titoli affini dal catalogo elèuthera

Osvaldo Bayer Patagonia rebelde una storia di gauchos, bandoleros, anarchici, latifondisti e militari nell’Argentina degli anni Venti

Vittorio Giacopini Non ho bisogno di stare tranquillo , vita straordinaria del rivoluzionario più temuto da tutti i governi e le questure del regno

Jean-Marc Delpech Rubare per l’anarchia Alexandre Marius Jacob, ovvero la singolare guerra di classe di un sovversivo della Belle Époque Paolo Pasi Ho ucciso un principio vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re

elèuthera © 2014 Paolo Pasi ed elèuthera editrice

© illustrazioni Fabio Santin [email protected] progetto grafico di Riccardo Falcinelli

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Introduzione 7

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Epilogo 168 Ringraziamenti 175

Introduzione

È una storia fitta di omissis. Di lui ci mancano i mesi in carce- re, e prima ancora pezzi della sua vita schedata dalla polizia e successivamente rimossa. Un uomo controllato e poi cancellato dallo Stato. Ci sono vuoti, zone d’ombra che hanno alimentato il mito negli anni a venire, ma ridotto la portata della sua storia personale. Non è stata fatta giustizia, per l’ennesima volta. Non si con- segna un uomo all’oblio selettivo. Per questo occorre riscrivere sulle righe nere degli omissis, o almeno tentare di farlo come se l’inchiostro potesse ricalcare la traiettoria vera della storia muti- lata di un uomo, immaginandone gli stati d’animo, i dubbi, le incertezze, le paure. E la determinazione.

7 > Gaetano Bresci (Prato, 10 novembre 1869 - Isola di Santo Stefano, tra il 18 e il 22 maggio 1901). 1

Milano, 24 luglio 1900. L’aria è calda, umida, malsana, e non è solo per via dell’a- fa appiccicosa calata sulla città come un mantello soffocante. È come se recasse traccia della polvere da sparo, come se Milano fosse ancora avvelenata dai colpi del generale che solo due anni prima ha ordinato il fuoco sulla folla affamata. È qui che è ini- ziato tutto, ed è qui che sta per finire il viaggio. Gaetano Bresci è arrivato da Piacenza dopo essere stato a Bologna, e ancora prima a Prato, la sua città natale dove ha rivisto i familiari, i pochi ami- ci, i conoscenti, le persone attorno a cui ha costruito gli affetti dell’infanzia e oltre. Mancava da tre anni. È un viaggio a ritroso, quello che lo sta portando a destina- zione. È arrivato in Italia ai primi di giugno, passando per la Francia e Parigi, dopo la traversata in terza classe a bordo della nave Gascogne partita da New York. L’anarchico venuto dall’America, come lo chiameranno alcu- ni intellettuali di rango e storici, è un uomo di quasi 31 anni, distinto, piacente, dai baffi curati e dall’abbigliamento raffinato

9 > Pensa alla sua bella camicia bianca che portava con stile e orgoglio nei giorni in cui lo chiamavano il «paino». per uno della sua condizione. A Prato, per questo, lo avevano soprannominato fin da ragazzo il «paino», ovvero il damerino, e lui si è sempre risentito per questa etichetta, appiccicata come se ai poveri non dovesse essere riconosciuto il diritto allo stile, all’eleganza, all’incedere dignitoso nonostante sopraffazioni e angherie. Ha visto tanti luoghi senza trovare pace in alcuno. New York, Parigi, Genova, Prato, Bologna, Piacenza… Il viaggio si riavvolge come un nastro che torna a scorrere nella giusta direzione di marcia. Milano è rovente, il centro della città un luogo di passaggio poco affollato che reca testimonianza delle novità d’inizio secolo: l’elettricità, i tram senza cavalli, i grandi magazzini lungo corso Vittorio Emanuele. Ma non c’è applica- zione moderna che possa cancellare le tracce del più recente pas- sato. Ci sono ancora carrozze a cavallo, per esempio, e quell’aria sempre inquinata dall’odore della polvere da sparo. Bresci imbocca via San Pietro all’Orto, una traversa di corso Vittorio Emanuele, e va dritto all’obiettivo. Con sé ha una valigia marrone e una macchina fotografica che cattura l’attenzione per le sue ridotte e avveniristiche dimensioni. È il taccuino visivo del suo viaggio, la testimonianza dei passaggi intermedi. Adesso è quasi arrivato. Ad attenderlo c’è Carlo Colombo, custode di uno degli stabili, ma soprattutto anarchico tra i più attivi e conosciuti a Milano. Uno che avrà problemi con la polizia fino all’ultimo giorno di vita. «Qui, due anni fa, c’era l’esercito a presidiare le redazioni dei giornali e i sospetti covi sovversivi. Avevano militarizzato tutta la città» spiega Colombo a Bresci mentre lo accompagna dai co- niugi Ramella, che gestiscono una piccola pensione poco più in là, al numero civico 4. I due anarchici s’intendono, anche se non possono dirsi intimi conoscenti. Solo compagni che condivido- no la percezione olfattiva della città e sanno ridurre al minimo certe parole e argomenti. Sebbene l’aspetto sia cambiato dai moti del 1898 repressi da Bava Beccaris, Milano è ancora sotto sorve- glianza regale, e ogni minimo commento che evochi semplice-

11 > Telegramma di Umberto i al generale Fiorenzo Bava Beccaris, 6 giugno 1898, ore 21,20: «Ho preso in esame la proposta delle ricompense presentatemi dal Ministro della Guerra a favore delle truppe da Lei dipendenti e col darVi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù della disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A Lei personalmente volli conferire motu proprio la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia, per rimeritare il servizio che rese alle istituzioni e alla civiltà e perché attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria». mente rabbia, può essere l’anticamera della cella. Come avviene, peraltro, nel resto d’Italia. I due arrivano dalla signora Ramella, che squadra l’amico di Colombo e lo trova un tipo distinto, rassicurante, come non se lo immaginava. Perfino un bell’uomo, ancora giovane, dal tono affabile. «Gaetano Bresci, piacere». «Benvenuto. La sua stanza è al primo piano».

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Come si sentirà un uomo nella solitudine di una stanza presa in affitto per pochi giorni, stremato dalla marcia di avvicinamen- to, a un passo dall’azione? Il prima e il dopo. Ripenserà ancora una volta al passato, a ciò che ha lasciato in America, alla sua compagna Sophie e alla loro figlia di appena un anno, Madeline. Ricordi che si affastellano mentre Bresci si stende sul letto dopo aver disfatto la piccola valigia. Sul tavolino ha appoggiato alcune fotografie. Accanto, il taccuino su cui ha annotato i nomi di chi si è messo in posa per lui. Sono scatti, istantanee degli ultimi mesi. Rivede Parigi, città che a inizio secolo indossa il vestito dell’Esposizione universale, e che lui ha visitato per otto giorni prima di ripartire per l’Italia. Poi le facce di amici, fratelli, ma soprattutto di donne. Gaetano ne è attratto in modo irresistibile, e quel vezzo di girare con la macchina fotografica sotto mano ha fornito spesso un pretesto per attaccare discorso. Così, del resto, ha conosciuto Sophie in America. Potremmo anche immaginare che quegli scatti siano altret- tanti tasselli necessari per completare il mosaico incompiuto del-

13 la vita di Bresci su cui presto caleranno gli omissis. Ma è troppo presto, ora, per affidarsi alla memoria. Come si sentirà Gaetano nella calura di una stanza provvi- soria? Sarà costretto a ripiegare sul presente, su questo luogo estraneo che sa di disinfettante ma che non può cancellare l’o- dore prevalente di Milano. Ancora la polvere da sparo, ancora le cannonate che il feroce Bava ha fatto sparare sugli affamati inermi. È una bestemmia alla vita, quell’odore, e le strade del centro, solitamente brulicanti di giorno, sembrano ora ritrarsi in una specie di dormiveglia serale. Dalla finestra intuisce la luce di fiochi lampioni giallastri, il rumore di una carrozza, il torpore estivo che soffoca le pretese di mondanità. Il caldo corrode l’anima. Parigi è lontana. A pochi metri da via San Pietro all’Orto, c’è corso Vittorio Emanuele. I Savoia hanno voluto mettere la loro firma sulla strada più in vista del centro di Milano, dove hanno soffocato la rivolta della neces- sità. Non si è mai saputo con certezza quanti siano stati uccisi durante i moti del maggio 1898. Almeno un centinaio, dicono. Vittime della stessa mano, dello stesso potere regio che ha cer- tificato altri massacri. L’Italia di fine Ottocento ne è costellata. Un paese che ha scelto di scrivere gli ultimi anni della sua storia con inchiostro color sangue. Nel 1893 a Caltavuturo, vicino a Palermo, hanno sparato sui braccianti che chiedevano la distri- buzione delle terre. Hanno sciolto il loro movimento, detto dei Fasci siciliani, e represso le manifestazioni di protesta di operai e minatori. Decine di morti e feriti. Un anno dopo Umberto i ha firmato lo stato d’assedio in Lunigiana, che si era accesa dei colori dell’insurrezione dopo quanto accaduto in Sicilia. Altri spari, altri morti. Bresci non ha tenuto il conto complessivo delle vittime, ma sa che sono comunque troppe. Lui è qui per uno scopo preciso. La vita non può essere solo un assurdo copione di orrori e violenze. Se così deve essere, allora che lo sentano anche loro l’odore della polvere da sparo, i pingui signori che vanno a letto senza crampi

14 > Alle «imprese militari» del generale Bava Beccaris è dedicata una nota canzone popolare intitolata Inno del sangue, la cui prima strofa recita così: Alle grida strazianti e dolenti / Di una folla che pan domandava / Il feroce monarchico Bava / Gli affamati col piombo sfamò. allo stomaco, che si rimboccano le coperte, che leggono i gior- nali con moderazione. Che arrivi anche al tiranno la sua quota di violenza. Come si sentirà, alla fine del viaggio, quest’uomo? Forse guar- derà il soffitto per un minuto intero, fissando il pensiero su ciò che potrà accadergli. La sua esistenza scissa. La vita di Gaetano Bresci divisa in due. Il prima e il dopo. E in mezzo un re da uccidere.

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Così, questa sera, Gaetano torna a guardarsi intorno. Non c’è modo di restare nella stanza, il caldo è insopportabile, indeboli- sce le resistenze, c’è ancora un secolo da attraversare prima che il tempo consegni Milano al gelido soccorso dell’aria condizionata, ma questo Bresci non può saperlo. Cammina a tratti disorienta- to, come reduce da un sogno che sta svanendo nell’afa. I luoghi del massacro del 1898 sono voci spente che lo circondano. Im- boccando via Monforte (l’attuale corso Monforte) si arriverebbe al convento preso a cannonate mentre i poveri facevano la fila per una minestra. Più a sinistra c’è corso Venezia, in fondo al quale immagina le barricate divelte dall’esercito. Ovunque è un presagio di morte che riporta al passato. Il Naviglio scorre e lambisce via Senato, e i ricordi sembrano perdersi nel riflesso dell’acqua. Anche quando arrivano precisi, è come se appartenessero a un’altra vita. Gaetano pensa che stareb- be meglio in compagnia di Teresa, l’amante con cui ha condiviso le ultime notti a Bologna prima che arrivasse il telegramma che lo ha spinto a ripartire per Piacenza e a raggiungere poi Milano.

16 Ma Teresa è un’immagine troppo pallida per evocare una sensa- zione che era viva fino a pochi giorni fa. Bresci sfila dal taschino il suo fazzoletto e si asciuga il sudore, immerso in un labirinto di pensieri che non porta a nulla. Si appoggia a un muretto e osserva lo scorrere lento, pigro della corrente del Naviglio. L’acqua è torbida, evoca quasi uno stato di putrefazione, come fosse specchio di una città, di un’intera nazione che ha scelto di soffocare negli spari il grido degli ultimi. È venuto per pareggiare i conti, certo, ma all’improvviso il pensiero corre al mare e al viaggio che lo ha riportato a casa. Gli sembra quasi di riviverlo…

Il mare, il mare… È un istinto di libertà da cui è facile sentirsi accerchiati. Fotografarlo da ogni parte, non servirebbe a nulla. L’orizzonte è sempre uguale, interminabile, eppure così diverso da quello che aveva accompagnato il suo viaggio di andata, nel 1897. Allora gli era sembrato di cogliere una promessa di cam- biamento tra le persone accalcate sul ponte della nave, ciascuna uno sguardo rivolto all’America. Dopo solo tre anni passati lon- tano, Bresci sta tornando a casa a bordo del piroscafo Gascogne. Ha approfittato delle tariffe ridotte decise in occasione dell’E- sposizione universale di Parigi, per cui arriverà in Francia, a Le Havre. Le sue prospettive si perdono nell’acqua che inghiotte il ricordo fresco dell’America e delle due donne che si è appena lasciato alle spalle: Sophie e la piccola Madeline. Si è imbarcato a New York con un amico. Si chiama Nicola Quintavalle, ha 35 anni, è originario dell’isola d’Elba, e di pro- fessione fa il barbiere a West Hoboken, un sobborgo vicino a Paterson, la cittadina dove Bresci ha trovato lavoro. Insieme a lo- ro viaggia Antonio Laner, panettiere trentino, un altro emigrato anarchico di ritorno in Italia, anche se la nazionalità estratta per lui dalla lotteria delle patrie è austriaca. Quintavalle sta corteg- giando una cantante, si chiama Margherita, ed è dalla partenza che va facendo discorsi infiammati sull’anarchia. Lo si potreb-

17 be definire uno spaccone, oppure un ribelle. Di certo quel suo mettersi in mostra con proclami rivoluzionari gli costerà caro. Antonio Laner, al contrario, è riservato, schivo. Quanto a Gaeta- no, se ne sta spesso sul ponte per scuotersi di dosso l’odore della terza classe e farsi abbracciare dal flusso incessante dell’oceano. Ogni tanto le ossessioni tornano a galla, tra i ricordi della sua vita familiare e le incognite del destino cui sta andando incon- tro. Adesso, però, si sente come liberato dal tempo, in una zona affrancata dal passato e dal futuro. Sulla nave ha conosciuto Emma Quazza, una ragazza italiana che sta viaggiando insieme ad alcuni parenti. Nonostante abbia solo 19 anni, Emma ha già conosciuto la pesantezza del lavoro in fabbrica, ma negli occhi le si legge ancora la luce febbrile di un sogno. La fatica non ha scalfito il suo fascino di ragazza. In America ha trascorso un paio d’anni, e adesso assapora il ritorno a casa, vicino a Biella, la zona che insieme a Prato, Como e ad altri distretti del centro nord sta nutrendo di braccia le aziende tessili dell’America. Con Gaetano c’è stata un’intesa immediata, forse per quella loro comune matrice, perché hanno dovuto scap- pare dalla provincia e si sono scoperti ancora sensibili al richia- mo dell’Italia, nonostante sia un paese reazionario, monarchico, illiberale. Per Emma è un posto da riscoprire. Per Gaetano è piuttosto il capolinea della sofferenza, dove la fame è un bersa- glio su cui il potere ha scelto di sparare. Quando si trovano sul ponte del piroscafo, però, non è tanto di rivoluzione che parlano, ma di piccoli argomenti strappati alla quotidianità o di progetti. «Lo sa che a Parigi c’è l’Esposizione universale? È un’occasio- ne da non perdere, io ci vado perché a Parigi non sono mai stato» le dice Gaetano con il tono affabile che tanto colpisce le donne. «Sarebbe bello…» gli risponde Emma, e già si guarda intorno per vedere se i suoi parenti siano in giro a cercarla. Quando è con lei, Bresci prova una strana forma d’indifferen- za a tutto tranne che all’attimo. Rivive forse il senso di leggerezza

18 > Di quei giorni in cui andrà alla scoperta delle novità d’inizio secolo, più di tutto gli resta impresso il volto di Emma. Una donna di raggiante bellezza. Tutte le sofferenze sembrano retrocedere nel ricordo di quella ragazza. che ha solo sfiorato brevi momenti della sua vita. Tra loro due non nascerà che un amore platonico, di quelli, però, destinati a lasciare il segno. Adesso Gaetano orienta la macchina fotografica e aspetta che Emma sorrida. Poi parte lo scatto.

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25 luglio 1900. È un nuovo giorno per Gaetano, uno in meno che lo separa dall’azione. La fotografia di Emma Quazza è stata riposta sul ta- volino, dove ci sono alcuni fogli sparpagliati e una busta. Bresci ha appena scritto una lettera alla compagna Sophie per raccon- tarle che ha quasi sistemato le questioni patrimoniali di famiglia a Prato, motivo dichiarato della sua partenza per l’Italia, e che presto tornerà in America. Ha scritto cose simili anche a Nicola Quintavalle, in una car- tolina in cui promette all’amico che quando si rivedranno per tornare in America gli restituirà il maglione avuto in prestito a Parigi. In una lettera al fratello Lorenzo, invece, annuncia come imminente il suo ritorno a Prato. In tutti i casi Bresci prefigura un futuro difficilmente realizzabile, come egli stesso sa. Perché lo fa? Forse crede davvero alla possibilità di fuga, una volta compiuta l’azione. O forse cerca di non pensare troppo a quanto lo sta aspettando, e vuole illudersi che ci sarà un lieto fine. Oppure lo fa per ridarsi una chance di normalità a dispetto

20 dei fatti che stanno drammaticamente convergendo su e il re. Più probabilmente vuole proteggere le persone a lui care, fornendo loro una versione che li scagioni dall’accusa di compli- cità, perché sa che saranno le prime che le guardie andranno a cercare quando il suo nome diventerà famoso. Impossibile saperlo. È un altro degli omissis sulle giornate che precedono l’attentato, sigillato nella mente di Gaetano. Sappia- mo con certezza, però, che l’afa stringe sempre d’assedio Milano, e che Bresci ha un appuntamento. L’uomo che deve incontrare si chiama Luigi Granotti. Un tipo strano, taciturno, con capelli e baffi castano chiari, ragione per cui si è guadagnato il sopranno- me di «Biondino». I due si sono conosciuti a Paterson durante le concitate riunioni politiche del mercoledì sera all’Hotel Bartoldi di Straight Street, uno dei luoghi che hanno fatto della cittadina americana della seta un laboratorio della sovversione a venire. Granotti è stato amministratore di uno dei giornali anarchici più in vista tra gli emigrati italiani, La Questione Sociale, su cui han- no scritto anche Pietro Gori ed Errico Malatesta. Con circa mille copie di tiratura, è un riferimento per quanti si riconoscono nel filone organizzativo del pensiero anarchico. Nonostante la loro frequentazione in America, e il fatto che siano quasi coetanei, Bresci e il Biondino non sono intimi ami- ci. La loro traiettoria, a un certo punto, li ha portati a incro- ciarsi in Italia. Granotti è originario di Sagliano Micca, paesi- no vicino a Biella, dove è da poco tornato insieme alla madre. Ufficialmente è in visita temporanea, come Gaetano, pronto a riprendere la rotta verso gli Stati Uniti. La presenza concomi- tante dei due in Italia ha infittito la loro corrispondenza. Negli ultimi giorni si sono scambiati telegrammi per concordare un luogo dove vedersi. Bresci ha declinato l’invito a Biella e ha chiesto al Biondino di venire a Milano, città a loro estranea, a condividere forse quel senso di spaesamento che coglie chi lascia il proprio paese e vi fa ritorno anche solo dopo una man- ciata d’anni.

21 Tutto sembra cambiato, quasi trasfigurato agli occhi di Gaeta- no. Lontano il passato della sua infanzia a Prato. Lontana perfino l’eco degli scioperi repressi, della disciplina in fabbrica, dell’ulti- mo periodo che ha preceduto la sua partenza per gli Stati Uniti. Sempre e solo lavoro malpagato, notizie di arresti, di anarchici al domicilio coatto, di sfruttati uccisi dal piombo degli sfruttatori. Milano, adesso, sembra mettere in mostra un’assuefazione in- solitamente pigra al caldo di fine luglio. All’odore della polvere da sparo è subentrata una sorta di attesa apatica: poche persone che percorrono corso Vittorio Emanuele, la tiepida vita com- merciale dei grandi magazzini Fratelli Bocconi, voci di strilloni che portano le notizie nazionali e dal mondo. In Cina è in corso la rivolta dei Boxer contro le rappresentanze diplomatiche dei paesi (Italia compresa) che si stanno spartendo il territorio in zone d’influenza economica; e poi altri titoli sulla penosa que- stione agraria, sui nuovi scioperi… Bresci sa perché è venuto. Per dichiarare guerra ai produttori di povertà e scuotere l’Italia dall’apatia. Milano, oggi, è la sua ribalta, e non importa se una parte dei suoi cinquecentomila abitanti ha scelto di andare altrove, in campagna o sui monti, per sfuggire all’afa. Lui si muove disinvolto con la sua macchi- na fotografica, curioso ma attento a non farsi notare troppo. Un uomo ancora giovane, di bell’aspetto, con quell’apparecchio sotto mano fa pensare a un professionista, a un fotografo vero insomma, e chi potrebbe dire che quello sarà lo stesso uomo che tra pochi giorni… I pensieri corrono troppo rapidi, ma il passo resta cauto, misurato, lento, fino a quando Bresci arriva in piazza del Duo- mo e riconosce il volto di Granotti che lo sta aspettando ac- canto ai gradini del sagrato, l’aria mesta e impacciata. I due si salutano e s’incamminano. Non si potrebbero immaginare ti- pi più diversi, tanto controllato ed elegante il primo, quanto nervoso e dimesso il secondo. Eppure ne avranno di cose da dirsi. Parleranno probabilmente delle reciproche impressioni

22 > Luigi Granotti, detto «il Biondino» (Sagliano Micca, 15 novembre 1867 - New York, 30 ottobre 1949). dell’Italia, dei loro incontri con i familiari, del viaggio e di altre cose, poi l’afa li indurrà a sedersi al tavolino di un bar. Tra loro prevarranno i silenzi, ma saranno in molti, dopo, a chiedersi il perché dell’incontro. «… allora vieni a stare da me stanotte» gli dice Gaetano senza aggiungere altro.

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L’America è ormai lontana perfino nei ricordi. Sembrano appar- tenere a un mondo perduto, nonostante Bresci ci abbia passato gli ultimi tre anni. Pensarci adesso è inevitabile quanto doloroso, non solo per via di Granotti che sta dormendo nella stanza e russa di un sonno inquieto. L’America è stata una parentesi di libertà, un filo che il giovane tessitore aveva deciso di seguire come una scia sul mare per sfuggire alla povertà di Prato, di Luc- ca, di tutti i luoghi dove aveva trovato lavoro solo per accorgersi di essere sempre al punto di partenza. Era la scelta, o il destino, di tanti altri operai richiamati dalle sirene d’oltreoceano, par- titi dalle filande di Biella, Como, Prato con i loro accenti così diversi. Toscani e lombardi, veneti e piemontesi, storie in fuga che erano state calamitate dall’industria tessile di Paterson, The Silk City, la città della seta che stava a una trentina di chilometri a nord di New York, nel New Jersey, nota per le sue lavorazioni e il suo semplice ordito urbanistico. Muri in mattoni rossi alli- neati che definivano il perimetro della produzione, fabbriche su fabbriche dentro cui il frastuono dei telai dettava la cadenza, il

24 > Paterson, The Silk City, era un crocevia di ribellione. Per questo aveva scelto di andarci: sembrava che gli anarchici fossero tutti lì. fiume Passaic che serpeggiava ai piedi delle colline, una bucolica rappresentazione di dinamismo industriale che dopo il turno di lavoro faceva suonare le sue sirene per riportare gli operai nelle loro case. Gli italiani erano circa cinquemila quando Bresci arrivò a Paterson. Una comunità coesa, nonostante i divari regionali, le distanze dialettali, il fardello di diverse povertà che si erano la- sciati alle spalle ma che non avevano dimenticato. Erano perso- ne mediamente istruite, con un buon grado di preparazione per il lavoro sulla seta, ed erano politicamente attive. Gli anarchici erano almeno un migliaio. Si radunavano alla sera nei bar o nei circoli. Leggevano, bevevano e parlavano, perché in America, a parte la paga migliore, si poteva anche discutere senza il rischio di venire arrestati. Fin dal suo arrivo Bresci abbracciò quel mon-

25 do, e non fu certo una coincidenza se aderì a un’associazione che nel nome sembrava raccogliere tutte le ragioni del suo viaggio: Il diritto all’esistenza. Perché, che cos’era stata la sua vita fino ad allora se non un di- ritto negato? Negato il diritto all’infanzia, a un lavoro dignitoso, alla libertà. Per questo aveva deciso di seguire le rotte del mare, affidandosi a un viaggio lungo, carico di paure e malinconie. Per questo aveva scelto Paterson. Sembrava che gli anarchici fossero tutti lì. Gaetano ne scrisse subito ai suoi fratelli rimasti a Prato. Dis- se che l’America era il posto dove gli anarchici potevano alme- no esprimersi liberamente e organizzarsi così nell’esilio senza dimenticare chi era rimasto a casa. Giornali, librerie, spettacoli teatrali e musicali, conferenze e comizi. Era un terreno cultu- rale fertile che convergeva quasi sempre sull’Italia piegata sotto lo stivale dei Savoia e del loro esercito. Perfino nella compagnia teatrale, chiamata La Cosmopolita, c’era la traccia prevalente del paese di origine. I drammi popolari e le pièces mettevano spesso in scena il quadro dello sfruttamento e della repressione da parte di chi si presentava a lettere maiuscole (il Re, lo Stato, la Patria), ma che aveva solo esportato i propri colpi mortali nell’impresa coloniale nel corno d’Africa, sanguinosa e ridico- la. Una guerra culminata nella disfatta di Adua, nel 1896, che aveva fatto circa seimila vittime tra i soldati italiani e sancito la fine politica del presidente del consiglio Crispi, il Bismarck mancato del regno d’Italia. Presto la tragedia si sarebbe elevata nel sogno dell’insurrezione. Almeno questa era la speranza tra gli emigrati. Paterson era dunque un crocevia di ribellione, il punto d’in- tersezione tra le storie degli esiliati e la loro volontà di riscatto, e recava l’impronta fresca del passaggio di tanti anarchici: Pietro Gori, Emma Goldman, Errico Malatesta, insieme ad altri nomi forse meno noti, ma che Bresci avrebbe imparato a conoscere. Ad esempio il biellese Alberto Guabello, promotore delle prime lotte

26 operaie e di spettacoli tra gli emigrati italiani. E poi Ernestina Cravello, affascinante quanto appassionata, una giovane tessitri- ce che credeva nel libero amore e nei diritti delle donne. Ma affioravano anche le prime crepe che intaccavano la comune appartenenza. Se il settimanale La Questione Sociale rispecchiava le posizioni di Malatesta sulla necessità di organizzare il movi- mento, ecco che a pochi chilometri di distanza, a West Hoboken, nasceva nel 1899 un altro periodico, L’ Au r o r a , che richiamava gli anarchici individualisti, o antiorganizzatori. Propagandisti del fatto, credevano nell’esempio attraverso l’azione del singolo che avrebbe acceso la miccia e incitato i sabotatori. Tra loro spiccava Giuseppe Ciancabilla, un giornalista umbro che aveva lasciato La Questione Sociale in stridente contrasto con Malatesta. Era un confronto a distanza, quasi una sfida all’anarchia, per- ché in fondo rischiava di finire tutto in una lotta per il potere, e Bresci restava come sospeso tra i due poli, quasi smarrito nel nuovo mondo, inquieto, alla ricerca di un contatto con naziona- lità che non fossero la sua. Operai francesi, tedeschi, irlandesi. Soprattutto francesi. Amava la loro lingua ed era attratto da Pa- rigi, la capitale dell’eleganza che si preparava a mettere in mostra il secolo in arrivo nell’Esposizione universale. Gaetano prendeva allora la sua macchina fotografica e si perdeva tra la folla di patrie diverse, eppure tutte uguali. La domenica era un giorno di festa da celebrare con una gita o un picnic. Come quella volta in cui, poche settimane dopo il suo arrivo, Bresci aveva notato i linea- menti delicati di una giovane ricamatrice di origine irlandese che si chiamava Sophie Knieland, e le aveva rivolto una domanda interessata: «Permette? Posso farle una foto?».

27 > Bresci aveva notato i lineamenti delicati di una giovane ricamatrice di origine irlandese che si chiamava Sophie Knieland, e le aveva rivolto una domanda interessata: «Permette? Posso farle una foto?». 6

26 luglio 1900. «Posso farle una foto?». Poi parte lo scatto sul volto di Cesira, così fresco e prima- verile da resistere all’afa opprimente di Milano. La ragazza ha vent’anni e un sorriso impacciato che non nasconde l’eccitazione. Per quanto attratto dalle belle donne, Bresci non riesce a imma- ginarsela come amante, anche perché di cognome fa Ramella, ed è la figlia dei suoi affittacamere. Dopo aver scattato la foto, la prende sottobraccio come un anarchico abituato allo stile, la mano sulla catenella che pende dal taschino del panciotto. «Si è fatto un po’ tardi» le dice. «Ho promesso ai suoi genitori che l’avrei riportata a casa presto». «Va bene, andiamo» risponde Cesira. «Prendiamo il tram, così facciamo prima». Gaetano non ha fretta di tornare nella sua stanza, ma i patti vanno mantenuti, e poi il tempo gli si sta accorciando sotto i pie- di. Temporeggiare nella passeggiata sarebbe inutile. È un’attesa sempre più breve che si consuma nell’illusione della normalità.

29 È andato a spasso con Cesira, ha trascorso ore leggere, ma adesso che il tram percorre corso Venezia, Bresci pensa di nuovo alle bar- ricate degli affamati e alle baionette di Bava Beccaris. Qui gli in- sorti rovesciarono tram come quello su cui stanno viaggiando. Le fotografie di quei giorni tragici colmeranno, negli anni a venire, il divario tra la portata della strage e l’oblio, ma Bresci è già con- sapevole del massacro, gli è rimasto dentro fin da quando era in America, ed è per questo che cerca di mimetizzarsi nella normali- tà, di tornare ai ricordi migliori per non tradirsi. Sul tram mostra a Cesira le due foto più care. Sophie e Madeline. Madre e figlia.

> Gaetano è pronto. Forse sta per cambiare la storia. Il popolo si riprenderà la propria libertà, il diritto all’esistenza: Madeline, Sophie, tutti coloro che lo stanno aspettando, capiranno.

30 «La mia bimba adesso ha un anno» spiega Bresci con un sorri- so inorgoglito che intenerisce la ragazza. Poche parole, prima di arrivare a destinazione e riconsegnare Cesira al padre Antonio, un cinquantenne tarchiato con la barba già ingrigita, dal fare burbero ma non ostile. «Vi spedirò le foto» promette Bresci, quasi a voler credere che gli sarà ancora possibile, tra qualche giorno, riprendere il suo viaggio per imboccare la via del ritorno in America.

Già, l’America… La stanza dei Ramella non offre riparo dal caldo serale, e Bresci indugia ora sul letto nel ricordo dell’as- senza. Ha spedito la lettera a Sophie, un messaggio affidato alla moderna bottiglia della corrispondenza postale in procinto di varcare l’oceano, e che arriverà a destinazione quando tutto sarà compiuto. Le domande pungono come spilli. Che ne sarà di loro? Che cosa staranno facendo? Madeline, la sua piccola Madeline. Quanto sarebbe bello, adesso, giocare un po’ con lei… Poi con lo sguardo va alla foto di Sophie. Come poterla descrivere? Una donna affascinante dai capelli rossi e crespi, di cui lo scatto conserva il sorriso di una gita al parco. Una compagna, forse una moglie. Le definizioni conta- no poco… Si erano sposati nel libero amore dopo poche settima- ne da quel primo incontro favorito dalla macchina fotografica, e da quel momento la vita in America si era come sdoppiata. Bresci continuava a lavorare alla Hamil and Boot, uno degli sta- bilimenti tessili di Paterson, e nei fine settimana raggiungeva la famiglia in una casa accogliente di West Hoboken. Era la vita oscillante di un pendolare che stava conquistando il suo diritto di esistere proprio mentre in Italia avvenivano i fatti più cruenti. Si può immaginare che fu un momento breve e fe- lice, soprattutto dopo la nascita della bimba, all’inizio del 1899. L’avevano chiamata Madeline per ricordare la madre di Gaetano, Maddalena, morta precocemente per una non meglio precisata «malattia muliebre».

31 Era un’esistenza a suo modo regolare, perfino integrata, sebbe- ne fosse minata da un senso di equilibrio precario. Da un lato la convivenza serena e armoniosa con Sophie e la piccola, dall’altro una sorta di apatia che subentrava in fabbrica ed esigeva il riscat- to nelle ore successive al lavoro. A Paterson, Bresci aveva fissato il suo alloggio provvisorio nella stanza numero otto dell’Hotel Bartoldi, dove il mercoledì sera si tenevano periodiche riunio- ni. Insieme alla sede de La Questione Sociale, poco distante, era il luogo delle discussioni accanite in cui arrivavano le notizie dall’Italia. Da Crispi a Rudinì, passando per le leggi speciali in- vocate da Pelloux. Cambiavano i nomi governativi, ma il copio- ne restava lo stesso. Militari schierati per soffocare le proteste, una nazione rimpicciolita che nella retorica dell’unità celebrava solo il ristretto mondo dei monarchi e dei loro servitori. Nessuna libertà, giornali e fogli sotto sequestro quando non si attenevano al silenzio omertoso. Anarchici e socialisti agli arresti. Le rivolte dello stomaco non risparmiavano neppure Prato. Le distrazioni di Bresci dopo il lavoro erano brevi. Un sigaro, una partita a biliardo, ma poi tutto lo riportava nelle sale fumo- se dove si parlava di rivoluzione. Lui ascoltava, e verso la fine chiedeva la parola. Erano interventi brevi, misurati, quasi sempre preceduti da un preambolo che era diventato il suo soprannome: «Una piccola osservazione…». Sotto quella modesta richiesta di attenzione covava la rabbia. Dopo il fine settimana trascorso in famiglia, c’era sempre il ri- torno a Paterson, il ritmo del lavoro, l’invasivo rumore dei telai, altre riunioni con le loro «piccole osservazioni», mentre il tele- grafo e le corrispondenze dall’Italia arrivavano a schiaffeggiare il suo diritto all’esistenza e lo obbligavano a guardare verso il punto di partenza. In Italia c’erano stati molti morti, quasi un centinaio solo a Milano. Donne, bambini, poveri, e quell’infame del re aveva perfino premiato il generale assassino con una me- daglia. I resoconti dei giornali arrivavano a giorni di distanza dai fatti, ma non attenuavano l’urgenza. Malatesta fece un discorso

32 infiammato, la femministaante litteram Ernestina Cravello pro- mise la sua bellezza a chi avrebbe ammazzato Umberto i per fare giustizia delle «vittime pallide e sanguinanti». Vennero organiz- zate lotterie con rivoltelle in palio, si moltiplicarono i proclami contro il Re Mitraglia. Una coreografia della vendetta anarchica che non lasciò indifferente Bresci. A un certo punto, non sappiamo esattamente quando, la vita oscillante del tessitore di Prato subì uno scossone e l’equilibrio vacillò. Sophie raccontò in seguito di aver visto Gaetano pian- gere perché sconvolto da quanto accaduto a Milano. Quel che è certo, è che cominciò a informarsi del viaggio in Italia molti mesi prima della partenza. C’erano in vendita biglietti a prezzi scon- tati per visitare l’Esposizione parigina. Perché non approfittarne? Alla compagna raccontò che stava pensando di tornare a Prato per rivedere i fratelli e risolvere alcune questioni patrimoniali. Mentre gli anarchici continuavano a dibattere, a discutere, a dividersi, Gaetano pensò dunque che non era più tempo di pic- cole osservazioni. Era tempo di agire. «Se entro due anni non scoppia la rivoluzione in Italia non mi chiamo più Bresci» disse a un compagno. Era ormai stanco di opuscoli e discorsi, di scontri tra anarchi- ci organizzatori e antiorganizzatori, delle loro feroci dispute che avevano raggiunto l’apice durante una riunione al Tivola and Zucca Saloon di West Hoboken. La sera del 12 novembre 1899 Malatesta era stato ferito da un certo Domenico Pazzaglia, vi- cino alle posizioni di Ciancabilla. Era stato proprio Bresci tra i primi a disarmare l’aggressore, evitando il peggio. Stimava Ma- latesta, nonostante fosse sedotto dalla propaganda del fatto. I proiettili andavano indirizzati altrove, alla fonte del dolore, a chi si riteneva immune dalla morte violenta…

Gaetano si ritrova nella sua stanza di Milano, si alza dal letto, e dalla valigia estrae la rivoltella, una Harrington & Richardson calibro 38 a cinque colpi, acquistata a New York pochi giorni

33 > Bresci ha scelto una Harrington & Richardson calibro 38 a cinque colpi. Un’arma piccola ma efficace, che tiene pulita perché tutto vada per il meglio. prima d’imbarcarsi. È un’arma affidabile per chi ha buona mira, e lui si è esercitato molto. La ispeziona, la scruta, se la gira tra le mani, ma non vede altro che ricordi. Ha lasciato la famiglia nel saluto ambiguo che ha riservato anche a compagni e amici, senza dare troppe spiegazioni. «Torno in Italia per questioni di eredità» ha ribadito. «Ci rive- diamo a settembre». Ha preteso la restituzione della quota di denaro versata al grup- po anarchico cui aveva aderito fin dall’inizio, come per non lascia- re tracce, né fornire appigli agli inquisitori che presto andranno a caccia di complici. Poi è partito dall’America esattamente com’era arrivato. Spogliato di un’appartenenza, nudo nel suo proposito: affidarsi a un viaggio di solo ritorno perché i fatti accadano. Adesso che mancano pochi giorni, la stanza gli si stringe ad- dosso nell’afa milanese che chiude il respiro e l’orizzonte. Sophie aspetta un nuovo figlio, ma lui non può sapere che sarà un’altra bimba. Più di tutto gli manca la piccola Madeline.

34 Se tutto andrà come deve andare, pensa, non le rivedrò più. Avrò ucciso il tiranno e verrò consegnato al buio. Se qualcosa andrà stor- to, invece, avrò forse una possibilità di tornare… Bene e male… È difficile ammettere che le coordinate siano talvolta nebulose, e la linea di confine sfocata. Doloroso finge- re che le scelte siano sempre precise, incontrovertibili. Gaetano ripone la pistola nella valigia, torna a letto e cerca di prendere sonno. Domani prenderà il treno per Monza. Spera forse che la sua profezia si avveri, che la rivoluzione accada presto, mentre la macchina fotografica conserva la foto di Cesira Ramella come un ricordo di giornata già sbiadito.

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27 luglio 1900. Sebbene Monza sia a una ventina di chilometri da Milano, mezz’ora circa di viaggio, il treno sembra correre più lentamente, quasi non avesse fretta di arrivare nella sua progressione a stan- tuffo. Uno stridio, uno sbuffo, una ripartenza dopo ogni fermata intermedia… Gaetano attraversa l’attesa quasi in stato di trance, già infiacchito dal caldo, gli occhi rivolti oltre il finestrino a cat- turare i dettagli del paesaggio industriale che ai margini della città sta gradualmente conquistando terreno sulla campagna. È uno strano miscuglio di antico e moderno, un verde chiazzato di muri e recinzioni, case e opifici. All’immagine di Milano che sfuma nei capannoni, si sovrappone quella di Prato e dei ricordi d’infanzia. Una campagna più ondulata, collinare, costellata di botteghe e piccole attività artigianali. Cenciaioli, classificatori di stracci, tessitori. Era un luogo che recava nelle professioni e perfino nell’odore il suo destino produttivo. Abiti e tagli, lane e tessuti. D’un tratto la dimensione familiare era stata messa in ombra da una gigantesca costruzione sorta su un’area di venti-

36 cinquemila metri quadrati. Una fabbrica, la Kossler & Mayer, dura nel nome, inflessibile nella disciplina… Il treno sferraglia e borbotta. Accanto a Bresci, il Biondino se ne sta in disparte, curvo sui propri pensieri, più cupo del solito. L’ultima notte l’ha trascorsa fuori, Gaetano non saprebbe dire dove, e neppure è in vena di fargli troppe domande. Quel com- pagno taciturno comincia a pesargli, ma non se l’è sentita di la- sciarlo solo a Milano. Granotti si è unito nella trasferta monzese, non sappiamo con quale grado di consapevolezza. Avrebbe però voluto che Bresci passasse almeno un giorno a casa sua, a Saglia- no Micca, e si è risentito per il rifiuto del compagno. Mentre il treno percorre gli ultimi chilometri, i due tornano a parlare. «Guarda i miei ritratti, che ne dici?». Bresci mostra le foto scattate a Prato, dove ha trascorso più di un mese da quando è tornato in Italia. Granotti lo ripaga con blando interesse accompagnato da un mugugno, quasi fingesse di non sapere che lì dentro c’è tutta la storia del suo compagno, l’album di famiglia che ha disegnato le coordinate del suo viag- gio. Ecco il fratello Lorenzo, il primogenito, un uomo che ha finito per essere un secondo padre per Gaetano dacché è morto quello vero, Gaspero. Tra loro ci sono tredici anni di differenza. Mentre Gaetano consumava le sue giornate americane sui telai, Lorenzo non si è mai mosso da Prato e ha mandato avanti i magri affari di famiglia facendo il calzolaio. Nella foto ha lo sguardo sornione e bonario, come di un uomo abituato a lottare ma di cui s’intravede la stanchezza. Lorenzo non gli ha mai fatto mancare il suo sostegno, neppure quando Gaetano invocava da Paterson notizie dall’Italia, e lui rispondeva che sì, andava tutto bene, o meglio, andava come sempre. Gaetano ne ha sentito la mancanza più acuta, ed è stato il primo che ha voluto riabbracciare. Ecco un altro ritratto. La sorella Teresa e suo marito, Augusto Marocci, fianco a fianco, lei con i capelli raccolti, una donna di 35 anni ancora fresca di bellezza, lo sguardo intimidito che vuole sembrare severo. Lui con i baffi spioventi e i capelli divisi dalla

37 scriminatura, un uomo in posa dallo sguardo sospeso e malinco- nico. Anche loro vivono a Prato, e Bresci, nel rivederli, ha dato seguito a quanto auspicato più di un anno prima della partenza da New York, in una lettera datata 23 aprile 1899: «Cara sorella e caro cognato… Nella primavera dell’anno venturo spero che ver- rò costà a farvi una visita, e mi fermerò a Parigi e Bologna. Stante che a Parigi c’è l’esposizione profitterò del ribasso che faranno sul biglietto di andata e ritorno…». «Siamo quasi arrivati». Il Biondino interrompe i ricordi e le domande sospese di Gaetano. Ci sarà mai un ritorno in America? E perché ha scelto di ve- nire in Italia? Solo per ammazzare il re? L’album di famiglia si chiude sul ritmo calante del treno che arranca verso il capolinea di Monza e inizia la frenata. Nel riporre le foto, Bresci indugia sul ritratto delle due nipotine, le figlie di Teresa e Augusto, che tengono in mano due mazzi di fiori. Ha fatto quello scatto a Ca- stel San Pietro, vicino a Bologna, dove le bimbe hanno trascorso qualche giorno dalla zia, e Bresci si è offerto di andarle a pren- dere per riportarle nella casa di Prato. Ricorda che è stato un bel viaggio. È tornato anche per questo. Per rivedere la sua infanzia, ma adesso è tempo di scendere. Granotti è sempre più cupo. C’è qualcosa che continua a disturbare i suoi pensieri…

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Alla stazione di Monza c’è il movimento di un venerdì di fine luglio, con le persone che s’incrociano nelle loro diverse destina- zioni, il passo appesantito dal caldo. Un pigro viavai di pendolari e turisti occasionali, o di viaggiatori attratti dal richiamo regale del luogo. La stazione porta i segni della modernità architettoni- ca di fine Ottocento, con rifiniture neoclassiche e una sala d’ac- coglienza riservata a Umberto i e famiglia. È un locale arredato come una piccola residenza per i tempi morti dei Savoia nei loro spostamenti estivi. La sala è decorata e abbellita da un affresco di Mosè Bianchi intitolato Il genio di Casa Savoia, che evoca l’aura sacrale della dinastia. Un piccolo tributo che Re Mitraglia ha preteso per se stesso. Bresci e Granotti vi passano accanto senza indugiare troppo perché sono a pochi chilometri dalla Villa Reale, e sanno che due anarchici potrebbero essere arrestati anche solo per l’aria che respirano, soprattutto se almeno uno di loro ha una rivoltella in valigia. Preferiscono passare oltre e mischiarsi tra i passeggeri, puntando verso il ristorante sul piazzale della stazione, il Caffè

39 del Vapore, dove decidono di fermarsi. Mezzogiorno si avvicina, e loro sono in piedi dalle prime ore del mattino. Seduti al tavolo, consultano il menu e ordinano il pranzo. Poi cominciano a discutere a voce bassa, cosicché poco può essere colto del loro dialogo. Forse stanno ancora battibeccando perché Bresci non è andato a trovare il Biondino nel suo paese, forse c’è dell’altro, perché Granotti ha sempre l’aria guardinga e agitata. «Pure una sala d’aspetto si è fatto fare…» accenna Bresci. «Abbassa la voce» lo ammonisce il Biondino. «È già bassa, nessuno ci può sentire. Che cos’hai? D’un tratto ti è venuta paura?». «Piantala, voglio solo evitare problemi». Bresci mastica lentamente. Il tempo ora non manca, e adesso si guarda intorno con la disinvoltura di uno abituato a viaggiare. Lui è venuto apposta per creare problemi, ed è determinato ad andare avanti. Vuole che il re paghi. «Il conto, grazie». Finito il pranzo, i due escono dalla stazione e s’incamminano. Devono trovare un posto dove alloggiare, ma Bresci preferireb- be stare da solo, concentrarsi sui fatti che devono accadere, non disperdersi in recriminazioni inutili sulle visite mancate e le pre- cauzioni da osservare. Percorrono le strade adiacenti alla stazione e quelle del centro. Poco lontano c’è via Cairoli, dove Bresci nota l’insegna di una piccola pensione. Sono circa le sedici quando entra al numero civico 4 e chiede una stanza alla proprietaria, la signora Rossi vedova Cambiaghi. «Ne ho solo una libera» gli dice. «Per il suo amico non c’è posto, mi spiace». «Va bene, io mi fermerò otto giorni». Gaetano fissa una camera per sé, poi saluta il compagno, quasi avesse fretta di separarsi: «Fammi sapere dove stai, ci vediamo».

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Strano rapporto, quello con i fratelli. Gaetano è l’ultimo di quat- tro. Con Lorenzo e Teresa ha condiviso un legame che è soprav- vissuto ai rovesci economici della famiglia e alla sua turbolenta vita politica e affettiva. Prima di partire per l’America, Gaetano ha messo incinta un’operaia conosciuta in un lanificio di Ponte all’Ania, vicino a Lucca, l’ultimo posto dove ha lavorato prima di affidare a una nave il suo diritto all’esistenza. Ha chiesto a Lorenzo e Teresa di provvedere al necessario per la nascita del bimbo, forse perché la sua decisione di emigrare non sembrasse una fuga ignominiosa. Dai due fratelli non ha ricevuto giudizi, ma aiuto, e anche a Paterson ha mantenuto i contatti con loro. Diverso, anzi agli antipodi, il legame con il secondogenito An- gelo, di sette anni più vecchio, con cui fin da piccolo Gaetano ha avuto un rapporto contrastato, fatto di litigi e incomprensioni. Anziché attenuare gli attriti, il tempo ha scavato ulteriori distanze tra loro, perché Angelo ha scelto la carriera militare ed è riuscito a diventare ufficiale d’artiglieria a dispetto delle origini modeste. Per Gaetano rappresenta una specie di ritratto alla rovescia, il negativo

41 di una foto mai scattata, una traiettoria opposta alla sua che lo ha portato invece all’estero per sfuggire alla povertà e ad altri uomini in divisa. Angelo, dal canto suo, è stato ossessionato dal peso del fratello anarchico, e i fatti che stanno per accadere gli presente- ranno presto il conto. Il tenente Bresci sarà costretto a rinnegare il sangue del regicida, a lavare l’onta del cognome per restare nei ranghi dell’esercito, a macerare nel silenzio la personale sofferenza che nessun libro potrà mai raccontare compiutamente… È sera. La stanza di via Cairoli, a Monza, è bollente. Bresci ha in mano i proiettili della rivoltella e ne sta incidendo la punta. È una tecnica che ha appreso in America per rendere micidiali i colpi, aggravandone le conseguenze. Mai come ora si sente così vicino al nemico, determinato, e nella penombra estiva di una città estranea quanto Milano consuma i suoi ricordi a freddo, senza apparenti scossoni emotivi, quasi fossero il preludio di una vendetta per ciò che non può più essere cambiato. Come la sua infanzia breve…

Correre per la campagna tra i frutteti e le strade sterrate, o ab- bandonarsi al gioco di una palla da far rimbalzare contro il mu- ro al canto di una filastrocca… L’infanzia di Gaetano era stata cullata dalla tranquillità economica, un periodo appena iniziato in cui cominciavano a sbocciare i sogni più semplici, ad esempio viaggiare, conoscere altri luoghi. Abitavano a Coiano, una fra- zione di Prato che si perdeva nella campagna. Il puzzo dei cenci, degli stracci, del lavoro alacre sui telai arrivava fino al centro della città, ma le case di artigiani e contadini, basse a due o tre piani, avevano accanto i loro piccoli campi coltivati. Anche suo padre Gaspero aveva un podere che aveva garantito alla famiglia un decente tenore di vita. In pochi anni, però, la campagna si era ristretta. La crisi agraria aveva impoverito i contadini, preparan- do per loro un altro terreno e imponendo la riconversione forzata dai campi all’industria. Ecco così che, d’un tratto, il gioco di Gaetano si era interrotto, e le suggestioni dell’infanzia avevano

42 > Che cos’era stata la sua vita fino ad allora se non un diritto negato? Negato il diritto all’in- fanzia, a un lavoro dignitoso, alla libertà. Per questo aveva deciso di seguire le rotte del mare, affidandosi a un viaggio lungo, carico di paure e malinconie. ceduto il passo alla necessità. L’improvviso peggioramento delle condizioni di famiglia lo avevano costretto a entrare precoce- mente nei ranghi del lavoro. Suo padre lo voleva apprendista. Per se stesso Gaspero aveva rimediato un impiego modesto, ma vendere spole ai produttori della zona non era né redditizio né auspicabile per il futuro del fi- glio, che aveva invece l’età giusta per impadronirsi di un mestiere e proteggersi dalle intemperie e dagli arbitrii dei cicli economici. Gaetano cominciò il suo apprendistato. Lavorava dovunque ci fosse da imparare, per pochi soldi, e la domenica frequentava la scuola di Arti e Mestieri. Una vita faticosa per il bambino diventato ragazzo che si vedeva negato perfino il diritto a un’i- struzione piena, ma che lo portò presto a diplomarsi e a diventare un tessitore di simpatie anarchiche.

43 Più stava nei luoghi di lavoro, più capiva che la realtà era lon- tana da qualunque sogno. C’era chi calpestava e chi veniva cal- pestato. C’era l’esercito del Re Mitraglia con i suoi inutili codici d’onore, i fregi infantili, i suoi fasti e i suoi fucili. E c’era il popolo vessato, con i morti in Sicilia, in Lunigiana, dovunque si cercasse di affermare il diritto all’esistenza attraverso scioperi e lotte. Prato non faceva eccezione. Una cittadina di quasi cinquan- tamila abitanti in cui il ritmo della crescita industriale aveva as- sunto un carattere caotico e pulviscolare. Miriadi di botteghe e attività artigianali definivano il perimetro della città e stem- peravano i confini tra il centro abitato e i borghi circostanti. Il ritmo pulsante delle macchine produceva ricchezza per pochi e un ambiente malsano per gli altri. Un rapporto della municipa- lità, risalente alla fine dell’Ottocento, rilevava pessime condizio- ni igieniche anche nella centrale piazza Duomo, che ospitava le bancarelle degli ambulanti: «Sudicio, fogne che esalano un feto- re nauseante, stracci ovunque sulle piazze e nelle vie, case mezze diroccate, barcollanti, sudice, gore scoperte…». Era il prezzo di uno sviluppo sregolato che teneva gli ultimi ai blocchi di partenza, relegandoli in case che anche i giornali locali definivano «insalubri» almeno quanto le piccole attività produtti- ve dove gli orari si allungavano e i telai crescevano di dimensioni. Un contesto fertile per la propaganda rivoluzionaria. Il giovane Gaetano cominciò a frequentare presto i circoli anarchici che, in- sieme a quelli socialisti, erano poli d’attrazione per il malcontento sociale e facevano di Prato un piccolo laboratorio di sovversione. La storia locale di fine Ottocento è fitta di richiami ad alcuni nomi. Come quello di Giovanni Domanico, socialista anarchico calabrese mandato al confino nella città del tessile, attivo nella propaganda e nell’iniziativa. Solo anni dopo si sarebbe saputo che Domanico era anche un informatore del governo, uomo con- trastato e contrastante, su cui decenni di storia non hanno risolto i dubbi. Di certo la sua presenza non passò inosservata a Bresci, che conobbe anche Giulio Braga, artigiano anarchico che riversò

44 > A Prato una gigantesca costruzione era sorta su un’area di venticinquemila metri quadrati: la Kossler & Mayer, dura nel nome, inflessibile nella disciplina… nelle pagine dei suoi quaderni e nei suoi comizi l’interesse attivo per la questione operaia, tanto che nel 1897 divenne il primo se- gretario della Camera del Lavoro pratese. Come lui, anche Gio- condo Papi, altro animatore delle prime lotte sindacali, esercitò un’influenza attiva su Bresci, che intanto aveva dovuto cambiare passo alla sua esistenza. L’anno di svolta fu il 1888, quando sulla lunga via Bologna, poco distante dalla frazione di Coiano, si aprirono le porte della fabbrica Kossler & Mayer, dal nome dei due soci (uno austriaco, l’altro tedesco) che avevano deciso d’investire in un’impresa di- rompente per il territorio: il primo vero stabilimento industriale di stampo moderno, con oltre seicento telai meccanici e una la- vorazione completa del ciclo della lana. Era un misto di riverenza e rancore quello che i pratesi sentirono da subito per quel luogo, consapevoli che avrebbe cambiato per sempre le loro vite, e quelle dei loro figli. Per questo, ancora oggi, tutti lo chiamano con un no- me sinistro e altisonante, insieme lugubre e solenne: il Fabbricone.

45 > Il ritmo delle macchine produceva ricchezza per pochi e un ambiente malsano per tutti gli altri.

Il gigante di mattoni rossi inghiottì da subito le storie di no- vecento operai, schedati nei registri su cui veniva annotato il ca- sato, il nome del padre ed eventuali osservazioni, quasi sempre provvedimenti disciplinari desunti dalle pagine sopravvissute a un incendio, accartocciate e ingiallite: espulsioni per assenze, licenziamenti per furto o malattia, e così via. Era qualcosa di simile a una caserma, con le sue docce, gli spogliatoi, la mensa, e le sue regole inflessibili. Il lavoro giornaliero durava almeno dieci ore, regolate dal ritmo e dal frastuono dei telai. Possiamo immaginare le impressioni di un ragazzo, neppure ventenne, costretto a cambiare improvvisamente tragitto. Ogni mattina camminava rasente al muro compatto del Fabbricone, e oltre il muro sentiva l’odore dei capannoni industriali. Alme- no il fratello, Angelo, si era scelto la carriera militare. Lui non aveva avuto alternative. Tra casa sua e il Fabbricone c’erano all’incirca quindici minuti a piedi, ma era come se Gaetano attraversasse ogni giorno la distanza incolmabile tra il mondo dei suoi affetti e quello della disciplina e del dovere che avevano calpestato la sua infanzia, e che stavano ora seppellendo i suoi sogni. Quell’esperienza fu il primo, vero banco di prova dei suoi principi anarchici.

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28 luglio 1900. È sabato. I monzesi si preparano alla festa in una città inebeti- ta dal caldo. Tra bandiere tricolori e composizioni floreali stanno accogliendo con tiepido interesse le squadre che parteciperanno al concorso ginnico del fine settimana. Arrivano i pompieri di Milano, gli atleti di una Trento ancora «irredenta», comitive da tutta Italia per celebrare l’unità nella presenza di corpo e spirito agonistico. I giornali hanno parlato della manifestazione, senza però alcun cenno alla presenza di re Umberto. Il sovrano è sta- to invitato dagli organizzatori e dalle autorità per la cerimonia di chiusura di domenica sera, ma in pochi lo sanno. Bresci ha dormito di un sonno strano, inquieto eppure ristoratore, e al ri- sveglio ha sentito le proprie forze convergere sul portafoglio. Ha controllato quanto gli è rimasto e ha deciso che era sufficiente per concedersi un sopralluogo speciale. Ha preso una carrozza e ha seguito il flusso degli atleti incorniciato dagli stendardi e dallo stemma dei Savoia. Ha studiato il percorso, riflettuto sulle eventuali vie di fuga,

47 macerato i dubbi nella sua marcia di avvicinamento alla Villa Reale, la residenza estiva di Umberto e Margherita. I sovrani si sono sposati per perpetuare la dinastia, ma vivono esistenze qua- si separate. Lui è il Re Buono nella retorica dei giornali; chiama- to così da quando, nel 1884, si è recato in visita tra gli ammalati di colera a Napoli. È un uomo che scappa di frequente dalla sua amante, compagna che da anni lo segue ovunque. Non che sia una questione di morale, il libero amore è per Bresci un precetto di vita, ma qui spicca l’ipocrisia che offende, il lato cinico del potere. Ci si sposa per comandare, e si ama nella clandestinità. Gaetano pensa che tutto questo potrà tornare a suo vantaggio, perché gli spostamenti furtivi del re lasciano il bersaglio a tratti scoperto. Si tratta solo di capire dove e quando. Adesso che è sceso dalla carrozza, trova inutile indugiare sulle immagini dei picnic e delle gite fuori Paterson. Inutile struggersi al ricordo di Madeline e del suo sorriso, delle passeggiate con So- phie insieme alla piccola, inutile rievocare gli scatti di vita felice che Gaetano ha deciso di lasciare nella stanza. Ora la macchina fotografica è una copertura, il parco di Monza un punto di os- servazione che ha qualcosa di lugubre. L’ombra degli alberi non serve a lenire la calura opprimente, ma a coprire gli spostamenti. Gaetano si guarda intorno, tra quel paesaggio estraneo, e cerca di capire da dove passerà il re, fingendo un’attenzione distratta per la solennità ostentata della Villa Reale. Deve apparire come un turista svagato che se ne va a spasso con la sua macchina fotografica in mano, chiedendo notizie per una blanda forma di curiosità. «Ma ogni tanto lo vedete il re che esce?». «Qualche volta». «… e passa spesso di qui?». «Ogni tanto…». «Dicono che domenica sarà al concorso ginnico, è vero? Vor- rei poterlo vedere prima di partire…». «Può essere, non so. Ma il campo sportivo è laggiù, in via

48 Matteo da Campione. Non può sbagliare. Dalla Villa Reale sem- pre dritto poi a sinistra… saranno quattrocento metri». Concentrato sull’azione si avvicina al punto, ogni gesto stu- diato, ogni passo calcolato per arrivare senza che nessuno lo noti. In via Matteo da Campione osserva la tribuna che volta le spalle alla strada e dà sul campo sportivo. Bene. Il sopralluogo sta defi- nendo la mappa delle coordinate essenziali, fornisce indicazioni, suggerisce gli appostamenti migliori. Gaetano non si distrae, eppure ogni tanto i ricordi si rifanno sotto, e il pensiero torna a Madeline, a Sophie, agli amici d’in- fanzia, ma non è tempo di dubbi, incertezze, sentimentalismi che possano incrinare i propositi di azione. I dubbi vanno scacciati, e Gaetano sente che c’è un modo sicuro per non pensare trop- po, ed è quello di affidarsi all’abbraccio di una donna estranea quanto basta perché non faccia troppe domande e si accontenti al massimo di risposte generiche… «Da dove vieni?». «Da Prato». «Che cosa fai qui?». «Sono venuto a Milano per lavoro. Sono tessitore». «Ti piace Milano?». «No». I verbali che saranno scritti quando tutto sarà accaduto recano traccia di questo incontro. Bresci esigerà una sola modifica nella versione dei fatti. «Non era una prostituta» dirà. «Scrivete signora».

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Per il resto, quelle che precedono l’attentato sono ore di piatta normalità, rapide quanto uno sparo, lunghe come l’attesa di una condanna a morte. Alla sera Bresci rivede Granotti, e i due ce- nano insieme senza spendere troppe parole, come se l’essenziale imponesse il silenzio. Gaetano ha consumato una minestra, poi un pezzo di formaggio che ha mangiato per metà. Se ne sta as- sorto al tavolo, la sigaretta in mano, lo sguardo sospeso davanti ai resti del piatto. Granotti, di fronte a lui, è taciturno e curvo sul suo pasto, poi alza gli occhi verso il compagno. «Che hai?» chiede. «Niente, perché?». «Sembri quasi in trance. A cosa stai pensando?». «Al re» risponde laconico Bresci. Il Biondino si ferma sull’ultimo boccone, e alza ancora di più lo sguardo, quasi volesse mettere a fuoco la fonte delle sue paure. «Sei matto? Vuoi farti sentire?». «… tutto questo spreco, questi palazzi regali, queste architet- ture imponenti… tutto per pochi parassiti…».

50 «Piantala» dice Granotti. «Continuo a pensare che ti avrebbe fatto bene venire da me qualche giorno. Ti avrei fatto conoscere mia madre». «Non ne parliamo più, per favore. Ti ho già spiegato che non era possibile». «Ho paura dei tuoi discorsi. Qui rischia di finire male…». «Rilassati e mangia». Sui due torna a gravare un silenzio sospetto, sedizioso, che porta il Biondino ad abbassare di nuovo lo sguardo. Bresci gli sembra in balìa di una determinazione ipnotica, mentre lui si sente scosso dall’agitazione. Gaetano spegne la sigaretta nel piat- to e ordina il conto. Ha fretta di tornare nella sua stanza.

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Qualcuno lo sta aspettando. In America Sophie lo attende per settembre con qualche apprensione, mentre porta avanti da sola la sua seconda gravidanza. A Prato il fratello Lorenzo si chie- de invece perché Gaetano non sia ancora arrivato nonostante gli abbia preannunciato il suo ritorno da Milano. Il fatto è che Gaetano ha deciso di spostarsi in direzione contraria. Pochi chi- lometri, ed è arrivato a destinazione. Monza. Gli stemmi del re. Le sue bandiere, le sue sciocche coreografie. Sullo sfondo le mani degli inermi uccisi dalle fucilate di un generale assassino che Umberto ha decorato per i presunti servigi resi alla civiltà… C’è tutto un copione che precede questo momento. La pover- tà, le angherie, gli arresti, l’esilio, l’amore, la felicità di un mo- mento con la piccola Madeline, l’abbraccio con la sorella Teresa, la mano vigorosa e protettiva di Lorenzo. Tutto ha finito per convergere su Monza. Qualcuno che gli è caro lo sta aspettando, ma sembra apparte- nere a un’altra vita, a un pezzo staccato del proprio corpo. Adesso Bresci è concentrato sulla rivoltella, la sua calibro 38 a cinque

52 colpi. Arma piccola ma efficace. La sta pulendo perché tutto va- da al meglio. È arrivato preparato. Si è allenato per giorni al poligono di tiro di Galceti, a pochi chilometri da Coiano. Ha affinato la mira per arrivare al petto del re ricco di onorificenze. Bresci punta l’arma, e nel chiudere l’occhio rivede il poligono, i suoi bersagli fissi, e sullo sfondo la campagna intorno a Prato. Sono passati solo pochi giorni. Sembrano un secolo. Prima di partire per Bologna e Milano, Gaetano è voluto tornare per l’ultima volta a Galceti con il fratello Lorenzo, il cognato Augusto Marocci, Giu- lio Braga e l’amico d’infanzia Gabriele Livi. Si sono regalati una gita per innaffiare nel vino i ricordi e confrontarli con il presente. In tre anni la città non è cambiata. È sempre soggiogata dal profilo monumentale del Fabbricone. Si continua a lavorare duro, per pochi soldi, a condizioni rigide. La disciplina non concede deroghe, e chi si ribella viene ancora escluso. A metà giugno, poco dopo il suo arrivo in Italia, Bresci ha aderito a una sottoscrizione in favore degli scioperanti in lotta per migliorare

> Si è allenato per giorni al poligono di tiro di Galceti, a pochi chilometri da Coiano. Ha affinato la mira. E anche adesso, quando punta l’arma, rivede il poligono, i suoi bersagli fissi, e sullo sfondo la campagna intorno a Prato.

53 paghe e orari. Non ha dimenticato. Sono le stesse rivendicazioni di quando lui si era trovato sulle linee dei telai a difendere le donne piegate dalla fatica, pressate dai comandi e dall’arrogan- za fredda dei capi. Si era guadagnato una fama ambigua: buon tessitore e pericoloso attaccabrighe. La sua separazione dal Fab- bricone si era consumata presto, nel 1891, proprio in seguito a uno sciopero che si era concluso con l’intervento dell’esercito e decine di arresti. Estromesso dalla fabbrica, aveva saputo fare tesoro del mestiere, trovando altrove lavoro e terreno fertile per il suo impeto rivoluzionario. Nelle targhe e nelle lapidi Prato recava la memoria lontana del Risorgimento. Ma il passaggio di Garibaldi alla stazione ferrovia- ria, o l’intestazione delle vie a patrioti locali, sembravano richia- mi sbiaditi dal tempo e dalla retorica. Per Bresci erano gli anar- chici il sangue della speranza, il sogno della libertà oltre i confini di una galera che non risparmiava donne e ragazzi. Gli anarchici rappresentavano il diritto di esistere e facevano paura ai borghe- si. Con loro era cresciuto, discutendo, accalorandosi, ascoltando. Con loro aveva passeggiato per le vie del centro sotto la luce dei lampioni a gas. Fu in una sera così che Bresci si guadagnò l’anticamera del carcere. Era il 2 ottobre 1892, data facile da riportare, perché scritta nei verbali delle guardie che raccontarono la loro versione dei fatti. Bresci, insieme a un gruppo di amici e compagni, era intervenuto per difendere un ragazzo, un garzone di macelleria multato per non aver rispettato gli orari di chiusura del negozio. Era tardi, e le strade avevano cominciato a svuotarsi. Restava solo traccia dell’autorità, una ronda notturna che aveva deciso di colpire il più debole. Era un garzone, ma lui ci aveva visto soprattutto un ragazzo in lacrime che implorava due uomini in divisa di lasciar perdere, di non infierire sul suo stato, ma quelli erano impenetrabili, chiusi nell’applicazione della loro legge che era sopruso, determinati a esigere il tributo. «Ehi, voialtri… sì, dico a voi. Sarebbe meglio che lasciaste

54 > Da quella sera Gaetano ebbe il suo marchio: «anarchico pericoloso». Bastava questo per giustificare il domicilio coatto su un’isola lontana. stare quel povero operaio, non siete stati anche voialtri operai?». «Chi parla? Chi è laggiù?» esclamò una guardia. «Già… oggi appartenete agli sfruttatori, e siete una massa di spie, ladri e vagabondi». «Le vostre generalità» chiese una guardia avvicinandosi. «Il mio nome non lo dico neppure a Dio». E così era stato. Lui non aveva parlato, e loro avevano dovuto chiamare rinforzi. Solo dopo qualche ora erano riusciti a risalire all’identità del provocatore: Bresci Gaetano, fu Gaspero, nato a Coiano, frazione di Prato, il 10 novembre 1869. Ci aveva rime- diato quindici giorni di cella e venti lire di multa. Nulla di sor- prendente. In Italia continuavano ad accanirsi sui più poveri, sui senza patria, perché la nazione era un marchio di appartenenza buono solo per il re e i suoi cortigiani, i suoi piccoli padroni, i suoi generali. Da quella sera anche Gaetano ebbe il suo marchio, così profondo che bastava da solo, in quegli anni, a giustificare il domicilio coatto su un’isola lontana. Anarchico pericoloso.

55 Un anno a Pantelleria, al lavoro su telai preparati apposta per i prigionieri. Accerchiato dal mare, aveva cercato nei libri le co- ordinate della sua controffensiva. Un anno di letture per tro- vare un approdo oltre la solitudine e la disperazione. Bakunin, Proudhon, Malatesta. Poi, imprevista, la grazia beffarda, giunta dopo la disfatta coloniale di Adua, e il ritorno a casa. Con quel marchio esplicito e in fondo voluto, gli era stato più difficile trovare lavoro, ma il mestiere stava dalla sua parte, e così era riuscito a farsi assumere da un lanificio in provincia di Lucca, la fabbrica Michele Tisi & C. di Ponte all’Ania, una frazione di Barga. Ci lavorò alcuni mesi. In quel periodo, come raccontò poi un’anziana abitante, Bresci corteggiò molte donne. Era galante, aveva la parlantina sciolta, sapeva come colpire la sensibilità fem- minile. Gli piaceva ballare. Di certo ebbe una relazione intensa con un’operaia. Si chiamava Assunta, ed era rimasta vedova per la precoce morte del marito. Fu una storia diversa dalle altre, perché lei rimase incinta e Gaetano ebbe a riflettere sul suo fu- turo. Da un lato c’era l’Italia, con le sue giornate tutte uguali e abbrutenti, con l’esistenza che si consumava lentamente come un debito mai estinto sotto il tallone della rassegnazione. Dall’altro lato c’era l’America, con le sue promesse e le sue ricompense. Così Gaetano aveva deciso, e aveva scritto la sua scelta su una lettera: «Prato lì 26 gennaio 1897 Io sottoscritto dichiaro di riconoscere il figlio che partorirà Assunta Pellegrini come mio e supplire alle spese del parto ag- giungendo di riconoscermi debitore di lire 120. Bresci Gaetano». Dopo era partito… Il tremore nel letto è il riflesso di una sensazione pallida di malessere. Bresci ha riposto la sua rivoltella in valigia e si è sdraiato. È agitato, non riesce a prendere sonno. Tanti pensieri in penombra si riaffacciano nel dormiveglia e s’intromettono nel suo piano d’azione. La sua bimba lasciata in America, il

56 figlio suo e dell’Assunta mai conosciuto, morto ad appena un anno, le persone che sono sopravvissute alla miseria e lo stanno aspettando, le poche righe scritte a Sophie qualche giorno dopo il suo arrivo in Italia: «Sii buona, così la bambina, e sarai conten- ta di me quando ritornerò». Sa che lo stanno aspettando, ma anche lui sta aspettando da tempo che qualcosa accada. Come resisterà, questa sera, all’asse- dio dei ricordi? Lotterà a lungo contro i propri pensieri, oppure si girerà nel letto e si addormenterà? Omissis.

57 > Nel 1896 si chiudeva, con la disfatta di Adua, la sanguinosa impresa coloniale nel corno d’Africa, che aveva fatto migliaia di vittime tra i soldati italiani. Per mitigare la disfatta arriva anche la grazia regia e il ritorno a casa di molti confinati. 13

29 luglio 1900. «Il caldo aumenta di continuo in modo inesorabile. Ieri il ter- mometro posto a S. Carlo, sul corso Vittorio Emanuele, segnava 38.2! Una temperatura quale a Milano non si aveva mai avuto negli ultimi cinquant’anni (…). Quest’estate rimarrà perciò me- morabile…». Fa caldo anche a Monza, e anche a Monza l’estate del 1900 resterà memorabile. Nel trafiletto di cronaca che appare sulCor - riere della Sera di quel giorno c’è qualcosa che ci riavvicina al no- stro presente, la sensazione che certe notizie si ripetano a oltre un secolo di distanza. Ci sembra quasi di riviverle… il caldo, l’afa, la fuga dei milanesi verso piscine e luoghi di villeggiatura, ovvia- mente per quelli che possono permetterselo. L’anno d’inizio se- colo, insomma, non sembra poi così lontano, almeno nella scelta delle notizie brevi che fanno da corredo a quelle importanti. Su un’altra colonna, il quotidiano milanese annuncia il «con- corso ginnastico» cui prenderanno parte almeno tredici squadre che sono arrivate a Monza da varie città: Varese, Lecco, Milano,

59 Genova, Codogno, perfino Trento, non ancora italiana, la cui rappresentanza muove le corde della retorica risorgimentale. Vie- ne accolta con «vivi applausi», scrive il Corriere della Sera, sorvo- lando sulla triplice alleanza dei Savoia con Germania e Impero austro-ungarico. Il saggio ginnico ha preso il via la sera precedente ed è stato organizzato dalla società Forti e Liberi di Monza presso il campo sportivo in via Matteo da Campione. Per la cerimonia di chiu- sura ci saranno le massime autorità, annunciano i giornali, che sorvolano ancora sulla presenza del re. Poco lontano, Umberto i è già in piedi. Ha 56 anni, 4 mesi, 15 giorni e una sfilza di nomi: Ranieri Carlo Emanuele Giovan- ni Maria… Si è alzato presto, intorno alle sette, pronto a infor- care il cavallo da cerimonia e a iniziare con una cavalcata la sua tipica giornata da re: una facciata d’impegni costruiti sul fragile assetto dei sentimenti umani. Dopo la cavalcata il sovrano ha affrontato la difficile situazione dei suoi capelli e dei lunghi baffi bianchi spioventi, e ha deciso di farsi dare un’aggiustata dal bar- biere. Ci sono appuntamenti importanti che lo attendono, e lui vuole farsi trovare al meglio. Poi è andato alla messa nella cap- pella di famiglia. Umberto sta pensando anche all’ora migliore per incontrare la sua amata, la duchessa Eugenia Litta Visconti, che lo segue durante i suoi spostamenti e lo attenderà in serata in una villa adiacente alla reale magione estiva. Umberto pregu- sta il rendez-vous. Nella stanza di via Cairoli, invece, Bresci si è alzato tardi. Alle dieci di questa domenica assolata è ancora sul balcone ad asciugarsi. Pulizia e una sistemata ai baffi per arrivare in ordine all’appuntamento. Non ha fretta perché ha già deciso che colpi- rà di sera, tra la penombra e il buio, nel momento di massimo afflusso, quando sarà più facile perdersi tra la gente. Perché do- vrebbe esporsi ormai alla luce del giorno? Eppure c’è qualcosa, fuori, che lo sta richiamando. È l’odore dell’aria, forse, calda e satura di umidità. Quasi il preannuncio di un temporale, di uno

60 scuotimento che arriverà a far tremare anche le stanze dei sovrani e i loro letti. Gaetano si prepara dunque a uscire, e comincia a vestirsi. La sua eleganza, che lo segue da anni come un’etichetta, si rivela nella scelta dei dettagli. Una camicia bianca, semplice ma curata, la catena d’oro, le scarpe marroni di foggia raffinata, un fazzolet- to nero di seta. Panciotto e giacca, ed ecco che Bresci è pronto ad affrontare la strada che lo porterà a destinazione. Sulla porta di casa incontra la portinaia. «Caldo, eh? Pare si preannunci un temporale» dice la donna. «Beh, speriamo non rovini la festa…» risponde lui prima d’in- camminarsi. Il re, nel frattempo, ha discusso con gli organizzatori del sag- gio ginnico le modalità della sua presenza. Arriverà verso le ven- tuno, e per questo ha chiesto di far slittare di un’ora la cerimonia di chiusura. Si avvicina il momento del pasto, ma Umberto non ha troppa fame. Di lì a poco consuma il suo pranzo regale, che in realtà ha poco di solenne nonostante il menu infarcito di fran- cesismi. Tra lui e la regina Margherita un muro di pietanze e un ostinato silenzio. Umberto sta forse pensando all’inutile trafila di doveri che precederà l’incontro con Eugenia. Margherita lo ricambia con una fredda masticazione. «È proprio necessario che tu vada?» chiede improvvisamente al marito. «Lo sai, le manifestazioni di affetto del popolo mi rafforzano. Stasera ci sarà la gioventù…». «E chi ti dice che vorranno festeggiarti?». «Sono il Re Buono, in fondo, no?». Non è che un dialogo immaginario, ma le biografie del re, negli anni a venire, saranno avare di particolari. Umberto è un uomo double face. Re Buono o Re Mitraglia a seconda della pro- spettiva. Chi propende per la seconda definizione è forte dei pre- cedenti storici. I massacri in Lunigiana, in Sicilia, a Milano. Le onorificenze date agli assassini. La guerra in Etiopia. Già in due

61 > Più si avvicina al campo sportivo, più Umberto diventa un bersaglio facile. Qualcuno potreb- be sparare, d’altronde sono «gli incerti del mestiere di re», come ha affermato solo tre anni prima quando un altro giovane anarchico, Pietro Acciarito, ha tentato di accoltellarlo a Roma. occasioni hanno tentato di colpirlo, nel 1878 e nel 1897. Una specie di battesimo del fuoco per il sovrano che gli adulatori con- tinuano a chiamare «Buono». Gaetano, intanto, si è seduto al tavolo di una latteria e sta con- sumando il suo secondo gelato. La proprietaria, Maria Carenzi, lo osserva incuriosita, perché accanto a Bresci sta seduto un altro uomo, giovane, probabilmente un avventore occasionale come lui. A giudicare dai loro occhi sono impegnati in una conversa- zione cordiale, inizialmente superficiale ma poi più sciolta. L’in- terlocutore di Bresci, a distanza di anni, racconterà di aver letto tracce d’inquietudine nello sguardo di quell’uomo, corredate da una strana frase: «Oggi per me è una brutta giornata».

62 Probabilmente Gaetano comincia a sentire l’agitazione che precede l’attentato. Presagisce che il cielo sereno si chiuderà nelle nubi e che quella giornata segnerà il distacco dalla luce del sole. Parla a lungo con l’uomo, che fa il commerciante di cereali e viene da Vigevano. Gli racconta soprattutto della sua famiglia, di Sophie e Madeline, di quanto siano lontane e gli manchino, e un velo malinconico incrina la sua concentrazione. Poi il giovane commerciante si alza e lo saluta. «Buona permanenza, allora». Bresci lo ricambia con un congedo enigmatico e inquietante: «Guardi bene la mia faccia, se ne ricorderà. Comunque spero di rivederla». Dopo il consueto riposo regale, Umberto sbadiglia svogliato e osserva le immagini sbiadite di alcune foto ufficiali. Lui e la regina in carrozza. Lui e un drappello di alti ufficiali. Generali, dignitari di corte. La lunga mano della monarchia appesa ai ri- tratti, e Umberto che adesso sbuffa tra i suoi folti baffi bianchi, emozionato come un adolescente per la fuga d’amore che ha già pianificato dopo che gli adempimenti del giorno saranno con- clusi. Dispacci da leggere, fili di parole telegrafiche che lo ricol- legano ai palazzi romani: gli aggiornamenti sulla rivolta cinese dei Boxer, che sta mettendo alle corde le delegazioni straniere e richiede dunque un intervento militare «pacificatore» e coordi- nato, poi un resoconto sulla crociera nel Mediterraneo del figlio Vittorio Emanuele e della consorte Elena. Pratiche da sbrigare, documenti da firmare, e non uno che corrisponda al suo stato d’animo. Le ore del pomeriggio passano insieme lente e veloci. L’ufficialità delle funzioni allunga il tempo, l’attesa dell’incon- tro con Eugenia lo accorcia. Fuori, il concorso ginnico sta per riprendere. Lui arriverà verso la fine per la cerimonia di premia- zione, dispensando medaglie e incoraggiamenti al popolo di sana e robusta costituzione. Gaetano si sente fiacco. Il caldo è nelle ossa, i pensieri umidi. È al suo quarto gelato, e la lattaia ha sorriso di quello strano

63 cliente che, rimasto solo al tavolo, affonda da ore il cucchiaino senza apparenti pensieri che possano scalfire la sua ipnotica in- differenza. La donna non ha potuto esimersi da un commento scherzoso: «Con tutto questo caldo, lei ha l’aria di volersi rinfrescare…». «Già». Bresci non ha voglia di nuove conversazioni, neppure con le donne. È tornato silenzioso, concentrato sul suo piano. L’a- ria è sempre satura di un odore strano, come se preannunciasse un’imminente esplosione. Forse la rivoluzione accadrà, pensa pri- ma di alzarsi e andare incontro alla sua pagina di storia.

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Bresci s’incammina verso la Villa Reale. La marcia di avvicina- mento è scandita da una strana forma di sfasamento temporale. Tasta il calcio della rivoltella che tiene nella tasca della giacca, ma i minuti o le ore sembrano non contare più. Arrivare al punto migliore per prendere la mira è ormai l’unico pensiero, mentre il sole sta calando. La luce del giorno si è già fatta penombra, e il pubblico, i curiosi, le persone in divisa si dirigono verso l’in- gresso della società Forti e Liberi. Il campo sportivo è a poche centinaia di metri dalla Villa Reale, lungo il viale alberato che sembra una passerella regale, un omaggio dovuto, un’appendice urbanistica necessaria. A lato della strada hanno montato tre tri- bune che danno sull’interno del campo e ne precludono la vista. Dentro s’intuisce la presenza degli atleti che si preparano con le loro magliette a strisce, i loro attrezzi, i bastoni per gli esercizi ginnici, chiamati Jager dal nome del tedesco che li ha inventati. Una novità per quel periodo. Il re arriverà tra poco. Occorre agi- re in tempi rapidi, senza esitazioni. Umberto ha consumato una cena frugale. Poi, accompagnato

65 dai generali Ponzio-Vaglia e Avogadro di Quinto, è salito sulla carrozza, allontanandosi dallo sguardo cupo della regale con- sorte. Quando il drappello è fuori dalla Villa Reale, arrivano i primi applausi. Tiepide acclamazioni, in realtà, che le crona- che del giorno dopo definiranno «vivissime». Più si avvicina al campo sportivo, più Umberto è un bersaglio raggiungibile. La scorta è minima, la confusione prevale sull’ordinato assetto delle guardie a cavallo. Qualcuno potrebbe sparare, ma sono «gli incerti del mestiere», come il re ha detto solo tre anni pri- ma quando un giovane anarchico, Pietro Acciarito, ha tentato di accoltellarlo a Roma. Umberto ne è uscito illeso e se l’è ca- vata con una battuta di spirito. C’è tuttavia qualcosa di nefa- sto che lo accompagna fin dall’anno del suo insediamento. Nel 1878, a Napoli, un altro anarchico, Giovanni Passannante, si era scagliato contro di lui, ma il suo pugnale aveva colpito solo di striscio il monarca. «La poesia di casa Savoia è distrutta…» dichiarò in quel frangente la regina, e gli anni seguenti avreb- bero realizzato quella profezia. La poesia si è infranta sui morti ammazzati nelle strade, sulle fucilate agli operai, ai minatori, ai contadini, sulle vittime delle poco gloriose imprese coloniali di fine Ottocento. Migliaia di vi- te gettate al vento per una manciata di potere che si è perpetuata tra una crisi di governo e l’altra. Crispi, Pelloux, Rudinì. Leggi speciali e ordine di facciata. Il Re Buono è una strana definizio- ne. Una coreografia lessicale di cartapesta che cerca di nasconde- re il sangue e la povertà. Passannante e Acciarito, adesso, stanno impazzendo in una cella perché l’Italia si è «civilizzata». Niente più pena di morte da quando è stato introdotto il codice penale del liberale Zanar- delli. Gli attentatori del re vengono fatti morire in carcere o in manicomio, lentamente, senza i colpi sferrati dal boia. A loro si riserva la cura della follia, l’agonia del tempo che si consuma nel totale isolamento, mentre il re ha appena raggiunto l’ingresso del campo sportivo…

66 Bresci ha perso l’attimo per collocarsi in posizione propizia e fare fuoco. Avrebbe preferito colpire all’esterno per poi dileguar- si. Ma c’è troppa ressa, e la carrozza è stata inghiottita dall’in- gresso principale. Così, dopo aver studiato le alternative, decide di entrare anche lui. Deve guadagnarsi la migliore prospettiva, avvicinarsi alle prime file, sapendo che presto altri spettatori ar- riveranno e chiuderanno qualunque via di fuga. È forse in questo momento che Gaetano capisce che sta per compiere un’azione suicida, ma non è più tempo di pensare… Il re è entrato, si è seduto, ha assistito alle ultime prove. Noia e attesa. Avrebbe voglia di correre via, di sfilarsi dal cerimoniale, ma non può esimersi dal premiare le squadre vincenti. Meda- glie e vigorosi saluti, sorrisi e pacche sulle spalle. È un’iniezione di gioventù che fa bene a Umberto. Del resto una donna lo sta aspettando. Le persone fanno ressa attorno a lui, è sempre più esposto, i militari si guardano preoccupati, ma non accade nulla. Quando arriva il turno degli atleti di Trento, il re si ferma a par- lare con loro, e subito si alzano i calici della retorica patriottica. Liberare Trento e Trieste dal giogo degli occupanti austriaci con cui, in realtà, non conviene alzare troppo la voce perché sono alleati, ma la politica estera non può essere spiegata a uomini sportivi, esultanti, vitali. Conta esaltare il nazionalismo, perché gli alleati cambiano e le guerre richiedono sempre un nemico. Allora in alto i calici, e il re sente che adesso può bastare. Se ne vuole andare. Gaetano è pronto. Forse sta per cambiare la storia, forse sca- tenerà l’insurrezione. Il popolo si riprenderà la propria libertà, il diritto all’esistenza. Non importa se sarà acclamato o meno co- me un eroe. Madeline, Sophie, tutti coloro che lo stanno aspet- tando capiranno. E così Bresci si appresta a mettere sul piatto la propria vita e va incontro al re. Ma quel gesto sarà davvero all’altezza della sua esistenza? Potrà mai contenere e racchiudere la storia personale di Gaetano Bresci? Le domande accompagnano i passi frenetici verso la tribuna

67 che il re sta ora lasciando. Arrivare alle prime file. Prendere posizione… Umberto è sulla carrozza che si sta muovendo. Uscirà da uno dei due ingressi principali, probabilmente il sinistro. «Generale, è stato piacevole, lei che dice?». «Sono d’accordo con lei, Altezza…». Dialoghi immaginari si affollano nella testa di Bresci. Che co- sa avranno da dirsi quei due? Lui è tra la folla, mescolato a tante facce mentre cerca di arrivare sotto la tribuna, sperando che il re segua lo stesso percorso di quando è entrato. Poi sbuca la carrozza. Umberto saluta. Gaetano si apposta e vede il futuro. Che arrivi anche al tiranno la sua quota di dolore e lutto. Ecco che si avvicina, mentre il cielo si sta rannuvolando. La rivoluzio- ne accadrà. Rapida come un fulmine, accenderà la scintilla della rivolta che incepperà le loro macchine, gli orologi delle fabbri- che, l’urlo delle sirene. Da ogni parte sbucheranno persone che non grideranno «il re è morto, viva il re», ma «il re è morto, viva l’anarchico Bresci». Sarà il crollo della monarchia. La morte di un principio. Eccolo. Sono le dieci e ventinove di sera quando Gaetano Bresci estrae la rivoltella, ma non conta perché ormai il tempo è un dettaglio inutile, all’orario preciso ci penseranno cronisti e storici, adesso è più importante fare giustizia, sospendere i pensieri. Deve solo sparare bene. Mirare al cuore, altrimenti sarà solo linciato. Uno. Il primo colpo è per i morti di Milano, le vittime pallide e sanguinanti del generale Bava Beccaris, per il potere che elargi- sce medaglie agli assassini e piombo agli sfruttati… Due. Il secondo colpo è per i compagni di Paterson costretti all’esilio, per gli operai e le operaie che la fame e le persecuzio- ni hanno allontanato dalle proprie case. Per tutti gli anarchici reclusi, confinati, accerchiati dal mare su un’isola prigione. Per

68 quanti sono stati resi estranei a se stessi, mandati a morire in guerra o in una città lontana. Per il dolore di tante separazioni… Tre. Il terzo colpo è per l’infanzia breve trascorsa a Prato, ne- gata e avvilita dal lavoro ottimizzato che non dà tregua, per i morti al Fabbricone, per i licenziati, per gli sfruttatori che hanno costretto alla povertà familiari e amici… Quattro… Già. Furono tre o quattro colpi? Ancora oggi se ne discute, co- me se la cosa facesse la differenza. Tre colpi sono andati a segno. Punto e basta. Quanto al quarto non è andato a vuoto, come si potrebbe facilmente dedurre. Uccidendo il re, Bresci ha appena ucciso una parte di sé, le sue emozioni, la sua vita mancata con Sophie, Madeline, la seconda figlia di cui non saprà nulla, la sua esistenza fino alla sera del 29 luglio 1900. Ventidue e trenta. L’ora del regicidio.

69 > Ore ventidue e trenta: il primo colpo è per i morti di Milano del 1898, il secondo colpo è per i compagni di Paterson costretti a emigrare per la fame e le persecuzioni, il terzo colpo è per la sua infanzia breve. 15

Dopo i colpi, la carrozza si allontana in fretta lasciandosi dietro una scia di polvere da sparo. Il re sta ancora respirando, sussurra qualcosa ai suoi generali, ma nella scena c’è già un senso di per- dita irrimediabile, il preludio della morte. Sul posto, invece, vola via tutto: la camicia di Bresci, strappata dai primi che si avven- tano contro di lui, la sua catena d’oro, i polsini. Sono solo botte, perfino bastonate con gli Jager che arrivano da dietro, e poi un pugno dritto all’occhio. «Bastardo, infame…». Sopraffatto da una ventina di ginnasti e leali sudditi, Bresci sente una voce discordante. «Ma che fate? Non è stato lui, non è stato lui…». Poi la voce viene rapidamente risucchiata dalle seconde file della giustizia sommaria, e sono altri colpi, sputi velenosi, insulti. Nonostante il velo di sangue sugli occhi, Bresci crede di ricono- scere il volto del Biondino nelle fattezze dell’uomo che si dilegua sullo sfondo del drappello inferocito. Sarà proprio lui, il Granot- ti, quello che si sta allontanando? È un dubbio che lo rende per

71 un attimo insensibile al dolore, prima che le mani dell’autorità lo sottraggano al brutale pestaggio. I carabinieri lo afferrano e lo strattonano via, e i colpi della folla non risparmiano neppure loro. Sui giornali, l’indomani, qualcuno protesterà per il loro in- tervento giudicato troppo tempestivo: «La folla avrebbe dovuto fare a brani il regicida» arriveranno a scrivere. Ma l’autorità sa il fatto suo. Farla finita con un linciaggio sarebbe troppo semplice. Il regicida va assicurato vivo alla tortura del tempo, come già accaduto per Passannante e Acciarito. Ed è quanto sta accadendo ora, a partire dal momento in cui Bresci viene fatto salire su una carrozza e preso in consegna dallo Stato. Lo portano in una caserma di Monza. È pesto, sanguinante, ha l’occhio tumefatto, e per vestito brandelli di camicia. È acca- duto tutto così rapidamente che la sua percezione del tempo ne è uscita distorta, confusa. Si ritrova in una stanza spoglia, semi- nudo, con una fasciatura al torace applicata dalle guardie pri- ma che i pochi cronisti che si sono intrufolati possano vedere in faccia il regicida e consegnare le proprie impressioni ai resoconti dell’indomani. Un uomo imperturbabile, distaccato, indifferen- te alle circostanze. Freddo omicida, assassino, belva sanguinaria, cinicamente folle. Tante versioni che arricchiranno di particolari i primi articoli, mentre partono i dispacci che sfuggono al blocco delle comunicazioni nella zona di Monza imposto dall’autorità, nel tentativo poco realistico di arginare la portata catastrofica della notizia. «L’attentatore si chiama Oreste Bressi, tessitore di Prato Fio- rentino…». La precisione non è richiesta in questi primi, convulsi mo- menti di lutto monarchico. Conta raccogliere in poche righe la vita di un uomo che si dice anarchico rivoluzionario, ed è dun- que descritto come settario e fanatico, ma anche calmo nei suoi propositi omicidi. Oreste Bressi tornerà in breve tempo a essere Gaetano Bresci. Viene dall’America, scriveranno tra poche ore i giornali. Ha lavorato a Paterson e vissuto a West Hoboken, dove

72 ha una moglie e una bimba. I suoi familiari stretti vivono a Pra- to. Al fratello primogenito, Lorenzo, vengono attribuite, non si sa perché, simpatie monarchiche. Angelo, ufficiale d’artiglieria, sta vivendo invece un dramma nel dramma. Avere un fratello regicida non fa certo curriculum e non lo aiuterà nella carriera militare. Gaetano, insomma, è già inquadrato come pecora nera della famiglia. Bresci non sente niente di tutto questo. I curiosi lo sfiorano con sguardi indagatori e morbosi prima di essere allontanati. I segni delle percosse sono evidenti. In realtà le botte non sono mai finite. Sono semplicemente più metodiche. «Avanti, parla. Chi c’era con te?». «Pazzo criminale, hai ucciso il re!». «Perché lo hai fatto? Chi sono i tuoi complici?». «Ho agito da solo» risponde Bresci. «L’ho fatto per vendicare le vittime pallide e sanguinanti di Milano… Non ho inteso uc- cidere un uomo, ma un principio». È una linea di condotta decisa nel momento stesso in cui ha scelto di premere il grilletto. Il quarto colpo brucia sempre più sulle sue ferite. Nulla può essere cambiato. Il tempo comincia a stringersi addosso a Gaetano come una camicia di forza, si con- trae in un abbraccio paralizzante che sospende il normale flusso dei ricordi. È un uomo in trappola. Poi, all’improvviso, cade su Monza la forza dirompente di un temporale che squassa l’aria e fa fuggire i pochi rimasti sul luogo del regicidio. I tuoni percuotono i vetri della caserma e i muri della Villa Reale. Sul giorno più lungo dell’estate monzese cala il sipario della pioggia sferzante. Dentro la residenza dei Savoia si piange. Umberto è morto, evviva il re. Gaetano Bresci è ancora vivo. Forse qualcuno arriverà.

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Il temporale si allontana, portandosi via le ultime ombre, e tu resti nel buio della cella, gonfio e dolorante. Hai subìto il pri- mo interrogatorio a freddo, appena dopo il pestaggio, e alle do- mande hai opposto una strana indifferenza. Hai provato rabbia, orgoglio, disperazione, ma è come se le forze opposte si fossero neutralizzate in una forma di esteriore distacco. «Ho ucciso un principio» hai ribadito con tono monocorde. Poi sei stato consegnato all’isolamento. Quanto potrà durare questa tortura che è appena iniziata? Il buio copre le tue domande e le lacrime. Adesso che le luci sono spente, l’indifferenza si tramuta in pianto. Puoi solo sperare che qualcuno arrivi davvero, e intanto devi cercare di prendere sonno. Scacciare via le ossessioni dolorose e sanguinanti. Non pensare a Madeline. E neppure a Sophie. Non pensare a quelli che stanno per arrestare, a tuo fratello Lorenzo, a Teresa e a suo marito Augusto. Gli ultimi lampi illuminano la cella di un bagliore diverso, femminile. Adesso, sotto la coltre anestetizzante dei colpi rice-

74 vuti, ti addormenti catturando l’immagine di una donna. È un ricordo ancora fresco, eppure la senti già perduta…

Nel sogno Parigi è come trasfigurata. Una città non città, un aggregato di case e strade che non rispecchia la capitale francese dell’Esposizione. Stai camminando mano nella mano con Em- ma Quazza, e quando incroci il suo sguardo smetti di parlare. Quella donna non è più il tuo palcoscenico, una ragazza su cui fare colpo con l’eloquio e la tua macchina fotografica, un volto da incorniciare in un ritratto. I suoi occhi, ora, sono lo specchio delle tue emozioni. Ridete insieme, e nel silenzio che subentra alle parole non c’è nulla d’imbarazzante. Ma è un attimo, una minima sospensione del tempo prima che la luce del giorno ti ag- gredisca, restituendoti agli spazi angusti della realtà. Hai ucciso un uomo che era un principio, e tu ti senti al principio della fine.

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30 luglio 1900. «Questo è il più grande delitto del secolo» ha detto la regina davanti alla salma del re. Ma la frase che testimoni e storici at- tribuiscono a Margherita di Savoia non chiarisce un punto. Di quale secolo sta parlando? Quello che si è chiuso sulle cannonate a Milano, oppure il nuovo secolo che porterà con sé altri morti, altre guerre, campi di sterminio, bombardamenti più mirati, l’ar- ma atomica? Tutto fa propendere per la seconda ipotesi. Il Nove- cento è agli albori, e nessuno può prevedere il futuro. Nelle pa- role della regina, tuttavia, non c’è solo la reazione di una donna sconvolta dalla perdita del consorte, ma anche la consapevolezza che un colpo mortale è stato inferto a un’istituzione considerata sacra. La monarchia ha appena imboccato una strada in declino che non attraverserà neppure mezzo secolo. All’indomani dell’attentato i giornali recano traccia, seppure ancora debole, del presentimento della regina. Il regno di Um- berto viene ripercorso con articoli intrisi di retorica. È il Re Buo- no quello che emerge dai profili biografici, dagli aneddoti, dai

76 commenti degli uomini di governo, dai necrologi istituzionali. Sotto la patina d’inchiostro celebrativo si affacciano anche i dub- bi, e non solo sui giornali socialisti e sui fogli dell’opposizione. Sui quotidiani moderati e filomonarchici listati a lutto l’indigna- zione è fatta di tanti punti esclamativi, ma accanto ai titoli sul regicidio restano le cronache di tutti i giorni, la fotografia di un paese squilibrato. Nella prima edizione del Corriere della Sera c’è anche un editoriale sulla miseria nelle Puglie. La questione socia- le è un tema imbarazzante, spesso rimosso, con cui fare i conti. Il regno di Umberto non l’ha risolto con la repressione. E il conto, ora, si presenta. Sta nella fine del principio. Il re, da oggi, è un uomo come tutti gli altri, esposto e vulnerabile, e le riforme che saranno invocate nei prossimi mesi e anni passeranno per altre strade. Il successore di Umberto, il figlio Vittorio Emanuele, sta rapidamente tornando dalla sua crociera per prendere possesso di un trono meno sacro e chiudere quella porticina dietro Villa Reale che il padre Umberto era solito varcare per andare dalla sua amante. Nelle strade, intanto, gli strilloni vendono le voci dello sgo- mento che sale, mentre gli arresti sono già in corso. Decine che presto diventeranno centinaia, in tutta Italia. Sospetti anarchici, complici, istigatori o semplici apologeti. I capi d’accusa sono tan- ti, come i mesi da trascorrere in carcere. Per primi vanno a pren- dere Lorenzo, il fratello di Gaetano, insieme a parenti e amici di Prato. Poi è la volta di tutti i nomi che compaiono sull’agenda di Bresci, sequestrata nella perquisizione della sua stanza in af- fitto a Monza. Persone conosciute in viaggio, spesso conoscenze occasionali cui spedire una fotografia. La lista dei prigionieri è fitta e comprende i compagni di traversata sulla naveGascogne : la giovane Emma Quazza, Nicolò Quintavalle, Antonio Laner. Per i rappresentanti dell’ordine costituito e compromesso sono anarchici pericolosi, possibili complici con cui Bresci ha oltre- tutto trascorso una settimana a Parigi. Per il potere che li accusa potrebbero aver ordito il complotto all’ombra della Torre Eiffel.

77 In carcere finisce anche l’intera famiglia Ramella, gli affittaca- mere di Milano, insieme al portinaio anarchico Carlo Colombo. Quasi tutto il mondo venuto a contatto con Bresci sta pagando o pagherà il prezzo della reclusione: chi per pochi giorni, come la famiglia Ramella, chi per settimane, come Emma Quazza. Chi invece per anni. Gaetano, nel frattempo, si è risvegliato da una notte agitata. Il dolore è martellante e continuo. Parte da dentro, perché dal silenzio dell’isolamento arrivano solo congetture. Che ne sarà dei suoi cari, dei suoi compagni? E a Paterson sarà già arrivata la notizia? Chiede di leggere i giornali, e riceve in cambio lo scherno delle guardie e l’inflessibile applicazione del regolamen- to carcerario. Forse per lui è meglio così. Qualcosa sta accadendo in Italia. Una lenta messa in moto, però. Nulla di travolgente. Nessuna rivoluzione.

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L’Italia dopo i fatti di Monza è oscurata dal lutto nazionale che acceca di rabbia le classi dominanti: la monarchia colpita a mor- te, i conservatori del regno, la borghesia fiorente. È l’Italia dei Savoia che sputa i suoi veleni contro il regicida, il pusillanime, il verme, il vile, l’essere moralmente abietto che dovrà marcire in galera per la sua fanatica determinazione. L’uomo che non dà segni di rimorso, né di ripensamento. La stampa è pressoché alli- neata. Fin dal primo giorno i quotidiani si inseguono in una gara al rialzo nel riservare i giudizi più duri contro Bresci. Si chiedono misure esemplari, s’invoca la tortura. L’Italia dei duellanti, degli stupidi codici d’onore, ingrossa le schiere dei monarchici che con passo marziale manifestano nelle strade delle principali città. A Milano attaccano il sindaco, il radi- cale Giuseppe Mussi, accusato di non aver esposto con necessario tempismo le bandiere abbrunate. A Roma cercano di assaltare la sede de L’Avanti e aggrediscono due persone. Bastoni e schiaffi dopo l’attentato al re. Il quotidiano socialista viene sequestrato per non essere uscito con i segni del lutto nell’edizione speciale del 30

79 luglio. Tutto ciò nonostante il giornale condanni da subito il gesto di Bresci come un «fatto doloroso e inutile», «una follia», e non risparmi critiche al regicida. Nell’editoriale intitolato I responsabili, però, spicca un’altra considerazione: «Col crescere degli errori del governo e del malcontento, crescono le follie e i delitti». È la linea riformista di Filippo Turati che s’impone. Per i socialisti ciò che conta è non compromettere il buon risultato elettorale conseguito alle elezioni politiche di giugno, cui ha par- tecipato solo un milione e mezzo di persone. Il partito ha ormai imboccato la via parlamentare, considerata come l’unica opzione valida per dare visibilità alla questione sociale e disinnescare la violenza della propaganda del fatto. Sinistra e destra, socialisti e reazionari, insomma, si contendo- no le spoglie del regicida condannandone il gesto e approprian- dosene come argomento da usare contro l’avversario. I socialisti chiedono riforme per evitare, dicono, che ci siano altri Bresci. I monarchici accusano i socialisti d’ipocrisia e di fomentare nuovi regicidi. Il dibattito in Parlamento segue gli stessi binari. Chiun- que accenni, seppure timidamente, alla grave situazione sociale che ha fatto da sfondo al regno di Umberto i, viene messo a tacere, zittito da ingiurie chiassose. «L’azione del regicida ha allungato di secoli la vita della mo- narchia» commenta sconsolato il deputato repubblicano Gio- vanni Bovio, senza che nessuno possa smentire la sua profezia. I Savoia dureranno in realtà solo quarantasei anni, periodo in cui trascineranno l’Italia in una caduta rovinosa con due conflitti mondiali e il fascismo. Ma Bresci non raccoglie convinte dichiarazioni di sostegno neppure tra i compagni italiani. Anzi. In un comunicato dif- fuso all’indomani dell’attentato, i socialisti anarchici di Roma se ne dissociano e usano parole dure verso il tessitore di Prato: «Rifiutano sdegnosamente ogni e qualunque solidarietà con l’in- dividuo che ha compiuto l’uccisione, dato il caso che esso voglia dichiararsi professante una qualunque idea politica avanzata».

80 Effetto della paura? Della pavidità? Di un rispetto sincero per qualunque vita umana? Di certo la penisola è attraversata da una catena di arresti e perquisizioni che in pochi mesi arriveranno a riempire gli archivi di polizia e le carceri. Non è tempo di eroi- smi. Tenersi abbottonati è l’orientamento prevalente, non si sa bene però per quale obiettivo, né per quale ragione ormai. Una cappa soffocante si stringe sulla libera circolazione delle idee. È fatto divieto di pubblicare qualunque immagine dell’attentatore. Il quotidiano Il Secolo viene sequestrato per aver dato notizia di un telegramma inviato dagli anarchici statunitensi al presidente del consiglio Saracco: «Esultanti uccisione massacratore popolo. Viva Bresci! Gruppo comunista anarchico di Yohoghany». È l’altra faccia di quanto sta accadendo dopo Monza, il lato rimosso, chiuso nei recinti delle prigioni, del domicilio coatto, dell’esilio. Alla sbornia ideologica dei giornali reazionari, fanno da contrappunto le incaute dichiarazioni da osteria di qualcu- no che si lascia andare all’effetto liberatorio del vino, alzando il calice e gridando: «Viva Bresci!». Le condanne per apologia fioccano ovunque. Basta un minimo cenno all’anarchico pratese e si finisce dentro. «Compiango Umberto come uomo, non come re» dice uno studente in un caffè. Dieci mesi di reclusione. Banchetti organizzati a dispetto del lutto nazionale vengono considerati alla stregua di adunate sediziose. Giorno dopo giorno, una simpatia strisciante si afferma nono- stante le viscere di chi reclama vendetta contro Bresci in conti- nuità con l’istinto al linciaggio manifestato sul campo sportivo della Forti e Liberi. Alla fine dell’anno, le condanne per apologia saranno circa tremila. Ma il nome di Gaetano Bresci, intanto, passa di bocca in bocca, varca i confini nazionali, oltrepassa l’o- ceano. Fino ad arrivare in America, nei luoghi dove l’attentatore è una persona conosciuta.

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… mentre tu sei sempre in cella. Il corpo è segnato dalle bot- te, dalle ferite inferte dalla tortura cui ti hanno condannato: il tempo scorre eppure non passa mai. Serve solo a rimarcare il dolore. Ma se il corpo è menomato, il tuo spirito resiste. Non ci sono varianti negli interrogatori, e tu hai opposto finora le stesse risposte. Hai agito da solo, nessun complice. Ma adesso, là fuori, che cosa starà accadendo? Chiedi di leg- gere i giornali, e ti restituiscono schiaffi. Cerchi di scrivere lettere alla tua compagna, ai tuoi familiari, vorresti sapere di loro, ma sai che nessuna corrispondenza potrà scalfire i muri della cel- la. Sei totalmente solo, in quarantena penitenziaria, isolato dal mondo, e l’unica cosa ad accenderti è il pensiero che qualcuno possa arrivare da un momento all’altro. «Di fuori c’è il putiferio, la gente sta manifestando nelle strade, hanno dato anche l’assalto alla prefettura… è la rivo- luzione!». Credere nella migliore delle ipotesi è arduo quando ci si trova nelle peggiori circostanze. Ma pensi che la violenza accanita dei

82 tuoi carcerieri sia segno della loro paura. Forse qualcosa sta già accadendo, e la lotta là fuori è in pieno corso. Nessun contatto con l’esterno. Nessuna lettera. Là fuori, intanto, stanno facendo a pezzi la tua vita. Hanno pubblicato un ritratto della tua compagna e di tua figlia, e So- phie è assediata dalle domande degli inquirenti americani e dei cronisti. Si dà conto dell’arresto di tuo fratello Lorenzo, mentre escono interviste all’altro fratello, il tenente Angelo Bresci, quel- lo con cui non hai mai smesso di litigare e che ora deve difendere la sua carriera dal cognome diventato improvvisamente ingom- brante. Un ufficiale lo ha già sfidato a duello. Deve prendere posizione, dissociarsi, cambiare generalità. I giornali dicono che sei un mostro, una belva in umane sem- bianze, un essere piccolo piccolo all’ultimo grado di viltà, uno schifo da trattare senza rispetto, un uomo da torturare. Inventa- no circostanze inesistenti, tratteggiano una vita parallela che non ha alcun fondamento. Per L’Osservatore Romano sei stato una specie di primula rossa dell’anarchismo, hai viaggiato ovunque in Europa per attentare ad altre vite di uomini illustri e potenti. Giorno dopo giorno si accredita la tesi del complotto, e dunque la necessità di nuovi interrogatori. Puoi solo intuire dai commenti delle guardie questo rumore di fondo che invade silenzioso la tua reclusione. Il panico si ma- nifesta a ondate che tentano di spezzare l’argine della tua resi- stenza. Il futuro ti si stringe di nuovo addosso. Allora chiudi gli occhi e pensi all’America. Compagne e compagni di Paterson, dove siete?

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A Paterson le giornate sono rimaste uguali. Le ore passate ai telai, la fatica del lavoro, le discussioni con i capi non hanno scalfito la superficie dell’esistenza degli operai. Ma in profondità qualcosa sta davvero accadendo. «Il Bresci… sì… proprio lui… Ma sì, quello che diceva sempre ‘una piccola osservazione’…». Il clamore per i fatti di Monza non tarda a manifestarsi nel luogo dove Bresci ha trascorso quasi tre anni. Le persone che lo hanno conosciuto hanno frequentato le stesse riunioni nella sede de La Questione Sociale, oppure all’Hotel Bartoldi, si sono acca- lorate sugli stessi temi, hanno condiviso con la stessa intensità il loro destino di emigrati che guardavano all’Italia con lo spirito dolente e ribelle degli esiliati. Non sorprende dunque che la noti- zia della morte di re Umberto venga accolta con soddisfazione e orgoglio tra la comunità anarchica di Paterson, perché avvenuta per mano di uno di loro. È la rivincita degli oppressi che si sen- tono meno soli e che, diversamente da quanto avviene in Italia, rivendicano il regicidio come fosse un gesto collettivo. Non se ne

84 dissociano, a differenza del gruppo anarchico romano, ma se ne assumono la paternità, pur consapevoli che il controllo polizie- sco si stringerà presto anche su di loro. Il telegramma inviato al presidente del consiglio Saracco è stato redatto dal gruppo comunista libertario di Yohoghany, nei dintorni di Pittsburgh. Anarchici vicini alle posizioni an- tiorganizzatrici di Giuseppe Ciancabilla. Non è che l’inizio di una campagna di solidarietà che scatena la rabbiosa reazione del governo italiano. Spinti dalle pressioni diplomatiche di Roma, gli investigatori americani battono le strade di Paterson, di West Hoboken, di New York, di tutti i luoghi dove la presenza di anar- chici si manifesti in circoli e giornali. Setacciano il territorio, ma trovano risposte ostinate e una febbrile attività di propaganda tra i libertari che cominciano a stampare le prime cartoline con il ritratto di Gaetano Bresci. L’apologia non porta dritto in carcere come accade in Italia. Il passaparola si diffonde, alle cartoline si aggiungono le spille, i banchetti, le pubbliche sottoscrizioni per raccogliere fondi a sostegno della famiglia di Bresci. Chiusa nella sua abitazione di West Hoboken, Sophie viene interrogata, pressata dai poliziotti perché fornisca chiarimenti. Restituisce loro un ritratto di famiglia incompiuto, ripercorre dolorosamente la sua relazione con Gaetano, uomo affettuoso e pieno di attenzioni, legatissimo alla piccola Madeline. Rivive le circostanze che hanno preceduto la partenza del suo compagno, le scarne comunicazioni dall’Italia, la sensazione di smarrimen- to per qualcosa di troppo lontano per essere spiegato. Gaetano è irraggiungibile, e quella prima forma di aiuto economico che viene dai suoi compagni americani è un’eco troppo pallida per dare spessore alla sua voce, alle sue parole, all’intimità domestica ormai perduta. Sophie sta per partorire una figlia che nascerà senza padre. La chiamerà Muriel, ma per molti sarà Gaetanina. A Paterson, intanto, la mobilitazione non si ferma. Un’altra donna, l’anarchica Ernestina Cravello, spende parole di ammi- razione per Bresci negli stessi luoghi da dove un giorno aveva

85 auspicato che qualcuno facesse giustizia contro il Re Mitraglia. Riunioni, articoli, pubbliche iniziative. Si discute, ci si confronta sulla portata del gesto, guardandosi sempre le spalle perché le spie e gli infiltrati sono già all’opera. Bresci non viene dimenti- cato, e con lui Laner e Quintavalle, i due compagni di viaggio arrestati e messi sotto torchio perché accusati di complicità. La loro detenzione in Italia, pur nell’assenza di prove, muove altre iniziative di sostegno. Ma nella comunità anarchica più com- battiva e numerosa degli Stati Uniti si affacciano anche dubbi sull’efficacia dell’azione di Monza, valutazioni che rispecchiano le divisioni tra organizzatori e antiorganizzatori. Errico Malatesta, che ha conosciuto Bresci negli Stati Uniti, è tra i primi a prendere posizione. Il governo italiano lo accu- sa addirittura di essere a capo del complotto per uccidere il re. Qualche settimana dopo l’attentato, a settembre, Malatesta tor- na sull’accaduto in un articolo intitolato La tragedia di Monza uscito sul numero unico Cause ed effetti 1898-1900. Ribadisce la necessità di non lasciare solo Bresci, ma al contempo sottolinea i limiti di un’azione eclatante, puramente individuale: «Sappiamo che l’essenziale, l’indiscutibilmente utile si è, non già l’uccidere la persona di un re, ma tutti i re – quelli delle corti, dei parlamenti e delle officine – nel cuore e nelle menti della gente; di sradicare cioè la fede nel principio di autorità a cui presta culto tanta parte del popolo…». Toni più accesi, di aperta e convinta adesione, vengono invece da Giuseppe Ciancabilla, che dalle colonne del giornale L’ Au r o r a spiega perché il termine «complotto» sia di per sé incompatibile con la visione anarchica di chi propugna la propaganda del fatto: «Noi, pur rifuggendo dalle imbecilli orditure de’ complotti, ad uso delle antiche sette borghesi (…) quando qualcuno tra di noi, più forte, più sprezzante della vita, più generoso e più bravo, si leva e colpisce, non lamentiamo certo il borghese che cade…». Che il gesto di Bresci possa o meno favorire la rivoluzione, gli anarchici concordano nel respingere l’idea di una congiura

86 d’impronta carbonara che l’autorità poliziesca italiana sta inve- ce cercando di accreditare, trovando sponde anche negli Stati Uniti. Il detective italo-americano Joe Petrosino, famoso per le sue inchieste sulla Mano Nera che gli costeranno la vita, è tra i più accaniti sostenitori dell’esistenza di un complotto. Non rie- sce però a portare alcun argomento che ne suffraghi la tesi. Al contrario, il procuratore statunitense Eugene Emley sta per ar- rendersi all’evidenza degli interrogatori di anarchici e conoscenti del regicida. Nessuna complicità accertata, scriverà a inchiesta ultimata, e dunque nessun complotto. Mai prima d’ora, comunque, un atto individuale lascia un’im- pronta così profonda, anche a livello internazionale. I fogli anar- chici ne traggono spunto per attaccare la politica repressiva degli Stati nazionali. Dai tanti luoghi dell’esilio si levano le voci degli esponenti più noti del movimento libertario. Pietro Gori scrive da Buenos Aires, Amilcare Cipriani da Parigi. Sono pagine che, al di là della condanna della violenza, manifestano profondo ri- spetto umano per Bresci. Altri, più giovani, annoteranno sui loro diari il forte impatto emotivo che il regicidio ha avuto su di loro: da Armando Borghi, all’epoca un ragazzo che deve nascondersi per sfuggire all’arresto, al futuro leader socialista Pietro Nenni. Lo stesso Benito Mussolini, ancora socialista, dichiarerà d’in- chinarsi davanti alla figura di Bresci, prima di sconfessare nel fascismo le sue parole e di trasformarle in sentenze contro gli anarchici. I giornali conservatori europei, in particolare in Germania, stabiliscono invece una dubbia e rozza equivalenza tra il tempe- ramento degli italiani e la propensione ad ammazzare re e gover- nanti. Citano i precedenti di Passannante e Acciarito, rievocano le pugnalate mortali di Sante Caserio contro il presidente fran- cese Sadi Carnot, nel 1894, ricordano l’uccisione dell’imperatri- ce austriaca Elisabetta, avvenuta quattro anni dopo per mano dell’anarchico Luigi Luccheni. Italia, fucina di terroristi, tuona- no i giornali collaterali al potere.

87 Ma c’è chi, fuori dalle strette appartenenze, scrive pagine ap- passionate e intrise di umanità sull’attentato di Monza, fornendo uno spaccato che va oltre i confini italiani. Un grande della let- teratura, Lev Tolstoj, esce dai binari ideologici per descrivere il dramma di un’umanità afflitta dall’ingiustizia e dal potere, e per riconoscere a Bresci la dignità di persona: «Re ed imperatori non solo non devono essere turbati da uccisioni come quelle di Ales- sandro ii e di Umberto, ma devono meravigliarsi che esse siano così poco frequenti nonostante l’esempio costante e generale che essi danno al popolo uccidendo e facendo uccidere…». Uccidere un principio che ha seminato morte non suscita in Tolstoj un’indignazione ipocrita. Lo scandalo umano, semmai, è che quel principio sopravviva e si perpetui, e se lo scrittore russo prende le distanze dalle azioni violente è per la loro irragionevo- lezza rispetto ai propositi dichiarati: «I re e gli imperatori hanno da tempo creato intorno a sé un’organizzazione pari a quella di un fucile a ripetizione; non appena parte un colpo, subito ne compare un altro al suo posto». Anche per Tolstoj, come per Malatesta, è più importante ucci- dere il principio di autorità che si annida dentro di noi. Bisogna rifiutarsi di obbedire quando il potere ci chiede di sparare.

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Che cosa ti porta a resistere? Cosa ti spinge a non parlare, a su- bire il dolore in silenzio, a opporre la tua nuda verità alla verità che ti vogliono estorcere? Non fai nomi. Hai agito da solo. Altro dolore, e intanto ti chiedi se fosse proprio il Biondino quello che hai visto allontanarsi dalla folla nel campo sportivo di Monza. Che ci faceva lì? Perché non è fuggito? Perché ha tentato di sal- varti rischiando di fare la tua stessa fine? Nessun nome, ma intanto quelli hanno messo insieme le prime frettolose testimonianze e stanno cercando l’uomo con cui hai tra- scorso gli ultimi giorni, con cui hai pranzato, cenato, condiviso la stanza per una notte. Chi è questo Granotti, e che ruolo ha avuto? «Il Granotti l’ho incontrato nei giorni scorsi… Non è mio complice. Non lo ritenevo preparato per un’azione del genere». Percosse. Buio. Isolamento. Che cosa ti spinge a resistere? Forse la nuda assenza di Sophie e Madeline, e la speranza che un giorno potrai rivederle. La loro distanza è atroce. Resistere per non morire.

89 Forse non parli perché stai dicendo la verità, oppure per vani- tà, per quella che i giornali chiamano «megalomania». Forse te ne stai trincerato nel tuo silenzio per tutte queste cose insieme, e perché ancora senti che è stato per una giusta causa. Non la morte di un uomo. Ma il riscatto degli oppressi. Adesso che sei solo nella cella, opponi il tuo pianto ai richiami delle guardie che chiudono i cancelli, e ogni lacrima è un ricordo che ti si chiude dentro. Domani scriverai a tuo fratello Lorenzo, a tua sorella Teresa, comporrai nuove varianti dell’assenza cercando un foglio da spe- dire a Sophie. Chiederai loro biancheria, libri, affetto, qualunque cosa possa restituirti un’illusione di normalità. Getterai le tue parole al vento perché il passato si ripresenti vivo, e magari una lettera possa arrivare in risposta all’alba di un nuovo giorno.

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Il Biondino ha varcato il confine dopo un rapido passaggio nel suo paese di origine, Sagliano Micca, e dal Piemonte è riparato in Francia. Parigi, forse. E poi più nessuna notizia certa sui suoi spostamenti, se non che Luigi Granotti è sfuggito alla presa po- liziesca e al futuro che i Savoia avevano già scritto per lui. Notti in isolamento, botte, ergastolo. «Il Biondino è libero e sicuro» ribadirà l’anarchico un anno dopo, certificando suLa Questione Sociale di Paterson il destino di «inafferrabile» di Granotti. L’apparato re- pressivo che si è lasciato scivolare via l’uomo del mistero diventa ancora più accanito nel cercare altri presunti complici. Che una persona sola abbia potuto colpire al cuore il sovrano, è idea inso- stenibile per la monarchia e i suoi uomini di governo. Significhe- rebbe mettere a nudo le debolezze del sistema e di un’istituzione diventata improvvisamente vulnerabile. Troppo per il potere. Si cercano sponde, appoggi di cui Bresci avrebbe goduto, si scandagliano le vite di chi ha condiviso anni di lavoro, rappor- ti stretti o perfino occasionali con il regicida. Mentre la polizia

91 americana si concentra su Paterson, in Italia il punto di partenza non può che essere il luogo di origine di Gaetano, la città del tessile e della sua formazione anarchica, del poligono e delle pa- rentele strette, delle amicizie e degli scioperi repressi. La città nelle cui strade Bresci ha subìto la sua prima denuncia, che lo ha portato in carcere. Subito dopo il regicidio, le cronache locali raccontano di una comunità sbigottita, traumatizzata, consapevole del marchio d’infamia che la sta già segnando. Bresci, tessitore anarchico di Prato. Bresci, il regicida di Prato. Bresci, uno dei cognomi più diffusi di Prato. Il sindaco si precipita a Monza dopo aver fatto vestire le strade e i palazzi di nero, i notabili sputano veleni sui concittadini in odore di sovversione, atti di fede monarchica vengono pretesi, reclamati, disperatamente ostentati. Al Fabbricone, però, operaie e operai continuano a lavorare allo stesso ritmo disumano, sotto lo stesso cielo grigio dei capannoni, nel frastuono dei telai che danno la cadenza della marcia produttiva. «Ma chi? Il Bresci figlio di Gaspero?». «Ma sì, quello che ci ha pure lavorato qui…». «Lo hanno licenziato, una testa calda». «Che dici? Un compagno, perdio…». «Stattene zitto, vuoi finire in galera?». Il suono della sirena zittisce le voci. Si torna a casa. Iniziano le perquisizioni. A Coiano, nella villetta di famiglia dove Gaeta- no ha trascorso settimane prima di partire per Milano, i tutori dell’ordine seminano il caos. Si svuotano i cassetti, si aprono gli armadi, si sequestra tutto ciò che il colpevole ha lasciato dietro di sé: le sue lettere inviate dall’America al fratello e alla sorella, quelle spedite successivamente dall’Italia ad alcuni amici di Pa- terson, le fotografie, i quaderni, gli appunti, la carta intestata di un albergo di Genova, la ricevuta di un versamento, un libretto postale, tre assicelle in legno su cui sono impressi i fori di alcuni proiettili. Materiale sparso che confluisce nei faldoni d’indagine,

92 ne appesantisce lo spessore, e che ancora oggi è custodito negli archivi del Museo criminologico di Roma. «… mi farai il piacere di dirmi se la mia bambina è tenuta bene o no. Ma ti prego di dirmi la verità…». Sono poche righe di una lettera forse mai spedita in Ameri- ca all’amico Giulio Magnolfi, imprenditore che aveva chiesto a Gaetano di portare dall’Italia del tessuto, contando sul suo ritorno a Paterson a settembre. «Prima di tornare in America ricordati che ti voglio vedere ancora…». La scrittura, questa volta, è di una donna, Teresa Brugnoli, che rivolge a Gaetano un pensiero d’amore e complicità senti- mentale. Con lui ha vissuto tre giorni nell’intimità di un albergo di Bologna, senza sapere che le ore spensierate erano per il suo amante l’attesa di una partenza per Milano. E poi le frasi in inglese su un’altra lettera firmata da Sophie, che chiede al suo compagno notizie dall’Italia e aggiunge un par- ticolare struggente. Madeline, la loro bimba, chiama il papà e vorrebbe che tornasse presto… Tratti di penna o di lapis che il tempo ha stinto ma non ha cancellato, dando rilievo allo spessore dei sentimenti umani che per la burocrazia poliziesca furono solo reperti a carico dell’ac- cusato. Così accade per le persone che con Gaetano hanno avuto un profondo legame affettivo. Insieme a Lorenzo, il fratello pri- mogenito, vengono arrestati il cognato Augusto Marocci, l’ami- co d’infanzia Gabriele Livi, esponenti anarchici locali, e anche Giulio Braga, segretario della Camera del Lavoro di Prato. Di lui vengono sequestrati quaderni, discorsi, riflessioni politiche in forma di scritti. Tutti in carcere. A decine. Chi più, chi meno, pagheranno l’obolo della reclusione per la morte del re. Lorenzo resterà in cella un anno e mezzo. Ne uscirà prosciolto, ma sconvolto e inde- bitato. Il cognato Marocci, sposato con la sorella Teresa, cerche- rà invano di farsi riassumere al Fabbricone, ma i proprietari gli

93 chiuderanno le porte perché un soggetto in odore di detenzione, seppure ingiusta, non può trovare spazio nei ranghi dell’indu- stria moderna. Prato diventa la città dell’abiura, del rimorso e dell’espiazione, dove il sindaco, dopo essersi prostrato ai piedi del nuovo sovra- no, propone che tutti i Bresci cambino cognome, con un’ampia scelta di alternative a loro disposizione. La tragedia si trasforma in farsa. Una mano parrocchiale appone la sua personale dedica sul certificato di battesimo di Gaetano Bresci: «Questo infame la sera del 29 luglio 1900 a Monza, assassinò con 3 colpi di rivol- tella l’ottimo Re nostro Umberto i…». Poi un’aggiunta in latino: «Melius erat ei si natus non fuisset homo ille». Per un prete e non solo, sarebbe stato meglio se quell’uomo non fosse mai nato. Moderati e filomonarchici pratesi cercheranno per anni di ri- comporre la frattura con i Savoia, e solo nel 1934 otterranno una breve visita di Vittorio Emanuele iii per l’inaugurazione del Mo- numento ai Caduti, ancora oggi esistente in piazza delle Carceri. La memoria storica e la riparazione della città alla grave «offesa» portata da un suo concittadino si saldano, per ironia della sorte, in un luogo che evoca le prigioni. Altrove, nella zona industriale, una via porta oggi il nome di Gaetano Bresci. È una targa che sbuca timidamente tra i moderni capannoni, quasi un ricordo imbarazzato e tardivo di una comunità che non serba molta me- moria del tessitore nato e cresciuto a Coiano. Intorno, altri operai al lavoro, nuovi ritmi produttivi, condizioni sempre precarie.

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Sei davanti a un foglio di carta, sempre ad aspettare che qual- cosa accada. Come staranno reagendo i compagni? Si staranno organizzando? L’Italia sta prendendo coscienza contro i nuovi tiranni? Il silenzio, però, non restituisce risposte. Come sempre. Ciò che stanno scrivendo i giornali, i loro commenti, le loro condan- ne, il risentimento che stanno spargendo sui tuoi cari… Tutto arriva nella cella come un pallido riflesso, come la congettura più probabile. Nulla di più. Non sai quanti ne stanno arrestando, e neppure sai del gruppo di anarchici romani che ha preso le distanze con quel comunica- to che è un compromesso di parole, un pasticcio lessicale. Solo una voce ti arriva subdola dal fondo di un raggio e dai sussurri delle guardie. Raccontano che uno dei primi a essere arrestati per aver inneggiato al tuo gesto sia stato un prete. Proprio così. Ha detto che la mano dell’anarchico Bresci è stata guidata niente meno che dalla volontà divina. Qualcuno ti sta già investendo di un ruolo ingombrante, come di chi abbia sparato al re non tan-

95 to per fare giustizia delle vittime innocenti, quanto per regolare antiche ruggini tra Stato e Chiesa, tra Savoia e Papato. La paura che ti striscia dentro, adesso, è questa, più forte delle botte e dell’isolamento: che il tuo gesto sia stato vano, che Bava Beccaris si stia preparando ad altri massacri, che il tiranno non sia stato colpito al cuore. Nel tuo dubbio misurato in respiri, non puoi sentire l’eco di altre voci che senza tregua si passano la notizia da una città all’al- tra. Chi condanna e prende le distanze, chi festeggia e brinda, e più ci si allontana dall’Italia, più le voci crescono. Neppure ti informano delle lettere di aperto sostegno che stanno arrivando nel carcere di San Vittore, e che la direzione si guarda bene dal diffondere. Anonimi, pazzi, anarchici, donne solidali, esiliati, poveri, diseredati, un popolo che non ha più nulla da perdere. Tutti scrivono su fogli spiegazzati, in un italiano stentato forse, ma la sostanza è la stessa: ti considerano un giustiziere, un eroe, un martire… Ma tu non puoi sapere. Chiuso nella tua prigionia, sei sot- tratto alle suggestioni del mito, ripiegato sulla tua personale tra- gedia di uomo. Ti rimbomba in testa solo la voce di quel prete arrestato che sembra averti rubato l’intenzione. E allora pensi a difenderti. Gli interrogatori stanno gonfiando il tuo corpo e il fascicolo dell’istruttoria. Il rinvio a giudizio è scontato, il proces- so si avvicina. Prendi la carta e la penna che ti hanno concesso per l’occasione. Sei davanti al foglio, e adesso cominci a scrivere: «Pregiatissimo signor Filippo Turati…».

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8 e 9 agosto 1900. Un lungo corteo funebre attraversa l’Italia per celebrare il re estinto e, con composta deferenza, salutare il suo successore. Si mette in cammino dal luogo dove tutto è finito. La bara di Um- berto i percorre le strade di Monza con il mesto seguito di parenti e paramenti regali, nell’aria calda e soffocante come nero d’in- chiostro. Ovunque i simboli del lutto e manifesti che impongono il silenzio con la loro ingombrante presenza sui muri. Il Re Buono è morto, la sua memoria intrisa di retorica oscura il ricordo di centinaia di vittime senza nome. Tante corone deposte ai piedi della corona, bandiere a mezz’asta, e in sottofondo sempre l’astio verso chi ha osato alzare la sua mano armata contro il sovrano. Il corteo si ferma alla stazione ferroviaria. La bara viene cari- cata su un convoglio speciale diretto a Roma, dove i funerali di Umberto i ricevono la loro consacrazione a dispetto delle dispute non ancora sopite tra i Savoia e il Papa. Ufficialmente le esequie vengono «tollerate» da Leone xiii, perché una scomunica pen- dente è sempre un problema in casi del genere. Tante messe in

97 suffragio, in altre città italiane, vengono celebrate dalle autorità religiose, ma viene negata la lettura in chiesa della preghiera per Umberto scritta apposta dalla consorte Margherita. Sono dunque funerali religiosi dimezzati, perlomeno ambigui, ma la parata dei monarchici non è per questo meno pomposa. La salma viaggia nella notte del Regno d’Italia, e fa sosta a Milano e Pisa prima di arrivare l’indomani nella capitale. Dalla stazione Termini di Roma, il corteo si muove verso via Nazionale e via del Corso, diretto al Pantheon, dove i resti di Umberto giaceranno a fianco di quelli del padre. Il carro su cui è stata caricata la bara è scortato da corazzieri e guardie a cavallo. I negozi sono chiusi, le finestre sigillate, per- fino i lampioni sono velati di nero. Il lutto nazionale è pervaso di paura. È la presenza di un re vivo, più che di quello morto, a preoccupare. Si temono altre azioni eclatanti, ne basterebbe in realtà solo una per sovvertire il copione che i giornali stan- no già componendo sotto forma di articoli. Le ali della folla, naturalmente sterminata, definiscono il percorso del corteo. Il pomeriggio è rovente, come lo è stato quel giorno al parco di Monza. Sono passati solo dieci giorni, e il caldo assomiglia a un cattivo presagio che inquieta i tutori dell’ordine. Le strade gremi- te confondono, neutralizzano qualunque possibilità di controllo, e la pelle di Vittorio Emanuele iii è sicuramente più a rischio di quella del defunto padre. «Viva il Re! Evviva il Re!». Fiori, corone, applausi, l’Italia in gramaglie, il pianto dei cor- tigiani, le mostrine dei militari, il baffo curato degli ufficiali, il passo cadenzato della disciplina che si sente minacciata. Ecco che la processione raggiunge la sede della Banca d’Italia, nata dalle ce- neri della Banca Romana e da uno scandalo politico-finanziario che nel 1893 ha fatto vacillare il sistema e il suo sovrano. «Evviva Umberto! Evviva Vittorio Emanuele!». Ma oggi è il giorno della memoria selettiva. Pochi vogliono ricordare quella vicenda sporca di emissioni di denaro truffal-

98 dine, di prestiti generosi a beneficio di pochi, re compreso, di debiti accumulati in tempo di crisi, mentre in Sicilia si sparava sugli affamati. Gli arresti per lo scandalo della Banca Roma- na, nonostante le commissioni d’inchiesta, si sono fermati a un certo livello, sfiorando semplicemente con l’ombra del sospetto due presidenti del consiglio, Giolitti e Crispi. Il primo, indotto a farsi temporaneamente da parte, ha probabilmente coperto con il suo silenzio il ruolo di re Umberto nello scandalo e il suo inde- bitamento. Il secondo è stato addirittura premiato con un nuo- vo incarico di governo. Eppure c’è chi non ha dimenticato. Un trambusto insolito, inquietante, agita le file del corteo funebre. Qualcosa sta accadendo poco lontano… «Gli anarchici! Gli anarchici!». Qualcuno urla, in molti scappano, la folla si disperde e cal- pesta chi rimane indietro, mentre un principe si affretta a pro- teggere con il suo corpo la regale figura di Vittorio Emanuele iii. Sciabole sguainate, baionette innestate. L’esercito è pronto allo scontro con il nuovo attentatore. Ma di lì a poco si scopre che si tratta di un falso allarme, o meglio di un allarme spropor- zionato. A provocare il caos è stato il cavallo imbizzarrito di un carabiniere, o forse il mulo irrequieto di un alpino. Su questo i giornali saranno discordanti. Di certo, sul selciato della capitale restano una quarantina di feriti, mentre la bara di Umberto pro- segue oltre e raggiunge la sua destinazione eletta. È ormai sera quando i lampioni, fiochi per l’intensità del lut- to, illuminano l’ultima parte della processione. Sulla facciata del Pantheon spicca un’epigrafe: «Preghiere a Dio per l’anima del re Umberto i, buono, leale, magnanimo, innalza il popolo italiano con lacrime espiatorie». Dentro vengono accesi quattrocentottanta ceri. Luci che cala- no sulla fine della giornata. Altrove, in Italia come a Londra, Vienna, Berlino, Bruxelles, vengono celebrate messe in suffragio. Altri drappi funebri, altre preghiere, altri arresti.

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20 agosto 1900. Una tetra successione di cancelli segna il cammino di Gaetano Bresci verso la stanza dove un uomo lo sta aspettando. Il carcere è buio, le ore soffocate dalla reclusione sotto un soffitto sempre più basso. Sembra inverno nonostante il caldo insopportabile. Bresci entra ammanettato e viene fatto sedere. Le guardie escono e sorvegliano la conversazione dagli spioncini. Di fronte a lui, Filippo Turati lo ricambia con un saluto tirato. È un uomo dallo sguardo determinato, ma negli occhi questa volta gli si leg- ge il velo dell’incertezza. Sta per conoscere il regicida, quel pazzo che ha messo a repentaglio le poche libertà di azione concesse al suo partito, l’anarchico che a Monza ha sparato il suo quarto colpo al socialismo, come lo stesso leader socialista ha scritto in una lettera alla sua compagna Anna Kuliscioff. Bresci lo ha indicato come suo difensore, e adesso Turati si ritrova il fardello di decidere se accettare o meno l’incarico. Per- ché l’attentatore, dopo aver detto di volersi difendere da solo, ha scelto proprio lui?

100 «Buongiorno, signor Turati. Grazie per essere venuto». «Buongiorno, Bresci. Come la stanno trattando?». «Come prevedevo». È un dialogo ancora una volta immaginario, ma tra due per- sone che si studiano si comincia sempre con brevi frasi di circo- stanza. Turati è incuriosito, attratto e al tempo stesso impaurito dall’uomo diventato in poche settimane un prigioniero scomodo e imbarazzante. «Ha notizie di sua moglie?» chiede. Bresci non lo segue. Vuole andare dritto al punto: «Mi di- fenderà?». L’uomo del riformismo sta facendo i conti con il passato e l’immediato futuro. Alle sue spalle ci sono giorni di confronto difficile all’interno del partito. I socialisti sono divisi sull’oppor- tunità di dare assistenza legale a Bresci. Turati, argomentano molti esponenti e amici, avrebbe nel processo la giusta vetrina per dare rilievo alle ragioni degli sfruttati e del riformismo, e del resto ha le credenziali giuste per farlo visto che anche lui è stato arrestato per i moti repressi da Bava Beccaris. Per altri, invece, accettare l’incarico equivarrebbe a un suicidio politico. Il leader socialista ha chiesto consigli anche ad Anna Kuliscioff, confidandole dubbi e ansie: «Dal processo non c’è da attendere nulla, neppure le attenuanti, ma ormai il male è fatto con la nomina, i commenti non si evitano più, e il rifiuto li renderebbe peggiori…». Anna, i cui trascorsi nell’anarchismo russo hanno lasciato il segno, preferirebbe che lui accettasse. Il confronto è dunque so- speso, la decisione ufficiale rimandata. Turati sa tuttavia che non potrà sostenere una causa persa in partenza. «Vede» spiega a Bresci «io non esercito la professione legale da anni». «Capisco…». «Le sto dicendo che può trovare un avvocato migliore di me. Qualcuno che la aiuti a evitare il peggio».

101 Al distacco formale di Turati, Bresci oppone il suo sguardo fisso, perché il peggio lo sta già vivendo: «Non temo l’ergastolo. La rivoluzione accadrà. Domani, tra un mese… forse ci vorran- no anni. Ma accadrà». «Ne è proprio sicuro? E se invece della rivoluzione ci fosse una transizione graduale, un lento ma inarrestabile migliora- mento?». «Non m’importa. Ho voluto fare giustizia delle vittime in Si- cilia, a Milano… Gente senza nome, donne e uomini presi a cannonate…». È come la ripetizione di un interrogatorio. Gaetano ribadisce i motivi della sua azione, si lamenta per il trattamento subìto, per gli effetti personali che sono spariti, chiede del bottoncino della sua camicia ridotta a brandelli, e glissa quando il suo interlocu- tore torna ad accennare a Sophie e Madeline: «Si rende conto che adesso non avranno di che vivere? Chi darà loro un aiuto?». Ma il capitolo degli affetti è troppo intimo perché possa es- sere condiviso nella stanza di una prigione che concede briciole di tempo ai detenuti di fatto già condannati. Nella mente di Bresci, ora, c’è solo la necessità di una risposta. Sì o no. Paolo Valera, cronista milanese dell’epoca che ha raccontato con crudo realismo le sanguinose giornate di Milano, ha lasciato un ritrat- to sintetico di Turati, descrivendolo come un uomo nevrotico, molto determinato e metodico. Ed è con metodo che il leader del riformismo socialista sta cercando di uscirne fuori senza abban- donare quell’uomo a se stesso. «Innanzitutto le consiglio di concordare con il suo difensore d’ufficio, l’avvocato Martelli, una lista di testimoni da far citare in giudizio. Gente che ha conosciuto in America e che possa de- porre in suo favore, che la descriva come una persona dalla vita laboriosa e normale». «Ci sto pensando, grazie. Posso chiederle una cosa?». «Mi dica». «Che cosa sta succedendo fuori di qui?».

102 Una pausa di sospensione. Turati sa che la loro conversazione sfuggirà agli storici ma non alle guardie sorveglianti, ed è oppor- tuno mantenere un tono cauto: «Ci sono arresti, tanti arresti…». Poi il silenzio congela le parole. «Le farò sapere molto presto» dice Turati.

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Qualcosa sta accadendo, dunque. Ne stanno arrestando molti. La lista dei testimoni in tua difesa non sarà lunga. Ricordi tanti sguardi, tante storie dei compagni conosciuti a Paterson. Perso- ne come te, con cui hai condiviso il pane, le discussioni, i sigari, le partite a biliardo. Esiliati, estirpati dalla propria terra, dal sangue dei ricordi migliori. Piegati dalla stessa infanzia breve, ma non rassegnati. Non potrai farli venire tutti in tuo aiuto, del resto hai a disposizione pochi nomi, e allora ti concentri sugli amici. Giulio Magnolfi, piccolo imprenditore tessile che ti aspettava in America, potrebbe essere il primo. Oppure suo fratello Ettore, rimasto a Prato. Poi pensi a Quintavalle e Laner. Che fine avranno fatto? Probabilmente i carabinieri saranno an- dati già a prenderli, meglio stralciarli dalla lista. Il ricordo del viaggio sulla nave evoca anche l’immagine di Emma Quazza… Avranno arrestato pure lei? E citarla come testimone non signi- ficherebbe metterla nei guai? Vorresti chiamare in aula i tuoi fratelli, Lorenzo e Teresa, per poterli rivedere almeno una volta. Le loro voci si sono quasi spen-

104 > Ti chiedi se tutto questo stia accadendo o sia solo un’allucinazione, poi ti chini esausto sui tuoi resti, di nuovo solo, a un passo dal buio che sarà penombra per tutti i giorni a venire. te nel buio della tua reclusione. Scrivi i loro nomi, ma la mano trema. Più ti avvicini al cuore degli affetti, più la lista dei testi- moni si fa imprecisa, incerta. Sophie potrebbe parlare di te me- glio di chiunque altro, ma chi penserebbe alla piccola Madeline? E poi la tua compagna non ha nemmeno le forze per muoversi dall’America. Estenuata dalla gravidanza, accerchiata dall’atten- zione molesta degli investigatori e dei giornalisti, fiaccata da tre colpi a sorpresa che le hanno stravolto l’esistenza. La lista dei testimoni resta incompiuta in questa vigilia di at- tesa. Ne parlerai domani con l’avvocato. Chiunque egli sia.

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21 agosto 1900. La giornata inizia con un rifiuto. Dopo breve e sofferta ri- flessione, Filippo Turati fa la sua seconda visita in poche ore nel carcere milanese di San Vittore per incontrare Bresci. È una co- municazione stringata e prevedibile: «Non potrò difenderla. Le ripeto, è da un decennio che ho smesso di vestire la toga…». È una motivazione che il leader socialista ribadisce ai magi- strati e ai compagni di partito, nonostante sia un esile appiglio ri- spetto alla questione politica che la richiesta di Bresci ha sollevato. All’indomani della sua decisione, Turati viene attaccato tanto da destra quanto da sinistra. I giornali reazionari lo accusano d’ipo- crisia, perché sono i socialisti, secondo loro, ad aver armato la ma- no del regicida. Altri parlano di pavidità, calcolo, opportunismo. Nelle ore successive ai due colloqui in carcere, Turati confida agli amici le sue impressioni su Bresci, descrivendolo come un uomo dall’intelligenza limitata, eppure freddo e concentrato. Come a sollevare la coscienza dal peso della sua scelta, l’uomo del riformismo denuncia però dalle colonne de La Critica Sociale

106 il trattamento inflitto al prigioniero. Definisce un «obbrobrio» il fatto che si parli di tortura senza che nessuno protesti. Si racco- manda infine che Bresci possa comunicare con i suoi familiari. Il suo rifiuto ad assumerne la difesa si accompagna alla ri- chiesta che sia un altro legale a occuparsi del caso. Turati, come ha suggerito di fare allo stesso Bresci, si rivolge all’avvocato na- poletano Francesco Saverio Merlino, un nome noto per i suoi trascorsi anarchici che, nel 1892, lo hanno portato anche a Pa- terson per un giro di conferenze durato pochi giorni. Merlino si è infiammato negli anni giovanili per gli ideali libertari, ha co- nosciuto Malatesta e altri esponenti storici dell’anarchismo, ma poi si è allontanato, ha seguito le rotte del socialismo senza mai abbracciare la fede in un partito, mantenendo la propria indipen- denza a scapito della carriera politica, difendendo spesso ribelli dalle tasche vuote senza pretendere onorari. Per questo è ancora rispettato dagli anarchici, compreso Bresci. Merlino ha 44 anni, il volto scarno, due baffi folti e il pizzetto appuntito. Piccolo di statura, è spinto da un eloquio lento e pre- ciso, rigoroso e consequenziale. Non ha dubbi quando gli viene proposto l’incarico. Accetta subito, e subito si mette in viaggio per poter studiare le carte del processo, la sentenza di rinvio a giudizio, l’atto d’accusa del procuratore generale, le dichiarazioni rilasciate da Bresci negli interrogatori. Compito improbo, quasi impossibile, perché occorrerebbe tempo per leggere tutto il ma- teriale e formulare una minima strategia difensiva, ma la prima richiesta di Merlino, vale a dire il rinvio del processo ad altra data, s’infrange contro la formale e cieca determinazione di un apparato che ha già deciso. Non ci sarà alcun rinvio, e neppure testimoni dall’America che possano smentire o suffragare la tesi del complotto. Merlino potrà contare solo sull’aiuto di chi quelle carte le ha già lette, il difensore d’ufficio Mario Martelli, presi- dente dell’ordine degli avvocati di Milano, che lo affiancherà suo malgrado, perché ha già fatto sapere dalle colonne dei giornali di aver accettato a malincuore quell’incarico.

107 Il processo inizierà e finirà nel giorno prefissato, il 29 agosto 1900, a un mese dal più «grande delitto del secolo». E l’avvocato Merlino potrà vedere Bresci solo poche ore prima che l’aula si riempia dell’attenzione ostile di militari, poliziotti e giornalisti.

> Francesco Saverio Merlino (Napoli, 15 settembre 1856 - Roma, 30 giugno 1930).

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26 agosto 1900. «Ill.mo Signor Procuratore Generale…». Inizi la lettera con una sfilza di maiuscole. È una menzogna necessaria perché tu possa arrivare al processo con la tua storia. «Prevengo la S.V. che per completare il necessario onde io pos- sa intervenire al dibattimento, mi è indispensabile la mia cravat- ta, i quattro bottoni da camicia, e 3 o 4 fazzoletti, che tutto si trova tra la mia roba sequestrata…». La cravatta rossa e i tuoi bottoni da camicia, perché allo stile ci hai sempre tenuto. Il diritto all’esistenza è anche diritto alla dignità del portamento. E tu vuoi presentarti come loro non ti hanno mai conosciuto. Il «paino», ti chiamavano. Il damerino, sì, ma non ti sei mai tirato indietro quando c’era da difendere qualche operaia o un compagno dai soprusi di un capo. Elegante e irascibile, loquace con le donne e taciturno all’oc- casione, un po’ esibizionista, amante del ballo e della fotografia, e insieme introverso, chiuso in te stesso quando ti ricordavi della tua infanzia breve.

109 Al processo dovrai spiegare perché sei tornato dall’America per fare fuoco. Dovrai indossare l’abito giusto, quello con cui sei arrivato fin qui attraversando l’oceano, e prima ancora l’abi- to delle tue giornate migliori trascorse con Sophie e Madeline dopo una riunione politica che finiva sempre con le tue piccole osservazioni. «Con rispetto e stima…». Rispetto? Sei arrivato a scrivere l’ultima bugia per il rispetto che devi a te stesso. «Gaetano Bresci». Loro racconteranno un’altra storia. Tu ti presenterai con la tua. Devi ancora scrivere la lettera ufficiale d’incarico all’avvocato Merlino, come Turati ti ha chiesto di fare. Ti prepari al processo sapendo che l’unica cosa importante sarà il vestito. Quali atte- nuanti potrà chiedere l’avvocato? A Milano Bava Beccaris ha fatto prendere a cannonate il con- vento degli affamati. In via Orefici e in via Torino le scariche dei suoi fucili hanno trafitto i corpi di donne, di indifesi, di vecchi, di operai, di ragazzi… Corpi ammassati sulla strada, sangue. Niente di tutto questo può essere considerato un’attenuante. È piuttosto la causa scatenante: la sopraffazione, il comando, l’au- torità dei padroni e dei loro eserciti. È il principio di tutto che hai voluto uccidere ripagandoli con la loro stessa moneta. No, non ci saranno attenuanti. O ci sarà la rivoluzione, o ne uscirai morto.

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29 agosto 1900. Bresci non è ancora morto quando vengono a svegliarlo, ma è così stanco che si sente quasi morire. Sono le due di notte, o del mattino se si preferisce. Ha dormito a malapena tre ore, e adesso le guardie lo stanno strattonando. «Forza, su. Preparati, che è venuto il tuo giorno». «Ma è ancora notte, io ho il diritto di riposare… perché così presto?». «Perché è così. Forza, le domande tra poco le faranno a te». «Che si apre così presto per me la corte di assise?». L’ironia del detenuto non piace alle guardie, e se adesso so- no caute è perché Bresci non deve arrivare malconcio al dibatti- mento. Accusato di un orrendo delitto, ma processato secondo i moderni dettami del nuovo codice penale. Niente ferite, né per- cosse evidenti. Solo qualche livido della prima ora, un corpo più magro, il volto più scavato. A loro è bastato negargli il sonno, e la sua vista appannata, l’equilibrio precario sembrano il prean- nuncio della sentenza.

111 Gaetano fatica a trovare i vestiti, sta crollando dalla stanchez- za, ma poi si riprende. Si veste. È pronto. Si guarda intorno e vede una schiera di uomini in divisa. Quando inizia la perqui- sizione che precede l’uscita, non sa trattenersi: «Ah, sono queste le precauzioni che prendete contro di me. Dovevate prenderle prima!». Sono le quattro del mattino quando una carrozza entra nel carcere di San Vittore per prelevare l’imputato. Bresci vi sale in manette, scortato da due carabinieri. «Ci siamo» dice. La carrozza parte. Le prime luci dell’alba filtrano appena dal buio, e già si capisce che sarà una giornata grigia, piovosa, cupa. Milano indossa la sua uniforme d’occasione. Le strade sono pre- sidiate dai soldati, dalle guardie a cavallo, dai carabinieri. Non ci sono ali di curiosi a seguire il percorso della carrozza, e Bre- sci può solo appoggiare la testa per strappare qualche minuto di sonno al risveglio che gli è stato imposto. Nessuno deve vederlo, neppure sui giornali. Resta il divieto di pubblicare immagini del regicida, mentre la carrozza si muove nella notte che fatica a di- ventare mattino. Via San Vittore, via Lanzone, via Disciplini. Il cuore storico della città evoca una memoria morta. Dove sono finiti i ribelli? Bresci ha sempre più sonno, è avvilito, pensa che non potrà presentarsi come voleva, che stanno facendo tutto questo per non farlo parlare… Via Rugabella, via Larga. Milano sarebbe perfino bella se non fosse per il senso di ac- cerchiamento che converge su quella carrozza. Decine, centinaia di soldati e guardie. Come due anni prima, l’esercito è schierato nelle vie della città e infittisce i suoi ranghi man mano che ci si avvicina al punto di arrivo. Piazza Beccaria. Il palazzo di giustizia è già presidiato, mi- litarizzato, pronto a contenere l’assedio di una folla ancora in- visibile, ma che tra poco si sveglierà, sbadiglierà e si vestirà per

112 andare a vedere il regicida, chi in abito da festa, chi con la sua tenuta di lavoro. Sono le quattro e un quarto quando la carrozza varca il can- cello del palazzo di giustizia. Gaetano Bresci, sempre in manette, viene fatto scendere e accompagnato in una cella. Mancano cin- que ore all’inizio del dibattimento. I pensieri sono impastati dal- la stanchezza. Prendere sonno è ormai impossibile. C’è troppa agitazione. Per questo lo hanno fatto arrivare per primo. Perché hanno paura.

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Bastano dieci ore per decidere, tanto durerà il processo, e te ne rendi conto ancora prima che il dibattimento inizi. Ripercorre- ranno il tuo passato avendo già programmato il tuo futuro. Forse è per questo che ti senti distaccato dal presente. La corte sta per entrare, l’aula si è riempita di cronisti, poli- ziotti in borghese e in divisa, militari con famiglie al seguito. In tutto più di cinquecento persone. Li hanno fatti passare uno alla volta per controllare fino all’eccesso che sia un pubblico compia- cente, anche se tra loro si annida quasi sicuramente qualcuno che ha brindato in tuo onore: un anarchico nascosto, un sovversivo sotto mentite spoglie. Il brusio della platea è un sottofondo d’in- dignazione cui si contrappone il silenzio di chi ti osserva in posi- zione defilata mentre ti fanno sedere nella gabbia degli imputati. Indifferente, pallido, ripugnante, insensibile, annoiato, mo- struoso, distaccato… Le varianti del tuo ritratto annotato sui taccuini e riportato dai giornali saranno molte, ma di sicuro sen- ti il peso del sonno arretrato quando il presidente della corte d’assise ti chiede di alzarti:

114 «Il vostro nome». «Gaetano Bresci». «Avete da fare dichiarazioni?». «Stamane mi hanno svegliato presto. Quindi non sono in forza per difendermi… dichiaro quindi che non risponderò alle interrogazioni del presidente». La riprovazione è concentrata in un nuovo brusio di sottofon- do. Il clima ostile è percepibile anche dal nervosismo dell’avvoca- to Merlino. Cerca di tenere a freno la tua schiettezza impulsiva, la giudica controproducente, tanto più che non ha avuto modo di concordare con te alcuna strategia processuale. È un uomo dai lineamenti spigolosi, ma il suo comportamento è paziente, la parola lenta. Si rivolge al presidente e chiede un rinvio dell’udienza: «Non ho potuto studiare il processo» argomenta Merlino «non ho potuto aver colloqui con l’imputato, non ho potuto introdurre testimoni, specialmente quelli che avrei voluto far venire da Pa- terson per stabilire se egli agì per sua iniziativa o per mandato ricevuto…». L’avvocato è lucido nell’esposizione, conseguente, eppure fa- tica a catturare l’attenzione della corte. Le sue sembrano con- siderazioni fuori luogo. I giudici hanno già fretta di chiudere la giornata. Rinvio negato. Ora leggono l’atto d’accusa che condensa in poche righe i pezzi penalmente rilevanti della tua esistenza. I fatti iniziano dalla fine, dai tre colpi scaricati sulla sacra perso- na del re, per poi riavvolgersi e riprendere il normale filo cro- nologico. La nascita a Prato, le scuole professionali, il diploma di tessitore di seta, il precoce ingresso in fabbrica, Paterson, gli ambienti anarchici, l’acquisto della pistola in America, il viaggio in nave sulla Gascogne, i giorni trascorsi a Parigi, la tappa a Ge- nova per riscuotere un vaglia di cinquecento lire (l’equivalente di circa duemila euro), e poi il ritorno a Prato, la successiva marcia di avvicinamento a Monza. Bologna e Piacenza, ogni sosta un

115 mistero da chiarire, i due telegrammi che hai ricevuto da Luigi Granotti, il vostro successivo incontro a Milano, una lettera di Nicola Quintavalle giudicata contorta e sospetta, e che il tuo amico sta pagando con il carcere… Infine Monza, di nuovo i colpi sparati su quella sacra persona che era Umberto i, esatta- mente un mese fa. Trovi che in questa ricostruzione manchi l’essenziale. Manca il principio. «Avete sentito di che cosa siete accusato. Adesso sentirete le prove. S’introducano i testimoni…». «Ma io vorrei parlare». «Adesso no! A suo tempo parlerete. Ora vengano i testimoni». Così devi sorbirti la presentazione dei testimoni, ogni nome è un volto che sbuca da un passato opaco, spento, ricordi d’infan- zia misti a quelli più recenti, un vecchio compagno di scuola e l’affittacamere di Milano, la tua infanzia e il preludio di Monza, ma non ci fai caso, è come un rimbombo nel vuoto, sei in gabbia e hai fretta di parlare prima che su tutto cali il silenzio. Poi il presidente inizia con le domande: «Ammettete di aver ucciso il re esplodendogli contro tre colpi?». «Sì». «Tre o quattro colpi?». «Tre, tre». Furono tre, del quarto non occorre parlare. «Era da tempo che avevate formato tale divisamento?». «L’ho già detto nel mio primo interrogatorio». «Ma qui dovete ripeterlo». E allora ricordi gli stati d’assedio in Sicilia e a Milano, le tue lacrime di rabbia per le vittime pallide e sanguinanti, la decisione di uccidere il principio per l’infamia di un re che dispensa me- daglie ai massacratori, e intanto loro ti guardano con disprezzo. «Oltre a vendicare gli altri volevo vendicare anche me, costret- to, dopo una vita miserrima, a emigrare…». Gli sbatti in faccia la tua infanzia breve, ma il presidente si at-

116 tiene ai fatti, pone domande concentrate su Monza, sui dettagli dell’azione, per lui sei solo una pratica da smaltire al più presto. «È vero che scannellaste i proiettili perché fossero più mici- diali?». Più che una domanda è un monito alla giuria. Che tengano conto della tua feroce determinazione a uccidere. Tu ti limiti ad annuire. Fu una tua supposizione, dici. Le parole che risuonano nell’aula grigia e soffocante sembrano perdere peso, inutili, at- torcigliate sugli stessi argomenti, focalizzate sull’arma del delitto. Ecco che stanno portando la pistola. Una calibro 38. Sì, è quella che hai comprato a New York qualche giorno prima d’im- barcarti, ma vuoi lasciarli nel dubbio, colpirli nella paura. «La riconosce come la sua?» chiede il presidente. «Sì, mi par quella. Ma ce ne sono tante di compagne». Il sussulto della platea non ti sorprende. La stanchezza torna a farsi sotto, e sei in balìa di sensazioni contrastanti. Rivendicare il gesto come unicamente tuo e al tempo stesso chiudere la partita con una protesta plateale come addormentarti in pubblico. Ma c’è un’altra cosa che vuoi aggiungere quando ti ricordano i tuoi precedenti penali, quelle due settimane di reclusione rimediate otto anni prima per aver insultato una guardia. Condanna am- nistiata, dicono. Ma ti ricordi bene la galera. «È falso, è falso. Io non ho mai goduto dell’indulto regio». Perfino l’avvocato Merlino ti dice di lasciar perdere, che la co- sa non ha più alcuna importanza. Per te conta, invece, nonostan- te il presidente abbia già deciso di sospendere l’udienza. Stanno barando, come hanno barato quando ti hanno preso l’anello, la tua catena d’oro, il tuo orologio. Li hanno fatti sparire dopo l’ar- resto. Ladri che hanno la pretesa di giudicare… Il processo riprende con l’audizione dei testimoni. Ricordi provvisori sfumati negli spari ti si ripresentano in carne e os- sa. Ecco Teresa Brugnoli, la tua amante bolognese ridotta a una comparsa chiamata a deporre. È giovane, bella, formosa, dai capelli ricci e neri, ma di fronte al giudice diventa una pallida

117 rappresentazione del passato che non ti appartiene più. Parla dei vostri incontri all’Hotel Milano, di quel telegramma che hai ri- cevuto dal Biondino proprio a Bologna: «Vieni a Biella» c’era scritto. Nell’uscire dall’aula, una volta ultimata la testimonianza, Teresa sembra lanciarti uno sguardo tra l’allusivo e l’impaurito. È solo un attimo. Ecco l’affittacamere di Milano, quel signor Ramella che avevi quasi dimenticato. Anche lui racconta del Biondino, di quella notte in cui si è fermato a dormire da te. E poi l’altra affittaca- mere di Monza, e dopo di lei la lattaia che ti ha servito quattro gelati, le ore sempre più brevi che hanno preceduto l’azione, lo stato di tensione, quasi di trance che ti ha portato fin sotto il palco di Monza, e che adesso si scioglie nell’indifferenza. Sei stanco. Altre facce arrivano da un passato più lontano. I testimoni in tua difesa sono vecchi datori di lavoro, o compagni di scuola, o negozianti che ti hanno aiutato quando, ancora ragazzo, cercavi di sopravvivere alla povertà improvvisa calata sulla tua famiglia. Per loro sei stato un lavoratore onesto, affidabile, una persona laboriosa e tranquilla. Un uomo dalla vita normale. Ma la nor- malità non è un’attenuante in casi del genere. Un’altra pausa. Il tempo è ormai un imbuto soffocante, il con- traddittorio tra le parti ridotto al minimo. L’aula è impregnata dell’odore dei corpi accalcati su di te. Tutte quelle facce ti guar- dano distanti come se fossi già morto. Poi arrivano nuove parole d’accusa affidate al procuratore generale Nicola Ricciuti, che tra qualche anno sarà senatore del regno, anche se questo tu non puoi saperlo. «Avrei voluto trovare nell’accusato un demente, ma nulla di questo ho trovato in lui… l’opera del demente è opera di solita- rio, mentre quando c’è complicità non c’è follia. E questa com- plicità trapela da ogni atto della causa…». Sta per parlare del Biondino, ci sta arrivando. Ecco la trap- pola.

118 «Chi era questo Luigi?» chiede il procuratore con enfasi. «L’av- venire lo stabilirà: ciò che però sin d’ora è certo è che si trattava di un complice…». Speri che il futuro riservi a Granotti un destino diverso dal tuo. Che parlino pure, gli accusatori. Tu non cambierai versione. Hai agito da solo. «… il fatto che Bresci viene da Paterson è circostanza eloquen- te a rinfrancare nel concetto che non si tratta qui di un solitario, e che il delitto suo, anziché un prodotto individuale, è un fatto dell’anarchia…». Sì, i compagni di Paterson sono tutti dalla tua parte, tutti a sostegno della tua azione, della tua famiglia. Tutti colpevoli di aver difeso il diritto di esistere, mentre il procuratore si affretta a sezionare la tua vita per arrivare alle sue conclusioni: «… ac- campa un’infanzia miserissima e viene smentito… egli aveva una famiglia, una compagna, una figlia, una posizione lucrosa, il che non rende credibile ch’egli per solo impulso individuale abban- donasse ogni cosa per venire a uccidere il re…». Non credibile ai suoi occhi di accusatore, ma tu ricordi bene l’esistenza che ti sei lasciato alle spalle. «… non è Passannante che si giova di un coltello di pochissi- mo costo, non è Acciarito che si fabbrica da solo l’arma omicida. Egli ha del denaro e ne spende, e da dove esso provenga è più che lecito il dubbio…». Proviene dalla tua fatica, da mesi e mesi in fabbrica, dalla me- ticolosa riservatezza con cui hai preparato il tuo piano. Ma che ne sa quest’uomo della fatica? Lui punta solo a stringere su di te il nodo del reato. Nessuna pietà, dice. Nessuna indulgenza per chi non ha mai avuto un solo momento di rimorso. Tu sei il cattivo, il perfido, l’incisore dei proiettili. «… ricordatevi, o giurati, che la vittima fu il più buono, il più popolare, il più leale dei re… Nella solidarietà del popolo con la monarchia si risveglieranno nuove energie… Signori giurati, chiedo giustizia!».

119 Il procuratore conclude in un crescendo di retorica. Ha detto l’essenziale senza dilungarsi, ma nessun applauso si leva dall’aula. Di retorica si può morire. Quel principio che hai inteso uccide- re è forse meno forte di ieri, ma le ore si concentrano, il tempo stringe, la loro giustizia dev’essere comunque fatta, e quando l’av- vocato Merlino comincia a parlare, capisci che il terreno per la sentenza è ormai pronto, preparato nel recinto della tua gabbia. Merlino chiede giustizia, non vendetta, e già il disappunto del pubblico si manifesta in un mormorio diffuso: «I gravi delitti non trovano un freno nella repressione. Certi gravi delitti rispon- dono a gravi problemi sociali…». Sono parole che cercano di contrastare la corrente ostile che attraversa l’aula. Il tuo avvocato è cauto nelle parole, ma non rinuncia agli argomenti, a cominciare dal principio che hai in- vocato: «Il regicidio, prima ancora che dagli anarchici, è stato praticato da tutti gli altri partiti politici… Monarchici ai danni di altri sovrani, i cattolici contro i protestanti, i protestanti con- tro i cattolici…». Che differenza fa un’ora in più di dibattimento? Forse avresti dovuto rinunciare del tutto alla difesa, come avevi pensato all’i- nizio. Merlino prende le distanze dal tuo gesto, lo condanna, ma lentamente si avvicina al cuore del principio. Negli anni della repressione, dei tribunali speciali, degli stati d’assedio, la propa- ganda monarchica ha invocato poteri assoluti per il re. Nessuna sorpresa che qualcuno abbia pensato di pareggiare i conti colpen- do il principio: «… non dovete meravigliarvi se l’esempio della violenza, venendo dall’alto, ha provocato una reazione al basso della società, se c’è stato chi ha creduto di opporre alla violenza del governo la violenza privata…». L’insofferenza e la protesta del pubblico crescono di parola in parola, spalleggiate dalle interruzioni del presidente e del procu- ratore generale. È un’arringa che procede controcorrente, spez- zettata, eppure logica. In Italia gli anarchici non hanno avuto il diritto di esistere, ed è questo che rende l’assassinio di Umberto

120 un delitto politico. Rivivi le tue giornate in carcere, le persecu- zioni contro le idee, l’emigrazione forzata in America, Paterson… «… ecco come si spiega la cittadella degli anarchici» dice Mer- lino. «La polizia spinge i più impulsivi a reagire, li caccia dal pro- prio paese, toglie a essi i mezzi per lottare e crea un ambiente…». «Io non posso lasciarla continuare di questo passo» avverte il presidente. «Veda di stringere e possibilmente di concludere». Il tuo avvocato ha appena iniziato e deve già chiudere. Ades- so ti sta indicando: «… se riandate alle cause del suo delitto, la causa prima la rinverrete nell’azione di coloro che, avversando le sue idee, gli hanno negato il diritto che deve essere riconosciuto a ogni cittadino, di professare i principi che crede giusti, di lottare per l’attuazione pacifica dei propri ideali…». «Ella non può venir qui ad accusare, a far della propagan- da…» lo ammonisce il presidente. «Io sono nella causa, io non faccio propaganda…». «Se non sarà propaganda, sarà apologia». Le minacce riscuotono l’approvazione di chi ti sta intorno. Li hanno scelti apposta, e a nulla servono le proteste dell’avvocato. La tua difesa è un filo sempre più esile sul punto di spezzarsi. Merlino ti fa capire l’aria che si respira anche fuori da questo palazzo che sa di prigione: «Se si dovesse fare vendetta, sarebbe giustificato che oltre al Bresci si siano colpiti anche il fratello, il cognato, gli amici, gli abitanti del suo paese nativo, che si siano fatti arresti in massa per l’Italia, e che si fabbrichino processi per associazione a delinquere contro persone innocenti…». Lui chiede invece giustizia sapendo che vogliono infierire su di te con una pena molto più crudele della morte: l’agonia perpetua dell’isolamento. «Se il vostro verdetto sarà quale lo chiede il procuratore gene- rale, farete cosa non degna di un popolo civile». Tempo scaduto. All’avvocato Merlino subentra il tuo secondo difensore, quello che non hai chiesto, che ti è stato assegnato d’ufficio. Il registro è diverso, il tono sottomesso.

121 «Sento profondo il ribrezzo per il delitto compiuto da Bresci, così come sento vivo rimpianto per la morte del re. Buono, leale, valoroso». Ha solo una carta da giocare. «… malgrado lui lo neghi è ossessione. Prato e Paterson gon- fiarono mente e cuore del Bresci con teorie sovversive…». Ti sta descrivendo come un idiota che si è fatto plasmare, che ha ammazzato il re per conto terzi. Sta giocando sulla tua follia a dispetto di quanto dichiarato dallo stesso procuratore generale che ti ha riconosciuto lucido. «Sì, fu ossessione… Egli sacrificò il suo avvenire, tendenze, speranze, amori; lo avrebbe fatto a mente sana?». Più di tutto ti manca il sorriso della piccola Madeline. Non il capannone della fabbrica, non la cantilena roca e assordante dei telai, non le sirene, né i richiami dei capireparto. Ti manca la tua compagna, che sta per partorire ma non lo sai. Non ti manca il grigio ripetersi delle giornate trascorse in esilio, né mancano le tue malinconie di ragazzo avviato sulla strada del Fabbricone. Con il quarto colpo hai polverizzato il tuo avvenire, ma hai ven- dicato il passato. «Avvocato. Io non sono pazzo. Io non voglio essere giudicato per un atto di follia, ma per un atto rivoluzionario». Lui ti guarda come fossi un bambino, poi conclude l’arringa nell’indifferenza dell’aula. Conto alla rovescia. La corte tra poco si ritirerà. Il presidente ti rivolge l’ultima domanda: «Avete qualcosa da aggiungere?». «Voglio ripetere che il fatto fu compiuto da me, soltanto da me, senza complicità. Il pensiero mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati…». «Potete parlare, ma per dire dei fatti, non per enunciare delle teorie». «Mi limiterò allora a dire questo. La vostra condanna mi la- scerà indifferente. Mi appello soltanto alla prossima rivoluzione». «Aspetta e spera…».

122 La vendetta comincia a consumarsi tra il commento malevolo di uno del pubblico e il ghigno sprezzante di chi lo ascolta e annuisce. Il presidente lascia che le voci si spengano e ricorda ai giurati la domanda cui dovranno rispondere: colpevole sano o colpevole pazzo? Il processo è finito. Si tratta solo di attendere che i giurati escano con la loro decisione più scontata. La tua testa è reclina- ta, la stanchezza è tornata pesante, come se la rivoluzione invo- cata poco fa ti avesse consumato le energie. Passano solo pochi minuti. «Sì, colpevole». Ora tocca alla corte riunirsi e decidere la pena commisurata alla gravità del delitto. Non sei matto, ma ti infliggeranno la tortura del tempo per portarti alla follia. L’odore della burocrazia sale, sale nelle narici, è odore di disinfettante e segatura, odore di certificazione notarile di una condanna che sta per essere comu- nicata dopo solo pochi minuti di camera di consiglio. «In nome di Sua Maestà Umberto i…» legge il presidente nell’imbarazzo dell’aula. Il suo lapsus tragicamente farsesco ti fa sorridere. Stai per es- sere condannato in nome del re che hai ucciso, poi il presidente si corregge e riprende a leggere la sentenza nel nome del nuovo sovrano. Sono passate dieci ore dall’inizio dell’udienza. Come previsto, tutto si è svolto nel più breve tempo possibile. Sei un’a- nomalia pericolosa da sottrarre agli sguardi degli altri. Da sep- pellire nel silenzio. «… ergastolo e i primi sette anni di segregazione cellulare». L’odore è sempre più forte, anestetizzante. È il quarto colpo che ti arriva dritto al cuore. Adesso sei chiuso. In gabbia. Non sai neppure più che ore sono.

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L’alba del nuovo giorno deve ancora spuntare, e i primi quotidia- ni affidano alle edizioni straordinarie della sera i commenti sulla sentenza, come se gli articoli fossero già stati composti in attesa del via libera dei giudici. Tutto come da copione, nessuna sorpre- sa. Tra le righe di stampa serpeggia un misto di soddisfazione e disappunto. Soddisfazione per la pena esemplare che toglierà al regicida la ribalta che si aspettava; disappunto perché il nome di Gaetano Bresci, detenuto in attesa di essere sepolto nell’isola- mento, continua ad aggirarsi come uno spettro sull’Europa delle monarchie e non solo. Anche l’indomani i principali giornali si compiacciono per la celerità della sentenza, sebbene tradiscano la paura. La mag- gioranza rumorosa della borghesia vede riflessi i propri umori nelle colonne del Corriere della Sera, che prima ancora del pro- cesso aveva espresso soddisfazione per i tempi brevi dell’istrut- toria onde ridurre la pubblicità al condannato. La descrizione del comportamento in aula di Bresci ne risalta il lato ripugnan- te e mediocre: «… di tutti gli ‘eroi’ della sanguinante dottrina

124 è il più volgare (…). Pare un uomo nel cui cervello non seppe fiorire che l’idea di un determinato assassinio, e per il quale il compimento di questa idea ha voluto dire inutilità di pensare (…). È risultato evidente dal processo che una complicità ma- teriale e morale vi fu…». Su Il Mattino le viscere si scatenano. Bresci è una non persona, e come tale va trattato: «… la società civile lo cancelli dal nume- ro dei viventi e l’assoluta morte morale circondi il nome e la vita di colui che uccise il Re. Sparisca l’uomo e sparisca il suo nome dai nostri discorsi, dai nostri scritti, dalle nostre dispute: niuno si occupi della sua persona e della sua sorte…». «Giustizia è stata fatta» scrive Luigi Einaudi su La Stampa «ed il regicida, dopo una breve comparsa dinanzi al grande pubblico, è stato sepolto nell’oscurità, dalla quale non avrebbe dovuto mai uscire». Più che fisicamente, occorre uccidere il regicida nell’imma- ginazione dei lettori, dandone un ritratto stereotipato, privo di qualunque venatura romantica. Bresci l’indifferente, il cinico, l’omicida senza scrupoli, uomo d’intelligenza limitata, che non brilla neppure di una sinistra luce rivoluzionaria… Gli italiani possono leggere tante versioni, ovviamente quelle non sequestra- te, e trarne le debite conclusioni. Tutti sembrano in qualche modo sollevati dalla rimozione del colpevole nel rispetto del nuovo codice penale. I monarchici pos- sono far finta che il loro principio sia stato ripristinato, i socialisti guardano avanti e si preparano al lungo cammino elettorale per l’Italia che verrà. Nei commenti fitti di richiami all’attualità politica, intessuta di attenzioni più o meno sincere alla questione sociale, pochi si ricordano dell’emigrante Gaetano Bresci, tessitore venuto da Pa- terson. Solo gli anarchici scendono in difesa del loro compagno e protestano per il destino cui sta andando incontro. Voci che arrivano in gran parte dai luoghi dell’esilio, dall’Europa, dall’A- merica, da Paterson, New York, Ginevra, ovunque si annidi un

125 anarchico. Voci che trovano una sintesi toccante e sofferta in un articolo scritto da Amilcare Cipriani a Parigi. Punto focale è il regime carcerario imposto a Bresci: «Ho paura per lui» scrive. «Egli grida, la camicia di forza, le catene alle mani e ai piedi lo irritano. È troppo presto! Egli è forte, robusto, sanguigno e giovane; se la testa non è d’acciaio soccomberà ai supplizi che la vigliaccheria dei carcerieri gli riserva. Impazzirà…». Follia o morte. Cruda ma realistica rappresentazione del di- lemma del prigioniero che i Savoia hanno già imposto a Gio- vanni Passannante e Pietro Acciarito, e che Bresci si appresta a vivere. La paura di una possibile, seppure remota evasione stringe il cappio dell’isolamento attorno al detenuto. Nel carce- re milanese di San Vittore si fanno le prove generali di ciò che accadrà nel luogo del definitivo trasferimento. Le lettere della compagna di Bresci e degli amici restano chiuse nel cassetto della segreteria. Si è fatta giustizia, si dice, ma un pizzico di vendetta non guasta. Gaetano, dal canto suo, ha trascorso la prima notte dopo la sentenza. Una volta tornato in cella, lontano dai taccuini dei giornalisti, ha probabilmente pianto e dato sfogo al suo sonno arretrato. Ma il risveglio non lo trova rassegnato. Chiede da subi- to un colloquio con gli avvocati che stanno già studiando le con- tromosse per modificare gli effetti della sentenza, o quanto me- no ritardarli. Ci sono state troppe violazioni in questo frettoloso e scontato procedimento, e Merlino le ha ricordate tutte. Sono mancati testimoni importanti, la difesa è stata in gran parte va- nificata dall’assegnazione tardiva dell’incarico, vizi di procedura palesi sono stati di fatto ignorati dalla corte. I due legali di Bre- sci, Merlino e Martelli, concordano sulla necessità del ricorso in cassazione. Perlomeno farà slittare l’inizio dell’agonia perpetua decisa con i sette anni di segregazione cellulare. Il 31 agosto Bresci riceve la visita dell’assistente dell’avvocato Martelli, che gli espone i benefici del ricorso. Si attende solo il sì del diretto interessato, ma Gaetano ha deciso. Questa volta non

126 sceglierà la scorciatoia legale fatta di avvocati e domande d’ap- pello. Un anarchico deve andare fino in fondo. «Non ne voglio sapere della cassazione, non mi curo della con- danna: mi hanno condannato una volta e mi condannerebbero un’altra volta». «Ci pensi. Abbiamo ancora un giorno di tempo…» obietta l’avvocato. «La ringrazio di cuore, lei è una persona molto rispettabile». Bresci dà una pacca sulla spalla dell’avvocato tramortito da quella decisione a sorpresa, come se fosse lui a dover essere con- solato. Non ci sarà alcun ricorso. Il colloquio è finito. Tra poco Bresci non sarà più tecnicamente «giudicabile» ed entrerà nello status di «condannato». Pena definitiva.

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Mezzanotte in punto. Sarebbe la fine del giorno e l’inizio di un altro se il tempo avesse ancora un senso. Invece è solo il momen- to che sancisce lo scadere dei termini del ricorso. La catena che ti lega al muro sembra ancora più pesante. Nessun ripensamento è più possibile. Adesso che la scelta è compiuta, puoi solo sperare che qualcosa accada. Forse l’improvviso impeto di rabbia degli sfruttati che reclamano il diritto di esistere porterà al crollo della monarchia, fatta di cartapesta come qualunque pretesa di co- mando. Forse il tuo gesto sarà servito a scuotere il popolo, e sarà la liberazione. Ma adesso che la cella è serrata, e solo il silenzio rimbomba intorno a te, il tempo sa di prigionia definitiva, non di speranze. Forse ne uscirai pazzo, e stai già assaggiando il terreno della follia, stai parlando da solo, sempre più forte, tanto che le guardie accorrono e ti intimano di fare silenzio. «Rivoluzione!» rispondi. «Stai zitto, o sarà peggio per te». «Mi appello alla rivoluzione. Non starò zitto». «Vediamo se questo ti farà cambiare idea».

128 La cella si apre, tu esponi il tuo lato più elegante alla rap- presaglia delle guardie. In fondo è un modo come un altro per resistere alla tortura del tempo. Solo più doloroso. «La rivoluzione accadrà…». Ripeti le parole come fossero un mantra per dissolvere le sbarre. Ti senti sempre più chiuso, sempre più solo, sempre più dolorante.

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Adesso hanno tutto il tempo che vogliono. L’attenzione sull’uo- mo si sta spegnendo nel buio della sua cella provvisoria di Mi- lano. La città che circonda le mura di San Vittore recupera la sua alacre indifferenza, specchio di un paese che ha fretta di archiviare. Ma gli anarchici non dimenticano, e dall’America denunciano torture e angherie cui è sottoposto il prigioniero. L’oscurità della segregazione è inframmezzata dalle luci artificiali delle stanze dove vengono condotti nuovi interrogatori, alcuni alla presenza dei magistrati, altri senza testimoni ingombranti. «Tu e Granotti eravate d’accordo, non è vero? Che ci faceva a Monza, sennò? Adesso dov’è?». Tra schiaffi e metodi di persuasione più subdoli, psicologici, tra pratiche conformi al codice e altre coperte dagli omissis, si consuma la prigionia di Gaetano. Un uomo determinato a re- sistere, che alle domande ricorrenti, ormai ossessive, continua a opporre la sua verità. «… escludo, come più volte ebbi a ripetere nei miei precedenti interrogatori, di avere agito per mandato altrui…».

130 Nessun complotto, un’azione decisa in autonomia, matura- ta certo in un contesto fertile alla libera circolazione delle idee sovversive, nei luoghi dove è arrivata l’eco degli eccidi in Italia e delle sofferenze dei sopravvissuti. Bresci è chiamato ancora una volta a ripercorrere le sue ultime settimane a Paterson, a giusti- ficare amicizie e frequentazioni che ruotano attorno ai ritrovi abituali di un tempo: la sede dell’associazione Il diritto all’esi- stenza, l’Hotel Bartoldi, una girandola di nomi che gli inquisito- ri pretendono di associare al «più grande delitto del secolo». Ci sono amministratori e tipografi deLa Questione Sociale, oppure tessitori come lui, compagni di serate trascorse tra un bicchiere di vino e il ricordo dell’Italia. Alberto Guabello, Pedro Esteve, Ernestina Cravello, Guido Sella… La lista dei sospettati è lunga, ma per ciascuno di loro Bresci nega qualunque forma di com- plicità. Le domande si stringono a cerchio soprattutto attorno ai nomi di Quintavalle e Laner, che per aver viaggiato insieme a Bresci restano sempre consegnati ad altre celle. Di loro Gaeta- no non sa più nulla. Sono storie sospese come quelle di Emma Quazza e di suo fratello Lorenzo. Emma è già tornata in libertà, ma il procedimento penale a suo carico si estinguerà solo nell’a- gosto del 1901. Quanto a Lorenzo, dovrà ancora attendere più di un anno prima di essere scagionato, esattamente come Quinta- valle e Laner. Il silenzio di Gaetano impedisce di costruire prove a loro carico, il teorema del complotto scricchiola di settimana in settimana. Settembre, ottobre… L’attesa è infinita, i giorni tutti uguali. Altri interrogatori, altre domande pressanti per capire da dove Bresci abbia ricavato i soldi per venire in Italia, e come contasse di tornare in America nel caso fosse riuscito a sottrarsi all’arresto. Come un puntiglioso contabile dei propri risparmi, il tessitore anarchico ricostruisce i movimenti di denaro che ha speso quasi interamente. Frutto della sua fatica, dice, esattamente come la sua catena d’oro, l’orologio, l’anello di cui chiede inutilmente la restituzione.

131 È un uomo ostinato, seppure infiacchito dall’isolamento e dalle sopraffazioni. Il potere esige altri nomi, magari eccellen- ti come quello di Errico Malatesta, la mente giusta, secondo i Savoia, per ordire un complotto in grande stile. La paura e il calcolo dei regnanti si confondono, ma Bresci continua a negare ruoli e regìe occulte ricavandone solo un inasprimento della sua solitudine. Il regime cui è sottoposto lo avvicina sempre più a ciò che lo attende nel carcere dove sarà trasferito definitivamen- te. Viene sorvegliato a vista, non può parlare, è prigioniero del proprio silenzio, delle paure e dei ricordi che si rifanno sotto. La cella di San Vittore è un’anticamera dell’agonia perpetua scelta per lui. È qui che Bresci comincia a misurare la propria capacità di resistenza. Cerca di riprendere contatto con il mondo esterno, a partire da Sophie: «È molto tempo che attendo ansiosamente notizie tue e della nostra piccola Maddalena» scrive in una let- tera datata 11 ottobre. «Nessun’altra lettera ho ricevuto dopo la tua dell’8 luglio, tu potrai immaginare quanto mi sembrino più lunghe e più tristi le ore (…). Mi farebbero comodo camiciole, mutande e calzettini da inverno che lasciai costà. Informati se conviene spedirmeli, altrimenti se vuoi farmi favore mandami un poco di denaro onde possa procurarmi qualcosa. Ti saluto: un bacio alla bimba». È come il messaggio di un naufrago affidato alla bottiglia, una flebile speranza che attraversa l’oceano e restituisce dopo più di un mese una piccola somma, un vaglia di dieci dollari inviato dall’America. Sarà effetto della bottiglia che è arrivata a destina- zione? Oppure Sophie avrà agito spontaneamente, senza bisogno di richieste, strappando pochi dollari ai suoi magri risparmi? È uno degli omissis, questo, che non fa molta differenza. Una don- na spezzata dal dolore è ancora capace di amore. Di certo, le sue lettere a Gaetano restano nel cassetto di qualche funzionario, e lui non può sapere che adesso le bimbe sono due. Madeline ha una sorella appena nata, Muriel. Ma le mura del carcere sono spesse, rese impenetrabili dall’accanimento delle istituzioni mo-

132 narchiche, e quando la porta della cella si apre è solo per chiama- re il prigioniero a un nuovo interrogatorio. Passa ottobre, poi novembre. C’è sempre quella domanda. Vo- gliono nomi, e il primo della lista è ancora Luigi Granotti. «Ho agito da solo, e basta…». Hanno tutto il tempo che vogliono, e intanto il tempo scorre senza che nulla accada. Il 10 novembre 1900 Bresci compie 31 anni. Per lui è solo un giorno come un altro.

> Errico Malatesta, che ha conosciuto Bresci negli Stati Uniti, è tra i primi a prendere posizione. Il governo italiano lo accusa addirittura di essere a capo del complotto per uccidere il re.

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Quanto durerà tutto questo? Impazzirai in questo buco nero di solitudine, in questo solipsismo umido e incatenato? Parlare da solo per farti compagnia non è già sintomo di follia? La parola è preziosa, non dovremmo abusarne, e tu invece senti di averlo fatto in passato. Avevi l’eloquio facile, spedito, che faceva colpo sulle donne quando le invitavi a ballare o scattavi loro una fo- tografia. Adesso che sei consegnato alla cella risuonano solo gli ordini secchi delle guardie, il loro tono acuto, sgradevole. Barat- teresti anni di esistenza in cambio di una parola alla tua bimba, a Sophie, a Emma Quazza, ai compagni e agli amici, ma qui hanno deciso di farti morire lentamente. I tuoi capelli, stasera, ti appaiono più radi, i baffi provvisori. I giorni che si accumulano in settimane non hanno il sapore di un cambio di stagione, il freddo che ti attraversa non è tanto l’au- tunno che si fa inverno, quanto il gelo mentale dell’isolamento. Non ci sono pensieri, a volte, e il tuo futuro ti sembra scritto in uno specchio. Un uomo che sta invecchiando rapidamente, e che ci teneva all’aspetto. In un filo di pancia leggi il segno della scon-

134 > Serve una struttura impenetrabile che sia al riparo perfino dagli sguardi e dalle voci degli altri detenuti. La destinazione finale sarà l’isola di Santo Stefano, dove c’è un penitenziario borbonico costruito con i moderni criteri del Panopticon di Jeremy Bentham. fitta, e allora chiedi al corpo di reagire, ti muovi nel tuo spazio ristretto con i pochi strumenti che ti restano. Braccia e gambe. Flessioni, esercizi fisici, coordinazione, movimento. Ti alleni per non impazzire e per resistere all’assedio delle domande, aspettando che qualcuno arrivi. Forse, chissà. Con- getture su una rivoluzione che, al di là del muro, deve ancora accadere.

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Il governo presieduto dal liberale Saracco, insediato a fine giugno, non ha avuto un battesimo felice. Dopo solo un mese si è ritro- vato con tre colpi secchi che hanno colpito il sacro cuore della monarchia, e adesso è chiamato a gestire una situazione delicata quanto eccezionale. La paura esiste, ed è palpabile. La fine del 1900 porta ancora in piazza la protesta delle classi che non vo- gliono più essere subalterne. La scintilla scocca a Genova, dove il prefetto ha disposto per decreto lo scioglimento della Camera del Lavoro. La reazione è immediata. Operai e portuali procla- mano lo sciopero generale che in breve tempo si estende a tutta la regione. 20, 21, 22 dicembre. Sono tre giorni senza precedenti, la mobilitazione è massima, l’adesione compatta. Il presidente del consiglio non può permettersi una soluzione di forza. Dispone al contrario la revoca del decreto prefettizio. Gli operai hanno vinto, mentre Saracco si espone alle critiche dei nostalgici di Bava Beccaris. È un timido segnale di cambiamento, impensabile solo un anno prima, nonostante resti la titubanza del governo, la sua ritrosia a imboccare decisamente una nuova strada.

136 L’unica determinazione riguarda il destino di Bresci. La mas- sima sicurezza e il massimo silenzio devono calare sul regicida, ed è questo a rendere importante la scelta del luogo del suo im- minente trasferimento, dove la pena troverà definitiva e più dura applicazione. Serve una struttura impenetrabile che sia al riparo perfino dagli sguardi e dalle voci degli altri detenuti. Il riferi- mento immediato è al carcere elbano di Portolongone, dove è impazzito Giovanni Passannante ed è stato imprigionato anche Amilcare Cipriani. Le celle sono buchi umidi, due metri sotto il livello del mare. I precedenti, insomma, non mancano, ma è proprio questo, per paradosso, a sollevare riserve. C’è il rischio di concedere una ribalta involontaria a Bresci, facendo di quel posto osceno il simbolo del martirio anarchico. Forse, pensano i governanti, è meglio dare una nuova prigione al regicida. Un posto in realtà antico, che risale al periodo borbonico, edificato alla fine del Settecento e riconvertito a «nuovo» ergastolo dalla monarchia sabauda. La destinazione finale si chiama Santo Ste- fano, una piccola isola vicina a Ventotene, al largo della costa tra e Campania, dall’aspetto selvaggio e incantevole se non fosse per quell’edificio a ferro di cavallo che la sormonta, e che le conferisce un’impronta lugubre. L’ergastolo di Santo Stefano è un carcere per cui bastano le parole dello scrittore Luigi Settembrini, che vi fu rinchiuso alla metà dell’Ottocento: «Tetre sono queste celle il giorno, più tetre e terribili la notte; la quale in questo luogo comincia mezz’ora prima del tramonto del sole, quando i condannati sono chiusi nelle celle, dove nella state si arde come in fornace, e sempre vi è puzzo…». La tomba dei vivi, per usare la definizione di Settembrini, è un monumento all’ipocrisia del potere. Il carcere s’ispira infatti al modello architettonico del Panopticon ideato dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham per garantire, sulla carta, un trattamento più «umano» ai prigionieri: celle singole, disposte a cerchio intorno a una torre centrale che permette il controllo

137 in simultanea dei detenuti dallo stesso punto. Il massimo della sorveglianza che si accompagna al massimo dell’isolamento. I Savoia hanno affinato le tecniche di reclusione. Se nel periodo borbonico vigeva il principio di promiscuità, adesso le moderne regole di civiltà reclamano celle separate, dai muri spessi. Per Bresci si decide di raddoppiare la pena. Per lui ci sarà una cella speciale, simile a quella dove è stato imprigionato Alfred Dreyfus, l’ufficiale francese di origine ebraica che pochi anni prima è stato al centro di un caso politico e giudiziario. Dreyfus è stato confinato per cinque anni nell’isola del Diavolo con la falsa accusa di spionaggio e tradimento. La cella di Bresci sarà ugualmente uno spazio ristretto in un corpo separato del carce- re, con due stanze confinanti da cui verrà attuata una vigilanza continua. Un inferno a occhi aperti, oltre che una tomba per i vivi. Ad attendere il condannato è una successione di poche va- rianti ripetute all’infinito. Ferri, catene, pasti minimi, mutismo assoluto, luce dei controlli anche di notte, sonni brevi e spezzati, e tante guardie acquattate dietro gli spioncini. Per il momento Bresci, ancora a San Vittore, può solo limi- tarsi a immaginare il peggio. Il 9 dicembre 1900 è un’altra data da segnare sull’agenda degli omissis. Ufficialmente arriva nel carcere milanese una lettera di quattro pagine di Sophie. Avrà finalmente saputo, Gaetano, della nascita della seconda figlia Muriel? Nulla fa pensare che abbia mai aperto quella busta. Per- ché mai i Savoia avrebbero dovuto allentare la presa del silenzio e la tortura del tempo immobile? Il prigioniero non può neppu- re leggere ciò che viene pubblicato in America su L’Au r o r a , un ricordo commosso dei suoi compagni in occasione del Natale: «… non scordiamo il sepolto vivo d’Italia, il nostro Bresci, per cui forse il Natale non avrà più incanti, non scordiamo le sue bambine che da noi attendono, come da padri, aiuto, conforto, amore…». L’anno nuovo incombe e arriva. Il 10 gennaio 1901 viene con- segnato a Bresci un maglione di lana che lui stesso ha chiesto di

138 > La sua cella, come prescritto, sarà il luogo più sorvegliato d’Italia. Tre metri per tre affiancati da due celle laterali dotate di fessure attraverso cui le guardie eserciteranno il loro incessante controllo. acquistare in un negozio di Milano, probabilmente grazie ai sol- di spediti dalla sua compagna. È l’ultima cosa che riceve in dote nel carcere di San Vittore, triste completamento del corredo di un viaggio senza ritorno.

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21 gennaio 1901. Ti hanno reso irriconoscibile per farti attraversare un pezzo d’Italia senza dare nell’occhio. Ti hanno rasato a zero e ti hanno tagliato i baffi, cosicché quella tua fotografia resa famosa da -mi gliaia di opuscoli anarchici sfuggiti alla censura sembra raffigu- rare un altro uomo. Ti stanno negando il diritto a un’esistenza a testa alta, a quello sguardo dignitoso e fiero. Anche questa volta ti hanno svegliato presto. Hai dormito poco, sentendoti mutilato di una parte di te, poi hai seguito le guardie fuori dalla cella e sei salito su una carrozza diretta alla stazione. Ci siamo. Un pensiero ormai abituale. Sei stato in viaggio quasi tre gior- ni, scortato come un nemico ancora in grado di colpire. Hai cercato di assaporare ogni momento, sbirciando fuori dai fine- strini del treno, tra le fessure del controllo stretto su di te, op- pure respirando l’aria del porto di La Spezia dove ti hanno fatto imbarcare su una nave da guerra chiamata Messaggero, ma che non ha carichi di speranza da portare da una costa all’altra. Ti

140 hanno assicurato mani e piedi ai ferri, in una stiva peggiore di qualunque terza classe. Muto e incatenato. Per vincere la nausea del mal di mare hai cercato di ricordare il tuo viaggio verso l’A- merica, i sentimenti contrastanti che le onde scuotevano dentro di te in un tragitto interminabile e accalcato, saturo di povertà e bisogno e desiderio di riscatto. Sei stato male, e hai preferito dormirci sopra. Le onde si sono infrante sul silenzio dei sogni, e al risveglio sei stato consegnato ai carabinieri che ti hanno fatto salire su una barca più piccola, una lancia. Ti hanno sistemato a poppa, le mani sempre legate, e alla tensione che hai letto sui volti della tua scorta, alla loro paura che potessi scappare, hai opposto un residuo di amara ironia: «Non ho nessuna voglia di morire affogato…». Adesso il tuo approdo è a portata di vista. Un’isola che non è riparo né salvezza né tanto meno liberazione, il cui profilo spunta nella luce incerta che stenta a imporsi sulla coltre umida e spet- trale. Pallido anche l’edificio che si staglia in cima, così sinistro che sembra sfidare anche il volo dei gabbiani. Santo Stefano è un luogo lontano da tutto, eppure più ti avvi- cini più ti ostini a studiarne i contorni, a immaginare ipotetiche vie di fuga, magari un passaggio segreto verso il mare e, chissà, verso un’altra lancia che presto ti riporti a casa. Ma quella costa frastagliata, rocciosa e aspra non offre nemmeno facili punti di attracco. Pare studiata apposta per una navigazione a senso unico. Gli sguardi dei marinai ai remi cadono ogni tanto sul tuo silen- zio, e sono un misto di curiosità, timore, compatimento, dileggio. «Perché hai ammazzato il re?» ti chiede uno di loro ostentan- do un mezzo sorriso. «L’ho fatto anche per te» rispondi rompendo il mutismo, ma subito il tono gerarchico del più alto in grado tra i carabinieri vi ordina di tacere. «Nessuno dovrebbe impedire ad altri uomini di parlare…» protesti. «Taci, ma chi ti credi di essere?».

141 «La storia lo dirà. Presto sarete spazzati via dalla rivoluzio- ne…». Non hai molto da perdere, ormai, e quell’intermezzo di con- versazione accesa è simile a un massaggio mentale che ti rimette in circolo l’impeto e ti fa parlare a testa alta. Poi l’unico rumore torna a essere quello dei remi che affondano nel mare, ritmici, quasi ipnotici. I gabbiani stridono indifferenti nel panorama af- facciato sul nulla. La lancia sta attraccando. Sul molo scorgi le sagome di una decina di uomini in attesa. Ne senti l’odore ancora prima di scendere, il loro puzzo di burocrazia, la loro sete di schedature e ispezioni. Come un pacco giunto a destinazione, ti affidano alle loro mani, ad altri sguardi interrogativi e ostili, a spinte po- co caritatevoli lungo un percorso in salita. Devi superare quasi trecento gradini per arrivare in cima. È un’ascesa verso l’inferno, una strada lastricata che ferisce la vegetazione come un coltello infilato nel fianco dell’isola. Disseminate lungo il percorso, ci sono lapidi che sono servite da monito a tutti gli uomini che ti hanno preceduto. Un luogo di sofferenza, espiazione, reden- zione, dicono le scritte che sopravvivranno al secolo, anche se questo non lo sai. Non t’interessa prestare attenzione alle tante tappe di una via crucis senza speranza né resurrezione. Tu ci vuoi ancora credere, nella rivoluzione, o quanto meno farlo credere a loro. Procedi a testa alta nonostante la stanchezza, il dolore dei polsi, l’insensibilità nelle gambe. Ci arrivi vivo, lassù, e quello che vedi è un piccolo spazio verde, un giardino ricavato tra bloc- chi di edifici squadrati e incolori. Alla tua destra un cancello, e oltre il cancello, in penombra, altri cancelli che convergono verso il cuore della prigione, il punto focale dell’ergastolo. Il tuo futuro sa già di morte.

142 > Ti senti all’estremo confine dell’esistenza. Vietato parlare. Vietato scrivere. Vietato riposare. Capisci che sei davvero arrivato alla tua destinazione finale. 37

23 gennaio 1901. Gaetano Bresci arriva alla sua destinazione finale. Tra le per- sone che lo hanno prelevato sul molo c’è il direttore del carcere, Cecinelli, che lo fa portare nel suo ufficio per riservargli l’acco- glienza dovuta. È un elenco regolamentare pedissequo e inflessi- bile, fatto di soli doveri, che definirà il perimetro dell’isolamento nei giorni a venire. L’ergastolano, tanto per iniziare, non avrà più un nome, ma un numero di matricola: 515. D’ora in poi, avverte il direttore, sarà l’unico modo consentito di presentarsi. La pratica della spersonalizzazione è completata. Dopo di che viene il rituale che accompagna qualunque viaggio dalla libertà alla prigionia. Una divisa da indossare fino all’ultimo giorno: casacca e pantaloni a strisce bianche e marroni, e il bavero nero che contraddistingue chi ha commesso i delitti più infamanti. A Bresci viene anche consegnato un tascapane con un corredo striminzito da riconsegnare ogni sera alle guardie: un paio di spazzole e pettini, un asciugamano, un tovagliolo, un fazzoletto e una maglia.

144 «Domande?» chiede il direttore. «È ammessa la lettura?». «Quella della Bibbia, se le interessa». Opzioni limitate all’osso, così come i movimenti nell’angusto spazio che quel giorno si apre all’uomo condannato per aver am- mazzato il re. La sua cella, come prescritto, sarà il luogo più sor- vegliato d’Italia. Tre metri per tre affiancati da due celle laterali dotate di fessure attraverso cui le guardie eserciteranno il loro in- cessante controllo. Ispezioni quotidiane e notturne, regolazione delle luci perché il buio non cali mai sul sonno del colpevole, bat- titure alle inferriate. Un’ora d’aria al mattino su un balcone che verrà coperto da lenzuola perché la vista del regicida sia preclusa agli altri detenuti. Dentro la cella, un ambiente spoglio e un mu- ro che offre appiglio solo alle catene. Bresci non potrà parlare. Non avrà diritto a visite, eccetto quelle dei secondini. Non potrà scrivere, né ricevere lettere. Potrà leggere la Bibbia, se lo vorrà. La porta della cella si chiude sul detenuto numero 515. Nes- suno in Italia sa ancora del suo trasferimento. Tutto è avvenu- to nella massima segretezza, e passeranno settimane prima che qualche giornale riporti il nome dell’ergastolo di Santo Stefano. Fine pena mai.

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Silenzio e tempo immobile. Nella cella ci sono un ruvido mate- rasso che al mattino va sollevato e accostato alla parete, un tavolo assicurato a un altro muro sul quale hai appoggiato la sacca del tuo corredo, poi una piccola panca traballante dove potrai stare seduto a contare mentalmente le ore. Infine il bugliolo per le necessità del corpo. Nient’altro, a parte il libro che tieni in mano e che ti è già venuto a noia. Le pagine della Bibbia, qui dentro, ti arrivano solo come un alfabeto dell’obbedienza, e stai chiedendo che ti diano un altro volume… «Silenzio!». Risposte secche, arroganti, essenziali. I pochi oggetti che ti circondano sembrano scontare la condanna quanto te, attac- cati alle pareti come se potessero prendere il volo attraverso le inferriate. Ore che si bloccano, minuti che scivolano lenti su pensieri ossessivi. Ti hanno spogliato di tutto. Sei seppellito vivo con l’u- nica intimità di sbirri che si alternano nella sorveglianza. Clic, clac.

146 Uno spioncino si apre da un lato, un altro si chiude. Due sguardi che non ricambiano il tuo. Tutti i giorni a venire sotto la luce artificiale confonderanno le ore, soffocheranno i sogni. Pensi al carcere a vita come a qualcosa di astratto, che non ti riguarderà. Ci sarà prima la rivoluzione, e se non ci sarà non passerai comunque sette anni in questo posto. Segregazione cellulare, la chiamano. Anticamera della pazzia. Il tempo è la tortura decisa per te. Sarà talmente uguale da stravolgere le per- cezioni e i pensieri? Saprà piegare la tua mente, come accaduto a Passannante? È il tuo primo giorno da numero. Ti chiamano 515. Fino a poco fa eri Gaetano Bresci. Adesso sei sospeso sul baratro della solitudine perpetua e sai che per sopravvivere dovrai uccidere un altro nemico. Dopo il principio, dovrai ammazzare il tempo. Poi, non sai quando, ti ritrovi ad abbassare il letto e ti addor- menti.

…ti trovi su una spiaggia lunga e sabbiosa affacciata su un mare che potrebbe essere l’oceano o il Tirreno. Con te ci sono Sophie e la piccola Madeline, e anche gli accenti si confondono, qualcuno parla inglese, altri il tuo dialetto toscano… Il sole è abbagliante e sei steso accanto a Sophie, mentre la bimba sta giocando a riva con il vento che le scuote i capelli. È bellissima, molto cresciuta dall’ultima volta che l’hai vista, potrebbe avere cinque anni, e adesso accanto a lei sta seduta un’altra bambina, più piccola, che ti dà le spalle. Ne intravedi solo i boccoli, ti chie- di chi sia, ma poi ti perdi in un abbraccio con Sophie e te ne stai sdraiato al sole, in maniche di camicia, la tua elegante camicia bianca, e il sole ti scalda l’anima, è questo il tuo diritto di esistere che non chiede altro per essere goduto, neppure una macchina fotografica… Il tempo è sospeso, la sabbia che ti accoglie è una clessidra in libertà. Poi riapri gli occhi, e tutto intorno a te è cambiato. Ci sono centinaia di persone, bagnanti accaldati e accalcati che

147 precludono la vista del mare, e ti riesce difficile perfino guardare a riva, così ti alzi con un presagio di angoscia, hai perso di vista Madeline e la sua piccola amica. Chiedi a Sophie, lei non ne sa nulla, ti alzi, ti fai largo tra la folla, il cuore martella, la tua voce chiama sempre più forte, disperata… «Madeline!». Il sole adesso è un getto di luce insolente che ti gela il sangue, è una ferita agli occhi che vorrebbero piangere se le lacrime non evaporassero via… «Smettila di urlare, bastardo! Cominciamo male, ancora non hai capito che devi stare zitto?». La guardia ti punta agli occhi quella luce sempre insolente, accecante, quel sole fasullo e rimpicciolito che irrompe nel cuore della notte preannunciando l’alba di una nuova ispezione. «Dormi e non fare chiasso. Altrimenti ti incateniamo al muro». Cerchi di riprendere sonno sul tuo letto scomodo e pungente. Le lacrime adesso arrivano, ma non ti fai vedere.

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L’inizio del 1901 è segnato da un nuovo lutto nazionale. Il 27 gennaio, a Milano, muore a 87 anni Giuseppe Verdi. Per sé aveva chiesto funerali sobri, raccolti, senza fanfare né lustrini, ma i milanesi riempiono le strade per rendere omaggio alla me- moria del musicista e alla sua lunga vita artistica. Ai funerali partecipano circa centomila persone, e la città delle cannonate di Bava Beccaris assiste a un’altra, più dignitosa celebrazione della morte. Anche il governo cerca di ritrovare se stesso. I fatti di Genova hanno lasciato il segno. A oltre un mese dallo sciopero generale, il presidente del consiglio Saracco sta pagando le conseguenze politiche della sua decisione di revocare il decreto di scioglimen- to della Camera del Lavoro. Da destra lo criticano per non aver imposto la repressione, mentre l’ala più liberale gli rimprovera all’opposto un comportamento ondivago. Il 4 febbraio, durante il dibattito alla Camera, interviene Giovanni Giolitti. Le sue pa- role restano scritte negli atti parlamentari: «Pur troppo persiste ancora nel Governo, ed in molti suoi rappresentanti, la tendenza

149 a considerare come pericolose tutte le Associazioni di lavoratori. Questa tendenza è effetto di poca conoscenza delle nuove cor- renti economiche e politiche che da tempo si sono determinate nel nostro come in tutti i paesi civili, e rivela che non si è ancora compreso che la organizzazione degli operai cammina di pari passo col progresso della civiltà. La tendenza, della quale ora ho parlato, produce il deplorevole effetto di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, le quali si vedono guardate costante- mente con occhio diffidente anziché con occhio benevolo dal Governo, il quale pure dovrebbe essere il tutore imparziale di tutte le classi di cittadini…». Considerazioni difficilmente immaginabili solo un paio d’an- ni prima. Un importante esponente liberale che ha rischiato di essere affossato dallo scandalo della Banca Romana sta per aprire una nuova stagione politica all’insegna del suo nome. L’interven- to alla Camera è il preludio dell’epoca giolittiana e ne declina gli intenti: neutralità dello Stato nei conflitti di lavoro, apertura alle istanze sociali dei cattolici e dei socialisti riformisti, un percor- so di graduale cambiamento che porti a realizzare il modello di pace sociale. Nell’interesse di tutte le classi, insiste Giolitti, che un intellettuale acuto come Gaetano Salvemini ribattezzerà «il ministro della malavita» per la poco trasparente pratica del voto clientelare nelle regioni del Sud. Qualcosa comunque sta accadendo. In poco più di un de- cennio arriveranno le riforme, il suffragio universale maschile, il patto Gentiloni per la partecipazione dei cattolici alla vita poli- tica, ma il vestito liberale confezionato per l’Italia non impedirà una nuova guerra coloniale in Libia nel 1911, e poi altre guerre, e una lunga dittatura… Tutto questo Bresci non può saperlo. È sempre confinato nel buio illuminato dalla sorveglianza, sempre in attesa che altro ac- cada. Gli anarchici di Paterson non si sono arresi. Continuano a reclamare verità sulla sorte oscura del loro compagno. Denun- ciano torture fisiche e mentali.L’Au r o r a , La Questione Sociale, Il

150 Risveglio, L’Alba sociale… I giornali libertari di tutto il mondo recano nei loro nomi il segno della speranza e diffondono il no- me di Bresci. Ma sono voci che filtrano appena nella generale disattenzione della stampa italiana. Adesso i titoli sono altri, dedicati a novità politiche più im- portanti. Come la crisi del governo Saracco che si consuma in pochi giorni. Il 15 febbraio 1901 viene nominato presidente del consiglio il liberale Giuseppe Zanardelli, estensore del codice penale che nel 1889 ha abrogato la pena di morte. Come mini- stro degli Interni chiama Giovanni Giolitti. È il primo gradino dell’ascesa.

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C’è sempre l’odore della divisa, lo stesso numero. 515. Vietato parlare. Vietato scrivere. Vietato riposare. Un cumulo di divieti blocca le tue giornate sugli stessi movimenti circoscritti. Non sai più che ora è, se non quando ti tocca mangiare, e ti riesce impos- sibile guardare avanti. Il futuro ce l’hai sotto gli occhi. Piccolo, claustrofobico. È un eterno presente fatto di nulla, un’attesa ri- petuta all’infinito. Un istante dopo l’altro si consuma la tortura del tempo che fa cadere le sue gocce con metodo, mentre gli spioncini si aprono e si chiudono. Devi resistere per non farti divorare i pensieri, talvolta te li senti a pezzi, ridotti a brandelli, e la sofferenza, goccia dopo goccia, scava nel cervello lampi di an- goscia. Allora il pensiero rischia di diventare pazzia, e il ricordo l’unica possibilità di opporsi. Amérique. Allons enfants. Hai rifiutato la Bibbia, e il direttore ti ha fatto arrivare un libro sulle vite dei santi. Ci hai letto una forma di accanimento nei tuoi confronti, ma non ti sei dato per vinto. Hai chiesto altro, e loro, quasi per scherno, ti hanno consegnato l’ultima opzione.

152 Prendere o lasciare. Un dizionario di lingua francese. Volevano elargirti una mancia umiliante, e non sanno che ti hanno appena fatto un regalo. Bastano poche parole di quella lingua per accen- dere i ricordi. I compagni francesi conosciuti a Paterson, i giorni trascorsi a Parigi, l’Esposizione universale, Emma Quazza e la Torre Eiffel, i vostri giri alla scoperta delle novità d’inizio secolo, come quell’avveniristico treno sottoterra che stavano preparando per l’inaugurazione e che adesso sarà già in funzione… Metropolitain. Il francese. Quella lingua dall’accento morbido, elegante co- me te, sembra esprimere il meglio del tuo lungo viaggio. Sfogli il libro e ti affidi al caso… Train. Travail. Adesso il silenzio è meno opprimente, i battiti del cuore sono come un treno che ti riporta in vita, il tuo respiro affannato di- venta un alito di musica… Grève. Chômage. Liberté. Mademoiselle. Sussurri le parole cavate fuori dal dizionario che adesso tieni aperto sulle gambe. A nous la liberté. Parigi è stata la libertà, con Nicola e Antonio e la tua Emma, quella giovane che hai deciso di rispettare, che hai amato solo con lo sguardo e le parole, e che ti ha ricambiato con l’amicizia. Hai ricevuto una sua lettera due settimane prima di partire per Mon- za, e le hai risposto dandole ancora del lei, scrivendole che saresti rimasto volentieri in Italia se non fosse stato per la miseria intorno a te, ma che non avevi ancora stabilito la data del tuo ritorno in America. Era il 12 luglio, e tutto doveva ancora accadere… Amour. Anarchiste. A Parigi hai goduto del tempo leggero di una città al centro del mondo. Hai conosciuto anarchici di cui avevi sentito parlare, come qual tale, Isidoro Besso, falsificatore di documenti e pro- cacciatore di passaporti, che magari avrà aiutato il Biondino a far perdere le tracce…

153 Femme. Fille. Di quei giorni, più di tutto, resta il volto di Emma. Una don- na di raggiante bellezza. Entusiasta, generosa. Tutte le brutture e le sofferenze inutili sembrano retrocedere nel ricordo istantaneo di quella ragazza e delle ore passate insieme a lei… «Emma…». «Silenzio!». Lo scatto dello spioncino cerca di riportarti a fondo, ma tu re- sisti. Le tue labbra impastate si aprono nel silenzio della prigionia e ricominciano a sussurrare. Voulez-vous parler avec moi? Scrivi mentalmente i tuoi appunti parigini sul taccuino della memoria, un foglio che impallidisce ogni giorno, ma il diziona- rio è una calamita che richiama in vita le parole smarrite. Sono ancora tante. Quasi infinite.

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Ti senti all’estremo confine dell’esistenza, in un punto terminale che offusca il passato come se nulla fosse accaduto, nemmeno le scelte che ti hanno portato fino a qui. Se cerchi d’immaginare Sophie e Madeline, ti arrivano lontane come appartenessero a una stanza della memoria ovattata e anestetizzata. Ciò che pote- va essere con loro, non è stato. Adesso che la tua esistenza è tutta qui, il pensiero è attraversato dalla sfiducia. E se non arrivasse più nessuno? Se non ci fosse alcuna rivoluzione? Poi ascolti i passi in avvicinamento delle guardie, e ti ritrai d’i- stinto, impaurito. La porta della cella si apre e due occhi sorve- glianti ti fissano sospettosi, come se potessi fuggire chissà dove. «Alzati, andiamo a fare un giro». Te lo dice con tono volutamente ambiguo, per farti paura, anche se sai che ti attende solo un’appendice di reclusione. La tua ora d’aria. Così esci e ti fai accompagnare nello spazio aperto che hanno studiato apposta per te: un balconcino che dà sull’in- terno dell’ergastolo ma la cui vista è impedita da lunghi teli stesi come panni. Tra te e gli altri detenuti non devono correre

155 sguardi, nessuno deve vedere il regicida e farne un esempio da tramandare, sei un isolato speciale perfino tra gli ultimi, e dalla tua prospettiva puoi solo alzare gli occhi e scorgere una porzio- ne di cielo. Nient’altro. Né il paesaggio roccioso dell’isola, né le sue ginestre, e neppure un tratto di mare che ti accompagni all’orizzonte. I ferri stringono i polsi, e anche gli occhi sono doloranti per l’esposizione alla luce. Poi qualcosa accade. Il carcere sa che cosa significa quella messinscena, non c’è gabbia che possa rinchiude- re la verità, basta che il barbiere racconti a un detenuto e l’altro passi la voce, e intanto le voci corrono nell’aria, fino a quando qualcuna sfida i regolamenti applicati a suon di botte… «Bresci! Bresci!». Al di là dei teli un uomo grida, e ti sembra che un altro escla- mi «viva», ma è tutto così precipitoso, confuso, ti stanno già por- tando via, e l’ultima cosa che puoi fare è soffermarti su quella porzione di cielo così azzurra da portare l’annuncio di una nuova stagione. Ti accorgi che è arrivata la primavera.

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Che ne è di Gaetano Bresci? A mesi dal regicidio nulla di preci- so è dato sapere. I giornali ricamano ogni tanto qualche ipotesi e la accreditano come notizia. C’è chi dice che l’anarchico sia stato tradotto nel carcere di Portolongone, sull’isola d’Elba, e i paralleli con Passannante fioccano. Non è già impazzito, ma impazzirà, ormai in preda a crisi e sfoghi acuti… Al contrario c’è chi parla di un uomo ancora in attesa di destinazione, per- fettamente in sé, distaccato, ottusamente attaccato alla sua fede nella rivoluzione. Un doppio abito a mezzo stampa comincia ad attaccarsi sulla pelle del regicida, lo stesso che era stato confezio- nato per lui al processo. O quello di un uomo ossessionato dalla celebrità del proprio gesto, oppure quello di un mediocre che è riuscito nell’intento di uccidere Umberto i ma che è destinato a non resistere. A fine aprile del 1901 un giornale di Napoli,Il Pungolo Par- lamentare, spezza finalmente le congetture sottovoce per rivelare il luogo dove è detenuto Bresci. Dall’isola di Santo Stefano fil- trano i primi dettagli sul regime carcerario. La sua cella speciale.

157 Il controllo frequente e alternato. Spioncini che si aprono e si richiudono. Il silenzio si consuma in una luce fioca senza tempo che rende le giornate ossessivamente uguali: la sveglia alle sei del mattino, il pranzo alle undici, e poi la lunga attesa fino alle sei di sera, quando il detenuto numero 515 può tornare ad abbassare il letto e stendersi, anche se addormentarsi è molto faticoso se una catena imbriglia il sonno e la giornata apatica si chiude sul consueto corollario d’ispezioni. Bresci cerca sempre di affidarsi ai ritmi del corpo per non per- dere le coordinate del giorno e della notte. Al mattino si esercita in una forma di rudimentale ginnastica, almeno quella consen- tita negli angusti spazi che gli sono concessi. Dopo pranzo con- tinua a studiare la lingua francese attraverso il dizionario che reca traccia di qualche appunto. Un alleggerimento delle rigide consegne imposte al prigioniero, scrivono o lamentano i giornali moderati, anche se dal carcere arrivano resoconti discordanti. Chi parla di un detenuto calmo, metodico, chi di un uomo esa- sperato dalla tortura. Voci che s’inseguono e si propagano all’esterno. I giornali anarchici insistono sull’accanimento nei confronti di Bresci: l’as- soluta impossibilità di comunicare con i propri cari, i pestaggi, i ferri, la camicia di forza, le torture psicologiche e fisiche, il sonno spezzato dai getti di luce delle ispezioni notturne… Tutto sot- tolinea le condizioni disumane in un carcere ribattezzato, non a caso, la tomba dei vivi. Qualunque sia la prospettiva, rivoluzionaria o borghese, è certo comunque che Bresci sta resistendo. Non è ancora impazzito, sor- retto probabilmente dalla fiducia che qualcosa accadrà. Nella sua segregazione ogni minimo rumore è una nota che spezza l’assedio del silenzio, è una distrazione, una piccola speranza che si accende. Lo sanno bene, e lo temono, anche nei palazzi del potere. Giovanni Giolitti, neo ministro degli Interni, è quasi ossessio- nato dall’idea che esista un piano per far evadere il regicida, un progetto che camminerebbe sulle gambe di una bizzarra e

158 insolita alleanza tra Errico Malatesta e una regina spodestata, Maria Sofia di Borbone, nota anche come «la Signora», che vive in esilio in Francia. Il suo odio per i Savoia è accertato, né sono un mistero le sue frequentazioni e la sua simpatia per il movi- mento anarchico, come se il desiderio di rivincita dell’ex regina delle Due Sicilie fosse così acuto da giustificare una strategia di spregiudicata intesa con chi, per definizione, vuole abbattere qualunque potere. Giolitti è talmente allarmato da affidarsi ai rapporti di agenti segreti infiltrati in Francia, informatori di dubbia credibilità, in- teressati a legittimare il proprio ruolo ben retribuito. Parlano di un incontro tra Malatesta e la regina esiliata, di trattative serrate che potrebbero preludere a un colpo grosso, forse l’evasione di Bresci dall’isola di Santo Stefano. A ben vedere, l’enfasi sulla pre- sunta alleanza borbonico-anarchica non è altro che una variante della tesi del complotto smentita da Bresci in tanti interrogatori e dalle inchieste condotte all’indomani del regicidio. Negli an- ni successivi ne parleranno anche intellettuali come Benedetto Croce, più animati dal desiderio di screditare gli anarchici che da reali prove. A quanti intravedono nel rapporto con Maria So- fia un rischio di grave compromissione per l’ideale anarchico, Malatesta risponde indirettamente in una lettera inviata a un compagno: «Quando avverrà la rivoluzione in Italia, vi saranno certamente, specie nel Mezzogiorno, dei tentativi reazionari; ma essi non saranno più importanti e non avranno maggiore possi- bilità di riuscita per il fatto che quella Signora è stata in relazione con noi e ci ha fornito dei mezzi…». Giolitti, però, continua ad avere paura. Teme che si stia pre- parando il peggio per lui e l’Italia che vorrebbe modellare, e dispone le contromisure, prima tra tutte il rafforzamento della sorveglianza dentro e fuori dal carcere di Santo Stefano. Invia un contingente militare. Poi chiama in causa il commissario Ales- sandro Doria, capo di gabinetto della direzione delle carceri. L’uomo giusto, date le circostanze.

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Sei sdraiato sul letto. Il pensiero immobile è come un ronzio in sottofondo. Poi la penombra si accende di una luce trasversale e offensiva, e la guardia di turno ti vomita addosso le sue consegne. «Infame, preparati. Se vuoi dire qualcosa dilla ora…». La realtà ti implode dentro e i rumori si confondono nel passo in avvicinamento dello sbirro che esige risposte, e non ce n’è una che gli basti. «Ero da solo. Ho agito da solo» ripeti. Non sai più distinguere le percosse dalle tue parole, dai tuoi stessi pensieri che il dolore sta risvegliando dal letargo. Sono si- mili a un urlo represso, a un respiro che si attorciglia su se stes- so fino a chiudere la gola. È vuoto dilagante. Il principio della pazzia. Ti chiedi se tutto questo stia accadendo o sia solo un’al- lucinazione, poi ti chini esausto sui tuoi resti, di nuovo solo, a un passo dal buio che sarà penombra per tutti i giorni a venire. Vorresti invocare la notte se non fosse già notte. Ti siedi sul letto e aspetti. Adesso i pensieri sono indolenziti, restituiti all’elastico del tempo. Minuti pesanti come ore, ore che volano via come

160 minuti. La follia sembra svanire, o perlomeno retrocedere. Oltre la porta, d’un tratto, percepisci una sorveglianza più speciale del solito, il trambusto delle guardie, passi pesanti e frettolosi, di quelli che preannunciano una visita importante… In un attimo ti si riaccende la speranza. Forse stanno venendo a liberarti, e questo spiega la pressante aggressività dei carcerieri. Mai come ora ti senti in bilico tra libertà e morte. Quando la porta della cella si apre, vorresti credere ancora a un’allucinazio- ne perché temi che siano lì per ammazzarti. Vedi un drappello di persone che resta sull’uscio: le guardie, il direttore, e dietro di loro una sagoma ombrosa, defilata, impaurita nonostante tutti la circondino con protettiva deferenza. Riesci a mettere a fuoco i suoi occhi. Ti sono estranei, sebbene evochino un’autorità al massimo grado, come fossero quelli di un re. Forse il principio che hai voluto uccidere ti si sta ripresentando nello sguardo e nelle parole di quell’uomo di bassa statura che adesso si fa avanti e chiede: «Perché avete assassinato un uomo che nulla vi aveva fatto di male, il vostro re?». Ti scopri rapido nella risposta: «Non era il mio re. Aveva vo- lontariamente oppresso, affamato, torturato, assassinato il suo popolo…». «Non è vero. Il re era buono, e non poteva cambiare le cose che erano cattive». «Il re è un tiranno, e i tiranni, giacché non se ne vanno con le buone, bisogna sopprimerli…». Ti alzi dal letto. Le guardie fanno per venirti incontro, ma l’uomo dice loro di fermarsi e continua a parlarti: «Cacciati i re verranno altri capi, e sarà la stessa cosa». «No, noi non vogliamo né presidenti, né dittatori, né governi, come non vogliamo re. Vogliamo la libertà di uno e di tutti. Per questo siamo anarchici». «Siete malfattori e assassini». «Voi siete gli assassini a sangue freddo di popoli interi, voi siete gli strozzatori della libertà…».

161 «Dunque non sei pentito del delitto che hai commesso?». «No». «Assassino. E non sai che potrei rendere ancora più crudele il tuo destino, fino alla morte?». «Uccidetemi pure, il popolo mi vendicherà…». Sei pronto a scagliarti contro quell’uomo, lo stesso principio avvelenato che si è dato solo un altro nome, ma la catena ti bloc- ca le gambe, ti strattona con un dolore acuto e ti riporta al punto di partenza, prima che siano loro a scagliarsi su di te. «Fai silenzio, bastardo!». Adesso sei sul letto, impedito nei movimenti, braccia e corpo fasciati dalla camicia di forza, dolorante ed esausto per un incon- tro forse solo immaginato o avvenuto settimane fa. Pensi alla tua bella camicia bianca che portavi con stile e orgoglio nei giorni in cui ti chiamavano il «paino». E mentre sul carcere torna a calare il sinistro accompagnamento di lucchetti e cancelli, ti fai cullare dai ricordi. Aggrappato alla memoria per salvarti dal baratro che ti stanno scavando intorno…

Luce spenta. Sei nel buio dei sogni, e allora cerchi di segui- re le traiettorie dell’immaginazione. Ti ritrovi a Paterson, tra le vie color mattone definite dai muri delle fabbriche. Strade tutte dritte, noiose e uguali, ma che di sera portano ai bar, alle fumose sale dell’Hotel Bartoldi, o nei locali dove un bicchiere di vino ri- sveglia i sensi e i sentimenti dal torpore di una giornata di lavoro. Ci sei ancora dentro. Le vedi una per una, le facce che ti hanno accompagnato lungo il cammino dell’esilio fatto di giornate ri- petitive e accese speranze. Ricordi le riunioni del mercoledì sera e le chiassose partite a biliardo, le gite a West Hoboken, le recite teatrali, la musica, i balli. I recinti delle patrie si dissolvevano nel sogno della rivoluzione, e una specie di lingua comune attraver- sava gli spazi dei capannoni industriali echeggiando come un tamburo… Bum bum.

162 Il tuo cuore batte più forte dei loro colpi di avvertimento sul- le sbarre. Non sei solo. Il re e i suoi servitori possono accanirsi, imbrattare la tua vita di calunnie e il tuo corpo di lividi, ma non riusciranno a spezzare il legame con gli anarchici di Paterson. Sai che i compagni non ti hanno dimenticato. Adesso da loro è ancora sera. Staranno parlando di te negli stessi bar, nelle stesse sale fumose, ed è questa sensazione a impedirti di sprofondare nell’isolamento. Questa notte il passato ti restituisce uno sguardo vivido sul futuro. Si stanno organizzando per venirti incontro, e forse un giorno sarai con loro a festeggiare la tua fuga. O forse no. «Quando la vita è impropria, meglio la morte» hai detto in passato. Nulla è cambiato. Le ragioni per cui vale la pena vivere sono le stesse per cui hai scelto di essere prigioniero. Hai 31 an- ni. Aspetti solo che la porta della cella si apra un’altra volta per annunciare la rivoluzione o decretare la fine del sogno. Poi ti addormenti.

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Il 18 maggio 1901 è una data piena di omissis. Sull’isola di San- to Stefano arriva Alessandro Doria, commissario della direzione generale delle carceri. Ufficialmente la sua presenza non deve ri- sultare, come non risulterà. I registri ne annoteranno l’arrivo solo qualche giorno più tardi, il 22 maggio, in seguito alla dichiara- zione ufficiale di morte di Gaetano Bresci. Una discordanza non da poco. Doria è un personaggio dal passato torbido, uno che gioca sporco e punta alle alte sfere. Il suo nome è pericolosamente in- trecciato al caso di Pietro Acciarito, il giovane anarchico che nel 1897 aveva tentato di uccidere Umberto i ed era stato rinchiuso proprio a Santo Stefano. Doria ha cercato di manipolarlo facen- dogli credere di avere un figlio per estorcergli nomi di complici inesistenti. Ha falsificato lettere, inventato circostanze, usato un bambino pur di arrivare all’arresto di altri anarchici. Un processo ha svelato la montatura e il suo ruolo vergognoso, eppure l’am- ministrazione giolittiana fatica a prenderne atto, premiandolo al contrario con un incarico di fiducia strettamente riservato.

164 Doria conosce già Bresci per averlo incontrato nel carcere di Milano e successivamente accompagnato nel trasferimento all’ergastolo di Santo Stefano. Le sue consegne sono semplici. Al direttore impone un inasprimento del regime carcerario ap- plicato al detenuto 515, attraverso la moltiplicazione dei divieti. Niente più sgabello nella cella, né saponette o maglie di cotone. Quelle minuscole concessioni all’ergastolano vanno revocate, e più di tutto va rafforzato il suo isolamento, come Doria chiede nella nota al direttore del carcere: «… di non consentirgli ulte- riormente di scrivere e di ricevere lettere dalla donna colla quale il condannato 515 viveva, prima dell’arresto, in concubinato». A parte le considerazioni moralistiche, quanto reclama Doria è la sottolineatura bugiarda di ciò che è già nei fatti: nulla fa pen- sare che a Bresci sia mai stato permesso di ricevere lettere dalla sua compagna. Per lui Sophie è fin dall’inizio una voce sepolta per decisione di coloro che lo hanno sepolto nella tomba dei vivi. L’unica forma di contatto con la donna sono i pochi dollari che arrivano ogni tanto dall’America. Perché tanto accanimento? Perché, un’altra volta, il ricorso al- la falsità? Che cosa sta cercando di ottenere il commissario Ales- sandro Doria? Una nuova promozione? L’avallo delle circolari ministeriali a un compito sporco? Forse l’autorità sta comincian- do a preparare il terreno affinché nessuno parli di negligenze, omissioni, leggerezze. Tutto deve avvenire in ottemperanza al regolamento. Un detenuto che impazzisce è un caso chiuso. Ma il detenuto 515 si ostina a farsi chiamare Gaetano Bresci. Quello che accade tra il 18 e il 22 maggio è l’omissis più pesante della sua storia.

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Legato alla catena, ti senti accerchiato, privo di forze. Clic, clac. La solita cantilena arrugginita spezza il silenzio solo per farti salire a un grado più alto d’isolamento. Uno spioncino che si apre di qui. Un altro di là. Clic, clac. «E basta…» gridi. «Silenzio!». «Tu che cazzo guardi? Ma non ti vergogni? Non ti senti umi- liato nel servire così i tuoi padroni?». «Taci o te ne pentirai». «vaffanculo!». Clic, clac. Gocce su gocce su gocce… L’ergastolo del tempo… Che tem- po farà? Le nubi gonfie di pioggia si apriranno al sole di prima- vera? Che vento tirerà? Stai impazzendo. Devi muoverti. Ecco, prendi il tovagliolo e lo appallottoli. Poi inizi il gioco. Un rimbalzo contro il muro,

166 e riprendi la palla. Un altro tiro, e un altro rimbalzo. Se chiudi gli occhi, riesci a seguire la tua fantasia di bambino come una guida sicura. Con una palla potevi giocare per ore. Bastavano uno straccio e un muro. Coiano è ancora il luogo dove vivi con i tuoi genitori, e tra i fratelli sei il più coccolato. Quel gioco non è durato molto, ma non importa. Adesso hai tutto il tempo che vuoi. Continui a far rimbalzare la palla mentre canti una fila- strocca d’infanzia. È solo questione di resistenza. Presto qualcuno arriverà.

167 Epilogo

Gaetano Bresci fu dichiarato morto il 22 maggio 1901, ufficial- mente per suicidio nella sua cella speciale dell’ergastolo di Santo Stefano. Dissero che si era impiccato alle quattordici e quaranta- cinque. Ma con sé aveva solo un tovagliolo, dato che di giorno non gli era permesso tenere il lenzuolo né l’asciugamano. Difficile appendersi alle sbarre con un tovagliolo. Non è l’unica zona d’om- bra. Come spiegare, ad esempio, che tutto sia avvenuto all’insa- puta delle guardie, chiamate a controlli alternati e frequenti? A Santo Stefano darsi la morte non è semplice. La dotazione degli ergastolani è minima, il suicidio per asfissia un’operazione com- plessa, atroce, difficile, come un ex ergastolano confiderà anni dopo a Giuseppe Mariani, l’anarchico condannato per il san- guinoso attentato al teatro Diana di Milano nel 1921: «… come avesse potuto impiccarsi con le catene ai piedi e una sorveglianza continua (molto peggiore di quella che avevamo noi) e senza far rumore (…) è quello che nessuno di noi ha mai capito». Altre anomalie. I medici, ad esempio, constatarono l’incon- gruità tra l’ora ufficiale del decesso di Bresci e lo stato di de-

168 composizione avanzata del corpo. Risulta poi che lo stesso aveva conservato una parte del pranzo per la cena, e che aveva attinto dal suo piccolo fondo personale per pagarsi gli extra: minestra, un pezzo di formaggio e un bicchiere di vino rosso. Non sembra il piano d’azione di un uomo che ha deciso di farla finita, ma per il detenuto numero 515 ci si è accontentati, anche in questo caso, di una spiegazione di massima. Una ricostruzione lacunosa e improbabile ha finito per essere la versione «ufficiale» sulla morte di Bresci, con tanto di virgolet- te. Nessuno ci crede, ma resta il timbro dell’autorità. Gli omissis però sono troppi, e nel frattempo una parte delle carte ufficiali è stata messa sotto chiave. Sparita dal registro del carcere la pagina riguardante il detenuto 515. Scomparso pure l’incartamento su Bresci nell’archivio generale dello Stato. Scomparse infine anche le carte riservate nel dossier di Giovanni Giolitti, tra le quali una relazione del direttore di polizia Doria sull’ergastolo di Santo Stefano e la detenzione del regicida Bresci Gaetano. Documento datato 18 maggio 1901, come lo storico Giuseppe Galzerano ha evinto dall’intestazione di una cartelletta senza più fogli. Ufficialmente si disse invece che il ministro degli Interni ave- va inviato Doria sull’isola quattro giorni dopo, il 22 maggio, subito dopo la morte di Bresci, per appurare quanto accaduto. Suona beffardo che a lui, l’uomo degli omissis per eccellenza, sia stata affidata l’inchiesta sullo strano suicidio del detenuto 515: come chiedere allo Stato di processare se stesso. Non sorprende, al contrario, l’impennata di carriera che il commissario avrà in cambio di un’indagine frettolosa e monca. Due mesi dopo sarà promosso direttore generale delle carceri, con stipendio raddop- piato. Anche le guardie addette alla sorveglianza usciranno in- denni dall’inchiesta e saranno premiate con il trasferimento in luoghi meno opprimenti. Tutto questo ufficialmente. Ma ufficiale è spesso il timbro -bu rocratico sulla parola «bugia», e il tempo ha scalfito almeno in parte la vernice istituzionale che ha coperto la storia di Gaetano

169 Bresci. I primi a sollevare dubbi sulla sua morte furono gli anar- chici di Paterson, vicini alla memoria del loro compagno come lo erano stati durante la sua prigionia. Giuseppe Ciancabilla, su L’Aurora, paragonò il suo caso a quello di Romeo Frezzi, un anarchico morto quattro anni prima durante un interrogatorio e dichiarato suicida. Per Ciancabilla Bresci era stato «frezzato». Ci furono manifestazioni di protesta. Sophie disse di non credere al suicidio del suo compagno, e di lì a poco fece perdere le proprie tracce insieme alle figlie. Ai resoconti ufficiali vennero opposte nuove argomentazioni che negli anni alimentarono una controinchiesta sulla fine del tessitore anarchico. Testimoni che in quei giorni si trovavano nell’ergastolo di Santo Stefano raccontarono che Bresci era stato ucciso. Gli avevano avvolto la testa in una coperta e lo avevano bastonato, o forse lo avevano soffocato con una catena, oppure impiccato. Discordanze secondarie che convergevano sulla mor- te violenta dell’anarchico. Le voci dal carcere sono più forti di qualunque controllo e si trasmettono tra i detenuti di tante generazioni. Anni dopo, nell’ergastolo di Santo Stefano fu rinchiuso Sandro Pertini. Nel 1947 volle ricordare Gaetano Bresci di fronte all’Assemblea Co- stituente della neonata Repubblica italiana: «I miei compagni si ricorderanno come nell’ergastolo di Santo Stefano venivano picchiati dalle guardie, e legati al letto di forza. Al mattino un detenuto veniva trovato morto. Si chiamava il medico del carcere e questi diceva: sincope cardiaca. Tutti però sapevano che era morto perché massacrato di botte al carcere di Santo Stefano. Così per Gaetano Bresci, nel carcere furono interrogate tutte le guardie. Non è vero che si sia suicidato: prima l’hanno ammaz- zato di botte e poi hanno attaccato il cadavere all’inferriata ed hanno diffuso in tutta Italia la notizia di questo suicidio». Più di trent’anni dopo, da presidente della Repubblica, Pertini tornò sull’argomento. Disse che durante la sua detenzione a San- to Stefano aveva raccolto le confidenze di una vecchia guardia

170 del carcere che gli aveva raccontato di come la morte di Bresci fosse stata programmata per un ordine arrivato dall’alto. Sandro Pertini, socialista. Un uomo di memoria. Le voci cosiddette moderate dell’Italia del 1901 furono diverse, allineate alla ricostruzione di comodo, perfino più sprezzanti nei confronti di Bresci. Il Corriere della Sera tornò a descriverlo come un uomo «meschino d’intelligenza», altezzoso, vanitoso, insen- sibile agli affetti più profondi della sua compagna Sophie e della piccola Madeline, e perfino all’arresto di suo fratello Lorenzo. Un ritratto che collima con quello di Cesare Lombroso, che all’indomani della morte di Bresci lo definì «un criminaloide» d’intelligenza mediocre, segnato dalle origini povere, ambizioso oltre misura. Donnaiolo che era finito in una specie di matrimo- nio, poco legato alla compagna e alla figlia, fotografo dilettante, di scarso talento, uno talmente modesto da non meritare nep- pure complici: «Finalmente il Bresci è morto, e di queste pretese cospirazioni non una prova la più leggera si è potuta raccogliere». Le conclusioni di Lombroso assomigliano a una richiesta di chiusura delle indagini. Si volti pagina, e poco conta che si sputi sulla memoria e gli affetti di un uomo appena morto. Come a raccogliere l’invito, pochi giorni dopo il Corriere della Sera dedicò un titolo a cinque colonne alle «tribolazioni degli italiani nel Ca- nadà»: un lungo articolo sulle condizioni degli emigrati italiani, uscito il 26 maggio 1901. Una pretesa nuova pagina, appunto. Un cronista de Il Mattino, inviato sull’isola di Santo Stefano, riportò altre impressioni raccolte da chi aveva visto Bresci: «Non si erano visti giammai sguardi così acuti, così ansiosi, così arden- ti, così interrogatori. Pareva che egli perseguisse una visione che avanzava incontro a lui per soggiogarlo». Il potere si accanì contro chi aveva voluto uccidere il principio. Non restituì il corpo alla famiglia e lo seppellì in fretta in un posto imprecisato del piccolo cimitero del carcere, accanto ad altri erga- stolani senza nome che nessuno avrebbe più ricordato. Anni dopo Luigi Veronelli, anarchico e poeta del vino, individuò il luogo del-

171 la probabile sepoltura. Lì, ancora oggi, una croce di legno reca il nome di Gaetano Bresci. Quando è primavera, il giallo profumato delle ginestre e il vento che le accarezza evocano il più potente spirito di libertà che soffia anche sui resti dell’ergastolo chiuso nel 1965. È come un canto della natura che nasce dalla sofferenza degli ultimi, ne raccoglie le voci e restituisce le loro storie. Una storia parallela è quella di Luigi Granotti. Nel novembre del 1901 venne condannato in contumacia all’ergastolo per com- plicità nel regicidio. Nessuno riuscì mai a prenderlo. Quarantotto anni dopo, sul giornale anarchico L’Adunata dei Refrattari, pub- blicato a New York, uscì il seguente trafiletto: «Il 30 ottobre u.s. ha cessato di vivere il compagno luigi granotti – conosciuto da mezzo secolo sotto il nome ‘Il Biondino’ – all’età di 82 anni. Nel darne l’annuncio desideriamo esprimere la nostra gratitudi- ne ai compagni solerti e generosi che di lui ebbero cura fraterna durante gli ultimi anni della sua vita. Un gruppo di compagni».

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> Fabio Santin, autore delle illustrazioni, al tavolo da lavoro in compagnia di Errico Malatesta, che lo ha ispirato in quanto «persona informata sui fatti». Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare va innanzitutto allo storico Giuseppe Galzerano, autore ed editore di Gaetano Bresci. Vita, attentato, processo, carcere e morte dell’anarchico che «giustiziò» Umberto i, libro che racco- glie la documentazione più completa e accurata su Bresci. A lui, che ha riportato alla luce carte rimaste inedite per decenni, devo citazioni importanti di atti ufficiali, articoli e lettere. Ringrazio inoltre tutti coloro che, con le loro precedenti opere su Bresci, hanno fornito coordinate preziose anche sui punti più contro- versi e talvolta discordanti. Grazie soprattutto ad Armando Meoni, Arrigo Petacco e Massimo Ortalli. Ringrazio anche Daniela Degl’Innocenti e il Museo del tessuto di Prato per la consultazione dei registri della Kossler & Mayer; la bi- blioteca comunale di Prato, ricchissima di documentazione sulla storia locale nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento; Brando Balli del Lanificio Balli di Prato, per avermi guidato nella visita agli antichi capannoni industriali del Fabbricone; Assunta Borzacchiello e Nicolò Pergola del Museo criminologico di Roma; Giovanni Biancardi della libreria Il Muro di Tessa di Milano e la biblioteca comunale Sormani di Milano per il materiale storico sui moti del 1898 e i riferimenti ur- banistici sulla Milano d’inizio Novecento; Chiara Beria per avere letto le prime pagine e per i suoi preziosi consigli. Un ringraziamento di cuore va anche all’amico Fabio Masi, libraio ed editore, e a Salvatore Schiano Di Colella, che custodisce la memoria storica dell’ergastolo di Santo Stefano e che, per passione e competen- za, è stato una guida davvero speciale tra le celle del carcere. Grazie infine a chi mi ha dato il biglietto per questo viaggio, alla redazione tutta di elèuthera. Un ultimo, speciale ringraziamento va a Emanuela e Margherita: il perché loro lo sanno.

175 Finito di stampare nel mese di marzo 2014 presso Printì, Manocalzati (AV) per conto di elèuthera, via Rovetta 27, Milano