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Michelstaedter e l'oblio: tra Nietzsche ed Heidegger

Giulio Ginnetti

Abstract

Un dialogo che si sviluppa, partendo dalla prospettiva privilegiata di Michelstaedter, come una serie di discussioni al cui centro pulsa la cara vita. Come ogni dialogo forse si concluderà con poche indicazioni chiare ma molti superamenti e discordanze. L’oblio è la condizione di possibilità dell’azione, il fulcro cui ogni prospettiva è costretta per rivolgersi: al tragico, alla necessità, al dire e alla differenza. In quest’ottica potrà essere compresa la problematicità che ogni dover essere, ogni tensione alla persuasione o all’autenticità, porta con sé.

Introduzione

"Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno; e questa è disonestà" 1. L'importante non può essere detto allora, perché parlarne? Perché scrivere di una freccia che non coglierà mai il bersaglio? Perché: "questo dolore accomuna tutte le cose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la morte"2. Così si scrive esalando su carta la colpa più grave, la mancanza di coraggio! Ah come ci riprenderebbe Bulgakov3, eppure lui stesso vive della mancanza e ne manca in quanto vive e scrive, nel mondo e del mondo. In pochissimi hanno ricordato di colmare la loro incompletezza. Lo hanno dimenticato tutti gli altri perché, forse, non si può che dimenticare.

1 I persuasi4

Definire la persuasione è un'impresa che eccede le mie possibilità e, per quanto si intende sostentere, sarebbe sbagliato lo stesso tentativo di definizione. Ciò che si può fare è tratteggiare, con matita finissima, i lineamenti comuni ai volti dei persuasi. Somiglianze particolari che spiegano l'impossibilità della persuasione universale. Dietro tutte le maschere di Galton non c'è alcun volto.

La tesi di laurea5 di Michelstaedter si apre con la metafora del peso, esemplificazione della vita rettorica; nello stesso modo inizieremo la trattazione: "La sua vita (quella del peso) è questa mancanza della sua vita" 6. Mancanza di un qualcosa di determinato, di sempre una nuova cosa determinata ma, se il peso: "non mancasse più di niente, esso avrebbe smesso d'esistere"7. La vita rettorica è tiranneggiata dalla voce della φιλοψυχία così che la volontà è sempre volontà di vita, che si oggettiva in un continuum di forme determinate. "Il peso è a se stesso impedimento a possedere la sua vita e non dipende più da altro che da se stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può essere persuaso"8. La metafora della gravità mostra come il peso non possa semplicemente essere chiamato a volere le cose più basse in quanto è, per sua stessa natura, chiamato a discendere. Infatti come un corpo non può esimersi dal

1 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 35, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. 2 Ivi. Pag. 59. 3 Il riferimento è all'oper di Bulgakov: “Il maestro e margherita” dove lo scrittore imputa a Pilato la colpa più grave: la mancanza di coraggio. 4 L'analisi qui proposta del pensiero di Michelstaedter è di certo incompleta considerando anche lo spazio proprio di un articolo. Per una più approfondita e completa analisi critica si rimanda al testo di Giorgio Brianese: “L'arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter”, Francisci, Abano Terme 1985, nuova edizione riveduta ed ampliata, Mimesis, Milano-Udine 2010. 5 Per una spiegazione puntuale e dettagliata del testo: “La persuasione e la rettorica” si rimanda al puntuale lavoro ermeneutico svolto da Pedro Manuel Bortoluzzi nel suo: “Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell'essere”, Inschibboden, 2017. 6 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 40, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. 7 Ibidem. 8 Ibidem. rispondere alla chiamata della forza di gravità, così il peso non potrà che esasperatamente volere vivere. Il peso perciò non è un progetto bisognoso di completamento perché non potrebbe esser tale se non nell'incompletezza. Più propriamente il peso è bisognoso di completamento ma non può esserlo. Sembra risuonare l'aporia con cui si chiude la sezione prima di: “Essere e tempo” ovvero: il poter-essere non trova compimento e la manchevolezza diviene così il fulcro dell'esistenza. L’uomo è così condannato allo scacco della volontà, la sua stessa esistenza è sottomessa al giogo della volontà. In quest'ottica però il problema potrebbe risolversi solo nel momento in cui il peso smettesse, inspiegabilmente, di volere. Se si leggesse secondo questa dicotomia il pensiero di Michelstaedter, le due opzioni andrebbero a costituirsi tra un non- volere ed un volere con evidente soluzione nel primo. Un ente non volitivo però è da considerarsi morto. Conclusivamente non potremmo che considerare Michelstaedter quale teorico del suicidio ma, lo stesso Michelstaedter, scrive: “Rettorica del suicidio: la rivoltella, i veleni, perché l'uomo possa andarsene dalla vita a sangue freddo, senza misurare nemmeno nell'istante estremo la profondità della vita, del suo attaccamento alla vita, come sente il suicida che si mette in posizioni dove la morte appare nella forma di mortale pericolo che il corpo ha sempre fuggito: pugnale, fuoco, salto precipitoso, ecc.”9.

1.1 Dell'identità assoluta

“Ma dove sono io non è il mare; se voglio andare dove è l'acqua e averla – le onde si fendono davanti all'uomo che nuota; se bevo il salso, se esulto come un delfino – se m'annego – ma ancora il mare non lo posseggo: sono solo e diverso in mezzo al mare”10. Questo passaggio permette di individuare un punto determinante. Michelstaedter infatti gioca sulla dicotomia tra identico e diverso per mostrare ciò che è problematico nella vita rettorica, e quindi ciò che deve essere colto, all’opposto, per invertire tale condanna all’illusione. Michelstaedter rientra nella logica dualistica tra assenza e pienezza, o meglio, manchevolezza e completezza. L’uomo è strutturalmente manchevole e non può possedere il mare ma, nemmeno l’amante, o altra cosa. Michelsteadter ci mostra l’irriducibilità del diverso ed il gioco vano cui il volere ci consegna. L’impossibilità delle stesse mire del volere, il continuo bisogno di possedere l’altro. In questo quadro infatti la peggiore delle condizioni è quella in cui l’uomo è solo e perciò, costretto con se stesso, egli manca di tutto. Ciò in cui effettivamente si concretizza il problema e da cui deriva, in maniera opposta, la soluzione è il ricercare in ciò che è irriducibilmente diverso l'identità e la vita. Questo è l'errore fondamentale e solo nella ricerca, nella diversità dell'adempimento della mancanza la solitudine è drammatica. La cieca fame del diverso è la volontà di vita che però, nel suo stesso perpetuarsi e manifestarsi, non fa che perdere la vita stessa. La vita perciò, sembra suggerirci Michelstaedter, è cinetica inquietudine che si disgrega nella molteplicità delle forme che la volontà assume per il suo inesauribile e insoddisfabile bisogno di pienezza identitaria. Michelstaedter suggerisce coerentemente che la ricerca deve essere mossa verso di sé. L'uomo infatti cerca nell'alterità qualcosa che può trovare solo in sé. Se l'uomo della rettorica si disperde quotidianamente in ogni nuovo volere determinato, si abbandona alla dipendenza della molteplicità, delle infinite forme determinate allora: "il suo fine è un esser passivo". La volontà di vita è, rettoricamente, passiva. L'individuo perciò si disperde mantenendo l'irriducibile differenza. Bisogna allora procedere in negativo e comprendere come affinché il persuaso sia tale, la volontà debba trasformarsi. La volontà deve divenire attiva e assoluta. Cosa significa questo? Significa che non si oggettiva più in sempre nuove forme determinate perché è una volontà che ha già tutte le cose in sé e quindi non dipende più da nulla ma, appunto, è puramente attiva in quanto assoluta, sciolta da ogni dipendenza. Ciò però non deve condurre a pensare di dovere, in questo modo, volare sino al cielo e che la volontà liberata sia una perdita della gravità. Michelstaedter anzi imputerà questa incomprensione a Platone. L'assolutezza non implica l'essere sciolto da ogni legame infatti Michelstaedter, riferendosi a Socrate, afferma: " Essere indipendenti dalla gravità vuol dire non avere peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. - Ma

9 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Brianese, pag.207 Mimesis, Milano – Udine 2010. 10 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 40, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. consunta insieme la speranza della libertà e la schiavitù - lo spirito indipendente e la gravità - la necessità della terra e la volontà del sole - né volò al sole - né restò sulla terra; - ne fu indipendente né schiavo" 11. L'assolutezza infatti è probabilmente da individuare dall'esser liberi da ogni peso, sgravati da quella dipendenza cui il volere ci consegna. La volontà trasformata smette anche di essere volontà di vita perché ha già in sé la vita. Proprio nella trasformazione della volontà infatti il persuaso trova in sé la vita. La volontà di vita inoltre, finché è tale, non ci appartiene totalmente. Noi stessi ci troviamo ad essere passivi perché costretti da questa volontà che è oltre il nostro stesso potere e quindi ci consegna alla passività. Passiva quindi in un duplice senso, il primo è quello della dipendenza dal rapporto con le cose. Il secondo consiste nell'incoercibilità della volontà di vita, nell'eccedenza incontrollabile. Michelstaedter, nella sua intera produzione, invita a ripensare gli stessi termini di uso quotidiano per mostrarne l'illusorietà. Questo è evidente quando parla della vita del peso, della vita del persuaso che non può più essere definita vita qualora fosse concepita nella quotidiana prospettiva della rettorica. Meno evidente ma comunque chiaro è il medesimo procedimento attraverso cui cerca di ripensare l'individualità. Per Michelstaedter il persuaso è l'unico che può propriamente essere chiamato individuo. In un breve scritto infatti, il filosofo di , definisce il Cristo come colui che ha saputo creare dalla sua carne mortale il dio: l'individuo12. L'individuo perciò è qualcosa da conquistarsi eppure, non sembri paradossale, anche un punto di partenza. L'individualità da cui si parte deve essere concepita come semplice singolarità non ancora giunta all'individualità del persuaso. La singolarità della vita rettorica è da intendersi come un uno che si disperde nei mille affluenti che compongono e si riannodano nel fiume rettorica. Ciò significa che la singolarità rettorica non è mai propriamente singolarità perché cerca nel diverso ciò che gli manca ed, in questo movimento, si disperde.

1.2 L'attualità e la voce della φιλοψυχία tra coscienza ed incoscienza

“ Non avrà loco fu sarà né era ma è solo, in presente e ora e oggi e sola eternità raccolta e ‘ntera”13.

Con questa citazione di Parmenide Michelstaedter vuole mostrare il carattere temporale in cui si raccoglie la vita del persuaso. “Colui che è per sé stesso (μένει) non ha bisogno d’altra cosa che sia per lui (μένοι αὐ τόν) nel futuro, ma possiede tutto in sé”14. La riflessione di Michelstaedter si muove tra futuro e presente. Colui che vive nella rettorica infatti perde ogni volta il senso proprio del presente, orientato costantemente al soddisfacimento della mancanza priva di fondo. Il significato stesso di presente si sbiadisce sin nell'atto di soddisfacimento perché, in esso, non v'è eternità raccoltà 'ntera, nè istante. L'uomo ricerca inconsapevolmente il possesso di sé e lo ricerca appunto nell'irriducibile diversità, nelle cose, nel tempo futuro. Il tempo del rettorico è il tempo del desiderio non esaudito, una proiezione continua in un tempo futuro. L'atto del volere la vita, che si determina in nuove forme, si proietta in un sempre nuovo oggetto del volere. In questo gesto Michelstaedter individua il vivere rivolti, orientati, al futuro. Il disperdersi dell'attualità deriva proprio da questo suo rivolgersi, cercando spasmodicamente la vita, agli oggetti che si illude possano dargliela. "Né alcuna vita mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente

11 Ivi. Pag. 109. 12 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Brianese, pag.193 Mimesis, Milano – Udine 2010. 13 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 41,a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. 14 Ibidem. l'aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d'esser vita"15. Ovviamente non si intende che per questo diverrebbe morte bensì una nuova vita, diversa al punto da condurci fuori dal mondo. "Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle"16. Il futuro rappresenta la promessa, illusoria, di soddisfacimento così come il ricordo potrebbe rappresentare l'illusione di ciò che è stato. L'illusione stessa però vela la vita del rettorico sino al punto da non fargli intendere ciò che davvero cerca. Ciò che, in una certa misura, si ripropone è la diversità interna al presente stesso come nella dicotomia interna al volere precedentemente analizzata. Michelstaedter non è ingenuo, non nega il presente agli uomini rettorici ma il suo senso proprio. "So che voglio e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant'è peso pende e quanto pende dipende"17. Michelstaedter sa cosa vuole, la vita, eppure non l'ha. Il peso però: "non sa ciò che vuole"18 e lo ricerca in tutte le forme eterogenee in cui la volontà si mostra. Il peso però s'illude di trovare ciò che cerca nella fame inesauribile del più basso dimenticando ciò da cui pende e dipende. La ricerca della vita, dipendente dall'esser finiti, dall'esser mortali, il dolore abissale. Potremmo, citando Heidegger definirlo l'angoscia (Angst) e delucidare il fatto che è legato essenzialmente all'esser per la morte quale certezza indeterminata. Proprio nell'indeterminatezza infatti si distingue dalla paura (Furcht). Importante sottolineare come Michelstaedter sappia ciò che vuole, differentemente dal peso, eppure non ha ciò che vuole. Già in questa sede balena chiaramente che la consapevolezza di ciò che si cerca non permette di giungere alla persuasione. Il peso probabilmente è un passo indietro a Michelstaedter il quale si è a malapena alleggerito.

Dove si inserisce il discorso sulla coscienza e sull'incoscienza? Recuperando la nota tesi nietzschiana, esposta nella seconda inattuale, ripresa da Goethe, possiamo affermare che all'azione è necessario un certo grado di oblio. L'oblio di cosa? L'oblio del proprio esser finiti, dell'angoscia non più mistificata in paura. L'oblio è quindi condizione di possibilità dell'azione. Michelstaedter stesso fa riferimento a questa coscienza ed incoscienza. Il non saper cosa si cerca, la vita implica il non aver coscienza, la dimenticanza manifesta del perché ci si stia rivolgendo al diverso e quindi la dimenticanza del proprio essere mortali. A questo punto sorge un interrogativo: è quindi la consapevolezza del nostro essere mortali che può condurci alla persuasione? Nel: "Dialogo della salute" Nino protesta dicendo:" Perché irridi vecchio al nostro stato mortale? Ben sai tu che a nulla ci giova la salute"19. Nino è consapevole del suo stato mortale eppure non è persuaso anzi non sembra scorgere, inizialmente, la possibilità della salvezza, la via della salute.

1.3 Cristo e Socrate. Il tragico, il pensiero etico e l'indietreggiamento

Coloro che, per quanto si sostiene, possono essere propriamente detti i persuasi sono soltanto due: Cristo e Socrate. Michelstaedter nell'introduzione alla sua tesi di laurea scrive: "lo dissero". C'è una sostanziale differenza tra coloro che testimoniano, riconoscono la persuasione, la via della salute e coloro che vivono la persuasione. Michelstaedter stesso ne è testimone, Ibsen ne è testimone eppure il riconoscere la condanna del giogo ed alcuni tratti non permette di accedere a tale dimensione. Lo si è visto precedentemente con Nino. Cristo e Socrate sono le uniche due testimonianze viventi, ovvero coloro che hanno sì testimoniato la persuasione ma non solo annunciandola bensì vivendola. Citiamo i passi in cui fa riferimento ai persuasi:

Un esempio storico:

"Nel suo amore per la libertà, Socrate si sdegnava d'esser soggetto alla legge della gravità. E pensava che il bene stesse nell'indipendenza dalla gravità. Poiché è questa - pensava - che ci impedisce dal sollevarci fino al

15 Ivi. Pag.40. 16 Ivi. Pag.40. 17 Ivi. Pag.39. 18 Ivi. Pag.41. 19 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Brianese, pag. 133. Milano-Udine 2010. sole. -

Essere indipendenti dalla gravità vuol dire non avere peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. - Ma consunta insieme la speranza della libertà e la schiavitù - lo spirito indipendente e la gravità - la necessità della terra e la volontà del sole - né volò al sole - né restò sulla terra; - ne fu indipendente né schiavo; né felice né misero; ma di lui con le mie parole non ho più che dire"20.

Interessante è rifarsi al disegno presente nel: “Dialogo della salute”21 in cui il punto d'intersezione tra i cerchi è ciò che si cerca; gli ambiti generali vengono definiti ma sul punto non è apportata alcuna scritta ed è tracciato solo per mezzo delle circonferenze. Questa figura esemplifica un punto mediano espresso negativamente22.

Riguardo a Cristo invece sostiene che: "I primi cristiani facevano il segno del pesce e si credevano salvi; avessero fatto molti più pesci e sarebbero stati salvi davvero, ché in ciò avrebbero riconosciuto che Cristo ha salvato se stesso, poiché dalla sua vita mortale ha saputo creare il "dio": "l'individuo" ma che nessuno è salvato da lui che non segua la sua via. E seguire non è imitare"23.

La via della persuasione è una via priva del solco stesso che renderebbe il sentiero visibile. Non c'è salvezza nel posare i piedi nelle impronte degli altri. Michelstaedter ripete continuamente l'essere personale del percorso da intraprendere, invita infatti all'inversione, a ruotare lo sguardo verso di sè: "Ciò ch'ei vuole è dato in lui"24. L'irriducibilità della differenza che sussiste tra noi e qualsiasi alterità, oggetto o persona, mare o amante, è ciò che si ripete anche nell'ammonimento a non imitare ma a fare molti più pesci. Per questo imitare è già fallire, perché è rivolgersi ad altro.

L'unicità di Socrate e Cristo è determinata secondo due argomenti che si intrecciano secondo diversi ordini possibili. La prima questione riguarda la differenza comunicativa che, anticipando la trattazione specifica dei paragrafi successivi, si focalizzerà sull'unicità della dimensione orale, non dialogica ma quasi solipsistica caratteristica di Cristo e Socrate. Il secondo punto è da individuarsi nella morte di questi due personaggi, entrambi infatti vengono uccisi. L'uccisione è la massima espressione del deserto del persuaso, dell'incomunicabilità che il vangelo di Marco testimonia, che la paura della popolazione ateniese prova nei confronti dell'unicità del δαιμόνιον. Nessun altro viene ucciso perché nessun altro vive nel deserto proprio del persuaso e cammina verso il monte. Inoltre, come Rico afferma nel Dialogo della salute:" Tuo è ciò di cui non puoi fare a meno. Ma se tu non ne puoi fare a meno, non tu le hai in tua potestà, ma esse hanno te, e tu dipendi da loro che non puoi sussistere senza di loro"25 infatti Cristo, pur conoscendo le conseguenze del suo gesto, non risponde a Pilato perché non dipende più dalla vita, dalla volontà di vita. Socrate, allo stesso modo, provoca la giuria perché ha il coraggio di chi non teme più la morte e si trova nella pienezza massima dell'identità. L'indistinta unità dell'assoluto permette l'attualità del presente che non si cura più del futuro ma ha già tutto in ogni istante.

Siamo di fronte ad un bivio ed occorre prendere una decisione rispetto alla quale, forse, non è possibile pronunciarsi in maniera definitiva. Credo però sia utile tentare di analizzare due concezioni alternative rintracciabili in Michelstaedter tentando di pensare la persuasione o come accadere, come evento, oppure come uno stato duraturo e raggiungibile, una perpetuabile vita autentica. 20 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag. 109, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. 21 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Brianese, Mimesis, Milano – Udine 2010, pag.167. 22 Carlo Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito. Empedocle. Appunti di filosofia, a cura di A. Cariolato ed E. Fongaro, SE, Milano 2003. Pag. 51, frammento 52: “Cercare con dati negativi. (:Questa:) Così è la ricerca della (:λόγος:) ragione del valore che non sappiamo che cos'è ma sappiamo che non deve essere”. 23 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Brianese, Mimesis, Milano – Udine 2010, pag. 193. 24 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pag.41, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982. 25 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura di Giorgio Brianese, Mimesis, Milano – Udien 2010, pag.140. All’uomo, anche nell’illusorietà della sua dimensione vitale potrebbe accadere di vivere l’attimo e di possedersi completamente; in quel caso l’uomo smetterebbe d’esser peso, di dipendere, rinuncerebbe alla sua stessa vita. Può decidersi per questo? Concependo la persuasione come accadere no. Ma allora Cristo e Socrate non erano, meglio, non furono mai pesi? No, Cristo e Socrate furono pesi. Cristo:" dalla sua vita mortale ha saputo creare il "dio". In questa espressione c'è il percorso, il passaggio che Cristo effettua. Socrate, nello stesso modo, non si dette pace finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. Sempre: un percorso, una via, un iter. Bisognerà intenderlo come un decidersi? Michelstaedter non indica alcuna modalità ma parla sempre avversativamente, mai affermando, e non può dire nemmeno se sia un decidersi. Michelstaedter però, racconta del viaggio di Parmenide sulle cavalle utilizzando verbi al passivo e lo descrive come un essere portato, un essere condotto26. Cristo e Socrate sono, ad ogni modo, dei persuasi in habitus che hanno raggiunto quello stato attraverso la propria via. La persuasione, in conclusione, può darsi sia come accadere attimale sia come habitus. Da cosa deriva questa dicotomia? Dalla tragicità che la dipendenza rappresenta. L'elemento tragico in Michelstaedter è da individuarsi nel porre una dicotomia, un giusto ed uno sbagliato. Nel momento in cui Michelstaedter pone una via da percorrere e colloca la vita rettorica, nella sua totalità, in una dimensione di negatività e condanna allora pone l'elemento tragico. Nel porre la via della salute come salvezza ammette e fonda il dover essere quindi una necessità di evasione dalla tragicità del nostro quotidiano. Il pensiero di Michelstaedter non è esclusivamente etico ma giunge alla profondità filosofica in cui le distinzioni perdono i loro contorni ma, di certo, ha questa tensione fondamentale e orientativa. Da questa contrapposizione infatti nasce l'indietreggiaento (Züruck27) ovvero, per rubare le parole ad Heidegger, l'indietreggiare dinnanzi all'abisso. Quale abisso? Quello della condanna che la nostra vita, per Michelstaedter, è. L'intuizione fondamentale di Michelstaedter però, la persuasione come accadimento, lo condanna perché riposa sulla dicotomia tra bene e male. L'inaccettabilità di questo scacco, del pensare la vita come non vita, lo conduce ad indicare una possibilità di persuasione in habitus ovvero una vera e propria via della salvezza che si dia non più come esser portato per un istante a riva ma come condizione stabile. Cristo e Socrate divengono così le figure viventi di quell'indietreggiamento, l'esempio e la consolazione viva che la possibilità rappresenta. 2 Heidegger e Michelstaedter

Un confronto inevitabile quello tra Heidegger e Michelstaedter che però non si vuole ridurre alla banalizzante constatazione dell'aver anticipato molte tesi heideggeriane. Michelstaedter tacendo, su determinate tematiche, è andato oltre.

2.1 L'ontologia fondamentale come differenza

"L'angoscia è l'accadere fondamentale dell'esserci"28 che ci conduce d'innanzi al niente stesso rivelandolo. L'angoscia è accadimento fondamentale perché, ponendo l'esserci innanzi al niente, permette il rapporto dell'esserci con l'ente. Ciò accade perché il niente appartiene all'essenza dell'essere, pertanto è condizione necessaria della differenza ontologica, della trascendenza dell'esserci che può fruire del manifestarsi dell'essere. L'angoscia quindi è lo stato d'animo fondamentale che permette all'esserci di accedere alla dimensione dell'autenticità ovvero alla: "possibilità d'essere estrema"29 dell'esserci che comprende la totalità delle determinazioni dell'esserci eccedendola30.

26 Carlo Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito. Empedocle. Appunti di filosofia, a cura di A. Cariolato ed E. Fongaro, SE, Milano 2003. Pag. 36-37, frammento 33: “giunge alla verità che persuade noi”. 27 Il termine viene utilizzato nel Kantbuch, Kant e il problema della metafisica, consultato nell'edizione italiana traduttore M. E. Reina, Laterza, Roma-Bari 2006. 28 , Che cos'è metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001. Pag. 53. 29 Martin Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F.Volpi, Adelphi., Milano 1998. Pag. 35. 30 Ibidem.: “l'autenticità in quanto estrema possibilità dell'essere dell'esserci è la determinazione d'essere nella quale tutti i caratteri summenzionati sono ciò che sono". Nella: "Lettera sull'umanismo" Heidegger inizia la trattazione facendo riferimento alla nozione di prassi, da intendersi non come un semplice produrre (ποίησις o πρᾶ ξις) ma come un portare a compimento:" dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza"31. L'autenticità, come pensiero dell'essere, porta quindi a compimento l'essenza dell'esserci. Heidegger infatti, attraverso l'ontologia fondamentale, permette di ripensare la stessa "essenza" dell'uomo, come ek-sistenza. Da tale pensiero, e dalla storia del rapporto con l'essere, proviene la determinazione dell'uomo. L'uomo può così essere riconosciuto come pastore dell'essere che, attraverso il linguaggio, dimora nella casa dell'essere, nella sua casa. In tal modo Heidegger può allontanarsi da qualsiasi concezione che conceda il fianco al naturalismo, all'animalitas come definizione di uomo. L'esserci si svela per ciò che è grazie a questo riconoscimento essenziale. Allora si propone una nuova antropologia, o si introduce così una nuova morale? Di certo questo non l'obiettivo, nè il risultato, a cui Heidegger approda. L'ἦ θος a cui fa riferimento, raccontando un aneddoto su Eraclito, deve essere pensato come questione ontologica, superiore ad ogni distinzione tra prassi e teoria, al massimo ravvisabile come etica originaria ma tale solo in quanto ontologia. Ma questo ἦ θος può superare queste distinzioni proprio nell'individuazione del pensiero originario, un: "fare che supera ogni prassi"32. Il pensiero infatti è ciò che porta a compimento perché non si rivolge più all'ente ma primariamente all'essere ed in ciò si distingue da ogni altro agire.

Il riconoscimento del proprio essere per la morte, ed il precorrimento della nullità stessa dell'esserci, diviene così l'accadimento capitale dell'esserci. Tale accadimento permette infatti la stessa possibilità dell'essere autentico. La possibilità dell'essere autentico però non è data come un decidersi ma come un esser chiamati, nel silenzio, dall'essere: "Siamo così finiti che non siamo nemmeno capaci di portarci originariamente dinnanzi al Niente mediante una nostra decisione o volontà"33. La differenza che sussiste tra esistenza autentica ed inautentica non è quindi una differenza morale bensì ontologica. L'ontologia fondamentale è ciò che costituisce il fondamento della differenza, il canone per il pensiero dicotomico. Come si dovrà intendere questa autentica superiorità ontologica? Heidegger ne parla sin dalla conferenza sul concetto di tempo, sostiene infatti che: "L'esserci è davvero se stesso, davvero esistente se si mantiene nel suo precorrere. Questo precorrere non è altro che il futuro unico e autentico del proprio esserci. Nel precorrere l'esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere futuro, sul suo passato e sul suo presente. L'esserci compreso nella sua autentica possibilità d'essere, è il tempo stesso e non è nel tempo" 34. Heidegger inoltre riconosce come sia connaturato allo stato d'animo dell'angoscia l'indietreggiare e tale movimento di allontanamento dal niente, dalla propria impossibilità, rivolge l'esserci all'ente. La nientificazioni perciò è la condizione stessa di rapporto con l'ente e la trascendenza, l'andare oltre l'ente nella sua totalità, diviene possibile appunto solo in questo mantenimento nel niente. L'angoscia però è il rimosso sempre presente, taciuto, che si manifesta raramente nella sua indeterminata pienezza. Affinché l'angoscia si dia per Heidegger l'esserci deve essere disposto, trovarsi nella disponibilità che definisce come:" il sì all'insistenza" 35 che, per quanto insufficiente, è necessario al manifestarsi di questa possibilità. Questa disponibilità è coraggio di fronte al niente da cui scaturisce il pensiero essenziale, il pensiero dell'essere come evento stesso dell'essere. Heidegger utilizza termini come coraggio, sacrificio per mostrare le condizioni necessarie ma non sufficienti affinché l'accadere si dia. L'esistenza è, nell'autenticità, insistenza e così scrive:" Soltanto che allora, a maggior ragione, dobbiamo pensare come tutt'uno e come piena essenza dell'esistenza lo stare-dentro (Innestehen) nell'apertura dell'essere, il sostenere fino in fondo (Austragen) questo stare dentro (la cura) e il resistere nella condizione estrema (essere per la morte)"36. Come è scritto in nota l'invito heideggeriano è:" a lasciar avvenire (zu-kommen), tenersi nell'avvento della morte"37.

31 Martin Heidegger, Lettera sull'umanismo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995.pag. 31 32 Ivi.pag.100 33 Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001. Pag. 60 34 Martin Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F.Volpi, Adelphi., Milano 1998. pag.41 35 Martin Heidegger, Che cos'è metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001.Pag.78 36 Ivi. Pag. 103-104 37 Ibidem. Il pensiero essenziale, possibile solo in questa situazione, è esso stesso un agire. La risposta (Antwort) è comunque prassi, benché in senso nuove, che permette lo svelamento nella radura dell'essere.

Il precorrere la propria morte, il mantenersi nell'avvento dell morte e quindi l'assecondare attivamente la nostra certezza indeterminata. Lo stesso pensiero essenziale infatti per quanto accadimento dell'essere è, in quanto risposta, azione.

Una prima differenza tra Michelstaedter ed Heidegger è posta dalla struttura ontologica del secondo la quale conduce alla differenziazione essenziale tra individualità ed unicità del percorso, sostenuta dal pensatore di Gorizia, e l'eliminazione di qualsivoglia particolarità attraverso il principium individuationis. La temporalità pensata come vero principium individuationis: "demolisce ogni pretesa di fare eccezione. Essa individua in un modo che rende tutti uguali"38.

Un'obiezione che potrebbe essere mossa ad Heidegger, da questa prospettiva, è la seguente: lo spostamento del dover essere su un piano ontologico supera lo stesso elemento tragico aggravando la problematicità già presente nella risoluzione michelstaedteriana. L'essere principalmente nella dimensione dell'errare, nello stato della dimenticanza della verità dell'essere e dell'appiattimento sull'ente, colloca il pensare dicotomico della tragicità, in un ambito ancor più gravoso, quello ontologico. Solo il poeta ed il filosofo, solo coloro che guardano dagli alti monti potranno con ciò portarsi essenzialmente a compimento e quindi esistere nella totalità dei caratteri. Il compiersi si darà presupponendo l'attesa data dal coraggio della disponibilità all'evento dell'essere. Ma chi attende, come Michelstaedter insegna, è manchevole, attende che qualcosa gli sia dato e così il compimento potrà compiersi solo come accadimento e mantenimento nella chiamata. In questo risiede la gravosa condizione dell'incompiutezza, derivata dalla differenza ontologica tra autenticità ed inautenticità.

Un secondo spunto di riflessione critico potrebbe partire dall'affermazione: "L'esserci fugge dinnanzi al "come" e si attacca al "che cosa" di volta in volta presente"39. Il "come" è la pura modalità autentica dell'esserci nel precorrimento attraverso il quale dovrebbe divenire nulla ogni "che cosa". Il carattere indeterminato della certezza è però, esso stesso, un "che cosa" e non è "un che cosa". In primo luogo non è un che cosa perché la morte è, essa stessa, un divenire polvere. La morte è l'impossibilità stessa dell'esserci posto innanzi al niente dell'esserci stesso. D'altra parte però il come del precorrimento e del mantenimento ben definito si fonda sul "che cosa" che la morte rappresenta ed è. La morte è certezza in una necessaria misura indeterminata, ma è evidentemente determinata già nel rispondere alla domanda: "che cosa?". La morte, ancor più strenuamente del niente, si aggrappa a quell'oggettualità attraverso cui è pensata.

Ritornando all'avvertenza nietzschiana cui prima si faceva riferimento possiamo domandarci: se l'oblio è effettiva condizione di possibilità dell'azione, come può l'attività di accesso libero alla condizione autentica, il seguire la chiamata della muta coscienza, compiersi mediante un'azione massimamente consapevole? Non è possibile agire nel pieno essere presso di sè, non è possibile nemmeno nella dimensione del pensiero essenziale perché non vi è alcun grado di oblio e una volontà non trasformata. Una volontà che è sempre volontà di vita, come per Heidegger, non potrà agire in alcun modo se non nell'allontanamento dell'esser presso di sé, nel disperato e rabbioso tentativo di obliare, di rivolgersi all'alterità. Heidegger considera l'indietreggiamento come parte del procedimento proprio della nientificazione (Nichtung) il quale permette di rivolgersi alla totalità. C'è da considerare però che questo distanziarsi non è l'unica possibilità altrimenti non vi sarebbe il coraggio del mantenimento, dell'assecondare la propria necessità. Può darsi un agire come pensiero, in questo mantenersi nell'abisso che l'essere per la morte rappresenta per l'esserci? "La stessa cosa sono pensare ed essere"40 potrebbero risponderci Parmenide e Michelstaedter. Ma questo punto determina

38 Martin Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F.Volpi, Adelphi., Milano 1998. Pag. 49.

39 Ivi. Pag.42-43. 40 Carlo Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito – Empedocle. Appunti di filosofia, a cura di A. Cariolato ed E. Fongaro, SE, Milano 2003. Pag. 16. un'ulteriore differenza tra i due pensatori. Se infatti l'uomo è pastore dell'essere, e per quanto l'essere si possa manifestare solo in relazione all'esserci la differenza ontologica è mantenuta e presupposta. Michelstaedter invece, nel porre l'individualità del persuaso, silente nel suo soliloquio, pura identità, non può tematizzare lo scarto perché sarebbe, anche questa, manchevolezza, differenza. Il persuaso ha tutto in sé, è pienamente, è l'unica totalità. Il persuaso è l'indefinito che contiene il tutto ed infatti per essere sè, deve muovere lo sguardo verso di sé. In Heidegger invece il pensiero si rivolge in sé, solo attraverso l'altro, e si rivolge all'alterità nella sua eminenza grazie all'alterità stessa. Non si reputa quindi possibile un mantenimento nel precorrimento, un assecondare la necessità indeterminata nemmeno come pensiero essenziale. Questo perché ogni azione, quindi lo stesso pensare originario, è sì accadimento dell'essere ma anche azione in quanto risposta. La cinetica inquietudine dell'esistenza nel'originarietà della prassi deve perciò rinnovarsi anche nel tutto della modalità che la prassi del quotidiano assume dopo il precorrimento. È ciò che Heidegger sostiene quando scrive: "È il ritornare dell'esserci alla sua quotidianità, che c'è ancora, e precisamente in modo che il non più, in quanto "come" autentico, scopre anche la quotidianità nel suo "come", la riprende – nel suo affaccendarsi e industriarsi – nel "come""41. Si è già oltre quel coraggioso mantenersi in- ed essendo quell'angoscia rara e l'esserci per lo più nello stato della dimenticanza e dell'appiattimento sull'ente allora, anche l'attimo sacrificale e sublime, viene dimenticato e rifiutato. Ogni come lascia di nuovo spazio al "cosa".

Ad ogni modo la diversa forza dell'esserci, il riconoscere continuo, l'impellere42 ripetitivo del riconoscimento del fondamento infondato come la disponibilità al libero assecondare tale chiamata, sono le indicazioni scolpite sul percorso tracciato e ben curato da Heidegger. Wegmarken tradotto in italiano con: "Segnavia" è appunto una raccolta di indicazioni. Il pensatore di Meßkirch perciò definisce ciò che secondo Michelstaedter non può esser detto e tale differenza riposa sull'universalizzazione possibile grazie al principium individuationis. Michelstaedter invece mostra che il dolore è sì l'indice da seguire ma non più di un'indicazione orientativa e metodologica. Il dolore dell'essere mortali è la bussola che però non ci indica se ammainare le vele o meno, o in che modo proseguire la traversata. Al massimo può indicarci il nord e, inoltre, non è detto si debba andare a nord. Ognuno deve seguire la sua propria via di cui, appunto, si possono indicare caratteristiche comuni nel risultato ma non nel percorso.

Si era precedentemente annunciato che Michelstaedter tacendo sulla modalità, su ciò che davvero è importante per percorrere il sentiero della salvezza, è andato anche oltre Heidegger. Lo si può sostenere ora con buone ragioni. Heidegger infatti, non sembra pensare sino in fonda la necessità che ammette lasciando libertà alla disponibilità oppure aggrava ulteriormente lo scarto tra le due dimensioni non rendendo liberi nemmeno di porsi nella disponibilità alla compiutezza il che significa l'escludere dall'esistenza. Heidegger inoltre orienta e definisce ciò che il linguaggio:" diradante-velante" 43, non è in grado di dire. Proprio nel suo costitutivo velare non può dirlo: "Il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio così è il linguaggio dell'essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo" 44. Eppure nella Lettera sull'umanismo" lo sforzo heideggeriano è proprio uno sforzo di definizione mentre Michelstaedter parla, quasi esclusivamente, di rettorica. Il come non può esser detto perché qualsiasi dire è un tradire ciò che il pensiero ha compreso. L'irriducibile differenza tra pensiero e linguaggio ha effetto anche sull'impossibilità dell'esposizione della modalità, del come.

Possiamo concludere che Michelstaedter pone l'elemento tragico ed Heidegger, pur imboccando la via del

41 Martin Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F.Volpi, Adelphi., Milano 1998. Pag.39.

42 L'utilizzo di questo verbo ma soprattutto un grande contributo per gli studi heideggeriani, sono dovuti agli ottimi lavori del dottre Matteo Pietropaoli: “Ontologia fondamentale e metaontologia, Una interpretazione di Heidegger a partire dal Kantbuch”, Mimesis, Milano-Udine, 2013, e: “Uomini e dèi”, Ets, Pisa, 2016 . 43 Martin Heidegger, Lettera sull'umanismo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995. Pag.50.

44 Ivi. Pag.104. pensare al di là del bene e del male, aggrava l'elemento di condanna. Il problema è che in entrambi i casi il pensare dicotomico non permette di intravedere la possibilità di una terza via, di pensare sino in fondo la necessità. Assumendo che in entrambi si possa scorgere il problema tra un essere presso di sé ed un esser fuori di sé, con relativa lontananza o vicinanza alla via della salute, alla libertà, possiamo notare come in realtà non si dia una risposta adeguata o una risposta inadeguata ma, scomodando Eraclito: “Per Dio tutte le cose sono belle, buone e giuste, invece gli uomini ritengono alcune cose errate ed altre giuste”45. La risposta dell'uomo infatti è un darsi insieme alla domanda in una relazione reciproca e non asimmetrica. Il punto però è che ogni risposta che si muova tra i due poli dell'essere presso di sé ed il massimo grado di oblio non ha in sé alcun dover essere ma è già di per sé adeguata. Questo significa pensare sino in fondo la necessità. La relazione tra l'esserci ed il mondo è il fulcro della questione. Questo emerge nel momento in cui si chiarisce il ruolo della persuasione come accadere, della chiamata come un esser chiamati che però non ha alcun sapore di salvezza perché non v'è la condanna. Non c'è alcun compiersi perché se davvero tutto è necessario allora già sempre siamo nell'adeguatezza. La persuasione in habitus si dà nel momento in cui la dimensione rettorica viene concepita come condanna e l'errare come misconoscimento da superare nella piena visione dispiegante le possibilità dell'essere dell'esserci. Nel momento in cui si cerca di salvare la libertà dell'uomo inoltre, bollando l'esser passivi come negatività, ed individuando nel libero assecondare la nostra necessità un nuovo tipo di vita ontologicamente superiore anche in quanto libera, allora l'umanità è messa in scacco.

3: L'oblio nietzschiano

Nietzsche ovvero colui che ha colto l'importanza dell'oblio, adotta una posizione originale ma rimane nella dimensione del pensare etico. Nietzsche infatti inverte ciò che Michelstaedter ed Heidegger affermano. Non è nella consapevolezza che risiede la possibilità della libertà ma nel massimo grado di oblio, nella piena dimenticanza. La "persuasione", se davvero è possibile avvicinare questo termine a Nietzsche, è nel sacro dire di sì, nell'immergersi totalmente nell'alterità riconoscendosi come relazione, come non più cose. Questo sarà l'unico rimprovero di Nietzsche ad Eraclito, l'aver mantenuto le cose non scorgendo la relazionalità totalizzante del reale. Scrive nello Zaratustra: " Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì"46 Il fanciullo è oblio, è esso stesso dimenticanza. Il giuocare è quindi la modalità possibile nel massimo stato di oblio, di dimenticanza della necessità. La ruota ruotante da sola: "Nulla vi è che ti muova"47, quindi la libertà è data attivamente nell'esser fanciulli, nel massimo grado di oblio.

"Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo"48. La modalità è la dimensione in cui si instaura la libertà, la possibilità del dover essere e di un metamorfosare in fanciullo, in questo punto il serpente spinge con i suoi muscoli affinché avvenga la muta della volontà.

3.1 L'illusione della libertà

Nietzsche non può che tematizzare una libertà nel semplice ambito della modalità. Anche in questo caso infatti si parla di una libera necessità, di un libero assecondare ciò che si è già. Questo è stato fatto, a mio avviso, dallo stesso Heidegger quando sostiene che: "Solo il "come" è ripetibile. Il passato – esperito come storicità autentica – è tutt'altro rispetto al non più. È qualcosa a cui posso continuamente ritornare"49. Solo il come è libero, questo è l'ambito della libertà. La volontà non digrigna più i denti perché l'eterno ritorno permette di agire nuovamente, modalmente, anche sul passato.

45 Bertand Russell, Storia della filosofia occidentale, traduttore L.Pavolini, Longanesi, Milano 1983.

46 , Così parlò Zarathustra, pag 25, traduttore M.Montinari, Adelphi, Milano 1976. 47 Ivi. Nota a pag.399. 48 Ivi. Pag.25. 49 M. Heidegger, Il concetto di tempo, pag.47, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1998. Nella Gaia Scienza infatti Nietzsche, alla visita del demone, mostra la corretta modalità di risposta, il sì del figlio dell'attimo. Come dice Michelstaedter la volontà di colui che vive nella rettorica è passiva in quanto consegnata alle cose, all'alterità. Questo scarto è inalienabile ed allora bisognerà chiedersi può darsi una libertà? Se nel vivere in rapporto con le cose non vi è volontà se non passiva, e ovunque vi sia oblio non vi libertà attiva perché non vi è azione allora non vi sarà mai propriamente libertà. Nietzsche sembra abbia individuato l'unica categoria all'interno della quale, per ora, sembra possa darsi un residuo di libertà, ovvero la modalità che, nel come, viene definita come il sì sacro. L'übermensch e Zarathustra però sono oltre di lui, oltre Nietzsche stesso, e la capacità di agire da figli dell'attimo per più di quell'istante meraviglioso è oltre gli uomini come tacitamente ammette. Il dio tra gli uomini è perpetuamente adveniente. Gli stati relazionali però nel suo stesso costituirsi, in un mondo non più bucherellato ma ricco e pieno non dovrebbero essere compresi come già pieni, mai manchevoli? Allora il sì, il no sacro ed il cammello sono tutti stati in loro perfetti, sempre adeuguati e necessari. Essere discepoli di Zarathustra come essere nani è ugualmente appropriato. Scrive infatti:" L'uomo non è altro che necessità, si nelle sue intime fibre, e risulta assolutamente "non libero", se per libertà si intende l'assurda pretesa di poter mutare arbitrariamente, come un abito, la propria essentia "50. La libertà si pone nel movimento dell'esser sé, nel riconoscerci come noi stessi, e spingere affinché avvenga l'inalienabile necessità e, forse, non siamo già sempre nell'adeguatezza anche nell'esser cammello? Non vi è forse la necessità, in alcune circostanze della nostra vita di essere cammelli e portare sulle spalle il peso? Certo! Allora perché tematizzare l'übermensch? Allora perché è immenso rispondere sì? Dobbiamo dire sì al leone per quanto esso però sia pervaso dal no sacro quindi, seppur necessario e pieno, non asseconda la muta e non si riconosce nella pienezza, il sì del fanciullo è un attimo. La riflessione di tutti questi autori si muove quindi in un dover essere dettato dalla tragicità, o condanna ontologica, come dualismo inalieanabile. Ciò che nemmeno Nietzsche riesce a tematizzare fino in fondo, è proprio il detto di Eraclito. Già sempre siamo nel dover essere, nell'appropriatezza, come Nietzsche stesso riconosce, ma da ciò deriva che non c'è alcun bisogno del dio adveniente, del tramontare perché già tutto tramonta secondo necessità ed il fanciullo è perfetto quanto il leone o il cammello. Se il massimo grado di oblio e l'essere presso di sé rappresentano due poli senza segno, senza negatività o positività di alcun tipo siamo già sempre nel percorso di Ἀ νάγκη. Nel riconoscimento e nella dimenticanza vi è solo una diversità che si relaziona all'agire. Nemmeno l'esser se stessi può rappresentare un imperativo o un invito ma è già sempre secondo diverse modalità in loro appropriate. 4 I linguaggi dell'assoluto

Nel Faust: "sta scritto: "In principio era la Parola"51. Ed eccomi già fermo. Chi m'aiuta a procedere? Ma è impossibile dare a "Parola" tanto valore"". Conclude dicendo: "Ecco che vedo chiaro e, ormai sicuro scrivo: "In principio era l'Azione!" ". Questo estratto serve in primo luogo a sottolineare l'importanta del principio dell'agire, all'interno della quale rientrano pensiero, parola ed ogni verbo. Ma il linguaggio è sicuramente un'espressione privilegiata che permette di comprendere perspicuamente il cambiamento che Michelstaedter riesce ad individuare. I persuasi parlano in modo nuovo? Se davvero è così, in cosa riposa la differenza fondamentale?

4.1 Così sentenziarono Cristo, Socrate e Zarathustra. L'agire dei persuasi

Muovendo la nostra indagine da ciò che è comune possiamo ravvisare, come prima avevamo accennato, al fatto che sia Socrate che Cristo insegnano agli allievi o apostoli, limitando i loro insegnamenti esclusivamente alla dimensione dell'espressione orale. Nello stesso modo alla fine di ogni canto, Nietzsche scrive: "Così parlò Zarathustra". Anche lui parla o canta e non scrive perché? Per due motivazione fondamentali, la prima, secondo l'impianto teorico di Michelstaedter, risiede nel rapporto precedentemente investigato tra identico e diverso. Il trasformato infatti non può, nemmeno o soprattutto, con il suo dire,

50 F. Nietzsche: “La filosofia all'epoca tragica dei greci. Scritti 1870-73”, pag. 173, traduttore G.Colli, Adelphi, Milano 1991. 51 J.W. Goethe, Faust, pag.95, Grandi classici Mondadori,1990. immergersi in altro ma colui che ha già tutto in sé non dialoga ma sviluppa il suo soliloquio da maestro. Non può, il persuaso, rivolgersi ad altro se non in maniera nuova e la volontà di vita, che lo scrivere esalta, non è propria di colui che ha percorso e non solo intravisto la via. Lo scrivere può inoltre rappresentare la volontà di vita, perché è volontà di permanere. Michelstaedter scrive in un appunto: "Socrate non scrive" 52. Zarathustra non scrive potremmo aggiungere. "Le cose generate significano la mancanza di chi le generava"53, il procedimento di ricreare, dare nuova forma indica la mancanza ed il bisogno di compensazione. La nullità di tutte le cose espressa con dolore da Leopardi diviene, nello stesso atto di affermazione scritta, riorganizzazione, nuova nascita nata dall'assenza. Questo è ciò che anche nel Dialogo della salute rimprovera agli artisti54. Socrate, colui che non scrive, parla essenzialmente perché interpellato, perché spinto alla disputa dialettica: "Colui che è persuaso tace perché non ha più nessun movente a parlare"55 e conosce già la conclusione della disputa. Cristo non può dire a Pilato cos'è la verità nè permettere agli apostoli di comprendere, "infatti lo stesso è pensare ed essere"56, anzi spesso invita a non evangelizzare ciò che ha tentato di esprimere. Nello stesso modo Zarathustra non riesce ad essere bene inteso dai suoi discepoli ma a loro parla senza attendere alcuna risposta o domanda. Il canto, ancor di più, è nella sua semplicità vicino al discorso interiore e del perché ne facciamo comune esperienza.

L'azione è il produrre un effetto, l'agire di un ente su un altro ente al fine di modificarlo. In primis possiamo dire che in questo modo il linguaggio, nell'uso rettorico e comune, è già violenza, azione, tentativo di modifica. Cosa possiamo notare di comune alle azioni di: Cristo, Socrate e Zarathustra? Seguendo l'impianto teorico sinora individuato è possibile affermare che non c'è la possibilità di una modifica dell'ente. Ammettendo infatti che il persuaso ha già tutto in sé e che Zarathustra ha solo una possibilità modale di libertà, nel riconoscere ed assecondare la necessità, siamo costretti domandarci: dove risiederebbe la pretesa del modificare le cose? Nel momento in cui viene recisa alla radice la sola possibilità di un rivolgersi ad altro, che non riposi sulla base dell'assoluta identità, come nel caso di Michelstaedter, è evidente che ciò non può darsi. Ho già tutto in me perché la mia azione dovrebbe modificare qualche altro ente fuori di me? L'eterno ritorno di tutte le cose, nello stesso modo, è la rinuncia a tale follia, alla vanità del modificare l'ente perché è solo nella modalità del darsi insieme della relazione che risiede la libertà dell'uomo. Se l'eterno ritorno è il darsi insieme della totalità delle relazioni non vi sarà mai una vera e profonda possibilità di modifica. Ricordiamo l'episodio già citato delle cavalle che trasportano Parmenide o, nello stesso paragrafo, la Verità che persuade. Se, inoltre, cogliamo il senso più originario del: "gioco della creazione" 57, da intendersi come far emergere, allora si può vedere come si compia profondamente la transvalutazione. I valori stessi mutano essenzialmente perché non vengono più posti ma fatti emergere. Non c'è nulla da fare perché è già stato fatto.

L'agire di tutti questi pensatori etico-ontologici è modifica al massimo in quanto è modifica del sé nella modalità, altrimenti Nietzsche mancherebbe il punto nella sua trasvalutazione di tutti i valori, il mondo, alternativamente, sarebbe manchevole. Eppure non porta a compimento il suo progetto ma ipotizza il dover esser tematizzando colui che saprà vivere eternamente su quel ciglio dell'attimo contravvenendo alla pienezza già presente nelle metamorfosi. Ogni relazione, tra stati di cose e übermensch, si riprodurrà nella continua e diveniente progressione degli attimi. Eterno è pieno, la strabordante misura dell'attimo che, nel suo essere istante, è già sempre diveniente. Io credo non perché guardi al futuro ma perché, la vita, è successione di perfette relazioni istantanee. La successione è fenomenicamente innegabile e non per questo l'attimo, io credo, debba già contenere l'oltrepassamento. Il divenire si dà già, l'attimo non ferma alcunché perché il divenire si muove anche in lui pur essendo l'attimo pieno. È contraddittorio? Forse, ma manca di

52 Carlo Michelstaedter, Parmenide ed Eraclito. Empedocle. Appunti di filosofia, pag. 25 a cura di A. Cariolato ed E. Fongaro, SE, Milano 2003 53 Ivi. Pag 27, frammento 17. 54 Carlo Michelstaedter, Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Brianese, Mimesis, 155-158, Milano-Udine 2010. 55 Ivi. Pag. 26. 56 Ivi. Pag.16. Diels Kranz.3. 57 F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, pag.25, traduttore M. Montinari, Adelphi, Milano 1976. qualcosa la contraddizione? Nietzsche non è il pensatore più coerente del divenire 58 perché qualora la coerenza del divenire fosse stabilmente affermata allora la verità saprebbe di metafisica, di stabilità, di rovesciamento. Nietzsche parla in molti luoghi dell'uomo della conoscenza. L'uomo della conoscenza è sapiente e la sua stessa conoscenza diviene senza fermarsi in alcuna forma. Qualora pensasse coerentemente il divenire si muterebbe nell'uomo della ben rotonda verità, la fissa verità del divenire. Eppure Zarathustra si muove e si getta in ogni forma della vita, dalla montagna alla valle senza riposo perché già troppo è stato nel tepore della sua caverna. 5 Possibilità e dover essere

"Più in alto della realtà si trova la possibilità"59. Questa affermazione tanto celebre quanto discussa si trova nella conclusione del settimo paragrafo di "Essere e tempo". La possibilità eccede il reale e permette al reale di essere pienamente ciò che è. La possibilità però, per mantenersi tale, non deve mai realizzarsi, perché altrimenti cesserebbe d'essere possibile. La possibilità si trasformerebbe in realtà.

Parlare della possibilità è quindi parlare di un qualcosa che non può darsi perché non è mai esperibile se non come realtà. La questione verte attorno alla possibilità del dover essere e alla considerazione di tale aspetto come residuo metafisico. Il dover essere è qualcosa che si auspica; si confida nella possibilità del suo darsi. Ma se si mantiene questo dover essere nella pura possibilità e non nella dimensione della realtà allora ciò in cui si incappa è un residuo metafisico, il sogno di un visionario. Si parla infatti di un qualcosa che eccede l'analisi del dato, ciò che effettivamente è indagabile da noi. Se l'indagine attorno alla possibilità è l'indagine di un qualcosa di possibile e quindi non concretizzato, è la riflessione attorno a qualcosa che potrebbe essere come potrebbe non essere. In questa circostanza la filosofia evade i confini del campo d'indagine attorno al quale è possibile davvero affermare qualcosa. Il diradare il campo, disossandolo e arandolo non è che la risestimatizzazione della terra, del terreno da cui non possiamo evadere. Una domanda sorge spontanea: ma se la possibilità si è già data allora è possibilità o realtà? E' una possibilità già realizzata, un già stato. Se la possibilità viene trattata come realtà allora la possibilità del dover essere si colloca in una dimensione non metafisica. In questo caso però il possibile non è più tale ma reale. Michelstaedter colloca il dover essere del persuaso in un passato in cui si è già realizzata. Cristo e Socrate infatti sono già stati. Michelstaedter parla di possibilità da realizzarsi perché reale, non di possibilità adveniente. Michelstaedter parla quindi di realtà e non di possibilità, di un accadimento che può ripetersi ma non collocabile nella dimensione del puro possibile. L'übermensch è esempio esplicito della possibilità mai realizzata che supererà il limite fisiologico dei grandi uomini, che supererà Zarathustra stesso. La particolarità propria dell'esser se stesso, l'individualità, porta Nietzsche a collocare il dover essere rappresentato dall'übermensch nella dimensione della pura e semplice possibilità. L'übermensch è la cenere della speranza che Zarthustra porta con sé. L'übermensch è il residuo metafisico, non l'opera d'arte. Se lo Zarathustra però è davvero un quinto vangelo allora potremmo considerare l'übermensch come il Cristo rovesciato, colui che eternamente si attende ed è andato oltre l'uomo nell'aver superato la mortalità. Questa figura sarebbe così utilizzata da Nietzsche proprio nel suo scrivere da commediante ma significherebbe che anche Zarathustra, ha bisogno della speranza e che anche il peggiore dei mali è necessario.

Seguendo l'impianto teorico di Michelstaedter possiamo affermare che se parlassimo di una possibilità non già data ma collocata nell'ampiezza sconfinata del possibile avdeniente, ci collocheremmo nello spazio insondabile del metafisico. In questo caso dire qualsiasi cosa sarebbe illusorio e vano. Dire il come del già stato è impossibile perché personale e legato ad un'esperienza su cui il linguaggio non fa presa ma ancor più inutile sarebbe tentare un'universalizzazione del possibile in un futuro insondabile. Qui si instaura la differenza essenziale tra giustificazione per fede e giustificazione filosofica. La filosofia non può più

58 Il riferimento è all'analisi sviluppata dal professre Emanuele Severino, nella sua opera: “L'anello del ritorno", Adelphi, Milano 1999. 59 Martin Heidegger, Essere e tempo, pag. 54, a cura Franco Volpi, traduzione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005. arrogarsi il diritto di parlare della pura possibilità.

Pensare sino in fondo la necessità significa comprendere il detto di Eraclito. Se ogni darsi è necessario allora qualsiasi dover essere è illusorio perché anche la disponibilità a, l'essere in-, è essa stessa figura della necessità che si dona. Pensare sino in fondo la necessità significa comprendere che qualsiasi dover essere è illusione e semplicemente è.

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