trovare tante teorie, contraddittorie, ugualmente fondate su ragioni argomentate, tutte ugualmente probabili e in sintonia con una scelta di fatti che aveva sempre l’aria di costituire tutti i fatti. Se sollevavo dai libri i miei occhi stanchi, o se dai miei pensieri sviavo la mia perturbata attenzione verso il mondo esterno, vedevo soltanto una cosa, che mi smentiva ogni utilità di leggere e pensare, strappandomi ad uno ad uno tutti i petali dell’idea dello sforzo: l’infinita complessità delle cose, l’immensa somma […], la prolissa irraggiungibilità degli stessi scarsi fatti che si potrebbero considerare necessari per la formulazione di una scienza. Poco a poco ho trovato in me lo sconforto di non trovare niente. Non ho trovato una ragione e una logica se non ad uno scetticismo che non era neppure alla ricerca di una logica per giustificarsi. Non ho pensato di curarmi da questa cosa – perché mi sarei dovuto curare? E che cosa significava essere sani? Quale certezza avevo che quello stato d’animo dovesse appartenere alla malattia? Chi ci dice che, pur essendo una malattia, la malattia non sia più desiderabile, o più logica, o più […], della salute? E se la salute era preferibile, per quale altro motivo io ero malato se non per il fatto di esserlo naturalmente, e se lo ero naturalmente, perché andare contro la Natura, che per qualche scopo, ammesso che abbia uno scopo, mi avrebbe voluto certamente malato? Non ho mai trovato argomenti se non per l’inerzia. Giorno dopo giorno si è infiltrata dentro di me sempre più la coscienza umbratile della inerzia di colui che abdica. Cercare le modalità dell’inerzia, impegnarmi a sfuggire ad ogni sforzo in relazione a me stesso, e ad ogni responsabilità sociale – ho scolpito in questa materia di […] la statua immaginata della mia esistenza. Ho lasciato le letture, ho abbandonato i capricci casuali dei diversi lati estetici della vita. Dal poco che leggevo ho imparato a ricavare solo gli elementi per il sogno. Dal poco a cui assistevo, mi sono impegnato a ottenere, in riflesso distante ed errato, solo ciò che era possibile prolungare dentro di me. Mi sono sforzato di fare in modo che tutti i miei pensieri, tutti i capitoli quotidiani della mia esistenza mi fornissero soltanto sensazioni. Ho creato per la mia vita un orientamento estetico. E ho orientato tale estetica verso l’individualismo puro. L’ho solo fatta mia. In seguito, nel decorso ricercato del mio edonismo interiore, mi sono esercitato a sottrarmi alla sensibilità sociale. Lentamente mi sono corazzato contro il sentimento del ridicolo. Ho insegnato a me stesso ad essere insensibile agli appelli degli istinti, alle sollecitazioni […]. Ho ridotto al minimo il mio contatto con gli altri. Ho fatto quello che ho potuto per perdere qualsiasi attaccamento alla vita […]. Lentamente mi sono spogliato del desiderio stesso di gloria come chi, stanco morto, si spoglia per riposare.

* * *

Dallo studio della metafisica, delle scienze […], sono passato ad occupazioni dello spirito più violente per l’equilibrio dei miei nervi. Ho passato notti paurose piegato su volumi di mistici e cabalisti, che non ho mai avuto la pazienza di leggere fino alla fine, solo ad intermittenza , tremante e […]. I riti e i misteri dei Rosa Croce, i simboli […] della Cabala e dei Templari, […] – per molto tempo ho subito la loro oppressione. E hanno riempito la febbre dei miei giorni speculazioni velenose, sulla ragione demoniaca della metafisica – la magia, […] l’alchimia – estraendo un falso stimolo vitale della sensazione dolorosa e pre-cosciente di trovarmi come sul punto di conoscere un mistero supremo. Mi sono perduto fra i sistemi secondari, eccitati, della metafisica, sistemi pieni di analogie perturbanti, di botole per la lucidità, grandi paesaggi misteriosi dove riflessi di soprannaturale risvegliano misteri nei contorni. Sono invecchiato attraverso le sensazioni… Mi sono logorato generando pensieri… E la mia vita è diventata una febbre metafisica, che scopriva sempre significati occulti nelle cose, che scherzava con il fuoco delle analogie misteriose, che procrastinava la lucidità completa, la sintesi normale per denigrare se stessa. Sono precipitato in una complessa indisciplina cerebrale, colma di indifferenza. Dove mi sono rifugiato? Ho l’impressione di non essermi rifugiato da nessuna parte. Mi sono abbandonato, ma non so a cosa. Ho concentrato e limitato i miei desideri, per poterli perfezionare meglio. Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito. Oggi sono un ascetico nella mia religione di me stesso. Una tazza di caffé, una sigaretta e i miei sogni sostituiscono bene l’universo e le sue stelle, il lavoro, l’amore e perfino la bellezza e la gloria. Quasi non ho bisogno di stimoli. L’oppio ce l’ho nell’anima. Che sogni ho? Non lo so. Mi sono sforzato per arrivare ad un punto dove non sappia più a cosa sto pensando, cosa sogno, cosa vedo in visione. Mi sembra di sognare sempre più da lontano, di sognare sempre di più il vago, l’imprecisato, ciò che non è possibile vedere in visione. Riguardo alla vita non faccio teorie. Se è bella o brutta non lo so, non penso. Ai miei occhi è dura e triste, con intervalli di sogni deliziosi. Che mi importa cosa è per gli altri? La vita degli altri mi serve solo per vivere nel mio sogno quella che mi sembra si adatti bene a ciascuno di loro.

1.

Devo scegliere tra cose che detesto – o il sogno, che la mia intelligenza ricusa, o l’azione, che alla mia sensibilità ripugna; l’azione, per la quale non sono nato, o il sogno, per il quale nessuno è nato. Così, siccome detesto entrambi, non scelgo; ma, poiché ad un certo momento, devo o sognare o agire, mescolo una cosa con l’altra.

2.

Amo, nei pigri pomeriggi estivi, la quiete del centro della città bassa. Soprattutto quella quiete che viene accentuata dal contrasto con il forte rumore in cui, durante il resto del giorno, quella zona si trova immersa. Rua do Arsenal, Rua da Alfândega, il prolungamento delle strade tristi che si snodano verso est dal punto in cui Rua da Alfândega termina, l’intera linea ripartita dei moli placidi – tutto ciò mi conforta di tristezza, se mi inoltro, in quei pomeriggi, nella solitudine del loro complesso articolarsi. Vivo un’epoca anteriore a quella in cui vivo; mi piace sentirmi coevo di Cesário Verde1 ed ho in me anche versi che pur non simili ai suoi, hanno dei suoi uguale sostanza. Là trascino, fino all’imbrunire, una sensazione di vita simile a quella delle strade stesse. Di giorno esse sono colme di un rumore che non vuol dire niente; di notte sono colme dell’assenza di quel rumore che non vuole dire niente. Di giorno io sono nullo, ma di notte io sono io. Non c’è differenza tra me e le strade dalla parte dell’Alfândega, salvo che esse sono strade e io sono anima, il che può anche essere che non voglia dire niente, in comparazione all’essenza delle cose. C’è un destino uguale, perché è astratto, per gli uomini e per le cose – una designazione ugualmente indifferente nell’algebra del mistero. Ma c’è ancora un’altra cosa… In queste ore lente e vuote, mi sale dall’anima alla mente una tristezza di tutto il mio essere, l’amarezza che tutto sia al medesimo tempo una sensazione mia e una cosa esterna, che non è in mio potere alterare. Ah, quante volte i miei stessi sogni mi si ergono in cose, non per sostituirsi alla realtà, ma perché si rivelano pari a me, in quanto provenendo dal di fuori non sono stati da me voluti, come il tram che svolta all’ultima curva della strada, o come il richiamo del notturno venditore ambulante, di non so quale cosa, che si eleva, con intonazione araba, come un getto d’acqua improvviso, dalla monotonia del crepuscolo! Passano coppie di futuri coniugi, passano i ragazzi delle sartine, passano i giovani ansiosi di conquiste, fumano nella loro solita passeggiata i pensionati da tutto, fermi in ozio sull’una o sull’altra porta i padroni dei negozi osservano con aria svagata. Indolenti, forti e fiacche, come sonnambuli le reclute deambulano a frotte, ora molto rumorose ora più che rumorose. Gente normale appare di tanto in tanto. Le automobili in questa ora non sono molto frequenti; sono musicali. Nel mio cuore c’è una pace di angustia, e la mia quiete è fatta di rassegnazione. Passa tutto questo, e niente di tutto questo mi dice qualcosa, tutto è estraneo al mio destino, estraneo, persino, allo stesso destino – incoscienza, imprecazioni a sproposito quando il caso getta, pietre, echi di voci ignote – insalata russa della vita.

3.

…e dall’alto della maestà di tutti i sogni, aiutante contabile nella città di Lisbona. Ma il contrasto non mi opprime – mi libera; e l’ironia che c’è in esso è sangue mio. Ciò che dovrebbe umiliarmi diviene la mia bandiera, che dispiego e innalzo; e il riso con cui dovrei ridere di me, è un clarino con cui saluto e creo un’alba nella quale mi converto. La gloria notturna di essere grande non essendo niente! L’oscura maestà di uno splendore sconosciuto… E sento, d’improvviso, il sublime del monaco nell’eremo, e dell’eremita nel suo solitario ritiro, compenetrato della sostanza del Cristo nelle pietre e nelle caverne dell’allontanamento dal mondo. E al tavolo della mia stanza assurda, ordinaria, impiegato e anonimo, scrivo parole come la salvezza dell’anima e mi indoro del tramonto impossibile di monti alti vasti e lontani, della mia statua ricevuta per mezzo di piaceri, e dell’anello di rinuncia al mio dito evangelico, gioiello fisso del mio disprezzo estatico.

4.

Ho davanti a me le due grandi pagine del pesante registro; sollevo dalla sua inclinazione sulla vecchia scrivania, con gli occhi stanchi, un’anima più stanca degli occhi. Al di là del niente che questo rappresenta, il magazzino, fino a Rua dos Douradores, allinea gli scaffali regolari, gli impiegati regolari, l’ordine umano e la quiete dell’ordinario. Alla vetrata c’è il rumore del diverso, e il rumore diverso è ordinario, come la quiete che è vicino agli scaffali. Abbasso occhi nuovi sulle due pagine bianche, dove i miei numeri attenti hanno registrato i consuntivi della società. E, con un sorriso che serbo per me, ricordo che la vita, che ha queste pagine con nomi di stoffe e di denaro, con i loro spazi bianchi, e i loro tratti a riga e lettere, include anche i grandi navigatori, i grandi santi, i poeti di tutte le epoche: tutti non registrati, la vasta prole espulsa da quelli che fanno le valutazioni del mondo. Sulla stessa registrazione di un tessuto che non so cosa sia mi si aprono le porte dell’Indo e di Samarcanda, e la poesia della Persia, che non è né di questo luogo né di un altro, fa delle sue strofe, prive di rima al terzo verso, da distante sostegno alla mia inquietudine. Ma non mi sbaglio, scrivo, addiziono, e la scrittura procede, eseguita come di solito da un dipendente di questo ufficio.

5.

Ho chiesto tanto poco alla vita e anche questo poco la vita me l’ha negato. Un raggio di sole, un campo, un sorso di quiete con un morso di pane: che non mi angosci molto sapere che esisto, e che non esiga niente dagli altri né che gli altri lo esigano da me. Pure questo mi è stato negato, come chi nega l’elemosina non per mancanza di bontà d’animo, ma per non doversi sbottonare la giacca. Scrivo, triste, nella mia stanza quieta, solo come sempre sono stato, solo come sempre sarò. E penso se la mia voce, apparentemente così poca cosa, non incarni la sostanza di migliaia di voci, la fame di dirsi di migliaia di vite, la pazienza di milioni d’anime sottomesse come la mia al destino quotidiano, al sogno inutile, alla speranza senza fondamento. In questi momenti il mio cuore palpita più forte per la coscienza che ho di esso. Vivo più, perché vivo più grande. Sento nella mia persona una forza religiosa, una specie di orazione, una somiglianza di clamore. Ma la reazione contro me proviene dalla mia intelligenza… Mi vedo al quarto piano in Rua dos Douradores, mi assisto con sonno; guardo, sul foglio mezzo scritto, la vita vana senza bellezza e la sigaretta economica che, nel fumarla, appoggio sul vecchio tampone della carta assorbente. Io qui, in questo quarto piano, a interrogare la vita! A dire ciò che le anime sentono! A fare prosa come i geni e le celebrità! Qui, io, così…

6.

Oggi, in uno di quei vaneggiamenti senza ragione e dignità che costituiscono grande parte dell’essenza spirituale della mia vita, mi sono immaginato libero per sempre da Rua dos Douradores, dal principale Vasques, dal contabile Moreira, dagli impiegati tutti, dal garzone, dal fattorino e dal gatto. Ho sentito in sogno la mia liberazione, come se i mari del Sud mi avessero offerto isole meravigliose da scoprire. Sarebbe allora la quiete, l’arte raggiunta, il compimento intellettuale del mio essere. Ma all’improvviso, e proprio nell’atto dell’immaginare, che effettuavo in un caffé durante la modesta pausa di mezzogiorno, una impressione di scontentezza ha investito il mio sogno: ho sentito che avrei avuto pena di tutto ciò. Sì, lo dico come se lo dicessi con tutta l’attenzione: avrei sentito la mancanza di tutto ciò. Il principale Vasques, il contabile Moreira, il cassiere Borges, tutti i bravi ragazzi, il fattorino allegro che porta le lettere alle Poste, il garzone, il gatto affettuoso – tutto questo è diventato parte della mia vita; non potrei lasciare tutto questo senza piangere, senza comprendere che, per quanto brutto mi sembrasse, una parte di me rimaneva con loro tutti, e che separarmi da loro era come dimezzarmi: cosa simile alla morte. Tra l’altro, se domani mi separassi da tutti loro e svestissi questi abiti da Rua dos Douradores, a quale altra cosa mi avvicinerei – perché ad un’altra cosa dovrei pur avvicinarmi? Quale altro abito indosserei – perché un altro ne dovrei pur vestire? Tutti abbiamo un principale Vasques, per alcuni visibile, per altri invisibile. Il mio si chiama davvero Vasques, ed è uomo robusto, gradevole, a volte brusco ma non di cattivo carattere, interessato ma in fondo giusto, con un senso di giustizia che manca a molti grandi geni e a molte delle meraviglie della civiltà, di destra e di sinistra. Altri saranno mossi dalla vanità, dall’ansia di maggiore ricchezza, dalla gloria, dall’immortalità… Preferisco l’uomo Vasques, mio principale, che è più trattabile, nei momenti difficili, di tutti i principali astratti del mondo. L’altro giorno un amico, socio di una ditta prospera grazie a buoni affari con lo Stato, considerando che guadagnavo poco mi ha detto: «Soares, lei è sfruttato», e mi ha fatto riflettere e capire che veramente lo sono. Ma siccome nella vita tutti dobbiamo essere sfruttati, mi domando se non sarà meglio essere sfruttato da un qualche Vasques, commerciante di stoffe, che dalla vanità, dalla gloria, dal risentimento, dall’invidia o dall’impossibile. C’è chi è sfruttato dallo stesso Dio, e sono i profeti e i santi nella vacuità del mondo. E rientro, come gli altri al loro focolare domestico, nella casa altrui, all’ufficio ampio, di Rua dos Douradores. Mi accomodo alla mia scrivania come ad un baluardo contro la vita. Provo tenerezza, tenerezza fino alle lacrime, per i miei libri di altri nei quali registro le scritture della contabilità, per il vecchio calamaio in mio uso, per le spalle curve di Sergio, che compila bolle d’accompagnamento poco più in là di me. Ho amore per tutto questo, forse perché non ho più niente da amare – o forse, anche, perché niente vale l’amore di un’anima e, se dobbiamo darlo per sentimento, tanto vale darlo alla piccola forma del mio calamaio come alla grande indifferenza delle stelle.

7.

Il principale Vasques. Provo, molte volte inspiegabilmente, l’ipnosi del principale Vasques. Cosa è per me quest’uomo, oltre che l’ostacolo occasionale di essere padrone delle mie ore, in determinate ore diurne della mia vita? Mi tratta bene, mi si rivolge con amabilità, salvo che in momenti improvvisi di ignota preoccupazione nei quali tratta tutti male. Sì, ma perché mi preoccupa? È un simbolo? Una ragione? Che cos’è? Il principale Vasques. Mi ricordo già adesso di lui con la nostalgia futura che certamente allora avrò. Me ne starò tranquillo in una casetta alla periferia di qualcosa, usufruendo di una quiete dove non porterò a termine l’opera che non porto a termine ora e, avendo continuato a non compierla, accamperò scuse diverse da quelle con le quali oggi provo a giustificarmi. Oppure sarò ricoverato in un ospizio per indigenti, serenamente incurante della completa sconfitta, mescolato a dei poveri emarginati che pure si erano ritenuti geni e non sono stati altro che dei mendicanti pieni di sogni; e alla massa anonima di coloro che non hanno avuto potere per vincere né manifestato chiara rinuncia per vincere di rovescio. Ovunque sarò, ricorderò con nostalgia il principale Vasques, l’ufficio in Rua dos Douradores, e la monotonia della vita quotidiana sarà come il rimembrare amori che per me non si sono mai concretizzati, o i trionfi che non sarebbero mai stati miei. Il principale Vasques. Lo vedo da là, oggi, proprio come lo vedo oggi da qui – statura media, robusto, un po’ rozzo, con pregi e difetti, franco e astuto, brusco e affabile – un capo, a parte il suo denaro, anche per le mani pelose e lente, con le vene marcate come piccoli muscoli colorati, il collo pieno ma non grasso, le guance colorite e allo stesso tempo lisce, sotto la barba scura sempre puntualmente fatta. Lo vedo. Vedo i suoi gesti di una lentezza energica, i suoi occhi pensosi che interiorizzano le cose reali esterne; mi provoca turbamento quando gli accade di non essere contento di me, e al contrario la mia anima si rallegra del suo sorriso, un sorriso ampio e umano, come l’applauso di una moltitudine. Forse sarà perché non ho vicino a me figure di maggior rilievo di quella del principale Vasques, il cui aspetto, comune e perfino ordinario, molte volte, si intreccia nella mia mente e mi distrae da me. Credo che ci sia una simbologia. Credo, o quasi credo, che altrove, in una vita remota, questo uomo abbia rappresentato nella mia vita qualche cosa di più importante di quello che rappresenta oggi. 8.

Ah, comprendo! Il principale Vasques è la Vita. La Vita, monotona e necessaria, pressante e sconosciuta. Questo uomo banale rappresenta la banalità della Vita. Egli è tutto per me, esternamente però, perché la Vita per me è ogni cosa esterna. E, se l’ufficio di Rua dos Douradores rappresenta la vita, questo secondo piano, dove abito, sempre in Via dos Douradores, rappresenta per me l’Arte. Sì, l’Arte che abita nella stessa via della Vita, però in un luogo diverso, l’Arte che allevia dalla vita senza alleviare dal vivere, che è tanto monotona quanto la stessa vita, ma solo in un luogo differente. Sì, questa Rua dos Douradores comprende per me tutto il senso delle cose, la soluzione di tutti gli enigmi, salvo l’esistenza degli enigmi stessi, per la qual cosa non può esserci soluzione.

9.

E io sono così, futile e sensibile, capace di impulsi violenti e coinvolgenti; buoni e cattivi; nobili e vili; ma mai di un sentimento che perduri, mai di una emozione che continui e penetri nella sostanza dell’anima. Tutto in me tende ad essere poi un’altra cosa: una impazienza dell’anima verso se stessa, come verso un bambino inopportuno; una inquietudine sempre crescente e sempre uguale. Tutto mi interessa e nulla mi prende. Seguo tutto sognando sempre; fisso le minime contrazioni del viso di colui con cui parlo, colgo le intonazioni millimetriche del suo modo di dire; ma nell’udirlo, non lo ascolto, penso ad un’altra cosa, e quello che meno ho colto della conversazione è stata la nozione di ciò che è stato detto, da parte mia o da parte di colui con cui ho parlato. Così, a volte, ripeto a qualcuno ciò che già gli ho ripetuto, gli chiedo di nuovo ciò a cui lui ha già dato una risposta; ma posso descrivere, in quattro parole fotografiche, il sembiante muscolare con cui lui ha detto ciò che non ricordo, o l’inclinazione di udire con gli occhi con cui ha recepito la narrazione che non ricordavo di avergli fatto. Io sono due, e entrambi distanti – fratelli siamesi non congiunti.

10. LITANIA

Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi – un pozzo che fissa il cielo.

11.

La miseria della mia condizione non è interrotta da queste parole messe insieme, con cui formo, a poco a poco, il mio libro casuale e meditato. Perduro nullo al fondo di ogni espressione, come una polvere indissolubile nel fondo del bicchiere da cui si è bevuta solo dell’acqua. Scrivo la mia letteratura come scrivo le mie registrazioni contabili – con attenzione e indifferenza. Di fronte al vasto cielo stellato e all’enigma di molte anime, alla notte dell’abisso incognito e al caos di non comprendere niente – di fronte a tutto questo, ciò che scrivo nella cassa ausiliare e ciò che scrivo in questo foglio dell’anima sono cose ugualmente circoscritte alla Rua dos Douradores, e molto poco ai grandi spazi milionari dell’universo. Tutto questo è sogno e fantasmagoria, e poco importa che il sogno consista in registrazioni in prosa di buona levatura. A che serve sognare principesse, piuttosto che la porta d’entrata dell’ufficio? Tutto ciò che sappiamo è una nostra impressione, e tutto quello che siamo è una impressione altrui, melodramma di noi che, sentendoci, veniamo a essere i nostri stessi spettatori attivi, nostri dèi per concessione della Camera.

12.

Sapere che sarà pessima l’opera che mai si farà. Peggiore, tuttavia, sarà quella che non si farà mai. Quella che si fa, almeno, resta fatta. Sarà povera cosa, ma almeno esiste, come la misera pianta nell’unico vaso della mia vicina zoppa. Questa pianta è la sua allegria, e forse anche la mia. Ciò che scrivo e che riconosco brutto, può anche offrire momenti di distrazione da una cosa peggiore ad un altro spirito angosciato e triste. Questo mi basta, o non mi basta, ma in qualche modo serve, e così è tutta la vita. Un tedio che include solo l’anticipazione di altro tedio; il dolore, adesso, che sentirò domani per averlo provato oggi – grandi intrichi senza utilità né verità, grandi intrichi… …dove, rannicchiato in una panca nella sala d’attesa di una stazione, il mio disprezzo dorme avvolto nel mantello del mio avvilimento… …il mondo di immagini sognate di cui si compone, ugualmente, la mia conoscenza e la mia vita… In me niente pesa o dura lo scrupolo dell’ora presente. Ho fame dell’estensione del tempo, e voglio essere io senza condizioni.

13.

Ho conquistato, palmo a palmo, il terreno interiore che era nato mio. Ho reclamato, spazio dopo spazio, il pantano in cui ero caduto nullo. Ho partorito il mio essere infinito, ma da me stesso mi sono estratto con il forcipe.

14.

Vaneggiamento tra Cascais e Lisbona. Sono stato a Cascais per pagare un tributo del principale Vasques, per una casa che possiede a Estoril. Mi sono goduto anticipatamente il piacere del viaggio, un’ora per andare e un’ora per tornare, osservando l’aspetto sempre nuovo del grande fiume e della sua foce atlantica. In verità, all’andata, mi sono perso in meditazioni astratte, vedendo senza vederli i paesaggi acquatici che pur mi rallegrava andare a vedere, e al ritorno mi sono perso nella puntualizzazione di tali sensazioni. Non sarei capace di descrivere il più piccolo particolare del viaggio, la minima parte del visibile. Sono riuscito a scrivere queste pagine, per dimenticanza e contraddizione. Non so se questo sia meglio o peggio del suo contrario, che ugualmente non so che cosa sia. Il treno rallenta; è Cais do Sodré. Sono giunto a Lisbona, ma non ad una conclusione.

15.

È forse arrivata l’ora che io faccia lo sforzo concreto di dare uno sguardo alla mia vita. Mi vedo nel mezzo di un deserto immenso. Parlo di quello che ieri letterariamente sono stato, cerco di spiegare a me stesso come sono arrivato fin qui.

16.

Affronto serenamente, senza niente di più di ciò che per l’anima rappresenta un sorriso, il fatto che la mia vita si chiuderà definitivamente in questa Rua dos Douradores, in questo ufficio, nel fare abitudinario di questa gente. Guadagnare quanto necessario per il mangiare e il bere, un posto dove abitare, e un po’ di spazio per il tempo libero per sognare, scrivere – dormire – che altro posso chiedere agli dèi o sperare dal Destino? Ho avuto grandi ambizioni e sogni sconfinati – ma questi li hanno avuti anche il garzone o la sartina, perché i sogni ce l’hanno tutti: ciò che ci differenzia è l’intensità per raggiungerli o il destino che li raggiunge per noi. In relazione ai sogni sono uguale al garzone e alla sartina. Solamente mi distingue da essi il saper scrivere. Sì, è un atto, una mia realtà che mi differenzia da loro. Nell’anima sono uguale a loro. So bene che ci sono isole al Sud e grandi passioni cosmopolite, e […] Se io avessi il mondo in mano, lo cambierei, ne sono certo, con un biglietto per Rua dos Douradores. Forse il mio destino è di essere eternamente aiuto contabile, e la poesia o la letteratura una farfalla che, posandosi sul mio capo, mi rende tanto più ridicolo quanto più è grande la sua stessa bellezza. Avrò nostalgia di Moureira, ma che è la nostalgia di fronte alle grandi ascese? So bene che il giorno in cui sarò contabile della ditta Vasques sarà uno dei grandi giorni della mia vita. Lo so con una anticipazione amara e ironica, ma lo so con il vantaggio intellettuale della certezza.

17.

Varie volte, nel corso della mia vita oppressa dalle circostanze, mi è accaduto, quando voglio liberarmi da qualche loro groviglio, di vedermi improvvisamente accerchiato da altre dello stesso ordine, come se ci fosse definitivamente una inimicizia nei miei confronti nella tela incerta delle cose. Tiro via dal collo una mano che mi soffoca. Vedo che nella mano, con la quale ho tirato via l’altra, è rimasto impigliato un laccio che mi era caduto sul collo con il gesto di liberazione. Allontano, con precauzione, il laccio, ed è con le mie stesse mani che quasi mi strangolo.

18.

Ci siano o no gli dèi, di essi siamo servi.

19.

La mia immagine, così come la vedo allo specchio, è sempre in braccio alla mia anima. Io non posso essere che curvo e debole come sono, anche nei miei pensieri. Tutto in me è di un principe di cromo incollato al vecchio album di un piccolo bambino che è sempre morto da molto tempo. Amarmi è aver pena di me. Un giorno, alla fine del futuro, qualcuno scriverà un poema su di me, e forse solo allora comincerò a regnare sul mio Regno. Dio è il nostro esistere e questo nostro non essere tutto.

20. ASSURDO

Divenire sfingi, anche se false, fino al punto di non sapere chi siamo. Perché, del resto, noi non siamo che sfingi false e non sappiamo chi siamo realmente. L’unico modo di andare d’accordo con la vita è essere in disaccordo con noi stessi. L’assurdo è il divino. Fissare teorie, pensandole pazientemente e onestamente, solo per poi agire contro di esse – agire e giustificare le nostre azioni con teorie che le condannino. Ritagliarsi un cammino nella vita, e poi agire in modo contrario per non seguire quel cammino. Avere tutti i gesti e tutte le attitudini di qualche cosa che non siamo, né pretendiamo di essere, né pretendiamo di essere considerati come se lo fossimo. Comprare libri per non leggerli; andare ai concerti ma non per sentire la musica né per vedere chi c’è; fare lunghe passeggiate perché sazi di camminare e andare a passare dei giorni in campagna solo perché la campagna ci annoia.

21.

Oggi, come se quella angustia antica che a volte trasborda stesse opprimendo le mie sensazioni corporee, ho mangiato poco e non ho bevuto come di consueto, nel ristorante, o taverna, nel cui mezzanino conferisco fondamenta alla continuazione della mia esistenza. Mentre uscivo, il cameriere, costatando che la bottiglia di vino era rimasta a metà si è voltato verso me e ha detto: «Arrivederci, signor Soares, e le auguro un pronto miglioramento». Al suono di clarino di questa frase semplice la mia anima si è calmata come se in un cielo pieno di nuvole il vento improvvisamente le allontanasse. E allora ho compreso ciò che prima non avevo mai capito bene, che fra questi camerieri di caffé e di ristorante, fra i barbieri, i facchini agli angoli delle strade, godo di una simpatia spontanea, naturale, che non posso vantare di ricevere da coloro che condividono con me una maggiore intimità. Impropriamente detta… La fraternità ha sottigliezze. Alcuni governano il mondo, altri sono il mondo. Tra il milionario americano, con conti in Inghilterra, o in Svizzera, e l’autorità socialista di un villaggio, non c’è differenza di qualità ma solo di quantità. Al di sotto di loro ci siamo noi, gli amorfi, lo sconclusionato drammaturgo William Shakespeare, il maestro di scuola John Milton, il vagabondo Dante Alighieri, il garzone che ieri mi ha fatto una commissione, o il barbiere che mi racconta barzellette, il cameriere che mi ha appena augurato amabilmente buona salute, per aver io bevuto solo metà del solito vino.

22.

È, senza rimedio, una oleografia. La fisso senza sapere se la vedo. Alla vetrina ve ne sono altre, oltre quella. Si trova al centro della vetrina nel punto in cui mi nasconde il vano-scala. Lei stringe la primavera al seno e mi fissa con occhi tristi. Sorride con il luccichio della carta stampata e le sue guance sono color porpora. Il cielo dietro di lei ha il colore azzurro chiaro di un tessuto. Ha una bocca disegnata e quasi piccola e, al di sopra di un’espressione da cartolina illustrata, mi fissa sempre con grande tristezza. Il braccio che regge i fiori mi ricorda quello di qualcuno. Il vestito o blusa si apre con una scollatura bordata. Gli occhi sono davvero tristi: mi fissano dal fondo della realtà litografica con una qualche verità. È giunta con la primavera. I suoi occhi tristi sono grandi, ma il motivo della loro tristezza non è questo. Mi scosto dalla vetrina facendo una grande forza sulle gambe. Attraverso la strada e mi rigiro con una ribellione impotente. Ella sorregge ancora la primavera che le hanno dato e i suoi occhi sono tristi come tutto ciò che io non ho nella vita. Osservata in lontananza, l’oleografia mostra in fondo molti più colori. La figura ha un nastro di un rosa acceso che le contorna la chioma dei capelli: non lo avevo notato. Vi è nei suoi occhi umani, seppure in litografia, qualcosa di terribile: il segno inevitabile della coscienza, il grido clandestino della presenza dell’anima. Con un grande sforzo mi ergo dal sonno in cui sono immerso e scuoto, come un cane, l’umidità della tenebra di bruma. E sopra il mio vagare solitario, in un commiato da un’altra cosa qualsiasi, gli occhi tristi della vita tutta, di questa oleografia metafisica che contempliamo a distanza, mi fissano come se io sapessi di Dio. La stampa ha un calendario alla base. È incorniciata sopra e sotto con due listelli neri appena convessi e malamente dipinti. Tra l’alto e il basso dei suoi margini, sopra il 1929 con vignetta calligraficamente obsoleta che copre l’inevitabile primo gennaio, gli occhi tristi mi sorridono ironicamente. È curioso, poi, dove avevo già notato quella figura. Nel mio ufficio, nell’angolo di fondo, c’è un calendario identico, che ho visto tante volte. Ma per un mistero, oleografico o mio, la figura identica dell’ufficio non ha gli occhi tristi. È solo un’oleografia. (È di carta lucida e dorme, sopra la testa di Alves il mancino, il suo vivere incolore). Ho voglia di sorridere di tutto questo, ma provo un grande malessere. Sento un freddo di improvvisa malattia nell’anima. Non ho la forza di ribellarmi a tutta questa assurdità. A quale finestra, a quale segreto di Dio io mi accosterei senza volerlo? Su cosa dà la vetrina del vano-scala? Quali occhi mi fissavano nell’oleografia? Sto quasi tremando. Sollevo involontariamente gli occhi verso l’angolo distante dell’ufficio dove si trova la vera oleografia. Alzo costantemente gli occhi verso quella direzione.

23.

Dare ad ogni emozione una personalità, ad ogni stato d’animo un’anima. Avevano fatto la curva del tragitto ed erano molte ragazze. Lungo la strada cantavano e il suono delle loro voci era felice. Non so se loro lo fossero. Le ho ascoltate per un po’ in lontananza, senza un sentimento specifico. Mi sono sentito stringere il cuore per loro. Per il loro futuro? Per la loro incoscienza? Non direttamente per loro – o, chissà? Forse solo per me.

24.

La letteratura, che è arte coniugata al pensiero e realizzazione senza macchia della realtà, mi sembra che sia il fine cui dovrebbe tendere ogni sforzo umano, se fosse veramente umano, e non il superfluo della parte animale. Credo che nominare una cosa è conservarle il pieno valore e spogliarla del suo aspetto terrifico. I campi sono più verdi quando si descrivono che nel loro reale colore verde. I fiori, se saranno descritti con frasi che li definiscano sull’aria dell’immaginazione, avrebbero colori talmente persistenti, da essere introvabili nella vita naturale delle cellule. Muoversi è vivere, dirsi è sopravvivere. Non c’è niente di reale nella vita se non ciò che si è descritto bene. I critici della casa dalle ristrette vedute sono soliti sottolineare che la tal poesia, lungamente ritmata, in fondo, non vuol dire altro che il giorno è bello. Ma dire che il giorno è bello è difficile, e il giorno bello, perfino esso, passa. Dobbiamo, quindi, conservare il giorno bello in una memoria fiorita e prolissa, come anche costellare di nuovi fiori o di nuovi astri i campi o i cieli dell’esteriorità vuota e passeggera. Tutto è ciò che siamo, e tutto sarà, per coloro che ci seguiranno nella diversità del tempo, a seconda di come noi lo avremo immaginato, ossia, a seconda di come saremo veramente stati, con l’immaginazione inserita nel corpo. Non credo che la storia, nel suo grande panorama sbiadito, sia niente di più di un decorso di interpretazioni, un consenso confuso di testimonianze distratte. Il romanziere è noi tutti, e narriamo quando vediamo, perché vedere è complesso come tutto. Ho in questo momento tanti pensieri fondamentali, tante cose veramente metafisiche da dire, che mi stanco repentinamente e decido di non scrivere più, di non pensare più, ma di lasciare che la febbre di dire mi faccia venire sonno, e faccia festa con gli occhi chiusi, come si fa festa a un gatto, a tutto quanto avrei potuto dire.

25.

Un alito di musica o di sogno, qualche cosa che faccia quasi sentire, qualche cosa che faccia non pensare.

26.

Dopo che le ultime gocce di pioggia hanno cominciato ad attardarsi lungo il declivio dei tetti, e nel centro lastricato della strada l’azzurro del cielo ha lentamente cominciato a rispecchiarsi, il rumore dei veicoli ha assunto un altro canto, più alto e allegro, e si è udito il dischiudersi di finestre incontro al sole che riappariva. Allora, là in fondo, lungo la via stretta, vicino all’angolo della strada, si è sentito irrompere il richiamo alto del primo venditore di biglietti della lotteria, e i chiodi infilati nelle casse della bottega di fronte hanno cominciato a riverberare nello spazio chiaro. Era un incerto giorno festivo, legale ma di scarsa osservanza. C’era riposo e lavoro allo stesso tempo, e io non avevo niente da fare. Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere. Passeggiavo da un lato all’altro della stanza, tutto immerso in sogni senza nesso e possibilità – gesti che avevo dimenticato di fare, ambizioni impossibili realizzate senza una direttrice, conversazioni ferme e continue che, se fossero avvenute, sarebbero state. E in questo vaneggiare privo di grandezza e di calma, in questo attardarmi senza speranza e fine, consumavo sui miei passi la mattinata libera e le mie parole alte, dette a bassa voce, risuonavano multiple nel chiostro del mio semplice isolamento. La mia figura umana, se la esaminavo dall’esterno con attenzione, mi appariva ridicola come è ridicola ogni cosa umana nell’intimità. Avevo indossato, sopra gli indumenti semplici del sonno finito, un vecchio cappotto, che mi torna utile in queste veglie mattutine. Le mie vecchie pantofole erano rotte, soprattutto quella del piede sinistro. E, con le mani nelle tasche del paltò postumo, percorrevo il viale della mia stanza corta a passi lunghi e decisi, compiendo con inutile vaneggiare un sogno uguale a quello di ogni persona. Attraverso il fresco aperto della mia unica finestra, si udivano ancora cadere dai tetti le grosse gocce, accumulatesi per la pioggia passata. Ancora, vago, si avvertiva il fresco della pioggia avvenuta. Il cielo, però, era di un azzurro ammaliante, e le nuvole che restavano della pioggia vinta o stanca cedevano, ritirandosi al di sopra dei lati del castello, legittimamente il passo del cielo tutto. Era l’occasione per essere allegro. Ma mi pesava un qualcosa, un’ansia sconosciuta, un desiderio indefinito, neanche ordinario. Rallentava, forse, la sensazione di essere vivo. E quando mi sono affacciato alla finestra altissima, sulla via che ho guardato senza vederla, mi sono sentito improvvisamente uno di quegli stracci umidi utilizzati per pulire le cose sporche, e che si appendono alla finestra ad asciugare, ma che si dimenticano, attorcigliati, sul parapetto che macchiano lentamente.

27.

Riconosco, non so se con tristezza, l’aridità umana del mio cuore. Vale di più per me un aggettivo di un reale pianto dell’anima. Il mio maestro Vieira2 […] Ma a volte sono diverso, e ho lacrime, quelle calde lacrime di coloro che non hanno, né hanno mai avuto, una madre; e i miei occhi che ardono di tali lacrime morte ardono dentro al mio cuore. Non mi ricordo di mia madre. È morta che avevo un anno. Tutto ciò che c’è di disperso e duro nella mia sensibilità viene dall’assenza di questo calore e dalla nostalgia inutile dei baci che non ricordo. Sono posticcio. Mi sono sempre svegliato al seno altrui, coccolato per errore. Ah! È la nostalgia dell’altro che io avrei potuto essere che mi smarrisce e spaventa! Chi altri sarei io, se mi avessero dato quella tenerezza che, partendo dal grembo, giunge a ricoprire di baci il viso del bambino? Forse la nostalgia di non essere figlio ha un grande rilievo nella mia indifferenza sentimentale! Chi, nell’infanzia, mi ha cinto al proprio viso non mi poteva cingere al cuore. Lei era lontana, in una bara – lei che mi sarebbe appartenuta, se il Destino avesse voluto che mi appartenesse. Mi hanno detto, più tardi, che mia madre era bella, e dicono che, quando me lo hanno detto, non ho detto niente. Ero già maturo di corpo e di anima, ignorante di emozioni, e il loro parlare ancora non era una notizia di altre pagine difficili da immaginare. Mio padre, che viveva lontano, si è ucciso quando avevo tre anni e non l’ho mai conosciuto. Non so ancora perché vivesse lontano. Non mi è mai importato saperlo. Ricordo la notizia della sua morte come momenti di grande serietà a tavola (mentre mangiavo) le prime volte dopo che si era saputo. Guardavano, ricordo, di tanto in tanto verso di me. E io contraccambiavo lo sguardo, comprendendo stupidamente. Poi mangiavo più correttamente, pensando, senza vederli, che continuassero a guardarmi. Io sono tutte queste cose, sebbene non lo voglia, nel fondo confuso della mia sensibilità fatale.

28.

L’orologio che è là dietro, nella casa deserta, perché tutti dormono, lascia cadere lentamente il chiaro quadruplo rintocco delle quattro del mattino. Non sono ancora riuscito a dormire, né spero di riuscirci. Senza che nulla trattenga la mia attenzione, da non farmi dormire, o mi pesi nel corpo, da non darmi quiete, giaccio – il silenzio spento del mio corpo estraneo – nell’ombra, che il vago chiarore dei lampioni in strada rende ancora solitaria. Per il sonno che ho, non so pensare; né so sentire, per il sonno che non riesco ad avere. Tutto, intorno a me, è nudo astratto universo, fatto di negazioni notturne. Sono diviso tra stanchezza e inquietudine, e giungo a toccare con la sensazione del corpo una conoscenza metafisica del mistero delle cose. A volte mi si fa molle l’anima e allora i particolari informi della vita quotidiana mi fluttuano sulla superficie della coscienza, e faccio registrazioni contabili a galla della mia insonnia. Altre volte, mi desto dal pieno dormiveglia in cui ho ristagnato e immagini vaghe, di una tonalità poetica e involontaria, fanno scorrere sulla mia disattenzione il loro silente spettacolo. Non ho gli occhi completamente chiusi. Mi cinge la vista indebolita una luce che giunge da lontano; sono i lampioni pubblici accesi là sotto, sul ciglio deserto della strada. Cessare, dormire, sostituire questa coscienza intermittente con migliori cose melanconiche sussurrate in segreto a chi non mi conoscesse!... Cessare, passare fluido e liquido, flusso e riflusso di un vasto mare, su coste visibili nella notte in cui veramente si dormisse!... Cessare, essere incognito ed esterno, movimento di rami in viali lontani, tenue cadere di foglie, avvertito più per il suono che per la caduta, alto mare sottile con zampilli in lontananza, e tutto l’indefinito dei parchi nella notte, perduti in grovigli continui, labirinti naturali della tenebra!... Cessare, finalmente finire, ma in una sopravvivenza traslata, essere la pagina di un libro, la treccia di capelli sciolti, l’ondulare del rampicante vicino alla finestra socchiusa, i passi senza importanza sulla ghiaia fina alla curva della strada, l’ultimo fumo alto del paesino che si addormenta, la frusta dimenticata del cocchiere sul ciglio mattutino del cammino… L’assurdo, la confusione, lo spegnimento – tutto fuorché la vita… E dormo, alla mia maniera, senza sonno né riposo, questa vita vegetativa della supposizione, e sotto le mie palpebre inquiete si alza, come la schiuma quieta di un mare sporco, il riflesso lontano dei lampioni muti della via. Dormo e non dormo. Dall’altro lato di me, là dietro al luogo dove giaccio, il silenzio della casa raggiunge l’infinito. Odo cadere il tempo, goccia a goccia, e nessuna goccia che cade si sente cadere. Il cuore fisico mi opprime fisicamente la memoria, perduta nel nulla, di tutto quanto è stato o sono stato. Sento la testa materialmente posata sul cuscino su cui la tengo incavandolo. Il tessuto della fodera ha con la mia pelle un contatto di gente nell’ombra. Lo stesso orecchio, sul quale mi appoggio, mi si imprime matematicamente contro il cervello. Batto le palpebre dalla stanchezza, e le mie ciglia emettono un suono piccolissimo, inudibile, contro il biancore sensibile del cuscino alto. Respiro, sospirando, e la mia respirazione avviene – non è mia. Soffro senza sentire e pensare. L’orologio della casa, sicuramente là al fondo delle cose, suona la mezz’ora secca e nulla. Tutto è tanto, tutto è tanto fondo, tutto è tanto nero e tanto freddo! Passo tempi, passo silenzi; mondi senza forma mi passano accanto. Improvvisamente, come un bambino del Mistero, un gallo canta senza sapere della notte. Posso dormire, perché è mattina in me. E sento la mia bocca sorridere, premendo leggermente le pieghe morbide della federa che mi copre il volto. Posso lasciarmi vivere, posso dormire, posso ignorarmi… E, ad opera del nuovo sonno appena giunto che mi oscura, mi affiora alla memoria il gallo che ha cantato, o per davvero è quel gallo che sta cantando per la seconda volta.

29. SINFONIA DI UNA NOTTE INQUIETA

Dormiva ogni cosa come se l’universo fosse un errore; e il vento, fluttuando incerto, era una bandiera informe spiegata su una caserma inesistente. Non si lacerava nulla nell’aria pungente e fredda, e i telai delle finestre facevano vibrare i vetri in modo che si sentisse l’estremità. Al fondo di tutto, silente, la notte era la tomba di Dio (l’anima soffriva per la pena di Dio). E, d’improvviso, – un nuovo ordine delle cose universali agiva sulla città –, il vento fischiava nell’intervallo del vento, e c’era in quel tempo una nozione addormentata di molte agitazioni. Poi la notte si richiudeva come una botola, e una immensa quiete faceva venire voglia di aver dormito.

30.

Nei primi giorni dell’autunno improvvisamente entrato, quando l’imbrunire assume l’evidenza di un qualche fatto prematuro, e sembra che ci siamo attardati molto nelle incombenze della giornata, mi arreca piacere, anche in mezzo alle quotidiane occupazioni, questo anticipo di cessazione del lavoro che la stessa ombra trae con sé: perché è notte e la notte è sonno, calore domestico, liberazione. Quando si accendono le luci nell’ampio ufficio che acquista luminosità e, pur senza aver smesso di lavorare durante il giorno, ci accingiamo a far tardi, sento un conforto assurdo come un ricordo di un altro, e sono tranquillo di quello che scrivo come se stessi leggendo per prendere sonno. Siamo tutti schiavi di circostanze esterne: una giornata di sole ci apre ampi spazi nel modesto caffé di una viuzza; un’ombra in campagna ci fa ripiegare interiormente, e ci rifugiamo a malapena nella casa senza porte di noi stessi; un sopraggiungere della notte, persino tra incombenze diurne, allarga, come un ventaglio [che] lentamente si apra, l’intima coscienza di doversi riposare. Tuttavia il lavoro non resta indietro: si anima. Non lavoriamo più; ci riposiamo con la materia stessa cui siamo condannati. E, improvvisamente, sul foglio ampio e rigato del mio destino di contabile, la vecchia casa delle anziane zie, accoglie, chiusa al mondo, il tè delle sonnolenti ore dieci, e la lampada a petrolio della mia infanzia perduta, che brilla soltanto sulla tovaglia di lino, mi oscura con la sua luce la vista di Moreira, illuminato da una elettricità nera, infiniti distanti da me. Portano il tè – è la domestica più vecchia delle zie che lo porta con i resti del sonno e il cattivo umore paziente della tenerezza della vecchia servitù – e io scrivo senza sbagliare un conto o una somma attraverso tutto il mio passato morto. Mi riconcentro su di me, mi perdo in me, mi dimentico in notti lontane, pure di dovere e di mondo, vergini di mistero e di futuro. Ed è così dolce la sensazione che mi estrania dal debito e dal credito che, se per caso mi si rivolge una domanda, rispondo soavemente, come se avessi il mio essere vuoto, come se non fossi altro che la macchina per scrivere che porto con me, portatile di me stesso aperto. Non mi infastidisce l’interruzione dei miei sogni: sono così piacevoli che continuo a sognarli, parlando, scrivendo, rispondendo, perfino conversando. E nel mezzo di tutto questo, il tè perduto finisce, e l’ufficio chiuderà… Sollevo dal libro, che chiudo lentamente, gli occhi stanchi per il pianto che non hanno avuto e, in un miscuglio di sensazioni, temo che nel chiudere l’ufficio mi si chiuda anche il sogno; che nel gesto della mano con cui chiudo il libro si richiuda irreparabilmente il passato; che vada al letto della vita senza sonno, senza compagnia né quiete, nel flusso e riflusso della mia coscienza confusa, come due maree mescolate nella notte nera, alla fine dei cammini della nostalgia e della desolazione.

31.

Talvolta penso che non lascerò mai Rua dos Douradores. E allora, scrivere questo, mi sembra una cosa eterna. Non il piacere, non la gloria, non il potere: la libertà, unicamente la libertà. Passare dai fantasmi della fede agli spettri della ragione è solamente un cambiare di cella. L’arte, se ci libera dai feticci assenti e astratti, ci libera anche dalle idee generose e dalle preoccupazioni sociali – ugualmente feticci. Incontrare la personalità nel perderla – la fede stessa conferma questo senso di destino.

32.

…e un profondo e annoiato sprezzo per tutti coloro che lavorano per l’umanità, per tutti coloro che si battono per la patria e danno la loro vita perché la civiltà progredisca… …uno sprezzo pieno di noia per loro, che ignorano che l’unica realtà per ognuno è la propria anima, e che il resto – il mondo esteriore e gli altri – sono un incubo antiestetico, come, nei sogni, la conseguenza di una indigestione di spirito. La mia avversione per lo sforzo monta fino all’orrore quasi gesticolante davanti ad ogni forma di sforzo violento. E la guerra, il lavoro produttivo ed energico, il sostegno agli altri… tutto ciò non mi sembra altro che il prodotto di una impudicizia, […] E, di fronte alla realtà suprema della mia anima, tutto ciò che è utile ed esteriore mi sa di frivolo e di triviale in relazione alla sovrana e pura grandezza dei miei più originali e ricorrenti sogni. Per me, questi sono più reali.

33.

Non sono le modeste pareti della mia normalissima stanza, né le vecchie scrivanie dell’ufficio altrui, né la miseria delle vie intermedie dell’abituale Baixa3, tante volte da me percorse che mi sembrano aver usurpato la fissità dell’irreparabile, a generare nel mio spirito la nausea, in esso frequente, della quotidianità volgare della vita. Sono le persone che abitualmente mi circondano, sono le anime che, non sapendo niente di me, ogni giorno mi conoscono per convivenza e conversazione e mi pongono nella gola dello spirito il nodo salivare del disgusto fisico. È la sordidezza monotona della loro vita, parallela all’esteriorità della mia, è la loro intima coscienza di essere miei simili, che mi fa indossare l’abito da forzato, che mi assegna la cella da recluso, che mi rende apocrifo e mendico. Ci sono momenti in cui ogni particolare delle cose comuni e banali mi interessa nella sua stessa esistenza ed io provo per tutto questo l’affetto di saper leggere ogni cosa chiaramente. E allora vedo – come Vieira ha detto che Sousa4 descriveva – il banale con singolarità, e sono poeta con lo stesso spirito con cui l’arte poetica dei greci avviò l’età intellettuale della poesia. Ma ci sono anche momenti, e uno di essi è questo che mi opprime ora, in cui sento me stesso più delle cose esterne, e tutto si muta in una notte di pioggia e fango, perduto nella solitudine di una fermata di scambio, tra due treni di terza classe. Sì, la mia intima virtù di essere frequentemente obiettivo, e così di smarrirmi dal pensarmi, soffre, come ogni virtù, e perfino come ogni vizio, di cali di affermazione. Allora mi chiedo com’è che sopravvivo a me stesso, com’è che oso avere la viltà di stare qui, tra questa gente, in questa perfetta uguaglianza con essa, in questa conformità vera con l’illusione da immondizia di tutti loro? Mi si presentano, con un chiarore da faro lontano, tutte le soluzioni che l’immaginazione può trovare – il suicidio, la fuga, la rinuncia, i grandi gesti aristocratici dell’individualità, la cappa e spada delle esistenze senza balcone. Ma la Giulietta ideale della realtà migliore ha chiuso al Romeo fittizio del mio sangue la finestra alta dell’appuntamento letterario. Lei ubbidisce al padre; lui ubbidisce al proprio padre. Continua la lotta dei Montecchi e Capuleti; cala il sipario su ciò che non è stato; e io rientro in casa – in quella stanza dove si trova la sordida padrona di casa che non è là, i figli che raramente vedo, le persone dell’ufficio che vedrò solo domattina – con il bavero della giacca da impiegato di concetto rialzato senza stranezze sul collo di un poeta, con gli stivali comprati sempre nello stesso negozio, che evitano incoscientemente le pozzanghere della pioggia fredda e, allo stesso tempo, un po’ preoccupato per essermi dimenticato, come sempre, dell’ombrello e della dignità dell’anima.

34.

Cosa buttata in un angolo, straccio caduto in strada: in tal modo il mio ignobile essere si finge di fronte la vita.

35.

Invidio tutte le persone per non essere me. Come tutte le cose impossibili, questa mi è sempre parsa la maggiore di tutte, è quella che maggiormente si è costituita in mia ansia quotidiana, in mia disperazione di tutte le ansie tristi. Un raggio smorto di sole fosco ha bruciato nei miei occhi la sensazione fisica di guardare. Un calore giallo si è fermato sul verde scuro degli alberi. Il torpore […]

36.

D’improvviso, come se un destino chirurgo mi avesse operato di una vecchia cecità con immediati grandi risultati, sollevo il capo, della mia anonima vita, verso la conoscenza nitida di come esisto. E vedo che tutto ciò che ho fatto, tutto ciò che ho pensato, tutto ciò che sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi meraviglio di non essere riuscito a vederlo. Mi stupisco di quello che sono stato, vedendo che alla fine non sono. Guardo, come in una distesa al sole che irrompe fra le nuvole, la mia vita passata; e noto, con uno spasimo metafisico, che tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare, e i miei propositi più logici, in fondo, non sono stati che una ubriacatura innata, una follia naturale, una immensa ignoranza. Non mi sono neppure recitato. Sono stato recitato. Sono stato, non l’attore, ma i suoi gesti. Tutto quello che sono stato, che ho fatto, che ho pensato, è una somma di subordinate, o una entità falsa che ho ritenuta mia, perché ho agito da essa verso l’esterno, al peso di circostanze che ho scambiato con l’aria che respiravo. Sono, in questo momento in cui mi sto vedendo, un improvviso solitario, che si ritrova esiliato nel luogo in cui si è sentito sempre cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io. Sono assalito, allora, dal panico sarcastico della vita, una sfiducia che oltrepassa i confini della mia individualità cosciente. So che sono stato errore e sviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito solamente perché ho riempito il tempo con coscienza e riflessione. E la sensazione che ho di me è quella di colui che si desta dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di colui che viene liberato, a causa di un terremoto, da un carcere semibuio a cui si era abituato. Mi pesa, realmente mi pesa, come una condanna a conoscere, questa nozione repentina della mia vera identità, di questa che ha sempre viaggiato sonnolenta tra ciò che sente e ciò che vede. È davvero difficile descrivere cosa si provi quando si sente che realmente si esiste, e che l’anima è una entità reale, da non sapere quali siano le parole umane con cui io la possa definire. Non so se ho la febbre, come sento, se ho smesso di avere la febbre, di essere un dormiglione della vita. Sì, ripeto, sono come un viaggiatore che all’improvviso si ritrovi in una cittadina estranea senza sapere come ci è arrivato; e mi viene da pensare ai casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo – dalla nascita e dalla coscienza –, e mi desto ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, con la consapevolezza che esisto più fermamente di ciò che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza cura. Aspetto affacciato al ponte, che mi passi la verità, e io mi ricostituisca nullo e fittizio, intelligente e naturale. È stato un momento, e già è passato. Vedo ora i mobili che ho attorno, i disegni sul vecchio rivestimento di carta delle pareti, il sole che filtra dalle vetrate impolverate. Ho visto la verità per un momento. Sono stato per un momento, con piena coscienza, quello che i grandi uomini sono verso la vita. Ne ricordo gli atti e le parole, e non so se non sono stati anch’essi tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé è vivere. Sapere poco di sé è pensare. Sapere di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, è avere in un attimo la nozione della monade intima, della parola magica dell’anima. Ma questa luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi persino di noi stessi. È stato solo un momento, e mi sono visto. Ma ora non so neppure dire cosa sia stato. E, alla fine, ho sonno, perché, non so perché, penso che il senso è dormire.

37.

Mi sento a volte preso, non so perché, da un preavviso di morte… un malessere indefinito, che non si materializza in dolore e per questo tende a spiritualizzarsi in un fine, cioè, una stanchezza che richiede un sonno così profondo che il dormire non gli basta – certo è che sento come se, sfinito per la malattia, alla fine aprissi privo di forze e di rimpianti le deboli mani sulla coltre rimboccata. Rifletto, allora, su questa cosa che chiamiamo morte. Non voglio dire il mistero della morte, che non riesco a penetrare, ma la sensazione fisica di cessare di vivere. L’umanità ha paura della morte, ma in modo indefinito; l’uomo normale si batte bene nella prova, l’uomo normale, malato o vecchio, raramente guarda con orrore l’abisso del nulla che egli attribuisce a questo stesso abisso. Tutto ciò è mancanza di immaginazione. Non c’è niente di più errato del ritenere la morte simile al sonno. Perché dovrebbe esserlo se la morte non assomiglia al sonno? L’essenza del sonno è il destarsi da esso, ma dalla morte – suppongo – non ci si desta. E se la morte somiglia al sonno, dovremo avere la nozione che ci si desti da essa. Tuttavia, non è questo ciò che l’uomo normale si figura: si figura per sé la morte come un sonno dal quale non ci si risveglia, il che non vuole dire niente. La morte, l’ho detto, non somiglia al sonno, poiché nel sonno si è vivi e dormienti; non so come si possa ritenere la morte simile a qualche cosa, se non si ha esperienza di essa, o non si ha una cosa cui raffrontarla. A me, quando vedo un morto, la morte sembra una partenza. Il cadavere mi dà l’impressione di un abito abbandonato. Qualcuno se ne è andato e non ha avuto bisogno di portare con sé quell’unico abito che indossava.

38.

Il silenzio che proviene dal rumore della pioggia si diffonde, in un crescendo di grigia monotonia, nella via stretta che sto fissando. Sto dormendo, sveglio, in piedi contro il vetro, su cui mi appoggio come se fosse tutto. Mi chiedo che sensazioni sono quelle che provo alla vista di questo cadere livido di pioggia opacamente luminosa che [si] evidenzia sulle facciate sporche e, ancor più, sulle finestre aperte. E non so cosa sento, non so cosa voglio sentire, non so cosa penso né cosa sono. Tutta l’amarezza ritardata della mia vita sveste, ai miei occhi senza sensazione, l’abito di allegria naturale di cui fa uso nelle evenienze prolungate di ogni giorno. Noto che, pur tante volte allegro, tante volte contento, sono sempre triste. E ciò che in me verifica questo è dietro di me, come se si sporgesse sul mio appoggiarmi alla finestra, e osserva da sopra le mie spalle, o persino da sopra la testa, con occhi più intimi dei miei, la pioggia lenta, ormai un po’ ondulata, che filigrana di movimento l’aria grigia e uggiosa. Abbandonare tutti i doveri, anche quelli che non ci toccano, ripudiare tutti i focolari domestici, anche quelli che non sono mai stati nostri, vivere di indeterminatezza e di tracce, tra grandi porpore di follia, merletti falsi di maestà sognate… Essere qualche cosa che non senta l’uggia della pioggia esterna, né l’amarezza della vacuità intima… Vagare senza anima e pensiero, sensazione priva di se stessa, per strade che contornano montagne, per valli nascoste fra pendii impervi, lontano, immerso e fatale… Perdersi in paesaggi come quadri. Non essere costituito di lontananza e colori… Un soffio lieve di vento, che dietro la finestra non sento, squarcia in dislivelli aerei la caduta rettilinea della pioggia. Si rischiara una parte del cielo che non vedo. Lo noto perché, dietro i vetri sporchi della finestra di fronte, già scorgo là dentro seppure vagamente il calendario alla parete, che finora non vedevo. Dimentico. Non vedo, non penso. Cessa la pioggia, e di essa resta, per un momento, un pulviscolo di diamanti piccolissimi, come se, in alto, qualcosa come una grande tovaglia si scuotesse azzurramene da queste briciole. Si sente che parte del cielo si è già aperta. Si vede, attraverso la finestra di fronte, più nitidamente il calendario. Ha un volto di donna, e il resto è facile perché lo riconosco, e la pasta dentifricia è la più conosciuta di tutte. Ma a cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare? Non lo so. Alla volontà? Allo sforzo? Alla vita? Per il fatto che la luce sia notevolmente aumentata si sente che il cielo è già quasi tutto azzurro. Ma non c’è quiete – ah, né ci sarà mai! – in fondo al mio cuore, pozzo vecchio al confine del podere venduto, memoria di infanzia chiusa nella soffitta polverosa della casa altrui. Non c’è quiete – e, povero me! Neppure c’è desiderio di averla…

39.

Non la intendo se non come una specie di mancanza di pulizia personale questa inerte permanenza della mia vita, sempre uguale, in cui giaccio, restata come polvere o sporcizia su una superficie del mai mutare. Così, come laviamo il corpo dovremmo lavare il destino, cambiare vita come cambiamo biancheria – non per preservarla, come quando mangiamo e dormiamo, ma per quel rispetto altrui per noi stessi, che propriamente chiamiamo pulizia. In molti la mancanza di pulizia non è una disposizione della volontà, ma un’alzata di spalle dell’intelligenza. In molti, poi, l’insignificanza e la piattezza della vita non sono una forma di scelta, o una naturale conformazione al non voluto, ma uno spegnimento dell’intelligenza di se stessi, una ironia automatica della conoscenza. Vi sono persone sporche che provano repulsione per la propria sporcizia, ma non ne rifuggono, proprio per quel sentimento estremo, a causa del quale l’uomo spaventato non si allontana dal pericolo. Vi sono persone sporche di destino, come me, che non si allontanano dalla banalità del quotidiano per quella sorta di attrazione per la propria impotenza. Sono uccelli ammaliati dall’assenza del serpente; mosche che si posano su tronchi senza vedere niente, finché non arrivano alla portata della lingua vischiosa del camaleonte. Così porto a spasso lentamente la mia incoscienza cosciente, sul mio tronco di albero dell’usuale. Così porto a spasso il mio destino che procede in avanti, poiché io non procedo; il mio tempo che scorre, senza che io scorra. Né altro mi salva dalla monotonia se non questi brevi appunti che redigo su di essa. Mi accontento che la mia cella abbia vetri all’inferiate, e scrivo sui vetri, sulla polvere del necessario, il mio nome in lettere maiuscole, firma quotidiana del mio patto scritto con la morte. Con la morte? No, non con la morte. Chi vive come me non muore: finisce, marcisce, cessa di vegetare. Il luogo dove è vissuto rimane, anche senza di lui, la strada dove camminava rimane, anche senza che lui vi sia più visto, la casa dove abitava è occupata da un altro che non è lui. È tutto, e lo chiamiamo nulla; ma neppure questa tragedia della negazione possiamo rappresentarla tra gli applausi, perché non sappiamo con certezza se è nulla, vegetali della verità come della vita, polvere che si è posata all’esterno e all’interno dei vetri, nipoti del Destino e figliastri di Dio, che si è sposato con la Notte Eterna quando lei è rimasta vedova del Caos che ci ha generati. Partire da Rua dos Douradores verso l’Impossibile… Alzarmi dalla scrivania verso l’Ignoto… Ma questo intersecato con la Ragione – il Grande Libro che dice che siamo stati.

40.

Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del mondo, un non poter respirare con l’anima. Allora – come se il vento si abbattesse su di esse, come su delle nuvole – tutte le idee in cui abbiamo sentito la vita, tutte le ambizioni e i disegni su cui abbiamo fondato la speranza del nostro domani, si squarciano, si aprono, si allontanano, divenute ceneri di nebbia, stracci di ciò che non è stato ne avrebbe potuto essere. E dietro la sconfitta sorge, pura, nera e implacabile del cielo deserto e stellato. Il mistero della vita ci fa soffrire e ci spaventa in molti modi. A volte arriva su di noi come un fantasma informe, e l’anima trema per la peggiore delle paure – quella dell’incarnazione mostruosa del non essere. Talora è dietro noi, visibile soltanto quando non ci voltiamo per vederlo, ed è la verità tutta nel suo profondissimo orrore di non conoscerla. Ma questo orrore che oggi mi annichilisce è meno nobile e più bruciante. È la volontà di non voler pensare, un desiderio di non essere mai stato niente, una disperazione cosciente di tutte le cellule del corpo e dell’anima. È un sentimento improvviso di sentirsi rinchiuso in una cella infinita. Dove pensare di fuggire, se soltanto la cella è tutto? E allora mi assale il desiderio traboccante, assurdo, di una specie di satanismo che ha preceduto Satana, da cui un giorno – un giorno senza tempo e senza sostanza – si trovi un modo di fuggire da Dio, e che il più profondo di noi smetta, non saprei dire come, di far parte dell’essere o del non essere.

41.

Esiste una sonnolenza dell’attenzione volontaria, che non so spiegare, e che frequentemente mi assale se, di una cosa così sfumata, si possa dire che assalga qualcuno. Cammino per strada come se stessi seduto, e la mia attenzione, vigile su tutto, ha tuttavia l’inerzia di un corpo in assoluto riposo. Non sarei capace di evitare un passante che provenga in senso opposto a me. Non sarei capace di rispondere con le parole, o se si vuole, interiormente, con i pensieri, a una domanda di un individuo qualsiasi che, per casuale coincidenza, incrociasse il mio passeggio occasionale. Non sarei capace di avere un desiderio, una speranza, un atteggiamento qualsiasi che rappresentasse un movimento, non già della volontà del mio essere intero, ma persino, se così si può dire, della volontà parziale e specifica di ogni elemento in cui sono scomponibile. Non sarei capace di pensare, di sentire, di volere. E continuo a passeggiare, ad andare avanti, a vagare. Niente nei miei movimenti (noto cose che altri non notano) svela all’osservatore lo stato di abulia in cui mi ritrovo. E questo stato di assenza di anima, che sarebbe comodo e di sollievo, per una persona allettata o coricata, è singolarmente scomodo, perfino doloroso, in un uomo che sta camminando per strada. È la sensazione di un’ebbrezza da inerzia, di una sbornia senza allegria, né in sé, né per ciò che causa. È una malattia che non ha speranza di convalescenza. È una morte alacre.

42.

Vivere una vita priva di passioni ma colta, nella serenità delle idee, leggendo, sognando, e pensando di scrivere; una vita sufficientemente lenta per rimanere sempre ai margini del tedio, sufficientemente meditata per non imbattersi mai in esso. Vivere questa vita lontano dalle emozioni e dai pensieri; viverla solo nel pensiero delle emozioni e nell’emozione dei pensieri. Crogiolarsi al sole, beatamente, come un lago oscuro circondato di fiori. Mantenere, nell’ombra, quella nobile fierezza dell’individualità che consiste nel non insistere per nulla con la vita. Essere, nel volteggiare dei mondi dell’universo, come il pulviscolo floreale che un vento sconosciuto solleva nella brezza della sera, e il torpore dell’imbrunire lascia posare in un luogo a caso, indistinto tra cose maggiori. Essere questo con una conoscenza sicura, né allegra né triste, grato al sole per il suo brillio e alle stelle per la loro lontananza. Non essere di più, non avere di più, non volere di più… La musica del mendicante affamato, la canzone del cieco, la reliquia del pellegrino sconosciuto, i passi senza meta nel deserto del cammello privo di gobbe…

43.

Rileggo passivamente – ricevendo la lettura come una ispirazione e una liberazione – quelle frasi semplici di Caeiro5 nella loro relazione naturale con ciò che concerne la piccola dimensione del suo villaggio. Da lì, dice lui, proprio perché è piccolo, si può vedere più mondo che dalla città; e per questo il villaggio è più grande della città… Perché ho la dimensione di ciò che vedo E non la dimensione della mia altezza.

Frasi come queste, che sembrano crescere senza la volontà di chi le avesse proferite mi mondano di tutta la metafisica che spontaneamente aggiungo alla vita. Dopo averle lette, mi accosto alla finestra che dà sulla via stretta, guardo il cielo immenso e gli infiniti astri, e sono libero con l’alato splendore, la cui vibrazione mi fa fremere tutto il corpo. «Ho la dimensione di ciò che vedo!». Ogni volta che penso a questa frase con tutta l’attenzione dei miei nervi, essa mi sembra sempre più destinata a ricostruire l’universo di costellazioni. «Ho la dimensione di ciò che vedo!». Che immenso potere mentale va dal pozzo delle emozioni profonde fino alle alte stelle che si riflettono in esso, e che, in un certo senso, sono lì contenute. E già ora, consapevole di saper vedere, guardo la vasta metafisica oggettiva dei cieli tutti con una sicurezza che mi suscita il desiderio di morire cantando. «Ho la dimensione di ciò che vedo!». E il vago chiaro di luna, interamente mio, incomincia a permeare di vago l’azzurro scuro dell’orizzonte. Ho voglia di alzare le braccia e gridare cose di una barbarie sconosciuta, di parlare agli alti misteri, di affermare una nuova ampia personalità ai grandi spazi della vuota materia. Ma mi trattengo e mi acquieto. «Ho la dimensione di ciò che vedo!». E la frase finisce per essere l’intera anima; appoggio su di essa tutte le emozioni che sento e, su di me, all’interno di me, come sulla città esterna, scende la pace indecifrabile dell’adamantino chiarore lunare che si diffonde ampiamente con il cadere della notte.

44.

…nel triste disordine delle mie emozioni confuse… Una tristezza da crepuscolo, fatta di spossatezze e di false rinunce, un tedio per qualcosa, un dolore come di un singhiozzo soffocato o di una verità ottenuta. Si snoda nella mia anima disattenta e abulica questo paesaggio di abdicazioni – viali di gesti abbandonati, aiuole alte di sogni neppure ben sognati, incoerenze, come muri di bossolo che separano cammini vuoti, supposizioni, come vecchie fontane senza zampillo vivo, tutto si ingarbuglia e appare povero nel triste disordine delle mie sensazioni confuse.

45.

Per comprendere, mi sono distrutto. Comprendere è dimenticare di amare. Non conosco niente di più falso e, allo stesso tempo, di più significativo di quel motto di Leonardo da Vinci, secondo cui non si può amare o odiare una cosa se non dopo averla compresa. La solitudine mi deprime; la compagnia mi opprime. La presenza di un’altra persona svia i miei pensieri: sogno la presenza di tale persona con una distrazione speciale, che tutta la mia attenzione analitica non riesce a definire.

46.

L’isolamento mi ha conformato a sua immagine e somiglianza. La presenza di un’altra persona – di un’unica persona – mi fa immediatamente rallentare il pensiero; così, se nell’uomo normale il contatto con l’altro è una sollecitazione all’espressione e alla parola, in me tale contatto è un contro-stimolo, concesso che tale parola composta sia possibile dal punto di vista linguistico. Sono capace, da solo con me stesso, di inventare quanti motti di spirito, risposte pronte a cose mai dette, folgorazioni di una socialità intelligente con alcuna persona; ma tutto questo svanisce se mi trovo di fronte ad un altro in carne ed ossa, perdo l’intelligenza, rinuncio alla possibilità di esprimermi e, dopo qualche quarto d’ora, sono solo preso dal sonno. Sì, parlare con le persone mi fa venire voglia di dormire. Solo i miei amici spettrali e immaginati, solo le mie conversazioni che si svolgono in sogno, hanno una vera realtà e un giusto rilievo, e con loro il mio spirito è presente come una immagine allo specchio. Del resto, mi pesa solo l’idea di essere costretto a stare in contatto con qualcun altro. Un semplice invito a cena con un amico mi provoca un’angoscia difficile da definire. L’idea di un qualsivoglia obbligo sociale – andare ad un funerale, trattare insieme a qualcuno una questione d’ufficio, andare alla stazione ad attendere una persona qualsiasi, conosciuta o sconosciuta – solo l’idea mi sconvolge i pensieri per un’intera giornata, e a volte comincio a preoccuparmi il giorno prima, e dormo male, e il caso nella sua dimensione reale, quando si verifica, è assolutamente insignificante, e non giustifica nulla. Tuttavia, la cosa si ripete e io non imparo mai ad imparare. «Le mie abitudini sono attinenti alla solitudine e non agli uomini»; non so se sia stato Rousseau o Senancour a dire questo. Ma certo è stato qualche spirito della mia specie – potrei forse dire della mia razza.

47.

A intervalli, la luce di una lucciola si alterna a se stessa. Attorno, nell’oscurità, la campagna è una immensa assenza di rumore che quasi odora di buono. La pace di tutto duole e pesa. Un tedio informe mi soffoca. Raramente mi reco in campagna: quasi mai vi trascorro un giorno, o vi rimango da un giorno all’altro. Ma oggi, che questo mio amico, nella cui casa mi trovo ospite, non mi ha lasciato rifiutare il suo invito, sono venuto qui impacciato come non mai – come una persona timida ad una grande festa –; sono giunto qui allegro, ho goduto dell’aria e dell’ampio paesaggio, ho pranzato e cenato bene e, ora, a notte fonda, nella mia stanza priva di luce lo spazio vago mi riempie di angustia. La finestra della stanza dove dormirò dà sulla campagna aperta, su di una campagna indefinita, che è quella di tutte le campagne, su di una immensa notte vagamente stellata dove si avverte una lieve brezza che non si fa sentire. Seduto alla finestra, contemplo con i sensi questo niente della vita universale che è là fuori. L’ora si armonizza in una sensazione inquieta, dall’invisibilità visibile di tutto fino al legno vagamente rugoso, perché la vecchia vernice del parapetto biancheggiante si è screpolata, su cui si appoggia di lato la mia mano sinistra aperta. Quante volte, tuttavia, provo visivamente desiderio di questa pace da cui adesso fuggirei, se fosse facile e non sconveniente! Quante volte ritengo di credere – laggiù, tra le strette vie di case alte – che la pace, la prosa, il definitivo si trovino qui, tra cose naturali, piuttosto che là dove la tovaglia della civiltà fa dimenticare il legno di pino tutto verniciato su cui è stesa! E ora, qui, pur sentendomi bene, piacevolmente stanco, sono inquieto, prigioniero, nostalgico. Non so se questo accade solo a me, o a tutti quelli che la civiltà fa rinascere una seconda volta. Ma mi sembra che per me, o per quelli che hanno sensazioni come le mie, l’artificiale sia divenuto naturale, mentre è il naturale ad essere estraneo. Chiarisco: l’artificiale non è divenuto naturale; il naturale è diventato differente. Evito e detesto i veicoli, evito e detesto i prodotti della scienza – telefono, telegrafo – che facilitano la vita, o i sottoprodotti della fantasia – grammofono, radio – che, a quelli che si divertono, la rendono divertente. Niente di questo mi interessa, niente di questo desidero. Ma amo il Tago perché c’è una grande città lungo la sua riva. Godo del cielo perché lo vedo da un quarto piano di una strada della Baixa. La campagna o la natura non mi possono dare niente che valga la maestà irregolare della città tranquilla, sotto il chiaro di luna, vista dalla Graça o da S. Pedro de Alcantara. Non ci sono per me fiori come il ricco cromatismo di Lisbona sotto il sole. La bellezza di un corpo nudo la notano solamente le razze vestite. Il pudore vale soprattutto per la sensualità, come l’ostacolo per l’energia. L’artificiosità è la maniera per godere della naturalità. Ciò di cui ho goduto di questa vasta campagna, l’ho goduto perché non vivo qui. Non apprezza la libertà chi non ha mai conosciuto la costrizione. La civiltà è una educazione della natura. L’artificiale è la via per apprezzare il naturale. Ciò che è necessario, però, è non scambiare l’artificiale con il naturale. È nell’armonia tra naturale e artificiale che consiste la naturalità dell’animo umano superiore.

48.

Il cielo nero, giù in fondo, a sud del Tago, era per contrasto sinistramente nero contro le ali bianche dei gabbiani in volo inquieto. Tuttavia, la giornata non era proprio da temporale. La massa minacciosa della pioggia era tutta passata sull’altra riva, e la città bassa, ancora umida per la poca pioggia che era caduta, sorrideva da terra ad un cielo il cui Nord si tingeva di un azzurro ancora chiaro. Il fresco primaverile tendeva lievemente al freddo. In un’ora come questa, vuota e imponderabile, mi piace condurre volutamente il pensiero verso riflessioni di nessuna importanza, ma che includano, nella loro chiarezza del nulla, qualcosa dell’erma frescura del giorno rischiarato, con lo sfondo nero in lontananza, e certe intuizioni, come gabbiani, che evocano per contrasto il mistero di tutto in immenso negrore. Ma, all’improvviso, in maniera contraria alla mia intima intenzione letteraria, lo sfondo nero del cielo a Sud evoca, come un ricordo vero o falso, un altro cielo, forse visto in un’altra vita, a Nord di un fiume minore, con giuncaie tristi e senza alcuna città. Senza che io sappia come, un paesaggio di anatre selvatiche si espande nella mia immaginazione ed è con la chiarezza di un sogno raro che mi sento vicino all’estensione che immagino. Terra di giuncaie ai margini di fiumi, territori per cacciatori e angosce, in cui le sponde irregolari entrano, come piccole corde sporche, nelle acque color piombo giallo, e rientrano in insenature limose, per barche quasi giocattolo, originando come ruscelli dall’acqua lucente alla superficie del fango nascosto fra gli steli verde scuro dei giunchi, attraverso cui non è possibile camminare. È la desolazione di uno spento cielo grigio, che qui e là si increspa in nuvole più nere della tonalità del cielo. Non sento vento, ma c’è, e l’altra riva del fiume, in fondo, è una lunga isola, dietro la quale si intravede – grande e abbandonato fiume! – l’altra riva vera, stesa nella distanza senza rilievo. Nessuno arriva lì, né mai vi arriverà. Anche se io, per una fuga contraddittoria del tempo e dello spazio, potessi evadere dal mondo verso quel paesaggio, nessuno arriverebbe mai lì. Aspetterei invano ciò che non saprei di aspettare e, alla fine di tutto non ci sarebbe altro che un cadere lento della notte, mentre tutto lo spazio diviene lentamente dello stesso colore delle nuvole più nere, che si immergerebbero, poco a poco, nell’insieme abolito del cielo. E, all’improvviso, sento qui il freddo di là. Mi assale il corpo, provenendo dalle ossa. Respiro forte e mi desto. L’uomo, che incrocio sotto l’Arcada vicino alla Borsa, mi guarda con la diffidenza di chi non riesce a comprendere. Il cielo nero, incupendosi, si abbassa ancor di più a Sud.

49.

Si è alzato il vento… Dapprima era come la voce da un vuoto… un soffiare nello spazio interno di una cavità, una assenza nel silenzio dell’aria. Poi è emerso un singulto, un singulto dal silenzio del mondo, il rumore di vetrate scosse, che era davvero vento. Infine è risuonato più alto, urlo sordo, come un piangere davanti all’avanzare della notte, uno stridere di cose, un cadere di frammenti, un atomo di fine del mondo. Poi, sembrava che […]

50.

Così, come a una notte di tempesta succede il giorno, quando il cristianesimo, segnati gli spiriti, è passato, si sono notati i danni che invisibilmente aveva causato; la rovina provocata si è notata solo dopo il suo definitivo passaggio. Alcuni hanno creduto che tale rovina fosse dovuta alla sua assenza; in realtà era accaduto che tale rovina si era notata solo dopo il suo declino, e non come conseguenza di questo. Allora, nel mondo dello spirito, è restata la rovina visibile, la disgrazia patente, senza che la tenebra la ricoprisse della sua falsa tenerezza. Gli spiriti si sono visti così come erano. È iniziata, allora, negli animi dell’epoca appena trascorsa, quella malattia, cui è stato dato il nome di romanticismo, quel cristianesimo senza illusioni, quel cristianesimo senza miti, che costituisce l’aridità stessa della sua essenza malata. Tutto il male del romanticismo consiste nella confusione esistente tra ciò che ci è necessario e ciò che desideriamo. Tutti abbiamo bisogno di cose indispensabili alla vita, alla sua conservazione e al suo proseguimento; tutti desideriamo una vita più perfetta, una felicità piena, la realtà dei nostri sogni e […] È umano volere ciò di cui abbiamo necessità, ed è umano desiderare ciò che non ci è necessario ma che è per noi desiderabile. Il male consiste nel desiderare con uguale intensità ciò che è indispensabile e ciò che è desiderabile, soffrendo per non essere perfetti come se si soffrisse per la mancanza del pane. Il male romantico è questo: volere la luna come se esistesse il modo per ottenerla. «Non si può mangiare un dolce senza perderlo». Nella sfera bassa della politica, come nell’intimo recesso dello spirito – lo stesso male. Il pagano ignorava, nel mondo reale, questo senso malato delle cose e di se stesso. Siccome era uomo, desiderava anche l’impossibile; ma non lo voleva. La sua religione era […] e solo nel profondo del mistero, solo agli iniziati, lontano dal popolo e dai, […] erano insegnate le cose trascendenti delle religioni che riempiono l’anima del vuoto del mondo.

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Spesso ho cercato di vivere in sogno il personaggio individualista e imponente che i romantici raffiguravano in se stessi. Però, ogni volta che ho tentato di farlo, mi sono ritrovato a ridere molto della mia idea. L’uomo fatale, in fondo, esiste nei sogni di tutti gli uomini comuni, e il romanticismo non è altro che il rovescio del controllo quotidiano che abbiamo di noi stessi. Quasi tutti, nel segreto del proprio cuore, sognano un grande dominio personale, la sottomissione di tutti gli uomini, la consegna di tutte le donne, l’adorazione dei popoli e, nei più valenti, di tutte le epoche… Pochi come me abituati al sogno sono per ciò stesso sufficientemente lucidi per ridere della possibilità estetica di sognarsi così. La critica più grande al romanticismo non è stata ancora fatta: quella che esso rappresenti la verità interiore della natura umana. Le sue esagerazioni, le s