Il dialetto tiggianese

Rocco Margiotta

Presentazione Il Capo S. Maria di Leuca, territorio delimitato dalla linea che congiunge ad est, e Gallipoli ad ovest è, dal punto di vista del dialetto, un‟isola linguistica con specificità proprie, molto differenti dalle altre isole linguistiche salentine. Il dialetto di questo territorio è stato definito “estremo”, come estremo è il dialetto della punta più meridionale della Calabria e della Sicilia. Estremo, in quanto sono state quasi impedite o quasi difese l‟integrità e la conservazione della specificità dialettale più ancestrale, dalla presenza, a nord di quella linea ideale, dell‟area grecanica, che si è comportata come una frontiera, impedendo la penetrazione di influssi e di forme dialettali e parole provenienti a nord di quella linea Otranto-Gallipoli. Possiamo genericamente affermare che la barriera grecanica ha consentito la conservazione di una forma di volgare, considerata diretta emanazione del volgare latino, anche se sono presenti molte sovrapposizioni di altre lingue, di origine barbarica, araba, spagnola, francese. Del dialetto si vanno pubblicando molti studi e ricerche, ed io non intendo rifare lo stesso percorso di tanti studiosi e ricercatori, molto più esperti di me in questo campo, ma voglio solamente ridurre la mia

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ricerca alla specificità linguistica della piccola Tiggiano, che nonostante la sua limitata estensione territoriale e la sua scarsissima popolazione, è, come tante altre nel Capo di Leuca, una piccola isola linguistica, a sè stante. La comunità di questo piccolissimo paese che si trova tra , e , si esprime con forme linguistiche proprie; a volte, sostanzialmente differenti, non solo riferite alla scrittura, ma anche alla fonetica; il timbro comunicativo è diverso, rispetto a quelli delle comunità dei paesi citati. Tantissimi studi ci hanno avvertito ormai che il vernacolo o dialetto non è che una seconda lingua, ed è la lingua madre, la lingua naturale che si impara in modo più veloce e senza alcuna fatica particolare. Per apprenderla infatti non è necessario studiarla, in quanto non ha regole codificate, come la lingua italiana, non ha costrutti standardizzati; si impara direttamente dalla viva voce dei parlanti, prima di tutti dalla madre. Gli studiosi si chiedono come mai nei territori periferici d‟Italia, ma non solo, perdura la necessità di utilizzare due lingue, quella ufficiale, l‟italiano e quella locale, il dialetto. Le risposte che hanno dato non sono univoche, anche perché il mantenimento dei due strumenti linguistici non si limita alle classi più

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popolari, ma coinvolge anche le classi più acculturate e più abbienti. Per cercare di spiegare il fenomeno si ricorre alla psicologia e si afferma che i parlanti che usano le due lingue è come se volessero, quando gliene si presenta l‟opportunità, far ritorno alla lingua materna, quella naturale, considerata, in via ideale, più libera, più sincera, più immediata; è come mettersi in maniche di camicia e pantofole, tornando a casa, dopo una giornata di lavoro. E‟ come se si volesse riacquistare, nel proprio ambiente familiare o sociale, anche la libertà linguistica, dopo essere stati “costretti” ad indossare, linguisticamente scrivendo, giacca e cravatta, e quindi obbligati a comportarsi impeccabilmente, seguendo regole e condizionamenti. Il gusto, la consapevolezza della propria capacità comunicativa, la possibilità di esprimere tutte le sfumature più immanenti, relative alla vita quotidiana, ci inducono a preferire la nostra seconda lingua, anche se dovremmo parlare di prima lingua. La lingua ufficiale sembra ingabbiarci, in quanto è doveroso seguire le regole e le strutture sintattiche, imparate a scuola, per poter comunicare in modo ufficialmente accettabile. Quando si può usare il dialetto ci si libera dalla gabbia e si può dare libero sfogo alla comunicazione,

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la quale non ci obbliga a rispettare regole o strutture sintattiche precise. Alcuni studiosi e ricercatori hanno tentato, a più riprese, di codificare le regole fonetiche, grammaticali e sintattiche del volgare, ma tutte le fatiche si sono rivelate inutili, in quanto ogni piccola o grande comunità, possiede il “suo” dialetto che, differisce rispetto a quello del paese o della città vicina; a volte, anche nella stessa città si verificano differenti comunicazioni, se i parlanti appartengono a quartieri diversi e a categorie sociali diverse. Sappiamo ormai che il dialetto è figlio naturale della lingua latina, come lo è il volgare. Ma se il volgare, dopo la crisi e la scomparsa dell‟impero romano e quindi del latino, lentamente, dopo vari secoli e per merito dei padri della lingua italiana: Dante, Petrarca, Boccaccio è diventata la lingua ufficiale della nazione Italia, i dialetti invece, hanno seguito un altro itinerario, anzi hanno continuato a solidificarsi, a permanere, quasi incolumi, nei riguardi dell‟evoluzione, che ha invece subito il volgare, per il fatto che quella era una lingua solo parlata. Sappiamo dal “De Vulgari Eloquentia” di Dante; l‟opera con la quale il sommo poeta cercò di dimostrare che tutti i volgari del suo tempo, sarebbero stati degni e potenzialmente adeguati ad esprimere la

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comunicazione relativa alla sua epoca. Poi prevalse il toscano e il fiorentino in particolare, e sappiamo perché, in quanto quel territorio e quella città hanno espresso gli artisti più dotati, gli intellettuali più “in”, già a partire dal XIII secolo, mentre i territori più marginali continuarono a permanere nel primitivo volgare e a subire, nel corso dei secoli, gli influssi comunicativi di sempre nuovi conquistatori. La mia ricerca, perciò, si limiterà ad inquadrare le caratteristiche generali del dialetto del Capo di Leuca per poi cercare di definire, se ci riuscirò, le peculiarità del parlare dialettale dei tiggianesi, che come ho più volte detto, sembrerà strano al lettore, è una piccolissima isola linguistica. Non foss‟altro per quel benedetto rompicapo fonetico e di scrittura che è il “ddhr”, nelle parole come “caddhrina”(gallina), “cuddhrura”(collana di pasta dolce con al centro un uovo o due che si preparava per il venerdì santo e cotta al forno, veniva poi consumata quel giorno, dopo aver fatto il canonico digiuno) “paddhrotta” (zolla di terra), “ddhrai”(là, particella usata per i complementi di luogo, oppure per indicare un luogo più o meno lontano, di solito contrapposto a “ccquai”(qui), “marteddhru”(martello) e tantissime altre che, nel corso della presente ricerca, cercherò di porre all‟attenzione del lettore.

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E‟ un rompicapo fonetico e di scrittura in quanto moltissimi dialettologi, nel passato e nel presente, si sono cimentati a rendere graficamente quel suono, ma pare che la soluzione proposta non sia poi quella scientificamente, anzi foneticamente e graficamente, la più adeguata. Qualcuno avanza l‟ipotesi che sia una fonema di origini messapiche: Tricase, Alessano, non possiedono quel suono e quel segno, ma non ci sono supporti documentari a comprovare l‟ipotesi, anzi il nostro piccolo paese non conosce, non possiede documenti materiali per affermare che sia di origine messapica, come lo possono fare invece Patù con Vereto, , Vaste, adesso anche Montesardo; non conserva cioè le mura caratteristiche di quell‟antichissima civiltà, non possiede tombe peculiari messapiche con corredo funerario, non possiede alcunché per poter dire che quel fonema sia di origini messapiche. Simile grafema non si trova nella lingua greca, né in quella latina, né in nessun‟altra delle lingue che hanno lasciato qualche traccia nel nostro corredo linguistico. Rimarrà un enigma!? Che dire poi dell‟altro grafema e fonema che, allo stesso modo, non si riesce a rendere graficamente e la cui pronunzia deve essere fatta abbinando il

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suono gutturale del “ca co cu” col suono labiale scivolato, strascicato e sibilato dolce di “sci, sce”, ma senza le due vocali: “pescu” (roccia), si deve leggere “pesc(i)cu”, ma la “i” non si deve pronunziare, “scoma” (schiuma), si deve leggere “sc(i)oma”, ma la “i” non si deve pronunziare, “rasccheddhru” (rastrello), che difficile combinazione! Si deve leggere “rasc(i)ccheddhru”, ma la “i” non si deve sentire, e poi l‟indefinibile grafema e fonema “ddhru”!!! Si può già avvertire, da queste poche parole prese in considerazione, come, sia la loro resa grafica, che sonora, sono di complicatissima evidenza scientifica. E‟ stato da sempre difficilissimo per i glottologi rendere oggettivamente quanto fin qui portato all‟attenzione del lettore.

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La Carta dei Dialetti Italiani. I dialettologi, studiosi del dialetto, si incontrano spesso nei Convegni, appositamente organizzati, per fare il punto della situazione, per quanto si riferisce allo stato della ricerca, allo scambio di opinioni e di riflessioni sui diversi problemi scientifici che la stessa comporta. In occasione dei convegni di alcuni decenni orsono, emerse la figura dello studioso salentino professor Oronzo Parlangèli, nato a nel 1923, professore di glottologia all‟Universtà di Messina e poi di storia della lingua italiana all‟Università di Bari che, da tempo conduceva, individualmente, delle ricerche, per cercare di codificare il dialetto salentino. Lo studio e l‟impegno, la preparazione in questo campo, del professor Parlangèli, furono di fondamentale importanza durante il convegno tenutosi a Messina nel 1964. Nella città siciliana convennero studiosi di diverse discipline e di diversa tradizione linguistica e, il professore di Novoli, riuscì a convincere gli intervenuti che era ormai opportuno avviare una ricerca collettiva, condotta su diversi versanti e, quindi venne stabilito un piano di ricerca . Venne condiviso un Regolamento che doveva essere a fondamento della ricerca collettiva che era

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stata progettata, lasciando comunque ampio margine di manovra anche alle ricerche di tipo individuale che proprio da quella carta costitutiva poteva trarre nuovi impulsi di studio. La raccolta di materiale individuale sarebbe stata analizzata, secondo un comune canone comparatistico e sarebbe potuta diventare così fonte per successive analisi del difficile fenomeno linguistico dialettale. Il professor Parlangèli moriva però in un tragico incidente stradale, nei pressi di Roma, il 1° ottobre del 1969. Dopo quella tragica scomparsa, fu il C.N.R. ad appropriarsi della competenza della ricerca dialettologia e a nominare il Comitato Scientifico, diventato Gruppo di Ricerca per la Dialettologia Italiana, trasferendo la sua sede da Bari a Padova. Quel Consiglio Scientifico decise di pubblicare nel 1998 la prima monografia regionale dei dialetti, quella appunto del . Era un riconoscimento speciale che veniva fatto al Salento e ai suoi ricercatori che erano stati guidati proprio dal professore Oronzo Parlangèli. Tornando al Convegno di Messina del 1964, venne deciso di costituire, in ogni regione italiana, un comitato scientifico, affinché avviasse le ricerche dialettali e mantenesse i rapporti con il Comitato

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Centrale di Padova. Per il Salento vennero designati il professor Mario D‟Elia, docente di filologia romanza all‟Università di e, il più volte ricordato, professor Oronzo Parlangèli. Lo studioso di Novoli aveva anche costituito, a fianco del Comitato Regionale, l’Associazione linguistica Salentina, l’Associazione dei Comuni Messapici Peuceti e Dauni e la rivista di Studi Linguistici Salentini, tutte queste iniziative avevano lo scopo di far conoscere e di diffondere le problematiche linguistiche e storiche del Salento preromano e romano. L‟Associazione Linguistica Salentina venne fondata dal Parlangèli presso la Cattedra di Filologia Romanza di Lecce. “Dopo la morte di lui, (la ricerca) resta impelagata per gelosia e calcoli meschini in una stasi veramente deplorevole, specie se si consideri la mole e l‟importanza dei materiali già raccolti e attualmente sequestrati nell‟Università di Bari in uno stanzino inaccessibile agli studiosi”.1 Il professore Mario D‟Elia, dopo la morte di Parlangèli, insieme ad altri, decise di pubblicare Studi Linguistici Salentini, gli stessi si avvalsero del contributo della fonetica storica, dell‟epigrafia, dell‟onomastica antica e moderna, di autori e testi

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dialettali, dei testi medioevali, del lessico etimologico, degli elementi greci e riguardanti la Grecìa Salentina, elementi albanesi e contributi riguardanti l‟Albania Salentina, lingua e dialetto del Salento.

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Il Salento nella storia linguistica. Il vocalismo del dialetto leccese di Giuseppe Morosi del 1874 dava inizio cronologicamente alla ricerca e alla trattazione scientifica dei dialetti salentini. Quello studio stabiliva già le affinità e le diversità locali della provincia salentina, che, pur nella sua continuità territoriale, distingueva le parlate settentrionali (Taranto-Brindisi) e quelle più meridionali (Capo d Leuca), nei confronti della parlata del capoluogo della Terra d‟Otranto. Il ricercatore stabiliva dunque una triplice varietà salentina: a) la parlata propriamente leccese, b) un tipo fonetico latino-siciliano dei paesi del Capo di Leuca, c) un tipo apulo-barese. E‟ poi intervenuto il ricercatore tedesco Gerhard Rohls con la sua teoria della “romanizzazione” che stravolse la cronologia della classificazione dei sistemi vocalici dell‟area apulo- salentina, supponendo un‟ininterrotta continuità magno-greca, presente nei 9 comuni ellèfoni del Salento. Rolhls si spinse a classificare così i dialetti salentini: ”1) I Messapi del Salento, dominati dai Greci di Taranto, dopo un periodo di bilinguismo, avrebbero optato per la lingua greca;

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2) il Salento non fu mai completamente latinizzato, perché abitato sempre da parlanti di lingua greca; 3) il dialetto salentino, di conseguenza, è solo apparentemente arcaico”.2 Oronzo Parlangèli, invece, ha continuamente sostenuto che il Salento sia stato anticamente romanizzato, e che ancora oggi continua in un sistema linguistico arcaico, e che con l‟arrivo di alcune innovazioni medioevali, si è distinto nelle tre principali varietà dialettali: 1) quella di tipo settentrionale con metafonìa e dittongazione condizionata; 2) quella di tipo centrale con la sola dittongazione condizionata; 3) quella di tipo meridionale senza nessuna innovazione. Egli sosteneva che i Tarentini non riuscirono mai ad imporre la loro supremazia sull‟intero Salento, tanto che i Messapi rimasero politicamente indipendenti, sino alla conquista romana. Egli ha dimostrato che “a) il Salento conosce un sistema lessicale latino, in parte arcaico, e alcuni costrutti sintattici (periodo ipotetico con due indicativi, la mancanza dell‟infinito nelle dipendenti), in continuazione di un latino regionale; b) il grìco delle comunità ellèfone del Salento non continua il

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greco di Taranto, ma è un dialetto neo-greco; la distinzione delle tre varietà salentine è il risultato medievale, quando le innovazioni partite dall‟Italia centrale hanno raggiunto i territori occupati dai Longobardi, ma non riuscirono a penetrare in tutto, o in parte, nei territori occupati più stabilmente dai Bizantini”.3

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Romanizzazione del Salento. I Messapi non furono mai sottomessi ai Greci di Taranto, finchè non furono definitivamente soggiogati dai Romani: i loro lunghi contatti con i greci di Taranto, anche se subirono alcuni influssi, sostanzialmente svilupparono e mantennero un‟originale civiltà e un‟autonomia culturale e linguistica, che perdettero del tutto alla fine degli scontri con Roma. Questo fenomeno è testimoniato dalla lunga tradizione epigrafica, che è stata solo Messapica, durante il lungo periodo preromano, usata da una popolazione monolingue, quella tradizione epigrafica diverrà poi latina a cominciare dal II secolo d.C. Si passa così “dal monolinguismo messapico al bilinguismo messapico-latino, risolto in favore del latino in ogni uso sociale, senza l‟ipotetica affermazione di un bilinguismo messapico-greco, data la inesistente documentazione di una epigrafia greca”.4 I Messapi insomma riuscirono a mantenere una propria indipendenza nelle attività sociali, politiche e culturali “dal VI° secolo a. C. fino al I° secolo dopo: attività di un popolo ferocemente attaccato alla propria indipendenza, che ha combattuto contro Taranto e ha mantenuto una completa autonomia

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sociale e culturale, testimoniata anche dalla nuova epigrafia”.5 Dopo la guerra di Roma contro Taranto e la sua conclusione (273) e la fondazione della colonia di Brindisi nel 244, la latinizzazione linguistica del Salento è documentata dalle epigrafi latine, con la frammentazione dell’Ager Brundusinu, e dalla presenza di villae, praedia, fundi, d‟epoca romana in tutto il territorio brindisino. Altri reperti archeologici testimoniano la completa romanizzazione del nostro territorio: la parte finale della via Appia con le due colonne terminali, una conservata a Brindisi, l‟altra a Lecce, piccoli tratti di strade romane in diversi territori salentini. Altra testimonianza è un elenco di villae rusticae ritrovato in territorio brindisino con l‟ubicazione dei siti di età imperiale o repubblicana: gli acquedotti, le necropoli, le località con tesori di monete. Anche Lecce, diventata molto importante in età imperiale, ha conservato un notevole numero di testimonianze romane nell‟Anfiteatro, nel teatro e anche diverse tracce tanto nell‟antico porto Adriano, che in strade e antiche abitazioni romane, scoperte anche in questi ultimi anni.

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Molti toponimi romani “nella parte più meridionale del Salento, al di sotto della linea Otranto-Gallipoli, si trova concentrato il maggior numero dei toponimi di origine romana che potrebbero spiegare non solo l‟antichità dell‟attuale frazionamento territoriale, ma anche una più intensa romanizzazione della popolazione locale”.6 Anche la presenza di alcune forme greche nei dialetti del Salento, era stata considerata dal Rohlfs, come testimonianza di un‟antica ellenizzazione dello stesso territorio che si sarebbe protratta sino al periodo romano e romanzo e sino all‟arrivo dei Normanni. O. Parlangèli ha rivoltato l‟impostazione di scavo linguistico ed ha raccolto diverse forme lessicali, di sicura origine latina, ma esclusive del Salento; oppure dei dialetti meridionali: forme quali pastiddhra, suppinna, purpatagnu, assenti nei dialetti dell‟Italia meridionale, non possono essere trasportate nel Salento “neoromanizzato” in epoca normanna, ma sono i diretti continuatori di un antico latino regionale. Così come le antiche forme greche sono sopravvissute attraverso antichi prestiti penetrati nel Salento tramite lo stesso latino regionale. “La sola presenza del passato remoto di alcuni dialetti salentini era stata riportata da G. Rohlfs alla permanenza dell‟aoristo greco in una popolazione

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diventata molto tardi “italiana” e che non ha conosciuto la formazione perifrastica del passato prossimo. V. Pisani ha sostenuto invece che proprio l‟assenza del tipo habui cantatu-haggiu cantatu, sta a documentare l‟arcaicità di un fenomeno latino rimasto nelle aree periferiche. Altri elementi linguistici, quali la formazione del periodo ipotetico con due indicativi (se tanìa fame manciava, se era tanutu fame era manciatu), la mancanza delle dipendenti dell‟infinito (dicu ca vegnu, voju cu vveni) ritenuti d‟origine greca, si sono invece ritrovati in altri territori sicuramente non ellenizzati, e, perciò, continuatori d‟un comune latino”.7

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Il Dialetto Salentino. I ricercatori: dialettologi, filologi, antropologi del linguaggio, archeologi, dopo alcuni decenni, ormai, di attenta analisi del fenomeno dialettale salentino, hanno potuto stabilire alcune coordinate accettate in via definitiva da tutti. L‟interpretazione storica del dialetto salentino viene distinto in tre fondamentali varietà: uno di tipo brindisino o settentrionale, uno di tipo leccese, o centrale; uno di tipo otrantino, o meridionale. Immediatamente a nord della linea Otranto- Gallipoli, invece, si situa quel territorio linguistico, definito ellèfono, un‟isola linguistica, cioè, ancora oggi (e se ne sta facendo da anni un merito, anche dal punto di vista turistico) dove si parla il “grìco”, che ha “costretto” il dialetto del Salento meridionale a rimanere “estremo” e marginale e a “conservarsi” ancora inalterato fino ai nostri giorni. La tripartizione del dialetto salentino ha convinto gli studiosi a stabilire che il sistema dialettale apulo-tarantino che manifesta “continue tracce di una più antica unità fonetica frantumata, solo in epoca medioevale, a causa delle recenti innovazioni di natura metafonetica. Una interpretazione storica di esclusiva natura linguistica, fondata su un‟antica unità fonetica e successiva distinzione medievale, ci porta a

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rifiutare l‟opinione di un dialetto salentino, e specialmente quello di tipo ‟siciliano‟ del territorio otrantino, solo recente e d‟epoca normanna. Non possiamo, infatti, accettare l‟interpretazione di un Salento completamente ellenizzato sino all‟arrivo dei Normanni, e sottratto a una antica romanizzazione, perché è in contrasto con la più recente produzione storica, che ha confermato l‟assoluta indipendenza dei Messapi dai Greci di Taranto. Solo Roma riuscì a sottomettere i Messapi del Salento e a introdurre in un territorio, diventato deserto dopo le ripetute deportazioni dei Messapi, i numerosi elementi latini, con i veterani assegnatari degli antichi possedimenti messapici, e soprattutto con le masse di schiavi addetti alla coltivazione del territorio. Tutti questi nuovi elementi latini, rappresentanti della nuova società dominante, hanno dovuto, necessariamente finire di latinizzare i superstiti Messapi, socialmente minoritari e politicamente emarginati. In continuità di questo territorio latinizzato, il sistema linguistico salentino è realmente arcaico, come già indicato da Morosi, Ribezzo, Panareo, così come, anche in diverse occasioni aveva sostenuto Oronzo Parlangèli, che ha permesso di definire in questo modo il nostro dialetto: „Il dialetto salentino è un sistema linguistico originale come risultato del

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processo evolutivo di un comune latino regionale, distinto poi, in epoca medievale, in alcune varietà minori in un territorio già culturalmente unitario”8. A questa suggestiva ipotesi, si contrappone però la difficoltà storico-linguistica dell‟assenza di tracce materiali di frange di Messapi nel nostro territorio e, quindi, quell‟interpretazione è invalida perché non supportata da testimonianze. E se, come si è scoperto di recente, a Montesardo sono state trovate tracce materiali di costruzioni di stile messapico e, perciò qualche nucleo umano di quella stirpe si era sistemato su quella collina, questo potrebbe suggerirci a lanciare un‟altra ipotesi, quella cioè di qualche possibile contatto tra i messapi di Montesardo e quelli di Tiggiano, che, come abbiamo più volte detto, non è possibile sostenere, in quanto nel limitato territorio di Tiggiano non si sono mai rinvenuti segni di presenza messapica. Allora bisogna produrre altre ipotesi, in quanto quel suono e quel segno misterioso, è utilizzato solo ed esclusivamente, ancora oggi, da noi tiggianesi; né gli abitanti di Montesardo, né quelli di Tricase fanno ricorso, nei loro linguaggi dialettali, a quel suono e a quel segno, poi, non trascrivibile. Forse, l‟ipotesi è mia, quindi soggetta, anzi, aperta alla “critica” più spietata, quel “ddhr”, è un retaggio archeologico di qualche piccolissimo gruppo

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sociale che trasferendosi da Montesardo a Tiggiano, abbia inconsapevolmente continuato ad utilizzarlo, ed essendosi, poi, quel clan, ripiegato su sé stesso, abbia potuto conservare quella stranezza, mentre il gruppo sociale di Montesardo abbia, invece, seguito l‟evoluzione linguistico-dialettale, a partire dal medioevo, come affermato da molti studiosi per altre aree del Salento, considerato che Montesardo aveva già assunto dal periodo messapico, un‟importanza di rilievo, vista la sua posizione strategica e, quindi, era in collegamento con altre realtà sociali del sud Salento, mentre Tiggiano è rimasta davvero un‟isola, ripiegata su sé stessa.

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Per quale motivo pubblicare studi di dialettologia? La risposta è molto complessa. Una prima motivazione possiamo rintracciarla nelle mutate condizioni economico-sociali che hanno consentito, sempre più, ad un maggior numero di italiani, di conoscere e di utilizzare la lingua nazionale e sempre più sottile diventa il numero di coloro che fanno uso del dialetto. Questo evento storico per la nostra Nazione, sta provocando un altro fenomeno, quello di notare che anche il dialetto “parlato” va via via perdendo le sue forme più arcaiche e va lentamente modificandosi, in quanto alcune culture locali sono ormai superate e dunque i codici linguistici relativi sono utilizzati solo da esigui gruppi di parlanti. La penetrazione della lingua nazionale, inoltre, ha permesso una maggiore cultura civile e una maggiore giustizia sociale, proprio presso quei gruppi che ne erano rimasti esclusi. Se questo è vero, bisognerebbe plaudire alla scomparsa definitiva del dialetto! Se guardiamo invece al dialetto come ad un sistema di comunicazione, usato da gruppi ristretti di parlanti, questa forma linguistica locale continuerà a perdurare a fianco a quella nazionale. Quelli che

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parlano il dialetto, sono infatti, una comunità più piccola (provinciale) all‟interno di una comunità più grande (nazionale). “Non sia mai il dialettologo un archeologo o un ricercatore di fossili e di reliquie, angosciato dal timore che alle sue premure sia affidato l‟inventario di un mondo quasi scomparso: andiamo sì alla ricerca di vecchiette che sappiano, esse soltanto, voci e forme dialettali ormai uscite dall‟uso comune, ma non dimentichiamo tutti gli altri parlanti che conservano, e conserveranno ancora per molti anni, il loro particolare dialetto”.9 Non siamo ancora agli sgoccioli di un fenomeno secolare, se non millenario; possiamo ancora confidare di poter realizzare un lavoro, ricorrendo alle fonti viventi e non viventi, sforzandoci di verificarne poi la loro sincerità. E‟ un lavoro difficile, quello di catalogare, esaminare ed esplicitare, in quanto in nessuna scuola si insegna la metodologia della ricerca dialettale, né in alcuna scuola si insegna il dialetto, ad eccezione dei paesi della Grecìa salentina. Nella ricerca dialettologia si cerca di ricreare, quasi, le atmosfere del linguaggio parlato di un mondo di valori che va via via modificandosi profondamente

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e, non saremo impressionati invece dalla istantaneità della resa parlata. Oggi è molto più difficile una ricerca di questo tenore, in quanto, come abbiamo affermato precedentemente, il dialetto di ogni territorio, diviene sempre più indebolito, a causa della pronunzia, con cadenze e modalità molto più vicine alla lingua nazionale. Questa, cioè, sta esercitando una sorta di livellamento linguistico dei dialetti. Si pone poi un altro problema al ricercatore, quello delle informazioni richieste a più persone che possono essere, a volte, anche dissimili, e per questo potrebbero indurre a falsificare il dato, ma se ci si pone con atteggiamento di accoglienza di fronte a tutti, allora si può intendere che le differenze non sono altro che la manifestazione della “vivacità” dei parlanti in seno ad gruppo, se pur ristretto. Ho voluto cimentarmi in questo lavoro solo per cercare, con l‟aiuto di altri, di “rivitalizzare” il nostro secondo linguaggio, quello dialettale, affinché il “nostro” non vada “annacquandosi” in forme sempre più lontane da quella originaria e anche perché, come ho timidamente cercato di dimostrare, il nostro dialetto possiede alcune peculiarità che non hanno i parlanti degli altri comuni limitrofi. La mia ricerca e il riporto sulla carta hanno solo questo scopo.

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Non ho le competenze scientifiche; non sono un dialettologo, un glottologo, né un archeologo della lingua, né un antropologo della stessa. Le conoscenze personali, i ricordi, le persone, mi accompagneranno in questo difficile lavoro, che non può essere esaustivo, non posso illudermi, cioè, di poter dire la parola definitiva per quanto riguarda il “nostro” dialetto. La ricerca, a livello scientifico: il C.N.R., le Università, le Accademie, i circoli di intellettuali continuano ad approfondire gli studi nei riguardi di questo fenomeno e solo loro possono stabilire regole, metodi di ricerca, classificazione scientifica, determinazione di aree sempre più contraddistinte da forti peculiarità interne. Nell‟epoca delle telecomunicazioni, la ricerca sembra anacronistica, proprio perché il livellamento nel campo della comunicazione, diventa sempre più veloce, una miriade di neologismi nascono e vengono acquisiti in fretta, sempre nuovi barbarismi influenzano la nostra lingua, l‟europeizzazione e la globalizzazione favoriscono tutto questo. E‟ proprio in virtù di queste scarne considerazioni, che ogni comunità dovrebbe darsi un suo codice, riferito alla seconda lingua, quella dialettale, non per rimanere anchilosati o ingessati in

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forme linguistiche ormai del passato, ma affinché la testimonianza su carta possa permettere, a chi ne ha volontà, di continuare ad indagare, per rispolverare un patrimonio che va lentamente esaurendosi. Non è vergogna interessarsi del dialetto locale, non è tempo perduto, a mio avviso, è pur sempre stimolante cercare di capire chi siamo, perché parliamo oggi un linguaggio omogeneo, perché resistono gruppi di parlanti che fanno uso quotidiano, ancora, del dialetto. Sono quesiti ai quali nessuno sa dare una risposta esauriente, ma che l‟intrinseca esigenza umana di “sapere” è riferita anche a questa disciplina particolare della convivenza sociale. La mia ricerca vorrebbe corrispondere solo a questo obiettivo: ripristinare il dialetto di Tiggiano, attraverso il tentativo di codificazione, affinché resti vivo nei parlanti quella lingua che abbiamo tutti appreso dalla viva voce dei propri consanguinei. Lo sguardo è rivolto anche alle nuove generazioni, educate solo alla lingua italiana e ad una comunicazione crittografata e massificata; non farebbero “peccato” se si avvicinassero al dialetto per gustarne il sapore, l‟odore, la forte pregnanza, anche nei riguardi di attività, lavori, mansioni, arnesi ed oggetti ormai scomparsi.

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La Fonetica. Il problema di come rendere i suoni in grafia è un sommo problema, in quanto non sempre è possibile con i mezzi grafici della lingua italiana o latina o greca, rendere perfettamente i suoni particolari del dialetto in genere, ed in particolare del nostro, tiggianese. Abbiamo accennato all‟inizio come per alcuni suoni è quasi impossibile trascriverli, e allora si cerca di avvicinarsi, quanto più possibile alla pronunzia che se ne fa. Un altro problema che gli studiosi si pongono è, se la trascrizione deve avvenire durante o dopo al ricerca, se i suoni devono essere “normalizzati” o annotati in modo “impressionistico” e cioè trascritti senza alcuna sistemazione. In genere la trascrizione andrebbe fatta quanto prima possibile e riportare quella della generalità dei parlanti di un certo luogo. Si sa che alcune parole o espressioni, specialmente quelle più arcaiche, possono cambiare da informatore ad informatore, ma nella nostra piccola Tiggiano le differenze sarebbero certamente irrilevanti. Piccitto affermava che il ricercatore “da una analisi attenta e spregiudicata delle impressioni

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acustiche, […] ne realizzi la trascrizione attraverso uno schema che sia il più perfetto possibile”. Poche regole: Il punto sottoscritto servirà per indicare le vocali chiuse; con apici si indicheranno le consonanti palatali; le continue saranno segnate con un trattino che taglia la consonante occlusiva. E‟ quasi poi impossibile distinguere le infinite gradazioni di palatalità delle consonanti. Le vocali di sillaba fortemente accentata saranno indicate con l‟accento acuto a, é, le vocali delle sillabe che rechino un accento secondario saranno indicate con l‟accento grave à, è. Le parole piane o parassìtone non recheranno alcuna indicazione d‟accento. L‟accento sarà segnalato sui monosillabi accentati. Se sarà necessario, si distinguerà una pronunzia lunga „a‟ da una breve. Le vocali ridotte saranno indicate con caratteri di corpo minore sopra la riga. Il suono vocalico indistinto sarà indicato con … Con il titolo saranno indicate le vocali nasalizzate, se esistono più gradi di nasalizzazione, si userà …per la nasalizzazione parziale e …per la nasalizzazione totale.

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Nessun segno sarà adottato per indicare la caduta di vocali o di consonanti: è consentito un trattino d‟unione per indicare l‟intima unione di enclitiche o di proclitiche con la parola accentata. Il triangolo vocalico tipico sarà quello indicato nella tav. I: i segni tra parentesi quadre sono da usare solo quando il raccoglitore avverte sicuramente la differenza di grado di apertura. Si noti che -un punto sottoscritto indica la vocale chiusa; -due punti sottoscritti indicano la vocale molto chiusa; -un gancio, aperto verso destra, sottoscritto indica la vocale aperta; -una lineetta sottoscritta indica la vocale molto aperta; -due puntini soprascritti caratterizzano la serie dei suoni vocalici turbati palatilizzati, -un cerchietto soprascritto indica la serie dei suoni vocalici velari. Con un cerchietto sottoscritto si indicheranno le liquide, rotate e nasali sonanti. Per le consonanti, riunite nella tav. II, si noti: -invertite (cacuminali o gengivali) t,d, -prepalatali, mediopalatali, postpalatali, velari, affricate dentali, nasale palatale, nasale velare, rotata invertita, laterale palatale, fricative prepalatali,

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fricative velari, sibilanti dentali, sibilanti prepalatali, sibilanti mediopalatali, fricativa mediopalatale. Si dà una piccola esplicitazione. Velare: si pronunzia, si articola col velo del palato. Gutturale: si pronuncia come la g di gaio. Consonanti occlusive: sono quelle consonanti la cui pronunzia non può essere prolungata nel tempo. Si distinguono in dentali, labiali, palatali, gutturali che, a loro volta, si suddividono in sorde e sonore. Sorde: emettono suoni velati smorzati: strumento (voce sorda), in cui non si odono bene i suoni. Sonore: quelle che hanno una particolare risonanza con le momentanee (d,b,g) e le fricative (z nella parola rozzo ed s nella parola rosa). Fricative: quelle continue che si pronunziano emettendo un soffio di aria attraverso le labbra e i denti e si distinguono in interdipendenti, labiali, sibilanti.

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Le aree dialettali. I Messapi si stabilirono in tutto il territorio salentino. Il loro linguaggio era incomprensibile alle altre tribù ed è stato definito paleo-greco, etrusco, o egeo-anatolico, qualcuno ancora ipotizza legami fonetici con la civiltà precolombiana Maya! “Voci che non esistono in latino e nell‟italiano: è chiaro che esse non derivano da queste due lingue, ma provengono da un linguaggio che le ha precedute: nel nostro caso si può ammettere, per esclusione, che questo linguaggio precursore sia stato introdotto da elementi umani provenienti chissà da quale ambito territoriale, detto indefinitivamente indo-europeo.”10 A questo periodo e a queste aree geografiche sarebbero da assegnare alcune voci, insieme a molte di origine greca. ABISSOS, precipizio, bbissu. AMORGHE, morchia, murga. APALOS, molle, aplu. AS, saccare, aridus. AS+(S)KAND, asc(i)a. Anche SKWENTH=scintilla, e il greco eskhara, bruciatura. ASKLA, pezzo di legno, asc(i)ca. BABAX, cialtrone, bbabbione. BAL, rigettare=vomito, bolbiton, vommucu.

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BAMBAKION, bambagia, vammacia. BAUCALIS, vaso per acqua da bere, vuccalu. BHREZA, gnagnale=leccio, quercia BILIA= lat. filia, (notare la B osca al posto della F latina). BOMBULIS, acqua che gorgoglia, mmili, vuzzili. CABEZA, testa, capèzza. CABONIS, castrato, capune CAPACHA, recipiente, capàsa. CENIZA, cenere, canìsciare. CHAR A BANCS, carretto alto a due ruote con due sedili, scirabbà. CONKHE, buca, conka. , da un tracico DIZOS (greco teikos=muro); DOLIKHOS, lungo, dòlaga, cicerchia. ENKAINIZO, cominciare, nzignare. FASOULION, fagiolo, fasulu, pasulu. HIPA (sepoltura), greco „ipò‟ (sotto). GASTRA, vaso da fiori, rasc(i)ta. GONGULOS, rotondo, curnocchiulu. HE’MONEM, uomo, hommu. HIPA, sepoltura, greco „ipò‟, (sotto). HYDOR, gr. (Otranto), e il più antico anatolico vadar (acqua). KABOUROS, granchio, kavùra.

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KAI e COI=osco, greco ed etrusco kai=latino cae e coe in posizione proclitica KAMPE’, insetto che si curva, bruco, kampia. KANKELLON, cancello, cancellu. KAP, prendere, kaplè, da cui (‘n)kaplè e (s)caplè, scapulare. KAPPARIS, cappero, chiappru. KAR, essere duro, scarabeo, karabos, scravasciu. KENTRON, punta, chiodo, centrune. KER, tagliare, caruppare, la tosatura della lana o dei capelli, lat. caedere. KERE, rompere, cravottu, foro o perforare. KHA, aprirsi=deserto, kheros, (alla) scersa. KHANTAROS, vaso con due manici, kantru. KIKHORE’, cicoria selvatica, cikore. KNOHHA, nodo, nnocca, nnudu. KOKKOS, piccolo corpo sferico, kokàla. KOFINOS, cesto, cofunu. KOKLIAS, chiocciola, kozza. KONKHE’, conca, conca. KRAIPNOS, svelto, veloce, furioso, krapa. KREM, pendere, ciò che serve a tenere un oggetto appeso, kremaster, kamastra. IMAS=profondo, sepoltura; osco ìmai=giù; osco meridionale imif=profondo; lat. imus=profondo. ISOS, identico, uguale, sozzu.

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LAGANON, sfoglia di pasta per lasagne, làvana. LAMIA, copertura a volta, lamia. LEGH, raccogliere=pulpito, logheion, loggia, loggiata. LIKH, leccare, leiko, lliccare. LIP(P), grasso, lippu, la panna del latte, e per analogia visiva tutte quelle membrane biologiche che si formano sui liquidi organici inquinati da muffe. Vedi greco lipos. LYKOS, (lupo), lupa, Lecce, da un tema i.e. che ha dato il greco. LUKWOS, lupu. Lat. lupus, greco lykos. MAL, molle, tenero, malakòs, malota. MEN, sporgere, minne, mamma, mammelle. MET, mietere, màtire. MINS, metà, menzu. MLDU=molle. MOLDAHIAS=molle; osco molda=molle. MUSTAX, mustacchio, mustazzu. NAKE’, vello, pelle di capra, nàka. NER=uomo; osco ner e nir=uomo; greco aner=uomo. PAGH, rendere duro, paktà, paddrhotta. PABULA, paglia, paja, pajara, pajareddhra, pajareddhru. PALOMO, colombo, palummu.

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PANOS=pane; lat.arcaico pastnis=cibo. PAPRASCIANNA, strano ibrido oscillante tra papera e barbagianni, paparascianni. PEIS/PES, pestare, pasare. PENSCLEN=sacello; umbro persclo, osco pestlùm=sacello, varianti di un più antico perk-sklo. PERKOS, macchiato di scuro, lentiggini, pèrkia. PERSCLOM, pietra, pesc(i)ku. PITHOS, grande vaso per liquidi, patella. PEUG, colpire, pugnulu. PAIKOKION, percoco, vernacocca. PRKA, zolla di terra, paddhrotta. PULTUS, PUCCA, puccia. PURCE, maiale, porcu, purceddhu. Per sim. porciaddrhuzzi. QUBBAITA, torrone, cupèta. RAPPA, grinza, rrappatu. REUKH, REUG, piegare, incidere, rrunchiare. Anche rruncare, tagliare con la runca. REZG, treccia, intreccio, rezza. RUG, ruggire, roffulare. SAILOMNAS, siloca: sa fatta quantu nna siloca. SALPIZO, soffiare nella tromba, salpisso, sciarpisciare. SARAS, specchio d’acqua, per contrasto, ssaccarutu.

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SERAPIAS-ADOS, pianta sacra a Serapide, sanapuddhru. SER/SEK, tagliare, serra, sarrare. SERP, serpe. SIDE’, melograno, sita. SPONGHIOS, spugna, sponza, spugna. (S)KAND, ardere, sc(i)kannìe, vampate improvvise al volto per cause emotive o ormonale, menopausa. (S)KER, tagliare, skàrasce, skàrasciale, piante spinose e graffianti. Anche i cognomi Scarascia. SKWA, squama, scoscia. SPURIUS, SPURCUS, spurkja. SPURTA, sporta. STAKA, palo o asse di legno, stakka (di donna). STEIP, pestare-schiacciare, stumpare, stompu. STEUD, battere, sc(i)toticu. Come se avesse battuto la testa da piccolo. Anche picchiatu, stupidu. STOUMPIZO’, pestare, sc(i)tumpare, sc(i)tumpisciare. STREIG, strofinare, strincire. SUPFA, minestra brodosa, suppa. SUK, succhiare, sucare. SUSTO, spavento, susta. SWERKU, suocero, socru, socrama, u socru/a meu, mia. SUR, tirare, fune da tiro, surtes, nzàrtu.

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TABUT, cassa da morto, chiavùtu. TACHA, chiodo, tàccia. TAK, liquefare=padella, tèganon, tajanu. TAMBOR, tamburo, tammurru. THE, depositare, deposito, apotheke, putèa. THWAIRKS, che guarda storto, nguerciu. TYRSOS, asta, torsolo, tursu, TLAPUNI, talpa, trappune. TREKW, torcere, turcire. TRAG(H), trascianare, a traja, trajare. THUMM, un ottavo, tummunu. TUP, battere, tumpanon, tampagnu. TUP, battere, tuptò, tuzzare. ZAMBERGA, giacca a coda di rondine, sciammèràca. ZANN, denti, sanni. ZAZZA, lunga capigliatura, zazzara. ZEKKA, mosca cavallina, zzicca. ZINZULA, cencio, zìnzulu. ZIPPIL, punta, zzippuru. ZIZUFON, giùggiolo, scisciàla. WRAD, radice, ruddhra. Lat. radix.11

Ai Messapi poi si sovrapposero i greci della Magna Grecia e ancora dopo i Romani che recarono il latino.

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Nei confronti della lingua di Virgilio è necessario chiarire qualche dubbio. E‟ alquanto ovvio che il latino parlato nelle zone periferiche della Repubblica prima e dell‟Impero poi, non doveva essere il latino classico che conosciamo attraverso le opere degli scrittori, era sicuramente un latino illetterato in quanto la massa della popolazione trasferita o sottomessa non aveva la possibilità di frequentare le scuole di eloquenza per imparare il latino ormai codificato. Parlavano un latino popolare o volgare e quindi è da queste forme di latino che deriva poi il volgare e poi il dialetto che si afferma in tutte le zone dell‟Impero a cominciare dall‟inizio della crisi dello stesso. Durante il Medioevo continua il processo di volgarizzamento del latino popolare, imbarbarito dalle invasioni di popoli provenienti da altri ambiti territoriali indo-europei. Il processo continua in quanto nessuna autorità può costringere più a parlare nemmenoo il latino popolare. La fine del Medioevo troverà ormai consolidate tutte le forme dialettali che si erano andate diversificando nel corso dei secoli. Col Duecento inizia quel lentissimo movimento linguistico che condurrà, dopo diversi secoli, all‟affermazione

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definitiva e codificata con regole fonetiche, grammaticali e sintattiche che sono a fondamento della lingua italiana. I dialetti viaggiavano di pari passo e vanno via via diversificandosi e consolidandosi in quelle forme che sono giunte, quasi incolumi, fino a noi. I dialetti salentini dunque hanno una comune origine che è quella messapica, greca, latina, anche se andarono poi sparpagliandosi in moltissimi rivoli, dando sostanza a quelle isole linguistiche di cui tante volte abbiamo riferito.

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Il dialetto di Tiggiano. Non è mia intenzione scrivere un vocabolario del dialetto tiggianese; sarebbe un lavoro inutile e sterile, quel lavoro lo hanno già compiuto altri ricercatori: il grande studioso tedesco Gerhard Rohlfs che ha pubblicato nel 1976 un “Vocabolario dei Dialetti Salentini. (Terra d‟Otranto). E poi recentemente un collega di Salve, Gino Meuli ha pubblicato “I Dialetti del Capo di Leuca”, quindi per cercare le parole dialettali sono disponibili già due vocabolari. Come già detto all‟inizio, voglio soffermarmi “solo” sul dialetto tiggianese, per tutte quelle considerazioni già espresse. Cercherò di riportare solo quelle parole prettamente tiggianesi, non contemplate nei due vocabolari citati, inserendole in un contesto comunicativo. Riporterò alcuni proverbi locali che denotano il modo di vivere e di sentire della nostra popolazione nelle età più remote. Elencherò i soprannomi (“nciurite”), sperando e chiedendo anticipatamente scusa ai tiggianesi per la pubblicazione, ma non dovrebbero essi adontarsi in quanto il lavoro riveste solo un carattere scientifico.

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Fornirò alcuni vocaboli “oronimici”, nomi di fondi rustici interessati da rocce (“pesc(i)hi”) e alcuni toponimi rurali, anche nella più antica dizione. Darò alcuni toponimi stradali, i più antichi. Descriverò alcuni giochi, divertimenti, anche fanciulleschi, che ormai nessuno esercita più. Tenterò di riportare gli insulti e gi scherni che si facevano tra paesi vicini. L‟afèresi, la perdita cioè della vocale iniziale e il raddoppiamento fonetico della consonante iniziale, nel nostro dialetto è frequentissima: appendere=ppannire, arrostire=rrustire, avanti=nannzi, asciugare=ssucare, innamorata=nnamurata, arrostire=rrustire. Per scrivere alcuni grafemi particolari, i dialettologi hanno trovato la soluzione, per esempio: i nostri fonemi: ddhra, ddhri, ddhro, dhru, ddhre=d: con un puntino sotto la d, si deve pronunziare appoggiando la punta della lingua sul palato, suono cacuminale. Il fonema tr, come nella parola otru= t, con un puntino sotto la t. Il fonema sc seguito da vocale, come scupa, scotulare, si dovrebbe scrivere con ^ capovolto sulla s, quando si pronunzia con suono dolce e sibilante,

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mentre in altre parole il suono è palatale, fischiato, forte, come in scelu, sc(i)attare. Io continuerò invece a scrivere per esteso, sforzandomi di essere il più semplice possibile, sapendo in anticipo che è difficilissimo rappresentare tutti i suoni del nostro dialetto in grafemi.

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Espressioni Dialettali Tiggianesi. A bbunanima de mama dicia sempre=i defunti erano sempre anime buone. A camisa è mputtànuta=la camicia è molto sporca. A casa mia non ci ncorpora cullu curtìu sou=la mia casa non è confinante con il suo cortile. A casciabbanca è china de pane=la cassapanca, madia, è colma di pane. Aci=traduce la perifrastica attiva latina: „sto per……‟ A cci servène tutte ste marcivotèle=a cosa servono tutte queste giravolte, girare intorno nel discorso. A ciappa di cosi s’à spazzata=il gancio dei pantaloni s‟è rotto. Aci camina alli 70 anni=la sua età va verso i 70 anni (espressione dal costrutto tipicamente latino, la perifrastica attiva viene adoperata anche in dialetto). Aci chiove?, aci nziddhràca?=sta piovendo?, sta piovigginando? Aci cunti schiòvère=stai parlando a vanvera. Aci face acquanive=era la pioggia sottile mista a nevischio. Aci faci sc(i)omareddhru=stai producendo schiuma. Aci manci a sbafu=stai mangiando senza merito. Aci passa u caroppaciucci=sta passando il maniscalco, che provvedeva a tosare gli asini.

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Aci passa u ccattabbinni=sta passando il commerciante che compra e vende. Aci passa u prevete cu l’acqua santa=sta arrivando il prete con l‟acqua santa. Dopo la benedizione pasquale dll‟acqua, il prete passava in tutte le case per la benedizione e riceveva una ricompensa: uova, soldi….. Aci rrapu u nzimmùru=sto tosando il caprone. Aci spaccu fricciu=sto tritando breccia. Aci su mancia l’asima=L‟affanno lo sta travolgendo. Aci trìvàla=è di lutto, sta soffrendo. Aci u faci l’inchiamentu=stai provvedendo a fare il vespaio. Aci vane spertu e damertu=sta andando ramingo, senza una fissa dimora. A conza!=era il comando del capomastro all‟operaio affinché gli fornisse la malta. A cquai ttocca chianti nn’ìnzàta=qui devo piantare un virgulto d‟olivo, piantina d‟olivo. A crapattera s’à bbinchiata=la capretta s‟è abbuffata. A culazza du traìnu è scasciata=la parte posteriore del traino è rotta. A’ deggiere bonu=deve essere bene. A ferita è mpùràgnuta=la ferita si è infettata.

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Ahi fatta nna macagna=hai fatto un imbroglio, sei ricorso ad un trucco. A fijascia mia è nna brava risc(i)tiana=mia nuora, o figliastra, è una brava persona. A fiòccula è stajata=la chioccia ha finito di covare le uova. Affredu, zappa chiru capucciu de terra=Alfredo, zappa qule poco di terra. A futticumpagni sciucamu=staimo giocando a fotterci l‟un l‟altro. Aggiu ccote e petre de ntrù sciardinu e l’aggiu mmantunate sutta u parìte=ho raccolto il pietrame dal giardino e l‟ho ammucchiato sotto il muro. Aggiu ccoti nnu chilu de cacai e cannellini=ho raccolto un chilo di confetti (cacai=confetti più grossi; cannellini= confetti più piccoli). Aggiu ccotu nnu mazzu de curcumiddhru=ho raccolto un fascio di camomilla. Aggiu chiamatu u llattature=ho chiamto l‟imbianchino. Aggiu ddumannare se pozzu scire=devo chiedere se posso andare. Aggiu fattu acitu=cattiva digestione, a causa dei succhi gastrici abbondanti. Aggiu fattu frusciu=ho realizzato quattro carte dello stesso ramo, palo.

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Aggiu fattu sangu acitu=mi sono molto arrabbiato, (il sangue è diventato acido). Aggiu fattu u cazzafricciu=ho lavorato come operaio alla frantumazione delle pietre. Aggiu frabbacare e me serène muti sordi=devo costruire una casa e mi servono molti soldi. Aggiu ncamapanatu u pallone=ho mandato in alto il pallone. Aggiu persu nnu chianozzulu=ho perduto una pialla. Aggiu pijatu urcumu e ssu cadutu=ho perso l‟equilibrio e son caduto. Aggiu spaccatu nnu cannizzu de fiche=con i fichi tagliati ho colmato un telaio (telaio di canne intrecciate per seccarvi fichi, peeprono, pomodori, zucchine). Aggiu tassuta nna coperta de pazzuddhi=ho tessuto una coperta con strisce di stracci. Ahi, tegnu nna doja allu cutursu!=ahi, ho un dolore alla schiena! Aldu, ttocca bbai a Llessànu=Aldo, devi andare ad Alessano. Alla bbuccolica apriti l’occhi, no!=bere in modo smisurato vino o birra. Alla fera de Santu Pati ncerene tanti vinnitili=alla fiera di S. Ippazio c‟erano tanti mercanti (vinnitili).

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Alla festa de Santu Pati ‘ncè a banna ranne=alla festa di S. Ippazio si esibirà una banda famosa. Alla porta da capanna aggiu fare fare a cattalora=alla porta della capanna devo far fare il foro rotondeggiante e quadrato per consentire l‟ingresso dei gatti per catturare i topi. Alle ppise imu ffare capicanale=al principio delle volte (della costruzione) e a costruzione terminata, era d‟obbligo offrire il pranzo a tutti i lavoranti. Allerta vagnoni co l’otri stonnu ggià a fore=sveglia ragazzi; gli altri sono già in campagna, sul posto di lavoro. Allu banchettu da zzita=prender parte al pranzo nuziale. Allu bellubbonu=inaspettatamente, d‟improvviso. Allu cavaddhru i piace cullu faci culla brusc(i)a=il cavallo prova sollievo ad essere trattato con lo spazzolone. Allu cusifierru mantivène i canneddhri=all‟incannalatoio si inserivano i cannelli. Allu pede m’aggiu fatta nna vussìca=mi sono procurata una vesci a la piede. A maggiu nci suntu e culummàre=a maggio maturano i fioroni.

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A mamma se chiamava Dulurata come nonnasa=mi amadre si chiamava Addolorata come sua nonna. A manoscia d pisce me piace=la minutaglia di pesce mi piace. A ma renna facìmu nna paparotta=a colazione prepariamo la “paparotta” , (piatto tipico: pane fritto, miscelato con verdure e legumi). A marìola sa scusata=la tasca interna della giacca è scucita. A marmaja nun la supporto=la marmaglia, il guazzabuglio non lo sopporto. A mattareddhra è vecchia=la matterela (attrezzo di sostegno al setaccio mentre opera la separazione della farina dalla crusca), è vecchia. A mazzammurra imu sciucare=dobbiamo giocare confusamente. A mentemmente cu lli dicu e m’aggiu scurdatu=stando attento con la mente per dirgli, ma mi sono dimenticato lo stesso. A mmenzu a chiazza nc’è u sinnucu=in piazza c‟è il sindaco. A mmie m’onnu fatta l’operazione allu core=io ho subito un intervento al cuore. A naca s’a fatta vecchia=la culla è diventata vecchia.

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Ancora hai cacciare l’antu?= detto chi era più lento/a a portare a termine una striscia di terra da zappare o da sarchiare. Anchi cammuru=dalle gambe arcuate. A notte d’estate essène e cattùvivèle=la notte d‟estate si vedono i pipistrelli. A notte non ci dormu=di notte non riesco a dormire. A Pasca se fannu e cuddhrure cu ll’ovu=a Pasqua si producono le ciambelle con l‟uovo. Arda cci annesse!=esclamazione con la quale i „grandi‟ si meravigliavano per alcune espressioni o azioni di un bambino, ritenute smisurate alla sua età. Ardià, mo vadimu. Ma anche arrè=era il comando per far indietreggiare il cavallo o l‟asino al carro. A Santa Marina nnè ccattavène e zigareddhre=a Santa Marina compravamo i nastrini colorati. A sarìca se ne sciuta ntru cravottu=la lucertola si è rifugiata in un buco. A scèrmata quannu è bbona=quest‟anno la fioritura è di buon auspicio. A settembre se ccujivène e pampène de fiche cu lle dame alle crape=a settembre si raccoglievano le folgi di fico da dare da mangiare alle capre. A sira d’estate vadivene e cattuvìvele=le sere d‟estate vedevamo volare i pipistrelli.

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A sirma i piacìa a regna, u baccalà e lu stoccapisce=a mio padre piaceva l‟aringa affumicata, il baccalà e lo stoccafisso. Assa me fazzu nna durmuta=mi faccio una dormita. A tene pe divuzzione=è sua abitudine. A terra s’ha mpàddhruttàta=la terra si è indurita e appallottolata. A tuvaja è china de muddhriche=la tovaglia è carica di molliche. Atte cittu mucculone=stai zitto stupidone. A ttìe tocca cu cciummi=a te tocca piegare la testa e nascondere gli occhi (in un gioco di ragazzi). A vespra se scìa alla chiesia=al vespro si andava in chiesa. A vita è nnu tiraturu, oci ha piji nculu e crai puru=espressione che indica le tantissime difficoltà di vita. Avoja quante vòte l’aggiu dittu=le ho detto moltissime volte. A vommàra s’a scasciata=il vomere si è rotto. A vozza s’a rutta=la giara si è rotta. Basta fazzu quarche scalune ca ffannisciu=mi basta fare qualche gradino e sono colto dall‟affanno. Bbunattanima de sirma era severu= mio padre, buonanima, era molto severo.

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Caccia chiru càntru=porta fuori il càntaro (vaso figulo usato di notte per accogliere urine e altro….) Capudecazzu cumpare!=perbacco compare! Carzàcchie te bbuschi=non ti tocca nulla. Cè falòticu!=che stupido! Cc’è sapurita st’acquassale=come è gradevole questa acqua e sale, in verità erano pomodori tagliati, conditi con acqua, sale e olio e d‟estate peperoni amari, nel cui si intingeva il pane. C’è mmortu aci sona a cunìa=al suono delle campane, ci si chiedeva chi fosse morto. Chira è nna bardascia=quella è una donna poco di buono, malandata, una donna grassa. Chira ristiano sta comu nna culòfia=quella donna è grassa e malformata. Chira tovàla nci vole chianilisciata=quella tavola deve essere piallata. Chiru allu cantieri solu l’accqualuru pote fare=nei cantieri di lavoro, il meno dotato, veniva incaricato dal capo-cantiere solo a provvedere l‟acqua per dissetare gli operai. Chiru è vuddhru=quello è sterile. Cci bellu fòffulu a frunte=che bel ciuffo di capelli sulla fronte. Cci bùlìa nna manesca de rape=quante vorrei una pietanza di rape.

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Cci camascìa=che noia! Cci famotica ca tè!=che fame che dimostri! Cci llesamentu osci ca me sentu=che sposattezza oggi. Cci me dole lu vangaru=che dolore ad un molare. Cciumma tìe mo=ora tocca a te piegarti e nasconderti. Ccoja chiri asc(i)uliddhri=raccogli quei frammenti di legna. Ccoji chire cacàgnele de crapa, de pequara=raccogliere quegli escrementi di capra, di peciora. Cci còjiuru tosc(i)tu ca tei=che pelle dura che possiedi, in senso figurato. Cci gghiè pannàcciara chira ristiana=quella donna è pettegola, (diffonde notizie altrui) Cci l’onnu fattu a stu crìaturu, piccinneddrhu, vagnone?=cosa gli hanno combinato a questo piccolo? Cci maddhrune ca tei=che testa pelata, o testa dura. Cci me faci a cagnavula=mi fai il dispetto, facendo finta di … Cci me faci sta ntìfana=perché mi fai quest‟allusione. Cci rungulisci!=perché piangi con lamento! Cci rrusacaturu!=che scocciatore!

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Cci si fatente!=come sei malizioso, furbastro! Cci sinti ntisicatu=come sei magro. Cci ssu belle llattumate ste cicore=come sono tenere e gradevole queste cicorie. Cerca cu lu ncàfurchi addhra intra=cerca di ficcarlo là dentro. Che fimmànazza è socrama=che donna tuttofare, bella e forte di carattere. Chiru mesciu è cuscenziusu=quel maestro è scrupoloso. Chiudi cullu masc(i)caru moci essi=chiudi quando esci, (masc(i)caru: un pezzo di legno che scivolando chiudeva la porta). Ci ha post usti mustisci cquai?=chi ha messo uesti rifiuti qui? Ci è sta fajassa?=chi è questa donna volgare? Ci l’à ccucchiati chiri doi?=chi li ha accoppiati quei due? Ci l’à pijatu u scarcagnulu, o u fusciarizzu=è stato colto da qualche vortice di vento o dalla corsa frenetica. Ciseppe, va ccoji e culummàre=Giuseppe vai a raccogliere i fioroni. Ci mustazzu!=che baffo! Ci t’à bbannutu!=chi ti mandato, chi ti ha venduto.

55 Rocco Margiotta

Cittu, ca aci me ne porti e maduddrhe=zitto, mi stai facendo stancare il cervello. Ciuveddhri me pote dire de quistu e quistu passa=nessuno mi può criticare. Come face u lardusu osci=oggi si atteggia con superbia, con vanità. Comu feti osci=come puzzi oggi. Comu sinti crusitusu=come sei ficcanaso. Conzème nna ccucchiatùra de pane=preparami col companatico una combaciatura di pane. Crammane vegnu=verrò domani. Crammenzadìa chiove=pioverà domani a mezzogiorno. Cràbbespàra vegnu=verrò domani al vespero. Crassìra tròvète a menza a chiazza=domani sera fatti trovare in piazza. Crai ttocca facìmu u còfunu=domani dobbiamo fare il bucato (cofano grosso recipiente di terracotta). Cravvespera nc’è a purgissione=domani a vespero si terrà la processione. Crisc(i)tina, ci t’à criata, ogni ggiurnu rumpi nnu piattu o nnu bicchieri=Cristina, (chi ti ha creata, domanda retorica), ogni giorno rompi un piatto o un bicchiere. Cu bbutti lu citu=era un‟invettiva bonaria rivolta all‟amico: ci si augurava che questi vomitasse „aceto‟.

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Cu bbutti lu sangu=generalmente era un‟invettiva bonaria che si lanciava all‟amico in una durante una discussione animata, ci si preoccupava che il malcapitato vomitasse sangue. Cu ddumi u focu nci volène e frunze=per accendere il fuoco ci vuole il fogliame secco d‟olivo. Cu l’asc(i)che aggiu fatta nna mita erta=con la legna ho realizzato un‟alta catasta. Culla brucacchia poti fare l’insalata=con la brucacchia (erba grassa selvatica) si può fare l‟insalata. Cummare Ada a caddhrista=la commare Ada di . Cumu si fumusu=quanto sei borioso, o dall‟offesa facile. Cu ppoti rrunciaddhrare!=che possa paralizzarti! Cursupinama se chiama Carmelu=mio cugino si chiama Carmelo. Cu tte cascia nna coccia=espressione generalmente in un momento di rabbia, detta con benevolenza. Cu tte cascia nna cògnala=che ti prenda un accidente. Cu tte cascia nnu lampu e cu tte bruscia e se te canna cu se torna=era una maledizione inviata alla persona con la quale si era verificata qualche alterco.

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Cu tte sequata nnu sciame de vespe=espressione anche questa bonaria, all‟indirizzo di qualcuno o di qualcuna. Cu tte vène pànticu=che ti venga un colpo. Damme nna mentastra ca me dolène i cannavozzi=dammi una caramella alla menta, mi fa male la gola. Damme nnà mozzacata de pane=dammi un morso di pane. Damme nnà ranta d’acqua frisca=dammi un po‟ d‟acqua fresca. Damme nnu baciu a pizzichilli=dammi un bacio pizzicandomi le guance. Damme nnu canceddhru de maranciu=dammi uno spicchio d‟arancio. Damme nnu muteddhu cu inchiu l’oju ntrà buttija=dammi un imbuto per mettere l‟olio nella bottiglia. Damme u nzurfaturu ca aggiu nzurfare a prevàla=prestami la solfalora per irrorare di zolfo la pergola. Da scatìna vè?=torni dal duro lavoro della terra? Datte canza=aspetta un po‟. Ddulurata, damme nna stusciafacce=Addolorata, dmmi un‟asciugamano.

58 Rocco Margiotta

Ddulurata, damme nnu maccaluru de nasu=Addolorata dammi un fazzoletto da naso. Ddulurata, ma cci bboi cu nne pìne pe fessi?=Addolorata, in questo modo ci prenderanno in giro. Dduma a luce!=accendi la luce! De ci è stu falaru?=di chi è questo filare? De notte essène e cattuvivèle=di notte volano i pipistrelli. De quannu face u ccattabbinni è canciatu=da quando ha iniziato a fare il commerciante ha cambiato posizione. De vagnone ttuccatu ffazzu i cazzafricciu=da giovane ho dovuto fare il mestiere dello spaccapietre. De vagnoni sciucavène a furmeddhre=da ragazzi giocavamo a bottoni. Diàmmana mò!=diamine! Dunatu, nnucème nnu mmojucu=Donato, portami un tufo lungo più di un metro. Dopu a fes(i)ta de Santu Pati aggiu ccotu tantu carburiu=dopo la festa di S. Ippazio ho raccolto molta acetilene. Dopu u carcassune su spicciati i fochi=dopo il grosso botto finale si dava termine ai fuochi d‟artificio. E’ bbanutu càniavata?= è venuto tuo cognato?

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E’ bbonu u cannalire ca tei!=non ti soddisfa mai bere. E brunelle me piacene=mi piacciono le susine. E caddhrine e lu caddhru ntrù caddhranaru nun ci suntu cchiui=le galline e il gallo nel pollaio non ci sono più. E cagnu poi!=e caspita poi! E càmise l’aggiu pos(i)te a mmoddhru=le camicie le ho messo a mollo. E capère du pisce i piacène alli catti=delle teste di pesce i gatti sono ghiotti. E case prima e facivène culle petre e cullu mùrtieri=anticamente le case venivano costruite con pietre malta fatta di bolo e calce. E cicore su marostiche=le cicorie sono amarognole. E cisure e llassàmu nicchiariche=lasciamo le campagne incolte. E fiche saccate se mantivène a ntrù padale=i fichi secchi si conservavano nel vaso di argilla. E’ malecrìanza cu nun dici bonasera=è da maleducati non dire buonasera. E castagnole se sunavène u vennardìa santu=le castagnole venivano suonate il venerdì santo. E cci ghiè crisma santa?=cos‟è qualcosa di prezioso? E ficarigne nzanguinate me piacène=mi piacciono i fichi d‟India color sangue.

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E fujazze de fiche saccate se davène alle crape=le foglie secche del fico erano alimento per le capre. E gnàgnele su bbone pe lli porci=delle ghiande si nutrono i maiali. E livène moi nun le vole ciuveddhri=i rami d‟olivo della rimonda non li utilizza più nessuno. E maranciane volène nnu mare de acqua=le melanzane hanno bisogno di molta acqua. E mascise l’à rruvinate a ranana=i campi ad ortofrutta sono stati rovinati dalla grandine. E minchia stu trappune, quanta via a fatta=quanta via ha percorso la talpa. E minchia cci jè anchicàmmuru chiru=esclamazione che indicava colui che aveva le gambe arcuate. E minchia comu scàrùfi=quanto mangi. E minnedemonache è ua duce=l‟uva seno delle monche è dolce, (uva dai chicchi allungati). E’ mmàrsàtu u traìnu=s‟è capovolto il traino. Ehmmò cci bbo faci!=dal levantino maktub, intraducibile, divenuto emmò a significare la più completa arrendevolezza di fronte all‟insormontabilità del volere del destino, del fato. Ehmmò, ccimu ffare!= classica espressione che denuncia l‟impotenza e la rassegnazione di fronte ai casi della vita, una sorta di fatalistica lentezza

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levantina, incline alla rassegnaione o all‟indifferenza passiva, imperturbabile, ironica. Ehmmò, fazza Ddiu!=altra classica denuncia di totale rassegnazione. E’ mpàpagnàta=si è addormentata. E’ mortu l’anchi tortu, ci l’ha sunatu? L’anchi stuccau=è morto lo sciancato ed ha suonato le campane l‟uomo con le gambe storte. Ennà, cci sacciu=non lo so. E’ nna risc(i)tiana de debrusinnu=è una persona di buon senso. E’ nna funnata=è una terra buona, senza ostacoli. E nne faci làvie!=quante smorfie fai! E’ prontu u fumuleu=è pronto lo scavo per le fondamenta. E purnittèle e rrustivène e nne mancavène=arrostivamo le ghiande più grosse e le mangiavamo. E quasette de barba se mantivène i zzappaturi=le calze (fasce di pezza intorno alle gambe) dovevano mettersele le persone che zappavano. Era fattu u purpatagnu e jè scarratu=avevo eretto un muretto ed è caduto. Era nnu càrniale de ris(i)tianu=era un omone grande e grosso.

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E rape aci fèrvene ‘ntrà a farsùra, quadarottu=le rape sbolliscono nel pentola (grossi contenitore di rame utilizzati per cucinare grandi quantitativi di alimenti sul fuoco). E rotu di traini onnu fatte tante bìvele=il passaggio dei traini hanno provocato solchi nelle carreggiate. E sarìche e le sarmènele essène a bbrile=le lucertole e i lucertoloni si fanno vedere ad aprile. E’ ssaccata nna chianta de chiappuru=è seccata una pianta di cappero. E vagnòne mmoscène u vuddhricu=le ragazze fanno vedere l‟ombelico. E’ vvanutu nnu ciddhruzzu e me l’ha dittu=come se un uccellino fosse il latore di una notizia quasi sempre benevola. Fa cibboi sempre fiju meu è=ma sì, è sempre mio figlio. Faci e cose alla fasinfàsò=operi alla carlona. Facivène u rispicu antrù ristucciu e truvavène e spiche de ranu=nelle stoppie andavamo a raccogliere le spighe di grano, (spigolare). Fàlli nnu picca de cànìa alle caddhrine=prepara un po‟ di crusca da dare alle galline. Famme nna curiscia=fammi una cinghia.

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Famme nna porta cu la cattalora=fammi una porta con la buca, per far entrare e uscire il gatto. Famme nnu rinacciu a sti cosi ca s’onnu strazzati=fammi un rammendo ai pantaloni che si sono strappati. Fane nna cùmma allu pane e mintème e rape=fai un incavo al pane e mettimi delle rape. Fane nna ntravujata=fai un rimescolamento. Fane u nafriceddhru a sta tuvaja=era il comando dato dalla mamma alla figlia di provvedere a fare l‟orlo alla tovaglia. Farche bbota, sèntime=sentimi qualche volta. Fenca crai, fencacquannu, fencammoi, fencattantu, fencattannu= fino a domani, fino a quando, fino adesso, fino a tanto, fino ad allora. Fermallòcu!=fermati! Fermu, stai comu nna verdicula=fermo, sei come un‟ortica. Fìama aci dorme=mio figlio sta dormendo. Fiàta cullu fiataluru=soffia col soffietto. Fìata u Pazziu ‘ncè?=c‟è tuo figlio Pazio? Fimmàna cullu ttoppu=donna con ciuffo di capelli legato dietro la nuca. Finalmente aggiu ccommatata a fijia=finalmente ho sistemato la figlia, l‟ho sposata. Fratama se n’è sciutu=mio fratello se n‟è andato.

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Furmine cu tte pija!=che ti prenda un fulmine! Hai cacciatu l’orgialuru=hai l‟orzaiolo, foruncolo sulla palpebra. Hai fatta trasàtura?=ti sei presentato ufficialmente a casa della fidanzata? Hai fattu nnu laccu cullu mieru=hai fatto un lago (del vino versato per terra) col vino. Hai manatu u siu alli scarpuni?=hai spalmato il sego agli scarponi. Hai nnàscatu a robba bbona!=hai fiutato i prodotti buoni. I carròfuli su janchi= i garofani sono bianchi. I cuccuvasci essène a notte=le civette escono di notte. I curciùli di passiri su mpànnati=i piccoli dei passeri hanno messo le prime piume. Iddhru è mpànnatu, mpàpagnàtu=lui, si è addormentato. Iddhru sane mpàppinàtu= egli si è confuso. I curnocchili de fave me piacène=gradisco i baccelli delle fave. I cuzziddhri de mare su sapuriti=le chiocciole di mare sono saporite. I darlampi me fannu mpaurare=i lampi mi mettono paura.

65 Rocco Margiotta

Iddhru àne ncammaratu=egli ha rotto il digiuno del venerd santo. Ieu aggiu caccià a taja=ho portato a termine il mio pezzo di terra, (quando si zappava). Ieu cagnisciu quannu visciu chire cose=mi fa schifo vedere quelle brutture. Ieu me chiamène Pazziu, alla comune m’onnu dicharatu Roccu=io sono chiamato Pazio, ma ufficialmente sono Rocco. Ieu nu me mintu a vannisciare=non sarò io a diffondere la cattiva notizia. I fiji quannu su piccinni te vene a vula cu tti manci, quannu se fannu ranni te trovi pantutu ca nun te l’hai manciati=riferito ai figli: da piccoli sono da amare smisuratamente, da grandi invece , se potessimo, li elimineremmo. Ihi cavaddhru=fermati cavallo. Imu spicciatu de metere e de pasare=abbiamo finito di mietere e di pestare, (abbiamo finito di consumare tutte le disponibilità). Inchi u scarfalettu de focu=metti il fuoco nello scaldaletto. I paratari moi stonnu comu dottori=gli artigiani di muri a secco sono molto apprezzati.

66 Rocco Margiotta

I pasaddhrari e li pasulari li purtavène allu furnu=le piante secche di piselli e di fagioli si portavano al forno. I pasotri nc’erène in tutte e case=i ceppi c‟erano in utte le case, (servivano da sedile). I piezzi stivane nculazza=i tufi stavano nella parte posteriore, (del carro). I povareddhri se facivene fare a cascia de mortu cullu casciune=i poveri, alla morte, dovevano autorizzare l‟utilizzo della cassapanca per farsi approntare il baule. I paseddhri su mmurgiulati=le painte di piselli cominciano a seccare. I pasuli aci ccocculiscène=i fagioli gorgogliano. Isa-isa si sciuti cu rrivi=sei arrivato appena, appena in tempo. Isci=va piano, fermati. I samenti de cummarazzi su ciati=i semi di cocomero sono germogliati. I maluni toi l’aggiu frinquilisciati addhra menzu=le tue angurie le ho lanciate lontano. Intrafore imu fatti vinti quintali de tabbaccu=abbiamo prodotto circa venti quintali di tabacco. I rùcùli s’onno manciatu e salate=le cavallette si son mangiata l‟insalata.

67 Rocco Margiotta

Isti suntu fiji mei=altra espressione tipica latina: „questi sono figli miei‟, in lat.: isti sunt filii mei. Istu è lu brusinnu=questa è la verità. I sulìtri mi mantìa, spritti sullu pane=l‟erba commestibile fritta me la mettevo sul pane. Ità=esclamazione della mamma, o di altri, verso il piccolo, fingendo di scoprirsi il volto, o di comparire da un posto nascosto. I tuzzuni du focu=i tizzoni del fuoco. I vientalaturi stonnu ‘ncora ‘ntrà l’ajara=i ventilatori (chi provvedeva a separare i cereali o i legumi battuti a mano o con altro mezzo dalle scorie) sfruttando proprio le folate di vento. L’acqua aci rispiscia=l‟acqua comincia a bollire. L’acqua te va ntrà spaddrha=espressione tipica dei bevitori incalliti che rifiutano l‟acqua come se questa dovesse provocare qualche supposta malattia polmonare. Jata a tìe=beato te. La fatta dispustatu=l‟ha fattto di proposito. L’aggiu caniscita sta camisa!=ho bruciacchiato la camicia. L’aggiu fatta nna partaccia=l‟ho rimproverato smisuratamente L’aggiu merchisciatu bbonu=le ho suonate, lasciandogli dei lividi.

68 Rocco Margiotta

L’aggiu nchiummàtu bbonu=l‟ho pressato molto bene. L’aggiu spruscinutu=ho tolto la ruggine. L’aggiu spuragnatu=ho tolto il pus. L’annìte me servine a nnotra casa=le impalcature mi servono per un‟altra casa. L’hai mmàppisciata sta màppìna=l‟hai resa raggrinzita e sporca questo canovaccio. L’hai ammassata a pas(i)ta?=hai impastato la farina? La pijatu culla bardasciola=lo ha colpito con u bastone di legno, a volte anche di cuoio. Ironizzando ci si riferiva anche al sesso maschile. L’aria è ddrafascata=il clima è più fresco. L’arvùlu de chiosu è saccatu=l‟albero di gelso è seccato. L’erva de vientu nasce ntri pariti=la paritaria nasce nei muri. L’ha pijatu a nicateddhra=è vittima di tosse convulsa. L’hai fattu u bivarone alla vacca?=hai preparato il pastone per la mucca. L’hai chiantatu u misiricoi?=hai piantato il basilico? L’hai nguacchiatu tuttu u quadernu=hai sporcato tutto il quaderno. L’honnu mpàpucchiàtu=lo hanno imbrogliato.

69 Rocco Margiotta

Libberamusdomine=liberaci o signore, che Dio ce ne liberi. L’irmici vecchi moi custène nnu saccu de sordi=le tegole, embrici, antichi hanno un costo esorbitante. Li vvanuta mancanza=è stato colto da svenimento. Llàssàti ca mmàrannàmu=lasciate di lavorare che facciamo merenda. Llàveme i pedalini ca puzzène=lavami i calzini perché puzzano. Llàvìli bboni chiri piatti se no rimanène nsivati=lavali bene i piatti, altrimenti rimangono unti. Llevène chire rratatìle=togli quelle ragnatele. Llèvene chiri pedàcuni alle cicore=togli le radici alle cicorie. Llèvete chira camasula culla llàvu=togliti la camicia che devo lavarla. Llèvete de cquai c’aggiu bbrustulire l’orgiu=allontanati dal fuoco che devo provvedere a brustolire l‟orzo (l‟orzo sostituiva il caffè nelle famiglie impossibilitate a comprarlo). Llèvete de nanzi mpiastru=scostati, uomo noioso. Llevètène de nanzi, stu capaplasimu=spostàti, questo cataplasma (detto a prsona inefficiente). Llevète, mpàssulatu=scostati, incapace, ingessato. L’occhiu l’aggiu pijatu propriu du cippunaru=il rametto l‟ho preso dalla ceppaia.

70 Rocco Margiotta

Lusciare u cattu=accarezzare il gatto. Luviggi, ‘nchiana sc(i)tu saccu de ranu sulla scansìa e scummùrulu=Luigi, porta questo sacco di grano sù nel granaio e svuotalo. Màcariddìu ca li dici=anche se glielo dici, lo avverti. Ma cci la faci ‘mposta?=domanda che si rivolgeva a chi perseverava in un‟azione ritenuta fastidiosa. Madammane aggiu scire a mare=questa mattina devo andare a mare. M’aggiu bbinchiatu de maccarruni=mi sono abbuffato di pasta asciutta. M’aggiu bbruffacatu i mani=mi sono preso l‟allergia alle mani a causa dell‟acido di fico. M’aggiu brusciatu u cielu da vucca=mi sono bruciato il palato. M’aggiu caruppato=mi sono tagliato i capelli. M’aggiu ccommatàtu=mi sono sistemato. M’aggiu curcatu tante vote su nna lattera=mi sono coricato molte volte su un materasso di paglia. M’aggiu fattu allampede dieci chilometri=ho percorso a piedi dieci chilometri. M’aggiu fattu nnu mmòmmulu ncapu=mi sono provocato un bernoccolo in testa. M’aggiu fatti i caddhrupi alli mani=mi sono provocato i calli alle mani.

71 Rocco Margiotta

M’aggiu manciatu nnu ricioppu de ua=ho mangiato un piccolo grappo d‟uva. M’aggiu misu alla mantagnata ca sentu friddu=mi sono messo al sole, riparato perché ho freddo. M’aggiu ncaddhrisciatu cu sto cquai=mi sono annoiato di stare qui. M’aggiu ncàsciatu de sagne torte=mi sono abbuffato di lasagne casalinghe. M’aggiu nchichirizzàtu sullu pede de fica e ssu cadutu=sono salito sulle cime più alte del fico e sono caduto. M’aggiu ncuvazzatu=mi sono ingozzato. M’aggiu nnudacatu=sono stato colto dall‟emozione. M’aggiu nturtijatu ntri gnommiri=mi sono attorcigliato nei gomitoli, (di cotone). M’aggiu ntrufulatu=mi sono intrufolato, immischiato. M’aggiu vis(i)tu de nnzi nnu tranqualasciune=mi sono visto di fronte una persona alta e sottile. M’è rravatu nnu sbròcculu=mi è arrivato un grosso danno, (di solito, una bolletta con una forte somma da pagare). M’ha data nna pinzogna=mi ha dato un forte pizzico. M’hai fattu nu mercu ncapu=colpendomi in testa mi hai lasciato una cicatrice.

72 Rocco Margiotta

Mamma mia cci favugnu face osci=che caldo vento di scirocco oggi. Mamma comu è mugnulusu stu vagnone=com‟è piagnone questo ragazzo. Manàre e cose nun nne ppe mìe=non sono capace a gettare gli oggetti. M’ane forfacàti i capiddhri=non mi ha fatto un bel taglio di capelli. Mannàggia alli ntrùni!=maledetti vermi! Mannaggia all’osàpedi=maledetti aculei, (pianta selvatica che produce aculei). Mannàggia allu ncrisciamentu vosciu=porca miseria alla vostra pigrizia. Mannàggia quante carpìe=porca miseria quanta lanugine. Mannaggia santunuddhru=mannaggia santo nessuno, (una bestemmia che non era una bestemmia). Mannàggia stu pane sa ntùfatu=porca miseria il pane si è rinsecchito. Manòscia nun se ne trova cchiui comu prima=il novellame di pesce non se ne trova più come prima. Mazzisciare i vagnoni era normale=era normale battere i piccoli. Me custatu marcatu=l‟ho comprato a buon prezzo. Me dole ntrà ncinaja=ho un dolore all‟inguine. Me dole u cutursu=mi fa male la schiena.

73 Rocco Margiotta

Me dole u ntantingulu=mi fa male l‟ugola. Me dole u vangaru=mi fa male il molare. Me mintu cu frisciu paparussi, pisce=mi accingo a friggere peperoni, pesce. Me sembri nnu vardacchiazza=mi sembri un fannullone. Mèna, nchiòva chiru chiovu=sbrigati a inchiodare il chiodo. M’è nnata nna minneddhra sutta u razzu=mi è nata un‟escrescenza sotto il braccio. Me nnuci nna carratizza d’acqua?=mi porti un‟autocisterna d‟acqua? Menu male can un ntartaja cchiu=meno male che non balbetta più. Me piacène e cozze pintuliddhre=mi piacciono le lumachine d‟estate. Me piacène i maranci nzanguinati=mi piacciono le arance sanguigne. Me piace u casu nciràtu=gradisco il formaggio un po‟ duro. Me rravata nna ‘ncianfata=detto di persona che ha ricevuto una folata di vento caldo o di aria maleodorante. Me sentu u nasu nchiummàtu, ncimurràtu=sento il naso chiuso, per il raffrddore, che mi impedisce di respirare.

74 Rocco Margiotta

Me serve nnu carrisciapiezzi=mi è necessario un operaio per il trasporto a spalla dei tufi. Me si passatu de cosc(i)ti e nun ta n’à ccortu=sei passato al mio fianco e non ti sei accorto. Me ssamiji a nnu ccuzzaru=mi sembri una persona stupida, la zucca al posto della testa. Me ssamiji a nnu mccabeu=mi sembri uno stupidone. Me ssamiji a nnu trèfulu=assomigli ad un vento vorticoso. Me ssùta nna mpùddhra alla manu=si è provocata una bolla alla mano. Me ssutu nnu frunchiu sullu nasu=mi è nato un foruncolo sul naso. M’hai ncuddhratu nnu papiellu=mi hai tirato un tior mancino. M’hai nnuttu a ntrà nna scampistra=mi hai condotto in u luogo vasto e aperto. Mina, coppàla coppàla=lancia la boccia lentamente. Mina a minimenzu=lancia per fare centro. Mintème menzu chilu de pisce a ntrù scartocciulu=mettimi mezzo chilo di pesce nel cartoccio. Mintème u spiritu ca m’aggiu fatta nna sìma=mettimi l‟alcool perché mi sono ferito.

75 Rocco Margiotta

Mintète i cosi curti ca face còvutu=mettiti i pantaloncini siccome fa caldo. Mintète i scarpini=mettiti le scarpe eleganti. Minti a scala alla cunucchieddrha=metti la scala alla biforcazione dei rami. Minti a surgiattàla ca nci suntu muti surgi=predisponi la trappola in quanto ci sono molti topi. Minti i piatti ntra piattera=metti i piatti nella piattaia. Minti l’cquua ntra ggiucculatera=metti l‟acqua nella caffèttiera. Minti u calaturu moci essi=chiudi quando esci (calaturu) parte della serratura. Minti u focu ntrù scarfalettu=metti il fuoc nello scaldaletto. Minti u nafriceddhru a stu maccaluru=fai l‟orlo a questo foulard. Minti u vagnone ntru banchettu=(anche) comando che veniva dato a chi accudiva un neonato di collocarlo nel “banchettu” che era un parallelepipedo in legno, con la base e con poggiatesta, simile allo “stompu”, in cui venivano infilati i bambini in fasce, mentre la mamma era indaffarata in faccende domestiche o rurali.

76 Rocco Margiotta

Moci vo’ a S. Marina ttocca mme ccattu e zigareddhre=alla festa di S. Marina a Ruggiano, il 17 luglio, ci si recava in quanto si riteneva che la Santa proteggesse dall‟itterizia ed era doveroso comprare i nastri colorati, „zigareddhre‟, per adornare con queste la bicicletta, i traini, i calesse, ecc. Mo face nna patùrnia=ora si immalinconisce. M’onnu ncùgnatu cquai=mi hanno costretto qui. M’onnu ncùlatu=mi hanno ingannato. Mo chiance stu piccinneddrhu=piange questo piccino. Mo, puru stu scanciune tene a tossa=anche questo ragazzetto si dà delle arie. Mo, stoviniceddhru è scannami pe nnu=questo agnellino lo macelliamo per noi. Mo te cacciu a cetàla=ora ti presento il conto (in modo ironico). Mo te do nnu picozzu=ti dò un pugno in testa. Mo te fazzu nna caucisciata=ora ti do una serie di calcioni. Mo te ncutugnu=ora ti dò tanti pugni in testa. Mo te rria nna carcagnata=attento che ti assesto un calcio. Mo te rria nnu cazzottu=attento che ti dò un pugno sotto il mento.

77 Rocco Margiotta

Mo te rria nnu muffattune, nnu sciacquadenti=attendo che ti dò un manrovescio, un ceffone. Mo te rria nnu muffattune a ntri carzali, carze=ti arriva adesso una sberla sulle mascelle. Mo te rria nnu ricchiale=ti arriva adesso un un colpo all‟orecchio. Mo te stàmpàgnu=ora ti percuoto con violenza. Mo ttocca me faci cradènzia=mi devi dare fiducia, credito. Mpizzùta l’abbisi=appuntisci la matita. Mujerama è ssuta=mia moglie è uscita. Ncàvaddhra l’anche comu nna signùra=accavalla le gambe come una nobildonna. Ncàsetta chira porta ca trase friddu=accosta bene quella porta, altrimenti penetra il freddo. Ncè nnu lummu alla porta=c‟è una deformazione alla porta, una incavatura. Ncera nna fracaja de vagnoni=c‟era un gruppo di piccoli ragazzi indistinti. Nc’era nnu cagnulastru=c‟era un giovinastro. Nchiana sulla scansìa e pija nnu picca de ranu=Sali sulla scansìa (deposito ottenuto nella muraglia al di sopra del focalire, camino). Ncòssàla chira chianta=premi la terra sotto quella pianta.

78 Rocco Margiotta

Nna fietta de cipuddhre, de aji, de fiche=un intreccio, collana, di cipolle, di agli, di fichi. Nna vòta a conza se fatacava cullu roddhrulu=nel passato la malta si lavorava con un attrezzo manuale. Nnna vòta a ricotta sc(i)ante a facivène a casa=nel passato la ricotta forte si produceva domesticamente. Nna vòta i lupranari i purtavène allu furnu=tempo addietro gli stecchi dei lupini si prtavano al forno. Nna vòta ntrà limma nne làvavène=anni fa ci lavavamo nella bacinella. Nna vòta u mieru se manta ntru rsulu=nel passato il vino si metteva nell‟ociolo di creta. Nnu darluttu è salute=l‟erutto è salutare. Nnu giurnu a samana passava u mpàjaseggie=un giorno alla settimana passava il ripara-sedie, impagliatore. Nu tutti sapìvène muncire ntrù munciaturu=non tutti sapevano mungere e dirigere il latte nel recipiente. Nprùvulisciàla cu llu zuccuru chira torta=spolverala di zucchero quella torta. Nui scivène squasati=noi andavamo scalzi. Nui stivane a ntrà scittàla=noi abitavamo in un vico. Nun bboju manciamenti de capu=non desidero preoccupazioni eccessive. Nun c’è u nnudu cquai=qui non c‟è il nodo.

79 Rocco Margiotta

Nun fare cusì ca me rizzechene i carni=non fare così che mi fai accapponare la pelle. Nun ma mancia sta licurda=questa brodaglia non la mangio. Nun me ncicciare=non mi stare troppo addosso. Nun me scafàzzare u pede=non mi calpestare il piede. Nun me tene fame, me piace cu pizzùlisciu=non ho fame, mi piace solo piluccare. Nun misura mancu nnu furcu=non misura nemmeno la distanza tra l‟indice e il pollice. Nun nnè mmèstu una=non ne indovino una. Nun piji riggettu=non riesci a star fermo. Nun se usène cchiu e nciurìte=non si usano più le ingiurie. Ntrà ll’acqua ci suntu i matassari=nell‟acqua ci sono le larve. ‘Ntrè fave ci suntu i favaluri=nelle fave ci sono i tarli. ‘Ntrè pasazze aggiu posti i taraddhri=nella bisaccia ho messo le frise nere. ‘Ntrù ncurtaturu nc’è u ciucciu ttaccatu=l‟asino è fuori, legato nel recinto ‘Ntunucciu, pija chiru zzappune e va sarchia chire cicore ‘ntrù sciardinu=Antonio, prendi la zappetta e vai a smuovere la terra delle cicorie nel giardino.

80 Rocco Margiotta

Nu ddamurare=non tardare. Nun la spicci de strollacare?=non la finisci di brontolare. Nun nne putivène ccummire=non potevamo coricarci per riposare un po‟. Nun boi trasi alla cazzatura=non vuoi addivenire ad un razionale ragionamento, metaforicamente: solco, carreggiata. Nun cunfinfara nenzi=non riesce a concludere. Nun n’era campustaju=c‟era disordine, caos. Nun lli dare retta ca dice cabbaterie=non dargli credito in quanto dice fesserie. Nun me carsare ca sto straccu=non mi scocciare perché sono stanco. Nun me ncicciare=non mi dare fastidio con le tue moine. Nun me ngarbizza=non mi va a genio. Nun me piacène e mbroje=non mi picciono lgi imbrogli. Nun se trovava cchiui campustàju=il disordine era totale. Nu si bbona cu tte tei nnu ciciuru mmucca=non sei capace a mantenere un segeto. Nun te cotulare mutu mo!=non ti dare molte arie, adesso.

81 Rocco Margiotta

Nun te fare cabbu=non giudicare i comportamenti altrui, specialmente negativi. Nnuci nn’asc(i)a=porta una legna per il camino (focalire). Nnucieme nnu trainu de brecciulina= portami un tarino carico di pietrisco. Ntrà cascia ncci su i chiasciuni=nella cassa (di legno dove si conservara il corredo) ci solo le lenzuola. Ntrà l’oju minti nna buratta de sarsa=nell‟olio, versaci una scatola di salsa. Nusterssignu su sciutu alle matine=tre giorni fa sono andato in campagna, (denominata „matine‟). Ogni annu me pija tre-quattro vote a fursione=ogni anno mi prendo il raffreddore tre- quattro volte. Ogni parola, llantava nna castignàta=bestemmiava ad ogni piè sospinto Ogni tantu me piace me fazzu nna fisc(i)ata=di tanto in tanto mi piace fischiare. Ogni tantu passa u murgaru ca ccoje a murga=di tanto in tanto passa il raccoglitore della morchia. Ogni tantu ttocca ddrafiscu=di tanto in tanto devo riposare. Ogni vòta me tocca nna ccappatura=sono sempre impedito da un ostacolo o impedimento.

82 Rocco Margiotta

Osci alla zzita aggiu ccoti menzu chilu de cacai e de cannellini=oggi al seguito della sposa ho raccolto mezzo chilo di confetti più grossi e piccoli. Osci ddalessa doi padate=lessa un po‟ di patate per oggi. Osci facimu u cchiancatu=oggi provvederemo a lastricare il tetto con le le cianche. Osci m’aggiu bbinchiatu=oggi mi sono saziato oltremisura. Osci m’aggiu fatta a gnata=oggi ho fatto il vaccino. Osci nenti manora=oggi niente la primizia della ricotta, per punizione verso bambini e ragazzi . Osci nun nc’era u manieri=oggi non c‟era il responsabile dei rimondatori. Osci nun se fannu cchiu mannucchiare=oggi non è più necessario accumulare covoni di grano. Osci nun se pote jentulare, non c’è ientu=oggi non si può ventilare, non soffia il vento. Osci nun tegnu appetitu=oggi non mi va di mangiare. Osci se ddasciuna=oggi si digiuna. Passa ca è manzu, non te tocca no=passa tranquillamente, è un animale mansueto. Pati, mpàna sta vitarella=Pati, avvita questa piccola vite.

83 Rocco Margiotta

Paziu nnuci nna menza d’acqua=Pazio, porta una brocca (di latta) d‟acqua. Pe lla liàma serve a bujacca=per il solaio serve un impasto cementizio molto liquido. Percè si ddamuratu?=perché hai fatto tardi? Pija nna furcata=prendi una forca. Pijala cullu cuppinu=prendila con il mestolo. Pija u ddacquaturu e d’acqua chiri paparussi=prendi l‟innaffatoio e innaffia i peperoni. Pija u labbisi ca me serve=prendimi la matita. Percè manora tocca sempre a iddhru?=perché la ricotta del siero viene data sempre a lui? Percè hai fattu chiru cucuruzzu de petre?=perché hai realizzato quel cumulo di pietre? Porgeme u mbrella ca chiove=porgimi l‟ombrello perché piove. Porta chiru cannizzu de fiche sulla liàma=porta il porta-fichi sul solaio. Portème a mannara, Michieli=Michele, portami l‟accetta per i tufi. Portème a ncuddhrizzi=portami sulle spalle. Portème nnu cavallozzu=portami sulle spalle, come su un cavallo. Nun ncè nna mappinna cu mne stusciu=non c‟è uno strofinaccio per asciugarmi.

84 Rocco Margiotta

Primu cu cchianti i pummàdori ttocca lli faci a salamure=prima di piantare i pomodori è necessario immergerli nella salamoia. Nu sciati ddhrai ca esse l’occhiatura=era divieto rivolto ai bambini o ragazzi per impedire di entrare in qualche luogo buio e pericoloso; l‟occhiatura, un‟immagine fantastica con la quale si indicava anche il ritrovamento di un tesoro,sic!, ma quale tesoro si diceva: Chiru sta comu quannu ca ha truvata l’occhiatura. Paulucciu chianta nnu picca de lacciu=Paolino pianta una piantina di sedano. Paulucciu chianta nnu picca de misiricoi=Paolino pianta un po‟ di basilico. Paziu, vane allu putàchinu e ccatta u sale=Pazio, vai alla rivendita a comprare il sale. Paziu, va pija nnu misureddhru de ojiu=Pazio vai a riempire un po‟ d‟olio con l‟oliera. Paziu, nnùcème nnu ferrazzulu=Pazio, portàmi una corda. (spago o corda robusta). Pe lle fraseddhre nci volene doi cutture=per le frise è necessaria una doppia cottura. Pescriddhri, pescroddhri vegnu=verrò fra tre, fra quattro giorni. Pija a rattacasa e ratta u casu=prendi la grattugia e gratta il formaggio.

85 Rocco Margiotta

Pija u litrattu du nonnu da taciera=prendi la foto del nonno dalla taciera (mobiletto sul quale si sistemavano foto varie e ninnoli). Porti nna senàca=sei un avaraccio. Pozzu avìre nna manescia de sèviche?=posso avere una pietanza di bietole? Pozzu vanire pescrai=posso venire dopodomani Pozzu vanire pescriddhri=posso venire l‟altro dopodomani. Primu a lana se quatisciava a mmare=nel passato la lana si lavava a mare pestandola con i piedi. Primu muti risc(i)tiani tanivène i prudiceddhri=nel passato molte persone avevano i geloni. Primu se criscivène tante puddhrasce=nel passato si allevavano molte pollastrelle. Puru e quasette s’onnu strazzate=anche le calze si sono strappate. Puru sti sc(i)attareddhri nnà taràti?=hai raccolto anche questi fichi non maturi. Puru stu frasciulu nc’era d’essere=ci doveva essere anche questo piccolino. Quannucivène vò a Parigi=l‟anno venturo andrò a Parigi. Quannu ccujivène l’ua nnè manciavène i ricioppi=quando raccoglievamo l‟uva, mangiavamo i racimoli.

86 Rocco Margiotta

Quannu nne portène a Santu Lasi vor dire ca simu morti=quando siamo condotti a S. Lasi (a Tiggiano la zona del cimitero) vuol dire che siamo morti. Quannu passava u mbrellaru a mamma ccattava e cuceddhre pe llu tabaccu=quando passava il riparatore d‟ombrelli, mia madre comprava gli aghi per infilare il tabacco. Quannu putavène nui erene ccujire e rammène=quando si potava, noi dovevamo raccogliere i piccoli rami d‟olivo. Quannu zappi ttocca tti minti e quasette de barba=quando si zappa è necessario rivestire le gambe di panni altrimenti ci si sporca i pantaloni. Quanta acqua à ddavacata stanotte=quanta abbondanza di pioggia questa notte. Quanta fessagginità=molta ignoranza. Quante malote nci su a casa mia=quanti scarfaggi ci sono a casa mia. Quanti famazzi aci fazzu=quanti sbadigli sto facendo. Quanti malunceddhri ha ccoti=quanti piccoli mellone ha raccolto. Quantu mieru ta vipputu stasira?=quanto vino hai bevuto questa sera. Queta, ca me rratiddhrucu=ferma perché mi fai il solletico.

87 Rocco Margiotta

Sarvatòra, stasira ttocca bbai tìe alla Madonna=Salvatora, questa sera devi andare tu a dislocare la Madonna. S’a fatta a còzzica=(la ferita) si è trasformata in crosta. S’a sc(i)trazzatu nnu chiasciune=s‟è rotto un lenzuolo. S’a cunzumatu u limmatare=s‟è consumata la soglia di casa. S’ane scutursàtu=si è rotto la schiena, (per il lavoro). S’a spazzatu u furticiddhru da seggia=s‟è rotta la traversa della sedia. S’ane mpèrnacchiàtu=si è esaltato da sé. S’ane ncapunitu=si è intestardito. Scàpulati mo=lasciate di lavorare. Scia sempre comu nnu zinzulusu=vestiva sempre com un cencioso. Sciamu ca sciucamu a còchele=andiamo a giocare a bocce. Sciaràppa!=fermo, non mi molestare, altrimenti! Sciucamu alli lapuni=giochiamo alle nove buche. Se nun lu minti allu nzùrfuriu, u ranu ncànnèddhra=se non lo tratti con lo zolfo il grano produce i bachi.

88 Rocco Margiotta

Se sapivi u nanzi bbanire, sì=era la sconsolata considerazione nei confronti dell‟imprevedibilità della sorte. S’era ‘nfortacata a camisa=si era rimboccato le maniche della camicia. S’era scioculisciatu tuttu=si era indolenzito tutto il corpo. Se vinciu vo ginucchiuni alla chiesia=se vincerò andrò ginocchioni in chiesa. Si bbonu sulu cu sciji tuttu=sei solo capace a mettere disordine. Si nfessùlutu tuttu=sei proprio diventato scemo. Si rravatu ffannisciannu=sei arrivato affannato. Simu rravati allu domissubbiscu=siamo arrivati al dunque, alla conclusione, (dominus vobiscum). Sinti nnà crepazzione, sc(i)attazzione!=sei una disperazione, tormento! Sinti nnu cannavuzzutu=sei un goloso, ingordo. Sinti nnu capidemazza, capidezzaru=hai la testa dura come una mazza o come l‟acciaio. Sinti nnu màzzaru, scarufaterra=sei una persona rozza, zoticone, contadino sempre sporco. Sinti nnu scazzàmurredhru=sei un folletto dispettoso. Sinti nnu sicchimennonne=sei un indeciso. Sinti nnu talornu=sei un una persona petulante.

89 Rocco Margiotta

Sinti nnu tiraturu=sei un tiretto, un rompiscatole. Sinti propriu nnu cannarutu=sei proprio goloso. Sinti propriu nnu fojamisch(i)e= sei proprio un imbroglione (bonario). Sinti propriu nnu llelliri=sei proprio un uomo leggero, senza furbizia. Sinti propriu nnu maccarrune=sei proprio uno stupido. Sinti rrasanatu=sei proprio secco-secco. Sinti sempre suturnu=sei sempre taciturno. Sinti statu bbonu a picca timpu cu fòffuli diecimila lire=sei stato capace in poco tempo a sperperare diecimila lire. Si propriu ngàlanatu=sei proprio sciupato. Si propriu strèùsu=sei proprio strano. Sirma facìa a samente de cicora cullu maju=mio padre otteneva i semi di ciocoria col maglio. Sirma è davantatu ormai terra pe ciciri=mio padre è ormai terra buona per i ceci, è morto da molto tempo. Sirma se chiamva Paulucciu comu nonnasa=mio padre si chiamava Paolino come il suo nonno. Sirma sembrijacava a duminaca=mio padre si ubriacava la domenica.

90 Rocco Margiotta

Sirma u chiamavène tutti cu ttacca sarcène=mio padre veniva pagato a giornata per legare i rami d‟olivo della rimonda e farne fascine. Spezza nna còna de vulìa=spezza un ramo d‟ulivo. Ssamija a nnu capittummnune=sembra una persona schiva, timida. Ssamiji a nnu baccalà=assomigli ad una persona stupida. Ssamiji a nnu lupusurdu=assomigli ad persona interessata solo di sé. Ssamiji a nnu nfertu=assomigli ad un poveraccio. SSamiji a nnu piru nafddhrutu=assomigli ad una pera non sviluppatasi. Ssamiji a nnu sciammerga=assomigli a persona trasandata. Ssamija a nnu serpe lèscitu=somiglia ad una serpe brutta a vedersi, ma non velenosa. Sseqquete cu me scordu, se no vegnu=solo se mi dimenticassi, altrimenti verrò. Sta cucumeddhra=questa piccola trottola di legno, detto di donna molto bassa e grassoccia. Sta comu nnu bbuzzaccu=è una persona panciuta. Sta comu quannu è passatu u scàrcàgnulu=è come se ci fosse stato un vortice di vento. Stai comu nnu ballanzarti=sei ua persona altalenante.

91 Rocco Margiotta

Stai commu nnu mammocciu=sembri un bamboccio, imbecille. Stai comu nnu fiju spamijatu=mi sembri un figlio trovatello, estraneo alla famiglia. Stai propriu comu nnu babbione=assomigli proprio ad uno sciocco. Stai comu nna trama lesa=sei un rammollito. Stai comu nnu cataplasimu=assomigli ad un cataplasma, ad un impiastro, detto di persona insignificante. Stai comu nnu ntostulatu=sei irrigidito. Stai propriu cu cchira misìa=attendi proprio quel piccolo e misero dono. Stai propriu nicmurratu=sei molto raffreddato. Sta mila è mbermanuta=questa mela ha il bruco dentro. Stammane me ssamiji a nna macara=questa mattina assomigli ad una fattucchiera. Stane comu nnu mpòsimàtu=è una persona irrigidita. Stanotte aggiu ntìsu u ceddhru da morte=questa notte ho sentito la civetta. Stanotte imu ntisu u cistareddhru=questa notte abbiamo sentito il verso del gheppio, gufo.

92 Rocco Margiotta

Stanotte m’agiu curcatu sutta nnu mbracchiu pel li mluni=questa notte mi sono coricato sotto un riparo di fortuna per far la guardia alle angurie. Stanotte sciamu alle cavure=questa notte andiamo a pescare granchi. Stasira brusciamu a caremma=questa sera bruceremo la caremma (pupa vestita di lutto che veniva bruciata alla fine della quaresima). Stasira ta fattu a luta=questa ti sei ubriacato, sei come la mota, il fango. Stou picciusu=sono nervosetto. Sttate ncortu adunca minti i pedi se no mmutti ntrà moja=stai attento dove metti i piedi, altrimenti li metti nel fango. Sta via ttocca se nfriccia=questa strada deve essere riassestata con breccia. Statte ncortu sica te pizzica a fòrfaca=stai attento a non farti pizzicare dalla scolopendra. Ste cipuddhre su ntaddhrate=queste cipolle hanno il tallo. Ste scarpe m’onnu ffattu e mpuddhre alli pedi=queste scarpe mi hanno provocato le bolle, le vesciche ai piedi. Sti ciciri su crudei=i ceci sono di difficile cottura. Sti covùli se l’honnu manciati e càmpie=i cavoli sono stati attaccati dai bruchi.

93 Rocco Margiotta

Sc(i)tonnu mutu ncutti ncutti=sono vicini vicini. Sc(i)tu pane è mpàlummùtu=questo pane è ammuffito. Stu malune è mpràsciunàtu=quest‟anguira è marcia. Stu spilorciu!=questo tirchio! Su bbone e cànasce ca tè!=sono robuste le tue mascelle! Su cadutu pe llu lippu=sono caduto a causa dello strato scivoloso. Su cadutu ventriddotu=sono caduto con la pancia in giù. Su ggiuncatu, ssattatu=sono rattrappito stando seduto. Su ncapuzzàtu a nnanti=sono caduto in avanti con la testa in giù. Su ncàrnàtu a stu sciocu=mi sono appassionato a questo gioco. Sulla camisa tei nna lampa d’ojiu=sulla camicia una macchia d‟olio. Su nchianàta sulla liama cu spannu e rrobbe=son salita sulla terrazza a stendere la biancheria. Su nchiatu comu nna vutte=sono gonfio come una botte. Su nfrizzùlatu=sono intirizzito. Su rrimastu frasturnatu=sono rimasto confuso.

94 Rocco Margiotta

Su rrimastu mpeèdacunàtu=sono rimasto impalato, fermo. Su tuttu nfussu=sono completamente bagnato. Stu jussu ‘nc’èra cinquecento anni rreta=questo diritto risale a cinquecento anni fa. Stu vagnone sta comu nn’ommaneddhru=piccolo uomo, ragazzo che dalle fattezze somatiche sembra avviarsi velocemente a diventare un uomo. Taja ccquai culli forfici=taglia qui con le forbici. Taja stu ramu ca è nzaccarutu=taglia questo ramo perché secco. Taja stu nzàrtu=taglia questa fune. T’aggiu squisciatu=ti ho sfiorato. T’hai chinu u cuvazzu=ti sei ingozzato bene. T’hai cumminatu comu nnu cciommu=sei combinato male. T’hai fattu nfanucchiàre=ti sei fatto imbrogliare. T’hai stracallatu stasira=ti sei vestito a festa questa sera. Tanìa nna cilona=avevo una tartaruga. Tanìa nna citilena a carburiu=possedevo una lampada ad acetilene. Tanìa nna scupranara=possedevo scopa molto rozza. Tata, sa ruttu nnu capasune=papà si è rotto il capasune (groso vaso di terracotta dal ventre rigonfio

95 Rocco Margiotta

con due anse che serviva per conservare fichi secchi, frise, taralli, grano, piselli, ecc.) Tata, ttocca mme ccattu l’abbisi novu=papà mi devo comprare una nuova matita, sempre “u tata” (papà) rispondeva:l’hai cunsumata già, ci ta criatu! Te auguru nna bonasorta=ti auguro buona fortuna, una sorte favorevole. Te canusciu parazzu=ti conosco da piccolo, sin dall‟origine. Te ffranchi cu bbè=risparmiati la venuta. Tei e pitite come e caddhrine=hai le pitite, piccoli sollevamenti della pelle sulle mani. Tei nna tecca!=hai un vizio! Tegnu nna calime osci!=oggi mi sento infiacchito. Tegnu nna cunsòla de mama=possiedo una consolle appartenuta a mia madre. Tegnu nnu parròzzulu ncapu=in testa mi ritrovo un bitorzolo. Tegnu nnu pede de cornàla vecchiu=possiedo un vecchio albero di carrubo. Tei nna spìrpa de tòvàla=possiedi una tavola piccola e sottile. Tei propriu nna facce de ncùtana=hai proprio il viso duro come l‟incudine, (sei proprio disubbidiente). Tene tante facente u fiju meu=mio figlio ha molto da fare.

96 Rocco Margiotta

Te nna dittòlica osci!=sei logorreo oggi, prli troppo. Te propiu nna capu de zzaru=hai la testa dura come l‟acciaio. Teresa, ccoji chira ricotta e mintàla ntrà fisc(i)a=Teresa, raccogli quella ricotta e sistemala nella portaricotta (contenitore di vimini). Terra scàpula, scàpula=terra non coltivata, giorno dopo la festa. Te vivi puru e scolature=bevi anche i rimasugli. T’hai mmutatu osci=ti sei messo a nuovo oggi. T’hai mpernacchiatu stasira=ti sei agghindato oltre le tue possibilità questa sera. T’hai ntolettata osci=ti sei vestita a festa oggi. T’hai posta nna pimpinella=ti sei messo un vestito leggerissimo, inadatto. T’hai propriu mmùrtulàtu=ti sei proprio comportato per bene. Tiempu rrèta nne manciavène i pùpili a pulenta=anni fa mangiavamo la polenta di granoturco. Tie rrivi sempre all’accurrenzia=arrivi sempre nelle occasioni più opportune. Tie si bbonu cu faci u cacchiu pe le sariche?=sei capace fare il cappio? (stelo di biada, anche selvatica) per catturare le lucertole. Tinotru poi!=anche tu, poi!

97 Rocco Margiotta

Tirane chire rratatile de ddrhai=togli quelle ragnatele di là. Tonnu futtutu=ti hanno fregato. Ttocca bbo allu cessu=devo andare al bagno. Ttocca bbo allu ccumpagnamentu=devo andare al funerale. Ttocca cu bbo taju chire rappe d’ua=devo andare a tagliare quei grappoli d‟uva. Ttocca ccattu nna buttazzola pellu mieru=devo comprare una botticella per il vino. Ttocca cavitàmu=dobbiamo risparmiare. Ttocca ccunzamu l’artarinu pe lu Corpu Domini= bisogna apparecchiare l‟altarino per il Corpus Domini. Ttocca chiamu i munnàturi cu me mmùnnène e vulìe=devo chiamare i rimondatori per farmi rimondare le olive. Ttocca chiamu nnu cazzafattaru cu me face e cazzafitte=devo dare incarico ad un intonacatore per provvedere all‟intonaco. Ttocca conzu i cuvarnimenti du cavaddhru=devo riparare i finimenti del cavallo. Ttocca facimu nnu picca de cacchiame pel li letti=è necessario procurarci un po‟ di paglia (lunga) d‟orzo per riempire i sacconi del letto. Ttocca fazzu a bona crìanza=devo provvedere a fare un gesto di riguardo.

98 Rocco Margiotta

Ttocca fazzu e presumìe a caniatàma=devo preparare il pranzo a mia cognata perché è di lutto. Ttocca lli facimu a bricazione=dobbiamo ringraziarlo per il favore fattoci. Ttocca me stiri a camisa ca s’a rrappata=devi stirarmi la camicia perché si è raggrinzita. Ttocca tte ccuvi=devo piegarti. Ttocca portu a sciumenta allu ferraciucci=devo portare la giumenta al maniscalco. Ttocca spàràgnàmu=dobbiamo risparmiare. Ttocca ttu vivi ‘nforza se no nun te passa=è necessario berlo, (uno sciroppo amaro) anche contro voglia per poter guarire. Ttuccatu cu portu tuu i ncàrtamenti=ho dovuto portare tutta la documentazione. Ttuccava cu mbirci cu nfili l’acu=bisognava fissare attentamente per infilare l‟ago. Ttuccava ncàrcagnàmu=dovevamo darcela a gambe. Quannu me scòccula a capu…=quando mi perdo la pazienza… Quannu bbuscavène e scoppule ttuccàva cu nne stamu citti=ricevevamo gli scappellotti e non dovevamo fiatare. Quistu tutt’osci m’a fatta bbalire=questi tutt‟oggi mi ha fatto avvilire, arrabbiare a dismisura.

99 Rocco Margiotta

Quista è ua brunesta=questa è uva non ancora matura, dal colore ancora verdognolo. U brustulaturu sa spazzatu=l‟abbrustolitore (cilindretto girevole, in cui si metteva l‟orzo da abbrustolire sul fuoco) si è rotto. U cafè meu mintumu ntra chiccara ranne=il mio caffè mettilo nella tazza grande. U casu mintulu sulla ggiumanìa=il formaggio mettilo sul camino, ripiano d‟appoggio. U cattu è crettu=è morto il gatto. U chiuppu du tabaccu è bellu sprittu=l‟involucro di tabacco è ben secco. U cocciulu di pummadori nun lu manamu ntrà terra=i resti della passata del pomodoro non vanno abbandonati nella terra. U conzalimmi, u conzacòfini, u conzambrelli, u conzasegge crai passa=il riparatore di vasi, di vasi più grandi, di ombrelli, di sedie passerà domani. U cummarazzu nun sape de nenti=il cocomero non ha sapore. U cutrubbu de Papa Caliazzu=il grosso vaso di Papa Galeazzo. U darloce da chiesia à sunata menzadìa=l‟orologio della chiesa ha suonato mezzogiorno. U ficàtale du porcu è bbonu=il fegato e le interiora del maiale sono ottimi.

100 Rocco Margiotta

U giustacofini!=il riparatore di vasi di terracotta! U Giuvanni sprentapiche abita ntrà nnu cafùrchiu=Giovanni (che tira fuori le interiore alle cornacchie) abita in un tugurio. U lènu me facìa rattare=le polvere sottile di paglia o di fieno mi dava prurito. U lucignu ntrà luciarneddhra aci se spiccia=il lucignolo nella piccola lucerna sta per esaurirsi. U mmulaforbici, a ci ha mmulare i forbici!=l‟arrotino, chi deve arrotare le forbici! U mortu l’imu misu ‘ntru baùju=il morto è stato messo nel baule. U nachiru du trappitu comandava i trappatari e pijava l’oju cullu nappu=il capo dei frantoiani dava ordini agli operai e selezionava l‟olio col nappo. U nafriceddhru me l’aggiu mparatu a ffare quannus cia allu sartore=ho imparato a fare l‟orlo alle stoffe quando andavo dal sarto ad imparare. U naseddhru se manta alli scenchi=il ferro a staffa si metteva nelle narici dei vitelli. U nonnu Affonziu sapìa tanti culacchi=il nonno Alfonso conosceva tanti racconti fantastici. U pane sa brusc(i)catu=il è si è bruciacchiato. U pane stane ntra mattrabanca=il pane si trova nella madia.

101 Rocco Margiotta

U pede da lummìa aci sicca=l‟albero dei limone sta seccando. U pipe se pasava a ntrù murtàru cullu pisaturu=il pepe si riduceva in polvere col pestello nel mortaio. U pisce l’aggiu ccattatu du jatacaru=ho comprato il pesce dall‟acquirente all‟ingrosso. U puzzunettu s’ha scasciatu=il paiolo si è rotto. U ranocculu se ne sciutu=la rana si è allontanata. U ranu tene u bbafune=il grano è stato attaccato dalla muffa, un parassita del grano. U sciuscettu meu è dàvantatu ranne=il mio figlioccio è grande ormai. U scurisciatu de sirma tanìa nna puntetta…=lo scudiscio di mio padre era dotato di uan punta terminale… U signurinu aci vene cullu birocciu=il signore sta arrivando i calesse, barroccio. U spirdu du tabbaccu=il calo del tabacco. U state ‘nci suntu mute musc(i)he e ttocca pumpisciamu cullu flitti=d‟estate ci sono molte mosche e bisogna spruzzare insetticida. U tragnu de fore=il secchio di campagna. U vagnone nun tène u sciupparaddhruzzu=al neonato manca la camiciòla. U valanu era straccatu=il bifolco era stanco.

102 Rocco Margiotta

U vennardìa santu i vagnoni sunavene culle castagnole=il venerdì santo, i ragazzi suonavano le nacchere. U vennardìa santu sunavène a trancascia= il venerdì santo sonavamo la grancassa. U voi nnu bicchiarinu de rosolio=posso offrirti un bicchiere di rosolio, liquore. U zoccature facìa i piezzi=il cavamonti produceva i tufi. Vabbanne ca se nò stasira te stoccu=era la minaccia di qualcuno, di solito verso un ragazzo, in seguito a qualche marachella compiuta. Va a ddhra mesciu Pati e dumannulu se è rravata a mòtàna=anche questo era un espediente giocoso: si mandava un ragazzo, di solito un po‟ sventato, in una putea (apoteke, greco) di:calzolaio, sarto, falegname, e si fingeva di chiedere della “mòtàna”, qualcosa di fantasioso inesistente. L‟artigiano destinatario, naturalmente avvertito del gioco, rinviava il ragazzo al mittente con un altro messaggio fantasioso, privo di alcuna realtà. Va a ddhra mesciu Franciscu e dì cu tte dà u ntartè=vai dal maestro Francesco e cerca (u ntartè) era qualcosa di inesistente, era una burla, alla quale venivano sottoposti i ragazzi che frequentavano le botteghe artigianali.

103 Rocco Margiotta

Vaffanculo aci face rànana=maledizione sta grandinando. Vaffanculo a tutta la strappina=vai…con tutta la tua discendenza. Vane ddrha cummare Pascalina e fatte dare nnà rancateddhra de sale=vai dalla comare Pasqualina e fatti dare un pugno di sale. Vane a fafottere!=vai al diavolo! Vane a ntrù ncurtàturu e cuverna i porci=vai nel piccolo capanno e dai da mangiare ai maiali. Varda chiru arù s’ane mpipirizzatu=guarda quegli dove è riuscito a salire. Voju nn’ovu quajatu=desidero un uovo appena rappreso. Zzicca u vagnone ‘mbrazze’, nun senti ca aci chiance=prendi il bambino in braccia perchè sta piangendo.

104 Rocco Margiotta

Proverbi Tiggianesi. A caddhrina face l’ovu e allu caddrhu i vusc(i)ca u culu=la gallina espelle l‟uovo e si sente male il gallo. A ci fatica nna sarda a ci no una e menza=chi lavora guadagna una sarda, chi non lavora una e mezza. A ci tantu e a ci nenzi=a chi molto e a chi niente. Acqua e scelu nun rimanène n‟cielu=acqua e gelo non rimangono in cielo. A cocuzza se cucina cu l’acqua sua stessa=la zucchina si cucina senza acqua. A cumpagnìa te porta a male via=la compgnìa ti può indurti a cattive strade. A fattu u passu cchiu longu de l’anca=ha fatto un passo sproporzionato alle sue gambe. A lume de cannila, ogni canuvacciu pare tila=nella penombra un lavoro realizzato sembra perfetto, ma alla luce invece……... Alli santi vecchi nun se ddùma a cannìla=ai vecchi santi non si accende la candela. Annu bisestile cu nu pozza mai vanire=l‟anno bisestile sarebbe bene che non capitasse mai. A Pasca cu lli toi, a Natale cu ci voi=Pasqua trascorrila con i tuoi parenti, a Natale con chi vuoi. Arcu de sira u tiempu scincira, arcu de mmane u tiempu nun ‘mbale=si pensava che se l‟arcobaleno si

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formava di sera il giorno successivo il tempo sarebbe stato bello, se invece l‟arcobaleno fosse apparso di mattina il tempo sarebbe peggiorato. A ricchezza du povareddu è cu sse bbinchia d’acqua frisca d’inviernu=detto ironico, in quanto il povero non poteva permettersi di avere acqua fresca d‟estate. A tie fija dicu e tie nora senti=si riferiva a quando la suocera intendeva richiamare la nuora., per interposta persona. Batti u fierru quannu è covùtu=batti il ferro finchè è caldo. Cane scovatàtu, time l’acqua covàta=il cane rimasto scosso dall‟acqua bollente, teme anche l‟acqua calda. Capiddhri longhi, cervellu curtu=capelli lunghi, cervello corto. Capu de zzaru=testa d‟acciaio. Casa quantu copri, terra quantu scopri=una casa piccola è sufficiente, la terra deve essere abbondante. Cvaddrhu dunatu, nun mbole vardatu=a caval donato non si guarda in bocca. Cchiu se sape e cchiui se pate=quanto più sai, più soffri. Chiru ca pe ttìe nnu bboi, all’otri nu ffare=quello che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri.

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Ci fatica nna sarda, ci no una e menza=chi lavora guadagna il giusto, chi non lavora guadagna molto di più. Ci fiji e ci fijasci=alcuni sono trattati da figli, altri da figliastri. Ci la face, la penza=chi la fa, la pensa. Ci ll’assa a via vecchia pe lla nova, sape cci llassa ma nun sape cci trova=colui che trascura la via conosciuta per quella sconosciuta, sa quello che lascia ma non può sapere quello che troverà. Ci mmoscia gode,ci vide sc(i)atta=chi fa vedere gode, chi guarda scoppia dal desiderio. Ci se vanta sulu, nun bbale nnu pasùlu=chi si dà da solo delle arie, non vale nulla. Ci sparte ricchezza, torna povertà=chi divide le sue ricchezze, torno povero. Ci t’ha criatu!=chi ti ha fatto nascere! Ci te sape, te rape=chi ti conosce, ti sfrutta. Ci mutu vole, nenti strince=chi molto pretende, niente raccoglie. Ccoji l’acqua quannu chiove=invito ad approfittare delle piogge per rifornire le cisterne, metaforicamente, invito ad approfittarne delle occasioni favorevoli. Ccucchiète culli meju de tie e falli e spese=stai con quelli migliori di te e pagane anche le spese. Chiru ca llassi è persu=ciò che lasci è perduto.

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Ci camina llicca, ci sta a casa sicca=colui si muove trova da vivere, chi non lo fa muore misero. Ci ddùmanni trovi=se chiedi puoi risolvere. Ci frabbàca e sprabbàca nun perde mai tiempu=chi costruisce e ricostruisce non perde mai tempo. Ci nun sente i soi, se ne pente poi=chi non ascolta i consigli dei familiari, si pentirà dopo. Ciuveddhri nasce mparatu=nessuno nasce imparato. Coiuru de l’otri, curiscia larga=lett. Col cuoi altrui ci si ritaglia una cintura larga; a spese degli altri sappiamo essere spendaccioni. Comu a faci a canni=qualsiasi cosa tu faccia, sbagli sempre. Comu spenni manci=mangi come spendi. Comu te voti te bbrusci=come ti giri ti bruci. Comu vane vane e comu vene vene=come va va e come viene viene. Cosa mpristata è menza regalata=la cosa che viene prestata è mezza regalata. Culi de caddhrina hai manciatu, stai sempre cuntannu?=Parlo molto, hi mangiato sederi di gallina? Culla muttura non ne inchi sc(i)terna=servono attività fondamentali per vivere bene, come la rugiada non incanala acqua nella cisterna.

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Cullu pane de l’otri nun te bbinchi mai=col pane degli altri, non sarai mai soddisfatto. Culle parole nun inchi panza=con le sole parole, non riesci a mangiare. Cunta quannu piscai a caddhrina=parla quando urina la gallina. Curnùtu, vattùtu e cacciatu de casa=cornuto, picchiato e mandato via da casa. Cu te cascia nna coccia=che ti possa accadere un accidente. Da a capu nfatisce u pisce=chi comanda dà il cattivo esempio. Da Cannalora de l’inviernu simu fora, ma se chiove e tira vientu de l’inviernu simu dentru=della Candelora l‟inverno comincia a finire, ma se piove e c‟è vento, l‟inverno non è ancora passato. De nna sciumenta cammara nun te pijare a fija ca se nunnè tutta cammara, a mammasa ssamija=non sposare la figlia di una madre poco di buono, che se non è tale la madre, sicuramente lo sarà la figlia. Ddiu li face e lu diavulu li ccucchia=Dio li crea e il diavolo li accoppia. Ddiu vide e pruvvide=Dio vede e provvede. Ddoi pedi ntrà nna scarpa nun ponnu stare=due piedi in una sola scarpa non possono stare.

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Ddùmannànnu ddùmannànnu rrivi a Roma=chiedendo informazioni puoi arrivare a Roma. De Pasca Bbifanìa tutte le feste vannu via, mo rispunne Santu Pati e mìe a cci me ll’assati, rispunne a Cannalora ncì su jeu e lu Biasi ncòra=La Befana porta via tutte le feste, S. Ippazio dice che c‟è ancora la sua festa, risponde la Candelora che ancora c‟è da festeggiare lei e S. Biagio. De Santa Lucia u giurnu ncurt’a quantu lu pullu lu pede stannìa=il giorno di Santa Lucia il giorno diventa tanto corto quanto il passo di un pollo. De Santa Marina a menguala è china=Di Santa marina la mandorla è piena. De Santu Larenzu u noce è menzu=di San Lorenzo il noce è a metà. Dopu li confetti se scoprène li difetti=dopo i confetti si scoprono i difetti. E’ cchiu forte cu la penzi ca culla faci=finchè pensi l‟hai già fatta. E’ cchiu a spesa de l’impresa=è più grande la spesa dell‟affare. E nna fritti bburpi!=è molto esperta in amore. Fane comu u prevète dice nu comu uu prevète face=fai come il prete dice, no come egli si comporta. Faci u fessa cu nu pachi e tasse=fingi di essere fesso per non pagare le tasse.

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Fane bbene e scòrdète, fane male e penza=quando fai del bene puoi dimenticare, quando fai del male ti rimane il rimorso. Focu de fica=fuoco poco consistente. Forte jè cu ti piji na numinàta=tutto sta a prendere una nomea. Friscennu, manciannu=si frigge e contemporaneamente si mangia. Gira ca vidi, vòta ca trovi=se giri vedi, se cerchi trovi. I capiddhri da fimmàna su longhi, u sensu è curtu=i capelli della donna sono lunghi, l‟intelligenza è corta. I guai da pignata i sape a cucchiara ca li vota=i problemi di vita li conosce bene solo chi ha fatto esperienza, come il cucchiaione conosce il patimento della pentola sul fuoco. I guai da pignata i sape a cucchiara ca li vota=i problemi di vita li conosce bene solo chi ha fatto esperienza, come il cucchiaione conosce il patimento della pentola sul fuoco. I guai nun venène mai suli=i guai non sono mai solitari. Lampu e furmine!=lampo e fulmine. L’anima tt’esse!=che ti esca l‟anima dal corpo.

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L’arte de lu tata è menza mparata=se si segue il mestiere del padre si è favoriti nell‟apprendere. Latte de crapa, ricotta de pecuara=il latte di capra, la ricotta di pecora. L’occhiu du patrunu ngrassa u cavaddhru=l‟occhio del padrone ingrassa il cavallo. L’onori su castichi de Ddiu=gli onori sono castighi di Dio. Lu bbinchiatu nun cride u famacusu=l‟uomo sazio, non crede chi ha fame. Mare vidi e fusci, putea vidi e trasi=scappa dal mare, entra invece nella bottega. Meju l’ovu osci, ca a caddhrina crai=filosofia spicciola: è meglio l‟uovo di oggi, che attendere l‟ipotetica gallina domani. Mena ciucciu meu ca masciu vène=forza asino mio, presto arriverà maggio. Monici, prevìti e passiri, cazzìli a capu e lassìli=monaci, preti e passeri, schiaccia loro la testa e abbandonali. Mo vadìmu disse lu cicatu=ora vediamo disse il cieco. Mortu nnu papa, se ne face nn’otru=dopo la morte del papa se ne elegge un altro. Mpara l’arte e mintala da parte=impara un‟abilità in qualche modo ti servirà durante la vita.

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Ncè tantu pisce a mmare=c‟è abbondanza di pesce in mare, per tutti c‟è possibilità di vita. Nci vole nnu pacciu pe casa=è necessario un pazzo in ogni casa. Né de venere, né de marte, nun se sposa e nun se parte=di venerdì e di martedì non ci si sposa e non si parte. Nna bbotta allu circhiu e una allu tampagnu=un colpo al cerchio e uno al coperchio. Nna chiraca rasa te inchie nna casa=un sacerdote in casa la rende ricca quella. Nna manu lava l’otra, tutte doi llavène a facce=una mano lava l‟altra, entrambe lavano il viso. Nne vòi, se dice alli malati=solo al malato si chiede se vuole qualcosa. Nnu ciciò mantene centu cicì, centu cicì nun mantenene nnu ciciò=il padre riesce a sfamare molti figli, molti figli non riescono a mantenere un padre. Ntrà nna casa nun c’è mai paece, se a caddhrina canta e lu caddhru tace=in una famiglia non ci sarà mai concordia se la madre parla e il padre sta zitto. Nun nnè acqua du puzzu tou-nun nnè farina du saccu tou=detti similari, lo si rivolge all‟interlocutore dicendogli che il prodotto fatto vedere, non può essergli attribuito, in qunato le sue qualità, capacità sono molto più scadenti.

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Nun se pote campare sulu de aria=per vivere, oltre all‟aria, è necessario altro. Nun te fare cabbu de l’otri=non ti meravilgiare dei guai altrui. Nu poti tanìre a vutte china e a mujere mbrujaca=non puoi avere la botte colma e la moglie ubriaca. Nu te piji se nu te ssamiji=non ti associ se non ti assomigli. Nu fare crai ciru ca poti fare osci=non fare domani quello che puoi fare oggi. Nzurete mare ca te cqueti=si invita metaforicamente il mare a sposarsi per calmarsi, così come succede agli uomini, dopo il matrimonio. Occhi chini e mani vacanti=occhi soddisfatti, le mani vuote. Ogni massaru è patrunu de nna ricotta=ogni massaro è padrone della ricotta. Ogni petra ozza parìte=ogni pietra serve a costruire il muro. O te manci sta manescia o te mini da fanescia=o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Panza china, cerca riposu=con la pancia piena, si cerca il riposo. Passata la festa, cabbatu lu santu=passata la festa, il santo è stato gabbato.

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Persu lu sciuscettu, nun fomme cchiuj cumpari=perso il figlioccio, non restammo più compari. Picca pane e picca patarnosci=poco pane, poche preghiere. Puru i puci portène a tossa=anche le pulci, hanno la tosse. Puru l’occhiu vole a parte sua=anche l‟occhio ha bisogno della sua parte. Quannu ccappi rrappi=quando ti capiterà l‟accadimento soffrirai. Cchiui sacristani n’cè, cchiui a chiesia rimane perta=quanti più sacristi ci sono, è più probabile che la chiesa rimanga aperta. Quannu u ciucciu nu bbole bive, inutile ca fis(i)chi=quando l‟asino non ha volgia di bere, inutile che tu fischi. Quannu u diavulu te ncarizza l’anima nne vole=quando il diavolo ti fa le moine vorrebbe la tua anima; quando una persona ti rivolge eccessive premure nasconde un suo secondo fine, scopo. Quista è l’arte de Caifassu, manci e bbivi e stai allu spassu=questa è l‟arte di Caifas, mangi e bevi e sei ozioso. Se è turtàla all’acqua torna=come l‟uccello ama tornare nel luogo dove può dissetarsi, così una

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persona ritorna in un luogo per soddisfare sue necessità. Se farbaru li tanja tutti, quajava u mieru ntrà le vutti=se febbraio avesse tutti i giorni, congelerebbe il vino nelle botti. Se farbaru nun scinnariscia, marzu mmale penza=se a febbraio non fa freddo, lo farà a marzo. Se l’acqua sta ferma nfatisce=si giustificava in questo modo l‟iirequietezza dei bambini. Se meti nun tessi=se sei impegnato nella mietitura non puoi contemporaneamente tessere la tela, (si veda il contrasto profondo tra il lavoro faticoso, rurale, d‟estate e quello domestico, leggero del tessere al telaio). Se mina a innanzi cu no rimane a rretu=si lancia per non rimanere indietro. Se nu te ratti sulu nu te passa lu pruditu=se non ti gratti da solo, non ti passa il prurito. Senti comu trona marzu=senti la rabbia di marzo. Se otru nu trovi cu mammata te curchi=Se non riuscirai a fare fortuna dovrai rimanere con tua madre. Se pecùara te faci, u lupu te mancia=sei sei troppo buono, i cattivi ne approfittano. Se petre mini ncapu te rrìvène=se lanci pietre, ti arriveranno in testa.

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Se scinnaru nun scinnariscia farbbaru mmale penza=se a gennaio non fa freddo lo farà a febbraio. Se vo futti lu vicinu a sira tardi e lla mmane a matinu=se vuoi vincere la gara col vicino, devi fare tardi la sera e molto presto al mattino. Si cchiu fessa de l’acqua ca balla=sei più stupido dell‟acqua bollente. Si cchiu fessa de l’acqua e sale=è un apostrofe simile a quella precedente, in quanto il pane bagnato con pomodori, olio e sale era un alimento molto povero e banale. Simmana quannu voi, ca a messi meti=puoi seminare quando ti è possibile, nel mesi di giugno sicuramente potrai mietere. Spàràgna a farina quannu a mattra è china, ca quannu lu funnu pare, nun te serve u spàràgnare=risparmia la farina quando la madia è colma, perché quando è vuota non puoi più farlo. Ssettète tortu e sciudàca dirittu=siediti scomodo ma giudica bene. Sulu alla morte nun c’è rimediu=solo la morte non si può rimediare. Tie si nnatu culla camisa=tu sei nato fortunato. Tie vagnone porti l’artetica=si diceva di ragazzo continuamente irrequieto.

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Tie ta mmozzacare e vutere=ti dovrai mordere i gomiti, detto ai figli, per disperazione, che non mettevano in pratica gli insegnamenti dei genitori. Torci vinchiateddhru quannu è tennareddhru=piega il ramo quando è giovane. Ttacca u ciucciu arù vole u patrunu=lega l‟asino dove ti indica il padrone. U bburpu se cucina cu l’acqa sua stessa=il polipo si cucina senza acqua. U cane scovatatu time l’acqua covàta=il cane che ha già subito dell‟acqua bollente continua ad aver paura dell‟acqua calda. U cane se mina sempre allu strazzatu=il cane addenta sempre gli stracci. U ciuccu pisa a paja, u ciucciu se la raja=l‟asino contribuisce alla produzione della paglia e lo stesso dovrà mangiarla. U cchiu fessa ceddhru se pija a meju fica=il più stupido degli uccelli, può prendersi il miglior fico. U fiju mutu, a mamma lu capisce=il figlio muto è capito solo dalla mamma. U lettu comu u ggiusti lu trovi=trovi il letto come lo apparecchi. U mercatu te merca=il mercato ti frega. U pisce rossu, se mancia sempre u piccinnu=il pesce grosso, mangia il piccolo.

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U porcu bbinchiatu mmersa a pila=il maiale soddisfatto, capovolge il recipiente. U povuru quannu l’ane, u riccu quannu vole=il povero (mangia) quando può, il ricco ogni qualvolta lo vuole. U saccatu, u verde se mancia=il ramo secco fa morire quello verde. U saccu vacante nun s’è mantène tisu=il sacco vuoto non si regge in piedi. U sule ca te vide te scarfa=devi cogliere tutte le occasioni oportune. U tiempu è galantommu=il tempo è galantuomo. Vane rreta comu i zzucari=Indietreggia come i lavoranti di corde o di funi. Vardète de li capi ttummuni=guardati dalle persone silenziose. Vesti cippùne e pari barune=vestiti elegante e sembri una persona importante. Vunci l’arsu ca a rota gira=ungi l‟asso, così gira la ruota.

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I Soprannomi Tiggianesi. Lo sfaldamento che l‟Impero romano cominciava a subire negli ultimi secoli della sua esistenza, ebbe una diretta influenza sul classico sistema onomastico latino, in un primo momento subendo radicali trasformazioni, successivamente finì per essere del tutto abbandonato. Alla classica composizione dei tre nomi: il prenome, il nome (gentilizio) e il cognome (Gaius Julius Caesar) si andava affermando una tendenza ad utilizzare, nell‟uso quotidiano, il solo cognome: Gaius, Ambrosius. Sembra di poter affermare che questo passaggio dal sistema dei tre nomi ad uno solo, sia dovuto al sistema onomastico usato presso i greci (Platone, Socrate, Stradone) e presso altri popoli orientali (Devesos, Kambises, Ramses). Le invasioni barbariche poi portarono un mutevole numero di nomi germanici che si aggiunsero alla già grande varietà dei nomi individuali romani: Arnoldus, Bernardus, Robertus, Aldus, Gualfredus, Manfredus, Alfredus. Si può affermare che già nell‟ottavo secolo il vecchio sistema delle “tria nomina” aveva finito praticamente per essere sostituito dal nuovo nome unico.

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Questo nuovo sistema però, specialmente nelle realtà urbane, dava luogo a confusione e malintesi per il frequente ripetersi di un ristretto numero di nomi (omonimie). Nacque così l‟esigenza di poter distinguere coloro che avevano nomi uguali, per mezzo di una nuova distinzione individuale. Al nome unico venne così sostituendosi, man mano, un nuovo sistema, composto da nome e cognome. Il cognome risultava molto spesso da un soprannome e, a volte, poteva essere anche un patronimico: Albertus filius Constantis. Nacquero cognomi che si riferivano al luogo di origine: Basilius, Romanus, Gregorius, Longobardus. Poteva nascere dall‟esercizio di un mestiere: Joseph murator, o da altre circostanze. Mentre il nome aggiunto, in origine, era servito ad individuare una sola e definita persona, esso a poco a poco tende a consolidarsi come vero nome di famiglia, cioè come casato, ereditario e trasmissibile di padre in figlio e da questo alle generazioni seguenti. Questo sviluppo si osserva fin dal secolo IX, affermandosi prima nelle famiglie nobili, più tardi anche nel ceto borghese, mentre nelle campagne,

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presso i contadini, il nome unico individuale è resistito più a lungo. Tanti sono i patronimici nell‟Italia meridionale, per esempio: De Judicibus, De Gemmis, De Francescus, De Paolus, De Joannes, De Stefanus, De Josephus. Sono presenti altri patronimici composti con la parola „figlio‟, potrebbe trattarsi di un influsso normanno: Figiovanni, Firoberto, come Fitzgerald, Fitzrobert, in Inghilterra. Altri cognomi accennano ad una remota origine matriarcale: Lamonica, La Greca, Labianca, La Tagliata, che però potrebbe non trattarsi di un vero e proprio matriarcato, ma piuttosto di una discendenza spuria, ovvero riconducibile ad un padre ignoto. Tanti nomi di città e paesi sono diventati cognomi: Nicotera, Palermo, Ravenna, Salandra, Salerno, Perugina, Napoli, Brescia, Abbrescia, Milano. A volte il cognome è nato da un aggettivo etnico, aggettivo di provenienza: Pugliese, Catalano, Bulgarelli, Andriano, Albanese, Turco, Greco. Naturalmente il mestiere esercitato da un antenato ha dato origine alla formazione di cognomi: Bottai, Muratore, Ortolano, Beccari, Calidari, Carpentieri, Fornaciari, Frau (fabbro), Marangoni

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(falegname), Moleta (arrotino), Strazzeri (cenciaiolo), Cuffaro, Curatolo (capo dei mandriani), Lo Jodice, Lo Prete, Papa (parroco), Piscopiello (piccolo vescovo), Semeraro (conduttore di bestie da soma), Saccaru (venditore di acqua), Pignataro, Barillaro, Foderaro, Ceravolo (ciurmadare di serpenti). Alcuni cognomi sono composti da un titolo accompagnato da un nome: Notarnicola, Cicciopastore, Notarbartolo, Abatangelo, Fratepietro, Papaleo, Papirissu, Papasidero, Paparusso. Una serie sconfinata di nomi deriva da soprannomi che possono essere metaforici, scherzosi, ingiuriosi, pornografici: Cipolla, Cornacchia, Drago, Falco, Farina, Fava, Lucertola, Lupo, Malerba, Merlo, Radice, Acerbo, Caputo, Gentile, Gagliardo, altri con articolo Lobianco, Lovecchio, Lavatere, Lorusso, Loverde, Lomuscio. Ci sono i cognomi formatisi con i numeri: Treccani, Tresoldi, Trequattrini, Settepani, Centonze, Cinque, Tredici, Quaranta. Altri cognomi tipici sono: Lanotte, Mezzanotte, Mezzatesta, Mezzacasa, Vaccamorta, Barbagallo. Ancora altri cognomi di casati: Tagliaferro, Pappalardo, Vinciguerra, Passalacqua, Mellacqua, Martiradonna.

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Cognomi che hanno preso origine da una formula di augurio: Bentivoglio, Benincasa, Bentivenga, Diotallevi, Buongiorno, Dioguardi, Fatenebenefratelli. I soprannomi, le „nciurite‟, invece sono stati il segno della vivacità popolare, le mille invenzioni sono dovute alla fantasia davvero inesauribile e denotano i diversi aspetti della persona, delle circostanze, delle situazioni. Con le „nciurite‟ si voleva colpire la persona che denunciava un difetto fisico, oppure le si modifica il nome, le si affibbiavano virtù e difetti, talvolta inesistenti, ma che servivano a colpire la psiche, l‟orgoglio, la dignità della persona umana. Il nomignolo attribuito si tramandava di generazione in generazione e marcava la persona colpita. Oggi non si riconosce più alla „nciurita‟ la stessa forza dirompente che assumeva fino a qualche decennio fa. Le „nciurite‟ classiche non si utilizzano più, se non da un ristretto numero di parlanti, magari i più anziani, mentre i giovani ricorrono ad altri nomignoli, in ordine alla tecnologica loro disponibile, per lanciarsi lazzi ed insulti. Erano poche le famiglie esenti da nomignoli, in genere erano quelle di più recente immigrazione, ma per queste comunque sopraggiungeva, presto o tardi,

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un addebito che si rifaceva al paese di provenienza. Molti cognomi poco frequenti non hanno dato origine a “nciurite” in quanto il cognome stesso diventava l‟emblema di quella, al pari delle “nciurite”: i Chianca, i Margiotta, i Patirizzi, qui è abbinato nome e cognome. Le metafore caricaturali erano tante: la cattiveria, l‟invidia, la vendetta, le disavventure, diventavano vere e proprie armi nella fantasia popolare che le riversavano nei confronti del malcapitato/a. Spero che il riporto delle „nciurite‟ tiggianesi non suscitino malumori, come ho già scritto, l‟indagine riveste prettamente un aspetto scientifico- sociologico, e se qualche altro ricercatore pensa di voler continuare l‟approfondimento e l‟aggiornamento della ricerca, sono a disposizione per rendere il nuovo lavoro maggiormente completo del mio.

Dò un elenco parziale dei soprannomi tiggianesi:

Cànnìta, A Coca, A paccia, A petra, A quardia. Bbajoccu, Bammaneddhru, Barbetta, Barese, Beddhamamma, Bianculina, Bionda, Brocculu, Brunitta, Bruttu.

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Cacatizzu, Caddhrista, Caddhristera, Cafone, Cagnata, Cagnazzu, Calìa, Caliotu, Calla-calla, Cammarieri, Capellatura, Capirossu, Carota, Cascignana, Cataborra, Catanza, Catardu, Catti, Ccattavulìe, Cattìu, Ceci, Chiccozzu, Chirichizzu, Chiti-chiti, Cintile, Ciolu, Ciondola, Ciriolu, Cola, Corsiu, Cucumeddhra, Cucuzza, Culiverde, Cuja, Cuvazzu, Cuzzune. Donpospuru, Dormi, Ddottu. E Fattore, Favaluru, Festa, Fisc(i)hettu, Fraciddhra, Franchi, Fulia. Giacchetta, Ggiacchiri, Giolu, Gnazzu. I Lallò, Ll‟acqua, Liscia. Maccarne, Manciapane, Masetta, Massaru, Massaru-Peppe, Matteu, Mazzetta, Mesciapata, Mescia-Rocca, Mesciu-Minucu, Mesciu-Tidoru, Mmericanu, Minga, Mira, Misarini, Monici, Morte, Munni, Muschitta, Muscia. Ncalocchia, Ncheddhra, Nena, Nnecu, Nnettapadate, Nnettaricchie, Nutri. O Paccione, Paparotta, Papissu, Pappotte, Pasazza, Patavita, Patibomba, Patiduminucu, Paticeddhru, Paticola, Patiluigi, Patimora, Patirizzu, Patisajetta,

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Patisantu,, Patreternu, Pavulacchia, Pettirussu, Pica, Pichi, Piccola, Picciularu, Pinna, Pinnetta, Pinzetta, Pirilli, Piscia, Piscijancu,, Pititi, Pizzaca, Pizzazziri, Pizzicatore, Pizziruquala, Pulignunu, Pummitipiera, Pupinu. Quattrupedi. Raca, Racu, Re, Ricchia, Rusanna. Sabbia, Sabella, Sajetta, Sarica, Scancatu, Scasciaporte, Scategna, Scialaneddhra Sc(i)attitunnu, Sprunzale, Sc(i)turnu, Stiddhra, Stella a Tronia, Surda. Tampa, Ticchi-ticchi, Tinci, Tiritalla, Tranquillu, Trasciàna, Trottatore, Tumaseddhri, Turchia, Tutuviti. Valente, Ventrijancu, Venza, Verza, Vicianzone, Vurpe, Vuttisagne, Zoccula, Zulì, Zzocca.

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Oronimia Tiggianese. L‟oronimia è il complesso di nomi escogitati per indicare i fondi rustici interessati da rocce. L‟oronimia ha sempre una base (lessema) mediterranea, preitalica, slava o illirica, greca, latina, medioevale, romanza. Asima: asma. Murrune: illirico mukùron. Mucurune. Macurano. Calliculi: caggiune, calane, cavallone, cavalloni. Cocci: karki, calìiculi. Calùmi: grande mucchio di pietre. Culummùni: roccia, rutta, sana. Murrune: colle. Piccola elevazione di terreno. Culumni. Chianca. Limmàtuni. Limmàtare. Cummarazzu: cucummuru, protuberanza, cocuzzolo, cucuruzzu, cucurizzu, chirichizzu: mucchio di pietre. Chichirizzu: parte più alta di un monte. Cucurizzutu, cucurizzu. Pizzu: cucuzzulu. Cucuruzzu (bernoccolo). Cucurizzu. Ncucuruzzutu. Cucurucuzzu. Ficazzàni: lenze, fureddhre, lenziceddhre. lenze, ficazzàni. Greco: kulùmi/kumùli=mucchio, lat. cumulus, sinonimo di muntune, mantune.

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Gargano: “monte” di origine mediterranea, conservatosi nell‟ illirico, divenne in latino Garganum. Graganico fino a Leuca. Mantune: Murrune, muntusu. Marena. Morena: mucchio di sassi e di rocce.Morra. Marro. Murro. Murru. Murrine: colle, piccola elevazione. Mat(a): medit. Matina, “collina”, “altura”, Litus matinum (Orazio), “matine”, “mezzane” (sollevamenti premurgiani). Matine (collina, altura, vasto terreno pianeggiante con roccia affiorante). Mattinata. . Massaria de Matine. Motta: Monticello. Mutta. Mucchiu : munte, mantune. Ogni mucchio me pare nnu Turchiu. I mucchi parène turchi e le spinguele parène spate. Ogni mucchiu me pare nnu munte. Munte, Cute, (Monte). Cutrusu. Scuzzusu. Nnu munte o criscente de cuttone, de vulìa, de ranu; nnu mantùne de petre, de sabbia, de tufu, de rrumatu, de fricciu, munticchiu, muntàrune, munticicci, piccinnu, muntarune ranne, muntarune piccinnu, muntagna. Munticeddhri. Mantune Munticicci: Munte. Muntagna. Muntarune. Muntuni, Mantuni: I Murgi. Mucchio di sassi. Mura, Morciano: moro, arabo. Or: elevato, alto.

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Muntuni: mantuni. A mazza e murra: alla rinfusa in grande quantità. Mmurra: mucchio di sassi. Da Murra: Morciano. I murgi. Muricciu. Murgi: sassi acuti. Murichi: Mureca. Murridde: mucchio di covoni. Murriccia: cumulo di sassi. Oriu, Uriu, Riu. Or: elevato, alto. Riu: li Rii. Peschiu, pescu, peschi: sasso, grossa pietra. Sasso, roccia affiorante ed elevata. Peu: monte. Puntune, pentina, pèntine: grossa pietra. Pertrusu. Roccia superficiale crepata : rutta, senza crepe: sana. Montesano. Montesardo: mons arduus, monte aspro, sassoso. Monticeddhru. Serra: zona rocciosa. Serra, serricella, serrone, serrano. Serra: altura, zona montagnosa. Serra di Tricase. Madonna della Serra. Serrano (chi abita nella serra). : cumuli di pietra. Cumuli, tumuli, maceriae. Accumulo di pietre. Specchiaddrine. Chirichizzu (pila di pietre). Specchie, Specchia, specchiuddhre, spaccareddhra. Tauro: monte, collina. , Urì: piccola collina. Toros, taretus: monticello.

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Nel Salento ci sono 175 cognomi oronimici.

Toponimi rurali:

Aja, aja di sopra, aja di sotto, ajara, amendola, Antonio Mito, appennino, arbi, arco torto, arcutortu, aricella, a rutta.

Bellu, bessi, bosco, bosco di Jacovello, bulanu, busca,

Cadutu, seci macchia del Mastria, calauri, callone, campore in foedo disabitato di Valiano, campu, canale u toma, caputu, carcara, carcara dei ceri e della Bianca, carcara, cardascio, cardone, casini, carlu vecchiu, cavaddhru, ceta, chianche, cianche, chianchetta, chiusa, chiusa della Calderaia, chiusa del Giangra, chiusa del Perreca, chiusa del Storicchio, chiuse, chiuse di Guari, chiusura, chiusurelli, chiusurelli del Plano della torre, chiusurelli piccoli, cicaline, cimine, cimine, seci orto grande, cisterna, cistrate, coccioli, colombello, colombo, colosso, conca del capitano, coriscie de cuti, coriste, cornola, cornola, seci monte pedaci, corona, cortina, cravaliu, craunazze, cresimò, seci

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Antonio Mito, croce, crocicchie, crociella, culummu, cupa, cupicella, scurisce, curti, curuveddhra, cuti,

Damaschini, demaura,seci cicaline, demaura, seci farra, donnasana.

Favaàli, ferraio, focelle, foggie, fuceddhre, fucilati, funnu, funnuvargiliu, funtana, furnaru.

Gauda, gauda del novizio, gauda, seci monte li cicci.

Iacovello.

Juzzi.

Lacquari, lama delle scicele, lama del cardascio, lame, lamia, lamia dei monaci, largo, largo della massaia, Laura, lauri, lauro, lia, limannu, Lisa, seci pozzo, lizze, l‟uci, l‟uci dei Blevi, l‟uci, seci rigatole, luci, luciperti.

Macchie, macchia dei Mattei, macchie del mastria, macine, macene, magazzinu, malajanu, Malizia, mancini di basso, mancino, mancini, marasco, marcamanna, marchiello, marcheddhru marcheddhru, mardano, mardano dell‟ospedale,

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mardano, seci lo rio, Maria, maria putenza, marra, marraffa, masciu, massaria, massaria grande, massaria i catti, massaria matine, massaria piccola, matine, matine del Cera, matine seci chiusurella, matine, matine i noci, seci il largo del buonasera, matine, seci largo del cassano, matine, seci torre mozza, mazzulu, mazzurru, menguala, messere Orazio, minneddhra, miniò, minneddhra, molello, monsignore, monte calori, monte dell‟apo, monte ferrari, montepedaci, monterune, moro, morola, muleddhru, muntarune, munticicci, murgi, murgi del mattei, murgi, seci vigna la bianca.

Nasicani, nivera, nutaru.

Orto dei cicali di Santa Catarina,orto dei sodari.

Pajare, palombaro, palummaru, panninu, parmentu, pastine, pazzale, peschio, pescu, pescu la mazza, petraccia, pezzale, picciularu, pietro mecchi, piru, pizzicolla, pizzicoddhra, pizzolu, plano,plano de morti, plano del giardiniere, plano del nipote, plano della musica, palno di Vito Cai, plano grande, porte, pozzale, pozzo, pozzo del rio, pozzo vecchio.

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Remauda, rina, rio, rio del curto, rocco, rovoli, rovulu, rrostifava, ruspu, russa, rutta.

Sacramentu, Santu Angelinu, S. Catarina, Santuscianni, Santumartinu, , Santu Lasi, Santummuru Santustefanu, Santutidoru, sauri d‟Achille Sodero, scettaturi,sciardinu, sciardinu d‟Achille, scutursatu, seci curtina, sciardinu del curti, serra, serriceddhra, specchiaddhrine, specchie, spetali, spinzu, scorcia, serra, spurchia a l‟uci, sterna, sterna masciu, stinceta, suttimonicoi.

Taiate, taiate del Colosso, tamburrinu, tammurrinu, tarate, termiti, torre mozza, torre mozza seci Ferrante Colicchia, torrimuzza, tumari, trapizzu, trappitu vecchiu, tromia, seci chiusura, truscenti, turciddhru.

Verdarellu, vargiliu (funnu), via de specchia, vigna dell‟aja, vigna della curte, vigna, vignacisura, vignavecchia, vignale, voscele, voscu, vovete.

Università, u riu.

Zecca.

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Antichi toponimi stradali.

Avanti la Chiesa. Avanti S. Maria. Avanti S. Teodoro. Dietro la Chiesa. Luogo del Castello. Luogo detto S. Catarina. Luogo detto S. Maria. Luogo dietro la Chiesa. S. Maria. Stella d‟Italia. Strada del Castello. Strada del Cimitero. Strada del trappeto vecchio. Strada della chiesa. Strada delle malote. Strada delle milote(var.). Strada detta S. Maria. Strada di meza die. Strada di Mezzadia. Strada di Mezzo. Strada di Santa Catarina. Strada di Santa Maria. Strada per il magazzino governativo dei tabacchi. Strada -Vaste-Tricase- Tiggiano-Corsano-Gagliano(tratto interno). Strada di San Teodoro. Strada Tiggiano-Corsano-Alessano. Strada Tiggiano-Marina di Tricase. Torre Mozza? U sole a Penzia. Via d‟Alessano. Vicinale Palane- Chiuse. Vicinale Tiggiano-Matine.

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Monete, pesi e misure. “Anteriormente al 1841 nelle province meridionali erano in uso monete, pesi e misure stabiliti da Ferdinando I d‟Aragona con l‟editto 6 aprile 1840. L‟unità monetaria era il ducato che la legge del 20 aprile 1818 stabilì del peso di 25,75 trappesi al titolo di 833 e ½ millesimi, cioè 2,4585 trappesi di argento puro o 19,119315 grammi. Esso si divideva in parti decimali, ossia: 1 ducato=10 carlini; 1 carlino=10 grani; 1 grano=10 cavalli. Era in uso anche conteggiare in tarì: 1 ducato=5 tarì; 1 tarì=20 grani; 1 ducato=4,248913 lire oro nel 1861.

Base dell‟antico sistema metrico decimale era il palmo, diviso in 12 once, ogni oncia in 5 minuti ed ogni minuto in 12 punti.

Le misure di lunghezza erano il passo formato da 7 palmi; la canna (per le stoffe) di 8 palmi; la pertica (per il servizio di ponti e strade) di 10 palmi, di diversa grandezza, adoperato in alcuni comuni e non in altri.

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Per le misure itinerarie era in uso il miglio, formato da 100 passi; ciascuno di 7 palmi; 1 palmo=0,2636670 metri; 1 canna=2,109360 metri.

La nuova legge del 6 aprile 1840, che entrò in vigore il 1° gennaio dell‟anno successivo, fissò il palmo a base del sistema metrico e stabilì la sola canna di 10 palmi; da cui la canna quadrata uguale a 100 palmi quadrati e la canna cubica di 1000 palmi cubici. Le nuove parità furono così stabilite: 1 palmo=0,264550 metri; 1 canna=2,64455503 metri. Le misure di superficie „abusive‟, ossia anteriori al 1840, erano numerosissime. Le più comuni erano in uso in provincia di Lecce. Il tomolo di superficie variabile; dai 1600 passi quadrati di Otranto, Corsano, Tiggiano, ecc., ai 2500 di Brindisi, Ostuni, Francavilla Fontana, ecc, ai 3000 di Manduria, per cui oscillavano tra 0,408789 e 0,881190 ha; il vignale di 2500 passi quadrati, in uso nella maggior parte del circondario di Lecce, pari a 0,625697 ha o di 1600 passi quadrati, pari a 0,494378 ha. In numerosi comuni del distretto di Gallipoli, infine, la tomolata, la vigna, il moggio, l’orto, la giornata, e il carro. Talora le misure agrarie erano espresse in moggi napoletani. Un moggio=0,336486 ettari.

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La nuova misura agraria fu il moggio, di 10.000 palmi quadrati; ossia uno spazio quadrato avente i lati di 100 palmi; o di 10 canne, pari a 0,069986 ha; ma non pochi comuni continuarono ad usare le vecchie misure. Per gli aridi era in vigore una sola misura di capacità, il tomolo, equivalente a tre palmi cubici, composto di 24 misure, oppure di 8 stoppelli, ciascuno di 3 misure (Alliste, Diso, Tiggiano) Così, 1 tomolo=0,549925 ettolitri; 1 misura=2,304954 litri. Nel comune di Gravina il tomolo era fatto uguale a 0, 549925 ettolitri. La nuova legge conservò la stessa misura che si divideva in 2 mezzette, o in 4 quarte o in 24 misure. Sicchè, 1 tomolo=0,555451 hl; 1 misura=2,314379 litri. Per i liquidi si adoperava il barile, che si divideva in 60 caraffe; 12 barili formavano una botte; 2 botti costituivano 1 carro. La nuova legge confermò l‟antica misura di capacità ed estese a tutto il regno quella in uso a Napoli. Cosicché il barile fu fatto equivalere a 43,6205291, e la caraffa a 0,727083 litri. Per il vino, in particolare, era in uso ovunque la soma di un numero di caraffe variabili da comune a comune.

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Anche in provincia di Lecce, in quasi tutti i comuni del circondario omonimo ed in quello di Gallipoli, era in uso la soma di 240 caraffe, pari a 1,544921 hl; negli altri comuni la soma era compresa tra 1,234337 hl (S. Vito dei Normanni, Francavilla, ecc.) e 1, 928652 hl di S. Donaci, , ecc. Per l‟olio l‟unità di misura era lo staio, corrispondente al peso di un numero variabile di rotoli di liquido. In commercio si usava la salma di 16 staia napoletane del peso di 200 rotoli (Bitonto), pari a 1,951117 hl; di 216 e 2/3 rotoli (Conversano), pari a 2,113772 hl e così via. In provincia di Lecce si adoperava invece, la salma che era compresa tra 1,612971 hl (Gallipoli) e 2, 048733 hl (Taranto). La nuova legge stabilì che l‟olio venisse misurato sempre a peso, cioè a cantari, a rotoli e a frazioni decimali di rotolo. Solo per il commercio al minuto poteva misurarsi a capacità, cioè a staia di 96 misurelli e a salme di 16 staia (ogni staio di 10 e 1/3 di rotoli) per le contrattazioni commerciali.

L‟unità di peso continuò ad essere il rotolo composto di 33 e 1/3 once, ovvero 1000 trappesi, di 30 dei quali

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costituivano l‟oncia, 100 rotoli formavano un canataro. Così, 1 cantaro=80,099722 kg; 1 rotolo=0,89997 kg; 1 trappeto=0,80007 gr.

Per alcuni generi e per usi farmaceutici l‟unità di peso era la libbra che si divideva in 12 once; ogni oncia in 10 dramme; ogni dramma in 3 trappeti o scrupoli; ogni trappeto in 20 acini o grani. Queste misure furono lasciate dalla legge del 1840, la quale confermò la libbra uguale a 0,320789 kg. e l‟oncia pari a 0,026729 kg. Nonostante la nuova legge del 1840, nelle contrattazioni private furono sempre tollerate le vecchie misure, purchè fossero state enunciate nel contratto, seguite immediatamente dai valori corrispondenti dal nuovo sistema. Con legge 28 luglio 1861 si rese obbligatorio nel napoletano, l‟uso del sistema metrico decimale, ma in realtà l‟applicazione si ebbe con ritardo, vari provvedimenti furono emanati per diffondere la conoscenza delle nuove misure e le nuove equivalenze con le vecchie”.12

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Cucina Tiggianese.

A cipuddhrata. Una quantità varia di cipolle venivano soffritte nell‟olio bollente e si mangiavano. Le stesse erano anche cucinate al forno in una teglia, oppure arrostite nella cenere del fuoco, sbucciate e tagliuzzate, venivano condite con olio, sale, pomodori, origano.

Acqua e ssale. Specialmente d‟estate, era comune nelle famiglie “normali”, ricorrere ad un‟alimentzione di poco conto e considerata volgarmente “rinfrescante”. Si tagliuzzava del pane rappreso, meglio una frisa o un tarallo in un piatto concavo, si cospargeva di sale, si inzuppava con acqua, poi si versava dell‟olio. Si aggiungevano tocchetti di pomodoro fresco o invernali, qualcuno aggiungeva anche della cipolla, peperoni amari verdi, e anche del sedano; si doveva rimescolare bene e si mangiava e si rimaneva soddisfatti, tanto che l‟intingolo rimasto, veniva come bevuto direttamente dalla scodella.

A cuddhrura. Il venerdì santo era d‟obligo preparare “e cuddhrure”. Si doveva impastare la farina, con olio e addolcita con

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lo zucchero. Si facevano varie forme, ma al centro di esse venivano posizionati uno o due uova e si facevano cuocere nel forno. Noi ragazzi dovevamo mangiarle solo a mezzogiorno per rispettare il digiuno pasquale. Ricordo che la nostra ingordigia ci portava a mangiare subito l‟uovo, estraendolo con fatica dalla massa di pane.

A pulenta. Ricordo con angoscai quando bisognava mangiare la polenta. Il mais, “i pupuli”, venivano coltivati solo per sfamarsi. Una volta raccote le pannocchie, si staccavano i semi, si pestavano nello “stompu”, si otteneva una farina giallastra. Si metteva a bollire sul fuoco, mentre in un‟altra padella veniva fatta soffriggere la cipolla e l‟aglio e si versava della conserva, si otteneva il sugo. La polenta veniva fatta raffreddare, poi tagliata a pezzi, veniva messa nel piatto e cosparsa di sugo. Io non riuscivo ad ingoiarla, mi era insapore, ostile, dovevo inzupparla competamente di sugo per poterne mangiare qualche pezzo.

A strascinata. Era una particolarità di pane. Dopo aver infornato il pane ufficiale, la pasta raccogliticcia si impastava di

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nuovo con abbondante acqua e la si introduceva nel forno “strascinandola”.

Baccalà. Durante il tempo natalizio era tradizionale mangiare il baccalà. Mio padre ne era ghiotto, io no. Dopo averlo tenuto a bagno per qualche giorno per dissalarlo, si preparava un sughetto e tagliato a pezzettini si immergeva e si faceva cuocere a fuoco lento. Si mangiava la vigilia di Natale.

Brucacchia. Era un‟erba grassa che veniva raccolta in primavera, prima della fioritura e si consumava come vera e propria insalata.

Cannocciuleddhri-Patarnosci. Era un tipo di pasta corta. Si preparava l‟intingolo, sempre con olio soffritto, cipolla, pomodoro, a parte si bolliva quel tipo di pasta particolare. Dopo la cottura e la scolatura, la pasta veniva versata nell‟intingolo ancora sul fuoco e si rimestava per farla amalgamare e poi si versava nei piatti.

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Cartellate. Le cartellate erano una delle varietà dei fritti di Natale. Ottenuta la “lavana”, impastando farina, zucchero, sale olio sfumato con la buccia di mandarino, un po‟ di vermouth bianco, veniva impastata col succo di mandarini. Si tagliava a striscioline e si friggeva nell‟olio bollente. Dopo si potevano zuccherare, irrorare di miele.

Casu. La produzione del formaggio seguiva un rito complesso, come la produzione del pane. Le famiglie “normali” possedevano una-due pecore o capre che producevano una quantità di latte insufficiente, a volte, per una forma di formaggio. Allora due o tre famiglie si accordavano e si scambiavano il latte, in modo tale che, a turno, ognuna potesse produrre una forma di formaggio. Raccolto il latte, o si poneva in una pentola sul fuoco, dopo aver immesso il caglio proporzionato alla quantità di latte. Il caglio era naturale, si ricavava dall‟abomaso dei capretti o agnelli lattanti. L‟esperta, con pazienza e a fuoco lento, doveva girare delicatamente con la lunga cucchiaia da tavola, per consentire l‟amalgamarsi del caglio. Si formava la ricotta che veniva raccolta con la schiumarola e la si pressava nella “fisc(i)ca” veniva

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salata e lasciata un giorno, dopo veniva girata e condita ugualmente con sale. Intanto nel siero rimasto sul fuoco, si immergeva qualche altro grammo di caglio e si otteneva un‟altra coagulazione, quantitativamente molto inferiore, era la manora che ci veniva data con nostra somma soddisfazione di ragazzi, perché aveva un sapore eccellente. Col siero rimasto poi facevamo colazione, in una scodella si immergeva del pane duro, o una frisa e si mangiava succolentemente, era la nostra colazione! Il formaggio intanto veniva rigirato ogni giorno, dopo una settimana, veniva tirato fuori dalla “fisc(i)a” e si posizionava sulla “ggiumanìa” del focalire e lì rimaneva fino al suo utilizzo come formaggio da grattuggiare.

Fave cullu capucciu. Bisognava togliere il “cappuccio” delle fave, la sommità con la quale sono legate all‟interno del baccello, per il resto rimaneva la buccia. Si mettevano al bagno la sera, al mattino venivano cotte al fuoco del “focalire”. Alla cottura, venivano servite cospargendole di olio e servite, di sera, di solito, al ritorno dei contadini dalla campagna, accompagnate da cipolle, peperoni e “foje reste”, verdura di

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campagna. Queste fave erano più nutrienti in quanto arricchite dalle vitamine contenute nelle bucce.

Fave cullu cappottu. Si preparavano le fave con la buccia integrale.

Fave nette. Bisognava sbucciare le fave secche. Sistemato su una piattaforma di legno uno scalpello con la lama rivolta all‟insù, l‟operatore doveva sistemare le fave con il peduncolo sullo scalpello, a contato della lama, con un martellino si dava un colpetto sul punto in alto, e la fava si apriva, essendo una dicotiledone, facilitando l‟eliminazione della buccia. La sera si mettevano a bagno, il mattino seguente venivano messe nella “pignata” con il sale, e si avvicinavano al fuoco nel “focalire”, quando le stesse si erano trasformate in purè soffice bianco, erano cotte, si condivano con olio e si versavano nei piatti. Con peperoni, cipolle, a volte con pane soffritto, si consumavano insieme alle “foje reste”, verdure di campagna che di solito accompagnavano la degustazione delle fave.

Fave verdi. Oltre a consumarle secche, le fave venivano cucinate anche verdi. Oltre a mangiarle direttamente verdi col

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pane e formaggio, si preparavano soffriggendole nelle pentole sul fuoco e venivano servite. Ricordo che da bambini, dopo aver tolto le fave dal baccello, sceglievamo le più grosse, e ci facevamo l‟anello. Toglievamo con cura la parte carnosa, e ci rimaneva la buccia alla quale facevamo un foro e lo rendevamo adatto ad infilarlo ad un dito della mano; avevamo prodotto l‟anello.

Ficarigne. Frutto povero ed esotico, con la buccia spinosa, ma se ne mangiavano tante, specialmente dopo le prime piogge estive in quanto queste contribuivano a far cadere molte spine. Raccolte con cautele e sbucciate con la stessa cautela, era la frutta più ovvia, insieme ai fichi, e ai cocomeri.

Fiche. I fichi erano un altro alimento integrativo importante. Non mi soffermo sulle varie qualità di fichi, ci sono tanti manuali scientifici che lo fanno, piuttosto dirò che alcuni alberi di fico maturano due frutti, verso la fine di maggio-giugno, i fioroni, “e culummare”, sono di solito molto più grosse dei fichi normali che matureranno alla metà-fine d‟agosto. Dei fioroni eravamo tutti molto ghiotti, perché è il primo frutto

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d‟estate che matura e perché la sua dolcezza coglie tutti di meraviglia. La raccolta dei fichi seguiva un lungo rituale. Bisognava raccoglierli la mattina presto, prima che il sole infuocasse l‟aria, i rami più inaccessibili venivno piegati ed avvicinati con un attrezzo di legno “u roccu”, ricurvo, si portavano a casa, oppure nella stessa campagna, quando la famiglia, d‟estate abitava nelle “pagliare”, proprio per accudire a tutte le faccende che la terra richiedeva. Dopo aver scelto i migliori che si consumavano freschi, i restanti venivano tagliati a metà e sistemati su appositi graticci di canne, “i cannizzi”, dove venivano fatti seccare. Se si verificava qualche pioggia estiva bisognava riparare i fichi, così pure la sera, specie se umida, calava “a muttura”, altrimenti questi si sarebbero impregnati di umidità e la loro disidratazione si sarebbe trasformata in rancidità. Una volta essiccati come di dovere, si aromatizzavano con semi di finocchio e foglie d‟alloro, si portavano al forno per essere sottoposti a tostatura, a volte, chi poteva permetterselo, all‟interno metteva mandorle sbucciate o gherigli di noci. Il fornaio le sottoponeva a tostatura la sera, dopo la cottura del pane e delle frise. Portate a casa venivano conservate in quei recipienti di terracotta, “i capasi” e collocati negli stipi, ricavati all‟interno delle muraglie. Anche i fichi erano vigilati,

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specialmente quando erano con le mandorle. Ci veniva concesso un nugolo di fichi secchi da portare a scuola, a sostituire la merenda che non c‟era. A scuola, da ragazzi, ponevamo i fichi sotto l‟asse del banco che era allora ribaltabile e li schiacciavamo perché assumessero una forma meno voluminosa, poi l‟insegnante ci sorpendeva ed era violenza.

Foje. Si mangiavano diverse qualità di verdure, “foje”, sia coltivate e non coltivate. Tra le prime: le cicorie, le cime di rape, i cavoli, i cavolfiori, le verze, le zavirne, tra le seconde: la paparina, i zanguni, i sulitri, erba grassa commestibile, e altro. La preparazione era molto semplice. Si faceva bollire l‟acqua in una grande pentola, “ u quadarottu”, e dopo averla pulita e lavata più volte, si immergeva nell‟acqua bollente la verdura, si versava il sale proporzionato, veniva poi “scolata” quando era al punto giusto di cottura. Si versava in un grande piatto e si condiva con olio. Più raramente si ricorreva a soffriggere le cime di rape, si preparavano le cicorie a minestra: si soffrigeva l‟olio con la cipolla, dopo essere state bollite un po‟ meno del dovuto, le cicorie o le verze, si versavano nell‟olio e si condivano con formaggio caprino e peperone in polvere, con acciughe.

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Foja fritta. Si raccoglieva la “paparina”, verdura spontanea che spunta nei primi mesi dell‟anno, si lavava, si lessava e poi si metteva a cuocere a fuoco lento in olio bollente nel quale era stato già rosolato l‟aglio, ”oiu fattu”. Si aggiungevano olive nere, peperone macinato.

Fraseddhre-Taraddhri. Collegata alla fattura del pane era quella della fattura dei taralli e delle frise, che erano due alimenti a più lunga conservazione rispetto al pane. La fattura dei due prodotti integrati al pane avveniva come per il pane, era solo la forma a cambiare; i taralli e le frise assumono una forma circolare del diametro di circa 10-15 centimetri, le frise si ottenevano con il grano, i taralli con farina d‟orzo. Venivano infornati dopo aver estratto il pane perchè avevano bisogno di una temperatura meno elevata e anche perché questi sono sottoposti a doppia cottura. Estratti dal forno, si procedeva a tagliarli a metà lungo lo spessore. Sistemato un fil di ferro alle tavole del pane, l‟operatrice faceva passare il fil di ferro perfettamente a metà della frisa o del tarallo, ottenendo due forme circolari con la caratteristica striatura sulla superficie fattasi mentre il fil di ferro le divideva a metà. Verso il pomeriggio il fornaio

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infornava di nuovo le “cucchie”, le coppie ottenute e le faceva biscottare. Quando riteneva che avessero raggiunto il colore e la fragranza giusta li tirava fuori e il proprietario poteva portarseli a casa. Venivano conservati nei “capasi” o negli “stangati”, anche questi erano tenuti d‟occhio dai grandi, quando la fame era proprio nera. Frise e taralli era la provvista che durava più a lungo, avevano una conservazione di più lunga durata, perché la doppia cottura li aveva nettamente privati dell‟acqua. Si consumavano bagnati con olio, pomodoro, peperoni verdi, oppure sotto forma di “acqua e ssale”.

Granite. Le domeniche passava dai nostri paesi l‟uomo che con un triciclo vendeva le granite. Quando uno di noi ne chiedeva l‟erogazione, l‟uomo apriva una sorta di scrigno, dov‟era conservato il blocco di ghiaccio, adoperando un pialletto ne grattava un po‟ e lo scaricava in un bicchiere, poi a seconda della richiesta, vi versava l‟essenza, che poteva essere menta, mandorla, amarena, ecc.

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Lacurda-brodaglia. Si bolliva in un pentola un po‟ d‟acqua con olio, sale, cipolla, peperoni in salamoia, patate. A cottura effettuata, si versava nella coppa e si immergeva pane rappreso, frise o taralli e si mangiava.

Legumi: fave. ciciri. paseddhri. pasuli. lanticchia, dòlaga. I legumi, insieme alle verdure, era l‟alimentazione più ovvia, più naturale, perché gli stessi venivano prodotti in proprio. Naturalmente venivano tutti cotti nella pignata, al fuoco del focalire e conditi solo con olio, cipolla, peperoni di varia conservazione. Si diceva che i legumi era la carne dei poveri.

Lumache (cozze piccinne, cozze rosse, cuzzuni, verri, verri culla panna, cozze pintuliddhre). Abbondanti nelle nostre campagne, appena dopo le prime piogge autunnali, questi animali si svegliano dal loro letargo estivo ed iniziano la loro attività vitale. Amano l‟umidità e perciò vanno raccolte nelle campagne la mattina presto e la sera tardi, temono il vento e tendono a ritirarsi e a rifugiarsi nell‟umidità dei muri a secco, oppure scavano piccoli fori nella terra e vi si nascondono. Raccolta la quantità opportuna, è necessario accudirle per tre-quattro

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giorni prima di poterle mangiare. Si conservavano in grandi “limmi” capovolti e si nutrivano di crusca e farina, questo per purgare il loro intestino, perché appena dopo la prima pioggia, destatesi dal letargo iniziano ad alimentarsi di erbe e di altre sostanze naturali. Vanno pulite ogni mattina, altrimenti le loro feci, possono provocare la loro stessa morte e alimentate. Vanno poi lavate molte volte. Immerse in una capiente padella, sul fuoco, si fanno bollire, poi si scolano, si lavano ancora e si immergono nella padella nella quale si è fatto soffrigere la cipolla nell‟olio bollente alla quale si aggiunge qualche pomodoro, peperone ed aromi e si versano le lumache e si lasciano cucinare a fuoco lento, finchè non si insaporiscono per bene. Si versano nel piatto e si mangiano accompagnandole col pane. C‟è una tecnica speciale per estrarle dal guscio, si usano stuzzicadenti, forchettoni e altri strumenti. Mio padre era abilissimo a succhiare per poterle estrare e quando non vi riusciva, produceva un forellino sul dorso del guscio e riusciva ad estrarle, succhiando da quel foro. Le “cozze pintulidhre” e i “verri culla panna” si degustano d‟estate. Per loro natura, all‟inizio dei primi caldi estivi, le lumache si chiudono in letargo producendo una membrana esterna chiamata “panna”.

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I verri dal guscio marrone si inoltrano nella terra, di solito nei pressi dei muri, e le lumache bianche invece si attaccano ai muri, alle piante secche, agli alberi e resistono tutto l‟estate. I “verri con la panna”, dopo averli lavati, si mangiano direttamente, solamente soffrigendoli nell‟olio bollente. Anche le lumache bianche, “e cozze pintuliddhre”, si possono mangiare appena raccolte; si lavano, si lessano, dopo si versano nell‟olio bollente nel quale si è soffritta la cipolla e qualche pomodoro, peperone e qualche altro aroma. Si mangiano con la stessa tecnica delle lumache autunnali.

Maccarruni. Erano i banali spaghetti, ma subito dopo la guerra, non si sapeva chiamarli col nome col quale si sarebbero fatti conoscere in tutto il mondo. A volte si preferivano gli spaghetti bucati, conditi tradizionalmente col sugo. Era uno spettacolo, quando si portava una forchettata alla bocca; il risucchio faceva cospargere del sugo rosso di pomodoro gli indumenti che si indossavano. Specialmente a noi ragazzi si faceva sovrapporre una salvietta per evitare gli schizzi, ma noi ci sentivamo menomati da tanta accortezza.

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Maccarruni cu la carne. Era la variante più attesa del mangiare gli spaghetti. Era un rito che si poteva assolvere solo a S. Ippazio. Solo in quell‟occasione “u tata” poteva comprare un po‟ di carne di maiale che si faceva cucinare nel sugo col quale si condivano gli spaghetti.

Manora e seru. Ho gia detto quando ho scritto come si preparava il “casu”, il formaggio.

Maranciane. Anche le melanzane si consumavano fresche e conservate. Si preparavano con le patate e con peperoni, alla parmigiana, ripiene, soffritte, abbottonate. Venivano poi conservate sott‟olio, secche.

Massa e ciciri. Si dovevano cucinare i ceci nella “pignata” al fuoco del “focalire” la sera precedente. Il giorno del pranzo la mamma o la nonna procedeva a produrre la “massa”. Veniva impastata la farina di grano con acqua e sale, si stendeva e si tagliava in tante striscioline che all‟ora di pranzo veniva “calate”, messe nell‟acqua della pentola fatta bollire sul fuoco.

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Intanto i ceci venivano soffritti in un‟altra pentola con olio, cipolla, pomodoro, a volte si soffriggeva della pasta dura spezzettata. Alla cottura la “massa” veniva scolata e condita con il soffritto preparato a parte. Era la gioia dei partecipanti.

Ovu quajatu, lessu. Le uova erano un‟altra fonte alimentare. E‟ vero che molte uova venivano regalate “alli signuri”, alle signore della scuola, al prete quando benediceva le case dopo Pasqua, ma questo prodotto animale veniva consumato anche nelle nostre famiglie. Si consumavano lesse, condite con sale, olio, aceto. Si preparavano in padella, dove si faceva soffriggere un po‟ di olio e si immergevano le uova con un po‟ di sale e formaggio, dopo un po‟ il calore le rassodava e si potevano mangiare. Quando eravamo “deperiti”, particolarmente bisognosi di vitamine, ci veniva preparato l‟uovo crudo con la marsala, che schifo! Si preparava alla coque; appena riscaldato, si metteva un po‟ di sale e si mangiava col pane. Si usavano con le “pittele ll‟acqua”. Un cibo di uova più gustoso era la “frattata”. Si dovevano amalgamare tante uova quante la necessità richiedeva, con sale, pepe, mollica di pane, formaggio e un po‟ di menta. Nella padella sul fuoco l‟olio aveva raggiunto una buona temperatura

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quando si versava l‟amalgama delle uova, queste cominciano a prendere consistenza e quando la stessa raggiungeva la coloritura dell‟oro, si doveva girare. Si serviva su una fetta di pane, oppure nel piatto.

Padate. Le patate erano un altro piatto fondamentale, specialmente d‟estate, in quanto la produzione locale comincia ad esserci dal mese di maggio. Si mangiavano cotte nella pignata, a volte, con la carne, a minestra, lesse ad insalata, stufate al forno, rosolate al forno, si faceva anche il pane di patate, si mangiavno inoltre a minestra, insieme alle zucchine. Con le patate poi si ottenevano anche gli gnocchi che si mangiavano come la pasta asciutta. A maggio si spiantano le patate, la maggior parte veniva venduta, una parte veniva stipata per le esigenze familiari. Effettuata la cernita rimanevano le patate molto piccole, si lavavano, senza sbucciarle, si condivano con olio, sale, pepe, si sistemavano in una teglia, “tajanu”, e si mettevano al fuoco, quando erano ben rosolate si potevano gustare.

Pampasciuni. I bulbi sono molto sotterranei e per poterli raccogliere è necessario uno scavo profondo con la zappa o lo

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“zappune”. Di colore rosato, vengono lavati, lessati e conditi con olio, sale, aceto e mangiati col pane. Sono anche conservati sott‟olio, o immersi nell‟aceto; si consumano d‟inverno.

Pane cottu. Forse il piatto più povero della cucina salentina. Quando il pane diventava raffermo, lo si metteva in una padella, tagliato a pezzi, si copriva d‟acqua e si condiva con sale, olio e qualche foglia d‟alloro. Si cuoceva a fuoco lento e quando era ben denso veniva versato nei piatti e si mangiava, quando possibile, anche con un po‟ di formaggio.

Pane fattu ccasa. La necessità prorompente della fame trovava la sua soddisfazione, per antonomasia, nel gustare e consumare il pane. Produrre il pane domestico era una mansione importante e delicata al tempo stesso. Il grano prodotto veniva conservato allo zolfo, “surfuriu”. Veniva portato al mulino in quantità ritenuta sufficiente per la produzione di pane per un quindicina di giorni. La farina ottenuta doveva essere setacciata e per farlo era necessaria una madia, un setaccio fine e un telaio di tavola che veniva sistemato sui lati lunghi della madia e fungeva da appoggio all‟azione di scivolamento, su e giù, del setaccio con

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dentro la farina. La farina si depositava all‟interno della madia, mentre la crusca veniva raccolta in altro recipiente che sarebbe stata utilizzata come mangime per le galline, per le mucche, per i cavalli. La mattina presto ci si era preparato il lievito di pasta che lo stesso fornaio elargiva recapitandolo di persona a casa e stabilendo l‟orario in cuisi doveva “temparare”. In una porzione di farina, calcolata a “regola” dalla donna di casa, mamma o nonna, si scioglieva il lievito con acqua tiepida e sale e si lasciava per alcune ore a riposo in modo che i fermenti del lievito si moltiplicassero e diventassero miliardi. Quando la “massara” lo riteneva opportuno, la sera tardissima, mescolava tutta la farina con la parte di pasta lievitata e impastava il tutto, ancora con acqua tiepida e sale e si lasciava lievitare. All‟ora indicata dal fornaio, di solito le tre, le quattro, le cinque del mattino, bisognava “temparare”, e cioè tutta la massa di farina impastata doveva essere lavorata di gomito per renderla omologa e soffice, i fermenti cioè si dovevano distribuire omogeneamente in tutta la pasta, altrimenti qualche forma di pane non risultava soffice, dopo la cottura. Intanto la pasta veniva sistemata nelle “panare”, ceste di canne, con ogni cautela, la stessa veniva rivestita all‟interno con tovaglie pulite e poi, riempita la cesta, si provvedeva a mettere su altre

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tovaglie e mante, coperte, altrimenti la pasta poteva “costipare”. All‟ora convenuta, arrivava il fornaio con un piccolo traino a mano, “u traineddhru”, e caricava le ceste colme di pasta lavorata. Arrivati al forno i componenti la famiglia, in genere le donne, dovevano poi ridurre la pasta in forme di pane. Se la quanità di pane occupava tutto il forno, di solito un quintale, “a cotta”, non si procedeva ad accoppiate con altre persone, se invece la quantità non era tale, il fornaio procedeva a combinare più “partite” per poter esaurire tutto lo spazio nel forno. Quando era così, su ogni forma di pane, la proprietaria doveva fare un segno distintivo affinché fosse riconosciuto quando sarebbe stato sfornato e regolarmente attribuito. I segni potevano essere i più diversi: una crocetta, una lettera iniziale di un nome, si metteva un rametto, un cerchietto della stessa pasta. Intanto il fornaio aveva provveduto a portare a temperatura idonea il suo forno facendo bruciare le biomasse più varie: fascine d‟olivo, rovi e pruni, “scarasce”, “pasaddhrari”, le piante secche di piselli, i “pasulari”, le piante secche dei fagioli, i “lupranari”, piante secche di lupini, “tursi de tabaccu”, piante secche di tabacco, comunque il combustile migliore che sprigionava maggiori calorìe erano le fascine d‟olivo, “e sarcine”. Dopo che l‟artista del forno aveva ripulito la base del forno con

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gli attrezzi del mestiere, quando riteneva he la temperatura fosse calata al punto giusto; non c„erano termometri, tutto era lasciato alla maestrìa e all‟esperienza dell‟operatore, si iniziava a infornare. Ad uno ad uno le forme di pane venivano posizionate sulla pala del fornaio che con abile manovra le collocava sul pavimento del forno, a cominciare dalla parte posteriore fino a riempire tutto il forno. Delle particolarità di pane venivano realizzate: le olivate, pane con olive, era un impasto più morbido ed infornate dopo, poi le “simeddhre”, un altro impasto molto molle, che veniva posto per ultimo, poi, curioso era “u mmui”, erano i rimasugli di pasta che noi bambini impastavamo e ottenevamo un informe tozzo che veniva messo nel forno per nostra soddisfazione. Dopo un po‟ il fornaio faceva la prima ispezione e stabiliva quanto tempo altro doveva rimanere nel forno. All‟odine “sfurnamu”, ci si attrezzava con le ceste e il fornaio tirava fuori i pani che avevano assunto un colore dorato e un aroma estasiato, e la donna li collocava nella “panara”, subito dopo veniva coperta con tovaglie e mante in modo che il pane non costipasse. Naturalmente se erano due o più i compartecipanti, ogni donna collocava nella cesta il proprio pane. Noi ragazzi ritrovavamo “u mmui” ed eravamo eccitati in quanto dovevamo portare a casa il

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pane col piccolo traino del fornaio; era la gioia più grande, se capaci guidavamo noi il traino, come un pony prendevamo le due stanghe e via, se invece non eravamo ritenuti all‟altezza, venivamo issati sul carro e venivamo trasportati da altri, realizzavamo “u cavallozzu”. Una volta a casa, le ceste rano lasciate coperte per evitare la costipazione, solo dopo molte ore, quando la temperatura del pane si era ridotta, solo allora si provvedeva a sistemare il pane nella madia e, in tempi di estrema miseria, la stessa veniva chiusa a chiave e solo i grandi, la mamma o “u tata” avevano il potere di aprirla quando lo ritenessero necessario.

Pane rrustutu. Specialmente le sere d‟inverno nel focalire, sulla fiamma, non era raro che si mettesse ad abbrustolire il pane che poi veniva insaporito con aglio e condito con olio, pomodoro e sale.

Paparotta. Era il piatto povero più prelibato. Venivano riutilizzate le verdure e i legumi superstiti della sera o sere precedenti. Si tagliava a dadini il pane rappreso, naturalmente proporzionato alla quantità di verdure e legumi rimasti e al numero dei componenti della famiglia. Intanto sul fuoco, nella pentola, era sttao

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messo dell‟olio per farlo sfumare, quando era al punto giusto, si versava il pane a dadi e si faceva soffrigere bene: non ragazzi “rubavamo” il pane soffritto dalla pentola, perché è di gusto prelibato, suscitando naturalemten le proteste della mamma, al momento opportuno, si versavano le verdure e i legumi e si mescolava per un po‟ di tempo, finchè non si fosse amalgamato bene il tutto. Si versava nei piatti e si mangiava con accompagnamento di peperoni di diversa conservazione e il vino, per i grandi, era il nettare che aiutava la degustazione.

Paparussi. Verso i peperoni c‟era un vero e proprio culto. Tantissime erano le varietà che si coltivavano. Quelli amari, quelli dolci e tante varietà intermedie. La degustazione più affasciannte era d‟estate quando i peperoni si raccoglievano e si consumavano freschi: amari con le frise o taralli bagnati, nell‟acqua e sale, nelle varie minestre, con la pasta asciutta, nelle patate lesse, mangiati come insalata. Le prelibatezze erano però i peperoni fritti nell‟olio, anche qui; amari, meno amari e dolci. Si mangiavano ancora caldi, con pomodoro, sale olio; si schiacciavano con un tozzo di pane e si portavano alla bocca e l‟aroma dell‟olio soffritto aromatizzava il palato. Si mangaiavano sulla

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frisa bagnata con olio, sale e pomodoro. Era poi una vera e propria gara la conservazione dei peperoni per l‟inverno. Si conservavano tagliuzzati sott‟olio, in salamoia, con l‟aceto, secchi, ridotti in salsa, sbriciolati, insieme alle melanzane sott‟olio.

Pasta a sciotta. Si otteneva allungando il sugo con acqua e quando la brodaglia bolliva si “calavano i cannoccili o cannocciuleddhri”, pasta corta, di piccolo taglio, di diverse forme. Si consumava di solito la sera d‟inverno, dopo il ritorno dalla campagna o da altro lavoro, quando la famiglia era tutta riunita. Varianti arricchite con un secondo ingrediente erano poi altre paste: pasta e pasuli, pasta e ciciri, pasta e paseddhri, pasta e padate, pasta culli covùli, pasta culle rape, pasta cullu covùlufiuru.

Pasta fatta a casa. La pasta prodotta in modo domestico era un delle ricchezze della cucina nostrana. Si impastava la farina di grano, mista a quella di orzo, con acqua leggermente salata, e si lavorava a lungo, “sc(i)anare”, per renderla omogenea e e morbida, poi col matterello si stendeva e si otteneva la “lavana”, cioè un sottile strato. Da questa si tagliava a seconda del formato che

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bisognava ottenere. A strisce, per le lasagne torte, per la massa. Per altri formati di pasta invece si doveva ridurre la massa in lunghi cilindri dal vario diametro. Si ottenevano le orecchiette, “e ricchiateddhre”, i minchiareddhri, per cnfezionare i quali, era però necessario u “fierriceddhru”, piccolo ferro, lungo una trentina di centimetri, al quale si attorcigliava la pasta sotto la mano esperta della nonna e il formato così era forato all‟interno.

Pisce frittu, ddalassatu, a brodu, rrustutu. Il pesce si comprava dai pescivendoli che venivano da Tricase. Il pesce più comune che si poteva acquistare erano le sarde, i popilli, i culei, le vope; veniva preparato a brodetto, lesso, arrostito, fritto. Si compravano anche le sarde salate alla carne. In occasione di S. Ippazio si comprava la “scapece”, specialità gallipolina, consistente nel trattare i “popilli”, piuttosto piccoli, le “femmineddhre” e la “manoscia”, dopo essere stati fritti in olio, venivano allineati in barilotti di legno. Ogni strato di pesce, vieniva cosparso con abbondante pane di semola grattugiato e bagnato con aceto bianco misto a zafferano. Riempito il barilotto, il pesce veniva compresso col coperchio e lasciato marinare per qualche giorno fino a che i profumi, la fragranza del

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mare e il colore dello zafferano non si amalgamassero perfettamente. Tolto il coperchio, si procedeva al primo assaggio, una delizia per il palato!

Pittèle. A Natale le “pittele” erano fondamentali. Si trattava di far lievitare la pasta, tanta quanta si riteneva sufficiente per la famiglia e per diversi giorni. La sera della vigilia, la mamma o la nonna, dopo aver mandato a letto i piccoli, perché sarebbero stati d‟impaccio, e perché non chiedessero di mangiare le prime, al fuoco del “focalire” iniziava il lungo rito delle “pittele”. Nella pentola veniva versato molto olio, quando cominciava a sfumare, la mano destra agguantava un pugno di pasta e la stringeva, facendola fuoriuscire dal foro prodottosi dalla chiusura del pollice e dell‟indice della mano, con la sinistra prelevava quell‟informe grumo di pasta e veniva immerso nell‟olio bollente e cosi di seguito, finchè non si completava la prima “cotta”, cioè la pentola non fosse colma. Si dava poi seguito alla seconda cotta e così via, fino all‟esaurimento della pasta lievitata. Gustate appena tolte dall‟olio bollente queste hanno un sapore ed un aroma strabiliante. Le pittele venivano consumate così come soffritte, oppure si

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spolverava un po‟ di zucchero, si potevano immergere nel miele. L‟impasto poi poteva conoscere delle varianti: si preparava con i cavolfiori, con le cicorie, con i capperi, alla pizzaiola, col baccalà.

Pittèle ll’cqua. Preparato il sughetto più lento, si immergevano uova impastate con farina e con formaggio, quando diventavano ben rapprese si scodellavano e si consumavano col pane.

Purciaddhuzzi. Si impastava la pasta come per le pittèle. Si rendeva a tocchetti cilindrici di tre-quattro centimetri e si immergevano nell‟olio bollente, quando acquisivano un bel colore dorato si prelevavano. Si potevano mangiare direttamente così, oppure con lo zucchero, col miele.

Regna. Mio padre era ghiotto della “regna”. Si trattava di un piccolo merluzzo che veniva privato delle interiora, affumicato, appena salato. Lo comprava alla fiera di S. Ippazio, il 19 gennaio.

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Sangunazzu. Di tanto in tanto si acquistava “u sangunazzu”. E‟ il sangue del maiale macellato che si raccoglieva e si mescolava con pezzetti di grasso, delle orecchie, della coda, del muso dello stesso maiale, tutti questi, insieme a peperoncino, pepe, sale ed altri aromi, veniva conficcato nelle interiora del maiale, naturalmente dopo che erano state pulite bene. Dopo di ciò venivano immerse nell‟acqua e cotto al fuoco. Si mangiava a tavola, tagliandolo a fette, col pane, con l‟insalata ed, il vino era di ottima compagnìa.

Stoccàpisce. Era il rongo o il merluzzo essiccato che sia acquistava come un pezzo di legno. Era duro, per ridurlo a pezzettini bisognava tagliarlo con il “sarracchio”, la sega, e tenerlo a mollo per circa quindici giorni. Dopo si poteva cucinare, dopo aver preparato un sughetto, i pezzettini si immergevano in questo e si poteva mangiare quando diventava tenero e profumato. Per le famiglie era tradizione consumarlo nel periodo di Natale.

Sulitri. Una pianta spontanea particolare sono i “sulitri”. Si doveva raccogliere nei primi mesi estivi, quando le

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foglie sono ancora tenere, andavano lavati, si facevano saltare in olio bollente nel quale era stato rosolato dell‟aglio. Non c‟era bisogno di lessarli. I “sulitri” ci venivano messi su una fetta di pane casereccio e potevamo mangiarlo anche fuori di casa, stando per strada con gli amici a giocare.

U sciuttìddhru. Erano i peperoni misti, amari e dolci, che si soffrigevano, a parte veniva preparato un sughetto e dopo si immergevano i peperoni nel sughetto, dopo essersi amalgamati per bene, si potevano servire.

U stànatu. Era una sorta di pizza contenuta in una teglia. Poteva essere impasto di farina o di patate, il condimento poteva essere il più vario: olio, sale, pepe, cipolle, salsa di pomodoro, origano e di solito veniva cotto al forno, sia quando si confezionava il pane, sia in occasioni diverse.

Zzavirne. Un‟altra pianta spontanea che faceva parte della nostra alimentazione erano le “zzavirne”, cresceva in luoghi solitari, assomigliava ad una cicoria e ad un finocchio, aveva un sapore delicato, tra la salvia-

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menta-finocchio. Si lessava, poi si friggeva e si amalgamava con uova e pane grattugiato.

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Giochi e divertimenti Tiggianesi.

A buttuni o furmeddhre. Ci si giocava i bottoni o le formelle dei vestiti. Per poter vincere i grossi bottoni (i buttunacci) bisognava superare la prova per due volte di seguito. A volte, si strappavano dalle camicie, dalle giacche, dai pantaloni, per poter partecipare al gioco. Quando la mamma si accorgeva scoppiava il finimondo! Erano diversi i giochi.

A palline.(biglie) Si produceva una buca per terra, i giocatori alla distanza convenuta, dopo aver tirato a sorte dovevano far entrare la biglia nella buca. Chi riusciva a farlo, comandava il gioco; facendo centro dalla buca, questi allungando i palmi delle mani e tenendo la biglia nella amno destra tra il medio e il pollice, spingendo conme un piccolo stantuffo, questi cercava di colpire la biglia avversaria fuori della buca, se riusciva a colpirla vinceva quella biglia. Il gioco continuava in questo modo, fino all‟esaurimento delle bilgie da parte di qualche concorrente, oppure fino alla stanchezza. C‟era un vero e proprio giro d‟affari; si compravano e si cedevano biglie, quelle più grosse avevano un valore più elevato, insieme a quelle multicolorate.

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A puzza. Era un gioco inerme; toccato a sorte con le dita dlle mani, il prescelto dalla sorte doveva raggiungere qualche giocatore che intanto scappava, chi veniva raggiunto e toccato era portatore della “puzza”, che, a sua volta, doveva cercare di trasmetterla all‟altro, raggiungendolo in corsa e toccandolo. Il gioco finiva quando si era esausti delle corse.

A rubare frutta, fave, piselli. Era un divertimento, ma anche una esigenza per assaporare le verdi primizie. Specialmente la domenica, a gruppi, ci si organizzava per recarsi in campagna a „rubare‟ le primizie dette.

A rubare nidi. In primavera ci si divertiva ad andare a scovare nidi nei quali gli uccelli avevano deposto le uova dalle quali, più tardi schiudendosi, fuoriuscivano gli uccellini. I ragazzi o prelevavano le uova per trastullarsi con esse, alla fine venivano lanciate per distruggerle, oppure si prelevavano gli implumi più o meno grandi e si procuravano ai piccoli animaletti tante di quelle torture. Qualcuno tentava di portarseli a casa e custodirli in una scatola di cartone, i più fortunati nella gabbia, ma come era naturale, dopo pochi giorni gli uccellini morivano.

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A scàrraca. Un gruppo di ragazzi tiravano a sorte, il malcapitato doveva piegarsi con la testa e le mani appoggiati al muro, gli altri, dopo una rincorsa, dovevano saltargli in groppa e quegli doveva reggere tutti sulla spalla. Il malcapitato vinceva il gioco, se riusciva a resistere, in un arco di tempo prestabilito.

A soldi. Erano diversi i giochi in cui si puntavano dei soldi. Uno dei più comuni era “alli lapuni”, già descritto, l‟altro “a batta parite”. Si stabiliva la posta, tirato a sorte, il primo batteva con la moneta al muro e doveva cercare di farla allontanare quanto più possibile, il secondo batteva al muro e doveva tentare di avvicinarsi alla moneta del primo che stava a terra di quel tanto di poter essere „vinta‟, se cioè la seconda moneta cadeva alla distanza del palmo della mano del battitore, questi vinceva la moneta in gioco. E così via. L‟abilità consisteva ad allontanare la moneta quanto più possibile, e al proprio turno, calcolare quanta energia bisognava imprimere alla mano per cercare che la propria moneta si ponesse alla distanza inferiore del proprio palmo della mano, per poter vincere.

A schiànta schiànta. Un gruppo di ragazzi, tirato a sorte, cominciavano il gioco. Il sorteggiato doveva

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cercare di raggiungere l‟altro che si dava a correre, ma era un correre non rettilineo, in modo da ingannare la traiettoria di chi rincorreva, se però si era raggiunti e toccati, la corsa del primo giocatore terminava e bisognava bloccarsi; si doveva attendere l‟eventuale “liberazione” di un altro compagno, se riusciva ad eludere la rincorsa e la sorveglianza dell‟incaricato a bloccare tutti. Il gioco terminava se tutti erano stati toccati dal sorteggiano e quindi con la suo vittoria.

A stacce. Generalmente si giocava il pomeriggio della domenica. La staccia era una pietra piatta, piccola da essere manovrabile con la mano. Ogni giocatore si cercava la propria, oppure si conservava di volta in volta, e si tirava a sorte e cominciava il gioco. Una pietra più rozza, più arrotondata fungeva da punto che il primo lanciava ad una certa distanza, i giocatori dovevano far giungere la propria pietra (staccia) il più vicino possibile al „punto‟, naturalmente realizzava il punto la pietra più vicina. Si vinceva la partita quando si totalizzavano 15 punti. Si dava poi seguito al “padrone”. La pietra più vicina al punto segnava il „padrone‟ che poteva fare il bello e il cattivo tempo con le poste in gioco di chi aveva perso la partita. Di solito ci si recava alla “putea de mieru”, dove gli anziani giocavano a carte e bevevano vino. Il

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„padrone‟ comprava, a suo piacimento, con le somme corrispondenti alle poste, fave, ceci arrostiti, aranciate, gassose („sitalore‟) e le distribuiva ai giocatori a suo esclusivo giudizio. Il giocatore al quale il „padrone‟ (patrunu) non elargiva nulla, si diceva, che era rimasto „all‟urmu‟ (all‟olmo). Espressione dal significato botanico; come l‟olmo campestre era, nel passato, tutore della vite, così il „padrone‟ era tutore dei beni di consumo rivenienti dalla perdita della posta della squadra sconfitta e che poteva ritirare la „sua‟ protezione, non elargendo la sua „bontà‟ a chi riteneva che non dovesse essere ricompensato con fave o con bibita. Naturalmente in seguito si intrecciavano propositi di riscatto, da parte di chi rimaneva „all‟olmo‟ e nelle prossime giocate il malcapitato cercava di rifarsi, diventando „padrone‟, esercitando una maggiore abilità con la „staccia‟ in mano per poi attuare la vendetta nei riguardi del precedente „padrone‟. Il gioco delle „stacce‟ era la brutta copia di quello delle bocce che, non era consentito fare a noi ragazzi, perché vietato dall‟esercente „a putea de mieru‟, in quanto ai ragazzi era proibito adoperare le bocce, riservate ai grandi. La felicità domenicale era quando, diventati adulti, potevamo finalmente adoperare, anche noi, le bocce. Non c‟erano le piste di oggi, si

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giocava per strada e le tecniche di avvicinamento della propria boccia al ‟punto‟ erano tante. Per esempio il „punto scusi, cinca nne face, nne face doi‟, cioè il giocatore che si avvicinava di più al punto nascosto, era premiato con un doppio punteggio; era un modo per provare le proprie abilità e la propria attenzione. Il „punto si faceva arrivare in un sito non visto, nascosto, il giocatore doveva tentare di avvicinarsi al „punto‟, tenendo conto della sua velocità, della traiettoria, facendo affidamento sul proprio intuito. Era un gioco di destrezza, ma anche di abilità manuale.

Il gioco dei lapuni. Consisteva nel produrre nove buche simmetriche per terra, poi si stabiliva una certa distanza e con un arancio o una pallina, tirato a sorte, si provava a farli entrare in una buca, tanto meglio in quella centrale. La posta in gioco poteva essere diversa: bottoni, nocciòli, soldi, chi riusciva a far entrare la pallina in una buca, aveva diritto a riscuotere la sua posta, se invece era fortunato e riusciva a far entrare la pallina o l‟arancio nella buca centrale, aveva diritto a riscuotere tutte le poste in gioco. Quando l‟oggetto che rotolava si fermava sul bordo delle buche di diceva: “Ha fattu tiddhra”. Quando

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entrava in una buca: “aggiu fatta a mia”. Quando invece entrava in quella centrale, era l‟esultanza del giocatore: “aggiu fattu menzu”.

Il gioco dei sassi (paddhri). Era un gioco prettamente delle ragazze, ma anche noi maschietti ci cimentavamo. Ci si procuravano cinque sassolini quanto più rotondeggianti possibile. Una volta toccato a sorte, la prima cominciava il gioco che si snocciolava lungo diverse fasi. A uno. Seduti su una superficie piana, si lanciavano i sassi per terra e si dovevano raccogliere uno alla volta, lanciando sempre in aria un sasso e mantenendo via via nella mano i sassi raccolti, recuperando quello lanciato in alto; si perdeva se non si riusciva a condurre a termine il gioco. A due. Lanciati i sassi per terra, se ne lanciava uno in alto e simultaneamente si dovevano raccogliere a due a due i sassi da terra e riprendere il sasso lanciato in alto. A tre. Si spargevano i sassi per terra, uno si lanciava in alto, mentre bisognava raccogliere prima un solo sasso, poi al secondo lancio tre sassi insieme e recuperare sempre quello lanciato in alto. A quattro. Si procedeva allo stesso modo e lanciato un sasso in alto si dovevano raccogliere nel palmo

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della mano gli altri quattro da terra e recuperare quello lanciato in alto. Successivamente si doveva rilanciare in alto un sasso e battere a terra gli altri quattro che erano nella mano e raccoglierli di nuovo tutti insieme e recuperare sempre quello lanciato in alto. Al portone. Si posizionava la mano sinistra sulla superficie con il pollice e l‟indice aperti a costituire una specie di „portone‟. Con la mano destra passando da dietro quella sinistra si lanciavano i sassi davanti al „portone‟, si sceglieva il sasso da lanciare in alto e simultaneamente bisognava far entrare nel „portone‟ ad uno ad uno i sassi. Dopo si disfaceva il „portone‟ della mano sinistra e bisognava raccoglierli insieme, mentre uno veniva sempre lanciato in alto, doveva essere raccolto insieme a quelli da terra. A traballante. I sassi per terra, se ne sceglieva uno da lanciare in alto mentre con la stessa mano se ne raccoglieva uno da terra; ora i due venivano lanciati in alto e contemporaneamente si doveva raccogliere un altro sasso da terra, ora si lanciavano in alto i tre sassi e raccogliere da terra un altro, ora erano quattro ad essere lanciati in alto e si doveva simultaneamente raccattare l‟ultimo da terra, infine venivano lanciati tutti in alto e raccolti di nuovo nel palmo della mano. Perdeva naturalmente chi non avesse l‟abilità a raccogliere i sassi dall‟alto e da terra.

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Al dorso. Si lanciavano i cinque sassi in alto, intanto si girava la mano sul dorso, abbassando il medio in modo da formare una sorta di vuoto nel quale dovevano essere raccolti i sassi lanciati in alto. Quanti più sassi si riusciva a mantenere in qul cavo delle dita più punti si acquistavano. Il gioco terminava così, vinceva la manche chi riusciva a superare tutte le fasi senza errori. Anche questo gioco era prettamente esercitato dalle ragazze che dimostravano di possedere una maggiore abilità e destrezza dei ragazzi.

Il gioco della campana. Consisteva nel tracciare per terra nove circonferenze a zig zag, lungo un asse centrale. I circoli venivano numerati. Il giocatore doveva lanciare successivamente nei circoli, dal primo al nove, un coperchio di terracotta e poi saltellare con un solo piede, dal primo circolo all‟ultimo e ritorno, e così successivamente fino all‟ultimo circolo. Se il coperchio cadeva fuori del circolo si perdeva il turno e il gioco passava al secondo giocatore. Anche questo era un divertimento prettamente femminile.

Il gioco delle noci. Quando si avevano a disposizione le noci novelle, da settembre in poi, si giocava con

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queste. Ogni giocatore doveva mettere alla posta la sua noce che venivano sistemate su un ciglio di terra o sabbia, ad una distanza convenuta, si tracciava una linea per terra, da quella linea, tirato a sorte, ogni giocatore lanciava la propria noce a colpire quelle posizionate sulla terra. Se qualche noce si rovesciava diventava di appannaggio di quel giocatore. Se la noce lanciata, poi, superava la linea delle noci posizionate, dopo che tutti i giocatori avevano esercitato il proprio turno, dal più lontano al più vicino, di spalla e arcuandosi all‟indietro, si cercava di rovesciare le noci per vincere.

Il telefono. Da ragazzi si giocava col telefono. Ci si procurava uno spago piuttosto lungo, ad un capo si legava un oggetto cavo e lo si poneva all‟orecchio, mentre dall‟altro parte del capo, l‟emittente parlava in un altro oggetto cavo, i suoni viaggiavano così lungo lo spago e ci si divertiva, simulando la telefonata.

La palla al muro. Si tirava a sorte e la giocatrice, ad una distanza convenuta dal muro, lanciava la palla contro di questo e doveva poi raccogliere dicendo: sono. Poi la rilanciava ancora al muro e doveva girarsi su sè stessa

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e raccogliere poi la palla dicendo: faccio. A volte, le più abili potevano girare su sè stesse anche due volte, riuscendo sempre a recuperare la palla che ritornava dal muro. Si rilanciava la palla al muro e la si faceva battere a terra e la si recuperava, dicendo: tocco. Si rilanciava la palla al muro e la si lasciava rimbalzare tre volte a terra e la si recuperava dicendo: rimando, uno, due, tre. Il gioco finiva così. Anche questo gioco era esclusivo appannaggio delle ragazze che dimostravano una maggiore capacità elastica rispetto ai ragazzi.

U carrarmatu. Si trattava di un rocchetto di cotone esaurito, che veniva gettato e noi ragazzi lo raccoglievamo, lo sottoponevamo ad operazione chirurgica. Facevamo delle scanalature sui due cerchi esterni e per noi diventavano le ruote dentate del carro armato. Nel tunnel facevamo passare un elastico di camera d‟aria di bicicletta, da un lato lo agganciavamo ad un piccolo legnetto o piccolo chiodo che doveva fungere da fermo, dall‟altra parte dell‟elastico si attorcigliava un chiodo più lungo. Si procedeva a girare quanto più possibile il chiodo in modo che l‟elastico attorcigliato subisse una tensione, posato per terra e lasciato il chiodo, il rocchetto si muoveva per effetto

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dell‟elastico interno che si srotolava, a noi sembrava che fosse un carro armato, con i cingoli.

U fitu. La trottola. Il gioco consisteva nell‟attorcigliare uno spago intorno alla fusoliera della trottola di legno, tenerne il capo nella mano e lanciarla per terra, tirando velocemente a sé lo spago, la trottola prendeva a girare su sé stessa velocemente. Vinceva chi faceva durare di più la rotazione della trottola. Un‟abilità aggiuntiva era poi prenderla nel palmo della mano, mentre la stessa continuava a ruotare e finiva di farlo nella mano.

U vurlu. Consisteva nel correre dietro un cerchio nudo di bicicletta, spinto da un bastoncino, col quale si guidava il percorso del cerchio. L‟abilità consisteva nel fare le curve, nel salire o scendere col cerchio da un gradino, nel lanciarsi a tutta velocità in una discesa.

A cacai e cannallini. Quando seguivamo una sposa lo facevamo per raccogliere da terra i “cacai e i cannellini”, i confetti più grossi e più piccoli che gli invitati, lungo il tragitto

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dalla casa della sposa alla chiesa, lanciavano per festeggiare l‟avvenimento e noi ci lanciavamo a capofitto a raccoglierne quanti più possibile. A volte si arrivava anche a darsele di santa ragione per affermare il diritto che il “cacao” o i “cannallini” li avevo presi io per primo. Dopo che il corteo nuziale aveva finito di attraversare le vie del paese, ritirandosi in casa dello sposo, per i festeggiamenti, noi ragazzi cominciavamo a giocare a “cannallini”. Si sceglieva uno scivolo, sotto una cunetta e, a sorte, si lasciavano cadere dall‟alto i “cannallini”, se il mio riusciva, nella discesa, a toccare quello dell‟avversario si vinceva il cannallino dell‟avversario e, così via.

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Insulti, scherni e dileggi Tiggianesi.

Ci cu nnanca, ci cu nnu pede va a Cursanu ca trova mujere=ancora nell‟immaginario, si era convinti che a Corano, qualsiasi tiggianese trovava la sposa adatta, in quanto, innanzitutto perché più numerosi di noi e poi perché c‟era l‟ansia, la fretta, l‟affanno di sistemarsi delle donne, per cui ogi giovane poteva trovare la propria donna.

Cistareddhri=gli abitanti di Caprarica venivano apostrofati con tale nome, i quanto si considerava quella società più chiusa, più antiquata e come le civette amano il buio, cos‟ quelli.

Cucuzzari=erano i tricasini che nell‟immaginario collettivo erano i maggiori produttori di zucchina.

Cursanisi carcagni tisi=i corsanisi, nell‟immaginario collettivo di noi tiggianesi, sono sempre stati considerati più sfrontati, più capaci di imprese, più avventurieri, più furbi.

Sciudei (Gli alessanesi)=era un nomignolo infamante, in quanto ad Alessano c‟era stata una

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comunità di ebrei, tanto è vero che ancora esiste via della Giudecca. Il nostro insulto significava che gli alessanesi erano come gli ebrei (sciudei-giudei), e cioè spregiudicati e nulla facenti, capaci speculatori come gli ebrei.

Ventri janchi (I gaglianesi)=non saprei spiegare come mai ai gaglianesi si appioppasse tale insulto, evidentemente si presumeva che fossero più coperti di noi, anche durante l‟estate, per cui la loro pancia rimaneva sempre bianca, anche d‟estate.

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Mestieri d’una volta esercitati in modo fisso e in modo ambulante.

Do solo un elenco dei mestieri che si svolgevano in posto fisso e poi quelli che venivano svolti in modo ambulante. A posto fisso. Beccaio - farraru – filatrice - furnaru - maniscalco – mesciu de trainu - sapunaro - sartu - scarparu – spaccafricciu - tessitrice - zuccature – venditore di spirito - stagnino – trappataru.

Ambulanti. Banditore – capiddhraru - carrettiere – chiancimorti - cistaru - conzalimmi - guardafili – mbrellaru – raccoglitrice d’olive – ovaluru – sarta - sciurnatieri - spigolatrice – tainieri - trifinaru - ttaccascupe - vinni pisce.

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Conclusione. Alla fine di questa lunga ricerca, dichiaro che non sono completamente soddisfatto, in quanto ci sarebbe stato tanto altro da riportare, ma mi sono accorto, man mano che proseguivo nel lavoro, che è quasi umanamente impossibile, poter riportare tutte le espressioni dialettali nella loro diversa sfaccettatura e nella molteplicità dei significati e delle intonazioni. Non essendo quindi la mia ricerca esaustiva, mi auguro che qualche altro ricercatore, più preparato di me, più paziente di me, voglia continuare il lavoro da me iniziato. Io sarò felicissimo di poter sapere che altri sta completando un lavoro da me appena accennato. Sarebbe un grande pregio per chi lo vorrà fare, in quanto si darebbe uno strumento di memoria e di conoscenza ai giovani, anche ricercatori, anche se non presentemente motivati, ma che in futuro sentirebbero la necessità di accostarsi a questo tipo di ricerca. Dichiaro da subito che io sono sempre disponibilissimo a dare il mio contributo alla buona riuscita di una nuova impresa se alcuna verrà messa in moto.

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Ringrazio qui la dott.ssa Angela Corvaglia che pur lavorando a Parigi, ha voluto presentare questa mia ricerca senza alcuna pretesa di scientificità. Ringrazio il dott. Carlos Simao, portoghese d‟origine, ma tiggianese di elezione, per aver saputo essere di stimolo e di aver voluto, da “straniero”, rendersi maggiormente conto della nostra più atavica comuinicazione; penso di averlo aiutato un pochino a penetrare maggiormente nell‟animo dei tiggianesi attraverso una conoscenza migliore e maggiore del nostro volgare.

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Bibliografia.

1 Dal Convegno di Messina del 1964 alla Monografia del Salento. E‟ una raccolta di fotocopie 2 Dal Convegno di Messina…....op. cit. 3 Dal Convegno di Messina…... op. cit. 4 Dal Convegno di Messina……op.cit. 5 Dal Convegno di Messina……op. cit. 6 Dal Convegno di Messina……op. cit. 7 Dal Convegno di Messina……op.cit. 8 C.N.R. Centro Studi per la Dialettologia italiana. “Oronzo Parlangèli”. Padova, Salento. Monografia Regionale della Carta dei Dialetti Italiani. A cura di G. B. Bancarella, Edizioni del Grifo, Lecce 1998. In “Dal convegno di Messina del 1964 alla Monografia del Salento”. 9 Oronzo Parlangèli, Scritti di Dialettologia, Ristampa a cura di G. Falcone-G.B. Bancarella, Congedo, MCMLXXII, pagg. 12-13. 10 Stefano Leonardo Imperio, Alle origini del dialetto pugliese, Schena editore, 1990. 11 Tutte le voci di questo elenco le ho dedotte da: Stefano Leonardo Imperio, op. cit. 12 Franca Assante, Città e campagne nella Puglia del secolo XIX.

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L‟evoluzione demografica. Genève, Libreie Droc, 1974, pag. 425. Introduzione IX – X – XI.

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Bibliografia Consultata. 1) Amministrazione comunale di , C‟era una volta…i mestieri, Piero Manni editore, Lecce 1998. 2) Francesco D‟Elia, Vita e opere di Giuseppe De Domicis (Capitano Black), a cura di M. Congedo e M. Paone, 2 volumi, Congedo editore, Galatina 1976. 3) G. Bronzini, Folk-lore e cultura tradizionale, Adriatica editrice, Bari 1970. 4) Gino Meuli, I dialetti del capo di Leuca, Grafiche Panico, Galatina 2004. 5) Mario D‟Elia, Corso di filologia romanza-aspetti della latinità volgare nel medioevo, Facoltà di Magistero, Lecce Anno accademico 1968-69. 6) Ottocento dialettale salentino, a cura di Ribelle Roberti, 1° volume, Editrice Pajano, Galatina 1950. 7) Speciale Quotidiano (Supplemento), Pani, Pesci e Briganti - Piatti da leggere, storie da mangiare, a cura di Antonio Maniglio, Lecce Giugno 1991.

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Indice

Presentazione Pagina 1 La carta dei dialetti “ 8 Il Salento nella storia linguistica “ 12 Romanizzazione del Salento “ 15 Il dialetto salentino “ 19 Per quale motivo pubblicare ricerche di dialettologia? “ 23 La fonetica “ 28 Le aree dialettali “ 32 Il dialetto di Tiggiano “ 41 Espressioni dialettali tiggianesi “ 44 Proverbi tiggianesi “ 104 I soprannomi tiggianesi “ 119 Oronimìa tiggianese “ 127 Antichi toponimi stradali “ 135 Monete, pesi e misure “ 136 Cucina tigginaese “ 141 Giochi e divertimenti “ 170 Insulti tiggianesi “ 183 I mestieri fissi e ambulanti “ 185 Conclusione “ 186 Bibliografia “ 188 Bibliografia consultata “ 190

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