Michelstaedter E L'oblio: Tra Nietzsche Ed Heidegger 1 I Persuasi4
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Michelstaedter e l'oblio: tra Nietzsche ed Heidegger Giulio Ginnetti Abstract Un dialogo che si sviluppa, partendo dalla prospettiva privilegiata di Michelstaedter, come una serie di discussioni al cui centro pulsa la cara vita. Come ogni dialogo forse si concluderà con poche indicazioni chiare ma molti superamenti e discordanze. L’oblio è la condizione di possibilità dell’azione, il fulcro cui ogni prospettiva è costretta per rivolgersi: al tragico, alla necessità, al dire e alla differenza. In quest’ottica potrà essere compresa la problematicità che ogni dover essere, ogni tensione alla persuasione o all’autenticità, porta con sé. Introduzione "Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno; e questa è disonestà" 1. L'importante non può essere detto allora, perché parlarne? Perché scrivere di una freccia che non coglierà mai il bersaglio? Perché: "questo dolore accomuna tutte le cose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la morte"2. Così si scrive esalando su carta la colpa più grave, la mancanza di coraggio! Ah come ci riprenderebbe Bulgakov3, eppure lui stesso vive della mancanza e ne manca in quanto vive e scrive, nel mondo e del mondo. In pochissimi hanno ricordato di colmare la loro incompletezza. Lo hanno dimenticato tutti gli altri perché, forse, non si può che dimenticare. 1 I persuasi4 Definire la persuasione è un'impresa che eccede le mie possibilità e, per quanto si intende sostentere, sarebbe sbagliato lo stesso tentativo di definizione. Ciò che si può fare è tratteggiare, con matita finissima, i lineamenti comuni ai volti dei persuasi. Somiglianze particolari che spiegano l'impossibilità della persuasione universale. Dietro tutte le maschere di Galton non c'è alcun volto. La tesi di laurea5 di Michelstaedter si apre con la metafora del peso, esemplificazione della vita rettorica; nello stesso modo inizieremo la trattazione: "La sua vita (quella del peso) è questa mancanza della sua vita" 6. Mancanza di un qualcosa di determinato, di sempre una nuova cosa determinata ma, se il peso: "non mancasse più di niente, esso avrebbe smesso d'esistere"7. La vita rettorica è tiranneggiata dalla voce della φιλοψυχία così che la volontà è sempre volontà di vita, che si oggettiva in un continuum di forme determinate. "Il peso è a se stesso impedimento a possedere la sua vita e non dipende più da altro che da se stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può essere persuaso"8. La metafora della gravità mostra come il peso non possa semplicemente essere chiamato a volere le cose più basse in quanto è, per sua stessa natura, chiamato a discendere. Infatti come un corpo non può esimersi dal 1 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 35, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. 2 Ivi. Pag. 59. 3 Il riferimento è all'oper di Bulgakov: “Il maestro e margherita” dove lo scrittore imputa a Pilato la colpa più grave: la mancanza di coraggio. 4 L'analisi qui proposta del pensiero di Michelstaedter è di certo incompleta considerando anche lo spazio proprio di un articolo. Per una più approfondita e completa analisi critica si rimanda al testo di Giorgio Brianese: “L'arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter”, Francisci, Abano Terme 1985, nuova edizione riveduta ed ampliata, Mimesis, Milano-Udine 2010. 5 Per una spiegazione puntuale e dettagliata del testo: “La persuasione e la rettorica” si rimanda al puntuale lavoro ermeneutico svolto da Pedro Manuel Bortoluzzi nel suo: “Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell'essere”, Inschibboden, 2017. 6 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 40, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. 7 Ibidem. 8 Ibidem. rispondere alla chiamata della forza di gravità, così il peso non potrà che esasperatamente volere vivere. Il peso perciò non è un progetto bisognoso di completamento perché non potrebbe esser tale se non nell'incompletezza. Più propriamente il peso è bisognoso di completamento ma non può esserlo. Sembra risuonare l'aporia con cui si chiude la sezione prima di: “Essere e tempo” ovvero: il poter-essere non trova compimento e la manchevolezza diviene così il fulcro dell'esistenza. L’uomo è così condannato allo scacco della volontà, la sua stessa esistenza è sottomessa al giogo della volontà. In quest'ottica però il problema potrebbe risolversi solo nel momento in cui il peso smettesse, inspiegabilmente, di volere. Se si leggesse secondo questa dicotomia il pensiero di Michelstaedter, le due opzioni andrebbero a costituirsi tra un non- volere ed un volere con evidente soluzione nel primo. Un ente non volitivo però è da considerarsi morto. Conclusivamente non potremmo che considerare Michelstaedter quale teorico del suicidio ma, lo stesso Michelstaedter, scrive: “Rettorica del suicidio: la rivoltella, i veleni, perché l'uomo possa andarsene dalla vita a sangue freddo, senza misurare nemmeno nell'istante estremo la profondità della vita, del suo attaccamento alla vita, come sente il suicida che si mette in posizioni dove la morte appare nella forma di mortale pericolo che il corpo ha sempre fuggito: pugnale, fuoco, salto precipitoso, ecc.”9. 1.1 Dell'identità assoluta “Ma dove sono io non è il mare; se voglio andare dove è l'acqua e averla – le onde si fendono davanti all'uomo che nuota; se bevo il salso, se esulto come un delfino – se m'annego – ma ancora il mare non lo posseggo: sono solo e diverso in mezzo al mare”10. Questo passaggio permette di individuare un punto determinante. Michelstaedter infatti gioca sulla dicotomia tra identico e diverso per mostrare ciò che è problematico nella vita rettorica, e quindi ciò che deve essere colto, all’opposto, per invertire tale condanna all’illusione. Michelstaedter rientra nella logica dualistica tra assenza e pienezza, o meglio, manchevolezza e completezza. L’uomo è strutturalmente manchevole e non può possedere il mare ma, nemmeno l’amante, o altra cosa. Michelsteadter ci mostra l’irriducibilità del diverso ed il gioco vano cui il volere ci consegna. L’impossibilità delle stesse mire del volere, il continuo bisogno di possedere l’altro. In questo quadro infatti la peggiore delle condizioni è quella in cui l’uomo è solo e perciò, costretto con se stesso, egli manca di tutto. Ciò in cui effettivamente si concretizza il problema e da cui deriva, in maniera opposta, la soluzione è il ricercare in ciò che è irriducibilmente diverso l'identità e la vita. Questo è l'errore fondamentale e solo nella ricerca, nella diversità dell'adempimento della mancanza la solitudine è drammatica. La cieca fame del diverso è la volontà di vita che però, nel suo stesso perpetuarsi e manifestarsi, non fa che perdere la vita stessa. La vita perciò, sembra suggerirci Michelstaedter, è cinetica inquietudine che si disgrega nella molteplicità delle forme che la volontà assume per il suo inesauribile e insoddisfabile bisogno di pienezza identitaria. Michelstaedter suggerisce coerentemente che la ricerca deve essere mossa verso di sé. L'uomo infatti cerca nell'alterità qualcosa che può trovare solo in sé. Se l'uomo della rettorica si disperde quotidianamente in ogni nuovo volere determinato, si abbandona alla dipendenza della molteplicità, delle infinite forme determinate allora: "il suo fine è un esser passivo". La volontà di vita è, rettoricamente, passiva. L'individuo perciò si disperde mantenendo l'irriducibile differenza. Bisogna allora procedere in negativo e comprendere come affinché il persuaso sia tale, la volontà debba trasformarsi. La volontà deve divenire attiva e assoluta. Cosa significa questo? Significa che non si oggettiva più in sempre nuove forme determinate perché è una volontà che ha già tutte le cose in sé e quindi non dipende più da nulla ma, appunto, è puramente attiva in quanto assoluta, sciolta da ogni dipendenza. Ciò però non deve condurre a pensare di dovere, in questo modo, volare sino al cielo e che la volontà liberata sia una perdita della gravità. Michelstaedter anzi imputerà questa incomprensione a Platone. L'assolutezza non implica l'essere sciolto da ogni legame infatti Michelstaedter, riferendosi a Socrate, afferma: " Essere indipendenti dalla gravità vuol dire non avere peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. - Ma 9 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Brianese, pag.207 Mimesis, Milano – Udine 2010. 10 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 40, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. consunta insieme la speranza della libertà e la schiavitù - lo spirito indipendente e la gravità - la necessità della terra e la volontà del sole - né volò al sole - né restò sulla terra; - ne fu indipendente né schiavo" 11. L'assolutezza infatti è probabilmente da individuare dall'esser liberi da ogni peso, sgravati da quella dipendenza cui il volere ci consegna. La volontà trasformata smette anche di essere volontà di vita perché ha già in sé la vita. Proprio nella trasformazione della volontà infatti il persuaso trova in sé la vita. La volontà di vita inoltre, finché è tale, non ci appartiene totalmente. Noi stessi ci troviamo ad essere passivi perché costretti da questa volontà che è oltre il nostro stesso potere e quindi ci consegna alla passività. Passiva quindi in un duplice senso, il primo è quello della dipendenza dal rapporto con le cose. Il secondo consiste nell'incoercibilità della volontà di vita, nell'eccedenza incontrollabile. Michelstaedter, nella sua intera produzione, invita a ripensare gli stessi termini di uso quotidiano per mostrarne l'illusorietà. Questo è evidente quando parla della vita del peso, della vita del persuaso che non può più essere definita vita qualora fosse concepita nella quotidiana prospettiva della rettorica.