ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI

QUADERNO NUMERO 2004/1

L’ AVVOCATO DEL MINORE

WWW.AIAF-AVVOCATI.IT Con questo Quaderno, dedicato all'"Avvocato del minore", l'AIAF inaugura una nuova iniziativa editoriale, una collana di pubblicazioni periodiche, a supplemento della Rivista. I Quaderni raccoglieranno gli atti dei nostri Convegni e gli interventi tenuti da avvocati, docenti universitari, magistrati, sociologi, psichiatri, psicologi, mediatori familiari, etc., ai Corsi di formazione e aggiornamento professionale promossi dall'AIAF sui temi del diritto di famiglia e minorile. Il contributo di questi Autori, unito alla quotidiana operatività dei Colleghi soci AIAF nelle locali sedi giudiziarie, ha consentito un'approfondita, specifica ed aggiornata elaborazione della materia, avendo come riferimento l'evolversi delle problematiche delle persone e della famiglia nella società, l'attività del legislatore, gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza e della dottrina. Ne è scaturito un patrimonio di sapere che è collettivo, e che oggi l'AIAF sente il dovere di portare fuori dai propri ambiti associativi, per una divulgazione informativa e formativa sempre più ampia. Un ringraziamento sentito a tutti coloro che hanno consentito questo risultato.

Milena Pini Direttore della Rivista AIAF AVVERTENZE Gli Autori dei testi pubblicati, avendo collaborato con l'AIAF al fine di sostenere la Sua attività asso- ciativa, di promozione culturale e formativa nel campo del diritto di famiglia e minorile, hanno autorizzato l'AIAF all'utilizzo del loro contributo, a mezzo stampa o con ogni altro tipo di suppor- to, compreso cd-rom o altri supporti elettronici, senza richiedere alcun corrispettivo e con rinun- cia a richiedere e percepire da parte della stessa Associazione, i diritti di autore conseguenti all'e- ventuale pubblicazione, utilizzazione economica, distribuzione e commercializzazione, a mezzo stampa o altro tipo di supporto elettromagnetico. Conseguentemente, l'AIAF a tutela degli Autori e dei loro elaborati, comunica ad ogni effetto di legge, che l'utilizzo del materiale che viene messo a disposizione dell'Utente è permesso sola- mente per scopi personali e privati, e ne è vietata la riproduzione anche parziale. In caso di violazione di tale divieto, AIAF e i sin- goli Autori si riservano il diritto di agire in sede giudiziaria per il risarcimento dei danni subiti. ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI QUADERNO NUMERO 2004/1

L’ AVVOCATO DEL MINORE

IL QUADERNO RACCOGLIE I TESTI SUPPLEMENTO AD DELLE RELAZIONI TENUTE DURANTE IL AIAF RIVISTA ANNO IX - N° 1, GENNAIO-APRILE 2004, “CORSO DI FORMAZIONE PER NUOVA SERIE QUADRIMESTRALE L’AVVOCATO DEL MINORE” (L. 149/2001) Redazione GALLERIA BUENOS AIRES 1, 20124 MILANO LUCCA, VILLA BOTTINI TEL. EFAX02.29535945 21.09.02-22.06.03 EMAIL: [email protected] WEB: WWW.AIAF-AVVOCATI.IT

Direttore responsabile IL CORSO È STATO ORGANIZZATO MILENA PINI DALL’AIAF TOSCANA, CON CONTRIBUTI E PATROCINI DI: Comitato di redazione GIAN ETTORE GASSANI COMUNE DI LUCCA NICOLETTA MORANDI ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LUCCA ANTONINA SCOLARO FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI LUCCA Stampa CENTRO PER LA FORMAZIONE E TIPOGRAFIA L’AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE DEGLI QUATRINI A. & FIGLI SNC AVVOCATI DEL CONSIGLIO NAZIONALE V. S.LUCIA 43-47, FORENSE 01100 VITERBO IRC – CENTRO DI RICERCA INNOCENTI PER L’UNICEF - FIRENZE Spedizione ORDINI DEGLI AVVOCATI DI FIRENZE, PISA, POSTE ITALIANE SPA - LIVORNO E SIENA SPEDIZIONE IN A.P. - 70% - DOTT. A.GIUFFRÈ EDITORE SPA DCB VITERBO SOMMARIO

7 Introduzione CARLA MARCUCCI (PRESIDENTE AIAF TOSCANA)

I bambini nel tempo dei diritti_ 9 Il minore come soggetto processuale GIUSEPPE MAGNO (CONSIGLIERE DI CASSAZIONE) 23 La grammatica dei diritti dell’infanzia ELIGIO RESTA (ORDINARIO DI SOCIOLOGIA DEL DIRITTO, UNIV. ROMA TRE) 30 I diritti dei minori: ieri, oggi, domani PAOLO CENDON (ORDINARIO DI DIRITTO PRIVATO, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE) 44 Come parlare ai bambini LAURA VISMARA (ASSEGNISTA RICERCA UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA)

Il bambino e la sua famiglia_ 53 Paternità, maternità e filiazione – I procedimenti di stato ANGELO VACCARO (PRESIDENTE DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI POTENZA) 85 La famiglia normale ed il suo ciclo vitale - La genitorialità – Coppia e famiglia nel processo di separazione - Formazione, sviluppo e crisi del rapporto di coppia LILIA GAGNARLI (PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA, DIDATTA DELL’ISTITUTO DI TERAPIA FAMILIARE DI FIRENZE) 87 La potestà genitoriale: titolarità, contenuti ed esercizio FRANCESCO DONATO BUSNELLI (ORDINARIO DI DIRITTO CIVILE – SCUOLA SUPERIORE DI STUDI UNIVERSITARI E DI PERFEZIONAMENTO “S.ANNA” DI PISA) 107 Il “trauma” della separazione nell’infanzia GIULIA DEL CARLO GIANNINI (L.D. IN NEUROPSICHIATRIA INFANTILE) 129 Il minore conteso FRANCESCO CANEVELLI (PSICHIATRA, PRESIDENTE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI MEDIAZIONE FAMILIARE)

Il minore tra protezione e tutela_ 168 I Giudici che si occupano di minori MAGDA BRIENZA (PRESIDENTE DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ROMA) 172 L’esecuzione dei provvedimenti concernenti la persona del minore MAGDA BRIENZA (PRESIDENTE DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ROMA) 186 L’affidamento familiare consensuale MARIA ANTONIETTA GUIDA (GIÀ GIUDICE TUTELARE IN MILANO, PSICOLOGA) 193 Idoneità genitoriale e procedure di controllo della potestà Ordini a tutela del minore PIERCARLO PAZÈ (PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TORINO) 210 La tutela civile dei diritti della personalità e giusto processo GUSTAVO SERGIO (PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI VENEZIA) 224 L’affidamento familiare secondo la L. 149/01 Essere “genitori” ed essere “figli” nell’affidamento familiare ONDINA GRECO (PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA CENTRO STUDI E RICERCHE SULLA FAMIGLIA UNIVERSITÀ CATTOLICA DI MILANO)

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230 L’adozione secondo la L. 149/01 (aspetti sostanziali e procedurali con particolare riferimento alle novità introdotte dalla riforma) LUIGI FADIGA (PRESIDENTE DELLA SEZIONE FAMIGLIA DELLA CORTE D’APPELLO DI ROMA)

L’avvocato del minore_ 260 La capacità del minore in relazione all’esercizio dei suoi diritti FRANCESCA GIARDINA (STRAORDINARIO DI DIRITTO CIVILE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA) 277 Cronaca e pubblicità del processo penale. La tutela del minore vittima del reato GUSTAVO SERGIO (PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI VENEZIA) 292 Il “dilemma dell’avvocato del minore” nell’esperienza americana CARLA MARCUCCI (PRESIDENTE SEZIONE TOSCANA AIAF) 318 Minori in difficoltà: scenari tipici, rappresentazioni, bisogni FRANCESCO CANEVELLI (PSICHIATRA, PRESIDENTE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI MEDIAZIONE FAMILIARE) 346 Deontologia e responsabilità sociale: l’avvocato e il minore ALARICO MARIANI MARINI (VICE PRESIDENTE DEL CENTRO PER LA FORMAZIONE E L’AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE DEGLI AVVOCATI DEL C.N.F.)

Quale avvocato per il minore. Proposte per un modello italiano_ 356 The Child-in-Context: the Peters’ Model JEAN KOH PETERS (CLINICAL PROFESSOR AND SUPERVISING ATTORNEY - YALE LAW SCHOOL, NEW HAVEN,U.S.A.) 369 Legal Representation of Children in Australia and England DAVID TRUEX (SFLA ACCREDITED SPECIALIST FAMILY LAWYER, LONDON, U.K.) 381 Il curatore processuale - ovvero, l’avvocato del minore? MARIA ENRICA MAZZA TEUBNER (AVVOCATO SPECIALISTA IN DIRITTO DI FAMIGLIA, FRANCOFORTE,GERMANIA)

6 n questi ultimi anni la promulgazione di due leggi, la L. 28 marzo 2001, n. 149 e la L. 20 marzo 2003, n. 77, aveva fatto ben sperare che anche in Italia fosse Ifinalmente maturata ed accolta l'idea che un bambino debba avere voce nei giudizi nei quali si discuta e decida delle sue relazioni più significative e, quin- di, in definitiva della sua esistenza. La legge di riforma dell'adozione è in vigore ormai da quasi tre anni mentre la Convenzione di Strasburgo per l'Italia lo é dal 1 novembre 2003, ma la rivoluzio- ne copernicana che ci attendevamo dai cambiamenti che l'una e l'altra impongo- no nel modo stesso di concepire il bambino - non più minore, nel senso di sog- getto/oggetto che soggiace all'adulto, bensì persona, cittadino, seppur in crescita - pare molto lontana dal realizzarsi. L'illusione della consumazione di un così importante passaggio, epocale, da un bambino "parlato" ad uno "ascoltato", è durata solo il tempo necessario per ren- dersi conto di cosa ne è stato di queste norme, piene di buone intenzioni, dopo- diché al suo posto è subentrato lo sconforto nella consapevolezza che tutto è solo apparentemente cambiato, ma in effetti niente è realmente cambiato. Tutta la parte processuale della legge 149, peraltro assai confusa e lacunosa, è stata congelata, non è mai diventata ope- INTRODUZIONE rativa, e bisogna veramente essere molto ottimisti per sperare ancora che quello al 30 giugno 2004 sarà l'ultimo differimen- to della sua più volte inutilmente preannunciata operatività. Di cosa ne è stato della portata della Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’e- AVV. sercizio dei diritti dei fanciulli, nella attuazione che l’Italia intende darne con la CARLA sua ratifica, ci rendiamo conto se andiamo a verificare le ipotesi normative alle MARCUCCI quali l’ordinamento italiano applicherà i principi della convenzione europea. Al momento del deposito dello strumento di ratifica, il 4 luglio 2003, nel dichia- PRESIDENTE AIAF TOSCANA rare, come richiede la Convenzione, a quale tipo di giudizi verranno applicati i principi in essa contenuti, l’Italia non ha, infatti, compreso tra essi quelli di divorzio, separazione, affidamento dei figli, adozione, esercizio della potestà, come invece hanno fatto gli altri paesi ratificanti, ma solo quei giudizi in riferi- mento ai quali il nostro ordinamento aveva già previsto che il sedicenne avesse pieno titolo a parteciparvi o perché legittimato all’azione o perché chiamato ad esprimere un consenso all’attività dell’adulto e, quindi, in definitiva casi rispetto ai quali non si presentano rilevanti difficoltà in ordine alla interpretazione della volontà di tale soggetto. La Convenzione dovrà poi applicarsi a quei giudizi che hanno ad oggetto l’annul- lamento ad istanza del figlio di atti relativi al patrimonio compiuti dai genitori (Artt. 322 e 323 cod. civ.), e quindi in riferimento a questioni meramente patri- moniali per le quali era già possibile la nomina di un curatore speciale in caso di conflitto di interessi tra genitori e figli di qualsiasi età (artt. 320 e 321 cod. civ.). Possiamo dunque affermare che siamo abbastanza fuori tema rispetto all’oggetto della Convenzione di Strasburgo che, nello specificare quali siano i procedimen- ti giudiziari che riguardano i bambini, si riferisce espressamente a “i procedimen- ti familiari, segnatamente quelli che riguardano l’esercizio delle responsabilità dei genitori ed in particolare, la residenza ed il diritto di visita ai bambini”. È proprio quindi il caso di dire che in Italia abbiamo fatto tanto rumore per nulla. Alla luce delle brevi osservazioni che precedono l’iniziativa che l’Aiaf Toscana ha realizzato a Lucca, avviata nel settembre 2002, sull’onda lunga dell’entusia- smo conseguente alle attese sollecitate dalla legge 149, e conclusasi nel giugno 2003, accompagnata dalla rassicurante idea che l’allora freschissima autorizza-

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zione alla ratifica della Convenzione di Strasburgo avrebbe finalmente dato un riconoscimento non solo formale al bambino nel processo civile, potrebbe appa- rire un’esperienza un po’ donchisciottesca. Ma come spesso succede in tutte le imprese di tal genere, questa esperienza ha lasciato in tutti noi che vi abbiamo partecipato il senso di aver ricevuto molto, di aver scambiato idee e pensieri che dovranno sedimentare e maturare ma che ci hanno già dato qualcosa di nuovo e di prezioso. Certamente già il fatto di riunirci sistematicamente, con cadenza di due volte al mese lungo tutto un anno accademico, ci ha fatto sentire di essere tornati un po’ a scuola, non solo ad imparare ma anche a pensare insieme, cosi costruendo nel contempo una circolarità di idee e di esperienze che ha unito gli ordini forensi, tutti presenti attraverso gli iscritti provenienti dalle varie città toscane, nel comu- ne interesse per questo tema. È stato un appuntamento piacevole, interessante, anche molto faticoso, il cui risultato oggi vogliamo condividere con tutti coloro che sono interessati all’argo- mento che ci ha tanto impegnato ed appassionato. Come sempre, l’esperienza vissuta è ben diversa e più arricchente delle pagine semplicemente lette ma questo materiale, che i vari relatori hanno messo genero- samente a disposizione, rappresenterà certamente un seme dal quale potranno germogliare pensieri ed iniziative ulteriori. Solo una tappa in un lungo percorso che ci vedrà impegnati, come associazione e come singoli, in obiettivi sempre più ambiziosi perché è vero che “non si smette mai di imparare”. Vorrei approfittare di questa ulteriore occasione per ringraziare ancora una volta, anche a nome dei soci dell’Aiaf Toscana e degli iscritti al corso, tutti coloro che, credendo nell’iniziativa, l’hanno patrocinata e/o sovvenzionata: l’Ordine degli Avvocati di Lucca ed il Comune di Lucca, gli Ordini forensi di Firenze, Pisa, Livorno e Siena, il Centro per la Formazione e l’Aggiornamento Professionale degli Avvocati del Consiglio Nazionale Forense, la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la casa editrice Dott. A. Giuffrè Editore s.p.a., il Centro di Ricerca Innocenti per l’Unicef - Firenze IRC . Desidero rinnovare i ringraziamenti ai numerosi relatori, appartenenti a diverse professionalità, che hanno ben inteso il ruolo particolare di docenti per un pub- blico di avvocati, e a coloro che, pur non comparendo in questo quaderno per non essere intervenuti con una relazione, hanno svolto un ruolo altrettanto importan- te nell’ambito del corso o dei convegni, inaugurale e conclusivo, presiedendo le varie sessioni e coordinando i lavori. Fra questi il mio grazie va all’Avv. Luisella Fanni, componente del Consiglio di Presidenza dell’Aiaf, all’Avv. Alberto Belli, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca, al Dott. Giuseppe Quattrocchi, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lucca, al Dott Pasquale Andria, Presidente dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, alla Professoressa Roberta Clerici, Ordinario di diritto internazionale presso l’Università degli Studi di Milano. Mi scuso con tutti gli altri, che non posso citare singolarmente per ragioni di spa- zio, che hanno voluto essere vicini a noi durante l’esperienza formativa, anche con un semplice saluto, attestando con tale presenza la loro condivisione degli obiettivi perseguiti con il corso. E spero che ci potremo ritrovare insieme un giorno, non troppo lontano, a discu- tere dell’attuazione che ha avuto in Italia la figura dell’avvocato del “minore” piuttosto che a prefigurare quella che potrebbe avere. Vorrebbe dire che anche da noi qualcosa sarebbe finalmente davvero accaduto.

LUCCA, 12 APRILE 2004

8 I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI

1. PREMESSA SOMMARIO 1. Premessa gli inizi del secolo scorso fu avvertita, negli Stati 2. Dalla protezione dell’infanzia al Uniti d’America e nei principali Paesi europei, riconoscimento della titolarità di diritti l’esigenza di attribuire ad organi giudiziari o 3. L’esercizio dei diritti del minore nelle A controversie familiari para-giudiziari specializzati la competenza a trattare e 4. Il minore come parte nei giudizi di decidere le questioni relative a quei comportamenti separazione e divorzio dei genitori dei minorenni che oggi definiremmo “devianti”. Si 5. La difesa dei diritti del minore nei casi di pensava, infatti, che le particolari caratteristiche di sottrazione internazionale una personalità in piena fase evolutiva, come quella del minore di età, dovessero essere tenute in considerazione da specialisti del settore, allo scopo di pervenire a decisioni confacenti sia alle esigenze di tutela sociale sia a quelle di corretto sviluppo della personalità del soggetto. L’organo istituito sulla base di questa avvertita necessità - giudice minorile o tribunale per i minorenni - ebbe per- tanto una connotazione essenzialmen- te correzionale o penale e le procedure adottate per i giudizi davanti a tale IL MINORE COME organo (valga per tutte, come esempio, l’Ordonnance sur l’enfance délinquan- SOGGETTO PROCESSUALE te, approvata in Francia nel 1945) furono di carattere penale. Non esattamente la stessa tendenza fu seguita in Italia, ove già la legge istitutiva del tribunale per i minorenni, DOTT. all’articolo 32, attribuiva al neo-istituito organo giudiziario minorile una GIUSEPPE serie di competenze nel campo civile, essenzialmente in materia di esercizio MAGNO della potestà dei genitori (all’epoca, “patria” potestà), di tutela e di adozione. Lo spettro delle competenze civili del tribunale per i minorenni è stato poi CONSIGLIERE DI sempre più ampliato, fino a comprendere tutti gli affari elencati dall’articolo CASSAZIONE 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, quale si legge dopo le più recenti modifiche legislative. L’attribuzione di competenze di ordine civilistico al giudice minorile, però, se risolve in radice i problemi sorgenti dalla necessità di assicurare sempre al minore una considerazione competente ed univoca - sia che si presenti come vittima di abusi e bisognoso di protezione sia che (di solito, egli stesso) assu- ma comportamenti devianti -, apre la strada, per altro verso, ad una complessa problematica che il Legislatore italiano, finora, non ha compiutamente risolto. A differenza del minore imputato, i cui diritti sono ben noti e sufficientemen- te tutelati, quello che compare - o che dovrebbe comparire - davanti al giudi- ce civile, nei casi previsti dal citato articolo 38 o nell’ipotesi di divorzio dei genitori o in altre ipotesi aggiunte di recente, è una figura quasi inconsisten- te sul piano processuale: fin troppo protetta, in un senso - per così dire - socio-familiare, cioè da parenti e da assistenti sociali, ma quasi totalmente priva di tutela giuridica. Protetta, ma non tutelata. L’apparente ossimoro si spiega considerando che, per l’effettiva tutela giuridica degli interessi del minore in materia civile, davanti all’organo giudiziario competente, sarebbe necessario:

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1° che sia riconosciuta direttamente al minorenne (e non, per esempio, al genitore, in quanto esercente la potestà) la titolarità di alcuni diritti; 2° che di tali diritti egli abbia il libero esercizio, anche davanti al giudice, attraverso adeguati strumenti di rappresentanza e di assistenza; 3° che egli, rappresentato ed assistito convenientemente, abbia accesso ad una difesa tecnica autonoma, disponga cioè di un proprio avvocato difenso- re, abilitato ad introdurre e gestire le necessarie procedure, a parità di condi- zioni con gli altri difensori. In mancanza anche di uno soltanto di questi presupposti, che fanno del mino- re un “soggetto” e non più un “oggetto” processuale, la terzietà e l’imparzia- lità del giudice in materia civilistica minorile sono sopraffatte dalla necessi- tà di salvaguardare ex officio i diritti dell’indifeso ed assumono inevitabil- mente una deriva protezionistica, che mal si addice ad un organo giudiziario e che può giungere fino al punto di farne porre in dubbio la stessa natura giu- risdizionale. Come cercherò di spiegare in seguito, il primo dei presupposti indicati - tito- larità di diritti da parte del minorenne - è stato realizzato, specialmente mediante la ratifica della Convenzione di New York del 1989, sulla quale dovrò soffermarmi brevemente. Il secondo obbiettivo - esercizio dei diritti, da parte del minorenne, davanti al giudice - potrebbe essere agevolmente raggiunto mediante la ratifica della Convenzione di Strasburgo del 1996, alla quale pure farò qualche accenno. Il terzo obbiettivo - concernente la difesa tecnica del minorenne nel giudizio civile - può essere centrato solo se si dispone di organismi efficienti di pro- tezione dell’infanzia, di un albo di avvocati specialisti e di una valida norma- tiva per la difesa del minorenne a spese dello Stato. Di organismi per la protezione e promozione dei diritti dell’infanzia, come un “garante”, si parla da tempo, ma in termini che sembrano ancora alquanto vaghi. Si apprezza, invece, un certo fervore - e questo Corso ne è un esempio - sul fronte della specializzazione dei professionisti legali: forse si riuscirà, sull’onda di questo entusiasmo, a creare appositi albi - già inutilmente previ- sti dalla legge per la difesa d’ufficio del minorenne in materia penale -, in cui iscrivere gli specialisti della difesa autonoma del minorenne nel processo civile. L’occasione propizia è fornita dall’articolo 17 della legge 29 marzo 2001, n.134, istitutiva del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti: e poiché tali debbono considerarsi, nella loro stragrande maggioranza, i mino- renni, occorrerebbe soltanto curare che, al momento di sbloccare l’intera nor- mativa - tuttora sterilizzata perché la difesa dei non abbienti non costituisce attualmente una priorità politica -, gli albi previsti dalla norma ora citata comprendano distintamente gli specialisti nella difesa minorile. In mancanza di tale previsione, non si darà un effettivo esercizio dei diritti del minore in sede civile e resterà lettera morta, in particolare, la disposizio- ne contenuta nell’articolo 37, terzo comma, della legge 28 marzo 2001, n.149, che prevede la difesa a spese dello Stato nelle procedure concernenti l’esercizio della potestà dei genitori, cui si riferisce l’articolo 336 c.c.. È autoevidente, infatti, che l’espressione contenuta nel terzo comma citato (“i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) va interpretata scioglien- do l’ellissi che vi si nasconde, nel senso che, come ciascun genitore potreb-

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be essere rappresentato da un distinto difensore, in caso di conflitto d’inte- ressi, così anche il minorenne deve poter disporre del proprio difensore, al fine di accampare in giudizio le proprie giuste ragioni, eventualmente in con- trasto con quelle dei genitori, dai quali altrimenti - cioè fuori dall’ipotesi di conflitto - sarebbe rappresentato. Questa conclusione, d’altra parte, corri- sponde pienamente alle previsioni del codice di procedura civile in materia di nomina del curatore speciale (articoli 78 e seguenti), le quali hanno avuto, finora, scarsa o stereotipata applicazione in campo minorile, ma la cui impor- tanza si rivela attuale e concreta alla luce dei nuovi indirizzi sulla titolarità e sull’esercizio dei diritti dei minori.

2. DALLA PROTEZIONE DELL’INFANZIA AL RICONOSCIMENTO DELLA TITOLARITÀ DI DIRITTI

l cambiamento di rotta, verificatosi dapprima sul piano del diritto interna- Izionale, dalla protezione dell’infanzia al riconoscimento della titolarità autonoma di diritti in capo al minorenne, merita un sommario accenno. Nel Preambolo della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del 20 novembre 1989, ratificata con legge 27 maggio 1991, n.176, si riconosce testualmente che “il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare, in un clima di felicità, di amore e di comprensione”. Questa formula non ha, ovviamente, un contenuto giuridico immediatamente precettivo; non tanto perché è inserita nel Preambolo, quanto perché esprime un’aspirazione, un desiderio universalmente condiviso, purtroppo frustrato dai troppi casi di maltrattamento, di sfruttamento e di sradicamento abusivo dei fanciulli. Vale, in ogni caso, a far comprendere in limine che, se esiste il dovere di garantire al fanciullo uno sviluppo armonioso e completo della per- sonalità nell’ambito della sua famiglia, ciò significa che egli ne ha diritto. Si passa così dal concetto di “protezione” dell’infanzia, accolto nelle varie Carte precedenti, a quello di riconoscimento di diritti propri del fanciullo. Il nostro Legislatore traduce correttamente, infatti, il concetto nei termini giuridici seguenti: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’am- bito della propria famiglia”: dove, come si vede, la comune aspirazione a tutelare lo sviluppo del fanciullo, ancorandolo al proprio contesto familiare d’origine, si è trasformata non solo nel diritto-dovere dei genitori di provve- dere alle esigenze dei loro figli e nel dovere dell’Ente pubblico di sostenere la famiglia nell’assolvimento di questo compito (doveri già sanciti dalla nostra Costituzione, all’articolo 30), ma soprattutto nel diritto personale del bambino di esigere tutto ciò. Questa novità è resa più evidente dal confronto con la Dichiarazione dei dirit- ti dell’Uomo che, sul presupposto della “mancanza di maturità fisica e intel- lettuale” del fanciullo, sanciva la “necessità di una protezione e di cure par- ticolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita”. L’articolo 2 della Convenzione del 1989 esordisce invece impe- gnando gli Stati a rispettare ed a garantire i diritti dei fanciulli enunciati nella medesima. Ciò equivale a riconoscere, anche specificamente nei confronti dei fanciulli, che la titolarità dei diritti consegue al semplice fatto di apparte-

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nere al genere umano; perciò essi non vengono concessi, ma debbono essere solo rispettati e garantiti, e la loro sussistenza non dipende dalla maggiore o minore capacità e possibilità del titolare di esercitarli personalmente. La Convenzione riveste dunque una grande importanza, perché impegna gli Stati a rispettare, attuare e garantire effettivamente i diritti di ogni fanciullo “che dipende dalla loro giurisdizione” (articoli 2 e 4). Sul significato esatto e sulla portata integrale di quest’ultima espressione non si è ancora riflettuto abbastanza; sembra lecito affermare, tuttavia, che i diritti elencati debbano essere garantiti non solo ai fanciulli cittadini, ma a tutti quelli cui uno Stato pretende fondatamente di applicare norme del proprio ordinamento. Possono, pertanto, invocare il rispetto della Convenzione non solo i fanciulli residenti legittimamente nel territorio dello Stato ratificante, ma anche quelli entrati clandestinamente, posto che certamente dipendono (se non altro per le proce- dure di rimpatrio) dalla giurisdizione dello Stato sul cui territorio si trovano. L’elencazione dei diritti riconosciuti universalmente al fanciullo è abbastan- za lunga e comprende, essenzialmente, quelli relativi alla vita, all’identità personale, alla cittadinanza, ad essere allevato ed a non essere separato dai propri genitori, alla libera espressione e comunicazione delle proprie opinio- ni (se dotato di discernimento sufficiente), a professare liberamente una fede religiosa, ad associarsi liberamente, al rispetto della vita privata, ad essere informato, istruito ed educato, alla protezione contro ogni forma di violenza, ad essere adottato da una famiglia idonea (se privo della propria), all’acqui- sizione (nei casi appropriati) dello statuto individuale di rifugiato, a godere di speciali benefici in caso di handicap, alla protezione della salute, alla sicu- rezza sociale, ad un livello di vita adeguato ai propri bisogni, al riconosci- mento dello statuto di appartenenza a minoranze etniche, religiose o lingui- stiche, al riposo, al tempo libero, al gioco, alla protezione contro lo sfrutta- mento economico, lavorativo e sessuale, contro l’uso illecito di stupefacenti e contro i rapimenti, ad essere sottoposto ad un procedimento penale specia- le se incolpato di reato (con esclusione della pena di morte e della prigione a vita), al reinserimento sociale ed alla riabilitazione fisio-psichica. Il riconoscimento al minorenne della titolarità diretta di alcuni diritti induce a considerare, in primo luogo, la necessità di dotarlo di strumenti di assisten- za e di rappresentanza idonei a metterlo nella condizione di esercitarli ade- guatamente, superando anche il divario esistente nei confronti dell’adulto, normalmente capace di tutelare in modo conveniente i propri interessi. A tal fine, è stata attribuita al minorenne una posizione costante di maggior favo- re, di vantaggio iniziale, nelle leggi, nei giudizi e nelle procedure ammini- strative che lo riguardano; posizione di vantaggio significata dall’espressio- ne “interesse superiore” o “preminente” del fanciullo: preminente, s’intende, rispetto a quelli degli altri soggetti in gioco. Questo vantaggio, attribuito in funzione dell’interesse superiore del fanciullo (articolo 3), s’inquadra nei ter- mini di un antico istituto del diritto processuale civile, meglio conosciuto come favor, e, come tutti i favores, sta ad indicare un aspetto della mens legis, ossia una politica del legislatore, che si traduce in una precisa regola ermeneutica per l’interprete del diritto. In secondo luogo, l’abilitazione all’esercizio di propri diritti comporta princi- palmente - quando il fanciullo appare dotato di sufficiente capacità di discerni-

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mento - quello di poter esprimere su ogni questione d’interesse, nel corso di pro- cedure giudiziarie ed amministrative, opinioni e desideri che debbono essere tenuti nel debito conto (articolo 12). Il che equivale a dire, in termini proces- sual-civilistici, che la mancata motivazione, in ordine al rigetto di una richiesta espressa dal fanciullo in sede di ascolto, costituisce motivo di gravame. Inoltre, essendo evidente la necessità del fanciullo di essere assistito e, quando è il caso, rappresentato nelle procedure che lo riguardano, i relativi compiti debbono esse- re compresi fra quelli dei genitori e tutori (articolo 5) ovvero debbono essere svolti da soggetti ed organi ad hoc (articolo 12, 2° comma). Questo tipo di evoluzione, verificatasi grosso modo durante gli ultimi ven- t’anni nelle sedi deputate alla creazione del diritto convenzionale internazio- nale, ha indotto notevoli mutamenti, in parte ancora inavvertiti, sul piano del diritto interno, attraverso le leggi di ratifica. Un effetto, certo non seconda- rio, di tale evoluzione consiste nella necessità di attuare la partecipazione diretta del minorenne al processo vertente su questioni che personalmente lo concernono, allorché la decisione giudiziaria è suscettibile di ledere taluno dei diritti di cui egli è unico titolare. Le forme ed i limiti della partecipazione del minorenne al processo saranno solo sommariamente indicati in questa sede, in relazione a poche categorie di litigi. Importa, invece, principalmente sottolineare la vastità e la delicatezza del nuovo campo d’azione del professionista legale che, nell’assumere real- mente e pienamente la funzione ed il ruolo di “avvocato del minore”, non solo viene a distinguersi dal difensore dell’esercente la potestà genitoriale, ma può trovarsi in contrasto con esso, essendo concettualmente diversi e non sempre compatibili fra loro gli interessi dei rispettivi clienti. Per concludere sul punto, sembra opportuno ribadire alcuni concetti, suscet- tibili peraltro di ben più approfondita riflessione: 1° non si dà autonoma rilevanza all’interesse del minore, se questo non si traduce in diritti autonomamente esercitabili dal minore stesso e difendi- bili, a ministero del professionista legale, davanti all’organo giudiziario competente; 2° il difensore del minorenne, per svolgere adeguatamente il suo compito, deve avere una preparazione specialistica e deve poter riconoscere il minorenne come suo unico cliente, ottenendo il pagamento dell’onorario da lui stesso o dall’ente che ne garantisce il patrocinio gratuito; 3° senza una difesa indipendente del minore, non può funzionare corretta- mente l’organo giudiziario, specializzato o ordinario, che decide su que- stioni d’interesse minorile.

3. L’ESERCIZIO DEI DIRITTI DEL MINORE NELLE CONTROVERSIE FAMILIARI

a Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a LStrasburgo il 25 gennaio 1996, è stata stipulata - come espressamente avverte il Preambolo - in ossequio all’articolo 4 della Convenzione del 1989, il quale “esige che gli Stati Parti adottino tutte le misure legislative, ammini- strative e d’ogni altro genere necessarie per l’attuazione dei diritti ricono- sciuti” al minorenne. In particolare, la Convenzione di Strasburgo vuol dare

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puntuale applicazione al richiamato articolo 12, 2° comma della Convenzione del 1989, giacché ha lo scopo “di promuovere, nell’interesse superiore dei fanciulli, i loro diritti, di attribuire loro dei diritti processuali e di agevolarne l’esercizio, facendo in modo che essi possano, personalmente o per mezzo di altre persone od organismi, essere informati ed autorizzati a partecipare alle procedure giudiziarie che li riguardano” (articolo 1, 2° comma). Un obiettivo non secondario è anche quello di favorire una certa uniformità fra i diversi ordinamenti nazionali, “Considerando che lo scopo del Consiglio d’Europa è quello di ottenere una più stretta unione tra i suoi membri” (dal Preambolo). Lo strumento internazionale in parola non contempla, tuttavia, qualsiasi pro- cedura, bensì soltanto “quelle in materia familiare e, in special modo, quelle concernenti l’esercizio delle responsabilità dei genitori, con particolare rife- rimento alla residenza ed al diritto di visita riguardo ai figli” (articolo 1, comma 3). Il campo si restringe quindi, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, alle attività processuali di competenza del giudice minorile - sia in materia di controllo sull’esercizio della potestà dei genitori sia in materia di sottrazione internazionale dei minori, ai sensi della legge n.64 del 1994 - ed a quelle di competenza del giudice ordinario, per l’affidamento dei figli minorenni in occasione della separazione o del divorzio dei genitori. La Convenzione di Strasburgo abilita il fanciullo ad intervenire nel corso di queste procedure sia per esservi ascoltato ed informato sulle possibili conse- guenze dell’attuazione dei suoi desideri e su quelle di ogni decisione (artico- lo 3) sia - al limite - per esercitarvi le prerogative tipiche della parte proces- suale, qualora gli Stati ritengano opportuno concedere anche tale possibilità. Ma l’obbiettivo fondamentale non consiste nella mera attribuzione ai mino- renni di alcuni poteri processuali, più o meno incisivi, quanto piuttosto nel tentativo di spostare l’attenzione delle parti e del giudice, in caso di conflit- to familiare, dalle ragioni degli adulti, spesso rumorosamente accampate, a quelle del minorenne, di solito inascoltate perché sottaciute o esposte con voce troppo flebile; ma non meno valide e degne di considerazione per lo svi- luppo armonioso della sua personalità, attraverso il mantenimento di stabili e sereni rapporti affettivi con entrambi i genitori. Non sembra trascurabile, peraltro, il contributo oggettivo che l’intervento del fanciullo in giudizio può dare alla comprensione delle dinamiche sfociate nella crisi della coppia. La partecipazione del minorenne al giudizio non è vista, dunque, in chiave di contrasto con le pretese dei genitori, bensì è strettamente finalizzata a rende- re effettivo il godimento dei suoi propri diritti sostanziali, attraverso una nuova strategia di attenzione verso la componente più debole del nucleo fami- liare. In questo senso, il punto 7 della relazione di accompagnamento della Convenzione (rapport explicatif) chiarisce che questa “agevola l’esercizio dei diritti sostanziali dei fanciulli, rafforzando o creando diritti processuali”. Più in generale, ed ancora più profondamente, l’operazione consistente nel dare voce a chi, per definizione, non ne ha (infans è, etimologicamente, colui che non parla) è di quelle che acquistano un grande rilievo metaforico, come annota Eligio Resta. Infatti, un processo in cui “hanno voce” tutti i titolari dei diritti e delle posizioni giuridiche in gioco, compreso il bambino, è sicura- mente più equo, ma anche più equilibrato e più ricco di spunti per la decisio-

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ne, a beneficio di tutte le parti e, in definitiva, della società. Come sostiene Francesco Tonucci a proposito di assetti urbanistici, se la città sarà costruita in modo da essere più adatta ai bambini, risulterà più vivibile anche per i grandi. La stessa cosa si può dire del processo, giacché non si può dimenti- care che il catalogo delle parti fisiologicamente deboli comprende, oltre ai minorenni, i non abbienti in genere, gli ignoranti e, spesso, anche le donne; vale a dire almeno la metà del genere umano. Alcune osservazioni sembrano ulteriormente utili, con riferimento ad alcuni particolari litigi familiari. La Convenzione parte dal punto di vista che il minorenne, purché dotato di una certa capacità di discernimento, definita dai singoli ordinamenti statali, abbia sempre interesse a partecipare al giudizio in cui si dibattono argomenti di natura familiare che lo riguardano, per esservi ascoltato, per manifestare la sua opinione o, eventualmente, per esercitarvi il ruolo di parte autonoma. Tale punto di vista è esatto - a mio parere, con limitate eccezioni -, se riferi- to all’ascolto del minorenne. La concessione a quest’ultimo della facoltà di essere parte, tuttavia, non corrisponde ad un grado di considerazione più ele- vato, in termini processuali, rispetto alla semplice possibilità di esprimere opinioni in sede di ascolto. Potersi esprimere davanti al giudice e costituirsi parte in giudizio non costituiscono, puramente e semplicemente, una diffe- rente gradazione di peso specifico processuale. Essere parte in giudizio significa avere una posizione del tutto distinta da quella di qualsiasi altro soggetto che interviene per attestare circostanze, per deporre come persona informata sui fatti od anche per esprimere un punto di vista o un’aspirazione, sia pure non indifferente o finanche determinante per la decisione. La parte (ovvero chi ha un interesse giuridicamente riconosciu- to ad essere tale) - e soltanto essa - ha il potere d’introdurre una procedura, di proporre istanze, di contrastare o di sostenere quelle altrui, di addurre mezzi di prova, di prendere conclusioni e d’impugnare la decisione. Tutto ciò in perfetta autonomia rispetto alle altre parti. Per esercitare le prerogative di parte processuale, ognuno ha bisogno di una difesa tecnica ossia del ministero di un avvocato. Il minorenne, data la sua particolare vulnerabilità, necessita di un difensore dotato di equilibrio non comune e di buone conoscenze in campo psicologico. Si deve aggiungere che l’avvocato può ben essere persona particolarmente preparata, capace di assolvere da sola anche ai doveri di consiglio prudente, di assistenza e di rappresentanza in giudizio, per il soddisfacimento di tutti i diritti processuali del minorenne ai sensi degli articoli 3, 4 e 5 della Convenzione; ma più comunemente si verificherebbe - si ritiene - l’ipotesi di una pluralità di soggetti “consulenti”: organi, persone o enti che assistono il minore nella sua vicenda familiare, che lo consigliano ed eventualmente lo rappresentano anche in giudizio, fermo restando che egli dev’essere difeso tecnicamente da un avvocato specialista. Tutto ciò comporta la predisposizio- ne di efficienti, complessi e costosi apparati, impegnati a tempo pieno nella gestione delle liti familiari, con una propensione a stare dalla parte dei fan- ciulli: apparati capaci di realizzare la mediazione (pure raccomandata dalla Convenzione, all’articolo 13), di identificare e sostenere i reali interessi della prole minorenne, fino a far intervenire, se necessario, i propri membri e gli

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avvocati specialisti in giudizio. Sono realizzabili, in breve tempo, apparati di questo genere? I disegni di legge in discussione davanti alle Camere durante la XIII Legislatura non ne facevano cenno. L’entità molto contenuta dello stanziamento previsto lascia- va tuttavia comprendere che essi non erano affatto contemplati. Lo stesso interesse di ambienti normalmente sensibili ai problemi minorili sembra piut- tosto concentrato sulla ipotetica creazione di “difensori dell’infanzia” che, naturalmente, nulla hanno in comune con gli enti e le categorie professiona- li, idonei ad affrontare la complessa realtà dell’assistenza e della difesa tec- nica del minorenne in giudizio. A conclusione di questa parte, non si può evitare d’insistere sull’importanza di spostare l’attenzione dal tema della riforma legislativa - certamente neces- saria, ma non sufficiente per l’effettivo funzionamento di qualsiasi sistema - a quello dell’organizzazione e dell’incremento dei mezzi “materiali” (struttu- re, servizi, formazione - compresa quella degli avvocati, da inserire in albi speciali -, patrocinio gratuito, ecc.) indispensabili per l’attuazione pratica della riforma stessa. La maggior facilità (e visibilità) dell’innovazione legis- lativa rischia, infatti, di far prevalere questa parte dell’operazione, riducen- dola ad un “manifesto di buone intenzioni” che non incide efficacemente sulla situazione precedente. Allo stato attuale della nostra legislazione, le modifiche di carattere ordina- mentale necessarie per adeguarsi totalmente allo spirito della Convenzione - se tale è la volontà del Legislatore - non sono molte né molto significative, tanto che la Convenzione potrebbe essere ratificata anche “a legislazione interna invariata”, se non si desidera concedere da subito quegli ulteriori diritti e pote- ri processuali che essa non impone obbligatoriamente agli Stati ratificanti, ma si limita a suggerire come “concedibili”. Se, però, s’intende cogliere l’occasio- ne della ratifica per compiere ulteriori progressi nel campo del diritto minorile interno, allora bisogna dedicare una particolare cura alla diffusione della cul- tura di protezione dell’infanzia, al rafforzamento degli organismi ed alla spe- cializzazione dei professionisti cui il minorenne deve potersi utilmente rivol- gere per l’attuazione dei diritti che la legge si limita ad enunciare.

4. IL MINORE COME PARTE NEI GIUDIZI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO DEI GENITORI

isogna chiedersi, a questo punto, se interessa veramente al minorenne Bessere parte nei giudizi per la separazione o il divorzio dei suoi genitori. In generale, bisogna rispondere di no. Essere riconosciuto quale titolare di diritti e potersi esprimere liberamente al riguardo è molto importante e signi- ficativo; assumere la qualità di parte significa prendersi sulle spalle una grave responsabilità, soprattutto per l’impostazione delle tattiche e delle stra- tegie processuali, fatte sostanzialmente di dure contrapposizioni e di oppor- tune (talvolta strumentali) alleanze, senza delle quali la causa si perde con tutte le conseguenze relative, fra l’altro, alla sopportazione delle spese. Ora, non si può immaginare che il minorenne venga coinvolto nella lite mediante la presentazione di domande che non hanno alcuna possibilità di essere accolte o che non siano adeguatamente sostenute. Né vale obiettare che, in

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questo genere di controversie, non c’è un vincitore ed un perdente, dato che si deve ricercare principalmente la migliore sistemazione possibile dei rap- porti, nell’interesse della famiglia e della prole minorenne. In realtà, questo è l’obbiettivo che il giudice deve avere presente, ma l’esperienza insegna che le parti, dal canto loro, sono agguerritissime e che ciascuna tenta di tirare la decisione dalla propria parte, mostrando spiccata sensibilità per le questioni concernenti l’affidamento della prole e gli aspetti economici. Il tentativo di contemperamento degli interessi va fatto nell’ambito della pro- cedura di mediazione, laddove non si presentano particolari rischi per il minorenne, dato che nessuno, in questa fase non processuale, riveste la qua- lità formale di “parte”, con le conseguenti contrapposizioni. La procedura giudiziaria dovrebbe iniziare soltanto nei casi in cui la mediazione, di fatto, non abbia avuto buon esito, e cioè quando la controversia assuma aspetti e toni di patente inconciliabilità. L’occasione per il fanciullo di intervenire come parte nel giudizio scatterebbe, quindi, soltanto in presenza di contro- versie non risolte in sede di mediazione ed il suo interesse dev’essere valuta- to, pertanto, con riferimento alle residue situazioni di accesa conflittualità. In situazioni del genere, intervenire significa prendere posizione, pro o con- tro uno dei genitori oppure contro entrambi; significa, in ogni caso, avere una pretesa propria, che riguarda la sistemazione futura (alloggiativa, scolastica, economica, affettiva) all’interno del nuovo assetto familiare. Questa pretesa non può mai toccare il fondo della controversia, riguardante le ragioni, le modalità ed alcune conseguenze della separazione o del divorzio, in quanto queste circostanze sono attinenti a diritti personalissimi dei coniugi; tuttavia essa non può prescindere totalmente dalle posizioni accampate in giudizio dai coniugi-genitori perché, ad esempio, la richiesta di affidamento del figlio avanzata da uno dei due è sovente accompagnata dall’allegazione dell’inca- pacità o dell’immoralità dell’altro, sicché la domanda di affidamento ad uno dei genitori comporta, anche indirettamente, il sostegno delle ragioni di lui e l’opposizione a quelle dell’altro. Queste prese di posizione, indispensabili quando s’interviene in giudizio, non convengono al figlio minorenne, sia perché lo espongono ad assunzioni di responsabilità ed a frustrazioni troppo gravi per la sua età sia perché, soprat- tutto, il suo maggior interesse non può non consistere nella conservazione di buoni rapporti con entrambi i genitori, la qual cosa postula l’estraneità alla contesa fra gli adulti. Certamente, poi, non è trascurabile il fatto che le deci- sioni - se costituirsi oppure no, se proporre determinate domande e fino a qual punto sostenerle in caso di contrasto con uno dei genitori - sarebbero prese da persone estranee alla famiglia che, anche se animate dalla massima correttezza e lealtà professionale verso il minorenne, non potranno prescin- dere totalmente dai condizionamenti della propria mentalità. Le questioni di famiglia, viste da un estraneo, non sono percettibili nell’inte- rezza delle loro implicazioni affettive; il bambino sarebbe quindi portato ad assumere posizioni valide, probabilmente, da un punto di vista processuale, ma troppo asettiche ed insignificanti, o deleterie, sul piano affettivo. E tutto ciò nella migliore delle ipotesi, quando i servizi necessariamente coinvolti siano perfettamente funzionanti e costituiti da persone professionalmente e moral- mente all’altezza del compito. Allo stato attuale, invece, non esistono i presup-

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posti (albi di specialisti, cattedre ed istituti per la formazione adeguata di per- sonale in numero sufficiente su tutto il territorio nazionale, provvidenze relati- ve al gratuito patrocinio) idonei a fondare una previsione positiva di fattibilità. La conclusione, circa l’opportunità di concedere al minorenne il potere di costituirsi parte nelle controversie sopra indicate, è, dunque, sostanzialmen- te negativa; ma, d’altra parte, non totalmente negativa. Bisogna infatti considerare che le più gravi difficoltà in questo campo s’in- contrano allorché nel litigio familiare sono coinvolti figli ancora piccoli: non tanto da non poter esprimere una propria opinione, ma abbastanza per assu- mere decisioni personali sufficientemente meditate e mature. Si potrebbe giungere quindi a conclusioni parzialmente diverse, riguardo alla possibilità di costituirsi parte in giudizio, se si considera la posizione dei figli minoren- ni appartenenti alla fascia d’età più elevata, compresa fra 16 e 18 anni. In effetti, è alquanto difficile negare l’idoneità e l’interesse - quindi, poten- zialmente, il diritto - del sedicenne di proporre le proprie richieste nell’am- bito di una questione che, pur circoscritta essenzialmente agli adulti, tende a produrre pesanti conseguenze sulle sue abitudini e prospettive di vita. È cer- tamente molto importante e significativo per lui il fatto di essere almeno con- sultato e di sapere che la propria opinione, specie se adeguatamente motiva- ta, sarà tenuta nella debita considerazione, ma ciò potrebbe non essere suffi- ciente. Infatti, tanto per fare un esempio, egli, in mancanza della qualità di parte, non avrebbe modo (in senso giuridico-processuale) di dolersi di una decisione che, erroneamente, avesse trascurato di considerare in maniera ade- guata una sua giusta pretesa. Una prima limitazione, riguardo alla possibilità di costituirsi in giudizio, dovrebbe essere quindi rappresentata dall’età, nel senso che il relativo potere andrebbe concesso solo ai sedicenni, in conformi- tà ad analoghe concessioni nel campo familiare (ad es., in materia matrimo- niale e di filiazione). In questo modo sarebbe utilmente evitato, fra l’altro, il problema del riconoscimento, caso per caso, del possesso di una capacità di discernimento sufficiente. Con riferimento specifico alla costituzione del figlio minorenne nei giudizi di separazione e divorzio dei genitori, si tratta anche di circoscriverne l’inter- vento alle questioni di suo stretto interesse (affidamento, diritto di visita, residenza, mantenimento, frequenza di corsi scolastici, ecc.), escludendo, per quanto possibile, che le relative richieste e le argomentazioni utilizzate per sostenerle interferiscano con le posizioni accampate dai genitori per la tutela dei diritti e degli interessi di cui sono titolari esclusivi. Insomma, in questo genere di cause, il figlio è un terzo, “diversamente” interessato alla contro- versia ed ai suoi possibili esiti. Discende da ciò una ulteriore limitazione, fondamentale ed indispensabile, relativa al campo d’azione assegnato al minorenne in questi giudizi, da circoscrivere rigorosamente alla tutela dei suoi interessi strettamente personali, senza possibilità di valida ingerenza, anche indiretta, nelle questioni concernenti i motivi, le modalità e le (altre) conseguenze della separazione o del divorzio. L’azione concessa al sedicenne, in riferimento ai giudizi di separazione e divorzio dei genitori, è opportuno che sia chiaramente limitata, inoltre, quan- to all’ammissibilità, nel senso che essa non deve potersi esperire autonoma- mente, in via principale, ma soltanto come intervento nel corso del giudizio

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instaurato dai genitori. In altre parole, il figlio minorenne, oltre a non poter proporre domande relative intrinsecamente alla separazione od al divorzio, non deve neppure poter introdurre la causa indipendentemente dall’azione dei genitori, sia pure soltanto per avanzare domande relative a suoi (presun- ti) interessi, come ad esempio quello di convivere con uno dei due. Si vuol dire che non dev’essere data al figlio la possibilità, quando i genitori non danno inizio ad una causa di separazione o di divorzio, di esercitare un’azio- ne che, pur essendo relativa a suoi personali diritti ed interessi (come l’affi- damento), presuppone che una tale causa sia in corso; il che equivarrebbe - per assurdo - a dare al figlio minorenne il potere di avviare la procedura di separazione dei genitori. In questi casi, allorché i genitori non abbiano alcuna intenzione di separarsi o di divorziare, ma il figlio minorenne (di qualsiasi età) pretenda con motivate ragioni di convivere con uno di essi - abitanti, in ipotesi, in paesi diversi - o di avere una particolare regolamentazione dei rapporti di visita con l’altro o un maggiore contributo per il proprio mantenimento, ecc., la questione va risolta “in famiglia” e, se ciò risulta difficile o impossibile, facendo ricorso agli strumenti di mediazione familiare e, in ultima analisi, alle procedure giu- diziali non contenziose di soluzione dei conflitti familiari (articolo 145 c.c.). Infine, bisogna chiedersi in qual modo può interagire la volontà del figlio minorenne, costituitosi nel giudizio di separazione o di divorzio, con quella degli stessi genitori di riappacificarsi o, comunque, di trovare una soluzione concordata ai loro problemi ed a quelli concernenti la sistemazione della prole. Per una risposta coerente del sistema a questa domanda, si deve ricordare che l’ordinamento favorisce in tutti i modi la riappacificazione tra i coniugi, non solo mediante tentativi di conciliazione e predisponendo facili procedure di omologazione degli accordi, ma accettando finanche di porre nel nulla il giu- dicato sulla separazione se i coniugi tornano a vivere insieme, in base ad una semplice dichiarazione od anche al mero fatto del ricongiungimento (artico- lo 157, c. c.). Questa tendenza dell’ordinamento, ispirata al favor matrimonii, dev’essere mantenuta, ovviamente, anche quando il figlio minorenne partecipi al giudi- zio di separazione o di divorzio. Ciò comporta che non dev’essergli consen- tito di proseguire il giudizio dopo la conciliazione dei genitori né di contra- stare l’omologazione della separazione consensuale né di proporre impugna- zione in tali casi. In presenza di conciliazione dei genitori o di omologazio- ne della separazione consensuale, le ragioni eventuali del figlio, attinenti alle materie di suo personale interesse, debbono trovare adeguata considerazione nelle sedi appropriate e, se persistono discordanze fra le parti in merito ad esse, la discussione può proseguire in sede non giudiziaria (mediazione) o non contenziosa (procedura ex articolo 145 c.c.). Se la conciliazione, anche di fatto, dei coniugi avvenga in epoca posteriore alla formazione del giudica- to, i capi della sentenza relativi ai rapporti fra genitori e figli minorenni deb- bono anch’essi decadere ed essere posti nel nulla, anche se il figlio fu parte nel giudizio; l’eventuale disaccordo in merito all’oggetto di tali capi dev’es- sere risolto nel modo suddetto. In sintesi, la definizione della capacità del minorenne di costituirsi parte nei giudizi di separazione o divorzio dei genitori può essere espressa nei termini

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seguenti: il minore sedicenne, rappresentato, assistito e difeso da professio- nisti competenti la cui retribuzione fa carico all’ente pubblico (salvo even- tuale regresso, se il patrimonio del minore lo consente), può intervenire anche nelle controversie giudiziarie relative alla separazione ed al divorzio dei genitori, iniziate da questi ultimi, limitatamente alla proposizione di domande riguardanti l’affidamento, il diritto di visita, la residenza, il mante- nimento, l’istruzione, l’amministrazione dei beni di sua proprietà ed altre questioni di stretto ed esclusivo interesse dello stesso minorenne. Egli comunque non ha possibilità di opporsi o di impugnare le soluzioni concor- date fra gli adulti ed omologate dall’autorità giudiziaria competente né può invocare i capi della sentenza che decidono sulle sue domande, dopo l’avve- nuto ricongiungimento, anche soltanto di fatto, dei genitori.

5. LA DIFESA DEI DIRITTI DEL MINORE NEI CASI DI SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE

na parte sempre meno trascurabile dei litigi familiari riguarda il c.d. U“legal kidnapping”, consistente nel comportamento di un genitore od anche di un’altra persona avente un rapporto giuridicamente valido col bam- bino, che lo sottrae indebitamente all’altro genitore ovvero alla persona cui è legalmente affidato, per portarlo o per trattenerlo arbitrariamente all’estero; ovvero che impedisce illecitamente i rapporti del bambino a lui affidato con l’altro genitore, normalmente residente all’estero. L’articolo 11 della Convenzione di New York del 1989 dispone nel senso che gli Stati debbono adottare provvedimenti idonei ad impedire il “legal kidnap- ping”. A tal fine, gli Stati debbono favorire la conclusione di accordi bilate- rali o multilaterali oppure debbono aderire ad accordi esistenti. I princìpi generali scaturenti dalla Convenzione di New York, applicabili in materia di “legal kidnapping”, sono i seguenti: - la tutela dei diritti e la protezione degli interessi del fanciullo sono, anche in questo campo, preminenti su qualsiasi altro diritto o interesse eventual- mente in contrasto (articolo 3); - la possibilità di superare le difficoltà, derivanti dalla diversità degli ordina- menti giuridici in gioco, è ravvisata nella stipula di appositi accordi interna- zionali, bilaterali o multilaterali, o nell’adesione a quelli esistenti, e nella loro corretta attuazione (articolo 11). Le principali convenzioni plurilaterali che l’Italia, sia pure con un certo ritar- do, ha ratificato in questo settore appartengono a due differenti categorie: - quelle di carattere strumentale, che servono a stabilire quali siano, di volta in volta, la legge applicabile, la giurisdizione competente e le modalità di esecuzione dei provvedimenti e - quelle di carattere operativo, contenenti essenzialmente la disciplina di una procedura semplice e rapida, comune a tutti gli Stati ratificanti, per la realiz- zazione concreta dei diritti del bambino, arbitrariamente condotto o trattenu- to oltre frontiera. Sono esempi importanti della prima categoria la Convenzione concernente la competenza delle autorità e la legge applicabile in materia di protezione dei minori, stipulata a L’Aja il 5 ottobre 1961, alle cui clausole è ormai intera-

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mente informato il nostro ordinamento interno di diritto internazionale priva- to, grazie all’estensione operata dall’articolo 42 della legge 31 maggio 1995, n.218, e quella denominata “Bruxelles 2”, da cui è scaturito il Regolamento del Consiglio dell’U.E., sulla competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di potestà dei genitori. Questo Regolamento tende a realizzare, uno “spazio giudiziario europeo”, coinci- dente con l’intero territorio dell’U.E., all’interno del quale le pronunzie del giudice nazionale competente sono dotate di forza esecutiva.. I criteri in base ai quali si stabilisce la competenza, però, differiscono alquanto nei due stru- menti internazionali citati, sicché l’interprete può trovarsi a dover risolvere conflitti fra norme astrattamente applicabili al caso concreto. Alla seconda categoria appartengono la Convenzione europea fatta a Lussemburgo il 20 maggio 1980 e quella stipulata a L’Aja il 25 ottobre dello stesso anno. Entrambe intendono favorire la rapida restituzione del bambino sottratto o trattenuto e la corretta esecuzione del diritto di visita, ma utilizza- no sistemi assolutamente differenti, in quanto la prima intende facilitare il riconoscimento e l’esecuzione all’estero di un provvedimento di protezione del minore, e quindi tutela il suo diritto a veder rispettato l’affidamento in qualsiasi Stato ratificante, mentre la seconda, più semplicemente, mira all’immediato ripristino, nel tempo massimo di sei settimane, della situazio- ne normale del bambino, presso la persona e nel luogo ove viveva abitual- mente prima di essere indebitamente sottratto o trattenuto. Entrambe le Convenzioni, al pari di molti altri strumenti internazionali con- temporanei, utilizzano un organismo di collegamento agile e funzionale denominato Autorità Centrale, istituito in ogni nazione e dotato di competen- ze amministrative e para-giudiziarie, il cui compito consiste nel favorire l’at- tuazione pratica dei diritti tutelati, specialmente gestendo un canale diretto di comunicazione con l’analogo organismo dello Stato cointeressato. L’Italia, purtroppo, non ha stipulato finora accordi bilaterali, pure suggeriti dall’articolo 11, 2° comma, della Convenzione di New York, benché se ne avverta l’impellente necessità, soprattutto nei riguardi degli Stati da cui pro- viene la maggior parte dei nostri immigrati. Molti di questi Stati, che adotta- no come propria legislazione interna la “sharija”, direttamente ispirata ai pre- cetti del Corano ed applicata, specie in materia di famiglia, da tribunali con- fessionali, non sono disponibili a fare transazioni di alcun genere riguardo alla prevalenza di tali precetti su qualsiasi altra norma, anche di carattere internazionale, come quelle contenute nella Convenzione di New York, che pure hanno ratificato. Al fine di pervenire alla conclusione di simili trattati bilaterali, occorre trova- re, di comune accordo, un nuovo criterio di collegamento, diverso dalla nazio- nalità del padre (che non corrisponde all’interesse del bambino nella maggio- ranza dei casi) e dalla residenza abituale (inaccettabile per la controparte). È una ricerca molto difficile, ma non esistono altre strade valide per superare le attuali differenze culturali e ordinamentali, fermi restando i princìpi dell’inte- resse del bambino e della libertà matrimoniale. Non si registra, purtroppo, un impegno costante e significativo, su questo tipo d’impostazione del problema, da parte delle nostre autorità amministrative, tecniche e diplomatiche. Naturalmente, per ragioni di coerenza, il criterio di raccordo va cercato senza

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pregiudizio del diritto riconosciuto al minore di manifestare liberamente la sua opinione, ed anzi proprio nel quadro di tale diritto e di quello ad essere parte nel relativo giudizio. Al professionista legale chiamato a difendere gli interes- si del bambino nei casi di “legal kidnapping” risulta comunque indispensabile, oltre ad una buona conoscenza degli atteggiamenti psicologici tipici delle per- sone coinvolte in questo genere di controversie, quella delle convenzioni e delle norme di diritto interno ed internazionale applicabili, e la cognizione di alcuni elementi essenziali del diritto di famiglia dei paesi islamici. Il difensore del bambino deve inoltre farsi carico, in questi casi, di un dove- re di particolare celerità, richiesto dalla Convenzione (L’Aja 1980, articoli 2, 11) e dalla natura dell’affare. È interessante notare come, riguardo alle pro- cedure di applicazione di questa Convenzione, l’Italia è titolare di un prima- to tanto più prezioso quanto assolutamente inedito, con riferimento alla cele- rità dell’intero sistema nazionale di amministrazione della giustizia: infatti, secondo uno studio comparato riferito all’anno 1999, curato da ricercatori dell’Università di Cardiff, il 59% delle istanze inviate all’Italia è sfociato o nel ritorno volontario o nel rimpatrio ordinato dal giudice, contro il 50% della media di tutti i Paesi; quanto al tempo necessario per la decisione, il documento di Cardiff annota testualmente: “L’Italia è stata più veloce delle medie complessive di 84 giorni per un rientro volontario, di 107 giorni per un rientro deciso dal giudice e di 150 giorni per un rigetto da parte del giudice. In parte questa rapidità di conclusione è dovuta al fatto che non si sono avuti ricorsi. La cosa più significativa è che, con 33 giorni per un rientro volonta- rio, l’Italia è stata oltre due volte più veloce di tutti gli altri Paesi”. Le ragio- ni che rendono particolarmente graditi simili apprezzamenti sono intuibili. Occorre naturalmente evitare che l’intervento in giudizio del difensore del bambino sortisca l’effetto indesiderato di farci perdere questo raro primato. A parte ciò, sembra giunto il momento di dare concretezza ed effettiva pre- minenza, sul piano specificamente processuale, all’interesse del bambino, la cui voce è rimasta finora praticamente inascoltata, essendo sovrastata dalla rumorosa contesa fra i suoi genitori, unici veri attori processuali. L’interpretazione delle aspirazioni o dei bisogni del bambino non può essere ulteriormente assunta nei termini ufficiosamente stabiliti dal giudice, giacché l’interesse di una delle parti, anche quando prevale su quello delle altre parti in causa, deve essere esposto e provato, mediante validi atti processuali ed in pieno contraddittorio, da un professionista legale preparato ed indipendente. Ciò non serve soltanto al bambino, quanto piuttosto al corretto svolgimento dei giudizi, attraverso il recupero della condizione d’imparzialità del giudi- cante, imprescindibile fondamento della nostra civiltà giuridica.

Il tema della relazione è trattato più ampiamente nel testo: Giuseppe Magno, Il minore come soggetto processuale - Commento alla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, Giuffré Editore, Milano, 2001

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edo che il titolo di questa sessione del Convegno è dedicato al tempo dei diritti. Vi confesso che ci siamo divertiti molto con il mio amico e col- Vlega Giacomo Maramao a tradurre quella opera complicata che è “Sein und Zeit”, cioè “Essere e Tempo” di Heidegger, in una versione molto ironi- ca che era “Essere è tempo meteorologico” e quindi ci risiamo, cioè siamo di fronte a perturbazioni, a rumori del tempo, esattamente come il tempo del- l’infanzia. Voglio partire dalle cose che adesso diceva il Presidente Magno, del quale condivido l’impostazione, il tono, anche perché lui è stato, oltre che un testi- mone, un attore diretto delle politiche, non soltanto giudiziarie-infantili. Voglio ripartire da alcuni punti che mi sembrano interessanti. Su alcuni consento in maniera quasi totale, per esempio il processo di sovra- nazionalizzazione dei diritti che ha una storia, una ragione su cui tornerò fra un attimo, ma soprattutto la questione del modello di giudice rispetto ai con- flitti che riguardano i minori. Voglio partire da un caso concreto: il caso che lui ha citato della separazio- ne fra coniugi. LA GRAMMATICA Contrariamente a quanto lui diceva, io * sono per una polemica aperta, avvoca- DEI DIRITTI DELL’INFANZIA ti, magistrati per un dibattito franco e sincero. Ritengo che le regole dell’er- meneutica debbano essere fondamen- talmente costruite su un fatto: mettere sul tavolo i propri pregiudizi, soltanto così ci si chiarisce. Sono per una chia- PROF. ra e visibile polemica. ELIGIO Ritengo che nella questione citata, nell’esempio citato della presenza del RESTA minore in un procedimento giudiziario che riguarda la separazione dei coniu- gi, noi ritroviamo tutti i paradossi con i quali dobbiamo quotidianamente ORDINARIO DI SOCIOLOGIA convivere. Perché? Perché da una parte, mi sembra sacrosanto, oltretutto ci DEL DIRITTO, UNIV. ROMA TRE vincolano legislazioni internazionali, che si dia voce al bambino. Lo ho anche scritto molte volte: infanzia è quel tempo della vita in cui non si parla o si parla male, per cui è un bel passo in avanti che una legge dica che il minore ha il diritto alla parola. È già una grande conquista. D’altro canto, però, ritengo che il posto dei minori non sia nelle aule dei tri- bunali e che bisogna pensare ad un diritto alla parola, ad un dare la voce all’infanzia, prima e fuori del processo. Certo, ben venga anche la voce nel processo quando e come deve essere data al minore, con garanzie, ma anche con un meccanismo di filtro protettivo. Nello stesso tempo, però, non credo che sia il luogo più idoneo in cui si possa esercitare la vita del bambino. Lo dico francamente. Il posto del minore non è nelle aule dei tribunali. Ed una cultura che sia attenta ai diritti dei minori deve essere sostanzialmente in linea con questa lettura, cioè bisogna ridurre lo spazio del minore all’interno delle aule giudiziarie quando proprio non se ne può fare a meno. Ritengo, invece, che noi italiani ci mettiamo del nostro, finiamo per attrarre tutto come se fosse una cartina moschicida intorno al processo ed ai poteri * Correzione redazionale

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degli attori che li si realizzano. Lo dico da molto tempo, e capirete quanto sono romantico e disperato, l’ho detto per quatto anni ai colleghi magistrati in Consiglio Superiore della Magistratura, bisogna far fare una forte cura dimagrante alla giurisdizione in questo Paese. Bisogna evitare che al giudice si diano poteri di cui il giudice volentieri farebbe a meno. Diversamente deve svolgersi il ruolo dell’avvocato, il quale può intervenire, anzi, deve intervenire con maggiore responsabilità fuori e prima del processo. Questo è uno dei nodi fondamentali. Non è avvilente la posizione dell’avvocato che non arriva a giudizio ma è invece una forte valo- rizzazione del suo ruolo. Quindi la prima approssimazione al tema è una forte cura dimagrante dei poteri compositivi dei conflitti da parte del giudice. Io lo dico con una formula netta: il giudice non è il soggetto che deve com- porre i conflitti perché per questo è meno attrezzato di altri. Il giudice deve dire l’ultima parola sulle liti e dire l’ultima parola è una cosa che ne arricchi- sce lo spazio virtuoso piuttosto che contenerne il ruolo. Spesso si offendevano i giudici ed io cercavo di schermarmi dietro citazioni un po’ colte. Citavo Anassimandro che diceva che il diritto è contabilità, spe- rando con questo di schermarmi dalle accuse dei giudici, e capirete quanto sono romantico e disperato. Noi ci troviamo di fronte ad un’idea della giurisdizione onnivora, che man- gia tutto, che attrae su di sé tutto, per cui siamo costretti poi a riparare costan- temente ai guasti di questa giudiziarizzazione costante. Non è un caso che da un po’ di tempo a questa parte, ma la storia è risalente già al secolo scorso, si legge la storia, la storia complessiva, la storia grande, la storia di grandi racconti come attraversata da un processo di tribunalizza- zione. Tutto viene tribunalizzato, anche i fatti storici. Pensate a cos’è il revisioni- smo storico, come se fosse un processo con attori in cui ci sono ruoli giudi- ziari definiti. Chi è il giudice della storia? Io credo che questa idea del ridi- mensionamento dello spazio della giurisdizione sia a favore del giudice ed a favore di una pulizia linguistica dei nostri rapporti collettivi, in cui al giudi- ce viene ridato un ruolo degno di colui che è in grado di dire l’ultima parola, sulle cose di cui può parlare. Questo è un primo elemento di una grammatica del parlare. Quindi il mino- re, il diritto di parola, sacrosanto prima e fuori del processo, anche nel pro- cesso quando vi è costretto, quando vi è tirato per le orecchie e lì bisogna essere dei grandi giurisprudenti per evitare che si dia al minore questa possi- bilità che ritengo tragica, questo potere di giudizio di cui il minore fa volen- tieri a meno. Che cosa è la separazione fra coniugi quando ci sono dei figli? È un sistema a tre in cui ci sono i due confliggenti e la terza persona. Si trasforma nel momento in cui ci sono dei ruoli formalizzati da sistema a tre a sistema con terzo, in cui il terzo è il minore che poi diventa parte, ma questo è un altro discorso, che nel giudizio ha un potere sconfinato di giudicare sulla vita dei genitori. Io non so se facciamo bene nel caricare di responsabilità la figura del mino-

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re che per tutta la vita avrà il senso, o di colpa o di sofferenza o addirittura di onnipotenza, di aver deciso sul destino della sua famiglia. Non so se facciamo bene e vorrei che su questo ci fosse un dibattito pubbli- co aperto. Io non so se gli psicologi sono in grado di dirmelo, quale psicanalista, quel- lo di Palo alto o quello della scuola di Cosenza, quello che viene dalla cultu- ra indiana o quello che viene dal nocciolo duro della cultura occidentale, non lo so ma intanto vorrei saperne un po’ di più della questione e vorrei che tutte queste cose venissero discusse non nel luogo dei potenti e dei sapienti che delegano la scrittura di disegni di legge e li presentano al Paese, come se fosse la manna, ma vorrei che venisse fuori da un dibattito pubblico che ha sempre riguardato tutto, tranne che la questione vera dell’infanzia, che ha estromesso la questione dell’infanzia. Del resto, lo vediamo nella comunicazione pubblica. Non ci sono prime pagi- ne dei giornali che non ripresentino questa figura centrale del minore, vitti- ma ma più spesso attore della violenza. Guardate, su Cogne si è consumata una comunicazione malata. Si parla moltissimo dell’infanzia nelle prime pagine dei giornali ma si parla in maniera malata. Sarebbe molto meglio che si parlasse molto meno dell’infanzia, se la comu- nicazione deve essere malata così com’è ed ispirata ad un’idea un po’ voyeu- ristica, lo dico così, scandalistica. L’ho usato molte volte questo termine, questo termine impegnativo. L’infanzia è “scandalon”. In greco “scandalon” vuol dire l’esercizio dello zoppicare, essere inciampati nella famosa pietra di inciampo. Non è un caso che lo “scandalon” fosse anche la pietra dello scan- dalo cioè la pietra con cui viene lapidata la cosiddetta meretrice, ma qui i gio- chi ci porterebbero lontano. La comunicazione su questi temi è malata ed io chiedo ad un Paese civile di cominciare a regolare così come le leggi impongono. C’era un articolo molto bello della convenzione di Strasburgo che poco fa ricordava il Presidente Magno che impone ai Paesi di fare in modo che ci sia una comunicazione cor- retta, che ci siano saperi adeguati, che ci sia un processo che noi definiamo sinteticamente specializzazione ma è qualche cosa che passa attraverso la vita quotidiana. Il contrario dello scandalo è l’attenzione alle questioni dei minori nella vita quotidiana, nella normalità, non nell’eccezione di un attimo che attira la nostra capacità di comprensione e che produce, sapete che cosa? Soltanto una attivazione momentanea e la dimenticanza un attimo dopo e soprattutto produce un esercizio di delega ai competenti, come se la questio- ne dell’infanzia fosse un po’ come nella cultura nostra, contemporanea che medicalizziamo tutto. Girate per l’edicola del nostro Paese e troverete mille riviste dedicate allo star bene, essere sani, al come vivere in forma, al fitness e queste cose. La medicalizzazione è un effetto della delega che significa soprattutto la de- responsabilizzazione nella vita quotidiana. L’infanzia ha bisogno di un’altra attenzione. Ha bisogno di quella che nel mondo greco, ma non nel nostro mondo, era la clinica. Clinica è una parola bellissima, viene da che è il verbo dell’inclinarsi, cioè del ripiegarsi su, del prendersi cura. La clinica non è il sapere che dall’alto ti giudica ma la clini-

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ca è qualche cosa che ha bisogno di con-vivenza quotidiana, del prendere sul serio, del dare la parola, dell’ascoltare. Tutto il contrario di un giudizio che dall’alto ti giudica. Quindi lo dico perché questo è uno degli approcci che, secondo me, una formazione seria di attori deve avere rispetto all’infanzia. Bisogna ridurre lo spazio onnivoro delle competenze. Noi ci troviamo di fronte ad un modello di giudice, al quale deleghiamo tutto, persino, come vado ripetendo da un po’ di tempo, la felicità degli individui. No, non abbiamo bisogno di questo giudice, anche perché un giudice di que- sto tipo poi, alla fine, produce più danni di quanti in realtà non ne posso fare. Bisogna che il giudice, così come tutti gli altri attori di un processo giudizia- rio, subisca un processo di depurazione linguistica. Il linguaggio di cui è competente e non altri linguaggi. Questo, detto fra parentesi, ci porta al dramma della agenda politica. Non invoco la richiesta di illuminismo del legislatore. Mi accontenterei di molto meno. Mi accontenterei che il legislatore facesse meno pasticci. Si trat- ta di questo quando si mette mano a disegni di legge in cui per decreto si abo- lisce una cosa cui io tengo molto. Nelle questioni riguardanti il giudizio del- l’infanzia non ci può essere un semplice monologo: il monologo del giudice. Ci deve essere una poli-fonia di voci. Ci deve essere la polifonia di chi si cura dell’interesse giuridico e giudiziario, ed è sacrosanto il giusto processo, detto in parole gergali, ma soprattutto c’è bisogno di tante voci che tengano pre- sente le mille sfaccettature dei conflitti di cui il minore è il punto di riferi- mento, e non sono conflitti che possono essere ridotti ad articoli di legge. Non sono conflitti che possono essere stabiliti con l’accetta di chi definisce gli interessi e la contabilità fra gli inter-essi. Interesse vuol dire esattamente questo, non aggiunge nulla alla struttura relazionale. Vuol dire lo stare “inter” “fra”, è una tautologia che soltanto qualche volta aggiunge qualcosa al nostro linguaggio, quindi bisogna cominciare a ridurre lo spazio della giu- risdizione e a garantire che nella giurisdizione intervengano altre voci. Invece vengono azzerate, chiuse per decreto. C’è un gioco di maggioranza nei collegi giudicanti che farà sì che ci sia sem- pre la prevalenza non soltanto della decisione, perché questa è sacrosanta, ma dell’impostazione della causa da parte del sapere giuridico, di un monologo giudiziario che mi spaventa. Quindi questo è uno dei punti fondamentali: rimettere polifonia all’interno del processo. Questo significa ridare spazio ai saperi diversi. Voglio raccontarvi un episodio. Anche con Pino Magno c’è stato un minimo di discussione accesa su questo. Al Consiglio superiore molti esponenti della cultura giudiziaria minorile hanno chiesto che i giudici onorari, di cui nessuno voleva fare a meno, per tanti motivi, alcuni nobili, altri meno nobili, questo lo sappiamo ma non voglio parlare delle miserie, hanno chiesto che ci sia una formazione dei giu- dici onorari. Tutti quanti “ah sì”, quando si parla di formazione, tutti sono disponibili ed hanno risposto tutti sì. Io ho votato contro, perché quale formazione dobbiamo assicurare ai giudici onorari? Quella della cultura del giudice modello bonsai, cioè bisogna dare allo psicologo lo stesso potere del giudice, o bisogna pensare allo psicologo come psicologo che nessuna giustizia dovrà e potrà formare. Ovviamente

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sono rimasto solo con il mio voto contrario ma non me ne dispiace. Io credo che su questo bisogna fare chiarezza. La polifonia deve essere polifonia. Devono essere saperi diversi, non deve essere un componente del collegio in più. Non bisogna pensare al giudizio minorile come ad un qualche cosa che deve essere liquidato. Io sono abituato all’arroganza di una cultura giudiziaria che ha sempre lavorato sul minorile come il modello miseria/nobiltà. La nobiltà è il giudizio degli adulti. La miseria è il giudice minorile. Negli incarichi direttivi vi potrei raccontare mille micro-storie. Negli incari- chi direttivi, per esempio, è facilissimo il passaggio dagli adulti ai minori, tanto un minimo di specializzazione minorile gli adulti comunque l’hanno avuto. Basta che siano stati per un breve periodo di tempo nelle sezioni di Corte di Appello che si occupavano anche dell’appello minorile ed adesso succederà la stessa cosa. Invece è difficilissimo il passaggio a contrario cioè chi è stato giudice minorile “ah, ma no questo ha fatto il giudice minorile, mica può andare a dirigere la Procura generale della Repubblica!”. È un sistema che funziona soltanto a senso unico, da una parte all’altra. È un processo di colonizzazione dell’ordinamento giudiziario. Strano, perché il Governo ha scelto un’altra strada. A volte penso addirittura che possano avere un minimo di furbizia, poi mi ricredo subito, ma qual è il senso dei disegni di legge, civile e penale, sulla riforma della giustizia minorile? Contrariamente ad una lunga storia, in cui si lavorava sul processo ma si rimandavano le riforme ordinamentali, questi due disegni di legge lavorano esclusivamente sulla struttura dell’ordinamento giudiziario, cioè ruoli, collo- cazioni, compiti, meccanismi di trasferimento dei giudici minorili. C’è un’attenzione che io definisco con una formula retorica meto-mimica cioè si parla del contenente per il contenuto. Si ha quest’attenzione molto specifica ai giudici piuttosto che al sistema giudiziario. Che cosa c’è di stra- no in questo disegno di legge? Che dice di rendere funzionali o di voler ren- dere funzionale alla giustizia minorile, che invoca questo processo di chiusu- ra delle polifonie attraverso una istituzione di sezione specializzata, e poi andiamo a leggere l’articolato e dice “prevalentemente specializzata”. Cosa vuol dire prevalentemente? E soprattutto quando il Consiglio Superiore della Magistratura dovrà decidere chi collocare all’interno delle sezioni specializ- zate si troverà di fronte due problemi: il primo è che queste sezioni potranno essere istituite soltanto dove c’è un buon rapporto fra giudici e controversia, cioè soltanto nelle grandi aree metropolitane, il secondo è costituito dai cri- teri in base ai quali scegliere la specializzazione. Quali devono essere? Basta che un giudice abbia scritto tre pagine sui rapporti patrimoniali fra i coniugi ed è automaticamente specializzato. Io non sono d’accordo, perché immette un elemento di discrezionalità stupida e fa perdere veramente il punto di vista della priorità degli interessi del minore all’interno della struttura giudiziaria. Quando viene presa sul serio, vedete che il tempo si rasserena, il tempus non è soltanto tempestas ma è anche qualche altra cosa, io credo che nella que- stione del minorile sta sfuggendo una tendenza di lungo periodo e che in fondo anche la giustizia minorile finisce per essere l’anticipazione di molte delle cose che poi la giustizia degli adulti dovrà necessariamente cominciare a condividere.

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Tanto per incominciare una maggiore vicinanza del rapporto fra decisione ed implementazione delle decisioni che nel tribunale per i minorenni è la carat- teristica anche se è un problema e lo sappiamo tutti, lo sappiamo benissimo ma la giustizia degli adulti è una giustizia costruita melanconicamente intor- no al tempo del rimando continuo, della non decisione. Ecco perché per esempio è importante il giusto processo. Vorrei che fra i pre- giudizi da chiarire questo venisse fuori in maniera chiara. Il giusto processo non è soltanto contra-ddittorio, è anche questo. Giusto processo vuol dire “tempi ragionevoli”ed i tempi ragionevoli della giustizia minorile non sono tempi così dilatati come la corte d’Europa di Strasburgo ci dice. Non posso- no essere sei anni. I tempi ragionevoli del giusto processo minorile devono avere a che fare con una dimensione incommensurabile che è il tempo della vita dell’infanzia. Questo è un caso tipico di colonizzazione culturale, in cui la vita del minore, se entra nelle istituzioni, dovrà necessariamente essere sacrificata alle esi- genze dei tempi delle istituzioni, ed il tempo della vita dell’infanzia è molto più accelerato. È un tempo in cui bastano pochi mesi perché il processo di crescita avvenga. Allora quale deve essere il ruolo del giudice poi alla fine? ed in questo non vedo alcuna differenza rispetto all’etica deontologica dell’avvocato, anzi, quale deve essere? Io lo dico con molta franchezza: bisogna evitare danni ulteriori. Basta non fare danni, che è una cosa degnissima. Non bisogna guar- dare al giudice o all’avvocato come quei soggetti che devono ridare la felici- tà, ma devono evitare i danni ulteriori, che la necessità della vita produce. Qual è l’interesse superiore del bambino in una causa di separazione? L’interesse prevalente del bambino è che i genitori, non solo non si separino ma siano anche felici e diano felicità. Basta Catalano per questo. Lo ricorda- te quel personaggio di “Quelli della notte”: è meglio essere sani e felici che malati ed infelici. Certo, che cosa è l’affidamento congiunto se non l’eserci- zio, paradossale, la risposta paradossale ad un paradosso. Perché sarebbe bene che fossero felici però non lo sono ed allora facciamo come se nell’edu- cazione dei bambini lo fossero. È un bellissimo esercizio che si chiama, gli psicologi la conoscono bene questa struttura, si chiama “ fare come se”. È il gioco della rappresentazione. Uno studioso francese ha usato una formula che ritengo molto felice. Il vero delitto perfetto è esattamente il linguaggio che ci fa dimenticare la realtà. Ce la fa sostituire attraverso la clinica dei diritti per cui noi abbiamo dimentica- to di avere la salute, la qualità della vita, la solidarietà e l’abbiamo sostituita con il diritto alla salute, il diritto alla qualità della vita, il diritto alla solida- rietà cioè trasferiamo sempre melanconicamente ad un’altra sfera e ci ricade anche la legislazione. C’è un articolo della Convenzione di Strasburgo che è molto bello, è l’articolo 1. Ve lo cito perché chi si vuole divertire a fare grammatica sulla legislazione troverà un campo da arare enorme. Dice il punto 2 dell’articolo 1 della Convenzione di Strasburgo: “Oggetto della presente convenzione è promuo- vere, nell’interesse superiore dei minori, i loro diritti”. A parte il fatto che sugli interessi superiori ci sono fiumi di inchiostro che ci raccontano dei paradossi. Nella Corte Suprema americana, fino agli inizi del

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novecento interesse superiore del minore era essere affidato al padre; dal 1900 in poi, fino al 1960, è stato essere affidato alla madre, poi c’è stato il movimento femminista molto forte negli Stati Uniti e si è cominciato a pen- sare che interesse del minore fosse essere affidato qualche volta anche di nuovo al padre, poi è insorto il caretaker. E pensate che qualche volta l’inte- resse superiore del bambino viene interpretato come interesse superiore del bambino cioè interesse superiore è sempre qualche altra cosa su cui l’eserci- zio ermeneutico del giudice, meglio sarebbe buttare i dadi, viene esercitato in questa maniera. Poi dice: “Concedere loro diritti azionabili”. Cosa sono i diritti se non quelli che devono essere fatti valere? C’è un senso di colpa in quell’”azionabile”. Perché? Per il fatto che il minore deve essere sempre rap- presentato da qualcuno? Va beh, ma questo lo sappiamo, fa parte delle rego- le processuali valide da sempre. Ma allora perché azionabili? Perché si sa è, qui è un po’ il dramma della nostra storia, e su questo io concludo, si sa da sempre che diritti che possono essere allocati attraverso le parole sono faci- li. È evocare, formalizzare i diritti. Il problema è un altro ed è esattamen- te questo: noi abbiamo attraversato il secolo scorso che è stato il grande seco- lo dei diritti dell’infanzia, eppure il risultato è che essi mai sono stati così tutelati e mai così vilipesi, violati in solitudine, e qui le due cose non torna- no. Ecco, io ritrovo il senso di colpa dell’azionabile. La clinica dei diritti di cui parlavo: c’è sempre bisogno di un secondo livel- lo del linguaggio che ci deve ricordare quello che abbiamo dimenticato. Perché io ci tengo a questo? Perché c’è stata anche una lettura teorica molto forte di alcuni nostri colleghi, appartenenti alla sinistra giuridica america, che ha finito per leggere i diritti dell’infanzia come il prototipo su cui costruire un modello assiomatico dei diritti umani. Questi sono i diritti da cui non si può prescindere. Ma che cosa sono i diritti umani? Un bel paradosso. Sono quei diritti che sol- tanto l’umanità può violare ma soltanto l’umanità può tutelare ed allora, spo- gliata la retorica, tolta la crosta metafisica dai diritti dell’infanzia e dai dirit- ti umani, che cosa rimane? Rimane il dovere degli Stati e la responsabilità di ognuno nei confronti dei minori e questo vale per i genitori qualsiasi, vale per il senso comune ma vale soprattutto per le culture che se ne devono interes- sare.

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omincerei con un’osservazione, forse abbastanza banale, ma che mi viene sempre spontaneamente alla mente, nel momento in cui comincio Cad occuparmi di soggetti fragili e ad immaginare cosa racconterò: e il tema - accennato anche questa mattina opportunamente da Eligio Resta - è quello del fatto che nel caso dei bambini esiste una contraddizione intrinseca forte, come in relazione a poche altre categorie di persone “deboli”. (a) Da un lato, si segnala la grande quantità di diritto scritto che esiste nei confronti dei soggetti deboli, e dei minori in particolare. Possiamo aprire la Costituzione, ecco che troviamo l’articolo 30; apriamo il Codice civile, ci imbattiamo nell’art. 147 e poi in tante altre norme significative. Scorriamo le leggi speciali, le convenzioni internazionali; e risulta che in tutte queste norme, soprattutto da un po’ di anni a questa parte, grondano indicazioni prescrittive, falsarighe calde, appas- sionate - perfino troppe, ci diceva sta- mattina Magno (ricordando le parole I DIRITTI DEI MINORI: suadenti ed “impossibili” che rintoc- cano nella Convenzione di New York IERI, OGGI, DOMANI ed anche in altri contesti). Da un lato, dunque, l’assalto normati- vo di cui sopra, questa grande ricchez- za. PROF. (b) Dall’altro - se, invece, chiudiamo i codici ed apriamo il giornale o accen- PAOLO diamo la televisione - un inventario impressionante di cattiverie, di malagra- CENDON zie nei confronti dei bambini di tutti i tipi: violenza fisica, violenza psichica, bocciature sbagliate, maltrattamenti, disagi, conflitti, abbandoni e via di que- ORDINARIO DI sto passo. DIRITTO PRIVATO, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE 2.

cco, si ha l’impressione di una divaricazione enorme fra questa duplice Eserie di elementi; e proprio da questo io partirei. Sembra, in effetti, uno dei campi in cui il diritto non ce la fa proprio ad influenzare la realtà; e si ha anzi l’impressione che più gli anni passano, più aumenta l’enfasi verbale, una corsa sempre più utopistica, generosa del legis- latore. Penso anche a certe leggi regionali, di cui abbonda da un paio di decenni la nostra esperienza italiana. Nelle leggi regionali, in particolare, il legislatore - forse proprio perché consapevole di questa sfida impossibile di far stare meglio i bambini - si abbandona non di rado ad una specie di libro dei sogni. Parole, parole. Importanti sicuramente, molto importanti, non sono cose da trascurare: si tratta di cose rispettabili, ammirevoli per molti versi. Ma ecco il problema. Il diritto che aumenta sempre di più la sua tavola di riferimenti, di parole d’ordine; e la realtà vivente che a sua volta aumenta ogni giorno la quantità di cattiverie, di cose orribili che leggiamo quotidianamente nei gior- nali.

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Ecco, mi domando, come mai tutto questo? Anche Resta stamattina accennava ai “diritti azionabili”. Però, cosa possia- mo fare? È così difficile per il diritto, per noi, occuparci di bambini. Questo mi sembra il punto: la difficoltà del tema. La difficoltà per il giurista, soprat- tutto. È difficile probabilmente per tutti - per gli psicanalisti, per gli psichiatri. Si tratta di uno dei nodi più forti, delle scommesse più difficili. Ma per il dirit- to, in particolare, è ancora più difficile. Quali le ragioni di queste difficoltà?

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nzitutto, va osservato come non sia sempre facile, per il diritto, scoprire il Amale. C’è il male che in qualche caso è del tutto evidente: il bambino bastonato, violentato, il bambino nella lavatrice. Oppure questi aborti terribili, nel bagno di casa. In generale tutti i casi in cui è colpito il diritto alla vita, all’in- tegrità fisica. Di tutto questo il diritto si accorge di solito. Se invece la soglia non è così tragica, se l’inventario del male mette di fron- te ad esiti meno cruenti o dolorosi, tutto per i giurista può diventare diffici- le. Non essere amati, non essere capiti, non essere ben vestiti; quelle mille forme di maltrattamento che la psicologia ha identificato in tanti anni: in famiglia, nella scuola, magari nelle piccole bande che si creano dappertutto per le strade. La ragnatela diffusa delle sofferenze, delle prevaricazioni: soprusi, mancanze dei familiari, vuoti, fallimenti degli adulti. Tutto questo non si vede tanto facilmente. Non si vede oggi, comunque. C’è l’impressio- ne di un sommerso enorme di cui non si parla mai, di cui conosciamo poco, se non in casi tipici che quasi non ci riguardano. Stamattina non ho sentito parlare di questo. Questo 99% del male di cui non sappiamo neanche che c’è. Possiamo certo indovinare, alzando gli occhi, che dietro qualche finestra, probabilmente anche a Lucca, c’è qualche bambino che piange infelicemente; o comunque qualche bambino che sembra sia con- tento, a cui in realtà poi la madre non sa o non può parlare; il padre che non c’è, i fratelli lontani, la nonna inesistente o distante. L’invisibilità insomma, l’impercettibilità dei problemi in certi casi.

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ltri passaggi chiave - faccio solo un esempio, ma mi pare che stamattina Ane siano stati fatti parecchi - riguardano il fatto che spesso le scelte da compiere nei confronti del bambino sono scelte tragiche. Occorre scegliere tra due mali ugualmente temibili, e non si sa cosa debba prevalere, come si debba procedere. Il caso classico mi pare che sia quello del figlio della donna drogata o della donna malata di mente: in cui c’è spesso un conflitto fra due servizi diversi - i servizi della psichiatria, i quali vogliono che il bambino rimanga con la mamma (perché, se la mamma perde anche quel bambino, è condannata per sempre); ed invece i servizi dei minori, i quali dicono di no.Ecco la scelta

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delicata, intrigante. Sempre si crea un danno scegliendo, è pur vero: ma nel nostro caso il danno sembra ancora maggiore. Il diritto è particolarmente in difficoltà fra due beni che si contrappongono, e non è sempre scontato che sia il bene del minore a dover prevalere.

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na ragione ulteriore di difficoltà mi pare sia la seguente, anch’essa accen- Unata stamattina. Si è fatto riferimento a quella che io chiamo la “bambi- nologia”, e cioè al fatto che spesso i bambini “rendono” tantissimo agli adul- ti, ai loro sistemi di comunicazione, di commercio, di produzione, e di scam- bio. Si fanno ad esempio convegni come questo, il che va benissimo; si tengono poi corsi d’insegnamento, il che va pure bene: si inventano master. Poi soprattutto, si fanno trasmissioni televisive, si pubblicano e si diffondono libri, riviste, manualetti, guide, dispense. Trasmissioni strappalacrime, sug- gestive, La realtà è che i bambini “vendono” moltissimo. Da un po’ di tempo c’è stato un boom sempre crescente: i giornali popolari, i film, le telenove- las, le tavole rotonde, i processi. Dalla mattina alla sera - si comincia credo alle sei di mattina (qualche volta mi sveglio, accendo la televisione per riaddormentarmi) - si parla di questo bambino che non deve mangiare il sedano ma l’insalata, che non deve accet- tare caramelle dagli sconosciuti ma neanche essere impaurito o isolato da divieti sistematici, che non deve andare di qua e di là. Poi si va avanti a fasi alterne tutta la giornata. Questa “bambinologia” è positiva o è negativa? La risposta non può essere netta probabilmente. Credo ci siano delle luci e delle ombre. Non mancano i vantaggi probabilmente: perché molte cose che non sapevano dieci anni fa oggi le sappiamo. Ma al tempo stesso ho l’impressione che ci sia soprattutto un tornaconto, un eccesso di opportunismo nei gestori della tra- smissione, della piccola posta, del libro. Certe volte siamo molto infastiditi di vedere nelle vetrine sempre questi stessi nomi che vediamo in televisione. Temo che ci sia un effetto di “mitridatizzazione”, potrei dire, questo lessico, questi riscontri che ci addormentano, ci stancano, ci abituano, ci assuefano un po’ al problema.

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oi c’è il problema, forse minore ma comunque interessante, rappresentato Pdal fatto che continuiamo a parlare dei bambini come se si trattasse di un’unica categoria. I bambini in realtà sono tanti tipi - e non è detto (ecco il punto) che ciò che vale per una sottocategoria vada bene per un’altra. Ci sono, per esempio, i bambini e le bambine; ed è spesso una differenza non da poco. Ci sono i bambini sani ed i bambini malati. Ci sono (questo è già più risaputo, anche se non portato sempre fino alle estreme conseguenze) i bam- bini che hanno da 1 a 7 anni, e per i quali varrà un certo tipo di diritto; quel-

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li fra i 7 e i 14, ed ecco un altro tipo di diritto; quelli poi da 14 a 18, non sono più bambini, e ecco un altro di tipo di statuto, ancora. Ci sono i minori capaci e quelli incapaci di intendere e di volere. I fanciulli che vivono dentro la famiglia e quelli che vivono fuori. I giovani poveri, quelli mediamente poveri e quelli ricchi. I bambini di città e quelli di campa- gna, i bambini bianchi e quelli extracomunitari. I bambini con i capelli neri, con i capelli biondi, con i capelli rossi. I bambini che comprano ed i bambini ai quali le cose vengono comprate. Ed ecco qui le questioni dei consumi, dei farmaci, dei prodotti, dei giocattoli, della televisione. Ci si spalanca tutto un mondo di opzioni diverse, di diver- si livelli di autonomia, di diverse necessità di protezione - tutti passaggi destinati a risentire della circostanza che si tratti di una o di un’altra fra le dette categorie.

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ltro punto significativo - che colpisce forse di più l’immaginario di chi sia Ain là negli anni, ma che tocca un po’ qualsiasi osservatore - è l’enorme dif- ferenza che si riscontra fra giochi, passatempi, usi del tempo libero, modali- tà di svago, divertimenti, del tempo passato e di quello presente. È sempre stato così, in effetti, i cambiamenti nel modo di divertirsi non sono mai mancati. Ma la forbice appare oggi più marcata. Basta entrare in una sala giochi (a me è capitato di entrarci l’altro giorno, per caso; ma chi è entrato anche solo un anno fa appare già in forte ritardo). Quello che si vede è vera- mente strano. Io, come esperienze o come ricordi di cose viste o raccontate, sono ancora fermo a un certo mondo (me lo sono segnato dalle mie letture, un mondo che era però quello mio, almeno forse di mia nonna, fino ad un po’ di tempo fa): le ombre cinesi, i pupazzi di carta, le decalcomanie, i soldatini, le fionde, ricordate? Le lanterne magiche, le bambole, la cerbottana, l’arco, la trottola, le automobiline a pedali, i monopattini (che sono oggi tornati di moda). Il cerchietto, il trenino, le figurine, il castagnaccio, la liquirizia, i lupini. Si potrebbe continuare a lungo, anche con i fumetti: Tom Mix, Ridolini, Bonaventura, Tin Tin, Bibì, Bibò e Capitan Cocoricò. Ricordo, per esempio, una cosa che a me sembrava modernissima quando uscivo da scuola, il massimo della tecnologia. Il cliente che sparava e l’orso che, colpito dalla cellula del fucile in un certo punto, si alzava sulle zampe e si metteva a fare “uuuu-uuuu”. Oggi credo che solo nei negozi di anticaglie si potrebbe trovare un marchingegno del genere. Ecco, invece il mondo di oggi, che è molto diverso. Le play station, il pier- cing, la televisione interattiva, il telefonino; gli sms, l’extasy, i siti di chat, i palmari, il web per tutto, le tecnologie di ogni genere. Certamente una realtà molto diversa.

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n contrasto non da poco (che apre una curva anche pessimistica, per certi Uversi, certo problematica): il contrasto che c’è tra

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(a) da un lato, una serie di crescite di autonomia anche riconosciute che c’è per quanto riguarda i minori; il bambino che può sempre di più fare, compra- re, acquistare, transigere, anche rispondere dei danni (Cresce costantemente questa fascia di autonomia possibile tanto è che ormai tra poco riformeremo anche il codice civile, ci metteremo proprio quello che tutti già pensano, cioè che gli atti di tipo esistenziale il bambino li può compiere senza che gli si possa dire di no. Oggi teoricamente si insegna ancora in università che il minorenne se fa un contratto annullabile, allora l’altro potrebbe dirgli “no, non te lo do perché il contratto è annullabile” e cose di questo tipo. In realtà, non c’è ancora nel codice. Non è entrato ancora nel codice perché i soggetti deboli e per gli incapaci ci deve essere comunque una fascia, ci sarà tra l’al- tro se passerà, come sembra, l’amministrazione di sostegno, c’è una norma significativa che dice “tutti gli incapaci, deboli, sfigati del mondo comunque possono comprare il pane, il latte, il giornale, i francobolli, il tram” ecc. que- sta cosa del resto abbastanza ovvia verrà proprio suggellata e poi ce ne sono tante altre e si dice “ah, i minori sostengono il mercato. Sono loro che com- prano tutto, influiscono sui desideri della famiglia, sui consumi.” I minori hanno in pugno il destino economico quindi autonomia, autosufficienza, indi- pendenza e quindi il diritto che deve riconoscere da un lato questo tipo di autonomia che cresce), (b) dall’altro lato l’impressione che i giochi siano fatti, che il muro di Berlino è ormai caduto, che c’è un unico modello a questo mondo, che tutti i bambi- ni sono in realtà uguali, che l’unica autonomia possibile dei bambini è quel- la di scegliere di andare a vedere un film con Brad Pitt oppure con George Clooney, se comprarsi il piercing azzurro chiaro o quello azzurro scuro; i cal- zoni di Calvin Klein oppure quelli di Giorgio Armani. Si ha l’impressione, in sostanza, che a questa forma di autonomia, di possibilità, di libertà corrispon- de un massimo di omogeneità, di omologazione del desiderio, della scelta e che quindi che ci sia o non ci sia questa autonomia è del tutto inutile. Un forte contrasto. La società in cui viviamo omologa totalmente gli adulti: c’è un unico model- lo, un unico martellamento ed un unico binario, tutti facciamo esattamente le stesse cose, ci vestiamo esattamente nello stesso modo, diciamo le stesse parole. Questa tendenza nei bambini è ancora più forte. C’è un unico bambi- no in Italia, e gli altri dieci milioni si assomigliano tutti quanti, quindi in con- trasto un po’ con il discorso che facevo prima.

9. Allora, rispetto a tutto questo, il diritto come si può muovere? In prima battuta un taglio di intervento potrebbe essere questo (che è realisti- co quanto meno, poi vedremo subito se possiamo accontentarci): tagliare i mali possibili che capitano ai bambini in due parti: i mali patologici e quelli fisiologici.. Sui mali patologici il diritto è attrezzato per intervenire in qualche modo. I mali forti che creano disastri forti, in quel caso il diritto può fare qualcosa. E poi ci sono i mali più diffusi, più umbratili, più acquatici, più medusacei,

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più inafferrabili, più sfuggenti, più sparpagliati, più diffusivi. Rispetto a tutti questi mali qua il diritto è molto in difficoltà nel fare qualche cosa.

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llora vedendo questo per esempio rispetto ai diritti, ecco caliamo questa Agenerica indicazione: “patologia, ok, il diritto può fare qualcosa, tirare fuori la rivoltella e fare qualche cosa; malessere della società dei consumi del terzo millennio: è molto difficile”. Calando questo tipo di schema rispetto alle varie situazioni, per esempio nel diritto. Si è parlato stamattina di diritti, per esempio con i diritti classici, chiamiamoli così: diritti borghesi, diritti napoleonici, quelli che hanno 200 anni o forse alcuni anche 2000, i diritti assoluti, il diritto assoluto della pro- prietà, enfiteusi, superficie, anche i bambini possono avere questi diritti natu- ralmente, e poi i diritti assoluti della personalità, l’integrità fisica, salute, vita naturalmente, nome, onore, immagine, identità, ecco questi diritti forti dicia- mo che il bambino è protetto pressappoco come i grandi quindi finché viene colpita una prerogativa di questo tipo che ha un suo statuto modellato sulla proprietà e quindi abbastanza ricco di cittadelle, di strumenti difensivi, così come la proprietà, in questo allora il diritto se la cava facilmente. Può esco- gitare facilmente delle risposte efficienti e poi però, ecco il punto, gli altri diritti quelli della fase più sporca, più opaca, più sfuggente, più gelatinosa che sono i diritti sociali, potremmo usare questa espressione di cui si parla anche a lungo: il diritto, non dico addirittura alla felicità, ma il diritto al tra- sporto, il diritto alla casa, il diritto all’assistenza, il diritto all’ambiente, il diritto alla scuola. Ecco, se cominciamo a nominare queste parole che sono anche queste dei diritti, anzi sono i diritti che stanno più a cuore, o stanno altrettanto a cuore quanto i primi, a porsi di più ai soggetti deboli, categoria complessa di cui parleremo fra un attimo, di cui i bambini sono certamente in testa, questi diritti di carattere sociale, movimentistico, relazionale, colloquiale, dialetti- co, espansivo, sono diritti senza i quali la vita non è vita, soprattutto per un soggetto debole però un soggetto debole è appunto un soggetto che non ce la fa da solo ad esercitare pienamente questi diritti di solito. É debole proprio in quanto anche i primi, ma anche i secondi, ha bisogno che ci sia un puntel- lo, un sostegno, una maniglia che gli consenta di fare questo. Rispetto a questo non è che il diritto possa fare moltissimo. Quindi, finché il bambino verrà ucciso ci sarà una reazione giuridica, se il bambino verrà col- pito seriamente pure in questo caso ci sarà forse ma se ciò che non funzione- rà sarà il trasporto, la scuola, l’ambiente, la città, la bellezza ma anche di più, l’amore in casa, l’ascolto, la comprensione, il dialogo, il rispetto, tutte que- ste cose qua sono molto più difficili per il diritto.

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osì appunto anche in famiglia. Come si fa per esempio a non dire costante- Cmente questo, che se le cose non funzionano in molte famiglie, molto spes- so perché le cose non funzionano per il padre e per la madre, che lavorano

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male, sono disoccupati, sono maltrattati, tutto è difficile, tutto è complicato. Allora quando ci sono queste condizioni sociali difficili è ovvio che quel bam- bino sia in pericolo. Come pretendere che la donna che lavora a un milione e 340 mila come bidella o lava scale e torna a casa con i trasporti disorganizza- ti, poi voglia bene a questo bambino? O che il padre, che magari è vagamen- te alcolizzato, semi-disoccupato, sbeffeggiato, mobbizzato e che so che cosa, torni a casa e si prenda il bambino e giochi con lui a qualsiasi cosa? È molto difficile talvolta. Allora si fa vivo un certo senso di forte impotenza. Non dico di avere la stessa posizione psicologica di Resta, stamattina (che mi è parso un po’ pessimista). Io magari non sono completamente pessimista; ma non voglio neanche fare troppo l’ottimista. Mi rendo conto che le risposte, lo Statuto, la filigrana, noi possiamo immaginare è molto difficile e abbiamo cominciato da poco tempo. È inutile fingere che sia facile. Queste condizio- ni circostanti che riguardano gli adulti, che riguardano soprattutto il territo- rio, la casa, la piazza, il condominio, la scuola, il trasporto, l’assistenza, la cura, la cultura di cui parleremo fra un attimo che lo circonda; queste sono cose che contano moltissime. Forse contano ancora di più di altre - su queste cose possiamo fare molto poco.

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tesso discorso per quanto concerne i consumi - e qui entro un po’ su un ter- Sreno non dico più mio, perché non ne so poi tanto in realtà, ma che dovreb- be essere nostro. In tutto ciò c’è anche un suggerimento a questo corso di Lucca. In generale chiunque studi i bambini, questo è un Leit-motiv forte, non dovrebbe mettere al centro del discorso il bambino che è bastonato, che sta male, che è diviso fra i due genitori. Questo succede purtroppo, ma per dieci bambini ai quali questo succede ce ne sono novanta per i quali questo non succede e che succede, che cosa? Succede quello che dicevo prima: la televi- sione a tutto piano, i giornali di un certo tipo, il linguaggio che è di un certo tipo, la scuola, l’asilo, la piazza, i trasporti, l’assistenza, questo tipo di refe- renze borghesi/sociali, territoriali ecco, il territorio del bambino. Là è il vero punto per tutti, anche per i bambini fortunati. Ecco in qualche modo, non dico un rimprovero ma certamente un invito a questo corso, che è troppo polarizzato sul fatto che il bambino partecipa al il processo, ha geni- tori che litigano tra loro, lui deve dire la sua o non lo deve dire ecc. Sì que- sto è importante, ma è più importante la veste in cui il bambino è in qualche modo un beneficiario del tipo di rivoluzione o comunque di adattamento della società che noi dobbiamo immaginare, sul terreno dei diritti sociali in cui non è tanto questo di chiedergli “tu vuoi respirare calcestruzzo o preferi- sci il benzene, tu vuoi andare nel tram n. 14?” Non è questione di chiederglielo, è che dobbiamo fare la nostra parte. La società deve fare la sua parte. È un po’ quella esagerazione, quella ipertrofia che si ha quando si parla dei diritti dei malati in cui sembra che l’unico pro- blema sia quello del consenso. Con Francesco Bilotta ho finito di scrivere un libro sulla morte che adesso pubblichiamo su “Politica dei diritti”, i diritti di chi sta per morire. Anche lì ci siamo accorti di questo. Il problema non è tanto

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il consenso, domandare a lui “che cosa vuoi, come voi che sia il mondo? Vuoi che ti curiamo o che non ti curiamo? Vuoi la puntura cosi ?” Non è questo il punto. Non è soltanto questo. Il punto è che il medico deve fare il suo mestiere, l’ospedale deve funziona- re, le siringhe devono essere pulite, l’infermiere deve sapere fare la sua parte.

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questo il punto, il nodo centrale delle cose. C’è una battaglia di tipo gene- Érale, politica molto cadenzata e baricentrata sul versante borghese, socia- le, politico. E il punto del bambino che ha una famiglia che litiga è un aspet- to, non dico secondario, ma certo un aspetto soltanto. Prendiamo il nodo dei mass-media. Ecco la nostra attenzione da giocare; ecco un caso in cui esiste una normativa davvero minuziosa. Poche cose sono così analiticamente disciplinate come la televisione, i giocattoli, i farmaci, i mass-media per esempio. Eppure la televisione è spesso un disastro, per i bambini soprattutto. Non vorrei fare neanche troppo il pessimista, ma non tanto perché ci sia troppa violenza oppure del sesso (di cui mi importa poco). La violenza magari un po’ di più. Ma il vero punto è che la televisione è spes- so stupida, diseducativa, omogeneizzante. Quello è il vero male: l’omologazione, la mancanza di spessore, la mancanza di respiro, la mancanza di vapori, di movimentazione. E questo riguarda anche la pubblicità, riguarda lo sport, riguarda l’ambiente, riguarda la scuola. In tutti questi casi è possibile cogliere un versante più cinematografico, più scioccante dei grandi mali, e poi un’insieme di disagi in cui la noia si mesco- la alla mancanza di ascolto, al disamore, ai piccoli soprusi, alla solitudine. Alle difficoltà di far camminare una pratica adeguata del territorio. E questo deve stare al centro della nostra attenzione.

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llora adesso, rispetto a tutto questo che fare? come muoverci? Ecco io Adarei queste indicazioni. Sul terreno culturale, prima di tutto. Voglio riprendere un accenno che è stato fatto stamattina, quando si è detto che i bambini sono di tutti quanti, che la loro esistenza riguarda ognuno di noi. Responsabilità collettiva di tutti noi sul conto dei bambini, ecco il punto; certo i genitori devono fare la loro parte ma tutti dobbiamo farla la nostra parte. I bambini sono di tutti quanti ed io vorrei subito uscire, non vorrei che vi sembrasse troppo mediocre o deludente il tipo di indicazione operativa che vorrei dare ma per esempio mi sembra che una norma giuridica da introdur- re, da applicare con forza subito, è questa: responsabilità per omissioni di chiunque di noi, vedendo un bambino che sta male, non fa niente. Ognuno di noi deve prendere il telefono ed avvertire i servizi sociali, avver- tire il Pubblico Ministero, ammesso che funzioni, avvertire qualcuno da qual- che altra parte, efficiente. Se non lo fa, questa è una cosa che abbiamo messo adesso in questa legge sull’amministrazione di sostegno che sta per passare, lì c’è scritto per gli infermi di mente che chiunque venga a conoscenza delle difficoltà esistenziali di una persona che sta male deve avvertire, il giudice,

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il Pubblico Ministero, i servizi. Se non lo fa, adesso in parlamento è stata tagliata l’ultima parte ma insom- ma, c’era nella vecchia, c’è una responsabilità diretta ma la responsabilità è in nuce. Se c’è l’obbligo di agire ci sarà anche la responsabilità, cioè chiun- que oggi quando passerà questa legge, che sta per passare in queste ore, spero alla Camera, chiunque oggi sappia che c’è il suo vicino di pianerottolo o la persona della casa di fronte o la vecchia zia che vive a Borgo Collefegato che sta male e non ce la fa a gestire i suoi diritti perché ha dei problemi psichici di un qualche tipo, deve darsi da fare. Deve quanto meno telefonare ai servi- zi, al Sindaco e se non lo fa sarà responsabile. Questa cosa deve valere per i bambini, ecco un’indicazione operativa. Chiunque di noi può andare in giro con la lampada e vede dei bambini che stanno male, che soffrono, ha il dove- re di avvertire. Non può dire “ci penserà qualcuno”, questo è impossibile, responsabilità collettiva.

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u un altro punto non mi sembra necessario insistere troppo perché è fin Stroppo ovvio. Poteva essere di moda qualche anno fa ma direi che è stata seppellita abbastanza nel ridicolo. No ai miti anti-psichiatrici sul conto dei bambini, no cioè all’idea “Ma lasciamoli crescere come vogliono. Lo sanno loro come andare come dei piccoli carciofi in libertà!” É chiaro che non è così: educazione, istruzione, ammaestramento. Certo in un certo modo natu- ralmente ma grande dovere di intervento di accompagnare il bambino in un itinerario anche scolastico.

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erzo punto - lo si è detto (ma anche qui avrei delle precisazioni da fare) - Tquello del no all’autosufficienza del diritto. Il diritto non basta da solo a gestire i problemi dei bambini: occorre si intrec- ci opportunamente con la psichiatria, con la psicologia, con l’antropologia, con l’economia; e insieme tutte queste discipline devono cercare un pacchet- to prescrittivo che funzioni. Io aggiungerei (più debolmente, se volete, ma molto pragmaticamente): no soprattutto alla pretesa del civilista di fare tutto da solo - pretesa che invece esiste presso non pochi civilisti, presso tanti professori di diritto delle univer- sità. I modelli giuridici, lo strumento operativo chiamato a gestire il bambi- no, è in effetti un aggeggio complesso, proprio sotto il profilo del diritto: in cui il comparto civile si intreccia fortissimamente con quello amministrativo, anche con il diritto tributario. E vanno immaginati degli insiemi - come vedremo fra un attimo - in cui il diritto civile offre soltanto un centro, un’in- dicazione leader, ma che andrà poi organizzata con tutti gli altri diritti.

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rriviamo così a quello che è il punto cruciale del discorso. Mi sono sfor- Azato venendo qui a Lucca di immaginare un punto di aggregazione fra tutti

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i punti di vista possibili. Ebbene, mi sembra che questo punto potrebbe essere trovato cercandolo nel cuore di due esperienze di ricerche che sono state portate avanti di recente: l’una riguardante i soggetti deboli, l’altra relativa al danno esistenziale. Nel repertorio dei soggetti deboli c’è un fatto che io chiamo l’elemento della “contagiosità”: una contagiosità - va precisato - di natura sia interna che esterna, e che non può non essere tenuta in conto da chi si occupa di proble- mi del genere. Chi comincia a occuparsi dei problemi di un soggetto debole (che so, degli infermi di mente) non può fermarsi là: non si può dire: “ gli infermi di mente ok, gli handicappati fisici no però, basta, ho già dato”; oppure “le donne disoccupate sì, gli emigrati no invece; i nani si, i giganti no, gli alcolisti no”. Contagiosità, si deve andare avanti fatalmente. Una volta che hai cominciato non ti puoi più fermare. E poi c’è anche una contagiosità interna. Nel senso che - se tu cominci ad occuparti per esempio dei problemi della responsabilità civile dell’infermo di mente; mettiamo, la riforma dell’art. 2046, dell’art.2047 c.c., così come hanno fatto in Francia - non è che puoi dire “Mi fermo. Ho già fatto la mia parte, non voglio occuparmi anche della famiglia”. No, ci si devi occupare anche della famiglia dell’infermo di mente. Poi ci si dovrà occupare anche dei contratti dell’infermo di mente; e subito dopo del lavoro dell’infermo di mente. Ci si deve occupare di tutto; una volta che uno ha cominciato non può fermarsi. Tornando a me, allora: nella ricerca del modo di inserire gli infermi di mente entro una galassia più ricca e più ampia; cercando i compagni di strada, e domandandomi se aveva senso una confluenza unitaria delle categorie che ho nominato e di altri insieme; e rispondendo che c’è in effetti un interesse scien- tifico ad immaginare tutte queste categorie di soggetti deboli insieme; e domandandomi quale potesse essere il filo conduttore; ebbene, mi sembrò di trovarlo in questo dato, che in qualche modo ho anticipato prima: è debole chi non ce la fa a realizzare da solo la propria combinazione esistenziale. La preferenza cadde su questa espressione “combinazione esistenziale”: che voleva dire che ciascuno di noi, con una gamba o con due, con un occhio o con due, con mezza testa o con una testa intera, comunque desidera delle cose; ha una struttura psicologica, morale, storica, familiare di un certo tipo: sceglie delle cose che vorrebbe fare o che vorrebbe avere o che vorrebbe essere. Cerca nella vetrina dei beni della Costituzione: distilla, seleziona un collier di beni che gli piacciono:”voglio diventare Napoleone Buonaparte, poi voglio avere un’automobile rossa e poi voglio vincere il premio Nobel. Tu invece…”, ecco la combinazione esistenziale. È debole, allora, chi non ce la fa da solo a realizzare tutto questo; per il fatto che c’è una mancanza forte di tipo istituzionale, oppure un handicap fisico, oppure un disagio psichico, qualcosa che impedisce alla persona - per un venti, un trenta o più per cento - di realizzarle. E il fuoco era appunto in quel- la combinazione esistenziale, in quel progetto di sé che uno aveva fatto. C’è questo tipo di uscita, di modulazione lessicale che è uscita da quelle esperienze; e uno tra i frutti più significativi è stato il danno esistenziale.

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18. Due parole su quest’ultimo, allora. Il tentativo era, sin dalle origini, quello di trovare un filo conduttore persua- sivo fra una serie di sentenze che in campi molto diversi (per esempio quel- lo della tutela dell’ambiente, ma anche della famiglia, della tutela dei diritti della personalità, nell’ambito del lavoro, delle immissioni, e così via) offri- vano l’esempio di una vittima colpita nello svolgimento delle proprie attivi- tà realizzatrici. Qualcuno danneggiato cioè per il fatto che la qualità della sua vita era peggiorata, e ciò appunto come conseguenza della avvenuta violazio- ne di un diritto soggettivo - che non era mai però la vita, la salute, l’integri- tà fisica o psichica. Era, per esempio, il diritto all’ambiente, il diritto all’identità personale; oppu- re il diritto alla compagnia della madre, il diritto al sostegno del padre, il dirit- to alla serenità familiare, il diritto al godimento di posizioni soggettive comunque non di tipo cruento. Il soggetto leso era risarcito non tanto per le sofferenze che aveva patito; anche queste contano naturalmente: ma la forza del danno esistenziale (delle intuizioni al riguardo) era quello di portare den- tro il diritto della responsabilità civile tutti i risvolti della la quotidianità: la filigrana della vita giorno per giorno, la banalità domestica, scolastica, lavo- rativa, l’anonimato delle cose grandi e piccole. Il gioco dei rapporti sociali, la normalità dei rapporti correnti con la madre, con il padre, con la scuola, con i negozianti; e poi con i compagni dello sport, con il tempo libero, con gli hobby, con le amatorialità, con le ricchezze della natura, e così via. Questo ventaglio di riferimenti non c’era prima, se non marginalmente, entro la responsabilità civile. Neppure nel resto del diritto. C’era la sofferenza, c’era il danno morale, il pianto, le lacrime, il patimento, la disperazione; tutti elementi che contano, certamente; e che contano però fino ad un certo punto. Molto di più conta la normalità, la quotidianità, l’intrattenere i rapporti con gli altri in modo civile, manifesto, avere il padre, avere la madre, avere i fra- telli, avere la propria dignità e giorno per giorno espandere queste forze, que- sta ricchezza all’interno della casa, del quartiere, della scuola, del lavoro, del parco in maniera civile, urbana, feconda. Ecco l’idea quindi della florealità, della fioritura, l’espansione, il germoglio, il rigoglio. Queste sono le parole chiave tutte tagliate secondo una curvatura fortemente sociologico/territoria- le, questo è il linguaggio che porta dentro come conseguenza della violazio- ne, del sopruso fatto ad un diritto soggettivo diverso dalla salute. Anche il danno biologico è stato esistenzializzato perché in realtà come conseguenza di una lesione fisica, il punto non è tanto e soltanto l’aspetto patrimoniale oppure l’aspetto statico del danno biologico. Quello che conta poi è quello che non facciamo più, la diversa qualità della vita, i diversi rapporti sociali così come siamo costretti ad impostarli..

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ornando a noi se raccogliamo insieme le indicazioni di questa combinazio- Tne esistenziale, di questo progetto esistenziale che è un po’ il fuoco del

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debole, insieme a questo elemento della quotidianità ce ne è abbastanza, mi pare, per fondare, per lanciare, per proclamare oggi la nascita di un nuovo diritto della persona che noi pensiamo di battezzare “diritto alla realizzazio- ne personale”, la cui matrice prescrittiva è ovviamente secondo il comma del- l’articolo 3 della Costituzione “è compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che di fatto…” diritto che vive, attenzione, prima di lapidarmi sotto accuse di utopismo, diritto che vive di moltissime indicazioni legislative che ci sono, perché ci sono molte leggi che già tratteggiano esattamente questo sound che vi sto raccontando, cioè l’espansione. C’è la legge 104 per esem- pio, la legge sull’handicap, ce ne sono delle altre in cui c’è un conteggio, un inventario molto preciso ed analitico di beni di posizione che l’handicappato per esempio deve conquistarsi e questa è una falsariga che può essere utiliz- zata un po’ per tutti quanti i soggetti deboli, quindi il diritto alla realizzazio- ne, il diritto che un bambino ha a realizzarsi, ad avere un certo progetto che al 50% avrà una specie di generalità, di accomunamento con quello di tutti quanti, poi ci sarà un 50% di peculiare, di particolare, di idiosincratico. C’è questo diritto a realizzarsi ed il diritto deve fare in modo, il diritto oggettivo, deve fare in modo che questo si realizzi. Allora questo mi pare che consenta di recuperare in un certo modo, dare un senso diverso, meno statico, meno contabile come si diceva questa mattina, tante posizioni.

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è poi il momento della soggettività da recuperare in cui forse paradossal- C’mente i momenti di autonomia che più mi colpiscono non sono tanto quelli di tipo consumistico/produttivo, il bambino che può comprare, che può non so, firmare la cambiale a 17 anni, mettiamo. Ma le scelte per esempio sulla medicina, in cui lui deve decidere; anche quelle sulla famiglia. Famiglia, medicina, i terreni non patrimoniali sono quelli più significativi. Mentre quelli patrimoniali mi sembrano francamente più magnetizzati da questa specie di avvolgimento, di pervasività consumistica, vedo invece molto forti, momenti di tipo non patrimoniali: scolastico, educativo, cultura- le, affettivo, sessuale e naturalmente anche medico.

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ispetto poi a questo quadro del consumismo, che è un po’ un martellamen- Rto per me, io penso che ci sia un’indicazione invece che in questa chiave di diritto alla realizzazione personale si può dare ed è quello che dobbiamo garantire al bambino che ci sia intorno a lui una circolazione di modelli. Non dobbiamo credere che i giochi siano completamente fatti, che ci sia un unico paradigma possibile chiuso, ferreo, immutabile, identico per tutti, che siamo già in tempi di clonazione. Non siamo ancora a questo. C’è indubbiamente una tendenza ai un certo tipo di massificazione e di omo- geneizzazione ma c’è anche all’interno di questo una circolazione di model- li diversi. Parole d’ordine di vario genere: c’è il volontariato, c’è la cultura, c’è la bellezza, c’è il cinema, c’è lo sport, c’è il turismo. Tutte queste cose qui sono cose che dobbiamo garantire al bambino, quindi la chiave di volta è

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che il bambino per come è in famiglia, per come è nella scuola, per esempio, non sia in condizione asfittica e naturalmente sarà compito dei servizi di cui parlerò fra un attimo garantire questo.

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compito fondamentale dei servizi sorvegliare i bambini, vedremo quali Èsono questi servizi, e garantire questa circolazione di modelli. Rispetto alla televisione, rispetto allo sport, rispetto all’ambiente, rispetto alla pubbli- cità, rispetto agli assalti, tutti di questo tipo, il nostro compito di giuristi è garantire la circolazione di modelli. Impedire che ce ne sia un unico che assu- me il sopravvento. Anche con le famiglie questo è molto forte. In fondo il male maggiore della famiglia forse non è tanto quello, in certi casi, di bastonare il figlio, ma di dare una cultura monistica, settorializzata, immobile, glaciale che impedisce questa circolazione di modelli. Il servizio che riscontra una famiglia così cieca, analfabeta, chiusa come ce ne sono molte, morta in definitiva, ecco il compito di ridare fiato, far circo- lare questi modelli. Sarà il bambino a pensare, il bambino poi è molto dife- so, io credo. Sa difendersi da solo rispetto a questi assalti della stupidità, del sesso, della pornografia, della cretineria però bisogna dargli questi modelli, bisogna metterlo in condizioni di accorgersi che ci sono varie parole d’ordi- ne e questo non è facile.

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on il danno esistenziale - anche qui è una cosa che andrà avanti in questa Cdirezione - ci sono sentenze importanti, che stanno cambiando il nostro diritto; e che hanno valore, oltre che in se stesse, per il fatto che danno pro- tezione a singole situazioni di sofferenza: per il fatto che introducono questa cultura della normalità. Certo, tutto è più facile per il diritto quando il danno esistenziale è arrecato da un esterno alla famiglia: tipo l’uccisione del padre, della madre, il feri- mento, la violenza sessuale alla bambina. Sentenze che conosciamo e che abbiamo anche commentato. È assai più difficile immaginare un ricorso alla responsabilità, soprattutto per danno esistenziale, nel caso - mettiamo - di un’azione intentata dal figlio nei confronti dei genitori. È pure difficile immaginare un coniuge contro l’altro, marito e moglie che si citano in giudizio per i danni, anche se queste cose stanno avvenendo. Le prime sentenze sono cominciate e continueranno. C’è stata già una sen- tenza, per esempio, molto significativa - la 7713 del 2000 - che ha condanna- to un padre il quale per alcuni anni non aveva mantenuto il suo bambino. È stato condannato il genitore non soltanto a corrispondere i soldi del manteni- mento, ma anche una certa posta a titolo di danno esistenziale. In quella dire- zione le cose potrebbero camminare.

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servizi sono un’altra risposta importante al male; e a tutto questo deve Iandare anzi il fuoco maggiore della nostra attenzione. Oggi si parlava di cattive risposte giudiziali. Certo il processo non funziona, va bene solo per i casi patologici. Invece la questione maggiore si pone per la “fisiologia” del male, per il guasto pervasivo: le stupidità in agguato, le mediocrità croniche, le opacità persistenti. È il servizio che deve intervenire e lì dobbiamo fare i nostri sforzi. Quali servizi, in che forma? Quale scuola di formazione, con quanti soldi, in che modo? Lo studioso di bambini dovrebbe diventare un mezzo amministra- tivista, un mezzo economista: aprirsi comunque a tante altre discipline ulte- riori al diritto. D’altronde, questi servizi possono essere di tanti tipi. Per esempio, non so se in Toscana - ma immagino di sì - avete la figura di un tutore dei minori, come è stato fatto in Friuli Venezia Giulia. Si tratta di immaginare un Centro al quale andranno segnalate, via via, situazioni che non siano proprio cruente, ma appaiano situazioni di disagio, di difficoltà, di abbandono, di stasi. Un tutore dei minori in grado di contattare i vari servizi che esistono ed atti- varli: cercare una risposta a queste condizioni di abbandono del figlio senza passare allo strumento del processo. Anche i servizi scolastici sono una cosa molto importante. Immaginare la scuola che in molti casi è l’unica cosa che c’è come un terminale, come un avamposto che esiste, che dovrebbe essere in grado di percepire segnali di malessere, di disagio che riguardano non sol- tanto fatti scolastici o magari fatti di difficoltà del piccolo immigrato, ma anche fatti che hanno a che fare con la famiglia.

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a stessa tutela esecutiva: c’è stata una sentenza a Roma - qualche tempo fa L- che ha condannato la pubblica amministrazione a pagare la retta ad un bambino handicappato, il quale aveva bisogno di una scuola di sostegno che non aveva trovato nella scuola pubblica. Esisteva un istituto privato che era in grado di dargli questo servizio, la sentenza del giudice ha imposto all’Assessore alla pubblica istruzione “paga tu questa cosa qua”. È una cosa abbastanza strana: il giudice ordinario che condanna la pubblica amministrazione a difendere un diritto della personalità del minore in questo caso. Una prestazione di tipo giudiziario posta a carico dell’Assessore e deci- sa però non dalla p.a.: è una cosa che ci può imbarazzare; siamo abituati alla divisione dei poteri, di qua c’è il giudiziario, di qua c’è l’amministrativo, sono cose ben diverse. Invece in questo caso c’è un provvedimento del giu- dice ordinario, non è neanche la prima volta: la tutela esecutiva quando sia in gioco un diritto della persona. Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi; però mi pare chiaro che c’è una necessità di immaginazione applicativa che va in tante direzioni. E dob- biamo farcene carico tutti quanti. Grazie

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interpretazione soggettiva degli eventi da parte del bambino, forgiata dal suo modo di percepire e comprendere, è centrale al modo in cui i L’ vissuti e le esperienze vengono integrate. Ciò implica che gli adulti, genitori e figure professionali, devono dimostrare un’autentica disponibilità nei confronti del bambino, cioè un’attenzione ai suoi vissuti e a i suoi reali bisogni, per garantirgli una adeguata immagine di sé e una capacità di controllo personale degli eventi, attraverso l’acquisizio- ne di una competenza sociale, affettiva e cognitiva che gli consenta di utiliz- zare le opportunità presenti nell’ambiente. L’intima connessione tra qualità delle relazioni sociali, competenze cogniti- ve e differenze affettivo-emotive del bambino e la capacità di reazione di quest’ultimo allo stress viene colta dal modello teorico dell’attaccamento. Il comportamento di attaccamento del bambino piccolo a sua madre o a un suo sostituto significativo è sotteso da un sistema comportamentale di base, particolarmente evidente nella prima infanzia, ma presente durante tutto l’arco dello sviluppo, la cui funzione è quella di garantire la protezione del COME PARLARE piccolo attraverso la ricerca e il man- tenimento della vicinanza con una figura specifica. AI BAMBINI Aspetto centrale di questa teoria è il postulato secondo cui i primi legami d’attaccamento sono organizzati in modelli operativi del sé in relazione

DR.SSA con gli altri. LAURA L’origine del concetto di Modello Operativo Interno (MOI) risale a Craik, il VISMARA quale, occupandosi di intelligenze artificiali, intendeva i Modelli Operativi Interni come strutture mentali che conservano la configurazione temporale e ASSEGNISTA RICERCA causale dei fenomeni del mondo reale (Bretherton 1992), esse servono all’in- UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA dividuo per reagire alle situazioni future prima che si presentino e decidere quale comportamento attuare proprio perché possono essere usati come se fossero modelli in scala ridotta. Bowlby riprende la metafora di Craik e teorizza l’origine dei Modelli Operativi Interni nell’interazione continua del bambino con il caregiver (= colui che si prende primariamente cura del bambino) attraverso cui il picco- lo si forma delle rappresentazioni che comprendono il Sé e la figura di attac- camento. Poiché derivano da modelli di interazione diadica queste rappresen- tazioni sono sempre complementari in modo tale che al modello di una figu- ra di attaccamento positivo (un genitore attento che si prende cura del bam- bino) corrisponde una rappresentazione del Sé positiva, come di una persona degna di ricevere cure e amore. Il fatto che questi Modelli siano Operativi significa che non sono statici ma che vengono utilizzati per assimilare esperienze legate al Sé e all’ambiente, le strutture mentali sono costantemente rielaborate per adattarle a nuove esperienze di attaccamento e questa rielaborazione continua comporta una progressiva differenziazione e complessità crescente.

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In quest’ottica anche i Modelli Operativi di attaccamento insicuro non sono propriamente disfunzionali perché risultano dall’adattamento del Sé alla spe- cifica relazione di attaccamento con il caregiver. La loro caratteristica dina- mica fa sì che essi si possano modificare anche se il cambiamento dei i modelli derivanti da relazioni non soddisfacenti appare, anche a fronte di ricerche recenti, più difficile da ottenere. L’approfondimento e lo sviluppo di questi aspetti sono attualmente molto fer- vidi e utilizzano come principale strumento di ricerca l’Adult Attachment Interview, strumento parallelo alla Strange Situation messo a punto da Mary Ainsworth per osservare l’interazione comportamentale della diade madre- bambino. Gli autori di questo strumento hanno reso operativi i concetti teorici della teoria dell’attaccamento costruendo uno strumento di osservazione standar- dizzato della coppia madre-bambino, utilizzato sia per la ricerca sia per la diagnosi, che permette di raggiungere una misura dell’attaccamento condivi- sibile e generalizzabile ad altri contesti culturali. La Strange Situation è un paradigma di osservazione del comportamento del bambino in cui la diade viene sottoposta a situazioni strutturate in cui il bambino viene separato dalla figura di attaccamento. Questo strumento è stato ormai ampiamente diffuso in tutto il mondo ed ha dimostrato validità transculturale. L’osservazione delle reazioni alla separazione e al ricongiungimento durante le diverse fasi dell’osservazione ha portato alla definizione dei quattro stili di attaccamen- to: lo stile di attaccamento sicuro, quello insicuro evitante, quello insicuro ambivalente e la tipologia disorganizzata. L’ideazione dell’Adult Attachment Interview, l’intervsita semi-strutturata costruita da Mary Main, ha permesso di avere uno strumento che indaga i Modelli Operativi Interni degli adulti e di poter svolgere numerose ricerche tese ad individuare correlazioni tra lo stile di attaccamento dei bambini e le rappresentazioni dei loro genitori rispetto ai propri legami di attaccamento. I risultati di numerose ricerche hanno confermato le ipotesi dei ricercatori riguardo alla trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento, molto spes- so cioè un figlio che ha uno stile di attaccamento sicuro ha un genitore a sua volta sicuro mentre un genitore che risulta insicuro nella codifica dell’AAI ha molto spesso un figlio insicuro rispetto all’attaccamento. Le modalità in cui avviene questa trasmissione non sono ancora chiare ma è evidente ormai che lo stile di attaccamento dei genitori influenza lo stile di attaccamento dei figli attraverso le modalità di interazione quotidiana in cui i bambini si adat- tano allo stile dei genitori. Fattori sicuramente importanti sono la capacità metacognitiva del genitore, la sua capacità di pensare ai pensieri del bambi- no, e la coerenza narrativa nel raccontare la propria infanzia. Secondo Main e Goldwyn la capacità metacognitiva può essere colta attra- verso l’analisi del trascritto dell’AAI dalla quale emerga la presenza di affer- mazioni riguardanti la verifica e il riferimento dei propri processi di pensie- ro e di ricordo durante l’intervista. Influenzate dalle ricerche cognitive della teoria della mente (Astington, Harris, Olson, 1988), Main e Goldwyn defini- scono capacità metacognitiva: 1) il riconoscimento delle diversità rappresen- tazionali (quello che gli altri sanno, io posso non saperlo; quello che io so, gli altri possono non saperlo; quello che pensano gli altri od io può essere

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falso) e 2) il cambiamento rappresentazionale (quello che penso oggi può essere diverso da quello che pensavo ieri o che penserò domani). Il rapporto tra attaccamento e metacognizione è molto complesso, anche perché, come afferma la stessa Main (1991) “è difficile stabilire se la sicurezza abbia posi- tivamente influenzato il funzionamento metacognitivo oppure il funziona- mento metacognitivo abbia positivamente influenzato la sicurezza”. Peter Fonagy e il gruppo di ricerca dell’University College di Londra hanno sviluppato invece gli aspetti intersoggettivi della metacognizione, intima- mente collegati alla rappresentazione di sé studiata in campo evolutivo (Damon, Hart, 1988). La capacità di mentalizzare riguarda la capacità di vedere se stessi e le altre persone in termini di stati mentali (sentimenti, con- vinzioni, intenzioni e desideri) e di ragionare sui propri e gli altrui compor- tamenti in termini di stati mentali, attraverso il processo della riflessione. Tale funzione permette di “distinguere la realtà interna da quella esterna, le modalità di funzionamento immaginarie da quelle reali, i processi intraperso- nali (mentali ed emotivi) dalle comunicazioni interpersonali” (Fonagy, 1997). Perché un individuo possa raggiungere la mentalizzazione propria del complesso funzionamento riflessivo, è necessario che la persona integri modalità di esperienze diverse, connesse alla realtà interna ed esterna. Secondo Fonagy perché ciò si verifichi, è necessario che il caregiver perce- pisca il bambino come un “agente mentale” sin dalle sue prime fasi di vita, mostrandosi sensibile e percependo correttamente gli stati mentali del figlio nel corso delle loro interazioni. L’autore ha operazionalizzato il concetto di Funzione Riflessiva attraverso la costruzione di una scala di valutazione applicabile all’AAI di Main e Goldwyn. Il riferimento esplicito agli stati mentali in esempi che rappresentano sé e gli altri come individui che pensa- no e provano sentimenti ed emozioni; l’anticipazione della reazione di un altro, che prende in considerazione la percezione che l’altro ha del proprio stato mentale; la sensibilità alle caratteristiche degli stati mentali, quando si manifesta esplicita consapevolezza del potere limitato dei desideri e dei pen- sieri (es., riconoscere che i desideri possono non essere realizzati); la sensi- bilità alla complessità e diversità degli stati mentali come, per esempio, viene mostrato dall’esplicito riconoscimento della possibilità di più prospettive relative ad un medesimo evento; i tentativi di connettere determinati stati mentali a specifici comportamenti osservati come avviene quando si afferma che le persone possono esprimere emozioni diverse da quelle che in realtà provano e possono intenzionalmente desiderare di ingannare al fine di pro- teggere il Sé; la considerazione della possibilità del cambiamento negli stati mentali con implicazioni sul comportamento conseguente, come quando si riconosce la possibilità di un cambiamento di atteggiamento nel futuro sono tutti aspetti che indicano la presenza di un’attivazione della capacità riflessi- va. Attraverso la codifica della scala della Funzione Riflessiva e dello stile di attaccamento emergenti dall’AAI, è stato possibile constatare che la funzio- ne riflessiva interviene nello sviluppo dell’attaccamento sicuro del bambino. Un bambino, infatti, potrà sentirsi sicuro solo quando il caregiver è in grado di capire e pensare al proprio bambino in maniera adeguata, facendolo senti- re sicuro in relazione al suo complesso funzionamento psichico.

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La capacità del genitore di riflettere DIMENSIONI DELLA FUNZIONE RIFLESSIVA sugli stati mentali degli altri ha grande A influenza sullo sviluppo delle strutture - Consapevolezza della natura degli stati mentali del Sé del bambino (Winnicott, 1958, - L’opacità degli stati mentali Bion, 1967; Kohut, 1977). Il caregiver - Gli stati mentali sono suscettibili di mascheramento - Riconoscimento delle limitazioni degli insight riflette sulle esperienze mentali del - Gli stati mentali sono legati all’espressione di giudizi bambino e gliele ri-presenta, tradotte normativi appropriati nel linguaggio delle azioni fisiche a - Consapevolezza della natura difensiva di alcuni stati mentali lui comprensibile. Il ruolo del genitore B è di fornire uno “specchio sociale - Sforzo esplicito di estrapolare gli stati mentali sottostanti il creativo” (Fonagy, 1993), che colga comportamento per il bambino gli aspetti della sua - Attribuzione accurata di stati mentali agli altri attività aggiungendo una prospettiva - Considerare la possibilità che i sentimenti riguardanti una organizzativa. Se il genitore è suffi- situazione possano non essere connessi ai suoi aspetti cientemente sintonizzato, il bambino osservabili ha l’illusione che il processo di rifles- - Riconoscimento delle diverse prospettive - Prendere in considerazione il proprio stato mentale sione è avvenuto in lui; ciò oltre a for- nell’interpretare il comportamento dell’altro nirgli una comprensione di se stesso, - Valutare gli stati mentali dal punto di vista del suo impatto aumenta il suo senso di efficacia. sul comportamento di sé e/o dell’altro L’abilità di prendere in considerazione - Freschezza di ricordo e pensiero sugli stati mentali. gli stati mentali dell’altro nel pianifi- D care e strutturare le azioni è probabil- - Riconoscimento degli aspetti evolutivi degli stati mentali mente acquisita in modo attendibile a - Lo sforzo di comprendere il livello di sviluppo del bambino partire dai 3 anni di età (Wimmer, e le sue capacità in costante evoluzione Perner, 1983). Il livello più avanzato - Prendere una prospettiva evolutiva di funzione riflessiva, consistente - Prendere una prospettiva intergenerazionale, facendo nella capacità di pensare sui pensieri connessioni tra generazioni - Considerare i cambiamenti degli stati mentali tra passato e di un’altra persona rispetto ai pensieri presente, e futuro di una terza, non viene acquisita prima - Considerare i processi transazionali tra genitore e bambino dei 6 anni (Flavell, 1982). In adole- - Comprendere i fattori che evolutivamente determinano la scenza, con l’acquisizione del pensie- regolazione affettiva ro operativo formale, si assiste ad un - Consapevolezza delle dinamiche familiari ulteriore cambiamento del sé riflessi- E vo. Lo sviluppo del ragionamento - Stati mentali in relazione all’intervistatore astratto, dell’attenzione e della flessi- bilità cognitiva ha una considerevole influenza sulla Funzione Riflessiva così come sulla cognizione sociale. L’individuo, nel corso della fanciullezza svi- luppa progressivamente la capacità di inferire ed assumere la prospettiva degli altri, che a conclusione della tarda adolescenza, gli dà la possibilità di comprendere il mondo fisico e psichico che lo circonda in modo più ricco e complesso (Anthony, 1997). La capacità di avvalersi del ragionamento per concetti ipotetici sembra permettere la riorganizzazione del quadro cogniti- vo-affettivo delle proprie relazioni di attaccamento e la possibilità di svilup- pare un modello di attaccamento più stabile ed integrato, che fornisce un senso di continuità personale. A consolidare tale prospettiva, in tempi relativamente recenti, ha assunto un ruolo di sempre maggiore rilevanza il paradigma teorico e di ricerca dell’in- fant research, che ha affrontato il problema partendo dall’integrazione di

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alcuni principi della teoria dell’attaccamento, della tradizione dinamica e della teoria sistemica. Tale modello ha sottolineato, con osservazioni accura- te e puntuali, come la madre e il bambino interagiscano fin dai primi minuti di vita portando ciascuno il proprio contributo nella relazione. La matrice dei significati personali e interpersonali è quindi una matrice relazionale. L’approccio interattivo-cognitivista si occupa in maniera particolare di rin- tracciare i precursori dello sviluppo delle capacità cognitive nelle primissime interazioni del bambino con le altre persone. Questo approccio rivolge un’at- tenzione particolare al problema del significato e dell’intenzionalità e pone al centro l’interrelazione tra elementi sia a livello di analisi del comportamento intraindividuale che interindividuale. In questo modo rifiuta decisamente ogni modello meccanicistico. Oltre a ciò gli autori applicano alcuni dei principi della teoria dei sistemi all’osservazione della diade madre-bambino che viene considerata un siste- ma aperto, che si autoregola, in cui non solo c’è la possibilità di una conti- nua autocorrezione rispetto agli scopi ma lo scambio di informazioni avvie- ne sia all’interno del sistema che con l’esterno, con il sistema più ampio in cui la diade è inserita. È inevitabile quindi che l’osservazione si allarghi per coinvolgere anche la famiglia, dando una maggior importanza al padre tanto a lungo trascurato. Secondo Stern (1995) anche da un punto di vista clinico, quando si ha a che fare con bambini piccoli, è assolutamente centrale l’osservazione dell’intera- zione, soprattutto di quella tra madre e bambino, perché in essa si esprimono e si costruiscono le rappresentazioni e le fantasie di entrambi e sono queste fantasie e rappresentazioni a influenzare il comportamento dei singoli mem- bri della diade. Allo stesso modo questo è il luogo in cui emerge un eventua- le sintomo e quindi è questo il contesto in cui esso va osservato e valutato. La madre, così come il padre, ha una serie di rappresentazioni del bambino e si sé come madre già da prima della nascita del figlio e addirittura del suo concepimento; queste rappresentazioni sono costruite da vari elementi relati- vi alla rappresentazione che il genitore ha di sé, del proprio coniuge e anche da vari elementi della storia della propria famiglia di origine; pertanto il genitore si muove costantemente tra l’interazione comportamentale e la vita rappresentazionale. Il bambino organizza in sei diversi formati le differenti caratteristiche dell’evento esperito nel momento emergente e li connette in una rete costruendo lo schema di essere con, rappresentazione di esperienza di interazione con qualcuno (Stern 1994); la rete di schemi di essere con a sua volta permette di elaborare le fantasie, i ricordi, le narrazioni e anche il momento presente. Queste rappresentazioni vengono inferite osservando il comportamento del bambino. Vari autori hanno cercato di rintracciare le caratteristiche che fanno di un’in- terazione tra una madre e il suo bambino uno scambio diadico funzionale e piacevole. In particolare Tronick (1989) parte dall’ipotesi che la modalità di funzionamento del sistema costituito dalla diade abbia un’influenza determi- nante sull’efficacia con la quale il bambino persegue i propri obiettivi, sul modo in cui sperimenta le emozioni di segno diverso e sugli esiti del suo svi- luppo. Per analizzare l’interazione l’autore considera i parametri di recipro- cità, sincronia e coerenza aggiungendo però che essi non sono sempre otti-

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mali nemmeno in un “buono scambio”: ad esempio la coordinazione non è presente per più del 30% del tempo dell’interazione. Diviene quindi fonda- mentale nella realizzazione di un felice scambio la capacità di riparare l’er- rore interattivo (Tronick 1989) e di passare in modo fluido e indolore da stati coordinati affettivamente positivi a stati non coordinati affettivamente nega- tivi e di nuovo a stati coordinati. Il bambino sperimenta così affetti negativi di breve durata e reversibili, le sue esperienze di riparazione aumentano le sue capacità di autoregolazione, le sue competenze affettive e la sua perce- zione di essere in grado di rimediare agli errori interattivi con la collabora- zione di un partner altrettanto disponibile, competente e interessato ad avere una felice interazione con lui. Al contrario, nelle interazioni anormali in cui l’esperienza del fallimento è cronica, per il bambino la regolazione degli affetti negativi diventa l’obiettivo centrale rischiando di trasformarsi nell’a- dozione di comportamenti difensivi che, come conferma la ricerca sull’attac- camento, possono diventare patologici. Molti studi negli ultimi vent’anni hanno sottolineato e dimostrato l’importan- za delle emozioni e della reciprocità affettiva per l’adattamento reciproco nella relazione tra madre e bambino e per lo sviluppo di quest’ultimo. Molti autori considerano ormai la condivisione degli affetti fondamentale per uno sviluppo armonioso sia affettivo che cognitivo. In particolare la “sintonizza- zione affettiva” che inizia prima del compimento del primo anno con il rife- rimento sociale è considerata (Stern 1985) una tendenza adattiva biologica- mente determinata che ha un ruolo fondamentale nello sviluppo della teoria della mente. Poiché secondo Emde (1991) il bambino viene al mondo predi- sposto sia all’autoregolazione che all’interazione, la mancanza della condivi- sione degli affetti positivi può costituire un fattore di rischio per il successi- vo sviluppo; infatti il nucleo affettivo del Sé struttura l’esperienza dandole continuità e la segnalazione delle emozioni permette al bambino di comuni- care i propri bisogni, in questo modo le emozioni positive sperimentate e riconosciute grazie alla disponibilità emotiva e alla risposta empatica dell’a- dulto fungono da mediatori nella progressiva organizzazione dell’esperienza. Analogamente Trevarthen (1984, 1997) chiama “intersoggettività” la coordi- nazione affettiva in cui madre e bambino colgono reciprocamente le manife- stazioni affettive del partner e forniscono una risposta complementare; l’in- tersoggettività insegna al bambino a comprendere le emozioni manifestate dagli altri e a usare le espressioni emotive per regolare l’interazione affetti- va, elementi chiave per regolare le relazioni interpersonali e le rappresenta- zioni mentali di esse. Stern (1995) traccia l’evoluzione dei compiti interattivi partendo dai primi due mesi dopo la nascita in cui l’interazione è quasi unicamente orientata alla regolazione delle attività fisiologiche, mangiare e dormire, e prosegue con l’interazione sociale faccia a faccia senza giocattoli, poi con il gioco con gli oggetti, seguito dalla vera e propria intersoggettività, qui intesa come la com- prensione da parte del bambino dell’esistenza di contenuti mentali della madre, per giungere infine, con l’acquisizione del linguaggio e di una mag- giore mobilità e indipendenza, alla negoziazione delle regole sociali. La conoscenza delle tappe dello sviluppo del bambino è molto importante per capire, di volta in volta, quali siano i compiti che la diade deve assolvere e

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valutare quindi se l’interazione tra i partner è adeguata all’età e alle caratte- ristiche del piccolo. Da quanto presentato si rileva quanto sia importante dare ascolto ai bambini anche in età molto precoce, seppure tenendo conto del periodo evolutivo spe- cifico. L’individuo, infatti, elabora l’informazione attraverso due processi: - l’ELABORAZIONE PRIMARIA, cioè le informazioni sul grado di nega- tività, minaccia e rilevanza della situazione relativamente a sé per verifi- care se essa è pericolosa oppure no. Essa implica la capacità innata del bambino, mantenuta anche nelle fasi evolutive successive, di codificare i messaggi non verbali (espressione del viso, tono della voce, intensità delle emozioni); e: - l’ELABORAZIONE SECON- DARIA, cioè le informazioni per com- prendere il conflitto e far fronte ad esso. A questo livello il bambino si pone le domande: 1) Cosa sta succedendo?; 2) Chi è il responsabile?; 3) Che possibilità ho per affron- tarlo con successo?

In considerazione di queste competenze, quindi, di fronte al conflitto fra gli adulti si rivela necessario analizzare, come proposto da Grych e Fincham (in Di Blasio, 2000), le reazioni dei figli, rivolgendo loro delle domande che li pongano in una situazione di maggiore chiarezza e prevedibilità. Le reazioni dei bambini, infatti, hanno una caratteristica di processualità e dinamicità; l’esito negativo delle reazioni, pertanto, deve considerarsi connesso a) al conflitto stesso (tipologia) e b) alla mancanza o alterazione delle informazio- ni (per il figlio) che si connette alla difficoltà di elaborare psicologicamente ciò che accade nella famiglia (Di Blasio P., 2000). Nell’ambito di questa prospettiva, quindi, l’adulto ha il compito doveroso di aiutare il bambino ad esprimersi, riconoscendo i suoi bisogni e le sue richie- ste e rispondendovi in modo adeguato, o, comunque, riparando agli inevita- bili errori interattivi ed interpretativi che caratterizzano sempre la relazione caregiver-bambino, e ancora di più, le relazioni tra adulto e minore in una situazione di crisi quale è la relazione genitore-figlio durante il processo di separazione e divorzio.

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1. SOMMARIO 1. Premessa rofondi mutamenti si sono verificati nel corso di 2. Le azioni di stato; generalità alcuni decenni in ordine alla nozioni sociologiche e 3. L’azione di contestazione della legittimità psicologiche della famiglia; mutamenti che si posso- 4. L’azione di reclamo della legittimità P 5. L’azione di disconoscimento della no dire intervenuti con una certa rapidità, se paragonati paternità alla staticità delle condizioni pregiuridiche e giuridiche 6. L’azione per la dichiarazione giudiziale esistenti fino ai primi decenni del secolo scorso. della paternità e della maternità Questi mutamenti sono stati tanto rilevanti da avere inci- 7. L’azione di impugnazione so, modificandoli a livello sostanziale, sui concetti giuri- del riconoscimento. dici di paternità, maternità e filiazione. Indubbiamente ancora oggi padre, madre e figlio sono coloro ai quali il dirit- to riconosce ed attribuisce il corrispondente status; però non esiste più, come in passato, la coincidenza tra la nasci- ta di un essere umano come frutto del- l’unione sessuale di un uomo e di una donna e gli stati di genitori e figli. Già il migliorare delle condizioni socio-economiche aveva determinato, PATERNITÀ, MATERNITÀ nel corso del tempo, modificazioni notevoli nell’idea stessa della funzio- E FILIAZIONE. ne del figlio nel gruppo umano; pian piano i figli hanno cessato di essere I PROCEDIMENTI DI STATO considerati come elementi della pro- sperità familiare, come forza lavoro, come mezzi per aumentare la ricchez- za del gruppo familiare, e ciò soprattutto con il passaggio dalla famiglia DOTT. allargata alla famiglia nucleare; il valore utilitario del figlio si è trasformato ANGELO nel tempo in un valore essenzialmente affettivo ed emotivo. VACCARO L’evento che ha determinato la trasformazione più radicale si è verificato nel 1967 con l’approvazione della legge 5 giugno 1967 n. 431 sull’adozione spe- PRESIDENTE DEL TRIBUNALE ciale; per la prima volta si è riconosciuto, a livello giuridico, che si può esse- PER I MINORENNI DI POTENZA re figli dell’affetto come si è figli di sangue, che si può essere buoni genito- ri anche se il figlio non è il frutto dei contributi genetici di quel padre e di quella madre, che non sono i legami di sangue quelli che generano legami tanto profondi tra genitori e figli. Inoltre, nel periodo anteriore alla legge n. 431 del 1967 aveva cominciato a prendere piede l’adozione di minori nati all’estero, allora di competenza della corte d’appello; nel periodo successivo, passata la competenza al tribu- nale per i minorenni, il fenomeno si estese e, poiché la legge del 1967 non conteneva una disciplina in proposito, furono i tribunali per i minorenni ad inventarsi una regola particolare e cioè quelle della necessità di una preven- tiva dichiarazione di idoneità. È noto che successivamente la normativa sull’adozione è stata modificata con la legge 4 maggio 1983 n. 184, che disciplinò, per la prima volta, anche l’a- dozione internazionale, istituzionalizzando la dichiarazione di idoneità; oggi l’adozione nazionale è disciplinata, con rilevanti modifiche, dalla legge 28 marzo 2001 n. 149, mentre l’adozione internazionale è disciplinata dalla

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legge 31 dicembre 1998 n. 476 che ha contemporaneamente ratificato la Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993. Dal 1967 ad oggi l’adozione internazionale ha avuto un notevole sviluppo, per cui si può dire che attualmente supera quantitativamente quella naziona- le. Si deve poi tenere presente che nel 1975, sotto la spinta del mutar dei costu- mi e della cultura, è stata approvata (legge 19 maggio 1975 n. 151) la rifor- ma del diritto di famiglia, in adeguamento, sia pur tardivo, della legislazione ordinaria ai principi costituzionali. La riforma del 1975 ha determinato un autentico ribaltamento dei principi di cui era intriso il codice del 1942: dall’autoritarismo alla distribuzione del potere, dalla disparità all’eguaglianza, dalla prevalenza dell’interesse della famiglia alla prevalenza degli interessi dei singoli e in specie dei soggetti deboli. Che si sia trattato di un adeguamento ai principi costituzionali è indubbio; gli art. 2 e 3 della Costituzione attribuiscono valore primario alla personalità individuale e quindi all’esigenza di tutela della dignità e dell’autonomia della persona; il riconoscimento della famiglia operato dall’art. 29 comma primo Costituzione va pertanto inteso nel senso che la famiglia, in quanto formazio- ne sociale, in quanto valore impersonale, va tutelata principalmente come elemento di protezione e di sviluppo dei soggetti che la compongono e non può in alcun modo rappresentare una causa di compressione dei valori perso- nali che, anche per suo mezzo, si sono voluti assicurare; ne consegue che il superiore interesse familiare e sociale, individuato implicitamente dall’art. 29 Costituzione, interesse la cui attuazione tutela la famiglia unitariamente in tutti i suoi componenti, prevale sull’interesse dei singoli componenti solo in quanto, e nella misura in cui, si pone come strumento di protezione della per- sonalità individuale. Quando fu approvata la riforma del diritto di famiglia, gli studi di biologia e di genetica erano già molto avanzati ma la riforma non ne tenne conto; oggi questi studi e la loro applicazione pratica sono a un punto tale da suscitare quanto meno qualche timore per il futuro. A prescindere dalla clonazione che è quella che suscita maggiori apprensio- ni, si può immaginare uno scenario possibile: oggi la natalità è in diminuzio- ne, non solo in Italia ma anche all’estero, mentre aumentano in contempora- nea le istanze di coppie che intendono adottare, ed esiste la possibilità di far nascere bambini in provetta, per cui si può pensare che si potrebbe far nasce- re in questo modo bambini da dare in adozione ed è ovvio che la coppia fini- rebbe per scegliere le caratteristiche del bambino, sesso, colore degli occhi, dei capelli, ecc.; non è uno scenario molto rassicurante, perché non accettare il bambino per quello che è, ma volerlo con determinate caratteristiche, volerlo cioè per quello che si vuole che sia, è, un elemento che, quantomeno, induce a dubitare dell’idoneità della coppia. La necessità di una legge che disciplini la materia è indubbia; e ci si deve augurare che si tratti di una legge seria, applicabile a tutti nel senso che tenendo conto delle istanze che salgono dal sociale non conculchi totalmen- te le aspettative di una estesa minoranza di persone. Comunque, la fecondazione assistita, nelle sue forme diverse da quella omo-

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loga, è un ulteriore elemento di fatto che è valso a scardinare il rapporto di sangue tra genitori i figli. È opportuno anche considerare che si vanno estendendo i fenomeni delle famiglie monoparentali, cioè con un solo genitore, delle famiglie di fatto, cioè con genitori non uniti in matrimonio, delle famiglie formate da genitori divorziati con figli del primo matrimonio. Ed allora è evidente che quando si parla di famiglia e necessario stabilire prima di quale famiglia si parla, non esistendo più un’unica base di partenza; anche perché la diversità delle situazioni di fatto incide sulle dinamiche inter- ne che chiunque voglia valutare il fenomeno deve necessariamente tenere presenti, in quanto la famiglia è un fenomeno molto poco giuridico; per cui qualsiasi valutazione in merito, qualsiasi decisione o difesa, non può essere fondata soltanto su canoni giuridici. La tutela dei diritti del minore è, nei fatti, possibile soltanto se il giudice e l’avvocato del minore tendono ad accertare la “verità reale”, non una verità limitata dalle prospettazioni delle parti adulte (come nell’ordinario rito con- tenzioso), e tengono conto anche della personalità dei soggetti, della dinami- che familiari, della capacità degli adulti di rendersi conto dei reali bisogni dei minori, ossia dei bisogni che devono essere soddisfatti al fine di una tutela dei loro diritti. La tutela dei diritti dei minori è, nei fatti, possibile se il giudice e l’avvocato del minore sono in condizione di apprezzare i rischi ed i danni che una deter- minata situazione familiare comporta per il minore, soltanto se sono in grado di apprezzare le conseguenze dei provvedimenti chiesti e pronunciati. Non solo per il giudice ma anche per l’avvocato del minore si può dire che è indispensabile certo una solida preparazione che ne garantisca la specializza- zione in diritto in generale ed in diritto familiare e minorile in particolare, ma anche una preparazione che, senza renderli specializzati in discipline diverse dalla propria, il che sarebbe impossibile pretendere ed ottenere, li ponga in condizione di ascoltare il minore anche nel senso di rendersi conto dell’esi- stenza di messaggi non espressi, non verbali, di apprezzare le possibili con- seguenze sia della situazione di fatto vissuta dal minore che dei diversi prov- vedimenti, di valutare la validità delle proposte e dei progetti dei servizi ter- ritoriali e la fondatezza delle opinioni e delle prospettazioni degli esperti di altre discipline, di stabilire una corretta comunicazione interpersonale con i soggetti interessati al processo ed in particolare con i minori. Un’ultima notazione da evidenziare è che quando si parla di filiazione si deve distinguere la filiazione come status dalla filiazione come rapporto; lo status di figlio è una situazione giuridica che si acquista solo con la nascita (indi- pendentemente dal fatto che i genitori siano viventi, deceduti o anche igno- ti); la filiazione come rapporto è invece quella particolare situazione giuridi- ca che consiste nel legame anche giuridico, e quindi nel rapporto giuridico, tra genitore e figlio, entrambi viventi. Ritengo, infine opportuno precisare che la legge (art. 236 cod. civ.) parla anche di possesso di stato, il quale in mancanza dell’atto di nascita è suffi- ciente a dimostrare la qualità di figlio legittimo; questa nozione è un residuo del passato, di un’epoca nella quale per catastrofi, calamità, guerre era pos- sibile la distruzione o la perdita di atti dello stato civile; oggi esistono norme

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e mezzi tecnici per la conservazione degli atti tali da rendere di scarsa utili- tà la nozione in parola; però il legislatore ha fatto bene a conservarla perché la legge deve prevedere, nei limiti del possibile, anche le ipotesi meno pro- babili; il possesso di stato deve risultare da fatti concludenti ed in particola- re dalle tre condizioni già previste nel diritto romano, ossia nomen, tractatus, fama ( art. 237 cod. civ.).

2.

uando si parla di azioni di stato ci si riferisce a volte alle azioni che Qriguardino la filiazione legittima; però è certo che sono azioni di stato anche quelle relative alla filiazione naturale. In tutti i casi, infatti, la azioni in parola sono il mezzo, previsto dalla legge, per verificare, rispetto ad una data realtà, la mancanza ovvero l’esistenza dei requisiti che la legge prevede per la costituzione di uno status. Le azioni che interessano la filiazione legittima sono tre: la contestazione della legittimità, il reclamo della legittimità, il disconoscimento della pater- nità; quelle relative alla filiazione naturale sono due: la dichiarazione giudi- ziale di paternità e di maternità e l’impugnazione del riconoscimento. È evidente che il diritto ad agire può essere azionato o perché pur esistendo i presupposti della filiazione non ne è provata l’esistenza con l’atto di nasci- ta o il possesso di stato, ovvero, al contrario, allorché nonostante esista l’at- to di nascita o il possesso di stato si contesta lo status. Le azioni tendono, quindi, ad ottenere una pronuncia sullo status diretta ad eliminare i dubbi sulla posizione che un soggetto deve avere nell’ambito della famiglia. Nella legislazione attuale prevale, sia pur con limitazioni, il favor veritatis, in quanto la legge tende a favorire la verità di fatto rispetto alla verità forma- le. L’evoluzione dell’attuale normativa in materia di filiazione legittima e natu- rale costituisce chiaro indice della progressiva rilevanza e della mutata con- siderazione che nella coscienza sociale, e quindi legislativa, hanno acquisito negli anni i diritti inviolabili del singolo, il principio di pari dignità e di egua- glianza tra tutti i cittadini, il principio di responsabilità “oggettiva” conse- guente alla procreazione (art. 30 comma primo Cost) e quindi, conseguen- zialmente, l’importanza assunta da modelli di convivenza familiari diversi dai legami fondati sul vincolo coniugale. In materia di azioni di stato la prospettiva adottata dalla legge non è mai stata neutra, essendo sempre stata specchio del modello di famiglia coerente con i valori di volta in volta dominanti. Si spiega così che da una concezione di famiglia “forte” sia sempre derivata una disciplina in materia di contestazio- ne della legittimità la più ristretta, nell’evidente intento di impedire qualun- que turbamento degli assetti consolidati della famiglia (Cossu). La riprova di ciò è contenuta sia nel codice napoleonico che in quello italia- no del 1865 che escludevano qualsiasi possibilità di contestazione in caso di coincidenza tra il possesso di stato e le risultanze degli atti dello stato civile. Nel codice del 1865 l’unico temperamento previsto a tale rigidità era offerto dalla supposizione di parto o dalla sostituzione di neonato.

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La disciplina legislativa prevista dal codice del 1942 in materia di filiazione, era anche essa chiaramente ispirata ad una ideologia impegnata alla tutela ed alla difesa della filiazione originatasi nell’ambito del rapporto matrimoniale, con conseguente sacrificio di posizioni soggettive astrattamente contrastanti con detto status. Il disfavore per i nati fuori dal matrimonio si evinceva dalla stessa espressio- ne usata, “figli illegittimi”, e notevoli erano i limiti posti all’accertamento della verità biologica, ritenuta pericolosa per la famiglia legittima, come limitati erano i diritti riconosciuti in capo ai figli naturali rispetto ai figli legittimi. Ciò in quanto l’unico modello di convivenza familiare legalmente ricono- sciuto e da rafforzare era quello matrimoniale, idoneo ad assicurare da un lato ordine sociale e morale, e, dall’altro, a garantire l’ordinato assolvimento dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, con il conse- guente disfavore per le unioni non coniugali e per figli da esse nati. Con la legge di riforma del diritto di famiglia, invece, si è pervenuto ad una sostanziale parificazione della condizione giuridica patrimoniale e personale dei figli legittimi e dei figli naturali riconosciuti o giudizialmente dichiarati, essendo venuta meno l’ideologia che vedeva con disfavore la possibilità di ricerca illimitata della paternità e maternità naturale. È stato osservato che con ogni probabilità la riforma del diritto di famiglia non ha inciso sulle azioni di stato in quanto avendo profondamente modifica- to il regime della filiazione naturale ultronei sarebbero stati interventi nella materia in esame. È evidente che la ricerca della genitorialità, nella sua evoluzione storica, evi- denzia sempre il contenuto ideologico che è sottinteso al tipo di famiglia codificato; infatti quando la legge predispone una disciplina rigida della ricerca della paternità, risulta sempre codificato un modello di famiglia forte, una forte difesa della famiglia legittima, e viceversa. Si discute, in dottrina, se le azioni di stato siano azioni dichiarative o azioni a carattere costitutivo. La teoria più convincente è quella che le qualifica come azioni a carattere costitutivo, tenuto conto che accanto alla funzione dichiarativa (tipica delle azioni di mero accertamento), esse fanno sorgere nuove situazioni giuridiche che prendono vita, indubbiamente, con effetto erga omnes, dal momento in cui passa in cosa giudicata la sentenza che le accerta, ma retroagiscono, hanno cioè effetto ex tunc, perché l’ordinamento giuridico non può consenti- re che una persona abbia due status diversi in periodi diversi. In dottrina qualcuno ha ritenuto che la sentenza che accoglie la domanda ha natura costitutiva, per cui opererebbe con effetti ex nunc; la giurisprudenza, invece, molto più correttamente, ha affermato che le azioni in parola tendo- no ad ottenere una pronuncia che accerti il vero status familiae del soggetto, in contrasto con quello che risulta dagli atti dello stato civile e che, in conse- guenza, l’accertamento del vero status non può che travolgere, con effetto ex tunc, lo status formale risultante dagli atti dello stato civile ed i rapporti che ad esso si connettevano. Le azioni di stato presentano alcune caratteristiche comuni; sono indisponi- bili, come indisponibile è la situazione giuridica sostanziale (lo status) che ne

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sta alla base; dalla indisponibilità derivano: la irrinunciabilità, la non transi- gibilità delle controversie e la loro non compromettibilità per arbitri perché le azioni sono inalienabili ed imprescrittibili. Tali caratteri hanno la loro ragione di essere in quanto le azioni di stato è attribuito il fine sostanziale di rendere lo status quanto più vicino è possibile alla realtà biologica. È opportuno precisare che, tenuto conto delle caratteristiche sopra evidenzia- te, tra le azioni di stato non possono essere comprese le azioni di rettificazio- ne degli atti (nella specie di nascita) dello stato civile previste dagli artt. 454 e 455 cod. civ.,le quali attengono agli errori materiali o alla aggiunta di un dato omesso o alla eliminazione di un dato impreciso, e quindi non tendono ad un mutamento (acquisto o perdita) dello status; si può dire che la senten- za di rettificazione dell’atto di nascita non si pronuncia sullo stato ma, bensì sul titolo.

3.

azione tendente a contestare la legittimità è prevista dall’art. 248 cod. civ. L’ ed è rivolta a rimuovere lo stato di legittimità risultante dall’atto di nasci- ta, L’azione non ha lo scopo di contestare il legame di sangue tra il figlio e colui che dall’atto di nascita risulta il padre, ma ha ad oggetto la mancanza di altri presupposti dello stato di legittimità; si applica ai casi in cui si discutono aspetti della legittimità diversi dalla paternità ed ha, quindi, carattere residua- le. Essendo evidente la diversità dei presupposti, si può dire con certezza che questa azione, che è imprescrittibile, non può essere promossa in alternativa a quella di disconoscimento della paternità ed a maggior ragione dopo che siano inutilmente trascorsi i termini di decadenza stabiliti per l’azione di disconoscimento. La legittimazione attiva spetta non solo a coloro che dall’atto di nascita risul- tano come genitori, ma a chiunque vi abbia interesse; l’interesse non è neces- sario che sia patrimoniale, potendo essere anche soltanto di natura morale. Legittimati passivi sono il figlio e coloro che risultano genitori ed essi sono litisconsorti necessari; se sono morti l’azione si propone nei confronti degli ascendenti e dei discendenti dei genitori, del coniuge e dei discendenti del figlio. Quando l’azione deve essere proposta nei confronti di persone minori o inca- paci è prevista la nomina da parte del giudice di un curatore; qualora il figlio e coloro che risultano genitori sono morti e manchino altri legittimati passi- vi l’azione si propone nei confronti di un curatore nominato dal giudice, sem- pre che esista un interesse patrimoniale o morale dell’attore. In dottrina si è dubitato della legittimazione attiva del vero padre naturale sul fondamento dell’idea che non potendo questi riconoscere il figlio, per il divieto di effettuare un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo, non sarebbe possibile verificare preventivamente l’esistenza del- l’interesse ad agire. Questa tesi non può essere condivisa, perché in contrasto con i principi costi-

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tuzionale (in particolare l’art. 30) e con la lettera della legge che attribuisce la legittimazione attiva a chiunque vi abbia interesse ed è evidente l’interes- se del padre naturale a contestare la legittimità per potere in seguito ricono- scere il figlio. Così pure non si può negare la legittimazione attiva dei veri genitori, i quali hanno sicuramente un interesse personale e diretto ad agire; non varrebbe osservare che se si tratta di persone legalmente unite in matrimonio si finisce con l’attribuire loro una specie di azione di reclamo di legittimità del figlio non prevista dalla legge, in quanto, in questo caso, si finisce con il costituire un nuovo stato di legittimità; questa osservazione non potrebbe valere per escludere la legittimazione attiva dei veri genitori all’azione di contestazio- ne della legittimità; le conseguenze che si producono derivano da norme del- l’ordinamento giuridico che sono norme a carattere sostanziale, e non da una pretesa ed inesistente norma processuale; in realtà la sentenza che chiude il giudizio inevitabilmente pronuncia non soltanto negando la filiazione che risulta dall’atto di nascita ma affermando la vera filiazione dedotta in giudi- zio, e poiché la sentenza deve essere trascritta nei registri dello stato civile sorge automaticamente un nuovo stato ed un nuovo rapporto di filiazione legittima. L’azione ha come suo presupposto l’esistenza dello stato di figlio legittimo; si richiede cioè che il soggetto di cui si tratta sia nato vivo, risulti iscritto nei registri dello stato civile come figlio legittimo o abbia il possesso di stato di figlio legittimo; in caso contrario non esisterebbe la materia del contendere. Mi sembra evidente che legittimato attivo possa essere anche il figlio, sia per la maggiore considerazione che con la riforma del diritto di famiglia ha assunto il favor veritatis, sia per l’evidente interesse del figlio a vedersi rico- nosciuto il sua vero status. È ovvio che il figlio che voglia chiedere il riconoscimento del suo vero stato di legittimità, deve prima contestare la legittimità risultante dall’atto di nascita; altrimenti non può proporre l’azione di reclamo della legittimità nei confronti dei veri genitori; io ritengo che le due azioni possano essere propo- ste contestualmente, nello stesso giudizio, contraddittori necessari essendo le due coppie di coniugi, quella che si assume non vera, ma risulta dal titolo, e quella che si assume vera, ma non risulta dal titolo. Mi sembra poi non validamente contestabile che il figlio possa proporre l’a- zione di contestazione anche se non intende chiedere il riconoscimento di una diversa legittimazione o si riserva di farlo in un secondo tempo; può cioè agire anche solo per assumere lo stato di figlio di ignoti; qualche dubbio può sorgere a causa di quanto dispone l’art. 239 cod. civ., il quale prevede, con riferimento alle ipotesi di supposizione di parto e di sostituzione di neonato, che il figlio può reclamare, anche in contrasto con l’atto di nascita conforme al possesso di stato, uno status diverso “dando la prova della filiazione”, ed è ovvio che questa filiazione di cui parla la norma, la filiazione che si deve provare, non può che essere “l’altra filiazione”, ossia quella vera e diversa da quella risultante dell’atto dei nascita; io credo che le due ipotesi siano da tenere distinte, nel senso che si può agire solo ai sensi dell’art. 248 cod. civ., ossia in via di mera contestazione, ed in tal caso non è di applicazione neces- saria la norma dell’art. 239 cod. civ.; la legge va interpretata in rapporto al

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mutare dei tempi e della cultura, e si deve tenere conto degli sviluppi delle tecniche di accertamento dell’incompatibilità genetica e del maggior peso attribuito oggi al favor veritatis; nemmeno si può negare che esista un inte- resse, che può essere solo morale, del figlio ad acquisire il suo vero status, sia pure quello di figlio di ignoti, in quanto ci si deve rendere conto delle dinamiche psicologiche che possono scatenarsi, in negativo, allorché il figlio apprenda di fatto che il rapporto di filiazione in cui è coinvolto è fondato su una falsità. Prima della riforma del diritto di famiglia il codice civile conteneva un’elen- cazione dei casi in cui l’azione di contestazione poteva essere promossa, però, soprattutto in dottrina, si riteneva che l’elencazione non fosse tassativa; il legislatore del 1975, adeguandosi a questa opinione ha eliminato l’elenca- zione, per cui si può fondare l’azione su qualsiasi motivo valido. Le ipotesi che si possono indicare sono: 1) supposizione di parto, allorché il figlio non sia nato da colei che è indicata come madre, sia certo cioè l’even- to nascita ma diverso il soggetto che ha partorito; 2) sostituzione di neonato, allorché il figlio denunziato come legittimo sia diverso fisicamente da quel- lo che è stato partorito; 3) contestazione del rapporto matrimoniale, come contestazione sia della sua legittimità sia della sua esistenza; si pensi ad esempio alle ipotesi che un matrimonio non sia stato in realtà celebrato, oppure sia stato celebrato con rito solo religioso senza trascrizione nei regi- stri dello stato civile; 4) contestazione della legittimità del matrimonio, ipo- tesi questa che presuppone che il matrimonio sia stato celebrato e trascritto ma sia privo dei requisiti di validità necessari perché possa avere effetti nel- l’ordinamento giuridico; in questa ipotesi si deve tenere presente l’art. 128 cod. civ., il quale dispone che il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido nei confronti dei figli (matrimonio putativo), però se è stato contratto in malafede gli effetti del matrimonio valido si producono solo se non ricorrono le ipotesi dell’incesto e della bigamia; ne consegue che in queste due ipotesi non si può proporre azione di contestazione della legitti- mità perché una volta dichiarato nullo il matrimonio non v’è più alcuna legit- timità da contestare. Precisare e cass.

4.

azione per reclamare la legittimità è prevista dall’art. 249 cod. civ. e pre- L’ suppone la mancanza di un titolo di stato o l’esistenza di un titolo di stato non conforme alla realtà biologica e genetica. La legittimazione attiva spetta al figlio e l’azione è imprescrittibile rispetto a lui. Se il figlio è morto senza proporre l’azione la legittimazione spetta ai suoi discendenti, si noti non agli eredi, però solo se il figlio è morto entro i cinque anni dal raggiungimento della maggiore età. Nel caso di incapacità o minore età del figlio l’azione deve essere proposta in suo nome e vece, da che lo rappresenta legalmente ovvero dal tutore o dal curatore. La legittimazione passiva spetta ai genitori o ai loro eredi. L’azione mira a conseguire lo stato di figlio legittimo che non risulta né dai registri dello stato civile, né dal possesso dello stato di figlio legittimo.

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È ovvio che questa azione costituisce una deroga alla regola (art. 238 cod, civ.) secondo la quale nessuno può reclamare uno stato contrario a quello che gli attribuiscono l’atto di nascita di figlio legittimo ed il possesso di stato conforme all’atto di nascita; è evidente il rapporto tra questa azione e quella di contestazione della legittimità. Pur se la legge usa una terminologia molto generica, per cui non esistono limiti prefissati, le ipotesi in cui può proporsi l’azione possono essere indica- te come segue: 1) mancanza dell’atto di nascita e del possesso di stato; 2) supposizione di parto o sostituzione di neonato; 3) atto di nascita che indichi il figlio sotto falso nome senza indicare i veri genitori; 4) atto di nascita che indichi l’interessato come figlio di ignoti; 5) nascita del figlio dopo i trecen- to giorni dall’annullamento, o dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio, ovvero anche dalla data della di pronuncia della separazione giudiziale o di omologazione di quella consensuale o di compa- rizione davanti al giudice (art. 234); in tutti questi casi la presunzione legale (art. 232 cod. civ.) esclude l’attribuzione della legittimità; con la riforma del diritto di famiglia è stata prevista esplicitamente la possibilità per il figlio di proporre azione di reclamo della legittimità, al fine di dimostrare che il con- cepimento è avvenuto in costanza di matrimonio essendosi trattato di gravi- danza prolungata. L’azione non può essere esercitata nel caso in cui il soggetto reclamante, o per conto del quale si aziona il reclamo, sia stato in precedenza adottato; l’a- dozione fa cessare tutti i rapporti giuridici con la famiglia di origine, salvo i divieti matrimoniali; e non è possibile reclamare uno stato di legittimità del quale la legge ha previsto la eliminazione anche se già esistente prima dell’a- dozione.

5.

azione per il disconoscimento di paternità è prevista dagli artt. 244 e L’ segg. con riferimenti agli artt 233 e 235 cod. civ.; tende a rimuovere lo stato di figlio legittimo nei casi in cui si assume che la legittimità non corri- sponde alla realtà dei fatti, ossia alla realtà del concepimento; l’azione è ammessa solo in alcuni casi tassativamente indicati nel primo comma del- l’art. 235 cod. civ.: mancata coabitazione (n. 1), impotenza coeundi o gene- randi del marito (n. 2), adulterio della moglie ovvero occultamento della gra- vidanza e della nascita da parte della stessa (n. 3), con riferimento in tutti i casi al periodo compreso tra i trecento e i centottanta giorni prima della nascita, ossia al periodo legale del concepimento. A queste si aggiunge però l’ipotesi prevista dall’art. 233 cod. civ., ossia quel- la della nascita del figlio prima che siano trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio, che si differenzia sia perché questo è il suo unico presupposto, sia per il regime probatorio in parte diverso. La mancanza di coabitazione non si riferisce alle ipotesi in cui esistano osta- coli tali da rendere impossibile la coabitazione, per cui basta la prova certo del fatto storico della non convivenza, anche se questa era in teoria possibi- le. L’impotenza normalmente o c’è o non c’è, però non si può escludere che

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insorga in un secondo momento anche successivo al matrimonio, così come non si può escludere un’impotenza temporanea dovuta per esempio all’assun- zione di farmaci. Il n. 3) dell’art. 235 primo comma cod. civ. contiene in realtà due ipotesi separate ed autonome, perché la norma usa la congiunzione disgiuntiva “o”: a) la prima ipotesi è quella dell’adulterio, in relazione alla quale si deve pre- cisare che non si richiede una relazione stabile o comunque di una certa durata, basta un solo rapporto sessuale extramatrimoniale, anche privo di qualsiasi coinvolgimento affettivo; ci si può chiedere se l’ipotesi dello stu- pro sia assimilabile all’adulterio; la risposta sembra debba essere positiva, perché sono identici i presupposti di fatto e di diritto, perché la legge tende a favorire la verità reale rispetto alla verità legale, perché il termine adul- terio ha assunto un significato ampio che prescinde da ipotesi di colpa della donna e perché il fatto che oggi anche la donna può esercitare l’azio- ne conferma questo assunto b) la seconda ipotesi è quella in cui la donna riesce a nascondere al marito la gravidanza e la nascita, in relazione alla quale è sufficiente osservare che essa ha, nel tempo presente, scarso rilievo pratico e che può dirsi integra- ta soltanto se sussistono entrambi gli occultamenti; la legge, infatti, inten- de dare rilievo al comportamento complessivo della donna ed intende tute- lare la totale ignoranza della situazione che invece non esiste qualora una delle due circostanze, gravidanza o nascita, sia conosciuta. Legittimato attivo è innanzitutto il padre; l’azione può essere promossa anche dalla madre e dal figlio però solo nei casi in cui può essere proposta dal padre; l’azione può essere anche promossa da un curatore speciale del figlio nominato dal giudice davanti al quale è proposta l’azione, a richiesta del figlio stesso se ha compiuto i sedici anni o del pubblico ministero se di età inferiore. La legge prevede che in caso di morte del padre o della madre la legittima- zione, attiva e passiva, si trasmette ai loro ascendenti o discendenti e che nel caso di morte del figlio si trasmette al coniuge ed ai discendenti. L’ultimo comma dell’art. 247 cod. civ. prevede poi che se mancano i sogget- ti indicati dalla legge come legittimasti passivi l’azione può essere proposta nei confronto di un curatore nominato dal giudice. I termini di decadenza sono: per la madre, sei mesi dalla nascita; per il padre, un anno dalla nascita ovvero dal giorno in cui è tornato nel luogo delle nasci- ta o in quello della residenza familiare, nell’ipotesi in cui fosse lontano, oppure dal giorno in cui è venuto a conoscenza della nascita; per il figlio, un anno dal raggiungimento della maggiore età o dal giorno in cui è venuto, suc- cessivamente, a conoscenza dei fatti. Poiché si tratta di termini di decadenza, essi hanno natura sostanziale non processuale; però la Corte di cassazione (sent. 3 luglio 1999 n. 6874) ha rite- nuto che i detti termini pur avendo natura sostanziale hanno rilevanza proces- suale, per cui ad essi è applicabile la sospensione dei termini durante il perio- do feriale (legge n. 742/1969) soprattutto perché è necessario munirsi di dife- sa tecnica. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 244 cod. civ. nella parte in cui non prevede che il termine decorra dal giorno in cui il mari-

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to è venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie (sent. 6 maggio 1985 n. 134) e nella parte in cui non prevede che il termine decorra dal giorno in cui il padre o la madre sono venuti a conoscenza dell’impotenza di generare del- l’uomo(sent. 14 maggio 1999 n. 170). Se il legittimato attivo è interdetto per infermità di mente i termini sono sospesi fino a che dura lo stato di interdizione, l’azione tuttavia può essere promossa dal tutore (art. 245 cod. civ.). In quest’ultimo caso si potrebbe, forse, pensare che i termini decorrano util- mente per il tutore, che è persona capace (dalla nascita, dalla conoscenza dei fatti o dalla nomina del tutore stesso) per cui decorsi i termini l’azione non potrebbe essere promossa dal tutore, ferma restando la sospensione nei riguardi del diretto interessato; ma questa eventuale idea non sembra avere molto senso, perché contraria alla logica ed ai principi dell’ordinamento giu- ridico; non è possibile che per il rappresentante, che non agisce mai in pro- prio, valga una disciplina diversa da quella che vale per il rappresentato, per cui la sospensione dei termini se opera per il rappresentato opera anche per il rappresentante; l’eccezione posta dal legislatore, che consente al tutore di proporre l’azione anche durante la sospensione, è fondata sulla considerazio- ne che l’infermità di mente potrebbe non cessare mai, per cui rimarrebbe insoddisfatto l’interesse del rappresentato all’accertamento del suo vero sta- tus. Per determinare il momento iniziale della sospensione si deve fare rife- rimento alla data di proposizione della domanda di interdizione, perché il giudizio di interdizione è un procedimento camerale sostanzialmente conten- zioso che si chiude con sentenza e gli effetti della sentenza di interdizione retroagiscono al momento della domanda. Quella prevista dall’art. 245 cod. civ. è l’unica ipotesi di sospensione in quanto l’azione è sottoposta a termini che sono di decadenza non di prescri- zione Presupposto per l’esercizio della azione è che il figlio risulti legittimo dai registri dello stato civile. Il presunto padre naturale non è legittimato all’azione di disconoscimento; in proposito è stata sollevata questione di costituzionalità; la Corte Costituzionale (sent. 27 novembre 1991 n. 429) ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 244 cod. civ. affermando che l’inclu- sione o l’esclusione del padre naturale tra i soggetti legittimati ad agire sono riservate al legislatore, in quanto implicano scelte di politica legislativa discrezionali, anche perché sarebbe necessario disciplinare l’ipotesi della legittimazione di un estraneo al nucleo familiare in modo almeno parzialmen- te diverso dalle altre ipotesi. L’art. 235 cod. civ. dice che “la sola dichiarazione della madre non esclude la paternità”; questa previsione appare giusta perché ammettere il contrario significherebbe attribuire alle dichiarazioni della donna, che è parte proces- suale, il valore di prova privilegiata; le dichiarazioni della madre possono però essere liberamente valutate dal giudice come elemento di prova concor- rente con le altre prove. Le prove sono quelle comuni, comprese le indagini genetiche oggi molto fre- quenti in sede giudiziaria; la dizione letterale del comma primo n. 3) dell’art. 235 cod. civ. sembra attribuire solo al marito la possibilità di essere “ammes-

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so a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo san- guigno incompatibili con quelle del presunto padre, o ogni altro fatto tenden- te ad escludere la paternità”; però la legge va integrata in via di interpretazio- ne ammettendo che anche la madre ed il figlio possano chiedere tutte le prove indicate nel detto n. 3) dell’art. 235, altrimenti si sarebbe in presenza di una incostituzionalità della norma. La sentenza che decide in ordine al disconoscimento di paternità fa stato erga omnes, per cui, sia in caso di rigetto che in caso di accoglimento lo status del figlio resta definitivamente stabilito. Va segnalato che la Corte Costituzionale (sent. 3 febbraio 1994 n 13) ha affermato il diritto del disconosciuto di chiedere al giudice di mantenere il proprio cognome, e ciò sul presupposto che il cognome costituisce parte inte- grante della personalità e quindi diritto fondamentale del singolo. Problemi sono sorti nell’ipotesi di procreazione assistita, che si ha quando, mediante l’ausilio di tecniche biogenetiche e con l’assistenza medica, si addi- viene alla procreazione. Bisogna innanzitutto distinguere l’inseminazione omologa da quella eterolo- ga; è noto che la prima si verifica allorché si usa il seme del coniuge o del partner stabilmente convivente per immetterlo nell’utero e determinare la fusione con il gamete femminile, mentre per la seconda si usa il seme di un donatore estraneo alla coppia. Nessun dubbio esiste, nonostante alcune resistenze di natura morale, in ordi- ne alla liceità delle tecniche di inseminazione omologa; si deve, invero, tene- re presente che i coniugi possono liberamente disporre del proprio corpo, perché non si cagiona una diminuzione permanente dell’integrità fisica, che non si lede alcun principio di ordine pubblico o di buon costume (art. 5 cod. civ.), che essendo il concepimento avvenuto con seme del coniuge, vi è coin- cidenza tra verità legale e verità reale. Anche nel caso dell’inseminazione eterologa si discute della liceità della tec- nica; direi, in sintesi che anche in questa ipotesi si può liberamente disporre del proprio corpo, che l’ipotesi non contrasta con la norma posta dall’art. 5 cod. civ. perché non appare violato un qualche principio di ordine pubblico o di buon costume, e che i rischi paventati (uso del seme di un fratello) esisto- no anche nell’ipotesi dell’adozione, in relazione alla quale il legislatore li ha superati; le uniche remore sono quindi di ordine culturale, morale, religioso. In entrambi i casi si può parlare di esercizio della libertà sessuale e del dirit- to alla procreazione riconosciuto, implicitamente, dagli artt. 29 e 31 Cost. Naturalmente la diversità di fatto non poteva non incidere in ordine all’azio- ne di disconoscimento di paternità; è ovvio che se nel caso dell’inseminazio- ne omologa non si può certo parlare di disconoscimento di paternità a causa della coincidenza tra verità reale e verità legale, lo stesso non può dirsi, inve- ce, per l’ipotesi dell’inseminazione eterologa. Da anni si discute in dottrina e giurisprudenza circa la possibilità per il mari- to che abbia prestato il suo consenso all’inseminazione eterologa di esperire successivamente l’azione di disconoscimento di paternità. La Corte costituzionale (sentenza 26 settembre 1998 n. 347) ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’alt. 235 comma primo n. 2 cod. civ., in riferimento agli arti. 2, 3, 29, 30 e 31 della

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Costituzione, nella parte in cui non preclude l’azione di disconoscimento di paternità del padre che abbia prestato il consenso all’inseminazione artificia- le della moglie. La Corte ha, in sostanza, fondato la propria decisione su un unico argomen- to: la norma in questione ammette il disconoscimento di paternità in tassati- ve ipotesi, quando le circostanze indicate dal legislatore facciano presumere che la gravidanza sia riconducibile, in violazione del reciproco dovere di fedeltà, ad un rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge, per cui essa attiene esclusivamente all’ipotesi in cui la generazione sia conseguenza di un rapporto adulterino; anche la previsione dell’art. 235 n. 2 riguarda esclusiva- mente un rapporto adulterino, mentre nel caso dell’inseminazione eterologa tale rapporto non esiste. Si è osservato che la Corte non ha tenuto presente che l’adulterio può non consistere soltanto in rapporti sessuali con altri, ma potrebbe aversi anche con una attività generativa, diversa dal rapporto sessuale, praticata senza il consenso del marito; in conseguenza, pur ponendo a base della norma l’ipo- tesi dell’adulterio nel senso più ampio che il termine a assunto oggi, avrebbe potuto dichiarare fondata la questione di costituzionalità dell’art. 235 c.c. nella parte in cui prevedendo l’ipotesi dell’impotenza del marito, come pre- supposto del disconoscimento, non ha escluso la possibilità di chiedere il disconoscimento in presenza di un’inseminazione eterologa avvenuta con il consenso del marito; consenso che comporta, appunto, l’inesistenza dell’in- fedeltà della moglie, e quindi dell’adulterio in senso ampio, non soltanto dal punto di vista della sessualità ma anche da quello della procreazione, consi- derata la scissione, nel caso dell’inseminazione artificiale, tra l’atto sessuale e l’atto procreativo. La giurisprudenza di merito, sulla questione in esame, è nettamente divisa. Alcune sentenze affermano la possibilità della revoca del consenso maritale e la possibilità per il marito di proporre azione di disconoscimento, mentre altre negano tale possibilità. È importante tenere presenti due sentenze che sono le più complete come motivazione e sono di segno diametralmente opposto: quella del Tribunale di Cremona del 17.2.1994 e quella del Tribunale di Napoli del 24.6.1999. La sentenza del Tribunale di Cremona ha ritenuto ammissibile l’azione di disconoscimento, sul fondamento delle seguenti argomentazioni: 1) al consenso prestato dal marito non può essere attribuito alcun effetto giu- ridico sull’azione di disconoscimento; infatti ove si ritenga che il dovere di fedeltà derivante dal matrimonio, ex art. 143 secondo comma cod. civ. non va riferito alla sola sfera sessuale ma comprende anche quella genera- tiva, il consenso alla inseminazione artificiale eterologa si tradurrebbe in un consenso alla violazione di quel dovere con la conseguenza che, in quanto relativo ad un dovere indisponibile e non derogabile dalla volontà delle parti, il consenso sarebbe certamente illecito e come tale privo di qualunque rilevanza giuridica; 2) il vigente ordinamento, a parte l’istituto speciale dell’adozione, non con- templa alcun rapporto giuridico di filiazione che sia svincolato dal presup- posto di un corrispondente rapporto biologico di sangue, con la conse- guenza che solo la diretta derivazione genetica è idonea a costituire un

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vero rapporto giuridico di filiazione; 3) non esiste una specifica norma che al consenso riconnetta l’efficacia di escludere l’azione di disconoscimento di quel rapporto biologico di san- gue che costituisce l’imprescindibile presupposto di ogni rapporto giuridi- co di filiazione; 4) al consenso non può essere attribuito il significato di una implicita preven- tiva rinuncia all’azione di disconoscimento perché il diritto all’esercizio delle azioni relative allo status personale è indisponibile e, di conseguen- za, la rinuncia all’azione sarebbe comunque inefficace; 5) pertanto in caso di impotentia generandi del marito, il consenso da lui pre- stato all’inseminazione artificiale eterologa della moglie non è idoneo ad escludere l’azione di disconoscimento, legittimata proprio dalla predetta impotentia generandi. La sentenza del Tribunale di Napoli afferma, invece, con un’interpretazione evolutiva dell’art. 235 cod. civ, l’inammissibilità dell’azione di disconosci- mento di paternità nell’ipotesi di inseminazione eterologa effettuata con il consenso del marito; i motivi che fondano questa sentenza possono riassu- mersi come segue: 1) è possibile ritenere che il presupposto comune ai casi previsti dall’art. 235 cod. civ. è l’assenza, all’interno della coppia, del rapporto biologico, si presuppone, cioè, necessariamente, l’adulterio che però va inteso o come rapporto sessuale, nelle ipotesi di procreazione naturale, ovvero come mancanza di un valido e consapevole consenso e quindi di assunzione volontaria di responsabilità paterna, da parte del marito, nelle ipotesi di procreazione assistita; 2) comunemente si individua la ratio dell’azione di disconoscimento, nella violazione del dovere di fedeltà, e tale violazione si può oggi configurare, con un’interpretazione teleologica dell’art. 235 cod. civ., non solo se la donna abbia generato un figlio con un’altra persona, ma anche se la nasci- ta sia conseguente ad una inseminazione artificiale decisa in modo del tutto autonomo, ed in conseguenza l’estensione dell’azione di disconosci- mento al caso di inseminazione eterologa in cui manca il valido consenso offre una giusta tutela al genitore che si vedrebbe imposto un figlio che non è suo sia dal punto di vista biologico che dal punto di vista della responsabilità per la nascita; 3) viceversa se vi sia stato il consenso all’inseminazione eterologa la mera carenza del rapporto biologico non giustifica la possibilità di offrire ana- loga tutela al padre che, revocando il consenso originariamente espresso, otterrebbe la caducazione della filiazione legittima, facendo valere proprio quello stato di impotenza che costituisce la ragione giustificativa della stessa inseminazione eterologa; in tal caso il ricorso a tale tecnica è stato oggetto di un comune progetto di vita dei genitori e non può certamente configurare una violazione dei doveri coniugali; 4) il presupposto dell’azione di disconoscimento, pertanto deve essere indi- viduato non più nella sola assenza del rapporto biologico tra il presunto padre ed il figlio, e quindi, in modo restrittivo, nel rapporto sessuale della moglie con un terzo, ma nell’assenza di qualsiasi partecipazione del padre al fatto che ha dato origine alla nascita;

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5) viene così evidenziata l’insufficienza del mero substrato biologico al fine dello status di filiazione e si conferma la rilevanza che assume la compo- nente volitiva nei casi di fecondazione eterologa, in quanto il concetto giu- ridico di paternità deve essere collegato non esclusivamente al dato biolo- gico, ma anche al principio di responsabilità per la procreazione e, di con- seguenza, all’aspetto comportamentale sociale ed affettivo; 6) In definitiva la derivazione biologica non può ritenersi un criterio esclusi- vo per la determinazione dei rapporti di filiazione, perché la manifestazio- ne di volontà del padre all’inseminazione eterologa costituisce un atto di responsabilità sostanzialmente equiparabile a quello della generazione per via naturale, quantomeno sotto il profilo della valutazione giuridica del- l’improponibilità dell’azione di disconoscimento; 7) per ammettere tale azione nelle ipotesi di fecondazione eterologa, in cui manca il legame biologico, deve esservi allora necessariamente la conte- stuale assenza anche del dato volitivo, perché in mancanza di tale coinci- denza, l’azione deve ritenersi priva di uno dei suoi indefettibili presuppo- sti. Sulla questione è intervenuta la Corte di cassazione, chiamata a decidere sul- l’appello avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia che aveva con- fermato la sentenza del Tribunale di Cremona. La Corte, con sentenza in data 16 marzo 1999, richiamando la decisione della Corte costituzionale, ha affermato: 1) l’inseminazione artificiale posta in essere con il consenso del marito non è adulterio della moglie, esprime anzi un progetto di maternità basato pro- prio sul rifiuto di ricorrere all’infedeltà coniugale per procreare; 2) in ordine alla possibilità di ammettere che il marito, pur avendo prestato il proprio consenso all’inseminazione, possa proporre azione di disconosci- mento, si deve tenere presente che l’azione, secondo i principi generali, è strumento di tutela di posizioni soggettive, cioè mezzo per reagire contro un’aggressione in corso o potenziale e che, in conseguenza, l’azione medesima ove fosse attribuita, per rimuovere o modificare giudizialmente un rapporto, al soggetto che lo ha liberamente determinato, si tradurrebbe in un’iniziativa contro lo stesso titolare, non conosciuta dall’ordinamento, e comunque estranea al diritto di difesa, quando non venga in discussione la validità dell’atto volitivo; 3) l’impossibilità per il marito di esperire l’azione di disconoscimento, anche sulla base delle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale alla luce degli artt. 2, 30, e 31 della Costituzione, deriva dalla considerazione che le dette disposizioni costituzionali, attinenti alle proiezioni dei diritti inviolabili della persona, ed in particolare del minore, nella società e nel nucleo familiare in cui si trova collocato per scelta altrui, sono le linee guida che devono orientare non solo il legislatore ordinario ma anche l’in- terprete; 4) l’attribuzione del diritto di agire in disconoscimento al padre, anche quan- do abbia prestato a suo tempo consenso alla fecondazione artificiale della moglie con seme altrui, priverebbe il bambino, nato anche per effetto di tale consenso, di una delle due figure genitoriali e del connesso apporto affettivo ed assistenziale, trasformandolo per atto del giudice in “figlio di

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nessun padre”, stante l’insuperabile impossibilità di ricercare ed accertare la reale paternità a fronte del programmato impiego di seme di provenien- za ignota; 5) la nascita di un figlio senza padre può essere subita dall’ordinamento solo ove discenda da vicende di vita non controllabili e non più emendabili; una norma che permettesse il sorgere di detta condizione per mezzo di una statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia deter- minato, o concorso a determinare, la nascita con il personale impegno di svolgere il ruolo di padre, contrasterebbe con i cardini dell’assetto costi- tuzionale e con il principio di solidarietà al quale gli stessi rispondono; 6) pertanto, la Corte conclude affermando che il consenso del marito all’in- seminazione eterologa, espresso in modo certo, anche per comportamento concludente, non rientra in alcuna delle ipotesi di ammissibilità dell’azio- ne di disconoscimento previste dall’art. 235 cod. civ.; il consenso, si dice, costituisce, allora, una nuova forma di procreazione non basata, come quella naturale, sul rapporto sessuale, ma sulla volontà. Questa decisione pone la nostra legislazione, sul piano interpretativo. in linea con le legislazioni internazionali. In realtà, le motivazioni che stanno alla base dell’inseminazione sono infatti identiche a quelle di coloro i quali offrono la propria disponibilità per l’ado- zione e si identificano nel desiderio di avere un figlio che sia tale a tutti gli effetti, superando un’impossibilità di carattere biologico; né si può dire che, nel caso dell’inseminazione, tali motivazioni sussistano per uno solo dei coniugi, in quanto la coppia deve essere considerata unitariamente nel suo desiderio e nella sua impossibilità di procreare in via naturale. Il dato biologico, piuttosto che il fondamento unico della genitorialità, è il criterio primario per l’identificazione dei soggetti responsabili degli obblighi genitoriali, fino a che ad esso non si sovrapponga un criterio diverso, deri- vante, come avviene nell’adozione e come, a buon diritto, si può dire che avvenga nel caso di procreazione artificiale, dalla volontà dei soggetti. Credo si possa dire che l’inseminazione eterologa, posta in essere per volon- tà di entrambi i coniugi, è tutt’altro che adulterio in quanto è un progetto di genitorialità comune alla coppia e fondato sui sentimenti che vivono all’in- terno di essa. Il desiderio di avere un figlio in quanto espressione di esigenze umane pro- fonde ed in quanto sublimazione e completamento dell’amore coniugale, merita riconoscimento e tutela, nello spirito degli articoli 2 e 3 della Costituzione, in particolare nella parte in cui si auspica il pieno sviluppo della persona umana, Quello che è importante è che la scelta della coppia di avere un figlio sia libe- ra e consapevole e che l’ordinamento sappia rispettare la maturità e la digni- tà delle persone, riconoscendo loro il diritto di compiere questa scelta.

6.

a dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità è articolata in due Lautonomi procedimenti (o, se si preferisce, fasi); quello preliminare di ammissibilità dell’azione previsto dall’art 274 cod. civ. e quello successivo

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di merito, previsto dall’art. 269 cod. civ., all’esito del quale può pronunciar- si la dichiarazione. Legittimato attivo è soltanto il figlio; se egli muore l’azione può essere ini- ziata dai discendenti, legittimi, legittimati o naturali (sia riconosciuti che giu- dizialmente dichiarati), però non oltre due anni dalla morte del figlio; l’azio- ne è invece imprescrittibile riguardo al figlio; l’azione può essere proseguita dai discendenti se il figlio muore nel corso del giudizio; i discendenti posso- no esercitare il diritto di agire o di proseguire l’azione in quanto hanno un interesse diretto, agiscono cioè iure proprio non iure hereditatis. Secondo alcuni poiché la norma fa espresso riferimento al termine di due anni per l’inizio dell’azione si deve ritenere che entro il detto termine deve essere instaurato il giudizio di merito non bastando la promozione della fase preventiva dell’ammissibilità; più esatta mi sembra la tesi, sostenuta in sen- tenze della Suprema Corte (Cass. 20\11\1993 n. 3127) secondo la quale, in forza della ritenuta unitarietà tra le due fasi del procedimento si deve ritene- re sufficiente la proposizione del giudizio di ammissibilità entro il detto ter- mine biennale. Qualora il figlio sia minorenne, l’art. 273 cod. civ. prescrive che nel suo inte- resse l’azione può essere proposta l’azione dal genitore esercente la potestà o dal tutore; la giurisprudenza è consolidata nel senso che nel ricorso non è necessario che il genitore dica espressamente di agire nell’interesse del minore, bastando che detta volontà si deduca dal contesto dell’atto (Cass. Sez. Unite 1371\92 e Cass. 1571\1983). Il potere del genitore è stato qualificato ora come un’estensione del potere di rappresentanza spettante ex lege (Cass. 3416\1992), ora quale ipotesi di sostituzione processuale, avendo il sostituto anche un personale interesse all’esercizio della funzione processuale: questa seconda tesi appare preferibi- le in particolare dopo la sentenza additiva n. 341\1990 della Corte Costituzionale che, imponendo la necessaria valutazione della conformità dell’azione all’interesse del minore, ha escluso che detto interesse potesse porsi con carattere di presunzione legale (Cass. 2970\1993). Il tutore deve essere autorizzato dal giudice (quello competente per il giudi- zio) alla proposizione dell’azione; pur dovendosi ritenere che la concessione dell’autorizzazione comporta la necessaria valutazione dell’interesse del minore, è ovvio che l’autorizzazione non elimina la necessità di proporre il preventivo giudizio di ammissibilità; data la coincidenza di competenza, si può ritenere che la domanda di autorizzazione possa essere proposta dal tuto- re con lo stesso ricorso per la dichiarazione di ammissibilità dell’azione, con la precisazione che sull’autorizzazione il giudice deve pronunciarsi prima non contemporaneamente alla decisione sull’ammissibilità dell’azione, in quanto l’autorizzazione è presupposto di proponibilità del giudizio di ammis- sibilità, peraltro reclamabile innanzi alla Corte d’appello ai sensi dell’art. 739 CPC. Il giudice, nel rilasciare l’autorizzazione può nominare anche un curatore speciale indipendentemente da una specifica richiesta in tal senso (art. 273 cod. civ.), e ciò, evidentemente, sia al fine di garantire una miglio- re tutela dell’interesse del minore affiancando al tutore il curatore, e sia al fine di ovviare ad eventuale negligenza o trascuratezza del tutore; la nomina del curatore speciale pertanto può intervenire anche nel corso nel giudizio

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ove se ne ravvisi la necessità. L’art. 276 cod. civ. attribuisce la legittimazione passiva al presunto padre, alla presunta madre, e, in ipotesi di loro decesso agli eredi, i quali sono liti- sconsorti necessari data l’identità di interesse a non veder pregiudicata la rispettiva posizione patrimoniale; se erede universale è lo stesso reclamante l’azione deve proporsi nei confronti di un curatore speciale nominato dal giu- dice (argomento ex artt. 247 cod. civ. e 78 cod. proc. civ.). Se però esistono prossimi congiunti che non sono eredi in quanto l’art. 276 comma secondo cod. civ. stabilisce che “alla domanda può contraddire chiun- que vi abbia interesse”; inoltre, in forza di questa regola i prossimi congiun- ti, pur se non sono legittimati passivi, perché non eredi, possono intervenire nel giudizio con intervento adesivo dipendente sulla base dell’eventuale inte- resse, anche solo di natura morale, che essi abbiano quale membri della fami- glia legittima, a che un estraneo non consegua lo status di figlio naturale. Se il legittimato passivo è incapace dovrà stare in giudizio in persona del suo rappresentante legale in applicazione delle norme generali; e questo vale anche nell’ipotesi di minore ultrasedicenne, come tale legittimato a ricono- scere con atto volontario il figlio naturale (art. 250 cod. civ.), perché vi è una sostanziale differenza tra il potere discrezionale di operare volontariamente il riconoscimento e la capacità di stare in giudizio. L’attuale testo dell’art. 269 cod. civ., al primo comma, ammette l’azione in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento, con eliminazione dei divieti frapposti dalla normativa previgente. In conseguenza i limiti sostanziali di proponibilità previsti per l’azione discendono direttamente dalla normativa specificamente prevista per il rico- noscimento (artt. 250 e segg. cod. civ.); non è, quindi ammessa l’azione qua- lora al soggetto risulti già attribuito lo status di figlio legittimo o legittimato, ed ovviamente adottivo, (art. 253 cod. civ.), lo stesso vale se il legittimato attivo risulti dai registri dello stato civile figlio naturale di persona diversa dal legittimato passivo; in queste ipotesi, al fine di poter esercitare l’azione diretta ad accertare il vero rapporto di procreazione, devono essere prelimi- narmente esperiti i rimedi giuridici volti a dimostrare la difformità dello sta- tus filiationis attuale dalla realtà sostanziale del rapporto di procreazione. L’azione non è ammessa nei confronti del presunto genitore quando questi abbia meno di sedici anni (argomento ex art. 250 ultimo comma) Così come non è ammessa l’azione per la dichiarazione giudiziale relativa- mente a figli nati da relazione incestuosa (vincolo di parentela in linea retta all’infinito ed in linea collaterale entro il secondo grado, vincolo di affinità in linea retta) ad eccezione che nell’ipotesi in cui il rapporto di parentela od affinità fosse ignorato all’epoca del concepimento e dell’ipotesi in cui il matrimonio da cui deriva l’affinità sia stato dichiarato nullo (art. 251 cod. civ.). Altro limite dell’azione è previsto dal secondo comma dell’art. 273 cod. civ. nell’ipotesi di minore ultrasedicenne, perché l’azione non può essere promos- sa in mancanza del suo consenso; nel caso in cui l’azione sia già stata legit- timamente promossa essa non può proseguire se il figlio compie i sedici anni nel corso del giudizio e non presta il suo assenso (ciò in analogia a quanto stabilito per il riconoscimento dall’art. 250, II co. CC).

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La giurisprudenza più recente (Cass. 3721\1998) individua nel consenso e nell’assenso del minore ultrasedicenne un requisito del diritto di azione che integra la legittimazione del genitore, per cui la sua mancanza deve essere rilevata anche di ufficio dal giudice; rilevante al fine dell’accertamento del- l’esistenza del consenso o dell’assenso è il momento della decisione; è ovvio che il giudizi si chiude con una pronuncia non di merito ma processuale, che, accertata l’inesistenza all’origine o il sopravvenuto venir meno di una condi- zione di procedibilità. dichiara l’improponibilità o l’improcedibilità dell’a- zione; è ovvio che l’azione può essere riproposta dal rappresentante legale, ove il consenso venga successivamente prestato dall’ultrasedicenne, o pro- prio da quest’ultimo una volta raggiunta la maggiore età. La prestazione del consenso in corso di causa sana comunque l’originario difetto di legittimazione. Si deve ritenere che il consenso e l’assenso non possano essere dedotti da comportamenti concludenti o dalla mancanza di una chiara manifestazione di dissenso, ma devono risultare espressamente. Le limitazioni poste dalla legislazione ordinaria all’accertamento del rappor- to di filiazione, traggono legittimazione costituzionale dall’ultimo comma dell’art. 30 Cost. che testualmente consente che “la legge detti le norme ed i limiti per la ricerca della paternità”. Sul piano dei rapporti personali alla dichiarazione giudiziale di maternità e paternità naturale consegue l’insorgenza dei diritti e dei doveri individuati, nell’interesse della prole, in persona dei genitori (artt. 147 e 261 cod. civ.), con l’unica limitazione costituita dalla rispetto dei membri della famiglia legittima e della conseguente disciplina dettata dall’art. 252 cod. civ. per l’in- serimento del figlio naturale nella famiglia legittima del genitore. Invero la legislazione vigente parifica la filiazione naturale riconosciuta o dichiarata a quella legittima, legittimata e adottiva, anche sul piano dei dirit- ti ereditari con l’unico limite costituito dal diritto di commutazione ricono- sciuto ai figli legittimi peraltro attuabile solo in ipotesi di mancata opposizio- ne dei figli naturali (art. 536 e 537 CC). Il nuovo sistema, ha, inoltre, stabilito che la prova della maternità e della paternità può essere fornita con ogni mezzo e che la paternità e la maternità naturale possono essere giudizialmente dichiarate in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento; in conseguenza esistono limiti solo per i figli incestuosi, come risulta dagli artt. 251 e 278 cod. civ.; secondo alcuni, gli stessi limiti si estenderebbero alla possibilità di proporre azione per il man- tenimento, però questa interpretazione, tenendo conto della lettera dell’art. 279 cod. civ., a me non sembra corretta. L’azione giudiziale di paternità e maternità è lo strumento giuridico median- te il quale il figlio, nato fuori del matrimonio e non riconosciuto da entram- bi genitori o da uno dei genitori, può ottenere l’accertamento del suo status filiationis con una sentenza che dichiari la filiazione naturale e che produca gli stessi effetti e le stesse conseguenze del riconoscimento volontario. Tra i due istituti la differenza sostanziale consiste nel fatto che il riconosci- mento è fondato su di un atto di volontà del genitore mentre l’azione per la dichiarazione giudiziale ne prescinde. L’equiparazione tra i due istituti voluta dal legislatore evidenzia una maggio-

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re attenzione all’interesse del minore, costituisce riaffermazione, nella legis- lazione ordinaria, del principio costituzionale di tutela del minore, ed attua il precetto, contenuto nell’art. 30 della Costituzione, di responsabilità per la procreazione, del principio che dalla procreazione discendono precise responsabilità per i genitori naturali. Riconoscimento e dichiarazione giudiziale sono due modi autonomi di acqui- sto dello status di figlio naturale, in quanto l’azione non tende a rendere coer- cibile il diritto del genitore di riconoscere il figlio. Poiché il fatto della generazione non è, di per se, produttivo dello status, la sentenza con cui è pronunziata la dichiarazione di paternità o maternità natu- rale, al pari del riconoscimento, non solo accerta il fatto naturale, ma costi- tuisce lo status giuridico del figlio; l’azione, quindi, come del resto tutte le azioni di stato, ha natura sostanzialmente potestativa. Sennonché il senso della così detta paternità responsabile sta a significare che la stessa, oltre ad essere una genitorialità voluta e riconosciuta, deve anche essere una genitorialità degli affetti, educativamente stimolante, pre- sente. In conseguenza, affermare che è sempre nell’interesse del minore essere rico- nosciuto da un padre che lo rifiuti, è un’affermazione per lo meno discutibi- le. È quindi necessario esaminare che cosa si debba intendere, in questa sede, per interesse del minore. Va premesso che l’obbligo per il giudice di valutare l’interesse del minore non era previsto dalla legge; è stata la Corte Costituzionale che con senten- za, chiaramente additiva, (sent. 20 luglio 1991 n. 341) ha dichiarato l’illegit- timità costituzionale dell’art. 274 c.c. nella parte in cui, se si tratta di mino- re infrasedicenne, non prevede che l’azione promossa dal genitore, che eser- cita la potestà, sia ammissibile solo quando sia ritenuta dal giudice rispon- dente all’interesse del minore. Indubbiamente è, spesso, difficile valutare concretamente quale contenuto dare all’espressione interesse del minore, che sembra divenuta una mera clausola di stile, al punto che i presunti padri, al di là delle possibili difese sul problema squisitamente biologico, hanno per lo più adottato, in linea del tutto strumentale, come ultima difesa, per ritardare od ostacolare i procedi- menti in parola, “il non interesse del minore”. Ci si deve chiedere, allora, quali criteri e quali parametri debbano essere posti a fondamento della valutazione relativa alla sussistenza dell’interesse del minore nel giudizio che ci riguarda. Due le tesi estreme contrapposte: la prima afferma che l’interesse sarebbe sempre ravvisabile per il solo fatto di far acquisire al minore un padre, l’al- tre esclude sempre tale interesse perché il minore vedrebbe attribuirsi un padre che non intende riconoscersi ed affermarsi come tale. Per sfuggire una prospettiva meramente formalistica si deve accertare la situazione reale in cui il minore è collocato per potere valutare ed accredita- re le evidenze capaci di integrare l’interesse del minore. Alcune sentenze di merito individuano dei criteri guida per la valutazione dell’interesse: l’aspetto personale (il bisogno psicologico-affettivo di avere un padre, di sapere comunque chi egli sia); l’aspetto sociale (l’utilità di esse-

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re individuato e conosciuto come figlio di una certa persona, tenendo anche conto dell’ambiente in cui il minore vive, della sua identificazione, e quindi della sua età); l’aspetto economico (l’utilità che il minore sia aiutato, nel mantenimento e nella crescita, anche sul piano economico); l’aspetto familia- re-relazionale (situazione in cui si trova o potrebbe venire a trovarsi il mino- re) Altre sentenze di merito hanno sostenuto che l’interesse del minore è sempre sussistente anche soltanto quando l’azione è determinata da esigenze econo- miche. La Cassazione ha ritenuto che l’interesse deve essere riferito alle esigenze globali, presenti e future, di formazione, arricchimento della personalità del minore, nel contesto familiare e socio economico di appartenenza e deve essere ancorato a fatti concreti, quali il benefico ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica del minore, che può essere escluso dall’accer- tata condotta del presunto padre gravemente pregiudizievole al figlio, tale da fondare una pronuncia di decadenza della potestà parentale, ovvero dalla pro- vata esistenza di gravi e fondati rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore, per la sua educazione e per il suo inserimento nel contesto lavo- rativo e sociale. Sono piuttosto numerose le sentenze, sia di merito che di legittimità, nelle quali si afferma che il rifiuto affettivo costante e l’assenza di prospettive di collaborazione in senso parentale dei genitori non sono sufficienti a far rite- nere che l’azione non corrisponda all’interesse del figlio, il quale, comunque, riceve dal solo fatto di sapere e di far sapere chi è suo padre un vantaggio sul piano personale e sociale; anche perché, si dice, la possibilità per il figlio di vedere affermate le proprie radici biologiche, soddisfa l’antico bisogno di conoscere la propria identità, evitando crisi ed angosce esistenziali che, a volte, affliggono coloro che non conoscono entrambe le figure genitoriali. L’accertamento della sussistenza dell’interesse del minore rientra nei poteri d’ufficio del giudice, quali che siano, quindi anche se sono mancate, le alle- gazioni sul punto delle parti. Però il giudice ha anche l’obbligo di accertare se esista l’interesse del minore, e non può basarsi solo sul mero esame, sulla sola audizione delle parti, ma deve assumere adeguate informazioni ed attua- re una vera e propria inchiesta, per cui in mancanza il provvedimento conclu- sivo della fase preliminare sarebbe affetto da nullità. L’esistenza dell’interesse del minore non è una condizione dell’azione, vale a dire una condizione che rende possibile l’esercizio del potere decisorio del giudice e che, come tale, può utilmente sopravvenire anche nel corso del giu- dizio di merito; si tratta invece di un presupposto processuale, assimilabile agli altri requisiti necessari per la valida costituzione e svolgimento del rap- porto processuale; per cui l’accertamento deve essere effettuato esclusiva- mente nella fase di ammissibilità e non nella successiva fase di merito, rima- ne interno al giudizio di ammissibilità e si esaurisce con esso. Si può dire che il legislatore del 1975, ha sopravvalutato i diritti patrimonia- li del minore e sottovalutato i bisogni personali, specie relazionali, in quanto il figlio naturale vanta un vero e proprio diritto all’accertamento, in ogni caso. Solo l’intervento della Corte Costituzionale ha consentito l’inserimento tra i

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poteri del giudice della valutazione della corrispondenza all’interesse del minore, però la Corte non poteva dettare una nuova norma. Tutto resta affidato alla evoluzione giurisprudenziale, sulla quale aleggia sempre la considerazione che il riconoscimento di una paternità o di una maternità attraverso un procedimento contenzioso e non attraverso un atto spontaneo di assunzione dei propri doveri, difficilmente comporterà per il minore l’acquisizione di un ambiente familiare sereno, capace di comprende- re ed appagare il suo bisogno di affetto e di dargli quella sicurezza interiore indispensabile per una crescita armonica. La prova della paternità e della maternità “può essere data con ogni mezzo”; un’unica limitazione prevede la norma: la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del con- cepimento non costituiscono prova della paternità naturale (art. 269 comma 4° c.c.); però sia la dichiarazione della madre sia l’esistenza di rapporti con colui che si assume essere il padre possono essere liberamente valutati dal giudice insieme alla altre prove; tra le quali hanno un loro valore anche le presunzioni giuridicamente valide. È noto che affinché la presunzione sia giuridicamente valida è necessario che un fatto ignoto sia desumibile da fatti noti, secondo un procedimento logico, lineare fondato sull’id quod plerumque accidit (Cassazione 11.6.92 n. 7189), ed in dottrina si ritiene che, ancora oggi, tra gli elementi presuntivi, possono assumere efficacia probatoria la fama ed il tractatus; in proposito si deve tenere presente che il rapporto di filiazione naturale viene esteriorizzato con manifestazioni meno appariscenti e più discrete, rispetto al rapporto di filia- zione legittima; in conseguenza possesso di stato, tractatus e fama, vanno valutati come elementi di giudizio rilevanti ai fini della prova del rapporto di filiazione tra la persona che reclama la paternità naturale e quella alla quale la paternità si chiede sia attribuita. Per quanto attiene alle prove genetiche si è verificata una notevole evoluzio- ne in merito alla loro valutazione come mezzo di prova man mano che il pro- gresso scientifico ha evidenziato un sempre maggiore grado di attendibilità e di certezza delle stesse. Si afferma unanimemente che la moderna scienza “dell’ereditarietà” occupa, tra le posizioni biologiche, una collocazione centrale unificante. Ed il concetto di “ereditarietà” assume una sua specifica rilevanza non solo nel suo ambito scientifico, biologico e medico, non solo nei controversi pro- blemi sociali e culturali implicanti differenze sessuali, razziali, di classe, ma anche a livello giuridico, non potendo il giudice ignorare i progressi della scienza, e nel corso degli ultimi cinquanta anni si è ampiamente dimostrato che l’informazione ereditaria viene trasmessa da una generazione all’altra grazie all’acido deossiribonucleico (DNA). Non tutte le indagini genetiche e prove ematologiche forniscono identici gradi di certezza; la prova dei gruppi sanguigni consente di escludere la paternità, ma non di affermarla in positivo, qualora sia stato dimostrato che non vi è incompatibilità tra i gruppi sanguigni del presunto padre e del figlio, per cui si tratta di un elemento di prova deve essere necessariamente integra- to e va valutato nel contesto di tutti gli elementi acquisiti agli atti. Le prove biologiche, basate sul sistema HDL (prove di isto-compatibilità) e

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le prove del DNA, consentono di affermare in positivo la paternità; il grado di certezza che esse assicurano, pur essendo basato sulla probabilità, è molto elevato potendo raggiungere il 99,99%. In ordine all’ammissibilità di tali mezzi di prova nell’azione giudiziale di riconoscimento di paternità o maternità naturale non ci sarebbe nemmeno la necessità di riferirsi, per analogia, all’art. 235 comma 2°, n. 3 cod. civ., il quale in relazione al disconoscimento di paternità, richiama, come mezzo di prova, le prove biologiche; certo questo esplicito richiamo consente di rite- nere che, anche nel giudizio che ci riguarda, è possibile disporre tali prove ematologiche poiché non avrebbe ragion d’essere un’ammissibilità diversa a seconda del giudizio nel quale la prova deve essere disposta; però anche indi- pendentemente da questo riferimento la prova sarebbe ammissibile perché i progressi della scienza devono sempre essere a disposizione del giudice se gli possono fornire elementi di giudizio. Se la prova in esame deve effettuarsi in persona del convenuto ed è richiesta dallo stesso non sorge alcun problema; se invece viene chiesta dalla contro- parte è necessario che il soggetto su cui deve effettuarsi l’esame presti il pro- prio consenso, perché la volontà di sottoporsi al prelievo ematico, per esegui- re gli accertamenti sul DNA, non è coercibile né esiste sanzione per l’even- tuale atteggiamento di rifiuto. Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce però un comportamento valutabile ex articolo 116 comma 2° cod. proc. civ., ed è giurisprudenza costante, che il rifiuto rientra tra gli argomenti idonei a for- mare il convincimento del giudice, ma deve essere valutato in concorso con altre acquisizioni probatorie. L’esame in parola è possibile anche post mortem e nessun problema sorge allorché degli eredi chiamati in causa prestino il loro consenso; in assenza di tale consenso si discute se esista il così detto “diritto sul cadavere” o sia pre- valente il diritto “all’identità biologica”; ritengo che debba ritenersi preva- lente il diritto alla ricerca dello status. Spesso viene proposta la così detta exceptio plurium concubentium, ossia l’e- sistenza di rapporti sessuali plurimi della madre al tempo del concepimento; l’esistenza di tali rapporti è determinante ai soli fini di ridurre l’efficacia pro- batoria della documentata relazione tra madre e convenuto, ma non esclude la paternità; il giudice dovrà esperire ulteriori indagini e, quasi obbligatoria- mente, ricorrere alle prove biologiche. È ovvio che se il convenuto non dimostra la pluralità di rapporti non si può porre a carico di chi agisce in giudizio l’onere di fornire la prova della insus- sistenza dei fatti; inoltre la prova dovrà essere dichiarata inammissibile qua- lora venga richiesta senza indicazione specifica degli altri uomini, perché implicherebbe altrimenti un giudizio morale dei testi da escutere, sulla con- dotta della donna e non già la dimostrazione dei rapporti intimi. La competenza per materia è regolata dall’art. 38 disp. att. cod. civ., modifi- cato dall’art. 68 l. 184\1983; oggi la competenza spetta al Tribunale per i minorenni o al Tribunale ordinario a seconda che il figlio sia minorenne o maggiorenne. Questa regola ha determinato una serie di problemi a causa della diversità del rito che regge il procedimento davanti alle due autorità giudiziarie, camerale

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per il procedimento di competenza del giudice minorile, contenzioso per il procedimento di competenza del giudice ordinario; si è innanzitutto dubitato della costituzionalità della norma, e sono poi sorti notevoli contrasti sia in ordine alla competenza territoriale del Tribunale per i minorenni, sia in ordi- ne alle norme procedurali applicabili davanti allo stesso Tribunale; indipen- dentemente dalla nuova regola di competenza per materia si sono avuti con- trasti anche in ordine ai rapporti tra le due fasi, quella di ammissibilità e quel- la di merito. Si tratta di questioni che è opportuno esaminare separatamente. La prima questione è facilmente risolvibile: la Corte Costituzionale con sen- tenza di rigetto n. 193 del 1987 ha avallato la legittimità della scelta operata dal legislatore, evidenziando in motivazione che il complesso dei poteri demandati al giudice minorile quando l’azione riguardi un minore, costitui- scono sufficiente motivazione della ripartizione di competenza. D’altronde l’insegnamento della Corte Costituzionale è stato sempre nel senso di affermare la piena discrezionalità del legislatore nella scelta del pro- cedimento attraverso il quale attuare una posizione di diritto sostanziale. Il secondo ordine di problemi ha determinato il sorgere di due tesi nettamen- te contrapposte: una prima tesi individuava il criterio che doveva applicarsi, per radicare la competenza territoriale del tribunale per i minorenni, con rife- rimento al luogo di residenza del minore; questo criterio, si è detto, va privi- legiato per il ritenuto inscindibile collegamento esistente tra competenza per territorio e competenza per materia intese entrambe a garantire la migliore tutela degli interessi del minore; una seconda tesi affermava, invece, che i criteri attributivi della competenza territoriale dovevano essere, trattandosi di procedimento contenzioso siccome attinente allo status, quelli di cui agli artt. 18 e segg.. cod. proc.civ., comuni a tutti i procedimenti contenziosi. La Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 1373 del 1992, ha composto il contrasto giurisprudenziale affermando, in considerazione del carattere contenzioso del procedimento, carattere che non è venuto meno per l’assog- gettamento del procedimento al rito camerale, che sia per la fase preliminare sia per quella di merito, la competenza territoriale per procedimenti relativi a minori va determinata sulla base della residenza e del domicilio del convenu- to; la tutela dell’interesse del minore, si dice, risulta garantita dalla attribu- zione della competenza ad un giudice specializzato e pertanto possono ope- rare i criteri generali disciplinanti la competenza territoriale senza pregiudi- zio per il detto interesse. È opportuno precisare che si tratta, sicuramente, di competenza territoriale inderogabile, come si desume dagli artt. 28 (non derogabilità competenza per territorio per i procedimenti in camera di consiglio) e 70 comma primo n. 3 cod. proc. civ. (cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, per le quali è previsto l’intervento necessario del pubblico ministero) richiamato dal predetto art. 28. Nell’ipotesi in cui nel passaggio dalla fase preliminare alla fase di merito, cambino i presupposti di fatto attributivi della competenza per materia o per territorio, si deve ritenere che la fase di merito possa svolgersi innanzi ad un giudice diverso da quello che ha trattato la precedente fase relativa all’am- missibilità dell’azione (raggiungimento maggiore età, trasferimento residen-

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za del convenuto, errata valutazione della autorità giudiziaria competente nella prima fase). La definizione del rapporto esistente tra le due fasi in cui si snoda la proce- dura per l’accertamento giudiziale della paternità e maternità naturale ha determinato anch’essa contrasti giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento il decreto di ammissibilità doveva qualificar- si quale condizione dell’azione la cui esistenza, come tale, non doveva neces- sariamente precedere l’inizio della fase di merito, essendo sufficiente che intervenisse prima della decisione di primo grado; ciò al fine di evitare che i tempi per pervenire ad una pronuncia di merito si allungassero a dismisura per la previsione di una fase preliminare tutto sommato solo strumentale alla fase successiva e di contenuto assolutamente ridotto, dovendosi effettuare nel corso della stessa un giudizio sommario e probabilistico (Cass. 7518 del 1987). La tesi contraria affermava che il decreto di ammissibilità doveva inquadrar- si nella categoria dei presupposti processuali costituendo elemento integrato- re del potere giuridico di richiedere l’accertamento del rapporto di filiazione e quindi del diritto azione, ponendosi così come requisito indispensabile ai fini della valida costituzione del rapporto processuale, e, in quanto tale, doveva necessariamente precedere il giudizio di merito (Cass. n. 1571 del 1983, n. 5443 del 1981). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 1398 del 1990) sottoli- neando la ratio del preventivo giudizio di ammissibilità, che ha funzione di filtro nei riguardi di azioni temerarie ed infondate, nonché la diversità di oggetto dei due giudizi, ha confermato la validità del secondo orientamento, individuando nel decreto di ammissibilità un presupposto processuale che deve precedere il giudizio di merito e la cui assenza determina l’inesistenza per il reclamante del potere processuale di richiedere l’accertamento del rap- porto di filiazione. Più complicato il discorso relativo al rito da applicare, davanti al tribunale per i minorenni, in seguito alla proposizione della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità; la giurisprudenza e la dottrina hanno oscillato, per molto tempo, tra due opposte tesi che determinavano soluzioni nettamente divergenti e che si fondavano, sul piano del diritto positivo, pre- valentemente su contrastanti interpretazione dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile. Credo di poter dire che questi contrasti sono stati la conseguenza della diffi- coltà, per molti, di abbandonare l’idea che nei procedimenti giudiziari debba esistere necessariamente correlazione tra forma e sostanza, tra struttura e contenuto. Un primo orientamento ha sostenuto che l’art. 38 dopo aver elencato al primo comma una serie di provvedimenti relativi ai minori di competenza del tribu- nale per i minorenni, delinea al secondo comma, con criterio tendenzialmen- te residuale, la competenza del tribunale ordinario, al fine di ripartire la com- petenza tra i due organi giudiziari per i casi non espressamente previsti e che non rientrano nell’ordinaria disciplina del rito; mentre il terzo e quarto comma non hanno riferimento a tutte le ipotesi di cui ai due commi preceden- ti, ma richiamano il procedimento camerale ed il sistema del reclamo soltan-

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to per le ipotesi in cui si sia in presenza di procedimenti di volontaria giuri- sdizione, per cui solo in tali casi sono applicabili; con la conseguenza che per tutti i procedimenti a sostanza contenziosa deve essere applicato l’ordinario rito contenzioso di cognizione. Secondo un diverso orientamento, fondato su una interpretazione dell’art. 38 disp. att. cod. civ. che afferma l’applicabilità del terzo comma a tutte le ipo- tesi previste dai due commi precedenti, il rito camerale si applica indipenden- te dalla sostanza contenziosa o non del procedimento e dalla natura decisoria o non del provvedimento. Questa tesi, prevalente in giurisprudenza, è quella che appare sicuramente preferibile; l’opinione contraria è invero fondata sostanzialmente su di un unico argomento: il terzo comma dell’art. 38 prevedendo il rito camerale si riferiva, nelle struttura originaria dell’articolo, ad ipotesi di procedimenti non contenziosi, quali erano quelle indicate inizialmente nel primo comma, e ad esse deve essere riferito anche dopo le modifiche che hanno inserito nel primo comma l’indicazione dell’art. 250 cod. civ. (art. 219 L 19-5-1975 n. 151) e dell’art. 269 primo comma se trattasi di minori (art. 68 L. 30-5-1983 n. 184), in quanto le dette indicazioni si configurano come norme sulla com- petenza e non sul rito ed in mancanza di una chiara scelta del legislatore per il rito camerale deve applicarsi il principio generale dell’ordinamento proces- suale di correlazione necessaria tra forme processuali contenziose e tutela giurisdizionale dei diritti e status; sennonché nessun artificio dialettico può valere a dimostrare che la dizione letterale del terzo comma dell’articolo 38, “in ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio”, possa ritenersi sganciata dai primi due commi, ed in particolare da una parte del primo comma, perché cosi rimarrebbe sospesa nel vuoto non sapendosi a cosa rife- rire l’espressione “in ogni caso”, e possa avere un significato diverso dal richiamo del rito camerale per tutte le ipotesi ( appunto “in ogni caso”) pre- viste nei commi primo e secondo; certo la lettera del secondo comma non è molto felice nel punto in cui si riferisce alla “competenza di una diversa auto- rità giudiziaria”, però, siccome l’articolo si riferisce soltanto alle autorità giudiziarie ordinarie e non esistono autorità giudiziarie ordinarie diverse dal giudice per i minorenni e dal giudice per gli adulti, è anche facilmente com- prensibile che la detta espressione vale soltanto ad escludere la competenza del giudice per i minorenni; vero è inoltre che nel rapporto tra il terzo comma ed il secondo comma restano escluse le ipotesi rientranti nella competenza del tribunale ordinario nelle quali si debbano applicare le disposizioni del rito a forma contenziosa previsto da specifiche disposizioni di legge, però tale esclusione non si può affermare anche per il rapporto tra il terzo comma ed il primo non esistendo norme che prevedano il rito contenzioso per i procedi- menti di competenza del tribunale per i minorenni; in realtà quella che si con- trasta è un esempio tipico di interpretazione “pregiudiziale”, la quale facen- do leva su una presunta “dimenticanza” del legislatore e partendo da un prin- cipio dogmatico ed astratto, che non trova una sua affermazione specifica ed assoluta in una norma, adegua ad esso l’applicazione concreta della legge finendo con il modificare la volontà legislativa quale risulta dalla lettera e dalla logica interna dell’articolo 38 citato; il che sarebbe possibile solo ove si potesse ritenere costituzionalizzato il principio di correlazione tra forma e

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sostanza, mentre invece qualsiasi discussione in merito, almeno in sede di applicazione giurisprudenziale della legge, è destinata a cadere di fronte alla costante e coerente giurisprudenza della Corte costituzionale il cui insegna- mento è stato sempre nel senso di affermare la piena discrezionalità del legis- latore nella scelta del procedimento attraverso il quale attuare una posizione di diritto sostanziale. Nell’ambito dell’orientamento che ritiene applicabili le disposizioni del rito camerale, interpretando la legge nel senso reso palese dal significato lettera- le delle parole ed in attuazione del principio di indifferenza costituzionale della forma rispetto alla sostanza, si sono delineate in giurisprudenza due posizioni: quella sicuramente minoritaria e meno recente che ritiene applica- bile il rito camerale nella sua integrità senza modificazioni; l’altra che, ferma restando l’applicabilità del rito camerale, afferma la necessità di integrazioni desunte dall’applicazione analogica di disposizioni del rito ordinario, quali ad esempio quelle relative alla competenza territoriale, ai termini ed a volte anche alla forma delle impugnazioni, alle modalità di assunzione dei mezzi di prova, all’applicazione di specifiche disposizioni formali relative all’i- struttoria (quali ad es. quelle relative alla consulenza tecnica). In questa situazione, ed in conseguenza di essa, la Corte di cassazione è inter- venuta, a sezioni unite, (sent. 19 giugno 1996 n. 5629 e sent. 5 agosto 1996 n. 7170) stabilendo, con riferimento specifico all’ipotesi della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale di minori, ma con argomentazio- ni che rendono la sentenza estensibile a tutte le ipotesi in cui si controverta in materia di diritti soggettivi e di status, che: il giudizio, sia di primo che di secondo grado, è soggetto al rito camerale a norma dell’art. 38 disp. att. cod. civ. e non al rito contenzioso ordinario; la forma dell’appello, in applicazio- ne della previsione generale di cui all’art. 737 cod. proc. civ., è quella del ricorso, non della citazione, però il termine per l’impugnazione non è quello di dieci giorni previsto dall’art. 739 comma secondo cod. proc. civ., bensì quello proprio delle sentenze di rito ordinario di trenta giorni dalla notifica- zione, o di un anno dalla pubblicazione, secondo la previsione degli artt. 325, 326 e 327 cod. proc. civ., calcolando il termine iniziale alla data di notifica del provvedimento, o di pubblicazione dello stesso con il deposito in cancel- leria, ed il termine finale non alla data di notifica del ricorso bensì alla data di deposito del ricorso notificato nella cancelleria dell’ufficio giudiziario di secondo grado; l’assunzione dei mezzi prova può essere delegata dal collegio ad uno dei giudici che lo compongono, fermo restando che la competenza in ordine all’ammissibilità ed alla rilevanza dei mezzi di prova appartiene esclusivamente all’organo collegiale. La sentenza delle Sezioni unite conferma l’indirizzo consolidato in ordine alla forma ed ai termini delle impugnazioni in materia di separazione e divor- zio, (Cass. 13 dicembre 1994 n 10614) per cui, secondo l’interpretazione giu- risprudenziale, esiste oggi, in materia di separazione, divorzio, dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, una disciplina unica in virtù della quale la forma è quella propria del rito camerale, per le modalità di assunzione delle prove si applica il principio generale secondo il quale un giudice può essere delegato alla raccolta degli elementi probatori, mentre per i termini dell’ap- pello e per la competenza territoriale si applicano le disposizioni del rito di

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cognizione ordinario; ciò vale, senza possibilità di dubbi, anche per l’ipotesi prevista dall’art. 250 comma 4° cod. civ., essendo identici i presupposti: pro- cedimento camerale in cui si controverte in materia di diritti soggettivi e di status familiari, che si chiude con un provvedimento (sentenza) avente carat- tere decisorio e che in quanto tale è ricorribile in cassazione ai sensi dell’art 111 Cost.; vale parimenti, dovendosi decidere (con decreto decisorio) su una pretesa creditoria e sul corrispondente obbligo, con conseguente regolamen- tazione del relativo rapporto giuridico obbligatorio, nell’ipotesi prevista dal- l’art. 279 primo comma cod. civ., che rientra nella competenza del tribunale per i minorenni a norma dell’art. 34 disp. att. cod. civ. L’orientamento giurisprudenziale e di parte della dottrina favorevole, in ade- renza al costante insegnamento della Consulta, all’applicabilità del rito camerale nelle ipotesi considerate innesta nel processo camerale correttivi tratti dall’applicazione analogica di norme del rito ordinario, per cui si inqua- dra nello stato d’animo della giurisprudenza, sicuramente non recente, ten- dente a rivalutare il momento giurisprudenziale del diritto, sia in conseguen- za di particolari caratteri della produzione legislativa, sia in conseguenza di ritardi legislativi e di carenze nella legislazione. Si determina, così, un procedimento che è un misto di rito camerale e rito contenzioso, in conseguenza, si dice (sent. n. 5629 del 1996), della volontà legislativa di inserire le dette ipotesi “tra i cd. procedimenti a contenuto oggettivo, caratterizzati dal rilievo riconosciuto ai poteri del giudice”. È noto che con la definizione procedimenti a contenuto oggettivo ci si riferi- sce ad una particolare categoria di procedimenti nei quali si tende all’attua- zione in concreto di una tutela, di situazioni giuridiche private, che la legge appresta non soltanto al fine di garantire la correttezza dell’autodetermina- zione privata, la regolamentazione dei rapporti giuridici e l’ordinato svolger- si della vita sociale, bensì anche al fine di soddisfare un interesse pubblico e superindividuale che sta o viene meno secondo che sia realizzato o violato l’interesse del singolo cui quello pubblico si connette; interesse pubblico che è più o meno importante, in una scala di graduazione che giunge fino all’at- tribuzione della legittimazione attiva al pubblico ministero o del potere di iniziativa di ufficio al giudice (art. 336 cod. civ.) nelle ipotesi in cui maggio- re è la rilevanza legislativamente riconosciuta all’interesse medesimo o minore il grado di soddisfacimento dello stesso. Si tratta di procedimenti che hanno ad oggetto una pluralità di interessi e che proprio per questo l’ordina- mento ritiene di non poter “soggettivare”; di procedimenti quindi nel corso dei quali, pur avendo essi ad oggetto diritti lesi o comunque insoddisfatti per attività od omissioni di soggetti diversi dal destinatario della tutela, la situa- zione va conosciuta e valutata dal giudice in considerazione ed accertamento anche di altri interessi che l’ordinamento considera strettamente collegati a quelli facenti capo al singolo soggetto destinatario, diretto o indiretto, della tutela. In effetti, l’adesione alla tendenza alla creazione della regola in via di inter- pretazione giurisprudenziale è resa indispensabile, e quindi va condivisa, dalla considerazione che, nelle ipotesi in cui il procedimento è a sostanza contenziosa avendo ad oggetto diritti soggettivi o status, il rito camerale minorile, se non opportunamente integrato, non reggerebbe al vaglio di costi-

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tuzionalità, in quanto l’attuazione del diritto di difesa (art 24 Cost.) e del principio del contraddittorio (art. 111 Cost.) è possibile solo con un’interpre- tazione, detta appunto costituzionalizzatrice, la quale comporta, per gli spe- cifici adattamenti ritenuti necessari, aggiunte estranee al dato normativo di base tali da determinare un iter del procedimento camerale diverso da quello disegnato sia dalle norme di carattere generale che dalle norme relative ad ipotesi particolari. In conseguenza, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, esiste oggi una disciplina unica che riafferma l’idoneità della procedura camerale ad essere utilizzata al fine della tutela giudiziale dei diritti soggettivi, con i dovuti adattamenti in tema di diritto di difesa e contraddittorio, facoltà di prova, sistema d’impugnazione, stabilità della decisione. Il che non costituisce una novità, in quanto l’ordinamento conosce vari casi in cui la procedura in camera di consiglio è disposta anche in presenza di ele- menti della giurisdizione sostanzialmente contenziosa, e casi in cui il proce- dimento contenzioso ordinario è utilizzato anche per rapporti non contenzio- si; si tratta di una scelta legislativa non sindacabile a livello costituzionale per il principio di indifferenza costituzionale della forma rispetto alla sostan- za del procedimento.

7.

possibile proporre azione di impugnazione del riconoscimento, ai sensi Èdegli artt. 263 e segg. cod. civ., solo quando il riconoscimento stesso è viziato per difetto di veridicità (art. 263 cod. civ.), per violenza (art. 265 cod. civ.), per l’incapacità derivante da interdizione (art. 266 cod. civ.). Se il fondamento dell’azione è il difetto di veridicità l’azione è imprescritti- bile, e non è rilevante, nemmeno nel caso in cui l’azione sia promossa dal- l’autore del falso riconoscimento, che egli fosse a conoscenza della non veri- dicità del riconoscimento stesso. Oltre che da colui che ha effettuato il riconoscimento l’azione può essere pro- mossa da colui che è stato riconosciuto al raggiungimento della minore età o anche prima se v’è autorizzazione del Tribunale per i minorenni che nomina un curatore speciale (su richiesta del minore ultrasedicenne, del pubblico ministero, del tutore o del genitori che ha validamente riconosciuto, art. 264 c. c.); nel caso di difetto di veridicità legittimato attivo è chiunque vi abbia interesse; se il legittimato attivo è interdetto l’azione può essere promossa dal tutore. Se l’autore del riconoscimento muore senza aver promosso l’azione, ma prima che sia scaduto il termine annuale, legittimati sono gli ascendenti, i discendenti o gli eredi (art. 267 cod. civ.). Legittimati passivi, considerato che ogni riconoscimento è autonomo e l’im- pugnazione di uno dei riconoscimenti non coinvolge quello dell’altro genito- re, saranno: se ha agito il genitore il figlio, a cui dovrà essere nominato dal tribunale, se minorenne, un curatore speciale; se ha agito il figlio il genitore che ha operato il riconoscimento; se ad agire è un terzo legittimati passivi saranno sia il figlio che il genitore. L’altro genitore, in ciascuno dei casi indicati, potrà, se riterrà, intervenire in giudizio.

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L’interesse di cui deve essere portatore colui che agisce può essere sia di natura morale che patrimoniale, purché rivesta il carattere dell’effettività e dell’attualità. La competenza a decidere appartiene al tribunale ordinario del luogo in cui si trova il minore, anche se da alcuni è stato sostenuto che competente dovrebbe essere il tribunale del luogo in cui è stato effettuato il riconosci- mento. Il regime delle impugnazioni in materia di riconoscimento di figlio naturale non ha subito modifiche sostanziali a seguito della riforma del diritto di fami- glia del 1975, per cui permane nell’impianto normativo l’affermazione della prevalenza della famiglia legittima, in quanto l’azione può essere proposta anche a distanza di molto tempo dal riconoscimento ed esiste una vasta gamma di legittimati attivi, al contrario di quanto è prevista per il discono- scimento di paternità. Si viene, così, a determinare una incertezza, se non permanente almeno di lunga durata, in ordine allo stato di figlio naturale, il quale può perdere il pro- prio stato anche a distanza di molto tempo dal riconoscimento, con tutte le conseguenze di ordine psicologico e pratico, che, soprattutto su un minore, tale cambiamento può determinare. Nessun termine è previsto per l’impugnazione per difetto di veridicità essen- do l’azione imprescrittibile nei riguardi di tutti i legittimati attivi; negli altri casi è previsto il termine di un anno, che decorre dal momento in cui è ces- sata la violenza ovvero dalla sentenza che revoca lo stato di interdizione; se autore del riconoscimento è un minorenne il termine comincerà a decorrere non dalla cessazione della violenza, ma dal raggiungimento della maggiore età se la violenza è cessata in precedenza. Qualora la violenza non sia cessata o l’interdizione non sia stata revocata prima della morte della persona che ha effettuato il riconoscimento si deve ritenere che il termine di un anno decorra per i suoi ascendenti, discendenti ed eredi dalla data della morte. È stato osservato che nel caso dell’interdizione quando la morte intervenga prima della revoca non v’è più alcun termine cui fare riferimento; a me sem- bra, per non ammettere disparità non spiegabili, che, venuta meno la legitti- mazione del rappresentante legale, la legittimazione stessa passi ai soggetti indicati dall’articolo 267 cod. civ. ed, in questo caso, in mancanza di termi- ne speciale, e per non far restare sempre sospesa la minaccia dell’annulla- mento, si dovrebbe applicare il principio generale della prescrizione quin- quennale, propria di tutte le azioni di annullamento. Allorché legittimato attivo sia il tutore non vi è limite per proporre l’azione. Nel corso del giudizio il giudice ha la facoltà di pronunciare i provvedimen- ti nell’interesse del figlio (la legge non specifica, però sembra chiaro che si debba trattare di provvedimenti temporanei); la lettera della norma (art. 268 cod. civ.) è talmente ampia da consentire al giudice di adottare misure che rispondano sia alle esigenze morali che a quelle materiali del figlio. (Si è osservato che il giudice, avuto riguardo all’esclusivo interesse del figlio, potrebbe, ad esempio, disporre in ordine all’esercizio della potestà e alla convivenza, facendo eventualmente tornare il figlio minore a convivere con l’altro genitore che lo abbia già riconosciuto. L’impugnazione del rico-

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noscimento potrebbe, inoltre, essere annotata, per ordine del giudice stesso, sugli atti iscritti o trascritti dai quali risulti il riconoscimento impugnato, così come potrebbe essere disposta la sospensione della trascrizione o della anno- tazione del riconoscimento impugnato.). Nell’ipotesi in cui sia accolta l’impugnazione si deve distinguere il caso del difetto di veridicità da quello di violenza o interdizione. Nel primo caso alla perdita dello stato da parte del figlio consegue anche l’impossibilità da parte di colui che aveva effettuato il riconoscimento di pro- porne uno nuovo considerato che l’accoglimento dell’impugnazione accerta la falsità della filiazione. Negli altri due casi, invece, pur determinandosi la perdita dello stato da parte del figlio, poiché non è messa in discussione la veridicità della filiazione, ma la genuinità e libertà della volontà espressa nella dichiarazione con cui si effettua il riconoscimento, nulla impedisce che colui il quale aveva effettua- to il riconoscimento impugnato, possa riproporlo. L’azione di impugnazione del riconoscimento è stata diversamente qualifica- ta a seconda delle teorie che si seguono in relazione alla natura giuridica del riconoscimento. Coloro che ritengono il riconoscimento un negozio giuridico, inquadrano l’a- zione di annullamento nell’ambito della patologia del negozio e, più specifi- camente, nell’ambito dei vizi dell’oggetto, ritenendo che l’oggetto sia rap- presentato appunto dal riconoscimento. Coloro che, invece, ritengono il riconoscimento un atto di accertamento costitutivo, collocano l’impugnazione per difetto di veridicità nell’ambito delle azioni di stato. È stato osservato che l’esistenza di una norma deputata a porre nel nulla il riconoscimento, in particolare per il difetto di veridicità, conferma la natura di atto di accertamento dello stesso e consente di ritenere irrilevanti gli stati soggettivi dell’autore stesso; in effetti l’ordinamento non da rilievo ad altri vizi della volontà, come l’errore, il dolo e quello connesso all’incapacità di intendere e di volere non risultante da interdizione, ai quali non ricollega alcuna conseguenza escludendoli dal novero dei casi tassativi nei quali può attivarsi l’azione di impugnazione del riconoscimento. Alcuni autori hanno ritenuto che all’impugnazione del riconoscimento sia applicabile la disposizione di carattere generale contenuta nell’art. 428 cod. civ., per effetto della quale gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, sia stata incapace d’intendere e di volere al momento dell’atto, sono annullabili ad istanza della stessa, qualora le abbiano causato grave pre- giudizio; questa tesi non può essere condivisa considerato che l’art. 266 cod. civ. contiene una disciplina specifica che rende inapplicabile l’art. 428 cod. civ. e che diversi sono i presupposti che fondano i due istituti: nell’ipotesi prevista dall’art. 428 cod. civ., infatti, è richiesto per l’annullamento la sus- sistenza di un grave pregiudizio, nell’altro caso, invece, non è richiesta la sussistenza di alcun pregiudizio particolare per l’autore del riconoscimento, essendo determinante il vizio del volere che è rappresentato dalla condizione d’interdizione. In riferimento alla norma che prevede l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità più volte sono state sollevate questioni di legittimità

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costituzionale, tutte rigettate dalla Corte Costituzionale la quale ha sempre ritenuto conforme ai principi costituzionali una regolamentazione tendente a ricondurre alla verità situazioni che da questa si discostavano. Per quanto attiene all’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridi- cità e per interdizione non mi sembra che vi sia nulla di particolare da segna- lare; per quanto attiene all’impugnazione per violenza è opportuno precisare che è necessario rifarsi alle norme di cui agli articoli 1434 e segg cod. civ.; si avrà, quindi, violenza quando si determinerà in una persona di media ener- gia psichica il timore di esporre se stessa o i membri della propria famiglia a un danno di considerevoli proporzioni. anche la violenza nei confronti dei terzi potrà essere considerata ma, ai sensi dell’art. 1436 cod. civ., la valuta- zione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Nel caso di impugnazione per difetto di veridicità sono ammissibili tutti i mezzi di prova, ad eccezione della confessione e del giuramento. Sempre in relazione al difetto di veridicità, la Corte Costituzionale (sentenza n. 158 del 1991) ha osservato che i vincoli del presunto genitore nei confron- ti del presunto figlio, venutisi a determinare con il falso riconoscimento, non causano violazione di norme costituzionali; in quanto l’inderogabilità dei doveri di solidarietà nella formazione sociale costituita dalla famiglia, di cui agli articoli 29 e 30 Cost., non è invocabile quando il legame familiare venga meno perché privato del fondamento della verità della filiazione.

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LA FAMIGLIA - “È un’organizzazione di relazioni primarie fondata sulla differenza di genere e sulla differenza tra generazioni e che ha come obiettivo e proget- to intrinseco la generatività.” (Cigoli) - Nasce e si costituisce all’interno di un CONTESTO socio-culturale - Il campo emozionale della famiglia è sempre trigenerazionale - La capacità della famiglia di cambiare e di adattarsi alle situazioni, met- tendo in gioco modelli interattivi nuovi distingue una famiglia “normale” da una “patologica” - Obiettivo della famiglia è riuscire a realizzare i compiti specifici di ogni stadio del Ciclo Vitale - Lo stress familiare è più intenso ai punti di transizione da uno stadio all’altro; difficoltà compaiono in occasione di interruzioni o disorganizza- zioni nella evoluzione del ciclo di vita familiare

FILM CONSIGLIATI: Il padre di famiglia, La famiglia, LA FAMIGLIA NORMALE ED IL Sul lago dorato SUO CICLO VITALE - LA COPPIA FORMAZIONE, SVILUPPO E CRISI - La prima fase cruciale della costru- zione della coppia è la scelta del DEL RAPPORTO DI COPPIA - partner - La seconda fase cruciale è il pro- LA GENITORIALITÀ - cesso di differenziazione dalle famiglie di origine COPPIA E FAMIGLIA NEL - Nella relazione coniugale il patto di reciprocità consiste nell’incontro PROCESSO DI SEPARAZIONE con la differenza dell’altro - Il compito di sviluppo nella relazio- ne coniugale è che ciascuno si pren- da cura dell’altro nella sua unicità e differenza DR.SSA - Il patto viene meno quando i bisogni dei due partners sono disattesi, quan- LILIA do ciascuno tenta di realizzare un dominio sull’altro GAGNARLI Differenza tra coppia coniugale e coppia genitoriale - PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA, DIDATTA DELL’ISTITUTO DI FILM CONSIGLIATI: TERAPIA FAMILIARE DI FIRENZE John e Mary, La famiglia, Donne con le gonne, I vitelloni

LA GENITORIALITÀ - Il desiderio di un figlio nasce per l’uomo e per la donna dal riconoscimen- to di una mancanza: per l’uno di ammettersi finito nel tempo, per l’altra di sentirsi incompleta nello spazio

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- La coppia sarà capace di accettare un nuovo bambino quando è stata capa- ce di accettare le parti nuove che l’altro apporta - È cruciale che la coppia possa desiderare dei figli senza che siano indi- spensabili e che i genitori possano quindi proiettare sui figli un desiderio che non sia un bisogno - Compito dei genitori è individuare uno stile educativo autorevole in grado di mantenere equilibrio tra gli atteggiamenti estremi della trascuratezza o dell’autoritarismo o dell’iperprotettività senza norme - La cornice che il patto genitoriale assicura ai figli si fonda sulla protezio- ne dal pericolo e sulla spinta affettuosa ad esplorare il mondo - Con la nascita di un bambino tutti i membri della famiglia, sia nucleare che allargata, ‘salgono’ di una generazione: difficoltà ad accettare questo salto - rischio da evitare essere coetanei

FILM CONSIGLIATI: Fanny e Alexander, L’attimo fuggente, Mignon è partita, Voglia di tenerezza

PROCESSO DI SEPARAZIONE Come coniugi: - Continuare ad avere fiducia nel valore del legame ed in se stessi come degni di legame - Elaborare il divorzio psichico e le perdite relative alla separazione - Riconoscere il proprio contributo al fallimento coniugale Come genitori: - Continuare ad essere entrambi genitori - Rispettarsi reciprocamente nei ruoli di padre e madre - Favorire l’accesso dei figli all’altro genitore e alla sua famiglia di origine - Instaurare un rapporto di cooperazione - Ridefinire i rapporti con le rispettive famiglie di origine FILM CONSIGLIATI: Kramer contro Kramer, Spara alla luna

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l tema che mi è stato assegnato, è un tema che non amo; e dirò anche per- ché,. Non lo amo perché è un tema che ancora affonda le sue basi in una Iserie di equivoci. La riforma del 1975 ha semplicemente cambiato una bella parola, “patria potestà”, in una brutta parola, “genitoriale” Intendiamoci; era assolutamente necessario che fosse affermato il principio di eguaglianza tra i genitori, e quindi occorreva adeguare anche questo isti- tuto ai motivi che hanno indotto il legislatore a prendere atto che il vecchio sistema, quello fondato sulla autorità del marito, titolare della potestà, mari- tale e patria, fosse sostituito da una titolarità e da un esercizio che spettasse in modo assolutamente eguale ai genitori; solo che è rimasta la parola più brutta, cioè “potestà”. Sembrerebbe quasi che la preoccupa- zione del legislatore del ‘42 sia stata quella di adeguarsi al principio di eguaglianza, ma senza nessuna sensi- bilità per il primo dei due termini, “potestà”. LA POTESTÀ GENITORIALE: Questo controsenso di un istituto che è stato riformato in ordine alle persone TITOLARITÀ, CONTENUTI che ne sono titolari e che lo esercitano, ma che non è stato riformato in ordine ED ESERCIZIO al contenuto, impone all’interprete una grossa opera di riconsiderazione dell’insieme; ed è per questo che esso può risultare un ottimo banco di prova per coloro, ed in primo luogo gli avvocati, “familiaristi”, che si trovano nella PROF. necessità di utilizzare comunque una serie norme, quelle del Titolo IX, (del FRANCESCO libro I del codice civile), sulla cosiddetta “potestà dei genitori”, in modo tale DONATO da adeguarla alle esigenze della situazione attuale, a cominciare da una cor- BUSNELLI relazione con la Costituzione. In vero, un istituto così autoritario come la potestà genitoriale, non trova con- ORDINARIO DI DIRITTO CIVILE – forto nelle norme della Costituzione. Le norme della Costituzione si occupa- SCUOLA SUPERIORE DI STUDI UNIVERSITARI no del problema, del rapporto genitori-figli, ma non menzionano la potestà. EDIPERFEZIONAMENTO L’art. 30 parla di un dovere e diritto dei genitori, di mantenere, istruire ed “S.ANNA” DI PISA educare i figli; ed evidentemente questa norma può essere completata pen- sando di individuare un diritto dei figli minori a essere educati, istruiti e man- tenuti. Si delinea quindi non tanto quello schema potestà-soggezione che ancora oggi l’art. 316 cc. evoca, ma uno schema di rapporto più articolato. In secondo luogo, la disciplina codicistica ha a che fare con un minore che, in altre occasioni, ho chiamato un minore “imbalsamato”;: ossia, l’art. 316 non fa differenza tra il neonato e il diciassettenne: sono, entrambe tali situa- zioni, accomunate da questo concetto di soggezione. L’autorevole civilista che ha introdotto la moderna dottrina del diritto della famiglia, Antonio Cicu, faceva questa riflessione: in fondo, “se noi potessi- mo parlare del minore come oggetto, potremmo dire che i genitori hanno un diritto di proprietà sul minore”. Il minore è, appunto, oggetto. Lo si dice

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anche in altre trattazioni dottrinali: un manuale che ancora va per le mani degli studenti parla del minore come “colpito da incapacità generale e totale di agire “ (F.Messineo), come se ci fosse un morbo che lo assale di fronte al quale non si può difendere. La Costituzione non prevede niente di tutto questo, mentre il Codice, pur riformato nel 1975, sembrerebbe ricondurre tutto alla potestà dei genitori, perché tale è la rubrica del Titolo IX. Sembrerebbe quindi inevitabile che i che i principi costituzionali dovessero essere veicolati attraverso l’istituto autoritario della potestà dei genitori. Ora, dico subito che la mia opinione non è assolutamente affine a certe con- cezioni, per così dire, liberatorie, che ci sono pervenute dall’ambiente di oltreoceano; ossia le idee, lato sensu libertarie, che contrappongono allo schema della potestà dei genitori, dove appunto c’è l’autorità dei genitori e la soggezione del minore, la situazione esattamente contraria. I figli andrebbero tutelati nella loro assoluta capacità, libertà e diritti corre- lativi; i genitori sarebbero per così dire a loro servizio. Orbene, questa concezione non è accettabile nel nostro ordinamento perché è una concezione che postula quella che in un sapido libretto è stata definita la “morte della famiglia” là dove l’individualismo richiede un sacrificio delle dimensioni comunitarie, delle quali è espressione la famiglia, così che il minore diventa portatore di libertà, di diritti, che non entrano in rapporto, in dialogo, in relazione con i genitori. Ecco, noi assistiamo oggi a questa polarizzazione di fondamentalismi: da una parte quel fondamentalismo che sembrerebbe essere rimasto con il mero ritocco dell’eguaglianza tra i genitori nel nostro Codice Civile, dove tutto è potestà dei genitori e niente è libertà dei figli; e il polo opposto che ci pro- viene da riflessioni nelle quali, passando attraverso la eliminazione della famiglia come comunità e guardando agli individui, si vede nel minore un soggetto portatore di tutte le stesse libertà e di tutti gli stessi diritti che pos- sono avere gli altri individui. Entrambe queste posizioni, la prima che sembrerebbe trovare radici nel Codice, la seconda che invece è estranea ai nostri principi anche costituzio- nali, mi lasciano veramente perplesso, posto che il discorso difficile dei rap- porti genitori-figli va, secondo me, visto sulla base di una serie di valutazio- ni articolate che cercherò di proporre.

2.

nzitutto non è pensabile ricorrere a questo concetto che il Codice sembra Aancora somministrarci in modo monolitico, a prescindere dalla età del minore. Occorre finalmente prendere atto che il minore non esiste, ma esisto- no delle persone che possono essere e sono già dai documenti internazionali, qualificati come neonato, come fanciullo, come adolescente (i francesi parla- no a questo proposito dei “grands enfants” per definire gli adolescenti che stanno per diventare maggiori di età); e determinati aspetti delle regole che possono andar bene per una certa fascia di età, possono non andar bene per un’altra fascia. Poi occorre tener conto di un altro aspetto: non si può evitare la ricerca di una

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volontà individuale dei minori. Quando si parla di soggezione e si bolla que- sta situazione con una incapacità legale assoluta, si intende dire che la volon- tà del minore è irrilevante, il che cozza non soltanto contro l’evidenza della realtà sociale, ma cozza anche contro una serie di determinazioni normative che impongono una revisione di quello che io chiamerei un dogma, ossia il dogma del minore come oggetto della potestà dei genitori. Nella recente legge sull’adozione. (L. 149/2001), il giudice è obbligato a sentire l’adottan- do, anche al di sotto dell’età per la quale è previsto il suo consenso; e lo deve sentire in relazione alla sua “capacità di discernimento”. Orbene, questo prin- cipio della capacità di discernimento, non si può conciliare facilmente con la incapacità legale assoluta: abbiamo paradossalmente un soggetto bifronte, che da una parte è legalmente incapace, in modo assoluto, e dall’altra parte ha una capacità, sia pure di semplice “discernimento”. Ma anche all’interno del nostro Codice riformato nel ‘75, noi abbiamo una norma che spesso viene trascurata, l’art. 147: il quale dice che il matrimonio impone ad ambedue i genitori l’obbligo di mantenere, istruire, educare la prole, tenendo conto delle “capacità”, oltre che delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni, dei figli. È ancora il paradosso di un soggetto, il minore, che è incapace, ma ha delle capacità. Questo conflitto è dunque interno alla stessa sistematica del Codice: come fa un soggetto ad essere assolutamente incapace e avere delle capacità? Sì potrà obiettare che quando si parla di capacità al si vuol fare riferimento a capacità naturali, al fatto appunto che il minore manifesta delle attitudini; ma allora la replica è semplice: non esiste forse nel Codice una norma (l’art. 428)che prende in considerazione il soggetto capace di intendere e di volere anche se non è legalmente capace? Non solo, ma il minore appare “maltrattato” dal Codice attuale, perché, ai fini dell’imputabilità del fatto illecito, guarda caso, è responsabile, sol che sia capace di intendere e di volere; certo, c’è la responsabilità solidale di coloro che ne hanno la protezione, i genitori, ma è responsabile. Però è inca- pace per tutto ciò che può significare una scelta di vita: per questo è incapa- ce. Quindi lo si “penalizza” attraverso una responsabilità, ma gli si preclude la possibilità di esprimere le proprie scelte. Ecco allora che l’istituto della potestà dei genitori deve essere, a livello di interpretazione, riletto, evitando di ritenere in partenza che, per così dire, la potestà e la soggezione siano lo schermo che nasconde tutto il diverso atteggiarsi del rapporto genitori-figli. Quindi bisogna disarticolare l’istituto in due direzioni: da una parte, per così dire, in una direzione verticale, la potestà dei genitori avrà un ruolo diverso a seconda dell’età del minore; e in secondo luogo in una direzione orizzonta- le, occorre vedere quali sono le situazioni soggettive che vengono in consi- derazione e, per esempio, distinguere tra situazioni patrimoniali e situazioni personali, perché non sembra logico che l’istituto funzioni nello stesso modo quando, per esempio, si tratti di vendere o acquistare un appartamento di pro- prietà del minore e quando si tratti di fare una scelta in ordine a un interven- to sanitario o chirurgico.

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presupposti per questa riconsiderazione indubbiamente ci sono. Li possia- Imo cogliere, guarda caso: e anche questo sembra un paradosso, proprio nell’”alfa” e nell’”omega” della disciplina dettata dal Titolo IX del libro I del Codice Civile. Con questo termine apparentemente omogeneizzante di potestà dei genitori, l’art. 315 c.c., riformato dice che il figlio deve “rispettare” i genitori (e ciò era affermato anche nella formulazione originaria della norma ove però si aggiungeva che deve anche “onorare” i genitori: si parlava di norma minus quam perfecta); ma con la riforma si aggiunge che il figlio deve “contribui- re”, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa. Il discorso è molto impegnativo, perché siamo di fronte a un figlio il quale deve contribuire, non è più pertanto in una situazione di soggezione: è mem- bro della famiglia, perché l’obbligo di contribuzione lo troviamo anche nella disciplina dei diritti e doveri tra i coniugi; e, allora, diventa particolarmente interessante prendere atto che l’obbligo di contribuzione riguarda i coniugi tra di loro, ma riguarda anche il rapporto genitori-figli. Si pongono quindi le basi per la ricostruzione di una comunità, una comunità i cui membri sono tenuti ad osservare obblighi e diritti; dunque l’immagine, per così dire alla Cicu, di un minore oggetto, quasi oggetto di un diritto di proprietà, si scolo- ra di fronte a una norma di questo tipo. Certo questa norma riguarderà per lo più i “grands enfants”, (o i figli che hanno raggiunto la maggiore età); però potrebbe anche riguardare il fortunato ereditiero lattante, il quale, viene assoggettato ad una logica di contribuzione in ragione delle sostanze. La norma di chiusura, che qui interessa è l’art. 333 c.c., una norma dalle potenzialità infinite, che già è stata “scoperta” dalla giurisprudenza, ma forse ancora non a sufficienza. La norma dell’art. 333 è nata come sanzione, sanctio minor rispetto alla deca- denza dalla potestà; in altri termini, secondo la logica originaria del Codice Civile, il genitore, in questo caso originariamente il padre, è certo onnipoten- te, però se abusa, lo si sanziona, perché la logica era proprio quella: grande potere ma con una possibilità di essere sanzionati; e c’erano due ordini di sanzione: quella più drastica, prevista dall’art. 330, che permane, ed è appun- to la decadenza dalla potestà; poi c’era la sanzione minore, che si evinceva l’art. 333, quando il genitore ha abusato ma non in misura tale da doversi applicare la decadenza. L’art. 333 dice che il giudice potrà, secondo le circostanze, adottare “i prov- vedimenti convenienti”; si tratta quindi di una norma che lascia al giudice la scelta dei provvedimenti. Proprio questa previsione in bianco, questa clauso- la generale, che consente al giudice di assumere i provvedimenti convenien- ti, è stata alla base di una delle giurisprudenze pretorie delle nostre Corti, tra le più significative. La giurisprudenza ha infatti avviato un processo di tra- sformazione della valenza dell’art. 333 da norma sanzionatoria, (rispetto agli abusi del genitore esercente la potestà), a norma di controllo del rapporto genitori-figli. In altri termini, così come esiste una norma, che consente di far intervenire il

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giudice nei conflitti tra i due genitori (l’art. 316), così la giurisprudenza ha inventato, attraverso una rilettura dell’art. 333, una norma sui conflitti tra genitori e figli; così che l’art. 333, ormai, non ha più soltanto e tanto una fun- zione sanzionatoria, ha una funzione che consente al giudice di esaminare le situazioni conflittuali tra genitori e figli, soprattutto là dove il figlio, avendo la capacità di intendere e di volere, è in grado di esprimere determinate scel- te che si contrappongono alle scelte dei genitori. La conclusione di questo processo “rivoluzionario”, che è veramente molto importante e ancora non utilizzato in modo consapevole dagli operatori, la abbiamo nel 2001, attraverso interventi legislativi che ancora non sono stati sufficientemente, inseriti nella sistematica: alludo alla legge n. 149 e alla legge 154. La formulazione originaria dell’art. 333 poteva, nell’ambito dei provvedi- menti convenienti, consentire al giudice di disporre l’allontanamento del minore dalla residenza familiare: cioè, di fronte ad un abuso la sanzione pote- va essere quella di allontanare il figlio e collocarlo altrove, per sottrarlo agli abusi. La legge n. 149/2001 ha introdotto la previsione dell’allontanamento del genitore o convivente che “maltratta o abusa del minore”: il diritto del minore può essere tutelato, questa volta, non allontanando lui, ma allontanan- do il genitore. Quindi il minore rimane in quello che resta della famiglia: è il genitore che abusa a doversi allontanare.

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eraltro, se l’art. 333 può essere, unitamente all’articolo 147, e insieme Pall’art. 315, uno dei capisaldi per impostare la rivisitazione della potestà dei genitori, che senso ha prevedere una norma che giudichi sui conflitti, quando manca una legittimazione processuale ad agire del minore? Il problema si è posto a livello giurisprudenziale, quando il giudice Dogliotti, sollevò una questione di costituzionalità proprio su questo punto: in altri ter- mini, mentre per le questioni di carattere patrimoniale, quando sorga conflit- to tra genitori e figli si può provvedere alla nomina di un curatore speciale, niente si dice laddove invece si tratti di una questione di bilanciamento, o di conflitto, tra le sfere personali. Il giudice Dogliotti - il caso era complesso e drammatico -, ritenne di inter- pellare la Corte Costituzionale, attraverso la questione di legittimità costitu- zionale proprio dell’art. 333, e di altre norme, che non prevedono, di fronte ad una esigenza di risolvere il conflitto, un potere processuale da parte di uno dei soggetti. Certo, c’è l’iniziativa del Pubblico Ministero, ma evidente che non si può affidare al solo Pubblico Ministero la protezione indiretta di un interesse che è squisitamente personale. La Corte Costituzionale è stata abbastanza “piratesca” in quella occasione perché, molto astutamente, ha esaminato il modo con il quale il giudice aveva sottoposto la questione: il giudice Dogliotti aveva osservato, all’incirca: “non sembra facile trovare nella legislazione ordinaria un istituto che consenta di dare voce alla posizione del minore in un eventuale conflitto con i genitori”; e la Corte Costituzionale aveva risposto all’incirca: “cerca meglio”; si era dunque “lavata le mani” del problema stesso, che però permane, specialmen-

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te ora che, alla luce dell’intervento legislativo del 2001, l’art. 333 ha assun- to veramente un ruolo di norma cardine per risolvere gli eventuali conflitti.

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uesto, inventario normativo ci consente di procedere ad un tentativo di Qdisarticolazione di quell’istituto che, appunto, sembrerebbe monolitico in partenza. Sotto l’apparente comune denominatore della potestà dei genitori, si possono individuare tre profili, tra di loro ben distinti, ai quali possiamo dare, per con- venzionale spiegazione, altrettanti nomi: almeno un profilo protettivo; un profilo educativo; e un profilo potestativo. Soltanto quest’ultimo, a mio avviso è sussumibile, in senso pieno, nella pote- stà dei genitori è come vedremo e essenzialmente legato alle vicende di carat- tere patrimoniale: nelle vicende di carattere patrimoniale si può dire infatti che il profilo potestativo, cioè quello che si ricollega all’esercizio della pote- stà con relativa soggezione, è funzionale e funzionante. Del resto tutto questo lo possiamo anche arguire dall’articolarsi delle norme del Titolo IX che abbiamo sott’occhio, perché queste norme hanno una sorta di cesura importante tra le norme che precedono l’art. 320 e le norme che lo seguono; non a caso la previsione di un curatore speciale è inserita in mezzo alle norme che seguono l’art. 320; e quindi è abbastanza corretta l’interpre- tazione di coloro che la riferiscono a conflitti di carattere patrimoniale; che più significano una prospettiva strettamente potestativa. Però le questioni patrimoniali nei rapporti genitori-figli non sono le più importanti. In altri termini, il caso del minore proprietario è un caso assai limitato rispet- to alle altre vicende possibili.

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omincerei perciò dagli altri profili, identificabili come il profilo protettivo Ce il profilo educativo. Di profilo protettivo noi possiamo parlare in due direzioni, e tutte e due que- ste direzioni sono, a ben vedere, fuori dalla diretta riferibilità alla potestà dei genitori. Tipicamente improntato al profilo protettivo è l’art. 2048 cc. in materia di responsabilità civile, dove si parla appunto della responsabilità dei genitori, oltre che di quella dei precettori, dei maestri d’arte, eccetera. Nell’interpretazione di questa norma, per un certo tempo la giurisprudenza ha ritenuto che la stessa fosse essenzialmente improntata ad una responsabilità per colpa e questo era, diciamo, il prodotto di una impostazione più genera- le, per cui tutta la responsabilità aquiliana era, doveva essere, una responsa- bilità per colpa. Si pensi che per l’art. 2049 c.c. si parlava di una colpa pre- sunta del datore di lavoro, del padrone, del committente, che peraltro non poteva vincere questa presunzione assoluta. Ebbene, per un verso c’è stata l’erosione di questo principio della colpa, come principio assolutamente inderogabile; ma quello che è interessante

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nella giurisprudenza sull’art. 2048 è un’altra cosa: mentre in un primo tempo i giudici erano abbastanza larghi nel consentire la prova contraria dei genito- ri rispetto alla imputazione del danno, nel senso che il genitore che riusciva a provare di avere dato una educazione conforme ai principi, di avere vigila- to nei limiti del possibile, otteneva l’esonero dalla responsabilità civile, oggi la giurisprudenza tende a trasformare l’art. 2048 in una norma improntata ad una responsabilità oggettiva. Per superare la responsabilità occorre addurre il factum principis, la non coabitazione del minore, ossia ipotesi che mettano in evidenza come la “rapportualità” è venuta meno. Qui non siamo di fronte tanto ad una potestà dei genitori, quanto di fronte ad una garanzia: i genitori sono assunti dall’art. 2048 come garanti; la “ratio” è quella di dare al terzo danneggiato la possibilità di un garante quando il danno venga provocato da un minore. In questa prospettiva, in cui i genitori figurano come protettori del minore a prescindere dal loro concreto atteggiamento nella singola vicenda, siamo al di fuori dalla potestà; siamo di fronte, a una logica di responsabili- tà civile che, laddove vi è un soggetto che non dà sufficienti garanzie di risar- cimento del danno, impone la presenza di un garante. Per quanto riguarda invece gli atti leciti, ecco, si può dire che il profilo pro- tettivo riguarda anche gli atti non patrimoniali le decisioni sulla vita, sulla salute, eccetera, del minore fino a quando il minore non abbia una sua capa- cità di relazionarsi ai genitori. Nella giurisprudenza recente, abbiamo casi drammatici, in ordine per esem- pio all’alternativa tra terapie tradizionali del tumore e terapia Di Bella. È chiaro che se si tratta, come nei casi più recenti, di bambini in età tale da non potere esprimere una loro consapevole volontà, i genitori operano come protettori: in tali casi, peraltro, non sussiste una potestà nel senso tecnico per- ché la potestà nel senso tecnico, implica una rappresentanza: l’art. 320, che apre la parte più strettamente dedicata alla potestà, inizia a parlare di rappre- sentanza e amministrazione mentre qui non abbiamo né una rappresentanza né un’amministrazione. I genitori, in questo caso, se debbono essere chiamati a decidere, non decido- no come rappresentanti; decidono come educatori,, come persone che, in quel momento, hanno l’obbligo di manifestare una scelta, che non è una scelta per un altro, è una scelta della comunità familiare. Questo spiega il fatto che l’art. 147, anche in questi casi, vincola i genitori che dovranno decidere a tener conto delle capacità, inclinazioni naturali, aspirazioni dei figli. Teniamo altresì presente che l’art. 147 viene da lontano, perché nella reda- zione originaria del Codice del ‘42, si leggeva che i genitori debbono educa- re, istruire, mantenere la prole, secondo il “sentimento nazionale fascista”; poi, caduto il regime fascista, il nostro legislatore, all’indomani del nuovo corso democratico, sostituì questo riferimento al sentimento nazionale fasci- sta con il riferimento ai “principia della Morale”. Su quella prospettiva il genitore era rappresentante del minore e quindi eser- citava la potestà, perché doveva vedersela con lo Stato. In fondo, fra senti- mento nazionale fascista e principi della morale, non cambia molto, può cam- biare, come dire, l’aspetto politico; però c’è sempre un genitore che rappre- senta il figlio in ordine a scelte per le quali egli risponde nei confronti dello

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Stato, cioè di una terza persona, in termini di “ordine pubblico”. Il grande cambiamento si è avuto quando si è tolto il riferimento tanto al sen- timento nazionale fascista, quanto ai principi della morale, si è fatto riferi- mento a quelli che sono gli autentici aspetti rilevabili dalle caratteristiche particolari della persona del minore: ecco allora che il genitore diventa, in questo caso, protettore del minore, ma non rappresentante, perché non ha da confrontarsi con una terza persona rispetto alla quale serva la rappresentan- za. Per questi aspetti relativi a scelte personali, c’è una soglia che il legislatore non ha ritenuto di fissare in modo rapido. Altri legislatori lo hanno fatto ma hanno creato dei problemi il legislatore tedesco distingue la minore età sotto i sette anni, dai sette ai quattordici e poi dai quattordici ai diciotto; ma, questa segmentazione è purtroppo rigida, in un terreno dove invece è molto preferibile una flessibilità. Ebbene, dicevo, questo profilo protettivo nelle scelte personali cede il campo, quando il minore diventa capace di scelte personali, al profilo educa- tivo.

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l profilo educativo è diverso dal profilo protettivo, perché nella misura in Icui il minore sia capace di scelte personali, i genitori devono confrontarsi con il minore stesso; e quindi l’educazione diversa di una educazione rappor- tuale, non è più una semplice protezione; ma, anche il minore deve rappor- tarsi con il genitore che ha il dovere ma anche il diritto di educare, mantene- re e istruire, e quindi il minore non può dirsi affrancato da un confronto con i diritti del genitore. Il problema consiste allora nel rinvenire la possibilità di quello che si potreb- be chiamare il “concerto”, figura del diritto amministrativo che può essere richiamata qui, ossia trovare un criterio di armonia, talvolta con un provve- dimento atipico del giudice in ordine allo scontro tra due opinioni diverse, oppure, in caso di impossibilità di raggiungere l’armonizzazione, legittiman- do il giudice a decidere in ordine alla soluzione del conflitto. Sotto questo profilo parlare di profilo educativo, significa far emergere quel- l’aspetto di rapportualità, il cui inizio non ha una data precisa, anche perché è chiaro che nella crescita di un minore non possono enunciarsi delle genera- lizzazioni, si possono fare solo delle approssimazioni; però il giudice deve valutare se il profilo deve essere quello protettivo invece quello educativo.. Quando i genitori di quella povera bambina, colpita da una forma di leuce- mia gravissima, avevano interrotto la terapia chemioterapica, perché, erano stati in qualche modo conquistati dalla pubblicità per la terapia alternativa Di Bella, essi adducevano che anche la bambina di nove anni aveva espresso la volontà di affrontare la terapia alternativa. Orbene il giudice, ha ritenuto il profilo protettivo prevalente rispetto a quello educativo e ha detto ai genito- ri che non proteggevano la salute della bambina, lasciando una terapia che- mioterapia, che almeno: come si legge in motivazione dava, sulla base delle statistiche, il 60% di possibilità di guarigione, rispetto ad una terapia alterna- tiva rispetto alla quale, a livello sperimentale, non si hanno sicurezza di risul-

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tati. In questo caso il Tribunale, giustamente, ha fatto prevalere il profilo protet- tivo, dicendo che i genitori non avevano esercitato questo potere in modo adeguato, e ha disatteso il profilo educativo perché una bambina di nove anni non è in grado responsabilmente di assumere una decisione di questo genere, che invece una ragazza di quattordici, quindici, sedici anni, potrebbe respon- sabilmente assumere. Quindi, il rapporto educativo, subentra, al profilo protettivo. E qui si aprono dei problemi veramente molto difficili, perché sono problemi per un verso di composizione del conflitto tra genitori e figli, per altro verso problemi di dis- sidio tra i genitori in ordine all’educazione e quindi al come rapportarsi col minore. Ora, per quanto riguarda il primo profilo noi abbiamo visto che l’art. 333 consente di trovare dei criteri e delle soluzioni. Un caso interessante è quello di una sedicenne, da tempo sentimentalmente legata ad un giovane affetto da malformazione fisica, la “gobba”, che decide di abbandonare la casa dei genitori per seguire il giovane “dedito a stabile e onesto lavoro di barbiere”. I genitori chiedono al giudice tutelare di obbligar- la a tornare nella loro casa, con un ricorso ai sensi dell’art. 318 c.c., quello che consente ai genitori di richiamare a casa il figlio, qualora se ne allontani senza permesso, ricorrendo, se necessario, al giudice tutelare, quel giudice tutelare inteso un tempo come “braccio secolare” dei genitori, secondo la logica, appunto, della potestà genitoria. Giustamente il Tribunale per Minorenni di Bari ha respinto il ricorso, ritenen- do che la condotta dei genitori è “paternalistica, repressiva e ingiustificata”: forse il Tribunale poteva dire qualcosa di meno se vero, ma comunque è certo che a quei genitori non faceva piacere la prospettiva di un genero con la gobba, e per di più dedito al mestiere, nobilissimo peraltro, di barbiere. Altro caso da prospettare è quello del diciassettenne- questa è una sentenza del Tribunale per i minorenni di Bologna, che si allontana dalla casa dei geni- tori a seguito di un contrasto avuto con gli stessi per una relazione sessuale intrattenuta con una sua professoressa quarantatreenne. I genitori ricorrono al giudice e il Tribunale dà ragione al figlio, dicendo che la “relazione eteroses- suale, quale che sia l’oggetto d’amore, costituisce un’esperienza di vita necessitata e liberante”. Questo è un campione di quel polo fondamentalista liberatorio di cui parlavo prima, che spesso ci proviene da oltre Oceano, dove si accusano i genitori di essere come secondini che tarpano le libertà dei figli mentre i figli debbono essere protetti anche in simili stravaganze; per cui questa sentenza sembra non essere stata oggetto di un giudizio adeguato proprio sotto il profilo del- l’art.333. Per quanto riguarda invece l’altro aspetto, quello del conflitto tra i genitori, abbiamo due ipotesi, tutte e due previste dall’articolo 316 c.c. Tale norma al quarto comma, dice che se sussiste un incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti e indifferibili. Per la verità questa norma, che è l’unica a mantenere una disparità di trattamento tra padre e madre, non riguarda necessariamente un conflitto tra i genitori, ma improntata alla necessità di far fronte ad una

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urgenza. Di questa norma non c’era assolutamente bisogno e, probabilmente, se andasse sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale ne verrebbe fuori una decisione di illegittimità costituzionale. Infatti in questi casi è evi- dente che l’urgenza fa sì che debba essere interpellata il primo dei genitori che viene a essere contattato. Se, per esempio, la madre accorre al pronto soccorso, per un incidente occorso al figlio, mentre il padre non si trova è ragionevole disattendere questa norma, ritenendola superata da un riferimen- to diretto alla normativa costituzionale, per cui in definitiva, posto che la Costituzione non fa differenza tra i due genitori - anzi, postula, articolo 29, articolo 3, un principio di eguaglianza - la madre sia legittimata a decidere questo. Un medico il quale, per il fatto che non si trovi il padre, rallenti nel tempo l’intervento, sarebbe suscettibile di essere considerata responsabile dei danni da ritardo. L’altra norma è quella che riguarda i casi diversi dall’urgenza, in cui vi sia un conflitto tra i genitori. In questo caso, secondo il comma successivo della stessa norma il giudice, sentiti i genitori e il figlio, se maggiore degli anni quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare; se il contrasto permane, il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che nel singolo caso ritiene più idoneo a curare l’interesse del figlio. Questa è invece una norma ragionevo- le, non tanto per i “suggerimenti” del giudice, quanto piuttosto per il potere che il giudice ha di indicare quale genitore sia la persona più adatta per pren- dere una decisione. Ma ci dobbiamo chiedere: posto che l’art.316 fa parte, per così dire, di quella che abbiamo chiamato l’introduzione e quindi, è fuori dallo stretto ambito fuoco della potestà genitoriale, perché riguarda l’aspetto protettivo quando dall’aspetto protettivo si passa all’aspetto educativo? Richiamo il caso del motociclista diciassettenne, il quale, avendo riportato in un incidente stradale con la motocicletta un ematoma cerebrale, che non ha interessato direttamente il cervelletto ma che potrebbe nel tempo portare a conseguenze serie se non asportato Il chirurgo ritiene opportuno l’intervento operatorio anche se l’intervento non è urgente, perché non c’è pericolo di vita; il diciassettenne esprime la volontà di essere operato, i genitori si oppongono. Questo è un quesito drammatico che il legislatore non aiuta a risolvere; ecco, allora, l’importanza, dal punto di vista sistematico, di circo- scrivere il più possibile la potestà dei genitori: se nell’incidente ha riportato questo ematoma un bambino di cinque anni ovviamente il profilo è quello protettivo; se l’ha subito il diciassettenne, siamo di fronte a un rapporto edu- cativo per cui, secondo me, è vero, prima che il giudice intervenga a fare il bilanciamento degli interessi, il medico ha il dovere, di seguire la volontà del minore, una volta accertatosi che il minore è in grado di esprimere una scel- ta con capacità di intendere e di volere. È chiaro che il discorso ci porterebbe lontano: qualche medico potrebbe chie- dere quali possono essere le conseguenze sul piano penale: Io rispondo in questi casi la certezza del diritto è una mito che noi dobbiamo dimenticare, e ognuno di noi, se vuole esercitare un ruolo nella società di oggi, deve addos- sarsi determinati rischi, perché è assolutamente impensabile che il medico abbia una protezione a tutto campo in ordine a qualsiasi attività.

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Oggi viviamo un’epoca in cui il diritto non consente più quelle certezze, ma forse consente un maggiore adeguamento alla giustizia del caso concreto a cominciare dalla situazione del minore che cessa di essere oggetto per diven- tare persona.

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eniamo adesso all’aspetto potestativo, dove la potestà dei genitori eserci- Vta il suo precipuo ruolo. Anche qui noi ci troviamo di fronte ad un discor- so che merita di essere ridimensionato rispetto alla prospettiva tradizionale. La prospettiva tradizionale era nel senso che ci fossero tre postulati assoluta- mente, incontrovertibili. Prima regola: la invalidità degli atti compiuti dal minore; seconda regola:, la validità piena e definitiva degli atti compiuti dagli esercenti la potestà, ossia i genitori; terza regola: la validità piena e definitiva degli atti compiuti dal figlio una volta compiuta la maggiore età. Orbene di questi tre postulati soltanto il terzo è da ritenersi oggi intoccabile, ed è del resto una verità lapalissiana. Quanto alla prima regola, vorrei raccon- tare una vicenda che mi è capitato di conoscere. Mi ricordo che un notaio mi aveva interpellato perché un ragazzo, figlio di emigranti e residente negli Stati Uniti, era venuto per vendere un piccolo terreno di sua proprietà; que- sto ragazzo doveva stipulare l’atto il giorno del suo compleanno, del diciot- tesimo compleanno; aveva il biglietto aereo di ritorno per la mattina succes- siva. Facendo ricorso al formalismo terribile dei giuristi dovetti dire che l’atto sarebbe stato invalido, perché la maggiore età si ha solo al compimento del diciottesimo anno; ossia alle ore 24.00 del giorno del compleanno; però lo rassicurai subito consigliandolo di stipulare comunque l’atto, perché tanto non è vero che l’atto è definitivamente invalido, è solo annullabile. Chi può annullare l’atto compiuto dal minore? Il minore stesso, raggiunta la maggio- re età o i suoi eredi o aventi causa; ma in questo caso, ovviamente il proble- ma non si poneva, perché non era pensabile questo tipo di impugnazione. Potrebbero impugnarlo i genitori; ma l’istanza dei genitori, in quanto diretta promuovere un giudizio relativo ad un atto di straordinaria amministrazione concernente beni del minore, sembrerebbe aver bisogno della preventiva autorizzazione del Giudice Tutelare: il quale dovrebbe verificare, caso per caso, le “ragioni di necessità o utilità evidenti del figlio” (art. 320, comma 3) che hanno indotto i genitori a promuovere il giudizio. Resta fermo, comun- que, che gli atti impugnati possono ( e non debbono) essere annullati (arg. ex art. 322). Quindi il giudice, di fronte a un tentativo di invalidazione dell’atto ad opera dei genitori, in odio al minore che ha manifestato chiaramente la volontà di mantenerlo in essere, potrà decidere negativamente in ordine all’annullamento pretestuosamente richiesto. In definitiva, l’atto posto in essere dal minore non è necessariamente destina- to a cadere; è sottoposto ad una invalidità condizionata sempre alla salva- guardia dell’interesse del minore. Il minore, certo, se vorrà lo potrà impugna- re; ma i genitori non hanno la stessa libertà. Dunque, anche nell’esercizio della potestà il genitore non è assolutamente libero di comportarsi a suo pia- cimento.

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Quanto alla seconda regola, va detto che l’atto a contenuto patrimoniale posto in essere dai genitori come rappresentanti legali del minore non si sot- trae del tutto alla possibilità alla possibilità di una impugnazione. L’art. 320, comma 6, infatti, ipotizza l’insorgenza di un “conflitto di interes- se patrimoniale” tra genitori e figli, e prevede la nomina di un curatore spe- ciale per la tutela dell’interesse dei figli; e se a questa nomina non si provve- de, gli atti compiuti dal genitore - secondo le indicazioni della migliore dot- trina - potranno essere annullati a norma dell’art. 322” (A.C. Pelosi). Quindi, se il genitore si azzarda a stipulare, nell’esercizio della sua potestà, un atto rispetto sul quale il minore, capace di intendere e di volere, non è assolutamente d’accordo, non è detto che questo atto rimanga valido, perché l’art. 322 fornisce, proprio per la mancata osservanza delle “norme dei pre- cedenti articoli”, la possibilità di un’impugnazione: impugnazione che potrà essere esercitata dal minore stesso, una volta raggiunta la maggiore età. Su ultima analisi si può sostenere che questi dogmi della assoluta invalidità del contratto stipulato dal minore e della assoluta validità del contratto stipu- lato dagli esercenti la potestà dei genitori sono drasticamente ridimensiona- bili. C’è un’altra norma che sembra essere fatta apposta per “penalizzare” il mino- re. È noto che se il minore ha dolosamente celato la propria minore età il con- tratto è valido (art.1426). Orbene, se fosse vera la premessa, che il minore è assolutamente incapace, non dovrebbe farsi distinzione, perché il minore può raccontare una frottola ma è incapace; perché, allora, sanzionarlo impeden- dogli di impugnarlo? La conclusione, dopo tutto questo ventaglio di ipotesi, è abbastanza sempli- ce, anche se difficile da attuare. Parlare di potestà dei genitori è fuorviante, perché sembra ricondurre all’uni- co schema potestà /soggezione la varietà delle ipotesi che abbiamo visto. Certo è che quello che viene sussunto nel Codice sotto l’etichetta “potestà dei genitori” è un territorio difficile, dove si intersecano profili di diverso gene- re, profili protettivi, profili educativi, profili potestativi, ma una cosa è certa: in un terreno di questo genere il giudice deve avere delle linee guida, non può essere astretto a dei comandi specifici che lo trasformino in un braccio seco- lare dei genitori. Se il minore si allontana, il giudice dovrà valutare le ragio- ni del suo allontanamento; non potrà fungere, appunto, da gendarme che riac- compagna a forza il figlio nella casa dei genitori. Tuttavia le vicende giurisprudenziali sono vicende talvolta drammatiche, tal- volta terribili e bisogna allora evitare che questa rilettura del Codice voglia significare “penalizzazione” dei genitori, dopo che per molto tempo sono stati “penalizzati” i minori. In altri termini, una lettura libertaria della posizione del minore, quale appun- to quella che ogni tanto si trova nelle sentenze e soprattutto nella letteratura di oltre oceano, è molto pericolosa; se mi è consentito un paragone, è come nella responsabilità medica, nell’ambito della quale si è passati da una situa- zione in cui i medici erano, per così dire, intoccabili (si trovano delle senten- ze nella cui in motivazione il medico che aveva lasciato le pinze nella pancia del paziente veniva in qualche modo giustificato), ad una situazione di acca- nimento nei confronti della professione medica proprio perché oggi si consi-

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dera, il medico, come dicono i nordamericani, quale servant rispetto alla rea- lizzazione dei diritti del paziente.

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opo aver parlato della fisiologia, dobbiamo adesso occuparci della patolo- Dgia, che poi è forse l’argomento che più direttamente interessa gli avvo- cati. E parlando di patologia anzitutto dobbiamo considerare che l’Italia, a differenza di molti altri Paesi, presenta la singolarità del doppio istituto, separazione e divorzio, che si giustifica storicamente, invero, la separazione era in origine l’unico istituto a cui si poteva ricollegare la crisi della famiglia; il divorzio è un istituto sopravvenuto, molto contrastato, tanto è vero che non è stato introdotto nel codice ma è rimasto nel “limbo” di una legge speciale che peraltro, con un sistema per così dire di “rincorsa”, viene a intersecarsi con la disciplina della codicistica della separazione. Devo dire che, per quanto concerne la potestà dei genitori, lo scenario nor- mativo cambia, perché le norme di riferimento diventano più specificamente l’art. 155 c.c. e, in particolare l’art. 155, comma 3; e, per quanto riguarda la disciplina del divorzio, l’articolo 6, comma 4. Se noi leggiamo l’art. 155, vediamo che per un verso si insiste molto sull’e- sercizio esclusivo della potestà da parte del genitore a cui sono affidati i figli, ma poi si aggiunge che le decisioni di maggior interesse per i figli sono adot- tate da entrambi i genitori, salvo che sia diversamente stabilito. A quale esercizio esclusivo della potestà ci si riferisce quando poi le decisio- ni di maggiore importanza, salvo se diversamente stabilito, debbono essere adottate da entrambi i genitori? L’unica spiegazione possibile è che da una parte si parla di esercizio della potestà nel senso ristretto, avendo riguardo essenzialmente agli aspetti patrimoniali, quindi al profilo potestativo; men- tre, per quanto riguarda gli aspetti essenzialmente educativi e protettivi, che sono poi quelli che hanno un maggior interesse per i figli, perché toccano appunto la salute, la vita, la libertà, gli aspetti personali, occorrono decisioni adottate da entrambi i genitori. Quindi, come dicevo, ho l’impressione che la norma dell’art. 155, comma 3, e anche la corrispondente norma in materia di disciplina del divorzio, per un verso conservino questo tasso di ambiguità in ordine all’individuazione della potestà, ma offrano una conferma che la potestà, intesa come, situazione sog- gettiva a cui corrisponde la soggezione, sia da ritenersi essenzialmente limi- tata alle ipotesi dei rapporti patrimoniali. La diversità che si ha nel momento patologico è anch’essa una diversità che viene ad essere ridimensionata: quando la famiglia entra in crisi, quando i coniugi intendono separarsi, e poi quando intendono divorziare, il rapporto con i figli, necessariamente, non può più rimanere rapporto dei due genitori con i figli, ma si traduce in rapporti separati. In questo senso l’affidamento a uno dei genitori, per così dire, rompe la compagine familiare, e la sostituisce con rapporti bilaterali. Quindi, secondo una lettura tradizionale, si potrebbe dire che l’elemento di maggiore distinzione tra famiglia a livello fisiologi- co,e famiglia a livello patologico sta nel fatto che non c’è più un rapporto unitario genitori-figli, ma una duplicazione dei rapporti (genitore affidatario-

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figli, genitore non affidatario-figli). Ma anche questa osservazione, che sem- brerebbe essere inderogabile, è venuta meno con la legge di modifica del divorzio che ha introdotto la figura dell’affidamento congiunto. Ricordo che proprio qui a Lucca, si svolse un convegno organizzato all’indomani della riforma che aveva proposto l’affidamento congiunto; e ricordo che vi fu allo- ra una discussione che, per così dire, tagliò generazionalmente il pubblico dei presenti e soprattutto avvocati e magistrati, nel senso che gli avvocati e i magistrati della mia generazione gridarono allo scandalo: come è possibile - si sentì dire - che genitori che non hanno più dialogo, possano essere desti- natari di un affidamento congiunto, quasi che, in definitiva, si facesse finta che la crisi della famiglia non sia intervenuta? E si parlò di una moda ameri- cana, che non aveva senso nelle nostre tradizioni. L’introduzione dell’affidamento congiunto ha portato all’attenzione di tutti una esigenza di trasformazione della professione dell’avvocato “familiari- sta”. L’affidamento congiunto ha senso soltanto qualora vi sia la disponibilità dei genitori a scindere la loro veste di coniugi, e quindi la crisi del loro rapporto coniugale, dalla loro veste di genitori-educatori; e questa scissione non è una scissione impossibile; solo che è una scissione che va coltivata, che va aiuta- ta, che va educata. Da qui l’esigenza di introdurre istituti che in questo momento stanno entran- do nella prassi, ma anche nella nuova legislazione, come la mediazione fami- liare. In altri termini,occorre avviare una educazione dei coniugi in crisi, incoraggiandoli ad affrontare con un affidamento congiunto la possibilità di mantenere nei confronti del figlio quello che era l’assetto prima della crisi matrimoniale. Direi che questa introduzione dell’affidamento congiunto non è poi così sconvolgente, vale soprattutto a dare consistenza a quella realtà normativa che è costituita dalle decisioni di maggiore importanza. Chi ha esperienza in questo campo sa che purtroppo questa possibilità di assumere decisioni particolarmente importanti per il minore non si riusciva ad ottene- re da coniugi in lite continua, magari sobillati da un avvocato vecchio stile; e, a questo punto, ovviamente, quella parte dell’articolo 155 che prevede, appunto, che le decisioni di maggior interesse per i figli siano adottate da entrambi i coniugi (comma 3), finiva con lo scomparire o diventare un qual- cosa scarsamente rilevante. Con l’affidamento congiunto l’obiettivo diventa proprio quello di puntualiz- zare le decisioni di maggior interesse, atteso che l’esercizio del profilo pura- mente potestativo può essere importante, ma non ha la stessa importanza degli altri profili. In definitiva, attraverso l’affidamento congiunto, si potrebbe dire che non si fa una innovazione rivoluzionaria; si dà risalto e maggiore sviluppo a un qualcosa che la legge già aveva, per così dire, “in nuce”. Diverso è l’affidamento alternato, che pure la riforma della legge sul divor- zio prevede e che invece non ha avuto fortuna, proprio perché, nonostante si parli in un unico contesto di affidamento congiunto e affidamento alternato, si tratta di istituti che vanno nella direzione esattamente opposta: l’affida- mento alternato tende a esaltare l’autonomia di un coniuge rispetto all’altro, solo segmentando nel tempo l’esercizio del relativo potere, mentre l’affida-

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mento congiunto tende, invece, a riavvicinare i coniugi in ordine all’eserci- zio congiunto delle decisioni di maggiore interesse. Soprattutto quando il minore comincia ad esprimete proprie scelte personali, l’affidamento congiunto, quando è possibile, risolve molti problemi, posto che evita al minore una situazione per così dire di ballottaggio tra l’uno e l’altro genitore, con la possibilità di sentirsi dire, su scelte di particolare importanza, dall’uno una soluzione dall’altro una esattamente opposta, con il rischio di una accentuazione del senso di ribellione e di opposizione che il minore coltiva in sé e che va in una direzione, esattamente opposta a quella che dovrebbe essere quella privilegiata della “ratio” di queste norme: la “ratio” di queste norme: che consiste nel creare il minor disturbo possibile al minore, alla sua crescita, in relazione alla crisi del matrimonio. Certo, se ci ponessimo la domanda se qualcuno è contrario al best interest of child, che io credo che nessuno direbbe che è contrario alla realizzazione del- l’interesse prioritario del minore; se però dovessimo poi andare a vedere come si intende questo interesse prioritario del minore, probabilmente ci divideremmo in opinioni che possono essere assai divergenti. Ho letto recen- temente il libro di una psicologa italo - americana; la quale, con una indagi- ne sperimentale arriva alla conclusione secondo cui i figli di coppie separate riescono meglio rispetto ai figli di coppie unite in matrimonio: conclusione che viene motivata con una serie di esempi che però sono tendenziosi, perché è chiaro che ci sono tante ipotesi border-line, in cui la famiglia è apparente- mente unita, ma vi è semplicemente una crisi non evidenziata, per cui il minore risente di questa crisi, anche se la crisi non è esplosa, e non ha dato luogo a separazione o divorzio. Se noi prendiamo questi casi e li confrontia- mo con i casi in cui i bambini sono stati temprati dalla vicenda che ha porta- to alla separazione dei i propri genitori, i risultati possono anche essere in quel senso. Tuttavia è estremamente discutibile la tesi in sé, perché questo significherebbe che è meglio lasciare che i genitori si dividano nei loro rap- porti, personali con i figli perché - questa è la testi - i figli sono più tempra- ti se prendono atto della crisi dei loro genitori. Sembra invece che sia anco- ra valido il principio che ci deriva dalla Costituzione, secondo cui separati o divorziati o meno, i genitori sempre tali rimangono e debbono essere incorag- giati ed assumere un intento e una direzione comune nei confronti dei figli. C’è una decisione abbastanza interessante, di cui ha parlato anche la stampa perché, appunto, ha fatto un certo scalpore: una donna, madre di un ragazzo tossicomane, prende la decisione di separarsi dal marito, non perché vi sia una vera e propria intollerabilità sopravvenuta della convivenza familiare, ma perché ritiene che, essendo il marito non adatto a tener conto di questa situazione, (questa sì, patologica) del figlio che crea problemi a casa, chiede soldi, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare, sia opportuno separarsi per meglio tutelare il figlio. Del resto, l’art.151 c.c. lo consente, perché la separazione può essere chiesta o quando vi è intollerabilità della prosecuzione della convivenza, o - ed è un aut questo, non un vel - o quando sia tale da arrecare grave pregiudizio all’educazione della prole. Per quanto riguarda, dunque, la patologia e il riflesso della patologia del matrimonio sulla potestà intesa nel senso più ampio che abbiamo detto, la norma cardine è quella dell’articolo 155, terzo comma 3. La Corte di

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Cassazione lo ha anche specificato con una sentenza del 2000: ma le conclu- sioni non cambiano in senso radicale se le impostiamo, appunto, alla luce della valorizzazione delle decisioni particolarmente importanti per il minore che si debbono assumere congiuntamente, e se siamo d’accordo sul fatto che queste decisioni sono quelle che contano, posto che, riguardano essenzial- mente le scelte personali.

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e il problema semmai che si può porre è quello del dosaggio che il legis- Slatore consente in ordine al rapporto un’autonomia privata e vincoli deri- vanti direttamente dalla legge. Perché qui noi abbiamo una situazione, giuri- sprudenziale che, come è noto, porta a far divergere la disciplina della sepa- razione da quella del divorzio e crea degli aspetti che difficilmente possono essere giustificati in termini di parità di trattamento. In dottrina, per un verso c’è un indirizzo che tende a sviluppare sempre di più la possibilità di favori- re gli accordi dei coniugi nel momento della patologia, anche con riguardo alle determinazioni relative ai figli. Nella separazione consensuale questa regola è scolpita molto bene perché il legislatore distingue, in ordine alla separazione consensuale, l’ipotesi in cui vi siano figli dall’ipotesi in cui i figli non ci sono, e prevede una modalità particolare in ordine al recepimento dell’accordo, in quanto, come è noto, il secondo comma dell’articolo 158 c.c. stabilisce che il giudice, quando ritie- ne che l’accordo dei coniugi non dia sufficiente garanzia in ordine alla pro- tezione del figlio, può indicare le modifiche da adottare nell’interesse dei figli e, se queste modifiche vengono adottate, si arriva all’omologazione. Ma quando non ci sono figli l’omologazione cos’è, un semplice timbro che viene messo sull’accordo, posto che l’accordo non può essere indagato, sul merito? Il controllo può essere di legittimità o di merito; quando non si sono i figli mancherà un controllo di merito, ma ci sarà un controllo di legittimità. Se il giudice si accorge che c’è un vizio del volere o una incapacità di inten- dere o di volere al momento in cui l’accordo era stato stipulato potrà ovvia- mente negare l’omologazione, che quindi non è un semplice timbro, ma limi- tata ad un controllo di legittimità; mentre quando c’è la prole, si ha un con- trollo che si estende al merito. Questo controllo di merito, ecco il punto che qui interessa lascia molto più libero il giudice, è un controllo che il giudice opera all’insegna della massima discrezionalità: e allora, quando i figli sono in grado di esprimere le proprie opinioni, dovrà essere condizionato alla audizione dei figli? La legge non dice niente anche perché, la separazione consensuale è confinata in una norma marginale che chiude la serie delle disposizioni in materia di separazione. In anni passati, la separazione consensuale era veramente marginale rispetto all’esperienza comune; la normalità era fatta di separazioni giudiziali. Oggi la separazione consensuale tende a divenire la separazione prevalente; e giustamente, perché questo significa per i coniugi risparmio di tempo, risparmio economico, e così via. Però la norma è rimasta una norma molto laconica; allora la domanda che resta, e che l’interprete deve in qualche modo esaminare, è questa: il giudice può rifiutare l’omologazione se il figlio mino-

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re risulti essere capace di scelte personali, dissente? Oppure, il giudice è tenuto a tener conto, come diceva la nostra collega inglese, Simonetta Hornby il termine è diventato internazionale dei “whishes”,dei desideri, o dei “feelings”, espressi dal minore? In altri termini, quale ruolo può assumere la espressione di opinione, di volontà del figlio in ordine all’accordo di separazione consensuale? Credo che il problema dovrà essere approfondito, specialmente ora che con la recente legge di riforma dell’adozione, si è stabilito un principio, che dif- ficilmente può essere inteso come un principio da confinare nello stretto set- tore della adozione, secondo cui in ragione della “capacità di discernimento” il minore dovrebbe essere sentito ed il giudice dovrebbe tenere conto delle relative indicazioni. Quindi, questo aspetto di complicazione dell’art.158, comma 2, va ancora una volta orientato nella direzione che abbiamo visto: la norma non dovrebbe riguardare la potestà dei genitori intesa nel senso tradi- zionale per cui i minori non hanno voce in capitolo; e gli accordi dovrebbe- ro essere calati nel concreto del rapporto con i figli. Il discorso diventa più problematico quando abbiamo a che fare col divorzio, perché quell’orientamento ancora granitico della Suprema Corte, che consi- ste nel non voler attribuire rilevanza agli accordi tra i coniugi in vista dell’as- setto che intendono darsi in relazione al divorzio, finisce con il coinvolgere anche le determinazioni concernenti i figli; e la motivazione che la Corte di Cassazione continua a dare - ossia, non potrebbe l’autonomia dei coniugi scalfire l’assetto legislativo degli status - trascura sempre la situazione riguardante i figli. Per i figli la legge, anche la legge rinnovata sul divorzio, non va al di là della possibilità di un affidamento congiunto, ma in ordine all’assetto più generale, non sfocia nella possibilità di un accordo che il giu- dice possa valutare tenendo conto anche delle opinioni dei figli. Si arriva al divorzio ancora una volta passando al di sopra della espressione dei deside- ri, delle iniziative dei figli. Quindi, in termini di patologia possiamo, in con- clusione, mettere in evidenza che, per un verso, sono stati fatti dei passi in avanti sotto il profilo, ancora in progress, di una educazione dei coniugi a mantenere la dimensione comunitaria in quanto genitori, ma in ordine al rap- porto educativo ben poco è stato fatto, posto che gli interrogativi evidenziati per la fisiologia del matrimonio si ripropongono tali e quali: le decisioni par- ticolarmente importanti per i figli saranno decisioni che, oltre a coinvolgere entrambi i coniugi separati o divorziati, dovranno anche tener conto dei desi- deri, delle espressioni, di attitudini dei figli? Non si dice nulla a questo pro- posito. Ecco allora che qui diventa molto importante evitare quello che, in certo senso, la giurisprudenza purtroppo tende a fare, quando come nella sen- tenza della Suprema Corte che citavo prima, tende a creare uno spartiacque tra disciplina della fisiologia e disciplina della patologia. Quando si passa dalla famiglia unita alla famiglia in crisi le norme di riferi- mento cambiano e le norme di riferimento essenziali diventano, come si dice- va, l’art.155 del Codice e l’art.6 della legge sul divorzio. Queste norme, peraltro, possono essere inserite nel sistema e sottoposte ad una interpretazione evolutiva alla luce di quelle norme che avevamo indivi- duato per la fase fisiologica e che consentono di proporre una lettura evolu- tiva dei rapporti tra genitori e figli. In altri termini, l’art.147 non deve esse-

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re ritenuto una norma limitata all’ambito della fisiologia del matrimonio, per cui quando la famiglia entra in crisi non ha più una ragion d’essere; l’art.333 non cessa di avere la sua rilevanza, posto che è sempre una norma che riguar- da il conflitto tra genitori e i figli, per cui, quale che sia l’assetto che viene dato a livello di divorzio, certamente l’art.333 sopravvive e sopravvive non tanto e non soltanto per punire gli abusi minori del genitore che esercita la potestà; ma può essere invocato anche quando il conflitto sia tra il genitore che non esercita la potestà nel senso in cui ne parla l’articolo 155, comma 3, e il figlio. Quindi, l’art.333 può operare anche in queste situazioni; purché lo si distol- ga definitivamente dalla sua veste di sanzione per l’esercizio abusivo della potestà e lo si ricolleghi invece ad un discorso di rapporto tra i genitori e i figli. In altri termini, le norme che hanno consentito una rivisitazione dei rapporti tra genitori e figli per la fisiologia della famiglia, non debbono, secondo me, essere dimenticate nel momento in cui si affronta la patologia.

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ultimo aspetto che voglio evidenziare è un aspetto ancora molto magma- L’ tico; è quello che riguarda le convivenze, in particolare le convivenze more uxorio. Qui siamo di fronte ad una situazione che il legislatore non ha toccato se non del tutto marginalmente: l’articolo 317 bis c.c. certamente ha un suo rilievo perché prevede che ai genitori che hanno riconosciuto entrambi il figlio l’e- sercizio della potestà spetta congiuntamente, qualora siano conviventi. Però questa norma non va al di là di una previsione in qualche modo sconta- ta. Quello che è interessante è invece la frase immediatamente successiva nel secondo comma: “si applicano le disposizioni dell’art.316”. Questo significa che si applicano secondo la giurisprudenza prevalente, anche le norme che seguono l’art.316. D’altra parte non dobbiamo dimenti- care un’altra norma che è particolarmente importante per ragioni di cerniera che è l’art.261: 317 bis e 261 sono due norme di cerniera. L’art.261 dice che il riconoscimento comporta dal parte del genitore l’assun- zione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli avrebbe nei confronti dei figli legittimi: norma importantissima, in primo luogo perché fa riferimento non più soltanto alla potestà, ma più genericamente e più utilmente a tutti i dove- ri e i diritti che il genitore ha nei confronti dei figli, mutuando dunque quel- la dimensione costituzionale che, come dicevo, è ictu oculi più ampia rispet- to alla potestà dei genitori: ma è importante anche perché attraverso la norma-cerniera dell’art.261 consente di prendere in considerazione tutta una serie di norme, a cominciare dall’art.147 che prima evocavamo, fino ad arri- vare - e la giurisprudenza ci sta arrivando - all’art.155. In altri termini, di fronte al silenzio apparente del legislatore in ordine ai pro- blemi relativi alla crisi della convivenza more uxorio, - crisi che qui si pre- senta in termini essenzialmente affidati all’autonomia privata - diventa molto importante verificare quali strumenti ha il giudice in ordine al rapporto geni- tori-figli. E, quindi, soltanto attraverso un’operazione, per così dire ingegne-

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ristica, di collegamento tra norme diverse - 317 bis, 261, 147 e seguenti - attraverso questa rete normativa, si può arrivare ad una conclusione abba- stanza soddisfacente che, in termini molto approssimativi, significa estende- re le discipline e le tutele per il figlio in presenza di una convivenza in crisi, dalla famiglia fondata sul matrimonio alla convivenza “more uxorio”. Nell’esperienza giudiziale è sempre più frequente vedere che il giudice pro- cede, di fronte a una convivenza “more uxorio” in crisi, con gli stessi criteri con cui procede, per quanto riguarda i figli, in presenza di una separazione o di un divorzio: l’affidamento, l’affidamento congiunto o meno i problemi che ne possono conseguire. Il campo dunque è ancora estremamente aperto; per così dire, è una terra di nessuno, tra la patologia matrimoniale e la contrattualistica: è una terra di nessuno che deve però essere in qualche modo arata; e gli strumenti per farlo ormai li abbiamo; e li abbiamo nel senso di legare anzitutto, la disciplina della patologia a quella della fisiologia; e poi, attraverso queste norme-cer- niera, di utilizzare la disciplina dettata per la famiglia legittima anche alle convivenze. Non ci aiutano i progetti di legge presentati in materia di convivenza “more uxorio” dove, con la preoccupazione di equiparare la convivenza “more uxo- rio” alla famiglia fondata sul matrimonio, si dimenticano proprio quegli aspetti di patologia, perché si ha timore di imbavagliare la convivenza e quin- di si ritiene che la patologia della convivenza vada assolutamente lasciata alla dimensione contrattuale tra i conviventi, senza tener conto che il figlio di una convivenza “more uxorio” non ha nessun peccato da scontare.

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altro aspetto che ancora in Italia non ha avuto una riflessione sufficiente L’ è il fenomeno di quello che gli inglesi chiamano il “remarriage”; e che con un neologismo si comincia ad individuare come il fenomeno delle c.d. “famiglie ricomposte”. Tempo fa un mio amico ingegnere, mi ha prospettato il seguente caso: io vivo con mia moglie e abbiamo due figli; il primo è il figlio che mia moglie aveva avuto dal precedente matrimonio, seguito da divorzio, il secondo è il figlio che abbiamo avuto insieme, però la nostra famiglia è caratterizzata appunto da marito, moglie, due bambini che vivono senza nessuna differenza nella stessa casa, con le stesse abitudini, gli stessi principi. Il figlio che mia moglie ha avuto dal primo matrimonio va incontro a un problema sanitario molto serio, un intervento chirurgico da fare o non fare: quale ruolo ho io in ordine alla decisione da prendere? Gli ho dovuto rispondere che, praticamente la sua posizione era uguale alla mia, che non ho mai visto questo bambino: in altri termini un “quisque de populo”, si direbbe con linguaggio aulico, perché non esiste nel nostro siste- ma nessuna norma che prenda in considerazione questo fenomeno, che però è un fenomeno di crescente importanza. Gli americani, che sono bravi nei soprannomi, anziché chiamarlo padre lo chiamano “daddy”, oppure con qualche nomignolo, e tuttavia nelle questio- ni, portate all’attenzione delle corti, i giudici hanno una possibilità di valuta-

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zione, attraverso l’istituto, tipico del common law, del “next friend”, cioè la persona vicina in concreto, che noi non abbiamo. D’altra parte, è veramente assurdo e iniquo che per una decisione di vitale importanza per un bambino, che ha bisogno del profilo protettivo una perso- na che è considerata come padre, non possa esprimere la sua opinione: la giu- risprudenza più interessante è quella in materia di adozione in casi particola- ri: l’adozione del figlio del coniuge. La giurisprudenza più recente è arrivata a dire che una opposizione dell’altro genitore, quando appaia pretestuosa, può essere disattesa. Ma, intendiamoci, se l’altro genitore è ancora in grado di manifestare correttamente la propria volontà può avvalersi della norma dell’articolo 6 della legge sul divorzio. Comunque, i casi che normalmente vengono prospettati e che comunque sono i più interessanti, sono quelli in cui il figlio ha come figura paterna di riferimento, il nuovo marito della madre. In ogni caso il fenomeno delle “famiglie ricomposte”, dovrà prima o poi essere preso in considerazione anche nel nostro ordinamento, posto che sono molto frequenti i casi in cui il fenomeno stesso si verifica. Al riguardo mi sia consentito di concludere con un aneddoto spassoso. Sono stato invitato qualche tempo fa a Stoccolma da un mio collega, profes- sore di diritto civile, che mi ha presentato il suocero, è uno dei più importan- ti, anziani, professori svedesi che ha avuto grandi premi e che io ricordavo essere l’autore negli anni settanta di un saggio di critica delle convivenze more uxorio, saggio che terminava con questa frase che denotava il suo spi- rito conservatore: “pas par ce voie s’il vous plait”. (Ricordo che la frase che era stata poi ripresa dal professor Trabucchi, nella sua relazione a Villa Bottini a Lucca, quando parlò dei rapporti difficili tra genitori e figli, qual- che anno fa). Orbene quando in questo circolo esclusivo di Stoccolma il mio collega mi presentò il suocero io ebbi la pessima idea di ricordargli quell’articolo, non sapendo che il genero veniva da due precedenti matrimoni, prima di sposare sua figlia, e dal primo matrimonio aveva avuto tre figli, dal secondo matri- monio un figlio, dal terzo matrimonio altri due figli; ma la terza moglie, alias la figlia dell’anziano professore conservatore, aveva già avuto due figli da un precedente matrimonio; morale, otto figli in tutto, variamente distribuiti. Un modello di famiglia “pluriricomposta” dunque. Ma questa “scoperta” mi valse la infastidita risposta del vecchio professore che mi disse: da venti anni non mi occupo più di diritto della famiglia!!

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I PARTE SOMMARIO

IL BAMBINO DI FRONTE ALLA I parte - Il bambino di fronte alla SEPARAZIONE DEI GENITORI separazione dei genitori

II parte - La funzione peritale dalla l punto essenziale di quanto dirò è che un bambino che “parte dei bambini” venga coinvolto in una causa di separazione dei genitori, Inon è mai indifferente a quest’avvenimento che suscita III parte - Presentazione dei casi sempre in lui una serie di stati emotivi di intensità variabile; ma non necessariamente l’avvenimento acquisisce un carattere “traumatico”, cioè in grado di determinare manifestazioni più o meno intense ed anche patologiche. È necessario, perché ciò avvenga, che la separazione provochi delle modificazioni intrapsichiche che l’Io del bambino non è in grado né di tollerare, né di elaborare, esprimendo- le con dei riadattamento psico-com- portamentali che lo limitano sia nella sua vita di relazione che di esperienza. Trauma significa infatti “lesione determinata dall’azione violenta di IL “TRAUMA” DELLA agenti esterni in una condizione di impotenza” e nel caso di un trauma SEPARAZIONE psichico “emozione o esperienza emo- tiva violenta che incide profondamen- NELL’INFANZIA te e drammaticamente sulla vita del soggetto subìta passivamente”. La separazione diventa perciò trauma- tica quando viene vissuta come “per- DR.SSA dita” di uno o di entrambi i genitori; una perdita che il bambino subisce in GIULIA condizioni di impotenza, passivamente e che, talvolta, l’ambiente può non DEL CARLO capire e addirittura aggravare quando ne interpreta erroneamente le manife- GIANNINI stazioni: dove il bambino richiede un rafforzamento di presenza e di sicurez- za, si può rispondere con un allontanamento del genitore in oggetto perché L.D. IN NEUROPSICHIATRIA “causa del suo star male”. INFANTILE Qualche AA. parla, addirittura, di una “doppia perdita” in quanto, oltre alla perdita della presenza continuativa di un genitore, si ha la perdita di uno sta- tus personale, cioè della condizione di figlio di una coppia. Le condizioni che entrano in causa nel favorire la trasformazione della sepa- razione in una situazione traumatici vanno ricercate: - negli antefatti legati alla coppia, compresa la personalità dei genitori, in quanto ogni separazione è preceduta da un cattivo funzionamento del nucleo familiare che può avere una durata variabile. In genere sono più drammatiche quelle non previste, ma non necessariamente più deterioran- ti i rapporti rispetto ad un cattivo funzionamento cronico; - nelle modalità con cui avviene la separazione ed il ruolo che viene fatto assumere ai figli nel senso che essi possono essere utilizzati come riven- dicazione all’interno della contesa. In particolare mi riferisco a quelle situazioni in cui uno dei coniugi lascia inaspettatamente l’altro il quale, per vendicarsi, gli rende difficile o addirittura gli nega il rapporto con i

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figli; - nella posizione che assumono i rispettivi avvocati dei coniugi che deter- mina l’esito della separazione stessa. Carlo BRUTTI in un convegno proprio qui a Lucca organizzato da Maffei e coll. nell’oramai lontano 1986 a proposito della “Perizia psichiatrica e nuove prospettive nella gestione della separazione dei coniugi”, distingue nel com- portamento degli avvocati una funzione “mediatrice” da una funzione “pro- fessionale”. “Una prima variabile - cito testualmente le sue parole - è rappresentata dalla posizione che assumono i rispettivi avvocati dei coniugi: se essi entrano nel gioco soltanto come controfigure dei rispettivi clienti, inevitabilmente si tro- vano a sostenerne l’interminabile conflitto. Se, al contrario, si assumono la responsabilità di orientarne le scelte e le soluzioni in uno spirito di onesta ricerca e secondo criteri di ragionevolezza, possono favorire una pacata riso- luzione della vertenza”. È evidente però che il poter dotare anche il minore di una avvocato che sia dalla sua parte può facilitare scelte più equilibrate. - ed infine lo stadio evolutivo del bambino in quanto in fasi diverse di svilup- po le modalità di reagire alla separazione ed alla perdita sono notevolmente diverse tra loro. È su questo aspetto che io mi soffermerò in particolare perché permette di parlare delle tappe dello sviluppo infantile, delle modalità con cui si svolgo- no i rapporti tra genitori e figli ed anche dei processi mentali che li accom- pagnano. Ovviamente, per renderci conto dello sconvolgimento che questi processi subiscono nelle separazioni-perdite, come vedremo nella terza parte. Mi avvarrò come referente teorico della psicoanalisi freudiana, rivista attra- verso la mia lunga attività peritale, di oltre trent’anni, e attraverso una nume- rosa casistica nell’ambito della osservazione e della psicoterapia di bambini in stato di disagio psichico riferibile alla scissione del nucleo familiare. Innanzi tutto si deve fare una distinzione tra una situazione di perdita che avvenga in un’epoca molto precoce della vita quando essa non può essere ancora vissuta come mancanza dell’altro, dell’oggetto affettivamente e pri- mariamente investito e significato, la “madre assente”, ma come perdita di una parte di sé. Manca ancora, in questa prima fase, la struttura mentale rap- presentativa per poter elaborare l’evento ed il trauma non è né rappresentabi- le, né pensabile (=trauma primitivo). Non si tratta cioè di dover elaborare il lutto di un oggetto posseduto ed ora perduto e che può essere sostituito nel tempo (i sostituti paterni e materni), ma di ciò che D. Winnicott in un breve articolo del 19 giugno 1959 ha defi- nito “Niente al centro”, ad indicare il vuoto, l’assenza, il non essere. Winnicott pediatra, psicoanalista inglese, una delle persone più competenti nel settore psichiatrico infantile, che ha con notevole capacità descritto que- sta prima fase della vita, parla di un periodo di “illusione” in cui l’altro, non essendo ancora percepito come altro-da-sé fa ancora parte del sé; tutto ciò che l’altro fa non proviene dall’esterno, ma dall’interno del sé per cui l’illu- sione si carica di onnipotenza; nella normale fase di sviluppo l’illusione deve cedere il posto alla “disillusione” che è l’acquisizione della consapevolezza della esistenza nel mondo esterno di un oggetto da cui dipendere per la pro- pria sopravvivenza. Ma finchè questo non avviene, la perdita dell’altro è per-

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dita di una parte di sé. E poiché l’avvenimento della perdita non può essere mentalizzato, i sintomi sono ancora vissuti a livello somatico, rappresentati da irrequietezza, inson- nia, disappetenza, crisi di collera e così via. Siamo cioè nell’ambito di quel- le importanti manifestazioni psicosomatiche che possono addirittura esitare nel marasma infantile classicamente descritto da R. Spitz. Questo tipo di trauma nella mia casistica non è rappresentato in quanto le separazioni avvengono comunemente a distanza di anni dalla nascita dei figli ed anche perché da sempre e giustamente, si è teso a salvaguardare il rappor- to madre bambino nelle prime epoche della vita. Esso si ritrova invece nelle adozioni in cui i vissuti abbandonici precoci persistono latenti nonostante la presenza di figure genitoriali sostitutive, ripresentandosi col loro potenziale patogeno particolarmente in adolescenza (psicosi con frammentazione e per- dita di parti del sé). Nella fase successiva, fase edipica (tra i tre e i 5-6anni), quando il rapporto si è trasformato da “diadico” (madre-bambino) in “triadico” (padre-madre- bambino) e l’assetto mentale rappresentativo è stato raggiunto, la separazio- ne dei genitori può provocare una serie di situazioni emotive conflittuali nel mondo interno del bambino (= nevrosi) che, comunemente hanno alla base una scissione della coppia genitoriale con mantenimento della fedeltà emoti- va ad uno di essi ed esclusione dell’altro dalla propria vita mentale. È una situazione questa che si verifica anche nell’evoluzione normale, nella fase c.d. edipica in cui il bambino in preda ad intensi sentimenti ambivalenti di amore e di odio, fantastica di poter scindere la coppia e di situarsi stabil- mente nel rapporto con uno dei due genitori, il padre per la bambina e la madre per il bambino, eliminando l’altro, il “rivale”. In condizioni normali, l’unione stabile della coppia è in grado di aiutare il bambino a superare que- sti sentimenti, ma quando, come in ogni separazione, la coppia entra in crisi e si scinde realisticamente, non si tratta più di una fantasia desiderativa, ma è la realtà che la prevarica: è allora necessario, da parte dei bambini, una nuova elaborazione dei rapporti che talvolta diventa molto difficile in quan- to i genitori possono rafforzare questa situazione nell’errata convinzione che l’essere i preferiti del figlio sia espressione dell’essere il “genitore migliore”. Senza considerare, poi, che l’ingresso all’interno della famiglia di altri per- sonaggi (i nuovi partner dell’uno o dell’altra) complicano ulteriormente le vicende emotive infantili. La patologia più frequente, conseguente alla scissione della coppia è, in que- sto periodo, il rifiuto di uno dei genitori che può essere, ma non necessaria- mente, il genitore non affidatario. Si è sentito molto parlare, a questo propo- sito, di “plagio”, attribuendo al genitore prescelto una azione suggestiva sul bambino; ma in realtà, o almeno nella mia esperienza, si associa sempre, in queste situazioni, una disponibilità emotiva da parte del figlio a scegliere un solo genitore rifiutando l’altro, di cui si deve tenere conto. Le dinamiche di rafforzamento del legame a due, con difficoltà a mantenere un equilibrato legame triangolare, che è uno dei comportamenti più frequen- ti, come ho già detto, nei casi di separazione, è molto patogeno per una per- sonalità ancora in formazione quale è quella infantile. Basta riflettere che per l’acquisizione della “identità sessuale”, che non è il necessario accompagna-

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mento della anatomia degli organi sessuali, il bambino necessita di entrambi i genitori: uno dello stesso sesso con il quale identificarsi ed uno di sesso opposto dell’amore e dell’approvazione del quale ha bisogno per accettare ed essere fiero della propria identità. Il messaggio inconscio da parte del padre alla figlia è: “sii come tua madre ed io ti amerò come amo ed ho amato lei” e da parte della madre al figlio: “sii come tuo padre”. Ma se i genitori sono divisi ed inconciliabili ed il messaggio è “se tu sarai come lui o come lei, io ti odierò come odio lui o lei”, il bambino sarà costretto ad operare una scis- sione con alternative e patologiche formazioni che si muovono nella direzio- ne della strutturazione nevrotica della personalità. Analogamente, anche la “identità generazionale” può essere compromessa nelle separazioni in quanto i figli possono assumere il ruolo del genitore assente, nei confronti del genitore con cui vivono, e sentirsi impegnati in un ruolo che pur non essendo il proprio, non può che essere accettato. Vorrei aggiungere, come convinzione personale, che il “vantaggio emotivo” che la scissione della coppia parentale determina nel senso di facilitare la rea- lizzazione di “desideri proibiti”, pur essendo di qualità nevrotica, è tale da essere risolvibile con difficoltà e talora si procrastina indebitamente nel tempo, come vedremo più avanti, nonostante il suo carattere di restringimen- to dell’ambiente emotivo ad un solo genitore. Scrive Winnicott: “Certamente l’optimum per un bambino è quello di avere entrambi i genitori: in tal modo egli è sicuro dell’amore dell’uno anche quan- do odia l’altro. Questo fatto di per sé stesso serve a garantirgli una maggiore stabilità” (Winnicott). Una asserzione molto importante perché evidenzia ulteriormente la necessità di una coalizione parentale nei confronti dei figli in quanto i rapporti che noi stabiliamo con loro non sono statici, ma conti- nuamente mutevoli, soggetti a tensioni e burrasche che i genitori conoscono bene anche quando il nucleo familiare è integro. Quando la separazione avviene nella fase di latenza (dai 6 ai 10 anni), perio- do in cui il bambino ha già saldamente interiorizzato le figure genitoriali e si sta disponendo ad affrontare, con l’ingresso nella scuola, il mondo esterno, i disagi emotivi sono in apparenza molto più limitati esprimendosi con muta- menti del tono dell’umore, disattenzione, mancanza di concentrazione a scuola, malesseri fisici senza arrivare ad una conclamata patologia nevrotica. In questa fase il bambino, che ha appena superato lo stadio edipico in cui pre- valeva il “principio del piacere” deve cominciare a fare i conti con il “prin- cipio di realtà”: detto in termini brevi deve rinunciare ai “desideri proibiti” a cui ho fatto cenno per diventare grande identificandosi al genitore dello stesso sesso. L’Io che è l’istanza del rapporto con il mondo esterno e con la realtà, domina l’Es che è il polo pulsionale della personalità, ma per mante- nere questa sorta di quiete funzionale al suo adattamento al mondo esterno, latenza significa appunto quiete rispetto alle pulsioni (l’epoca di glaciazione descritta da Freud), mette in atto una serie di meccanismi di difesa che nei casi di aumento delle tensioni emotive possono rafforzarsi con meticolosità, eccesso di ordine ed indifferenza (apparente) verso la separazione stessa. In un recente articolo del 2001, su “Le modalità di difesa del bambino in età di latenza di fronte alla separazione dei genitori”, I. Della Giustina e I. De Rénoche, citano, tra i meccanismi di difesa che, correlati a questa fase evo-

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lutiva vengono maggiormente potenziati, la rimozione, la sublimazione e l’i- dealizzazione. La rimozione è una sorta di allontanamento dall’ambito della coscienza del problema, per cui esso, rimosso nell’inconscio, viene mantenuto separato dal resto dello psichismo, mentre nella sublimazione le energie psichiche vengo- no investite in settori diversi da quello familiare ad es. scuola, sport, amici- zie od altro,ottenendo soddisfazioni in grado di compensare le frustrazioni subite (spostamento meta pulsionale). L’idealizzazione, a sua volta, è un processo psichico per cui le qualità del- l’oggetto, in questo caso la storia familiare, vengono valorizzate con un pro- cedimento in un certo senso analogo a quello che si attua nella costruzione del “romanzo familiare” (1). Proprio mentre il mondo familiare viene rimes- so in discussione e svilito, nasce l’esigenza di un mondo perfetto, di figure ideali senza difetti e senza macchia, in cui poter ancora credere ed avere fidu- cia. In questo modo si attenuano anche il senso della colpa, della condanna e del castigo che la separazione continua a trascinare con sé (i bambini spesso sen- tono di essere la causa della separazione) nonostante che, nell’attuale conte- sto sociale, la famiglia nucleare classica non costituisca più la norma e non- ostante coesistano modelli familiari diversificati. L’idealizzazione si verifica per una sorta di scissione (splitting) tra “oggetto buono” e “oggetto cattivo”: nel primo vengono proiettati tutti i propri sentimenti positivi (amore, fiducia, riconoscenza), nell’altro tutti i propri sentimenti negativi (rancore, odio, fru- strazione, delusione). È la proiezione di questi sentimenti che qualifica, dal punto di vista emotivo, la bontà o la cattiveria dell’oggetto, al di là delle sue reali qualità. Ovviamente la scissione-idealizzazione è un meccanismo esa- sperato che si muove tra poli antitetici, estremizzati e che si oppone all’am- missione di qualsiasi bontà nell’oggetto cattivo e di qualsiasi cattiveria nel- l’oggetto buono, ma è indispensabile per conservare la certezza di un genito- re da cui si è talmente amati per cui non si dovrà mai temere di essere abban- donati. La scelta del genitore “buono” e “cattivo”, in questo contesto difensivo, non persegue un giudizio obiettivo: i bambini possono sentirsi traditi dal genito- re che è costretto ad allontanarsi da loro e pensare che se ne vada perché non li ama più, o possono giudicare cattivo il genitore che sta assieme a loro incolpandolo di aver allontanato da lui l’altro e così via. Ma se tutto questo appartiene ad una dinamica normale, peraltro comune anche nei bambini che vivono in famiglie integre, talvolta l’idealizzazione diventa un meccanismo molto patologico che rasenta il delirio. Ho trovato di recente, in una coppia di fratelli di 14 e 11 anni, l’idealizzazio- ne positiva di uno dei genitori che arrivava sino alla negazione di palesi e gravi mancanze dello stesso e di idealizzazione negativa dell’altro che non teneva minimamente conto della realtà dei fatti. Ma, come ho già detto, più comunemente non si arriva a questi risultati; in genere di fronte ad una real- tà che non soddisfa e frustra i desideri ci si può difendere mediante la “com- pensazione in fantasia” (A, Freud): una specie di meccanismo riparatore con- solatorio mediante il quale viene ripristinata, in una dimensione fantastica, l’unità familiare spezzata, ricostruendo la situazione emozionale pregressa.

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“Essa può permettere al bambino, scrivono Della Giustina e Rénoche, di posticipare nel tempo l’accettazione dolorosa dell’evento, continuando a spe- rare nel ripristino, in un tempo futuro, della unità familiare, allontanando con gradualità la realtà del distacco[...] Il ruolo difensivo della fantasia consiste nel costruire un mondo a misura delle forze emotive del bambino e nell’aiu- tarlo a superare gli ostacoli in attesa di tempi migliori”. Ovviamente, il rimandare l’elaborazione della separazione, mediante la compensazione in fantasia, non fa altro che rimandare la scompenso al momento in cui la real- tà si impone. Ho avuto in trattamento psicoterapico una ragazzina di 11 anni i cui genitori si erano separati quando ella aveva appena due anni e da quell’epoca viveva con la madre mantenendo però degli ottimi rapporti con il padre. Lo scom- penso nevrotico a cui ella era andata incontro, rappresentato da svogliatezza, depressione, pianto e comportamenti aggressivi verso la madre che tentava di sottomettere a tutte le sue esigenze di “piccola bambina rabbiosa”, era com- parso quando il padre aveva reso nota la sua decisione di contrarre un nuovo matrimonio con la donna con cui, peraltro, viveva da molti anni senza però che ella fosse mai entrata a far parte, sia pure in veste di amica, della vita della ragazzina che sembrava averla ignorata totalmente. Durante il trattamento fu possibile far emergere la fantasia, mai sottoposta al giudizio di realtà, che i genitori di qualche tempo avrebbero ripreso a vivere insieme contraendo un nuovo matrimonio. La delusione aveva provocato per- ciò un crollo della sua difesa e la realtà si era presentata per lei inaccettabi- le. Persino quando era riuscita, sia pure con molta sofferenza a distaccarsi dalla sua fantasia e ad elaborarla essa continuava a riemergere senza che ne fosse consapevole: aveva consigliato al padre di sposarsi nello stesso giorno in cui si era sposato con sua madre e a scegliere come viaggio di nozze lo stesso iter turistico. Dopo il matrimonio, però, la sua gelosia era esplosa e la ragazzina si era definitivamente staccata dal padre rifiutandosi di mantenere con lui quei rapporti di cui sino ad allora sembrava aver gioito. E contempo- raneamente interrompeva il trattamento psicoterapico che l’aveva costretta a tener conto della realtà e ad accettare gli accadimenti dolorosi della vita. Talvolta viene anche segnalato, ma non fa parte della mia casistica, il mecca- nismo della regressione in uno o più settori della vita: solo restando piccoli ed indifesi i bambini possono continuare a garantirsi la stabilità del mondo che li circonda, a cercare gratificazioni senza rischiare di essere travolti dalle guerre familiari. “L’obiettivo della regressione è fermare il tempo al momen- to che precede la separazione, che è ancora il momento delle sicurezze e delle certezze. Il futuro si presenta minaccioso ed incerto, mentre il passato appa- re come un approdo conosciuto su cui ancorarsi”. Mentre nella fase precedente la conflittualità edipica (che a cose normali deve essere rimossa come ho già detto per un migliore adattamento alla real- tà), non può essere “rimossa” a causa della scissione realistica della coppia parentale che mantiene attivi i meccanismi della ambivalenza nei confronti delle figure genitoriali, in questa fase, di latenza, la “rimozione” è rafforzata ed il bambino evitando di fare i conti con la realtà della separazione in appa- renza può apparire con un basso grado di conflittualità e con una minore pro- blematicità, mentre in realtà il suo mondo interno appare perturbato, pervaso

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da paure reali ed irreali, da fantasie di riconciliazione e di superamento onni- potenti, da sensi di colpa e di svalorizzazione di sé. “Sotto una sintomatolo- gia apparentemente poco significativa, si nascondono distorsioni affettive che presentano talora caratteri strutturati ed aspetti più o meno invasivi. Di fatto, le modalità difensive impiegate provocano un grosso dispendio dinami- co per l’energia psichica e alla fine rappresentano un prezzo molto elevato per il futuro equilibrio del bambino. Talvolta infatti si fissano nella persona- lità e tendono a ripresentarsi nelle fasi successive della crescita. Se utilizza- te in modo massiccio, inoltre, comportano una limitazione eccessiva delle funzioni dell’Io e ostacolano il perseguimento di finalità individuali soddi- sfacenti diventando patologiche e fonte, a loro volta, di sofferenze. Per que- sto, nell’approccio psicologico con il bambino in età di latenza” concludono gli AA. “è molto importante individuare il tipo e la quantità di difese impie- gate: esse infatti sono segnali indicativi e predittivi, in grado di fornirci una efficace chiave di lettura non solo della situazione in atto, ma soprattutto delle sue possibilità evolutive”. Nella fase pubero-adolescenziale il rimaneggiamento profondo con il proprio sé e con le figure parentali dell’infanzia che essa comporta (“crisi di identità adolescenziale”) trova una maggiore espressione nella scissione della coppia, ma soprattutto nel conflitto genitoriale: ciò può provocare un distacco preco- ce dai genitori o anche un eccesso di attaccamento regressivo ad uno di loro contro i sentimenti di perdita. Ma, è evidente, quando le manifestazioni assumono caratteri patologici, essi non possono, a questa età, essere considerate esclusivamente determinate dalla separazione dei genitori, bensì da difficoltà preesistenti che gli avveni- menti esterni tendono solo a rendere manifeste. Nella mia esperienza, i soggetti che nell’infanzia hanno vissuto dolorosa- mente la separazione dei genitori possono avere, in adolescenza, molti dubbi sulla validità delle relazioni affettive, una sorta di sfiducia nella vita e nell’a- more, che ha molto a che fare con i comportamenti genitoriali da loro vissu- ti e peraltro criticati, ma che talvolta essi ripropongono anche se nella piena convinzione di essere gli unici depositari del proprio destino.

II PARTE LA FUNZIONE PERITALE DALLA “PARTE DEI BAMBINI”

uando viene richiesto un parere peritale nelle cause di separazione per Ql’affidamento della prole o perché, ad affidamento avvenuto, stanno sor- gendo difficoltà nei figli a mantenere un rapporto equilibrato con uno dei genitori, affidatario o non, il perito neuropsichiatra infantile preferisce, in genere, porre l’attenzione sulla situazione emotiva dei bambini e non su quel- la degli adulti, ovviamente se non nei casi di patologia conclamata, in quan- to è solo da un esame attento delle loro condizioni psicologiche e dei loro bisogni psico-emotivi funzionali alla crescita che può nascere la decisione sulla migliore soluzione possibile. Questo perché il conflitto che ha portato alla rottura dei rapporti tra i coniugi è spesso tale da non permettere ad entrambi di mantenere una posizione serena, equilibrata e stabile. Aggressività, rabbia, rancore, delusione e quanto altro si riversa infatti nella

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contesa nella quale l’affidamento dei figli può assumere il ruolo di conferma o disconferma della bontà dell’uno sull’altra e viceversa che può, anche inconsapevolmente, offuscare le capacità di giudizio. Ciò non esclude, però, che si debba tenere conto anche dei genitori, di come essi sono o sono stati, del tipo di rapporto che hanno instaurato coi figli, della loro capacità di comprenderli e di favorirli nella crescita, ma, soprattutto della loro disponibilità a garantire stabilità e sicurezza facilitando ogni con- tatto con l’altro genitore e rendendolo il più libero possibile nel pieno rispet- to delle esigenze del bambino (A. Freud in “Al di là dei migliori interessi del bambino”). Vorrei, a questo proposito, leggere come chiarificatrice la premessa ad una relazione peritale a cui ho preso parte molti anni fa, pur non essendone diret- tamente coinvolta, da parte di un collega a cui ho chiesto l’autorizzazione alla citazione. Scriveva il perito: “In risposta ai quesiti postimi dal Giudice a proposito della controversia che oppone tra loro i coniugi nei riguardi dei figli, tutta la mia relazione sarà cen- trata sulla situazione dei figli ed escluderà di proposito ogni riferimento sia alla situazione psicologica dei genitori che alle relazioni tra questa e la situa- zione psicologica dei figli. Quando il grado di litigiosità e di astio reciproco tra coniugi raggiunge livelli quali quelli esistenti, ho potuto spesso rilevare come sia estremamente pericoloso per il buon andamento del rapporto con i figli, fornire un parere peritale, fonte di successivi contrasti e discussioni a non finire. Ognuno dei due coniugi finisce per trarre, dalla conoscenza del parere peritale espresso sull’altro, argomenti a favore del proprio punto di vista, trovando conferme a quanto pensato sull’altro e negando come non vero il parere peritale espresso nei propri confronti. In queste situazioni si può tentare di porre l’attenzione sulla situazione ogget- tiva dei figli, specie nei casi in cui la migliore soluzione possibile può nasce- re solo da un esame delle loro condizioni psicologiche. È ovvio che prende- re questa posizione significa anche avere constatato, durante i colloqui con i genitori che essi, nonostante la loro estrema litigiosità ed il coinvolgimento dei figli nella loro problematica, hanno conservato, ognuno indipendente- mente dall’altro, una possibilità di rapporto educativo con i figli. Sono inve- ce, a mio avviso - scrive il perito - profondamente errate le ipotesi dei due coniugi, relative alle cause del rifiuto opposto dai bambini al rapporto colla madre. Queste ipotesi non sono frutto di una osservazione attenta ed affetti- va della vita psicologica dei figli, ma di un coinvolgimento di essi nella loro problematica relazionale: il padre sostiene che i figli non vogliono stare colla madre perché questa li ha trascurati, li ha picchiati, perché non è una “madre” ecc.; la madre sostiene che i figli non vogliono stare con lei perché il padre ed i nonni paterni li hanno sottomessi al loro volere. A mio avviso, nessuna di queste ipotesi è valida, e non lo sarebbe neppure se alcune delle accuse che l’un coniuge rivolge all’altro, potessero essere dimo- strate come vere. È la situazione psicologica profonda dei due bambini ad essere diversa da come entrambi i genitori se l’immaginano ed è su questa che deve essere concentrata la nostra e la loro attenzione (il riferimento è ai genitori) per poter decidere il meglio per loro”. Ma, detto questo, quale è l’atteggiamento che il perito deve tenere nella scel-

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ta del genitore affidatario, se non vuol partire da presupposti pregiudiziali quali l’affidamento sempre e comunque alla madre? Quando la funzione peritale si apre con il preciso intento di riuscire a capire, mettendosi dalla parte dei bambini, ciò che essi desiderano, temono, od anche rifiutano nei genitori, spesso ci si trova di fronte al non poter scegliere il “genitore migliore”, ma solo “l’alternativa meno dannosa”, come ha scritto A. Freud a proposito di affidamento dei figli ai genitori separati. Si parla in questo caso di “genitore psicologico” intendendo con questo ter- mine quello che è meglio in grado di garantire ai figli stabilità e sicurezza e che, nel pieno rispetto dell’altro coniuge, faciliti il rapporto dei bambini con lui, rendendolo il meno vincolato possibile a rigide norme ed orari. In altri termini si può dire che il genitore psicologico è colui che è in grado di tute- lare davanti al figlio l’immagine dell’altro genitore. Nell’ambito degli affidamenti, come è noto, è sempre stata privilegiata e giu- stamente la madre, almeno per i figli piccoli, anche se è altrettanto importan- te la presenza della figura paterna: ciò nonostante questa non è una regola inderogabile in quanto non è raro che in alcune condizioni possa essere il padre a garantire la maggiore stabilità per i figli. Nella mia esperienza, in alcuni casi in cui una situazione di crisi materna ren- deva difficili non solo i rapporti coniugali, ma anche la cura dei figli, è stato possibile alleviare il disagio e ripristinare dei buoni rapporti tra i bambini e la madre, attraverso un affidamento al padre con garanzia per la madre di poter stare vicino ai bambini, ma priva di quelle responsabilità di gestione della loro vita che ella non era in grado di ottemperare. Sempre a mio parere è invece discutibile la posizione pregiudiziale per la quale i figli devono usufruire in maniera paritetica di rapporti con entrambi i genitori per cui l’affidamento, preferibilmente congiunto deve tenere conto del diritto dei genitori alla parità e non della qualità del loro rapporto con i figli. È una posizione questa che, pur avendo alla sua base il rispetto del dirit- to del bambino ad entrambi i genitori, diventa talvolta molto discutibile: sulla fine degli anni ‘80 ho avuto modo di esaminare una situazione di separazio- ne di giovani genitori che, entrambi molto immaturi, avevano scelto per la loro bambina di 29 mesi un affidamento paritetico, quattro giorni con l’uno e quattro con l’altro. Avevano cercato di evitare alla bambina il senso di estra- neità nel passaggio dall’uno all’altro mediante un raddoppiamento di ogget- ti, giocattoli e suppellettili del tutto identici tra loro. Il padre sosteneva la validità di questa separazione, mentre la madre, che aveva chiesto una revi- sione dell’affidamento, ne notava gli effetti negativi legati soprattutto sulla capacità di applicazione scolastica (all’epoca della perizia la bambina aveva 7 anni e 10 mesi). Infatti, mentre da un punto di vista strumentale si era pro- ceduto alla identità di tempo e luogo, gli atteggiamenti dei genitori rispetto alla educazione della bambina erano antitetici: il padre preferiva stare alzato alla sera e dormire al mattino, la madre era più abituata ad alzarsi presto e ad andare a letto “coi polli”; per la scuola volevano entrambi che la bambina si organizzasse da sola, senza il loro aiuto, ma nel pieno rispetto delle diversi- tà di ménage familiare. E la bambina?. In accordo a quanto detto in preceden- za sulla fase di latenza, ella non sembrava avere difficoltà legate a questa sistemazione, ma nei test psicodiagnostici in cui si cerca di indagare i rap-

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porti con l’uno o con l’altro genitore, sembrava avere difficoltà a viverli come diversi tra loro, differenziati, ognuno con un proprio riferimento gestal- tico in quanto è ovvio che le richieste che facciamo ai nostri genitori sono differenziate non solo longitudinalmente nell’arco della vita, ma anche tra- sversalmente differenziando i compiti del padre e della madre che in un buon ménage devono tendere ad essere complementari. Ancora meno accettabile è l’affidamento presupponendo che i figli possano diventare, nei casi di patologia genitoriale, con la loro presenza ed il loro affetto i possibili curatori del genitore: si tratta di una chiara inversione di ruolo che oltre a non competere loro, può pesare sulla loro evoluzione. Pur tenendo conto, dunque, dei diritti dei figli ed anche dei genitori, non si devono però dimenticare i bisogni infantili di protezione, sicurezza ed amore, né tanto meno il loro diritto a crescere in un ambiente in cui gli adulti siano in grado di andare incontro ai loro bisogni pur nel rispetto delle personali esi- genze. (v. perizia Maffei-Monti; v. incartamento Noemi Sadiki). È ovvio che non tutte le manifestazioni dei bambini di genitori separati, dipendono dall’avvenimento che si sta verificando o che si è verificato. È necessario infatti differenziare: - ciò che non ha niente a che fare colla separazione della coppia parentale, in quanto espressione solo di un pregresso conflitto interno (nevrosi infan- tile) o di una difettosa strutturazione della personalità (psicosi, strutture borderline, disarmonie evolutive ecc.), anche se tali patologie possono essere aggravate dalla sopravvenuta scissione familiare; - ciò che può essere determinato dalla separazione della coppia parentale quali le crisi di angoscia abbandonica con insonnia, pavor nocturnus, incubi ecc., nei confronti dell’uno o dell’altro genitore, in genere il geni- tore affidatario che il bambino teme di perdere avendo la consapevolezza di aver già perduto il genitore che si è allontanato da casa, e di rimanere solo. Sono situazioni queste facilmente comprensibili, reattive agli avve- nimenti esterni e non interni che, anche se vanno trattate con molta deli- catezza perché le crisi di angoscia sono comunque cariche di sofferenza, sono facilmente elaborabili con l’aiuto dell’adulto che il bambino teme di perdere e quindi, transitorie; - ciò che può essere non un vissuto diretto del bambino, ma medianto dalla reciproca svalutazione della coppia parentale, spesso trasferita al bambino nel sottaciuto intento di recuperare l’autostima mandata in crisi dagli avvenimenti, per essere considerato l’unico genitore “valido”, o per ven- dicarsi del “torto subito” dichiarando le colpe reali o immaginarie del part- ner. Il bambino è allora obbligato per un problema di alleanza emotiva con il genitore privilegiato di cui in quel momento ha bisogno, a celare gli stati d’animo verso l’altro genitore che può essere apertamente rifiutato, ma profondamente desiderato. L’indagine, data l’età dei bambini, la loro immaturità e le modalità originali con cui essi raccontano la loro storia e parlano dei propri rapporti affettivi, deve tenere conto oltre che delle manifestazioni o sintomi rivelatori del disa- gio, quelli a cui ho fatto cenno riferiti alle diverse fasi evolutive, anche delle fantasie espresse nel gioco, nel disegno, nei sogni (conoscenza della teoria dei simboli e delle metafore), nonché di ciò che il bambino racconta tenendo

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però presente che il livello verbale, a cui si fa prevalente riferimento nell’e- tà adulta, è molto influenzabile dall’ambiente esterno, soggetto alle variabili del contesto e presume una capacità di riflessione cosciente e critica ancora molto limitata nell’infanzia. Ma è ovvio che questo fa parte di una formazione specialistica dello psichia- trica infantile e dello psicologo dell’età evolutiva di cui potremo avere alcu- ni esempi parlando in concreto dei casi.

III PARTE

PRESENTAZIONE DEI CASI - UNA BAMBINA RIFIUTA LA MADRE - UN BAMBINO RIFIUTA IL PADRE - UNA BAMBINA RIFIUTA IL PADRE

UNA BAMBINA RIFIUTA LA MADRE

IOVANNA è una bella bambina di 7 anni, intelligente, vivace, che si pre- Gsenta al colloquio e nella stanza dei giochi molto disinvolta. È adeguata perfettamente alla situazione e ben consapevole dei motivi della visita del perito. Risponde a ciò che le viene domandato con sicurezza ed è pronta a chiudere un discorso quando questo la porterebbe su argomenti che lei prefe- risce evitare. Non si lascia cioè mai andare del tutto al gioco, non si concede mai momenti di rilassamento, ma è, al contrario, vigile ed attenta. Sostiene sempre la tesi che la “signora” (è il termine che usa regolarmente e senza mai sbagliare per indicare la propria madre) è sempre stata cattiva con lei, che non le ha mai voluto bene, che l’ha sempre picchiata, che ha sempre cercato di fare del male al padre persino “quando ha tentato di ammazzarsi perché, così, mettevano il papà in prigione”. Non le aveva mai voluto bene e quando poteva sembrarlo, lo faceva apposta perché voleva prenderla e portarsela via. Giovanna sa anche che dagli incontri con il perito potrebbe risultare che lei debba andare a stare colla madre ed è appunto prontissima a non far trapela- re alcuna incertezza. In questo suo atteggiamento è piuttosto rigida e in con- tinua difesa. Quando la incontro nella stanza dei giochi è molto vivace e divertita, ma mantiene comunque sempre vigile la propria attenzione. Durante il gioco della sabbia (c’è una cassetta con sabbia ed il bambino deve costruire una scena con materiale vario che gli viene messo a disposizione) rappresenta una casa ed una fattoria bene ordinate, ma da cui è stata esclusa la presenza di una mamma in modo che il luogo risulti abitato solo da un padre, da alcuni figli e da gente che lavora. Mantiene la calma e non si irrita per l’irruenza disturbante del fratellino, anch’egli presente e partecipante a questo gioco, comportandosi nei di lui confronti come una buona “mammi- na”. È da notare che in questi giochi non è mai comparsa una figura materna minacciosa, e questo fatto ha rafforzato in me, scrive il perito, la convinzio- ne già espressa, che mi trovavo di fronte più ad un diniego (meccanismo di difesa della serie nevrotica) della realtà della figura materna come tale che

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alle conseguenze di una esperienza reale drammatica e negativa, come si sarebbe potuto pensare in base a quanto riferito dal padre (ricordiamo che in questo caso ci sono riferimenti a percosse ed abusi fisici da parte della madre sui figli). Giovanna non trasmette tra l’altro l’atmosfera di una bambina che abbia subito particolari violenze reali; nei casi di maltrattamenti reali i bam- bini hanno una sorta di rassegnazione, di dolore che non è assolutamente riscontrabile in lei, che appare invece, come già detto, piuttosto determinata e sicura”. Ometterò la parte concernente la somministrazione dei test proiettivi (test di Goodenough o disegno dell’omino; disegno della famiglia, favole della Duss, C.A.T., Blacky test), quei test, cioè, che utilizzano il meccanismo mentale della proiezione per indagare, indirettamente, il mondo interno del soggetto, e mi limiterò alla sintesi conclusiva che fu fatta dal perito: “Dall’esame dei reattivi mentali praticati risulta che, da un punto di vista psi- cologico profondo, la bambina è nel pieno della c.d. fase edipica. Questa è classicamente caratterizzata dalla presenza di quattro sentimenti ed esatta- mente amore per il padre, amore per la madre, odio per il padre ed odio per la madre. Questi quattro sentimenti sono in genere tutti presenti in varie com- binazioni ed ogni fase edipica individuale è caratterizzata dal particolare tipo di composizione di questi stessi sentimenti. Questa fase edipica in cui tutta la vita psicologica profonda del bambino è presa da problemi relativi al nucleo familiare, viene superata con il sorgere di interessi verso il mondo esterno e l’accantonamento dei desideri tipici della fase stessa. Ma perché questi desi- deri possano essere superati occorre che i due genitori da un lato pongano un divieto sereno alla realizzazione di essi e dall’altra permettano al bambino di introiettare sia i propri aspetti positivi che gli aspetti buoni della loro relazio- ne. I sentimenti negativi non devono essere espulsi, ma in qualche modo inte- grati con quelli positivi ed al fine di tutto questo è essenziale che i sentimen- ti negativi e positivi che i bambini provano, trovino di fronte a sé genitori con una vita psicologica autonoma e non esclusivamente legata alla vita psicolo- gica dei figli stessi. Occorre cioè che i genitori sappiano instaurare un chia- ro dislivello generazionale, non lasciandosi coinvolgere dalla tematica dei figli, ma offrendo a questo una via di uscita verso lo sviluppo della indipen- denza. Non lasciarsi coinvolgere dalla tematica dei figli non significa, ovvia- mente, non avvertire i loro problemi, ma avvertirli e considerarli come pro- blemi “loro”, come problemi appartenenti a personalità autonome e indipen- denti. Occorre cioè che i genitori sappiano far vivere ai figli i sentimenti di amore e di odio che essi provano, in uno spazio non realistico, ma in uno spa- zio di fantasia che evita di assoggettarsi ai desideri dei figli. Questa possibi- lità di far accettare ai figli la realtà dei dislivelli generazionali, è in genere funzione della accettazione del proprio dislivello generazionale nei confron- ti dei propri genitori. Ciò significa che le manifestazioni di questa bambina, di Giovanna, sono determinate dalla sua situazione psicologica profonda. Non si tratta, cioè, di una reazione ad eventuali cattivi atteggiamenti della madre o del padre, ma di una utilizzazione di questi eventuali cattivi atteggiamenti ai fini di una tematica inconscia che i genitori non sanno riconoscere. Questi sono cioè implicati nelle vicende di Giovanna non tanto e/o non solo

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per i loro eventuali errori, quanto per il fatto di essere inconsapevolmente uti- lizzati all’interno di una dinamica che pensano essere determinata esclusiva- mente dagli errori dell’uno o dell’altro e che è invece tipica dell’età della bambina. Il problema dei genitori risiede nel non saper vedere e saper fron- teggiare questa situazione e nell’utilizzarla invece ai fini del loro personale conflitto. La situazione psicologica di Giovanna è da questo punto di vista molto in pericolo, anche se non del tutto compromessa. Il grave pericolo che la sovrasta deriva dal fatto di trovarsi in una situazione che le offre la possi- bilità di poter realizzare “realmente” i più profondi desideri edipici. Giovanna si trova cioè nella situazione di essere riuscita a cacciare la madre di casa e di avere realizzato con il padre un rapporto di tipo ottimale, ottenu- to attraverso l’allontanamento della madre, ed il suo divenire “mammina” del proprio fratellino. L’affermazione di sé è avvenuta tramite l’annullamento del dislivello generazionale e la negazione del proprio stato di figlia. Questi genitori non sono riusciti ad escludere i figli dalle loro polemiche e dai loro litigi e non hanno avuto occhi per vedere che ella procedeva alla affermazio- ne di sé stessa addirittura attraverso la negazione del suo stato di figlia della propria madre: Giovanna non vuole andare colla madre ed oppone una resi- stenza violenta di fronte ai tentativi che la mamma ha fatto di condurla con sé. Ho ascoltato, scrive il perito, portata dal nonno paterno, una registrazione (sic!) di ciò che avviene la domenica mattina nella abitazione del nonno stes- so quando arriva la madre e le manifestazioni sono in effetti clamorose. Alla luce di quanto sopra esse risultano comunque comprensibili perché Giovanna non può non avvertire che il ritorno della madre significherebbe la fine della illusione della propria potenza e la crescita nel confronto colla realtà. A mio avviso la domenica si attacca al padre e poi, quando non sente questo sicuro, al nonno in quanto avverte i due come gli estremi baluardi, le estreme difese della situazione in cui, illusoriamente, può ritenere di essere vincitrice.” In una situazione del genere qualunque soluzione sembra destinata al falli- mento in quanto se da un lato non si può eliminare la madre, affidando la figlia al padre, sapendo che ciò offre solo dei vantaggi che possono costitui- re un nucleo patogeno per lo sviluppo successivo, dall’altra è pressoché impossibile pensare ad un intervento di affidamento alla madre contro il parere del padre diventato così importante nella vita di questa ragazzina, pena uno scompenso acuto. La terza soluzione, quella salomonica di affida- mento per sei mesi al padre e per sei mesi alla madre, non sarebbe più age- vole delle precedenti, ma almeno servirebbe a sancire nei genitori i reciproci diritti e doveri nei confronti dei figli, e nei figli veicolerebbe il messaggio che essi avranno a che fare per tutta la loro vita con due genitori e non con uno solo di loro… Forse, tutto sommato, è meglio sempre tentare di non arrivare a queste situa- zioni estreme, cercando di prevenirle sia con una precoce consultazione geni- toriale in fase di avvio delle pratiche di separazione, sia avendo bene integra- to dentro di sé, da parte di tutti coloro che hanno a che fare con la separazio- ne stessa, la consapevolezza del diritto dei figli ad entrambi i genitori.

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UN BAMBINO RIFIUTA IL PADRE

NTONIO è un bambino di poco più di sei anni, che vive affidato alla Amadre dopo la separazione dei genitori avvenuta quando aveva 15 mesi. Il giudizio peritale viene richiesto perché, da alcune settimane il bambino si rifiuta di andare con il padre con crisi di pianto e pantoclastiche che hanno messo tutti in allarme; lo stesso padre lo ha sentito gridare: “No, con papà no…”. Questo comportamento viene definito dal babbo “innaturale” perché in pas- sato Antonio si dimostrava contento di stare con lui ed anche se mostrava una certa riluttanza a manifestazioni affettive di fronte alla madre, in sua assenza era affettuoso sia con lui che con i nonni paterni. Il padre ritiene che il rifiu- to sia stato motivato dalla madre che tenderebbe a volerlo escludere come padre in un nuovo ménage familiare che si sta costruendo. La madre, a sua volta, non ha mai notato in tutti questi anni che il bambino potesse avere problemi circa la separazione, anzi “sembrava essersene fatto una ragione del loro vivere separati e diceva: “tu hai la tua casa e il mio papà ha casa sua”. Il rifiuto che ora Antonio oppone ad andare con il padre l’ha trovata impreparata, in un momento in cui avrebbe anzi voluto, dato il suo nuovo compagno, essere un po’ libera dalle cure del bambino ed attribuisce il comportamento del figlio al fatto di avergli, padre e nonni, parlato male di lei, “di esserselo fatto nemico parlandole male di lei”. Accusa il marito di essere “immaturo”, ancora troppo dipendente dai genitori per essere capace, a sua volta, di comportarsi come padre. Nei dati anamnestici emergono alcuni elementi di rilievo, tenendo conto della realtà infantile: - la madre da qualche tempo ha un nuovo compagno con il quale avrebbe deciso di andare a convivere assieme al figlio, cambiando quindi abitazio- ne e paese. A questo avvenimento non viene però attribuita alcuna impor- tanza in quanto, dice la mamma, Antonio è molto affezionato al suo nuovo partner ed anzi, se alla sera non lo vede, lo chiama per telefono; - il padre ha fatto richiesta ed ha ottenuto dal Giudice, la possibilità di tene- re il bambino con sé per tempi più lunghi, soprattutto nei fine settimana, data l’età e la piena disponibilità dimostrata da Antonio a stare con lui. Tutta l’osservazione, fatta nei modi tradizionali, è stata impostata al fine di capire come il bambino viva la sua situazione di rapporto con i genitori e quale sia lo stato emotivo che gli fa rifiutare di andare con il padre e le sue cause. Riferirò solo sul gioco dello S.T. che è costituito dal dare ai bambini una sca- tola dove si trovano moltissimi oggetti (animali, personaggi adulti, bambine e bambini tra cui un baby nel port-enfant, alberi e fiori, frutta, piccoli ogget- ti di vario uso quotidiano, legnetti da costruzione, ecc.) con cui possono esse- re costruite scene usando come spazio rappresentativo il coperchio della sca- tola. “Dopo aver guardato con me tutto il materiale, comincia a prendere dei pezzi che dispone sul coperchio della scatola. Improvvisamente prende la mucca in mano, ritira tutti gli oggetti già sistemati, mette l’animale al centro della scena e ricomincia a costruire aggiungendo altri animali ed il treno.

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Interviene la mamma, ancora presente nella stanza dato il rifiuto del bambi- no a rimanere da solo, dicendo che per tutti quegli animali ci vuole un “guar- diano”, ma Antonio non sembra ascoltare e continua nel suo gioco: dispone un bambino nell’angolo in basso a destra ed uno lateralmente a sinistra su una sedia a sdraio; al centro, appoggiato alla mucca, un uomo; il piccolo baby, tolto dal port-enfant, viene collocato sul bordo laterale a sinistra. Dietro mia richiesta, racconta la storia di questi personaggi: “Una sera c’era una festa… ha fatto questa festa “quello” che ha questi animali (l’uomo al centro). Due bambini stanno con l’uomo (indica il baby ed il bambino a destra)… un bambino no (quello sulla sedia a sdraio)… sta in una casa dal- l’altra parte, però vicino. L’uomo è un papà, ma non c’è la mamma; la mamma è morta, era andata via in bicicletta, l’hanno investita ed è morta… i bambini ed il papà si trovano male, toccava far da mangiare al papà, ma era un po’ più cattivino; loro volevano che ci fosse anche la mamma. Il bambino solo non aveva né papà, né mamma, ma presto andava a stare con lui (indica l’uomo al centro, papà degli altri due bambini).” Alla richiesta di che animale si tratti quello a cui l’uomo è appoggiato (la mucca), il bambino risponde “un miccio… non si sa se è un miccio o una mucca… a me sembra un miccio”. Ciò che emerge in questo scenotest è sostanzialmente la mancanza della madre, “morta”, di cui il bambino tende anche a negare l’esistenza nel suo classico simbolo, la mucca, attraverso la risposta “miccio”. Una risposta che è assurda per un bambino che vive in campagna e che ha senz’altro dimesti- chezza con gli animali. Ci si può chiedere che cosa stia rappresentando questo bambino, e sembra abbastanza plausibile rispondersi che rappresenta “il suo timore di essere pri- vato della madre”. In realtà, Antonio aveva cominciato col sistemare la mucca al centro della scena con altri animali ed è stata proprio la mamma che ha suggerito di metterci “un guardiano” per controllare ciò che succede, facendo irrompere la figura paterna in un contesto di rappresentazione della madre. Ma, nello sviluppo normale, è proprio l’intervento del padre che si pone come “separatore” nel rapporto madre/figlio reciprocamente uniti tra loro. Nelle separazioni questa funzione viene realisticamente attuata in quan- to la presenza del papà può avvenire solo in assenza della mamma ed è forse di questo che Antonio sta parlando: il suo timore di perdere la mamma se c’è il papà, la minaccia di ritrovarsi privo di lei ed il bisogno di ricorrere ad un nucleo adottivo paterno da cui però la madre è definitivamente scomparsa. Quando nel proseguo della osservazione il bambino viene fatto incontrare con il padre ed i rapporti padre/figlio sembrano migliorare con la rassicura- zione che nessuno lo priverà della madre, Antonio costruisce un altro sceno- test che appare, nei contenuti, molto diverso dal precedente. Mette al centro del coperchio un uomo, la mucca, un bambino e pone il baby sulla testa della mucca. Cerca di mettere a cavalcioni della mucca un altro bambino che però gli cade. Dice: “C’è montato quello con il letto… ci sta più bene”. Mette ancora sulla scena le due bambine ed il treno, ma a questo punto, tro- vata la pelliccia-tappeto nella scatola, smonta rapidamente tutto ciò che ha fatto e ricomincia daccapo: mette sul tappeto la mucca con il baby, il treno, un bambino, un altro bambino e la donna vestita da passeggio. Fuori dalla

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pelliccia la sdraio con sopra una bambina. Tutto attorno, pezzetti di legno di varie altezze e colori. “È una cena di animali e qui, indica i legnetti sparsi sulla scena, è per far saltare gli animali. Sulla pelliccia ci sono quelli che sono andati a vedere la scena, “è una mamma con i bambini”. Chiedo se non ci sia il papà: “Si, dice, due papà” e aggiunge due uomini. Il bambino stesso mi fa notare che prima non c’erano le mamme, ma solo un papà ed i bambi- ni, mentre ora c’è anche la mamma e c’è anche un bimbo e due papà. “La scena più bella, dice, è quando c’è un papà, una mamma e c’è anche un bimbo”. Antonio sembra arrivare lentamente ad un assetto mentale più ade- guato alla sua realtà attuale di bambino con una madre e due padri: il padre reale che, giustamente rivendica il diritto di continuare ad essere suo padre, ed un padre aggiuntivo (sostituto paterno?) che potrebbe essere l’uomo con cui la madre lo porterà a vivere. Interessante segnalare che, quando al bambino fu richiesto di raccontare al padre cosa aveva voluto rappresentare con questa scenetta, evitò di parlare di babbi, mamme e bambini e disse solo che era “una scena di animali che sal- tano agli ostacoli”. Il padre gli fece notare, molto acutamente, che forse erano ostacoli troppo alti e Antonio ammise che “non sapeva se ce l’avrebbero fatta”. A livello metaforico gli ostacoli da saltare sono gli ostacoli emotivi della sua difficile relazione con un papà ed una mamma separati, che non sa ancora se sarà in grado di superare. Quanto detto, confermato anche dai risultati dei test proiettivi somministrati al bambino (disegno libero, favole della Duss, C.A.T.), mise bene in eviden- za che le difficoltà di Antonio ad andare con il padre andavano ricercate nella sua paura a distaccarsi dalla madre con emergenza di angosce di perdita della stessa, peraltro già comparse a tre anni, come riferito in anamnesi, quando era stato tentato un inserimento alla scuola materna ed il bambino aveva smesso di mangiare e di dormire. Antonio sembra dunque trovarsi in una situazione emotiva in cui non sta spe- rimentando una piena sicurezza nel rapporto colla propria madre, ossia non sembra sentire dentro di sé una figura materna stabile e protettiva a cui poter- si rivolgere in sua assenza, e che nessuno gli potrà mai togliere. E questo, mi rendo conto, può sembrare anche paradossale nella misura in cui Antonio è affidato alla madre che lo ha sempre tenuto con sé ed esprime un rifiuto ad incontrare il padre verso il quale peraltro non sembra esistere, nella sua mente, alcun pregiudizio, né timore. Ma non lo è conoscendo quanto com- plesse siano le relazioni emotive bambino-madre, bambino-genitori e con quanta facilità esse possano entrare in crisi. Lo sviluppo armonico e sereno di un bambino, come è già stato detto, presup- pone la capacità di elaborare gli intensi stati emotivi di amore, odio, gelosia, invidia, nei confronti delle figure significative della propria vita, di prender- ne coscienza, di pensarli piuttosto che di agirli; ma perché ciò avvenga è indi- spensabile un ambiente familiare sereno e la presenza stabile di entrambi i genitori; cosa questa che Antonio non ha avuto e la sua storia di bambino che il padre ha conteso alla madre ha senz’altro influito nel non permettergli di maturare a pieno la fiducia nella stabilità del suo rapporto con la mamma che ha origine nel periodo delle cure primarie, fase in cui i suoi genitori erano invece impegnati nella loro separazione, ma si rafforza durante tutta l’infan-

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zia quando i bambini non sono costretti ad oscillare tra l’uno e l’altro non solo fisicamente, ma anche emotivamente. Ricordiamo che nelle separazioni che avvengono per contrasti insanabili, l’idealizzazione comporta che se un genitore è “buono”, l’altro deve essere necessariamente “cattivo”. A ciò si deve aggiungere che è proprio la non completa fiducia nella stabili- tà e persistenza dell’altro che provoca un attaccamento possessivo ed esclu- sivo, a volte carico di rabbie e di rancori che possono attivarsi per avveni- menti apparentemente di poco conto, ma che i bambini vivono come minac- ce di perdita. La condizione di fondo sopra descritta in Antonio c’è sempre stata, ma è esplosa a sei anni e mezzo per due motivi: - il bambino ha saputo della presenza nella vita della madre di un altro uomo con cui ella intende ricostituire un nucleo familiare andando a vive- re con lui, assieme ad Antonio, in una nuova casa. Nonostante la simpatia che egli può provare per questa persona, sicuramente, come tutti i bambi- ni, teme di perdere l’esclusività del rapporto colla madre (sino ad allora nel letto colla mamma c’è sempre stato lui) e questo non è facile da accet- tare neppure per un bambino con una maggiore fiducia di base; - al padre è stato concesso di avere il bambino con sé più a lungo. Ambedue questi avvenimenti possono avere agito facendo esplodere ciò che era latente: il timore di perdere la madre e ciò provoca un rifiuto verso il padre che diventa colui che realizzerebbe di fatto, per il bambino, questa separa- zione. C’è sicuramente in Antonio un desiderio di stare anche col padre, ma tale desiderio è senz’altro meno intenso della sua paura e contrasta con essa. È ovvio che in questi casi, oltre ad evitare qualsiasi atto di forza è necessa- rio appoggiare le decisioni di affidamento con una psicoterapia che permetta la risoluzione di questo conflitto padre-madre-bambino, e la ripresa dell’evo- luzione verso un più stabile assetto della personalità. Vorrei aggiungere qualcosa che all’epoca della perizia non si era ancora veri- ficata: il padre, con un blitz della migliore tradizione, un giorno rapì letteral- mente il bambino mentre usciva dalla casa dello psicoterapeuta che aveva cominciato a curarlo per cercare di fargli prendere coscienza della sua con- flittualità nei confronti delle figure genitoriali e lo portò a vivere nella casa dei nonni paterni rifiutandosi di restituirlo alla madre. Antonio sembrò accet- tare passivamente questo avvenimento, che suscitò un vero e proprio scoop giornalistico, ed accettò, apparentemente senza difficoltà di essere ripreso in atteggiamenti molto affettuosi con il padre, ma a distanza di qualche tempo scappò inaspettatamente dalla casa del padre percorrendo, in bicicletta, una ventina di chilometri per tornare dalla madre. Non so quale possa essere stata l’evoluzione successiva di questo, come della maggior parte dei casi che si incontrano a livello peritale, ma sicuramente c’è molto da riflettere.

UNA BAMBINA RIFIUTA IL PADRE

i tratta ancora di una bambina di 7 anni, MARIELLA, figlia di genitori Sseparati da quando ella aveva quattro anni, che ha vissuto in un ambiente familiare da subito in pieno disaccordo sulla sua educazione: liberale, per-

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missiva, quella del padre, più rigida e normativa quella della madre. Queste difficoltà si facevano risentire soprattutto nell’area della educazione sessua- le in quanto il padre (siamo alla fine degli anni sessanta) “preferiva non nascondere niente alla bambina, farsi vedere da lei nudo, liberamente giran- do per casa o quando la notte l’andava a consolare nei suoi risvegli frequen- ti; la moglie si opponeva verbalmente a tutto questo, senza però ottenere alcun risultato”. Nei primi tempi dopo la separazione la bambina era sempre molto allegra e gioiosa, felice di vedere e di stare con il padre, ma in seguito, a detta della madre, quando ritornava dall’averlo incontrato si mostrava tesa, nervosa, stanca, non voleva mangiare, non voleva giocare e le diceva cose cattive, la picchiava e la morsicava. Prendeva la roba la nascondeva o la rompeva per farle dispetto. La madre era convinta che questa fosse una reazione all’aver visto il padre e con una certa insistenza l’interrogava su ciò che era successo o aveva fatto a casa del padre che, peraltro viveva con la nonna paterna. Dopo qualche tempo Mariella cominciò a parlare di “giochi al buio, colla nonna paterna, di lei senza mutandine, del padre senza mutande che si toccavano… ed anche di un uomo grasso che la toccava lì (indicando i genitali)…”; que- sti racconti portarono la madre a sospettare, appoggiata anche dal parere di una propria sorella, medico, che ci fosse un abuso sessuale per cui il padre fu autorizzato a vedere la figlia solo nella sua casa e in presenza oltre che della madre anche di altri familiari, zia e baby-sitter. A detta del padre, in conse- guenza di questo nuovo assetto la bambina cominciò a diventare “formale”, perdendo spontaneità e slancio nei suoi confronti, sino a rifiutarsi di andargli in braccio od anche di avvicinarsi a lui: un vero e proprio rifiuto che lo face- va soffrire molto. Durante le visite rimaneva attaccata alla mamma o alla zia e poiché c’erano state minacce da parte del padre a prendere la bambina colla forza, questo provocò persino l’intervento dei carabinieri, ovviamente con molta paura e sgomento da parte della piccola che divenne sempre più ostile all’incontro con il papà. Come ben potete immaginare l’indagine peritale fu molto lunga e dibattuta (si tratta di una perizia fatta oltre trent’anni fa quando ancora non si parlava né apertamente, né frequentemente di abusi sessuali) per cui mi riferirò solo ad alcuni paragrafi del commento fatto dal C.T.U., neuropsichiatra infantile fiorentino, su cui potremo poi impostare la discussione. Dall’osservazione era stato confermato che la bambina di fronte al proprio padre entrava in uno stato di angoscia di tipo panico con pianto silenzioso, immobilità, scomparsa di qualsiasi interesse per ciò che stava facendo, arre- sto di ogni attività, che si risolveva solo parzialmente quando il padre si allontanava. Il rifiuto per il padre non veniva verbalizzato clamorosamente come nei casi precedenti, Giovanna per la madre, Antonio per il padre, ma “agito” ed “espresso” in maniera preverbale con la mimica ed i gesti: quel suo immobilizzarsi con lo sguardo perso nel vuoto ed una espressione di panico se il padre si avvicinava. Non solo, ma la presenza del padre che era stato fatto entrare, dopo alcune sedute, nella stanza di osservazione, aveva turbato lo svolgimento anche delle sedute successive in quanto la bambina che nei primi incontri si era mostrata serena e sicura, autonoma nel rapporto con i periti, aveva preteso costantemente la presenza fisica della mamma.

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Nessuna rassicurazione era stata possibile né da parte della madre, né dei periti, neuropsichiatri infantili e psicologi. Riusciva ad uscire dal suo stato di inibizione e blocco solo attraverso un gioco aggressivo, gettare e cercare di rompere i giocattoli, o mostrandosi aggressiva verso la mamma, in pieno accordo con quanto ci era stato riferito circa il suo comportamento quando tornava da casa del padre, come se solo così potesse attenuare la tensione emotiva che la sconvolgeva bloccandola. Dal punto di vista clinico, questa situazione, del tutto patologica, doveva essere considerata come una “nevrosi di angoscia” che si scatenava in tutta la sua intensità quando compariva la figura paterna. Non si trattava cioè di una semplice “reazione” sia pure “nevrotica” di fronte al padre, bensì di una vera e propria nevrosi in cui lo stato di angoscia era tale da comportare un com- pleto blocco delle prestazioni con inibizione delle attività di gioco, ma anche di pensiero; una angoscia di intensità tale da non poter essere detta, ma solo espressa con il comportamento. In una modalità di reazione nevrotica di fronte al padre ci si sarebbe potuti aspettare un semplice rifiuto a livello cosciente, come avviene spesso quan- do, nelle separazioni, uno dei partner deve essere rifiutato perché in contra- sto con il genitore con il quale il bambino vive. In questo caso persiste però, profondamente nel bambino il desiderio del ricostituirsi della globalità fami- liare, comprensiva anche del genitore assente e, nei test proiettivi e nel gioco, si ritrovano cariche profonde desiderative che emergono anche sotto forma di simboli, come abbiamo visto nel caso di Antonio e come è stato segnalato dal C.T.U. nel caso di Giovanna. In questa bambina invece, le tematiche del gioco erano tutte molto regressive e concernenti soprattutto la sfera orale (far da mangiare, offrire il pranzo ai presenti, apparecchiare, sparecchiare ecc.), mentre era scomparsa la figura paterna e con lui tutte le figure maschili; al contrario, attorno ai bambini si davano da fare “quattro mamme” che nella realtà e a detta di MARIELLA, erano la mamma, la nonna materna, la zia e la baby-sitter. Nei test proiettivi le situazioni triangolari padre-madre-bambi- no provocavano un blocco emotivo, cui faceva seguito una serie di rifiuti. Al test di Rorschach, inoltre, la bambina dava una serie di risposte che confer- mavano a pieno la sua grave situazione emotiva legata ad una notevole pro- blematica sessuale con polarizzazione sui simboli maschili e shock alla tavo- la paterna. In questo caso si poteva quindi parlare, confortati anche dal risultato ai test, di vera e propria nevrosi strutturata che escludeva, pertanto, una eventuale influenza suggestiva da parte dell’ambiente prospettata e sostenuta sia dal padre che dai nonni paterni. MARIELLA viveva il padre alla stessa stregua con cui il soggetto con nevrosi fobica, vive l’oggetto fobogeno: timore, ango- scia e terrore a cui si può sfuggire solo con l’evitamento, data la impossibili- tà ad essere rassicurati. Il padre era cioè vissuto come oggetto minaccioso ed aggressivo nei suoi confronti e quindi da evitare! Il Giudice, nei quesiti al C.T.U. aveva posto la domanda se il racconto fatto dalla bambina, che la madre e la zia materna avevano interpretato come abusi sessuale, “poteva essere frutto di una sua invenzione” magari favorita dal- l’ambiente materno o, al contrario, se si trattasse di fatti realmente accaduti. Doveva quindi essere accertato dal punto di vista psichico se la bambina

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avesse realmente subito una violenza sessuale dato che non c’era alcun riscontro clinico - intendi visita ginecologica - della stessa. O, in assenza di questa, avesse “vissuto”, per problemi personali legati alla fase evolutiva in cui era avvenuta la separazione, il proprio rapporto con il padre in una fanta- sia di rapporti sessuali con lui. Non si poteva infatti escludere che, trattando- si di un padre molto stimolante sul piano erotico, i giochi del nascondersi e del ritrovarsi che la bambina faceva con lui, la eccitassero molto stimolando la sua fantasia erotica. Peraltro c’è da dire che in MARIELLA era presente, in quel periodo una intensa masturbazione che la madre tendeva ad ostacola- re e di cui parlò solo dietro precisa richiesta del C.T.U.. Una diagnosi di abuso sessuale in un bambino, anche se non deve mai esse- re esclusa o facilmente negata, ha bisogno però di essere posta con molta cau- tela. Sulla rilevanza della sessualità infantile e sull’argomento della realtà o fantasia degli abusi sessuali subiti nell’infanzia si può citare S. FREUD che dopo aver descritto, nel 1893, alla base della nevrosi isterica un trauma ses- suale (“la seduzione sessuale di un bambino da parte di una persona adulta, più spesso il padre”), nel 1897 riconosce il suo errore di interpretazione del materiale a sua disposizione ed afferma “...che le scene di seduzione non erano mai avvenute nella realtà, ma erano solo delle fantasie create dall’im- maginazione ... desideri realizzati nella fantasia...”. E poiché, come vi ho detto nella prima parte a proposito degli aspetti psicologici della fase edipi- ca, in questo periodo prevale ancora il principio del piacere rispetto al prin- cipio di realtà, è ovvio che il bambino può confondere ciò che è avvenuto con ciò che ha desiderato o fantasticato. Peraltro i fatti che madre e zia riferiva- no al padre, sarebbero avvenuti durante o poco dopo la separazione, e non contestualmente al racconto fatto. La mia esperienza nel tempo mi ha sempre più rafforzato nella convinzione che quando un bambino riferisce di essere stato oggetto di pratiche sessuali o comunque fa giochi sospetti o dice cose che lo possano far pensare, questo non deve aprioristicamente indurre a “credere” nella realtà dell’abuso: i gio- chi erotico-sessuali infantili sono una modalità molto frequente di esprimere e di elaborare le fantasie sessuali che si creano sotto la pressione tipica della fase fallica dello sviluppo. Quando una coppia è normalmente unita, la presenza costante di entrambi i genitori mitiga le fantasie di desiderio del bambino, ma, soprattutto, quando vi è una reciproca fiducia tra i coniugi, le fantasie non vengono mai confuse con la realtà dei fatti. Quando i genitori sono divisi ed inconciliabili, le cose dette da un bambino possono invece provocare il turbamento della madre, toccando la sua pre- gressa esperienza sessuale ed innescando una inchiesta sulle “attività perver- se” del padre, inchiesta talora altrettanto aggressiva ed intrusiva sulla psiche infantile quanto la violenza fisica che si teme il bambino abbia potuto subire. Ciò può tendere a fissare nella mente infantile un falso trauma costruendo un ricordo sgradevole, là dove c’era solo piacevolezza. Si assiste ad una vera e propria confusione dei linguaggi tra i bambini e gli adulti: i primi parlano il linguaggio dei desideri e della fantasia, i secondi il linguaggio di fatti aprioristicamente temuti. Riprendo da una più recente rela- zione peritale: “Non vi è alcun dubbio che nel gioco che la bambina sta

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facendo ella stia esprimendo una fantasia sessuale che la madre ha trasforma- to immediatamente in un abuso sessuale da parte del padre…. L’accusa al padre viene fatta d’embleé, senza dubbi od incertezze, sulla base del precon- cetto che “era prevedibile” che lui avrebbe commesso gli atti di cui è impu- tato: “Da lui me lo sarei aspettato, dice, ma quando la bambina sarebbe stata più grande, non a questa età…”; e questa affermazione sembra veramente nascondere una angoscia personale di violenza sessuale che già si era mani- festata con una precocissima informazione data alla figlia, prima ancora dei 4 anni, sulla possibilità di subire abusi sessuali da parte degli adulti”. Si tratta cioè, in questi casi, della proiezione di fantasmi genitoriali che sono la risultante di esperienze vissute dagli adulti nella loro storia personale e non bene integrati, con una identificazione massiccia alla “dimensione abu- sata” portata dal bambino, che deve essere attentamente controllata ed evita- ta. Il C.T.U. nella ricostruzione della storia di Mariella andò proprio in questa direzione. Dopo aver parlato della situazione patologica rilevata ed avere negato la pos- sibilità di essere stata suggestivamente provocata dall’ambiente materno, scrive: “Ma c’è qualcosa di più sottile, di più sfumato avvenuto al confine fra il livello inconscio e quello cosciente, che ci autorizza ad ammettere, influen- ze in senso psicologico, provenienti dall’ambiente e rielaborate dalla bambi- na. Mariella non ha raccontato subito i presunti fatti accaduti con il padre ma dopo un intervallo di tempo di alcuni mesi se non di anni. Questo apre una fondata serie di dubbi circa la possibilità che i fatti siano realmente accaduti e riguardo la veridicità dei racconti da lei fatti. La bambina, abbiamo visto, è aderente alla realtà al momento attuale, ma quando i fatti si sarebbero verifi- cati era molto più piccola ed i ricordi della prima infanzia sono soggetti ad alterazioni, rielaborazioni, modifiche in varie combinazioni. In questo gioco interviene la suggestionabilità del bambino al fine di compiacere gli adulti ed ottenere da essi una piena accettazione di loro stessi. La bambina in pieno periodo edipico si trova immersa in una situazione familiare gravemente patogena. È molto attaccata al padre, ma a poco a poco perde questa fonte di protezione. Non può spontaneamente trovare l’aiuto della madre perché sarebbe stata necessaria una buona armonia coniugale che non esiste; il suo rapporto colla madre è ambivalente: di odio e di amore nello stesso tempo. Per sopravvivere ha la necessità di procacciarsi l’amore e l’approvazione della madre con ogni mezzo le si presenti. E a questo punto, l’ambiente edu- cativo completamente sbagliato nel quale si trova, permeato dalla animosità della causa in corso, eccessivamente preoccupato per tutto ciò che riguarda il sesso, [ma anche, aggiungerei, molto polarizzato su di esso] inizia una serie di errori che si ripercuotono sulla bambina. Tutto ciò che riguarda la grave problematica emotivo-affettiva della bambina e che si manifesta in aggressi- vità, “stranezze” al ritorno dalle visite al padre, masturbazione, viene distor- to in una prospettiva carica di sessualità, giungendo persino alla visita gine- cologica (peraltro negativa, come già detto). Certamente si proiettano sulla bambina una infinità di problemi sessuali personali non risolti. In questo clima, in maniera non necessariamente finalizzata, con la quale si intende la suggestione esterna, sono iniziati i racconti di Mariella. Gradatamente la

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bambina ha percepito che tali racconti erano gratificanti per i familiari, ha scoperto il mezzo che stava cercando attraverso il quale ricevere una perfet- ta accettazione ed ha iniziato a “vivere” il proprio rapporto con il padre come aggressivo. Ciò spiega l’intervallo di tempo tra i fatti e l’inizio della loro nar- razione; ed anche il motivo per cui i racconti della bambina non sono avve- nuti in una volta sola, o in poche volte, ma a più riprese ed anche recentemen- te, dopo l’incontro con “l’oggetto fobico”. […] I fatti la cui narrazione e descrizione è attribuita alla bambina non possono essere dovuti a sua inven- zione, ma sono invece frutto di un clima psicologico, vissuto dalla madre e dai suoi familiari, che, pur non deliberatamente, ha suggestionato la psiche della bambina in un momento particolare del suo sviluppo. Mariella non ha inventato; ha “vissuto” come realtà i fantasmi del difficile momento della sua vita, suggestionata dalla atmosfera psicologica che la madre aveva creato attorno a lei sia pure non volontariamente né consapevolmente”. Allora, trent’anni fa, come ho già detto, c’era molta meno dimestichezza con questi fatti, mentre al momento attuale è sempre più frequente andare incon- tro ad accuse di violenze ai figli fatte da uno dei genitori nelle separazioni conflittuali. C’è da pensare che in questi casi il genitore che accusa non sia più, come i genitori di Mariella, così sprovveduto, ma parli anche un linguag- gio di comodo per riuscire ad escludere, rapidamente e completamente dalla vita del figlio l’altro genitore, in modo da poter creare nuovamente un nucleo familiare con un nuovo partner come se fosse l’unico padre del proprio figlio! Ho presentato questo caso non, ovviamente per ricevere consensi sulla posi- zione presa, ma per aprire il versante delle alterne possibilità che si possono riscontrare nei casi in cui c’è il sospetto di abuso sessuale… Ma, detto questo è però necessario sottolineare che esiste anche la posizione opposta: di voler negare ciò che il minore esprime per evitare l’angoscia rispetto alla percezione di pericoli realmente esistenti, ed anche questo, è ovvio, deve essere altrettanto evitato rendendosi disponibili all’ascolto, al di là delle parole, di ciò che i bambini hanno da dirci nel loro linguaggio.

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ingrazio l’avvocato Marcucci perché sono sempre molto contento di intervenire ogni qualvolta l’uditorio è composto da avvocati perché Rsono vari anni che il mio sforzo, sia come direttore del Centro per l’età evolutiva sia come presidente della Simef, è legato proprio al massimo coin- volgimento possibile degli avvocati, ed ovviamente degli avvocati che si occupano del diritto di famiglia, nella direzione di un certo modo di concepi- re gli eventi della vita familiare e nell’informazione capillare e nel pieno coinvolgimento degli avvocati all’interno del processo di mediazione fami- liare. Quindi l’essere qui con voi in questa giornata, a parlare di separazione, a par- lare di figli nella separazione, e, per quello che potremo, di mediazione, per me è un’occasione particolarmente gradita. Avremo modo nella giornata, soprattutto nel pomeriggio, di scambiare più direttamente alcune opinioni su quello che facciamo. Questa mattina, tenendomi aderente al tema che mi è stato assegnato, vorrei proporvi alcune riflessioni, che vanno * anche un pochino al di là del titolo “il IL MINORE CONTESO minore conteso”, e che riguardano in generale i figli nella separazione; la condizione dei figli nella separazione che, ripeto, merita un allargamento del titolo perché, come credo tutti avrete DOTT. constatato nella vostra esperienza, non sempre i figli nella separazione sono FRANCESCO oggetto di contesa. Questa è soltanto una situazione ma ci sono anche altre CANEVELLI tipologie. Non è detto che il figlio nella separazione sia conteso, può essere tante altre cose che vedremo insieme, per cui questa mattina vi proporrò alcu- PSICHIATRA, PRESIDENTE DELLA ni scenari, alcuni modi di intendere i figli all’interno dei processi di separa- SOCIETÀ ITALIANA DI MEDIAZIONE FAMILIARE zione. Il mio primo criterio è questo: l’utilità, offrire cioè delle chiavi di lettura che nel vostro lavoro, sempre più in interfaccia con il lavoro di psicologi, psi- chiatri, operatori dei servizi, mediatori familiari, possano anche portare ad un minimo di linguaggio comune nell’intenderci su certi fenomeni. Non credo assolutamente al fatto che tutti dobbiamo parlare la stessa lingua. Questa è un’aberrazione. È bene che ogni disciplina mantenga la sua lingua, mantenga i suoi criteri di osservazione, le sue valutazioni. È anche vero che questo è un campo in cui ci incontriamo tra diverse professionalità. È allora assolutamente urgente ed indispensabile che ci sforziamo di avere, quanto meno, alcuni elementi di linguaggio comune, per intenderci nel lavoro che facciamo, perché è sempre più una certezza che nel campo del diritto di fami- glia l’incontro, non solo tra molte professionalità, ma proprio tra molti ope- ratori, è un’esigenza assolutamente fondamentale. Ecco che, allora, da questo mio discorso di stamattina sul figlio nella separa- zione dovrebbe poi nascere anche in maniera più precisa, almeno me lo augu- ro, che cosa si intende, o cosa si dovrebbe intendere con tutela, con il concet- to di tutela dei figli nella separazione. Anche questo è un concetto a volte abusato, o usato male, a volte usato in senso eccessivamente protezionistico nei confronti del bambino, dimenticando alcu- * Correzione redazionale

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ni aspetti, fondamentalmente uno di cui parleremo stamattina cioè il fatto che il bambino, il figlio in generale perché spesso si parla del bambino mettendo insieme anche l’adolescente, è un soggetto attivo. Collabora molto attivamen- te con alcune sue posizioni al determinarsi di quello che avviene nei percorsi di separazione, per cui anche sul concetto di tutela dobbiamo intenderci. La migliore tutela possibile del minore è, infatti, quella che possono mettere in campo i suoi genitori in primo luogo, e questo è il concetto di base, ma non voglio andare troppo avanti su questo perché altrimenti poi non rispetto il mio programma. Facciamo un passo indietro, e ritorniamo appunto a questo figlio che assiste, se vogliamo tenerlo così in questa dimensione di oggetto, ma che poi parte- cipa attivamente alla separazione dei suoi genitori. Qui devo necessariamente fare - cercherò di farlo il più breve tempo possibi- le perché probabilmente sono cose conosciute ma che secondo me vale la pena sempre richiamare - un minimo di excursus su quella che è stata la sto- ria della ricerca, la storia delle concettualizzazioni che sono state fatte da diversi anni ormai sulla condizione del figlio nella separazione, perché come in tante altre cose della vita non sempre la si è pensata nella stessa maniera rispetto a questo fenomeno. Allora credo che una premessa su come siamo arrivati ad alcune considera- zioni attuali sia doverosa. Credo che oggi, da questo punto di vista, ci sia una condivisione pressoché unanime sul fatto che certamente la separazione dei genitori è un evento ad elevata quantità di stress emotivo rispetto ai figli. Ciò vale qualunque sia l’atteggiamento culturale od ideologico che si voglia avere nei confronti del fenomeno della separazione, quindi sia che lo si con- sideri, come in alcuni contesti socio-culturali viene proposto, addirittura come un evento normativo, cioè come un evento atteso e prevedibile ormai nei percorsi di vita delle persone, oppure, al versante opposto, che lo si con- sideri ancora un evento patologico nella vita relazionale delle persone. Comunque, sia che la consideriamo ad un estremo o all’altro o in tutto quel- lo che c’è in mezzo, sicuramente dal punto di vista del figlio la separazione rappresenta un evento ad elevato livello di stress. Non è però sufficiente dire questo perché quando parliamo di elevato livel- lo di stress facciamo un riferimento quantitativo, mentre dobbiamo appro- fondire che qualità di stress la separazione propone ai figli e su questo, ripe- to, mi rifaccio a quello che è successo nella storia, nelle teorie psicologiche, anche se in maniera molto sintetica. Una prima fase della ricerca e della concettualizzazione sulla separazione proponeva, rispetto ai figli, quella che si può definire proprio una sorta di “sindrome da separazione” cioè la descrizione di una serie di sintomi, quindi un atteggiamento di tipo solamente clinico, psico-patologico, in cui il figlio che viveva la separazione dei genitori veniva connotato come portatore, o come potenziale portatore, di una serie di sintomi. Legati a cosa fondamen- talmente? Legati alla deprivazione, legati alla condizione di perdita di una figura genitoriale. Spesso veniva usata in questo periodo storico la metafora del lutto relativa- mente alla separazione, considerata analoga tout court ad un’esperienza di

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lutto in cui appunto il trauma per il figlio era sovrapponibile a quello della perdita di una figura genitoriale. Questo passaggio era un passaggio imme- diato, quindi una fase centrata su considerazioni di tipo strutturale. Strutturale nel senso in cui la famiglia veniva a modificarsi nella sua struttu- ra ed il figlio veniva quindi a perdere delle risorse. Questa perdita di risorse veniva connotata come in realtà era ed è spesso tut- tora, come perdita fondamentalmente del padre ed in base a quest’idea della perdita del padre all’interno dell’esperienza di separazione veniva sottolinea- ta una serie di effetti negativi, fondamentalmente riconducibili a tre livelli: disadattamento sociale, disadattamento psico-sessuale, disadattamento scola- stico. Questa triade di livelli era legata strettamente al venire al mancare di una funzione e spesso di una persona con la qualifica della genitorialità. A questa prima fase, così molto rigidamente connotata ne è seguita un’altra, centrata più sulla relazione, potremmo dire una fase “relazionale” dello stu- dio sui fenomeni della separazione e sui loro effetti sui figli e questa fase centrava l’attenzione soprattutto sul tema del conflitto. Gli effetti fondamentali, gli effetti dannosi della separazione sui figli, sono fondamentalmente legati alla conflittualità permanente che il figlio respira nel nucleo familiare così modificato. In altri termini, in qualche modo veniva connotata la situazione del minore nella famiglia separata come quella di chi subisce un deterioramento globale della qualità della vita, della qualità delle relazioni significative, quindi, da una perdita strutturale, connotata nel primo periodo di studio, ad una più di tipo qualitativo, di deterioramento della qualità della vita, legata al dover assistere nel tempo a fenomeni di conflittualità tra i genitori. L’ulteriore sviluppo della concettualizzazione degli studi ha incrementato la complessità delle osservazioni nella consapevolezza che variabili così sem- plicistiche, quali il venire a mancare di una persona o di una figura, la pre- senza di elementi conflittuali, erano troppo riduttive rispetto alla complessi- tà dei fenomeni osservabili in tutte le vicende della vita e in quelle della sepa- razione in particolare. In altri termini si è cominciato a considerare la separazione, come pure altri fenomeni della vita, come un processo psico-sociale multidimensionale. L’ottica della multidimensionalità, così come è entrata in moltissime branche della scienza, delle scienze umane in particolare, ha preso il sopravvento anche rispetto agli studi sulla separazione. Cosa ci propone un’ottica multidimensionale? Ci propone la validità contem- poranea di tutti gli aspetti che abbiamo fin qui considerato. Non è superata l’idea che può derivare un effetto dannoso dalla perdita di una figura genitoriale o dal clima di conflittualità permanente. Ci mancherebbe altro! È che sono aspetti eccessivamente limitati se pensiamo di far riferi- mento soltanto a questi. L’idea della multidimensionalità ci propone appunto accanto a questi aspetti, che non vengono scartati, la considerazione per altri aspetti quali, ad esempio, la percezione individuale dei fenomeni, cioè come il soggetto partecipa ai fenomeni che lo riguardano, quindi in un’ottica che, come dicevo all’inizio, comincia a spostare anche il figlio rispetto alla sepa- razione da semplice oggetto che riceve una serie di messaggi, torti, mancan- ze ecc. a soggetto che partecipa alla costruzione di quello che accade intorno

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a lui ed in lui e dà un senso, attribuisce significati attivamente all’esperienza che vive. Non è una differenza da poco come vedremo. In altri termini, la considerazione multidimensionale è una considerazione che inserisce l’elemento dell’evolutività all’interno dei fenomeni, non li con- sidera semplicemente come eventi statici, che una volta che sono accaduti restano così per sempre, una sorta di ferita rispetto alla quale si può soltanto formare una cicatrice e nulla più ma che inserisce il dinamico, inserisce la possibilità che gli scenari cambino e che gli scenari cambino anche in senso positivo, oltre che in senso negativo, inserisce il concetto, tipicamente evolu- tivo, dei compiti di sviluppo che le persone e le famiglie hanno nel corso del loro ciclo di vita. Il tema dei compiti di sviluppo è un tema estremamente importante. Sapete che la definizione di ciclo di vita di un individuo, di una famiglia, è quella definizione che rende conto di come nelle tappe fondamentali della vita, ognuno di noi individualmente, ed i nuclei familiari nel loro insieme, è/sono in qualche modo confrontato/i con diversi e specifici compiti di sviluppo, cioè con una serie di aspettative di risposta a bisogni che sono tipici di quel- la fase e non di altre. La separazione propone nuovi compiti di sviluppo alle famiglie ed agli indi- vidui, quindi questo tipo di concettualizzazione è molto più dinamica e rende conto fondamentalmente di questi aspetti. In particolare, rende conto del fatto di come ogni evento della vita propone compiti di sviluppo nuovi, in ordine ad un miglior adattamento alle nuove circostanze di vita e per miglio- rare, quando si parla di miglior adattamento, si intende un qualcosa che ha a che fare con vincoli e con risorse e su questo mi fermo un attimo per spiega- re meglio. Ognuno di noi, rispetto a nuove circostanze della vita, ha il problema di modificare i propri atteggiamenti, di modificare i significati che dà alla pro- pria esperienza in ordine appunto alle novità che gli vengono proposte e que- sto lo fa in una condizione in cui ci sono degli ostacoli e delle possibilità. Quali sono gli ostacoli e quali sono le possibilità? Gli ostacoli e le possibili- tà sono sia interne alla persona, quindi fanno riferimento al mondo persona- le, sia esterne e fanno riferimento al mondo ambientale. Un tipo di ostacolo ai migliori adattamenti è rappresentato dalle condizioni personali di impossibilità di fare qualcosa di diverso da quello che si è sem- pre fatto, dalla impossibilità o dalla difficoltà di vedersi diversi da quelli che si era e da come ci si è sempre conosciuti. Questo è un tipico vincolo ad un miglior adattamento, basato su caratteristiche personali. È come dire, facen- do una metafora di tipo biologico per spiegarmi meglio: nell’evoluzione delle specie ogni specie, oltre che essere condizionata dal suo ambiente, è condi- zionata dal proprio patrimonio genetico. Ci sono alcune cose che il nostro patrimonio genetico ci consente di fare, altre cose che non ci consente di fare. Quelle che non ci consente di fare sono dei vincoli. Non possiamo improvvisamente metterci a camminare a testa in giù perché il mondo si è capovolto. Non lo possiamo fare, poi, piano piano, forse nei secoli qualcuno, un soggetto ci riuscirà, trasmetterà questa capacità alla sua progenie e faremo un mondo di persone che camminano a testa in giù

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però ci sono alcuni vincoli, alle possibilità adattive che in qualche modo sono legati alle condizioni stesse dell’esperienza, delle possibilità del soggetto. Altrettanto questi vincoli sono rappresentati dall’ambiente circostante. Come vedremo parlando di separazione, ci sono modalità con cui i genitori gesti- scono le loro questioni nella separazione che rappresentano, di fatto, degli ostacoli potenti, dei vincoli pesanti al miglior adattamento dei figli, per cui il figlio si trova nell’impossibilità di utilizzare, ad esempio, le figure genitoria- li come risorse per un suo migliore adattamento e si trova davanti, come vedremo tra poco nella mattinata, dei ruoli già ben predeterminati che può incarnare e non può incarnarne altri perché il modo in cui i genitori gestisco- no la separazione è un vincolo che lui non può ignorare. Al tempo stesso però le persone individualmente e le relazioni tra le persone sono anche delle risorse. Ogni situazione di stress, ogni situazione che pro- pone delle novità, così come ci procura delle difficoltà di nuovo adattamen- to ci procura delle nuove possibilità di risorsa ed è importante che noi man- teniamo anche questa considerazione, all’interno delle nostre letture dei per- corsi di separazione, perché i percorsi di separazione, come tutti quei percor- si che nella vita propongono necessità di nuove collocazioni delle figure significative, propongono anche delle risorse, non soltanto degli ostacoli: nuove possibilità da utilizzare, nuove persone da incontrare quindi operativi- tà nuove, possibilità di nuovi significati dell’esperienza per i figli, come per gli adulti. In questo non sono diversi i bambini e gli adolescenti dagli adulti: le moda- lità adattive dei bambini, degli adolescenti, degli adulti alle novità della vita sono le stesse, anzi i figli le hanno più elastiche rispetto agli adulti. Il proble- ma è quanti vincoli mettiamo loro davanti, non è la capacità adattiva intrin- seca del bambino o dell’adolescente. Ecco, allora in questo senso credo che noi dobbiamo cercare di uscire un pochino dalla visione ristretta del minore, come qualcuno che subisce un qualcosa e basta nella separazione. Dobbiamo, e lo stiamo facendo abbon- dantemente, superare le teorie molto semplicistiche del danno, del lutto, del conflitto che riducono la separazione unicamente ad un evento traumatico per certe condizioni. Dobbiamo chiederci in maniera più attenta qual’è il tipo di stress, il tipo più specifico di stress che la separazione propone ad un figlio che è riduttivo descrivere in termini soltanto di lutto o soltanto di conflitto. Per esempio, è importante sottolineare come lo stress che viene proposto ad un figlio nella separazione non è tanto legato né alla perdita né al conflitto. Può essere legato anche a questo ma è soprattutto legato alla diversa colloca- zione delle figure genitoriali sia nelle sue modalità relazionali quotidiane, sia nel suo mondo interno cioè nei significati che attribuisce a quello che ha di fronte. Questo è un tema molto più complesso della semplice perdita o del semplice conflitto, perché si tratta di un’operazione globale complessiva di ricollocazione delle figure adulte al suo interno e nelle relazioni reali di tutti i giorni che rappresenta sicuramente un compito di sviluppo da una parte di elevata complessità che non è assimilabile alla “semplice” elaborazione di un lutto ma che presenta degli elementi spesso di ambiguità, di complessità molto più elevata. Ad esempio, solo per citare uno dei compiti più problematici che le persone,

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non solo i soggetti in età evolutiva, ma le persone vivono, anche i due coniugi nella separazione, quella di come ricollocare relazioni che da una parte propon- gono un’assenza, ma al tempo stesso propongono una permanente presenza. Questa doppia realtà della separazione, il determinarsi di una mancanza ma il permanere di una presenza in termini diversi, è uno dei temi più complessi, più difficili nell’elaborazione di una separazione, sia per gli adulti che per i figli. Quindi altro che conflitto, altro che semplice perdita. Si tratta di un compito di sviluppo di elevata complessità che riguarda anni di vita e quindi non l’im- mediata reazione allo stress acuto del momento della separazione in cui, ripe- to, il tema è come affrontare questi aspetti ambivalenti, questi aspetti duplici che continuamente propone l’esperienza di separazione. La dislocazione fuori dalla famiglia di alcune figure, ma al tempo stesso il mantenimento di relazioni che, anche quando sono molto diluite, comunque si sanno presenti. Non è necessario che, ad esempio, il bambino senta con una certa regolarità anche solo per telefono un genitore; non è un fatto solo quantitativo. Il bambino sa che quel genitore esiste, non è una questione se lo sente tutti i giorni, se lo vede più o meno ecc. È il problema di che senso dà, che signifi- cati dà quel figlio, al fatto che quel genitore è in quest’altra posizione per lui, dove ovviamente gli aspetti concreti, come vedremo, contano perché poi non è vero che non è differente se lo vede tutti i giorni o lo sente al telefono una volta l’anno. È importantissimo, e questo è un aspetto ma c’è anche un altro aspetto: l’aspetto interiore cui comunque occorre dare un significato, un senso nuovo al fatto che quel genitore, comunque lo si senta o non lo si senta, esiste, non è morto ma esiste in una dimensione diversa, con possibilità di rapporti completamente diversi, tutti da scoprire, tutti da inventare. Questa, direi, è la tipicità, la specificità dello stress della separazione che, ripeto, riguarda sia gli adulti che i bambini. Non è diverso, anche i due coniu- gi hanno questo problema. Hanno il problema di come ricollocarsi vicende- volmente vivendo insieme due vissuti spesso estremamente contraddittori. Il fatto che è finita una cosa ma non è finita affatto. Una dimensione di fine che però non è una fine e sappiamo benissimo, nei vostri studi questo avviene tutti i giorni, quanto questo tipo di esperienza sia dolorosa, lacerante, irritan- te, mettete tutti gli aggettivi che volete, e quanto crei , difficoltà, problematiche anche a distanza di anni. Ecco, se questo è il panorama generale su cui mi muovo, adesso entriamo di più nel merito del bambino, dell’adolescente, di quali sono in maniera anche più organizzata, più metodica, le variabili, gli aspetti su cui dobbiamo, secon- do me, concentrarci quando pensiamo al figlio nella separazione, quali sono le chiavi di lettura. Coerentemente con tutto quello che ho detto fin qui, vi proporrò due fonda- mentali chiavi di lettura rispetto alle quali collocare la situazione del figlio nella separazione, con l’avvertenza ovviamente che, come tutte le volte che si parla di tipologie, di caratterizzazioni ecc., si fanno delle assolutizzazioni, si fanno delle riduzioni, si propongono degli schematismi che hanno, da una parte, l’utilità degli schematismi e, dall’altra, un po’ la rigidità, la riduttività degli schematismi, che però a mio avviso sono utili proprio per avere delle griglie di valutazioni dei fenomeni che stiamo osservando, dal punto di vista, appunto, del figlio nella separazione.

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Le griglie che vi propongo sono appunto due e dovrebbero incastrarsi tra loro, dovremmo formare una sorta di due assi attraverso i quali si forma effet- tivamente una griglia. Il primo asse si basa sul punto di vista del minore, discorso che so che vi è stato già proposto anche se con modalità di letture e con teorizzazioni diver- se, ma che riguarda le fasi dello sviluppo del minore. Fasi dello sviluppo del minore, viste in che senso? Viste proprio nel senso che dicevo prima, come vincoli e come risorse. È fondamentale la fase dello sviluppo nella quale il bambino, l’adolescente, il giovane adulto vive la separazione dei genitori. Perché la fase dello sviluppo determina cosa? Determina appunto quei vincoli e quelle possibilità in ordine al suo migliore adattamento. Ci sono fasi dello sviluppo in cui certe cose non si possono fare, per certe cose intendo certe operazioni mentali, perché si è fermi giustamente su certi bisogni, ma se ne possono fare altre, appunto quel- le compatibili con le competenze acquisiste in quella fase dello sviluppo. Avere quindi in testa una griglia che definisce quali sono gli aspetti che più probabilmente un bambino che vive lo stress della separazione ad una certa età, ad una certa fase dello sviluppo piuttosto che un’altra, metterà in campo, credo che sia un asse assolutamente fondamentale proprio come lettura delle possibilità e delle non possibilità che questo bambino o adolescente si trova ad avere. C’è poi il secondo asse, altrettanto fondamentale, che rappresenta quello che a questo figlio propongono i genitori, perché, dicevamo prima, il bambino è un soggetto attivo, quindi partecipa attraverso quelle che abbiamo definito le sue competenze, le sue possibilità ma è anche un soggetto che in qualche modo dipende da quello che gli viene proposto per trovare il suo migliore adattamento per cui, se i genitori gli presentano una certa immagine del loro rapporto, del rapporto con lui, del mondo, questo rappresenterà un vincolo, una strada quasi obbligata da percorrere piuttosto che un’altra. La seconda tipologia che proporrò è quindi quella delle cosiddette “modalità di gestione della separazione” da parte dei genitori, intese come schema che necessariamente il bambino si trova a dover utilizzare per il suo adattamento alla separazione stessa. Quindi, ripeto, due assi fondamentali: le fasi dello sviluppo del figlio, di cui adesso cominceremo a parlare, e le modalità di gestione della separazione da parte dei genitori. Allora cominciamo con i lucidi. La suddivisione ed il tipo di considerazione che farò delle caratteristiche di ogni fase dello sviluppo, è assolutamente indispensabile premetterlo, è un tipo di considerazione che fa riferimento alle teorie di tipo psico-sociale, quindi alle teorie relazionali fondamentalmente, ma anche alle teorie cui facevo riferimento prima, quelle del ciclo di vita della famiglia, dei compiti di sviluppo tipici di ogni fase dello sviluppo. Da questo punto di vista, al centro dell’attenzione porrò soprattutto quale sia la funzione genitoriale più tipica in ogni fase dello sviluppo. È chiaro che si trat- ta di uno schematismo: le funzioni genitoriali sono tante e persistono in tutte le tappe dello sviluppo, ma ci sono alcune funzioni genitoriali che emergono in maniera preminente in alcune fasi dello sviluppo proprio come compiti che i

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genitori hanno in maniera prioritaria perché hanno un figlio di quell’età. Credo che con gli esempi sarà più facile capire. Perché dico questo? Perché è chiaro che un bambino, un soggetto in età evolutiva che vive la separazio- ne dei genitori, secondo l’età in cui vive quest’esperienza sentirà particolar- mente minacciata quella funzione genitoriale, quella che è prevalente in quel momento, quella che emerge da tutte le altre come più significativa per lui in quel momento ed in base a questo terrà una serie di comportamenti, di possi- bilità adattive. Su questo vado subito a mettere il primo lucido così credo che si chiarisca quello che voglio dire. Prima infanzia: il bambino nella prima infanzia definita, secondo criteri tra- dizionali di tipo psico-sociale, da zero a cinque anni, cioè la fase che prece- de l’inserimento scolastico, che precede l’età scolare in senso stretto. É vero che i bambini cominciano ad andare alla scuola materna ben da prima ma questo viene ancora connotato con la prima infanzia, proprio perché comun- que la scuola materna non mette in campo tutta una serie di richieste, di biso- gni, di competenze che sono tipiche invece della fase successiva. Se pensia- mo al bambino in prima infanzia e lo pensiamo appunto alla luce di qual è la qualità del rapporto genitoriale, la qualità emergente, preminente, che viene attribuita alla funzione genitoriale, il tema della protezione è il tema centra- le. La figura adulta, la figura genitoriale in prima infanzia, è una figura che fondamentalmente è connotata da caratteristiche, da funzioni di tipo protetti- vo, dove per tipo protettivo intendo fondamentalmente riferirmi a quello che Bowlby definisce con il concetto di “base sicura”, cioè alla teoria dell’attac- camento in cui il comportamento di bisogno, il comportamento di ricerca del bambino della figura adulta è supportato in modo complementare dal com- portamento protettivo, accudente del genitore. Questo schema, attaccamento/accudimento è lo schema tipico della prima infanzia. Uno schema assolutamente prevalente nella prima infanzia dove con prevalente non intendo dire che non si attivino altri schemi comporta- mentali in quell’età. Certo che si attivano. Cominciano ad attivarsi schemi agonistici, il rifiuto, il no e quant’altro, le prime esperienze, le piccole espe- rienze di prima socializzazione ecc., ma l’elemento emergente è quello della funzione protettiva, richiamato frequentemente, richiamato con la massima frequenza. L’attivazione di una minaccia, come l’esperienza della separazione, va a toc- care la sicurezza del mantenimento di quella funzione dell’adulto per il bam- bino. Il bambino con le famose antenne, che tutti quanti gli riconosciamo, immediatamente si allerta rispetto alla percezione di una figura adulta meno disponibile a questa funzione protettiva e rispetto a questo mette in atto una serie di comportamenti. Questi comportamenti, ripeto, sono dettati dall’emergere di un’insicurezza rispetto alla protettività e fanno proprio riferimento alla minaccia che è quel- la della paura della perdita, proprio in senso protettivo. Sul piano comportamentale, che è l’ultima casella, sul piano comportamenta- le questo spesso viene messo in atto attraverso una serie di comportamenti di richiamo che sono proprio i comportamenti di richiamo alla vicinanza, di richiamo alla protezione.

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Come dire: sono i test che il bambino fa rispetto a vedere se la figura adulta è disponibile per lui e quanto, e sono tutti quei tipici comportamenti che noi spesso definiamo con un termine generico, regressioni, per usare un termine ma che in realtà non sono altro che quei piccoli passi indietro rispetto alle competenze acquisite che denotano proprio il testare la disponibilità della figura adulta ad intervenire immediatamente a protezione. I piccoli episodi di enuresi sono un classico in questa fascia di età, il ritorna- re indietro sul controllo degli sfinteri è un evento assolutamente normale in una fase di questo genere che ha proprio il significato di un richiamo all’ac- cudimento più stretto, alla presenza più vicina del genitore di cui si percepi- sce un distanziamento, una minore qualità protettiva. Credo che su questo possiamo andare avanti. Cosa accade nella seconda infanzia? La seconda infanzia è caratterizzata dal punto di vista della figura adulta, della figura genitoriale, dall’emergere più in primo piano delle funzioni di orientamento. Potremmo parlare di funzioni normative dell’adulto, cioè dell’adulto genito- re ovviamente, che si propone e che viene vissuto un po’ come il modello da seguire e da imitare, colui o colei che in qualche modo detta le fasi dell’espe- rienza, detta le regole dell’esperienza. In questa fascia di età entra in maniera molto forte il mondo esterno, dove per molto forte intendo entra il mondo esterno con tutte le richieste di prestazioni che il mondo esterno fa. Èla fase tipica in cui il bambino comincia ad essere sollecitato a mantenere livelli prestazionali che siano soddisfacenti per lui, per i suoi genitori, per il suo ambiente scolastico, per il suo ambiente di amici. Per prestazioni si intende una serie di elementi, non soltanto la prestazione scolastica in senso stretto, ma anche la prestazione sportiva, l’essere ricono- sciuto nel club dei pari e quant’altro, in cui l’elemento normativo, inteso come cosa gli viene richiesto, è assolutamente in primo piano e l’adulto genitore è la figura di riferimento proprio rispetto all’orientamento in questo mondo. Si potrebbe dire, in altro modo, che il bambino affronta il mondo accompa- gnato dalla bussola che gli fornisce il genitore. Il genitore svolge una funzio- ne di bussola che indica la direzione, ed il riferimento a questa bussola è con- tinuo, importante, fondamentale. Rispetto a questa funzione orientante, ecco allora una possibile esperienza di minaccia nel momento in cui il bambino ne percepisce il venire meno e, ripe- to, il venir meno non vuol dire lo sparire perché qui parliamo di soggetti in età evolutiva dove questo venir meno è anche una piccola percezione di diversità. Non è che nella separazione il genitore cessa da oggi a domani di essere pro- tettivo, di essere orientante e tutto quello che vedremo dopo nelle altre fasce di età, ma c’è il problema di cali di qualità, di variazioni di qualità del modo in cui l’adulto esercita queste sue funzioni che sono estremamente significa- tive per il bambino, e che vengono immediatamente colte ed essendo colte attivano una serie di comportamenti, una serie di aspettative, di bisogni. L’effetto, la conseguenza di una minaccia a questa funzione orientante dell’a- dulto, è quella di un’insicurezza legata appunto al ruolo di guida. Vedete che qualità diversa, anche prima parlavamo di insicurezza rispetto alla protettività. Adesso parliamo di insicurezza rispetto al ruolo guida del-

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l’adulto, la famosa bussola che ad un certo punto comincia a non segnare tanto più il Nord, comincia a ballare in varie direzioni e che ha come effetto immediato che cosa? La paura dell’esposizione all’esterno, sempre rifacen- dosi alla teoria dell’attaccamento, alla teoria di Bowlby, la famosa concettua- lizzazione di Bowlby della base sicura che è la risorsa attraverso la quale il bambino può permettersi di esplorare il mondo, avendo acquisito la sicurez- za dell’adulto dentro di lui nella fase della protettività e la presenza comun- que di una guida che può permettersi di tenere un pochino più lontana, da un punto di vista fisico, ma che sente che l’accompagna comunque. Questo è il concetto fondamentale di base sicura la cui minaccia determina una maggiore insicurezza proprio nell’affrontare il mondo esterno dove que- sta insicurezza, la metto tra parentesi perché, è molto interessante, a volte si carica di aspetti come la vergogna. La vergogna è legata a quale elemento? È legata ad un elemento di insicurez- za che si teme poi condannata, mal giudicata da altri. È lo sguardo del gruppo che ci fa sentire inadeguati, quindi a partire da una percezione di propria inadeguatezza, l’esposizione al gruppo che può coglie- re questa inadeguatezza è fonte di un’emozione molto penosa, soprattutto in questa fascia di età così attenta ai livelli prestazionali, ai confronti. I bambini della seconda infanzia sono quelli che fanno le graduatorie. A che punto sto io nel basket, nel pallone, nella scuola ecc., o negli occhi carini o nel vestirmi eccetera. Il confronto scatta immediatamente ed un confronto che si sente inadeguato è facilmente fonte di un’emozione penosa che è quel- la della vergogna, con una serie di conseguenze comportamentali che sono quelle che poniamo sempre nell’ultima casella del lucido, che anche qui pos- sono essere di polarità opposta perché l’utilità di queste chiavi di lettura è che poi non danno soluzioni di tipo meccanicistico perché noi non sappiamo a priori, e non possiamo saperlo ed è giusto che non lo sappiamo, se un bam- bino in questa fascia di età risponderà comportamentalmente a questo tipo di emozioni, a questo tipo di sensazioni con un maggior ritiro o con una mag- giore spinta aggressiva nei confronti del gruppo. Non lo sappiamo veramente, quello che però è importante per noi è l’osser- vazione di questi comportamenti, perché poi noi, quando osserviamo le cose, partiamo sempre da quest’ultimo punto, facciamo il percorso al contrario. Noi cosa vediamo? Vediamo un bambino che comincia ad aver paura di anda- re a scuola, che la mattina vomita, che gli viene il mal di testa, che mette in atto tutta una serie di comportamenti di ritiro dall’esperienza esterna oppure vediamo un bambino che comincia a picchiare i compagni, che comincia a rispondere male alla maestra, che fa lo strafottente, che diventa iperattivo, che cioè comincia a mettere in atto una serie di comportamenti che nell’asse tipico di quell’età, cioè l’asse legato alla maggiore conoscenza del mondo, maggiore confronto con gli altri, diventa inadeguato, in un modo o nell’altro. Per noi l’importante è dare una lettura coerente con questo tipo di situazione. Un bambino che fa questo a 8, 9 anni non è come quello che fa un adolescen- te a 14, che magari ha un comportamento simile. È fondamentale questa distinzione. È fondamentale riferire questo a quelle che sono le caratteristi- che proprie di quella fase dello sviluppo e di quale funzione genitoriale sente minacciata più specificamente quel bambino, rispetto alla quale quel compor-

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tamento è di nuovo comportamento di richiamo ad una figura genitoriale, che riassuma su di sé il ruolo di bussola, di orientamento che viene minacciato dall’esperienza di separazione, per le condizioni in cui magari il genitore vive l’esperienza di separazione. Passiamo al lucido successivo. Parliamo della pre-adolescenza. Una parentesi su questo. È molto importante in questo tipo di ottica che vi sto proponendo tenere distinta la pre-adolescenza dall’adolescenza, che spesso invece si trovano esposte in una concettualizzazione unica, che non fa questo tipo di distinzione. Personalmente, invece, trovo la distinzione estremamen- te utile ed estremamente importante per tutta una serie di motivi. Innanzitutto perché basta farsi la propria esperienza (non solo di avere figli o non avere figli ma anche di figli di amici, parenti o quant’altro) che sono fasce di età, quella da 11 a 13 e quella da 14 a 18, estremamente diverse per tutta una serie di motivi e quindi metterle tutte insieme nel calderone dell’a- dolescenza fa diventare l’adolescenza questa roba mostruosa che spesso ci viene presentata. Fatto così già comincia ad essere un po’ meno mostruosa. Dobbiamo centra- re degli aspetti più specifici ed anche il tipo di problema evolutivo che ha il ragazzo ed il tipo di problema genitoriale, il tipo di compito genitoriale che propone alle figure adulte è abbastanza diverso. La pre-adolescenza si connota fondamentalmente nella fase delle trasforma- zioni somatiche. Questa è la pre-adolescenza, cioè la ridefinizione del sé cor- poreo, diremmo in termini psicologici o di tipo psico-sessuale che è tipica in questa fascia di età. La fase successiva, quella dell’adolescenza, è problema della ridefinizione dell’identità complessiva del ragazzo a partire dalle tra- sformazioni che sono già avvenute. Quindi la distinzione è una distinzione fondamentale su questo punto, proprio perché il compito di sviluppo tipico della pre-adolescenza per il ragazzo è quello della definizione del sé corporeo quindi di accompagnare, elaborare le trasformazioni fondamentalmente fisiche che attraversa. La funzione fonda- mentale in questa fase d’età del genitore l’abbiamo definita come funzione di rispecchiamento, ovverosia il genitore è colui o colei, e qui la differenza di genere comincia a diventare ancora molto più importante di prima ovviamen- te, colui o colei nel quale il ragazzo si specchia, prende a modello rispetto ad un elemento molto specifico che non è tanto il riferimento normativo di cui si parlava nella fase precedente, ma proprio è il riferimento a come è fatto e come sto diventando io. È una funzione molto sottile spesso, a volte più chiara, più esplicita a volte molto, molto implicita, molto nascosta. Non tutti i pre-adolescenti fanno i giochi di ruolo sessuale con i genitori, o si mettono i vestiti della madre, o fanno cose di questo genere. Alcuni lo fanno, altri non lo fanno, ma laddove questo accade, è più chiaro quello che sta succedendo, ma comunque succe- de in ogni caso, questo guardare al genitore come modello di riferimento somatico e quindi con l’idea di acquisire quelle caratteristiche somatiche piuttosto che altre. Il papà che purtroppo è “pelato”, ma io come sarò? Sarò come mio padre, oppu- re la mamma che ha certe caratteristiche fisiche ecco, questi sono gli elementi in gioco in questa fase molto delicata, cioè come il genitore rimanda con mag-

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giore tranquillità, maggiore serenità, con allarme, tutto quello che volete, il senso di questa modificazione somatica che avviene sotto i suoi occhi. Il problema del venir meno di nuovo - lo schema è sempre lo stesso - del sen- tir minacciata questa funzione provoca l’allarme e l’insicurezza anche qui, rispetto al fatto che queste trasformazioni possono non essere riconosciute, passare inavvertite, non essere colte, apprezzate da un interlocutore attento che per essere tale non è necessario stia ore a parlare con il figlio, la figlia delle trasformazioni somatiche ma è l’occhio che fa da specchio e con che occhio papà o mamma guardano ai miei cambiamenti. Il venir meno, o l’essere più insicuro, di questo occhio è immediatamente avvertito dal ragazzo o dalla ragazza e provoca una serie di effetti che fonda- mentalmente possiamo riassumere nell’idea di un’esperienza di un vuoto, cioè di una mancanza di una superficie specchiante che possa rimandare un qualche segno, un qualche segnale rispetto a questo processo di trasformazio- ne e questo - anche qui di nuovo la strada può essere duplice sul piano com- portamentale, come dicevamo prima - questo può provocare una maggiore accentuazione del tema della trasformazione o il tentativo di blocco del tema della trasformazione. Se non ho qualcuno che mi guarda mentre sto cambiando posso cercare di bloccare il mio cambiamento, quindi cercare di congelare le trasformazioni somatiche. I ragazzi sono bravissimi a fare questo, cercano di dissimularle, mantengono l’atteggiamento prevalentemente infantile. Negli estremi le ragazze possono diventare anoressiche, ma non volevo parlare di patologie, da bravo psichia- tra ci sono caduto (è un estremo ma lasciamolo stare un attimo) ma un tipo di livello comportamentale può essere quello che cerca di annullare, di dissimu- lare la trasformazione. Sono ancora un bambino sia negli atteggiamenti este- riori, nei comportamenti, sia anche proprio nel cercare fisicamente nel modo di vestirmi, nel modo di conciarmi, di eliminare da me, cacciare da me que- sta figura. L’altro modo, il modo opposto: non c’è nessuno che mi guarda, va beh, chi se ne frega, mi faccio guardare soltanto dai miei amici ed accelero tutto quello che in me ci può essere di trasformazione somatica. Comincio a vestirmi da più grande, accentuo con il trucco determinati aspetti, faccio il macho, vado in palestra tutti i giorni in modo che mi vengano i muscoli di un certo tipo ecc., cioè tutte quelle trasformazioni che sono appena accennate, ancora incer- te, vanno un giorno avanti, l’altro giorno indietro, vengono dirottate, accele- rate verso l’accelerazione della trasformazione. Anche qui con funzioni, visto che parliamo di fisiologie, me lo ricordo io per primo, di richiamo: “Ma si accorgerà mamma che mi sto mettendo dieci chili di trucco in faccia? Mi dirà qualche cosa?” “Si accorgerà papà che ho un muscolo che forse stavolta fac- cio una partita a tennis e magari lo batto e faccio il matto pur di riuscirci” oppure rimarrà assolutamente disattento, non coglierà minimamente questo oppure mi chiudo, faccio il bambino, la bambina. Porto ancora i codini, le treccine magari anche se ho 12, 13 anni perché questo mi consente di non espormi a qualcosa che percepisco come insicuro, come probabilmente non ci sarà, che non verrà colto, esperienza particolarmente penosa ovviamente. Proseguiamo. Nell’adolescenza, cioè fra i 14 - 18 anni, perché è importante

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mettere un limite al livello superiore dell’adolescenza. Oggi si sentono dire un mucchio di sciocchezze su questa storia dell’adolescenza. L’adolescenza è una fascia dello sviluppo limitata nel tempo. Ha una fine, perché psicologi- camente ha una fine. Questo discorso dell’eterna adolescenza è un altro tipo di discorso che con- fonde il compito di sviluppo dell’adolescente da quello reale proprio della ridefinizione di sé, della propria identità, della propria persona con quello del distanziarsi fisicamente dalla propria famiglia di origine. Non è un compito evolutivo dell’adolescente quello di andarsene da casa. Non è lo svincolo da casa il compito evolutivo dell’adolescente. Il compito evolutivo dell’adolescente è quello di differenziarsi, di identificar- si come persona separata, diversa dalle persone che lo circondano, che lo hanno sempre circondato, con cui si è prevalentemente identificato. Questo è il suo compito di sviluppo, quell’altro sarà dopo e quindi è bene che, concet- tualmente, noi sappiamo che l’adolescenza ha un inizio ed una fine. Non è indefinita nel tempo, anche se poi potremmo dire che ci sono gli eterni ado- lescenti, ma questo è un altro discorso. Un conto sono i comportamenti e un conto sono le fasi dello sviluppo psico- logico. Nell’adolescenza qual è la funzione adulta, la funzione genitoriale che balza in qualche modo in primo piano? È quella del riconoscimento, vedete la ma importante diversa accen- tuazione da quella di prima. Prima parlavamo di rispecchiamento ed adesso parliamo di riconoscimento. Che differenza c’è tra rispecchiarsi e riconoscersi? Rispecchiarsi ha ancora a che fare, come dicevo prima, con l’assunzione di un’identità uguale. L’identità contiene questo significato, la accentuiamo dicendo uguale cioè “come”. Sono come mamma, sono come papà. Qui il problema è un altro. Il problema è come posso essere io stesso ricono- sciuto come tale da mio padre e da mia madre quindi riconosciuto con le mie somiglianze e con le mie differenze che entrambe c’entrano, entrambe sono importanti, ma poi fondamentalmente riconosciuto come qualcuno di diverso da e di diverso da nel complesso dell’essere, non soltanto se porto i capelli in un modo, gli occhi in un altro o sono grosso, o sono magro o quant’altro, quindi questa funzione di adulto, di genitore che in qualche modo ha il com- pito di dare riconoscimenti al ragazzo cioè di segnalare come lo vede, come la vede. Ed attenzione, qui una cosa molto importante è presentare se stesso e se stessa come si è perché una caratteristica fondamentale che l’adolescen- za propone ai genitori è che non vanno più bene i modelli. Devono entrare in campo le persone. L’adolescente non ha bisogno del papà modello che gli dice “ok così va bene, così va male”, non sa assolutamente che farsene. Ha bisogno di un papà persona, di una mamma persona che presentino se stessi nel momento in cui si rapportano a lui o a lei nel segnalare come lo vedono e, quindi, attenzione agli equivoci. Non è che i genitori degli adolescenti non devono più segnalare al ragazzo come lo vedono, come la vedano, come la pensano su quello che lui o lei sta facendo ma lo devono fare presentando se stessi. Lo devono fare attraverso un’autenticità: io sono così, utilizzando molto di meno o per nulla, se possi-

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bile, i filtri del modello, i filtri della “funzione” genitoriale. C’è un altro modo interessante di concettualizzare questo tema del riconosci- mento come funzione genitoriale in adolescenza che è un po’ quello della funzione di limite, purché ci capiamo sul concetto di limite. Che vuol dire il concetto di limite rapportato ad un genitore rispetto al figlio in adolescenza? Vuol dire che rispetto al problema dell’adolescente di defi- nire i propri confini, dove sono ancora io, dove non sono più io, questo inten- diamo il confine del “sé”, la funzione limitante del genitore è “io sono così. Io arrivo fino a qua e non arrivo più in là. Io ti posso dire questo ma quest’al- tro è roba tua, di cui parlarmi ma che non sto vivendo io. Non posso viverlo io al posto tuo”. Quindi per incarnare in maniera efficace la funzione limite nei confronti di un adolescente proprio in questo significato, cioè chi aiuta a costruire i pro- pri limiti, l’adulto fondamentalmente deve presentarsi, e qui va il gioco di parole, come limitato: io posso definire te con certi limiti proprio perché sono io limitato. Non sono onnipotente nei tuoi confronti e l’uscita positiva dall’a- dolescenza è proprio questo cioè la ricollocazione del genitore non nell’area dell’onnipotenza, ma nell’area della potenza, cioè nell’area in cui può fare delle cose proprio perché non può farne altre. Proprio perché non posso farle tutte, allora posso farne alcune. Quest’idea del limitato che limita, quindi chi limita in quanto limitato, è l’idea chiave dell’aiuto che l’adulto può dare alla crescita dell’adolescente. Perché avevo qualche esitazione ad usare il concetto di limite? Perché a volte da un punto di vita psico-educazionale questo concetto viene visto come l’a- dulto che deve mettere le regole, così per citare un luogo comune, articoli di giornali e quant’altro. “Il problema dell’adolescenza è che non ha l’adulto che mette le regole”. Attenzione a questo discorso nel senso che per regole intendiamo norma cala- ta che in qualche modo deve essere proposta, deve essere rispettata, non ci siamo con il compito di sviluppo dell’adolescente. Se per regole intendiamo regole di vita, modalità di vita incarnata e presen- tata nella sua realtà, nella sua autenticità stiamo facendo un altro discorso, molto più pertinente, allora il problema non è di dare i decaloghi agli adole- scenti, non sanno che farsene. Sbagliamo proprio tappa del ciclo evolutivo se consideriamo il limite, come qualcuno che ti chiuda la porta di casa in modo che non puoi uscire. Non è questo il tema. Il tema è se la persona dell’adulto può costituirsi, incarnando lei o lui, il limite. Tema di non semplice soluzione ma che riguarda, mette in gioco le persone e non le regole. Il problema di una difficoltà nel processo di riconoscimento reciproco che poi, di fatto, si tratta di un percorso di ricono- scimento reciproco, è quello di una possibile percezione, di un mancato o di un incerto, insicuro riconoscimento reciproco e qui di nuovo, vedete, lo sche- ma si ripete, anche se con modalità e con significati diversi, ancora questo può portare a due tipi di scelte adattive, di soluzioni adattive: la rinuncia o l’esagerazione. Nella difficoltà di percepire l’altro come presente, come riconoscente, come limite se vogliamo usare il concetto di prima, posso costruirmeli in più da solo i limiti, quindi chiudermi nella possibilità di riconoscermi soltanto per

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conto mio, l’autoreferenzialità tipica degli adolescenti che non è né patologi- ca né disfunzionale. Hanno bisogno di tutte e due. È tipico dell’adolescente stare ore chiuso in camera e poi trascorrere due pomeriggi di fila che non si vede mai, solo con gli amici e sono due parti di una dinamica assolutamente fisiologica. Il riconoscimento ottenuto tramite la semplice autoreferenzialità ed il riconoscimento ottenuto soltanto con lo sguardo degli amici addosso. Due facce delle stesso processo assolutamente fisiologiche. Il problema può essere l’esasperazione di una di queste due facce. Se l’altro non mi ricono- sce, se l’altro ha difficoltà a riconoscermi, lo posso fare soltanto chiuso nella mia stanza e posso essere soltanto io il riferimento per me stesso; oppure posso trovarlo soltanto fuori, in tutte le esperienze esterne possibili ed imma- ginabili, anzi con una ricerca magari frenetica di esperienze nelle quali mi posso riconoscere, posso ottenere riconoscimento non da un altro ma dall’e- sperienza in sé e per sé, dall’oggetto, dalla cosa, da una qualunque realtà esterna che mi possa in qualche modo gratificare sotto il segno del riconosci- mento. L’esasperazione di questi due fronti, che sarebbero di per sé del tutto fisiologici nello sviluppo dell’adolescente, il fronte interno ed il fronte ester- no se vogliamo dire così, può essere una conseguenza della difficoltà nel tro- vare l’altro adulto disponibile a questo riconoscimento dove, ripeto, anche qui ancora non stiamo parlando di sviluppi patologici o disfunzionali di per sé. Stiamo parlando di tentativi di richiamo dell’altro alla sua funzione: che fa mio padre se comincio a tornare a casa alle due di notte tutte le sere? Mi chiude con dieci mandate le porte di casa, che fa? oppure mi mette lì inchio- dato, mi parla per cinque ore, mi mette un pistolotto che non finisce più però si vede che non gliene importa niente che sta lì annoiato con la faccia appe- sa che sta pensando all’avvocato che lo aspetta nello studio per discutere la separazione con mamma? Per citare un esempio a caso. L’occhio anche qui, il modo, perché se voi chiedete a me: ma quale è giusto, fare il pistolotto o chiudere a chiave? Non lo so, nessuna delle due cose e tutte e due, probabilmente. Il problema è se questo dà una possibilità di rico- noscere l’altro come portatore di istanze, bisogni, problemi. Spesso noi diciamo, quando lavoriamo terapeuticamente in queste situazioni, per esempio, è capace l’adulto di fare domande all’adolescente, cioè di inter- rogarlo sul suo stato dove il fare domande è già nell’ottica di dire: c’è un riconoscimento di un qualcosa che è solo tuo e che non è mio, di cui mi puoi mettere a parte se vuoi, che cosa ti piace tanto di questa esperienza che stai facendo fuori. È possibile che un padre, che un genitore chieda una cosa del genere ad un figlio, oppure si ponga solo il problema se chiudere la porta di casa a chiave oppure chi se ne frega, anche se torna la mattina dopo, non fa niente. Ecco, ripeto, queste forme di richiamo sono tipiche dell’adolescenza. Spesso un nostro errore è quello di considerarle già come un comportamento di autonomizzazione a sé stante. Gravissimo errore considerare questo com- portamento come un tentativo di autonomizzazione precoce. È un errore perché non tiene conto del bisogno fondamentale che è sempre quello del riconoscimento che la figura adulta genitoriale possa avere nei suoi confronti, quindi è semplicemente un ripiego adattivo, che può essere disfunzionale nel tempo. Infine, l’esperienza della giovinezza, il cui compito di sviluppo è esattamen-

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te quello di cui prima si parlava a proposito dell’adolescenza in modo impro- prio, cioè l’effettiva autonomizzazione rispetto alle figure familiari significa- tive dove l’elemento chiave diventa la funzione di reciproca personificazio- ne, ossia la considerazione dell’altro come una persona formata con la quale si entra in rapporto come persona. Questo presuppone tutto un meccanismo precedente, il rispecchiamento ed anche il riconoscimento per l’appunto, ma arriva adesso alla concettualizza- zione, all’incarnare la visione dell’altro, il quale effettivamente è un’altra persona, dove questo concetto di persona è un concetto molto interessante perché poi, vogliamo usare un altro termine: qual è poi la funzione anche più pratica in cui questo si manifesta, in cui l’adulto poi interviene. A me piace ricordarla un po’ come una funzione di radicamento cioè l’adul- to rispetto al giovane adulto, il genitore rispetto al giovane adulto svolge un po’ quella funzione di rappresentare il punto di appartenenza, la radice e que- sto è molto importante perché nessuno si autonomizza senza al tempo stesso mantenere il suo senso di appartenenza a qualche cosa, a qualcuno, a qualche situazione. Fa parte della buona autonomia la definizione di una buona appartenenza e la funzione dell’adulto, soprattutto in questa fascia di età, che tende a non fini- re mai, è la funzione del rappresentare l’esperienza dell’appartenenza. Un’esperienza dell’appartenenza che, per esempio, tollera che ci sia una distanza, e tollera serenamente che ci sia una distanza, o che si mantiene a sua volta sufficientemente tranquilla, sufficientemente buona da non sentire, da non essere sentita come richiamo colpevolizzante alla distanza. Qui credo che sia inevitabile citare quelle che si chiamano le separazioni a “nido vuoto”, le separazioni di persone che hanno già i figli giovani adulti, spesso magari anche usciti di casa. Spesso le persone si chiedono quando sia peggiore la separazione per un figlio, con un figlio piccolino poverino, no aspettiamo un attimo. Non ci separiamo quando è troppo piccolo che poi dopo… Guardate quelli che rea- giscono peggio sono questi qua, cioè il sentire in qualche modo minacciata il sentire “rovinata” da un qualche elemento conflittuale, da elementi di disa- gio, di sofferenza di uno o dell’altro genitore, da una separazione, appunto, l’esperienza che rappresenta fisicamente la propria appartenenza è sconcer- tante, spesso disorientante rispetto a questi giovani che stanno lasciando casa, che stanno costruendo, ad esempio, i loro legami affettivi. Questo spesso noi lo vediamo come effetto negativo rispetto alla possibile costruzione di nuovi legami affettivi. I ragazzi giovani che vivono l’esperien- za di separazione dei loro genitori ormai ad una certa età hanno proprio un vissuto di minaccia a questo senso fondamentale di appartenenza tranquilla che consente loro di andare per il mondo in maniera più tranquilla ed anche qui avvertono, e di nuovo torniamo alla doppia possibilità, o il senso dell’e- spulsione: “Basta, in quella casa non ci voglio più rientrare, ormai mi auto- nomizzo precocemente, magari vado a fare un matrimonio che dopo non si rivelerà il migliore possibile. Affretto i tempi di una maternità o di una pater- nità. Faccio l’incidente di percorso, come si dice”. Spesso questi incidenti di percorso hanno proprio un senso psicologico profondo. Un tentativo forzato, forzoso di creare delle autonomie, laddove questo invece non è sostenuto da

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un effettivo processo in questo senso. Oppure, di nuovo, il rientro allarmato, il rientro preoccupato dentro casa. Il rinchiudersi, essere di nuovo intrappo- lato in dinamiche che si sente di dover curare, di dover alleviare, di dover in qualche modo risolvere con un senso di colpevolizzazione. Questo volevo sottolineare: il vissuto di confusione, tipico di questa fascia di età, nel momento in cui una minaccia come la separazione viene ad essere posta a questa funzione che, anche se sembra così marginale, in realtà è molto importante dei genitori che, rimanendo a casa, costituiscono comunque l’ele- mento radicante dell’esperienza anche in questa fascia di età. Non parliamo poi di tutte le situazioni, socialmente attuali, di prolungamen- ti indeterminati della permanenza, della convivenza tra i genitori e questi gio- vani adulti. In caso di separazione dei primi, a maggior ragione i secondi risentono di questo tipo di minaccia nel senso che si confondono completa- mente i ruoli. Vengono richiamati magari a ruoli precedenti, a fare i figli in maniera indefinita nel tempo e quant’altro. Realtà questa attuale proprio per la tendenza a permanere spesso in casa a lungo per vari motivi dei quali non parlerò perché è un discorso che ci porte- rebbe altrove. Anche in questo caso possono ricorrere le due possibilità, o di un’accentuazione impropria dello svincolo o di un blocco delle istanze di svincolo. Dunque ho concluso questa prima parte che mirava a presentarvi uno sche- ma, una griglia, o meglio un’asse della griglia, ossia quella vista dal punto di vista del figlio, nel senso della individuazione delle diverse condizioni che il figlio vive nelle varie fasi dello sviluppo e del tipo di minaccia che può avvertire alle sue condizioni di sviluppo a seconda che si trovi in una o nel- l’altra delle fasi dello sviluppo stesso dall’intervenire di una separazione. Bisogna però chiarire una cosa. Quanto detto non è valido soltanto quando la separazione avviene in quella fase dello sviluppo. Chiaro che vale in quel caso ma vale anche quando, a separazione magari già avvenuta in tempi pre- cedenti, in altra fase dello sviluppo c’è un riaccentuarsi di un qualche ele- mento che verrà vissuto con le modalità tipiche di quella età. Un bambino che ha vissuto “bene”, o è riuscito ad un buon adattamento, la separazione dei suoi genitori quando era in prima infanzia, nel momento in cui, per qualche vicenda del processo di separazione, viene riattualizzata una conflittualità, dei disagi o qualunque altra cosa quando egli si trova in adolescenza, per fare un esempio, vivrà quel tipo di esperienza con le caratteristiche proprie del- l’adolescente. Quello che è importante in questo schema è che tipo di perce- zione si ha del tipo di minaccia alla funzione del genitore che il figlio vive secondo la fase evolutiva in cui si trova. Se poi questa minaccia sia la separazione all’inizio o la separazione avvenu- ta a 10 anni, ma che si riattualizza per una serie di motivi, è secondario. Quello che è importante è osservare un soggetto in età evolutiva e avere in mente in quella fase quali dinamiche di sviluppo, quali bisogni, avrà preva- lentemente attivi piuttosto che altri rispetto alla figura adulta. Adesso dovremo passare all’altra griglia, all’altro asse della griglia cioè cosa fanno questi genitori nel momento in cui si separano e nel corso della loro esperienza di separazione, cioè che tipo di binari propongono ai figli, binari nei quali i figli dovranno in qualche modo incanalarsi per cercare poi le loro

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strategie attive, le loro condizioni di migliore possibile adattamento alla separazione dei genitori. Per fare questo dobbiamo introdurre questo concetto, su cui dovremo spen- dere un pò di tempo, delle modalità di gestione della separazione. È un concetto che consideriamo della massima importanza perché è un con- cetto che tende a superare quelle che sono alcune semplificazioni insoddisfa- centi. Quale semplificazione soprattutto tende a superare questa concettualizzazio- ne? Quella della conflittualità fondamentalmente, cioè quello che diciamo sempre: è il problema della conflittualità che permane, che si cronicizza nella separazione. Quello che vi dico è: attenzione a parlare sempre genericamente di conflit- tualità. Come vi dicevo all’inizio, attenzione, non è che il bambino è sempre conte- so nelle separazioni. Può essere tante cose che appunto stiamo piano, piano vedendo. Entrare un pochino di più approfonditamente nei vari modi che le persone hanno di gestire la loro separazione non vuol dire rinnegare il fatto che ci sia una conflittualità ma vuol dire approfondire quali sono le forme che questa conflittualità prende perché in base a queste diverse forme poi i figli dovran- no regolarsi per gestire la loro vicenda complessiva, il loro rapporto con i genitori e, secondo le forme che prende la conflittualità, saranno i genitori stessi ovviamente a gestire il loro rapporto con i figli in determinate manie- re piuttosto che in altre. Tra l’altro questo è un sistema utile, lo troviamo utile anche per un’altra con- siderazione molto semplice: non è vero che c’è sempre evidente la conflittua- lità. Come prima dicevo: non è vero che il bambino è sempre conteso nelle sepa- razioni, non è vero che c’è sempre la conflittualità. A volte non c’è proprio, a volte è mascherata ecc., e vedremo anche questo, quindi quando parliamo di modalità di gestione a cosa intendiamo riferirci? Intendiamo riferirci alle modalità di interazione tra i due coniugi, o ex coniugi, che sono coordinate da entrambi, quindi sono portate avanti da entrambi proprio nel loro modo di comportarsi reciproco l’uno con l’altro. Sono innanzitutto delle risposte adattive. Che vuol dire, sono risposte adatti- ve? Vuol dire che a partire dall’esperienza della separazione, che è esperien- za centrata fondamentalmente sul vissuto personale di novità in senso posi- tivo o negativo che sia che la separazione comporta, le successive modalità, le successive risposte adattive alla separazione non è vero che possono esse- re soltanto individuali. C’è una quota di risposta alla separazione che fa riferimento ancora al rap- porto, all’interazione tra i due. I due continuano ad interagire, lo sappiamo bene. Continuano ad interagire anche se non si sentono mai direttamente. Vedremo che una delle modalità sarà la sistematica interazione attraverso terzi, ma comunque l’interazione tra i due è sempre attiva ed allora, proprio perché l’interazione è sempre attiva, è per noi fondamentale differenziare con quali modalità è attiva questa interazione perché queste modalità definiranno la cornice di riferimento anche per i figli. Quindi sono risposte adattive nel

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senso che sono il modo in cui le due persone, a partire dall’esperienza di separazione, organizzano la loro interazione. Non tutta la loro vita, intendia- mo. Organizzano il rapporto tra di loro, quello che rimane del rapporto tra di loro. Con altre persone si comporteranno in tante altre maniere ma il rapporto tra di loro rimane definito da alcune caratteristiche e per questo diciamo che sono le modalità che segnano il passaggio dall’evento al processo cioè segna- no quel passaggio in cui, a partire dalla cesura, dalla frattura dell’esperienza nel qui ed ora della separazione, le persone si organizzano nel tempo. Vado oltre su questo, implicano il confronto, questo mi comporta l’apertura di un’altra parentesi: noi parliamo di diverse polarizzazioni emotive e tempo- rali adottate dai due partner. Ci perdo due minuti soltanto, che vuol dire? è tipico di ognuno di noi, nel momento in cui si affronta un evento stressante nella propria vita, cercare di affrontarlo con un’emozione ed una temporalità prevalente. Che vuol dire? Vuol dire che tra tutte le emozioni possibili noi ne “scegliamo” una a cui dare maggior risalto rispetto alle altre: la rabbia, il dolore, la tristezza, la gioia. Questo fa parte tipicamente dell’adattamento immediato a situazioni stres- santi dove noi abbiamo bisogno di selezionare l’informazione e comportarci in un modo univoco. Questo spiega perché le persone, soprattutto in immi- nenza di separazione, tendono a comportarsi un po’ sempre nella stessa maniera. C’è chi è solo triste, c’è chi è solo rabbioso, c’è chi è solo contento e così via. Sceglie nel panorama, nella gamma possibile di emozioni, una pre- valente. La temporalità, la polarizzazione temporale: anche qui descrive il fatto che, oltre a scegliere un’emozione prevalente, scegliamo una dimensione tempo- rale prevalente: passato, presente, futuro. Ci sono persone che, di fronte all’esperienza critica scelgono di vivere sol- tanto nel passato, valgono solo i ricordi. La vita di oggi non viene minima- mente considerata. Non parliamo nemmeno della progettualità, c’è solo il ricordo, il rimpianto e quant’altro. La polarizzazione sul presente è quel tipo di atteggiamento che consente sol- tanto di uscire a far la spesa, tornare, cucinare ed andare a dormire, non con- sente di parlare, di riattivare i ricordi né in qualche modo di progettare il futuro. La polarizzazione sul futuro è la fuga in avanti, il tentativo di non considera- re l’esigenza di oggi né i ricordi, la storia, ma semplicemente proiettarsi in maniera ipomaniacale sul futuro. Questo è uno schema, per dire cosa? Per dire che le polarizzazioni emotive e temporali sono tipiche di ogni individuo, ed ogni individuo se le sceglie per conto suo. Il problema è che nel tempo, proprio perché c’è comunque un’interazione tra i due, devono in qualche modo cercare di incrociarsi e lo fanno con le moda- lità che vedremo, quindi sono modalità di gestione, sono frutto di una costru- zione. Sono costruite da entrambi e hanno ovviamente, anche se non sempre, una certa continuità con quello che faceva la coppia prima della separazione, cioè come gestiva il rapporto e la conflittualità nel periodo precedente la separazione.

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Tendono a diventare stabili nel tempo, coinvolgono i contesti di appartenen- za che le rinforzano piuttosto che disincentivarle. Non sono, ripeto, e qui rimane la mia concettualizzazione di fondo di oggi, disfunzionali in sé tran- ne una, vedremo quale, ma lo divengono nel momento in cui si irrigidiscono, diventano ripetitive senza lasciare spazio ad altre modalità, si estendono a tutto il campo relazionale. Adesso che espongo quali sono forse tutto questo diverrà più chiaro. Innanzitutto le elenco semplicemente, poi vedremo come ci si incastrano i figli. Parliamo di quello che fanno gli adulti, ripeto, questo è l’elenco delle modalità di gestione che anche qui, come tutte le tipologie, ognuno di voi ne potrebbe dire altre cinque, altre dieci, un’altra, una di meno. Ci è sembrato utile individuare queste cinque che ci sembrano poter in qual- che modo comprendere un po’ tutte le modalità che abbiamo riscontrato nelle persone: negoziazione, congelamento, esasperazione, spostamento e vittimiz- zazione ed adesso le consideriamo una per volta con le loro caratteristiche. Negoziazione. La cosa importante di questa modalità di gestione è rassicurar- ci sul fatto che esiste in natura. Non è solo teorica. Ci sono per fortuna, e lo sappiamo bene, anzi probabilmente sono la maggior parte. I casi che riporta- no i giornali sono invece, per fortuna, la minoranza ma ci sono un sacco di coppie che riescono ad affrontare la loro separazione in termini negoziali. Gli avvocati hanno la massima esperienza di questo, più degli psicologici, perché di solito questi ultimi vedono invece quelli che non ci riescono, ma sicura- mente non si tratta di un modello semplicemente teorico. Ci sono, è una modalità di gestione del conflitto, della separazione presente, diffusa. Molte persone, per fortuna ripeto, riescono a gestire la loro separa- zione con modalità negoziali. Quali sono le caratteristiche di una modalità negoziale? La modalità negoziale prevede innanzitutto che ci sia un riconoscimento, non semplice ma comunque possibile. L’ex partner non è sparito dall’orizzonte, come magari si desidererebbe, ma continua ad essere interlocutore e non solo interlocutore, addirittura necessariamente interlocutore privilegiato riguardo ad alcune questioni. Queste questioni sono quelle che riguardano la rottura del rapporto, è impor- tante questo perché la coniugalità permane sempre come filo conduttore del- l’esperienza delle persone. Non è vero che se, dichiariamo che la coniugalità tra me e te non c’è più, allora questa dimensione sparisce dalla nostra mente. Non è un computer la nostra mente in cui c’è un file che possiamo cancella- re quando vogliamo. A volte queste metafore americane che tendono a presentarci la mente come un computer ci distolgono dalla realtà, invece la realtà è un’altra: questi file stanno lì e ci stanno eccome e ci rimangono sempre. Il nostro problema è ricollocarli, non è cancellarli. E poi, ovviamente, c’è, in maniera più eviden- te, il problema della gestione della genitorialità. Questi sono i temi sui quali in un rapporto negoziale si continua a dare rico- noscimenti all’altro di interlocutorietà privilegiata perché c’è poco da fare: è quello l’ex coniuge, è quello o quella il padre o la madre dei figli e questo riconoscimento, nonostante la separazione, riesce ad essere mantenuto. Quindi la dimensione negoziale presuppone innanzitutto questo tipo di pos-

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sibilità. Questo non implica che i coniugi che si separano devono essere i migliori amici, queste sono cose un po’ televisive che a volte ci fanno confondere circa il senso della negozialità. La negozialità non è andare tutti insieme a mangiare la pizza o andare a fare i Natali tutti insieme. Questa non è negozialità, vedremo poi cosa è, quindi non sono gli attori che continuano ad avere questi buoni rapporti con tutti e con chiunque. No, non implicano, ripeto, un buon rapporto con l’altro. Le immagini negative dell’altro sono, non solo compatibili ma necessarie, immanenti, sono lì. L’altra è una persona con cui si è vissuta una negatività. Il problema della negozialità è se questa negatività debba abbracciare tutto il campo dell’esperienza o possa permettere quello che si diceva prima, cioè il mantenimento di un privilegio di interlocutorietà su alcune questioni, tanto è vero che l’area della percezione negativa, l’area di conflittualità ovviamente deve essere necessariamente limitata perché, se è estesa a tutto il campo, è ovviamente impossibile mantenere un interlocutore privilegiato. Il fatto che si possa anche mostrare non significa immaginare che l’altro sia immediatamente pronto a saltarci addosso ed ad approfittarne quindi è possi- bile anche in un rapporto negoziale dichiarare “su questo non ce la faccio, su questo mi sento in difficoltà. Ho bisogno di aiuto” e cose di questo genere. È possibile, anzi, è necessario manifestare divergenze. Negozialità non vuol dire annullamento del conflitto. Vuol dire un modo di gestire il conflitto dove la divergenza è dichiarata, è esplicita. Vuol dire altre- sì, è quello che dicevo prima, che comunque i tempi, gli spazi condivisi, sono limitati cioè non è la confusione rispetto a quello che è successo: non si capi- sce se stiamo ancora insieme, se siamo separati e quant’altro, ma c’è una chiarezza sulla condizione dei temi e degli spazi, c’è il rispetto di aree intoc- cabili. Io parlo con te di cosa sta facendo nostro figlio ma certamente non ti permetto di venirmi a chiedere se ho un nuovo partner o altro di questo tipo. Quindi la negozialità presuppone che ci siano delle aree toccabili e delle aree intoccabili e che questo sia condiviso e c’è ovviamente, lo dicevo prima, la possibilità di un livello, benchè minimo ma comunque presente, di accettazio- ne della realtà della separazione. Siamo separati e questa è una realtà che in qualche modo stiamo accettando tutti e due ma ciò non vuol dire che la stiamo accettando esattamente nella stessa maniera, esattamente con lo stesso vissuto. Sapete benissimo, lo sappiamo tutti, che c’è sempre uno che la sente più come subita, l’altro che la sente più come agita, promossa, non tanto sulle carte ma soprattutto nei vissuti. Ma questo non vuol dire che non è possibile allora riconoscere il fatto che siamo in questa nuova dimensione. Queste erano le premesse per una possibilità negoziale. Vedremo poi che que- sti sono un po’ anche gli obiettivi che si pone la mediazione familiare, ovvia- mente. Interessante questo tipo di modalità successiva, il congelamento, che è un po’ quella che ci siamo molto preoccupati di definire proprio in relazione a tutte quelle situazioni, e sono tante, sono veramente tante. Non so la vostra espe- rienza ma la mia è che sono tante, ed in esse non c’è un dato emergente di conflittualità visibile. Quindi questa categoria del congelamento è stata pensata proprio grazie

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all’insoddisfazione che la diagnosi generica del problema della conflittualità nella separazione ci proponeva. Ci sono un sacco di separazioni dove questo dato della conflittualità non c’è ma dove, per esempio, ugualmente succedono molti problemi sui figli. Che intendiamo per congelamento? Credo che il termine sia abbastanza effi- cace nella sua rappresentatività. Congelamento è il blocco sistematico di qua- lunque manifestazione esteriore della conflittualità. La conflittualità esplici- ta è un mostro da esorcizzare. Bisogna nasconderla, è pericolosa. È pericolo- so litigare, è pericoloso far vedere che non si va d’accordo. Bisogna mante- nere rapporti civili. Questa è spesso la frase, lo slogan che sovrasta a questo tipo di modalità. Noi manteniamo comunque rapporti civili. In molti casi è vero, in molti altri è meno vero. Che cosa succede in questa modalità? L’ex partner è sicuramente un interlo- cutore possibile. Ci si parla, si va anche a mangiare la pizza insieme perché la confusione dei livelli è tipica di questa modalità. Siccome dobbiamo evi- tare ogni manifestazione della nostra divergenza, del nostro contrasto, allora è bene anche andare a mangiare la pizza fuori così i figli ci vedono che stia- mo tranquilli, siamo bravi genitori, anche da separati. Non è che sto dicendo che tutti i genitori separati vanno a mangiare la pizza fuori con i figli. Spesso è così, poi ci sono anche quelli che lo fanno con più chiarezza all’interno delle modalità negoziali. Al tempo stesso, nonostante l’altro sia un interlocutore possibile ci sono rigi- de, molto rigide, limitazioni sulla possibilità di confronto e di scambio sia sul piano dei contenuti, sia su quello delle emozioni, cioè c’è il gelo. La percezione che avete davanti nel momento in cui i coniugi si parlano è che camminino sui carboni ardenti, si muovano sulla lama. Come c’è un accenno ad un qualcosa che possa indurre una maggior attiva- zione conflittuale si richiude tutto. Il richiamo, la regola è non mostrare la divergenza. Non a caso queste persone affidano al terzo la tutela di un contesto asettico, quindi è molto marcato il meccanismo della delega. È tipico nell’esperienza degli avvocati, credo, in queste modalità di gestione curare una separazione consensuale in cui un avvocato può percepire, ad esempio, l’odio, il rancore, la presenza sommersa di sentimenti profonda- mente negativi ed ostili ma che non vengono assolutamente esplicitati, anzi, viene sollecitata l’assunzione sul terzo, soprattutto sul terzo professionista, di controllo della situazione, della soluzione della situazione “mi prepari le con- dizioni di separazione” e questo viene accettato anche quando non è accetta- to affatto più profondamente. È la situazione tipica della pseudo consensualità quella delle situazioni di congelamento. Quello che voi potete notare, infatti, per esempio, se fate que- sto tipo di esperienza, è la sostanziale differenza, spesso dicotomica, incon- ciliabile, che le persone vi propongono se fate un colloquio congiunto e se fate due colloqui individuali. Nei colloqui individuali vi rappresentano una serie di sentimenti, di ostilità, di negatività di paure nei confronti dell’altro che assolutamente non vengono minimamente ribadite nel colloquio di coppia (se lo fate dopo), o che non erano minimamente state accennate (se lo avevate fatto prima), proprio tro-

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vandomi di fronte due realtà completamente diverse ed incompatibili anche tra di loro. Ovviamente tutto ciò ha una funzione. Stiamo parlando di meccanismi adat- tivi, di meccanismi che le persone adottano, né per cattiveria né per patolo- gia di nuovo, ma perché questo sanno fare nel loro rapporto, perché questo è il miglior adattamento possibile che riescono a trovare tra di loro, quindi è forte il potere analgesico. D’altra parte lo sappiamo tutti che il freddo fa passare il dolore. Quindi con- gelare in qualche modo è mettere a tacere o alleviare la dolorosità di un’espe- rienza, quindi è valida la funzione adattiva nell’immediato della separazione, perché anche c’è un’alta accettabilità sociale quindi si viene connotati come persone brave. Un’altra spia tipica del congelamento qual è? La difficoltà di presentare la separazione ai figli. Sono le persone queste che raccontano un sacco di balle ai figli rispetto alla realtà della loro separazione. Papà sta sempre in ufficio, papà sta dalla nonna perché la nonna sta tanto male ecc. fino a che il ragaz- zino prima o poi si accorge di un qualche elemento che non gli torna ma la difficoltà di presentare la separazione, o se non la separazione, le emozioni, quello che è accaduto, la spiegazione della separazione è una difficoltà tipi- ca delle persone che adottano una modalità congelata di gestione della loro separazione, proprio perché è difficile immaginare di poter presentare la negatività. Le emozioni negative sono estremamente temute, si teme che il figlio non riesca a comprenderle. Queste sono poi le giustificazioni formali. Mi ricordo di una bambina di 3 anni che dopo mesi di questa storia, forse aveva anche meno di 3 anni, 2 anni e mezzo, che dopo mesi che il papà stava sempre in “ufficio” la notte, chiede: “Ma come mai non c’è più lo spazzolino da denti di papà?”, perché poi ovviamente, come dicevo prima le antenne dei figli sono rivolte ai particolari della quotidianità, che non tornano, e questo parti- colare dello spazzolino da denti è stato l’elemento dal quale la bambina è riuscita ad un certo punto a tirar fuori tutto il non detto della madre e del padre rispetto a quello che stava succedendo a casa. Gli effetti negativi di questa modalità di gestione sono apprezzabili soltanto nel tempo, molto a lungo nel tempo perché, ripeto, è una modalità apparen- temente di estremo buon adattamento, cioè è la modalità rispetto alla quale il terzo, l’estraneo, l’osservatore potrebbe dire “però come hanno affrontato bene la loro separazione queste persone!”. I figli stanno a posto, tutto funzio- na regolarmente, si parlano, si telefonano pure. I figli parlano con il padre, le cose funzionano, il tutto però con esperienze più profonde, più reali che i figli continuano a fare di percezione di ostilità che non sanno dove collocare ciò che non combacia con le percezioni ufficiali che vengono presentate. Tra l’altro questa modalità, così rigida ed infiocchettata, spesso comporta sul piano pratico della vita quotidiana l’allontanamento di un genitore. La dilui- zione estrema del rapporto con uno dei due genitori è uno dei casi più fre- quenti quando c’è una modalità di questo genere proprio perché il fantasma è la negatività dell’incontro, la negatività del potersi mettere a litigare. Anche se non l’hanno mai fatto, i genitori hanno questo fantasma sempre in testa perché sono persone che non vivono mai il conflitto ma, proprio perché non

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lo vivono, ce l’hanno continuamente in mente. Esasperazione. La parola dovrebbe parlare da sé, scusate il bisticcio. È esat- tamente la modalità opposta a quella precedente. L’esasperazione è la situa- zione in cui la conflittualità è assolutamente diretta, non filtrata, non media- ta, espressa direttamente, spesso con modalità di escalation. Nella negoziazione il partner è un interlocutore privilegiato, nel congelamen- to il partner è un interlocutore possibile, nella esasperazione il partner è l’u- nico interlocutore possibile cioè l’oggetto del desiderio continua ad essere lui/lei. Anche qui credo che tutti voi abbiate esperienza di situazioni di questo gene- re dove, a dispetto di una realizzata separazione, spesso ottenuta dopo anni di crisi perché poi queste persone non si separano tanto facilmente proprio per- ché hanno in mente l’altro più di ogni altra cosa, ma anche a dispetto di un’avvenuta separazione continua ad esserci una modalità di ricerca spasmo- dica dell’altro, attuata con tutti i mezzi possibili ed immaginabili. I comportamenti dell’altro, infatti, vengono letti continuamente come richia- mo e, soprattutto, provocazione. L’altro provoca e basta ed alle provocazioni bisogna rispondere immediatamente senza filtri, senza possibilità di attesa sennò si perdono punti e quindi la provocazione e la contro-provocazione sono all’ordine del giorno. Si tratta ovviamente di una forma molto particolare di agonismo. È l’agoni- smo per l’agonismo. È l’espressione della lotta di potere nella sua forma più pura. L’oggetto non è un qualcosa da conquistare ma l’oggetto è la lotta. La lotta è l’elemento per cui si lotta, tanto che non c’è un premio immaginato, tanto che i segnali di debolezza dell’altro non fanno sferrare il colpo finale ma fanno rallentare. Questo vi dimostra che l’oggetto è la lotta, è il mantenimen- to della lotta. È un’esperienza mia tipica che quando avete in una stanza, una stanza di mediazione, di terapia o quello che sia, di consulenza, due persone che adot- tano questa modalità di gestione e davanti a voi fanno cose turche, parolacce inaudite e cose di questo tipo, nel momento in cui è presente l’esperto, il terzo, succede che, nel momento in cui per qualche motivo o volontariamen- te vi allontanate dalla stanza, calano di tono perché non c’è più lo spettatore. Lo spettatore ha una funzione in questi casi anche di contenimento, colui che guarda questo tipo di scena ha una funzione estremamente importante. In questi casi l’abbandono del campo da pare dell’altro è il vero tradimento. Queste magari sono persone che si fanno le corna in modo inaudito, hanno collezioni intere di corna che sono vissute semplicemente come provocazio- ne, quindi come incentivo a fare altre cose, ma il vero tradimento è lo smet- tere, allontanarsi dal campo di gioco. Spesso, ripeto, c’è una spartizione rigida delle aree su cui operare le provo- cazioni, un classico anche questo. Lui provoca sempre con le corna, lei pro- voca trascurando la casa, trascurando i figli, facendoli restare senza la cena, con i panni sporchi e quant’altro cioè c’è una caratteristica distribuzione spesso delle aree su cui operare le provocazioni, poi in realtà sono sempre provocazioni. Spesso, e questa è un’annotazione di colore se volete ma che vi può aiutare quando fate un po’ la storia di questi rapporti, è riscontrata in

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questi casi un’esperienza di innamoramento con alte quote di proiettività. Noi per alte quote di proiettività intendiamo gli innamoramenti che restano appesi al cielo in qualche maniera cioè che non vanno poi a riscontro delle caratteristiche reali dell’altro nel tempo susseguente alla formazione del rap- porto e rimangono così, su immagini assolutamente mitiche, idealizzate del- l’altro che era quello che avrebbe soddisfatto tutti i bisogni, risolto tutti i pro- blemi, esaltato la propria vita ecc. ecc. Spesso sono questi i toni presenti pro- prio agli inizi della storia della coppia. In tutte queste cose poi vedremo che succede ai figli nelle varie situazioni, quindi non mi ci fermo adesso su questo. Ulteriore modalità: lo spostamento. È una modalità anche questa caratteristi- ca che potete riconoscere in tantissime vostre situazioni. Credo che fate facil- mente diagnosi, mi passate l’espressione medica di questa modalità, se guar- date la voluminosità dei vostri fascicoli: più è alto il fascicolo, più è proba- bile che si tratti di spostamento perché la caratteristica tipica dello sposta- mento qual è? È quella di agire la conflittualità tramite terzi. Le due persone non hanno una conflittualità diretta, non si parlano diretta- mente, anzi, cercano spesso e volentieri di evitare di parlarsi direttamente ma affidano sistematicamente la gestione della loro conflittualità a terzi. Questi terzi possono essere chiunque e vanno dai più vicini ai più lontani: i figli, le famiglie di origine, il portinaio, la parrucchiera, lo psicologo, l’assi- stente sociale, l’avvocato, i periti, chi più ne ha più ne metta, fino al formar- si di veri e propri eserciti contrapposti, perché la caratteristica dello sposta- mento è proprio la formazione degli schieramenti. C’è crescente, sempre più forte, la percezione dell’altro come un nemico, quindi siamo fuori da ogni possibilità di interlocutorietà, l’altro è un nemico ed è un nemico da cui bisogna difendersi. Questa è una cosa molto caratteristica della modalità in esame, cioè non tro- verete mai una persona che, usando questa modalità, vi dica che deve attac- care l’altro. La giustificazione è sempre che bisogna difendersi dall’altro “avvocato, ma se non faccio questo l’altro ci mangia” per cui dobbiamo fare di più o dobbiamo fare almeno altrettanto perché altrimenti l’altro ci divora in un boccone. Quindi c’è una costante attribuzione all’altro di una pericolo- sità da nemico. Il vissuto rispetto alla propria posizione è quella centrata su aspetti difensivi e tanto più si ha bisogno di difesa, tanto più si reclutano terzi, per questo non bastano mai. Bisogna sempre portare nuovi testimoni a proprio favore, nuovi medici che certifichino, nuovi vicini di casa che in qualche modo testimoniano della bontà propria e della cattiveria dell’altro ecc., cioè ogni tassello alimenta quest’idea difensiva di rinforzare il proprio schieramento. L’emozione prevalente in questi casi è la paura. Queste persone sono terro- rizzate, in realtà sono terrorizzate che una mossa dell’altro possa prima o poi essere la mossa decisiva e quindi vivono costantemente nella paura, proprio perché ritengono che l’altro conosca i propri punti deboli. Quindi l’idea della vulnerabilità all’altro è massima e quindi l’evitamento del confronto diretto con l’altro è proprio funzione di questa massima paura di esposizione ad una possibile vulnerabilità. È una visione del mondo molto caratteristica, centrata su questa assoluta dico-

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tomia amico/nemico, vincente/perdente. I rapporti sono tutti connotati da que- sto. È interessante notare come nelle forme più estreme di spostamento, è pro- prio la divisione del mondo che avviene in questi termini. Non è data la neu- tralità. È la famosa situazione in cui chi non è con me è contro di me. Non è data la terza possibilità. Se una persona non mi dimostra amicizia, alleanza, consolazione, quello che volete, è sicuramente un avversario. Quindi si tratta di una vita particolarmente piena di paure e di paranoie nei casi estremi. Tutta la storia del rapporto vi viene proposta in questi termini: in termini di alleanza, di coalizione, di offese ricevute, di schieramenti ecc., di chi è inter- venuto in un caso, ripeto, vi portano pacchi di scritti, di cassette, di registra- zioni, di tutto e di più e la vicenda separativa è veramente condotta secondo una logica di guerra. Attenzione, spesso si può confondere questa con la modalità precedente, anche la modalità precedente di esasperazione a volte vi si rappresenta come una guerra, però c’è una differenza fondamentale. Nella guerra degli esasperati voi avete la chiara percezione che la vostra pre- senza sia una presenza assolutamente da notaio, più che da avvocato, cioè di chi registra i movimenti: sta più avanti lui, sta più avanti lei, ma poi dopo, anzi, nel momento in cui si cerca di intervenire a definire qualche cosa “scusi un attimino, ci faccia litigare in pace”, questo è l’atteggiamento. Credo che sia tipico della vostra esperienza (sto tornando a parlare di esaspe- razione) che non appena miracolosamente avete concluso un qualcosa in una situazione del genere uno dei due ricomincia da capo o va da un altro avvo- cato. Non gli avete abbastanza gratificato il bisogno di lotta per cui non siete un avvocato valido nel senso che non lo fate litigare bene. Nello spostamento è diverso. Nello spostamento l’avvocato, oltre a tutte le altre figure, è una persona cui si dipende per la vita. All’avvocato si affidano le proprie cose, è una persona dalla quale si dipende nell’esistenza quotidia- na. L’avvocato è tutto perché è quello, l’unico, che può difendermi e colpire l’al- tro, quindi garantirmi questo vallo di protezione. L’avvocato viene sovra- investito di aspetti anche a volte francamente ridicoli del vivere quotidiano, riceve continuamente telefonate sulle questioni più cretine del mondo: “Ma mio figlio è uscito da scuola un quarto d’ora prima, che cosa…”. Questa è l’esperienza comune, rispetto ai casi di spostamento, dell’amico ma l’amico proprio a fianco, che mi fiancheggia in tutte le esperienze della mia vita. Infine, ultima modalità, prima dicevamo non sono di per sé patologiche tran- ne una, ecco, siamo arrivati al tranne una che c’era tra parentesi prima. Siamo arrivati al tranne una che è quella dell’vittimizzazione, che è una modalità particolare. Noi l’abbiamo inserita anche se è particolare e vi spiego in che senso. La caratteristica delle modalità di gestione che abbiamo esaminato finora è che sono sostenute da entrambi più o meno alla stessa maniera. Il congelamento è sostenuto da un comportamento simile dei due ex partner; nella vittimizza- zione i comportamenti sono complementari, sono rigidamente complementa- ri. Parliamo di vittimizzazione quando c’è uno schema fisso, aggressore/vit- tima, quindi non parliamo di vittimizzazione genericamente quando è un po’ più vittima nella separazione, non è questo il concetto. Noi parliamo di vitti-

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mizzazione quando ci sono, è il secondo punto, qualità ed intensità di aggres- sione assai rilevanti. Quali sono questi casi? Sostanzialmente due grosse categorie: o l’aggressione fisica, ripetuta, vera e propria ed attenzione anche qui, anche nell’esasperazione ci possono essere dei momenti di aggressione fisica in cui un piatto scappa un po’ più basso di quello che magari si pensa- va però voi trovate sempre la simmetria del comportamento, magari non per- ché gli ha ritirato il piatto ma insomma, ha fatto un’altra cosa. Nella vittimizzazione il comportamento è unidirezionale. Il comportamento aggressivo è unidirezionale fino al punto da creare questi due ruoli intesi in modo rigido. Uno che le dà sempre e l’altra che le prende sempre. L’alternativa, rispetto alla violenza fisica, è quella della violenza non psico- logica, non parliamo di violenza psicologica, ma violenza di vita. Il ridurre l’altro, anche se non in maniera violenta, a condizioni di vita intollerabili: tagliarli proprio i viveri, metterlo in una condizione di dipendenza totale attraverso lo strumento economico, lo strumento della vita concreta e ci sono casi di questo tipo. Noi facciamo molti corsi, per esempio, di formazione al Sud e ci sono alcune realtà in cui le modalità di separazione sono tali da costringere, di fatto, una delle due persone, spesso ovviamente la donna, a rimanere assolutamente in una situazione di totale sudditanza, di totale sog- gezione del marito per problemi legati alla sopravvivenza quotidiana. Noi parliamo di vittimizzazione in questi casi estremi, quando c’è la violenza fisi- ca o quando c’è comunque un comportamento che rende l’altro totalmente succube, totalmente soggetto. Perché ne parliamo? Perché ci sono delle implicazioni molto importanti e come vedremo ci sono implicazioni molto importanti soprattutto per i figli in questo tipo di situazione. Le implicazioni importanti innanzitutto sono sul piano della coppia le implicazioni di gestio- ne di questa situazione perché il problema è che in questi casi ci si propone sempre un doppio livello che li rende particolarmente difficili da gestire. Qual è questo doppio livello? Il doppio livello è che sempre, molto spesso se non sempre, ad un dato esteriore di responsabilità oggettiva di uno che com- mette atti ben precisi, anche penalmente rilevanti, nei confronti dell’altro sussiste una situazione psicologico/relazionale sottostante di incastro profon- do che spesso rende molto difficile la soluzione, la gestione effettiva di casi di questo genere. Credo che sia un’esperienza comune come il legame che unisce aggressore e vittima, al di là della considerazione delle cose che vengono commesse, pro- pone sempre degli incastri di relazione di difficile soluzione. Questo è lega- to, ripeto, a cose piuttosto complesse. Un aspetto superficiale che ci viene da dire come battuta, anche se come battuta è molto amara, è che la vittima se le va a cercare ma questo è il livello più del senso comune e piuttosto bana- le di osservazione. Un livello meno banale, più articolato, è che l’incastro relazionale tra questi due ruoli è spesso costruito in modo che le immagini uno dell’altro sono in realtà l’opposto di quello che appare. Lo schema aggressore/vittima propone a livello esplicito, a livello manifesto, l’immagi- ne di un forte e di un debole, di un vincente e di un soccombente. In realtà, sul piano più profondo, sul piano dei vissuti della relazione, le cose stanno esattamente al contrario, cioè nei loro vissuti, nei vissuti dell’aggressore e della vittima è spesso vincente, è forte, colui o colei che subisce ed è debole

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colui che colpisce, colui che aggredisce. Spesso il vissuto della persona, della donna vittimizzata da un marito violen- to è quello che “poveretto, è malato, non è colpa sua, bisogna capirlo” ed è un vissuto forte, incrollabile, spesso sostenuto da atteggiamenti comporta- mentali di forza, di incontrollabilità, di tenacia rispetto al mantenimento di posizioni di questo genere. Percezione che dall’altra parte, cioè dalla parte dell’aggressore, è confermata da un’idea dell’altro, cioè della vittima, come una persona assolutamente non scalfibile, una persona sempre pronta a rin- tuzzare, a richiamare, a perdonare, ad avere l’atteggiamento commiserevole, cosa che lo fa andare in bestia quindi picchia ed in questo schema più pro- fondo di chi è il forte e chi è il debole, in realtà si incastra poi il tutto tanto da formare, ripeto, incastri di difficilissima risoluzione. Sapete benissimo quanto è difficile arrivare ad una separazione in situazioni del genere e non solo, ma anche quando si è arrivati alla separazione, quan- to è difficile che venga gestita con modalità che non ripropongano questo schema fisso perché entrambi contribuiscono a questo. Ed allora noi qui biso- gna stare attenti, parlando ad un pubblico di avvocati e mi chiarisco subito: non dobbiamo confondere, ovviamente, la responsabilità dei fatti con il fatto che ci sia un contributo relazionale di entrambi. La responsabilità va perseguita, punita ed è importante che questo sia chiaro. Non sono lo psicologo che pensa che, siccome tanto lo costruiscono tutti e due, che se la vedano tra di loro e che la vittima appunto se l’è cercata. Chiariamo ogni possibile equivoco: quindi, il piano della responsabilità è un piano di realtà e va chiaramente attivato secondo quello che deve essere atti- vato, però non possiamo neanche immaginare che questo piano risolva tutto perché, di fatto, non è così e lo sappiamo per esperienza. Possiamo infliggere le punizioni più severe, ma, di fatto, dobbiamo sapere che l’incastro relazionale continuerà, continua e ripropone questo schema doppio, forte/debole, vincente/perdente in maniera molto marcata e vedremo tra un attimo come i figli possono a loro volta incastrarsi in dinamiche così complesse, confuse, spesso anche così confondenti, direi, rispetto alle imma- gini esteriori. Queste sono le modalità di gestione che noi abbiamo provato ad individuare, ripeto che non si tratta di definizione di patologia, questo è molto importan- te, di per sé neanche di necessaria disfunzionalità. Tutto è legato a due cose, lo dicevo prima: a quanto queste modalità di gestione si irrigidiscono e diventano l’unico modo possibile di relazionarsi e a quanto rimangono tali nel mondo, impedendo altre forme evolutive possi- bili. Il fatto che ci siano è un fatto normale perché tutte le persone, anche da sepa- rate, devono in qualche modo trovare una strada per gestire la loro interazio- ne. Lo fanno in queste maniere. Alcuni modi sembrano da subito più funzio- nali, pensate al congelamento, ma poi, nel tempo, rivelano la loro problema- ticità evolutiva; altri modi, ad esempio l’esasperazione, sembrano da subito altamente disfunzionali ma poi, magari, riescono a risolversi in modi diversi, quindi non abbiamo una parola definitiva nell’immediato. Certo è chiaro che chi riesce da subito a negoziare, e continua a farlo, ha tro- vato una soluzione evolutiva migliore, ma non vuol dire e poi lo vediamo in

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mediazione quello che accade. È importante per noi, a questo punto, ritornare al figlio e così, come abbiamo definito il figlio nelle sue varie fasi dello sviluppo, quindi nelle sue caratte- ristiche personali di vissuto dell’esperienza della separazione dei genitori, vediamo adesso cosa succede al figlio quando si confronta con questo tipo di modalità, quindi quando si confronta con queste immagini che i genitori gli propongono. Cosa ci consente di fare questo tipo di visione legata a come i figli parteci- pano ed assistono alla modalità di gestione della separazione dei loro genito- ri? Innanzitutto la griglia ci consente di riconoscere più rapidamente che tipo di ruolo più facilmente verrà a trovare il figlio, a seconda che la modalità di gestione prevalente della separazione dei suoi genitori sia il congelamento, lo spostamento, l’esasperazione, perché come le ho descritte già in qualche modo queste modalità pongono dei limiti alle possibilità che ha un figlio di adattarsi alla separazione. Vedremo tra un attimo come il figlio di genitori che hanno adottato la moda- lità dello spostamento è un figlio che non ha molte possibilità di scelta di ruolo adattivo all’interno di una dinamica così, soprattutto se questa dinami- ca è presentata in modi rigidi, forti, prevaricanti. Questo ci darà conto appunto anche del significativo delle soluzioni adattive scelte dai figli perché, è vero che la modalità di gestione dei genitori è comunque un vincolo, ma è anche vero che poi un figlio vi può partecipare in modi diversi, per esempio dovremo necessariamente cominciare ad incro- ciare i due assi, vi parteciperà diversamente un figlio nella prima infanzia da un figlio nella seconda infanzia, un figlio adolescente, preadolescente, adul- to. I ruoli sono abbastanza predeterminati ma le condizioni personali del figlio possono essere diverse e questo determina delle differenze con le quali il figlio parteciperà ad una o all’altra modalità di gestione. Infine, cosa molto importante, utilizzare questa ottica ci consente di prevede- re, è un termine un po’ stregonesco, non mi piace tanto, non abbiamo la sfera di cristallo, però in qualche modo consente di fare un profilo dei percorsi evolutivi possibili, cioè di quali nodi un figlio, che si inserisce come ruolo in queste modalità di gestione, potrà trovarsi poi davanti nel corso del suo svi- luppo, nel corso delle esigenze successive di vita. Quindi non si tratta di previsione, ovviamente, ma di immaginare dei percor- si evoluti che, per esempio, cominciano a rendere disfunzionali soluzioni adattive che all’inizio potevano sembrare funzionali. Di questo ne parleremo tra un attimo. Tutti i ruoli adattivi lì per lì sembrano funzionali, si chiamano adattivi per questo. È il migliore adattamento possibile in quelle circostanze. Il problema della disfunzionalità si rivela spesso nel tempo cioè quando questo ruolo non è più in grado di soddisfare i bisogni evolutivi che emergono nelle successi- ve fasi dello sviluppo. Quando cominciamo a parlare delle varie situazioni credo che questo dovrebbe risultare abbastanza chiaro. Ritorniamo alle nostre modalità di gestione e inseriamo al loro interno i ragazzi, i figli nella separa- zione; anche qui io non lo dico altrimenti finiamo domani, ma mentre parlo

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provate ad immaginarvi all’interno di questi schemi delle modalità di gestio- ne, cosa può succedere se il figlio ha 5 anni, se ne ha 10, se ne ha 20, se mi metto a fare tutti i casi fate un po’ la moltiplicazione. Sono 5 fasi dello sviluppo e 5 modalità di gestione. Devo prevedere 25 situa- zioni, ripeto, stiamo qui fino a domani. Cercate comunque di tener presente al tempo stesso, mentre esaminiamo i figli nella modalità di gestione, anche le differenze che ci possono essere in questi ruoli a seconda dell’età di quel- lo che abbiamo detto prima quindi a seconda della funzione prevalente geni- toriale. Abbiamo detto che nella negoziazione i figli assistono a cosa? Assistono ad una presentazione in qualche modo più diretta o abbastanza diretta, l’agget- tivo è d’obbligo, potremmo dire sufficientemente diretta, per usare un avver- bio in uso in psicologia, sufficientemente diretta degli stati emotivi dei geni- tori ovvero hanno una percezione di quello che accade intorno a loro abba- stanza adeguata alla realtà perché i genitori nella negoziazione la rappresen- tano così. In questo caso, quindi, i figli non hanno tanto il problema di crear- si un’idea autonomamente di quello che sta accadendo ed i genitori tendono a fornirgliela ed anche rispetto alla richiesta che possono avvertire da parte dei genitori di assunzione di un ruolo all’interno della vicenda sono un po’ più liberi. Possono continuare a farsi gli affari loro entro certi limiti, per dirla in maniera semplice. Non c’è una richiesta pressante da parte dei genitori, ovviamente implicita, come quasi sempre è. Ci sono anche genitori che lo chiedono esplicitamente ma insomma…, non avvertono una pressione ad assumere determinati ruoli nell’immediato e quindi è più facile per loro atti- vare risorse personali, attivare chiavi di lettura della situazione, fare doman- de ai genitori su quello che sta succedendo. Parleremo tra un attimo del congelamento giusto per fare il confronto, quan- do i genitori dicono “ma, non chiede niente, non fa domande. Mi sembra tran- quillo, non fa nessuna domanda”. Attenzione, i bambini fanno domande quando sentono di poterle fare. Se sentono che fare domande disturba il geni- tore non le fanno giustamente. Il bambino non ha mai convenienza a vedere il genitore alterato o disorientato, dispiaciuto, quindi possono esplicitare anche una sofferenza. Il bambino nel congelamento non la esplicita la soffe- renza, quindi non posso dire una cosa “sto male, sono triste” se so che que- sto crea un problema ulteriore al genitore. Posso dire “sono triste” ad un genitore che mi ha abbastanza spiegato come è la situazione. Posso dire “sono triste” ad un genitore che mi ha detto di essere lui stesso triste. Quante volte riusciamo in mediazione, per esempio, a far dire al genitore “beh, in effetti, mi è dispiaciuto. Sono stata molto triste in quel periodo”? ma questa è vita, è ossigeno per un figlio! poter sovrapporre in maniera coeren- te quello che vede con gli occhi e quello che sente con le orecchie. È uno degli elementi più fondamentali, passatemi il superlativo rispetto alla correttezza, alla possibilità evolutiva, alla possibilità di dare significati pro- pri all’esperienza sufficientemente liberi da altre preoccupazioni, da altri ruoli ecc. Vedo mamma piangere di nascosto però davanti a me dice sempre che va tutto bene, che sta benissimo; quindi poter dire del bambino “sono triste” è in qualche modo sentire di avere il permesso di dirlo ed è funzione di quan-

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to il genitore stesso è in grado di dirlo o di dirlo, anche qui, sufficientemen- te. Un genitore allora dice “mi metto a piangere tutti i giorni buttato sul diva- no così mio figlio è felice” è il “sufficientemente” che è un po’la chiave della questione. Il figlio sente l’autorizzazione ad avvicinarsi ad entrambi i genitori, non sente, anche qui non più di tanto, quanto meno i veti incrociati che sono così caratteristici di tante modalità di gestione della separazione. “Mamma è suf- ficientemente serena quando vado da papà. Papà non mi sta a dire tutte le volte: raccontami mamma, con chi sta al telefono” quindi non sente cose di questo genere e quindi è sufficientemente tranquillo nell’avvicinarsi e sente una discreta accettazione delle differenze e del conflitto quindi la cosa che direi più significativa di questa situazione del figlio nella negoziazione è proprio duplice, la ricordo, la sottolineo: un po’ questa possibilità di non essere subito incastrati in un ruolo definito. Questo è estremamente salutare. È salutare per chiunque di noi nel senso che il bambino può avere tempo di crearsi delle sue soluzioni, delle sue condizioni di adattamento alla separa- zione. Non è immediatamente richiamato se piange. Non è immediatamente rimproverato se comincia ad uscire un po’ di più. Ha un suo spazio di speri- mentazione delle condizioni. Come vedremo in altre modalità di gestione questo non è possibile perché le condizioni che i genitori dettano con la loro modalità di gestione sono rigide: presuppongono il fatto che il bambino si “ficchi” in un ruolo ben preciso e non viene tollerato un altro ruolo. La caratteristica positiva della negoziazione è proprio questa, avere un tempo in cui non si è costretti ad incarnare un determinato ruolo a tutti i costi. Si possono fare delle prove: i famosi richiami. Un bambino della prima infanzia che “prova” (usate sempre le virgolette perché non è che sia intenzionale) a fare pipì nel letto dopo che ad un certo punto il giorno prima ha percepito un qualcosa o gli è stato raccontato qualche cosa. È una prova che suscita, cosa? L’allarme, l’indifferenza, oppure un discorsetto tranquillo. A seconda di quel- lo che suscita il bambino ha di fronte delle condizioni di adattamento in ruoli più rigidi oppure delle condizioni di adattamento ancora da ricercare, da ritrovare da sperimentare. Il giorno dopo magari dirà “non ho tanta voglia di andare a scuola, ho mal di testa stamattina” e questo è il famoso richiamo di cui parlavo prima. Chiaro, come vedete, se c’è un atteggiamento negoziale dei genitori, questo è assorbibile all’interno di una immagine tollerabile. Se non c’è un atteggiamento negoziale, se c’è una delle altre modalità di gestio- ne, molto spesso questo comportamento del bambino diventa incanalato, viene fatto incanalare a seconda della modalità di gestione prevalente in uno o nell’altro ruolo. Pensate nello spostamento una pipì a letto. “Eccolo là, ieri sei stato con tuo padre” ed il ruolo di quel figlio comincia ad essere rigidamente predetermi- nato, e tutte le sue pipì faranno contenta mamma perché sono una bandiera da mostrare in tribunale contro il padre. Questa è la forza dei vincoli che possono porre le modalità di gestione pro- prio in termini di ruolo da assumere molto rapidamente perché il molto rapi- damente è dettato dalle facce di mamma e di papà (non c’è bisogno di gros- si discorsi) rispetto ai miei primi comportamenti di richiamo. Ripeto, la prima pipì a letto, la prima fobia scolastica, il primo piercing che mi faccio

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nell’orecchio o altrove ecc. Queste facce mi diranno l’idea dei vincoli e dei ruoli più o meno rigidi che io posso assumere in quella situazione o della libertà che ho di provarne alcuni e poi magari ritornarmene tranquillo ad un trend di vita piuttosto abituale. Ho già anticipato quindi alcuni temi e vediamo cosa succede ai figli nel con- gelamento cioè che tipo di condizioni vengono proposte ai figli quando la modalità di gestione dei genitori è quella prevalente del congelamento. L’ho già detto prima, spesso questa modalità di gestione parte già con una prima difficoltà importante. Parte proprio con la difficoltà della comunicazione originaria stessa dell’av- venuta separazione, già spesso una negazione di questo, prima basico livello per cui questi ragazzini stanno sempre nell’incertezza di quale sia la situazio- ne reale, effettiva, percepiscono alcune cose, non le possono dire, non le pos- sono chiedere perché vedono che mamma si rabbuia, che papà dice “ma no, non è niente, non ti preoccupare, sto lavorando più del solito” questi lavori poi sono sempre utili, essere messi davanti come pretesto per tutta una serie di cose e questo è il primo problema serio che spesso hanno i figli in una situazione di congelamento e guardate, è un problema molto serio, un proble- ma per il quale bisogna assolutamente aiutare le persone ad affrontarlo. A volte è molto utile una mediazione in una prima fase della separazione non tanto per ottenere chissà quali accordi, poi vedremo che le persone che adot- tano un congelamento come modalità di gestione hanno anche difficoltà a fare questo lavoro di definizione di accordi, proprio per questa loro connatu- rata difficoltà negoziale a porsi uno di fronte all’altro in termini anche dialet- tici, in termini di sufficiente capacità anche di contrapposizione che serve per fare un buon negoziato. Spesso, per esempio, un percorso anche breve di mediazione in queste prime fasi della separazione, nelle situazioni di congelamento può essere estrema- mente utile per aiutare questi genitori a dire qualcosa di plausibile ai figli. C’è spesso una richiesta di questo tipo “che diciamo?” abbiamo il terrore di farli soffrire. Questo è uno dei temi forti dei congelati nelle prime fasi della separazione, questo terrore della sofferenza, per carità comprensibilissimo, dove la risposta non può essere altro che “guardate che la sofferenza voi non la potete evitare”. L’idea dell’evitamento della sofferenza è un’idea mitica che loro hanno molto in testa perché fanno fatica loro a percorrere questa strada e quindi vorrebbero dire “la risparmiamo anche ai nostri figli” un po’ per risparmiar- sela loro, un po’ per risparmiarla ai figli effettivamente, ma è assolutamente mitico pensare che ci possa essere una separazione dei genitori che non fa soffrire i figli e su questo bisogna piano, piano aiutarli a realizzare che sì c’è una sofferenza ma è una sofferenza che può essere guidata, che può essere sollevata, che può essere accompagnata verso anche buone forme di adatta- bilità, buone forme di adattamento. Quindi questo aiuto, spesso sulla comu- nicazione della decisione, può essere un aiuto estremamente importante, anche senza che si arrivi per forza ad una mediazione che fissi la casa a te, la cosa a me. Non è detto, ci può essere una mediazione molto limitata a questo tipo di aspetto. Il problema è, ripeto, che questi ragazzini si confrontano continuamente con

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livelli di ambiguità, con la discrepanza tra quello che vedono e quello che sentono, con che sembra di captare dal padre mentre si va in mac- china alla partita di calcio o alla madre mentre sta in cucina a cucinare e che però vengono negati in maniera ufficiale. “No, non è vero. Sono preoccupa- to per un’altra cosa”. “No, no, era un’altra cosa”. Noi spesso lavoriamo sui luoghi comuni. È vero che è importante che un genitore non parli male dell’altro in presenza dei figli, ma attenzione non ne facciamo anche di questo uno slogan da utilizzare in tutti i casi. Insomma, questi due sono separati. Il figlio sa che sono separati. Per qualche motivo si saranno pure separati. Allora meglio presentare con una certa tranquillità cer- tamente, con certi toni che cosa non si condivide dell’altro, senza che per questo venga presentata come una persona da gettare piuttosto di dire “ma no, mamma è la persona migliore di questo mondo” e poi il figlio si accorge di piccole frasi, di telefonate alla nonna che dice “mamma, me ne ha combi- nata un’altra” ecc., perché qualunque dolore è più sopportabile se c’è una chiarezza, mettiamoci in testa questa cosa, quindi i figli non sono oggetti da preservare dal dolore. Sono persone da aiutare nel sistemare le cose che suc- cedono nel mondo e questo è estremamente importante. Chi adotta un congelamento ha in testa invece l’idea del preservare a tutti i costi dal dolore perché la propria vita è organizzata in questo modo e quindi anche ai figli propone questo. Ne conseguono confusione, poche domande e …. andiamo alla cosa molto più importante: il ruolo adattivo. Qual è il ruolo adattivo che immediatamente, molto rapidamente, viene pro- posto al figlio? Pensate al famoso figlio che prova a fare la prima pipì a letto dopo che sono successe un po’ di cose. Che tipo di clima trova nella sua prima pipì a letto questo figlio in una situazione di congelamento? Trova un clima che, se prova a dar problemi, è un ulteriore problema. Se tu mi dai problemi questo mi crea una situazione incontrollabile, ingestibile perché mi costringe a parlarne con tuo padre, mi costringe ad una serie di cose, mi fa star male, mi fa pensare a quello che è successo, che non volevo che succedesse, tutto quel- lo che vi pare, tutti i sentimenti negativi. Dice “Almeno tu fai il bravo”. Non è che viene detto così, pensate sempre alla famosa faccia della mamma che trova il letto sporco di pipì la mattina, è quella che conta, non quello che la mamma dice, conta la faccia che fa. Allora questo figlio che dovrà fare con “sta pipì” cioè questo richiamo alla maggior presenza, alla protezione geni- toriale, rispetto ad un genitore che non riesce in quel momento a proteggere neanche se stesso perché qualunque cosa che va anomala è terrorizzante. Questo figlio ci deve pensare da sé perché in qualche modo è lui che sente di dover proteggere il genitore. Questo è caratteristico del congelamento: la creazione di un’immagine di adultità del figlio che può far andare tanto meglio le cose quanto più è grande, quanto più è ometto, è brava donnina, si occupa della madre, si occupa del padre. Allora, se rimaniamo sempre all’esempio forte della pipì che funge come metafora in questo caso, mi ricordo un caso dei nostri, tipico del congelamen- to: era un bambino che continuava a fare pipì perché, insomma, non la reg- gono mica la pressione emotiva. Non tutti riescono ad essere adulti al punto da costringersi a non fare la pipì, poi le emozioni da qualche parte scappano, però si rifaceva il letto da solo tutte le mattine. Parliamo del bambino di 5, 6

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anni, non dell’adolescente di 12 che non lo farebbe mai per altri motivi ma, insomma, e la madre che si accorgeva, perché era congelata sì ma scema no, che si accorgeva di questo fatto, era contentissima ovviamente di questo cioè lo riportava come un grosso successo. Questo perché è coerente, è funzionale con un’organizzazione complessiva, cioè il bambino, che fa pipì a letto e si rifà il letto da solo in una situazione di congelamento, è particolarmente funzionale all’adattamento di tutti. Non mi costringi a sentire il peso di una decisione che non volevo, di una cosa che mi ha fatto soffrire, non mi costringi a riparlarne con tuo padre, mostro dei più, da esorcizzare l’idea di affrontare un discorso con l’ex marito su un problema del figlio perché quello chiederà sicuramente l’affidamento con- giunto, ma quello non ci pensa nemmeno a chiedere l’affidamento congiunto, perché anche lui è terrorizzato dal muovere qualsiasi cosa. Però l’immagine è quella, cioè i due continuano ad avere in testa l’immagine di un atto conflit- tuale anche se non confliggono mai, allora il bambino che fa pipì e si rifà il letto da solo è funzionalissimo a questo tipo di sistema così organizzato. Perché le regole dell’adattamento sono così importanti? Perché questo con- sente al bambino, come tutti, di ottenere rapidamente una buona funzionalità nell’adattamento complessivo. Viene descritto come un bambino che va benissimo, che non ha risentito per niente della separazione, che sì, certa- mente poverino qualche cosa, però tutto sommato è grande. Il problema è il figlio consolatore, confidente, mediatore, tutte le posizioni in qualche modo di adultizzazione, di coniugalizzazione del figlio perché nell’adultizzazione è compresa ad esempio la coniugalizzazione del figlio cioè il figlio paladino della mamma, il figlio cavaliere della mamma, il figlio che anche dal padre riceve il messaggio “Ti devi occupare del tuo fratellino più piccolo. Occupati di mamma, sei l’uomo di casa”. Questi sono i messaggi tipici del congela- mento, che poi magari trascurano il fatto che si odia visceralmente quell’al- tra persona di cui si vuole che il figlio si occupi. Vedete, ripeto, come qui l’a- dattamento immediato è “ottimo”, quindi propone ai genitori una buona immagine dell’andamento, ed è molto negativo nel tempo, e soprattutto a distanza di tanto tempo, di solito non di poco tempo. Per esempio, queste sono le tipiche situazioni in cui, a fronte di un apparente buon adattamento nella prima e nella seconda infanzia, si verificano tracolli micidiali in adole- scenza perché la condizione che fa saltare tutto in questo schema è che il cambiamento è un tradimento dove il cambiamento può essere di qualunque membro: può essere di mamma che si fa un nuovo partner, del figlio che comincia ad interessarsi un po’ di più degli amici, della partita, della ragaz- zina che in qualche modo si allontana dalla funzione, che si è consolidata e che ha consentito il buon adattamento, che manifesta l’interesse per l’altro genitore ad esempio. Questo tipo di situazioni, del tutto fisiologiche nel loro accadere, nelle varie fasi dello sviluppo sono vissute in realtà da un sistema di questo tipo come tradimenti, come abbandoni di una posizione privilegia- ta che aveva consentito un’apparente buona uscita dalla situazione della separazione nell’immediato. Vedete quanto forte possa essere lo schema in cui poi il bambino si trova inserito. Se ripensate all’esempio della pipì, credo che sia abbastanza chiaro. Andiamo avanti. Qual è lo schema che si propone ai figli nello spostamento.

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Ricordiamo questo schema molto rigido. Posizioni antitetiche, inconciliabili. Il mondo è fatto di amici o di nemici. Anche qui le possibilità adattive in un mondo così fatto, in un mondo in cui ci sono o solo amici o solo nemici, non c’è la neutralità, non è possibile starsene per conto proprio, sono di un certo tipo: immediate, forti, costringenti, del tipo “se non sei con me sei contro di me”. È un messaggio potente che si invia a tutti, tanto è che, l’abbiamo detto prima, in questo schema ci cascano tutti. Ci cascano gli adulti, ci cascano gli operatori, ci cascano gli avvocati. Gli avvocati, va beh dicono “È il mio ruolo”, d’accordo però spesso ci cascano anche ad incarnarlo nella maniera più retriva, diciamo così, se mi permettete questo commento, perché ci pos- sono essere vari modi di interpretare anche il ruolo di alleato e di sostenito- re. Ci cascano tutti figuriamoci come ci casca un ragazzino, rispetto ad uno sche- ma così potente di arruolamento ma ci casca anche perché, se ripensate a tutto quello che vi ho detto prima, a tutti i bisogni nelle varie tappe dell’età evolutiva il bisogno del bambino, dell’adolescente di avere davanti a sé un genitore nelle sue varie articolazioni, nelle sue varie funzioni tranquillo, un genitore che gli rimanda un’immagine positiva, è un bisogno forte. Quando parlo di ruoli parlo di un qualcosa che poi definisce in maniera forte la propria identità, in maniera forte e stabile, quindi il primo aspetto impor- tante dei ruoli adattivi è che sono gratificanti rispetto all’assunzione di un ruolo segnalato da un genitore come molto importante, quindi c’è un’eleva- zione di livello del bambino che lo cattura in maniera inevitabile perché facendo così faccio stare molto bene mamma o papà. Il mio ruolo, il mio comportamento è importantissimo per mamma o per papà. Un messaggio di questo genere a cui tutti siamo sensibilissimi in qualunque fase della nostra vita, figuriamoci quanto è potente per un soggetto in età evolutiva che da quello dipende, soprattutto in una situazione di separazione, per le sue certezze quotidiane. Se vogliamo mantenere l’esempio della pipì, in modo un po’ monotono ma efficace, la pipì nello spostamento riceve un primo messaggio di tutt’altro genere: questa pipì mi serve per tutta una serie di finalità. Mi serve perché con questa mi difendo meglio da tuo padre che ha chiesto il tuo affidamento. In questi casi si discute moltissimo, ad esempio in sede di consulenza tecni- ca, su quanto questi aspetti siano esplicitati o siano impliciti: del famoso genitore che plagia attivamente (e qui siamo nello spostamento) oppure del genitore che, con il suo comportamento, in qualche modo segnala di gradire un certo comportamento del bambino e quindi anche inconsapevolmente lo incentiva. Difficile venirne a capo. Io sono convinto di una cosa, sono convinto che il genitore sicuramente segnala attivamente quello che gradisce perché tutti lo facciamo e più la situazione è rigida, più la situazione è schematica, più è forte l’idea dell’ami- co/nemico, più questo lo si fa inevitabilmente. Che poi ci possa essere qualche caso in cui c’è anche un indottrinamento atti- vo non lo posso escludere, non credo che sia la maggior parte. Voglio mante- nere questa idea che è forse un’illusione.

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Certo un bambino che venga anche attivamente indottrinato è un bambino ulteriormente penalizzato, ulteriormente danneggiato ecc. poi la sostanza delle cose non è estremamente diversa perché i messaggi e la forza dei mes- saggi è nell’aria. Si respira prima ancora di essere detta, e questa è una cosa che dobbiamo tenere molto presente. In questo tipo di situazioni rientrano tutti i casi di supposto o presunto abuso sessuale nelle situazioni di separazione dove noi assistiamo, appena usciamo dalla fascia della prima infanzia, se già si consideri un bambino della secon- da infanzia per quello che ho detto prima, assistiamo spesso ad una parteci- pazione attiva del bambino all’accusa del genitore rispetto alla situazione di abuso. Anche lì voi mi venite a dire “Ma l’ha indottrinato? Gli ha detto quello che deve dire? L’ha colto da solo da qualche elemento, sta collaborando inconsa- pevolmente ad un piano che però non è che sia stato definito a tavolino. É difficile dire questo, è molto difficile. Spesso è vera una cosa, spesso è vero un’altra. Quello che è certo è che, se escludiamo spesso la prima infanzia in cui effettivamente l’episodio o il pre- sunto episodio è portato con un bambino oggetto, semplice oggetto di un eventuale supposto abuso, già dalla seconda infanzia noi vediamo situazioni in cui il bambino racconta attivamente delle cose che si percepiscono talvol- ta palesemente false (perché contrastano con altri dati di realtà accertata, tipo delle violenze fisiche che dovrebbero lasciare delle tracce che invece non ci sono assolutamente) dove appare chiaro come sia potente il meccanismo di arruolamento in cui il bambino fa propria la percezione, il bisogno del geni- tore e va spesso anche oltre. Ricorderò sempre, come effetto anche emotivo, una consulenza tecnica in cui, in una situazione di questo genere, una bambina che già aveva sui 9, 10 anni raccontava attivamente di violenze assolutamente inaudite che il padre avrebbe commesso su di lei, senza alcun riscontro di realtà. Nel momento culminante, tra l’altro io ero CTP, nel momento culminante in una situazione che non avrei mai messo in piedi, quasi di confronto tra il padre e la ragazza, scandaloso per certi versi all’evidenza dei fatti, non vi descrivo lo stato di questa bambina, quando la madre disse “va beh, si sarà inventata tutto, io che dovevo fare?”, Cosa succede nel tempo a questa con- dizione di adattamento così forte in cui il figlio è gratificato dall’essere l’ar- ruolato di scelta del genitore? anche qui il tradimento. Ossia l’abbandono nel momento in cui la posizione diventa insostenibile per il genitore, perché magari gli fa passare qualche guaio, come nel caso della signora di un attimo fa, perché continuare a sostenere l’accusa sarebbe stato sicuramente un ele- mento di assoluto danno per lei nell’ambito processuale. Quindi accade che ad un certo punto l’alleato molla, perché prima o poi mola. Il problema è che intanto per il figlio quella è diventata un condizione di esi- stenza. Essere l’alleato fedele del genitore è diventata una condizione d’ esi- stenza, in un meccanismo molto forte perché questo dello spostamento è un meccanismo molto forte e molto potente, proprio perché molto affascinante per il figlio al quale viene attribuita molta importanza. Ovviamente, e questo è semplice definirlo, anche se non succedono cose clamorose come quella

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che ho appena descritto, il problema evolutivo dei figli in questo tipo di situazione è che comunque hanno a che fare con una visione del mondo che ormai tende gradualmente a radicarsi, di tipo duplice e dicotomica, in cui o si è alleati o si è nemici per cui il mondo è diviso rigidamente tra le persone di cui ci si può fidare, poche, e le altre, la massa, che sicuramente sono osti- li ed infide. Capite benissimo che questa, anche se non succedono cose cla- morose come nell’esempio citato, è comunque una modalità altamente pena- lizzante rispetto allo sviluppo ulteriore, allo sviluppo psico-emotivo ecc. I figli nell’esasperazione. La caratteristica qui è un’altra, completamente diversa. Il problema per il figlio è opposto: è proprio la modalità tipica del- l’esasperazione che non consente, che non fornisce un’immagine di immedia- to ruolo disponibile per l’adattamento perché i due non lo desiderano proprio. Se fate mente locale a situazioni in cui voi avete assistito ad un dialogo tra esasperati, per come l’ho raccontato prima, la percezione che ha il terzo è quella di non esistere. Non so se vi è capitato. Ma questi stanno qua mi con- siderano, scusate, fate dei segnali di fumo. Mi vedete, non mi vedete? Per un figlio è difficile rapportarsi a questo tipo di situazione nel senso che questa percezione di non esistenza è una percezione che dura nel tempo ed è una percezione penosa in quanto non fornisce un aggancio adattivo, pronto, come lo definisce più chiaramente il congelamento, poi vedremo, magari questa è una risorsa per il futuro. Nell’immediato il bambino di fronte all’esasperazio- ne è un bambino fondamentalmente che vive che cosa come esperienza? Vive la paura, vive lo spavento poi piano, piano si abitua pure allo spavento, si abi- tua pure che non succede nulla, ma non è facile perché quando si sentono volare i piatti la paura è tanta e vive soprattutto la mancanza di un aggancio ad un qualche ruolo che gli possa dare un po’ di sicurezza, cioè che gli con- senta di dire “ok, papà mi considera perché faccio questo, mamma mi consi- dera perché faccio quest’altro. Ho dei punti di riferimento”. Sempre per insistere sulla famosa pipì, la pipì in una situazione di esaspera- zione, il letto può rimanere così anche per qualche giorno se continuiamo la metafora, nel senso che può anche allagarsi, di pipì, ma di solito è ben poco visto né in senso positivo né in senso negativo, intendo. Il problema chiave del figlio nell’esasperazione è quanto si faccia prendere dalla paura, dal ter- rore o quanto riesca a tenersene abbastanza a distanza e questo poi è il pro- blema, perché il fatto di non avere immediatamente disponibile un ruolo adattivo, che nell’immediato è molto penoso, nel tempo può rivelarsi anche un vantaggio. Abbiamo visto quelli che il ruolo adattivo, ce l’hanno subito, rispetto ai quali sembra che funzioni tutto bene, che fine fanno e che problemi hanno.. Se il ruolo adattivo è immediato non c’è sicuramente la situazione più penosa nel- l’immediato potrebbe essere meno penosa nel futuro. La condizione qual è? La condizione è che il figlio non si faccia incastrare nel terrore di quello che può accadere a casa perché se si fa incastrare nel terrore di quello che può accadere a casa, rimane lì agganciato. Blocca tutto, fa il guardiano poi del bidone di benzina perché in realtà nessu- no glielo ha chiesto, nessuno lo vuole, nessuno lo gratifica però lui lo fa lo stesso perché è terrorizzato da quello che può accadere mentre la sua evolu- zione può essere più tranquilla se piano, piano trova dei riferimenti esterni.

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Poi, di fatto, quando riesce meglio l’esasperazione è perché riesce a trovare delle figure alternative. Riesce a stabilire un rapporto buono con dei pari, con un maestro, un insegnante, delle figure sostitutive con le quali in qualche modo questa dinamica con la figura adulta può essere compensata. Ecco allora l’importanza del contesto extra familiare: nelle situazioni di esa- sperazione può essere molto forte proprio per offrire al figlio situazioni in cui sperimentarsi in maniera più libera dal terrore di quello che può succedere dentro casa. È vero invece che in certi casi questo terrore dà vita a situazio- ni di grosse difficoltà adattive, legate proprio a quest’allarme cronico, ad uno stress cronico che paralizza, di fatto, o che porta a situazioni di fuga oppure, altro caso particolare lo citiamo qua all’uso del figlio come arma impropria. Che vuol dire? Vuol dire che può succedere anche nelle situazioni di esaspe- razione, nelle quali di per sé non c’è un’intenzione vittimizzante nei confron- ti dell’altro, che il bambino riceva dei maltrattamenti per così dire per sba- glio, nel senso che si tratta di una provocazione che ha per oggetto il figlio che viene portata all’altro. È il figlio che si trova messo in mezzo rispetto ad un lancio di piatti o ad un qualche cosa, ad un maltrattamento occasionale, ma è un’ipotesi abbastanza infrequente. È più frequente riscontrare situazioni di allarme cronico in bambini di questo genere proprio terrorizzati da quello che può succedere ai loro genitori. Cosa succede infine ai figli nella vittimizzazione e a questo proposito avevo parlato prima della complessità di questo tipo di situazione per un bambino, un figlio, un adolescente, spesso anche un giovane adulto. Questa rappresen- tazione del rapporto tra i genitori in termini di buono/cattivo è una rappresen- tazione forte. Il problema è che è una rappresentazione ambigua perché normalmente anche proprio nel seguire le tappe evolutive è chiaro che il primo impatto che ha un figlio di fronte a questa rappresentazione così ferma, così rigida buono/catti- vo è quello di “Proteggo il buono, tengo lontano il cattivo” è la prima sem- plice modalità adattiva. Il figlio scudo, il figlio che protegge il genitore. A differenza di quanto acca- de nello spostamento, in cui il figlio non è semplicemente scudo ma è attivo contro l’altro genitore, qui più che altro è un riparo per il genitore vittimiz- zato. Il problema è che mentre svolge questo ruolo il figlio si accorge che le cose sono un pochino più impicciate, diciamo così, si accorge di quella realtà più profonda, più nascosta di cui vi parlavo prima cioè che questa madre vittima che va protetta, bisogna mettersi in mezzo sennò il papà la picchia ecc., in realtà poi non molla mai cioè fa delle provocazioni pure lei niente male. È forte questa ed il papà poverino, è vero che è ubriaco, però poi va sotto i ponti, va a vivere in condizioni di degrado. Comincia un interessamento diverso rispetto a questa figura per cui su queste immagini doppie e contrap- poste di buono/cattivo ufficiale, di forte/debole ufficioso comincia un certo disorientamento rispetto alla propria collocazione. Possiamo osservare in questi casi situazioni evolutive molto diverse. Qui contano molto le identità di genere anche rispetto a questi ruoli di forte/debo- le, di chi prende e di chi dà perché, insomma, sono ruoli anche socialmente e culturalmente definiti, molto spesso per esempio rispetto ai maschi vediamo

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che in adolescenza tendono a fare un’inversione dell’identificazione cioè ten- dono ad identificarsi con l’aggressore piuttosto che con la vittima, quindi cominciano a mettere in atto loro comportamenti paradelinquenziali o di aggressività o di persecutorietà nei confronti qualche volta della madre ma per una serie di motivi che sicuramente stanno nella lettura di questo caso sottostante alle immagini ufficiali ma anche perché per esempio, rispetto alla propria immagine, la famosa propria immagine che si sta definendo in adole- scenza, l’idea dell’aggressore è più spendibile rispetto all’idea della vittima. Nel gruppo dei pari uno che le prende sta messo male, cioè è un’immagine ben poco adattiva, quello che sta a coccolare la madre, rispetto alle minacce che fa il padre. Spesso le figlie femmine sviluppano un altro tipo di situazio- ni. Fanno le assistenti sociali o fanno le terapeute nel senso che amplificano alcune caratteristiche che nel culturale femminile sono più sottolineate, come quella di chi si deve prendere cura di entrambi, dove lì il dramma è laceran- te nel senso che poi prendersi cura di entrambi, di una in un senso, di uno nel- l’altro, comporta un carico emotivo non indifferente. Non è raro, lo dico con molto senso realistico, non è raro vedere per esempio che queste persone scelgono delle professioni di aiuto. A volte anche questa scelta professionale viene vissuta molto problematicamente perché dietro a situazioni di questo genere c’è, per esempio, un senso di onnipotenza non trionfale (come dire “io posso risolvere tutto”) ma del tipo “a me si chiede di risolvere tutto”, quin- di sempre mal vissuto e mai rifiutato in pieno quindi con vissuti personali molto pesanti, molto dolorosi, di estremo incastro in questa situazione. Ci sono dei cliché, che hanno il limite di tutti i cliché, ma molto spesso, per esempio, nelle famiglie degli alcolisti c’è un figlio, spesso una figlia femmi- na, spesso la figlia femmina primogenita ma insomma, cerchiamo di non essere troppo schematici nella cosa, che dedica la sua vita alla cura delle rela- zioni familiari, cura per definizione infinita perché non ha mai un termine una cura di questo genere, e c’è solo uno svuotamento di risorse emotivo/affettive che poi porta, per esempio, a fare scelte personali anche molte problematiche, sia sul piano affettivo che lavorativo. Ed insomma rispetto a questi percorsi a lunga distanza, a lunga scadenza di situazioni della vittimizzazione, che per loro natura sono estremamente coinvolgenti, il figlio tende o a rigettarli di botto, più tipico del maschile, con tutto quello che comporta, o tende a ficcarcisi dentro in pieno, più tipico del femminile, con le altre conseguenze che questo comporta. Direi che possiamo concludere qui. Mi piacerebbe che nei gruppi di lavoro del pomeriggio cercaste di applicare un minimo questo modo di lettura anche ai casi che vi verranno proposti, attraverso queste due griglie fondamentali, delle tappe dell’età evolutiva e delle modalità di gestione.

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UN PO’ DI STORIA

a disciplina del diritto di famiglia contenuta nel codice civile del 1865, ispirato dal codice napoleonico, ha riguardo ad una concezione di famiglia Lmonolitica, verticistica e maschilista, sottratta ad interferenze esterne: il capo è il marito-padre, il quale esercita la potestà sui figli. Questa spetta alla madre solo dopo la morte del marito, il quale tuttavia nel testamento può det- tare regole per l’educazione dei figli. L’autonomia della moglie è molto limita- ta. L’adulterio della moglie è punito ed è causa di separazione coniugale per colpa di lei; per il marito è punita solo la relazione adulterina scandalosa (con- cubina mantenuta in casa o notoriamente altrove). Il padre può senza che occorra alcun provvedimento giurisdizionale collocare in casa di correzione il figlio deviante. In caso di morte dei genitori la tutela dei figli è affidata a per- sona indicata dai genitori stessi per atto notarile o nel testamento, anche qui senza che occorra alcun provvedimento del giudice. In mancanza di designazio- ne la tutela spetta di diritto all’avo I GIUDICI CHE SI materno. Non protetta, anzi avversata, è la famiglia illegittima. OCCUPANO DI MINORI Non vi sono ingerenze dello Stato in tale tipo di famiglia. Il giudice (sempre uomo), nei pochi casi in cui interviene, lo fa distribuendo la ragione ed il torto DR.SSA tra i coniugi che si separano, punendo la moglie adultera, ecc. MAGDA La chiesa cattolica condivide ed appoggia tale idea di famiglia. BRIENZA Il codice civile del 1942, formulato sotto il regime fascista, non introduce mutamenti di grande rilievo all’ordinamento civile della famiglia: la donna PRESIDENTE DEL TRIBUNALE acquista una certa libertà nell’amministrazione dei propri beni, ma il marito PER I MINORENNI DI ROMA continua ad essere il capo della famiglia e ad esercitare la potestà sui figli. Stato e Chiesa continuano a condividere l’idea di una famiglia fondata sul pote- re del marito-padre, ma lo stato autoritario non esita ad ingerirsi in essa: l’edu- cazione e l’istruzione dei figli devono essere conformi ai principi della mora- le ed al sentimento nazionale fascista. Si incoraggia la procreazione di molti figli. Vengono introdotti i reati contro la stirpe, sono previste pene molto pesanti per l’aborto, è punita la propaganda anticoncezionale. Lo stato intervie- ne nella gestione della famiglia attraverso l’ONMI, munito di notevoli poteri, e attraverso i giudici (giudice tutelare e tribunale per i minorenni). Nasce la volontaria giurisdizione in materia di famiglia e di persone. La nuova disciplina non viene attuata dal regime fascista, che cade quasi subi- to, ma resta quasi intatta, a parte l’eliminazione del richiamo al sentimento nazionale fascista, per molto tempo. Stato e Chiesa continuano a condividere l’idea di una famiglia coesa e forte, guidata dal maschio capo famiglia. I Tribunali per i minorenni, che non sono ancora autonomi, ma solo sezioni dei tribunali ordinari, raramente intervengono a tutela dei figli nei confronti dei genitori, limitandosi a svolgere un gran lavoro nel settore penale e della riedu- cazione dei minori devianti. Bisogna aspettare gli ultimi anni sessanta per incominciare a vedere le prime

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rilevanti novità nell’istituzione famiglia. È del 1968 la sentenza della Corte Costituzionale che cancella il reato di adulterio in quanto riservato alle donne. Ma l’evento veramente rivoluzionario è l’introduzione nel 1967 della legge sull’adozione speciale. Questo istituto assume una forte connotazione pubbli- cistica. È affidato ai giudici il compito di valutare se un bambino è o meno abbandonato, di dichiararne lo stato di adottabilità e di inserirlo, se del caso, in un nuovo nucleo familiare. I Tribunali per i minorenni, organi giudiziari spe- cializzati e finalmente autonomi, scoprono ed applicano anche le norme che disciplinano l’esercizio della potestà (artt. 330 e 333 c.c.). Successive rilevanti tappe della riforma nel settore famiglia sono: la legge sul divorzio del 1970, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la legge sull’a- dozione e sull’affidamento familiare del 1983. Si tratta di modifiche legislati- ve che corrispondono ai rilevanti mutamenti sociali che si sono intanto verifi- cati (liberazione della donna, scoperta del superiore interesse del minore, della libertà sessuale, della parità dei coniugi nell’esercizio della potestà). Nel 1978 è liberalizzato l’aborto e nei consultori viene svolta attività di consulenza e sostegno per evitare gravidanze indesiderate. Solo da poco più di trent’anni il nostro ordinamento giuridico, anche sulla base delle convenzioni internazionali stipulate sui diritti del fanciullo, ha scoperto i bambini come soggetti di diritti non ancora in grado di far sentire la propria voce. Esso affida ai giudici ampi poteri di intervento e di decisione: è il giudi- ce che autorizza il matrimonio del sedicenne, anche se i genitori non sono d’ac- cordo; è il giudice che autorizza la minorenne ad abortire senza o anche contro la volontà dei genitori; è il giudice che decide sull’affidamento dei figli in caso di separazione e divorzio dei genitori, facendo esclusivo riferimento al loro interesse materiale e morale. Intervengono negli anni 90 nuove importantissime norme a tutela dei minori: La legge che detta “Nuove norme contro la violenza sessuale” del 1996 e la legge n. 269 del 1998, contenente norme sullo sfruttamento sessuale dei minori. La prima, pur non occupandosi specificatamente di minori, ha introdotto varie norme che li riguardano. Violenza sessuale ed atti di libidine non più reati contro la morale, ma contro la persona e le due distinte fattispecie sono state unificate con importanti van- taggi sotto il profilo probatorio. L’art. 13 introduce il comma 1 bis dell’art. 392 c.p.p. nel quale si prevede un’autonoma ipotesi in cui può essere chiesto l’in- cidente probatorio (assunzione della testimonianza di persona minore degli anni 16 nei procedimenti per violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, corruzione di minorenni e violenza sessuale di gruppo). Quando i reati di vio- lenza sessuale siano stati commessi in danno di un minorenne il Pubblico Ministero deve darne comunicazione al Tribunale per i minorenni. La seconda legge si ispira ai principi della convenzione di New York sui dirit- ti del fanciullo, che tutela il diritto dei minori ad un libero e naturale sviluppo fisico, psicologico e morale contro ogni forma di sfruttamento e violenza ses- suale. Sono state introdotte nuove ipotesi di reato che sanzionano lo sfrutta- mento della prostituzione minorile, la pornografia minorile anche nell’insidio- sa diffusione telematica e il c.d. turismo sessuale, rivolto soprattutto all’orien- te. Sono state previste disposizioni processuali per agevolare la perseguibilità dei nuovi delitti. Sono istituite unità specializzate di polizia giudiziaria nel-

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l’ambito degli accordi internazionali con altri paesi dell’Euro. In particolare è previsto un nucleo di polizia giudiziaria presso la sede centrale della questura e sono istituite unità specializzate di polizia di polizia giudiziaria presso ogni Squadra mobile. La legge ha altresì ribadito la necessità di adeguati interventi di sostegno e tutela per i minori che esercitano la prostituzione o per i minori stranieri, privi di assistenza, coinvolti nella pornografia o nella prostituzione minorile, prevedente immediati interventi del Tribunale per i minorenni. L’applicazione della nuova normativa richiede, come è evidente, una specifica ed approfondita preparazione e competenza a trattare la delicata materia. È essenziale saper riconoscere e cogliere la richiesta di aiuto del minore, nonché la conoscenza da parte degli operatori socio sanitari e degli insegnanti dell’ob- bligo di segnalazione all’autorità giudiziaria. La reazione della società di fronte ad interventi giudiziari di tale delicatezza e rilevanza è spesso di protesta e di forte reazione, ingrandita dagli organi di stampa e dalle televisioni. È naturale che l’allontanamento di un bambino dalla sua famiglia scuota l’opinione pubblica, che si forma sulla base di quel che viene riferito dagli organi di informazione, presso i quali solo gli adulti sono in grado di far sentire le proprie ragioni. E si sa che gli adulti solidarizzano tra loro, poiché ognuno si riconosce nell’altro Il difficile compito dei giudici minorili è oggi diventato ancor più difficile. Si con- sideri da un lato che sembra si siano esaurite quelle spinte ideali che hanno porta- to alla formulazione dell’attuale normativa a tutela dei minori (“I figli non sono nostri”, diceva Meucci). Il concetto di famiglia è profondamente mutato. Si parla giustamente di “nuove famiglie”: famiglie monogenitoriali e famiglie ricostituite; attraverso l’inseminazione artificiale si possono avere figli senza padre o figli con due madri. Si parla anche di clonazione. Manca un’idea ed un valore condiviso. Il rito camerale, costituito da poche norme, scarne e generiche, che lasciano ampio spazio ai poteri discrezionali del giudice è compatibile con il nuovo art. 111 della costituzione, che richiede regolamentazione per legge, rispetto del principio del contraddittorio, terzietà ed imparzialità del giudice, ragionevole durata del processo? I giudici minorili da oltre 20 anni si sono confrontati tra loro e con l’avvocatu- ra sui temi nodali della giurisdizione minorile: rapporti tra giurisdizione e amministrazione, e quindi rapporti con i servizi sociali e rilievo nel processo delle loro relazioni; diritti dei genitori e diritti dei figli e loro esigenza di tutela e quindi disposizione delle prove da parte del collegio, modalità delle consulen- ze tecniche; esigenza del contraddittorio; specializzazione e composizione col- legiale mista (giudici togati e giudici esperti) dei Tribunali per i minorenni. L’essenza e le modalità della collegialità, in mancanza di una disciplina legisla- tiva, è stata definita dalla Corte di Cassazione (Cass. Sez. Unite civ. 19.6.96 n. 5629 e dal Consiglio Superiore della Magistratura (circolare 20.5.98 n. 9/97)- È comunque indispensabile una disciplina legislativa, da tempo invocata e non prevista ancora oggi dai progetti di legge governativi all’esame del parlamento. Le norme del procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, recentemente introdotte con la legge 149/2001 di modifica della legge n. 184/83 non sono ancora entrate in vigore, nonostante stia per scadere la secon- da proroga di un anno disposta al momento della loro emanazione. Nel dibattito svoltosi in dottrina e giurisprudenza rimangono alcuni nodi anco-

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ra non risolti. Le regole dei procedimenti contenziosi possono applicarsi ai procedimenti mino- rili? Vi sono in questi procedimenti parti contrapposte? Quali sono i soggetti che possono assumere la veste di parte? Vi è compatibilità tra processo tra parti e la tutela privilegiata che il legislatore intende assicurare all’interesse superiore del minore? Può parlarsi nel procedimento minorile di vincitori e soccombenti? In realtà basti pensare al procedimento di opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità, del quale è parte il minore, rappresentato da un curatore speciale: può dirsi soccombente il minore se non viene accolta la richiesta del curatore di conferma dello stato di adottabilità? Nei procedimenti minorili il giudice non p chiamato a distribuire ragione e torto: egli ha il compito di valutare, controllare ed eventualmente ripristinare o interrompere relazioni umane, affettivo-educative formulando giudizi progno- stici ed emanando provvedimenti a volte diretti a modificare tali relazioni orientandole verso l’interesse del minore. Tutto ciò non elimina, ma anzi riba- disce la necessità che sia rispettato in pieno il principio del contraddittorio, che deve essere inteso come diritto di tutti i soggetti interessati a far valere il pro- prio punto di vista, rappresentando pienamente al giudice le proprie ragioni. Il modello processuale auspicabile è quello di un processo snello nelle forme, privo di preclusioni ed idoneo a garantire all’occorrenza rapidità di decisione, ma anche possibilità di approfondimento per valutare le reali possibilità che in una determinata situazione si possa o meno recuperare una buona relazione educativa. Per quanto riguarda il rilievo processuale delle relazioni dei servizi sociali non va dimenticato che questi sono organi dello stato deputati istituzionalmente a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 della Costituzione) e che pertanto gli operatori sociali hanno la veste di incaricati di un pubblico servizio. Invece di sminuire i loro compiti, occorre pretendere che essi siano più adeguati alla funzione che sono chiamati a svol- gere. Sotto il profilo strettamente processuale essi non possono essere conside- rati consulenti tecnici né testimoni (a meno che non si tratti di riferire su fatti puri e semplici). Trattasi di quegli altri ausiliari di cui all’art. 68 c.p.c. dai quali il giudice può farsi assistere, non potendosi dissociare nella loro attività istitu- zionale quanto vi è di ricognizione e quanto di valutazione. Va quindi ribadita l’utilizzabilità nel processo delle relazioni dei servizi socia- li. Ciò non vuol dire che il giudice deve avere con i Servizi sociali un rappor- to privilegiato. Sarebbe anzi opportuno che un miglior rapporto di reciproca conoscenza si instaurasse tra questi ed il Pubblico Ministero. Deve inoltre esse- re fatta salva la facoltà dei soggetti interessati a proporre mezzi di prova diret- ti a contestare il contenuto delle relazioni sociali o di chiedere che l’operatore sia chiamato a chiarimenti in presenza dei soggetti interessati, i quali possano contraddirre e far valere le proprie ragioni. In altre parole cancellare il rito camerale non deve significare far venir meno quella tutela privilegiata del minore che oggi la legge interna e le convenzioni internazionali assicurano al minore quale portatore di un interesse superindivi- duale, di un interesse della collettività ad un sano sviluppo della personalità dei soggetti in età evolutiva.

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SOMMARIO 1. PREMESSA. 1. Premessa. 2. Lo stato della legislazione. a delicatezza del tema emerge già dall’acco- 3. La dottrina. stamento, nel titolo, di due termini tra loro 4. La giurisprudenza. difficilmente compatibili: “esecuzione” e 5. Rilievi critici. L “persona del minore”. Si tratta cioè della disci- 6. Il titolo esecutivo. 7. Le prassi. plina della concreta attuazione di provvedimenti 8. La soluzione allo stato della legislazione vigente. giurisdizionali riguardanti non già una cosa o 9. L’art. 337 c.c. un’opera, ma un soggetto, e per di più un sogget- 10. De iure condendo. to particolarmente fragile, perché in formazione. Si tratta anche in genere di decisioni, tra loro ete- rogenee, particolarmente incisive nella vita del minore e delle persone adul- te che sono in relazione con lui, volte a porre rimedio a momenti di crisi delle relazioni stesse. Basti pensare alle decisioni di allontanamento di un minore dalla sua famiglia per accertati o sospetti maltrattamenti, abusi o tra- scuratezze, o anche per temporanee L’ ESECUZIONE DEI difficoltà familiari, agli affidamenti all’uno o all’altro genitore o a terzi in PROVVEDIMENTI occasione della scissione della coppia genitoriale, alle decisioni che dispon- CONCERNENTI gono il rientro del minore in famiglia dopo lungi periodi di inserimento in LA PERSONA DEL MINORE un diverso nucleo familiare, ecc. Tutti concordano nel ritenere che per l’at- tuazione di tali provvedimenti occorre apprestare ogni strumento disponibile volto ad evitare per quanto possibile DR.SSA che l’evento, di per sé drammatico, provochi traumi al minore, ai suoi fami- MAGDA liari o ad altre persone comunque coinvolte. Occorre quindi da parte di chi BRIENZA deve provvedere all’esecuzione una approfondita conoscenza della situazio- ne personale, relazionale, ambientale, per poter valutare ogni risorsa disponi- PRESIDENTE DEL TRIBUNALE bile e scegliere i tempi e le modalità più idonei. Occorre una elevata profes- PER I MINORENNI DI ROMA sionalità da parte di chi deve intervenire o vigilare (giudici, operatori dei ser- vizi sociali, avvocati ecc.) per poter giungere alla realizzazione dello scopo (effettività della tutela predisposta con la decisione), senza provocare danni o con il minor danno possibile. L’esigenza che il provvedimento giurisdizionale - emesso, si badi bene, nel- l’esclusivo (o prevalente o superiore) interesse del minore - sia eseguito, è fortemente sentita da tutti e non solo da chi ha visto riconosciute le proprie ragioni, magari dopo lunghe, contrastate e sofferte vicende processuali. Il provvedimento da eseguire è in genere un punto fermo da cui partire per porre fine a difficili e laceranti conflitti e per riprendere il progetto educati- vo interrotto. Se esso non viene eseguito, non solo si lascia il minore in una situazione di precarietà certamente deleteria per lui, ma si provoca la sensa- zione che prevale la prepotenza, la prevaricazione, la mancanza di scrupoli, che finisce per avere di fatto ragione chi ha creato la situazione antigiuridica

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e contraria all’interesse del minore, chi è riuscito a sottrarlo materialmente, chi lo ha condizionato, blandito, strumentalizzato, chi ha usato i sistemi edu- cativi meno idonei per lo sviluppo armonico della sua personalità.

2. LO STATO DELLA LEGISLAZIONE.

lle suddette fondamentali esigenze non fa riscontro un adeguato assetto Anormativo. Nonostante il vasto ed approfondito dibattito svoltosi al riguardo, non si è ancora giunti nel nostro ordinamento giuridico alla formu- lazione di norme capaci di disciplinare l’effettiva e per quanto possibile rapi- da attuazione delle decisioni, assicurando che questa si realizzi nel rispetto della personalità e della dignità del minore nel cui interesse la decisione stes- sa è stata adottata. La giustizia minorile, da tempo bisognosa di urgenti riforme ordinamentali, sostanziali e processuali, che hanno formato oggetto negli ultimi trent’anni di numerosi disegni di legge, mai approvati, continua a rimanere priva di una disciplina normativa specifica del momento attuativo dei provvedimenti giu- risdizionali riguardanti il minore e in particolare del momento in cui la con- creta realizzazione di quanto è stato deciso nel suo interesse non può avveni- re perché manca il consenso di chi è tenuto a collaborare. Ancora oggi, come diceva il Mortara, occorre ricorrere ad “adattamenti e ripieghi con cui talvol- ta si raggiunge lo scopo (ma) prendendo norma dalle disposizioni testuali dei codici, è impossibile proporre una soluzione giuridica soddisfacente”. L’alternativa continua a porsi, come un secolo fa, tra il ricorso alle procedu- re esecutive e ricorso agli strumenti predisposti dal codice civile in tema di potestà e di separazione (vedi Cass. Roma, 10.4.1878 nel primo senso e Cass. Napoli 13.6.84 nel secondo). Non sono mancate le occasioni per una organica riforma, ma della grave lacuna esistente in questa materia il legislatore non ha tenuto conto né quan- do è stata varata la riforma del diritto processuale civile, che sarebbe stata una buona occasione anche per definire le regole dei procedimenti camerali, né quando è stato introdotto il giudice unico di primo grado, né in occasione delle recenti leggi di ratifica della convenzione de L’Aja sull’adozione inter- nazionale (legge n. 31.12.1998 n. 476) e di quella di riforma della legge 4.5.1983 n. 184 sull’adozione e l’affidamento familiare (legge 28.3.2001 n. 149). Le disposizioni cui si deve fare riferimento sono da una parte quelle del codi- ce civile: gli articoli 344, secondo comma, 337 e 333: il primo prevede la possibilità per il giudice tutelare di chiedere l’assistenza degli organi della pubblica amministrazione e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle sue funzioni ed è ritenuto utilizzabile per analogia da ogni altra autorità giudizia- ria minorile diversa dal giudice tutelare; il secondo stabilisce l’obbligo del giudice tutelare di vigilare sull’osservanza delle condizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della potestà; il terzo dispone che il tribunale per i minorenni adotti “provvedimenti convenienti” in ogni caso di condotta dei genitori pregiudizievole al figlio. Possiamo aggiungere a queste norme quella dell’art. 6, comma 10 della legge sullo scioglimento del matrimonio (legge 6.3.1987 n. 74, che ha modificato

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la legge.1.12.70 n. 898), che affida al giudice di merito l’attuazione delle decisioni relative all’affidamento della prole. I sostenitori della tesi processualistica fanno ormai riferimento all’art. 612 c.p.c., essendo stata abbandonata quella dell’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 605 e segg. (esecuzione per consegna o rilascio) da quando la Cassazione con sentenza n. 292 del 1979, “superando le incertezze espresse in dottrina e dai giudici di merito” ha ritenuto che “la consegna di un bambi- no non può essere equiparata a quella di una cosa”. Per completare il quadro normativo, debbono essere poi ricordati: l’art.68 u.c. c.p.c., secondo il quale “il giudice può sempre richiedere l’assistenza della forza pubblica; e gli artt. 14, 73 e 78 dell’ordinamento giudiziario: il primo prevede che ogni giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, può chie- dere, quando occorre, l’intervento della forza pubblica e può prescrivere tutto ciò che è necessario per il sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede, il secondo stabilisce che “il Pubblico Ministero… veglia …alla tute- la degli incapaci” e il terzo dispone che “le sentenze e gli altri provvedimen- ti del giudice civile sono fatti eseguire d’ufficio dal pubblico ministero nei casi preveduti dalla legge”. Ancora, l’art. 23 del D.P.R. n. 616/1977 attribuisce ai comuni le attività amministrative relative agli “interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competen- za amministrativa e civile”. Infine gli artt. 6 e 7 della legge 15 gennaio 1994 n. 64 di ratifica ed esecuzio- ne delle convenzioni del Lussemburgo in data 20.5.80 in materia di affida- mento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento e della convenzione de L’Aja del 25.10.80 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori, attribuiscono al Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minoren- ni la cura, anche avvalendosi dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, della esecuzione delle decisioni prese del tribunale.

3. LA DOTTRINA.

a dottrina, sotto il vigore del codice del 1865, era divisa tra fautori di una Lesecuzione coattiva amministrativa e fautori di una esecuzione coattiva processuale. E le cose non sono cambiate con l’entrata in vigore dei codici del 1942, salvo che per l’introduzione, accanto all’esecuzione forzata per consegna, di quel- la per gli obblighi di fare. Tale novità non è servita però a fugare i dubbi, e le opinioni in dottrina sono rimaste contrastanti. Autorevoli giuristi si sono pronunciati per l’eseguibilità in via amministrativa dei provvedimenti riguar- danti i minori. Altri per l’esecuzione per consegna. Altri ancora per l’esecuzione giurisdi- zionale attraverso l’applicazione della disciplina dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare. Altri infine hanno affermato che in caso di inadempi- mento non resta che il ricorso alle sanzioni indirette e principalmente a quel- le di carattere penale. Tale incertezza interpretativa dipende dal fatto che si va inutilmente alla ricerca di disposizioni processuali applicabili alla materia. Il legislatore che

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ha dettato le disposizioni relative all’esecuzione forzata per consegna e rila- scio ed anche quello che ha introdotto l’esecuzione forzata degli obblighi di fare non avevano certamente in mente l’applicabilità di tali norme all’ipote- si in cui l’esecuzione si riferisse alla persona del minore, anziché a una res o all’adempimento di obblighi di carattere patrimoniale. Basta leggere le norme per convincersene. Non può riferirsi ad un bambino la norma che richiede che il precetto per consegna di beni mobili contenga anche la descri- zione sommaria dei beni stessi (art. 605). Come ha affermato la Cassazione “la consegna di un bambino non può essere domandata all’ufficiale giudizia- rio sulla base della sola condizione del reperimento, ma richiede pur sempre l’adozione di comportamenti e la scelta di tempi e di modalità per le quali è necessario il prudente apprezzamento del giudice”. Ugualmente non può rife- rirsi ai minori la norma dell’art. 612, 2° comma, che prevede che il giudice dell’esecuzione, adito dopo la notificazione del precetto per la determinazio- ne delle modalità dell’esecuzione, “nella sua ordinanza designa l’ufficiale giudiziario che deve procedere all’esecuzione e le persone che devono prov- vedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta”.

4. LA GIURISPRUDENZA.

a mancanza di una specifica disciplina, per cui permane la “desiderabilità Ldi regole sobrie e precise sulla esecuzione forzata per le varie categorie di prestazioni derivanti da obblighi di fare” di cui parlava il Mortara, ha reso necessari gli sforzi che la Suprema Corte ha fatto per proporre, con “amplis- sima e ragionata motivazione”, un “paradigma totale dell’esecuzione minori- le” La Cassazione con la sentenza n. 3574 del 1980 ha innanzi tutto voluto ricon- durre il delicato momento dell’esecuzione coattiva sotto il controllo giurisdi- zionale, escludendo che questa possa svolgersi nelle forme e con la discrezio- nalità propria dell’attività amministrativa, affermando che “non vi è ragione per ritenere che il comando del giudice debba, nella fase esecutiva, essere avulso dall’ambito della funzione giurisdizionale”. L’esigenza fondamentale di “assicurare che il provvedimento sia portato comunque ad esecuzione imprescindibilmente” fa ritenere alla Corte inaccettabile l’esecuzione in via amministrativa, avvenga essa per iniziativa autonoma dall’autorità di P.S. (la quale però, ove ricorra un’ipotesi di reato, interviene per evitare che il reato sia portato a conseguenze ulteriori), o sia viceversa attuata sotto la vigilanza del giudice tutelare. Invero, secondo la Cassazione, il richiamo alla figura di questo giudice comporta la sollecitazione del potere amministrativo del magistrato adito e quindi un suo discrezionale apprezzamento riguardante la scelta fra il provvedere e il non provvedere, mentre nel quadro dell’esecuzio- ne giurisdizionale, l’opzione resta circoscritta alla scelta fra le modalità alter- native che risultino più adeguate al caso concreto. Scelta la via dell’esecuzione coattiva strettamente processuale, la Corte ha fatto una fondamentale distinzione tra i provvedimenti provvisori, destinati a regolare interinalmente il problema dell’affidamento della prole e i provve- dimenti definitivi. Tra questi ultimi, accanto alle sentenze la Corte pone i

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provvedimenti che, pur non emessi nelle forme del giudizio di cognizione e non risolvendosi in una sentenza, si caratterizzano “per l’instaurazione di un collegamento tendenzialmente definitivo tra minore e titolare della potestà sul medesimo e che, in funzione di tale definitività, realizza una situazione assimilabile a quella definita in una sentenza”. I primi (provvedimenti interinali), tra i quali quelli emanati ex art. 708 c.c., destinati ad essere modificati, revocati o confermati nel corso del procedi- mento, sono attuabili in via breve a cura del giudice che li ha emanati, con l’ausilio, se del caso, della forza pubblica. Viceversa per le sentenze e per tutti i provvedimenti che esauriscono il pro- cedimento, destinati quindi a disciplinare stabilmente una situazione, debbo- no trovare applicazione le disposizioni di cui agli artt. 612 e segg. c.p.c. e la competenza spetta al giudice dell’esecuzione e non già al giudice tutelare. L’elemento di stabilità e tendenziale definitività dell’atto, nonostante il suo inquadramento formale nella volontaria giurisdizione, attribuisce secondo la Cassazione al provvedimento la qualifica di titolo esecutivo necessaria per l’applicabilità della procedura ex art. 612.

5. RILIEVI CRITICI.

llo schema esecutivo generale costruito dalla Corte sono stati mossi molti Arilievi, primo fra tutti quello che rileva come restino fuori dall’applicazio- ne dell’art. 612 proprio gli unici provvedimenti diversi dalla sentenza ai quali è riconosciuta la qualifica di titolo esecutivo (artt. 708 c.p.c. e 189 disp. att. c.p.c.). “Anziché appoggiarsi a norma positiva stimata evidentemente inade- guata a reggere la costruzione teorica, la Corte ha preferito argomentare per assiomi e dedurre dal principio di tutela giurisdizionale, che si vuole piena anche nella fase esecutiva, che non vi è ragione di ritenere che il comando del giudice debba nella fase esecutiva essere avulso dalla funzione giurisdiziona- le” (Sacchetti). Ma poi, quanto alle forme, la stessa Cassazione le invoca dut- tili e flessibili, con caratteri cioè del tutto incompatibili con quelli tradizio- nalmente loro riconosciuti, superando anche il dogma della tipicità delle forme di esecuzione specifica “che ha sempre operato nel senso di escludere la tutela esecutiva di molte situazioni non riconducibili alla tradizionale tipo- logia della creazione o distruzione di opere materiali”. È data come eventua- le la stessa nomina dell’ufficiale giudiziario: Tali forme atipiche sarebbero da costruire, secondo Borré, sulla base del criterio di congruenza tra le forme stesse ed il risultato da conseguire (ai sensi dell’art. 121 c.p.c.). La conclu- sione è che si avrebbe un procedimento sui generis. La tesi della Cassazione sull’applicabilità della normativa processuale relati- va agli obblighi di fare non ha avuto fortuna presso i giudici di merito. E la generalità del fenomeno induce a ritenere che ciò non sia addebitabile ad una proterva volontà dei giudici di ridiscutere le valutazioni effettuate con tali provvedimenti giurisdizionali, restando liberi di provvedere o non provvede- re sull’istanza di esecuzione. Anche in dottrina del resto vi sono autorevoli voci dissenzienti. In realtà la mancanza di una norma specifica in materia rende opinabile qual- siasi soluzione interpretativa, che tende necessariamente a privilegiare alcu-

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ni aspetti del problema a scapito di altri e comporta inevitabilmente una qual- che forzatura. Il tentativo di soluzione pur pregevole della Cassazione è sostanzialmente incentrato sull’imprescindibilità dell’obbligo del giudice di dare esecuzione ai provvedimenti di affidamento e quindi a far prevalere sulla riconosciuta duttilità del quomodo l’obbligatorietà dell’an. L’alternativa tra giudice del- l’esecuzione e giudice tutelare è risolta a favore del primo nel presupposto della natura amministrativa dei poteri del secondo. Poiché si tratta di verificare non tanto l’esattezza - nel sostanziale vuoto nor- mativo - di una soluzione o dell’altra, quanto la maggiore “attendibilità” di una di esse in base al quantum di sforzi di adattamento delle norme utilizza- te, che costituisce il percorso obbligato per arrivare ad una soluzione o ad un’altra, non è azzardato ritenere che la serie di ostacoli che la Cassazione supera con adattamenti della lettera della legge sia superiore a quella che occorre superare per pervenire alla soluzione opposta. Premesso che la Cassazione giudicava su un caso di rifiuto di un pretore, che cumulava le funzioni di giudice dell’esecuzione e di giudice tutelare, di ese- guire un provvedimento del tribunale basato su un riconoscimento della paternità che era ancora controverso, è da osservare innanzi tutto che il tra- sparente obbiettivo della decisione è quello di negare che in sede esecutiva possa essere ridiscusso il provvedimento del giudice di merito.

6. IL TITOLO ESECUTIVO.

er pervenire a questa soluzione la Cassazione supera innanzi tutto un Pprimo ostacolo costituito dalla difficoltà di definire i rapporti tra provve- dimento sull’affidamento e fase successiva in termini di rapporto tra titolo esecutivo ed esecuzione, attribuendo efficacia esecutiva a provvedimenti come quelli camerali di affidamento cui tale efficacia non è espressamente riconosciuta ai sensi dell’art. 474 c.p.c.. La difficoltà viene superata dalla Corte attraverso l’affermata assimilabilità delle situazioni realizzate con provvedimenti camerali di affidamento, aventi il carattere di definitività e tendenziale stabilità, a quelle definite con sentenza. Ulteriore ostacolo è poi quello che molti dei provvedimenti di affidamento non sono le sentenze di “condanna” cui si riferisce l’art. 612 c.p.c. Anche questa difficoltà, sul piano ermeneutico è superabile, ad esempio affermando, come fa parte della dottri- na, che ogni decisione di natura costitutiva contiene implicitamente disposi- zioni accessorie di condanna ad un fare. Non si può quindi escludere in astratto che anche in questa materia, possano esservi provvedimenti identifi- cabili come titolo esecutivo, decisioni, cioè, che abbiano caratteristiche tali per cui gli organi giudiziari, o i loro ausiliari, recepito l’ordine contenuto nella decisione stessa, “non debbono fare nulla di più e nulla di meno, per l’attuazione della sanzione, di quel che è comandato nel titolo”. Tuttavia va riconosciuto che, nella stragrande maggioranza dei casi, vi è assoluta indeterminatezza circa il facere. Ciò accade, per esempio, in tutte quelle decisioni che, nel disporre l’affidamento di un minore stabiliscono espressamente, o presuppongono logicamente, la necessità di costituzione o ricostituzione di relazioni interpersonali inesistenti o interrotte da tempo. In

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tali casi è evidente che manca del tutto l’attitudine del provvedimento ad essere portato ad esecuzione forzata. L’impraticabilità del procedimento di esecuzione forzata in forma specifica risulta altresì evidente, nei casi in cui chi non intende conformarsi al provve- dimento giudiziario è non già un adulto, ma il minore stesso. Intanto non può non rilevarsi che il procedimento ex artt. 612 e segg. c.p.c., che non fa alcuna menzione della necessità o opportunità dell’ascolto del minore, a prescindere dalla sua età, deve necessariamente essere coordinato con quanto prescrive all’art. 12 la Convenzione di New York, che è legge dello stato in virtù della legge di ratifica ed esecuzione del 27.5.91 n. 176. La Convenzione afferma invero il diritto del fanciullo di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa e di vederla debitamente presa in considerazione, tenuto conto della sua età e del suo grado di maturi- tà. Il minore quindi dovrà essere sentito, direttamente o tramite un rappresen- tante o un organo appropriato. Ma non basta. Nessuna coercizione fisica potrà essere esercitata su di lui al di fuori dei limiti previsti dalla legge. Sicché, per esempio, nell’ipotesi che l’attuazione del provvedimento giudi- ziale sia chiesta da chi è titolare della potestà genitoriale, dovrà tenersi conto delle limitazioni che la potestà gradualmente subisce man mano che il mino- re crescendo acquista autonomia. Anche se il legislatore non ha dettato rego- le precise, né poteva farlo, è evidente che un certo uso che si fa della potestà quando il bambino è piccolo, può diventare abuso quando questi è adolescen- te. Sotto un altro aspetto, nell’ipotesi, per esempio, che l’allontanamento di un minore da un certo contesto familiare sia dettato dalla opportunità di sot- trarlo ad una situazione di rischio psicopatologico, occorrerà riflettere sul fatto che nessuno ritiene che possano per esempio essere imposti trattamenti sanitari ad un adolescente sufficientemente maturo al di fuori dell’applicabi- lità della legge sui trattamenti sanitari obbligatori, non potendo il genitore sostituirsi al figlio in simili casi, che esulano dall’ambito della rappresentan- za legale. Il criterio al quale occorre fare riferimento è oggi, specie dopo l’en- trata in vigore della legge 28.3.2001 n. 149 (riforma dell’adozione e dell’af- fidamento) la capacità di discernimento, che comprende due distinte attitudi- ni : da un lato la capacità di valutare la propria situazione, con riguardo non solo al presente, ma anche al futuro (progetto educativo) e dall’altro quella di autodeterminarsi, cioè di operare una scelta tra diverse possibilità. È quindi da ritenere che non possa essere imposto con la forza ad un minore con suf- ficiente capacità di discernimento di trasferirsi a vivere con il genitore che in sede di separazione personale dei coniugi è stato ritenuto maggiormente ido- neo a provvedere alla sua educazione, se egli non lo desidera. Anche in que- sto caso la decisione giudiziaria non può costituire titolo per una esecuzione forzata, non essendo esigibile nei confronti del minore la situazione giuridi- ca del genitore a favore del quale è stato disposto l’affidamento. La convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980 sulla sottrazione internazionale dei minori, resa esecutiva in Italia con legge 15 gennaio 1994 n. 64, dispone che l’autorità giudiziaria o amministrativa può rifiutare l’ordine di rientro del minore nel luogo di residenza abituale, se questi si oppone ed ha raggiunto una età e una maturità tale per cui deve tenersi conto della sua opinione.

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7. LE PRASSI.

attuazione dei provvedimenti riguardanti i minori ha avuto diverse appli- L’ cazioni nei vari uffici giudiziari e si sono riscontrate diverse modalità di attuazione anche a seconda del tipo di provvedimento. La soluzione che attribuisce al giudice tutelare la competenza ad attuare i provvedimenti relativi ai minorenni ai sensi dell’art. 337 c.c., è prevalsa nei grandi uffici giudiziari e cioè in quelli nei quali vi sono giudici addetti in via esclusiva o prevalente allo svolgimento delle funzioni tutelari ed eccezional- mente anche in uffici giudiziari medi e piccoli, quando le funzioni tutelari sono risultate affidate a singoli magistrati interessati per loro caratteristiche personali alla specifica materia. Si tratta quindi sempre di giudici muniti di adeguata specializzazione e sensibili da una parte all’esigenza dell’indefetti- bilità dell’esecuzione e dall’altra alla necessità di utilizzare modalità e tempi rispettosi della preminente esigenza di tutela del minore. Si tratta come si vedrà di una prassi che pur essendo in netto contrasto con l’indirizzo dettato dalla Suprema Corte, è tuttavia in linea con i principi ispiratori della giuri- sprudenza della Cassazione. Oggetto di questa attività di attuazione da parte dei giudici tutelari sono innanzi tutto i provvedimenti che disciplinano il c.d diritto di visita del genitore non affidatario (in relazione ai quali nessuno afferma che possa essere utilizzato lo schema processuale dell’art. 612 cpc, trattandosi di comportamenti ripetitivi), cui si aggiungono quelli emanati dal Tribunale per i minorenni ai sensi degli artt. 317/bis c.c. e quelli adottati dai tribunali ordinari nell’ambito dei giudizi di separazione e di divorzio. Sono attuate poi a cura di tali giudici anche le sentenze emesse in secondo grado dalla Corte d’Appello, che definiscono tali giudizi, disponendo il trasferi- mento della prole da un genitore all’altro o a terzi. Raramente invece sono portati ad esecuzione a cura dei giudici tutelari i provvedimenti definitivi emanati dai Tribunali per i minorenni nell’ambito dei procedimenti ex artt. 330 e segg. C.C. Ciò dipende sia dalla generalizza- ta adozione nel corso del procedimento di provvedimenti provvisori e urgen- ti, ai quali i Tribunali per i minorenni danno immediata attuazione diretta- mente, cosicché la situazione di tutela risulta già realizzata prima ancora della decisione definitiva, sia dallo stretto rapporto di collaborazione tra giu- dici e servizi sociali che caratterizza questi procedimenti. Emessa la decisio- ne, questa viene immediatamente comunicata per l’attuazione al servizio sociale che nella maggior parte dei casi è lo stesso che ha segnalato la situa- zione di disagio, maltrattamento o abuso, che costituisce la causa del provve- dimento di allontanamento del minore dal suo nucleo familiare. Va ricordato che i Tribunali per i minorenni provvedono direttamente in virtù della legge n. 184/83 all’attuazione di tutti i provvedimenti provvisori e defi- nitivi adottati nei procedimenti di dichiarazione dello stato di adottabilità ed in quelli di adozione. In realtà, per questi provvedimenti giudiziari l’attuazione diretta da parte dei Servizi sociali sotto la vigilanza dello stesso giudice che li ha emanati, è la norma. Fanno eccezione i decreti emessi ex art. 317/bis, che vengono spesso azionati dai genitori con ricorsi ai giudici tutelari ex art. 337 c.c. o al giudi- ce dell’esecuzione ex art. 612 e segg. c.p.c.

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Presso i Tribunali per i minorenni è quindi nettamente prevalente la prassi dell’esecuzione diretta in via breve sia dei provvedimenti provvisori e urgen- ti che di quelli definitivi, con numerose varianti da tribunale a tribunale a seconda delle differenti organizzazioni dei servizi sociali territoriali, dell’e- sistenza o meno di protocolli d’intesa tra i servizi stessi e l’autorità giudizia- ria, della diversa sensibilità del foro locale. E tra i giudici minorili vi è chi nega che possa esistere in questa materia una autonoma fase esecutiva, distinta da quella di cognizione, affermando che nella fase attuativa l’autorità giudiziaria che ha emesso la decisione ha come interlocutore il servizio sociale territoriale, il cui dovere di provvedere non deriva dalla disposizione del giudice, ma dalla legge (artt. 22 e 23 del DPR 616/77) e dall’obbligo di predisporre ed erogare interventi in favore dei minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nel- l’ambito della competenza civile ed amministrativa. Tale impostazione è coerente con il principio dell’officiosità dell’attuazione dei provvedimenti. “Nella giurisdizione minorile”, si dice, “non vi è una distinzione tra merito ed esecuzione, ma invece una doppia fase di merito, la prima programmatica e la seconda di verifica operativa della validità della prima”. Il ricorso al procedimento di esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, come si è già detto, non ha avuto favorevole accoglienza presso i giudici di merito. Questa procedura è stata utilizzata spesso nelle situazioni più difficili, di conflitto più esasperato, spesso in situazioni di oggettiva ine- seguibilità dipendente da un radicale rifiuto di collaborazione da parte dello stesso minore o per la necessità di ricostruire legami affettivi inesistenti o da tempo interrotti.

8. LA SOLUZIONE ALLO STATO DELLA LEGISLAZIONE VIGENTE.

otto il profilo teorico il nocciolo del problema è quello relativo all’adatta- Sbilità del modello dell’art. 612 c.p.c. alle esigenze specialissime dell’ese- cuzione dei provvedimenti riguardanti i minori, che, secondo la stessa Cassazione deve essere “un’esecuzione il più possibile duttile, cioè tale da consentire “interventi che siano il più possibile adeguati ad evitare effetti traumatici……e con ampia gamma di possibilità nella scelta delle modalità dell’esecuzione”. Per rispondere positivamente a tale quesito la Cassazione è costretta a mani- polare l’art. 612, suggerendone ai giudici di merito un’applicazione palese- mente incompatibile con espliciti dati testuali, quali la notifica del precetto e soprattutto l’obbligatoria designazione dell’ufficiale giudiziario che deve procedere all’esecuzione e delle persone che debbono provvedere al compi- mento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta. Ed allo- ra occorre domandarsi se non presenti minori difficoltà interpretative il supe- ramento dell’unico presupposto dal quale la Cassazione muove per negare l’attribuibilità al giudice tutelare della competenza ad eseguire i provvedi- menti in esame. E cioè quello secondo cui il richiamo a tale figura compor- terebbe “la sollecitazione del potere amministrativo” di tale giudice e quindi “un suo discrezionale apprezzamento riguardante la scelta tra il provvedere e

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non provvedere, mentre, nel quadro dell’esecuzione giurisdizionale, l’opzio- ne resta circoscritta alla scelta tra le modalità alternative che risultino più adeguate al caso concreto”: con il corollario che rispetto “ad un rifiuto di provvedere…..non esistono strumenti di natura giurisdizionale”. Va considerato che nel caso sottoposto all’esame della Corte la forzatura ope- rata per affermare l’applicabilità del procedimento ex art. 612 è stata facili- tata dal fatto che l’istanza di attuazione del provvedimento era stata proposta ad un pretore mandamentale e vi era quindi coincidenza tra giudice dell’ese- cuzione e giudice tutelare, cosicché risultava soddisfatta anche l’esigenza di specializzazione, sulla quale giustamente la Cassazione pone l’accento. Ma tale coincidenza di funzioni nello stesso giudice persona fisica si realizza solamente nei piccoli uffici giudiziari, sicché è fatale che in quelli di dimen- sioni grandi o medie la scelta dello strumento dell’art. 612 comporta il sacri- ficio della fondamentale esigenza di specializzazione, posto che in tali uffici le due funzioni sono affidate a giudici diversi. In buona sostanza quindi la Corte ha ritenuto che l’esigenza di specializzazione e la necessaria eseguibi- lità dei provvedimenti di affidamento dei minori potesse essere soddisfatta forzando in qualche misura la lettera dell’art. 612 nel presupposto neanche tanto implicito che quelle esigenze fossero concretamente soddisfacibili. Ma poiché tale soluzione incontra considerevoli ostacoli, oltre che sul piano strettamente normativo - anche per la formulazione dell’art. 612 - nella con- creta applicazione, per la mancanza di quella specializzazione che consente la più opportuna duttilità dell’esecuzione nella materia dell’affidamento dei minori, occorre domandarsi se sia sufficientemente fondato il presupposto dell’opzione per il giudice dell’esecuzione rispetto al giudice tutelare, e cioè che quest’ultimo sia organo amministrativo ed altresì dotato del potere di non dare esecuzione al provvedimento di affidamento emanato dal giudice della cognizione. Qui un primo assunto implicito - sul quale per la verità la senten- za non sembra prendere espressamente posizione - sembra dato dalla ritenu- ta natura amministrativa dei provvedimenti di volontaria giurisdizione nei quali generalmente vengono inquadrati quelli affidati alla competenza del giudice tutelare. Ma si tratta di dibattito protrattosi a lungo senza soluzioni definitive e ormai ritenuto sterile e privo di vero interesse. Il tema allora si sposta sulla qualificazione dei provvedimenti che il giudice tutelare adotta qualora lo si ritenga - in ipotesi - chiamato ad eseguire i prov- vedimenti del tribunale in materia di affidamento dei minori. Innanzi tutto, anche ammesso che tale esecuzione sia demandata ad un organo squisitamen- te amministrativo (ad esempio la polizia) vi è da domandarsi se, attesa la natura sicuramente giurisdizionale del provvedimento da eseguire, vi sia discrezionalità in tale organo nell’eseguirlo o meno. In secondo luogo, poi- ché i provvedimenti del giudice tutelare sono sul piano soggettivo sicuramen- te giurisdizionali, v’è da chiedersi se tale profilo soggettivo sia in ogni caso sopraffatto dalla natura oggettivamente amministrativa della funzione che all’organo giurisdizionale è demandata dalla legge. Nel caso del giudice tute- lare è vero che una parte considerevole delle sue competenze, quali quelle relative alle tutele e curatele, esplicitamente previste nell’art. 344 c.c., hanno natura amministrativa, ma ciò non sembra sufficiente ad attribuire la medesi- ma natura alle “altre funzioni affidategli dalla legge”, cui lo stesso articolo fa

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riferimento. Né sembra che tale qualificazione possa univocamente derivarsi dal secondo comma dello stesso articolo 344, secondo cui “il giudice tutela- re può chiedere l’assistenza degli organi della pubblica amministrazione i cui scopi corrispondono alla sua funzione”. Quest’ultima funzione è indifferente rispetto alla natura delle funzioni esplicate dal giudice, posto che l’assisten- za di organi amministrativi può essere richiesta in molteplici campi dal giu- dice, ad esempio dal giudice penale, che esercita funzioni sicuramente giuri- sdizionali

9. L’ART. 337 C.C.

ra le “altre funzioni” del giudice tutelare una posizione particolare hanno Tquelle indicate dall’art. 337 c.c., secondo il quale “il giudice tutelare deve vigilare sull’osservanza delle condizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della potestà”. Nella prassi assai diffusa soprattutto dei grandi uffici giudiziari tale disposi- zione è stata interpretata come base normativa per l’attribuzione al giudice tutelare di una competenza generale all’esecuzione dei provvedimenti del tri- bunale in materia di affidamento dei minori, in aperto contrasto con l’orien- tamento della Cassazione sopra illustrato. A conforto di tale prassi sta anzi- tutto sul piano testuale il fatto che tra le condizioni stabilite dal tribunale per l’esercizio della potestà possono agevolmente inquadrarsi sia quelle dettate dal tribunale per i minorenni che quelle disposte dal tribunale ordinario in sede di separazione e divorzio dei genitori: formula che evidentemente si adatta a tale tipo di provvedimento assai meglio che quella di cui all’art. 612 c.p.c. D’Altra parte la dizione “deve vigilare sull’osservanza” è in aperta contraddizione con l’assunto della sentenza della Cassazione secondo cui l’affidamento al giudice tutelare della competenza esecutiva in materia sareb- be fatalmente discrezionale nell’an, consentendogli anche di non procedere all’esecuzione. Una tale discrezionalità - una volta ammesso che tali provve- dimenti rientrino nella categoria generale delle condizioni dettate dal tribu- nale per l’esercizio della potestà - sembra da escludere in base a due dati testuali, e cioè l’uso del verbo “deve” e del sostantivo “osservanza”, che esprimono non una discrezionalità ma il dovere del giudice di attuare i prov- vedimenti. L’inquadramento in tale disposizione del potere - dovere di esecu- zione dei provvedimenti di affidamento non sembra incontrare soverchie dif- ficoltà sul piano testuale ed una volta che si ammetta ciò, anche la supposta qualificazione amministrativa dell’attività del giudice tutelare perde rilievo: perché così come si ammette che un giudice cui sono in prevalenza deman- date funzioni giurisdizionali possono essere dalla legge attribuite competen- ze amministrative, allo stesso modo deve ammettersi che ad un giudice cui sono prevalentemente assegnate funzioni amministrative possano essere demandate anche funzioni propriamente giurisdizionali. Ma quel che soprattutto conta è che, inquadrata tale funzione esecutiva nel- l’art. 337 c.c., i dubbi sulla discrezionalità sull’an dell’esecuzione possono essere superati abbastanza agevolmente e, se questo è vero, gli adattamenti che la lacunosità del quadro normativo richiede si ricompongono intorno ai due punti che la stessa Cassazione riconosce centrali e cioè: innanzi tutto la

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specializzazione del giudice dell’esecuzione, posto che l’esperienza di tale organo in materia di provvedimenti concernenti i minori gli consente di adot- tare i provvedimenti più appropriati nel caso concreto in misura evidente- mente di gran lunga maggiore rispetto a quella che può riconoscersi ad un organo come il giudice dell’esecuzione che si occupa prevalentemente di ese- cuzioni mobiliari. In secondo luogo la necessaria “duttilità” nell’esecuzione dei provvedimenti di affidamento dei minori, che la Cassazione esplicitamen- te riconosce come necessaria, rientra naturalmente nella lettera e nello spiri- to dell’art. 337, mentre, come si è visto, mal si attaglia ad una forma rigida come quella dell’art. 612. Alla stregua dell’attuale normativa non vi sono quindi serie obiezioni giuri- diche né ostacoli pratici rispetto all’applicabilità di una prassi che attribuisce al giudice tutelare il compito di attuare concretamente, anche coattivamente, se necessario, i provvedimenti riguardanti i minori. “I giudici tutelari”, come è emerso da una pregevole indagine conoscitiva svolta dal CAM di Milano, “hanno introdotto modalità di lavoro che, nel rispetto della decisione presa dal giudice del merito, ha puntato alla accetta- zione da parte degli adulti, utilizzando la collaborazione di figure professio- nali specializzate che hanno a loro volta cercato di attenuare il conflitto degli adulti a solo vantaggio del minore, ritenuto e considerato in concreto come figura centrale cui afferisce la potestà genitoriale, anche nel momento esecu- tivo”. I buoni risultati riscontrati trovano la loro ragione anche nel fatto che il giu- dice tutelare si trova ad essere un organo monocratico specializzato, distinto dall’autorità giudiziaria che ha adottato la decisione, privo di poteri modifi- cativi della stessa, ma munito di poteri coercitivi, potendo far ricorso alla forza pubblica, e quindi in grado di richiamare gli interessati in conflitto a concentrare la loro attenzione ed il loro impegno sulle modalità e sui tempi di una attuazione ormai inevitabile, che sia per il minore meno drammatica possibile. Può accadere che il giudice tutelare debba prendere atto in qualche caso della impossibilità di portare ad attuazione il provvedimento. In tali casi dovrà tra- smettere il fascicolo al tribunale per i minorenni perché adotti nuovi provve- dimenti, mentre i genitori separati o divorziati potranno proporre istanza al Tribunale ordinario per la modifica del provvedimento riconosciuto inesegui- bile. In conclusione, alla stregua delle considerazioni finora svolte, risulta suffi- cientemente coerente una interpretazione dell’attuale lacunoso quadro nor- mativo che veda affidata al giudice tutelare l’esecuzione dei provvedimenti definitivi emanati dai Tribunali ordinari e dai Tribunali per i minorenni (fatta eccezione per i decreti definitivi di adottabilità che sono attuati con pieni poteri dal giudice minorile cui spetta per legge provvedere all’affidamento preadottivo), nonché dalle corti d’appello in secondo grado ed al giudice del merito quella dei provvedimenti provvisori. In relazione a tali ultimi provve- dimenti ricorrono i motivi d’urgenza che ne giustificano l’emanazione e l’op- portunità che il giudice che li ha adottati possa, attuandoli concretamente, verificarne la fattibilità in corso di opera ed eventualmente modificarli ed adattarli ove necessario.

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In tale quadro si inserisce coerentemente l’art. 6, c. 10 della legge sul divor- zio, che attribuisce al giudice di merito la competenza ad attuare i provvedi- menti di affidamento della prole, ove la si interpreti nel senso dell’attribuzio- ne della competenza allo stesso giudice del divorzio, o, terminato questo pro- cedimento, al giudice tutelare. Invero la norma, pur indicando come compe- tente per l’attuazione il giudice di merito, dispone poi la trasmissione “a tal fine” di copia del provvedimento al giudice tutelare. Lo stesso può dirsi per la recente legge 4.4.2001 n. 154, recante misure con- tro la violenza nelle relazioni familiari e per la legge 28.3.2001 n. 149, che ha modificato gli artt. 330 e 333 c.c. Tali disposizioni prevedono la possibi- lità per il giudice adito (tribunale civile ordinario, giudice della separazione o del divorzio, ove sia pendente tale tipo di giudizio, e tribunale per i mino- renni innanzi al quale pende procedimento ex art. 330 e segg. c.c.) di emet- tere provvedimenti provvisori di allontanamento dalla casa familiare del coniuge, del genitore o del convivente maltrattante o abusante. Sembra chia- ro che anche questi provvedimenti sono destinati ad essere attuati dallo stes- so giudice che li emana. La soluzione interpretativa proposta realizza il risultato di mantenere sempre l’attuazione dei provvedimenti riguardanti i minori sotto il controllo di un giudice ed assicura conseguentemente il rispetto del principio del contraddit- torio e del diritto di difesa, pur in mancanza di precise norme procedurali, che fanno difetto d’altronde anche nei procedimenti di cognizione che si svolgono con il rito camerale. L’eccezionalità della situazione (rapimento internazionale) e della tutela apprestata (che tende all’immediato ripristino dello status quo ante), sembra invece giustificare quanto stabilito dalla legge 15 gennaio 1994 n. 64 di rati- fica delle convenzioni di Lussemburgo del 20.5.80 e de L’Aja del 25 ottobre 80 (la prima in materia di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento e la seconda sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori). È attribuita infatti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni la cura dell’esecuzione delle decisione riguardanti i minori, con facoltà di avvalersi dei Servizi minorili dell’Amministrazione della Giustizia (artt. 6, co. 4 e 7, co.5). Questa legge, che restituisce ai Servizi della Giustizia minorile competenze civili da tempo sottratte, non è in sintonia con l’indirizzo processualistico della Corte di Cassazione, né con l’orientamento espresso dal legislatore del 1987, con la riforma della legge sul divorzio, il quale, come si è visto, sembrava orientarsi verso una attuazione sottoposta comunque al controllo di un giudice. L’anomalia risulta ancora più evidente se si considera che l’art. 4, u.c. della stessa legge attribuisce al Giudice Tutelare del luogo di residenza del minore, l’attuazione nello Stato, dei prov- vedimenti di protezione dei minori emessi in base alla convenzione de l’Aja del 5 ottobre 1961.

10. DE IURE CONDENDO.

n una riforma organica della giustizia minorile, che richiede sotto il profi- Ilo ordinamentale la riunificazione delle competenze in un unico organo

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giudiziario (specializzato, a composizione mista e con competenza sia civile che penale) e, sotto il profilo procedurale, la regolamentazione dei procedi- menti camerali, nell’ambito dei quali non dovrà essere trascurata la possibi- lità di soluzioni alternative extragiudiziarie, quali la mediazione familiare, è auspicabile che il legislatore predisponga, per disciplinare questa materia, una disciplina semplice e chiara, idonea ad assicurare che le decisioni di merito non risultino inutiliter datae. Intanto occorrerà utilizzare sempre e soltanto il termine “attuazione” dei provvedimenti giudiziari relativi ai minorenni, evitando di far ricorso indif- ferentemente anche al termine “esecuzione”. È evidente infatti che di vera e propria esecuzione forzata non può parlarsi con riferimento ai minorenni, pur non dovendosi escludere in alcuni casi, sotto il controllo del giudice, il ricor- so alla coercizione fisica. La delicata funzione non potrà che essere attribuita ad un giudice specializ- zato e quindi adeguatamente formato, monocratico ed appartenente allo stes- so organo giudiziario competente per il merito, ma fisicamente distinto da chi ha emesso il provvedimento, privo del potere di modificarlo, ma libero di scegliere le modalità ed i tempi più opportuni per la realizzazione dello scopo e munito, all’occorrenza, di poteri coercitivi. In tale procedimento, nel quale è evidente che dovrà essere garantito il con- traddittorio e il diritto di difesa e quindi la possibilità di formulare richieste, depositare memorie e proporre reclami al collegio in casi specifici, dovrà essere dato spazio all’ascolto del minore e ad un confronto delle diverse posi- zioni degli interessati nella prospettiva di una pacificazione ancora possibile. Andranno invece accuratamente evitate quelle soluzioni solo formalmente garantiste, che prevedono la trasmissione degli atti al giudice della cognizio- ne in ogni caso in cui siano frapposti ostacoli all’attuazione del provvedimen- to, o mosse contestazioni o indicate circostanze sopravvenute, con conse- guente instaurazione di un nuovo procedimento da svolgersi nelle forme pre- viste per il processo di cognizione, con evidente moltiplicazione dei gradi del giudizio.

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a legge n. 184 del 4.5.1983 il cui titolo è “Disciplina dell’adozione e del- l’affidamento familiare” esordisce (art. 1, 1° comma) con un precetto for- Ltemente significativo: “II minore ha diritto ad essere educato nella pro- pria famiglia”. La formula è innovativa laddove espressamente prevede un diritto in capo al minore rendendolo anche nella dizione soggetto di quei diritti dei quali si arguiva l’esistenza sulla base dei doveri dei genitori verso la prole di cui all’art. 30 della Costituzione ed all’art. 147 del Codice Civile. Ma l’innovazione lessicale è la risultante di un profondo cambiamento di prospettiva che si è andata snodando sul piano normativo nel tempo a partire dalla legge n. 431 del 5.6.1967 sull’adozione speciale che è stata il primo incisivo segnale di svolta. L’istituto dell’affidamento familiare consensuale previsto dal 1° comma dell’art 4 della legge n. 184 si colloca nella gradua- zione degli istituti a protezione del minore come un primo gradino che può risolvere nel modo meno traumatico possibile delle situazioni in cui la famiglia di origine non è in grado di fornire al figlio accoglimento, assi- stenza e cure per un periodo di tempo L’ AFFIDAMENTO FAMILIARE transitorio. Ma qual è l’estensione della locuzione CONSENSUALE “propria famiglia” di cui all’art. 1 della legge n° 184? Da una parte, infatti, (art. 9°, 6°,7° ed 8° comma) si è sancito il divieto per chi non sia parente entro il 4° grado di accogliere stabilmente nella propria DR.SSA abitazione un minore per un periodo superiore a sei mesi nonché il divieto MARIA ANTONIETTA per il genitore di affidare stabilmente a chi non sia parente entro il 4° grado GUIDA il figlio minore per un periodo non inferiore a sei mesi senza segnalarlo al Giudice Tutelare il quale deve avviare le procedure previste, ossia trasmette- GIÀ GIUDICE TUTELARE IN re gli atti con relazione informativa al Tribunale per i minorenni. Dalla vio- MILANO, PSICOLOGA lazione del divieto di cui sopra gravi conseguenze possono derivare sia per i genitori (dall’art. 9) che gli affidatari di fatto (6° comma ultima parte art. 9). Tali previsioni normative potrebbero far pensare ad un’estensione della locu- zione “propria famiglia” sino a comprendervi i parenti entro il quarto grado. D’altra parte, però, è stato ritenuto che diversa è la situazione di parenti entro il 4° grado con i quali il minore abbia convissuto e che si siano da lungo tempo occupati di lui e quella di parenti entro il quarto grado che non abbia- no consuetudine di convivenza e di rapporti con il minore. In quest’ultimo caso è stato ritenuto che la famiglia del minore sia quella bio- logica.

PRESUPPOSTI. Relazione tratta da mate- Presupposto per il ricorso all’affidamento familiare consensuale è l’impossi- riale didattico utilizzato bilità per i genitori o per il genitore unico di provvedere temporaneamente per la formazione dei all’accudimento del minore per difficoltà temporanee [dovute ad esempio a magistrati disposta dal malattia, detenzione, orari di lavoro prolungati del genitore unico spesso stra- C.S.M niero, ecc.) con l’obbiettivo del reinserimento del minore nel proprio nucleo

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familiare una volta superate dette difficoltà. In tali casi si può procedere all’affidamento familiare consensuale ove ne ricorrano le condizioni. Esse sono: 1) Difficoltà di carattere temporaneo della famiglia d’origine. Si tratta di una valutazione fatta al momento dell’emissione del provvedimento sulla base della prevedibilità. Ove vi sia invece la previsione del protrarsi per un tempo indefinito dell’impossibilità per il minore di vivere nella propria famiglia il caso dovrà essere oggetto di esame e decisione da parte del Tribunale per i Minorenni. 2) La possibilità di affidare il minore nell’ordine ad un’altra famiglia possi- bilmente con figli minori o ad un persona singola o ad una comunità di tipo familiare. Il legislatore ha preferito la collocazione presso una famiglia (anche di fatto), possibilmente con figli minori, per far sì che il minore si formi nella convivenza con figure adulte, maschile e femminile, e con le figure di figli che arricchiscono l’esperienza. Tale soluzione inoltre è quella che appare più adatta a contenere il rischio dell’”impossessamento” da parte della famiglia affidataria. 3) II consenso di entrambi i genitori o di quello che esercita in via esclusiva la potestà all’inserimento temporaneo del proprio figlio in un altro nucleo familiare. Le altre soluzioni quali l’affidamento a persona singola, e per ultimo, ad una comunità vengono subordinate secondo una comprensibile graduatoria e comunque di gran lunga preferite all’istituzionalizzazione del minore (v. art. 2, 2° comma)

PROCEDURA. La procedura è regolata dall’art 4. L’affidamento familiare è disposto con provvedimenti del servizio locale (Unità Sanitaria Locale o Comune a seconda dei luoghi) dopo aver raccolto il consenso manifestato per iscritto dai genitori o dal genitore esercente la potestà, la dichiarazione di impegno dell’affidatario e dopo aver sentito il minore che abbia compiuto 12 anni. Nel provvedimento devono essere indicate le motivazioni, i tempi ed i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario. Deve inoltre essere indi- cato il periodo di presumibile durata dell’affidamento ed il servizio locale cui è attribuita la vigilanza durante l’affidamento con l’obbligo di informare a scadenza fissa sull’andamento dell’affido l’autorità giudiziaria che lo abbia disposto o, nel caso dell’affidamento consensuale, che lo abbia reso esecuti- vo e tale tesi trova conforto nella parte finale del 3° comma. Se ne trae una conseguenza di un certo rilievo: anche l’autorità amministra- tiva può indicare non solo i tempi - il che è pacifico - ma anche i modi del- l’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario e quindi in qualche modo influire sia pure con incisività limitata e avallata dall’esecutività del Giudice Tutelare sulla potestà. In concreto al Giudice Tutelare perviene: 1) il provvedimento amministrativo di affidamento familiare 2) le dichiarazioni contenenti il consenso dei genitori

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3) la dichiarazione degli affidatari con la quale essi si impegnano ad accetta- re in affidamento il minore ed a rispettare le norme vigenti e le direttive dell’Ente affidatario. (L’Ente eroga normalmente un contributo mensile agli affidatari e stipula una polizza assicurativa a copertura della respon- sabilità dell’affidatario) È quanto mai opportuno che tale documentazione sia completata da una rela- zione sociale che illustri la situazione esaurientemente. La competenza territoriale del Giudice tutelare si radica - come quasi sempre avviene in materia minorile - sulla base di un elemento di fatto ossia con rife- rimento al luogo ove il minore dimora abitualmente. Il Giudice Tutelare rende esecutivo il provvedimento con decreto. Con questa formula il legislatore sembra secondo un criterio letterale ed ana- logico assegnare al Giudice Tutelare una funzione di controllo di mera legit- timità. La formula usata è identica a quella adoperata nell’art. 825, 2° comma, cod. proc. civ. a proposito del decreto con il quale il pretore dichiara esecutivo il lodo arbitrale, è simile alla espressione già contenuta negli artt. 795 e 798 del cod. proc. civ. per la deliberazione delle sentenze straniere, è affine a quella usata nell’art 35 della legge 23-12-1978 n. 833 a proposito della convalida da parte del giudice tutelare dei trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza per le malattie mentali. Tali locuzioni si riferiscono tutte a situazio- ni in cui al giudice si richiede un mero controllo di legittimità. L’ambito di controllo di legittimità di un atto amministrativo, qual è quello posto in esse- re dal servizio locale, consiste, secondo i ben noti principi, nell’accertamen- to della conformità dell’atto stesso alle norme giuridiche ed allo scopo. Il Giudice Tutelare deve quindi verificare la conformità del procedimento (ad es. raccolta dei consensi, audizione del minore ultra-dodicenne ecc.) e del provvedimento (ad es. sufficiente, logica e non contraddittoria motivazione, indicazione del periodo di durata ecc.) ai requisiti previsti dalla legge (art. 4). Deve anche verificare, per quanto concerne la conformità allo scopo, che la situazione esposta e documentata, così come risulta dagli atti del procedi- mento e dal provvedimento, sia corrispondente alle finalità della legge chia- ramente indicate (vedasi in proposito il decreto del giudice tutelare di Roma del 12-12-1983 con il quale è stata negata l’esecutività del provvedimento d’affido emesso dal servizio locale per mancanza del requisito della tempo- raneità). Esulerebbe invece dal potere del giudice tutelare, all’atto dell’emissione del decreto di esecutività, il controllo sull’opportunità della deliberazione che ha portato il servizio locale a prendere il provvedimento di affido. Se tale sembra essere, alla stregua del dettato normativo, il limite di penetra- zione del potere di controllo che il Giudice Tutelare può esercitare nella fase di emissione del decreto di esecutività, sicuramente, in base al combinato disposto dei commi 4° e 5° dell’art. 4, nell’esercizio della vigilanza succes- siva alla pronunzia del decreto, il Giudice Tutelare ha il potere di valutare la situazione anche nel merito. La locuzione usata nella legge, che parla di valu- tazione dell’interesse del minore (4° comma dell’ari. 4), non da adito a dubbi. Appare allora abbastanza strano che la stessa autorità - Giudice Tutelare - nel momento in cui è più incisivo il suo intervento, ossia quando deve rendere

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esecutivo il provvedimento del servizio locale, possa esercitare un controllo di mera legittimità, allorché, invece, in fase di vigilanza ha solo il potere di segnalare al tribunale per i minorenni situazioni affinché quest’ultimo orga- no prenda eventuali provvedimenti, abbia il ben più pregnante controllo anche nel merito. La contraddizione c’è e non può essere evidentemente, come pur si è tentato, risolta dall’interprete forzando il testo della legge. Essa è molto probabilmente il frutto di un’ambivalenza del legislatore nei confronti del servizio locale al quale si è voluto dare un certo margine di autonomia nella scelta, ma nei cui confronti si nutre una fiducia limitata, donde il bisogno di un più penetrante controllo successivo.

POSIZIONE GIURIDICA DEGLI AFFÌDATARI II legislatore non ha qualificato la condizione giuridica degli affìdatari, ma ha enucleato i comportamenti che di tale posizione costituiscono il contenu- to. L’art. 5 della legge n. 184: “l’affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento ed alla sua educazione ...” La for- mulazione adoperata è simile a quella dell’art. 30 della Costituzione. Essa corrisponde a quella dell’art. 147 del codice civile. Sembra, dunque, data la corrispondenza del dettato normativo, in cui è accentuato, per quanto riguar- da gli affìdatari, il versante della doverosità, che i doveri principali combaci- no con quelli dell’esercente la potestà, con in più l’obbligo di agevolare il rapporto tra minori e genitori e favorirne il reinserimento nella famiglia di origine. Probabilmente il connotare l’affidatario nell’esercizio del suo com- pito, dando risalto preminente al fascio dei doveri, sottende la concezione dell’istituto, che dal punto di vista sociologico definiremmo solidaristica e da quello giuridico pubblicistica. L’affidatario diverrebbe in sostanza un “inca- ricato di pubblico servizio”. Tesi questa, peraltro, non pacifica. Resta comun- que il fatto che per tutta la durata dell’affido il genitore viene sgravato di tutti gli oneri economici e della responsabilità giuridica, che gravano, invece, sul- l’affidatario. A quest’ultimo, tuttavia, non fa capo la potestà sul minore. Egli “senza esserne il titolare, esercita non liberamente i contenuti della potestà” (Vedi: Sacchetti - “L’affidamento dei minori. Sistematica giuridica” - pag. 75 - Editore Maggioli -1984), non liberamente nel senso che egli deve: (1 comma - art. 5) - tener conto delle indicazioni dei genitori - osservare le prescrizioni eventualmente stabilite dalla autorità affidante.

La stessa formulazione letterale dell’articolo che contrappone il dovere del- l’affidatario di “tener conto” delle indicazioni del genitore o quello di “osser- vare” le eventuali “prescrizioni” dell’autorità affidante sembra indicare che, mentre ove vi siano prescrizioni dell’autorità l’affidatario non ha che da uni- formarsene, per le indicazioni del genitore, invece, abbiamo un’area sua di valutazione. D’altra parte è chiaro che a diverse connotazioni del rapporto minore-fami- glia di origine debba corrispondere un diverso comportamento dell’affidata- rio il quale, sostanzialmente, dovrà tener conto dell’interesse del minore, com’è dato desumere dal riferimento agli art-. 330 - 333 c.c. Ma cosa accade ove sorga contrasto tra le indicazioni dei genitori e le valu-

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tazioni che dell’interesse del minore faccia l’affidatario? A tale ipotesi sembra riferirsi il 2 comma dell’art. 5 il quale richiama l’art. 316 c.c. . Tale norma prevede che sia il Tribunale per i Minorenni a dirimere l’eventuale contrasto che possa sorgere tra genitori coesercenti la potestà. Si tratta di situazione ben diversa per cui lo stesso legislatore ha usato, nel for- mulare il richiamo della norma, l’attenuazione dell’inciso “in quanto compa- tibili”. Un corollario importante del rinvio all’art. 316 (con particolare riferimento al 4 comma) è la previsione della circostanza in cui si debba prendere una decisione immediata per il minore in situazione di pericolo incombente, onde evitargli un grave danno. Chi deve decidere? Possiamo individuare due ipotesi: 1. i genitori, pur avendo diritto di dare indicazioni, sono lontani o comunque non possono essere raggiunti in tempo utile. In questo caso la decisione spetta agli affidatari 2. esiste contrasto tra genitori e affìdatari, ma a causa della necessità di pren- dere provvedimenti “urgenti ed indifferibili” non è possibile attendere che il Tribunale per i Minorenni si pronunzi (ex art. 316 c.c.) In tale caso va privilegiata la situazione di convivenza degli affìdatari con il minore che consente loro maggiore conoscenza delle circostanze, tempestivi- tà di azione, per cui ad essi spetta il potere di intervenire in via d’urgenza. Sarebbe opportuno che già nel provvedimento di affidamento, l’autorità giu- diziaria, ove del caso, conferisse espressamente agli affidatari tale potere. L’ultimo degli obblighi degli affidatari che il legislatore menziona (art. 5 comma 3°) è quello di agevolare i rapporti tra il minore e la sua famiglia di origine e di favorirne il reinserimento. Tale prescrizione normativa evidenzia la linea di tendenza dell’istituto del- l’affidamento familiare. Così abbozzato in termini normativi il compito dell’affidatario, tentiamo un rapido e per quanto possibile completo, elenco delle provvidenze in favore degli affidatari. Assegni familiari e prestazioni previdenziali (1 comma - art. 80 - legge mag- gio 1983, n. 184) II Giudice può disporre, se del caso, tenuto conto della situazione economi- ca e della durata dell’affidamento, che siano erogati temporaneamente in favore degli affidatari gli assegni familiari e le prestazioni previdenziali. Ciò, sia che ad esse abbia diritto il genitore per il proprio rapporto di lavoro, sia che, ove il genitore non ne abbia diritto, abbia ad esse diritto l’affidatario (vedasi l’analogia con l’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151 con rife- rimento al genitore affidatario nel caso di separazione). Detrazioni fiscali (comma 2 - art. 80 ~ legge citata, art. 15 - D.P.R. 29 set- tembre 1973, n. 597) Agli affidatari che hanno diritto alle prestazioni previdenziali ed assicurative si applicano per i minori affidati le detrazioni di imposta sul reddito delle persone fisiche nella misura prevista dalla vigente legislazione. Sul piano operativo va rilevato che le detrazioni spettano in ogni caso e vanno rapportate al periodo di affido con riferimento ai mesi ove si tratti di

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porzioni di anno. Il minore affidato dovrà essere indicato nel prospetto del modello 740 e dovrà essere allegato il provvedimento di affidamento. c.d. Diritti di maternità (lettera e - art. 4 - legge 30 dicembre 1971, n. 1204; 1 e 2 comma - art. 7 - legge 30 dicembre 1971, n. 1204; 2 comma art. 15 - legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nonché arti 6 e 7 legge 9 dicembre 1977, n. 903) II diritto all’astensione obbligatoria e facoltativa dal lavoro spettante alla lavoratrice madre ed esteso dalla giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore della legge sull’adozione speciale, alla madre adottiva, è stato con legge rico- nosciuto in capo alle lavoratrici che abbiano adottato bambini di età inferio- re ai sei anni o che li abbiano in affidamento preadottivo fin dal momento dell’effettivo ingresso del bambino in famiglia. Tale diritto è stato esteso al lavoratore padre, anche se adottivo o in situazio- ne di affidamento preadottivo. Dette norme possono trovare applicazione anche nel caso dell’affidamento di cui alla legge 184? Al quesito si può fondatamente rispondere in senso positivo secondo i crite- ri dell’interpretazione analogica. In tal senso si è pronunziato il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale con nota del 26 gennaio 1988. Rappresentanza negli organi collegiali ed osservanza dell’obbligo scolasti- co (rispettivamente 2 comma - art. 19 - D.P.R. 31 maggio 1974, n. 416 e art. 8 - legge 31 dicembre 1962,, n. 1859 nonché art. 731 - codice penale) L’elettorato attivo e passivo per l’elezione dei rappresentanti dei genitori negli organi collegiali spetta ai genitori degli alunni o a chi ne fa legalmente le veci. È già stato ritenuto (T.M. di Firenze - 5 dicembre 1976 e Cassazione - 1 otto- bre 1980, n. 5594) che tale compito spetti, nel caso di affidamento, agli affi- datari. In capo agli affidatari grava l’osservanza dell’obbligo scolastico per minori con le relative sanzioni. La conclusione dell’affidamento consensuale è regolamentata dal 4° e 5° comma dell’art. 4. È previsto che l’affidamento familiare cessi con provvedimento della stessa autorità che lo ha disposto, valutato l’interesse del minore quando sia venuta meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia di origine che lo ha determinato, ovvero, nel caso in cui la prosecuzione di esso rechi pregiu- dizio al minore. Le due ipotesi si riferiscono entrambe ad una cessazione dell’affido anterio- re al periodo di durata previsto anche se la prima ipotesi si riferisce alla lieta circostanza del cessare della difficoltà della famiglia di origine e la seconda al fallimento dell’affido per inadeguatezza della famiglia affidataria. Quando invece non intervengano tali circostanze prima del termine previsto o quando si verta nella seconda delle ipotesi sopraindicate è il Giudice Tutelare che ai sensi del 5° comma richiede, se necessario, al competente tri- bunale per i minorenni l’adozione di ulteriori provvedimenti nell’interesse del minore. Evidentemente la legge prevede l’ipotesi in cui allo scadere del termine della

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durata dell’affido non sia cessata la difficoltà della famiglia di origine. Si possono dare due ipotesi. La prima è quella in cui pur non essendosi anco- ra verificate le condizioni per il rientro del minore nella propria famiglia è presumibile dallo svolgimento degli eventi che esse in un margine di tempo ristretto si verifichino. La seconda ipotesi è quella in cui allo scadere del termine prescritto la fami- glia di origine non sia ancora in grado di raccogliere adeguatamente il mino- re. La precedente normativa lasciava aperte a diverse interpretazioni le questio- ni in ordine alla presumibile durata dell’affido ed alla competenza de11’auto- rità giudiziaria legittimata a concedere eventuale proroga. ‘T’ali problemi sono stati risolti dall’art. 4 comma4 della legge 149/ 2001. La norma, infatti. prevede espressamente che la presumibile durata dell’affido non possa superare i 24 mesi. Prevede, inoltre, per la concessione di una eventuale proroga, la competenza del Tribunale per i minorenni. Conclusione L’affidamento familiare consensuale si è rivelato uno strumento efficace e proficuo soprattutto nei casi in cui è stato seguito e sostenuto da servizi sociopsicologici esperti e disponibili. Tuttavia tale istituto ha avuto scarsa applicazione nonostante le campagne pubblicitarie promosse per il reperimento delle famiglie affidatario da vari Enti che hanno interesse ad ampliare l’area dell’affidamento familiare sia dal punto di vista sociale che economico (costa incomparabilmente meno un minore in affido che un minore in Istituto). Vero è che l’affidamento familia- re suscita dinamiche psicologiche complesse. Vi è infatti il pericolo che la famiglia di origine si viva e sia vissuta dall’altra famiglia e nell’ambito sociale come “famiglia cattiva” e quella affidataria come “famiglia buona”, v’è la paura per la famiglia d’origine ed il rischio per le famiglia affidataria che quest’ultima tenda ad “impossessarsi” del bambino, v’è sicuramente, ine- ludibile, lo spettro della separazione sia all’inizio dell’affido per le famiglie di origine sia alla sua conclusione per la famiglia affidataria Forse per tutti questi nodi, forse perché le famiglie in difficoltà nella maggior parte dei casi hanno dei problemi che non sono temporanei, forse per altri motivi l’istituto dell’affidamento familiare consensuale ha tuttora scarso ambito d’applicazione.

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1. UNA RIFORMA NECESSARIA SOMMARIO

na riforma della disciplina del 1. Una riforma necessaria 7. La partecipazione del controllo della genitorialità, con- 2. I provvedimenti giudiziari bambino e il suo ascolto tenuta negli articoli dal 315 al relativi alla potestà 8. L’ascolto indiretto del U 3. Idoneità genitoriale e minore attraverso gli 337 del codice civile, è attesa da molti interesse del minore affidatari anni. La materia era stata rivista con la 4. Le inadeguatezze della 9. La rappresentanza del riforma del diritto civile del 1975 e procedura relativa alla bambino poi, malgrado i molti progetti presen- responsabilità genitoriale 10. Le informazioni e la tati a partire dal 1984-1985, è restata 5. La processualizzazione del partecipazione dei servizi per molto tempo immutata. rito 11. Il diritto di difesa Recentemente però ci sono state delle 6. La partecipazione delle 12. Una effettiva collegialità novità, che dovrebbero essere intro- parti adulte duttive di altri cambiamenti più radi- cali. L’art. 37 della legge 28 marzo 2001 n. 149, modificando gli artt. 330 e 333 cod. civ., ha previsto che il giudice possa ordinare l’allontanamento dalla IDONEITÀ GENITORIALE residenza familiare non più solo del minorenne vittima della condotta pre- E PROCEDURE giudizievole, ma anche del genitore o convivente che maltratta il minorenne DI CONTROLLO o ne abusa, disposizione che va letta in parallelo con l’introduzione in sede DELLA POTESTÀ. penale della misura cautelare dell’al- lontanamento dell’imputato dalla casa familiare (art. 282-bis cod. proc. pen.) ORDINI A TUTELA ed in sede civile degli ordini di prote- zione contro gli abusi familiari (art. DEL MINORE 342-bis e 342-ter cod. civ.).. Con lo stesso art. 37 della legge n. 149/2001 è stato introdotto un quarto comma del- l’art. 336 cod. civ., la cui entrata in vigore è stata ancora rinviata, ai sensi del DOTT. quale “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore PIERCARLO sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla PAZÈ legge”. Una picconata più forte al sistema è venuta da una sentenza della Corte costi- PROCURATORE DELLA tuzionale, la n. 1 del 30 gennaio 2002 (1), che dichiarando inammissibili o REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI non fondate le questioni sollevate dalle sezioni per i minorenni delle Corti di DI TORINO appello di Genova e Torino (2), ha tuttavia costruito e indicato delle interpre- tazioni innovative del processo camerale minorile, affermando che già oggi è possibile e doveroso svolgerlo secondo regole conformi ai principi della Costituzione. Un terzo colpo è stato dato in qualche caso dai giudici stessi che, nell’esigen- za di rendere il processo di controllo della potestà aderente all’art. 111 della Costituzione, hanno corretto o superato delle prassi inquisitorie che pareva- no ormai consolidate. Mi riferisco a sforzi di recupero della collegialità e ad

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attribuzione di un nuovo ruolo alle difese, ma anche alla critica e alla espun- zione di prassi di secretazione che violavano ogni regola (3). Un’altra novità poteva venire dalle proposte del ministro Castelli di riforma della giustizia civile minorile, sia attraverso lo spostamento delle competen- ze civili camerali dal tribunale per i minorenni a sezioni costituite presso ogni tribunale ordinario, sia con l’attribuzione specifica ai servizi dell’ammi- nistrazione della giustizia del compito di assicurare l’esecuzione dei provve- dimenti in materia di potestà. Come è noto, queste proposte non hanno supe- rato il vaglio parlamentare, ma inevitabilmente i problemi che esse hanno sollevato, primo l’unificazione presso un solo organo giudiziario delle com- petenze civili minorili oggi frantumate fra organi giudiziari diversi, ritorne- ranno sul tappeto Rimangono ancora altri problemi scoperti. Appare perciò utile tentare una rilettura generale, nella prospettiva augurabile di pervenire oggi a delle solu- zioni condivise e domani ad una riforma unitaria.

2. I PROVVEDIMENTI GIUDIZIARI DI CONTROLLO DELLA POTESTÀ

provvedimenti giudiziari relativi alla potestà dei genitori e all’abbandono Idei minori sono di competenza per gran parte del tribunale per i minoren- ni, con qualche residuo per il tribunale ordinario (quando delibera sull’affi- damento dei figli) e per il giudice tutelare. Il tribunale per i minorenni può dettare prescrizioni, regolamentare la potestà dei genitori o dichiararla deca- duta, disciplinare la potestà sui figli naturali, rimuovere i genitori dall’ammi- nistrazione dei beni dei figli, dichiarare l’adottabilità, ordinare l’allontana- mento dalla residenza familiare del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore, e altri ancora. In queste materie si pongono numerosi problemi.

2.1. L’ALLONTANAMENTO DEL GENITORE O CONVIVENTE DALLA RESIDENZA FAMILIARE L’introduzione dell’ordine di allontanamento del genitore o del convivente dalla residenza familiare fra i provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 cod. civ. è disposizione lodevole per la sua natura puerocentrica, perché fino ad oggi ad essere allontanato - per proteggerlo dal genitore - era il bambino che restava due volte vittima: una prima volta dell’abuso e poi dell’allontana- mento (4). In questo modo si riduce l’area dell’allontanamento del bambino sanzionando in alternativa con l’allontanamento l’adulto abusante che ne sopporta il peso economico e psicologico. Il legislatore, disponendo che può essere allontanato il genitore o convivente “che maltratta e abusa”, ha formulato una norma in bianco che lascia ampi spazi di discrezionalità all’interprete, sia quanto al significato da attribuire al maltrattamento e abuso sia sul problema se il maltrattamento e l’abuso che possono portare all’allontanamento del genitore o convivente siano qualcosa di diverso e più grave rispetto alle condotte genitoriali di violazione o trascu- ratezza dei doveri inerenti all’esercizio della potestà e di abuso dei relativi poteri che possono comportare invece l’allontanamento del figlio.

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Per la prima volta i soggetti contro cui si può provvedere sono non solo i genitori ma anche i conviventi, fra cui sono compresi anche i parenti o gli affini, come il fratello, il nonno, il patrigno. Appare ovvio che l’abuso di chi non esercita la potestà va letto in modo ben diverso dell’abuso nell’esercizio della potestà. Oltre a potere allontanare il genitore o il convivente, è ragionevole ritenere che il tribunale per i minorenni possa vietare l’ingresso nella casa del terzo abusante non convivente, così come il giudice ordinario o il giudice penale possono dare prescrizioni al colpevole di non avvicinarsi ai luoghi abitual- mente frequentati dalla vittima (art. 342-ter cod. civ.). Per gli ordini di allontanamento di cui agli artt. 330 e 333 cod. civ. nei pro- cedimenti minorili non è stabilita una durata, mentre gli altri ordini di allon- tanamento introdotti dal legislatore sono temporanei: l’allontanamento come misura cautelare è infatti sottoposto ai termini di cui all’art. 308, comma 1, cod. civ. mentre l’ordine di protezione assunto dal tribunale in sede civile può avere una durata massima di sei mesi, con possibilità di proroga per il tempo strettamente necessario. Si pone perciò una questione di costituziona- lità per gli allontanamenti disposti dai tribunali per i minorenni se essi non fisseranno ogni volta dei termini ragionevoli alle misure. I conviventi soggetti ad un ordine di allontanamento non sono parti del pro- cedimento camerale minorile e quindi non concorrono alla formazione delle prove o informazioni sulla base delle quali può essere assunto il provvedi- mento a loro carico. Perché non ci sia una violazione dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione occorre almeno che essi prima siano informati e sentiti, abbiano la possibilità di farsi assistere da un difen- sore, possano accedere agli atti e presentare memorie e poi siano riconosciu- ti come titolari del potere di reclamo rispetto all’ordine di allontanamento. C’è ancora una questione di non poco conto. Con l’introduzione in parallelo dell’allontanamento dalla casa familiare come misura cautelare penale, degli ordini di protezione contro gli abusi familiari come misura civile azionabile avanti al tribunale ordinario e dei provvedimenti di allontanamento del tribu- nale per i minorenni, c’è il rischio di una sovrapposizione di decisioni dei vari uffici giudiziari: con la possibilità che esse siano contraddittorie fra loro (un ufficio allontana e l’altro respinge la domanda di allontanamento) o che, addirittura, i giudici ordinari allontanino la persona adulta mentre il tribuna- le minorile allontani dalla residenza il minorenne. Per evitare simili evenien- ze, con conflitti di competenze, i diversi uffici giudiziari devono inevitabil- mente coordinarsi.

2.2. L’ALLONTANAMENTO DEL MINORE Quanto all’allontanamento del minorenne, ci si chiede se il decreto del tribu- nale per i minorenni che lo dispone deve anche indicare dove il minore deve essere collocato, in quella certa famiglia, in una determinata comunità o in un particolare istituto. La soluzione più ragionevole è che la realizzazione del collocamento più opportuno è compito dei servizi sociali e sanitari, titolari della politiche assistenziali, ma che il tribunale per i minorenni può e deve obbligare i servizi al rispetto delle priorità richiamate dall’art. 2, commi 1 e 2, legge n. 184/1983: prima l’affidamento familiare, solo ove ciò non sia pos-

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sibile l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare, solo se que- sta manca e il bambino ha più di sei anni la sua collocazione in un istituto pubblico o privato.

2.3. I PROVVEDIMENTI PIÙ OPPORTUNI Alcune questioni si pongono per “i provvedimenti più opportuni” che, ex art. 333 cod. civ., il tribunale per i minorenni “può adottare”. Che cosa sono i provvedimenti più opportuni? Alcuni tribunali per i minorenni vi comprendono degli affidamenti dei mino- ri al servizio sociale, assimilati ad analoga misura amministrativa per i ragaz- zi discoli (art. 25 r.d.l.. 20 luglio 1934, n. 1404), attribuendo ai servizi un mandato generico che ne legittima l’intervento di controllo e sostegno altri- menti rifiutato o subito passivamente e limitando in tale modo la potestà dei genitori. Più correttamente i provvedimenti più opportuni sono le cosiddette prescri- zioni, che il nostro ordinamento conosce anche per l’adozione (le “prescri- zioni idonee a garantire l’assistenza morale, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del minore”, art. 12, comma 4, legge n. 184/1983) e per la tute- la (i provvedimenti circa l’educazione e l’amministrazione di cui all’art. 371 cod. civ.). Per le prescrizioni si pongono alcune questioni, che si elencano solo somma- riamente proponendole per un approfondimento. . a. Anzitutto, la loro durata. Allorché sono ripetitive di doveri genitoriali espliciti nell’ordinamento (non percuotere i figli, contribuire per il loro mantenimento, fare incontrare i figli con l’altro genitore o con i nonni, mandare i bambini a scuola o farli vaccinare) le prescrizioni sono natural- mente a tempo indeterminato. Invece quando ai genitori vengono imposti doveri di comportamento supplementari verso i figli (affidamento diurno, doposcuola scolastico, assistenza educativa, trattamenti con il logopedista, sedute con lo psicologo, frequenza dell’oratorio o del doposcuola, ecc.) appare necessario determinarne la durata e il termine. b. Discutibili sono le prescrizioni di comportamento relative non alla condot- ta genitori-figli ma alle scelte esistenziali dei genitori (alla madre di anda- re in comunità con il figlio; di astenersi dall’uso di droghe o alcolici e sot- toporsi ai relativi esami periodici; di mantenere contatti regolari con i ser- vizi; di partecipare ad attività di mediazione familiare, ecc.). c. Ancora maggiori perplessità, perché incidono sulla personalità, suscitano le prescrizioni terapeutiche alle parti adulte (di sedute psicologiche, di psi- coterapia, di frequenza dei servizi per le tossicodipendenze o dei servizi psichiatrici). d. Ci si chiede se fra i provvedimenti più opportuni siano comprese anche prescrizioni rivolte direttamente al minore. e. Sono ormai entrate nella prassi prescrizioni alla pubblica amministrazione di sostegni sociali, economici ed educativi che appare necessario assicura- re al nucleo familiare o specificamente al minore, attesa la condizione di precarietà di vita (prescrizioni oggi possibili ex art 1, commi 2° e 3°, l. n. 184/1983 sull’adozione; art. 2, comma 3°, l. 8 novembre 2000, n. 328, sul- l’assistenza).

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3. IDONEITÀ GENITORIALE E INTERESSE DEL MINORE

3.1. L’INTRODUZIONE DEL PARAMETRO DELL’INTERESSE DEL MINORE Le misure che possono essere adottate nel processo civile minorile di control- lo della potestà genitoriale devono tendere ad assicurare l’interesse del mino- re rimuovendo quelle condizioni di pregiudizio genitoriale che lo limitano. C’è dunque una dicotomia fra responsabilità del genitore e interesse del minore. Ma proprio la nozione di interesse del minore merita un approfondi- mento. Il riconoscimento del concetto di “interesse del minore” come differenziato dall’interesse dell’adulto è entrato nella cultura giuridica negli anni sessanta del secolo appena trascorso e immediatamente dopo è stato accolto nelle legislazioni della maggior parte degli Stati e ormai costituisce l’obiettivo fondamentale di tutta l’attività sia giudiziaria che amministrativa in questo settore In Italia, il suo ingresso ufficiale nella legislazione è avvenuto con l’art. 6 comma 3 della legge 1 dicembre 1970 n. 898 sullo scioglimento del matrimo- nio, che così recitava: “L’affidamento e i provvedimenti riguardanti i figli avranno come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale degli stes- si”. Il principio dell’interesse, o dell’interesse superiore, o dell’interesse morale e materiale, o dell’interesse esclusivo, del fanciullo è stato poi massiccia- mente introdotto nella legislazione in occasione della riforma del diritto di famiglia del 1975 come specifico parametro di valutazione per numerose situazioni: l’affidamento ad uno dei genitori quando vi sia separazione tra coniugi (art. 155); il riconoscimento tardivo da parte del genitore (art. 250 254, cod. civ.); il riconoscimento del figlio incestuoso da parte di genitore in buona fede (art. 251 252); l’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima del suo genitore naturale (art. 252); la legittimazione del figlio naturale per intervento del giudice (art. 284); il contrasto fra i genitori sulla potestà (art. 316, comma 5); l’affidamento del figlio naturale (art. 317 bis cod. civ.); e si trova ancora in altre disposizioni. Traendolo da questo insieme di norme specifiche la Corte costituzionale, la dottrina giuridica e la giurisprudenza hanno elaborato il concetto di interesse superiore del fanciullo come un principio generale dell’ordinamento e cano- ne interpretativo cui il giudice della persona e la pubblica amministrazione sono sempre tenuti a attenersi nelle deliberazioni che abbiano ad oggetto un minore. L’affermazione di questo è divenuta ancora più esplicita dopo che lo Stato italiano, con legge 27 maggio 1991, n. 176, ha resa esecutiva la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, che afferma (art. 3), con norma che è immediatamente precettiva, che “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione prevalente”. La valutazione e la preferenza da accordare all’interesse del minore nei con- fronti di altri interessi contrastanti, nel settore delle relazioni familiari, costi-

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tuisce dunque un canone interpretativo generale di tutti gli istituti giuridici che coinvolgono il minore. Tuttavia, come è stato messo in evidenza, il con- cetto di interesse del minore rischia di diventare vuota tautologia, un mero abbellimento esteriore, e anzi il continuo riferimento ad esso può contribuire ad ampliare notevolmente, e talvolta pericolosamente, la sfera di discreziona- lità del giudice, portandolo a giustificare ogni sua decisione con tale interes- se. L’interesse del minore può essere dunque un concetto “chewing gum”, che può essere tirato a seconda dei condizionamenti culturali in varie direzio- ni e può essere interpretato in modi diversissimi a seconda dei punti di vista.

3.2. I CONTENUTI DELL’INTERESSE DEL MINORE Di fronte a questa critica è iniziato a comparire, pur gradualmente e contrad- dittoriamente, nella comunità scientifica e nella giurisprudenza una qualche concordanza attorno ad alcuni bisogni fondamentali del soggetto in età evo- lutiva che concretizzano l’interesse del minore. Di questo sforzo di riempire di contenuti tale concetto e attribuirgli rilievo, riconoscendo quando ricorre, si possono fare degli esempi. Così, utilizzando l’art. 147 cod. civ., sui doveri dei genitori di mantenere, istruire ed educare il figlio tenendo conto delle inclinazioni, della capacità e delle aspirazioni del figlio stesso; si ritiene che interesse del minore è che si tenga conto di queste sue inclinazioni, capacità e aspirazioni; Nella stessa direzione va la giurisprudenza sterminata su irrilevanza di torti e ragioni nell’affidamento dei figli nella scissione della coppia genitoriale, perché quello che conta è solo il migliore interesse del minore a stare di più con il genitore con cui ha un attaccamento sano e a godere di una compresen- za di entrambi i genitori. Peraltro i criteri della capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazione dei figli non si applicano ai bambini piccolissimi. E la psicologia ha rilevato che capacità, inclinazioni naturali, aspirazioni sono tre aspetti riguardanti la soggettività del minore, che rinviano al suo desiderio di libertà e di autode- terminazione, al suo modo particolare di rapportarsi al mondo e al futuro, ma non chiariscono come il suo interesse coincida soprattutto con il rispetto della sua vita emotiva e del suo Sé, globalmente inteso. . Si è osservato allora che occorre emancipare la nozione di interesse del mino- re da un uso adultocentrico e fare attenzione ai bisogni del minore. La teoria dei bisogni ha insegnato a prestare attenzione ai bisogni materiali ma, soprat- tutto, emotivi: bisogni di vicinanza, di affetto, di comunicazione, di guida, di autorità, di contenimento, di modulazione dell’onnipotenza. Non bisogni ali- mentari e neppure bisogno di continuità dell’attaccamento da solo. Il riconoscimento dell’interesse del minore in questa dimensione globale introduce ad una evoluzione nella legislazione della valutazione dell’idonei- tà genitoriale, con un passaggio dal concetto di potestà a quello di responsa- bilità genitoriale. Non si può non accorgersi che il codice civile, anche dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, ha un intero titolo, il titolo IX del libro primo, dall’art. 315 in poi, intitolato alla potestà dei genitori, mentre la legge 8 novembre 2000, n. 328, la legge quadro per la realizzazione del siste- ma integrato di interventi e servizi sociali, la cosiddetta legge sull’assisten- za, all’art. 16 parla di valorizzazione e sostegno delle responsabilità familia-

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ri. Già prima, peraltro, la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 parla di responsabilità. E’ sulla responsabilità, e non sulla potestà, che si misura la idoneità genitoriale. Anzi è ormai anacronistico il concetto di potestà genito- riale, sia perché il fine e il contenuto della genitorialità sono decisamente cambiati, sia perché il potere è sparito e restano invece la funzione e il dove- re di allevare i figli.

4. LE INADEGUATEZZE DELLA PROCEDURA RELATIVA ALLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE Il vero punto critico della materia del controllo della genitorialità responsa- bile sono però le procedure giudiziali. Il tribunale per i minorenni e il giudi- ce tutelare procedono - con alcune eccezioni - con un rito molto semplice, che viene definito di volontaria giurisdizione. Invece il tribunale ordinario, competente per i provvedimenti relativi ai figli nella scissione delle coppie unite di matrimonio, procede con un rito chiamato di cognizione. I due procedimenti di cognizione del tribunale ordinario e di volontaria giu- risdizione del tribunale per i minorenni e del giudice tutelare, non sono solo diversi, ma corrispondono anche a modelli culturali opposti. Il procedimento di cognizione è disciplinato secondo un complesso sistema di regole e prove legali, ritenute come le più idonee a formare il convinci- mento del giudice circa l’esistenza o meno, o il modo di essere, dei fatti di causa, con il correttivo che per i provvedimenti relativi ai minori le prove possono essere disposte dal giudice di ufficio. Esso inoltre è improntato al metodo del contraddittorio, dal momento che, secondo massime di esperien- za, risulta più probabilmente corretta una decisione cui si giunge in una dia- lettica consapevole fra le parti. Questi due pilastri del processo giusto, e cioè un sistema di prove tipiche e l’instaurazione necessaria di un contraddittorio, nella volontaria giurisdizio- ne minorile sono assenti o ridotti. Fermandosi alla frammentaria e imprecisa disciplina legislativa del procedimento del tribunale per i minorenni, trovia- mo, anziché mezzi di prova e procedimenti probatori tassativamente previsti dalla legge, che il convincimento del giudice deriva dall’avere assunto “informazioni” (art. 738, comma 3° cod. proc. civ.). Quanto al contradditto- rio, esso è atrofizzato nell’impulso di parte o dell’organo del pubblico mini- stero, nell’obbligo di sentire il solo genitore “contro” il quale è richiesto il provvedimento e nel parere necessario del pubblico ministero (art. 336, commi 1° e 2° cod. civ.). Questa disciplina dei procedimenti civili relativi alla potestà sembra contra- stare con i principi contenuti nel nuovo testo dell’art. 111, commi 1 e 2 della Costituzione e della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989. Un confronto con il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione (“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”) porta alla diagnosi delle malattie del rito di volontaria giurisdizione minorile previsto dagli artt. 336 cod. civ. e 38, comma 3, disp. att. cod. civ., con il quale il tribunale per i minorenni procede solitamente. a. Anzitutto il processo di volontaria giurisdizione minorile costituisce l’ul-

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timo esempio di un modello inquisitorio ormai abbandonato negli altri set- tori della giustizia. Si tratta di un processo sostanzialmente senza regole, che non prevede un contraddittorio tra le parti, promosso su impulso dei parenti o del pubblico ministero ma in casi di urgenza iniziato di ufficio dall’organo giudicante. Inoltre, secondo il testo letterale dell’art. 336 cod. civ., è previsto l’obbligo di sentire solo il genitore contro cui il provvedi- mento è richiesto e non il minore-oggetto e la decisione è fondata soprat- tutto su “informazioni” assunte al di fuori del processo (relazioni sociali o di polizia). Infine, per l’emanazione di provvedimenti temporanei in situa- zioni in urgenza, è richiesto solo che siano assunte informazioni, ma la legge sacrifica ogni parvenza anche formale di contraddittorio, potendo il giudice decidere di ufficio e senza avere sentito il genitore (art. 336, comma 3 cod. civ.), secondo una normativa tipicamente inquisitoria che rimette la congruità della decisione alla cultura del giudice buono, che perciò non ha bisogno di sentire le parti e le loro difese. Si aggiunga che in alcuni tribunali per i minorenni il processo è deteriorato da prassi di secretazioni degli atti e di deleghe del collegio ad un solo giudice e le parti non ricevono notizia formale dell’oggetto del giudizio e non assistono all’assunzione delle prove. b. La disciplina processuale non realizza neppure la seconda condizione, quella della parità fra le parti, che l’art. 111 della Costituzione esige. Basta dire che gli atti sono trasmessi al pubblico ministero per il parere ma non è previsto un loro deposito per le parti private ricorrenti e per gli interes- sati al provvedimento (in particolare per il genitore “contro cui il provve- dimento è richiesto”, secondo l’arcaica terminologia dell’art. 336, comma 2, cod. civ., che vede un provvedimento a tutela del minore adottato “con- tro” o a favore dei genitori). Il figlio minore spesso non è neppure sentito dal giudice, mentre i servizi assumono, di fatto, un ruolo ambivalente fra protettori dell’interesse del minore ed indagatori. c. Un giudice con ampi poteri inquisitori, titolare dell’iniziativa nell’assun- zione di prove e informazioni senza essere obbligato a considerare o assu- mere le prove indicate dalle parti, padrone soprattutto del potere di dilata- re la durata del processo condizionandone l’esito attraverso il consolida- mento nel tempo della situazione disposta con un provvedimento di urgen- za, non appare (anche quando sostanzialmente lo è) il giudice terzo che l’art. 111 della Costituzione vuole. Come nota giustamente Luigi Fadiga, “in tanto il giudice minorile può essere terzo, in quanto esistono altri ruoli, altre figure istituzionali, delegate alla protezione del minore e capaci di proteggerlo effettivamente e rapidamente, ricorrendosi al giudice solo dove sorga il conflitto” (5). Mancano dei soggetti (pubblico ministero minorile, difensore, servizi, curatore o pubblico tutore dell’infanzia (6)) che in forza di un mandato istituzionale assumano la rappresentanza degli interessi del minore fuori e dentro il processo; mentre si è rivelato solo formale l’intervento di curatori speciali estemporanei con funzioni endo- processuali, doppioni del tutore provvisorio, che erano stati introdotti per le procedure di dichiarazione dello stato di adottabilità e resi residuali nella nuovo disciplina del processo di adozione introdotta con la legge n. 149/2001 (non ancora entrata in vigore) per le situazioni in cui non ci sia

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un tutore. d. Infine, nessuna legge attualmente assicura al processo civile minorile la ragionevole durata prescritta dall’art. 111 della Costituzione e in partico- lare non sono previsti dei tempi ragionevoli entro i quali un provvedimen- to cautelare temporaneo deve essere confermato o altrimenti perdere effi- cacia (solo nella procedura di adottabilità, il provvedimento monocratico di un giudice deve essere confermato dal tribunale entro trenta giorni, ex art. 10, commi 3 e 4 legge n. 184/1983 sull’adozione). La conseguenza è che il minore può essere dimenticato per anni nell’istituto o nella comuni- tà dopo che è stato disposto un suo allontanamento urgente, ovvero priva- to del suo bisogno di bigenitorialità da provvedimenti interdittivi cautela- ri che, di fatto, producono nel tempo la rottura dei legami parentali. A fronte di questa situazione caotica, si è cominciato a fare riferimento a diritti umani fondamentali, in qualche modo costituzionali, del processo minorile: a diritti di introduzione necessitata che dovrebbero rappresentare la sfera del non contrattabile e dell’indecidibile. Andando oltre al discorso già abbastanza sviluppato dei diritti sostanziali del bambino, si parla dei diritti del bambino nel processo. Anche la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/2002, ha invitato a realizzare fin d’ora un processo minorile che nella sua quotidianità sia già oggi conforme ai principi della Costituzione. Nel contesto di questo discorso, l’attenzione si è portata su un elenco di pro- blemi specifici: la processualizzazione del rito minorile; la partecipazione delle parti adulte; la partecipazione del bambino e il suo ascolto; la rappre- sentanza del bambino; la presenza dei servizi; lo spazio della difesa; la col- legialità del tribunale e la partecipazione della componente onoraria alla rac- colta delle informazioni e/o alla decisione; l’esecuzione dei provvedimenti; e altri punti ancora.

5. LA PROCESSUALIZZAZIONE DEL RITO In questa prospettiva, una embrionale processualizzazione dei procedimenti minorili relativi alla potestà, che hanno natura bilaterale o plurilaterale, sem- bra ormai inevitabile, in un certo senso obbligata già oggi. Ricordiamo che un processo più ricco di partecipazione effettiva, delle parti e delle difese, ha più possibilità di pervenire a soluzioni sostanzialmente giuste. Questo esige l’introduzione di alcune regole minime per rendere possibile il contraddittorio, contrastando prassi distorte che vi si oppongono purtroppo ancora diffuse. Esse dovrebbero comprendere: - la previsione di un ricorso formale di parte di inizio del procedimento, esclusa ogni procedibilità di ufficio (oggi giustificata dall’ambigua formu- lazione dell’art. 336, comma 3, cod. civ. per i provvedimenti di urgenza); - la comunicazione formale alle altre parti della presentazione del ricorso e del suo contenuto (la Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2002 ha inteso nel contraddittorio anche il diritto di ciascuna delle parti di essere tempestivamente informata del procedimento); - l’avviso alle parti della possibilità di munirsi di un difensore; - l’introduzione del diritto per le parti di indicare prove; - momenti formali di deposito degli atti; - la comunicazione alle parti dei decreti integrali e non solo nel dispositivo

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(come ha chiarito la Corte costituzionale, sent. n. 1/2002); - modalità di conferma e di impugnazione dei procedimenti cautelari e pre- visione di termini di durata (nel solco della sentenza n. 1/2002 della Corte costituzionale, che ha proposto di assoggettarli alla disciplina del procedi- menti cautelare uniformi dettata dagli artt. 669 bis e segg. cod. proc. civ.).

6. LA PARTECIPAZIONE DELLE PARTI ADULTE Un modalità costituzionale del procedimento camerale minorile è la parteci- pazione ad esso delle parti adulte. Appare indispensabile affermare che l’a- scolto delle parti è principio di civiltà e dà la possibilità di una decisione più giusta e meditata. Esso inoltre è strumento atto a negoziare e a veicolare, in un procedimento relativo a diritti delle persone, il consenso delle parti, indu- cendo a rapporti collaborativi e a risultati negoziali. La Corte costituzionale, nella già citata sentenza n. 1/2002, affrontando la questione di costituzionalità dell’art. 336, comma 2 cod. civ., ha ricordato che la partecipazione attiva delle parti al processo minorile è già oggi previ- sta come obbligatoria, richiamando: - che l’art. 9 della Convenzione sui diritti dell’infanzia (per cui tutte le parti interessate devono avere la possibilità di partecipare alle deliberazioni e fare conoscere le proprie opinioni) pone una disciplina complementare rispetto alla previsione dell’art. 336, comma 2 cod. civ. che prevede solo l’audizione del genitore contro cui il provvedimento è richiesto, onde dal coordinamento delle due norme deriva che nel procedimento in esame devono essere sentiti entrambi i genitori; - che dall’introduzione del comma 4 dell’art. 336 cod. civ., che prevede la presenza del difensore dei genitori e del minore, deriva l’individuazione di tre parti (padre, madre e figlio) le quali hanno diritto di avere conoscenza del procedimento e di parteciparvi.

7. LA PARTECIPAZIONE DEL BAMBINO E IL SUO ASCOLTO

7.1. L’ASCOLTO COME BISOGNO E L’ASCOLTO COME DIRITTO Anche il bambino ha diritto di partecipare al suo processo, per contribuire alla formazione delle decisioni che lo riguardano. Lo strumento per dargli voce è l’ascolto.. Nell’ordinamento italiano le possibilità del bambino di rivolgersi all’appara- to della giustizia per richiedere interventi di protezione sono molto poche. La norma che disciplina il processo camerale del tribunale per i minorenni, l’art. 336 cod. civ., non prevede fra i soggetti legittimati a presentare ricorso il minore, neppure quando abbia sufficiente capacità di discernimento o, comunque, sia al di sopra di una certa età. Solo per situazioni specifiche il minorenne può ricorrere direttamente: una ragazza può chiedere l’autorizza- zione all’interruzione della gravidanza; il minore ultrasedicenne può chiede- re l’autorizzazione ad anticipare il matrimonio (art. 184 cod. civ.) o impugna- re il proprio riconoscimento (art. 264, comma 2 cod. civ.); un minore fra i diciassette e i diciotto anni che per effetto di un’infermità fisica o psichica si trova nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi può chiedere di esse- re assistito da un amministratore di sostegno (art. 406, comma 1 cod. civ.).

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Negli altri casi il bambino non può direttamente adire il giudice, ma sono il pubblico ministero o uno dei genitori o parenti che devono farlo per segnala- re il suo problema. Per compensare questa limitazione delle facoltà di agire del bambino per fare valere nel processo il suo interesse si sta ampliando lo spazio del suo ascol- to. Si è affermato il bisogno anche psicologico (prima ancora che giuridico) del bambino di essere ascoltato sui problemi giuridici o amministrativi che lo riguardano: per esempio quando si vuole vendergli dei beni, o prima di una decisione giudiziaria che lo allontani dai genitori che hanno tenuto compor- tamenti pregiudizievoli, o nei procedimenti di separazione e divorzio. La psi- coanalista francese Françoise Dolto insiste che il bambino dovrebbe essere in grado di comunicare con il giudice sulle questioni matrimoniali dei suoi geni- tori tutte le volte che lo desidera e che proprio il giudice, in prima persona, deve essere capace di parlare al bambino spiegandogli la separazione dei suoi genitori (7). In parallelo a questo percorso di definizione dell’ascolto come bisogno del bambino, l’ascolto però si va affermando come suo diritto. In un quadro legislativo che ancora lo ignorava o limitava la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/2002, ha dichiarato che l’ascolto del bambino nei procedimen- ti camerali minorili è già un atto dovuto quando abbia una sufficiente capa- cità di discernimento, per due ragioni: - perché è immediatamente operativo l’art. 12 della Convenzione dei diritti del fanciullo che afferma il diritto del bambino di essere ascoltato nelle procedure amministrative e giudiziarie che lo riguardano e che le sue opi- nioni debbono essere tenute in debita considerazione (8); - perché il minore è già considerato come parte dall’ultimo comma novella- to dell’art. 336 cod. civ. (non ancora entrato in vigore).

7.2. IL SIGNIFICATO DELL’ASCOLTO NELLE PROCEDURE GIUDIZIARIE Occorre però a questo punto precisare il significato dell’ascolto nelle proce- dure giudiziarie. Quando la Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo del 1989 (così come quella europea sull’esercizio dei diritti del minore del 1996) parla di diritto del minore di esprimere la sua opinione e di essere con- sultato, non si riferisce ad un diritto del minore ad essere interrogato. L’ascolto di opinioni è diverso infatti dall’assunzione di una testimonianza, anche se ha con essa punti in comune. “Nell’ascolto - è stato detto - non siamo alla ricerca della verità, perché il nostro interesse è rivolto, prima che ai fatti, alla persona del minore” (9). L’ascolto è prestare orecchie ed atten- zione a ciò che il minore vuole esprimere; la testimonianza è il racconto indotto su fatti che interessano al giudice per decidere. L’ascolto ha come soggetto attivo il minore; la testimonianza vede come protagonista il giudice. L’ascolto costituisce manifestazione specialmente di opinioni ed emozioni; la testimonianza ha come contenuto il racconto di fatti. Qualche volta la testi- monianza può essere traumatica, invece l’ascolto è in qualche modo liberato- rio. Nella testimonianza non è rilevante ciò che il testimone vuole o deside- ra; l’ascolto è invece uno strumento per raccogliere le opinioni del minore, con obbligo di prenderle debitamente in considerazione nel momento della decisione e di esplicitare anche tale considerazione nella relativa motivazio-

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ne (10). Il minore in questo modo è presente nel procedimento. Definito in termini più strettamente giuridici, l’ascolto dà forma al diritto del minore di partecipare alla sua tutela (11). Esso è l’unico momento partecipa- tivo del minore al progetto che lo riguarda. Il procedimento senza ascolto è viziato: manca un elemento costitutivo determinate della decisione e della sua motivazione. L’ascolto delle opinioni del fanciullo, per prenderle debita- mente in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di matu- rità, significa metterlo come centrale, considerarlo una persona e non un oggetto.

7.3. L’ETÀ DELL’ASCOLTO Il principio contenuto nell’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 secondo cui al fanciullo capace di discernimento deve essere data la possibilità di essere ascoltato nella procedura giudiziaria che lo concerne, deve potere esprimere liberamente la sua opinione su ogni questio- ne che lo interessa, deve vedersi prese in considerazione le sue opinioni tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità (termine tradotto con capacità di discernimento nella legge n. 184/1983) pone dei problemi non facili relativi all’accertamento della capacità di discernimento che rende obbligatorio l’ascolto. Per dare alla nozione di capacità di discernimento qualche significato, è bene richiamare che storicamente la capacità di discernimento veniva ritenuta acquisita ai sei-sette anni. A questa età secondo la Chiesa cattolica il bambi- no iniziava a comprendere il significato di scelte di fede e di condotta e, quin- di, era capace di peccato mortale e poteva essere ammesso alla confessione e alla comunione. In parallelo anche la scuola iniziava ai sei anni. La psicolo- gia convalida che verso questa età dei sei-sette anni il bambino normalmen- te acquisisce certe categorie di pensiero logico e il principio di realtà. La psi- coanalista Françoise Dolto individua a sua volta dagli otto anni in su l’età in cui un bambino dovrebbe essere in grado di comunicare con il giudice sulle questioni matrimoniali dei suoi genitori. In conclusione, l’anticipo dell’ascolto giudiziario tendenzialmente ad un’età di sei-sette-otto anni costituisce un riconoscimento dell’identità e della sog- gettività del bambino, non considerato come un oggetto di cui degli adulti, genitori o giudice che siano, comunque dispongono senza tenere conto della sue inclinazioni.

8. L’ASCOLTO INDIRETTO DEL MINORE ATTRAVERSO GLI AFFIDATARI Il tema dell’ascolto si è arricchito con la disposizione dell’art. 5, comma 1, legge n. 184/1983 novellata per cui “l’affidatario deve essere sentito nei pro- cedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato”. Questa previsione, che ha introdotto un generale obbligo di audizione dell’af- fidatario in quanto persona che ha cura del minore, sembra avere delle con- seguenze di una certa importanza. a. In questo modo l’affidatario può apportare al processo quegli elementi di conoscenza di cui dispone sulle condizioni sia del minore sia della fami-

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glia di origine. Si tratta di un giusta valorizzazione di un ruolo in cui gli affidatari hanno dei poteri sostanzialmente parentali, assumendosi l’onere di mantenere, istruire e educare il minore per la durata dell’affidamento e di mantenere gli ordinari rapporti con le autorità sanitarie e scolastiche. b. Non dovrebbero perciò più verificarsi casi di allontanamenti a sorpresa, alcuni dei quali hanno costituito eventi giornalistici, dei bambini dagli affidatari, perché la decisione modificativa del regime dell’affidamento dovrebbe essere preceduta dall’ascolto degli affidatari. Ciò consentirà anche di valutare in quali casi per le relazioni che si sono stabilizzate è possibile che nell’interesse del minore gli stessi affidatari siano preferiti come genitori adottivi.

9. LA RAPPRESENTANZA DEL BAMBINO Distinto dal tema dell’ascolto è quello della rappresentanza del bambino nel processo. Si è osservato che i genitori partecipano al procedimento giudiziario relativo alla potestà agendo in proprio, mentre la loro posizione può trovarsi in con- flitto con gli interessi del figlio. Perciò il figlio in realtà non ha nessuno che lo rappresenti nei procedimenti di separazione e divorzio e nei procedimenti del tribunale per i minorenni per i figli naturali o per le situazioni di pregiu- dizio o di abbandono. Il problema è stato posto alla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 1/2002, ha ritenuto che già oggi è possibile, nei procedimenti camerali, quan- do ci sia un conflitto fra genitori e minore, nominargli un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ. perché lo rappresenti. Sul soggetto che dovrebbe avere la rappresentanza processuale di un minore deve però aprirsi un dibattito, che tenga presenti le varie possibilità prospet- tate finora: un curatore speciale; che però spesso porta nel processo non la voce del minore, ma quella di un altro adulto, con il rischio - nei processi che vedono contrapposizioni fra i genitori - di collusioni con uno di questi; il pubblico ministero minorile, che è rappresentante della legge e fa fatica a farsi portatore di interessi sociali; il difensore del minore, che però gli è nominato dagli adulti; i servizi, che per il ruolo di segnalatori e di informa- tori nel corso del processo si fa fatica a pensare anche come rappresentanti del minore; un garante per l’infanzia o pubblico tutore dell’infanzia; soluzio- ne che in astratto appare preferibile.

10. LE INFORMAZIONI E LA PARTECIPAZIONE DEI SERVIZI Un’altra questione che deve essere posta sul tappeto è la formazione e valu- tazione della prova nei procedimenti minorili. L’introduzione generale dei servizi sociali e sanitari in funzione processuale produce una diversità dei procedimenti dei tribunali per i minorenni anche sotto il profilo delle prove: oggi ciò che gli operatori dei servizi accertano, propongono, scrivono o dico- no è spesso la fonte principale di convincimento per il giudice minorile, sostanzialmente allo stesso livello dell’ascolto dei genitori e del bambino, sempre obbligatori. La locuzione legislativa “assunte informazioni” (art. 336, comma 2 cod. civ.) favorisce, nella sua genericità, una abitudine di acquisizione di notizie e ele-

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menti valutativi (anche di tipo peritale) dalle relazioni dei servizi prevenute a corredo del ricorso del pubblico ministero o richieste dal tribunale. Non sembra di per sé ledere il diritto di difesa l’assunzione di “informazioni” anche attraverso i servizi socio sanitari. Però una relazione sociale o psicolo- gica apporta elementi acquisiti al di fuori del processo (che sono stati perciò definiti “prove estranee”) che, per le modalità di assunzione (senza contrad- dittorio), le parti hanno limitate possibilità di contrastare. Inoltre la partecipazione dei servizi al processo può apparire per alcuni aspet- ti ambigua: essi possono essere nello stesso tempo segnalatori della situazio- ne e portatori di un interesse sociale di protezione di una parte; la insufficien- te definizione del loro ruolo può condurli a colludere con il giudice o ad una manipolazione reciproca; oppure possono presentarsi in una posizione di dipendenza dal tribunale per i minorenni per rafforzare la propria autorità nei confronti degli utenti. Per ovviare a ciò occorre che lo stesso tribunale sia il soggetto che assume le informazioni, principalmente con il sentire senza formalità (e perciò senza giuramento) tutte le persone “informate”, senza delegare meramente all’e- sterno ai servizi la rappresentazione della realtà su cui si fonda la sua deci- sione. Il giudice deve inoltre svolgere un vaglio critico sulle informazioni presentate dai servizi, verificandone per quanto possibile il contenuto in modo autonomo attraverso un esame accurato delle parti, l’assunzione di testimonianze, la consulenza psicologica, indagini specialistiche, ecc. Una particolare attenzione deve essere posta là dove le relazioni dei servizi non si limitano ad esporre fatti storici (che possono essere confermati o con- trobattuti attraverso testimonianze), ma esprimono apprezzamenti o giudizi di valore, dipendenti da valutazioni soggettive dell’operatore, anche se si tratta di un operatore dotato di una specifica professionalità, valutazioni che solo in presenza di riscontri concordanti e univoci di natura oggettiva posso- no essere assunte nel giudizio ad elementi di convincimento.

11. IL DIRITTO DI DIFESA Il tema della difesa nei procedimenti civili minorili pone numerosi problemi. Quanto al difensore del bambino, ci si chiede quanto egli sia autonomo rispetto alle posizioni dei genitori; e quale ascolto, attenzione e comprensio- ne egli può avere, e in che modi, per il bambino. Va posta anche la questione della effettiva preparazione del difensore del bambino nei procedimenti civi- li, così come si è curata una preparazione specialistica dei difensori penali dei minori. Più in generale, un problema reale è assicurare uno spazio effettivo alla dife- sa nei procedimenti civili minorili. In alcuni uffici giudiziari minorili il difensore non viene avvisato dell’assunzione delle prove perché possa parte- ciparvi né del deposito degli atti prima delle decisione. In altri uffici c’è la prassi di non ammissione del difensore ad assistere al compimento di deter- minati atti (come l’esame psicologico di un bambino da parte di un compo- nente privato, l’interrogatorio dell’ “altra” parte o di una persona informata, la convocazione degli operatori (servizi), giustificata con la necessità del miglior svolgimento dell’atto istruttorio che sarebbe viziato sostanzialmente dalla partecipazione del difensore che alimenterebbe la conflittualità.

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Che un ascolto del bambino “duale”, senza la presenza di altre persone, possa consentirgli meglio di esprimere la sua opinione è un fatto reale. Appare però difficile rinvenire riferimenti normativi a sostegno della tesi che il giudice istruttore discrezionalmente, in relazione a singoli atti o all’intera istruttoria, possa limitare il diritto-facoltà del difensore tecnico di presenziare, allorché egli lo richieda, all’acquisizione di tutte le informazioni utili per la decisio- ne. Senz’altro più corretto appare l’accorgimento attuato da alcuni giudici, in occasione di esami specializzati particolarmente delicati in cui l’introduzio- ne di un contraddittorio può essere traumatica o addirittura disturbare la cor- rettezza del risultato, di richiedere al difensore tecnico di non presenziare, rimettendo quindi la decisione alla valutazione del difensore, quasi sempre sensibile ad una sollecitazione motivata, subito dopo però ponendo i risulta- ti dell’esame a disposizione del difensore per le sue valutazioni. Le parti e i loro difensori hanno inoltre diritto di conoscere gli atti del proce- dimento su cui si fonda il convincimento del giudice. L’esigenza di conoscen- za è accresciuta per il fatto che il procedimento minorile ha perso la collegia- lità nel momento dell’assunzione delle prove. Esse sono costituite da infor- mazioni raccolte a verbale da un giudice delegato, senza giuramento e al di fuori della presenza delle parti, o sono formate all’esterno (relazioni sociali o psicologiche dei servizi locali, informazioni di polizia, atti di procedimen- ti penali). I verbali delle persone assunte e le relazioni e gli atti pervenuti sono perciò per i difensori e per il collegio giudicante soprattutto, o esclusi- vamente, documenti cartacei. A fronte di ciò alcuni tribunali per minorenni hanno introdotto la prassi (per l’interesse del minore o per “difendere” i servizi socio sanitari o con la moti- vazione della riservatezza) di vietare alle parti di conoscere alcune relazioni sociali o psicologiche o informazioni e addirittura di esaminare gli interi atti, con un capovolgimento del principio della pubblicità degli atti in quello opposto della loro segretezza, caratteristica tipica dei procedimenti inquisito- ri. Altri tribunali minorili invece hanno introdotto il principio della discrezio- nalità della conoscenza degli atti, che può essere permessa o negata dal giu- dice istruttore o dal collegio. . Queste prassi appaiono abusive (e la Corte costituzionale le ha definite distorte) perché istituiscono una disparità di trattamento rispetto al pubblico ministero che conosce gli atti nella loro integrità (art. 1 disp. att. cod. proc. civ.) e perché è violato il diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, le parti non essendo messe in condizione di discutere il materiale probatorio acquisito nel procedimento e di proporre in relazione ad esso eventualmente nuove prove prima della decisione. In particolare non appare corretto ritenere che si possano secretare informa- zioni riferite a processi penali (12), dal momento che gli atti penali, quando vengono pervengono nel fascicolo civile, ne acquisiscono il regime di pub- blicità. Le prassi di secretazione non possano giustificarsi neppure con la considerazione che il giudice deve autorizzare le parti a prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nel fascicolo di adottabilità (art. 10, comma 2, legge n. 184/1983) perché tale autorizzazione attiene ad una mera valuta- zione delle legittimazione del richiedente.

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12. UNA EFFETTIVA COLLEGIALITÀ Fra le questioni ordinamentali di carattere generale che lambiscono in pro- fondità la qualità del processo civile minorile c’è quella di una collegialità effettiva degli uffici giudiziari specializzati per i minorenni. Il tribunale per i minorenni nella cause civili ha una composizione originale, che costituisce il paradigma della specializzazione: dal 1956, con l’ingresso della componente femminile, è formato di quattro giudici, due professionali e due onorari, con un equilibrio fra apporti giuridici e apporti delle scienze umane, mentre il potere di direzione è assicurato al magistrato giurista. È l’inserimento nell’organo giudicante degli esperti in materie umane e psico- logiche che crea la sua competenza diversificata ed è quindi alla collegialità che l’ordinamento collega inesorabilmente il requisito della specializzazione. Non pare dubbio che il legislatore abbia pensato ad un tipo di procedimento minorile in camera di consiglio dove le prove fossero disposte dal collegio e assunte davanti al collegio: il “giudice” che può assumere informazioni (art. 738, comma 3 cod. proc. civ.) è chiaramente il collegio; mentre compito del relatore (art. 738, comma 1 cod. proc. civ.) è quello di studiare gli atti e rife- rire. E infatti così si svolge il procedimento di modifica delle condizioni della separazione. L’effettuazione della fase probatoria avanti ad un collegio specializzato per la sua composizione, che riunisce insieme una cultura giuridica e una cultu- ra capace di approfondire scientificamente e umanamente i bisogni dei bam- bini o degli adolescenti, ha un significato di immediatezza di conoscenza, rassicurando gli utenti circa la ricezione delle loro ragioni da parte di quegli stessi giudici che poi decidono la causa, e di autorevolezza dell’organo come il più capace di dare una decisione giusta. Questa competenza specializzata si è però svuotata da quando nei procedi- menti civili si sono generalizzate prassi di deleghe istruttorie a un singolo giudice, portatore di una specifica cultura (o giuridica o nelle scienze umane). Di qui deriva il disagio dei difensori che si trovano a “trattare” con dei non giuristi (tale disagio non c’è nel processo penale minorile rimasto collegiale). C’è stato perciò un rigetto che ha portato ai progetti del ministro Castelli (che fortunatamente non hanno superato il cammino parlamentare) di abolizione della componente onoraria nei collegi giudiziari civili minorili. Personalmente ritengo che l’attuale crisi possa essere superata solo riportan- do l’ufficio giudiziario civile minorile (sia che si chiami tribunale per i mino- renni, sia che diventi sezione specializzata del tribunale ordinario) alla colle- gialità anche nelle attività istruttorie, mantenendo nel collegio giudicante la compresenza di due culture, giuridica e delle scienze umane, che consente una effettiva binocularità. La materia della potestà sui minori non può essere adeguatamente trattata solo sul piano tecnico giuridico da un giudice togato, la cui preparazione è unicamente vagliata dall’esame di concorso per l’in- gresso in magistratura, ma deve confrontarsi con contributi ed elaborazioni sommati di vari saperi.

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NOTE 1) Corte costituzionale, 30 gennaio 2002, n. 1, in Famiglia e diritto, 2002, 3, pp. 229-239. 2) In Famiglia e diritto, 2001, 3, pp. 308-323. 3) Cfr. Corte di appello di Torino, sezione per i minorenni, decreto 3 gennaio 2001, in Minorigiustizia, 2000. 3, pp. 165-171; e in Il diritto di famiglia e delle persone, 2001, 4, pp. 1473-1492. 4) Su questi problemi F. Occhiogrosso, “La complessità della risposta all’abuso sui minori”, in Minorigiustizia, 2001, 1, pp. 9-12. 5) L. Fadiga, cit., p. 85. 6) Per queste proposte di istituire una figura di difensore pubblico del minore, affidandogli anche compiti processuali, cfr. A. C. Moro, “Molte ragioni per introdurre un ufficio di difesa del minore”, in Minorigiustizia, 1998, 4, pp. 15-23; F. Milanese, “Dal tutore pubblico dei minori in Friuli-Venezia Giulia ad un garante per l’infanzia in ogni regione”, ibidem, pp. 24-33.. 7) F. Dolto, Quando i genitori si separano, Mondadori, Milano, 1995, pp. 125-126. 8) Se ne riporta il testo: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione, su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tale fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. 9) R. Lombardi e M. Tafà, “Ascoltare il minore ovvero entrare in relazione”, in Minorigiustizia, 1998, 4, p. 85. 10) La distinzione fra ascolto di opinioni e ascolto di testimonianze è espressa chiaramente da A. Dell’Antonio, “La partecipazione del minore alla sua tutela. Un diritto misconosciuto”, Giuffré, Milano, 2001, pp. 148-152. 11) Così A. Dell’Antonio, op. cit. 12) Cr. Corte appello di Torino, decreto 11 gennaio 2001, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2001, 4, 1473-1492.

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SOMMARIO 1. POTESTÀ ED INCAPACITÀ 1. Potestà ed incapacità 2. Il riconoscimento dei diritti del bambino ll’asimmetria della condizione persona- 3. La distinzione tra giurisdizione ed interventi di le e sociale del bambino rispetto agli sostegno delle famiglie e dei bambini adulti corrispondeva fino a pochi anni 4. L’intervento nel rapporto educativo ed il diritto al A fa, sul piano giuridico, una condizione gene- rispetto della vita privata e familiare 5. Il giusto processo regolato dalla legge. rale di incapacità sia nei rapporti personali 6. Professionalità del giudice, specializzazione ed che patrimoniali ed una posizione di sogge- efficienza zione ai genitori strettamente collegata a tale 7. Utilizzazione dei saperi extra giuridici e ruoli incapacità (Zatti 1980). processuali Ne deriva una relazione unidirezionale, 8. La formazione specializzata dei soggetti processuali potere - soggezione, che non consente l’e- 9. Bibliografia mersione nel rapporto educativo dei diritti della personalità del bambino. Ai genitori dunque è imposto il dovere di esercitare i poteri parentali nell’inte- resse del bambino: al giudice minorile era - ed è ancora - attribuito il compito LA TUTELA CIVILE DEI di controllare il modo di tale esercizio piuttosto che quello di garantire diritti, DIRITTI DELLA PERSONALITÀ che troveranno il loro riconoscimento formale solo con la Convenzione di E GIUSTO PROCESSO New York del 1989 ratificata in Italia con la L. 176 del 1991. Quando lo Stato autoritario riformò il diritto di famiglia nel 1942, trasformò DOTT. la potestà, che era un istituto della GUSTAVO famiglia, in un potere pubblicistico da esercitarsi dal capo famiglia o dal SERGIO tutore sotto il controllo anche sostitutivo del tribunale per i minorenni o del giudice tutelare. PROCURATORE DELLA L’autorità giudiziaria a sua volta si avvaleva degli organi di protezione del- REPUBBLICA PRESSO l’infanzia e di tutti gli enti i cui scopi corrispondevano alle sue funzioni, IL TRIBUNALE PER I MINORENNI secondo il modello del giudice amministratore proprio dell’epoca. Si realiz- DI VENEZIA zò così un sistema circolare di controllo e protezione nel quale i diritti delle persone, assorbiti ed annullati nella sfera pubblicistica in cui le relazioni familiari erano state collocate, non avevano alcun riconoscimento. Dunque controllo della condotta dei minorenni, controllo dell’esercizio della potestà da parte dei genitori da esercitarsi discrezionalmente, all’origine nei limiti del criterio indicato dall’articolo 147 del codice civile, il sentimento nazionale fascista. Successivamente con l’avvento dello Stato repubblicano il criterio fu trasfor- mato in quello dei principi della morale. Con la riforma del diritto di fami- glia del 1975, quando il pluralismo e la complessità corrosero l’omogeneità culturale e sociale che si riflettevano nei principi della morale e cominciò ad emergere la questione dei diritti umani, l’articolo 147 indicò come punto di riferimento dell’educazione la capacità, l’inclinazione naturale e le aspirazio- ni dei figli. Dunque la discrezionalità, anche quella del giudice, deve essere orientata nella direzione del bene del bambino.

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Fu proprio in coincidenza di questa riforma degli anni 70, caratterizzati anche dall’operatività della legge sull’adozione speciale e dallo sviluppo dei servizi sociosanitari, che gli interventi a tutela dei minori del tribunale per i minorenni aumentarono in modo massiccio. In quei tempi iniziava la scoperta dei diritti dei minori, concepiti tuttavia sempre nella logica unidirezionale del controllo discrezionale dell’esercizio della potestà, che anzi risultò potenziato sia nelle strutture (per il potenzia- mento dell’organico dei tribunali per i minorenni e lo sviluppo dei servizi) che nell’ideologia (Dogliotti 1997), posto che le decisioni restavano affidate alla discrezionalità del giudice ed alle valutazioni degli operatori sociosani- tari senza alcun ampliamento degli spazi di espressione e di esercizio dei diritti delle persone coinvolte.

2. IL RICONOSCIMENTO DEI DIRITTI DEL BAMBINO

iova a questo punto ricordare che la nostra Costituzione riconosce i diritti Ginviolabili dell’uomo senza distinzioni, neppure con riguardo alla condi- zione personale e sociale propria dei bambini. Non contempla l’istituto della potestà, e riconosce il dovere-diritto dei genitori di mantenere, istruire ed edu- care i figli, ed il diritto di questi ultimi di sviluppare la loro personalità in que- sto rapporto se i genitori sono in grado di assolvere i loro compiti. (art. 30) Proprio dall’inviolabilità dei diritti umani (art. 2) discende il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). I diritti dell’uomo dunque non sono nè pubblici nè privati: sono inviolabili. Di qui la disarmonia fino ad oggi insuperata tra la Costituzione, che ricono- sce i diritti del bambino e la loro corrispondenza biunivoca con quelli dei genitori, e la concezione del codice civile del 1942, non toccata dalla rifor- ma del diritto di famiglia del 1975, incentrata sulla funzione pubblicistica della potestà, e dunque sul controllo discrezionale di natura amministrativa del tribunale per i minorenni. Se il giudice minorile adotta discrezionalmente provvedimenti nell’interesse del minore, e dunque per il suo bene, sindacando l’esercizio del potere pub- blicistico attribuito ai genitori, non sono necessarie la garanzia della difesa, che fino alla riforma introdotta dalla L. 149 del 2001 era soltanto consentita. Infatti non si tratta di costituire o modificare diritti, ma di governare interes- si, e dunque i provvedimenti del giudice minorile non sono neppure ricorri- bili in cassazione (Cass. sez. un. civ. nr. 6220 del 1986). I diritti del bambino, di una persona che, nonostante la condizione naturale di debolezza, è riconosciuta come soggetto piuttosto che come incapace comin- ciarono ad emergere solo dopo il 1989. La novità introdotta dalla Convenzione di New York - anche rispetto alla nostra Costituzione - fu la concretezza e specificità del riconoscimento, che consentì di configurare i diritti fondamentali dell’uomo in funzione della condizione di particolare debolezza dei soggetti di minore età. Accanto ai diritti la convenzione individua i doveri degli Stati e quelli degli organismi chiamati a rendere effettivi i diritti del bambino. Così l’interesse del minore da valore pubblicistico e meta individuale incarnato nella concre-

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tezza delle relazioni personali dall’autorità demiurgica del giudice si trasfor- ma in un criterio interpretativo che l’art. 3 della convenzione così esplicita: in tutte le decisioni relative ai fanciulli di competenza delle istituzioni pub- bliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità ammini- strative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve avere una considerazione preminente. Dunque l’interesse del bambino non modifica la natura delle decisioni adot- tate da soggetti pubblici o privati in conformità alle loro competenza funzio- nale ed alle regole procedurali che ne disciplinano l’attività, ma le orienta verso una considerazione preminente delle sue esigenze. La nascita del bambino come soggetto capovolge la concezione tradizionale della sua soggezione alla potestà. In Francia la riforma del Code Civil realiz- zata nel 1970 (L. n. 70-459) sostituisce il termine puissance, corrispondente all’antica potestas, con autorité, derivante dal latino augêre, (che fa cresce- re) che sottolinea l’adesione spontanea che si realizza nell’interazione educa- tiva tra genitore e figlio. Nello stesso senso è la modifica del § 1626 del BGB realizzata in Germania nel 1979. La parola gewalt (potere) è stata sostituita con quella di sorge (cura) e nel secondo comma della disposizione si legge che nell’allevamento e nell’educazione del figlio i genitori prendono in con- siderazione la crescente capacità ed il crescente bisogno del figlio di agire indipendentemente ed in modo responsabile. Essi discutono con il figlio per quanto ciò sia opportuno in base al suo stato di sviluppo, dei problemi rela- tivi alla sua cura e mirano al comune accordo. In Italia, lo abbiamo visto, l’art. 147 del codice civile dà rilievo nel rapporto educativo alla capacità, all’inclinazione naturale, alle aspirazioni del figlio, ma l’impianto pubblicistico delle relazioni familiari e, soprattutto, la funzione di controllo discrezionale degli organi giudiziari minorili è rimasta immutata.

3. LA DISTINZIONE TRA GIURISDIZIONE ED INTERVENTI DI SOSTEGNO DELLE FAMIGLIE E DEI BAMBINI

a collocazione istituzionale e strutturale del tribunale per i minorenni, la Lsua composizione mista, comprendente cittadini benemeriti dell’assistenza sociale e cultori di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia, e - dal 1956 - di psicologia, erano funzionali all’integrazione del nuovo orga- no giudiziario nel sistema assistenziale, che secondo la logica dell’epoca concorreva con il sistema repressivo ad attuare la difesa dello Stato contro la criminalità (Rocco 1930). Perciò la sede del tribunale era presso il centro di rieducazione dei minoren- ni in una situazione in cui le finalità di welfare erano completamente incen- trate e sottomesse al sistema giudiziario (Ceretti 1996). La Costituzione fin dal suo testo originario aveva attributo alle Regioni la competenza legislativa ed amministrativa in materia di beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera nei limiti dei principi fondamentali sta- biliti dalle leggi dello Stato (art. 117). Sono noti i ritardi dell’attuazione del- l’ordinamento regionale, e solo nel 1975 l’Opera Nazionale maternità ed Infanzia fu sciolta e le sue funzioni trasferite agli enti locali. Il trasferimento agli enti locali delle competenze amministrative già esercita-

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te dallo Stato fu realizzato dal D.P.R. 616 del 1977, che configurò più moder- namente (art. 22) le attività di beneficenza pubblica inquadrandole nella sicu- rezza sociale, e dunque ponendole sotto l’egida del principio di solidarietà sociale sancito dagli articoli 3 e 38 co. 1 della Costituzione. Tuttavia il passo per quel che riguardava i minorenni fu compiuto a metà. L’art. 23 confermò in via di eccezione la continuità del vecchio sistema della giustizia minorile che coniugava protezione e controllo specificando che sono comprese nelle funzioni amministrative dell’articolo precedente (l’art. 22 per l’appunto) le attività relative … agli interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza amministrativa e civile. È vero che la legge precisa che si tratta di interventi a favore, ma gli utenti, minorenni o familiari, potrebbero non aver prestato il consenso che di rego- la sostiene il rapporto assistenziale, dando così luogo ad un conflitto giuridi- co, sciolto di autorità dal provvedimento del tribunale per i minorenni, che sotto questo profilo è limitativo della libertà. (Sacchetti 1987). La riforma del 1977 poi confermò il rapporto di subordinazione funzionale dei servizi con il tribunale già previsto dalla L. 2085 del 1962 (Dosi 2000), modificando così solo i riferimenti istituzionali ed organizzativi con cui deve interagire la giustizia minorile. In definitiva le funzioni del tribunale non furono toccate, né dalla riforma del diritto di famiglia né da quella sul decentramento amministrativo, e la stessa competenza amministrativa della rieducazione fu mantenuta nonostante il nuovo assetto organizzativo dei servizi. La Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 23 del D.P.R. 616 del 1977, nel rigettare la questione (ord. 22 7 1987 n. 287) rilevò che la competenza amministrativa del tribunale per i minorenni ha carat- tere di tutela del minore e rientra nel quadro di un impegno pedagogico di aiuto al superamento di quelle situazioni che la legge definisce di irregolarità. In realtà mentre la misura rieducativa residenziale del collocamento in casa di rieducazione o in istituto medico psicopedagogico non è più praticabile perché il sistema assistenziale non ha allestito strutture di tal genere, è larga- mente applicata in sede civile l’altra misura dell’affidamento al servizio sociale che comporta il coinvolgimento nelle prescrizioni del tribunale anche dei genitori, e dunque si risolve in un intervento obbligatorio, e talora coatti- vo, dei servizi degli enti locali. (Sergio 1999). Il collegamento della prevenzione socio sanitaria con gli interventi giudizia- ri minorili produce così un duplice scambio, che si risolve in terapie giudi- ziarie e provvedimenti terapeutici. Infatti per un verso gli operatori - per realizzare le proprie finalità preventi- ve e riparative - possono segnalare il caso di un minore al tribunale, trasfor- mato così in braccio secolare dei servizi, per effettuare interventi diagnostici e terapeutici senza il consenso informato degli utenti maggiorenni o minoren- ni che siano; per l’altro il tribunale si appropria del sapere delle scienze del comportamento per adottare misure secondo le esigenze del minore valutate discrezionalmente dal giudice. (Sergio 2001). La recente riforma del titolo V della Costituzione (L. Cost. 3 del 2001) sembra aver modificato ulteriormente il quadro dei rapporti tra controllo ed interventi

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e servizi sociali. L’art. 117 lett. h) ed l) attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza ad esclusione della polizia amministrativa locale, e quella in materia di giurisdizione e norme processua- li, ordinamento civile e penale. Riserva alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, e dunque anche quella riguardante gli interventi ed i servizi sociali. Del resto la stessa L. 328 del 2000, legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (emanata prima della riforma del titolo V della Costituzione) aveva già chiarito le ambiguità del rapporto della giustizia minorile con il sistema assistenziale, escludendo dal novero degli interventi e dei servizi sociali quelle assicurate dal sistema previdenzia- le e dal sistema sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazio- ne della giustizia. (art. 1) Dunque non è più possibile confondere la protezione della maternità infanzia e gioventù, (ed ogni altra forma di intervento assistenziale) con la tutela giu- risdizionale realizzata mediante il giusto processo regolato dalla legge. Il regime giuridico delle attività assicurate in sede di amministrazione della giustizia riguarderà l’esecuzione dei provvedimenti e delle misure stabilite dal giudice nei riguardi dei minorenni per le finalità di tutela dei diritti della persona stabilite dalla legislazione minorile espressamente richiamata dal- l’art. 22 co. 3 della L. 328 del 2000, che i servizi sono dunque chiamati ad attuare nell’ambito della propria discrezionalità tecnico funzionale con esclu- sione di quella amministrativa. Viceversa l’attività propria degli interventi sociali si svolgerà nel rispetto del principio del consenso informato, del segreto professionale (che la L. 119 del 2001 ha esteso anche agli assistenti sociali, sia liberi professionisti che dipendenti pubblici o privati), della tutela della riservatezza dei dati sensibi- li, e con le facoltà e le garanzie previste dai codici di procedura penale e civi- le per la tutela del ruolo professionale degli operatori (artt. 199, 200 e 103 c. p. p. e 249 c. p. c. anche con riferimento all’art. 120 co. 7 del D.P.R. 309 del 1990 T.U. sugli stupefacenti). Evidentemente le prescrizioni giudiziarie, per quanto a fin di bene, sono cosa ben diversa dall’offerta di aiuto dei servizi accettate dagli utenti. Perciò le misure che limitano la libertà personale dovranno rispettare le garanzie pre- viste dall’art. 13 della Costituzione, mentre la prevenzione e la cura delle malattie e del disagio va distinta dalla prevenzione a fini di sicurezza. Le modifiche della Costituzione e del sistema assistenziale di cui si è detto sono troppo recenti per far ritenere superato il rischio di ulteriori confusioni. Solo il consolidamento nella prassi giudiziaria dei principi del giusto proces- so e l’ulteriore rafforzamento dell’autonomia dei servizi consentiranno l’af- fermazione del nuovo sistema che si va delineando.

4. L’INTERVENTO NEL RAPPORTO EDUCATIVO ED IL DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE

la stessa Convenzione di New York sui diritti dei bambini che, mentre Èimpegna gli Stati ad adottare misure legislative, amministrative, e sociali per proteggere i bambini da ogni forma di violenza, maltrattamento, abuso ed

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abbandono anche nell’ambito familiare (art. 19), richiama negli artt. 9 co. 1 e 2, e 16 la funzione di garanzia dal giudice nei confronti dei soggetti coin- volti dall’intervento di protezione svolto dai servizi - innanzi tutto il bambi- no - per realizzare la protezione della legge contro interferenze arbitrarie o illegali nella vita privata e familiare. Evidentemente la natura stessa dei diritti umani non ammette una condizione di soggezione passiva da parte di chi è destinatario di un intervento pubblico sia pure finalizzato alla sua protezione. La lesione dei diritti relazionali della personalità ha comportato di recente la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia e del Regno Unito per violazione dell’art. 8 della Convezione che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare (sentenza 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia; sentenza 3 maggio 2001, affaire T.P. e K.M. c. Royame Uni. Requête n°28945/95). L’intervento sociale nei confronti della famiglia e dei suoi singoli membri è oggi caratterizzato da forme e modalità che spostandosi dall’ambito giurisdi- zionale si collocano in quello amministrativo. Ciò è particolarmente vero per quelli di conciliazione, consulenza, arbitra- mento, ed ogni altra composizione dei conflitti familiari che è concepita come alternativa alla giurisdizione. Si tratta di una tendenza promossa a livello internazionale che in Italia non si è ancora consolidata. L’art. 13 della Conv. di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori del 25 gennaio 1996 stabilisce che al fine di prevenire o di risolvere controversie, e di evitare procedimenti che interessano minorenni davanti ad un’autorità giudiziaria le Parti incoraggiano il ricorso alla con- ciliazione o ad ogni altro mezzo di risoluzione delle controversie ed il loro utilizzo per raggiungere una composizione amichevole. L’intervento di mediazione nei conflitti familiari (il d.d.l. C. 66 all’esame della Camera lo prevede in tema di separazione dei coniugi ed affido condi- viso dei figli), quelli di promozione di condizioni materiali e relazionali più propizie allo sviluppo della personalità dei soggetti in età evolutiva ed in generale di quelli “deboli”, svolgono anche una funzione di filtro, quasi di delibazione preliminare delle situazioni di conflitto o lesione dei diritti fon- damentali eventualmente da sottoporre all’esame dell’A.G. In conclusione l’azione di prevenzione svolta dai servizi quando riguarda il rapporto educativo tra genitori e figli può interferire con la privatezza delle relazioni familiari. Perciò l’intervento si svolgerà nell’ambito assistenziale quando si fonda sul consenso informato degli utenti, che è importante non solo sul piano strettamente giuridico, ma soprattutto per creare l’alleanza terapeutica tra operatori ed assistiti che ne assicura l’efficacia. Viceversa in caso di conflitto i servizi, quando non intendano rinunciare all’intervento proposto, dovranno segnalare il caso al soggetto pubblico legit- timato a proporre un ricorso al giudice per la tutela giurisdizionale dei dirit- ti dei bambini. È questo il nuovo percorso disegnato dalla legge 149 del 2001 (Modifiche alla L. 4. 5. 1983 n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamen- to dei minori”, nonché al titolo VIII del codice civile) che ha ristabilito la legittimazione processuale del pubblico ministero minorile escludendo l’a- pertura di ufficio di procedimenti da parte del tribunale per i minorenni, che

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aveva alimentato la confusione tra intervento assistenziale e tutela giurisdi- zionale. Perciò la consulenza familiare, l’assistenza, la conciliazione, preparazione, vigilanza a fini di sostegno (il c. d. monitoraggio) delle famiglie in difficol- tà e/o di soggetti “deboli”; dovranno essere considerati distintamente rispet- to alla risoluzione autoritativa dei conflitti, all’eventuale prescrizione di interventi assistenziali di competenza dell’autorità giudiziaria.

5. IL GIUSTO PROCESSO REGOLATO DALLA LEGGE.

l processo previsto dalla Costituzione, che ha recepito nel nuovo testo del- Il’art. 111 i principi stabiliti dall’art. 6 della Convenzione europea dei dirit- ti dell’uomo, non consente confusioni come nel passato tra gli interventi di protezione e la tutela giurisdizionale dei diritti. A differenza degli interventi amministrativi caratterizzati dalla discrezionalità, e connotati perciò dalla posizione di supremazia degli organi pubblici cui corrisponde una situazione di soggezione del cittadino, il giusto processo è regolato dalla legge, che ne predetermina la forma ed i poteri processuali delle parti e del giudice. Alle parti compete non solo il diritto di agire in giudizio per la tutela dei pro- pri diritti, dunque anche di quelli della personalità, ma i poteri processuali che rendono effettivo il diritto di difesa ed il contraddittorio in condizione di parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Se il principio del contraddittorio era già implicito nel diritto di difesa assi- curato dall’art. 24 co. 2 Cost., la rilevanza costituzionale attribuita alla pari- tà tra le parti ed alla terzietà ed imparzialità del giudice costituisce una novi- tà che muta il modello della giurisdizione. I caratteri che definiscono la posizione del giudicante da un lato si riferisco- no alle parti in conflitto, rispetto alle quali egli è terzo, dall’altro designano anche la sua alterità rispetto agli altri poteri dello Stato, che sul piano istitu- zionale si traduce nell’indipendenza. Si tratta del paradigma del processo accusatorio nel quale lo Stato è rappre- sentato dal pubblico ministero, organo deputato ad ottenere il riconoscimen- to nel processo delle pretese e delle finalità pubbliche, ben distinto dal giu- dice garante, che invece opera al di fuori ed al di sopra degli altri pubblici poteri per realizzare una funzione di salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini (Civinini 2001). Perciò l’interazione dei servizi sociali con il giudice, tradizionale per la giu- stizia minorile, è oramai inconcepibile non solo perché, come si è visto, le modifiche istituzionali e costituzionali avvenute negli ultimi vent’anni hanno separato l’assistenza dalla giustizia, ma soprattutto perché ripropone il vec- chio modello del giudice amministratore, dotato anche di poteri di autoatti- vazione (si pensi al pretore) che nel rendere concreta nei singolo caso la volontà della legge persegue gli stessi fini che lo Stato attua attraverso gli altri poteri, il legislativo e l’esecutivo. Per altro il giudice garante deve assicurare il rispetto delle regole processua- li predeterminate dalla legge, non certamente inventarne a sua discrezione, per giunta in modo coerente a finalità tutelari (dunque amministrative) perse- guite attivando poteri d’impulso altrettanto discrezionali cui corrisponde

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sempre una posizione di soggezione delle parti. Si comprendono allora le ragioni per le quali la c.d. volontaria giurisdizione, - il rito camerale disegnato dalle scarne disposizioni dettate dagli artt. 737 e seguenti del c.p.c., che attribuiscono al giudice ogni potere d’impulso proces- suale, di ricerca della prova senza formalità, di pronuncia di provvedimenti urgenti senza il rispetto delle regole del contraddittorio e comunque in termi- ni non prefissati dalla legge ma stabiliti dal giudice - sia estraneo al nuovo modello costituzionale di giurisdizione, e contrastante con il principio secon- do cui il giusto processo deve essere regolato dalla legge e non rimesso alla discrezionalità del giudice. Ultimamente la Corte Costituzionale, pronunciando nel giudizio di legittimi- tà costituzionale promosso dalla Corte d’Appello di Torino e da quella di Genova con la sentenza 1 del 2002 ha dichiarato inammissibili o infondate le questioni sollevate dopo aver proceduto ad un’innovativa - e meticolosa - operazione di interpretazione ricostruttiva del rito celebrato nei procedimen- ti civili minorili. A seguito di questo restauro costituzionale il nucleo essenziale del nuovo rito è il seguente. Il bambino o l’adolescente capace di discernimento è parte del processo poiché l’art. 12 della Convenzione di New York (ratificata e perciò pienamente efficace nel nostro ordinamento) gli riconosce il diritto di essere ascoltato dal giudice. Dunque in caso di conflitto d’interesse con uno od entrambi i genitori al fanciullo deve essere nominato un curatore speciale. Il contraddittorio, nonostante il testo vigente del codice civile, riguarda comun- que entrambi i genitori poiché l’art. 9 co. 2 della medesima convenzione richiede che tutte le parti interessate abbiano la possibilità di partecipare al processo e far conoscere le proprie opinioni. Analoghe le considerazioni sulla costituzionalità dei provvedimenti urgenti previsti dall’art. 336 del codice civile. Il principio secondo cui il giusto processo deve essere regolato dalla legge e non da decisioni discrezionali del giudice fa ritenere che anche tali provvedimenti siano assoggettati alla disciplina del procedimento cautelare uniforme dettata dagli artt. 669 bis e ss. c.p.c., applicabile in quanto compa- tibile a tutti i provvedimenti cautelari previsti dal codice civile. Se a tutto ciò si aggiunge l’assistenza obbligatoria di un difensore, (anche per il bambino, naturalmente), da nominarsi anche di ufficio nei procedimenti per la dichiarazione dello stato di adottabilità, il diritto delle parti di partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale, di presentare istanze istruttorie ed estrarre copie degli atti contenuti nel fascicolo (cfr. artt. 8 co.4; 10 co. 2; e 37 co. 3 L. 149 del 2001) si comprende la portata delle trasformazioni di quella che un tempo era la “volontaria giurisdizione” minorile.

6. PROFESSIONALITÀ DEL GIUDICE, SPECIALIZZAZIONE ED EFFICIENZA

i si deve chiedere infine se la composizione mista del collegio prevista nel C1934 sia adeguata alla funzione essenzialmente giurisdizionale che l’evo- luzione generale dell’ordinamento ha oggi attribuito al tribunale per i mino- renni. Com’è noto, la specializzazione della professionalità e l’utilizzazione di modu-

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li organizzativi flessibili, capaci di adeguarsi ai rapidi cambiamenti ed alle esi- genze sempre nuove della vita sociale costituiscono le attuali risposte alla com- plessità crescente dei problemi anche per quel che riguarda la giustizia. Il nuovo modello organizzativo del giudice unico di primo grado soddisfa l’e- sigenza di efficienza utilizzando lo strumento tabellare per la costituzione di sezioni che consentono una ripartizione coerente degli affari civili e penali e la specializzazione e rotazione dei magistrati addetti. La circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 21 dic. 2001 sul- l’organizzazione degli uffici giudiziari all’indomani dell’introduzione nel- l’ordinamento giudiziario del giudice unico di primo grado stabilisce infatti che la ripartizione del lavoro tra le sezioni deve avvenire secondo un crite- rio di attribuzione degli affari in base a competenze specifiche per materie omogenee e preindividuate. La specializzazione, ove possibile, va realizzata eventualmente attraverso l’identificazione di aree di competenza che accor- pino più sezioni, all’interno delle quali può operarsi un’ulteriore ripartizio- ne. In particolare la costituzione di sezioni specializzate appare preferibile ... per le materie caratterizzate dalla necessità, per il giudicante, di acquisi- re conoscenze non strettamente giuridiche ma comunque rilevanti per la comprensione delle controversie quali, ad esempio, la materia della famiglia, del lavoro, delle procedure concorsuali, delle società, dei brevetti e delle successioni … La specializzazione dunque è considerata un mezzo per favorire la professio- nalità tout court del magistrato (Rordorf 2000), e non un fine che conduce alla costituzione di enclaves separate, nelle quali il giudice può smarrire la visione complessiva dell’ordinamento (Romei Pasetti 2000), ovvero può avvicinarsi eccessivamente agli interessi che deve tutelare, specialmente quando le norme da applicare abbiano un alto tasso di elasticità. Di qui la necessità di equilibrare la specializzazione con la rotazione, per evitare il rischio in sé ineliminabile di diminuzione della terzietà ed imparzialità del giudice (Proto Pisani 2000). Ciò non esclude la considerazione delle materie, per esempio quella del lavoro, o della famiglia e dei diritti della persona, per le quali la circolare sulle tabelle di organizzazione prevede espressamente l’istituzione di apposite sezioni. Tuttavia significativamente l’art. 18 del D.Lgs. 51 del 1998 sull’istituzione del giudice unico sostituisce nell’art. 54 dell’Ord. Giud. la menzione della “magistratura del lavoro”, con la formula “sezione incaricata esclusivamen- te della trattazione delle controversie in materia di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie”, confermando l’approccio che realizza la specializ- zazione con strumenti organizzativi ordinari e con la professionalità del giu- dice, in conformità del resto alla previsione dell’art. 102 della Costituzione che vieta l’istituzione di giudici speciali, e consente invece l’organizzazione presso il giudice ordinario di sezioni specializzate per determinate materie.

7. UTILIZZAZIONE DEI SAPERI EXTRA GIURIDICI E RUOLI PROCESSUALI

a peculiarità del diritto di famiglia e delle persone non riguarda solo l’am- Lbito sociale nel quale si svolgono i rapporti disciplinati dal diritto, come

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per la materia del lavoro, ma comprende anche l’utilizzazione di saperi e l’applicazione di tecniche estranee al diritto, indispensabili per la compren- sione ed il sostegno delle relazioni personali, interventi che solo eventual- mente potranno essere considerati dal giudice chiamato a tutelare i diritti implicati nelle relazioni stesse. L’esigenza di una migliore conoscenza della controversia (quaestio facti) sottoposta al giudizio (quaestio juris) può far nascere la necessità di utilizza- re anche i saperi extra giuridici nel processo. Talvolta tale necessità riguarda il contenuto stesso della decisione, quando la disciplina di una determinata materia è assicurata da norme in bianco - le c.d. clausole generali - o a maglie larghe, la cui applicazione ed integrazione richiede per l’appunto conoscen- ze tecniche extra giuridiche. Data la complessità delle questioni che il tema solleva conviene esaminare separatamente i due profili. Lo strumento processuale predisposto per la quaestio facti è la consulenza tecnica, ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valuta- zioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche (art. 220 c.p.p.). Le tecniche, le arti, le scienze non si risolvono in regole socialmente ed uffi- cialmente riconosciute, come quelle giuridiche che proprio per questo rien- trano nel sapere del giudice (jura novit curia) e nella funzione dello jus dice- re che esclusivamente gli appartiene. Esse invece costituiscono gli strumenti di conoscenza utilizzati in occasione e per i fini dell’agire dell’uomo, che non possono non essere sottoposti al contraddittorio per la loro valorizzazione nel processo. A tale principio giu- ridico corrisponde sul piano empirico il principio di falsificazione secondo cui un’ipotesi (o una teoria) ha carattere genuinamente scientifico solo quan- do è suscettibile di essere smentita dai fatti dell’esperienza. (Popper 1934) Il divieto per il giudice di far uso della sua scienza privata, salvo che a fon- damento della decisione siano poste le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115 c.p.c.) non è dunque soltanto l’espressione dei principi del giusto processo. La legge vieta il cumulo della funzione di teste e di giudicante, che non consentirebbe al magistrato di esercitare sulle pro- prie conoscenze non giuridiche - e dunque private - quel controllo che costi- tuisce un momento essenziale della sua funzione (Pugliatti 1990), e nello stesso tempo impedisce che le ipotesi scientifiche formulate dal giudice siano convalidate impropriamente dalla giurisdizione la cui autorità non è fondata sulla scienza ma sul contratto sociale. Dunque l’utilizzazione dei saperi extra giuridici non comporta solo la neces- sità di una professionalità specializzata dei soggetti del processo, ma investe il ruolo svolto da ciascuno in funzione del rispetto del principio del contrad- dittorio e della posizione di terzietà ed imparzialità del giudice. Per queste ragioni l’impiego dei componenti privati minorili in attività istrut- toria civile (consentita da circolari del C.S.M.) che consente l’utilizzazione delle loro competenze professionali extra giuridiche per acquisire valutazio- ni tecniche in occasione dell’audizione del minore o dei suoi parenti - le c.d. consulenze domestiche - da sottoporre al collegio per la decisione, appare inconciliabile con i principi del giusto processo.

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Quando l’utilizzazione dei saperi extra giuridici riguarda anche il contenuto del provvedimento, come avviene per il giudice minorile che è tenuto nelle sue decisioni a considerare l’interesse del bambino in modo preminente (art. 3 co. 1 Conv. N Y ), emerge anche l’altro profilo della questione. Se la tutela giurisdizionale dei diritti relazionali della personalità del bambi- no - e di quello del genitore - si svolge sotto l’egida del principio di legalità, la considerazione preminente dell’interesse del minore evidentemente riguar- da il suo benessere. Tuttavia, come si è visto, la Convenzione di N Y non confonde le decisioni dei tribunali con quelle assistenziali, legislative ed amministrative. È la stes- sa Convenzione che anzi richiama negli artt. 9 co. 1 e 2 e 16 la funzione di garanzia dal giudice nei confronti dei soggetti coinvolti dall’intervento di protezione svolto dai servizi - innanzi tutto il bambino - per realizzare la pro- tezione della legge contro interferenze arbitrarie o illegali nella vita privata e familiare. Perciò ciascuna decisione mantiene la propria natura anche se nel merito con- sidera l’interesse superiore del fanciullo. Certamente le distinzioni teoriche sono più facili di quelle pratiche ma, si sa, la prudenza del giurista risiede anche nell’adeguatezza della decisione al caso concreto. La questione che qui si solleva riguarda invece il rischio che sia rivestito del- l’autorità di giudicare chi ha nel proprio bagaglio professionale non solo ( e non tanto) le conoscenze tecniche, ma soprattutto gli obbiettivi, le finalità i metodi delle professioni di aiuto, e che questa investitura trovi la sua ragio- ne non nella logica della giurisdizione ma nella protezione di determinate categorie di soggetti. In questo modo la solidarietà, la cura verso i soggetti deboli rischia di tramutarsi nella barbarie delle terapia coatta. Tradurre un diritto in soggezione avvalendosi del richiamo all’interesse generale signifi- cherebbe in realtà modificare il modello stesso, trasformare i diritti umani nel dovere di subire una normalizzazione, un’ingerenza autoritaria attivata nel- l’interesse di chi non ha richiesto alcun aiuto (Vincenzi Amato 1976). La specializzazione del giudice minorile dunque non può contraddire il modello del giudice garante, che realizza una funzione di salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini. In questo senso la terzietà non corrisponde solo al modello di giurisdizione posto dall’art. 111 della Costituzione ma anche alla tutela dei diritti della persona. Sono queste le ragioni per le quali la composizione dell’organo giudiziario minorile si pone in termini diversi da quelli sperimentati dal 1934 fino ad oggi, laddove la funzione preminente del tribunale minorile - nella circolari- tà delle sue competenze - si risolve nel controllo sia delle condotte dei mino- renni che dell’esercizio della potestà da parte dei genitori, e nella tutela pub- blicistica del fanciullo parzialmente o totalmente privo di protezione. Proprio la discrezionalità di questa funzione - così “speciale” per un organo giurisdizionale - aveva richiesto la presenza nel collegio del tribunale per i minorenni di benemeriti dell’assistenza sociale scelti tra i cultori di biologia, psichiatria, antropologia criminale pedagogia e psichiatria, e cioè di perso- ne dotate dell’esperienza e delle conoscenze necessarie per le decisioni di protezione e trattamento di competenza del tribunale.

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Oggi invece il riconoscimento dei diritti del bambino e la loro giustiziabilità consente d’inquadrare in una luce nuova, - quella dei diritti umani - il diritto di famiglia, la cui collocazione risulta dislocata rispetto alla deriva pubblici- stica sviluppatasi nel secolo scorso. I diritti relazionali della personalità non richiedono solo una tutela in forma specifica gestita dal servizio sociale nell’ambito del regime giuridico delle responsabilità degli adulti stabilito dal giudice. La giurisprudenza e la dottrina, elaborando il tema del danno alla persona, hanno riconosciuto accanto al danno biologico (che attiene ad ogni menoma- zione dell’integrità psico fisica in sé considerata), ed a quello morale ( che concerne la sfera interiore di chi è rimasto vittima di un reato), il danno esi- stenziale quale lesione dei diritti fondamentali della persona cagionata da un atto ingiusto e perciò risarcibile anche nelle sue conseguenze non reddituali (Cass. 7. 6. 2000 n. 7713). Anche il legislatore sta formulando disposizioni che valorizzano specifica- mente questa nuova dimensione del danno alla persona. Secondo l’art. 2 (modifiche al codice civile) della già ricordata proposta di legge presentata alla Camera il 30. 5. 2001 in tema di separazione dei coniugi e di affido con- diviso dei figli (C. 66), se le violazioni degli obblighi connessi al regime di affido costituiscono una grave lesione del diritto del minore, il giudice con lo stesso provvedimento idoneo a prevenire e rimediare alle violazioni predette condanna altresì il genitore a risarcire il minore del danno da questi subito a seguito della lesione di tale diritto. Il danno è liquidato in via equitativa.

8. LA FORMAZIONE SPECIALIZZATA DEI SOGGETTI PROCESSUALI

l giudice della famiglia e della persona dunque deve essere capace di rico- Inoscere i comportamenti che producono l’ingiusto sacrificio delle potenzia- lità psicofisiche, delle attività realizzatrice della persona, oltre che, eventual- mente, laddove essi abbiano avuto un rilievo penale, anche il turbamento della sfera interiore della vittima, e di valutare le lesioni dei diritti fondamen- tali della persona. Le conoscenze tecniche e scientifiche possono così favori- re l’elaborazione di una giurisprudenza più ricca sui diritti della persona per la soluzione dei conflitti che spesso oggi sono affrontati soprattutto sotto il profilo bioetico. La specializzazione del magistrato in materia di diritto di famiglia e delle persone dunque non riguarderà, come in passato, prevalentemente gli inter- venti assistenziali e di sostegno terapeutico. Questi infatti si svolgono di regola nel rispetto del principio del consenso informato ad opera dei servizi socio sanitari, cui sono attribuite anche rilevanti facoltà di iniziativa per la prevenzione del disagio e la protezione dei soggetti deboli, tra i quali in primo luogo quelli in età evolutiva. Tuttavia, se al giudice compete la scelta di una misura trattamentale per fina- lità di controllo sociale, come quelle previste nei confronti di soggetti devianti, ovvero di disegnare il regime giuridico delle responsabilità degli adulti nei confronti di un minorenne per la tutela dei diritti della personalità di quest’ultimo - e di vigilare sul rispetto della decisione adottata - è neces-

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sario che egli abbia una conoscenza non approssimativa dei processi educa- tivi, delle esigenze psicofisiche dei bambini e degli adolescenti per assicura- re la compatibilità della decisione con l’interesse superiore del fanciullo. Accanto a queste si impongono anche altre considerazioni. Il nuovo modello processuale ha rafforzato il ruolo di tutti i soggetti che a vario titolo agiscono nel processo compiendo in autonomia svariate scelte nell’ambito delle facoltà e dei poteri loro attribuiti dalla legge. Fino ad ieri la posizione del consulente era di ausiliare del giudice, e tale è la definizione che si legge ancora nel titoletto del capo III del libro I del c.p.c. rimasto immodificato dal 1940. Ma la nuova realtà è registrata dall’art. 228 c.p.p. che, a differenza della corrispondente disposizione del codice abroga- to, affida al perito la conduzione delle operazioni peritali per rispondere ai quesiti, e dunque fa su di lui ricadere la responsabilità della scelta di metodi adeguati al contesto giudiziario, del rispetto delle regole processuali e deon- tologiche per una corretta interazione con tutti i protagonisti ed i ruoli pre- senti nel processo. È perciò auspicabile che l’esperto chiamato ad operare nell’ambito giudiziario sia specializzato, e sia perciò tenuto a conoscere, (come già avviene per i medici) le regole ed principi giuridici fondamentali per adeguare il suo intervento alle finalità del processo. A questa dovrà corrispondere la preparazione specialistica dei giuristi, magi- strati ed avvocati, ciascuno nello svolgimento del proprio ruolo egualmente interessato alla corretta formulazione dei quesiti, alla valutazione critica dei metodi utilizzati dagli esperti e dei risultati conseguiti, per una decisione che senza smarrire l’essenza delle giurisdizione dia il peso dovuto all’interesse del bambino, se del caso desunto anche dalle opinioni informate da lui mani- festate. Accanto ai suddetti profili specifici, l’accresciuta influenza sulla giustizia dei saperi extra giuridici e delle professioni corrispondenti si esercita anche attraverso le attività svolte ai margini del processo, i cui risultati possono influenzarne la definizione. In materia di diritto di famiglia e delle persone, al di là degli interventi dei servizi socio sanitari, crescerà il peso della mediazione familiare, la cui uti- lizzazione è auspicata dalla ricordata Convenzione di Strasburgo al fine di prevenire e di risolvere i conflitti e di evitare procedimenti che coinvolgono minori dinanzi un’autorità giudiziaria. In conclusione l’interazione tra saperi e professioni diverse, l’utilizzazione da parte del giudice di clausole generali che rimandano a nozioni e conoscen- ze extra giuridiche aumenta il rischio di confusioni e deformazioni dei carat- teri del processo e delle funzioni della tutela giurisdizionale. L’aumento della complessità richiede dunque che la formazione specializza- ta del giudice acquisti un respiro nuovo, che ne arricchisca la professionalità a tutto campo per consentirgli di affrontare problemi che non possono più essere risolti attraverso la collaborazione settoriale di esperti cooptati nel col- legio. L’esigenza della specializzazione vale anche per le altre professioni presenti nel processo con ruoli giudiziari o tecnici, ed è già riconosciuta in alcune disposizioni legislative (artt. 5 e 15 D. Lgs. 272 del 1989), ed auspi- cata anche dalle associazioni professionali più lungimiranti. La formazione specializzata, soprattutto se arricchita di momenti di confron-

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to interdisciplinare, favorirà l’elaborazione di linee guida deontologiche comuni a tutte le professioni, anche non legali, che s’incontrano sulla scena processuale. (Calvi Gulotta 1999) I codici deontologici, concorrendo insieme alle disposizioni di legge a definire i contenuti ed i confini dei ruoli svolti assicureranno il cittadino dal rischio di ulteriori forme di vittimizzazione, di malpractise processuale (De Cataldo Neuburger 1997).

9. BIBLIOGRAFIA CALVI - GULOTTA, Il Codice deontologico dei magistrati, Giuffrè Milano, 1999. CERETTI, Come pensa il tribunale per i minorenni. Una ricerca sul giudicato penale a Milano dal 1934 al 1990, Franco Angeli, 1996. CIVININI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile. Le garanzie, in CIVININI - VERARDI, (a cura di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, Angeli 2001, p. 271 ss. DE CATALDO NEUBURGER, La responsabilità professionale dello psicologo, in MESTITZ (a cura di), La tutela del minore tra norme psicologia ed etica, Giuffrè 1997, p. 398 ss DOGLIOTTI, I giudici della famiglia, in BESSONE (a cura di), L’attività del giudice, Giappichelli 1997, p.121 ss. DOSI, Giustizia e servizio sociale: l’esigenza di un nuovo paradigma, in PINNA A. (a cura di), Minori Duemila - Luci ed ombre del sistema di protezione, Quaderni Tutela Minori n. 8 / 2000, 112 ss. FERRI, Progetto preliminare di codice penale italiano per i delitti. Relazione del Presidente Enrico Ferri approvata dalla Commissione, Vallardi, 1921. POPPER, La logica della scoperta scientifica, (1934) Einaudi 1970. PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it., 2000, V, 244. PUGLIATTI, voce “Conoscenza”, in Enc. del dir., IX, Giuffrè 1990, p. 45 ss. ROCCO, Relazione al Re del Ministro Guardasigilli, in Codice Penale e Codice di Procedura Penale, relazioni, indici e disposizioni di attuazione e ordinamento delle Corti d’Assise, Libreria dello Stato, Roma 1932 - X E.F., 9 ss. ROMEI PASETTI, La riforma del giudice unico nella circolare del C.S.M. sulle tabelle degli uffici giudiziari, in Documenti Giustizia, 4 / 2000, p. 684 ss. RORDORF, La professionalità dei magistrati: specializzazione ed avvicendamento, in Foro it. 2000, V, p. 269 ss. SERGIO, Trattamenti coatti per l’accertamento di abusi e maltrattamenti dei bambini, in Questione Giustizia n° 5, 1999, 923 ss. SERGIO, I diritti umani e la giustizia: i saperi extra giuridici nel processo, in FORZA, MICHIELIN, SERGIO, (a cura di) Difendere, valutare e giudicare il minore, Giuffrè 2001, p. 23 ss. SERGIO, La giustizia minorile. Funzioni, competenze, struttura. Prospettive di riforme. In Trattato di diritto di famiglia diretto da Paolo Zatti, Vol. VI a cura di L. LENTI, Giuffrè 2002, p. 3 ss. VINCENZI AMATO, Il 2° comma dell’art. 32, in BRANCA (a cura di) Commentario della Costituzione, Zanichelli 1976, p. 175. ZATTI, Rapporto educativo e potere d’intervento del giudice, in DE CRISTOFARO - BELVEDERE (a cura di), Giuffrè 1980, p. 185 ss.

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SOMMARIO PREMESSA Premessa 1. I risultati della ricerca al punto di vista psicologico l’affidamento pone al minore il 2. Il minore tra due famiglie compito- così difficile da essere definito quasi “impossibile” 3. Due casi esemplificativi: (Pagnoni, 1995)- di collocarsi in equilibrio tra due realtà da cui 3.1 Dora (7 anni) D riceve nello stesso momento, almeno in apparenza, una richiesta rela- 3.2 Pietro (8 anni) 4. Conclusioni zionale molto simile. Il minore è chiamato perciò a cercare una solu- Bibliografia zione al conflitto di lealtà (Boszormenyi-Nagy, Spark, 1973; Karpel, Strauss, 1983; Greco, Iafrate, 1993) originato dalla duplice richiesta di appartenenza che gli proviene, a diverso titolo, da famiglia naturale e famiglia affidataria (1). Queste riflessioni partono dunque dalla premessa teorica che entrambi i poli familiari sono presenti nel mondo psicologico del bambino e degli adulti. Da parte del minore, la ricerca di que- sto difficile equilibrio o al contrario l’invischiamento in una posizione di stallo o ancora l’essere tenuto in scac- co da un conflitto di lealtà che gli L’ AFFIDAMENTO FAMILIARE appare irresolubile, sono dinamiche complesse e quasi sempre implicite, SECONDO LA L.149/01. che difficilmente emergono nel regi- stro manifesto della parola. ESSERE “GENITORI” ED È quindi indispensabile per gli opera- tori individuare indicatori significativi ESSERE “FIGLI” di tali processi. Obiettivo del mio intervento è quello di approfondire la posizione del mino- NELL’AFFIDAMENTO re rispetto all’affidamento familiare, * scegliendo quale punto di osservazio- FAMILIARE ne un indicatore specifico: la rappre- sentazione che minori, affidatari e famiglie naturali hanno dei confini familiari e delle loro reciproche posi- DR.SSA zioni relazionali. La rappresentazione di dove il minore si colloca o viene ONDINA collocato permette di sondare a quale titolo costituiscano “famiglia” per il GRECO bambino e per gli adulti coinvolti sia la famiglia affidataria sia la famiglia naturale, in quanto la presenza simultanea di due riferimenti crea, come PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA CENTRO STUDI E RICERCHE abbiamo visto, sia per gli adulti che per il minore una situazione paradossale SULLA FAMIGLIA, che richiede di essere “compresa” ed elaborata (2). UNIVERSITÀ CATTOLICA La ricerca qualitativa cui faccio riferimento ha coinvolto 27 nuclei affidatari DI MILANO (coppia di affidatari e minore in affido). In 10 casi è stato possibile intervi- stare, in sede separata, anche la famiglia naturale del minore. Nella ricerca sono stati utilizzati due strumenti: una intervista semistruttura- ta sulla situazione dell’affido (3) condotta separatamente con la coppia di

* Questa relazione, con il diverso titolo “Affido familiare: il minore tra due famiglie” è stata presentata dall’Autrice al Convegno 1° Internazionale sull’Affido Familiare tenutosi a Palermo il 03 ottobre 2002 e verrà pubblicata anche con gli atti di quel convegno.

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affidatari e con il minore, e il test grafico-proiettivo de “La doppia luna” (4) (Greco, 1999). In 10 casi, gli stessi strumenti sono stati applicati, in sede separata, alla famiglia naturale.

1. I RISULTATI DELLA RICERCA Fig. 1

innanzitutto interessante osservare come si ponga Èil minore in affido “tra” le due famiglie. La posizione del bambino in affido può variare dalle soluzioni più integrative (vedi figure 1-2-3) dove si evidenzia il tentativo del minore di trovare posto e al legame con la famiglia naturale e a quello con la famiglia affidataria; a quella invece dove il minore si Fig. 2 schiera a favore di una delle due famiglie (vedi figu- ra 4); a quelle, infine, che denunciano una profonda solitudine, legata all’impossibilità di rappresentarsi qualsiasi appartenenza familiare (vedi figure 5-6). È anche significativo osservare la variazione tra il disegno che il minore ha prodotto individualmente e quello che ha prodotto, pochi minuti dopo, congiun- tamente agli affidatari. La presenza o l’assenza di “distorsione” tra le due produzioni, unita alla rileva- Fig. 3 zione del clima emotivo-relazionale nell’incontro congiunto, è un altro prezioso indicatore della capa- cità attuale di integrazione da parte del minore.

2. IL MINORE TRA DUE FAMIGLIE

n secondo luogo, è interessante sottolineare che c’è Iuna relazione tra la posizione integrativa o non integrativa del minore e la reciproca posizione delle Fig. 4 due famiglie, affidataria e naturale, sempre vista attraverso la lente della rappresentazione dei confini familiari. Fig. 5 Prima di tutto, si osserva che la posizione delle due famiglie è speculare. In alcuni casi la famiglia affida- taria si mostra solidale con la famiglia naturale segnandola spontaneamente nel disegno e parlandone in termini realistici ma positivi. In questa situazione, l’accettazione della famiglia naturale non sembra avvenire in chiave idealizzata (perché ne vengono evidenziate anche le carenze) ma riguarda il percorso evolutivo anche parziale che i genitori naturali hanno messo in atto. In questi casi, la famiglia naturale, spe- cularmente, segna spontaneamente nel suo disegno la famiglia affidataria e ne parla con stima e affetto. In altri casi, invece, la famiglia affidataria si mostra Fig. 6

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chiaramente ostile alla famiglia naturale. L’intervista è percorsa da espressioni svalutanti ed emarginanti nei confronti dei genitori naturali del bambino in affido. Nel disegno, la famiglia naturale non viene segnata spontaneamente dagli affidatari e, in alcuni casi, durante l’esecuzione del disegno congiunto si cera un clima così saturo di negatività e di ansia, che il ricercatore decide di non fare riferimento esplicito alla fami- glia naturale del minore. Specularmente, la famiglia naturale risponde in termini di diffidenza e di lon- tananza ostile, e a propria volta non segna spontaneamente la famiglia affi- dataria nel proprio disegno. Si sono registrate anche situazioni intermedie, per esempio una in cui gli affi- datari si pongono in modo ambivalente rispetto alla madre naturale - la moglie con un atteggiamento più comprensivo e il marito con un atteggia- mento decisamente ostile. La madre naturale, cogliendo però l’ambivalenza degli affidatari, dichiara di sentirsi emarginata. Un’altra situazione interme- dia riguarda una famiglia affidataria aperta alla famiglia naturale del bambi- no, a cui si oppone una madre naturale ancora abbastanza ostile. È importante sottolineare a questo proposito che, essendo differenti le posi- zioni di potere, la chiave di volta del rapporto tra le due famiglie sembra in mano agli affidatari. Il fattore cruciale per la relazione tra le due famiglie, ma anche per il benessere del bambino (Greco, Iafrate, 2001), è che la famiglia affidataria conservi un atteggiamento accogliente anche di fronte all’ostilità iniziale della famiglia naturale. Infatti le situazioni in cui si rileva una buona relazione tra famiglia affidataria e famiglia naturale costituiscono solitamen- te l’esito di un percorso, che da una fase di reciproca diffidenza ha portato ad un atteggiamento collaborativo prima la famiglia affidataria, in un secondo tempo anche la famiglia naturale. Tornando al minore, si può concludere che il percorso che egli deve compie- re alla ricerca di un equilibrio relazionale e delle proprie modalità di integra- zione delle due realtà in cui si trova a vivere, risulta enormemente facilitato se le due famiglie si pongono in un atteggiamento collaborativo e non com- petitivo (al di là della possibilità concreta di frequentazione). L’ostilità e la competizione tra le due famiglie trasmettono infatti al minore il segnale minaccioso che non è possibile integrare le due realtà relazionali, troppo distanti e ostili tra loro.

3. DUE CASI ESEMPLIFICATIVI: DORA (7 ANNI) E PIETRO (8 ANNI)

3.1 DORA

l padre naturale di Dora (la madre naturale è in un ricovero per lungo Idegenti), dopo un primo momento di disorientamento all’inizio dell’affido della figlia, si è sinceramente affezionato agli affidatari, al punto di sostene- re “in un certo senso (la famiglia affidataria) è affidataria anche mia…(Dora) ha due figure una mamma, tre figure grandi, una mamma e due papà”. Dal canto loro, gli affidatari riconoscono che il padre naturale di Dora “è molto intelligente,…molto bravo” e confessano di essersi affezionati “più al

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padre che alla figlia, all’inizio”. In questo clima, non ci stupiamo di vedere Dora disegnare (sia individual- mente che nel disegno congiunto) se stessa dentro un’unica grande famiglia che comprende famiglia naturale e famiglia affidataria.

3.2 PIETRO

a madre di Pietro, pur esprimendo riconoscenza per la famiglia affidataria L(“ci stanno aiutando moltissimo, sia me che mio figlio”), tradisce una certa distanza dagli affidatari, che non vengono collocati spontaneamente nel dise- gno. Dal canto suo, la famiglia affidataria esprime ambivalenza e volontà di distanziamento nei confronti della madre naturale, che nel disegno non viene collocata spontaneamente, ma indicata solo verbalmente su richiesta del ricercatore. “Si potrebbero mettere i genitori naturali, ma distanti” dice il padre affidata- rio senza segnarli. È come se per la madre naturale (unica presente di fatto) ci fosse solo uno spazio nominale, ma non concreto nel mondo degli affida- tari. In questo quadro, Pietro si pone nella famiglia naturale senza segnare alcun legame con gli affidatari. Quando il minore ripete lo stesso disegno di fronte agli affidatari, il clima si fa così teso e ostile, che il ricercatore decide di omettere la domanda relativa alla famiglia naturale, che gli affidatari non hanno segnato.

4. CONCLUSIONI

a temporaneità del provvedimento di affidamento assimila il minore alla Lfigura di “ospite”, che ha origine e destinazione altra rispetto alla famiglia affidataria. Infatti, il minore in affido tende a sviluppare il nuovo legame con la famiglia affidataria senza rinunciare al legame originario con la propria famiglia natu- rale. La presenza di questo duplice legame e -quando il bambino si permette di far crescere i nuovi rapporti- la percezione di una doppia appartenenza familia- re, pongono inevitabilmente il minore in una “posizione di confine” rispetto ad entrambi i poli familiari. Infatti, per il legame che conserva con la propria famiglia naturale, il bambi- no in affido non può assumere una posizione troppo interna, al centro della famiglia affidataria, perché il precedente legame lo “attrae” verso l’esterno. Viceversa, la distanza nei fatti dalla famiglia naturale e il legame che via via costituisce con gli affidatari fanno specularmente migrare il bambino “pres- so il confine” anche rispetto al proprio nucleo d’origine. Sta all’impegno generativo di affidatari, genitori naturali e operatori impedi- re che la “posizione di confine” del bambino sia luogo di emigrazione e di esilio, ma divenga invece “margine” (Cigoli, 1987) di nuove possibilità, opportunità di servirsi di risorse “al di qua” e “al di là” del confine, godendo di un rapporto solidale tra le famiglie e sperimentando nuove possibilità di

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crescita. Questo è possibile, da un lato, se i genitori naturali “lasciano andare” il figlio verso i nuovi rapporti, accettandone la nuova esperienza relazionale, senza imporgli una logica aut-aut che lo farebbe soffrire acutamente e gli rendereb- be difficile se non addirittura impossibile godere del nuovo spazio di relazio- ne; dall’altro, se gli affidatari accettano di vivere una delle valenze genitoria- li -quelle dell’accudimento fisico ed affettivo- senza pretendere di avocare a sé anche la dimensione di appartenenza storico-simbolica, che per il minore rimane legata alla propria famiglia d’origine come, ovviamente, la dimensio- ne di appartenenza biologica. Durante l’affidamento, infatti, è come se le diverse funzioni genitoriali, solitamente intrecciate e svolte sinergicamente dagli stessi soggetti, si disgregassero e fossero saturate da differenti figure genitoriali. L’operazione può avere esito positivo solo se queste diverse figure si vivono come complementari, senza pretendere di essere o di diventare figure esclu- sive o sostitutive. L’atteggiamento, se non solidaristico, almeno non ostile nei confronti dei genitori naturali è importante non tanto e non solo per salvare le loro figure agli occhi dei ragazzi, ma soprattutto perché consente ad essi l’accesso alla propria stirpe. Rispettare la famiglia d’origine significa aiutare i ragazzi a mantenere l’accesso alla storia delle generazioni passate, comprendendone le difficoltà, ma lasciandosi un margine per scoprirne anche qualche risorsa, al di là della difficile situazione attuale, riuscendo così a salvare simbolicamen- te il proprio patrimonio genealogico. L’affido, quando è un’avventura positiva, rivitalizza, come lo stesso termine suggerisce, la fiducia nel minore e nella sua famiglia d’origine. La fiducia di base (Erikson, 1963) è la risorsa fondamentale che permette di attraversare le situazioni difficili e le contingenze avverse, rimanendo in attesa di un futuro più positivo (Winnicott, 1971; Boszormenyi Nagy e Spark, 1973; Boszormenyi Nagy e Krasner, 1986). Tale fiducia si nutre però anche della possibilità di rintracciare del positivo nel proprio passato familiare, lungo la storia delle generazioni. Far parte di una storia che ha del buono può aiutare anche i figli in affido a superare il problema di avere nel presente una situazione familiare precaria o inadegua- ta.

NOTE 1 Sono frequenti situazioni ancora più complesse: è il caso di un figlio di genitori separati che va in affidamento presso terzi. In queste circostanze, l’equilibrio va trovato dal minore entro un sistema che comprende almeno tre realtà familiari, per non allargare lo sguardo alla famiglia estesa che a volte si schiera a favore, a volte contro uno o entrambi i genitori del bambino. 2 Tale ricerca qualitativa appartiene al complesso disegno di ricerca pubblicato nel volume O. Greco, R. Iafrate (2001) 3 I temi toccati nell’intervista sia con il bambino che con gli affidatari sono le condizioni dell’affido (inizio, durata, progetto, visite dei genitori naturali),

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la percezione del benessere attuale e, per i genitori affidatari, la rappresentazione della famiglia naturale e del suo legame con il minore in affido. Specularmente, per la famiglia naturale i temi affrontati sono la rappresentazione dell’affido, la percezione del benessere del bambino e il suo rapporto con gli affidatari. 4 “La doppia luna” è uno strumento grafico-proiettivo utile nei casi in cui una persona ha legami di appartenenza contemporaneamente con due o più contesti familiari. La situazione di doppia o plurima appartenenza familiare è, come si è visto, clinicamente rilevante perché è potenzialmente all’origine di un “conflitto di lealtà”. Lo strumento si basa sull’ipotesi che entrambi i poli di appartenenza (nel caso dell’affido la famiglia naturale e la famiglia affidataria) siano presenti nel campo psicologico del minore e degli adulti coinvolti con lui. Il test propone un campo rettangolare circondato da uno spazio esterno. Il rettangolo rappresenta il “mondo” psicologico e si chiede al soggetto di segnare mediante un simbolo, dove ritiene opportuno, se stesso e le persone significative. In un secondo momento si chiede al soggetto di disegnare un cerchio intorno alle persone che secondo lui fanno parte della stessa famiglia, utilizzando uno o più cerchi, quanti ne servono. In questo modo si chiede alle persone di esplicitare nel disegno la propria rappresentazione dei “confini familiari”. Successivamente, nel caso non venga segnato uno dei due poli di appartenenza, viene chiesto dove esso potrebbe trovare posto, ed infine, si chiede se nello spazio del desiderio (la bacchetta magica) si vorrebbe modificare il disegno e in che senso (O. Greco, 1999).

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l mio intervento è suddiviso in due blocchi, dopo la solita consueta pre- messa che fa parte della tradizione: un primo blocco che riguarda gli Iaspetti sostanziali della legge 149 ed un secondo blocco invece più sugli aspetti processuali. Prima di tutto però una sottolineatura: io stamattina parlerò male di Garibaldi, in altre parole criticherò questa legge 149, che è stata invece pre- sentata come un dato positivo, come un successo, come un’altra delle tante nostre magnifiche leggi che poi, molto spesso, rimangono inattuate, e quindi non sono affatto magnifiche perché la capacità di una legge si misura anche, se non soprattutto, dalla sua possibilità di essere realmente applicata. Perché desidero parlare male di Garibaldi? Perché questa legge 149, che ha malamente sconvolto un sistema che poteva per certi aspetti essere criticabi- le e magari bisognoso di miglioramenti (ma organici e non così raffazzona- ti), è una legge che è nata da un com- promesso politico, dopo una gestazio- ne molto lunga che, addirittura, per certi aspetti lasciava prevedere un insabbiamento. L’ ADOZIONE SECONDO Sapete tutti che nella precedente legis- latura erano stati presentati molti pro- LA L. 149/01. getti di legge dalle varie forze politi- che che miravano a modificare la vec- ASPETTI SOSTANZIALI E chia legge 184 del 1983. Perché questo bisogno di modifica? PROCEDURALI CON Per un fatto molto semplice: il costu- me era andato modificandosi, i model- li familiari si erano evoluti, o comun- PARTICOLARE RIFERIMENTO que modificati, e la disciplina norma- tiva del 1983 non era più vissuta e sen- ALLE NOVITÀ INTRODOTTE tita come del tutto attuale alla fine * degli anni ‘90. DALLA RIFORMA La materia del diritto di famiglia sof- fre di questa caratteristica: a volte anticipa il costume, a volte invece ne è anticipata. DOTT. Ha anticipato chiaramente il costume la vecchia legge sull’adozione speciale LUIGI del 1967. Altre leggi, invece, sono state poi anticipate dal costume, come FADIGA sicuramente è avvenuto ad un certo punto per la legge n.184 del 1983 che non rispondeva più a certe forme. PRESIDENTE DELLA A quali in particolare? I mutamenti dei modelli familiari e la famiglia uniper- SEZIONE FAMIGLIA DELLA sonale, la famiglia cioè del genitore singolo con il figlio. CORTE D’APPELLO DI ROMA La legge del 1983 non contemplava questo, anzi era tutta costruita sulla fami- glia bigenitoriale, sulla famiglia con la coppia dei genitori e prevedeva l’ado- zione nei soli limiti della famiglia coniugale poichè questa era ed è ancora in base alla Costituzione la famiglia coniugale. In regime ormai di diffusa famiglia di fatto, di famiglia ricostituita, di fami- glia unipersonale sono emerse queste istanze per modificare la legge 184 del 1983. * Correzione redazionale

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Un altro filone in base al quale si spingeva per la modifica era quello dell’e- tà. Modifiche di carattere sociale, modifiche di carattere economico-cultura- le avevano fatto sì che la nascita del primo figlio si spostasse in avanti, di conseguenza il desiderio di adottare ugualmente si verifica più avanti ed ecco allora una forte spinta per fare innalzare la differenza di età tra gli adottanti e l’adottando per rendere possibile l’adozione anche a quelle fasce di aspi- ranti genitori adottivi che non rientravano nel limite dei quaranta anni di dif- ferenza. Su queste due spinte molte delle forze politiche, sia della maggioranza che dell’opposizione di allora, avevano presentato e preparato dei progetti di legge che non andavano avanti. Ad un certo punto ci fu un’unificazione di questi progetti, relatore Callegaro, che si impegnò profondamente nel portare avanti il testo unificato, cercando di raggiungere una modifica della 184 su questi punti fondamentali, dell’età e del matrimonio. Il progetto di legge unificato vivacchiava. C’erano moltissimi emendamenti, alcune centinaia, tanto che sembrava destinato ad essere insabbiato e a morire ma una forte accelerazione in prossimità delle elezioni politiche determinò ad un certo punto, in maniera quasi improvvisa, l’approvazione del testo che abbiamo attualmente. La scansione delle date di approvazione, promulgazione, pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è abbastanza interessante: il 1° marzo finalmente la legge viene approvata, solamente il 28 marzo verrà firmata dal Capo dello Stato, il 26 aprile comparirà sulla Gazzetta Ufficiale. Un tempo quindi di quasi due mesi tra l’approvazione del Parlamento e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, che è un lasso di tempo che costitui- sce in un certo senso una novità ed anche un indice di quello che stava acca- dendo nel frattempo. Che cosa stava accadendo infatti? Ci si era accorti che alcune di quelle modi- fiche - in particolare quella relativa all’obbligo dell’assistenza legale dei genitori e del minore sia nelle procedure di adottabilità fin dall’inizio, sia nelle procedure di limitazione e di decadenza dalla potestà - avrebbero com- portato un onere di spesa assolutamente imprevisto, ed assolutamente diffici- le da giustificare, tanto che la legge sarebbe stata priva di copertura di spesa. Ed allora si è assistito ad un fenomeno stranissimo: che la legge è stata pub- blicata sulla Gazzetta Ufficiale del 26 aprile portando il numero 149 del 2001. Nella stessa Gazzetta Ufficiale viene pubblicato anche un decreto legge, che porta il numero 150, e quindi immediatamente successivo, con il quale viene sospesa l’entrata in vigore di un intero blocco di disposizioni, quelle di carattere processuale, e la legge quindi “nasce” su quell’aspetto solamente in parte. La ragione l’ho appena detta: si riteneva che mancasse la copertura finanzia- ria per sostenere l’onere di spesa. Ma perché la legge viene approvata, perché si sblocca quella situazione di stallo che per diverso tempo aveva fatto sì che il progetto unificato del rela- tore Callegaro non andasse avanti? Come ho accennato all’inizio, si sblocca per un compromesso politico, rea-

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lizzato nell’imminenza delle elezioni politiche del 2001. Quale compromes- so? Coloro che osteggiavano il progetto Callegaro e la sua entrata in vigore - in particolare le associazioni dei genitori adottivi che ritenevano assoluta- mente sbagliato togliere il limite di età o comunque allargarlo così tanto - riescono ad ottenere che nel progetto di legge venga inserita una parte relati- va all’affidamento familiare, una parte quindi con connotazioni fortemente preventive, con connotazioni di sostegno alla famiglia di origine, con previ- sione di momenti di formazione del personale e così via, con una coloritura più ampia del momento puramente giuridico e che prevede interventi di carattere sociale, di aiuto alle famiglie, considerati, giustamente, importanti e positivi. D’altra parte, l’altro filone - quello che riteneva positivo allargare tutto l’a- spetto della politica adozionale per realizzare adozioni più semplici - trova conveniente accettare questa introduzione dell’aspetto sociale della nuova legge e di conseguenza si sblocca il problema politico e la legge viene appro- vata. Questi tre filoni che fondamentalmente la legge individua - quello garantista, teso a limitare il potere del giudice minorile ed a rendere più garantito il processo, quello di carattere liberista, teso a rendere le adozioni più facilmente accessibili, e quello di carattere sociale - vengono attaccati insieme, legati là dove non coincidevano bene, e da ciò viene fuori questa legge contenente tre filoni distinti, non amalgamati tra loro e talvolta addirit- tura in contrasto. Perché in contrasto? È evidente! Se si vogliono fare adozioni più semplici, diciamo la verità adozioni più numerose, adozioni più facili, occorre che ci siano molti bambini adottabili e molti bambini adottabili ci sono se non si fanno politiche di prevenzione dell’abbandono, se non si introducono rigide norme processuali. La contraddizione è evidente ma non era una contraddizione ignorata dal legislatore perché alla domanda sottostante: “Ma allora dove li andate a pren- dere questi bambini?” la risposta, sia pur inconfessata, era: “Li andiamo a prendere nei paesi poveri che tanto là ce ne sono tanti e nessuno protesta”. Così l’adozione internazionale va su, l’adozione nazionale è destinata a restringersi sempre di più e - questa è la mia modestissima opinione - questa è la prospettiva nella quale ci troviamo attualmente. L’adozione nazionale sarà sempre minore. L’adozione internazionale sarà sempre più larga. L’adozione nazionale sarà sempre più garantita e garanti- sta. L’adozione internazionale sarà sempre più facilitata e, diciamo pure, fatta senza troppo andare per il sottile sui principi che tuttavia sono legge, quale quello sulla sussidiarietà introdotto dalla Convenzione dell’Aja che è legge anche per l’Italia. Questo è il quadro in sostanza in cui ci troviamo ad opera- re. È un quadro dove gli equilibri della vecchia legge del 1983, buoni o cat- tivi che fossero, belli o brutti che apparissero, sono stati decisivamente scon- volti e adesso la situazione non è più quella organica che è stata a partire dagli anni 1967 in avanti. Perché cito il ‘67? Perché fu proprio la cd. legge dal Canton che innovò radi- calmente nella politica legislativa dell’adozione in Italia e quella impostazio- ne ha tenuto dal 1967 fino al 2001 quando la 149 l’ha completamente terre- motata.

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Detto questo vediamo un po’ più da vicino i principali cambiamenti, con la premessa che considero conosciuta la legge 184 del 1983 e che mi concentro di più sulle modifiche che la 149 ha portato a quella. Quali sono i principali cambiamenti visiti più da vicino? Intanto accantonerei il filone di prevenzione ed il filone con connotazioni socio-assistenziali perché è un filone che riguarda più un aspetto meta-giuri- dico e stamani concentrerei invece l’attenzione sugli altri due filoni: quelle delle adozioni più semplici e quello delle adozioni più garantite. Per quanto riguarda gli aspetti sostanziali ci sono tre grosse innovazioni che vanno sottolineate: una relativa alla famiglia coniugale ed alla famiglia di fatto, una relativa all’età, una relativa al diritto di accesso. Vorrei esaminare partitamente queste tre innovazioni, cercando poi alla fine di riassumerne le linee portanti. Vediamo anzitutto la questione del matrimonio. Nel 1967 la vecchia legge sull’adozione speciale prevedeva che potessero chiedere di adottare solamente coniugi uniti in matrimonio da almeno cinque anni. Era una legge ottimista perché anticipava al quinto anno la famosa crisi del settimo anno, tuttavia richiedeva un periodo abbastanza consistente. Il legislatore del 1983 ha considerato questo periodo troppo lungo ed ha ridot- to la durata del matrimonio necessaria per poter adottare a tre anni. Naturalmente questa durata si calcolava dal giorno del matrimonio. Un matri- monio che doveva essere stato celebrato almeno tre anni prima dalla data della domanda di adozione, secondo alcuni, o comunque dalla data di affida- mento pre-adottivo, secondo altri. La 149 cerca di aprire un po’ alla famiglia di fatto. In che modo? Recependo un’indicazione già venuta dalla Corte Costituzionale, alla quale più volte era stato sottoposto il quesito della costituzionalità o meno della non valenza di periodi di convivenza pre-matrimoniale, ossia recependo questo aspetto per cui non sono più tre anni dalla data del matrimonio ma sono tre anni che pos- sono comprendere anche un periodo anteriore al matrimonio. Così stabilisce il nuovo testo dell’articolo 6 il quale testualmente afferma: “(1)L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazio- ne personale neppure di fatto. (4)Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convis- suto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso con- creto”. Questo quarto comma del nuovo testo dell’articolo 6 ha prodotto polemiche piuttosto vivaci perché si è detto che in sostanza il requisito del matrimonio veniva a cadere. In realtà non è vero. Il discorso di fondo è quello che sono idonei a diventare genitori adottivi coloro che hanno già sperimentato e dato prova di una stabilità di vita di cop- pia. Questa stabilità di vita di coppia può essere desunta non solo matemati- camente ed aritmeticamente dai tre anni dalla data del matrimonio ma anche da un periodo precedente a condizione che sia stata una convivenza stabile e continuativa. L’inciso “per un periodo di tre anni” che si trova nel comma

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quarto non deve essere riferito alla convivenza anteriore ma al computo glo- bale che vede la somma del periodo di convivenza e del periodo di matrimo- nio. In altre parole un anno di convivenza più due anni di matrimonio, o un anno e mezzo più un anno e mezzo, o come preferite voi, ma in sostanza que- sto è quello che ha voluto dire il legislatore, né poteva dire di più. Quando deve essere maturato questo requisito? Voi sapete che molte coppie, pur di accelerare i tempi, presentano domanda prima ancora di essere in possesso di tutti i requisiti, certamente quello della durata del matrimonio. Teoricamente potrebbe anche verificarsi il caso di una coppia che presenta domanda prima ancora di avere maturato l’età utile ma è un esempio di scuola, che non vale la pena assolutamente di essere preso in esame. Le prassi dei tribunali possono variare ma, comunque sia. debbono rispettare la norma di legge e credo che si possa sostenere che il requisito dei tre anni di stabile vita di coppia sia indispensabile quanto meno al momento in cui si verifica l’affidamento del minore, affidamento non soltanto pre-adottivo ma anche affidamento a rischio giuridico. Certamente è da escludere che possa essere disposto un affidamento pre- adottivo alla coppia che non ha ancora i tre anni di stabile convivenza ma ritengo che sia fondata anche la tesi secondo la quale non può essere dispo- sto un affidamento a rischio giuridico, quindi un affidamento non pre adotti- vo ma in vista di affidamento pre-adottivo, alla coppia che non ha il requisi- to. Perché questo? Perché si tratta di un requisito stabilito nell’interesse del minore che ha diritto di trovarsi in una situazione familiare ormai stabilizza- ta e questo diritto c’è ab origine e non soltanto nella fase finale della proce- dura di adozione. Quindi: no alla coppia che non ha ancora i tre anni e chiede l’affidamento pre-adottivo, no anche all’affidamento a rischio giuridico. Direi che l’accettazione della domanda prima del compimento dei tre anni, la domanda di adozione in generale, è una questione che può essere risolta a seconda delle varie prassi, perché se si sottolinea l’aspetto di dichiarazione di disponibilità della domanda, non è una cosa molto fuori dalla logica dire “intanto potete presentarla e intanto avviamo la procedura”. C’è anche da dire però che questo rischierebbe di intasare il lavoro dei tribunali con situa- zioni che non hanno titolo in quel momento per cui personalmente ritengo più corretto dire che se non c’è il requisito dei tre anni non si può nemmeno pre- sentare la domanda. Sarebbe, infatti, una domanda a futura memoria che metterebbe in moto un meccanismo fra l’altro costoso per la comunità, ed anche oneroso per il siste- ma giudiziario ed il sistema dei servizi, e quindi mi pare che sia corretto dire “fintanto che non c’è quel requisito la domanda non può essere nemmeno presentata”. Questo per quanto riguarda il requisito del matrimonio. C’è da dire che il discorso dell’adozione da parte del singolo ne esce sconfit- to nel senso che la 149 non ha ritenuto di poter allargare fino a quel punto le maglie. Ne esce sconfitto ma entra però dalla finestra attraverso la 476 del ‘98 e cioè la legge che ratifica la Convenzione dell’Aja e che modifica la 184 nella parte relativa all’adozione internazionale.

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Infatti, se noi prendiamo un comma di un articolo di quella legge, e precisa- mente il comma 4 dell’articolo 36 (è la numerazione attuale della 184 modi- ficata), leggiamo questo: “L’adozione pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero ad istanza di cittadini italiani” (notate non di coniugi) “che dimostrino al momento della pronuncia di avere soggiornato continua- tivamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del tribunale per i minorenni, purché conforme ai principi della Convenzione”. Ora la Convenzione dell’Aja sull’adozione internazionale lascia liberi gli Stati di scegliere tra l’adozione da parte della coppia coniugale e quella da parte del singolo. I principi della Convenzione dell’Aja non comprendono tra loro l’obbligo della famiglia coniugale e quindi, se sono rispettati gli altri principi della Convenzione dell’Aia (il principio della sussidiarietà, il princi- pio della libertà del consenso all’adozione quando il consenso è richiesto e così via), quell’adozione, pronunciata dal giudice straniero anche nei con- fronti della persona singola, è riconosciuta ad ogni effetto in Italia. Ecco allo- ra che per quella via è possibile al giorno d’oggi in Italia un’adozione legit- timante da parte del singolo alle condizioni, o comunque soltanto nei casi di cui all’articolo 36 comma quarto. Ricordo quali sono questi casi: l’aver soggiornato continuativamente da almeno due anni nel paese straniero. Perché questa eccezione? È stata prevista una tale eccezione tenendo presenti due situazioni di fatto importanti, quella del personale diplomatico e consolare e quella degli emi- grati. Nel primo caso può, infatti, facilmente verificarsi che, durante lunghi sog- giorni all’estero, venga adottato un bambino secondo la legge del paese ospi- tante e una tale adozione, senza la previsione in esame, non verrebbe ricono- sciuta in Italia ed il genitore adottivo secondo la legge straniera non potreb- be portare in Italia suo figlio. A seguito di una forte pressione del Ministero degli Affari Esteri, durante la preparazione del progetto della 476, si introdusse dunque questa norma che veniva peraltro incontro anche ai desideri di un’altra fascia di popolazione di cittadini italiani, ben più numerosa del personale diplomatico e consolare, e cioè la fascia degli emigrati. È esperienza abbastanza comune di tutti gli operatori giuridici minorili la domanda di “delibazione” o di riconoscimento dell’efficacia di un’adozione straniera da parte di coppia italiana che da venti anni si trova in Brasile o in Belgio ed in questi casi sarebbe stato molto, molto negativo dover respinge- re quella domanda come accadeva in passato. Un caso abbastanza celebre in materia, lo dico perché è stato pubblicato anche sui giornali, è stato quello di Isabella Rossellini, cittadina italiana da molti anni abitante negli Stati Uniti d’America, che da persona sola aveva adottato con la legge di non so quale stato degli Stati Uniti d’America un ragazzino ed aveva presentato domanda al tribunale per i minorenni di Roma. Quella domanda fu respinta a suo tempo dicendo che non era possibile ma che, se fosse entrato in vigore il progetto di legge, sarebbe stata possibile in base all’articolo 36. Entrava in vigore la legge, infatti, quell’adozione è stata dichiarata efficace

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in Italia come l’adozione legittimante. Questo per quanto riguarda il matri- monio e l’adozione da parte dei singoli. Non ho detto però tutto sull’adozione da parte della famiglia di fatto. Si preme molto su questo punto adesso a livello di mass media, di opinione pub- blica, ma noi siamo vincolati anche, per esempio, dalla convenzione di Strasburgo del 1967, la vecchia convenzione dell’adozione, la quale ci dice che un’adozione da parte di due persone non può essere fatta se non quando queste due persone sono coniugate. È una norma che non viene citata quan- do si invoca l’estensione dell’adozione alla famiglia di fatto, ma è una norma che la impedirebbe ed allora o si denuncia quella convenzione, cosa sempre possibile e lecita anche perché è una convenzione che ormai ha fatto il suo tempo, è di trentacinque anni fa, oppure la si violerebbe. Certamente nella situazione attuale italiana in cui la famiglia di fatto è fami- glia di puro fatto personalmente ritengo che sarebbe pericoloso aprire anche a quel caso. Il giorno in cui la famiglia italiana, di fatto, non fosse famiglia di puro fatto ma di fatto-diritto (penso al Pacs francese, penso a certe forme di registrazione della convenienza) allora sarebbe facilitato, a mio parere, dal punto di vista giuridico l’allargamento anche a quei casi. Direi che per quanto riguarda il requisito del matrimonio non vale più la pena di soffermarcisi sopra. Veniamo al requisito dell’età. In materia di età è successo il finimondo. Se ne sono dette di tutti i colori, se ne sono fatte di cotte e di crude. Perché questo? Perché accade molto spesso che certi rapporti interpersonali tra l’aspirante genitore ed il bambino si creino al di fuori di situazioni giuri- diche precostituite e questo non sempre per malafede, anche per situazioni di vita, la vita di tutti i giorni, che presenta una quantità infinita di casi non sem- pre riconducibili allo schema giuridico. In questi casi nasce un legame affet- tivo tra un adulto, o fra una coppia di adulti, ed un bambino (e lasciamo per- dere come nasce per un momento), si consolida, se ne chiede il riconoscimen- to giuridico, ma si va a sbattere contro il limite della differenza di età che la legge del 1983, per un rigore probabilmente eccessivo, aveva ridotto a 40 anni dai 45 anni, forse più saggiamente previsti dalla legge del 1967. Incidentalmente bisogna chiedersi perché lo aveva fatto? Sembra, dico sem- bra, perché non sono ben documentato al riguardo ma l’ho letto diverse volte qua e là, sembra che i demografi avessero dimostrato che la possibilità stati- stica di rimanere orfani di un genitore aumentasse dopo il compimento dei quaranta anni. In altre parole: chi aveva un papà o una mamma di 41 anni aveva molte più probabilità di rimanere orfano di chi li aveva di 40. C’era proprio il picco statistico che faceva così ed allora il Parlamento del 1983, che aveva in materia di adozione un’idea abbastanza omogenea con quella del ‘67, ridusse la differenza. Che cosa è successo nel frattempo? L’età in cui si diventa genitori è stata por- tata avanti. La condizione della donna si è modificata notevolmente, la vita media si è allungata, di qui questa forte pressione per alzare il limite di età. La vicenda giudiziaria, giurisprudenziale ve la risparmio. È stata lunga ed alterna, ha avuto una forte spinta, secondo me, dall’adozione internazionale. Perché, che cosa accadeva? Accadeva che la coppia italiana andava all’este- ro con il vecchio sistema del patentino della dichiarazione di idoneità ma

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senza l’obbligo di passare attraverso enti autorizzati, andava all’estero e riusciva ad ottenere un bambino più conforme alle sue speranze di averlo più piccolo possibile e poi si vedrà. Venivano in Italia, stavano zitti per qualche tempo (non c’era l’obbligo di informare subito il tribunale) dopodiché venivano allo scoperto chiedendo la delibazione della sentenza straniera. Il tribunale rispondeva “non lo possia- mo fare perché voi non avete quaranta anni di differenza ma ne avete quaran- tatre, per esempio, o quarantuno” e quindi respingevano la domanda. Nei casi più duri (si sono verificati) addirittura allontanava il bambino. Potete immaginare il contenzioso che ne è nato e potete immaginare anche - e spero che possiate immaginarlo perché è una situazione in cui si trova il giudice, non l’avvocato - l’estrema difficoltà in cui si trova un giudice quan- do una situazione umana è consolidata contro la norma giuridica. È una bruttissima situazione perché il giudice è portato, come suo dovere, ad applicare la norma ma in quelle situazioni la norma può essere veramente una gravissima ingiustizia per il bambino. Ed allora, che cosa è successo? É successo che hanno cominciato, prima le Corti d’Appello poi la Cassazione, poi anche la Corte Costituzionale, a mol- lare un punto, due punti, tre punti ed alla fine hanno detto “beh, insomma, quello che importa è che ci sia una differenza che in qualche modo riprodu- ca la differenza fra genitori e figli”. Speravano di essersi così messi al sicuro ma al giorno d’oggi qual è la diffe- renza che di solito intercorre tra genitori e figli? Non si sa, la riproduzione assistita permette le madri-nonne; è uno schema che anche quello traballa. Ripeto, il diritto di famiglia è sempre esposto a queste situazioni e a questi rischi ed a queste contraddizioni. Ad ogni modo diciamo questo: una norma che avesse disposto che il limite di età deve essere contenuto entro una data certa (poniamo quarantacinque anni tornando alla disciplina della legge del ‘67) ma che nell’interesse superiore del minore, in certi casi, il giudice potrebbe derogarvi sarebbe stata una norma saggia. Ahimè questa saggezza non è stata ritenuta sufficiente dal legislatore il quale nel nuovo testo dell’articolo 6, per quanto riguarda i requisiti dell’età, stabi- lisce al comma 3 quanto segue: “L’età degli adottanti deve superare di alme- no diciotto e non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando”, e fin qui potremmo anche essere d’accordo. Poi, al comma 5: “I limiti di cui al comma 3 possono essere derogati, qualora il tribunale accerti che dalla mancata ado- zione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore” ed anche qui - sull’eccezione lasciata alla discrezionalità del giudice - potremmo esse- re pienamente d’accordo. Ma, poi, ecco la confusione perché viene fuori un comma 6 che dice “non è preclusa l’adozione quando il limite massimo di età degli adottanti sia supe- rato da uno solo di essi in misura non superiore a dieci anni”. In altre parole, chi sposa il coniuge molto anziano non deve essere danneggiato da questa differenza di età, ovvero quando essi siano genitori di figli naturali o adotti- vi dei quali almeno uno sia di età minore “ovvero quando l’adozione riguar- di un fratello o una sorella del minore già dagli stessi adottato”. Sono tre ipotesi. Sembrano ipotesi un po’ distanti una dall’altra e lo sono, in effetti, ma soprattutto sono ipotesi che alla fine concludono per scardinare

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l’esistenza di qualunque limite di età. Prendiamo la prima, la prima è quella che si basa su una sentenza della Corte Costituzionale, la quale affermava che non è giusto che chi ha sposato un uomo o una donna che non ha più l’età per adottare non debba adottare. Devo dire che è una sentenza che non ho mai ben capito perché in definitiva quan- do si sono sposati dovevano conoscere l’età che avevano. In realtà il discorso è un altro, non è solo questo. Sullo sfondo abbiamo, infat- ti, il fenomeno delle famiglie ricostituite, che è un fenomeno sociologico molto interessante ed in crescita e che in altri paesi è addirittura, se non la norma, l’ipotesi molto, molto frequente. Famiglia ricostituita che consegue alla possibilità di divorziare e quindi di risposarsi ed a mano, a mano che questo succede aumenta il numero delle famiglie ricostituite ma in queste famiglie normalmente uno dei due coniugi è più anziano dell’altro. Ecco allora che si presenta questa esigenza di veni- re incontro a questi casi. La legge stabilisce una tolleranza di dieci anni. Concede un bonus di dieci anni al coniuge più anziano. Su questo c’è stato un problema di interpretazio- ne giurisprudenziale in ordine a chi debba avere dieci anni di più del limite ma tutto sommato la giurisprudenza sembra orientarsi nel modo più sensato. In altre parole il neonato può essere adottato dalla coppia in cui uno dei due ha 45 anni e l’altro ne ha 55, dopodiché su questo schema uno fa tutti i con- teggi necessari. Questa è la prima ipotesi L’altra ipotesi: non è preclusa l’adozione quando i coniugi siano genitori di figli naturali o adottivi dei quali almeno uno sia in età minore. Notate qui non si parla di limiti di età né massimi, né (e questo è il bello) minimi per cui in ipotesi il sedicenne potrebbe adottare. È chiaramente un’ipotesi di scuola ma la evidenzio per dimostrare come que- sto testo di legge sia stato elaborato tecnicamente in modo veramente infeli- ce. Perché possono adottare quando sono già genitori di figli naturali o adottivi dei quali almeno uno sia in età minore? Io francamente non riesco a trovare una spiegazione se non quella dell’ennesima sanatoria a situazioni che si sono costruite all’estero, prendendo un bambino che non aveva assolutamen- te possibilità di entrare in quella famiglia. Non è infrequente il caso che la seconda adozione venga fatta cercando un bambino di età più gradita e quin- di questa può essere la via. Infine, l’altra ipotesi, anch’essa del tutto svincolata da limiti di età, è quella di adozione relativa ad un fratello o sorella del minore già dagli stessi adot- tato. Queste sono ipotesi che potevano benissimo trovare soluzione attraverso l’ar- ticolo 44 lettera c, attualmente lettera d, cioè situazioni in cui non era possi- bile l’affidamento pre-adottivo. Questa è la situazione che noi ci troviamo di fronte per quanto riguarda l’età, situazione quindi al giorno di oggi estremamente confusa, incerta, che non può che provocare ulteriore incertezza quando si pensi che questa norma deve essere poi maneggiata non soltanto da operatori giuridici ma anche da operatori sociali e non soltanto da cittadini italiani ma anche da stranieri (penso all’adozione internazionale) e quindi figuratevi che cosa può accade-

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re in questo modo. Passiamo all’altro punto di modifiche sostanziali che mi sembra meritevole di attenzione, ossia quello relativo al diritto all’accesso, alla conoscenza delle radici. Di questo tratta l’articolo 28 della legge 184, così come è stato modificato dalla 149 (attuale numerazione art.24). Sulla ricerca delle radici va detto qualche cosa di carattere più generale, come nasce il problema. Il problema nasce poco dopo la seconda guerra mondiale, negli anni ‘50, nei Paesi Bassi, dove erano state fatte alcune adozioni di bambini, figli di madre ebrea. Lo stato di Israele desiderava conoscere la sorte di questi bambini perché voi sapete che per Israele il figlio di madre ebrea è ebreo e di conseguenza aveva posto la questione al governo olandese. Non ha molta importanza sapere come andò a finire la questione, resta però il fatto che si cominciò a porre il problema di ritrovare il bambino dichiara- to adottabile ed adottato e si cominciò a porre il problema della ricerca delle radici e questo problema fu percepito molto rapidamente nel mondo anglo- sassone. Fin dagli anni ‘70 la legge sulle adozioni del Regno Unito prevede il diritto dell’adottato al raggiungimento della maggiore età di avere copia dell’atto di nascita originario. C’è da dire di più: che la possibilità di non dichiarare le proprie generalità al momento del parto non è una possibilità ammessa da tutti i paesi. Tale possi- bilità è ammessa in Italia ed anche in Francia, paese quest’ultimo dove il bambino nato in tali circostanze si chiama il “bambino nato sotto X” (perché la casella dove deve essere messo il nome della madre nel formulario dello stato civile viene barrata con due diagonali, quindi la lettera X). Bene, Francia ed Italia hanno questi due sistemi simili che servono per pro- teggere l’anonimato della madre che non vuole comparire. La Germania no, la Svizzera nemmeno. Questi paesi hanno un sistema che si chiama, e questo è un po’ buffo, il sistema romano perché nell’antica Roma “mater semper certa est”, e di conseguenza la madre non può scegliere di rimanere anonima. Naturalmente ci sono altri modi ed altre cautele per tutelare la privatezza ed il riserbo, però non esiste il diritto di partorire in anonimato. Ricordo poi che addirittura in Svizzera esiste la ricerca della paternità, e credo anche in Germania, perché si ritiene che la nascita di un bambino sia un onere per la collettività e questo onere deve essere affrontato in pari misu- ra sia dalla donna che dall’uomo. Quindi in Germania c’è il cosiddetto “Bezahlvater” cioè il papà che paga, che viene riconosciuto unicamente al fine degli obblighi economici ma non anche al fine dell’acquisizione della potestà genitoriale. Detto questo il problema della ricerca delle radici si scontra contro il diritto del genitore naturale o al segreto, come in Italia, o alla propria vita privata nei casi in cui non c’è stato parto anonimo. Normalmente dopo una rinuncia al figlio, o dopo una dichiarazione di adottabilità del figlio, le situazioni si modificano con il passare del tempo. Ci sono delle nuove situazioni familia- ri e ci sono molti motivi per supporre che il genitore a cui è stato dichiarato adottabile un figlio, o che ha scelto di abbandonarlo partorendolo in anoni-

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mato, non voglia essere rintracciato anni dopo da quel nato che sconvolge- rebbe i suoi equilibri familiari ricostituiti. Quindi il problema è molto delicato: se da un lato c’è questo desiderio di conoscere il passato, dall’altro c’è il desiderio di non avere più a che fare con il passato tanto che si è parlato di un diritto all’oblio del genitore a cui il figlio è stato tolto o che ha accettato che il figlio andasse in adozione. Il problema è reso ancora più complesso da certe mode, da certe tendenze che in questo momento sottolineano molto il diritto all’accesso ma che anni addietro invece lo consideravano un problema irrilevante, insignificante. Ricordo il pensiero di un insigne neuropsichiatra infantile francese, Michel Soulé, che partecipò non pochi anni fa a convegni sul tema in Italia: egli era fermamente convinto dell’assoluta irrilevanza del problema e raccontava degli episodi di ragazzi che aveva avuto in terapia i quali, messi davanti alla realtà del genitore originario, vedevano il loro problema di ricerca delle radi- ci sgonfiarsi come un pallone bucato. Ne raccontava casi e portava esempi proprio dell’enfatizzazione del proble- ma e lo considerava un problema fasullo, creato sul nulla, dicendo che poi, quando l’adottato si trovava davanti al genitore che desiderava tanto cono- scere, in realtà rifiutava addirittura di continuare ad avere rapporti con lui. Questo per dire che il problema è aggravato anche da certe tendenze e da certe mode ed attualmente la moda è quella di dire “diritto all’accesso”. Perché c’è questa tendenza, forse chiamarla moda è irriverente? Certamente questa tendenza è aumentata da un fenomeno del tutto nuovo quale è quello della riproduzione assistita, quale è quello della donazione di seme, tutti fenomeni che sconvolgono i nostri parametri tradizionali, relativi alla filia- zione e che fanno nascere questo che delle volte è un desiderio, delle volte invece è un bisogno, anche scientifico, di conoscere l’ascendente. Il problema delle radici era in Italia completamente rimosso perché si diceva seguendo la scuola classica “il bambino adottato diventa figlio pieno, totale, non solo dal punto di vista giuridico ma anche dal punto di vista affettivo e sociale. La genitorialità sociale è identica, è assolutamente parificata alla genitorialità biologica per cui non c’è problema di radici. Non devono esse- re conosciute le radici. Il taglio è netto.” Accade però accade che si pone il problema della ratifica della convenzione dell’Aja. La convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione inter- nazionale a questo riguardo è molto chiara. Segue pari, pari la tradizione anglosassone e stabilisce quello che adesso vorrei leggervi. Stabilisce l’art.30 della convenzione dell’Aja del 1993 sull’adozione interna- zionale: “le autorità competenti di ciascun Stato contraente conservano con cura le informazioni in loro possesso sulle origini del bambino, e particolar- mente le informazioni concernenti l’identità dei suoi genitori, come i dati sui precedenti sanitari del minore e della sua famiglia. Le medesime autorità assicurano l’accesso del minore o del suo rappresentante a tali informazioni, con l’assistenza appropriata, nella misura consentita dalla legge dello Stato.” Quali informazioni? Anche quelle concernenti l’identità dei genitori. È chia- ro che ratificare la convenzione, che non prevede la possibilità di apporre riserve, significa introdurre nella nostra normativa questa legge, o comunque obbligarci ad introdurre quelle modifiche che rispettano questa norma.

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Quando il Parlamento si trovò ad approvare nel 1998 (Legge 31.12.1998, n. 476) la ratifica della Convenzione dell’Aja andò a sbattere contro questo pro- blema e che cosa fece? Scelse una soluzione piuttosto ipocrita perché disse in sostanza: le questioni relative agli aspetti sanitari d’accordo, però per il resto ci si regolerà come per l’adozione nazionale ma l’adozione nazionale non permetteva affatto la ricerca delle radici, quindi era palesemente una vio- lazione della Convenzione. Una tale violazione fu presa sotto la spinta molto forte delle associazioni dei genitori adottivi che organizzarono addirittura dei sit-in davanti alla Camera mentre erano in discussione queste norme. L’Anfaa di Torino, alla quale devo dire che sono legato da profonda stima e da collaborazione ormai trentenna- le, promosse un’iniziativa assai discutibile: andava in giro per le città d’Italia con cinque o sei adottati ormai grandi che dicevano “a me non importa nien- te di sapere chi era mio nonno, mio padre”. A loro non importava niente, però ad altri poteva importare quindi non era una cosa probante ed ad ogni modo in questo clima fu approvata quella norma piuttosto ipocrita che diceva “si fa come per gli italiani”. In realtà la violazione era palese per cui, quando si parlò della 149, il proble- ma dovette essere per forza preso in considerazione. Come lo risolve la 149? Anzitutto fa una affermazione di principio che io trovo importante, ed è questa “il minore adottato è informato di tale sua con- dizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e nei termini che essi ritengono più opportuni”. Ora è chiaro che quando la legge usa l’indicativo dà un comando. Il minore adottato è informato significa: il minore adottato deve essere informato, ha diritto di essere informato di tale sua condizione. Lo dicevano sempre gli operatori dell’adozione, da anni: non tenete segreto il fatto adottivo. Se lo tenete segreto possono succedere delle tragedie quando il figlio dovesse venirlo a sapere da altri però evidentemente era ancora necessaria ed utile una prescrizione, una normativa in questo senso. La legge l’ha introdotta, ha fatto bene ed ha lasciato anche saggiamente ai genitori i tempi ed i modi per dare tale informazione che in realtà informa- zione non è ma è educazione. Non si tratta di dare una notizia. Si tratta di educare ad un concetto molto importante: che figli non si nasce automatica- mente figli ma si diventa attraverso l’affetto reciproco. Questa formulazione del primo comma dell’articolo 28 legge 184, come riformata, mi sembra buona, mi sembra condivisibile. L’articolo 28 si preoccupa ovviamente anche della privacy e conferma le pre- cedenti disposizioni, (comma 2) che vietano all’ufficiale di stato civile di rilasciare dichiarazioni con indicazione della precedente paternità e materni- tà e di dare informazioni sulla sorte del bambino adottato, ma queste sono norme che riguardano la privacy e la riservatezza, non riguardano il diritto all’accesso né lo limitano. Passiamo al comma 4 che è quello che introduce, anche nel nostro sistema, i principi della Convenzione dell’Aja, anzi, non solo della Convenzione dell’Aja (29 maggio 1993), andiamo più indietro, della Convenzione di New York, che è stata all’origine di questo e che è anteriore di quattro anni rispet- to alla Convenzione dell’Aja e che viene da più lontano. Si tratta del diritto

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del minore di conoscere, nei limiti del possibile, le sue origini. Recita il comma quarto dell’articolo 28 nuovo testo: “Le informazioni con- cernenti le identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi quali esercenti la potestà dei genitori su autorizzazione del tribunale per i minorenni solo se sussistono gravi e comprovati motivi.” Rispetto al testo della convenzione dell’Aja il nostro legislatore la prende larga e stabilisce questa possibilità, di ottenere informazioni sull’identità dei genitori biologici per gravi e comprovati motivi non tanto per il minore diret- tamente, ma per i suoi genitori in quanto genitori ( “quali esercenti la pote- stà”). La limitazione “gravi e comprovati motivi” mi sembra del tutto corretta per- ché la Convenzione dell’Aja lascia la possibilità alla legge nazionale di sta- bilire i limiti entro cui questo diritto all’accesso può essere esercitato, quin- di la mera curiosità non è rilevante. Un motivo che non fosse di mera curiosità, ma non fosse grave e comprova- to, non potrebbe assicurare l’accesso. In ogni caso è importante stabilire e sottolineare che questa richiesta dei genitori adottivi è una richiesta che viene fatta in nome e per conto del mino- re (“quali esercenti la potestà”). Questo non vuole dire soltanto che se i genitori sono stati dichiarati decadu- ti non la possono fare. Vuol dire che quando la fanno, la fanno in quanto genitori e quindi in nome e per conto del minore. Ed allora c’è già un primo vaglio: se il ragazzino quindicenne in crisi adolescenziale vuole sapere l’identità dei suoi genitori e, ad esempio, è in terapia ed il terapeuta ritiene che sia utile e opportuno met- terlo di fronte alla realtà facendogli conoscere di più del suo passato i geni- tori possono presentare, in nome e per conto di quel minore, questa domanda al tribunale per i minorenni, di cui vedremo poi la procedura. Il comma quinto riguarda invece il maggiorenne ed è una norma interessante perché è stata fatta con un incastro, c’è una zeppa dentro. Nella formulazio- ne originaria la norma stabiliva così: “L’adottato, raggiunta l’età di 25 anni, può accedere ad informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza”, quindi non si prevedeva un diritto di conoscere le proprie radici tra i 18 ed i 25, era una specie di tempo di laten- za e si riteneva comunque necessaria una domanda al tribunale per i minoren- ni. Un’altra formulazione parlava del 21esimo anno ma in ogni caso questa era l’impostazione. In questo testo è stata introdotta una zeppa che è il secondo periodo del comma quinto che ho sott’occhio e dice così: “Può farlo (nrd l’adottato) anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi atti- nenti alla sua salute psico-fisca”. Ed allora, già a partire dal 18esimo anno, in quanto maggiorenne, l’adottato può chiedere di conoscere l’identità dei propri genitori naturali ma può farlo solo quando sussistano gravi e compro- vati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. Notate: per il minorenne non si parla di salute psico-fisica anche se è sottintesa e se è il primo esempio che viene in mente. Qui invece si esplicita tale condizione, probabilmente perché

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l’autonomia completa, raggiunta con il 18esimo anno non più filtrata quindi dalla legittimazione processuale dei genitori quali esercenti la potestà, come accade per il minorenne, è stata ritenuta dal legislatore pericolosa, eccessiva ed a mio parere giustamente. Quindi abbiamo tre situazioni: l’adottato minorenne per il quale la domanda può essere presentata dai suoi genitori in nome e per conto del minore per gravi e comprovati motivi; l’adottato che ha da 18 a 25 anni che può presen- tare la domanda in quanto maggiorenne (e rispetto al quale non esiste un diritto incondizionato a conoscere le radici ma solamente se sussistano gravi e comprovati motivi attinenti la salute psico-fisica); l’adottato da 25 anni in poi in riferimento al quale non esistono condizioni, anche la mera curiosità può giustificare la proposizione della domanda. Sulla domanda decide il tribunale per i minorenni (comma 6). Che cosa deve fare? Procede all’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto. Assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare che l’accesso alle notizie non comporti grave turbamento all’equili- brio del richiedente e, definita l’istruttoria, autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste. Si pongono due questioni importanti, in primo luogo una questione di com- petenza. La domanda al tribunale per i minorenni deve essere presentata anche dal 25enne (che ha diritto all’accesso anche per pura curiosità) dal momento che non c’è un limite o una condizione da verificare? Al proposito c’è incertezza nella giurisprudenza. Nel numero 1 di Famiglia e Diritto del 2003 sono riportate tre interessanti decisioni del tribunale di Sassari, due contrastanti tra loro: secondo un orientamento anche per l’ultra venticinquenne l’accesso alle informazioni sarebbe subordinato alla preven- tiva autorizzazione del tribunale per i minorenni mentre per l’altro orienta- mento non sarebbe necessaria l’autorizzazione. Ovviamente trattandosi dello stesso tribunale il collegio giudicante era diverso. Come motiva la decisione che ritiene sussistente la competenza del tribunale per i minorenni? Con il richiamo ai lavori parlamentari dai quali si deduce che in origine non c’era una distinzione di fasce nella maggiore età. In origine la domanda del maggiorenne doveva essere comunque presentata al tribunale per i minorenni ed allora, si dice, questa diversa formulazione che si legge adesso nel comma quinto (“l’istanza deve essere presentata al tri- bunale per i minorenni del luogo di residenza”) non è legata alla fascia 18 e 25 ma copre tutta la maggiore età. L’istruttoria, infatti, deve essere svolta dal tribunale per i minorenni anche per proteggere il riserbo, il diritto all’oblio dei genitori naturali, per cui è comunque necessaria una valutazione da parte del giudice. Come motiva invece la decisione che ritiene non necessaria l’autorizzazione del tribunale per i minorenni? In un modo che a me pare molto insoddisfa- cente. Dice: gli accertamenti che la legge richiede possono essere eseguiti anche dall’ufficiale dello stato civile. A me pare un ragionamento molto debole perché non vedo come l’ufficiale dello stato civile possa esercitare questa attività, che in definitiva mi sembra attività tipica del giudice e non della pubblica amministrazione.

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Detto questo, l’altra questione da valutare è se tra queste persone che debbo- no essere sentite debbono essere ricompresi i genitori naturali. A mio parere assolutamente sì perché trovo gravemente lesivo del diritto all’oblio, del diritto alla riservatezza del genitore naturale sentir suonare il campanello e vedersi arrivare davanti un giovanotto con un bel papiro del tribunale per i minorenni in una mano ed una copia integrale dell’atto di nascita nell’altra, e va lì a dire “ciao mamma”. Francamente non mi sembra un bel regalo che facciamo a questa persona la quale venti, trenta anni dopo ha tutto il diritto di essersi rifatta una vita, tutto il diritto di non vedersi comparire davanti il passato, con effetti anche distrut- tivi nella sua vita privata perché non è affatto detto che abbia raccontato al nuovo marito o al nuovo compagno o ai nuovi figli quello che le era succes- so trenta anni prima, quindi a mio parere è necessario che il tribunale ricer- chi queste persone, con le dovute cautele, le interpelli, con le dovute cautele, per sapere se sono favorevoli o no. Perché questo? Perché se non sono favorevoli il tribunale potrebbe ugual- mente autorizzare a meno che non ci siano i casi di cui al comma 7 che vedre- mo tra un momento. Però potrebbe anche non autorizzare ritenendo che l’at- teggiamento del genitore naturale comporti un grave turbamento all’equili- brio psico-fisico del richiedente. In sostanza c’è un margine per dire “tu vuoi conoscere i tuoi genitori, potre- sti anche farlo perché i motivi che ci dai sono seri e comprovati ma il tempo- rale, la bufera che ne scoppierebbe, visto che atteggiamento hanno i tuoi vec- chi genitori, i veri genitori nei tuoi confronti, è tale che ti sconvolgerebbe l’e- sistenza quindi per adesso ti diciamo no”. A mio parere questa è un’interpre- tazione abbastanza sensata. Non ho giurisprudenza da portarvi su questo punto ma mi interesserebbe molto sapere come si svilupperà la giurispruden- za su questo stesso punto. Comma 7: i casi di segreto. L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale, e que- sta è niente altro che la riproposizione del diritto di partorire nell’anonimato. Non è consentito egualmente qualora anche uno solo dei genitori biologici (notate qui la legge comincia a parlare di genitori biologici, è una novità però è chiara) abbia dichiarato di non voler essere nominato, e qui è un po’ diffi- cile immaginarsi dove e come possa aver dichiarato di non voler essere nomi- nato, a meno di non supporre che proprio in quell’interpello che gli viene rivolto dal giudice non emerga questa sua volontà ed allora si potrebbe dire che il no del genitore biologico, anche immotivato, avrebbe il potere di bloc- care l’autorizzazione alla conoscenza delle radici. Ripeto, la norma consente questa interpretazione che per di più mi sembra essere la sola che dà un senso a questa disposizione, altrimenti dove è che il genitore biologico ha dichiarato di non voler essere nominato? Il caso del non riconoscimento alla nascita è molto chiaro ma il caso del non voler essere nominato suppone che ci sia una dichiarazione in tal senso da qualche parte: dove, come, quando, chi ha raccolto questa dichiarazione? L’unica spiegazione, l’unica interpretazione che mi sembra sensata, è di immaginare che ci sia stato questo no detto al giudice quando il giudice gli dice “guarda che quel ragazzino che venti anni fa hai messo al mondo ades-

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so ti vorrebbe conoscere”. Infine abbiamo l’altra ipotesi: l’accesso all’informazione non è consentito se il genitore biologico abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo. E qui bisogna fare un salto sulla sedia perché di con- senso all’adozione non ce n’è affatto bisogno, anzi, la nostra legge ne pre- scinde completamente. La nostra legge non è basata sull’adozione consensua- le, nemmeno come consenso in bianco perché il consenso in bianco è cono- sciuto da diversi ordinamenti. Che cos’è il consenso in bianco? Accetto che mio figlio sia adottato dalle per- sone che l’ente competente sceglierà nelle forme di legge e che io non cono- scerò. Questo è il consenso il bianco. Qui si parla di un consenso all’adozio- ne che nel nostro sistema non esiste. Possibili interpretazioni? Si potrebbe pensare a casi di adozione internazionale che vengano da paesi dove è previ- sta un’adozione consensuale, e sono numerosi, tanto è vero che la Convenzione dell’Aja lo ha ben presente e dice: “Quando l’adozione è con- sensuale, state bene attenti che il consenso sia libero, che non sia stato estor- to, che non ci siano state pressioni di alcun genere, che il genitore che ha con- sentito fosse consapevole che dato quel consenso non si tornava più indie- tro”. Questa è una possibile spiegazione perché se dovessimo riferirci invece all’adozione nazionale dovremmo solo pensare ad una svista del legislatore. Infine l’ottavo comma: “Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti: l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età, quando i geni- tori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili”. Strana norma questa, di origine non chiaramente comprensibile. Si ipotizza un adottato 18enne, anche maggiore di età, che rimane orfano, oppure i cui genitori, non si sa perché, siano divenuti irreperibili. È difficile immaginare la ragione per cui ad un certo punto questi genitori spariscono dalla scena. Si può immaginare, sia pure con uno sforzo di fantasia, l’ipotesi che entrambi se ne vadano al Creatore ed a questo punto il nostro 18enne non ha bisogno del permesso di nessuno, può sapere chi erano il suo papà e la sua mamma. È molto strana la norma perché non tiene assolutamente conto che attraverso l’adozione legittimante il bambino viene inserito in un contesto di famiglia allargata. Non ci sono solo il papà e la mamma adottivi. Ci sono i nonni, ci sono gli zii, c’è una rete parentale che anche se a certi fini non è completa- mente uguale alla rete parentale della famiglia del nato in costanza di matri- monio (penso ai collaterali e così via) rimane poi sempre il fatto che ai fini affettivi è una rete esistente e rilevante. La legge non ne tiene alcun conto e quindi così ha disposto. Questa è la questione relativa alle radici. Vorrei fare una piccola annotazione riprendendo un attimo il discorso dell’adozione internazionale e, quindi, vi pregherei di guardare l’articolo 37 della legge n.184, il quale stabilisce: “(2) Il tribunale per i minorenni che ha emesso i provvedimenti indicati dagli arti- coli 35 e 36 e la Commissione conservano le informazioni acquisite sull’ori- gine del minore, sull’identità dei suoi genitori naturali e sull’anamnesi sani- taria del minore e della sua famiglia d’origine. (3) Per quanto concerne l’ac- cesso alle altre informazioni valgono le disposizioni vigenti in tema di ado- zione di minori italiani”. Quindi l’articolo 28 è utilizzabile pari, pari per le adozioni straniere.

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Naturalmente si dovrà tenere conto di quanto stabiliscono gli ordinamenti dei paesi di origine perché è chiaro che altrimenti il discorso non potrà essere portato fino alle conseguenze finali. Se l’ordinamento di origine prevede il parto anonimo non c’è nulla da fare: come per il caso italiano i nomi dei geni- tori biologici non potranno essere comunicati. Questo grossomodo è il conte- nuto dell’articolo 28, il quale ripeto, ha dietro di sé un concetto un po’ nuovo di adozione. Concetto di adozione aperta, cioè concetto di adozione che non taglia necessariamente ogni legame, non giuridico ma personale, con la fami- glia originaria ed è un concetto che venti anni fa, quando fu approvata la legge del 1983, era fortemente osteggiato perché visto come un attacco alla solidità del rapporto creatosi attraverso l’adozione legittimante. Al giorno d’oggi una difesa così forte non è più ritenuta necessaria e si potrebbe riflettere un po’ su questo mutamento, su questo mutato atteggia- mento dell’opinione pubblica, perché probabilmente dipende dal fatto che proprio la famiglia ricostituita ha posto davanti all’esigenza o consuetudine di avere anche un rapporto con la famiglia precedente e quindi ha in certo senso sdrammatizzato l’esistenza di incontri e relazioni con la famiglia pre- cedente. Tutti discorsi che sono meta-giuridici ovviamente, ma che sono discorsi utili a capire meglio che cosa ci dice di nuovo questa legge, piaccia o non piaccia, e quali sono i suoi aspetti che modificano nella sostanza la precedente disci- plina. Questo è il discorso sugli aspetti sostanziali più caratteristici e su quel- li io mi fermerei perché ci sono tante altre cose da dire. Se ci sono delle domande su questi tre punti sviluppati fino ad ora direi che potrebbero esse- re proposti subito.

DIBATTITO

DOMANDA Volevo sapere come si comporta il tribunale per i minorenni di Roma, e quin- di cosa arriva poi alla Corte di Appello di Roma, sezioni minori, sui decreti di idoneità dell’adozione internazionale. A Firenze il nostro tribunale pronun- cia decreti con i cosiddetti paletti, quindi bambino zero/tre anni o a volte dà delle indicazioni se maschio o femmina, ad esempio se la coppia ha perso un bambino femmina durante la gravidanza dispone che debba essere un maschio, ma soprattutto questo si verifica in relazione all’età. Se anche il Tribunale per i Minorenni di Roma segue una prassi simile, come si comporta la Corte di Appello di Roma, riforma o conferma?

RISPOSTA La questione della idoneità mirata è una questione molto interessante. Inizialmente addirittura le idoneità erano di una genericità totale, tanto è vero che le Corti di merito e la Corte di Cassazione dicevano che non si poteva neanche dire che un minore volesse dire uno solo. Era un articolo indetermi- nato e non un aggettivo numerale ed allora con un’autorizzazione ad adotta- re un minore se ne potevano portare dentro anche quattro.

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Non solo: siccome la legge non prevedeva fino alla 476 un limite di tempo per l’efficacia dell’idoneità poteva essere utilizzata ancora ed allora diventa- va un permesso permanente di importazione di un numero illimitato di bam- bini. Di fronte a questa situazione i giudici di merito hanno ritenuto indispen- sabile correre ai ripari ed hanno cominciato ad introdurre dei limiti espliciti nelle dichiarazioni di idoneità: non più di due, uno solo, quello che volete voi, però si indicava il numero. Altro problema, siccome i giudici stranieri non erano obbligati a conoscere la nostra legge perché applicavano la loro, e siccome molte delle copie adotti- ve che andavano all’estero da sole cercano poi il bambino di loro gusto, capi- tava la questione dei limiti di età non rispettati ed allora altra indicazione specifica nel decreto di idoneità: un bambino nato non prima del …… A poco a poco la Cassazione ha modificato il suo atteggiamento fino a dire con grande soddisfazione di tutti i giudici di merito “sì il tribunale può intro- durre dei limiti. Può specificare perché è vero che l’idoneità è rivolta “in incertam personam et in incertum puerum”, però è anche vero che deve esse- re un’idoneità commisurata alle potenzialità degli idonei e di conseguenza, può essere indicato nel provvedimento qual è questa potenzialità e fin dove arriva. A questo punto dell’evoluzione giurisprudenziale entra in vigore la ratifica della Convenzione dell’Aja, per cui le adozioni internazionali libere non sono più possibili. Devono tutte passare attraverso enti autorizzati. Questo cosa significa? Che l’ente autorizzato sa benissimo quali sono i limiti di età, sa benissimo quali sono i requisiti della legge italiana quindi non è ipotizza- bile in teoria un errore dell’ente autorizzato, ed allora questa indicazione spe- cifica dell’età, del colore della pelle e di tante altre cose non è più necessa- ria. È del tutto superflua, anzi, rischia di limitare quel margine di libertà di azione indispensabile che l’ente autorizzato deve avere quando studia l’abbi- namento della coppia con il bambino straniero. Lo studio dell’abbinamento non si fa con il compasso e con il calcolatore. Si fa con una serie di nozioni anche metagiuridiche che devono trovare miglior componimento: e dunque è indispensabile avere una certa flessibilità, un certo margine. In questa situazione in cui l’indicazione dei requisiti nel decreto di idoneità era ormai superflua, il nostro legislatore ha ritenuto di recepire espressamen- te nell’art. 30 comma 2 della legge una norma della Convenzione dell’Aja, l’art. 15, che fa obbligo all’autorità centrale del paese d’accoglienza di invia- re a quella del paese d’origine una relazione completa e dettagliata sugli aspi- ranti genitori adottivi nonché “sulle caratteristiche del bambino di cui sareb- bero adatti a prendersi cura.” Tutto questo non nel decreto del giudice, ma nella relazione del servizio sociale. Lo scopo della norma è chiaro: fornire all’organo tecnico del paese straniero tutte le indicazioni per uno studio otti- male del miglior abbinamento possibile, nell’interesse preminente del mino- re. Tutto ciò ha determinato nei nostri tribunali per i minorenni un vero e pro- prio revival dei decreti di idoneità mirati, anche perché nel frattempo si era posto qua e là il problema del bambino di colore rifiutato dall’ambiente sociale del luogo di residenza dei genitori adottivi. Firenze ne ha una tragica esperienza. Ed allora c’è stato chi ha cominciato a dire “in quel contesto non

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è bene che vada il bimbo di colore perché, per esempio” - e questo mi sem- bra un esempio molto serio e molto probante - “i nonni che stanno nella vil- letta vicino non possono vedere i bambini di colore” ed allora c’è poco da dire. Lì il bambino di colore non va messo, c’è poco da dire perché o vanno via i nonni, però prima bisogna litigarci, oppure bisogna dire “no per adesso noi il bambino di colore non possiamo prenderlo per il suo bene sennò i nonni continuano a dire “guarda quel negretto”. Allora che cosa è successo? Che con questa nuova norma sono state di nuovo inserite nei decreti di idoneità le indicazioni e le prescrizioni. Molti tribuna- li infatti non si fidavano abbastanza degli enti autorizzati, nemmeno con l’i- stituzione dell’albo, e volevano limitare il loro ambito di discrezionalità tec- nica. Che cosa succede a Roma come indicazione specifica? Direi che il tribunale per i minorenni di Roma ha compreso abbastanza in fretta l’inutilità di dare indicazioni millimetriche. Il discorso si deve spostare sulla preparazione e qualificazione degli enti autorizzati, quindi è un discorso che passa attraverso la commissione adozio- ni internazionali, la quale deve evidentemente dare indicazioni agli enti auto- rizzati di non sbagliare mai sui requisiti e di tenere ben presenti anche le con- dizioni socio-ambientali in cui il minore sarà inserito, ma a questo punto il giudice deve passare la mano in quella fase perché il meccanismo degli enti autorizzati deve bastare. Certo bisogna che funzioni ma questo è un altro discorso. Ed allora io credo che le idoneità mirate, nonostante l’indicazione della legge, siano al giorno d’oggi delle forme di provvedimento da prendere con molta cautela e solamente nei casi in cui è veramente necessario oppure, se proprio si deve fare, che ciò avvenga nello spirito della convenzione dell’Aja la quale prevede sì che il paese di accoglienza indichi certi requisiti che deve avere il bambino ma non per accontentare la coppia, bensì per accontentare il bambino. Quindi il discorso è capovolto. Se non ci sono altre domande su questi aspetti sostanziali passiamo all’altra parte di questa chiacchierata che deve riguardare gli aspetti processuali. Innanzitutto la distinzione tra sostanziale e processuale è stata introdotta dai giuristi ma una tale distinzione non è sempre così chiara e ci sono aspetti un po’ borderline, come dicono gli psichiatri, che si collocano sulla linea di con- fine, hanno sia del processuale che del sostanziale, per cui è un po’ difficile stabilire a quale dei due mondi appartengano, oppure lo si stabilisce in rela- zione a quello che conviene dire, come a mio parere ha fatto il legislatore nei decreti leggi che hanno prorogato l’entrata in vigore di certe norme.

I CAMBIAMENTI PROCESSUALI. Intanto una premessa: come ho accennato all’inizio, un intero blocco di que- sta legge è stato messo nel congelatore. Nel freezer c’è tutto il capo secondo del titolo secondo che comincia con l’articolo 8 “Della dichiarazione di adat- tabilità” e finisce con l’articolo 21, modificato cioè con l’articolo 18 della 149, che modifica l’articolo 21 della 184, che riguarda la cessazione dello

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stato di adottabilità. Come legge in vigore la 149 riprende con il capo terzo, “Dell’affidamento pre-adottivo”. Quindi adesso io parlerò di una parte di legge che è nel freezer ma che ine- vitabilmente il primo di luglio prossimo venturo verrà tolta dal congelatore e dovrà essere mangiata anche così “congelata” perché non ci sarà stato il tempo prima di farla scongelare. Mi spiego meglio: ho detto che è stata sospesa l’entrata in vigore di questa parte di legge con un decreto legge entrato in vigore immediatamente, conte- stualmente alla pubblicazione della legge stessa sulla Gazzetta ufficiale. Il decreto legge n. 150 del 24 aprile 2001 che diceva “per un anno fermiamo tutto”. Chissà che cosa doveva succedere in quell’anno. Non è successo niente. Nessuno si è occupato di questa normativa minorile, tanto che è stato neces- sario reiterare quel decreto e difatti il primo luglio del 2002 sulla Gazzetta Ufficiale è comparso il decreto legge n. 126 il quale dispone “1. In via tran- sitoria, fino alla emanazione di una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio e sul patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti disciplinati dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, e comunque non oltre il 30 giugno 2003, ai predetti procedimenti e ai relativi giudizi di opposizione continuano ad applicarsi le disposizioni processuali vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150, conver- tito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2001, n. 240.” 2. In via transitoria e fino alla emanazione di nuove disposizioni che regola- no i procedimenti di cui all’articolo 336 del codice civile, e comunque non oltre il 30 giugno 2003, ai medesimi procedimenti continuano ad applicarsi le disposizioni processuali vigenti anteriormente alla data di entrata in vigo- re del decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2001, n. 240.” Qui il legislatore si è un po’ vergognato di questo suo adempimento, ed ha detto a se stesso “io so che provvederò prima del 30 giugno 2003. Ne sono così convinto che dico che la sospensiva si applica fino al 30 giugno e comunque non oltre”. Non pagherà questa cambiale. State pur sicuri, la cam- biale andrà in protesto e noi ci troveremmo il primo di luglio a dover appli- care una normativa che lo stesso legislatore considera inadeguata, insuffi- ciente ed assolutamente incomprensibile. Vedremo che cosa si farà ma que- sta mi pare che sia la situazione. Prima di affrontare questo nodo, quasi inestricabile due parole sul nuovo pro- cesso di adottabilità. Il nuovo rito, anche qua, penso che anche voi parliate di nuovo rito nei tribu- nali e nelle corti. Allora nuovo rito, la novità più grossa: viene soppresso il potere di iniziare d’ufficio il procedimento da parte del presidente del tribu- nale per i minorenni o del giudice delegato. La grossa innovazione della legge del 1967 era stata proprio questa. Il presi- dente del tribunale per i minorenni o un giudice da lui delegato sulla notizia, comunque giuntagli, di un minore in situazione di abbandono può aprire la procedura e prendere certi provvedimenti temporanei e poi iniziare il proce- dimento e verificare se vi sia o meno abbandono. Qui si è detto “basta con questo potere ufficioso e monocratico del presidente del tribunale per i mino-

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renni o del giudice delegato.” Tutto deve iniziare con un ricorso del pubblico ministero ed allora senza ricorso del pubblico ministero non si aprono procedure di adottabilità. La cosa però è un po’ strana perché si passa da un’eccessiva fiducia in un orga- no, in un’eccessiva fiducia nell’altro. E se il pubblico ministero non fa ricor- so? Qui grossomodo si costruisce qualche cosa di simile all’azione penale. Il pubblico ministero, così come titolare dell’azione penale, sarebbe titolare di questa azione sull’accertamento dell’abbandono. Ragiono un po’ a ruota libe- ra ma mi pare che l’esempio possa essere portato avanti ancora un po’. Bene, ma se il pubblico ministero non vuole iniziare l’azione penale sulla base di una certa denuncia? Beh, questa sua scelta di rimanere fermo deve essere verificata dal giudice. Il Pubblico Ministero ricevuta una denuncia di rapina non è libero di metterla nel cassetto. Sarà il giudice che, su sua richiesta, dirà “sì, si può archiviare”, altrimenti si va avanti. E se di fronte al bambino nel cassonetto il pubblico ministero non fa niente, che cosa succede? Grosso punto interrogativo. Il legislatore non si è posto la domanda, tale era la sua sfiducia, permettete- mi questo piccolo sfogo, tale era la sua sfiducia in quella brutta razza dei pre- sidenti dei tribunali per i minorenni. Insomma, non ci siamo. Andava male prima, non c’è dubbio, ma va male anche adesso e va veramente male. Perché va veramente male? Perché, ed anche questa è una verità amara ma è una verità, anche perché il 90%, voglia- mo dire l’85, diciamo l’85% dei procuratori dei minorenni di civile non ne masticano quasi niente. È una verità sacrosanta. È un dato di fatto: le procu- re per i minorenni sono intrise di cultura penalistica, il che non è mica un reato per carità! È un dato di fatto ma chi è intriso di cultura penalistica e non conosce l’aspetto civilistico o impara l’aspetto civilistico oppure rimarrà sempre su quel piano un attore del tutto secondario e si limiterà a scrivere “il PM visto N.O.” La nuova procedura di adottabilità si apre solo con ricorso introdotto dal PM, senza che ci sia nessun controllo del giudice sull’esercizio o meno di questo ricorso. Bene, come fa il PM a sapere tutte queste belle cose? Lo sa perché i famosi elenchi trimestrali non vanno più indirizzati al giudice tutelare ma al pubblico ministero. In altre parole, la 149 sposta l’asse, sposta il canale di comunicazione: dai servizi al giudice si passa all’altro, dai servi- zi al PM. È un grosso mutamento di rotta perché in molti tribunali, in molte sedi giu- diziarie minorili storicamente il rapporto si è costruito fra tribunale e servizi locali e non tra pubblico ministero ed i servizi locali; certo sarebbe stato meglio che fosse sorto anche tra PM e servizi per tantissime ragioni ma così non è stato e la situazione attuale è di questo tipo. Allora: o i PM recupereranno molto velocemente, se ne saranno capaci, là dove ne saranno capaci su questo aspetto, oppure i servizi si troveranno in grosse difficoltà, a meno che non abbiano una rapida ed ottima formazione ed un’ottima guida come questo bellissimo libretto che ho visto con molto, molto piacere. Inizia il ricorso. L’altra novità è che una volta proposto il ricorso deve esse-

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re emesso dal presidente del tribunale per i minorenni una specie di avviso di procedimento, una specie di avviso di garanzia, come dice l’articolo 9. Il pre- sidente del tribunale per i minorenni o un giudice da lui delegato, ricevuto il ricorso del pubblico ministero, unico legittimato a proporglielo (non quindi i servizi) procede all’immediata apertura di un procedimento. In realtà non apre un bel niente, è la proposizione del ricorso che apre una procedura. Questa è una norma processualistica che fa parte proprio delle basi della pro- cedura civile. Comunque, ricevuto il ricorso, dispone accertamenti ecc. e soprattutto avverte i genitori o i parenti ecc. dell’apertura del procedimento stesso. “Guardate che abbiamo iniziato un procedimento su ricorso del pubblico ministero per accertare se il vostro bambino è abbandonato oppure no”, que- sta è la sostanza dell’avviso ed è sicuramente corretto. Non c’è alcun dubbio perché è talmente forte la conseguenza possibile che mi pare doveroso, fin dall’inizio, mettere in guardia i soggetti che da questa procedura possono subire certe conseguenze. Con lo stesso atto, l’avviso di procedimento, il pre- sidente del tribunale per i minorenni, invita i genitori a nominare un difenso- re e li informa della nomina di un difensore di ufficio per il caso che essi non vi provvedano. Questa è una novità molto forte perché all’inizio del procedimento di adotta- bilità con il vecchio regime, ancora oggi vigente, non c’è alcun dovere di avviso immediato ai genitori e c’è il diritto, ma non è detto che venga eser- citato, di nominare un difensore di fiducia. Non c’è comunque l’obbligo di nominare un difensore d’ufficio. Mi domando: questa è una norma processuale o sostanziale? Questo è un grosso punto interrogativo. Il legislatore ci dice che è processuale perché pro- prio per questa ragione l’ha differita, ha voluto differirla perché altrimenti non ci sarebbero stati i soldi ed allora accontentiamoci di quello che ha detto il legislatore e consideriamo pure norma processuale una norma che riguarda la difesa stessa del soggetto nel procedimento. Bene, allora abbiamo il ricorso del PM, abbiamo la parte che viene avvertita e che nomina un difensore di fiducia o alla quale viene nominato un difenso- re di ufficio (vedremo poi come, e quali problemi questo comporta), abbiamo il riconoscimento del diritto della parte di partecipare, assistita dal difensore, a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale, a presentare istanze anche istruttorie, a prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nel fasci- colo previa autorizzazione del giudice. Vediamo un po’ meglio questa norma e più da vicino. Non c’è dubbio che anche oggi, con il vecchio regime, le parti possono pre- sentare istanze anche istruttorie, è certo però che non hanno il diritto di par- tecipare agli accertamenti disposti dal tribunale anche se, interpretando con un minimo di buon senso la normativa di carattere generale ed applicando la sentenza della Corte Costituzionale del 30 gennaio 2002, n.1, se il giudice vuol disporre una CTU deve avvertire la parte e darle termine per nominare dei consulenti tecnici di parte. Su questo non c’è alcun dubbio in base ai principi generali e quindi fin qui grosso modo non ci sono novità sostanziali. Ce n’è una importante: il diritto di prendere visione ed estrarre copia degli atti, previa autorizzazione del giu-

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dice. Al giorno d’oggi ci si arrampica un po’ sugli specchi, in certi casi, per tene- re riservate alcune notizie che, se conosciute dal genitore, potrebbero com- portare un rischio grave per il bambino e così si è introdotta nella prassi di alcuni tribunali quella bruttissima parola che non ha cittadinanza nel diritto civile che è la “segretazione” e una tale prassi si è introdotta, a mio parere, senza alcun fondamento giuridico. La nuova legge, invece, prevede la necessità di un’autorizzazione del giudi- ce, quindi non è più applicabile, come adesso è applicabile, la norma delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile in base alla quale il fascicolo è lì, la parte viene e se lo guarda tutto. Occorre l’autorizzazione del giudice. È, direi, un’innovazione da un lato sen- sata, dall’altro utile. Come prosegue il procedimento? Prosegue in base alle norme attualmente vigenti che su questo punto non sono modificate: debbono essere sentiti i genitori, debbono essere svolti gli accertamenti ed alla fine (ed ecco la novi- tà), sentito il pubblico ministero, il tribunale decide in camera di consiglio con sentenza ed il giudizio di opposizione viene abolito. Contro la sentenza del tribunale che dichiara l’abbandono, o che dichiara il non abbandono, è prevista la possibilità di interporre appello alle sezioni della corte per i minorenni senza che ci sia la fase di opposizione. È una novi- tà molto importante che è stata introdotta per cercare di accelerare i procedi- menti di adottabilità e non c’è dubbio che ci sia bisogno di accelerarli perché non c’è niente di peggio di una procedura che si trascina per anni e che con l’opposizione viene ancora di più allungata. Ci saranno però delle conseguenze. La prima: il collegio decidendo con sen- tenza in camera di consiglio non vedrà le parti. Non è previsto. Mentre il giu- dizio di opposizione è strutturato adesso come un contatto diretto tra i geni- tori, i supposti abbandonici, il curatore, il Pubblico Ministero davanti al Collegio ed a mio parere i giudizi di opposizione sono una cosa seria, sono una cosa importante, procedimenti dove il tribunale va al fondo della questio- ne e può smentire quello che ha fatto il giudice delegato fino a quel punto dicendo “no qui non c’è abbandono” oppure dicendo “sì c’è”, ecc. In questo caso questo contatto fra il Collegio e la parte viene meno e viene meno - secondo me questo non è un bene per i difensori - anche la possibili- tà di contatto diretto tra il difensore di qualunque delle parti in causa ed il Collegio giudicante. È vero che la Camera di Consiglio non impedisce tutto ciò, però è anche vero che nella prassi non è detto che questo avvenga. È molto probabile che la decisione in Camera di Consiglio avvenga sulla base di memorie scritte, di comparse conclusionali depositate ma senza questo contatto diretto tra il Collegio, le parti e i loro difensori. L’abolizione della fase di opposizione avrà un’altra conseguenza: quella di aumentare di molto il numero degli appelli. É un fenomeno abbastanza noto quello del genitore che fa opposizione e, vista respinta l’opposizione, non propone appello per tante ragioni, alcune delle quali possono anche essere ragioni di ripensamento sulla posizione, di avere chiarito che effettivamente per quel bambino non c’è spazio nella sua vita ecc. In questo modo la Corte di Appello sezione per i minorenni, che adesso su questi temi è un po’ nelle

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retrovie e giudica dopo il filtro molto stretto dell’opposizione, si troverà una massa di procedimenti ancora a livello molto caldo, ancora a livello molto combattuto e sofferto. Che cosa accadrà? A mio parere ci vorrà un po’ di tempo prima che le sezio- ni per i minorenni si abituino a vivere così in diretta la questione della deci- sione sull’abbandono. Ci vorrà un po’ di tempo e questo tempo sarà occupa- to prevedibilmente da una giurisprudenza abbastanza incerta ed avremo pro- babilmente un forte numero di decisioni che accoglieranno l’appello e di con- seguenza ci sarà un forte calo delle dichiarazioni di adottabilità definitive. Comunque questa è la situazione: il procedimento di adottabilità sicuramen- te sarà più veloce però, ripeto, rischierà di arrivare in Corte di Appello anco- ra acerbo perché è vero che deve essere svolto in fretta, è vero che non deve avere tempi morti ma è un procedimento che deve poter avere i suoi tempi di maturazione, un po’ come il procedimento fallimentare, per ripetere un esem- pio che mi veniva fatto da un vecchio collega, il Presidente Delfini. Non è possibile dare ai genitori prescrizioni di tre mesi, per esempio. Le pre- scrizioni ai genitori devono avere un congruo termine e permettere ai servizi un lavoro che può essere anche ben più lungo ed allora arrivando il conten- zioso acerbo in Corte di Appello è molto probabile, ripeto, che si contragga ancora di più il numero delle adottabilità, fermo restando il problema ovvia- mente perché chi penserà poi al bambino? Veniamo all’ultimo nodo, il nodo più grosso: quello del patrocinio. La legge stabilisce, l’obbligo di essere assistiti da un difensore. Assistiti, non rappresentati, e quindi c’è già una differenza importante ed è il frutto di que- sta strana procedura che mutua un po’ dal penale e che vede - nell’animo del legislatore - il genitore come un accusato che viene chiamato a discolparsi. A noi dicevano che non è affatto un accusato, che non è chiamato a discol- parsi, così ci insegnavano, ci dicevano che noi dobbiamo vedere la situazio- ne del minore, e quindi essere molto neutri nella valutazione del genitore, senza mai dare giudizi moralistici ma semplicemente prendendo atto di situa- zioni di fatto e di realtà che dovevano essere provate, questo è ovvio, ma senza mai colpevolizzare il genitore. Così ci insegnavano una volta. Evidentemente non tutti hanno capito questa lezione ed il procedimento di adottabilità si è sviluppato come procedimento di accusa contro un soggetto “colpevole” di aver abbandono il figlio, il che non è, ripeto, ma così è suc- cesso. Tornando al difensore di ufficio vi faccio notare la confusione enorme che è nata dal rinvio disposto dal decreto legge 126 del 2002 e dalla contempora- nea, o quasi, entrata in vigore del testo unico 115/2002 sulle spese di giusti- zia, risalente al maggio dello stesso anno. Quindi noi abbiamo una successio- ne di norme, tutte relative alla difesa, che vanno dal luglio del 2001 (primo decreto di rinvio n 150) al luglio del 2002 (secondo decreto di rinvio n. 126) con in mezzo il DPR 30 maggio 115 del 2002, entrato anch’esso in vigore il 1° di luglio. Che cosa dicono queste disposizioni? Prendiamo intanto il decreto legge 126 il quale stabilisce, come ho già detto, che in via transitoria, e fino all’emana- zione di una specifica disciplina sulla difesa di ufficio e sul patrocinio a spese dello Stato (che sono due cose diverse è ovvio: difesa di ufficio non signifi-

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ca patrocinio a spese dello Stato, può esserlo e può non esserlo) e comunque non oltre il 30 giugno 2003 (ecco la data che il legislatore ha posto a se stes- so e che temo non rispetterà) ai procedimenti disciplinati dalla legge 1983 n. 184 e modificazioni successive, continuano ad applicarsi le disposizioni pro- cessuali vigenti. Dunque dobbiamo riferirci all’articolo 75 della legge 184 che così dispone: “L’ammissione al patrocinio a spese dello Stato comporta l’assistenza legale alle procedure previste ai sensi della presente legge. La liquidazione delle spese, delle competenze e degli onorari viene effettuata dal giudice con appo- sita ordinanza, a richiesta del difensore, allorché l’attività di assistenza di quest’ultimo è da ritenersi cessata. Si applica la disposizione dell’articolo 14, secondo comma della legge 11 agosto ‘73 n. 533”. Quest’ultima legge riguar- da l’anticipazione da parte dello Stato nel processo del lavoro. Come nasce questo articolo 75? Nasce da una lacuna della precedente legge del 1967 sull’adozione speciale la quale non aveva previsto alcunchè per la fase di opposizione. Poiché, dopo una breve incertezza giurisprudenziale, si era giunti alla con- clusione comune che la fase di opposizione fosse una fase contenziosa, per la quale si dovesse applicare necessariamente l’articolo 82 del codice di proce- dura civile, si verificava il fatto che molti genitori non riuscivano a proporre l’opposizione nel breve termine dei trenta giorni perché non avevano il tempo di cercarsi un avvocato, di chiedere la nomina del difensore di ufficio e così via ed allora si pose un problema, direi etico, sottostante: come mette- re queste persone in grado di difendersi. L’altra questione sottostante era quella della rappresentanza del minore. Curatore speciale? siamo d’accordo ma chi lo rappresenta in giudizio il cura- tore speciale. Se è un operatore sociale, l’assistente sociale per esempio, bisogna che venga rappresentato da un avvocato. E come si può retribuire questo avvocato? L’articolo 75 ha cercato di risolvere questo problema anche se piuttosto malamente, prendendo a prestito le disposizioni del processo del lavoro, fermo restando che la competenza alla nomina del difensore d’ufficio e del gratuito patrocinatore era una questione di competenza del presidente del tribunale dei minorenni, in base alla vecchia norma, l’articolo 9 del decreto del 1934 e anche di quello successivo istitutivo del tribunale per i minorenni. Questa vecchia disciplina teneva, più o meno, sia pure attraverso incertezze e prassi locali che non avevano però grande eco nella giurisprudenza. Non so come fosse la situazione a Firenze. Devo dire che le esperienze che ho visto di persona in altre sedi e che ho anche vissuto di persona erano più o meno di questo tipo. Per esempio, al tribunale per i minorenni di Roma veniva nominato il curatore speciale nella persona di un avvocato il quale chiedeva di essere autorizzato a stare in giudizio personalmente ed alla fine gli venivano liquidati gli onorari in base all’articolo 75, quindi con pagamen- to diretto da parte dell’erario e senza ovviamente rivalse. In questo quadro, nel contesto del quale il decreto legge del luglio 2002 ha disposto questa proroga, era entrato in vigore nel frattempo l’articolo 143 del DPR 30.05.02, n. 115 Testo unico delle disposizioni legislative e regolamen- tari in materia di spese di giustizia il quale stabilisce, in un italiano estrema-

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mente zoppicante, quanto segue: “Processi previsti dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, come modificata dalla legge 28 marzo 2001, n.149. 1. Sino a quando non è emanata una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio, nei processi previsti dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, come modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, per effet- to dell’ammissione al patrocinio, sono pagate dall’erario, se a carico della parte ammessa, le seguenti spese: a) gli onorari e le spese spettanti all’avvocato, al consulente tecnico di parte e all’ausiliario del magistrato, e sono liquidati dal magistrato nella misura e con le modalità rispettivamente previste dagli articoli 82 e 83 ed è ammessa opposizione ai sensi dell’articolo 84; b) le indennità e le spese di viaggio spettanti ai magistrati, ad appartenenti agli uffici, agli ufficiali giudiziari per le trasferte relative al compimento di atti del processo fuori dalla sede in cui si svolge; c) le indennità e le spese di viaggio spettanti a testimoni e a notai; d) i diritti e le indennità di trasferta degli ufficiali giudiziari per le notifica- zioni a richiesta dell’ufficio e per le notificazioni e gli atti di esecuzione a richiesta di parte. 2. La disciplina prevista dalla presente parte del testo unico si applica, inoltre, per i limiti di reddito, per la documentazione e per ogni altra regola procedimentale relativa alla richiesta del beneficio.” Allora, in base al testo unico 115, che cosa deve fare il genitore che si vedrà notificato l’avviso di apertura del procedimento e l’invito a nominare un difensore di fiducia? Può nominare un difensore di fiducia ma può chiedere anche di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato. E come lo chiede? Lo chiede in base all’art. 124 del T.U. n. 115: l’istanza è presentata dall’inte- ressato o dal difensore al Consiglio dell’ordine degli avvocati. Non è più, quindi, il presidente del tribunale per i minorenni che nomina il difensore gratuito patrocinatore ma il consiglio dell’ordine forense. Non solo: i limiti di reddito sono quelli previsti qua, e quindi euro 9.000,00 e non so quanto ecc. Ed ancora: ogni altra regola procedimentale relativa al beneficio, e quindi la decisione sull’istanza di ammissione al patrocinio, l’ammissione anticipata da parte del Consiglio dell’ordine e l’eventuale deci- sione del giudice solo se il Consiglio dell’ordine ritiene ingiustificata, inam- missibile l’istanza. Tutto questo terremoto, fra l’altro deve tenere presente anche altre conseguenze, che esistono gli articoli 119 e 120 del testo unico 115. L’articolo 119 riguarda lo straniero e l’apolide: “Il trattamento previsto per il cittadino italiano è assicurato altresì allo straniero regolarmente soggiornan- te sul territorio nazionale”. Allora nell’ipotesi che il minore che si ritiene in abbandono sia figlio di uno straniero irregolare, clandestino, pare che non sia possibile assicurargli alcuna difesa e questa è una conseguenza molto grave perché non è certamente un’ipotesi di fantasia quella di un minore in situa- zione di abbandono figlio di un clandestino. Si potrebbe, anzi, dire che è l’i- potesi dove è più importante una difesa tecnica per sottolineare come, pro- prio la condizione di clandestinità, abbia messo i genitori in situazione tale da dover ricorrere, che so io, ad un affidamento di fatto mascherato ecc. Quindi se c’è qualcuno che ha bisogno al giorno d’oggi di una difesa tecnica efficace sono questi nuovi poveri che ormai sono una realtà molto, molto pre-

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sente ma questi nuovi poveri invece sembravano esclusi da qualunque possi- bilità di difesa. Un’altra conseguenza, se si applica il testo unico n. 115, mi sembra da tene- re in considerazione: l’articolo 120, e ditemi voi se la mia osservazione è per- tinente o meno: “La parte ammessa, rimasta soccombente, non può giovarsi dell’ammissione per proporre opposizione”. Cosa ne facciamo di questa norma? È scritto così ed allora, se l’impugnazio- ne viene respinta, qui occorrerà una nuova procedura probabilmente, una nuova richiesta. L’articolo 120 parla abbastanza chiaro: “La parte ammessa, rimasta soccombente, non può giovarsi dell’ammissione per proporre impu- gnazione salvo che per l’azione di risarcimento del danno nel processo pena- le”. Insomma, il nodo è veramente grosso e non può essere sciolto in manie- ra soddisfacente da qualunque parte si provi a sciogliere, anche perché c’è chi ritiene che l’articolo 143 sia stato implicitamente abrogato dal decreto legge 1° luglio 2002 e dalla legge di conversione 2 agosto 2002. Vi segnalo a questo proposito due articoli di Eugenio Sacchettini, che molti di voi già conosceranno, comparsi su “Guida al diritto” . Uno è pubblicato a pag. 150 del n. 7 del 2002 “Dossier n. 7” dedicato al testo unico delle spese di giustizia con il titolo “Adozioni in attesa della disciplina paga l’erario”. L’altro è pubblicato a pag. 38 nel n. 33 del 31 agosto 2002 con il titolo “Resta ancora il problema del coordinamento con l’ultimo riordino delle spese di giustizia”. L’Autore segue la tesi che vi ho sottoposto e conclude in questo modo: “Ed allora - un po’ obtorto collo, stante l’incertezza della situazione - non sembra rimanere altra soluzione, se non altro praticabile, che considerare estraneo alla previsione di cui al DL 126/2002 e relativa legge di conversione il patro- cinio a spese dello Stato nelle adozioni, confermando cioè quanto si diceva in dossier 7/2002 di , pag.150 circa l’applicabilità in via transitoria, nonostante tutto, dell’articolo 143 del testo unico.” Quindi: istan- za al Consiglio dell’ordine, nomina di un difensore da parte del Consiglio dell’ordine, pagamento delle spese da parte dello Stato. Notate l’art. 143 parla di pagamento delle spese mentre nelle altre ipotesi parla di anticipazione delle spese, per quanto possa occorrere, e speriamo bene perché una cosa è certa, che una nuova disciplina della difesa nei giudi- zi minorili chissà quando verrà. Voi sapete che vi sono due progetti di legge attualmente all’esame del Parlamento relativi alla giustizia minorile: i progetti di legge governativi pre- sentati l’anno scorso che prevedono, da un lato, la soppressione delle compe- tenze civili del tribunale per i minorenni, dall’altro l’attribuzione di queste competenze, compresa l’adottabilità, a delle istituende sezioni specializzate presso i tribunali ordinari. È chiaro che in questa situazione, il Governo non ha alcun particolare inte- resse a disciplinare provvisoriamente una materia davanti ad un organo che vuole spogliare di questa competenza, e di conseguenza è facilmente preve- dibile che nell’attesa di questa palingenesi che sembrava imminente, ma che poi si sono dimostrati incapaci di realizzare, anche la previsione del decreto legge del termine del 30 giugno prossimo venturo, rimarrà inattuata dopodi- ché ci troveremo con l’articolo 143 e cercheremo di fare con quello.

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Questo è quello che io sono riuscito ad immaginare, confessandovi che la mia fantasia è del tutto insufficiente davanti ad un nodo come questo. A questo punto penso che possiamo parlarne anche in base alle esperienze locali.

DIBATTITO

DOMANDA Vorrei chiedere un chiarimento. Se questa strada che lei ha indicato sembra percorribile per i genitori, che quindi dovrebbero fare ricorso al Consiglio dell’ordine per la nomina del proprio avvocato, nel caso invece del minore direi che siamo nell’ottica che è il Presidente del tribunale per i minorenni che gli nominerà un avvocato. C’è anche chi dice addirittura che dovrebbero provvedere alla nomina i genitori che ancora non sono stati dichiarati deca- duti dalla potestà però mi chiedo se provvedono i genitori che senso ha che il minore abbia il proprio avvocato: c’è sicuramente un conflitto di interessi.

RISPOSTA Ho saltato un passaggio, me ne scuso. Grazie che me l’ha fatto venire in mente. Una delle conseguenze più nefaste del nuovo procedimento disegnato dalla legge 149 è la scomparsa del curatore speciale, figura che era necessaria con il precedente (ed ancora attuale) procedimento perché l’articolo 17 chiara- mente dice che, quando è proposta opposizione, viene nominato un curatore speciale che rappresenta il minore in giudizio. Abolita la fase dell’opposizione il curatore speciale non sembrerebbe più essere una figura necessaria, tanto è vero che l’articolo 15 nuovo testo della legge 184, come riformato dalla legge 148, prevede che la sentenza di adot- tabilità sia notificata per esteso al pubblico ministero, ai genitori ed ai paren- ti, al tutore nonché al curatore speciale, ove esistano. Quindi si ipotizza che venga dichiarato lo stato di abbandono senza che ci sia né un tutore né un curatore speciale, quindi con i genitori pienamente nel possesso della loro potestà genitoriale, ed è un’ipotesi stranissima perché non si riesce a capire come un tribunale possa dire “questo bambino è abbando- nato” senza che esista in quel momento ancora un tutore o un curatore spe- ciale. Allora è evidente che il nodo si presenta là dove la legge non ipotizza un conflitto di interessi enorme tra il genitore ed il bambino che si suppone in abbandono. L’idea che era nella testa del legislatore, o di chi ha scritto questa norma, era che ci fosse, da una parte, il tribunale per i minorenni cattivo, dall’altra, il papà, la mamma ed il bambino, tutti quanti buoni, che si devono difendere dal tribunale per i minorenni. Questo era lo scenario immaginato, del tutto privo di riscontro nella realtà, da chi ha scritto questa norma perché se è vero, come è nei procedimenti di adattabilità, che il bambino è vittima di un comportamento, sia pure incolpe- vole, dei genitori, o comunque che il bambino è in situazione di carenza dei genitori, noi dobbiamo immaginare che tra il bambino ed i genitori non ci sia

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questa sintonia di interesse e di posizione. Il bambino, o chi per esso ovviamente, ha tutto il diritto di poter dire “il papà e la mamma mi trascurarono” in un procedimento davanti al giudice, ed il papà e la mamma hanno tutto il diritto di poter dire “non è vero, noi non lo trascuriamo” oppure “lo abbiamo trascurato per causa di forza maggiore tran- sitoria”. Però perché ci sia questa dialettica è indispensabile che anche il bambino sia rappresentato e non può non essere se non tramite un curatore speciale, di qui la necessità che mi sembra evidente che fin dall’inizio del procedimento venga sempre nominato un curatore speciale al bambino, con- sentendolo la legge perché l’articolo 10 nuovo testo stabilisce che il tribuna- le può disporre in ogni momento e fino all’affidamento pre-adottivo ogni opportuno provvedimento provvisorio, ivi compresa la sospensione dalla potestà dei genitori sul minore, la sospensione dall’esercizio delle funzioni del tutore e la nomina di un tutore provvisorio. È vero che non si parla di curatore ma sono due figure non necessariamente coincidenti e sono due figure non necessariamente alternative. Ben può esser- ci sia il tutore che il curatore speciale e comunque la nomina del curatore spe- ciale può essere basata anche su principi di carattere generale senza bisogno di fare ricorso a questo terzo comma dell’articolo 10. C’è da augurarsi, quindi, che nella giurisprudenza dei giudici di merito a par- tire dal 1° luglio, non appena viene aperto un procedimento per la dichiara- zione di adattabilità su ricorso del PM, ci si ponga il problema se sia oppor- tuna o no la sospensione dalla potestà dei genitori con quello che segue. Non solo: ci si domandi se è opportuna o no la nomina fin dall’inizio di un curatore speciale del minore ed io credo che, se si comincia a parlare in ter- mini di articolo 111 della Costituzione, se si comincia a parlare in termini di parti contrapposte, probabilmente, fin dall’inizio sarà necessario nominare un curatore speciale, cosa che adesso non è perché il curatore speciale si nomina solamente quando e se c’è l’opposizione, ma con questo nuovo rito viene reso inevitabile. D’altra parte se c’è questa istruttoria, svolta con la partecipazione delle parti, la nomina di un curatore speciale è ancora più necessaria perché non si vede quale sia la parità tra i soggetti attori del processo, quando solamente i geni- tori, per esempio, partecipano agli accertamenti e non vi partecipa il difenso- re del minore, difensore che non può essere che nominato su richiesta del curatore speciale. Mi sembra un meccanismo che funziona così.

DOMANDA Vorrei tornare sul punto che mi sembra nevralgico ossia: se è il curatore spe- ciale che chiede la nomina del difensore, come Lei ipotizza, il difensore fini- rebbe per rappresentare il curatore speciale che è cosa ben diversa dal rappre- sentare il bambino. Allora non avremmo più l’avvocato del minore ma avremmo la figura già nota del difensore del curatore speciale nei casi in cui il curatore speciale nominato non sia un avvocato ma, ad esempio, un’assi- stente sociale. Così interpretando la norma, però, mi pare che saremmo lon- tani dalla rappresentanza vera del minore mentre l’obiettivo della riforma sembra essere quello di munire di un proprio difensore il minore, non il rap- presentante curatore speciale del minore.

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RISPOSTA Me ne rendo perfettamente conto ma qui il problema diventa molto comples- so perché certe scelte, per esempio quelle relative non soltanto all’ambito processuale ma anche all’ambito sostanziale, vengono fatte dal difensore in quanto tale, o vengono fatte dal difensore in quanto difensore del rappresen- tante legale del minore? oppure il fatto di cumulare in sé la qualifica di difen- sore e di curatore speciale può essere la via, quella che è stata seguita fino ad ora nella prassi per i giudizi di opposizione, proprio per avere questa coinci- denza di capacità di scelta di soluzioni personali e sostanziali e la capacità di difesa tecnica di quella stessa scelta. Questo è il problema.

DOMANDA Poi può sorgere un ulteriore problema, ossia che il curatore speciale del minore legga la situazione in una certa maniera mentre il minore, magari anche grandicello, si esprima in tutti altri termini e quindi, per dar voce real- mente al minore, c’è bisogno di un difensore che sia in contatto diretto con il minore stesso, non con il suo curatore speciale.

RISPOSTA Non c’è dubbio. Questa è la situazione. C’è da dire una cosa che il progetto di legge relativo al difensore del minore, è un progetto che è stato raffredda- to quindi anche quello è fermo. Non è stato nemmeno ripresentato nell’attua- le legislatura quindi la prospettiva è questa, a mio parere: che i procedimen- ti di adottabilità saranno sempre meno e che i minori adottabili saranno sem- pre meno, il che non vuol dire che saranno sempre meno i minori in abban- dono, questo è ovvio, è evidente. C’è una particolarità da dire: che gli articoli 330 e 333 c.c., modificati dal- l’articolo 37 della Legge 149, non modificano l’articolo 336 del codice civi- le se non aggiungendovi un comma relativo alla difesa ma non per quanto riguarda il potere del tribunale per i minorenni in composizione collegiale di prendere provvedimenti provvisori ed urgenti di sospensione della potestà, per cui mentre l’iniziativa di ufficio del tribunale è preclusa per il procedi- mento di azione di adottabilità, la possibilità di iniziare di ufficio un proce- dimento di controllo della potestà genitoriale parrebbe salva essendo rimasto immodificato l’articolo 336 ex ultimo comma, diventato ora penultimo, rela- tivo al provvedimento provvisorio ed urgente di sospensione dalla potestà e di nomina di un tutore provvisorio, a meno che non si ritenga che questo provvedimento non richieda comunque una successiva conferma o convalida entro un tempo dato, ma la legge non l’ha toccato, non l’ha modificato que- sto punto. Questa è la situazione.

259 L’AVVOCATO DEL MINORE

l tema che mi viene assegnato, la capacità del minore in relazione all’eser- cizio dei suoi diritti, è di quelli che presentano numerosi profili di indagi- Ine. Si intrecciano infatti, in questa materia, aspetti di grande interesse teo- rico - che attengono al profilo istituzionale dell’istituto dell’incapacità lega- le di agire - e aspetti di indagine pratica, che riguardano la effettiva condizio- ne del minore nello svolgimento dell’attività giuridica. Il tema è di notevole importanza e di grande attualità: lo confermano molte possibili considerazioni. Basti pensare ad esempio che, nel momento in cui si procede alla creazione di un diritto europeo dei contratti, uno dei settori che richiede attenta considerazione e che viene segnalato come centrale è proprio quello dell’incapacità di contrarre. Nell’affrontare l’argomento dell’incapacità del minore, è indispensabile muoversi su un doppio piano di indagine. Il primo riguarda i principi: sotto questo profilo la storia della condizio- ne giuridica del minore negli ultimi 30-40 anni è la storia del progressivo e sempre più pieno riconoscimento dei suoi diritti. Quando dal piano dei prin- LA CAPACITÀ DEL MINORE cipi si scende a quello delle regole, cioè si osserva quali sono gli strumen- IN RELAZIONE ti che il diritto offre all’effettiva rea- lizzazione dei diritti e delle libertà del ALL’ESERCIZIO minore, ci si rende facilmente conto che la bellezza dei principi che gover- DEI SUOI DIRITTI na la condizione del minore si scontra con le coordinate rigide delle regole di diritto civile: di fronte al problema dell’effettivo esercizio dei diritti, torna in gioco l’incapacità legale di PROF.SSA agire del minore. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un soggetto ampiamente, FRANCESCA pienamente, direi talvolta vistosamente protetto, ma anche ad un soggetto che GIARDINA si muove entro coordinate rigide perché il diritto civile gli impone - ed in ter- mini generalissimi, perché la norma che crea per il minore l’incapacità lega- STRAORDINARIO DI DIRITTO CIVILE le di agire è una delle norme di apertura del codice civile, l’articolo 2 - una UNIVERSITÀ DEGLI STUDI serie di strumenti di protezione. DI PISA È necessario, a questo punto, aprire una breve parentesi sulle ragioni per le quali l’incapacità legale di agire del minore è prevista da una norma di aper- tura del codice civile che definisce la condizione dei soggetti giuridici ed ha, quindi, una portata tanto generale. Questa premessa aiuterà a comprendere perché è tanto difficile superare o anche solo aggirare, quando si definisce la condizione del minore, l’istituto dell’incapacità legale. La scelta di fare dell’incapacità un istituto di portata generalissima, introdot- to nel codice civile da una norma di apertura, legata non alla definizione dei singoli atti che il soggetto può compiere, ma alla condizione del soggetto di diritto nel suo complesso, è una scelta del legislatore del codice ‘42 che non trova corrispondenza nel grande modello storico delle codificazioni europee, il code Napoléon. Il codice civile francese del 1804 prevedeva e prevede tut- tora l’incapacità del minore di obbligarsi, un’incapacità legata e circoscritta

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alla manifestazione della volontà del privato di assumere obbligazioni; un istituto, quindi, strettamente legato all’attività di natura patrimoniale. I mino- ri sono incapaci di obbligarsi, questo ci dice il codice napoleonico, nient’al- tro: non esiste l’incapacità legale di agire nella sua generale e onnicompren- siva presenza, quella che siamo abituati a conoscere oggi nel nostro ordina- mento, quella che siamo abituati a criticare, a tentare di scalfire talvolta con opportuni interventi di riesame dell’istituto. L’incapacità del minore di obbligarsi nasce per una ragione molto semplice, perché il codice napoleonico, votato a razionalizzare le regole del diritto pri- vato, aveva assoluto bisogno di chiarezza nell’individuazione della condizio- ne del privato nello svolgimento del traffico giuridico. La grande finalità era realizzare l’unificazione del soggetto di diritto eliminando gli stati e le qua- lità arbitrarie del privato, fonti di discriminazione, noti all’epoca precedente, l’epoca del particolarismo giuridico, così definito con termine spregiativo proprio perché stabiliva regole particolari per soggetti particolari. Oltre che di discriminazione, il particolarismo giuridico era fonte di confusione e di irrazionalità del sistema. La grande semplificazione del codice napoleonico è quella di rendere chiara e inequivocabile l’applicabilità della regola, poiché la regola è unica e unico è il soggetto. In tal modo il sistema garantisce egua- glianza, ma soprattutto razionalità. Ma perché il soggetto sia unico e la rego- la sia unica occorre una sola fondamentale eccezione, quella che si lega all’e- sigenza di protezione dei soggetti che non sono ancora eguali agli altri, che non sono altrettanto scaltri e altrettanto capaci di contrattare. L’incapacità di obbligarsi è un istituto che garantisce, insieme, la protezione del minore e la sicurezza della contrattazione. Questo è il senso dell’incapacità di agire del minore che, nel codice napoleo- nico, altro non è che incapacità di contrarre. La condizione del minore nella famiglia è quasi del tutto irrilevante, perché la famiglia è, secondo una notis- sima immagine, “un’isola che il mare del diritto può solo lambire”. Quel che conta è la creazione di regole efficaci per regolare la contrattazione tra priva- ti, cioè per disciplinare adeguatamente i modi attraverso i quali circola il diritto di proprietà. È richiesta, evidentemente per ragioni di certezza del traffico e di sicurezza della contrattazione, una rigida semplificazione: non ci sono sfumature, o si è capaci o si è incapaci. Questo è il punto di partenza, questa è la genesi della condizione del minore nel sistema creato dalle codificazioni negli ultimi due secoli. Le ragioni per cui da questo nucleo di norme è nata l’attuale incapacità legale di agire sono ragioni di vario genere. La prima, la più generale e di più ampio respiro, è legata alla vocazione eminentemente patrimoniale del diritto privato, cioè al fatto che il diritto privato offre una struttura e degli strumenti fortemente legati alle esigenze e agli interessi patrimoniali dei soggetti di diritto: gli isti- tuti che ne derivano nascono tagliati su queste esigenze e su questi interessi. Tutto quello che attiene alla sfera di natura personale dei privati per un lungo periodo di tempo non interessa il diritto privato e nel momento in cui comin- cia ad assumere rilevanza si adatta agli strumenti che il diritto privato classi- co offre. Che cosa si fa, ad esempio, per qualificare gli interessi di natura per- sonale del privato? Si usa la categoria del “diritto soggettivo” che nasce modellata sull’anima universale del diritto privato, il diritto di proprietà, si

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usano cioè un istituto e una tecnica di qualificazione degli interessi di stam- po tipicamente patrimoniale. Egualmente avviene per la condizione del sog- getto: l’incapacità nasce per rispondere ai problemi di gestione degli interes- si patrimoniali del privato e viene generalizzata per servire anche agli inte- ressi di natura non patrimoniale. In altre parole, dovendo trovare regole per un ampio settore di interessi che il diritto privato ha considerato irrilevanti per un lungo periodo di tempo, l’interprete usa gli strumenti che ha, più pre- cisamente piega strumenti a forte vocazione patrimoniale ad esigenze di natura non patrimoniale. Il diritto soggettivo diventa anche il diritto sogget- tivo non patrimoniale, l’incapacità diventa anche l’incapacità in atti non patrimoniali. Questa tendenza si avvale anche della forte influenza esercitata da altre espe- rienze: sul corpo di norme che nasce dal diritto francese della codificazione si innesta la matrice germanica della grande astrazione ricostruttiva dell’atti- vità giuridica del privato. Ecco che allora l’incapacità, che era solo incapaci- tà di obbligarsi per contratto diviene, attraverso la categoria del negozio giu- ridico, l’incapacità assoluta di qualunque attività giuridica. La grande opera di astrazione legata alla categoria del negozio giuridico fa sì che anche l’in- capacità, divenuta negoziale, si trasformi in incapacità totale. All’esito di questo lungo percorso che ho forzatamente semplificato e reso estremamente sommario per ragioni di sintesi, troviamo un soggetto assolu- tamente incapace di agire perché non in grado di svolgere validamente nes- suna attività giuridica. All’esito di questo processo storico un istituto che era funzionale alla certezza del traffico giuridico e alla sicurezza della contratta- zione finisce per investire tutta l’attività del privato e diviene - grazie all’am- pio potere di generalizzazione offerto dalle categorie concettuali del diritto privato classico di derivazione germanica - uno strumento di protezione e, al tempo stesso, di esclusione totale. Ecco perché l’incapacità legale di agire del minore è prevista dall’art. 2 e col- locata in apertura del codice civile, a significare che nessun atto per il quale non sia stabilita una età diversa - per il quale, cioè, non sia la legge stessa ad autorizzare l’eccezione - può essere compiuto prima della maggiore età. Il risultato di questa straordinaria semplificazione - che ha creato tante resi- stenze all’effettiva e concreta valorizzazione degli aspetti di sviluppo della persona del minore - è stato che l’incapacità legale di agire, come tutti gli istituti che sono basilari nella fondazione o rifondazione di un sistema giuri- dico, ha assunto una dimensione ancora maggiore rispetto a quella che gli è propria. Si usa talvolta il termine “dogma” a significare che un istituto è, in qualche modo, cresciuto su se stesso, ha cioè assunto un significato più ampio della sua portata. In questo senso l’articolo 2 del codice civile intro- duce nel nostro sistema un dogma, l’incapacità legale di agire del minore. Si tratta di un dogma che ha conosciuto, tra l’altro, elaborazioni concettuali tra le più raffinate, basti pensare a una delle opere più belle che siano mai state scritte sulla capacità, dovuta ad uno dei massimi civilisti viventi (Falzea), e che descrive la capacità e l’incapacità dei soggetti come condizioni in oppo- sizione perfetta. L’incapacità del minore ha un rimedio perché il sistema non può stabilire l’e- sclusione del privato dall’attività giuridica senza prevedere un rimedio: il

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rimedio è offerto dagli istituti del diritto familiare. In questo senso, si è detto, l’incapacità legale di agire è il punto di cesura tra ordine delle famiglie e regole contrattuali. La patria potestà è infatti funzionale all’incapacità del figlio minore e, se scorriamo le norme che l’istituto della potestà tramanda attraverso le codificazioni, troviamo che amplissima attenzione è data ai pro- fili di natura patrimoniale, proprio perché la potestà serve, in origine, soprat- tutto alla rappresentanza e alla amministrazione dei beni del minore. Questo è il punto di arrivo di una lunga evoluzione che non conosce né soste né incertezze. Il civilista che studia la condizione del minore incapace si trova, fino ad una certa epoca del ‘900, in una condizione di assoluta e rassi- curante certezza. Non ci sono dubbi nell’individuare il soggetto che può svol- gere una certa attività, non ci sono dubbi sulle conseguenze di questa attivi- tà, non ci sono dubbi sulle conseguenze di una attività posta in essere in maniera sbagliata. In altri termini si sa sempre, di fronte alla condizione di minore età di un privato, chi deve fare che cosa e come. Gli atti devono esse- re compiuti dal genitore, rispettando le regole di esercizio della potestà: se l’atto viene compiuto dal genitore deve avere determinate caratteristiche, deve talvolta ricevere determinate autorizzazioni; se l’atto viene compiuto dal minore è annullabile, lo insegna il diritto civile classico, anche se poi si dimentica che l’annullabilità è uno strumento che non toglie efficacia all’at- to compiuto e che consente anche il mantenimento dell’atto, cioè una sorta di prolungamento dell’autonomia privata a garanzia del soggetto incapace. Mi scuserete se ricordo nozioni note a tutti, ma il quadro d’insieme è indi- spensabile per avere chiara la sensazione di chi sia il minore fino ad una certa epoca. Il minore fino agli anni ‘60 del secolo scorso è un soggetto totalmen- te protetto nell’area patrimoniale, perché questo è il senso dell’istituto del- l’incapacità legale di agire che lo affligge; è anche un soggetto totalmente protetto nell’area familiare e personale, perché anche in quest’area tutto deve con coerenza rispondere all’esigenza di fondo. Come si rappresenta l’incapa- ce all’esterno del nucleo familiare, così lo si protegge all’interno. Un’opera celebre in quegli anni distingueva la potestà in due aspetti, aspetto interno ed aspetto esterno, che costituivano le due facce della stessa medaglia, rappre- sentanza all’esterno nei confronti dei terzi - in ragione dell’esclusione dal traffico giuridico - protezione all’interno del nucleo familiare. Si tratta di un quadro estremamente rassicurante perché perfettamente coerente al suo interno, e dunque in grado di fornire ciò che al civilista nor- malmente interessa, cioè la certezza del sistema. Anche le norme che creano eccezioni all’incapacità sono norme del tutto coerenti con il sistema di rife- rimento. Persino l’incapacità naturale - che costituisce lo spiraglio per per- mettere talvolta l’impugnazione di un atto compiuto da un soggetto capace - è perfettamente coerente con il sistema di fondo, è solo la valvola di sicurez- za che permette di evitare una eccessiva rigidezza delle regole che presiedo- no al compimento dell’attività giuridica da parte dei privati. Questo rassicurante ordine concettuale e normativo comincia a mostrare tra le sue pieghe qualche piccola crepa, crepa che diventa gigantesca nel momento in cui ad essa si accompagna una complessiva valutazione di insie- me che individua nella depatrimonializzazione del diritto privato uno dei compiti fondamentali del civilista a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso.

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Tutto il diritto privato è pervaso da questa logica e da questa esigenza: basti pensare, per citare qualcosa di molto lontano dal tema di cui stiamo parlando oggi, all’importanza assunta dall’esigenza di risarcire il danno alla persona che si fa, in origine, faticosamente strada all’interno di un sistema dove la patrimonialità è centrale; basti pensare alla difficoltà di immaginare il risar- cimento del danno alla salute in un sistema dove il danno è, in origine, la dif- ferenza tra il patrimonio del privato quale era prima del danno e quale è dopo. Dopo l’epoca delle sicurezze, l’epoca delle difficoltà: il sistema nato per esi- genze patrimoniali deve piegarsi, talvolta anche in maniera non del tutto coerente a esigenze diverse. Questa nuova tendenza accompagna anche il percorso dell’incapacità legale. Alla condizione del minore protetto in quan- to proprietario che non deve arrecare pregiudizio al suo patrimonio fino a che non è in grado di gestirlo adeguatamente si affianca lentamente l’esigenza di valorizzare la persona del minore. Si giunge ad una situazione contraddittoria, quasi schizofrenica: al minore vengono riconosciuti sempre più diritti, ma resta ferma l’incapacità di eser- citarli. Siamo di fronte alla sempre più ampia garanzia dei diritti del fanciul- lo - così lo chiamano le convenzioni internazionali - ma persiste l’incapacità del minore del diritto privato classico. La stessa persona è un fanciullo parti- colarmente degno di protezione e un minore al quale, per ragioni chiarissime di coerenza d’insieme del sistema, è impedito l’esercizio di ogni diritto. Si manifesta, così, quel doppio piano di indagine al quale facevo riferimento all’inizio. Man mano che l’esigenza di valorizzare la persona del minore si sottopone all’attenzione degli operatori del diritto, il sistema scricchiola. Il figlio non può più essere considerato - come si affermava in un passato peraltro non molto lontano - “oggetto anziché soggetto di diritto” e la patria potestà non è più in tutto analoga al diritto di proprietà. Di conseguenza il giudice minori- le non può più essere il “braccio secolare della patria potestà”. I primi casi sono clamorosi e fanno epoca: la trasfusione di sangue autorizzata contro la volontà del genitore, il diritto del minore di professare una fede religiosa diversa da quella del genitore. Nascono i primi diritti del minore. Ma come si esercitano questi diritti? Attraverso i Giudici, perché non è ancora possibi- le in alcun modo immaginare un esercizio diretto. Grazie all’uso di norme non nuove ma riscoperte, gli articoli 330 e 333 del codice civile, che però non possono essere invocate direttamente dal minore. È questa l’epoca della grande rivoluzione copernicana: l’introduzione dell’a- dozione speciale. In un sistema dove nessun Giudice poteva intervenire nei criteri di governo della famiglia, neppure per un provato interesse del figlio viene introdotto un istituto che recide il legame del minore con la famiglia di origine e ne crea una nuova. L’istituto dell’adozione è sempre molto impor- tante per capire quale sia il grado di evoluzione del sistema di protezione del minore. L’adozione è, direi, l’osservatorio privilegiato per chi si occupa di questi temi, perché, attraverso le leggi sull’adozione e sugli istituti legati all’adozione, siamo in grado di decifrare qual’è la posizione del legislatore nei confronti dell’istituto familiare. E non è un caso che l’interesse per i diritti del minore e, oggi, per il ruolo dell’avvocato per la famiglia e per i minori sia legato comunque ad una legge in materia di adozione. Non è un

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caso perché l’adozione è sempre l’istituto che, rispetto al sistema di riferi- mento, il diritto della famiglia, rappresenta il frammento più in fieri, quello che consente fughe in avanti rispetto ai tempi lunghi delle trasformazioni epocali. Al diritto privato classico di vocazione patrimoniale comincia a sovrapporsi, prima timidamente e poi decisamente, un diritto privato delle persone, nel quale le categorie classiche manifestano tutta la loro inadeguatezza a regola- re interessi nuovi. Si dimostra inadeguato anche l’istituto dell’incapacità legale di agire, esteso dal settore patrimoniale a ogni tipo di attività del pri- vato, e che la dottrina e la giurisprudenza si trovano costrette a riportare nel- l’alveo tradizionale. Grazie all’opera della giurisprudenza e della dottrina, l’incapacità legale di agire tende a diventare solo e di nuovo incapacità di natura patrimoniale. Si pensi alla legge in materia di interruzione volontaria della gravidanza e alla storia interpretativa dell’articolo 12 dove, per la donna minorenne che intende interrompere la gravidanza, si introduce una procedura differente rispetto a quella che è prevista per la donna maggiore di età. Questa norma suscita reazioni disparate: per un verso, si dice, si tratta di una grave violazione della potestà dei genitori - considerato istituto di rango costituzionale! - perché si consente alla donna minorenne di giungere all’in- terruzione della gravidanza senza il consenso dei genitori e attraverso l’auto- rizzazione del giudice tutelare. Ad altri giudici la norma è apparsa incostitu- zionale perché viola il principio di eguaglianza tra donna minorenne e donna maggiorenne. Ma, al di la delle diverse posizioni, è un problema di incapaci- tà quello che riguarda la donna minore nella scelta, di natura squisitamente personale, di interrompere la gravidanza? È per ragioni di incapacità legale di agire che le regole che riguardano la donna minore sono regole diverse da quelle dettate per la donna maggiorenne? Rispondere di no, all’epoca, signi- ficò riaffermare che l’incapacità era nata per atti di natura patrimoniale e doveva riguardare solo quelli. Nelle aree di tutela della persona, non era più possibile immaginare l’influenza di un istituto a vocazione patrimoniale come l’incapacità legale di agire. La rinnovata considerazione del minore nella sfera dei diritti e degli interes- si di natura personale si estese ben presto al di fuori degli stretti confini del diritto privato. Emblematica è la vicenda che si lega all’interpretazione delle norme penali in tema di sottrazione consensuale del minore alla potestà. Si era affermato a lungo - lo affermava la dottrina, ma soprattutto la giurispru- denza della Suprema Corte - che il reato sanzionava la violazione della pote- stà del genitore, dunque proteggeva l’interesse di quest’ultimo. Si deve atten- dere molto tempo per un radicale mutamento di prospettiva che riconosce finalmente come la norma penale debba intendersi posta a protezione dell’in- teresse del minore. A questo punto della vicenda che stiamo ripercorrendo, l’incapacità legale di agire viene ricondotta nei margini dell’attività patrimoniale del privato, men- tre nella sfera di natura personale si aprono gli spazi della sempre più ampia ricostruzione di uno statuto dei diritti del minore che viene consentita dalla lettura della Carta Costituzionale e dei testi delle Convenzioni internaziona- li sul tema. Ma, una volta distinta l’attività patrimoniale - nella quale l’inca- pacità legale può ancora funzionare come forma di protezione - dall’attività

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di natura personale - da lasciare al grado di libertà che al minore può essere consentito in ragione del grado di maturità raggiunta - nasce in tempi più recenti un ulteriore problema, legato alla sensazione che l’area del privata- mente disponibile non coincida più totalmente con l’area del patrimoniale. Si è sempre partiti dal presupposto che si potesse parlare di attività dispositiva, legata cioè all’esercizio della facoltà di disposizione del privato, per i diritti di natura patrimoniale. In tempi più vicini a noi, è stata avanzata l’opinione che in realtà esista, nel diritto privato, un’area che riguarda interessi di natu- ra personale ma consente attività dispositiva. Un esempio può chiarire imme- diatamente la questione. La legge sul trattamento dei dati personali è stata interpretata da più parti come una legge che consente al privato l’esercizio di una sorta di facoltà di disposizione dei propri dati. Non si tratta, a mio avvi- so, di una interpretazione corretta poiché legge il consenso al trattamento dei dati personali in una logica di tipo proprietario: al contrario, il consenso non rappresenta una forma di alienazione, dato che non preclude il successivo controllo dell’interessato sull’uso dei dati da parte del titolare del trattamen- to. Detto questo, e da questa interpretazione della legge sul trattamento dei dati personali che ho appena criticato, si è tratta la sensazione che sia possi- bile un’attività dispositiva anche nell’area dei diritti di natura personale. E l’impressione potrebbe essere rafforzata dal fatto che la legge, a proposito degli incapaci, detta una contortissima disposizione che ha il pregio di esse- re quasi incomprensibile, ma sembra dire che in caso di incapacità il consen- so al trattamento dei dati personali non è necessario. Esiste dunque il rischio - legato a un’interpretazione estensiva del privatamente disponibile, nell’am- bito di una rinnovata visione proprietaria del controllo sui propri dati perso- nali - che l’incapacità legale di agire assuma nuovamente una vocazione e una portata ampie e indiscriminate. Vorrei, a questo punto, lasciare spazio alle vostre domande.

DIBATTITO

DOMANDA Abbiamo visto cosa accade quando la ragazza vuole interrompere la gravi- danza, ma i genitori non sono d’accordo. Che cosa succede nel caso opposto, quando i genitori vogliono una interruzione di gravidanza e la minore è con- traria?

RISPOSTA Questa è una domanda alla quale si può dare una risposta soltanto sapendo in anticipo chi esercita i diritti del minore, cioè risolvendo il problema del quale ci stiamo occupando. In altri termini, è dato ai genitori esercitare i diritti della minore in quest’area cosi delicata? È certo che il genitore possa stipu- lare un contratto, vendere un appartamento o comprarne uno, dare in locazio- ne un bene nell’interesse del minore, ma può decidere una interruzione di gravidanza al posto della minore? In altri termini, chi esercita i diritti dei minori? L’attività di sostituzione dell’incapace da parte del rappresentante

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legale è possibile in ogni settore della attività del privato? A mio avviso no. Ritengo che solo per gli atti di natura patrimoniale possa operare la tipica attività di sostituzione consentita dalla rappresentanza legale. Né la legge sulla interruzione della gravidanza né alcuna altra normativa autorizzano un’estensione della rappresentanza dei genitori all’attività di esercizio dei diritti e delle libertà personali.

DOMANDA Scusi se la interrompo, ma mi sembra che la legge ponga più il problema della volontà di interrompere la gravidanza che non della volontà di non interromperla, quindi mi ero posta il problema perché si concentra l’attenzio- ne sulla interruzione, non sulla volontà contraria.

RISPOSTA La legge non si pone il problema che ovviamente, quando non è previsto in una norma specifica, deve essere risolto sulla base delle regole generali. Le regole generali sono quelle che l’interprete ricostruisce sulla base dei princi- pi, e sulla base dei principi ritengo si possa affermare che un’attività di rap- presentanza e di sostituzione dell’autonoma manifestazione della volontà di un privato sia possibile solo quando la legge lo consente. Ritengo doveroso concludere che, se la legge nulla dice sulla volontà di non interrompere la gravidanza, vuol dire che questa è una volontà che la donna manifesta auto- nomamente e personalmente: nessuno può sostituirsi a lei nell’esprimerla. Non mi pare che sia mai stata immaginata nessun’altra possibile soluzione.

DOMANDA Mi sembra interessante ritornare un momento su un concetto che lei ha richiamato prima ossia alla affermazione, un tempo, di una netta distinzione fra capacità e incapacità. Mi sembra che oggi, quando si parla appunto di diritti della persona e non più patrimoniali, il concetto sia completamente rovesciato: credo che la capacità a questo punto possa avere soltanto un significato relativo soprattutto nella logica dell’avvocato del minore che dovrà anche fare una valutazione di quanto quel minore afferma per poi esse- re rappresentato. L’analogia che mi viene automatica è con l’anziano o con il malato. Anche lì, ricordo Cendon per esempio, si va verso una valutazione relativa della capacita, c’è qualcosa che forse la persona pur malatissima può fare e qualcos’ altro che non può fare. Credo che vada superato il concetto.

RISPOSTA Sono perfettamente d’accordo: questa era una riflessione destinata alla seconda parte, dedicata alla revisione dell’idea di capacità come monolite, come blocco intangibile che risale alle codificazioni e che sarebbe probabil- mente il momento di superare. Si tratta di un’esigenza molto attuale, non sol- tanto per le attività di natura personale, settore in cui il problema è più sen- tito e più forte. Basti pensare alla capacità di discernimento del minore pre- vista dalla legge sull’adozione: è chiaro che non può essere immaginata come un monolite, deve essere ricostruita come una capacità che sia l’avvocato che il giudice misurano e graduano anche nella portata degli effetti che le attri-

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buiscono. Ma direi che in questa logica si pone anche tutta quella normativa che non è ancora approvata ma che è ampiamente conosciuta e ampiamente sentita come necessaria e che concerne le forme alternative alla rappresentan- za legale nella gestione degli interessi dell’incapace. Intendo riferirmi al pro- getto che mira a introdurre la c.d. amministrazione di sostegno. I progetti pre- cedenti a quello che è all’esame del Parlamento e che è legato alla sola atti- vità contrattuale si spingevano oltre. Nel progetto originario di Cendon c’era una norma che sanciva la responsabilità civile dell’incapace e che poi è spa- rita nel successivo progetto sulla amministrazione di sostegno. Una volta deciso che la capacità debba essere valutata e graduata, resta il pro- blema di decidere come graduarne le conseguenze. Prendiamo, ad esempio, la capacità di discernimento che compare nella legge sull’adozione: il mino- re viene chiamato ad esprimersi se ha la capacità di discernimento, ma ad esprimere che cosa? Non un parere vincolante, che può essere espresso solo al raggiungimento di una determinata età, il che significa che non ci si sot- trae ancora alla logica della capacità tradizionale, se ne abbassa soltanto la soglia, consentendo al minore di esercitare i propri diritti ad una età inferio- re. La legge dice che, al di sotto di questa età, il minore deve essere sentito quando ha raggiunto la capacità di discernimento. Che cosa significa che il minore deve essere sentito? Che processualmente non è parte, dunque la posizione che assume è quella di un teste.

DOMANDA Comunque rimane invariato tutto ciò che riguarda la capacità del minore nel- l’aspetto patrimoniale, perché quello rimane comunque cristallizzato.

RISPOSTA Su questo si discute molto. Si potrebbe, ad esempio, prendere spunto dall’e- sperienza francese che consente di rescindere per lesione o di modificare le condizioni del contratto stipulato dall’incapace, senza annullarlo.

DOMANDA Io faccio una premessa sulla quale le chiedo di darmi qualche ulteriore chia- rimento e cioè mi domando se e in che misura giochi sulla individuazione del campo di operatività della capacità-non capacità l’evoluzione direi spasmo- dica dei tempi moderni del concetto di patrimonio che non è più da tempo un patrimonio in senso ragionieristico ma annovera al suo interno una serie di posizioni soggettive le più varie. La premessa resta comunque questa, se e in quale misura influisce questo nuovo concetto di patrimonio sullo spazio di operatività della capacità-non capacità, sicuramente ci sono delle cose che afferiscono alla persona che non appartengono al concetto di patrimonio.

RISPOSTA Lei tocca uno dei temi più significativi del diritto privato con questa questio- ne: il problema della qualificazione degli interessi che è un problema di significato non soltanto teorico ma anche pratico. Il problema della qualifi- cazione degli interessi si pone in più sensi e in maniera trasversale. Un primo aspetto riguarda la qualificazione di un interesse come patrimoniale o perso-

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nale, un secondo aspetto riguarda il tipo di qualificazione giuridica da dare ad un certo interesse. Appurato che l’interesse del minore è la base di qualun- que istituto che lo riguardi, questo interesse a che cosa dà vita? Ad un inte- resse legittimo, ad una aspettativa, ad un diritto soggettivo? Sotto il primo profilo, in particolare, le regole che riguardano il patrimonio e la persona del privato devono essere tenute ben distinte. Per esempio da sem- pre si dice che solo l’attività di natura patrimoniale è suscettibile di rappre- sentanza, e questo è vero per la rappresentanza legale in primo luogo. D’altronde, se leggiamo l’articolo 320 del codice civile, ci rendiamo imme- diatamente conto che si tratta di una norma dettata per il patrimonio del minore, perché la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministra- zione non può che riguardare gli interessi di natura patrimoniale. Quanto all’altra questione che lei ha sollevato e che è molto importante - che tipo di qualificazione assumono gli interessi del minore - in passato mi era sembrato di poter tracciare una distinzione tra i cosiddetti grandi e piccoli minori. Non si tratta di una distinzione rigida, come quella del sistema tede- sco che propone delle scansioni di età nette e predeterminate. A mio avviso è opportuno immaginare una sorta di progressivo avvicinamento del minore alla capacità, sottraendo all’incapacità l’area delle attività che il minore diviene in grado di compiere man mano che acquisisce la capacità di scelte espressive autonome. Il che appare in armonia con alcune indicazioni norma- tive reperibili nell’area degli interessi di natura personale: si pensi al diritto di manifestare una fede religiosa, al diritto di associazione, al diritto di iscri- zione ad un partito politico. Gli statuti dei partiti politici consentono da tempo l’iscrizione ad un’età inferiore alla maggiore età e le associazioni gio- vanili dei partiti politici consentono ai minori attività di grande impegno, tutto senza il consenso del genitore. Abbiamo anche degli indici normativi ben precisi in aree di natura patrimoniale: si pensi agli atti minuti della vita quotidiana che hanno un significato esistenziale e che il minore da tanto tempo è considerato capace di compiere. Quanto al rapporto tra genitore e figlio, chi abbia diritti nei confronti di chi è una questione delicatissima che risente, per la sua soluzione, delle difficol- tà tipiche dell’uso delle nozioni classiche del diritto privato - cioè, in parti- colare, della categoria del diritto soggettivo - in aree che patrimoniali non sono. Io sono profondamente convinta che il minore sia titolare di diritti e che li possa esercitare; resta il problema del momento a partire dal quale que- sto esercizio è possibile. È possibile immaginare una soluzione solo pensan- do alla capacità e all’incapacità come quantità che si accrescono o che decre- scono a seconda dei casi e a seconda della natura dell’attività. Perché è necessario ammettere che talvolta l’incapacità serve, dal momento che inca- pacità significa non soltanto esclusione, ma anche protezione. Celebre è il caso francese dei genitori che hanno impugnato il contratto con il quale figlio il minore si era impegnato a fare da modello a condizioni lesive dei suoi inte- ressi.

DOMANDA Qui bisogna conciliare quelle che sono le esigenze del minore con gli obbli- ghi genitoriali, perché i genitori hanno nei confronti dei figli degli obblighi

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di educazione, di mantenimento, di istruzione, di andare incontro alle loro aspirazioni ma non di avallarle sempre. Abbiamo un minore che ha delle aspirazioni, delle volontà particolari. Ma, se vediamo tutto in una logica minorile, rischiamo di depauperare completa- mente quelli che sono dei veri e propri obblighi giuridici posti a carico dei genitori. Se io ho un figlio quindicenne che si rifiuta di andare a scuola, per- ché la realtà è questa, io come genitore mi devo porre nella condizione di obbligarlo per consentirgli una migliore chance di vita, perché questo è il mio obbligo genitoriale, morale e giuridico? Se diamo a questo minore una piena capacità di agire, il suo rifiuto di andare a scuola, le faccio un esempio molto classico da mamma, diventa una cosa assolutamente legittima che però rischia di pregiudicargli la sua vita futura? Io ritengo che tutta questa tutela del minore debba essere anche conciliata con tutte le norme poste a carico dei genitori, anche con l’obbligo patrimoniale posto a carico dei genitori in caso di situazioni in cui il minore crei per esempio danni. Secondo me questi pun- telli vanno posti perché io come genitore, avendo l’obbligo di vigilanza, mi trovo anche impegnato economicamente per certe azioni poste in essere da un minore.

RISPOSTA Secondo le norme in materia di responsabilità civile, non è imputabile il sog- getto che non aveva la capacità di intendere e di volere, non la capacità lega- le. Allora il minore, quando non è capace di intendere e di volere, non è responsabile e il genitore risponde come sorvegliante dell’incapace; se il minore è capace di intendere e di volere risponde personalmente e il genito- re risponde solidalmente in funzione di garanzia per i terzi e non in ragione di un obbligo di vigilanza che non ha osservato. Questa è l’interpretazione più moderna delle norme degli articoli 2047 e 2048. Quanto invece lei ha detto all’inizio del suo intervento, a mio avviso è degno di considerazione ma richiede un chiarimento preliminare. Che cosa è il bene del minore? Chi lo decide? Ciò che si impone può essere sicuramente la cosa migliore ma noi, questo, non possiamo saperlo né può deciderlo la legge che può solo stabilire dei metodi e degli strumenti. Alle regole giuridiche non si può attribuire un potere di scelta nel merito; alle regole giuridiche si può solo attribuire la scelta sul come si procede di fronte ad un conflitto di volontà.

Se la prima parte di questo incontro è stata dedicata all’esame dei principi che costituiscono la cornice dei nostri problemi, nella seconda parte dovremo scendere dal piano dei principi a quello delle regole e, in particolare, delle regole che ci interessano più da vicino, quelle introdotte dalla recente rifor- ma dell’adozione. Siamo ad un bivio: abbiamo una legge, una legge importante, una legge che costituisce un punto di arrivo significativo per tanti aspetti. Non a caso, come dicevo prima, è una legge in materia di adozione perché l’adozione è il campo privilegiato di riforma e di evoluzione del sistema. Si tratta di una legge che contiene delle enunciazioni importantissime, prima tra tutte quella

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che sancisce il diritto del minore a vivere, crescere, ad essere educato nel- l’ambito di una famiglia, assicurato senza distinzioni di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione, nel rispetto della identità culturale del minore. Direi che formula di più ampio riconoscimento dei diritti del minore non si poteva concepire: si tratta, tra l’altro, di una formula espressa nei termini classici di un principio di eguaglianza, cioè attraverso la rimozione dei fattori che in passato hanno rappresentato elementi di discriminazione. Amplissimo rico- noscimento quindi dei diritti della persona del minore e, coerentemente, rico- noscimento al minore della possibilità di intervenire, di esprimere, quando abbia la capacità di discernimento, la propria posizione. La legge mira anche all’introduzione di un giusto processo, innanzitutto per la famiglia di origine: la storia più recente dell’adozione è la storia della pro- gressiva riscoperta dei diritti anche della famiglia di origine, fortemente sacrificati dalla legge autoritaria del ‘67. Un giusto processo anche per il minore, ma in che termini e con quali garanzie? Il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’ar- ticolo 10: questo ci dice l’articolo 8, comma 4. Ma se poi andiamo a leggere l’articolo 10, comma 2, ci rendiamo conto che tra i soggetti che devono esse- re assistiti dal difensore manca il minore. All’articolo 15, comma 3, tra i soggetti cui deve essere notificata la sentenza che dispone lo stato di adottabilità non c’è il minore ma un curatore specia- le, ove esista. Sappiamo che il curatore speciale non esiste se non viene nominato: è una figura generica ma non generale, generica perché vaga, non generale perché interviene solo dove la legge lo chiama in causa. Allora se c’è un curatore speciale evocato così, senza ulteriori indicazioni e ove esista, come funziona la nomina del difensore da parte del minore? Attraverso un necessario curatore speciale che scelta l’avvocato e gli dia mandato, consen- tendogli di svolgere le sue funzioni? Dobbiamo immaginare che il minore debba rivolgersi ad un intermediario prima di arrivare finalmente al rapporto con l’avvocato? E se questo curatore speciale esiste, deve tenere le fila della relazione tra avvocato e minore per tutto il procedimento oppure è soltanto un soggetto che media nel momento della scelta, lasciando poi il minore e l’avvocato al loro rapporto diretto? A tutte queste domande nessuna disposizione normativa dà risposta: in parti- colare non esiste una disciplina della scelta e della nomina del difensore da parte del minore. In una materia così tecnica e così precisa qual’è la nomina di un avvocato, ci troviamo di fronte a una lacuna normativa e ci vediamo costretti a ricorrere ai principi e alle regole generali. Dai principi e dalle regole dettate dalla legge di riforma dell’adozione è possibile desumere che, se il minore ha la capacità di discernimento, ha diritto di esprimere la sua opi- nione. Se così è, quando ha la capacità di discernimento, il minore dovrebbe poter scegliere il proprio avvocato. Tuttavia, chi decide se il minore ha la capacità di discernimento? L’avvocato stesso quando si trova davanti il mino- re? Un giudice che deve servire da tramite, prima di arrivare alla scelta del- l’avvocato? Probabilmente tutto questo va inventato sulla base dei frammen- ti di diritto esistente. Non pensiamo soltanto alla legge sull’adozione, pensiamo anche all’articolo

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336 del codice civile e ai provvedimenti presi nell’interesse del minore da un giudice attraverso le norme che glielo consentono, gli articoli 330 e 333 in particolare. Il minore, anche in questi procedimenti, deve avere un difensore, lo prevede l’articolo 336, ultimo comma, ma anche qui nulla si dice sulla nomina di questo difensore. A proposito degli articoli 330 e 333 - norme che hanno consentito alla giurisprudenza minorile di intervenire esprimendo la massima tutela della persona del minore - esiste peraltro un’antica questione: molto si è discusso, in passato, sulla legittimazione a ricorrere al giudice, legittimazione che l’art. 336, primo comma, non estende al minore interessa- to. Una tesi molto coraggiosa aveva tuttavia sostenuto la possibilità di rico- struire, desumendola dai principi generali, una legittimazione diretta del minore a rivolgersi al giudice chiedendo l’adozione dei provvedimenti neces- sari a garantire il suo interesse. Perché non immaginare, oggi che l’interpre- te è costretto a vere e proprie operazioni di ingegneria giuridica, anche una legittimazione diretta del minore nella scelta di un difensore? Si tratta di una soluzione che presenta indubbiamente molti rischi che sono quelli di una scelta inadeguata, ma non esiste alternativa, se non quella di far sì che qual- cun altro - e chi, quando non è probabilmente possibile affidarsi al genitore - scelga per il minore. In altri termini il problema è sempre lo stesso: di fron- te ad un soggetto che ci appare debole, il dilemma è sempre: autonomia o ete- ronomia? Qualcuno decide per il minore, oppure gli permettiamo di decidere da solo anche a costo di lasciarlo sbagliare? I principi ci consentono forse di lasciarlo decidere da solo, ma ci consentono anche di trovare dei tempera- menti a questa soluzione che appare oltremodo radicale. Un punto di riferi- mento può essere ancora la valutazione della capacità di discernimento del minore, da affidare al giudice, anche a posteriori, nel momento in cui si rende conto che il minore ha scelto un avvocato inadeguato. Ve la sentite di scegliere questa strada, di sottoporvi al giudizio di un giudi- ce che valuta la scelta che il minore abbia fatto di qualcuno di voi?

INTERVENTO DAL PUBBLICO Allora preferirei che fosse il Presidente del Tribunale per i Minorenni a nomi- nare l’avvocato del minore possibilmente in un elenco di avvocati formati ad hoc per fare l’avvocato del minore. Alcuni colleghi, sempre nell’ambito dell’Aiaf, avevano ipotizzato di attribui- re la nomina dell’avvocato del minore al Procuratore della Repubblica pres- so il Tribunale dei Minorenni che d’ora in poi avrà l’esercizio dell’azione; quindi nel momento in cui si avvia la segnalazione di un caso, il Procuratore della Repubblica fin dall’inizio nominerebbe un avvocato scegliendolo da un elenco adeguato.

RISPOSTA Allora saremmo ancora nel campo dell’incapacità e dell’eteronomia. Credo che il minore dovrebbe avere voce in capitolo e almeno la possibilità di accettare o rifiutare questa scelta quando abbia sufficiente capacità di discer- nimento. Non possiamo escluderlo totalmente quando siamo chiamati ad applicare una legge che valorizza la capacità di discernimento come elemen- to su cui ruota la partecipazione dell’interessato alle decisioni che lo riguar-

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dano.

INTERVENTO DAL PUBBLICO Riconosciamo questo diritto al minore che manifesta una capacità di discer- nimento, questo però presuppone un giudizio ex ante prima dell’inizio di una procedura per valutare la capacità o meno di discernimento del minore.

RISPOSTA Se valorizziamo la capacità di discernimento e l’autonomia del minore, dob- biamo essere coerenti. Siccome il Giudice ha dalla legge il potere di valuta- re la capacità di discernimento del minore ai fini dell’adozione, diamoglielo anche ai fini della scelta o per lo meno del rifiuto del difensore. Riflettiamo anche sul fatto che il minore è un cliente, un rapporto di fiducia con il difen- sore è necessario. Possiamo consentire la nomina del difensore da parte del Presidente del Tribunale o da parte del Procuratore, però poi dobbiamo consentire anche al minore di esprimere, se capace di discernimento, un gradimento rispetto a questa decisione, eventualmente a seguito di un incontro con l’avvocato che gli viene proposto. Potremo trovare anche il ragazzino dispettoso che rifiuta il difensore senza motivo, ma si tratta di un rischio che dobbiamo correre per- ché altrimenti neghiamo tutto quello che ci siamo detti fino ad ora, cioè che il minore non può essere sottoposto a scelte assolutamente eteronome rispet- to alla sua posizione personale, quando abbia capacità di determinazione autonoma. A mio avviso il minore deve anche essere posto in condizione di esprimere il proprio gradimento non soltanto sulla persona del difensore ma anche sul tipo di difesa che gli viene offerta: al minore, ad esempio, si dovrebbe consentire di revocare l’incarico al proprio difensore. Vorrei sottoporvi a questo punto un’altra riflessione che ha a che fare con tutto quello che ci siamo detti fino ad ora: voi sapete che esiste una norma importante, molto importante nella legge sull’adozione, l’articolo 28 che introduce (solo formalmente perché era una prassi applicativa dell’istituto) e regola il diritto del minore a conoscere la sua condizione di figlio adottivo e l’accesso a tutte le informazioni riservate sulla sua origine. Questo accesso è tuttavia consentito solo all’età di 25 anni. Abbiamo quindi l’affermazione solenne di un diritto alla conoscenza e quindi alla partecipazione diretta a tutta la procedura di adozione, un diritto alla conoscenza a posteriori - se non è stato possibile in itinere - della propria condizione di adottato, ma il diritto di accesso dell’adottato alle informazioni riservate sulla sua origine è, per così dire, congelato fino a 25 anni. È consentito al raggiungimento della maggiore età se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psi- cofisica dell’adottato. In ogni caso, anche questo è molto poco chiaro, è necessaria l’autorizzazione del Tribunale per i Minorenni, condizionata alla valutazione che l’accesso alle notizie riservate non comporti grave turbamen- to all’equilibrio psico-fisico del richiedente. Ricostruire il senso di queste regole ci conduce a soluzioni non proprio appaganti. Finché l’adottato non ha compiuto i 25 anni il diritto di accesso alle informazioni riservate può esse- re esercitato dai soli genitori adottivi; se questi sono morti o sono spariti l’a- dottato maggiorenne viene in qualche modo “emancipato” e quindi può acce-

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dere a queste informazioni anche prima del venticinquesimo anno di età. Qui il legislatore della capacità di discernimento e della massima valorizzazione della condizione del minore ha deciso che l’informazione a volte nuoce e si è ricordato che esclusione (e quindi incapacità) significano protezione. Non solo. Se il bambino viene adottato quando è già in grado di decidere e ha la capacità di discernimento, lo si sente, lo si ascolta, gli si consente di scegliere il difensore, di revocarlo, gli si consente di esprimere il proprio parere sull’adozione. Se viene adottato un minore infante, questi ha il diritto di conoscere la sua condizione di figlio adottivo, ma non è detto né come né quando, anzi è previsto che i genitori adottivi provvedano all’informazione nei modi e nei termini che ritengono più opportuni. Mi chiedo chi controlla che i modi e i termini siano stati opportuni e mi chiedo anche quale sanzione sia prevista per i genitori che violano il diritto del minore adottato all’infor- mazione e, dunque, quale grado di effettività abbia questo diritto del minore. Sarebbe forse stato più opportuno stabilire l’obbligo per i genitori adottivi di informare il minore sulla sua condizione di figlio adottivo al momento in cui viene raggiunta un’adeguata capacità di discernimento. Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla nomina dell’avvocato del mino- re e tentiamo di ricostruire - o forse sarebbe meglio dire di inventare - una procedura. Più il legislatore è stato reticente, più l’interprete deve essere fan- tasioso. Il minore capace di discernimento viene sentito sulla nomina del difensore direttamente dal Giudice e ha il potere di esprimere il proprio dis- senso, eventualmente chiedendo la nomina di un diverso difensore. Anche l’avvocato del minore, come qualunque avvocato, riceve la fiducia del clien- te. Bisogna evitare, secondo me, di fare dell’avvocato del minore una figura che protegge il minore da se stesso: il minore, benché minore, è un cliente e, se un cliente chiede al proprio avvocato di fare qualcosa che non risponde al suo interesse, l’avvocato lo fa oppure rinuncia al mandato. Il minore capace di discernimento ha, inoltre, potere di revoca del difensore nel corso del pro- cedimento. Più delicata è la questione che riguarda l’articolo 336 del codice civile e la nomina del difensore del minore nelle procedure di cui agli articoli 330 e il 333. Immaginiamo di consentire al minore di rivolgersi direttamente a un avvocato chiedendogli di adire il giudice, affinché adotti i provvedimenti convenienti nei confronti del genitore ai sensi dell’articolo 333. Indubbiamente l’avvocato si trova di fronte un cliente un po’ particolare, e spetterà a lui decidere. Di fronte ad una richiesta assurda, l’avvocato cerche- rà di far ragionare il proprio cliente e così farà con il minore. Non credo che si debba ragionare immaginando che tutti i problemi dell’avvocato del mino- re siano legati alla particolare condizione dell’assistito: richieste pretestuose o irragionevoli possono provenire anche da un cliente maggiorenne.

INTERVENTO DAL PUBBLICO Abbiamo parlato parecchio dei provvedimenti con il 336 relativamente al 330 e 333, ora leggendolo dice “i provvedimenti indicati negli articoli preceden- ti sono adottati sul ricorso dell’altro genitore, dei parenti o del Pubblico Ministero”. È vero che nell’ultimo comma si dice “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti i genitori del minore sono assistiti dal difensore anche a

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spese dello Stato” però non c’è l’iniziativa processuale del minore. Il minore può rivolgersi a un avvocato solo se qualcun altro, cioè l’altro genitore, i parenti, il Pubblico Ministero, hanno presentato ricorso per i provvedimenti di cui all’articolo 330 e 333.

RISPOSTA Nel nostro ordinamento manca la figura del next friend che è la persona che decide di attivare un procedimento nell’interesse di qualcun’altro che non lo può fare, ma non mancano spunti normativi per tentare di superare questa lacuna. Il riferimento più significativo è anche quello che è in grado di dare fondamento costituzionale al tentativo di superare questo limite alla iniziati- va processuale: il principio di solidarietà enunciato dall’articolo 2 della Costituzione. Allora se cosi è, cioè se esistono soggetti che possono agire in ragione di un fondamentale principio di solidarietà che supporta la loro iniziativa nell’inte- resse altrui, perché non consentire allo stesso minore di dare voce alle pro- prie esigenze? Questo era il tipo di interpretazione che era stata proposta per superare l’ostacolo formale legato ad un’interpretazione letterale dell’art. 336. Lei mi dirà: “non si modificano così le disposizioni normative”, però sono possibili - e sono state avanzate - interpretazioni dirette a modificare norme anche più esplicite di questa. Mi sentirei di spingermi oltre e di immaginare - alla luce dell’attuale grado di evoluzione di quello che è stato definito lo statuto costituzionale dei diritti del minore - una eccezione di incostituziona- lità dell’articolo 336 nella parte in cui esclude il minore dalla possibilità di esercizio diretto della azione. Ne potrebbe nascere una pronuncia interpreta- tiva di indubbio interesse. Non escluderei, più in generale, che il futuro profilo dell’avvocato del mino- re possa essere disegnato da qualche eccezione di incostituzionalità e che le regole possano giungere anche da qualche pronuncia interpretativa della Corte costituzionale che colmi i vuoti lasciati da un legislatore reticente. La posizione dell’avvocato dei minori e della famiglia, inoltre, è una posizio- ne che avrebbe bisogno di un’attenta definizione deontologica. A mio avviso la strada passa anche per codici di auto-regolamento adottati dagli ordini che differenzino questa figura in maniera adeguata.

INTERVENTO DAL PUBBLICO Un’altra ipotesi problematica: poniamo che io venga nominata avvocato di un bambino di 9, 10 anni che quindi è in grado di esprimermi una determina- ta volontà anche in modo abbastanza deciso, poniamo anche che io ritenga - sulla base di informazioni che il bambino stesso mi ha dato in via del tutto confidenziale nell’ambito di un rapporto coperto dal segreto professionale - che la volontà che mi esprime sia per lui assolutamente pregiudizievole. Una strada percorribile, forse, potrebbe essere quella che conduce l’avvocato, senza rivelare le confidenze che gli ha fatto il bambino, adisca il giudice e faccia nominare una figura che non sia vincolata dalla volontà espressa dal bambino

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RISPOSTA Il problema nasce dal fatto che noi abbiamo considerato il minore una perso- na da trattare come cliente: è naturale che, seguendo questa linea, non ci si possa discostare dalle indicazioni che il minore ha dato. Io sarei dell’idea che, in questi casi - in presenza, ad esempio, di un conflitto di notevole enti- tà - l’avvocato esterna il proprio disagio rimettendo il mandato al giudice.

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1. I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ ED IL SOMMARIO DIRITTO DI EGUAGLIANZA: LA 1. I diritti della personalità ed il diritto di CONDIZIONE PERSONALE E SOCIALE eguaglianza: la condizione personale e sociale DEL FANCIULLO E DEGLI ALTRI del fanciullo e degli altri soggetti deboli. SOGGETTI DEBOLI. 2. Diritto alla riservatezza e diritto d’informazione 3. Il diritto alla riservatezza dei fanciulli e degli nnanzi tutto una premessa. Il diritto d’informa- altri soggetti deboli e la cronaca giudiziaria re e di essere informati, considerati come dirit- 4. Pubblicità degli atti e pubblicità del Ito di pensare, conoscere, esprimersi, comunica- dibattimento re, anche per realizzare un’attiva partecipazione 5. Tutela processuale della dignità personale ed alla vita sociale costituiscono una manifestazione intimità dei soggetti deboli, ed in particolare fondamentale della personalità. delle vittime dei reati sessuali. Parimenti l’Uomo, oltre che nelle sue attitudini Riferimenti bibliografici. espansive e dinamiche si manifesta come soggettività, come un unicum irripetibile titolare di diritti inviolabili che lo riguardano sia come singolo che come membro delle formazioni sociali in cui vive ed agisce. CRONACA E PUBBLICITÀ Tutto ciò senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, di opinioni DEL PROCESSO PENALE. politiche, e delle altre condizioni sociali e personali da cui un tempo LA TUTELA DEL MINORE derivavano conseguenze per lo status delle persone, e cioè per l’estensione VITTIMA DEL REATO della capacità giuridica e per la posi- zione relativa agli altri soggetti del- l’ordinamento. Proprio per questo nelle moderne Costituzioni non ci sono riferimenti alle condizioni di ridotta capacità, di DOTT. debolezza che pure di fatto incidono sulla concreta possibilità di quel sogget- GUSTAVO to di esprimere e sviluppare la personalità in un qualsiasi campo della azio- SERGIO ne umana. PROCURATORE DELLA Anzi gli ostacoli che di fatto ostacolano la libertà e l’uguaglianza impegnano REPUBBLICA PRESSO IL sia la solidarietà dei singoli (art. 2 ult. parte Cost.) che l’intervento pubblico TRIBUNALE PER I MINORENNI per rendere effettivi i diritti della personalità. DI VENEZIA La Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con la L. n.° 176 del 1991, non utilizza la parola minore, (ereditata dal diritto romano anche dalle lingue francese ed inglese del testo ufficiale) perchè registra anti- che incrostazioni culturali ancora percepibili ai giorni nostri. Infatti nella tra- dizione forense, ed anche nel linguaggio corrente, la parola minorenne indi- ca uno status d’inferiorità personale e giuridica, una condizione di sudditan- za, di soggezione a poteri altrui, insomma di oggetto di diritti piuttosto che di soggetto. Perciò l’articolo 1 della convenzione chiarisce che s’intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni. Anche i nostri costituenti, sicuramente con molto anticipo rispetto alla matu- razione della nuova cultura sui bambini, avevano compiuto una scelta analo- ga. Infatti il termine minore non è menzionato nella carta costituzionale per-

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ché i diritti del minore non sono altra cosa rispetto ai diritti di ogni altro indi- viduo. (1) La necessità della loro affermazione dunque non nasce dal contenuto dei diritti, ma dal rapporto del soggetto con i diritti stessi, perché il suo sviluppo psicofisico incompleto, la sua non compiuta affermazione familiare e socia- le, la sua condizione di debolezza nei confronti degli adulti richiedono speci- fici mezzi di protezione e tutela per superare gli ostacoli di fatto che impedi- scono il pieno sviluppo della sua personalità. La libertà d’informazione si deve dunque misurare con la particolare condi- zione personale dei soggetti in età evolutiva e di chiunque altro che per qual- siasi ragione si trovi in una analoga condizione di debolezza. La Corte Costituzionale ha riconosciuto che il diritto alla riservatezza in quanto diritto della personalità è un diritto inviolabile e costituzionalmente garantito. (sent. N.° 38 del 1973) Perciò non si tratta di individuare uno sta- tuto speciale ma di commisurare il diritto alla riservatezza, che è proprio di ogni persona, alla particolare condizione in cui si trovano fanciulli ed adole- scenti, e gli altri soggetti deboli.

2. DIRITTO ALLA RISERVATEZZA E DIRITTO D’INFORMAZIONE

ome è noto il diritto alla riservatezza è frutto dell’elaborazione della dot- Ctrina e della giurisprudenza. La prima ne ha disegnato i contorni come espressione autonoma della tutela della persona da interferenze indebite, pubbliche o private che siano. La seconda è partita deduttivamente dai vari rimedi di natura civile penale ed amministrativa previsti dall’ordinamento. Alla fine entrambe la configurano come un autonomo diritto soggettivo che s’inserisce nella categoria più vasta dei diritti della personalità. (2) Quanto al contenuto, raggruppando le varie ipotesi di tutela previste dalle fonti normative ( ivi compresa la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e la Costituzione) il diritto si riferisce alla sfera intima, che riguar- da oltre che i pensieri ed i sentimenti, la fisicità, in cui sono ricomprese immagine, salute e sessualità, alla sfera privata, che riguarda la vita persona- le e familiare e quelle attività che più esprimono la dimensione interiore del soggetto (corrispondenza, diari), alla sfera individuale e sociale che com- prende la vita professionale, l’attività pubblica. Si capisce che la protezione accordata è tendenzialmente massima nel primo caso fino a ridursi nell’ultimo a quelli di aggressione all’onore e reputazio- ne. La recentissima legge 675 del 1996 se da un lato finalmente prende atto esplicitamente del diritto alla riservatezza ed alla dignità personale (art. 1) dall’altro si fa carico delle conseguenze che possono derivare, grazie alla potenza delle nuove tecnologie, dal trattamento dei dati personali, special- mente se realizzato con i sempre più diffusi strumenti elettronici di elabora- zione e trasmissione dei dati. Essa perciò stabilisce la regola che il trattamen- to dei dati personali, da parte di privati e di enti pubblici economici, è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato, e precise condizioni per la loro comunicazione e diffusione (artt. 11 e 20), ovvero da parte di sog- getti pubblici nei limiti stabiliti dalla legge e dai regolamenti. (art. 27)

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La frontiera tra pubblico e privato, tra diritto di informarsi (e dunque di acce- dere e conoscere) ed essere informato, (cui corrisponde per converso quello d’informare) ed il diritto alla riservatezza ed alla dignità personale è dunque in continuo movimento anche perché i nuovi mezzi di comunicazione di massa hanno modificato profondamente la situazione che esisteva al tempo della la stampa. Secondo Mc Luhan il mezzo è il messaggio (MC LUHAN 1967) (3) e la stessa Corte Costituzionale ha dovuto riconoscere che il più innovativo dei mass media, il mezzo televisivo “per la sua notoria capacità di immediata e capillare penetrazione nell’ambiente sociale attraverso la diffusione nell’interno delle abitazioni, per la forza suggestiva dell’immagi- ne unita alla parola, dispiega una peculiare capacità di persuasione e di incidenza sulla formazione della opinione pubblica nonché sugli indirizzi socio culturali di natura ben diversa da quella attribuibile alla stampa” (sent. n. 148 del 1981). Così nella realtà attuale i termini del rapporto tra diritto alla riservatezza ed alla tutela della dignità della persona e diritto d’informazione (nelle sue diverse manifestazioni) sono in rapida evoluzione e debbono essere continua- mente aggiornati in funzione delle nuove tecnologie e forme di utilizzazione che producono accanto agli innegabili effetti positivi, anche nuove possibili- tà di violazione della sfera personale dei cittadini.

3. IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA DEI FANCIULLI E DEGLI ALTRI SOGGETTI DEBOLI E LA CRONACA GIUDIZIARIA

La Convenzione di New York prima ricordata prevede che nessun fan- a)ciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio e corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e reputazione, e che comunque in tali evenien- ze egli ha diritto alla protezione della legge. (art. 16) Per quel che riguarda in particolare la cronaca giudiziaria le nuove disposi- zioni per il processo penale con imputati minorenni (art. 13 DPR 448 del 1988) prevedono: 1° Sono vietate la pubblicazione e la divulgazione con ogni mezzo di notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del mino- renne comunque coinvolto nel procedimento. 2° Le disposizioni del comma 1 non si applica dopo l’inizio del dibattimento se il tribunale procede in udien- za pubblica. Anche l’art. 114 del nuovo c.p.p. tutela i dati personali e l’immagine dei minorenni testimoni persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni vietandone la pubblicazione. Tuttavia il minoren- ne che ha compiuto i 16 anni, ed il tribunale per i minorenni per quelli di età inferiore possono consentirla. Questa regola è ribadita dall’art. 33 del D.P.R. 448 del 1988 che mentre stabilisce che l’udienza dibattimentale davanti al tri- bunale per i minorenni si celebra a porte chiuse, consente all’imputato che abbia compiuto sedici anni di chiedere la pubblicità dell’udienza. Si tratta di un’importante innovazione rispetto alla precedente disciplina (prevista dal- l’art. 16 del R. D. L. n.° 1404 del 1934) che non ammetteva deroghe, che con- ferma la tendenza legislativa - si pensi alla riforma del diritto di famiglia, alla legge sull’adozione e l’affidamento - che riconosce uno spazio crescente alla

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diretta espressione della personalità del minorenne (SERGIO 1989) (4) D’altronde l’attribuzione del potere di autorizzare la pubblicazione, o la pub- blicità direttamente al sedicenne - o al tribunale per i minorenni - e non al legale rappresentante conferma la natura di diritto fondamentale della perso- nalità del diritto alla riservatezza, che perciò può essere esercitato solo dal- l’interessato. (5) Il divieto di divulgazione dei dati personali è stato ripreso dalla legge n.° 66 del 1996 sulla violenza sessuale, ed ultimamente dalla L. 269 del 1998 sullo sfruttamento sessuale dei minori. È stato così introdotto nel terzo libro del codice penale il titolo II bis “Delle contravvenzioni concernenti la tutela della riservatezza” che al momento comprende un’unica disposizione, l’art. 734 bis che così recita: “Chiunque nei casi dei delitti previsti dagli artt. 600- bis, ter, quater, quinquies, 609-bis, ter quater, quinquies, octies, divulghi, anche attraverso mezzi di comunicazione di massa le generalità o l’immagi- ne della persona offesa senza il suo consenso, è punito con l’arresto da tre a sei mesi.” Infine ultimissimamente la legge n° 479 del 1999 ha inserito nell’art. 114 il comma 6° bis che vieta la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personaleripresa mentre è sottoposta alle manette o ad altro mezzo di coercizione, salvo il consenso dell’interessato. In definitiva la divulgazione dei dati personali e l’immagine di imputati e vit- time minorenni nel processo penale minorile ed ordinario è di regola vietata e la violazione costituisce l’illecito disciplinare contemplato dall’art. 115 del c.p.p. Tale tutela è stata estesa all’immagine dell’imputato maggiorenne ammanettato. Invece la divulgazione riguardante le vittime anche maggiorenni di gravi reati di violenza e sfruttamento sessuale costituisce un reato contravvenzio- nale. A prescindere dalla natura penale dell’illecito, va richiamata l’attenzione sul- l’oggetto della tutela, che nel caso dell’art. 734 bis c. p. riguarda il diritto alla riservatezza delle vittime dei reati sessuali. È la prima volta che il legislato- re considera nella sua interezza la questione, evidentemente facendo prevale- re il profilo della inviolabilità della personalità del soggetto passivo piuttosto che la tutela del domicilio (artt.614, 615, 615 bis), l’inviolabilità dei segreti o la riservatezza, libertà e segretezza delle comunicazioni (cfr. L. 8. 4 1974 n. 98). Naturalmente ciò ha un’importanza relativa ai fini applicativi, ma è di parti- colare interesse registrare l’evoluzione culturale che consente di riconoscere nuovi profili di tutela che fino a poco tempo fa non erano considerati, o resta- vano assorbiti in altri ambiti ora non più attuali. I reati sessuali sono particolarmente significativi al riguardo. Così se il legis- latore del 1930 considerava in primo luogo la tutela della moralità pubblica e del buon costume, oggi i reati di sfruttamento sessuale sono considerati delitti contro la personalità individuale, e quelli di violenza sessuale contro la libertà personale. Dunque la persona, la sua libertà e dignità sono al centro dell’interesse del legislatore, anche con riferimento al diritto di cronaca, e non la tutela di segreti riguardanti il momento processuale, che va assumendo un rilievo più

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marginale com’è confermato anche da qualche proposta di legge all’esame del Parlamento. (6) Perciò la dottrina molto opportunamente mette in rilievo che la norma incri- minatrice posta dall’art. 734 bis c.p. prescinde dalla considerazione del pro- cesso. (7) L’illecito penale infatti riguarda la divulgazione delle generalità o dell’imma- gine nei casi di delitti di sfruttamento e o violenza sessuale quando la vitti- ma non abbia dato il suo consenso. Dunque, in ipotesi, il reato si consuma anche prima del processo, ed anche se questo non potrà iniziarsi per mancan- za di querela. b) La protezione dei dati personali dei minori e soggetti deboli, è diventato anche un dovere deontologico del giornalista. Infatti la legge 675 del 1996 (artt. 12 e 20).eccettua dalla regola del consen- so il trattamento, la comunicazione e la diffusione dei dati personali anche sensibili (e cioè idonei a rivelare l’origine razziale od etnica, le convinzioni filosofiche... lo stato di salute e la vita sessuale) effettuate nell’esercizio della professione del giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità, purchè nel rispetto dl codice di deontologia di cui all’art. 25, nei limiti del diritto di cronaca ed in particolare dell’essenzialità dell’informa- zione riguardo a fatti d’interesse pubblico. La sintesi espositiva di queste elaborate disposizioni non può minimizzare il delicato equilibrio perseguito dal Legislatore, attraverso l’azione del Garante per la protezione dei dati personali nei confronti del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti. Nell’art. 1 (Principi generali) del Codice deontologico relativo al trattamen- to dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (G. U. del 3. 8. 1998 n. 179) si legge infatti: “Le presenti norme sono volte a contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazio- ne e con la libertà di stampa.” Nell’art. 7 (Tutela del minore) il codice stabilisce che al fine di tutelare la personalità del minore il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvol- ti in fatti di cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro identificazione. * La tutela della personalità del minore si estende, tenuto conto della qualità della notizia e delle sue componenti, ai fatti che non siano specificamente reati. * Il diritto del minore alla riservatezza deve essere sem- pre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca; qua- lora tuttavia per motivi di rilevante interesse pubblico e fermo restando i limiti della legge, il giornalista decida di diffondere notizie o immagini riguardanti minori, dovrà farsi carico della responsabilità di valutare se la pubblicazione sia davvero nell’interesse oggettivo del minore, secondo i principi ed i limiti stabiliti dalla . Nell’art. 8 (Tutela della dignità delle persone) si legge che il giornalista, salva l’essenzialità dell’informazione, non fornisce notizie o non pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che rav- visi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. * Salvo rilevanti moti- vi d’interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornali- sta non riprende né produce immagini e foto in stato di detenzione senza il

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consenso dell’interessato. * Le persone non possono essere presentate con ferro e manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi. Nell’art. 10 (Tutela della dignità delle persone malate) si prevede che il gior- nalista nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza ed al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali, e si astiene dal pubblicare dati analitici d’interesse strettamente clinico. * La pubblicazione è ammessa nell’ambito del perseguimento della dell’essenzia- lità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica. Infine nell’art. 11 (tutela della sfera sessuale della persona) si stabilisce il dovere deontologico del giornalista di astensione dalla descrizione di abitu- dini sessuali riferite ad una determinata persona identificata o identificabi- le, salvo che si tratti di persona che rivesta una posizione di particolare rile- vanza sociale o pubblica. Il confronto tra le previsioni legislative e quelle del codice deontologico dei giornalisti è illuminante. Mentre le prime, soprattutto le meno recenti, assicurano una tutela frammen- taria, meno diretta e mirata, le norme deontologiche considerano in modo non occasionale il rapporto tra diritto di cronaca e tutela dei soggetti deboli e della dignità delle persone. Così il diritto di riservatezza si arricchisce di nuove connotazioni, perfetta- mente aderenti all sua natura di diritto fondamentale della personalità, ma allo stesso tempo modulate a determinate condizioni personali e sociali che non debbono influire sulla pari dignità di tutti i cittadini, ed anzi richiedono l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà (art. 2 Cost.) ed un’azio- ne specifica della Repubblica in tutte le sue articolazioni per rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza ed impediscono il pieno sviluppo della persona umana. (art. 3 Cost.) Lo strumento deontologico appare particolarmente adeguato al disegno costi- tuzionale perché se ha impegnato il Garante ed il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, e cioè istituzioni dello Stato, dall’altro richiede pressantemente a ciascun operatore dell’informazione l’adempimento dei doveri di solidarietà indicati dalla Costituzione ma precisati nel codice che gli stessi giornalisti si sono dati. Queste considerazioni naturalmente non esauriscono il problema dell’effetti- vità della tutela, che non può esaurirsi sul piano disciplinare, soprattutto se l’eventuale comportamento antidoveroso del giornalista produce conseguen- ze lesive anche al di là della mera violazione della riservatezza. Pur tuttavia le norme deontologiche costituiscono un importante banco di prova che con- sentirà di verificarne l’efficacia deterrente rispetto a quelle penali notoria- mente poco incisive. Passando ad un esame dei contenuti, emerge innanzi tutto l’estensione della tutela della riservatezza dei minorenni anche rispetto a fatti di cronaca non rilevanti dal punto di vista penale, o comunque giudiziario. È stato accolto così l’auspicio emerso a conclusione dei lavori del seminario svoltisi presso il Centro Ettore Majorana di Erice nell’ottobre del 1987 con la partecipazio- ne di giornalisti, magistrati, esperti di psicologia, docenti e studiosi di scien-

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ze sociali. Era stato infatti raccomandato il divieto di divulgazione di dati che consenta- no la riconoscibilità del minore comunque coinvolto in procedimenti civili o amministrativi, o in episodi che pur non riguardando procedimenti giudizia- ri (es. tentativi di suicidio, problemi psichiatrici, fughe da casa, ecc.) possa- no ledere la sua immagine, in analogia con quanto già previsto per i proce- dimenti penali. L’art. 7 prevede la possibilità che il giornalista decida responsabilmente, nel rispetto dei limiti di legge, di diffondere ugualmente notizie o immagini riguardanti minori. In tal caso il Codice fa riferimento alla Carta di Treviso, che costituisce così un parametro obbiettivo di principi e limiti accolti e rico- nosciuti sia dai giornalisti che dall’importante associazione non governativa, Telefono Azzurro, particolarmente attiva nel campo della tutela dei minoren- ni, che aveva promosso l’elaborazione del documento. Significativa è la raccomandazione contenuta nella Carta con cui si sottolinea “che in casi di soggetti deboli, l’informazione sia il più possibile approfon- dita, con un controllo incrociato delle fonti, con l’apporto di esperti, privile- giando se possibile servizi firmati e in ogni caso in modo da assicurare un approccio al problema dell’infanzia che non si limiti all’eccezionalità dei casi che fanno clamore, ma che approfondisca - con inchieste, speciali, dibattiti, le condizioni del minore, e le sue difficoltà nella quotidianità.” In altri termini si è posto l’accento sulla qualità dell’informazione, qualora un rilevante interesse pubblico renda inevitabile l’esercizio del diritto di critica e di cronaca. Anche le altre previsioni riguardanti la tutela della dignità e della sfera inti- ma delle persone (artt. 8, 10 ed 11) esprimono la medesima attenzione ai diritti della persona con riferimento a specifiche condizioni personali e socia- li che potrebbero vulnerare il principio di eguaglianza e pari dignità. È interessate comparare questo approccio alla delicata questione dei limiti alla libertà di cronaca con quello seguito negli anni passati per rendersi conto del vistoso cambiamento culturale che è in atto ai nostri giorni. La dottrina in passato riteneva che il diritto di cronaca, oltre ai limiti civili e penali posti a tutela della persona ed a quelli in difesa dei segreti, incontras- se limiti in funzione dell’ordine pubblico, di quello familiare e del buon costume. (8) L’art. 14 della legge 8 febbraio 1948 n.° 47 sulla stampa estende l’applica- zione delle pene previste dall’art. 528 c. p. (reclusione fino a tre anni e multa) a coloro che diffondono pubblicazioni destinate ai fanciulli ed adolescenti quando per la sensibilità e impressionabilità ad essi proprie siano comunque idonee a offendere il loro sentimento morale, od a costituire per essi un inci- tamento alla corruzione, al delitto, al suicidio. L’art. 15 prevede le stesse pene anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino con partico- lari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi, o anche soltanto immaginari, in modo da poter provocare il diffondersi di sui- cidi e delitti. L’articolo 562 c. p. punisce con la multa chiunque nella cronaca dei giornali o di altri scritti periodici, nei disegni che ad essa si riferiscono, ovvero nelle inserzioni fatte a scopo di pubblicità sugli stessi giornali o scritti espone o

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mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare. Prescindendo dalla disperante inattualità di queste disposizioni che si riferi- scono solo a scritti periodici e stampati e non tengono conto dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, va sottolineato l’approccio idealistico-istituzio- nale, in cui i diritti della persona sono assorbiti, hegelianamente superati, ed alla fine vanificati. D’altra parte il pluralismo culturale della moderna società di massa impedi- sce una sicura identificazione della morale delle famiglie e dello stesso buon costume tanto che già il Nuvolone rilevava la pratica inapplicazione degli artt. 14 e 15 della legge sulla stampa e la potenziale incostituzionalità del- l’art. 565 c.p. per violazione al principio di libertà di stampa. L’inattualità delle ricordate disposizioni penali testimonia la carenza di tute- la fino ad oggi verificatasi. I cambiamenti sono stati così vorticosi che quasi è mancato il tempo per la maturazione di una nuova legislazione. Dunque anche sotto questo profilo la produzione di norme deontologiche provocata dalla legge 675 del 1996 sul trattamento dei dati personali costitui- sce un’importante novità, che consentirà di verificare l’efficacia di nuove forme di tutela dei diritti fondamentali della persona.

4. PUBBLICITÀ DEGLI ATTI E PUBBLICITÀ DEL DIBATTIMENTO

e disposizioni che abbiamo prima esaminato si riferivano soprattutto alla Ltutela della riservatezza e della dignità personale rispetto alla cronaca giu- diziaria, ma ne esistono altre, specialmente nel codice di procedura penale, che prevedono speciali forme di tutela dei soggetti deboli e dei minori. In questi caso però la legge considera la particolare condizione sociale - o per- sonale - di questi soggetti (per esempio l’assoggettamento al processo del- l’imputato e l’obbligo di deporre cui è tenuto chi è stato testimone di un fatto rilevante per la giustizia) non solo per la tutela dei diritti di personalità e la garanzia della loro dignità, ma anche per salvaguardare il loro ruolo di pro- tagonisti a vario titolo del processo penale. Ci sono poi altri profili d’interesse da tutelare strettamente intrecciati ai pre- cedenti, che aumentano la complessità delle questioni in funzione dei neces- sari bilanciamenti. Esaminiamoli. L’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo pre- vede che ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza ... davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge ... la senten- za deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala udienza può esse- re vietato alla stampa ed al pubblico durante tutto o una parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico ... quando lo esigono gli interessi dei minori, o la tutela della vita privata delle parti nel processo, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in spe- ciali circostanze la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giu- stizia L’esame di questa disposizione dà una visione abbastanza precisa dell’intrec- cio dei problemi cui si accennava. a) In primo luogo la pubblicità dell’udienza costituisce uno dei caratteri del processo La dimensione pubblica è connaturata all’amministrazione della

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giustizia innanzitutto perché questa realizza uno dei tre poteri dello stato che sostanziano la sovranità popolare (C. Cost. sent. 12 del 1971) La rego- la della pubblicità però è anche una fondamentale garanzia per il cittadi- no, ed assicura il controllo del corretto svolgimento del processo e del- l’imparzialità del giudizio (C. Cost. sent. n.12 del 1965); b) dunque la pubblicità assolve anche ad un’altra funzione, quella di consen- tire al cittadino direttamente, o agli operatori dell’informazione di infor- marsi e d’informare. c) Tuttavia durante lo svolgimento dell’udienza si possono verificare fatti o possono determinarsi circostanze che pregiudicano l’interesse dei minori coinvolti; d) o mettono in pericolo la vita privata delle parti del processo; e) ovvero compromettono gli interessi della giustizia. La questione della pubblicità naturalmente riguarda anche la fase delle inda- gini preliminari e comunque quella precedente - o alternativa - alla celebra- zione del dibattimento. La pubblicità degli atti è regolata dagli articoli 114 e 329 del c.p.p. per assi- curare un equilibrato soddisfacimento a) del segreto necessario per lo svilup- po delle indagini; b) dell’interesse dell’indagato o dell’imputato alla riserva- tezza e nello stesso tempo alla conoscenza di atti che lo riguardano; c) del diritto dell’opinione pubblica di essere informata sull’andamento del proces- so. Il regolamento bilanciato di questi interessi è realizzato differenziando le forme ed i tempi della tutela. Così il divieto di pubblicazione degli atti (con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione) riguardarà la riproduzione totale o parziale dell’at- to, mentre “è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto” (art. 114 co. 7 c.p.p..). Tuttavia per la riproduzione degli atti sono previste diverse estensioni temporali e tipologie di divieti (art. 114 co. 1-6 c.p.p..) che hanno anche la finalità di preservare la neutralità psicolo- gica del giudice che sarà investito del procedimento. Come è noto il nuovo codice attribuisce in primo luogo alle parti il diritto di provare davanti al giudice i fatti rilevanti per la decisione (artt. 187, 191, 495 e segg. C.p.p.), e conseguentemente fa divieto a quest’ultimo di utilizzare prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento (art. 526 c.p.p.). Perciò è fondamentale che il giudice conosca solo gli atti che si formano davanti a lui o che si acquisiscono nel corso del dibattimento (a parte quelli che eccezionalmente sono già raccolti nel fascicolo del dibattimento ex art. 431 c.p.p.). Il principio dell’oralità, uno dei cardini del sistema accusatorio, richiede dun- que il rapporto diretto tra il giudice e la prova ed impone di evitare che una intempestiva conoscenza dei fatti possa turbare l’immediatezza di questo rap- porto. Dunque intorno alla questione della pubblicità ruotano interessi distinti e concorrenti che impongono accorti bilanciamenti, ma anche scelte ineludibi- li. Bisogna prendere atto che il nuovo codice, nel consentire “sempre” la divul-

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gazione del contenuto di atti non coperti dal segreto, ha voluto privilegiare il diritto dell’opinione pubblica ad essere informata sull’andamento del proces- so. Questo diritto prevale non solo sull’interesse alla riservatezza della per- sona sottoposta alle indagini (o dell’imputato) ma anche sul rischio che una conoscenza anticipata ed impropria dei risultati delle indagini (e cioè extra dibattimentale) possa influire sul convincimento del giudice. A tal proposito la relazione al progetto preliminare del codice rileva che il “giudice del dibattimento, se può essere influenzato dalla pubblicazione degli atti veri e propri, è in grado di non fondare il proprio convincimento su notizie di stam- pa più o meno generiche e prive di riscontri documentali riguardanti il con- tenuto degli atti” (9) Di fronte alla travolgente interazione tra mezzi di comunicazione di massa e indagini preliminari sperimentata soprattutto all’epoca delle inchieste giudi- ziarie su tangentopoli è stato rilevato che la grande distanza nel tempo tra il fatto e la definizione del giudizio attribuisce alle indagini preliminari, agli istituti processuali in genere, accanto alla loro funzione endoprocessuale la funzione extraprocessuale propria del giudicato, e cioè quella di prevenzione generale e speciale, di controllo sociale. La trasformazione della cronaca giudiziaria in cronaca politica, delle istrut- torie in inchieste, insomma il rilievo politico assunto dall’attività giudiziaria hanno deformato i rapporti tra gli interessi in gioco mortificando la tutela della riservatezza a vantaggio del potere d’informazione. (10) Alla fine le persone interessate possono trovarsi esposti ad una pubblicità non equa (cfr. art. 6 co. 1° Conv. Salv. Dir. Uomo) perché sostanzialmente estranea alla dimensione giudiziaria, ed alla considerazione bilanciata degli interessi rilevanti per il sereno e regolare svolgimento del processo, come meglio appresso si vedrà. Dunque la pubblicità degli atti di indagine e del dibattimento ripropone pro- blemi di tutela delle persone interessate, problemi che evidentemente posso- no essere aggravati dalle loro condizioni personali e sociali. Le norme di tutela tuttavia debbono tener conto, come si è detto, anche degli interessi della giustizia e di quelli dell’informazione.

5. TUTELA PROCESSUALE DELLA DIGNITÀ PERSONALE ED INTIMITÀ DEI SOGGETTI DEBOLI, ED IN PARTICOLARE DELLE VITTIME DEI REATI SESSUALI.

l nuovo codice di procedura penale, oltre alle tradizionali guarentigie del- Il’imputato tendenti ad assicurarne anche il rispetto della dignità (artt. 64, 70, 71, 474, 503 co. 2 in relazione all’art. 499 c.p.p.) contempla anche alcu- ne disposizioni miranti a tutelare i diritti della personalità degli altri sogget- ti coinvolti nel processo, in primo luogo della vittima. Quella della vittima è una condizione personale e sociale che può influire negativamente sul normale sviluppo della personalità. Personale, per il trauma fisico e morale prodotto da certi reati, soprattutto quelli sessuali, che comportano una violenza esercitata nella sfera fisica e psichica. Sociale, per l’attenzione e curiosità spesso morbosa che il crimine può inge-

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nerare nella gente, contrassegnando negativamente l’immagine di chi l’ha subìto, eventualmente proprio per la degradazione patita, e talvolta anche per valutazioni sospettose e malevole sulla contiguità della vittima con l’aggres- sore. Di qui la tutela della riservatezza di cui già si è detto sopra (cfr. § 3). A que- sta si aggiunge anche quella processuale, che mira ad attenuare l’invasività delle prove che la persona offesa dovrà sopportare nel corso del giudizio per- chè al danno subìto con il reato non si sommi quello che potrebbe derivarne da determinate attività processuali. La tutela della vittima del reato è focalizzata sulla testimonianza, sia perchè si tratta di una prestazione obbligatoria in vista delle esigenze del processo, sia per la possibilità di domande invasive della sfera privata o addirittura inti- ma della persona, talvolta necessarie per valutare la credibilità del dichiaran- te. Ed infatti l’art. 194 c.p.p. ammette la deposizione su fatti che servono a definire la personalità della persona offesa, solo quando l’azione dell’impu- tato dev’essere valutata in relazione al comportamento di quella. Non va dimenticato che l’esame incrociato previsto dall’art. 498 c.p.p. esal- ta la contrapposizione tra i punti di vista dell’accusa e della difesa e può sot- toporre il testimone, soprattutto se si tratta della persona offesa che in gene- re è la fonte principale dell’accusa, a forti pressioni psicologiche per il modo eventualmente serrato, stringente in cui si sviluppa il controesame, che per sua natura tende sia a mettere in evidenza eventuali contraddizioni della ver- sione fornita dal teste nella fase diretta, sia a saggiarne comunque la credibi- lità con domande che ne fanno emergere la personalità. Nei procedimenti relativi a reati sessuali quasi sempre l’azione dell’imputa- to deve essere valutata in relazione al comportamento della persona offesa, soprattutto nell’ipotesi di cui all’art. 609 bis co.2° c.p. di induzione a com- piere o subire atti sessuali. Perciò il legislatore ha considerato l’imbarazzo, la sofferenza il turbamento della presunta vittima, inevitabile quando si trat- ta di ricostruire un episodio che la coinvolse intimamente sia sotto il profilo fisico che psicologico - emotivo. Accanto alla necessità della tutela della persona e della sua dignità c’è anche quella di assicurare la genuinità della prova, poiché è evidente che il turba- mento del teste può risolversi nell’inquinamento delle sue dichiarazioni. Ecco dunque che una serie di disposizioni generali affida al presidente la responsabilità di assicurare il rispetto della persona di chi adempie al dovere della testimonianza, e la genuinità della prova. Si parla in questo caso di audizioni protette. Altre disposizioni speciali prendono in considerazione, sempre per gli stessi fini, la condizione di particolare debolezza del minoren- ne e comunque della vittima dei reati sessuali. Le disposizioni che ci interessano sono dunque le seguenti. - Il presidente cura che l’esame del testimone sia condotto senza ledere il rispetto della persona; sono vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte, ed in particolare quelle suggestive; durante l’esa- me il presidente anche d’ufficio interviene per assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame, e la corret- tezza delle contestazioni. (art. 499 c.p.p) - L’esame del minorenne può essere condotto dal presidente su domande e

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contestazioni delle parti se si ritiene che quello incrociato possa nuocere alla serenità del teste. Il presidente può avvalersi dell’ausilio di un fami- liare o di un esperto in psicologia infantile. Può anche stabilire che l’esa- me si svolga con le modalità dell’art. 398 co. 5 bis. (art.498 c.p.p.) - La Corte Costituzionale con la sentenza n. 283 del 1997 ha dichiarato l’il- legittimità costituzionale dell’art. 498 c.p.p. nella parte in cui non consen- te, nel caso di testimone maggiorenne infermo di mente che il presidente, sentite le parti, ove ritenga che l’esame del teste possa nuocere alla sua personalità, ne conduca direttamente l’esame su domande e contestazioni proposte dalle parti. In caso di procedimenti riguardanti reati sessuali (L. 66/96 e L. 269/98) - Si può sempre procedere con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di un infrasedicenne (art. 392 co 1 bis c.p.p.) - Con l’ordinanza con cui ammette l’incidente probatorio, quando all’assun- zione della prova è interessato un minore infrasedicenne, a) il giudice sta- bilisce luogo tempo e modalità particolari adeguate alle esigenze del minore. b) le dichiarazioni testimoniali debbono sempre essere documen- tate integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva. (art. 398 co. 5 bis c.p.p.) - L’esame del minorenne vittima del reato su richiesta sua o del suo difen- sore viene effettuato mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico. (art. 498 co. 4° ter c.p.p.) - Il minore infrasedicenne, testimone o imputato di reato connesso che ha già reso dichiarazioni in sede d’incidente probatorio, oppure in altri pro- cedimenti (quando i relativi verbali sono stati acquisiti ai sensi dell’art. 238 c.p.p.) può essere esaminato solo se il giudice lo ritiene assolutamen- te necessario. (art. 190 bis) - Non sono comunque ammesse domande sulla vita privata e sessuale della persona offesa se non necessarie alla ricostruzione dei fatti. (art. 472 c.p.p.) L’applicazione di queste disposizioni ha evidenziato la persistenza di pesan- ti condizionamenti che evidentemente non si possono superare con la sempli- ce vigenza delle nuove norme. In special modo l’audizione c.d. protetta dei minorenni presunte vittime di abusi sessuali, in mancanza di una cultura processuale attenta alle esigenze di protezione dei soggetti deboli, può dar luogo a pericolose sovrapposizioni di problemi. Si confonde infatti la questione della capacità di testimoniare del bambino, specialmente se molto piccolo, (art. 196 c.p.p) con quella della sua protezio- ne. Così l’esperto in psicologia infantile di cui il giudice può avvalersi nel corso dell’esame protetto talvolta viene utilizzato (ovvero egli stesso ritiene di dover interpretare il suo ruolo) per superare gli ostacoli di comunicazione tra il piccolo sparuto testimone ed il mondo degli adulti che gravità su di lui. L’incidente probatorio protetto (la cui video registrazione obbligatoria con- sente almeno di riflettere sulla correttezza ed adeguatezza dell’esame) si tra- sforma spesso in un esame caratterizzato dall’uso di mezzi sofisticati diretti essenzialmente al conseguimento di un risultato processualmente apprezzabi- le, anche se la sola proposizione delle domande determina evidentissime rea-

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zioni di intollerabile sofferenza del bambino inquisito. Nei processi per presunto abuso sessuale la mancanza di ogni riscontro obbiettivo accresce fatalmente la violenza di tali pratiche, specialmente quando l’accusa è stata veicolata da uno dei genitori, nei confronti dell’altro. In tali casi, per esempio, la disposizione di cui al 4° comma dell’art.498 c.p.p. (nell’esame il presidente può avvalersi dell’ausilio di un familiare) è stata applicata per consentire alla madre denunciante d’interrogare insieme all’esperto la propria bambina, assommandosi così le sue pressioni di carat- tere affettivo a quelle rivelatesi insufficienti del tecnico. La violenza non è esaltata solo dalla maggiore vulnerabilità emotiva del bam- bino, ma soprattutto dalla sua totale incapacità di sottrarsi, di affrontare in termini difensivi l’esame, come può invece l’adulto. È evidente che in questi casi, se non ci si pone la questione del limite della testimonianza in relazione alla capacità del piccolo testimone di rendere una dichiarazione senza per questo dover sopportare sofferenze intollerabili, e comunque, nel bilanciamento degli interessi in gioco, non proporzionate, sarà stato inutile aver attribuito al giudice il potere di conduzione dell’esame, e quello di non ammettere il nuovo esame dell’infrasedicenne già sentito in sede d’incidente probatorio (art. 190 bis c.p.p.). Infine va ricordato che l’esame dell’imputato nel processo penale minorile è condotto dal presidente. I giudici, il pubblico ministero ed il difensore posso- no proporre al presidente domande o contestazioni da rivolgere all’imputa- to. (art. 33 co. 3°) La disposizione, diversamente da quanto è previsto dall’art. 498 co. 4° c p p per l’esame testimoniale del minorenne, deroga in modo assoluto ai principi del processo accusatorio. Non è prevista dunque la possibilità che l’esame prosegua nelle forme ordinarie quando si ritiene che non sussistono pericoli per la personalità del minore e per le sue esigenze educative. Poiché la norma si riferisce all’imputato tout court, alcuni ritengono che la disposizione si applichi anche a chi al momento del processo sia diventato maggiorenne.(11) In effetti nello stesso articolo si registrano due atteggiamenti diversi del legislatore. Al comma 3° si valorizzano le potenzialità dell’imputato che abbia compiuto i sedici anni, che può dunque richiedere la pubblicità dell’u- dienza, rinunciando alla tradizionale tutela dell’udienza a porte chiuse. Al comma 3° invece prevale la sua debolezza insuperabile che addirittura si proietterebbe anche in un momento successivo al raggiungimento della mag- giore età. Si realizza dunque un’irragionevole violazione del giusto processo nonostan- te il contrario orientamento delle Regole di Pechino (art. 14 co.1). La que- stione è particolarmente attuale a seguito della modifica dell’art. 111 della Costituzione. (12)

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NOTE

1 DOGLIOTTI M. I diritti dei minori e la Convenzione dell’ONU, in Dir. Fam. E delle Pers., 1993,, 301 2 GIACOBBE G. Riservatezza, in Enciclopedia del Diritto, vol. XL, Giuffrè, Milano 1967 3 MC LUHAN Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967 4 SERGIO G. Art. 33 (Udienza dibattimentale), in Codice di Procedura Penale Minorile Commentato, in Esperienze di Giustizia Minorile 1989 n° 1 - 4 5 MORO C. A. Diritto Minorile, Zanichelli Bologna 1996 6 Cfr. C. Deputati, P. d. L. n.° 4622 Pisapia: Modifica dell’art. 684 del codice penale). 7 MANNA Aart. 12, in Commentario delle norme contro la violenza sessuale, CEDAM, Padova 1996 8 NUVOLONE P. Libertà di cronaca, in Enciclopedia del diritto, vol XI Giuffrè Milano 1962 9 Cfr. Relazione al progetto preliminare del c.p.p., pag. 97). 10 BRICOLA F. Il cittadino innanzi al segreto istruttorio ed al diritto d’informazione. in FORZA A. (a cura di) Cronaca Giudiziaria e diritti del cittadino, Canova, Venezia 1998, 215 11 DI NUOVO S. GRASSO G. Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè Milano 1999 pag. 280 12 Analoga irragionevole forma di tutela è prevista dall’art. 25 che non consente all’imputato, neppure se nel frattempo diventato maggiorenne, di ottenere l’applicazione della pena su richiesta. Cfr. l’ord. 13. 4 1999 del Trib. Min. di Venezia, est. Campanato, in G. U. prima serie n. 36 del 1999 con cui è stata sollevata questione di legittimità costituzionale. La C. Costituzionale ha però ribadito la legittimità costituzionale della disposizione con la sentenza 272 del 12 luglio 2000.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

BRICOLA F. Il cittadino innanzi al segreto istruttorio ed al diritto d’informazione, in Cronaca giudiziaria e diritti del cittadino a cura di FORZA A., Canova Venezia 1998 DI NUOVO S. GRASSO G. Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè Milano 1999 pag. 280 DOGLIOTTI M. I diritti dei minori e la Convenzione dell’ONU in Dir Fam, e delle Pers. 1993, 301 GIACOBBE G. Riservatezza in Enciclopedia del diritto vol XL Giuffrè Milano 1989) MANNA A. Art. 12 in Commentario delle norme contro la violenza sessuale, CEDAM Padova 1996 Mc LUHAN M., Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967 MORO A. C. Diritto Minorile Zanichelli Bologna 1996 NUVOLONE P. Libertà di cronaca in Enciclopedia del Diritto vol. XI Giuffrè Milano 1962 SERGIO G. Art. 33 (Udienza dibattimentale) in Codice di Procedura Penale Minorile commentato Esperienze di Giustizia Minorile Roma 1989 SERGIO G. Processo penale e mass media in Documenti giustizia 1995 n. 1-2 pp.56

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SOMMARIO 1. IL (FALSO?) PROBLEMA: 1. Il (falso?) problema: chi è l’”avvocato del CHI È L’”AVVOCATO DEL MINORE”? minore”? La contrapposizione tra le LA CONTRAPPOSIZIONE TRA LE RAGIONI ragioni della protezione del minore e DELLA PROTEZIONE DEL MINORE E QUELLE quelle della autonomia del bambino DELLA AUTONOMIA DEL BAMBINO 2. Verso il superamento della contrapposizione: le peculiarità del cliente/bambino er un ordinamento giuridico come quello italia- 3. Il (vero?) problema: chi è il bambino? Le no, che solo recentemente ha introdotto, ma non peculiarità del bambino /cliente Pancora reso operativa, la figura dell’avvocato 4. Le zone d’ombra tra capacità ed incapacità del minore, l’esperienza americana costituisce sen- 5. Riflessioni conclusive z’altro un riferimento ricco di spunti, da studiare Note attentamente per affrontare in anticipo i problemi che Riferimenti bibliografici anche da noi porrà l’attuazione dell’istituto e far tesoro del dibattito esistente all’este- ro su questioni cruciali per la sua migliore realizzazione. In Usa, infatti, vi è un esperienza ormai quasi trentennale in tema di IL “DILEMMA rappresentanza dei diritti del minore nei giudizi civili poiché risale al 1974 DELL’AVVOCATO DEL una legge federale - Child Abuse Prevention and Treatment Act MINORE” (CAPTA) - che ha previsto sovven- zioni a favore degli Stati che avesse- NELL’ESPERIENZA ro riconosciuto tale rappresentanza. Prima di allora la rappresentanza dei minori era conosciuta solo nei pro- AMERICANA cessi penali con imputato minorenne (delinquency proceedings), dove cioè erano in discussione Status offender cases, introdotta a far data dal 1967 AVV. (leading case In Re Gault Arizona) a seguito di un intervento della Suprema CARLA Corte che decretò l’applicazione del 14 Emendamento anche per i minori MARCUCCI (due process and equal protection of the law). La rappresentanza del minore nelle aule civili, invece, era stata considera- PRESIDENTE AIAF TOSCANA ta inutile perché si riteneva che vi fossero già i giudici a proteggere bam- bini e ragazzi. La legge federale CAPTA per la prima volta ha fatto riferimento proprio alle procedure civili, in particolare a quelle relative ad allegazione di abusi e trascuratezza (abuse and neglect proceedings), e dalla sua incentivazione a prevedere una rappresentanza per i minori coinvolti in tali procedimenti è nato un sistema di volontari su base nazionale conosciuto come CASA (court appointed special advocates). In questi trenta anni il dibattito è stato accesissimo grazie anche al prezio- so contributo delle associazioni nazionali maggiormente rappresentative degli avvocati specializzati nel diritto di famiglia e minorile come, ad esempio, la National Association of Counsel for Children (NACC), costi- tuita venticinque anni fa, che conta attualmente più di 2.200 iscritti; la

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American Bar Association (ABA) nell’ambito della quale, sin dal 1958, è stata organizzata la ABA Section of Family Law, con più di 10.400 iscritti alla singola sezione; la American Academy of Matrimonial Lawyers (AAML), fondata nel 1962, con oltre 1.500 iscritti. Tutte queste associazioni hanno elaborato proprie linee guida contenenti indicazioni e raccomandazioni circa il ruolo e la formazione dell’avvocato del minore, nel tentativo di favorire una certa uniformità, almeno nell’am- bito degli iscritti, visto che non esiste in America un unico modello, neppu- re all’interno di uno stesso Stato. Ma i tre diversi orientamenti che emergono dai documenti testimoniano la difficoltà di definire in modo uniforme le questioni più problematiche e fanno si che il dibattito, dopo tanti anni, non possa ancora considerarsi esaurito. L’argomento maggiormente in discussione è costituito dall’individuazione del ruolo dell’avvocato del minore, ovvero se questi debba rappresentare in giudizio la volontà espressa dal cliente/minore (the child’s expressed wishes) o se debba perseguire il miglior interesse del minore, in ciò non affatto vincolato dai desideri manifestati da quest’ulti- mo (the child’s best interests). Ai due estremi opposti si pongono il modello dell’avvocato/curatore spe- ciale (the attorney/GAL), noto anche come modello ibrido (the Attorney Guardian ad Litem Hybrid Model), da una parte, e quello dell’avvocato in senso tradizionale (the traditional attorney), dall’altra. In quest’ultimo caso la difesa è diretta dal cliente (client directed representation), nell’altro dall’avvocato (advocate directed representation). Il dibattito sorto dal con- fronto tra queste diverse concezioni ha dato vita a quello che è stato signi- ficativamente chiamato il dilemma dell’avvocato del minore (the “dilemma of the child’s attorney”). Il primo modello individua una rappresentanza di tipo paternalistico in virtù della quale l’avvocato, per il solo fatto di rappresentare un minoren- ne, non è vincolato a seguirne le indicazioni ed ha completa autonomia e libertà nel perseguire davanti all’autorità giudiziaria l’obiettivo che egli difensore ritiene essere nel migliore interesse del cliente/minore. Secondo questa concezione l’avvocato si sostituisce completamente al giudizio del cliente tanto che qualcuno non ritiene neppure necessario che lo incontri. Il secondo modello, al contrario, afferma la necessità che l’avvocato svol- ga con il minore lo stesso ruolo che ha rispetto al cliente adulto non rico- noscendo nel rapporto con il primo alcun aspetto peculiare che lo possa in qualche misura differenziare. L’avvocato pertanto è strettamente vincolato ad eseguire le istruzioni del cliente e a perseguire in giudizio l’obiettivo espressamente posto da questi. Gli aggettivi con i quali vengono definiti i due opposti tipi di rappresentan- za sono significativi anche per chiarire il diverso atteggiamento dell’avvo- cato che agisce allo scopo di garantire il benessere dell’assistito, almeno secondo l’idea che di tale benessere il difensore si è fatta, rispetto a colui che si muove come rappresentante del cliente. Nel primo caso si parla di difesa rilassata (relaxed advocacy) e nel secon- do caso di difesa zelante (zealous advocacy) poiché si ritiene che solo in

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quest’ultimo vengano mantenute intatte le caratteristiche peculiari della difesa vera e propria. Da una ricerca effettuata nel 1996 sembra che il 60% delle giurisdizioni USA abbiano adottato il modello Attorney/GAL e che le leggi di 38 Stati individuino il ruolo del rappresentante del minore, comunque lo chiamino, nel senso di colui che deve perseguire il miglior interesse del minore pur non avendo poi uniformità di vedute circa la individuazione di quest’ulti- mo concetto. In realtà sembra che questa scelta sia dettata da ragioni economiche poiché mancherebbero i fondi per pagare gli avvocati, necessari per una difesa in senso tradizionale, mentre è comunemente utilizzato personale del CASA (Court Appointed Special Advocates) per l’altro tipo di rappresentanza. Nel mondo accademico, al contrario, prevale il modello tradizionale di avvocato anche in riferimento alla rappresentanza del minore. Per capire meglio la diversità di ruoli tra curatore speciale e avvocato è bene ricordare, in via incidentale, che l’istituto del guardian ad litem è stato importato dall’Inghilterra dai legislatori delle colonie e nella sua accezione originale esso era nato a protezione del patrimonio ereditato da minori nei confronti dei loro tutori. Lo Stato aveva in tali giudizi un interesse a causa della tassazione delle proprietà immobiliari e quindi, nel proteggere il minore erede, curava anche i propri interessi. In quel contesto il guardian ad litem era vissuto dunque in perfetta sintonia con gli obiettivi della Corona e non era visto come soggetto legato da un rapporto professionale con il bambino rappresentato ma piuttosto si poneva sullo stessa lunghezza d’onda della Corte. L’obiettivo era quello di salva- guardare la proprietà immobiliare, non certo rappresentare il minore. Riprendendo il filo del discorso è possibile osservare che le norme di carat- tere deontologico dettate in via generale per gli avvocati americani non riescono ad orientare verso un modello o l’altro di avvocato del minore poi- ché soffrono di una certa contraddittorietà o comunque di una qualche dose di ambiguità per quanto attiene la condotta prescritta nel caso di cliente affetto da incapacità. Da una parte, infatti, l’ABA Model Rules of Professional Conduct (Model Rules) alla regola n.1.14, prevede in linea di principio, che anche rispetto ad un cliente con ridotta capacità di assumere decisioni ponderate relativa- mente alla sua rappresentanza, l’avvocato debba svolgere il proprio ruolo in termini tradizionali. Ipotizza, però, un’importante deroga, prevedendo in caso di rischio di rilevante danno di carattere fisico, economico o di altro tipo, una vasta gamma di misure che l’avvocato deve prendere a protezio- ne del cliente, senza precisare chiaramente i criteri di scelta, se non per linee generali (Nota 1). D’altra parte, l’ABA Model Code of Professional Responsibility (Model Code), alla Considerazione Etica n. 7-12, che pure ha ad oggetto i casi di rappresentanza di clienti incapaci di prendere decisioni ponderate, non richiama in alcun modo la necessità di stabilire tendenzialmente un rappor- to professionale in termini tradizionali. Essa evidenzia invece la maggiore responsabilità che in casi del genere ricade sull’avvocato ed ipotizza che

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questi nei procedimenti giudiziari possa essere costretto a prendere decisio- ni nell’interesse del cliente qualora quest’ultimo non abbia un legale rap- presentante (Nota 2). Esistono quindi indicazioni di carattere deontologico assai contraddittorie, che non risolvono il dilemma relativo al ruolo dell’avvocato di un bambino posto dai due diversi modelli ricordati.

2. VERSO IL SUPERAMENTO DELLA CONTRAPPOSIZIONE: LE PECULIARITÀ DEL CLIENTE/BAMBINO

a simmetria e la sostanziale insoddisfazione derivante dall’applicazione Ldi entrambi questi modelli nella purezza della teoria sostenuta da ciascu- no ha fatto si che in tempi recenti si sia andato configurando un nuovo modello, cd. l’avvocato del bambino (the child’s attorney) dove, già nella denominazione, si avverte la necessità di coniugare i due aspetti che le tesi precedentemente esaminate avevano tentato di tenere separati, ciascuna fedele ad uno solo. Se da un lato, infatti, si ritiene necessario non tradire la funzione difensiva propria del ruolo dell’avvocato (advocacy), dall’altro, si avverte l’esigenza di adattare questa al fatto che si tratta pur sempre della difesa di un sogget- to particolare, ossia un bambino (child). In pratica il modello appena ricordato rappresenta il tentativo di bilanciare l’autonomia che si vuole riconoscere alla persona del bambino (autonomy) con la protezione che comunque gli si vuole riservare (beneficence), nella convinzione che una fedeltà assoluta ed esclusiva all’uno o all’altro princi- pio finirebbe per essere dannosa per il minore. La teorizzazione di quest’ultimo modello è il frutto di una lunga elabora- zione che ha visto le sue tappe più significative nei risultati del convegno organizzato a New York nel 1995 dalla Fordham University School of Law sul tema Ethical Issues in the Legal Representation of Children; nella pub- blicazione, nel 1996, delle linee guida American Bar Association Standards of Practice for Lawyers who Represent Children in Abuse and Neglect Cases (ABA Standards); nella pubblicazione, nel 1997, del libro Representing Children in Child Protective Proceedings: Ethical and Practical Dimensions a cura della Professoressa Jean Koh Peters della Yale University. L’associazione NACC ha poi proposto alcune modifiche ed integrazioni agli Standards della ABA adottando, nel 1999, un testo cono- sciuto con il nome ABA Standards (NACC Revised Version) e divulgando, nell’aprile 2001, anche delle vere e proprie “Raccomandazioni”, NACC Recommendations for Representation of Children in Abuse and Neglect Cases. La sintesi operata dal modello cd. Child’s Attorney consiste in definitiva nell’ammettere alcune eccezioni alla difesa zelante solo laddove il minore non sia capace di dirigere la sua difesa, fattispecie nella quale si riconosce come inevitabile un qualche grado di decisione sostitutiva da parte dell’av- vocato. La previsione di questa eccezione alla regola, però non fa si che la rappresentanza del minore appartenga ad un altro modo di fare l’avvocato poiché sempre di difesa vera e propria si tratta.

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Secondo la comune definizione data nelle due versioni delle Linee Guida (ABA e NACC) con il termine “Child’s Attorney” s’intende, infatti, un avvocato che fornisce prestazioni di carattere legale a favore di un bambi- no e che, nei confronti di quest’ultimo, ha gli stessi doveri di completa leal- tà, riservatezza e competenza che ha nei confronti di un cliente adulto (Standard A-1) mentre l’avvocato nominato “Guardian ad Litem” per un bambino è un funzionario del Tribunale al quale è conferito l’incarico di tutelare gli interessi del bambino senza essere vincolato dalle preferenze espresse da questi (Standard A-2) (Nota 3) Viene regolata in maniera uniforme anche la situazione di eventuale con- flitto in cui possa trovarsi l’avvocato nominato come curatore speciale del bambino prevedendosi che egli continui a svolgere il ruolo di difensore rinunciando a quello di curatore e chiedendo la nomina di un curatore spe- ciale senza rivelare le ragioni della richiesta (Standard B-2 ) (Nota 4) Tale conflitto si verifica quando le preferenze espresse dal cliente/bambino differiscano da quanto l’avvocato ritenga essere nel migliore interesse del bambino stesso. Le versioni delle linee guida delle due associazioni ABA e NACC si diffe- renziano l’una dall’altra in modo significativo laddove, allo Standard B-4, definiscono e regolamentano la relazione dell’avvocato con il cliente/bam- bino quando il professionista ritenga il cliente “incapace” sul presupposto, comune ad entrambi gli orientamenti, che è compito dell’avvocato, e non ad esempio del giudice, stabilire se il bambino stesso sia incapace in riferi- mento a ciascuna questione sulla quale dovrebbe dare istruzioni al profes- sionista (Standard B-3 Client Under Disability) (Nota 5). Nella versione ABA, infatti, lo Standard B-4, intitolato Preferenze del Cliente, stabilisce una regola generale e tre eccezioni alla stessa (Nota 6). In linea di principio l’avvocato deve rappresentare in giudizio le preferen- ze espresse dal bambino dopo averle comprese con modalità appropriate alla fase di sviluppo del bambino medesimo e dopo avere consigliato il cliente ed espresso il suo parere sulle questioni in discussione. Per tutto il corso del giudizio l’avvocato deve seguire le indicazioni dategli dal clien- te/bambino. In tre casi particolari è richiesto all’avvocato un comportamento diverso: 1. se il bambino non può esprimere una preferenza, nel qual caso l’avvoca- to dovrà fare uno sforzo in assoluta buona fede per individuare comun- que i desideri del bambino e sostenere in giudizio una posizione ad essi coerente o richiedere anche la nomina di un curatore speciale; 2. se il bambino non esprime o non vuole esprimere alcuna preferenza circa una specifica questione, nel qual caso l’avvocato dovrà individuare e sostenere i cd. interessi legali del bambino (child’s legal interests); 3. se il bambino esprime una preferenza che, secondo il parere dell’avvo- cato, lo esporrebbe al rischio di un grave pregiudizio, nel qual caso l’av- vocato potrà richiedere la nomina di un curatore speciale continuando, per quanto lo riguarda, a svolgere il ruolo di avvocato a meno che la posizione del bambino sia contraria alla legge o priva di qualsiasi fonda- mento. Gli interessi legali del bambino vengono distinti dal più generico suo

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miglior interesse e sono i soli ritenuti perseguibili dal parte di un avvoca- to, sia pur nelle situazioni specificamente sopra indicate, riservando il perseguimento dei child’s best interests esclusivamente al curatore speciale. Tali interessi legali vengono determinati sulla base di criteri oggettivi posti dalla legge in relazione agli obiettivi del giudizio e non si affidano a valu- tazioni del tutto soggettive e discrezionali dell’avvocato, condizionate pos- sibilmente dalle sue esperienze personali, dai suoi valori e dai suoi pregiu- dizi. Essi vengono individuati, in primo luogo, nei bisogni specifici e nelle pre- ferenze che anche un bambino che non può comunicare ha e che possono essere compresi con l’aiuto di esperti; in secondo luogo, nell’obiettivo di una sollecita soluzione del caso cosi che il bambino possa rimanere o tor- nare a casa o essere collocato in ambiente sicuro, stabile e tale da favorire la sua crescita e, infine, nella utilizzazione di quella, tra tutte le alternative possibili, che sia la meno negativa per il bambino e che lasci aperte altre possibilità (Nota 7). Nella versione NACC, invece, non si fa alcun ricorso alla categoria degli interessi legali del bambino ritenendo anch’essi esposti al rischio di una valutazione troppo soggettiva e si afferma apertamente che, nel caso in cui il bambino non abbia la capacità di dirigere la difesa, in questo caso e solo in questo caso, è consentita un’eccezione al modello predefinito come rego- la della difesa diretta dal cliente a favore di quella diretta dall’avvocato il quale dovrà perseguire il miglior interesse del cliente/bambino sulla base di una valutazione oggettiva di esso (Nota 8). Sono espressamente individuati i seguenti criteri oggettivi, senza pretesa di esaurire in tale elenco i parametri di riferimento: 1. individuazione della situazione del bambino attraverso una approfondita e completa indagine; 2. valutazione del bambino al momento della decisione; 3. esame di ciascuna opzione possibile alla luce dei due paradigmi che stanno alla base del benessere del bambino, ossia quello del genitore psi- cologico e quello della rete familiare; 4. utilizzazione del parere di esperti quali medici, professionisti della salu- te mentale, assistenti sociali ed altri. Nel caso in cui il bambino sia capace di esprimere una sua posizione ma l’avvocato ritenga che la stessa esponga il cliente al rischio di grave pregiu- dizio (condizione che non ricorre per il mero contrasto di idee tra avvoca- to e bambino) egli dovrà (e non potrà, come previsto nel modello ABA) richiedere la nomina di un altro soggetto che svolgerà il ruolo di curatore speciale mentre l’avvocato continuerà a rappresentare in tale veste il bam- bino. Tutto questo solo dopo avere inutilmente espletato in pieno la funzio- ne di consulenza per rendere edotto l’assistito della negatività della posi- zione prescelta. Nonostante i due modelli aderiscano entrambi al principio che vuole la relazione tra avvocato e minore come la più simile possibile a quella tra avvocato e adulto, quello NACC istituzionalizza, nel caso di incapacità del bambino ad esprimere una propria posizione, un ruolo dell’avvocato del

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minore molto simile a quello di un curatore speciale, cercando di limitare la individuazione delle opzioni possibili nell’ambito del perseguimento dei child’s best interests con alcune indicazioni.

Molto diversa da entrambe le posizioni delle due associazioni sopra ricor- date è quella assunta dalla American Academy of Matrimonial Lawyers (AAML) che, a sua volta, ha elaborato ed adottato nel 1995 linee guida note come Representing Children: Standards for Attorneys and Guardians ad Litem in Custody or Visitation Proceedings. Tale diversità si rintraccia, oltre che nella individuazione del discrimine tra capacità ed incapacità, di cui dirò in seguito, nella ricaduta che il giudizio di incapacità del cliente/bambino ha sull’atteggiamento processuale del- l’avvocato. In tale caso, infatti, secondo gli AAML Standards l’avvocato del bambino non deve difendere alcuna posizione in riferimento al risultato del giudizio o alle questioni in discussione (Standard 2.7) per evitare che vengano così sostenute posizioni del tutto personali dell’avvocato e deve limitarsi ad assumere il ruolo di mero indagatore di fatti (attorney as fact-finder) in modo da porre il giudice nella migliore condizione per adottare una deci- sione ponderata nel migliore interesse del bambino (Nota 9). Questa tesi è stata particolarmente sviluppata da Martin Guggenheim (1996), che della stesura degli AAML Standards è stato il referente, il quale ha proposto un paradigma per la determinazione del ruolo di “Counsel” del minore. Secondo tale paradigma sono le norme sostanziali che individuano il ruolo del rappresentante del minore che sarà deputato alla vera e propria difesa solo laddove la norma sostanziale riconosca al minore uno specifico diritto che sarà compito dell’avvocato far realizzare. In particolare Guggenheim ritiene che i bambini molto piccoli non abbiano alcun diritto sostanziale al controllo del risultato del giudizio, sia nei pro- cedimenti aventi ad oggetto affidamento e regolamentazione degli incontri con il genitore non convivente che in quelli relativi ad abuso e trascuratez- za. Pertanto, in tali procedimenti, l’avvocato del bambino non dovrebbe perorare alcun risultato, neppure quello richiesto dai suoi giovani clienti. Recentemente, a fine aprile 2003, sono stati resi noti i risultati ai quali è giunto il gruppo di lavoro che, nell’ambito della ABA Family Law Section, ha elaborando le linee guida denominate Standards of Practice for Lawyers Representing Children in Custody Cases. Anche se il testo diffuso non impegna l’associazione, visto che non è stato ancora approvato dalla “Camera dei Delegati”, pur tuttavia è interessante farne già cenno perché introduce un’ulteriore figura, accanto a quella del Child’s Attorney nell’accezione già nota, quale quella del Best Interests Attorney, definito come “un avvocato che fornisce in modo indipendente prestazioni legali allo scopo di tutelare i migliori interessi del bambino, senza essere vincolato dalle istruzioni o dagli obiettivi da questi posti” (così Standard II-B-2)(Nota 10). Secondo tale impostazione sarà il giudice, al momento della nomina del- l’avvocato, a precisare se il ruolo di questi debba essere quello di Child’s

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Attorney o di Best Interests Attorney, a seconda delle necessità del caso. Nel testo non viene più usata l’espressione Guardian ad litem perché “Il ruolo di “guardian ad litem” è diventato troppo confuso attraverso usi diversi nei diversi stati, con connotazioni mutevoli” (Commento allo Standard II-B) ed è espressamente escluso che la stessa persona possa svol- gere più di un ruolo essendo molti elementi di ciascuno incompatibili gli uni con gli altri. Gli avvocati del bambino nominati nelle procedure di abuso e trascuratez- za continueranno a regolarsi secondo le Linee Guida specifiche (1996) poi- ché la bozza in esame regolamenta solo le ipotesi di rappresentanza nelle procedure relative all’affidamento in senso ampio.

3 - IL (VERO?) PROBLEMA: CHI È IL BAMBINO? LE PECULIARITÀ DEL BAMBINO / CLIENTE

ean Koh Peters (1997/2001) ha segnalato la necessità di superare la pola- Jrizzazione del dibattito in termini di best interests o wishes advocacy evi- denziando come la linea che divide le due tesi non possa essere netta tanto che sarebbe difficile trovare oggi qualcuno che teorizzi il “pure best inte- rests point of view” o il “pure whishes point of view”. Peters propone quin- di un modello complesso che ha come concetto base quello che lei chiama “the child-in-context”, ossia il bambino compreso utilizzando il suo punto di vista e non quello dell’adulto in modo tale che il bambino stesso si rico- nosca in questo ritratto e lo avalli. Troppo spesso invece è l’avvocato che diviene il contesto in riferimento al quale viene impostata la difesa. Sia la difesa incentrata sull’interesse del bambino che quella che privile- gia l’espressione della volontà di questi può egualmente risolversi in una rappresentanza lacunosa perché profondamente distante dalla percezione dell’essenza di quel bambino. Incontrare un bambino in fretta e furia, parlargli pochi minuti e ritenere di avere così scoperto cosa vuole è, secondo Peters, un modo profondamente acontestuale di determinare come rappresentarlo. Similmente, decidere cosa sia nel suo interesse basandosi su quanto appreso da colloqui con l’as- sistente sociale può condurre a risultati molto lontani dalla realtà di quel bambino. Ogni avvocato dovrebbe conoscere il cliente nel suo contesto ed assicurare che la rappresentanza rifletta l’unicità di quel bambino o ragazzo, non ras- segnandosi mai a catalogarlo in definizioni astratte e generiche che pure il diritto offre: bambino abbandonato, trascurato, abusato e così via. Poiché una conoscenza di questo tipo si raggiunge in gran parte parlando con il bambino e venendo a conoscenza dei suoi desideri, della sua perso- nalità e dei suoi valori, ed in ogni caso cercando di conoscere in profondi- tà il bambino nel suo ambiente, la tesi è coerente con il principio di rappre- sentare i desideri del bambino. Ma una effettiva difesa del bambino, come del resto anche quella di ogni altro cliente, non significa estrapolare le affermazioni del cliente fuori dal contesto in cui sono state rese e farsene portavoce in giudizio. Solo le idee espresse consapevolmente dal bambino, dopo avere ricevuto

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dal proprio avvocato piena informazione del modo in cui verranno usate e delle conseguenze che potranno avere, possono essere considerate espres- sione dei desideri del bambino stesso. Tale approfondita conoscenza del bambino non potrà che essere coerente anche con il raggiungimento del suo migliore interesse. Per meglio far capire ciò che intende con questo Peters riporta una sua esperienza, in relazione alla quale non è rimasta soddisfatta del suo opera- to perché, a posteriori, ha ritenuto di avere tradito in quell’occasione il principio del child-in-context. Si tratta del caso noto come The Coke Bottle. Peters era stata nominata avvocato di una bambina di sei anni in un giudi- zio relativo alla sua adozione da parte della persona alla quale era già affi- data. Per qualche ragione la Peters aveva una certa riluttanza ad informare la sua giovane cliente del quadro giudiziario e del proprio ruolo di avvocato e, durante il colloquio presso il suo studio, aveva tentato di capire i sentimen- ti della bambina verso la madre biologica e verso l’affidataria, senza affrontare l’argomento del procedimento in corso ma aveva ottenuto da questa solo risposte a monosillabi. La giovane cliente giocherellava con una bottiglia di Coca Cola riempita per 2/3 di liquido blu e per il resto di olio di arachide, gioco che aveva tro- vato sulla scrivania dell’avvocato e che rappresentava un dono che il fratel- lo della Peters aveva fatto alla sorella quando erano ragazzi. Ad un certo punto, mentre la Peters risponde ad una telefonata, la bambina fa cadere la bottiglia che va in mille pezzi. La piccola è molto spaventata della possibile reazione dell’avvocato e le chiede esplicitamente se sia arrabbiata. Alla risposta negativa la bambina esclama “You are nice, like Mrs. White (l’affidataria). Not like Mommy” (“Tu sei buona, come la signora White. Non sei come Mamma”). Dopo avere ribadito questa differenza di atteggiamento tra la madre e l’af- fidataria la bimba ripiomba nel consueto atteggiamento silenzioso. All’udienza la Peters riferisce al giudice i sentimenti che la bambina le aveva manifestato nei confronti della madre e dell’affidataria ed il giudice pronuncia l’adozione della stessa a favore della signora White. Peters si rimprovera di non avere conosciuto la bambina nel suo contesto e di non essersi fatta conoscere nel proprio contesto. La bambina aveva fatto un’affermazione isolata, senza alcuna conoscenza dell’uso che ne sarebbe stato fatto perché il suo avvocato non l’aveva infor- mata del contesto giudiziario. Inoltre non era stato indagato se, poco prima del colloquio, la bambina avesse litigato con la madre o ricevuto un bel regalo dall’affidataria, ossia si trattava d’interpretazione di una semplice frase completamente avulsa dal contesto in cui era stata pronunciata. Peters traccia un vero e proprio percorso che costituisce il modello di rap- presentanza che porta il suo nome e che si suddivide in varie fasi, tutte egualmente essenziali: l’ingresso nel mondo del bambino (Entering the Child’s World), la decisione adottata nel mondo del bambino (Making

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Decisions in the Child’s World), il perseguimento dell’obiettivo della dife- sa (Pursuing the Goals of the Representation), l’uscita dal mondo del bam- bino (Leaving the Child’s World). Durante tutte le fasi l’avvocato del minore dovrà rispettare alcuni principi e porsi costantemente alcune domande, specificamente individuate, che lo aiuteranno nel difficile compito di considerare centrale il mondo preesi- stente del minore, nel quale egli entra e permane per poco tempo, evitan- do di farsi sopraffare da elementi che appartengono al suo mondo, persona- le e professionale. In particolare i tre principi (the three defaults) sono i seguenti: 1. il principio del legame (the relationship default) 2. il principio di competenza (the competency default) 3. il principio della difesa ed una alternativa (the advocacy default and an alternative) dove il primo è la difesa dei desideri del bambino e la secon- da la rappresentanza dell’interesse del minore In virtù dei primi due principi l’avvocato deve stabilire una relazione con il cliente, deve conoscerlo, ed esplorare a fondo la capacità di questi di con- tribuire alla sua rappresentanza. Nel valutare la competenza del cliente l’avvocato dovrà cercare di incorpo- rare ogni percentuale di contributo che il bambino può dare alla sua rappre- sentanza (“competency, in this context, is a dimmer switch”, ossia il con- cetto di capacità non si pone in termini di luce/buio, spento/acceso ma conosce uno spettro di possibilità intermedie proprio come in un commuta- tore di luce). L’avvocato dovrà servirsi del cliente prima di qualsiasi altra fonte di cono- scenza e nella misura più grande possibile. Il terzo principio dipenderà dal ruolo svolto dall’avvocato (a seconda delle regole alle quali dovrà sottostare) ma in entrambe le alternative il rappre- sentante del bambino dovrà sempre informare chi deciderà il caso circa i desideri espressi dal minore, qualunque sia il pensiero del rappresentante in ordine al migliore interesse dell’assistito. A questi principi si aggiungono tre ulteriori regole (Three Umbrella Principles) 1. Impostare le proprie azioni sulla considerazione del child-in-context e sulla teoria del caso; 2. Rispettare il proprio cliente, presente o assente che sia; 3. Coltivare il rapporto con le persone che fanno parte del mondo del bam- bino, tenendo conto della valutazione di queste relazioni da parte del bambino. Ed ancora, Peters propone sette domande che l’avvocato del minore dovrebbe costantemente porsi per “mantenersi onesto” (seven questions to keep us honest) che possono aiutarlo a scoprire “il capolavoro nascosto” (the hidden masterpiece), ossia a scoprire quel bambino nascosto sotto le impressioni, attese, speranze di cui tutti, adulti in genere ed anche profes- sionisti, lo ricoprono celando così la sua vera natura proprio come un’ope- ra d’arte sulla quale siano state ripassati strati di pittura per nasconderla. Si tratta delle seguenti domande: 1. Nel prendere le decisioni circa la rappresentanza, sto facendo tutto quan-

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to è possibile per vedere le questioni in discussione dal punto di vista del mio cliente/bambino piuttosto che dal punto di vista di un adulto? 2. Il bambino ha capito tutto quanto posso spiegargli di ciò che sta accaden- do nel caso che lo riguarda? 3. Se il mio cliente fosse un adulto, prenderei le stesse iniziative, adotterei le stesse decisioni, lo tratterei nella stessa maniera? 4. Se decido di trattare il mio cliente in modo diverso rispetto a come trat- terei un adulto in situazione analoga, in quale modo il mio cliente bene- ficerà concretamente grazie a quella deviazione dalla condotta abituale? Posso spiegare al mio cliente il vantaggio che ne trarrà? 5. È’ possibile che stia prendendo decisioni nella fattispecie per gratificare adulti coinvolti nel caso piuttosto che il cliente? 6. È possibile che stia prendendo decisioni nella fattispecie per mia gratifi- cazione personale piuttosto che per il cliente? 7. La rappresentanza, nel suo complesso, riflette quanto è unico e peculia- re di questo bambino?

4. LE ZONE D’OMBRA TRA CAPACITÀ ED INCAPACITÀ

questo punto è necessario capire come l’avvocato possa giudicare il Abambino/cliente capace (unimpaired) piuttosto che incapace (impaired) per poi regolarsi sul comportamento da adottare in un caso o nell’altro. Negli AAML Standards l’età di dodici anni è considerata lo spartiacque (dividing line) per una presunzione, sia pure semplice, di assoluta incapa- cità (al di sotto) e di assoluta capacità (al di sopra) dove “le qualità essen- ziali che distinguono un cliente capace da uno incapace sono quelle che si risolvono nella capacità di comprendere le questioni oggetto del contenzio- so, di parlare in modo meditato del caso e degli interessi in gioco per il cliente e di valutare le conseguenze delle possibili alternative” ( così nel Commento allo Standard 2.2) (Nota 11). A base di tale tesi viene richiamata la letteratura sullo sviluppo cognitivo che individuerebbe tra gli undici ed i quattordici anni la fase di sviluppo più alto rilevando peraltro che molti ragazzi raggiungono tale picco entro i dodici anni. Inoltre, già a dodici anni i ragazzi godono di molti diritti fra i quali quello alla libertà di parola e alla scelta dell’aborto. Ed ancora, da una ricerca effettuata risulterebbe che i giudici tengano in grande considerazio- ne le opinioni espresse dai dodicenni nelle cause relative al loro affidamen- to. Tale tesi, che ha adottato l’età del minorenne come elemento oggettivo di discrimine tra capacità ed incapacità, è stata criticata da coloro che ne hanno posto in evidenza i limiti rispetto ad una più articolata valutazione da effettuare caso per caso, in relazione a molte variabili. In particolare, Ann M. Haralambie e Deborah L. Glaser (1995) sottolinea- no come la capacità del bambino di assumere decisioni relative alle que- stioni trattate in giudizio non vada valutata isolando il bambino dal rappor- to che lo lega al suo avvocato perché è solo da questa partnership che pos- sono trarsi argomenti per giudicare in ordine alla capacità. In sostanza, non si potrà non considerare l’aiuto che al bambino verrà dal

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rapporto con l’avvocato in termini di capacità la quale potrà anche essere il risultato di questa collaborazione. Le Autrici rifiutano in ogni caso qualsiasi predeterminazione rigida di un limite tra capacità ed incapacità e l’alternativa perentoria tra totale incapa- cità/totale capacità e concordano con quanto hanno evidenziato in tema di processo decisionale in contesto medico Allen E. Buchanan e Dan W. Brock (1989) “L’affermazione che una persona sia (o non sia) capace è parziale. La capacità è sempre capacità per uno specifico compito- capacità di fare qualcosa….Il concetto stesso di capacità di assumere decisioni è incomple- to di per se fino a che non siano specificate la natura della scelta e le con- dizioni nelle quali tale scelta deve essere effettuata”. “Di conseguenza la capacità non è assoluta ma relativa alla decisione da prendere. Una persona può essere capace di assumere una decisione speci- fica in un particolare momento, in certe condizioni, ma incapace di pren- dere un’altra decisione, o anche la stessa decisione, in condizioni diverse. La valutazione della capacità, dunque, rappresenta un giudizio circa la capacità di una persona ad assolvere il compito di prendere una decisione specifica in un particolare momento e in date condizioni” (Nota 12). Gli ABA Standards ancora in fase di elaborazione ed approvazione, da ulti- mo esaminati, fanno propria la necessità di una considerazione della capa- cità/incapacità per ciascuna questione in discussione per la quale il bambi- no è chiamato a dare istruzioni al suo avvocato rigettando qualsiasi valuta- zione effettuata in via generale e globalmente, senza tenere conto delle con- dizioni contingenti e del mutare, in positivo e in negativo, del grado di capacità.

5. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

o studio dell’esperienza e del dibattito esistente negli U.S.A. intorno al Lproblema del ruolo dell’”Avvocato del Minore” induce un certo sconfor- to, così almeno è successo a me per un lungo periodo, perché si ha la sen- sazione che si tratti di problema senza soluzione, un vero e proprio dilem- ma. Molte sono, infatti, le ragioni a favore della rappresentanza intesa in senso tradizionale, ossia adultosimile, e quindi come rappresentanza della volon- tà e dei desideri espressi dal cliente e per il perseguimento degli obiettivi da quest’ultimo posti. Altrettante sono le ragioni che giustificano deroghe a tale tipo di rappresen- tanza quando si tratti di attività prestata a favore di bambini. Ma forse questo, che pare un problema insolubile - il problema - è solo un falso problema, o almeno è il problema apparente. Per me è stata illuminante (e rasserenante) la lettura del libro citato di Jean Koh Peters, che sono stata incuriosita a leggere da quanto aveva riferito del suo modello Ann Haralambie, in occasione della partecipazione di quest’ul- tima al seminario di aggiornamento sull’avvocato del minore tenutosi a Lucca pochi giorni prima dell’inizio di questo corso. È proprio avvicinandomi al modello Peters che ad un certo punto ho comin- ciato a districarmi tra i mille dubbi in cui mi dibattevo e mi sono chiesta se

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forse non fosse un errore di impostazione quello di partire da questa con- trapposizione di ruoli, data quasi come condizione scontata e predefinita, e non fosse invece più corretto tentare di spostare il punto di osservazione dall’avvocato al bambino. Ecco che allora arriviamo al vero problema dell’avvocato: scoprire il bam- bino che deve rappresentare. Forse (ed in questa materia i forse non sono mai troppi), in quest’ottica, la contrapposizione tra gli opposti modelli sfuma o, quanto meno, diviene meno netta e forse può essere limitata ad ipotesi residuali. Se, infatti, l’avvocato riesce a scoprire davvero quel bambino che si nasconde sotto le apparenze, talvolta indotte dagli adulti, allora potrà por- tare alla luce i suoi desideri, e farsene portavoce presso il giudice. Secondo il paragone suggerito da Peters, proprio come succede quando un quadro di valore viene scrostato dagli strati di pennellate che lo ricoprono, sovrappo- ste al dipinto originale per trafugarlo più facilmente rendendolo irricono- scibile (e, infatti, nella maggior parte dei casi anche il bambino rappresen- ta un bene prezioso che qualcuno vuole portare via a qualcun altro). Il bambino è sempre una fonte preziosissima di conoscenza per coloro che devono pensare a lui a vario titolo, siano essi i genitori, i maestri, gli esper- ti, altri professionisti che in momenti diversi possono dover intervenire, giudici compresi. Tuttavia, perché emergano davvero i desideri è fonda- mentale che il bambino venga ascoltato effettivamente, e non per il rispet- to formale di una norma, dagli adulti i quali non dovranno funzionare da mero registratore riproducendo soltanto affermazioni scollegate da qual- siasi rapporto e da una considerazione globale del contesto. Cosa significa affermare che il bambino desidera qualcosa piuttosto che qualcosa d’altro? In questo psicologi, neuropsichiatri infantili e psicanalisti ci dovrebbero aiutare a capire se sia possibile, dalla loro ottica, introdurre nelle aule giu- diziarie uno spazio per l’espressione del desiderio del bambino per un fine certamente diverso, ma altrettanto importante, rispetto a quello terapeutico a loro usuale. Con questa convinzione la sezione toscana dell’Aiaf si è fatta promotrice, insieme all’Associazione Materiali per il piacere della psicanalisi, di un ulteriore convegno che si svolgerà a Lucca l’8 e 9 novembre 2003 dal tito- lo Il bambino ascoltato - Esperienze a confronto e nuove sollecitazioni legislative, iniziativa che si pone l’obiettivo di affrontare questo tema con un’impostazione interdisciplinare. La legge 20.03.03 n.77, con la quale il Presidente della Repubblica viene autorizzato a ratificare la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, aperta alla firma a Strasburgo il 25 gennaio 1996, costituisce un’altra importantissima sollecitazione, oltre alla L.149/01 e alla L.176/91, ad approfondire questa analisi, anche per riuscire a distinguere i vari dirit- ti processuali che vengono riconosciuti al bambino e la corrispondente posizione di quest’ultimo e dei suoi rappresentanti nelle diverse circostan- ze. Fare vivere il bambino davanti al giudice che del suo futuro dovrà decide- re, sia mediante il suo ascolto diretto e personale che mediante la voce del

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suo avvocato, porrà fine ad una considerazione dell’infanzia spesso effet- tuata per grandi categorie, senza un esame caso per caso veramente appro- fondito di quel bambino. Fino ad oggi i giudici hanno dimostrato un certo timore e l’ascolto dei bam- bini è stato limitato a casi del tutto eccezionali, essendo invalso l’uso di sentirli solo laddove la loro opinione possa essere di fatto considerata vin- colante. Non mi pare questo lo spirito delle disposizioni normative che pre- vedono l’ascolto come un diritto del bambino e non come il diritto del giu- dice a ricevere aiuto dal bambino nel decidere. Fino ad oggi anche gli avvocati hanno mostrato una certa ritrosia ad ascol- tare i bambini persino in quelle poche occasioni nelle quali ne avrebbero, per la legislazione vigente, il diritto oltre, a mio parere, il dovere, ossia quando sono nominati curatore speciale. Mi risulta, infatti, una certa pras- si secondo la quale molti non riterrebbero necessario neppure conoscere il bambino in questione. Vorrei davvero capire come sia possibile prendere qualsiasi posizione e conclusione, senza avere conosciuto la persona di cui dovremmo curare l’interesse nel procedimento. Perché gli adulti, che pure ritengono di doversi occupare dei bambini, hanno così tanta paura di ascoltarli? Forse per la paura di sbagliare nel metodo, preferiscono accettare il rischio di sbagliare nella decisione da prendere, sia essa quella relativa alla difesa da assumere o quella concer- nente il provvedimento da pronunciare. Meglio sarebbe pensare a percorsi formativi che garantiscano un buon livello di abilità specifica per porsi in ascolto del bambino in modo corret- to. Per quanto in specifico riguarda l’avvocatura, l’introduzione della figura dell’avvocato del minore nell’ordinamento italiano e la ormai, si spera, prossima ratifica della convenzione di Strasburgo rendono non più rinvia- bile la necessità di una effettiva specializzazione del professionista che si voglia dedicare a questa attività. La complessità e delicatezza del ruolo e la particolarità del rapporto che deve essere stabilito con il cliente/bambino impongono una formazione ed un aggiornamento specifici ed interdisciplinari non essendo sufficiente una approfondita conoscenza del diritto di famiglia e minorile ma essendo necessario conoscere lo sviluppo cognitivo di un bambino, i suoi bisogni e le sue capacità in relazione alle varie età, sapere comunicare con un bam- bino anche molto piccolo, imparare a porre domande senza condizionarne le risposte, conoscere le dinamiche di coppia e le disfunzioni che possono interessare il rapporto genitoriale, e tanto altro ancora. Se è vero che l’avvocato del minore è innanzi tutto un avvocato è anche vero che è un avvocato che difficilmente potrà svolgere bene il suo ruolo se, nonostante la frequentazione di corsi e convegni specifici, rappresente- rà il minore come scelta occasionale, tra uno sfratto ed un recupero crediti, una procedura concorsuale e un incidente stradale. Perché la rappresentanza del minore non risulti un rimedio peggiore del male al quale vuole ovviare è indispensabile che venga prevista per legge l’istituzione di elenchi speciali e vengano richiesti requisiti di attitudine,

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esperienza e formazione per accedervi tali da non rendere inutile la previ- sione stessa e garantire invece l’elevata qualità della prestazione professio- nale. Nonostante la migliore e più accurata formazione esisterà sempre il rischio, che in certi casi potrebbe diventare necessità, che l’avvocato assuma una posizione soggettiva, quando il contributo del soggetto rappresentato è minimo. In tali casi si potrebbe contestare che l’avvocato farà uso nella difesa di una discrezionalità simile a quella che si è contestata sino ad oggi al giudice che si occupa di minori. Forse l’obiezione ha qualche fondamento ma certo il passo avanti compiuto verso il giusto processo è notevole. È ben meno dannoso, infatti, che sia l’avvocato a introdurre nel giudizio un elemento di discrezionalità facendosi portatore dell’interesse del suo rap- presentato piuttosto che lo faccia il giudice, con ciò contravvenendo a fon- damentali regole del processo (principio del contraddittorio e terzietà). Non dimentichiamoci, infatti, che la decisione è sempre rimessa al giudice il quale mai dovrà delegarla ad alcuna delle parti, neppure a quella che si presenta come la più “imparziale”, come potrebbe sembrare il bambino. L’avvocato del bambino non deve diventare un ausiliario del giudice né di questi essere l’ispiratore privilegiato. Questa potrebbe essere una tentazio- ne forte, da entrambe le parti: per l’avvocato, perché potrebbe sentirsi molto solo e pieno di responsabilità in situazioni estremamente complesse ove il giudice potrebbe essere vissuto come il migliore alleato (“siamo dalla stessa parte perché difendiamo il bambino”), per il giudice, perché c’è una persona di sua fiducia che ha libero accesso al bambino, lo conosce, ha conosciuto l’ambiente familiare, una specie di super assistente sociale o di C.T.U.. Si tratterebbe di un completo stravolgimento dei ruoli che sembra anche assurdo ipotizzare ma di cui credo invece sia bene parlare perché di fatto sono attitudini molto naturali dalle quali possiamo guardarci se impariamo a non demonizzarle. Un notevole contributo alla qualificazione della difesa in questo campo potrebbe venire inoltre da una sottolineatura di specifici doveri di carattere deontologico. Al riguardo è significativo che l’unica disposizione in materia di diritto di famiglia che si rintraccia nell’attuale codice deontologico sia quella che, all’art.37, regola il conflitto d’interessi prevedendo, in modo ovvio, che l’avvocato che abbia assistito i coniugi in controversie familiari debba astenersi dal prestare la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi in favore di uno di essi. Le recenti novità legislative potrebbero costituire un’ottima occasione per previsioni deontologiche relative al rapporto professionale con il bambino e per un’effettiva vigilanza dei consigli degli ordini forensi sul rispetto del dovere di competenza che l’art. 12 del Codice Deontologico Forense espressamente prevede. Qualora dovesse succedere che con il 1° luglio 2003 divenga operativa la figura dell’avvocato del minore, senza ulteriori interventi legislativi che introducano elenchi di avvocati specializzati e disegnino iter formativi,

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potremo almeno sperare che intervengano gli ordini forensi, richiamando gli iscritti al rispetto di tale regola deontologica e sanzionando l’inosser- vanza qualora professionisti del tutto inesperti e non formati in modo spe- cifico per tale incarico lo accettino ugualmente? Sarebbe per gli ordini forensi una buona occasione per dare il segnale di un atteggiamento nuovo, espressione della volontà di garantire effettivamente il diritto dei cittadini, in questo caso particolarmente indifesi, ad una rap- presentanza di qualità, bandendo ogni spirito corporativo, con ciò contri- buendo a riportare l’avvocatura italiana ad un livello e ad una considerazio- ne ormai purtroppo appartenenti al passato. Chissà che proprio dalla rappresentanza dei bambini l’avvocatura non possa cominciare a risalire la china. E a dire la verità questa potrebbe essere anche l’occasione per abbandona- re l’antica abitudine, propria del mondo giuridico, di parlare dei bambini in termini di minori. Questa espressione è oggi in aperta contraddizione con la posizione che si vuole riconoscere al bambino, di soggetto titolare di diritti ed avente una sua autonoma posizione. Ed infatti in genere nelle convenzioni citate non si usa il termine “Minor” ma “Child”. Una fase storica di fondamentale importanza si è consumata nel passaggio dall’interesse del minore ai diritti del bambino e l’uso delle parole non può non accompagnare il cambiamento con un adattamento che non è puro osse- quio nominalistico.

* La traduzione delle citazioni dall’inglese all’italiano non è ufficiale.

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NOTE

1) AMERICAN BAR ASSOCIATION MODEL RULES OF PROFESSIONAL CONDUCT Traduzione: Rule 1.14 Client With Diminished Regola 1.14 Cliente con capacità Capacity ridotta. (a) When a client’s capacity to make (a) Quando la capacità di un cliente di adequately considered decisions in adottare decisioni adeguatamente pon- connection with a representation is derate in relazione alla sua rappresen- diminished, whether because of mino- tanza è ridotta, a causa della sua rity, mental impairment or for some minore età, di un’incapacità mentale o other reason, the lawyer shall, as far as per qualche altra ragione, l’avvocato reasonably possible, maintain a nor- dovrà mantenere con quel cliente, per mal client-lawyer relationship with the quanto ragionevolmente possibile, un client. normale rapporto cliente/avvocato. (b) When the lawyer reasonably belie- (b) Quando l’avvocato ritiene ragione- ves that the client has diminished volmente che la capacità del cliente capacity, is at risk of substantial physi- sia ridotta, che quest’ultimo sia espo- cal, financial or other harm unless sto a rischio di un rilevante danno di action is taken and cannot adequately carattere fisico, economico o di altro act in the client’s own interest, the tipo, se non viene preso un provvedi- lawyer may take reasonably necessary mento, e che il cliente non può ade- protective action, including consulting guatamente agire nel suo stesso inte- with individuals or entities that have resse, l’avvocato può prendere le ini- the ability to take action to protect the ziative ragionevolmente necessarie per client and, in appropriate cases, see- proteggere il cliente, come consultare king the appointment of a guardian ad persone ed enti che abbiano la possi- litem, conservator or guardian. bilità di agire a protezione del cliente (c) Information relating to the repre- e, in casi adatti, può chiedere la nomi- sentation of a client with diminished na di un curatore speciale, di un capacity is protected by Rule 1.6. amministratore, di un tutore. When taking protective action pur- (c) Le informazioni relative alla rappre- suant to paragraph (b), the lawyer is sentanza di un cliente con diminuita impliedly authorized under Rule 1.6 capacità sono protette secondo quanto (a) to reveal information about the stabilito dalla regola 1.6. client, but only to the extent reaso- Quando un avvocato prende le inizia- nably necessary to protect the client’s tive previste al paragrafo (b), il mede- interests. simo è implicitamente autorizzato in virtù della regola 1.6(a) a rivelare informazioni relative al cliente ma solo nella misura in cui ciò è ragione- volmente necessario a proteggere gli interessi del cliente.

Comment - Rule 1.14 Commento alla Regola 1.14 [1] The normal client-lawyer relations- Il normale rapporto cliente/avvocato è hip is based on the assumption that the basato sulla presunzione che il cliente, client, when properly advised and adeguatamente consigliato ed assisti- assisted, is capable of making deci- to, sia capace di prendere decisioni sions about important matters. When relative a questioni importanti. the client is a minor or suffers from a Tuttavia, quando il cliente è un mino-

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diminished mental capacity, however, re o è affetto da una diminuita capaci- maintaining the ordinary client-lawyer tà mentale, può risultare impossibile relationship may not be possible in all mantenere riguardo a tutto l’ordinaria respects. In particular, a severely inca- relazione cliente/avvocato pacitated person may have no power In particolare, una persona gravemen- to make legally binding decisions. te incapace non ha il potere di prende- Nevertheless, a client with diminished re decisioni vincolanti. Tuttavia un capacity often has the ability to under- cliente con capacità ridotta ha spesso stand, deliberate upon, and reach con- l’abilità di capire, discutere e giungere clusions about matters affecting the a soluzioni relativamente a questioni client’s own well-being. For example, che interessino il suo benessere. Per children as young as five or six years esempio, si considera che bambini di of age, and certainly those of ten or cinque o sei anni, e certamente quelli twelve, are regarded as having opi- di dieci o dodici, abbiano opinioni nions that are entitled to weight in che debbono essere tenute in conto legal proceedings concerning their nei procedimenti legali concernenti il custody. So also, it is recognized that loro affidamento. Parimenti si ricono- some persons of advanced age can be sce che alcune persone di età avanza- quite capable of handling routine ta possono essere capaci di trattare financial matters while needing special questioni economiche di routine men- legal protection concerning major tre hanno bisogno di una speciale pro- transactions. tezione legale per gli affari di maggior [2] The fact that a client suffers a disa- importanza. bility does not diminish the lawyer’s Il fatto che un cliente sia affetto da obligation to treat the client with atten- un’incapacità non affievolisce il dove- tion and respect. Even if the person re dell’avvocato di trattarlo con atten- has a legal representative, the lawyer zione e rispetto. Anche se la persona should as far as possible accord the ha un legale rappresentante, l’avvoca- represented person the status of client, to deve riconoscergli quanto più possi- particularly in maintaining communi- bile lo status di cliente, soprattutto per cation. ciò che attiene i contatti. [3] The client may wish to have family Il cliente può desiderare che persone members or other persons participate di famiglia o altri partecipino ai collo- in discussions with the lawyer. When qui con l’avvocato. necessary to assist in the representa- Quando è necessaria per favorire la tion, the presence of such persons rappresentanza, la presenza di tali per- generally does not affect the applicabi- sone generalmente non pregiudica lity of the attorney-client evidentiary l’applicabilità al rapporto privilege. Nevertheless, the lawyer avvocato/cliente della prerogativa di must keep the client’s interests fore- non essere oggetto di prova. Tuttavia most and, except for protective action l’avvocato deve mantenere come prio- authorized under paragraph (b), must ritario l’interesse del cliente e, salvo il to look to the client, and not family caso di azioni autorizzate a protezione members, to make decisions on the del cliente di cui al paragrafo (b), deve client’s behalf. rivolgersi al cliente, e non ai familiari [4] If a legal representative has already di questo, per prendere decisioni nel- been appointed for the client, the law- l’interesse del medesimo. yer should ordinarily look to the repre- Se è già stato nominato un rappresen- sentative for decisions on behalf of the tante legale del cliente, l’avvocato client. In matters involving a minor, deve normalmente rivolgersi al rappre- whether the lawyer should look to the sentante per le decisioni nell’interesse parents as natural guardians may del cliente. In questioni relative ad un depend on the type of proceeding or minore, dipenderà dal tipo di procedi-

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matter in which the lawyer is represen- mento o dalla materia rispetto alla ting the minor. If the lawyer represents quale l’avvocato rappresenta il bambi- the guardian as distinct from the ward, no se egli debba riferirsi ai genitori and is aware that the guardian is acting come naturali tutori. Se l’avvocato adversely to the ward’s interest, the rappresenta il tutore in modo autono- lawyer may have an obligation to pre- mo rispetto al pupillo, e si rende conto vent or rectify the guardian’s miscon- che il tutore sta operando contro l’in- duct. See Rule 1.2(d) . teresse del pupillo, l’avvocato può Taking Protective Action avere il dovere di impedire o corregge- [5] If a lawyer reasonably believes that re la cattiva condotta del tutore. a client is at risk of substantial physi- Se l’avvocato ritiene ragionevolmente cal, financial or other harm unless che un cliente sia esposto al rischio di action is taken, and that a normal grave danno fisico, economico o di client-lawyer relationship cannot be altro tipo, se non viene preso un prov- maintained as provided in paragraph vedimento, e che non possa essere (a) because the client lacks sufficient mantenuto un normale rapporto clien- capacity to communicate or to make te/avvocato come indicato al paragra- adequately considered decisions in fo (a) perché il cliente non ha suffi- connection with the representation, ciente capacità di comunicare o di then paragraph (b) permits the lawyer prendere adeguatamente decisioni to take protective measures deemed ponderate in connessione con la rap- necessary. Such measures could inclu- presentanza, allora il paragrafo (b) de: consulting with family members, consente all’avvocato di adottare le using a reconsideration period to per- misure protettive ritenute necessarie. mit clarification or improvement of cir- Tali iniziative possono includere: con- cumstances, using voluntary surrogate sultare familiari, usufruire di un perio- decision making tools such as durable do di riconsiderazione per rendere powers of attorney or consulting with possibile un chiarimento o un miglio- support groups, professional services, ramento delle condizioni, utilizzare adult-protective agencies or other indi- strumenti, come una procura a lungo viduals or entities that have the ability termine, che consentono di prendere to protect the client. In taking any pro- decisioni al posto del cliente sulla tective action, the lawyer should be base di un atto volontario di questi, o guided by such factors as the wishes consultare gruppi di sostegno, servizi and values of the client to the extent professionali, agenzie di aiuto per gli known, the client’s best interests and adulti o altre persone o enti che possa- the goals of intruding into the client’s no proteggere il cliente. Nel prendere decision making autonomy to the least qualsiasi iniziativa a protezione del extent feasible, maximizing client cliente, l’avvocato deve essere guidato capacities and respecting the client’s da fattori come i desideri ed i valori family and social connections. del cliente per quanto conosciuti, il [6] In determining the extent of the miglior interesse del cliente e l’obietti- client’s diminished capacity, the law- vo di condizionare l’autonomia deci- yer should consider and balance such sionale del cliente nella misura mini- factors as: the client’s ability to articu- ma possibile, valorizzando al massimo late reasoning leading to a decision, le capacità del cliente e rispettando la variability of state of mind and ability rete familiare e sociale dell’assistito. to appreciate consequences of a deci- Nel determinare l’ampiezza della sion; the substantive fairness of a deci- diminuzione di capacità di cui è affet- sion; and the consistency of a decision to il cliente, l’avvocato dovrebbe con- with the known long-term commit- siderare e confrontare fattori come: la ments and values of the client. In capacità del cliente di esprimere ragio- appropriate circumstances, the lawyer namenti che conducano ad una deci-

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may seek guidance from an appropria- sione, la mutevolezza degli stati men- te diagnostician. tali e la capacità di valutare le conse- [7] If a legal representative has not guenze di una decisione; la sostanzia- been appointed, the lawyer should le correttezza della decisione; la consider whether appointment of a coerenza di una decisione rispetto agli guardian ad litem, conservator or guar- impegni e ai valori da molto tempo dian is necessary to protect the client’s conosciuti del cliente. In certi casi, interests. Thus, if a client with diminis- l’avvocato può chiedere una diagnosi hed capacity has substantial property da persona esperta per avere una that should be sold for the client’s guida. benefit, effective completion of the Se non è ancora stato nominato un transaction may require appointment rappresentante legale, l’avvocato of a legal representative. In addition, dovrebbe valutare se non sia necessa- rules of procedure in litigation someti- rio richiedere la nomina di un curato- mes provide that minors or persons re speciale, di un amministratore o di with diminished capacity must be un tutore per tutelare gli interessi del represented by a guardian or next cliente. Inoltre, se il cliente affetto da friend if they do not have a general diminuita capacità ha proprietà consi- guardian. In many circumstances, derevoli che devono essere vendute a however, appointment of a legal repre- vantaggio del cliente, il perfeziona- sentative may be more expensive or mento della transazione effettiva può traumatic for the client than circum- richiedere la nomina di un rappresen- stances in fact require. Evaluation of tante legale. Ed ancora, le regole di such circumstances is a matter entru- procedura nei contenziosi qualche sted to the professional judgment of volta prevedono che un minore o una the lawyer. In considering alternatives, persona con diminuite capacità deb- however, the lawyer should be aware bano essere rappresentate da un cura- of any law that requires the lawyer to tore speciale o da un “next friend” se advocate the least restrictive action on non hanno un tutore. In molte circo- behalf of the client. stanze, tuttavia, la nomina di un rap- Disclosure of the Client’s Condition presentante legale può essere più [8] Disclosure of the client’s diminis- costosa o traumatica per il cliente hed capacity could adversely affect the delle circostanze che di fatto la richie- client’s interests. For example, raising dono. La valutazioni di tali circostanze the question of diminished capacity è materia rimessa all’apprezzamento could, in some circumstances, lead to professionale dell’avvocato. In ogni proceedings for involuntary commit- caso, nel considerare le alternative ment. Information relating to the possibili, l’avvocato deve sapere che representation is protected by Rule la legge gli impone di intraprendere 1.6. Therefore, unless authorized to l’azione meno restrittiva per il cliente. do so, the lawyer may not disclose La rivelazione della diminuita capaci- such information. When taking protec- tà del cliente potrebbe essere contraria tive action pursuant to paragraph (b), agli interessi di quest’ultimo. Per the lawyer is impliedly authorized to esempio, porre la questione della make the necessary disclosures, even diminuita capacità potrebbe, in alcuni when the client directs the lawyer to casi, condurre a procedimenti per il the contrary. Nevertheless, given the forzato internamento del cliente. Le risks of disclosure, paragraph (c) limits informazioni relative alla rappresen- what the lawyer may disclose in con- tanza sono soggette ai vincoli di prote- sulting with other individuals or enti- zione di cui alla regola 1.6. Inoltre, a ties or seeking the appointment of a meno che non sia autorizzato espres- legal representative. At the very least, samente in tal senso, l’avvocato non the lawyer should determine whether può rivelare tali informazioni. Nel

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it is likely that the person or entity con- prendere le iniziative di protezione di sulted with will act adversely to the cui al paragrafo (b), l’avvocato è impli- client’s interests before discussing mat- citamente autorizzato alle rilevazioni ters related to the client. The lawyer’s necessarie, anche quando il cliente gli position in such cases is an unavoi- dia indicazioni in senso contrario. dably difficult one. Tuttavia, stante i rischi della rivelazio- ne, il paragrafo (c) limita il contenuto di quanto l’avvocato può rivelare con- sultandosi con altre persone o enti o chiedendo la nomina di un rappresen- tante legale. Prima di discutere le que- stioni relative al cliente, l’avvocato deve almeno determinare se sia proba- bile che la persona o l’ente consultati possano agire in senso contrario all’in- teresse del cliente stesso. La posizione dell’avvocato in casi come questi è inevitabilmente complessa.

2) AMERICAN BAR ASSOCIATION MODEL CODE OF PROFESSIONAL RESPONSIBILITY

Ethical Consideration (EC) 7-12 Considerazione etica n.7-12 Any mental or physical condition that Ogni condizione mentale o fisica che renders a client incapable of making a renda un cliente incapace di adottare considered judgment on his or her una decisione ponderata nel proprio own behalf casts additional responsibi- interesse attribuisce responsabilità lities upon the lawyer. addizionali all’avvocato. Where an incompetent is acting Quando una persona incapace agisce through a guardian or other legal attraverso un tutore o altro rappresen- representative, a lawyer must look to tante legale, l’avvocato deve fare rife- such representative for those decisions rimento a tale rappresentante per quel- which are normally the prerogative of le decisioni che normalmente spetta al the client to make. cliente prendere. If a client under disability has no legal Se un cliente affetto da incapacità non representative, the lawyer may be ha un rappresentante legale, può acca- compelled in courts proceedings to dere che l’avvocato si trovi costretto, make decisions on behalf of the client. nei procedimenti giudiziari, a prende- If the client is capable of understan- re decisioni nell’interesse del cliente. ding the matter in question or of con- Se il cliente è capace di capire le que- tributing to the advancement of his or stioni trattate o di contribuire alla pro- her interests, regardless of whether the mozione dei propri interessi, a pre- client is legally disqualified from per- scindere se questi sia legalmente forming certain acts, the lawyer should impedito dallo stipulare certi atti, l’av- obtain from the client all possible aid. vocato deve ottenere dal cliente tutto If the disability of a client and the lack l’aiuto possibile. Se l’incapacità del of a legal representative compel the cliente e la mancanza di un legale rap- lawyer to make decision for the client, presentante costringono l’avvocato a the lawyer should consider all circum- prendere decisioni per il cliente, l’av- stances then prevailing and act with vocato deve considerare il contesto care to safeguard and advance the del cliente ed agire con attenzione per

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interests of the client. But obviously a salvaguardare e promuovere gli inte- lawyer cannot perform any act or ressi del medesimo. Ma naturalmente make any decision which the law l’avvocato non può compiere atti o requires the client to perform or make, prendere decisioni che la legge richie- either acting for himself if competent, de che sia il cliente a compiere o pren- or by a duly constituted representative dere, sia agendo personalmente, se if legally incompetent. capace, sia attraverso un rappresen- tante debitamente costituito secondo le previsioni di legge, se legalmente incapace.

3) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES (NACC REVISED VERSION) (TESTO UGUALE IN ENTRAMBE LE LINEE GUIDA)

A-1. The Child’s Attorney. The term “child’s attorney” means a lawyer who provides legal services for a child and who owes the same duties of undivided loyalty, confidentiality, and competent representation to the child as is due an adult client. A-2. Lawyer Appointed as Guardian Ad Litem. A lawyer appointed as “guardian ad litem” for a child is an officer of the court appointed to protect the child’s interests without being bound by the child’s expressed preferences.

4) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES (NACC REVISED VERSION) (TESTO UGUALE IN ENTRAMBE LE LINEE GUIDA)

B-2. Conflict Situations. (1) If a lawyer appointed as guardian ad litem determines that there is a conflict caused by performing both roles of guardian ad litem and child’s attorney, the lawyer should continue to perform as the child’s attorney and withdraw as guardian ad litem. The lawyer should request appointment of a guardian ad litem without revealing the basis for the request. (2) If a lawyer is appointed as a “child’s attorney” for siblings, there may also be a conflict which could require that the lawyer decline representation or withdraw from representing all of the children.

5) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES (NACC REVISED VERSION) (TESTO UGUALE IN ENTRAMBE LE LINEE GUIDA)

B-3. Client Under Disability. The child’s attorney should determine whether the child is “under a disability” pursuant to the Model Rules of Professional Conduct or the Model Code of Professional Responsibility with respect to each issue in which the child is called upon to direct the representation.

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6) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES

B-4. ABA Version Client Preferences. The child’s attorney should elicit the child’s preferences in a developmentally appropriate manner, advise the child, and provide guidance. The child’s attorney should represent the child’s expressed preferences and follow the child’s direction throughout the course of litigation. (1) To the extent that a child cannot express a preference, the child’s attorney shall make a good faith effort to determine the child’s wishes and advocate accordingly or request appointment of a guardian ad litem. (2) To the extent that a child does not or will not express a preference about particular issues, the child’s attorney should determine and advocate the child’s legal interests. (3) If the child’s attorney determines that the child’s expressed preference would be seriously injurious to the child (as opposed to merely being contrary to the lawyer’s opinion of what would be in the child’s interests), the lawyer may request appointment of a separate guardian ad litem and continue to represent the child’s expressed preference, unless the child’s position is prohibited by law or without any factual foundation. The child’s attorney shall not reveal the basis of the request for appointment of a guardian ad litem which would compromise the child’s position.

7) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES

B-5. ABA Version Child’s Interests. The determination of the child’s legal interests should be based on objective criteria as set forth in the law that are related to the purpose of the proceedings. The criteria should address the child’s specific need and preferences, the goal of expeditious resolution of the case so the child can remain or return home or be placed in a safe, nurturing, and permanent environment, and the use of the least restrictive or detrimental alternative available.

8) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES (NACC REVISED VERSION)

B-4.NACC Version. Client Preferences. The child’s attorney should elicit the child’s preferences in a developmentally appropriate manner, advise the child, and provide guidance. The child’s attorney should represent the child’s expressed preferences and follow the child’s direction throughout the course of litigation. except as specifically provided herein. Client directed representation does not include “robotic allegiance” to each directive of the client. Client directed representation involves the attorney’s counseling function and requires good communication between attorney and client. The goal of the relationship is an outcome which serves the client, mutually

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arrived upon by attorney and client, following exploration of all available options. (1) While the default position for attorneys representing children under these standards is a client directed model, there will be occasions when the client directed model cannot serve the client and exceptions must be made. In such cases, the attorney may rely upon a substituted judgment process (similar to the role played by an attorney guardian ad litem), or call for the appointment of a guardian ad litem, depending upon the particular circumstances, as provided herein. (2) To the extent that a child cannot meaningfully participate in the formulation of the client’s position (either because the child is preverbal, very young or for some other reason is incapable of judgment and meaningful communication), the attorney shall substitute his/her judgment for the child’s and formulate and present a position which serves the child’s interests. Such formulation must be accomplished through the use of objective criteria, rather than solely the life experience or instinct of the attorney. The criteria shall include but not be limited to: Determine the child’s circumstances through a full and efficient investigation; Assess the child at the moment of the determination; Examine each option in light of the two child welfare paradigms; psychological parent and family network; anD Utilize medical, mental health, educational, social work and other experts. It is possible for the child client to develop from a child incapable of meaningful participation in the litigation as set forth in section B-4 (2), to a child capable of such participation during the course of the attorney client relationship. In such cases, the attorney shall move from the substituted judgment exception of B-4 (2) to the default position of client directed representation described in section B-4 “Client Preferences.” If the child’s attorney determines that the child’s expressed preference would be seriously injurious to the child (as opposed to merely being contrary to the lawyer’s opinion of what would be in the child’s interests), the lawyer may shall, after unsuccessful use of the attorney’s counseling role, request appointment of a separate guardian ad litem and continue to represent the child’s expressed preference, unless the child’s position is prohibited by law or without any factual foundation. The child’s attorney shall not reveal the basis of the request for appointment of a guardian ad litem which would compromise the child’s position.

9) STANDARDS FOR ATTORNEYS AND GUARDIANS AD LITEM IN CUSTODY OR VISITATION PROCEEDINGS - AMERICAN ACADEMY OF MATRIMONIAL LAWYERS

C Representing Impaired Children 2.7 When a child client, by virtue of his or her impairment, is unable to set the goals of representation, the child’s lawyer shall not advocate a position with regard to the outcome of the proceeding or issue contested during the litigation.

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10) ABA FAMILY LAW SECTION STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS REPRESENTING CHILDREN IN CUSTODY CASES (COMMITTEE FINAL DRAFT, APRIL 24, 2003)

Standard II-B-2 Best interests attorney: a lawyer who provides independent legal services for the purpose of protecting a child’s best interests, without being bound by the child’s directives or objectives.

11) STANDARDS FOR ATTORNEYS AND GUARDIANS AD LITEM IN CUSTODY OR VISITATION PROCEEDINGS - AMERICAN ACADEMY OF MATRIMONIAL LAWYERS

(Comment: Standard 2.2). “the essential qualities distinguishing an unimpaired client from an impaired one is the capacity to comprehend the issues involved in the litigation, to speak thoughtfully about the case and the client’s interests at stake, and to appreciate the consequences of the available alternatives”

12) ALLEN E. BUCHANAN & DAN W. BROCK, DECIDING FOR OTHERS: THE ETHICS FOR SURROGATE DECISION MAKING (1989) “The statement that a particular individual is (or is not) competent is incomplete. Competence is always competence for some task - competence to do something. … [T]he notion of decision-making capacity is itself incomplete until the nature of the choice as well as the conditions under which it is to be made are specified. Thus competence is decision-relative, not global. A person may be competent to make a particular decision at a particular time, under certain cir- cumstances, but incompetent to make another decision, or even the same deci- sion, under different conditions. A competence determination, then, is a deter- mination of a particular person’s capacity to perform a particular decision-making task at a particular time and under specified conditions.”

316 L’AVVOCATO DEL MINORE

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Proceedings of the Conference on Ethical Issues in the Legal Representation of Children, Vol. LXIV Fordham Law Review N.4, March 1996 American Academy of Matrimonial Lawyers, Representing Children: Standards for Attorneys and Guardians ad Litem in Custody or Visitation Proceedings, 1994 American Bar Association, Standards of Practice for Lawyers who Represent Children in Abuse and Neglect Cases (ABA Standards), 1996 American Bar Association Family Law Section, Standards of Practice for Lawyers Representing Children in Custody and Visitation Cases, (Bozza finale approvata dalla commissione il 24 aprile 2003) Buchanan Allen E. e Brock Dan W., Deciding for Others: The Ethics of Surrogate Decision Making (1989)) Costello Jan, Representing Children in Mental Disability Proceedings, 1999 Guggenheim Martin, A Paradigm for Determining the Role of Counsel for Children in Fordham Law Review N.4, March 1996 Haralambie, Ann M., The Child’s Attorney: A Guide to Representing Children in Custody, Adoption, and Protection Cases, Section of Family Law American Bar Association (1993) Haralambie Ann M. e Glaser Deborah L., Practical and Theoretical Problems with the AAML Standards for Representing “impaired”, Children Journal of the American Academy of Matrimonial Lawyers, Vol.13 pp.57-93 Summer 1995 National Association of Counsel for Children, Recommendations for Representation of Children in Abuse and Neglect Cases, 2001 National Association of Counsel for Children, ABA Standards (NACC Revised Version), 2001 Peters Jean Koh, Representing Children in Child Protective Proceedings: Ethical and Practical Dimensions, LexisNexis, Seconda edizione 2001 Ventrell Marvin, Legal Representation of Children in Dependency Court: Toward a better Model - The ABA (NACC Revised) Standards of Practice

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ggi vorrei intrattenermi con voi cercando di comprimere magari alcune cose del mio discorso perché credo che a questo punto del vostro corso, Oche ha per obiettivo e per oggetto l’avvocato del minore, sarebbe importante anche discutere nell’ambito del dibattito alcune questioni che si possono sollevare. Quindi spero di riuscire a dare anche uno spazio ai vostri interventi perché credo che sarebbe una cosa importante. Di che cosa vorrei parlarvi oggi? Fondamentalmente di chi potrebbe essere il vostro cliente, ovvero quali sono in qualche modo le configurazioni più tipi- che che potreste trovarvi di fronte nel momento in cui il vostro cliente è un minore, ed un minore ovviamente in situazioni particolari. Poiché non è il mio campo, e so che è fonte di ampi dibattiti, tralascio qui di affrontare come dovrà arrivare questo cliente alla vostra attenzione. In questo momento quello che mi interessa dal punto di vista di psichiatra, psicologo dell’età evolutiva, è quello di darvi alcune grandi linee, alcuni profili, del tipo di condizione in cui verrete a trovarvi di fronte ad un minore il quale, nel momento in cui MINORI IN DIFFICOLTÀ: dovesse diventare e diventasse vostro cliente, vorrebbe dire, almeno questo SCENARI TIPICI, mi sembra l’orientamento, che si trova in una situazione precaria, in una RAPPRESENTAZIONI, situazione di difficoltà e di sofferenza. * Una condizione, quella di questo BISOGNI minore che potremmo definire con un termine oggi abusato ma quanto mai pregnante, in questo caso, di conflitto di interessi con i suoi genitori, perché poi questa è la ratio fondamentale che DOTT. FRANCESCO spinge a dire “il minore deve essere rappresentato, deve avere una rappresen- CANEVELLI tanza autonoma in giudizio, nei giudizi che lo riguardano”. Questa ratio è legata all’idea che nei giudizi che lo riguardano il minore può PSICHIATRA, PRESIDENTE DELLA trovarsi, e spesso in alcune situazioni si trova di fatto, in una condizione che SOCIETÀ ITALIANA DI non è detto possa essere tutelata dai suoi tutori naturali che sono i genitori. MEDIAZIONE FAMILIARE Quindi si tratta di situazioni di accertata patologia dei legami familiari per- ché è chiaro che la fisiologia dei legami familiari dovrebbe, al contrario, semplicemente suggerirci di tenerci fuori e dire: i genitori sono i migliori possibili tutori degli interessi del minore. Tutte le volte che questo non accade ci troviamo, appunto, di fronte al con- flitto di interessi e alla esigenza di una rappresentanza autonoma in giudizio con tutte le implicazioni che questo può avere. Procedendo nel ragionamento cerchiamo di capire che cosa significa per un minore trovarsi in una condizione di conflitto di interessi con i suoi genitori, ed in genere cosa ciò significa, allagando il discorso anche agli adulti perché poi i minori non è che hanno meccanismi psicologici diversi dai nostri, i mec- canismi psicologici sono sempre uguali. Significa sentirsi in conflitto di interessi con le persone che rappresentano le principali figure di attaccamento, le figure naturali di protezione, che rappre- * Correzione redazionale

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sentano, direi ancora di più, il naturale senso di appartenenza, cioè quel senso del noi fondamentale in cui tutti ci riconosciamo, di cui tutti noi abbiamo bisogno, per definire chi siamo e con chi lo siamo. Questo non è un mecca- nismo che vale solo per i minori, vale per chiunque. La lacerazione su questo aspetto è una lacerazione grave, nel senso che il tipo di conflitto che si determina è appunto il conflitto tra la possibilità di conti- nuare a sentirsi appartenenti a qualcuno, possibilità assolutamente fondamen- tale per la salute psicologica di chiunque, e il fatto che da questo stesso qual- cuno derivano attacchi, aggressioni, mancanza di protezione, esposizioni a pericoli. La coincidenza di questi due elementi - il qualcuno di cui io ho bisogno per la protezione e poi, in fondo in fondo, più che per la protezione per il ricono- scimento stesso di me stesso, ed il fatto che da questa stessa persona mi pro- vengano delle aggressioni, degli attacchi di cui parleremo tra un attimo - pro- pone un conflitto di interessi che, a sua volta, propone livelli profondi di attacco al senso di identità personale tout court. Quindi nel momento in cui il vostro cliente è un minore che si trova in una di queste condizioni, ossia in una condizione in cui il suo interesse è lacera- to tra il ribadire, il sottolineare il bisogno di appartenenza e l’altrettanto forte bisogno di essere protetto da quelle figure che dovrebbero essere le sue figu- re protettive, questo determina grossissimi problemi rispetto proprio al senso di integrità personale. Quindi la condizione generale che vive un minore, perché noi oggi ci occu- piamo di minori, ma in generale una persona che si trova in una condizione di questo genere, è quella di vivere una condizione di pesante attacco al senso di integrità personale, proprio perché si tratta della fondamentale sicurezza basica del di sé rispetto al rapporto e alla appartenenza con le proprie figure emotivamente significative. Questa è la premessa del nostro discorso che cerca appunto di definire chi saranno i vostri clienti. Vorrei impostare in due parti il mio discorso di questo pomeriggio. Una prima parte, è una mia abitudine che avete già conosciuto dallo scorso incontro, è destinata a presentarvi dei quadri tipici, delle tipologie, delle situazioni in cui i bambini, i minori, vengono a trovarsi in questi casi esposti ad un maltrattamento piuttosto che ad una grave trascuratezza piuttosto che ad un abuso sessuale o ad altro, perché da tipologia a tipologia alcune cose cambiano, cambiano alcuni bisogni, cambiano alcuni meccanismi psicologi- ci che sono sottesi. Ci sono quadri tipici diversi di un minore che si trova in una di queste situa- zioni ed è fondamentale che chi deve diventare un interlocutore privilegiato di questo minore ai fini della sua rappresentanza in giudizio, ai fini della tute- la dei suoi interessi, conosca che tipo di persona avrà di fronte, caratterizza- ta da quali stati emotivi, da quali bisogni, da quali ruoli, da quali certezze, da quali incertezze, diverse a seconda che la situazione tipica sia stata appunto un maltrattamento, un’altra cosa e vedremo quale. Quindi in questa prima parte cercherò di proporvi, anche se molto schemati- camente per motivi di tempo, dei profili, degli scenari tipici di bambini, di minori, in condizioni di sofferenza a causa dei comportamenti dei loro geni-

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tori, quindi casi dove si propone proprio questo tema del conflitto di interes- si, per vedere con che cosa, con quale materiale, passatemi questa brutta espressione, vi troverete a confrontarvi. Detto questo, nella seconda parte, proveremo un attimo, partendo proprio da queste cose che dirò, a vedere a quel punto quali possano essere gli obiettivi, gli strumenti, le metodologie che un avvocato può utilizzare rispetto a questo tipo di realtà così complessa, come vedremo, che ha di fronte. Visti i tempi stretti inizierei subito con questa proposta tipologica e partirei, accendiamo un attimo la lavagna luminosa, con la prima situazione. Questi lucidi ve li faccio passare mentre parlo in modo che stanno lì ed io vado un po’ più a ruota libera sul discorso. Per ognuna di queste situazioni cercherò di presentarvi delle voci ben preci- se che sono alcuni cenni sugli scenari tipici, cioè su quali siano le situazioni in cui prevalentemente noi troviamo condizioni di maltrattamento, su quali stati emotivi siano prevalenti nei minori sottoposti a questo tipo di situazio- ni. Per rappresentazioni in psicologia intendiamo il tipo di immagine di sé e del- l’altro che a partire da questo tipo di esperienze il bambino, il minore, forma in se stesso, come comincia a vedere se stesso, gli altri alla luce di queste esperienze traumatiche. Per ruolo adattivo intendiamo il tipo di comportamento che nel tempo il bam- bino viene ad assumere per reagire in qualche modo, per funzionare al meglio possibile, obiettivo che tutti noi abbiamo nella vita, in questa condizione anche di grave difficoltà. Ma per ruolo adattivo voi sapete che noi intendia- mo sia il tipo di spiegazione che noi diamo delle cose che ci sono di fronte, che ci capitano, che succedono intorno a noi, e sia appunto il tipo di compor- tamento che cominciamo ad adottare per risolvere al meglio lo stress, la dif- ficoltà che queste situazioni comportano. Gli scenari tipici del maltrattamento: per maltrattamento chiaramente inten- diamo, e siamo tutti d’accordo su questo, il bambino percosso, e la sindrome, così definita nel corso del secolo scorso, significativamente descritta per la prima volta da radiologi. Da radiologi perché ancora per lunga parte del seco- lo scorso i pediatri, i medici, non erano molto attenti alle situazioni di mal- trattamento; i bambini potevano essere percossi con una certa libertà, tutto sommato, non c’era una grossa attenzione in questo senso. I radiologici cominciarono a riscontrare una serie di determinate lesioni scheletriche, ripe- titive, ridondanti sempre molto simili, in tutta una serie di bambini che veni- vano portati per eseguire radiografie, e vennero descritte delle tipiche sindro- mi, delle tipiche lesioni da maltrattamento, famosa quella della clavicola da scuotimento delle braccia, del cranio per colpi in testa e quant’altro, insom- ma di fatto da lì fu delineata la sindrome del bambino maltrattato. Non la sto a far lunga perché le bibliografie sono piene di queste cose in tutti i modi. Che cosa c’è dietro? Vediamo alcuni scenari tipici da cui nascono poi condi- zioni di maltrattamento. Sono state descritte innanzitutto le patologie individuali dei genitori come fonte di possibili condizioni di maltrattamento ed indubbiamente questo è un dato reale anche se non è un dato assolutamente costante, è possibile che in determinate patologie, in patologie psichiatriche, in alcoolismo, in tossicodi-

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pendenza, ci siano delle situazioni in cui il bambino viene percosso. È stato anche però sottolineato come questo tipo di scenario non sia assolu- tamente sufficiente, può esserci ma non è una regola; che cosa vuol questo? Vuol dire che certamente non tutte le persone che sono affette da patologie psichiatriche o da alcoolismo o da tossicodipendenza picchiano i loro figli né che tutti quelli che picchiano i loro figli sono per forza alcoolisti. Ci sono tante persone, non definite pazienti psichiatrici o altro, che picchiano comun- que e maltrattano comunque i loro figli. Per cui la presenza di patologie indi- viduali è un elemento che può essere riscontrabile ma non necessariamente. È interessante l’attenzione per alcuni “giochi relazionali” cosiddetti, con le opportune virgolette, che possiamo riscontrare in queste situazioni. I giochi relazionali in questi casi sono quei giochi tipici che definiamo in tutte quel- le situazioni in cui c’è una rabbia deviata, una rabbia dell’adulto nei confron- ti dell’altro adulto (il coniuge, la famiglia di origine, altri soggetti) di natura stressante nei suoi confronti, dove in qualche modo attivazioni rabbiose degli adulti trovano un minore come facile oggetto di scarica della tensione, della rabbia e quant’altro. Ma non basta: questa è una definizione in cui il bambino, il minore, è vera- mente l’oggetto su cui si scarica la furia dell’adulto. Ci sono altre situazioni in cui il bambino maltrattato è un bambino maltratta- to che si trova in una posizione meno di oggetto e più di soggetto. Quali sono queste situazioni? Sono le situazioni in cui il bambino, ad esempio, si trova ad essere schierato in alleanze familiari, in coalizioni, con un genitore contro l’altro, spesso ciò accade in situazioni di separazione ma non necessariamen- te, in situazioni comunque di grave conflittualità familiare, ed il suo essere attivo all’interno di questi schieramenti, può portarlo ad essere percosso non più come oggetto inerme, su cui si scarica una rabbia incontrollata ed indif- ferenziata, ma come effettivo soggetto cui la rabbia è diretta perché fa delle cose, perché compie delle operazioni, perché compie delle azioni eccetera. L’ulteriore scenario tipico del maltrattamento lo possiamo far risalire a tutto quello che riguarda “l’eccesso” di educazione. Sapete che anche questa è una questione, quella del famoso abuso dei mezzi di correzione, come se ci fosse un uso normale dei mezzi di correzione, sono le amenità del nostro Codice. Ma al di là delle amenità, ci sono situazioni in cui i bambini che hanno, per esempio, una sindrome di iperattività sono più esposti di altri a trovarsi in situazioni di maltrattamento, con genitori che interpretano il loro ruolo edu- cativo in termini di rigidità normativa ed in termini di correzione del compor- tamento del figlio e che quindi mettono in atto una serie di comportamenti maltrattanti dove appunto non stiamo parlando dello scappellotto, stiamo par- lando di quello che il Codice definisce come maltrattamento, quindi portato- re poi di lesioni, di segni addosso al figlio eccetera. Allora, questa è una serie di scenari che ci servono per cosa? Ci servono innanzitutto per capire come già all’interno delle situazioni di maltrattamento, definite con un termine unico generale, ci possano essere vari modi del bambino di vivere questa situazione dove per vivere intendo sia di sentire emotivamente e di rappresentarsi se stesso e agli altri che di adat- tarsi. Pensate alla differenza fondamentale, ad esempio, tra il bambino pic- chiato come oggetto per la rabbia indifferenziata ed il bambino che attira in

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qualche modo con il suo comportamento la rabbia del genitore. Questo fa una differenza enorme rispetto al tipo di persona che troveremo di fronte a noi perché è chiaro come in un caso, nel primo caso, lo stato emoti- vo di paura, di puro terrore e di ritiro e di timore dell’adulto sarà assoluta- mente prevalente, mentre nell’altro caso l’emozione prevalente sarà una emozione rabbiosa, sarà una emozione diretta in maniera specifica contro l’a- dulto maltrattante. Quindi anche l’accusa potrà essere precisa o potrà essere anche magari sovradimensionata rispetto alla realtà dei fatti dove quindi que- sto tipo di distinzione, bambino oggetto/bambino soggetto nel comportamen- to complessivo del maltrattamento, è una distinzione assolutamente impor- tante rispetto proprio e alla percezione che noi avremo della persona che abbiamo di fronte e per esempio alle sue dichiarazioni, al suo stato interiore. Quindi vedete come emozioni prevalenti, paura ma anche rabbia, colpa e ver- gogna, sono due emozioni più complesse, noi le chiamiamo le emozioni sociali, si chiamano emozioni sociali, ne parlavamo forse anche l’altra volta a proposito della separazione, sono emozioni sociali in quanto presuppongo- no il confronto con i terzi, la colpa presuppone il confronto con i terzi giudi- canti, la vergogna presuppone il confronto con i terzi svalutanti, irridenti. Quindi sono emozioni complesse perché presuppongono il rappresentarsi in mezzo agli altri, per questo si chiamano emozioni sociali, e sensazioni, sen- timenti di colpa e di vergogna possono essere attivati in queste situazioni di maltrattamento dove in qualche modo questo presuppone che il bambino si stia facendo carico anche della preoccupazione per i suoi genitori che si com- portano in questo modo. Il bambino che si sente in colpa essendo stato mal- trattato segnala l’idea di cui parleremo tra un attimo che quel maltrattamen- to è stato giusto per lui perché lui è stato cattivo. Perché accadono queste cose? Ma per quello che dicevo all’inizio di questo incontro, perché è fonda- mentale, per i bambini come per tutti noi ripeto, darsi delle spiegazioni di quello che succede che salvino un po’ tutti. Un bambino, che si vede maltrattato dalle sue principali figure di accudimen- to, è più facile che risolva la questione dicendo “me lo sono meritato” piut- tosto che dicendo “mio padre è cattivo”. Questo è uno dei drammi che è sotteso a questo tipo di realtà dove il proble- ma nostro non è tanto quello di dire “quale è la verità”, non è la verità il pro- blema; è che se un bambino sente questo, noi avremo a che fare con una grave complessità di lavoro perché dovremo al tempo stesso, lo diremo poi alla fine e lo riprenderemo, proteggere il bambino dalle botte, questo è comunque fondamentale, ma al tempo stesso salvaguardare la figura del geni- tore dentro di lui, e non è affatto un compito semplice, ma perché è il bambi- no prima di noi che deve salvaguardare la figura del genitore. Il problema è che noi dovremo cercare di aiutarlo a salvaguardare la figura del genitore non assumendo su di sé la cattiveria ma ristabilendo in qualche modo l’ordine delle cose, ripeto, compito non sempre semplicissimo. Ma vi è questa complessità emotiva, soprattutto in bambini più grandicelli che quindi cominciano cognitivamente a darsi spiegazioni di sé e del mondo in maniera più articolata e possono arrivare a sentimenti di colpa e di vergogna proprio perché in qualche modo si fanno carico, potremmo dire, della disgra- zia familiare, di quello che di grave succede dentro casa, tant’è che al punto

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successivo, quando parliamo di rappresentazioni, le rappresentazioni possibi- li di sé, di un bambino, di un minore che vive in una condizione di maltratta- mento sia quella di cattivo, cioè il se cattivo, io sono menato perché sono cat- tivo, o di sé spaventato e disorientato, il panico che rimane tale, l’imprevedi- bilità delle botte che arrivano quando uno meno se l’aspetta, e quindi si forma una immagine di sé totalmente preda della paura, totalmente preda della imprevedibilità, dell’allarme continuo, l’immagine di sé schierato, amico di, nemico di, e come tale punito dal nemico e magari vezzeggiato e coccolato dall’amico. A queste immagini di sé corrispondono immagini dell’altro, o spaventante o malato, attenzione, questa è una spiegazione forte per un minore che vive in una condizione di maltrattamento; non è colpa di papà, è che è malato, quin- di con tutta una costruzione poi su questo di ruolo adattivo come vedremo; l’altro come cattivo ovviamente, è possibile, non è che dobbiamo escluderla, anche se ripeto, prima di arrivare a dire un bambino che il genitore è cattivo, spesso questo genitore ne deve aver combinate parecchie e non è detto che questo bambino ci arrivi a questo tipo di realtà. L’altro come nemico laddove, se la logica è quella dello schieramento, all’immagine di sé schierato corrisponde l’immagine dell’altro cattivo. Infine i ruoli adattivi possibili che scaturiscono, quindi quando vi dico ruolo adattivo dico quello che il bambino vi farà vedere immediatamente, cioè la superficie del suo atteggiamento, il passivo aggressivo, persona remissiva che ha paura di parlare, faccio delle metafore ovviamente, che ha paura di parlare del capoufficio ma che in macchina poi quando si sente al sicuro fa le corna a tutti quanti o prende in mano il cric, il passivo/ aggressivo è conno- tato come realtà di ruolo proprio da questo estremo terrore dell’altro in qual- che modo e dalla rabbiosità della reazione in particolari circostanze, quando evidentemente il livello di paura dell’altro cala, perché ci si sente più protet- ti, ci si sente più forti o perché l’altro davanti viene percepito come più debo- le. La situazione del passivo/aggressivo è tra l’altro una delle situazioni, come ruolo adattivo, che porta più facilmente alla ripetizione dei comporta- menti di maltrattamento da parte di chi ha subito maltrattamenti, e questo è un classico, ma si forma uno schema tipico di passività/aggressività in cui l’aver ricevuto un sacco di botte determina uno stato per cui l’altro è qualcu- no da temere, ma nel momento in cui per qualche motivo mi sento al sicuro, posso dare sfogo incontrollato, impulsivo, alle sensazioni rabbiose che ho represso attraverso la passività. Il problema che quando una persona così diventa genitore, proprio rispetto alla debolezza, alla fragilità ad esempio del figlio, è possibile che lo stato di passività si tramuti in uno stato di aggressi- vità perché se lo può permettere in qualche modo. Questo non è un meccani- smo intenzionale ovviamente, è un meccanismo forte che può scaturire da una condizione di maltrattamento. L’altra situazione è quella del giustiziere, l’altro schema tipo di adattamento, quello che la farà pagare a qualcuno, dove non è detto che il qualcuno sia per forza l’origine dei suoi maltrattamenti. Può trattarsi di compagni, coetanei, altri adulti o situazioni varie, la vendicatività con modalità reattiva e adatti- va al maltrattamento oppure il “terapeuta” in cui la focalizzazione sull’altro maltrattante in quanto malato, in quanto fragile, porta a dire “l’altro è una

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persona di cui mi devo prendere cura”, per cui assistiamo a questi scenari di minori che, nonostante le prendano da tutte le parti, continuano devotamente a prendersi cura della madre, a prendersi cura del padre, a cercare di farli curare, a cercare di essere comprensivi e tolleranti, proprio nella preoccupa- zione per la loro salute. Questi sono gli scenari possibili del maltrattamento e, proseguendo con que- sta schematicità necessaria e un po’ di corsa, vi presento il prossimo scena- rio che parla invece di una cosa diversa che è la grave trascuratezza. Vedete come è importante, spero di trasmettervi questo, che quando noi parliamo di abuso non parliamo mai di abuso mettendo sullo stesso piano qualsiasi com- portamento, è abuso il maltrattamento grave, è abuso la grave trascuratezza ma sono cose diverse, diverse proprio negli effetti che hanno sui minori e per gli scenari che troviamo. Allora quali sono gli scenari tipici della grave trascuratezza? Di nuovo dobbiamo parlare delle patologie personali e qui forse, rispetto al maltrattamento, ne dobbiamo parlare in termini più precisi e anche più fre- quenti, nel senso che, se è verissimo che non c’è un rapporto costante tra una patologia e un maltrattamento, è molto più frequente che possa esservi un rapporto abbastanza costante tra una patologia e una grave trascuratezza. I figli di persone che hanno disturbi seri, quindi disturbi di una certa entità, disturbi non necessariamente di schizofrenici ma anche di gravi depressi, di alcoolisti, di tossicodipendenti, sono candidati più che a rischio di ricevere percosse o quant’altro, come dicevamo prima, e a rischio di essere esposti a gravi trascuratezze. Per gravi trascuratezze qui intendiamo quel tipo di disattenzione alle esigen- ze primarie dei bambini che espongono i bambini stessi a condizioni di rischio, sia di rischio incidentale, di rischio di farsi male, di rischio di vive- re situazioni insostenibili per loro ma anche di rischio proprio di salute, di rischio di crescita, di crescita psicofisica. Non confondiamo la grave trascuratezza con il bambino che sta tre ore davanti al televisore, questo è un altro capitolo delle nostre questioni; si trat- ta di altri livelli di problema. Per grave trascuratezza parliamo di situazioni in cui e la crescita psicofisica del bambino è messa a rischio ed esiste il rischio di incidentalità varie, per- ché c’è l’abitudine a rimaner da soli, ad uscire da soli, a fare tutta una serie di operazioni in totale abbandono, in totale autonomia, il rischio è un rischio serio, considerevole rispetto ad una sovraesposizione a stimoli che non ven- gono minimamente controllati, minimamente gestiti dai genitori. Le patologie personali, ripeto, sono sicuramente più implicate di quanto non accadesse nel caso precedente del maltrattamento, per cui tutti i servizi che hanno in cura pazienti che hanno figli dovrebbero avere una grande attenzio- ne soprattutto a quest’area, all’area della trascuratezza, come area significa- tiva di rischio. Oltre a questo anche determinati giochi relazionali possono essere implicati in una grave trascuratezza; qui per giochi relazionali intendo faccende in cui sono implicati gli adulti e che impediscono agli adulti stessi di occuparsi dei loro figli per questo tipo di faccende. Non intendo soltanto il fatto che uno lavora dalla mattina alla sera, perché, altrimenti, andiamo tutti al Tribunale

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per i Minorenni e ci accusano tutti di grave trascuratezza, ma intendo quel tipo di situazioni in cui soprattutto ricorrono alcune dinamiche familiari. Mentre prima, parlando del maltrattamento, ho richiamato soprattutto la con- flittualità coniugale grave come fonte possibile di rabbiosità per cui viene colpito il minore, qui soprattutto ricorrono scenari caratteristici di grossi coinvolgimenti dei genitori con la propria famiglia di origine. C’è uno scenario tipico di questo tipo di situazione che è il coinvolgimento della madre con la propria madre, con la propria famiglia di origine, dalla quale spesso questa è uscita con modalità o precoci o comunque disfunziona- li o conflittuali o quant’altro, e che in qualche modo è comunque tesa al recu- pero del rapporto con la madre o alla nostalgia del rapporto con la madre ed il figlio diventa qualcosa di non visibile, di non considerabile perché il figlio è in qualche modo anche la prova della sua disgrazia. Spesso non a caso il figlio è proprio quello che poi ha determinato o l’uscita traumatica di casa o la rottura della relazione con la propria famiglia di ori- gine o quant’altro e spesso diventa l’oggetto non visibile perché l’attenzione motiva l’attenzione, è pienamente ancora dedicata al rapporto verticale con la propria famiglia di origine. Ci sono scenari di questo tipo dove, pur magari in assenza di vere e proprie patologie psichiatriche, vediamo situazioni relazionali in cui questo bambino in realtà non è considerato da nessuno per quello che è e viene spesso poi gestito in questo modo. Ripeto, qui non si tratta semplicemente di atteggia- menti psicologici ma di comportamenti che mettono a rischio l’integrità, la crescita del bambino eccetera. Alcune volte ci sono delle vere e proprie provocazioni al coniuge che consi- stono nel trascurare il figlio; nelle gravi situazioni conflittuali, quelle che a dicembre definimmo come esasperazione, non so se vi ricordate qualcosa di quello, in quelle situazioni in cui i coniugi fanno questo gioco provocativo reciproco ad escalation, uno dei comportamenti provocatori nei confronti del coniuge è proprio quello della trascuratezza del figlio perché si sa che nien- te fa andare in bestia di più il proprio marito o la propria moglie che trascu- rare il figlio. Questo spesso è un elemento, un argomento provocatorio di tipo strettamente femminile. Le donne, di fronte a certe provocazioni dei maschi che sono di altro genere, spesso sul piano della gelosia e del tradimento, rispondono con l’abbandono e la trascuratezza del figlio. Al di là di questa schematicità, un po’ rigida ma un po’ forzata anche che vi propongo, è vero come anche le provocazioni tra coniugi possono determina- re una non visibilità del figlio proprio come strumento di attacco all’altro. Cosa vive un bambino, un minore, che si trova in una situazione di grave tra- scuratezza? Vive alcune emozioni fondamentali. La paura dobbiamo sempre nominarla perché la condizione di paura è la condizione di ogni minore che in qualche modo percepisce l’altro o come minaccioso diretto o come minac- cioso indiretto; in questo caso la minaccia è indiretta. Il bambino ha paura perché è sovraesposto all’ambiente, è sovraesposto ai pericoli. Più tipico ancora direi che è la depressione, cioè il senso di vuoto affettivo, il non aver una radice affettiva per l’attaccamento e a questo aggiungerei la preoccupazione perché anche in questo caso, e lo vedremo anche questo tra un attimo, può essere molto forte l’idea del bambino che mamma fa così,

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mamma non mi bada non perché io ho qualche cosa ma perché lei è malata, non perché è cattiva ma perché ha tante cose da fare, perché poverina si ammazza di lavoro dalla mattina alla sera e poi, quando torna, non trova neanche il modo di darmi da mangiare e io magari me lo devo fare da solo e farlo anche al mio fratellino di un anno. Questi sono gli scenari della trascuratezza dove quindi si cresce spesso all’in- segna della preoccupazione, la preoccupazione per sé ma soprattutto la preoccupazione per gli altri, gli altri familiari, i fratelli più piccoli. È tipica direi, prima parlavo delle patologie individuali, se voi pensate alla famosa definizione della famiglia multi problematica, cioè quella famiglia che riconosce in capo ai suoi membri tutta una serie di problematicità di tipo sia personale che sociale che lavorativa, ambientale o quant’altro, può esse- re tipica di quel tipo di situazione una condizione di grave trascuratezza con tutte le conseguenze del caso. Le rappresentazioni di sé che scaturiscono da questo tipo di situazioni tendo- no ad essere un sé non degno di attenzione, un sé addirittura non esistente, quindi la difficoltà di formazione di un senso di sé qualunque esso sia, un sé ipercompetente, cioè un sé che a forza di essere sovraesposto a situazioni da risolvere, assume maggiori capacità rispetto a quelle che ci si aspetterebbe a quell’età. Il piccolo adulto, infatti, lo nomineremo poi nei ruoli adattivi tipi- ci di questo quadro. L’altro, per i bambini trascurati, è un altro fragile, è un altro malato, è un altro incompetente, è un altro assente, a seconda anche qui delle circostanze. I ruoli adattivi possiamo dividerli in due grandi tipi di ruolo: quelli che com- portano un ritiro dell’interesse per la vita, un ritiro dell’interesse al mondo, agli altri, agli affetti con la coartazione, con la deprivazione, con comporta- menti veri e propri di rinuncia a sé e agli altri, e, al contrario, i comportamen- ti di accelerazione, di espansione di sé, di adultizzazione vera e propria e l’a- dultizzazione si può esprimere attraverso varie forme, prima citavamo quella della genitorializzazione, quella di far da padre o da madre ai propri fratelli, quella di far da padre e da madre ai propri genitori, quella di far da coniuge ai propri genitori con atteggiamenti consolatori, e così via. In sintesi, con forme di adultizzazione, che a volte traggono in inganno anche i cosiddetti esperti, nel senso che l’adultizzazione, su questo vale la pena di fermarci un attimo perché è un evento frequente che potrete trovare nei confronti di per- sone, di bambini in difficoltà di questo tipo, che possono mostrare capacità, atteggiamenti, molto più maturi, molto più adulti della loro età e, come spes- so capita, vengono sottolineati positivamente come situazioni desiderabili e dobbiamo stare molto attenti a questo perché è vero che in parte denotano una buona capacità di essersela cavata rispetto a situazioni gravi ma rispetto allo sviluppo complessivo, lo sviluppo psicologico complessivo del minore, non sono affatto una gran bella cosa, nel senso che fissano comunque i minori in condizioni, in ruoli inappropriati e per l’età e per la fase dello sviluppo, che possono portare nel tempo a gravi distorsioni dello sviluppo della personali- tà, ad esempio, difficoltà nello stabilire relazioni affettive adulte e quant’al- tro; cioè sappiamo che questo tipo di condizioni nel tempo sono tutt’altro che ben adattate, tutt’altro che buoni adattamenti. Andiamo oltre e andiamo qui ad un capitolo sempre ampiamente dibattuto,

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fonte di tante discussioni e di tante questioni: l’abuso sessuale. Anche qui ovviamente intendiamo abuso sessuale intrafamiliare e direi anco- ra di più potremmo restringere forse il campo per comodità e per non andare troppo in là perché anche il tempo ce lo vieta ma potremmo forse ancora più ragionevolmente delimitare il campo della nostra attenzione all’abuso ses- suale genitore/figlio perché è lo schema che poi ci occupa in maniera preva- lente. Quindi lasciando un attimo da parte l’incesto tra fratelli, le altre que- stioni, o gli abusi sessuali da persone della famiglia allargata. Tutte cose estremamente importanti, però concentriamoci un attimo in questa nostra esposizione di oggi sul tema dell’abuso genitore/figlio e, altra precisazione assolutamente indispensabile, che nella stragrande maggioranza dei casi cor- risponde all’abuso sessuale padre/figlia perché queste cose bisogna dirle, la realtà delle situazioni, la preponderante maggioranza di queste situazioni riguardano il comportamento abusante dei padri verso le figlie. Ci sono poi tutte le altre situazioni che ogni tanto veniamo a conoscere, che la stampa ci propina ma lo schema tipo del comportamento abusante sessual- mente all’interno della famiglia, lo schema assolutamente prevalente è quel- lo dell’abuso tra padre e figlia. Anche qui credo che sia importante sottoli- neare alcuni scenari tipici perché da questi scenari tipici, dalla distinzione di alcuni scenari tipici dipende anche l’atteggiamento, le conseguenze sull’at- teggiamento della vittima e su quello che la vittima poi in qualche modo sub- irà nel tempo e dovrà organizzare nel tempo. Un primo scenario, anche quello molto tipico, lo possiamo definire con i ter- mini “padre padrone, madre succube”. Voi vedete che io metto sempre anche la madre perché altra cosa stranota ormai è che nell’abuso sessuale padre/figlia, il ruolo della madre c’è sempre; può essere un ruolo di vario genere ma ormai è riscontrato ampiamente dall’esperienza che il ruolo della madre c’è in vario modo; ripeto, se non c’è all’inizio, c’è comunque nel tempo, se non c’è nel tempo, c’è comunque nel momento dello svelamento, con varie modalità di reazione, spesso con modalità di copertura, quindi il ruolo della madre è anche comunque un ruolo... (Interruzione fuori microfo- no) ... Sì, c’è anche questo, io in quei casi mi chiedo comunque nel ricostruire le situazioni, io credo che fa parte dei casi in cui il ruolo c’era prima probabil- mente, quindi nel mio dire il ruolo della madre c’è, credo che sia con buona certezza, poi ci sono sempre le eccezioni alle regole, ma insomma che con buona certezza queste configurazioni tendono ad essere configurazioni in cui ci sono sicuramente due protagonisti ma c’è un contorno che tende ad essere molto significativo. Poi qui potremmo aprire tutto un dibattito, di fatto ne stiamo parlando, di quanto sia corretto, non corretto, in alcuni casi addirittu- ra punire anche la madre o, se non punirla, comunque privare anche lei della potestà, perché questi sono poi i provvedimenti. Vorrei rimandare queste questioni alle considerazioni conclusive dove dovremo necessariamente par- lare di che cosa è che “veramente” tutela il minore e cosa invece lo minac- cia magari di più. Quindi è un tema di elevata complessità però certamente pensare all’incesto, all’abuso sessuale come un gioco soltanto a due, rischia di essere un po’ riduttivo e rischia di farci omettere qualche particolare che ha importanza.

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Dicevo lo scenario del padre padrone e la madre succube, dove ovviamente il ruolo della madre succube a mio avviso è sempre un ruolo abbastanza attivo nella genesi del fenomeno, quanto meno come istigazione al silenzio, alla pas- sività, alla accettazione di certi comportamenti maschili perché tanto così è. L’altro scenario è più subdolo perché è chiaro come questo primo scenario è quello che si accompagna spesso a comportamenti violenti veri e propri, quindi a comportamenti che nell’abuso sessuale fanno uso anche di atteggia- menti esplicitamente violenti. Sappiamo che non è sempre così. Il secondo tipo di scenario, il padre passivo e la madre punitiva, la madre punitiva dominante, è uno scenario che propone comportamenti sessuali molto più subdoli, molto spesso legati proprio al tema della seduttività, al tema della seduzione intrafamiliare, dove per seduzione intendo proprio in senso etimologico il condurre a sé, il porsi al figlio o alla figlia in condizio- ni di bisogno che può cominciare come bisogno di commiserazione, come bisogno di conforto e che può poi portare ad una sessualizzazione di questo tipo di comportamento, di questo tipo di richiesta, dove l’aspetto minaccio- so, l’aspetto violento, è molto più sfumato, a volte del tutto assente a livello di comportamento manifesto e riscontrabile spesso unicamente in un velato, neanche mai troppo esplicitato, comportamento di ricatto emotivo affettivo con cui si conduce a sé appunto, si seduce il figlio o la figlia legandolo ad una sorta di patto perverso che rimane chiuso lì nel tempo e tende a non modificarsi, anzi, tende con grande frequenza alla ripetizione dei comporta- menti. Probabilmente tende più alla ripetizione dei comportamenti questo secondo tipo di scenario piuttosto che il primo che tra l’altro si presta di più alla visi- bilità e anche quindi alla denunciabilità essendo spesso, ripeto, basato su comportamenti violenti. Il comportamento subdolo, seduttivo, legato a questa immagine, ripeto, pas- siva, a volte sofferente di un uomo che si propone come vittima del mondo, vittima delle cose, vittima della moglie che spesso ha un atteggiamento che al figlio o alla figlia combacia con questo tipo di descrizione e quindi rinfor- za la questione, può portare alla attivazione di comportamenti sessuali in un clima, ripeto, non di minacce e violenze esplicite, ma in un clima di seduzio- ne e di velato ricatto affettivo. Ulteriore scenario importante da sottolineare è quello del caos familiare, cioè delle famiglie cosiddette indifferenziate che vivono praticamente senza rego- le e senza divisioni gerarchiche in cui i comportamenti sessuali sono esibiti senza problemi e quindi anche gli accoppiamenti in qualche modo sono abba- stanza indifferenziati, in cui fin da presto, fin da molto presto, i bambini cre- scono in un clima di promiscuità dove non ci si pone neanche troppo il pro- blema, dove scambiarsi i comportamenti sessuali. È come andare a tavola la sera più o meno e questo esiste tutt’ora, anche se forse è più un portato di tempi un po’ meno recenti, ma esistono tutt’ora realtà familiari altamente disorganizzate, altamente caotiche e indifferenziate come questa che sto descrivendo in cui, ripeto, il significato dell’abuso sessuale, è proprio un significato legato al totale stile promiscuo in cui si vivono i rapporti, in cui addirittura la sottolineatura sessuale del comportamento è anche molto sfu- mata, fare sesso è come bere acqua, è una esigenza della vita fondamentale

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come andare in bagno, come mangiare, come bere, per cui si fa. Con chi si faccia è un dettaglio più o meno trascurabile. Al di là della forzatura colori- ta di questa immagine ci sono organizzazioni familiari, stili di vita familiare, che ricalcano questo tipo di schema e che guardano anche con un po’ di stu- pore a volte ad interventi estremi ma la nostra cultura è una cultura diversa, non dobbiamo stupirci di quello, non che sia giusto questo ma il tipo di atteg- giamento che viene opposto all’esterno è la cultura familiare che è una cul- tura di questo genere. Fatti questi tre scenari importanti di tipo familiare, il resto ne parlavamo prima, viene un po’ di conseguenza. È chiaro come un altro elemento estremamente importante in questi scenari è rappresentato dall’età del minore, l’età del minore è importante per che cosa? Non tanto per definire quale dei quadri precedenti sia più probabile perché questo è abbastanza indifferente rispetto all’età del minore ma piuttosto che tipo di vissuto partecipativo può avere il minore, la minore nella maggior parte dei casi, a questo tipo di esperienza perché questo fa una grossa diffe- renza rispetto alle conseguenze del comportamento di abuso sessuale sul minore. È chiaro che ci sono fasce di età in cui l’abuso sessuale, lasciatemelo dire, ha proprio una funzione tipicamente meccanica di sfogo di impulso sessuale, pensate ad una sessualità con bambini molto piccoli, essenzialmente ha que- sto significato di bambino totalmente passivo, inerme, rispetto al comporta- mento sessuale del genitore in cui non si dà luogo a nessuna possibile com- prensione partecipativa rispetto a quello che in realtà sta accadendo. Questo problema della comprensione verrà poi piano piano casomai fuori nel tempo ma tutta l’età grossomodo della prima infanzia è legata ad una condi- zione di soggezione totalmente passiva e di grosso punto interrogativo che si può creare nella testa di un minore rispetto ad un comportamento sessuale di un adulto, e a maggior ragione di un genitore, quindi di una persona di cui si ha fiducia, una persona a cui ci si concede con tranquillità, rispetto alla quale si pensa che certe cose che si fanno possano essere normali perché certamen- te, soprattutto in tutto l’arco della prima infanzia, i minori non hanno alcuna risorsa, alcun strumento, per identificare l’anomalia, l’incongruenza di un comportamento genitoriale di tipo sessuale nei loro confronti. Le cose cambiano abbastanza a partire dalla seconda infanzia, e cambiano abbastanza perché a partire dalla seconda infanzia il problema di come il minore, la minore, vivono la loro partecipazione ai comportamenti sessuali che vengono messi in atto, è un problema molto importante, è un problema direi decisivo rispetto allo sviluppo successivo perché soprattutto nel secon- do scenario, quello caratterizzato da una modalità seduttiva, il livello di con- fusione su chi fa che cosa a chi in qualche modo, su chi prende l’iniziativa, su chi ripaga il bisogno di chi eccetera eccetera, è estremamente confusivo e molto rapidamente si induce nelle ragazzine più tardi, l’idea di un loro atteg- giamento seduttivo nei confronti del padre che comincia a rappresentarsi in maniera stabile, anche perché il comportamento del padre è tale da rinforza- re continuamente questo tipo di idea, da segnalarsi non come il protagonista di una iniziativa ma il povero Cristo travolto dagli eventi e bisognoso di una consolazione della figlia, che quanto è diventata carina.

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Questo tipo di messaggi amplifica il livello di consapevolezza partecipativa, e quindi con tutti i sentimenti e le emozioni che questo può portare a carico della ragazza che veramente non sa più chi ha preso l’iniziativa, non sa più chi è lei, chi è il padre, cosa sta succedendo e quanto c’è di suo in quello che sta succedendo. Abbiamo parlato di violenza, di minaccia, di seduzione, spesso nei compor- tamenti di abuso sessuale c’è un mix di questi elementi, si va dall’estremo, ripeto, della violenza carnale che però non è tanto frequente nell’ambito intrafamiliare, all’altro estremo di cui abbiamo parlato dell’atteggiamento puramente seduttivo e di conquista della figlia come partner sessuale privile- giata. Il tutto, cosa molto importante, spesso avviene in un clima che io defi- nisco di dissociazione. Che intendiamo con clima di dissociazione dell’esperienza? Tutto quello che succede non è vero. Questo è il tipo di clima che pian piano, soprattutto negli abusi ripetuti, colorisce l’intera vicenda. È una sorta di stato sospeso, di stato sognante, di comportamento automatico, che si attiva, si disattiva e non lascia altri segni di sé nel corso della vita quotidiana. Si atti- va e disattiva in uno stato quasi ipnotico, duplice, ed è spesso sotteso dal messaggio implicito, ma a volte anche esplicito, “non è successo niente”. Questo messaggio “non è successo niente” è messaggio forte in questo tipo di situazioni perché vorrebbe dire con una frase un po’ banale e un po’ super- ficiale “è un po’ la ciliegina sulla torta” di tutto questo meccanismo sedutti- vo perché rende la confusione, l’impossibilità di definire le responsabilità effettive, assolutamente impossibili da definire, è proprio il clima dissociato che le persone danno a questo tipo di esperienza che rende estremamente pro- blematico per un figlio, per la figlia che le subisce, articolare un minimo di capacità organizzative di sé per dirsi: “ok, quello è mio padre, io sono io, lui mi ha fatto questo, io ho fatto quest’altro”, cosa estremamente complicata in questo tipo di mondo sospeso e dissociato che si viene a creare, dove tutto il resto del funzionamento va avanti esattamente come se nulla fosse. Vedete che differenza da un maltrattamento? C’è una differenza di qualità enorme rispetto alla integrità fisica, psicofisica, di un minore, l’attacco alla integrità psicofisica del minore in una situazione di abuso sessuale è un attac- co gravissimo sia per il tipo di qualità, cioè sia per il tipo di induzione di un elemento che è completamente fuori dalla portata cognitiva, emotiva ed orga- nizzativa del minore che non dà di norma, a meno che non gli venga imposto da fuori, una significazione sessuale di sua costruzione agli eventi che acca- dono, e quindi viene forzato anche sul piano proprio cognitivo della cono- scenza del mondo ad immettere un tema che non sarebbe assolutamente di sua pertinenza e poi oltretutto viene falsificato nei suoi comportamenti con questa idea della seduttività, della sospensione, della dissociazione del fatto che non è successo niente, del fatto che tutto sommato sei tu che lo vuoi, del fatto che tutto sommato fa piacere anche a te e quant’altro, perché questi sono i livelli di estrema confusione su cui poi è difficilissimo muoversi. Come la mettiamo rispetto ad una ragazzina che subisce questo tipo di com- portamenti da parte del padre e prova sensazioni piacevoli, perché poi nel momento in cui il clima è seduttivo, non è violento, è organizzato in un certo modo, la ragazzina prova situazioni piacevoli. Come le colloca? Che tipo di

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significazione dare a questa cosa che diventa un sistema organizzativo poten- te della propria vita perché a tutti fa piacere provare piacere. Qui il problema è l’innesco di modalità, di riconoscimento di sé e dell’altro su una strada completamente alterata, completamente falsata nei suoi aspetti fondamentali. Parlando di emozioni vedete come paura e rabbia sicuramente possono esse- re presenti soprattutto laddove l’aspetto violento minaccioso è in primo piano, quando non c’è violenza dicevo la minaccia di solito è “non lo dire a nessuno perché se lo dici a qualcuno poi mi mandano via di casa” ; queste sono le minacce “non lo dire a tua madre” eccetera eccetera, ma spesso è la madre, a volte la madre dice “non lo dire a nessuno, per carità, che vuoi fare figlia mia? Gli uomini sono fatti così”. La colpa e la vergogna credo che non meritino ulteriori commenti da parte mia ma soprattutto torno ad insistere sull’elemento dissociazione che non è una emozione. La dissociazione è una sospensione di emozioni, è l’impossi- bilità di dare un nome a quello che si prova; quello che si prova può essere soltanto presente in un regno distaccato che si apre e si chiude come una sca- tolina in certi momenti e che basta, sta lì, il resto della vita va avanti per conto suo. Il problema è che questa scatolina poi dopo comincia a dare i suoi effetti generali su tutta la persona. Le rappresentazioni di sé possono essere, anche qui a seconda dei casi, la rap- presentazione di vittima che è una rappresentazione grave, una persona che cresce avendo l’idea di sé come una vittima e una vittima di comportamenti sessuali è una rappresentazione pesante da sostenere, ma può anche essere, al contrario, una rappresentazione molto potente invece di istigatrice/seduttrice, quindi di seduttività e quindi di persona che vive, che tende a vivere, le rela- zioni emotive, perché questo poi è il problema, cercando di giocarle tutte sul canale della seduzione, della seduttività. Che cosa è la seduttività se non quel comportamento che ci consente di otte- nere l’approvazione altrui, di placare le tensioni, di risolvere i dissidi, di essere ammirati e quant’altro, quindi una molla molto potente di articolazio- ne del mondo in un senso molto preciso, il comportamento seduttivo come risolutore di moltissime situazioni di tensioni. Un sé frammentato è l’altra possibilità frequente in casi di violenza sessuale, che corrisponde allo stato di dissociazione, la impossibilità di mettere insie- me pezzi di sé che funzionano a compartimenti stagni, quindi una grossa dif- ficoltà, o l’impossibilità, di mettere insieme, per esempio, aspetti cognitivi con aspetti affettivi, quindi di vivere pienamente l’affettività, i rapporti affet- tivi e quant’altro. L’altro, anche qui in complementarità a quello che dicevo prima, può essere sentito come bisognoso, fragile e quindi con questa impostazione di inversio- ne dell’accudimento in cui è il minore ad accudire, a farsi carico del bisogno della fragilità dell’adulto, cattivo spaventante o anch’esso frammentato, cioè che funziona a compartimenti stagni. I ruoli adattivi abbiamo detto in qualche modo collegati alla rappresentazio- ne, il ruolo sacrificale, la posizione seduttiva come canale forte su cui impo- stare la maggior parte delle reazioni della propria vita, un ruolo del tutto irri- solto, cioè l’incapacità di adeguarsi a qualunque circostanza della vita che può essere tipica di molte ragazze che hanno storie soprattutto ripetute di

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abuso sessuale alle loro spalle e che per il risolto poi possiamo determinare anche tutta una serie di patologie psichiatriche, soprattutto di gravi disturbi della personalità che sempre oggi, con maggior frequenza, ritroviamo a par- tire da storie in cui l’abuso sessuale è presente. Io non parlo in questo contesto, ne parlo tra un attimo, nel contesto dell’abu- so sessuale vero e proprio, delle situazioni in cui ci sono false denunce di abuso sessuale, io non ne parlo volutamente perché dobbiamo farne un altro capitolo e non voglio che venga confuso il discorso. Quindi stiamo parlando delle situazioni di abuso sessuale. Vedremo tra un attimo, quando ho finito l’excursus tipologico, poi quali tipi di problemi, sul piano e dell’accertamen- to e dell’intervento, comporta questo tipo così grave di situazione. Possiamo procedere: adesso vi presento una situazione a volte trascurata, scusate il bisticcio con la trascuratezza, ma molto interessante, non frequen- tissima ma di grosso interesse da un punto di vista non solo speculativo ma anche di attenzione a certe situazioni. Il discorso dell’ipercuria potremmo dire il negativo della trascuratezza in qualche modo, ma che è un tema, è un tipo di realtà più recentemente sotto- lineata da alcuni autori, a Roma se ne è occupato molto, se ne occupa tutto- ra, Francesco Montecchi all’ospedale Bambin Gesù perché chiaramente l’o- spedale pediatrico è un po’ un luogo privilegiato per osservare questo tipo di situazioni perché sono situazioni proprio caratterizzate dalla medicalizzazio- ne del bambino e gli scenari sono quelli definiti come la sindrome di Munchausen per procura, cioè il render convinto l’altro di essere malato. Munchausen era il barone che se le inventava di cotte e di crude, quindi sin- drome di Munchausen vuol dire immaginario spinto su un sacco di realtà ine- sistenti, per procura vuol dire appunto che è il bambino che viene indotto dal- l’adulto a pensare di essere gravemente, o più o meno gravemente, malato. Sul piano concreto, sul piano dei comportamenti, questo tipo di condizione si manifesta attraverso vere e proprie aggressioni diagnostico terapeutiche nei confronti dei minori. Per aggressioni diagnostico terapeutiche intendo il sot- toporre i figli a routine di accertamenti anche molto invasivi, anche molto pesanti, quindi non si tratta di fargli solo le analisi del sangue (anche quello tutto sommato un bambino se lo risparmierebbe volentieri, come tutti noi peraltro) ma anche di andare oltre rispetto ad esami endoscopici o quant’al- tro estremamente pesanti, estremamente invasivi ed aggressivi, ed oltretutto di somministrare medicine con il comportamento più o meno compiacente di medici che, scocciati di aver davanti il rompiscatole, prescrivono per toglier- si di torno le persone o a volte colludono con l’atteggiamento, oppure, anche senza medici, la autosomministrazione provocando di fatto dei veri danni, perché poi questo è il correlato di conseguenza rispetto a questo, provocando dei danni fisici ed in termini di difficoltà dello sviluppo e in termini di veri e propri danni, vere e proprie lesioni rispetto al bambino. Ovviamente tutto questo discende da un atteggiamento genitoriale di assolu- ta, ferma convinzione di bisogno di credere che il figlio sia malato, possiamo un attimo interrogarci sulle origini di questo tipo di bisogno, si tratta chiara- mente di un bisogno di un genitore che, come dire, canalizza nell’atteggia- mento accudente ma più che accudente, nell’atteggiamento curativo, in que- sto bisogno di avere proprio il figlio come oggetto di cura a sua propria, tota-

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le mercé, canalizza attraverso questo un bisogno affettivo suo, un bisogno di attenzione onnipotente verso il figlio, una impossibilità di percepire il figlio come un soggetto che ha istanze proprie, atteggiamenti propri diversi da quelli che il genitore ritiene e quant’altro, quindi una vera e propria coloniz- zazione mentale. Lo vedremo anche poi nell’abuso psicologico, una colonizzazione mentale del figlio che deve prestarsi a tutte quante le fantasie di preoccupazione che madre, padre o entrambi, in qualche modo in questo ci sono veramente dei veri e propri deliri a due, dei due genitori che insieme utilizzano questo tipo di strumenti proprio per dimostrare che il figlio sta veramente male, e prima o poi il figlio sta veramente male, infatti si verificano ricoveri, si creano situazioni per cui prima o poi ovviamente a questi bambini qualche malattia anche grave viene sul serio perché non ci vuol molto, anche perché vengono magari sottoposti a diete strane, strampalate, per cui c’è la convinzione che quell’alimento faccia chissà che o che c’è una intolleranza per cui vengono privati di cose magari essenziali e quant’altro. Nella realtà ci possono essere varie gradazioni di questo atteggiamento ma, ripeto, nelle forme gravi si arriva a veri e propri quadri clinici, vere e pro- prie lesioni. È chiaro che questo fa vivere il bambino in un mondo emotivo in cui la paura, la preoccupazione e direi anche la vergogna dell’essere mala- to, quindi il problema del mondo che giudica il malato, il malato cronico per- ché poi ovviamente si tratta sempre di malattie croniche, nessun genitore si inventa che il figlio ha la broncopolmonite, ha i tumori, ha le malattie dege- nerative perché sennò sono cose che devono essere curate a lungo perché altrimenti se si curano rapidamente che gusto c’è? E quindi il problema è l’immagine del malato cronico che scaturisce, quindi anche l’atteggiamento vergognoso rispetto ai coetanei di chiusura, di diffi- coltà di esposizione, anche perché poi questo è spesso sostenuto dall’atteg- giamento dei genitori “per carità non ti scoprire di qua, non parlare con quel- lo perché chissà che ti infetta, non fare quell’altro” eccetera eccetera. È una iperprotezione perversa, patologica, è l’idea della malattia che pervade com- pletamente tutto il comportamento e tutta la relazione. Le rappresentazioni, vedete, sono scambievoli, sono complementari perché questi bambini tra l’altro sviluppano molto spesso, molto rapidamente, una capacità di incastro in questo tipo di gioco relazionale, non voglio dire una consapevolezza perché consapevolezza è una parola troppo forte, ma c’è in qualche modo una partecipazione al gioco per soddisfare il genitore, per compiacere il genitore. “Se mamma ha bisogno di sentirsi dire che io sto così, è vero, io stasera ho la febbre, perché questo fa sentire mamma più tranquil- la”. Queste sono cose potenti nelle relazioni, io spero di essere riuscito a tra- smettervi questo senso. Il vedere mamma rasserenata o cupa è per un bambino una cosa importante e se io imparo che c’è un mio comportamento che mi fa vedere mamma rasse- renata invece che cupa, preoccupata e rabbuiata con me, io questo comporta- mento lo metto in atto, che mi costa? Il problema è molto serio, infatti quale è il problema? C’è sicuramente una complicità ma queste madri, dico madri perché, anche qui non voglio fare le tipologie ma i dati statistici sono questi, è un comportamento tipicamente in

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alta percentuale prevalentemente attribuibile alle madri, le cose stanno così, non è colpa mia, sono estremamente manipolative di tutta la realtà, riescono a convincere, ma riescono a convincere come? Alcune spesso facendo delle autosomministrazioni di terapie che producono delle lesioni, ad esempio. Non ci vuole molto a far venire una diarrea cronica ad un bambino, non ci vuole molto. Di fronte ad una diarrea cronica di un bambino un pediatra ad un certo punto dice: “beh, facciamo una colonscopia, signora mia che le devo dire? Facciamo la colonscopia”. (Intervento fuori microfono) Ma non è necessario essere ipocondriaco perché l’ipocondriaco riconosce i mali su di sé, allora può essere che qualcuna sia così ma non è detto, questa riconosce i mali nell’altro, quindi può darsi che per sé non abbia un atteggia- mento ipocondriaco. Il bisogno forte è quello di avere un oggetto da curare onnipotentemente che non si oppone perché questo è fondamentale ovviamente e che quindi può essere plasmato a proprio piacimento, questo è il bisogno che sottende que- sta cosa, e la complicità del medico, è vero, in alcuni casi è più grave, in altri casi è meno grave ma comunque certamente è un dato importante. Ripeto, molto spesso queste persone si comportano in modo da far venire qualche sintomo al figlio, perché poi sapete che ci sono un sacco di sintomi dei bam- bini come degli adulti. È molto difficilmente riconoscibile tant’è che si rischiano a volte degli ecces- si, si rischiano degli eccessi di accertamento, come sempre una volta che è stato definito un quadro, uno poi tende a vederlo anche di più di quello che c’è. Anche la sindrome di Munchausen ha avuto questo tipo di problema e ha questo tipo di problema, magari si tende a riconoscerla in un povero preoc- cupato perché il figlio ha una malattia cronica grave, quindi non è affatto facile perché spesso appunto uno non ci pensa all’inizio ma ci pensa dopo parecchio tempo. C’è anche la mamma ipocondriaca perché non possiamo escludere niente, io per questo non voglio dare definizioni secche, voglio lasciare aperto un pochino il quadro tipologico, c’è anche la mamma ipocondriaca che in qual- che modo come modalità per affrontare la sua malattia o la sua ipocondria coinvolge appresso a sé tutto il mondo. Vedo che vi ha interessato questa cosa perché è insolita ma... Dicevo prima le rappresentazioni che derivano sono scambievoli perché sono, vedete, fortemente complementari, il bambino può percepire se stesso malato e l’altro curante ma può anche percepire il contrario, può percepire che lui in realtà attraverso il suo atteggiamento sta curando la madre che ha bisogno che lui si comporti così, che lui sia malato, questo è importante per- ché sul piano psicologico rappresentazionale non è detto che noi troviamo soltanto il bambino poverello in fin di vita e moribondo, dobbiamo anche vedere un bambino che “affronta”, direbbe qualcuno, in maniera stoica la sua malattia perché questo è curativo nei confronti della madre che ha bisogno di questo. I bambini fanno queste grosse operazioni. Ovviamente il ruolo è quello del malato cronico che non è notoriamente un bel ruolo nel quale que- sti bambini si calano a meraviglia proprio per corrispondere pienamente alle aspettative dei genitori.

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Vi presento l’ultimo lucido così concludiamo questo momento tipologico con due situazioni che vanno un po’ su altre questioni, altrettanto importanti, e finisco in dieci minuti, dopodichè facciamo la pausa perché la stanchezza incombe in tutti. Ho voluto citarvi altre due condizioni anche se sono due condizioni che dob- biamo considerare con attenzione e per certi versi a parte rispetto a quello che ho detto fino ad ora. L’abuso psicologico è qualcosa di cui si è parlato, si parla tantissimo, c’è grossa difficoltà anche a definire cosa sia l’abuso psicologico, cioè si corro- no due rischi opposti nella definizione dell’abuso psicologico, o di conside- rare abuso psicologico, passatemi l’espressione paradossale ma è così, la nor- male disfunzionalità della famiglia, quella disfunzionalità relazionale che può essere presente in tante famiglie ma che non è che va risolta altrimenti, va curata, alleviata ma che non rappresenta effettivamente un abuso nei con- fronti del figlio, oppure considerarlo addirittura inesistente come una catego- ria inutile e basta. In realtà, come tutte le cose, ci sono verità che stanno nel mezzo, non dob- biamo utilizzare questa categoria in modo estensivo, perché altrimenti rischiamo di avere un atteggiamento intrusivo verso realtà familiari che magari sono problematiche ma che hanno quella caratteristica come loro modalità di vita. Al tempo stesso dobbiamo stare attenti che ci sono famiglie in cui la realtà dell’abuso psicologico è una realtà evidente e grave. Su cosa possiamo metterci d’accordo come proposta rispetto ad una defini- zione di abuso psicologico? Direi soprattutto su un elemento grave perché è veramente grave, cioè quel- le situazioni in cui l’esperienza del minore viene sistematicamente falsifica- ta dall’adulto. Che vuol dire falsificare l’esperienza di un minore? Vuol dire indurre significati, ricordi, racconti di questioni che lui non ha vis- suto per niente o di presentarglieli diversi da come sono quelli reali. Fare falsi racconti della propria esperienza ai bambini, produce delle “lesio- ni”, delle aggressioni alla sua possibilità, al suo sviluppo armonico, molto gravi e molto pesanti laddove proprio manca la possibilità e di critica rispet- to all’adulto e subentra una sorta di problema di mettere insieme, di armoniz- zare ricordi di un tipo con racconti dell’adulto di un altro tipo e il forte biso- gno di credere, di fidarsi di quello che dice l’adulto e quindi di organizzare la propria esperienza di vita, il senso che si dà alla propria esistenza, alla pro- pria esperienza, su elementi falsi. A qualcuno di voi può venire in mente la parola plagio come termine riassun- tivo di questo tipo di situazione; la parola plagio è pertinente; ovviamente l’accostamento è più che pertinente. Io lo trovo un po’ insoddisfacente, devo dire molto francamente, perché plagio fa pensare un po’ alla mente del bam- bino come ad una sorta di tabula rasa dentro la quale l’adulto può mettere quello che vuole. In realtà non è così ovviamente, in realtà non è affatto così. Non è vero che l’adulto può mettere nella mente del bambino tutto quello che vuole, è però vero che può creare grosse difficoltà e grossi conflitti di perce-

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zioni all’interno della mente di un bambino con aggressioni, con falsificazio- ni della realtà esperenziale che gli fanno vivere situazioni diverse da quelle che in realtà ha vissuto. Una su tutte adesso “ritorna a fagiolo”: le false accuse di cui si parlava prima, le false accuse di abusi, le gravi strumentalizzazioni dei comporta- menti all’interno, ad esempio, delle vicende conflittuali separative. Tutta questa serie di comportamenti che spesso si attivano fin da bambino, in età relativamente precoce, e che quindi proprio se si attivano in età relativamen- te precoce tendono a rappresentare la realtà esatta che vive il bambino, non ha capacità di discriminare quello che è stato da quello che non è stato. Se mia madre mi racconta che da quando avevo tre anni in poi mio padre mi ha fatto delle cosacce e me le racconta sistematicamente, io quali elementi ho per dirle che non è vero? Sicuramente per dire che non è vero non ho alcun elemento perché la realtà che mi viene raccontata è la realtà. Esistono molti esperimenti interessanti su queste cose, non ve li posso raccontare perché fini- remmo domani, ma proprio a che età arrivano i ricordi, tutte queste storie qua, ognuno di noi dice: “ma quale è il primo ricordo che ho io?” e poi vai a capi- re, ma quel ricordo che hai, è veramente tuo o perché tua madre una volta ti ha raccontato quella cosa? Impossibile dare una risposta a questa cosa, asso- lutamente impossibile dare una risposta. Arrivare oltre un certo limite di età e capire se quella cosa che io mi ricordo di quella età me la ricordo perché l’ho vissuta o perché mia madre qualche anno dopo me l’ha raccontata. È assolu- tamente impossibile discriminare questo, ci vorrebbe veramente il “Truman show” che segua la nostra vita dall’inizio e allora sapremmo oggettivamente quello che hai vissuto e non hai vissuto ma altrimenti è impossibile. È talmente impossibile che poi si possono determinare conflitti interni di vis- suto estremamente gravi dove il problema della strumentalizzazione è in primo luogo. Questi definirei come veri e propri abusi psicologici, perché minano profon- damente l’integrità psicologica del minore, lo mettono a rischio nelle sue relazioni vitali perché lo mettono magari contro uno contro l’altro, a rischio di perdita di un genitore o quant’altro, quindi lo espongono di fatto a situa- zioni critiche, lo espongono a condizioni anche in questo caso di accertamen- to, un bambino che racconta una realtà di abusi sessuali prima o poi qualcu- no lo dovrà vedere, qualcuno magari dovrà fare una visita, qualcuno dovrà interrogarlo. Si avvia un percorso che a quel punto ha poca distinzione con l’abuso sessua- le reale. Ci sono studi accurati su questo ma sono tutti studi che ci dicono quanto è difficile discriminare un reale abuso sessuale da un abuso sessuale, attenzio- ne non inventato dalla preadolescente il giorno prima perché il padre non le aveva dato il motorino o non l’aveva fatta uscire, perché questo è più accer- tabile per fortuna, ma storie di abusi sessuali così costruite magari a partire da una età abbastanza precoce del bambino, ma guardate che abbastanza pre- coce dico neanche tanto perché già se è una bambina di 6 o 7 anni che ha una buona riserva di ricordi suoi autonomi, la madre comincia come uno stillici- dio tutti i giorni a dire che papà ha cominciato a toccarla in un certo modo, “stai attenta che guarda, ti allunga la mano di qua e di là”, ... il tipo di ricor-

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di si costruiscono anche in questo modo e si costruisce una realtà in questo modo. Per cui quando parlo di età precoce, non è detto che parlo dell’infante, cioè parlo di una età in cui il bambino è molto soggetto, è facilmente ricettacolo di questi messaggi perché ne ha bisogno, come ne hanno bisogno normalmen- te tutti i bambini, soltanto che quei genitori, invece di insegnare come sono state le guerre puniche, dicono che il padre l’ha toccata di qua e di là. Ci sono grossi problemi dicevo, ci sono grossi problemi perché è tanto il con- solidato di vissuto, tanta l’organizzazione di vissuto rispetto a questo che ci sono test molto approfonditi, test proiettivi che però ci espongono sempre al dubbio dell’errore, il problema dell’attendibilità rispetto ad un abuso sessua- le è un problema enorme anche se ci si sta studiando molto, si stanno metten- do a punto situazioni di test, però molto spesso può succedere che decadano delle accuse perché viene dichiarato inaccettabile come la testimonianza di un minore quando in realtà ci sono dati... Ma per dire come poi in realtà ci siano grossissimi problemi, anche quando l’attendibilità sembra alta, poi il tipo di requisiti, di attendibilità richiesti dal penale travalicano anche una più che buona attendibilità delle cose. Infine, e ve lo cito perché secondo me è una fascia di casi che vi può capi- tare molto frequentemente, come avvocati, al momento potenziali, dei mino- ri, tutto il mondo che fa riferimento alle esperienze delle adozioni, e le metto insieme per un motivo molto preciso anche se non sarebbero la stessa cosa ovviamente, degli affidi e dei problemi della famiglia ricomposta o ricostitui- ta che dir si voglia. Che tipo di problematiche propongono, sto parlando sem- pre dal punto di vista del minore, questi tipi di condizioni? Propongono tipicamente il tema del conflitto tra appartenenze, il minore che si trova in una situazione di dover scegliere, situazioni dove è proposta la scelta o imposta addirittura la scelta tra l’appartenenza ad un certo tipo di noi o ad un altro tipo di noi, fenomeno tipico della adozione e della conflittuali- tà sull’adozione ovviamente, tutto quello che può accadere in un percorso conflittuale disfunzionale di adozione, ma che succede anche quando non dovrebbe per principio succedere, ossia nella situazione dell’affido, dove di fatto pure si propone un problema di conflittualità tra appartenenze, e nella famiglia ricomposta, come famiglia che scaturisce da originarie separazioni e quindi con le varie nuove articolazioni familiari, padre di uno, figlio di un altro eccetera eccetera eccetera, non si ha limiti alla Provvidenza. Su questo avrei qualcosa da dire in generale prima di chiudere, sottolineando che noi, a volte, diamo troppa importanza, sopravvalutiamo troppo il tema del conflitto del noi dei bambini, il bambino che fa confusione tra una cosa e un’altra, un padre che è padre, il padre che non è padre, la famiglia che è famiglia, quell’altra che invece non è famiglia. Questi sono problemi nostri, non sono problemi dei figli, i figli sono molto proiettivi. Questi sono proble- mi degli adulti che non hanno il coraggio di ammettere che i figli, se si pre- senta loro una situazione sufficientemente armonica, sono perfettamente in grado, come siamo in grado tutti noi, di costruire appartenenze diverse con diversa funzione, con diverso valore, con diverso significato, senza fare affatto confusione se non gliela induciamo noi. Noi a volte sopravalutiamo questi rischi, come se fossero rischi mortali addi-

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rittura, il bambino fa confusione, guai a dormire con la madre se c’è anche il nuovo compagno, guai se il padre l’ho visto che usciva con mio figlio e c’era anche una bionda che chissà chi era. Siamo noi i portatori di patologia su questo, non sono i bambini o gli adole- scenti, siamo noi che creiamo le condizioni per una incompatibilità di appar- tenenza. L’avere diverse appartenenze è fisiologico nella vita, se noi ci interroghiamo tutti quanti, sappiamo quanto è importante per tutti noi sentire che apparte- niamo a tanti noi, perché non ne abbiamo uno solo di noi come identificazio- ne fondamentale della nostra persona, questo è vero pure per i bambini. Allora il nostro problema è quello di non creare l’incompatibilità tra i noi, non è quello di salvaguardare queste povere creature dalle appartenenze diverse. Le appartenenze diverse possono essere anche molto salutari, molto ricche, è quello che c’è nella testa dell’adulto a fare a volte la differenza, fermo restan- do l’ultimo principio che cito, quello della salvaguardia del rapporto con la propria storia che è un principio assoluto, secondo me, quello sì, non l’appar- tenenza ad un noi solo perché sennò si fa confusione, ma l’avere l’accesso libero al rapporto con la propria storia è un principio assolutamente fonda- mentale di qualunque decisione noi possiamo prendere rispetto al noi di qua, noi di là, noi di su, che i bambini possono vivere molto meglio in realtà di quanto noi possiamo immaginare. Quindi mi sembra che avere in mente un po’ queste cose quando si tratta di questi fenomeni spesso così conflittuali, come le adozioni, gli affidi, le isti- tuzioni delle famiglie ricomposte, forse dovrebbe aiutare un po’ a fare un atti- mo un passo indietro rispetto a certi teoremi, a certe dichiarazioni di princi- pio di queste confusioni infantili che in realtà, ripeto, sono solo problemi di potere degli adulti che non danno il permesso ai propri figli di frequentare altri adulti perché sono invece legati a vecchi rancori, a vecchie storie, a vec- chie cose, il problema è nel dare il permesso ai figli di frequentare altri adul- ti senza avere tutta questa paura che questi se li portano via perché, insom- ma, non si porta via nessuno. Va beh, facciamo la pausa che siamo stanchi.

o volevo una mezz’oretta, non di più, poi da poter sentire qualche cosa anche da parte vostra, cercare di riassumere un pochino alla luce di quel- Ilo che ho detto fino ad ora, alcuni che possono essere considerati un po’ aspetti generali, dei problemi che ci troviamo e che vi troverete di fronte. Che vuol dire poi rappresentare in giudizio un minore che scaturisce da que- sto tipo di esperienza, che vive e ha vissuto questo tipo di esperienze, quali tipi di bisogni avrete davanti, quali tipi di problematiche generali. Credo che ci sia intanto una prima consapevolezza forte che dovrebbe emer- gere da quello che ho provato a dire fino ad ora, e cioè che i bisogni di un minore in situazioni come quelle che abbiamo delineato, sono bisogni com- plessi, sono bisogni complessi e molto spesso sono bisogni che si pongono anche in conflitto tra loro stessi, parlavamo di temi dell’appartenenza, del-

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l’attaccamento, dell’identità ma anche di bisogno di tutela da certi comporta- menti genitoriali. Allora noi abbiamo sempre, o quasi sempre, di fronte il doppio problema di come sintonizzare, di come armonizzare il bisogno di tutela, quindi il biso- gno di proteggere il minore dalla ripetizione di certi comportamenti, di certe esperienze, con il bisogno di salvaguardia delle sue relazioni significative. Questo è un tema fisso in questo tipo di situazioni ed è un tema che può pro- porre realtà assolutamente laceranti come di fatto è lacerante la realtà interio- re che rispetto a questo vive il minore. Dicevamo all’inizio la lacerazione consiste nel fatto di come giustificare che dalle persone dalle quali si dipende per la vita, per il benessere, per la cresci- ta, per l’affettività e quant’altro, provengono i comportamenti di aggressione e che però quelle persone continuano ad essere importanti. Primo livello. Quindi due bisogni che sono tutti e due copresenti, non dobbiamo mai sotto- valutarne uno, sopravalutarne un altro; tante volte noi, se sopravalutiamo il tema della protezione, finiamo per sottovalutare quello della tutela delle rela- zioni e viceversa, se diamo troppa importanza al tema della tutela delle rela- zioni, finiamo magari per lasciare il bambino in situazioni di grave rischio immediato. Scegliere tra i rischi immediati e i rischi futuri non è mai facile. Non dobbiamo neanche pensare che tanto ai rischi futuri ci si penserà perché non sono rischi futuri ipotetici, sono rischi futuri operanti, cioè il fatto del dire che il bambino starà male nel tempo rispetto al fatto che noi, per esem- pio, abbiamo interrotto delle relazioni significative, non vuol dire “va beh, può darsi che... ma può darsi pure che va bene”. No, noi siamo certi che quello sarà un problema, lo sappiamo già da ora, quindi spesso questo tipo di problema è di difficilissima soluzione, ma per- ché è di difficile soluzione all’interno del bambino stesso conciliare questi due aspetti, la salvaguardia delle relazioni con la tutela della vita, della sopravvivenza psicofisica, perché anche l’altra è sopravvivenza psicofisica. Il livello immediatamente successivo a questo, ripeto, è un altro ancora; come ho provato ad illustrarvi, noi abbiamo a che fare, voi avrete a che fare, con bambini e adolescenti che hanno già sviluppato nel tempo una loro con- dizione e di spiegazione delle cose e di adattamento alle cose. Hanno svilup- pato delle spiegazioni del mondo in cui sono vissuti, le abbiamo descritte in termini di “io buono, l’altro cattivo” o viceversa o quant’altro ancora, hanno sviluppato dei ruoli adattivi che noi sappiamo essere disfunzionali per la cre- scita e per lo sviluppo sano ed armonico a cui loro sono aggrappati per l’esi- stenza stessa. Vai un po’ a spiegare loro che non è così, che fino ad ora hanno giocato con un mazzo di carte false, che loro pensavano fossero quelle vere! Attaccare questo tipo di sistemi adattativi, di sistemi di organizzazione complessa, può essere altrettanto dannoso che la prosecuzione degli abusi. Voglio che le mie parole non vengano equivocate nel senso di “lasciamoli stare lì, non facciamo niente” eccetera, sto ponendo i termini della complessi- tà e del tipo di situazioni che abbiamo di fronte. Complessità seria, importan- te, ripeto, sia perché fatta di bisogni laceranti all’interno stesso del minore, fatta di organizzazioni adattive già operanti, vai a spiegare al bambino adul-

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tizzato che non sarebbe suo compito occuparsi dei fratellini, cambiare il pan- nolino eccetera eccetera, che noi sappiamo che gli farà male nel tempo ma lui sta bene così in quel momento, per lui è la vita. Se magari cerchiamo di impe- dirglielo, lo mettiamo dentro una casa famiglia dove qualcuno accudisce lui, cosa che gli spetterebbe a quell’età, ma lo troviamo in una fase in cui lui non vuole che qualcuno lo accudisca perché ha sviluppato un sistema di conoscen- za di sé e del mondo in cui per lui è importante che lui accudisca, non che venga accudito, ci ha rinunciato. Agire su queste rinunce per ricostituire, per reintegrare le cose non è affatto semplice, tant’è che quello che volevo dire adesso è che questi adattamenti, a queste situazioni così dure di vita, così pesanti, avvengono ovviamente a prezzo di sacrificio di parti di sé, di cose che non si vogliono vedere, di cose a cui si rinuncia, ma questo sacrificio fa sì che poi il riproporsi di queste cose non viene accettato tanto facilmente. Se io ho rinunciato nella mia esperienza a essere uno che può lamentarsi per essere coccolato, e ci ho rinunciato non perché è stata una mia scelta ma per- ché le mie condizioni di vita mi hanno portato a questo, perché questo fa sì che così non disturbo mia madre, che mia madre poveretta sta molto peggio di me, poi non è semplice che qualcuno mi dica: guarda che adesso lo puoi fare. Per me questa è una immagine assolutamente mancante. Pensate ad un bam- bino così messo, per esempio, in condizioni di affidamento. Sarà drammati- co per lui vedere di potersi concedere a qualcun altro che lo accudisce; resi- sterà, metterà in atto magari comportamenti aggressivi, comportamenti pro- vocatori, sono le realtà che vediamo sempre in questo tipo di situazioni. “Come?” uno si direbbe, “ti abbiamo tolto da dove ti massacravano, adesso stai nella famigliola borghese con i tuoi poster attaccati al muro, con i tuoi orsacchiotti messi da tutte le parti e tu cominci ad andar male a scuola, a pic- chiare i compagni e a fare il provocatore?”. Che succede? Succede una cosa molto semplice: ci sono dei sistemi interni, delle rappre- sentazioni interne che o si formano, e quindi consentono determinati compor- tamenti, o non si formano perché vengono deviate ed è un problema riformar- le, non è così semplice, richiede tempo, lungo tempo, capacità di fiducia, di fiducia nell’adulto, di fiducia in quello che succede, nel potersi lasciare anda- re, sono cose che possono riguardare anni. Ora tutto questo, e molto altro che non si fa in tempo a dire ma spero di aver dato due linee di chiarezza su questo, sulla complessità di questo, è impensa- bile che possa essere risolto attraverso provvedimenti. Noi dobbiamo uscire dalla logica del provvedimento, della sentenza per dirla con un termine onnicomprensivo, come messaggio risolutore, come atto riso- lutivo di questo tipo di condizioni. È follia questa, è essere malati di onnipotenza pensare a questo, ma per tanti motivi. Per il motivo più banale che tanto poi le sentenze assurde non vengono messe in atto, non vengono realizzate, ma questo casomai è una tutela, per fortuna potremmo dire questo, comunque anche la sentenza più azzeccata che non so bene quale dovrebbe essere, proprio per la natura molteplice, contraddittoria, ambigua e paradossale dei problemi di cui ci occupiamo, sarà sempre un sacrificio ulteriore, proporrà altri sacrifici. Anche qui non sto dicendo che

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non bisogna fare sentenze, attenzione, ma che, se vogliamo agire veramente rispetto al mettere al centro l’interesse dei minori di sviluppo, dobbiamo uscire un attimo dalla logica del provvedimento e della sentenza che potrà essere un elemento, ogni tanto serve a mettere dei limiti, sancire delle cose, il genitore che abusa sessualmente della figlia va punito, il genitore che pic- chia va stigmatizzato eccetera, ma non possiamo dire che facendo questo abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo risolto il problema del bambino. Certamente non esiste questo. Allora noi abbiamo una serie di compiti complessi rispetto ai quali l’avvoca- to, nel momento in cui si fa avvocato del minore, inevitabilmente viene chia- mato dentro, viene chiamato dentro perché questo interesse del minore è un interesse estremamente complesso ed il rischio di quella che viene detto in gergo la vittimizzazione secondaria è un rischio enorme. Per vittimizzazione secondaria si intende o il tipo di intervento che continua a lasciare il minore a rischio di ripetuti episodi di abuso, o il tipo di interven- to che, troncando di netto tutte le sue relazioni significative per salvaguardar- lo dall’abuso, lo espone ad una forma di vittimizzazione diversa, che è quel- la della deprivazione delle sue risorse, dei suoi rapporti affettivi, del mondo che lui ha creato in difesa di se stesso, in adattamento di se stesso. Grave fenomeno la vittimizzazione secondaria perché è spesso la sanzione definitiva di percorsi altamente disfunzionali, di percorsi critici, quelli che dal civile vanno al penale, per dirla con un luogo comune ma che poi in real- tà non è un luogo comune. Allora noi, quali problemi abbiamo? Insisto su questo. Abbiamo un primo problema forte in presenza di determinati scenari come quelli che ho detto. Un primo problema forte è l’accertamento che sembra una cosa semplice da dire ma è difficile da realizzare in molti casi. Che vuol dire problema dell’accertamento? Il problema che ormai è ricono- sciuto da tutti più o meno gli autori che si occupano di queste cose come un momento importante di ogni tentativo di recupero di lavoro su queste relazio- ni familiari così compromesse e su queste situazioni così complesse, è dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Che venga identi- ficato il fatto che è stato commesso, un comportamento inadeguato, un com- portamento riprovevole, sanzionabile sul piano penale o quant’altro. Questo è un tema forte che però è tutt’altro che curato, cioè la componente penale di questo tipo di procedura è residuale, oserei dire per una serie di pro- blemi enormi, le attendibilità, le difficoltà oggettive, io dico anche un certo vezzo culturale o sottoculturale di considerare queste cose, cose di famiglia, non si va in galera per le cose di famiglia. Il Maresciallo dei Carabinieri fa la paternale in questi casi, “state buoni tutti a casa, non fate queste cose”, que- sti sono gli atteggiamenti prevalenti. Ora io non dico che non ci debba essere un buon Maresciallo dei Carabinieri che fa anche questo, per carità, è importantissimo, però è anche vero che ci sono situazioni che devono riconoscere nella sanzione del comportamento inadeguato o penalmente addirittura rilevante un momento importante. Perché? Pensate un attimo all’abuso sessuale, pensate a quanto può essere importante per una ragazzina che è vissuta all’interno di una situazione di abuso sessuale arrivare ad un riconoscimento chiaro e palese e alla distinzio-

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ne dei livelli di responsabilità connessi agli eventi. Questo è un elemento fondamentale, quello che dimostrano tutti coloro che si occupano di queste cose è che più la figlia rimane intrappolata, e ci rimarrà comunque, ma più ci rimane, più a lungo rimane dentro la rete della ambigui- tà, della attribuzione delle responsabilità, più è difficile e problematico il lavoro di recupero di vera e propria riabilitazione si tratta, una organizzazio- ne di vita personale più adeguata, di vita affettiva e quant’altro. Non vuol dire che le persone debbano andare per forza in galera, questo è un altro paio di maniche, ma che ci sia una sanzione chiara sulla colpevolezza di certi comportamenti io credo che questo sia un momento centrale delle nostre questioni. Sto parlando forse di cose nel nostro mondo, nella nostra giustizia, di cose forse utopiche ma sarebbe un grosso aiuto, diciamo così. Ripeto, non il fatto che le persone vadano per forza in galera perché questo poi tra l’altro comporta un’altra serie di problemi rispetto alla rottura della famiglia, ai sensi di colpa che ricadono addosso al figlio o alla figlia eccete- ra eccetera ma non esiste solo la galera per sanzionare i comportamenti inac- cettabili, ci sono tante modalità, tante forme possibili che andrebbero incen- tivate poi con ricadute sul civile e quant’altro, ma certamente l’accertamen- to chiaro e netto di quello che è accaduto, soprattutto in certi tipi di compor- tamento, a mio avviso è uno dei punti salienti della cosa. Mi viene da dire per esempio che un avvocato del minore, rispetto alla rappre- sentanza di un giudizio dei minori, non per fare il cagnaccio mastino contro i genitori o che cosa, ma dovrebbe rappresentare il tema del bisogno dell’accer- tamento dei fatti come materia importante del suo lavoro e della possibile ricostituzione di chiarezza di limiti più evidenti e chiari di quello che è acca- duto, perché poi è chiaro che all’accertamento è legata da una parte la prote- zione perché è chiaro che secondo quale è l’accertamento possiamo forzare la mano sulla protezione o allentare la mano sulla protezione perché questo tema della protezione, lo dicevo prima, è sempre un tema a doppia faccia. Da una parte è un compito fondamentale, può essere un compito fondamen- tale, dall’altra è quel compito che può portare il minore lontano dalle relazio- ni significative, alla perdita di relazioni importanti. È come dire: sì, mio padre è stato punito perché io sono stato allontanato eccetera però intanto non vedo più neppure mia madre, i miei fratelli mi hanno tolto il saluto ecce- tera eccetera eccetera. La sommatoria di questi fatti, come è? Anche qui sembra che io voglia dire “lasciamo stare le cose”; no, ovviamen- te, ma sto dicendo: non sono i provvedimenti a creare, a dare la risposta, per cui se c’è un buon accertamento, può esserci una protezione più adeguata nella misura, nella forma oppure nessuna protezione. L’altro problema che c’è è la cura del legame, accertamento, protezione e cura del legame. Come coltivare, come portare avanti il bisogno del minore, di mantenere le relazioni significative, di continuare a stare in rapporto con i suoi familiari nelle varie condizioni possibili, rese possibili dai bisogni di protezione, ma che siano comunque praticabili, possibili e continuative. Il famoso rapporto con la propria storia di cui parlavo alla fine del mio discorso prima del break, è un tema che non possiamo considerare un optional, un lusso, “intanto pro-

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teggiamo, poi se ce la facciamo magari riusciamo anche a coltivare e a man- tenere il rapporto con la propria storia”. No, no, ripeto, non è un lusso, è allo stesso piano della protezione. Dobbiamo imparare a considerarlo così, ha lo stesso valore. E poi c’è l’ultimo punto che è la cura del minore, proprio perché dicevo che nessun provvedimento è in grado di dare una risposta reale e definitiva a que- sto tipo di situazioni, dobbiamo metterci in testa che queste sono situazioni che noi dobbiamo imparare a seguire anche per anni, e qui apro tutto un altro capitolo, ho gli ultimi sette minuti che mi sono dato, apro tutto un altro capi- tolo perché qui si pone il grosso problema di come l’avvocato del minore si integra con i servizi per il minore. Vi dico le mie conclusioni, questa non è una provocazione, è un tema caldo ma fondamentale, qui noi dobbiamo chiarirci molto bene su quello che stia- mo facendo. Noi siamo partiti da una idea importantissima in cui io credo ciecamente che è quella di ridare al Giudice, nel campo dei minori, il ruolo di terzo, il ruolo di funzione giudicante, il ruolo di funzione che non è sinonimo di tutela del minore tout court perché poi questo ci ha rivelato nel tempo che è fonte di grosse ambiguità, di grossi equivoci, di procedure disfunzionali e di situazio- ni non adeguate. Però attenzione, qui c’è un altro rischio, c’è il rischio a far la corsa a chi mette il cappello su questo minore perché questo è stato ed è un altro proble- ma. Il Giudice non deve essere, su questo siamo sicuramente tutti d’accordo, il Giudice fa il provvedimento e ci sono altre figure che devono fare un sacco di altre cose. Il ruolo dei servizi è molto più delicato perché poi il problema, almeno fino ad ora, è che nei fatti i servizi, pur (e qui è la grossa patologia dei servizi) in un ruolo ambiguo di sudditanza per un certo verso al Tribunale e dall’altra anche però di visione onnipotente del loro ruolo e del loro domi- nio, hanno anche loro considerato e considerano di essere i pieni titolari della tutela del minore, e su questa storia di chi è il titolare della tutela del minore facciamo veramente a chi lo fa a pezzi meglio, perché poi questo succede. Allora l’avvocato non deve ricadere però nello stesso errore, scusatemi, altri- menti non facciamo altro che spostare la figura del titolare della tutela del minore da uno all’altro, diversamente connotato da un punto di vista profes- sionale, ma le cose non cambiano. Dobbiamo uscire dall’idea che ci possano essere figure, qualunque esse siano, magistrati, assistenti sociali, psicologi o avvocati che essi siano, che onnipotentemente si assumono il compito di essere i tutori del minore. Questa è una idea delirante ma è delirante non così perché faccio lo psichia- tra e mi piace attribuire deliri alla gente; è delirante perché, se è vero che il bisogno è così complesso come ho cercato di definirlo un attimo fa, è follia pensare che ci sia una figura o una categoria di figure che possano farsene carico anche perché la logica giudiziaria, lo stavo dicendo un attimo fa, è una logica parziale rispetto a questo tipo di problemi. Quando dicevo che il provvedimento non è sufficiente, o addirittura è fuor- viante, stavo dicendo che il bisogno poi di fondo è quello della presa in cari- co. Queste situazioni vanno prese in carico.

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Allora qui bisogna rimboccarsi le maniche, avvocati e servizi, e bisogna met- tersi in testa che si deve sintonizzarsi e collaborare. È impensabile una figura di avvocato del minore che agisca in totale autono- mia o addirittura in contrapposizione a quello che stanno facendo i servizi. Io lo trovo assurdo. Siccome immagino che sia uno scenario facilmente invece verificabile, e questo lo dico adesso a voi avvocati ma non più tardi di ieri mattina avevo una supervisione di un servizio materno infantile del munici- pio di Roma e stavo dicendo a loro esattamente queste stesse cose su un caso complicatissimo che mi stavano presentando in cui nella conflittualità tra varie figure, questo ragazzino non si capiva più chi lo doveva curare, chi doveva curare i suoi interessi, perché sembrava che si curassero più gli inte- ressi degli operatori che quelli del bambino per il tipo di conflittualità perché poi sui bambini purtroppo questo succede, “è figlio mio”, “no, è figlio mio”, abbiamo queste modalità. Se continuiamo con queste modalità c’è poco da fare, molto poco da fare. O ci rendiamo conto che la possibile tutela di queste situazioni, così come le ho definite, queste situazioni così complesse, nasce da una sintonia di figure, da una sintonia... pensate all’accertamento, come fa un avvocato a fare lui, o lei che sia, l’accertamento? Ci sono competenze che sono esclusivamente in capo a servizi specifici di cui l’avvocato del minore che dovrà... ma dire già dovrà avvalersi, vedete come sposta il piano della relazione tra un qualcuno che è titolare e un altro che è sussidiario. Qui non è problema di chi è titola- re e di chi è sussidiario; qui è un problema di diversi punti di vista che devo- no cercare di armonizzare perché poi è chiaro che non sarà l’avvocato, ad esempio, a tenere in carico il minore per anni, questo dovrà essere fatto da un servizio, un servizio con risorse specifiche. Allora come facciamo se poi si sono determinate situazioni in cui uno è andato in una direzione e uno è anda- to in un’altra. Io dico che questo compito della sintonizzazione e armonizzazione degli interventi, del lavoro, del dialogo con i servizi, sarà un compito inevitabile e dei servizi e degli avvocati dei minori perché l’integrazione delle competen- ze su questo è un dovere proprio per non ripetere gli errori che hanno fatto giudici e servizi insieme fino ad ora, che sono questi errori di una sussidia- rietà ambigua, ripeto, in cui non si è mai capito quanto era il servizio che era una emanazione del Giudice, quando fa comodo presentarsi così, o quanto sia il Giudice che non sia una marionetta nelle mani di relazioni, o quant’al- tro, dei servizi. Questa è una dinamica continua che potrebbe non finire più vista così. Allora è vero che l’avvocato che entra in questo tipo di situazione potrebbe essere anche un elemento che rompe uno schema rigido, monotono e disfun- zionale come questo, però c’è anche il rischio che invece si adegui a questo tipo di andazzo proprio perché le questioni che riguardano i minori, ripeto, per la loro complessità, tendono facilmente a portare a schieramenti rigidi, a schieramenti contrapposti del tipo “si allontana, non si allontana”. Non è una ideologia questa, non è una ideologia, sono due bisogni copresenti, risolvia- moli un attimo, si risolvono solo con la presa in carico. Finisco con le mie provocazioni ricordandovi quell’immagine suggestiva di avvocato del minore del film “Il Cliente” che potrebbe essere una proiezione

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conclusiva di un corso come questo. Che cosa ci dice nel linguaggio artistico, quindi con le modalità tipiche, anche magari riduttive, del linguaggio artistico ma anche con la forza del lin- guaggio artistico, un film del genere? Che per fare l’avvocato del minore non è sufficiente impostare il rapporto professionale, nel senso che ci sono aspetti personali pesantemente messi in gioco, che il minore deve fidarsi, ma non come io mi fido dell’avvocato con cui vado a trattare la questione condominiale, deve fidarsi rispetto al fatto che si tratti di una presa in carico piuttosto che di una delazione. Sto parlan- do dei miei genitori perché voglio essere accolto nei miei problemi o perché così quell’avvocato li fa condannare meglio? Guardate che questo è un tema forte e il minore, per poter dire delle cose con- tro i genitori, ad esempio, ha bisogno di trovarsi di fronte qualcuno che abbia una forza, non voglio esagerare, ma che quasi lo sostituisca e si sostituisca, ma non si sostituisca per fargli da genitore, ma per poterlo fare affidare. Questo è il tipo di forza che il rapporto con un minore propone a chiunque poi si voglia far carico della questione. Molti assistenti sociali non sentono questo discorsi, molti psicologi no, altri per fortuna sì, ma l’avvocato deve avere delle immagini di sé in rapporto al minore come suo tutore anche se la parola è così brutta, diciamo come chi lo rappresenta anche di fronte agli organi del giudizio, che è basato sulla fidu- cia ma su una fiducia particolare, cioè sulla fiducia di potersi permettere di sentire che c’è un noi che si attiva e che non è del tutto incompatibile con gli altri noi perché se è sentito così è fallito in partenza, perché viene visto sotto l’insegna della delazione, del complotto, dello schieramento contro qualcu- no, ecco perché mi piaceva rimandarvi a quelle immagini di quel film perché credo che ce ne siano alcune in quel film molto evocative di un clima rela- zionale, di bisogni forti che necessariamente un minore che si trova in condi- zioni di grave difficoltà, porta all’interlocutore che, per essere tale, se ne deve necessariamente far carico in vari modi.

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SOMMARIO 1. LA CODIFICAZIONE ATTUALE 1. La codificazione attuale. l sistema deontologico forense ancor oggi si fonda sugli articoli 12 e 38 2. L’etica nell’impresa. della vigente legge professionale che prescrivono agli avvocati di eserci- 3. La responsabilità tare la loro funzione con dignità e decoro e che prevedono l’applicazione sociale I di sanzioni disciplinari attraverso un apposito procedimento per comporta- dell’avvocato. 4. Un settore sensibile: menti non conformi a tali precetti. Si tratta di norme rimaste immutate dalla l’avvocato e il emanazione della prima legge sull’ordinamento della professione di avvoca- minore. to che risale a un regio decreto del 1933. 5. Quale deontologia. La estrema genericità di principi deontologici formulati in termini astratti e 6. Etica e qualità: un privi di specifiche previsioni ha di fatto prodotto le più diverse interpretazio- ritardo da colmare. ni e applicazioni da parte dei Consigli dell’ordine nell’esercizio del potere che la legge ad essi attribuisce di valutare quali fatti concretamente configu- rino la violazione della norma e richie- dano l’apertura del procedimento disciplinare (1). Da qui il giudizio di “sottosviluppo” che per molti anni è stato espresso sulla DEONTOLOGIA E deontologia forense in Italia, motivato dal rilievo che soltanto nel 1997 l’avvo- RESPONSABILITÀ SOCIALE: catura si è data un codice deontologico, dopochè nel 1988 il C.C.B.E. (Conseil L’ AVVOCATO E IL MINORE des Barreaux de la Communauté Européenne) aveva approvato il codice deontologico europeo, e molte altre professioni avevano elaborato codici o principi in materia (2). La giurisprudenza costituzionale e quel- AVV. la di legittimità hanno comunque sempre riconosciuto che in applicazione delle ALARICO norme del 1933 gli organi forensi hanno il potere di imporre comportamenti MARIANI MARINI ritenuti deontologicamente corretti e di sanzionarne le violazioni, e che al Consiglio Nazionale Forense spetta il potere di emanare codici deontologici (3). VICE PRESIDENTE DEL CENTRO Il codice deontologico del 1997 è nato sostanzialmente come raccolta dei PER LA FORMAZIONE E principi enunciati dalla giurisprudenza disciplinare del Consiglio Nazionale L’AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE DEGLI Forense ed è stato successivamente oggetto di integrazioni e modifiche: tra le AVVOCATI DEL C.N.F. più rilevanti sono le disposizioni concernenti l’informazione sull’esercizio professionale e il rapporto con i testimoni in relazione alle norme sulle inve- stigazioni difensive nel processo penale (4). La sua complessiva impostazione rivela la faticosa gestazione che ne ha caratterizzato la elaborazione e la scelta sostanzialmente conservativa della versione originaria, alla quale ha concorso anche la opposizione alla codifi- cazione di alcuni settori dell’avvocatura. Accanto a un preambolo che segna una notevole apertura ai principi fondamentali nella società civile democra- tica ed alla rilevanza pubblicistica della funzione dell’avvocato, sopravvivo- no ancora norme ispirate a quella concezione protezionistica della classe forense e del singolo appartenente ad essa, sulla quale si fondava il testo del- l’art. 12 della legge professionale, esclusivamente diretto a tutelare requisiti di distinzione sociale della categoria.

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Così, ad esempio, l’art. 5 (Doveri di probità, dignità e decoro) ha riproposto la mera enunciazione dello storico precetto normativo senza specificazioni idonee a chiarirne e ad aggiornarne il significato; il dovere di fedeltà (art. 7) e il dovere di verità (art. 14) sono stati enunciati con formulazioni generiche e senza chiarire i limiti che l’osservanza del dovere di verità può comportare in determinate situazioni rispetto al divieto di compiere atti che non siano nell’interesse del cliente. Assai più stringente sul dovere di verità è la for- mulazione del codice deontologico europeo (5). L’art. 13 (Dovere di aggiornamento professionale), sebbene enunci un prin- cipio di fondamentale rilievo nell’etica professionale, che è oggetto di rigo- rose applicazioni in ordinamenti professionali europei, è tuttavia ancora privo di una regolamentazione dopochè un progetto di regolamento della for- mazione permanente elaborato dal C.N.F. è stato abbandonato per l’opposi- zione di parte degli Ordini alla introduzione di un sistema che preveda moda- lità, controlli e sanzioni (6). È anche la sopravvivenza di una norma quale l’art. 29 del c.d.f. (Notizie riguardanti il collega) che pure a seguito della modifica introdotta nel 2002, che ha soppresso il dovere di chiedere il consenso del collega inca- ricato per formulare giudizi su una causa da questi trattata, ha tuttavia man- tenuto il divieto generale e incondizionato di esprimere apprezzamenti nega- tivi sull’attività professionale di un collega. La norma dell’art. 24 (Rapporti con il Consiglio dell’ordine), che prevede il dovere di adempiere l’incarico di componente del consiglio nell’interesse della collettività professionale, oltre a non prevedere doveri analoghi per altri incarichi istituzionali, è formulata anch’essa in modo da tutelare esclusiva- mente l’interesse della categoria e non quello dei cittadini, che pure nel con- siglio debbono avere un organo che controlli anche nel loro interesse la qua- lità e la correttezza della prestazione professionale (7).

2. L’ETICA NELL’IMPRESA

ui modelli di deontologia professionale il dibattito si è di recente arricchi- Sto di nuovi approfondimenti, che rivelano l’insufficienza del sistema attua- le tanto più evidente in presenza della profonda e continua trasformazione dei rapporti economici e sociali nei quali si svolge la prestazione professionale. In particolare da più parti, per la verità esterne alle istituzioni forensi, si sostiene che anche alle professioni regolamentate si debbano applicare i prin- cipi della responsabilità etica e sociale. Si tratta di principi che sono stati ela- borati nel mondo delle grandi imprese trasnazionali dei paesi industrializzati che operano nella globalizzazione dei mercati e che producono e commercia- no in stati con diversi ordinamenti, alcuni dei quali tollerano violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo nei rapporti di lavoro e di tutela ambientale. Il principio della responsabilità sociale si fonda sulla consapevolezza che non è sufficiente che l’impresa osservi le leggi nel paese di appartenenza, ma che debba altresì pretendere il rispetto delle leggi fondamentali nei paesi nei quali svolge la sua attività e nei rapporti che in tali paesi stabilisce. La giustificabilità della propria condotta da un punto di vista etico verso la società comporta infatti che si agisca non soltanto in base alle regole proprie

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del rapporto specifico (ad esempio: prestazione a fronte di un corrispettivo), ma anche in rapporto con il contesto sociale esterno, cosicchè il risultato del- l’attività economica deve essere valutato in base ad “obblighi morali minimi” posti a base di un modello di responsabilità sociale e fondati su valori univer- salmente riconosciuti quali la solidarietà, lo sviluppo umano, il progresso civile e sociale, l’eguaglianza, un processo giusto (8). L’azione internazionale che si è sviluppata per rendere le imprese eticamen- te “responsabili” è culminata nel progetto Global Compact promosso dall’ONU nel 1999 per iniziativa di Kofi Annan, diretto a richiedere alle imprese di aderire a “nove principi universali” nelle aree dei diritti umani, delle condizioni del lavoro e dell’ambiente, con l’impegno di applicarli nelle rispettive sfere di influenza (9).

3. LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELL’AVVOCATO

applicazione di tali principi al mondo delle professioni deriva da una scel- L’ ta di fondo: se la deontologia professionale dell’avvocato debba riferirsi al mercato, attratta dalle norme comunitarie che hanno equiparato la profes- sione legale all’impresa, ancorchè ai soli effetti dell’applicazione delle dispo- sizioni del Trattato relative alla concorrenza, e quindi adeguarsi alle logiche e alle prassi di funzionamento delle attività economiche; ovvero se la responsa- bilità dell’avvocato debba avere come riferimento la società civile organizza- ta recuperando un ruolo che può essere definito di servizio civile (10). L’avvocatura italiana per le sue tradizioni storiche, culturali e sociali ha sem- pre manifestato la sua avversione ad una concezione della professione nella quale prevalgano i caratteri dell’operatore economico del mercato privato dei servizi legali, non necessariamente distinti da altre attività imprenditoriali, e tale posizione si è rafforzata per effetto della costituzionalizzazione del dirit- to di difesa e delle libertà politiche e sociali dei cittadini. Da questa conce- zione del rapporto tra professione legale e società deriva che l’avvocato non debba rendere conto soltanto al cliente o al proprio Ordine, ma anche alla società civile. Alla base della nozione di responsabilità etica e sociale vi è infatti la convin- zione che non sia sufficiente rispettare regole e procedure relative alla pre- stazione professionale, ma sia necessario considerare i risultati: etica della responsabilità significa infatti valutare le conseguenze delle proprie azioni, chiedersi cosa accada se agiamo in un determinato modo ovvero se non com- piamo determinate azioni e nei confronti di chi si producano tali conseguen- ze. Un avvocato può agire nel pieno rispetto delle regole che disciplinano l’e- sercizio della professione, ma se è incompetente o impreparato non tutela l’interesse del cliente e non svolge un servizio socialmente utile. Ciò richie- de che debba soprattutto curare la qualità tecnica e culturale e standard etici di correttezza e responsabilità (11) e che di ciò debba rispondere non soltan- to al cliente o all’Ordine, ma anche nei confronti della collettività. Occorre infatti considerare che le attività che si svolgono in base ad accordi o ad incarichi che hanno ad oggetto servizi professionali nella maggior parte dei casi non esauriscono i propri effetti tra i soggetti tra i quali intervengono; gli avvocati nel processo non sono soltanto i difensori dei propri clienti, ma

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contribuiscono al funzionamento complessivo del sistema giurisdizionale con riflessi evidenti sulla collettività (12). Si è anche sottolineato come nell’esercizio della attività professionale l’av- vocato adotti decisioni discrezionali circa la condotta processuale che farà seguire ai clienti, i quali non sono in grado di valutare nè ex antea nè ex post se l’incarico è stato svolto in conformità all’impegno di qualità tecnica e di correttezza implicito nell’accettazione; si tratta delle cosiddette “asimmetrie informative” che impongono all’avvocato di osservare anche principi etici di carattere generale e standard di condotta e modelli di comportamento da adottare nei casi nei quali vengono in gioco principi etici. La deontologia professionale per essere efficace deve quindi essere coerente ad un sistema di responsabilità etica e sociale, nel quale al principio autore- ferenziale della difesa della dignità e del decoro della professione in quanto tale, venga sostituita l’etica della responsabilità nei confronti della società civile per il rispetto di principi fondamentali universalmente riconosciuti. Di questo nuovo patto fiduciario tra professioni e la società civile si è indi- cato il percorso: abbandonare l’attuale modello di autoregolazione corporati- va per aprirsi a un modello di autoregolazione competitiva, fondato da un lato sull’efficacia della prestazione attraverso innovazione e aggiornamento pro- fessionale, e dall’altro su trasparenza e responsabilità, utilizzando a tal fine i codici deontologici (13). Si tratta di principi che sono in parte accennati nel preambolo del codice deontologico forense, ma anch’essi ancora rimasti allo stato di enunciazioni.

4. UN SETTORE SENSIBILE: L’AVVOCATO E IL MINORE

n aspetto assente nel codice deontologico forense, ma in genere nel dibat- Utito sulla materia, è quello della deontologia dell’avvocato della famiglia e del minore, anche se gli avvocati impegnati in tale settore hanno spesso sot- tolineato la gravità di una tale mancanza. Si tratta di un settore specifico dell’attività professionale nel quale emergo- no con grande evidenza i profili di responsabilità etica e sociale della fun- zione del difensore. La tutela del minore costituisce infatti, da un lato uno dei principi fondamentali delle società civili (14) e, dall’altro, un terreno sul quale per asimmetrie informative, soggezione psicologica, interposizione di soggetti portatori di diversi interessi, si accentuano i profili di discrezionali- tà e quindi di responsabilità dell’avvocato. Le regole deontologiche di carattere generale sono certamente utili anche nei processi che coinvolgono l’interesse dei minori, tuttavia costituisce un dato innegabile di esperienza, sottolineato da quanti operano in questo settore della giurisdizione, che quando in un procedimento è presente direttamente o indirettamente un minore i comuni modelli di comportamento professionale non appaiono nè sufficienti nè adeguati (15). Nei giudizi di separazione e divorzio l’avvocato interviene per la difesa di uno dei coniugi e la sua attività è concentrata sull’interesse della parte che ad esso si affida per tutelare la propria posizione personale; ma la regolamenta- zione del rapporto dei coniugi con i figli, che forma oggetto delle disposizio- ni dell’art. 155 c.c., non ha, nel processo, altra tutela che quella affidata al

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giudice per l’assenza di un rappresentante dell’interesse dei minori, che pure sono le parti deboli e più esposte agli effetti traumatici della rottura familia- re. In tale situazione l’attenzione del giudice verso i minori è inevitabilmen- te riflessa attraverso i contrapposti interessi delle parti adulte, alla cui difesa sono principalmente impegnati i rispettivi difensori. L’interesse dei minori è dunque inevitabilmente filtrato da ciascuno dei genitori, a volte anche stru- mentalmente, attraverso l’esigenza di tutela di interessi diversi, che possono anche rivelarsi antitetici (16). Tale situazione è rimasta immutata a seguito della legge n. 149/2001 che non ha previsto una assistenza tecnica del minore diversa da quella dei singoli genitori. La posizione del difensore assume pertanto connotazioni di grande responsa- bilità per il rischio, aggravato dalla condizione critica in cui versa la giusti- zia, che le norme dell’art. 155 c.c. e lo stesso art. 70 c.p.c., rimangano allo stadio di enunciazioni prive di concrete e meditate attuazioni. L’intervento diretto del difensore è invece previsto nei procedimenti civili minorili ove al minore è riconosciuta la veste di parte attraverso la nomina di un curatore speciale che, se non munito di adeguata competenza tecnica, dovrà essere coadiuvato da un avvocato (17). In questi casi pertanto l’avvocato assume un ruolo specifico di difesa dell’in- teresse del minore che si identifica con l’interesse pubblico ad assicurare a questi uno sviluppo equilibrato della personalità ove non vi provvedano o non siano in grado di provvedervi i genitori. Il ruolo dell’avvocato assume poi caratteri del tutto particolari nel rapporto che egli deve stabilire con il minore imputato di reato. Innanzitutto nel processo penale non è il minore che si rivolge all’avvocato per chiederne l’assistenza, ma i genitori, i quali gestiscono il rapporto con il difensore a volte anche in contrasto con l’interesse educativo del figlio. Ma poichè il vero cliente è il minore, ad esso il difensore deve rivolgersi senza rinunciare al tradizionale compito della difesa tecnica, ma anche stabilendo con il minore un dialogo che gli consenta di razionalizzare i fatti cogliendo- ne il significato e di percepire la dimensione sociale delle azioni compiute individuando i confini tra il lecito e l’illecito senza peraltro assumere il ruolo improprio di avvocato-educatore. Si tratta infatti di coniugare le esigenze di difesa con quelle di recupero e di educazione alla legalità (18). Dal dibattito sul tema possono enuclearsi alcune linee-guida dell’operato del difensore che rispecchiano l’opinione prevalente: - la posizione dell’avvocato nella difesa penale del minore deve promuovere il dialogo con il minore imputato, tenendo conto della soggezione psicolo- gica del minore nei confronti del difensore, in modo che il minore non risulti emarginato dal contesto del processo e non lo subisca passivamente; - la difesa va condotta da parte dell’avvocato in modo che il processo costi- tuisca anche una occasione educativa per il minore; - l’avvocato deve evitare di trascurare i profili tecnici dell’imputazione per soffermarsi sulla descrizione degli aspetti devianti della personalità del minore, che sono in genere inopportuni e non coerenti con il ruolo difensivo; - nell’approfondimento del colloquio con il minore e per attuare le cautele necessarie l’avvocato può eventualmente ricorrere alla consulenza di uno psicologo (19).

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5. QUALE DEONTOLOGIA

uale sia la deontologia dell’avvocato del minore è domanda alla quale risul- Qta difficile dare una risposta alla luce delle norme del vigente c.d.f. se si considerano non soltanto la peculiarità del ruolo difensivo allorchè il processo coinvolga interessi di minori, ma anche la specificità delle varie situazioni. Certamente taluni doveri enunciati in linea generale dal c.d.f. assumono in questi casi particolare evidenza, ma occorre considerare che l’esigenza di tutela dell’interesse del minore che la società richiede, anche e soprattutto nei contesti giudiziari, comporta che il mandato difensivo venga interpretato e attuato in ragione della preminenza che assume sotto questo profilo la responsabilità sociale dell’avvocato. Se alcuni doveri per la presenza di minori richiedono una più rigorosa osser- vanza (ad esempio il dovere di segretezza e riservatezza di cui all’art. 9 c.d.f.), in altri casi sorgono problemi di conciliabilità tra esigenze contrastanti. È il caso in cui l’avvocato del genitore disponga di elementi che provano condotte dei genitori lesive dei diritti dei figli, ovvero quello nell’avvocato del minore che debba individuare l’interesse del minore in presenza di dina- miche familiari che vedono posizioni conflittuali tra genitori; in tali situazio- ni il dovere di fedeltà al cliente può richiedere limitazioni in presenza di un dovere di verità nell’interesse del minore (20). Nelle cause di separazione e divorzio è opinione comune che assumano un ruolo rilevante la capacità di mediazione dell’avvocato poichè la soluzione consensuale dei conflitti tra genitori evita le esasperazioni che si producono nella fase giudiziale e attenuano l’impatto negativo dell’evento sui figli (21). Si è anche affermato che l’avvocato, qualora non sia possibile decidere una linea difensiva protettiva dell’interesse dei figli valutato in modo autonomo rispetto a quello delle parti in causa, dovrebbe rinunciare al mandato: emer- ge a questo riguardo un modello di comportamento inedito e non ricavabile dalle norme vigenti (22). Nel processo penale il ruolo del difensore richiede la conoscenza dei proble- mi del minore e dei fattori della devianza al fine di concorrere con il giudice nella scelta di misure idonee ad evitare che la personalità dell’imputato mino- renne ne esca definitivamente compromessa precludendo ogni possibilità di recupero e di risocializzazione. Non si tratta infatti di evitare in ogni caso l’applicazione della giusta sanzione, ma di orientare la difesa in base ad una corretta valutazione degli interessi del minore, anche se ciò comporta l’appli- cazione di una pena (23). In altre parole l’interesse del minore non deve costituire una alternativa rispetto al carattere razionale della difesa, ma un argomento diretto a perseguire la soluzione più ragionevole di altre in un contesto determinato. Posizione difficile, stretta tra la tradizionale tendenza dialettica dell’avvocato alimentata dalla aspettativa dei familiari per una assoluzione sempre e comun- que, e l’esigenza di una cooperazione di tipo mediatorio e interazionale. I doveri di fedeltà al mandato e di verità nel processo pongono in questi casi delicati problemi di conciliabilità, ai quali si aggiunge il difficile compito di dialogo con il minore affinchè sia in grado di comprendere la negatività della sua condotta e porre così le premesse per il recupero.

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6. ETICA E QUALITÀ: UN RITARDO DA COLMARE

alutando tali problemi sotto il profilo di una deontologia che si inquadri Vnel più ampio concetto della responsabilità sociale dell’avvocato, una esi- genza emerge preminente. L’avvocato del minore non deve essere soltanto preparato sul terreno tecni- co-giuridico, anzi potremmo dire che la sola preparazione tecnica può non costituire un elemento favorevole, giacchè coloro che sono chiamati ad assi- stere un minore debbono avere acquisito una preparazione specifica e pluri- disciplinare, che comprenda competenze di psicologia e sociologia per la comprensione della personalità del minore nelle varie fasi dello sviluppo evolutivo e per penetrare all’interno delle dinamiche familiari (24). La responsabilità dell’avvocato assume quindi un rilievo che trascende la nozione di normale responsabilità professionale e le comuni regole deontolo- giche; poichè nel diritto di famiglia la posizione del minore all’interno delle procedure “resta ancor oggi estremamente fragile” e “rischia di essere piega- ta ad esigenze altrui” (25) il problema delle conseguenze delle scelte difensi- ve si pone non soltanto nei confronti del cliente, ma soprattutto nei confron- ti della collettività. Ne deriva che in una valutazione del ruolo dell’avvocato fondata sull’etica della responsabilità i doveri di competenza e di aggiorna- mento professionale adeguatamente ridisegnati ed uniti ad “obblighi morali minimi” sovrastano e condizionano ogni altra regola. Ed a questo riguardo emergono gravi carenze dell’ordinamento professiona- le e altrettanto gravi disattenzioni all’interno del mondo forense. Il principio della dignità e del decoro del corpo professionale di ispirazione ottocentesca non ha formato oggetto di specifiche proposte di riformulazione nelle molte decine di disegni e proposte di legge susseguitisi inutilmente per l’intera seconda metà dello scorso secolo (26). La giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense, sempre equilibrata e spesso creatrice di un diritto vivente della deontologia professionale, si è tut- tavia formata non soltanto nelle strettoie normative, ma anche in quelle fis- sate dal ruolo autonomo degli ordini territoriali, determinante nel definire quali condotte avessero rilievo di illecito disciplinare. Lo stesso codice deontologico forense, che pure ha rappresentato un sensibi- le passo in avanti in quanto ha attuato per la prima volta il principio della codificazione dei principi in materia, è risultato anch’esso condizionato dal quadro normativo e giurisprudenziale vigente. Da questa evoluzione, e da altri fattori legati all’assenza di una formazione iniziale e permanente dell’avvocato e di una selezione all’accesso, si è pro- dotto un vuoto su quell’elemento centrale della professione costituito dalla qualità e dall’etica del giurista pratico, affidate esclusivamente alle sensibili- tà e responsabilità individuali, che solo di recente il Consiglio Nazionale Forense ha affrontato con la istituzione di un apposito Centro (27). La responsabilità sociale dell’avvocato richiede quindi una presa di coscien- za del problema da parte dell’intera avvocatura e un impegno concreto delle sue istituzioni per colmare ritardi in settori particolarmente sensibili ove più pressanti appaiono le esigenze di conformarsi a principi fondamentali di civiltà.

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NOTE

1) Per una ricostruzione del sistema deontologico in Italia si rinvia ai numerosi scritti in materia di Remo Danovi e ai richiami in essi contenuti; tra i più recenti: il Corso di ordinamento forense e deontologia, sesta ed., Giuffrè, 2000, 319; Dalle regole alla codificazione, in Commentario del Codice deontologico forense, Giuffrè, 2001, 3; e, da ultimo, Il procedimento disciplinare nell’avvocatura e il giusto processo, in Rass. Forense, n. 1/2003, 15; cfr. anche: E. Ricciardi, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Giuffrè, 1990, 317. 2) S. Zamagni, Le professioni intellettuali tra liberalizzazione e nuova regolazione, EGEA, Milano, 1999, 30, il quale annota che l’American Bar Association già nel 1908 aveva adottato un codice etico (Canons of Professionale Ethics) poi aggiornato e ampliato nel 1969 e nel 1983. Il codice deontologico europeo è pubblicato in Foro It., 1989, V, 149 e in Rass. Forense, 1999, 647 3) Tra le più recenti: Cass. SS.UU. 12.12.1995 n. 12723 in Rass. Forense, 1996, 362; 26.10.2000 n. 1135; 10.12.2001 n. 15600; 2.4.2003 n. 5075; vedasi anche: Corte Cost. 12.7.1967 n. 110 in Foro It. 1967, I, 2940, e 11.6.2001 n. 189 ove si richiamano il c.d.f. del 1997 e il c.d. europeo del 1988. 4) Il codice deontologico forense aggiornato con le modifiche introdotte nel 1999 e nel 2002 è stato pubblicato dal Consiglio Nazionale Forense nel novembre 2002. Le modifiche approvate dal C.N.F. il 26.10.2002 sono pubblicate su Rass. Forense n. 1/2003, III, 153. 5) Codice deontologico europeo, art. 4.4: “Informazioni false o suscettibili di indurre in errore. In nessun momento l’avvocato deve dare scientemente al giudice un’informazione falsa o tale da indurlo in errore “. 6) La proposta del C.N.F. di regolamento della formazione permanente è pubblicata in Rass. Forense, 2002, 664. 7) Tale funzione dei Consigli dell’Ordine è indicata come essenziale per la tutela del cittadino utente della prestazione dell’avvocato nell’indagine conoscitiva sulle professioni del 1998 dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. 8) S. de Colle, Gli effetti sociali e culturali della presenza di imprese trasnazionali nei paesi in via di sviluppo: l’analisi dell’etica degli affari internazionali, in Etica ed economia, Nemetria, 1/2000, 113; sui processi di certificazione di responsabilità sociale, R. Serra, L’etica della certificazione, in Etica ed economia, cit., 1/2002, 149; A.M. Petroni, Scienza, etica e decisioni pubbliche, in Etica ed economia, cit., 1/2002, 15. 9) Giulia Crivelli, Global compact: la responsabilità sociale delle imprese secondo l’ONU, in Etica ed economia, cit. 2/2001, 120. Tra i più significativi esempi degli effetti prodotti dalle numerose iniziative internazionali dirette ad affermare la “responsabilità etica” nell’impresa è noto il caso Nike. Quando si è accertato che Nike usava lavoro minorile sottopagato per produrre nel Terzo Mondo le sue famose scarpe e venderle poi in Occidente le vendite sono crollate, e Nike ha dovuto rivedere le sue scelte sullo sfruttamento del lavoro minorile. La Borsa di Londra nel 2001 ha creato un indice apposito, l’FTSE4 Good, per fornire agli investitori informazioni sugli standard etici delle aziende; la stessa cosa ha poi fatto la Borsa di New York. Per ulteriori notizie: G. Crivelli, cit. 10) S. Zamagni, Le professioni liberali nell’epoca della globalizzazione, in Corpi e professioni tra passato e futuro, a cura di M. Malatesta, in

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Quaderni della Rass. Forense n. 7, Giuffrè, 2002, 23. 11) Tali considerazioni erano anche alla base delle conclusioni con le quali l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nella nota indagine conoscitiva sulle professioni del 1998, giustificava la sopravvivenza degli ordini professionali degli avvocati in quanto investiti di un compito pubblicistico di garanzia della qualità tecnica e della correttezza dell’esercizio professionale nei confronti dell’utente dei servizi legali. 12) B. Bortolotti, La competizione regolata nel mercato dei servizi professionali, in Le professioni intellettuali tra liberalizzazione e nuova regolazione, cit., 97; S. Zamagni, ivi, cit. P. Calamandrei scriveva nel 1921 (Troppi avvocati! Quaderni de La Voce): “Finchè nel processo si scorgeva soltanto un conflitto tra due interessi privati (...) l’avvocato si trasformava, perchè il suo cliente vincesse, in azzeccagarbugli; ma oggi, quando si pensa che anche il processo serve a riaffermare nella sentenza l’autorità dello Stato, l’esistenza dei professionisti legali non si giustifica più se non quando si veda in essi dei collaboratori anzichè dei mistificatori del giudice, ufficio dei quali non tanto è quello di battersi per il cliente quanto quello di battersi per il diritto “. Per una visione per molti aspetti analoga, adeguata alla realtà di oggi, G. Cosi, La responsabilità del giurista. Etica e professione legale, Giappichelli, 1998, 280 seg.; V. Olgiati, Saggi sull’avvocatura. L’etica dell’avvocato come ordinamento, Giuffrè, 1990, 131 seg. 13) S. Zamagni, cit. 14) Il principio del superiore interesse del minore è sancito dall’art. 3, c. 1, della Convenzione dell’ONU 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva con legge italiana 27.5.1991 n. 176. Ad essa sono seguite la Convenzione europea sull’esercizio del diritto dei minori di Strasburgo del 25.1.1996 e la Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori 19.10.1996. L’interesse del minore è considerato interesse di ordine pubblico per effetto sia dell’adeguamento dell’ordinamento giuridico interno alle convenzioni internazionali, sia dei principi costituzionali espressi dagli articoli 2, 3 e 31 cpv Cost. cosicchè la giustizia minorile dovrebbe essere attuata al fine di rimuovere sul terreno giurisdizionale gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della personalità del minore. Vedi anche: F. Tommaseo, Il processo minorile e il diritto di difesa, Studium Juris, 2001, 291. 15) M. Taormina e M.V. Randazzo, in Lezioni di diritto minorile, Flaccovio, Palermo, 1998, 161 seg.; S. Rossi, Il minore e l’avvocato tra norme processuali e principi deontologici, in Rass. Forense, 2003/1, 45; ed anche: Atti del primo congresso per la famiglia e per i minori in Roma, in Famiglia e diritto, 1/95, 79 e 2/95, 178 con ampi richiami. 16) Sui profili psicologici nel processo di separazione dei coniugi: G. Sergio, Bambini contesi e processo civile: il contributo della psicologia per la tutela dei minori, in Diritto, famiglia e persone, 1996, 677; cfr. anche AA.VV., Difendere valutare e giudicare il minore, Giuffrè, 2001. 17) Art. 336, c. 4, c.c. aggiunto dal’art. 37, c. 3 legge 28.3.2001 n. 149; C. Cost. 30.1.2002 n. 1; S. Rossi, cit.). Considerazioni critiche sulla legge 28.3.2001 n. 149, laddove prevede l’assistenza legale obbligatoria nel procedimento per lo stato di adottabilità e in quelli sulla potestà dei genitori in C. Sacchetti, La difesa nei procedimenti minorili, in Famiglia e diritto, 2001, 567; contra: G. Dosi, L’avvocato del minore: quali modelli?, ivi, 2001, 668. 18) Sui ruoli e sulla deontologia dei soggetti del processo minorile: C. Panseri,

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Aspetti deontologici del ruolo del giudice, del pubblico ministero, del difensore e del perito nel processo penale minorile, in Difendere, valutare e giudicare il minore, cit. 273. In proposito, tuttavia, le opinioni presentano diverse accentuazioni: R. Danovi, I doveri dell’avvocato nel processo, Rassegna Forense, 2001, 843. S. Rossi, Il minore e l’avvocato tra norme processuali e principi deontologici, cit. In particolare (C. Panseri, cit.; G. Sergio, cit.) da parte degli psicologi minorili si ritiene che l’avvocato, il penalista in particolare, abbia una sorta di incapacità strutturale ad abbandonare una posizione mentale di approccio tecnico della difesa, che rende difficile coniugare in questo tipo di processi le esigenze di libertà e di difesa con quelle di recupero ed educazione. Opinione questa non condivisa dai commentatori giuridici (R. Danovi, op. cit., 843) in base agli articoli 11 e 38 del codice deontologico forense. Ma, forse, si tratta di un problema che deriva dalla genericità di tali disposizioni non sempre adeguate rispetto a situazioni del tutto speciali. 19) Sulle modalità di ascolto del minore: A. Micci, Ascoltare il minore, in Lezioni di diritto minorile, cit., 280. 20) Zamagni, Le professioni liberali tra liberalizzazione e nuova regolazione, cit. 21) Sulla mediazione familiare nei processi di separazione e di divorzio: C. Marcucci, Il ruolo dell’avvocato nella separazione e nel divorzio, Diritto e famiglia, 2/95, 188. 22) S. Rossi, cit. 23) Un’ampia trattazione dei profili psicologici nella responsabilità penale dei minori in: G. De Leo, Attribuzione di responsabilità ai minori autori di reato: un confronto tra gli approcci lassista, punitivo e promozionale, in G. Gullotta e M. Zettin, Psicologia giuridica e responsabilità, Giuffrè, 1999, 267 24) R. Dama, L’avvocato nelle procedure civili del Tribunale per i minorenni, in Minori e giustizia, 2/1995, 40. 25) S. Rossi, cit. 26) La legge 8 giugno 1874 n. 1938, la prima che ha regolato l’esercizio delle professioni di avvocato e procuratore, si limitava a prevedere: “I Consigli dell’ordine: 1° Vegliano alla conservazione del decoro e dell’indipendenza del Collegio; 2° Reprimono in via disciplinare gli abusi e le mancanze di cui gli Avvocati si rendessero colpevoli nell’esercizio della loro professione... “. Il successivo r.d.l. 17 novembre 1933 n. 1578, tuttora in vigore, agli articoli 12 e 38 ha mantenuto sostanzialmente inalterato il testo, ma ha eliminato il dovere di “indipendenza” sostituendolo con la “dignità”. Nessuna successiva proposta di legge ne ha previsto la reintroduzione, e neppure il progetto di disegno di legge sulla riforma delle professioni intellettuali elaborato dal Ministero della Giustizia nell’aprile 2003, che si limita a ribadire i doveri di dignità e di prestigio della professione. Il dovere di indipendenza è previsto all’art. 10 del vigente c.d.f., ma con dei corollari che ne limitano fortemente la portata. 27) Il Centro per la formazione e l’aggiornamento professionale è stato istituito dal Consiglio Nazionale Forense nel 1999. In questi ultimi anni si sono sviluppate numerose iniziative dirette a formare una cultura professionale dell’avvocato della famiglia e del minore, a cura dell’AIAF (Associazione Italiana dell’Avvocato della Famiglia), delle Camere Minorili, e degli Ordini forensi. Anche una letteratura specifica ha dato forte impulso all’approfondimento della materia.

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m delighted to be here. In my entire career as a child’s advocate and adviser as child’s advocacy, I know I will never again speak in a more I’beautiful room. I also may never speak to a more dedicated group of people. Being here, it is impossible not to be excited by the passion being shown by those dedicated to child’s advocacy all over the world. I want to tell you two things about myself which I think will help you under- stand how I wrote my book * and what I may have to offer to you. First, I have been representing children for over 20 years. For the first two years, I was a lawyer at the Legal Aid Society in New York City, representing chil- dren in child protection proceedings. In those first two years, I found myself with about 120 clients at any one time. I did that work for two years and two months and then had an opportunity to become what in the United States is known as a clinical professor, first, at the Columbia University School and then at Yale Law School. My students represent clients as part of their legal education. They are do so under my supervision and, you’d be interested to know, under my license. Second, I’ve thought about the ideas THE CHILD-IN- I’m presenting to you, and the ideas in my book, for the last 20 years. In fact, the book itself is, in a way, a long apo- CONTEXT: logy for the mistakes that I made during these first two years as a law- THE PETERS’ MODEL yer at The Legal Aid Society. For the last three days, I’ve been a full-time tourist in Italy and it reminded me of something I have written about before in connection with child advocacy. I PROF. think I have taken a wrong turn at every street corner between Manuela’s JEAN KOH legal office and the Duomo. But, as the result, after two days, I know much PETERS more about Florence because the mistakes brought me to places I wouldn’t have gone to otherwise. As a tourist, I have always found that I learn the most CLINICAL PROFESSOR AND when I got lost. SUPERVISING ATTORNEY - I think my book comes from the same background. During those two years at YALE LAW SCHOOL, Legal Aid and the 20 years that have followed, I’ve made so many mistakes NEW HAVEN,U.S.A. as a child’s advocate that I hope I have discovered some rich things and I can save you some of those mistakes in your own learning practice. In fact, the US experience offers you many, many different models of representing chil- dren to the point where there is a considerable chaos in the way that the United States represents children but, perhaps, as a result, we can honestly say that Americans have made every mistake that a child’s advocate can make and, therefore, offer you a rich treasure to begin your own path in child’s advocacy. So, what I’m going to do is to explain to you in brief the model that Carla Marcucci has translated for you. It’s entitled the Model of the

* Jean Koh Peters, Representing Children in Child Protective Proceedings: Ethical and Practical Dimensions, LexisNexis 2001

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Child’s Attorney by J. K. Peters and it’s intended to be a road map for advo- cates. The American experience of representing children in child protective procee- dings began as condition of federal funding. In effect, Congress passed a sta- tute that told the States that those states who want to continue to receive fede- ral funding for foster care and adoption services would need to provide a guardian-ad-litem at every child protective proceeding. Like your law, this legislative change was achieved in the United States in less than 25 words. In fact, it was accomplished through a single sentence. The sparse wording meant the law provided little guidance. There was no explanation of what role of the attorney should play, no explanation for how the attorney would be paid, and no explanation at all for WHAT the tasks or even the goals of the attorney were. And so, in typical US fashion, everyone in the different jurisdictions decided to go about implementing the law their own way. There were no seminars like the one we’re having today, no provisions for a nine-month preparation period-just hundreds of lawyers and judges in hundreds of courthouses around the country deciding what the law would mean for them. Imagine, over a period of more than 20 years, thousand of lawyers all over the country, doing the equivalent of what I did last weekend in Florence, walking down the wrong road, turning back and then making a mental note not to walk down that particular wrong road again. And it wasn’t until 20 years later that America started in earnest to reflect on what we had done. That reflection began taking place in 1996. What attorney Carla Marcucci summarised for you is what happened in the last 7 years since then, which is an attempt to think more systematically about which of the practices that evolved are worth retaining and what missteps we should be sure to avoid. What I would like to emphasize in my summary is that there are two false dichotomies that you can learn from the American experience and one true one. Let me start with the false ones since I gather this is where your course began in September 2002. The first false dichotomy is the dichotomy bet- ween best “interest” and “wishes.” This juxtaposition will trouble you throu- ghout your entire career as a child’s attorney. If you decide the goal is to represent the child’s wishes, then you will find yourself tormented before going to sleep at night trying to decide whether what the child wants is best for him. And if you decide the goal is to represent what is in the child’s best interest, then the opposite will be true. You will be tormented, wondering if you disappoint a child who wants something else. What my experience has taught me is that those two models of representation work out remarkably similarly in practice. But I would urge you not to frame your discussion of the role of the child’s attorney as between best interests and wishes because I think you will find that this way of thinking ends up not being helpful. Grand concepts like “best interests” and “wants” rarely appear so pure in practice and can be needlessly complicated in theory. The model that I plan to take you, which deals with the “child in context” will, I hope, help to demonstrate the unifying concept that bridges this dichotomy. The second false dichotomy to avoid is the “theory versus practice” debate. In the United States, for many years there was a great divide between the

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lawyers, those who appear in court every day representing a high number of clients, as I did for Legal Aid, and the professors who, it is imagined, are con- tent to write their books in comfortable air-conditioned offices, with no idea what it was like to be in the trenches. Now. I’m one of those professors, I have one of those air conditioned offices and I know that my main inspira- tion has been those days in the trenches. But I think that it is unnecessary for us to play out the anger and frustration of debating whether one person is suf- ficiently concrete and practical and whether another is sufficiently systema- tic and principled. Again, I think there is so much more that unites us than divides us, that it is important not to get caught up in false rivalries between theoreticians and practitioners. I hope that each practitioner here can be thankful for every law professor who can spend time or sorting out this mate- rial for you . And I hope all the writers and thinkers can be grateful for those who every day get out and face the stress of doing this demanding work. These dichotomies do not offer a useful analytical framework. I believe that the true enemy in this work is what I would call “Acontextual lawyering” or “No-contestual lawyering”. I believe that the real divide in the profession, and the one worth fighting over , is the divide between those who represent children based on an impression of the child reached without intensive stu- dies of any individual child’s life and those who attempt to understand deeply into the unique experience of each of their clients. So, I will call the first model, the impressionistic non-encountering of the child, “acontextual law- yering,” and I will call the second “contextual lawyering”. Whatever model the Italian Parliament should choose for you and whatever practical model the Italian Bar should develop over time, I urge you to resist the acontextual model: there is nothing more painful for those who love children to believe, as at one point I believed as a legal aid lawyer, that despite my great dedica- tion to children, I was representing them as if they were cookies, all shaped by one identical cookie-cutter. I’d remember my clients by category, not by name. I found that I would con- fuse them in conversation not distinguishing one child from another. I came to feel that this was the greatest injustice that I could do to my clients and that kind of acontextual lawyering led me to brood for over ten years about what I could have done better. In other words, the model I am advocating for now suggests a way to promote contextual lawyering by members of the Bar. It is necessarily a model that presumes some level of resources and time. Throughout the time I was writing my book, people would approach me and say things like, “ How do you know what’s like to be a legal aid lawyer?” Or, “Tell us to represent a child in 30 minutes, tell us how to interview a child in five minutes, tell us how to understand how 90 clients are different from each other in a 8 hours work day.” Every day I went to bed thinking maybe I should do that: help lawyers survive an impossible job a little easier. What I felt called to write about ideal lawyering: what we would do if we had the resources and time. I have to say that some parts of the models are time con- suming but I can honestly say that there are busy child advocates who can and do employ most of these principles in the every day life. In fact these principles, I believe, can be said to be a catalogue of what the best practitio- ners in America have been doing for many years. So, I think I have had the

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luxury and time of trying to organize this body of work into categories that may be able to be summarized in a book or a speech. I believe that these prin- ciples, some of them or all of them, are already in practice around the world and I urge you to consider how they can help you undertake contextual law- yering for children. So, let me begin with the model; let me again repeat that whether your Parliament acts or not, I believe this model can be helpful for you. If the Parliament does not further clarify your role as a child’s attorney, I believe that you should play a role as close to the traditional lawyer as possible. If the Parliament should specify that your role as a child’s attorney is to repre- sent the “best interest of the child”, you will see that there are some additio- nal steps that you have to take that go beyond what a traditional attorney would take. I believe that either of these roles can be undertaken while still being faithful to the idea of the “child in context”. So, let me start with the concept of the child in context. I want to give you a definition of the concept and a few examples and here is the definition: “ the child in context is the child understood on the child’s terms in ways that the child would be able to understand and endorse”. I remember one of my prou- dest experiences as the child’s advocate was when I practiced a difficult legal argument in front of my client. In the United states, child clients do not typi- cally attend the court proceedings that determine their welfare so it has been my practice to do what we call a moot in front of the client, where I let the client see exactly what I intend to say in front of the Judge, to make sure that the client feels it is satisfactory. And I remember describing a client and the client sitting back, he was wearing a baseball cap, turned back and he said “ Yup, that’s me!”. Some people ask how can a baby be a “child in context,” how can an infant be seen from the infant’s own point of view. Well, I recall in my book the moment when I first become a mother. Two days later I was leaving the hospital with my child and I said to the paediatrician: “How do I know when to call a doctor?” and the paediatrician said: “ Oh, when you know she has fever, she doesn’t eat or when she does not seem like herself” and I said to myself: “ I don’t know what he meant by “seem like herself.” She’s just a litt- le baby, what does that mean?” But about one week later, my child who had already developed a routine for sleeping and eating, had a day that was com- pletely different. She woke up at a different time, she was not in the same smiling mood-she wasn’t acting like herself and I said: “She’s not herself. Aha! I get it!” For babies, actually it is quite easy in some ways to start to figure out as the child in context: you look from the child’s eyes and say, “Who takes me to my bed and takes me out of it ? Whose hands feed me? Who changes my dia- per at the end of the day?” That perspective is actually quite concrete and easy to grasp and actually in other parts of the book there are different kind of ways to organise this mate- rial. I suggest, for instance, that attorneys for children start by figuring out their client’s daily and weekly schedule. I don’t know if Italian teenagers are busy as American teenagers but sometimes American parents just barely sur- vive the week of their child: these days my daughter needs to go to the bal-

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let, this day she has a piano lesson. Reconstructing the clients weekly routing helps the lawyers understand the child’s life experience. Ask “what do I know about this child that makes him or her unique, that separates this child from every other child that I represented in the past and in the future”. Until you can answer this question, you have not yet grasped the child in context. Now, in a well-run judicial system, lawyers should represent children very, very early in a case so, for instance, attorney Truex will tell you later about the experiences in the Australian system where I understood it is standard practice for children to meet with their lawyers the day they are removed from their home. In the system in which I practice, some children do not meet their lawyers until over two weeks after they have been removed from their home. The lawyer in the Australian system is what I would prefer as a model: but how do you represent a child in context when you have 10 minutes and have met the child for the first time? And so what we develop in this model is what I call the three defaults which Mrs Marcucci has translated “le tre regole generali”. I don’t know if my Italian pronunciation is proper but the word I used in English, “default”, is the same word that you use in a compu- ter; when you get your computer, all the programs have certain defaults; if you don’t change the default, your pages will be oriented like this, up and down, your margins will be set this wide, etc. What I suggest, at the begin- ning of the process when you don’t know the child and don’t have time to know the child well enough, is that you use three certain defaults until you know the child in context. The first default, “the relationship default” simply requires that you should meet your client. Now, if you think about your practising with adult clients, you’ll see that there is nothing revolutionary about this. Would you ever think or did you ever feel comfortable representing a new client, having never met him? Or perhaps a better question is: would you ever feel comfortable being represented by a lawyer who had never met you? It’s kind like being treated by a doctor who’s never examined you. Now, this small simple, truism con- cept for an adult lawyer has for some reasons seemed a revolutionary concept for children’s lawyers. In United States there are many, many, many children who have been represented without ever having met their lawyers. I have been one of those lawyers. This is a mistake that I would advise Italy to avoid. So, I suggest that, unless there is some overriding reasons to do other- wise, the default should be to meet with your client as soon as possible when you represent a child. This is the important first step toward learning who the child is in context. The second default is called “the competency default” and I now realize that my use of the word might be confusing. Of course, I want the lawyer to be competent but this competency applies to the child: the idea of the “compe- tency default” is that you assume that the child is able to contribute to your representation until you have determined that he can’t. There are some limits to this. So, for instance, if you are representing a one-year-old child I don’t think you would have to go into detail with him about his options for place- ment. However, if your client is, say, four instead of two, I believe that the child has at least some capacities to understand what is happening in his case. I recall right now a client who I’ve recently represented, who’s three years

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old, and we were in the process of implementing the relationship default. We went to see her and when we got to the door, she went and got her suitcase, put her clothes in it and came down. She was at her foster home and what we later figured out was that what made her do this was that we three women, my students and I, drove up wearing professional clothes. It turns out that three strange women brought her to the foster home and so we wondered whether she assumed that someone had finally come to pick her up. We had not said a word but there was no question in my mind that this three-year-old understood a remarkable amount about what we were doing there. And so, it would be crazy for me to say that this child had no competence to contribu- te to our relationship. I was quite sure that I had just seen something very, very significant about what she believed and how she saw the world, namely that she was living at her foster home only temporarily, waiting for the moment that someone came to take her home. One thing to keep in mind is that you don’t talk about competency globally. I can be a mildly competent flute player and yet extremely incompetent when it comes to speaking Italian, something I’ve been reminded of this week. So, you wouldn’t deem me competent or incompetent globally; you would iden- tify and accept which subject matters I’m competent in and which subject matter I’m incompetent in. I suggest you to do the same for your children clients. The analogy I use is the “dimmer switch”. In the United States we have at least two kinds of switches for lights: one, the traditional kind, just lets you turn a light on and off. I think in the first ten years representing chil- dren, we thought that the concept of the child’s competency was like that: either “competency for everything” or “competency for nothing.” But there is another kind of light switch in the United States, which we call a dimmer switch: a dial that allows you to adjust the light from completely dark to com- pletely bright and all the different levels in between. So, I suggest that you look at the child competency as a dimmer switch. One child may be 72% competent another 21.5% competent. But for both children, your duty is to explore the competence and take advantage of it where it exists. So even if my three years old client was not competent to understand the legal procee- dings, I think she was actually at least 50% competent because she clearly had a strong view regarding the outcome of the proceeding, which was her central concern. The third default, “the advocacy default” should be a truism for any attorney representing an adult. The advocacy default says the goal of your representa- tion is to get what your clients wants. What is a lawyer? A lawyer is someo- ne who tries to get what your clients wants: so, in these early days before you know who the child in context is, your goal is to advocate for what the child wants. As I said, if we were lawyers for adults, this statement, that a lawyer’s job is to serve the client’s wishes, would be too obvious to consume your time. Yet, lawyers and writers have debated the same proposition as applied to a child’s attorney in the United States for many, many years. My suggestion is that at the beginning you have a default to represent the child’s wishes. Now, if the standard in the law is changed so that you are directed to represent the chil- d’s best interests (and not wishes), then, of course, you would need to do that.

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But later in my talk, I will argue that done correctly, representing a child’s best interest is remarkably similar to representing her wishes. So, to summarize this portion of my model, I have argued that child’s advo- cacy should be premised on three defaults. Lawyers should operate with a “relationship default”, which requires that the lawyer and client should know each other; the “competency default,” requiring you treat your client as com- petent until you are shown that she is not - and even then, to try and recogni- ze areas that a client can be competent in certain areas - and the “advocacy default”, affirming that the default role of child’s attorney, like that of an adult attorney, is to represent the client’s wishes. The second part of the model is called the “ three principles”, I would call them the three umbrella principles. These principles should serve as guides to you in the rough and tumble of your work, those moments when you are having the worst day of practice that you have ever had and the hardest case for the hardest client with the hardest judges that you have ever had and you just say: “ Oh my God, what am I doing, I can barely remember my name; what am I supposed to be doing here?” The idea of the three principles is that one of the three principles is supposed to save you at every moment, making sure that you don’t lose your way. The first one is “to revolve all of your actions as a child attorney actions around your developing view of the child in context and the theory of the case”. I don’t know if “the theory of the case” is a term of art in Italian law, but even if you haven’t heard the term, I think you have done it many times. The theory of the case is the story you tell the judge that convinces the judge to rule in your favour. The key to doing this is that it really is a story, so you do not tell the judge about “article 3 of law 149,” but instead you say, “This mother should receive custody because she has fed, clothed, protected and raised her everyday of her life.” That’s the story that you should tell them. In my view, this is how lawyering takes place, by telling persuasive stories. There are two stories that every child advocate needs think about. One is the story that you would tell the judge that would convince the judge to rule in your favour. This is the traditional lawyer’s story. The second story is the story of the child in context, the story where your client would hear the story and say: Yup, that’s me !”. Now, my favourite cases as a lawyer are those where the two stories are the same. The most beautiful moment is when the story that would convince the judge is the child’s authentic story. Then your job is straightforward: by making an authentic presentation of your client to the judge, you have also made the most compelling argument available. I’m glad to say that my experience over 20 years has been that for the vast majo- rity of cases, the child in context and the theory of the case, at least, overlap- ped and sometimes turned out to be identical. And those are beautiful moments because you believe that you’ve been true to the client and you believe you are making a compelling presentation to the judge. And let me just say one thing about this: detail makes these stones compelling There was a movie that came up this year in US called “ The Hours”. Have you ever seen that movie? Actually, it’s a very sad movie so be prepared. One of the characters is planning a party and she’s the hostess, an extraordinary hostess, and throughout the movie you watch her as she goes to buy her flo-

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wers, to buy her food, and prepare it in the kitchen. The things I remember about that movie are which flowers she chooses and how she arranged the food on the platters. Sometimes these minute details are the most compelling, not just in movies but in court. The judge has heard about a hundred of chil- dren who have been abandoned instead of sleeping every night with a stuffed frog doll and a picture of her brother? That’s the thing that the judge would remember. So, one of the reasons why I think child advocacy uses this model is because when the theory of the case becomes richly detailed, the judge for- gets he’s sitting in the court room, processing 15 children per day and beco- mes deeply, deeply interested in that child. Let me give you just one brief example, a sad example which is also in my book. I represented a client who I didn’t see. In other words, I violated my own relationship default. The reason I didn’t see her was that she lived very far away in a foster home; she has been abandoned in a hospital, she had lived with her foster mother her whole life, for an entire year, and the foster mother wanted to adopt her. There was absolutely no indication that there was any option that was better for the child. So, I thought: “Oh good! On this case I can save time.” I never saw the child. I called the caseworker to ask her to bring the record of the case to court so I could quickly read it over in the 5 minutes before I went to the Court. I remember that I had 120 cases at the time. When I came to the Court I had 15 cases that day. The caseworker kept waiting while I bounced around dealing with my other cases. These others seemed more important to me, in part, because I could see the face of the children - the faces of my clients. At the end of the day, this caseworker had been waiting all day and we were finally getting ready for Court and I said:” May I see the case record?” and she handed me a case record, that was, I’m not kidding, five binders. I thought “why five binders, on such an easy case?” Then, she told me that this child’s kidney’s had been malformed, that she had undergo- ne an inner organ-donation that was very rare for an infant of that young age, and that her doctors, social workers and her foster parents had worked months and months with this child to get her an organ donation which she eventually flew across the continent to receive. I just stopped and just said, “Tell me about this child” and the caseworker, who I didn’t know, started speaking to me. I had made her wait for five hours that day, but she was a very kind person. She told me the whole story, of the kind foster mother, of this child, of the doctors, of the amazing rescue, of the kidney that was found in another infant who had died in a very tragic acci- dent, how grateful the child parents were when they heard organ would have saved this child’s life, and we cried together in the waiting room. That’s the day the relationship default was born in my mind. I had forgotten that this child was an unique person with unique needs, so, when we went into Court, the judge said: “ Oh, this is a quick case”, I said that I needed one extra minute. The judge rolled his eyes. I said “I want the social worker to tell you the story of this child” and the social worker told the story. At the end ever- yone in the Court room, the judge, the Court reporter, everyone was crying about the miracle of this child. I think that was the moment when I thought we need a model of representation which recognises the miracle of each child

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and only that is properly respectful in a country that loves its children. When you revolve your representation around a unified theory of the case and the child in context, this is easy. In a bad moment, when you are sitting having the worst moment of your life, the words that should come out of your mouth are something about the theory of the case of the child in context. No issue is too small. So, for instance if another lawyer on the case comes to you and says, “I need extra time to prepare my papers” you should immedia- tely say to yourself, what’s my theory of the case? Well, if my theory of the case the child is where she is supposed to be; so there’s no problem with time. Then you say: “ Ok, there’s no problem, take an extra week.” In another case, your client is in the wrong place and so when people ask for extra time you need to say “I’m sorry, this child has no extra time. You’ll have to stay up all night to draft those papers if you want to file them.” In short, your theory of the case and your view of, your child in context, need to govern even the simple legal decisions that you make. It’s more difficult and we will talk better specific cases when your theory of the case and your idea of the child in context are different. Actually, most of the book was writ- ten assuming that they were the same and that you could revolve your repre- sentation around either. But when I realised that there were very important exceptions in which the theory of the case and the child in context were dif- ferent, I thought: “Oh my Goodness! How can I revolve something around two different things?” I was in great desperation until I remembered the movie “Star Wars.” I’m a great movie fan as you can see and you may remember in the movie Star Wars, Luke Skywalker lives on a desert planet where there are two suns, not one but two, so his dry planet revolves around both of the suns. I started to wonder maybe this is why representing children seems so awkward sometimes because when you are in this side, when you are close to the child in context, the child in context has a gravitational pull that is stronger and the theory of the case is weaker. So what the judge thinks is a little bit less important. At other points, what the judge thinks seems more important than what the child thinks. Because of these two pulls that the role of representing a child is so difficult and challenging. So this afternoon I’ll show you an example, a case in which the child in context and the theory of the case do not match and you’ll see some of the difficult choices that are made. Let me also tell you quickly about the other principles. The second principle is simple: “respect your client whether your client is absent or present.” The goal is to never speak about your clients outside of their presence in a way that you wouldn’t feel totally comfortable speaking in their presence. So ima- gine that you went to Court and you were talking about your client, you tur- ned around and your client just happened to be there having heard every- thing. Could you feel proud and comfortable about what you said? Again, this may not sound particularly revolutionary, but if you go to the Family Court in my country, you would find that the level of disrespect with which clients and their families are discussed can be downright painful. Sometimes someo- ne says: “”Oh, my client is a criminal” or “my client is out of control”. We can discuss people in these very simplified stereotypical labels that you would never say to the person’s face.

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If I could change only one thing in US all over the country, I would change this because it would totally change the discourse in Juvenile Court (and it wouldn’t even require additional time or resources). I don’t know if they do this in Italy but in the US sometimes professionals would talk about clients as just categories. In this case, mom had a problem, drug use, then went to jail, the father is out of the picture and the child is learning disabled. Does it sound familiar to people talking in generic terms without using the names? As a teacher later, I forced my students to say: this is Peter, and Peter has a disability; this is Rebecca and Rebecca has an addiction. They must call the clients by name. I just remind them that this is not case 121 on your desk but a unique person and a unique family. You have to remember their names. I told this to a student and they just stopped and said, “ Oh, my God! Could I ever imagine being represented by someone who couldn’t remember my name?” So, again, this simple rule respect and reminds you of the child in context and, for all that, it does not take any additional time. And the final principle, and this maybe one of the most important. is to cul- tivate the right relationships with other people in the child’s world. The para- dox of the child’s attorney is that the most successful attorney comes in, gets to know the child, does her work fast, and then gets out just as quickly. In fact, the first chapter of my book is called “Entering the child’s world” and the last chapter is “ Leaving the child’s world”. It’s important for lawyers to arrive and then to get out. Imagine if there were a lawyer for your child who was just continually in the life of your child. I think that you would feel uncomfortable about it. For most of our clients, if not all of them, success is when a lawyer leaves. The ongoing relationships in the child’s life are much more important than we are. So, for instance, the child’s paediatrician, the child’s priest, the child’s teacher, all of these people at the time of a representation, would be useful resources of information, of ideas. But our job is to do our work in a way that leaves those relationships intact and strong, and does not undermine them for the sake of legal strategy. A classic example is when you need an expert. Often at the trial if you try to prove that abuse exists, the best person to call will be the family doctor but that family doctor needs to be trusted by the parents a year from now and two years from now when the family is back together and the child has an emer- gency. So, it might be better to try not to call the family doctor because it is much more important that the family doctor continues to have a good rela- tionship with the client and the family than that you are able to put on the best possible case. Almost always, there are other available professionals who are not involved in a long-term way with the family, Most important, of course, is thinking of your relationship with the child’s parents. This could be an entire training session on its own but it’s very important to treat that person with respect, especially at times when you are hearing about the terrible things that this parent is alleged to have done. Someday, we hope, the case will end when you leave the child’s world and the parent stays. Imagine the reverse! When you are in Court and is the worst day of your life and practice and the client’s mother is driving you crazy, you just think: “ Oh my God! I have to cultivate a right relationship with this per- son and it might mean I’m going to take a deep breath and walk away befo-

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re I say to her all the nasty things that I’d like to say because she’s more important - by a long shot - to this child than I am”. So, as you could see the model to represent children makes you humble because as much as you care for the child, you will always be less important. Imagine a child for whom the most important person in life is the lawyer. Can you imagine a more impoverished life? The idea of a child saying, “my best friend is a lawyer, the only person who understands me is my lawyer”; stri- kes me as very sad. No, what I would prefer is for the child to think, the per- son who loves me is my mother who had a hard time but we got back toge- ther and by the way there was a nice person, a lawyer, who I think came and left at one point, oh, she’s nice too. I know I’m at the end of my time, so I’d like to walk you very quickly through the model which is described more fully in the book. In short, there are three main phases to representing the child. The first is entering the chil- d’s world. Here is where you figure out how to introduce the child to the pro- cess. The main thing is to keep in mind that you are probably entering the child’s world at a time of a great fragility and vulnerability, especially for clients who have been just taken out of their home, so you must exercise the greatest care and thoughtfulness for the children who have been traumatised. Attorney Marcucci said, and I agree with this, that you should, “Make sure you don’t make it worse in trying to make it better.” Often that means going to their home, consulting with people who know them about the best way to talk to them. I worried that I thought that perhaps this child who had packed her bag, perhaps we could have prepared for her reaction by talking to her social worker beforehand. We had called the social worker but were unable to reach her and I think if we had waited for that call we could have been more prepared for the child’s reaction. But entering the child’s world has two parts: one is you getting to know the child in context and the other is you informing the child, up to the limits of her competence, what she can know about the proceeding. The chapters in the book help you with some concrete ideas about how to do this. The second main phase is a repeating phase and it’s making decisions with the child-client. And in doing so, there is a series of steps that I suggest you always to go through. You start with this interaction between child and you, helping the child understand what he can know about the legal process and learning about the child in context throughout the representation. Then, at a given moment before you go to Court, you take mental snapshots, photo- graphs of the child at this moment and ask yourself, what about the child con- cerns at this moment? So, I suggest that as a default, you see the child every time he goes the Court and that you never go to Court without having recently seen the child. Even if it seems time consuming, it would save your time in a long term because it would save you all the time you prepare for one plan, get to court, and find out that everything has changed. You are prepared to argue that the child stay home but learn in court that the child actually ran away four days ago. You need to be up-to-date. The fourth step is to explore all available options. This can be a very creati- ve step or a very depressing step for lawyers for children. The idea is to make a list of every possible option that is actually available for this child, so, per-

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haps in the case of the mother with a drug addiction, the options are: the mother rehabilitated, the mother living with another relative who can help her, the child’s very concerned aunt, a neighbour and a neighbourhood that the child knows on a daily basis. And if there are many community options for the child, the other question is: what about foster care? Examine in your community what actual options does foster care offer? So sometimes you see that the state has many foster homes or sometimes you see that the state is extremely overrun and has a very few places available but it’s important to know about the actual place the child might go to, not foster homes in gene- ral, and to know what the options are. This is a very important step because you counsel the child about the alternatives and say: “here are the five alter- natives: what you think we should do” and the child might say: “ well; I defi- nitely don’t want to go to my neighbour and I definitely don’t want to go to foster care” so, the lawyer says: “ Oh, what about the two left: to go back to your rehabilitated mother or to go here” and then you talk about those. The idea is always to start from the universe that contains all alternatives up to the point until you have a few options left. If you have a child and your role has not changed before July 1st, I suggest that you stop there with any client who can talk to you. If your client says to you, “here are the options that I feel comfortable with” and you feel like you have counselled them to the limit of your competence, you should stop and you present their preferred option to the Court. If they have two opinions under consideration (“I want to go home or I want go and live with Lucia”),. you can present both of them. People ask me, “What if my client has two years old and cannot talk or if we should represent his best interest?” Well, in that case I would recommended you to go through this additional step and stop at any point where only one actually available option remains. One is learning about other disciplines. In our country there are a number of very, very important interdisciplinary resources. An important one is about the experience of Africans-Americans in the US which is critical to child’s world practice. Interdisciplinary lear- ning, even bringing in formal experts, can be a critical step if there are many options and you don’t know how to decide. Again, when you do this, be very, very careful not to damage the ongoing relationships in the child’s life: go to the family doctor or consult the family doctor but do not make the family doctor take actions that may hurt his rela- tionship with the family in the future. After that if you still have additional options, you can return to the child and explain the remaining ones and then, at the end, whatever is in your calendar, you take it to the judge and the judge says, “What is in this child’s best interest?” and you explain that each of these comport with the best interest, that the child doesn’t have a preference, and that, “I don’t see any difference among them, so you decide, Judge.” It is my strong view that is not appropriate for the lawyer to decide about the child just because it is easier for the lawyer to advocate for a single resolu- tion. If there are principled reasons to support actually available alternatives, there is no reason to eliminate them but to bring them all to the judge at the end. So that is the model, a decision made with the client and as you see the best

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interest model is the same, just adding the additional step of the interdiscipli- nary learning and additional options. So this is why, in my view, “best inte- rest” lawyering and “wishes” lawyering are not that different in practice. The only difference is whether you are working contextually or non-contextually. I’d like to close with two remarks: one is my book includes an entire chapter on how to say goodbye to the child. One thing, Americans are terrible at saying good bye. I hope to be better with my own host today in doing so but lawyers are terrible at saying good bye too. A lawyer, at least in my country, thinks a case is over when you win or lose but that’s not true for a child. If you have done your work right, you have created a connection with the child and the child would be confused if you just leave without saying good bye. So I encourage you all, as you start the practice, to think about the end point and I hope that this chapter, if you are able to locate it, will provide you some kind of guidance. I’d like to end by expressing my tremendous gratitude to AIAF, in particular to Carla Marcucci and to Manuela Cecchi for their tremendous work in put- ting together this presentation. There are three things that I leave Italy with, that I have learnt about child representation and I’d like to tell you quickly what they are. One is that the United States does not pay nearly enough atten- tion to International Law. The first thing that the United Stated needs to do is to become part of the system of the International law. I’m sorry to be a repre- sentative of one of two countries that have not even signed the US Convention of the Rights of the Child. One thing I’ve learned is the tremen- dous inspiration that this Convention can offer. Second, I think that the com- bination of preparation and hospitality is a tremendous model for the lawyers for children and is the perfect resource for the dedicated lawyers for children. And finally, what I’ve learned today and I’ll remember, is the dedication in representing children. I remember how exciting it was, 20 years ago when I first did the work, how frightening I was and being with you all, talking to the AIAF representatives, I feel like I’m able to recapture that for myself. So those are three presents that Italy has given to me about the child advocate and I thank you very much for them and the chance to be with you today. Thank you very much.

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1. A PERSONAL VIEWPOINT SOMMARIO 1. A personal viewpoint have been invited to present this 2. Introduction paper because I am qualified as a 3. The Fundamental Questions lawyer in Australia and in England 4. Victoria: The Children’s Court I 5. The Guidelines (Children’s Court of Victoria) and Wales and have experience of 6. The Duty Lawyer Manual (Legal Aid Victoria) practising family law extensively in 7. New South Wales: Representation Principles for Children’s both jurisdictions. At this stage of my Lawyers career I do not claim to be a specialist 8. Australian Federal Jurisdiction: The Family Court of Australia in child law as I spend most of my 9. Australia: A Summary time solving complicated international 10. The System of Child Representation in England and Wales divorce problems for rich clients. In 11. Conclusions my younger days, however, I was a Appendix - Websites legal aid lawyer in Melbourne respon- sible for representing children in the Family Court of Australia and also for developing policy and training for child lawyers in both private law and public law cases. My court experience LEGAL REPRESENTATION was limited to private law cases, although in the public law sphere I did OF CHILDREN a lot of work to help bring about reforms in the Children’s Court IN AUSTRALIA system in Victoria, particularly through my work as Chair of the Law AND ENGLAND Institute of Victoria Child Welfare Committee in the mid 1980s. Since moving to London in 1989 and qualifying as an English solicitor I have not been involved in representing children at all. However, as a mem- DAVID ber of the National Committee of the Solicitors Family Law Association of TRUEX England and Wales (SFLA) for the past three years I have worked frequently with the English Children Panel specialists in their struggle to help develop SFLA ACCREDITED SPECIALIST a coherent system for child representation in public law cases. Also, as Chair FAMILY LAWYER, of the UK Host Committee of the World Congress on Family Law and the LONDON, U.K. Rights of Children and Youth, held in Bath, England, in September 2001, I became familiar with the problems faced by child legal representatives in many jurisdictions throughout the world. As a policy consultant rather than a case worker I am familiar with the current crisis in England and Wales in implementation of child representation through CAFCASS (Children and Family Court Advisory and Support Service) and I feel qualified, despite my lack of practical experience, to offer some views on why the current system in England and Wales is not working effectively. I ask you to bear in mind my professional background as I address the impor- tant issues which face you in this workshop. I do not speak to you as a deta- ched academic or theoretician but as one who has seen how effective child representation systems can work and also how some systems do not work as well as others. I hope my presentation will offer you some simple and prag-

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matic guidance as to what you should do in Italy as you develop a child repre- sentation scheme.

2. INTRODUCTION

ow that I have confessed my personal bias and explained the limitations Non what you may expect to hear from me, I will go on to consider the models for legal representation of children in Australia and England. The fol- lowing limitations on the scope of this presentation should be borne in mind: - It is concerned mainly with public child law, that is, where the state inter- venes to protect the welfare of the child. Contrast private child law, which involves disputes between parents and occasionally other relatives. - I will mention some private child law situations where relevant. Much of the theory and practice in relation to the various models of child represen- tation and training children’s lawyers is common to both public and priva- te law situations. Indeed, sometimes public and private law issues conver- ge in a particular case: this can lead to complications where two or more lawyers represent different aspects of the child’s case. - In relation to the United Kingdom, this presentation will cover only the law and practice in the jurisdiction of England and Wales. Scotland and Northern Ireland have different legal systems within the UK but these will not be covered in this presentation. - In Australia, one must distinguish between the Federal and the State juri- sdictions. The Federal jurisdiction of the Commonwealth of Australia covers children in relation to private law matters: residence/custody, con- tact/access/visitation and parental responsibility, that is, disputes between parents. The State jurisdiction covers children in relation to public law and each State legal system is different. I will focus on the jurisdictions with which I am most familiar, the Federal jurisdiction and the State jurisdic- tions in Victoria and New South Wales.

3. THE FUNDAMENTAL QUESTIONS

Does the child’s lawyer act only on instructions (direct representative) or 1.does the role involve acting in the child’s interests (best interests repre- sentative)? 2. How many lawyers should a child have? In Australia and England several different models of child representation are used:

- Children’s Court of Victoria (State jurisdiction, public law) This model provides for single lawyer representation with the lawyer advo- cating only the child’s instructions and not the child’s best interests. Advocacy of the child’s best interests is undertaken by the State government authority responsible for child welfare, in Victoria called the Human Services Department (HSD). Where the child has no capacity to instruct a lawyer (for example, when the child is too young) then no lawyer represents the child’s instructions in the Victorian model. Sometimes the HSD reports to the

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Children’s Court on the child’s circumstances but there is no legal advocacy on behalf of the child incapable of giving instructions. - Children’s Court of New South Wales (State jurisdiction, public law and sometimes private law). This model is similar to that in Victoria but the child’s representative may act in the child’s best interests if the child is incapable of giving instructions.

- Family Court of Australia (Federal jurisdiction, private law) Here the model is also single lawyer child representation. The child’s lawyer informs the Court of the child’s wishes but acts in the child’s best interests.

- England and Wales: The Children and Family Court Advisory and Support Service (CAFCASS) is an independent government funded body responsible for providing legal representation in the child’s best interests in public law cases. The English model provides tandem or dual representation. This means a CAFCASS offi- cer, called the Child’s Guardian, represents the child’s best interests and a Law Society Children Panel solicitor acts on instructions from the child. If the child is not sufficiently mature to give instructions the child’s Children Panel solicitor takes instructions from the CAFCASS Children’s Guardian. Where a mature child’s instructions conflict with the Guardian’s view of best interests, the child’s Children Panel solicitor must follow the child’s instruc- tions even if the solicitor does not agree with the child (Solicitors Family Law Association Guide to Good Practice for Solicitors Acting for Children 6th edition, January 2002, page 6, paragraph B.3.2).

This basic summary of the four models I am considering glosses over many permutations, for example: - Where the child is involved in private law and public law proceedings at the same time. - Where the child is involved in public law and criminal law proceedings at the same time. - Where the lawyer represents more than one child in a family. - Where the solicitor representing the child briefs a barrister to appear at the Court hearing(s). - The special role of the solicitor representing the child in contested adop- tion proceedings. This presentation will be confined to the simplest case scenario for ease of explanation, that is, the case where the solicitor represents a single child in straightforward public law proceedings.

4. VICTORIA: THE CHILDREN’S COURT

hat follows is a brief description of the practice in the Children’s Court Wof Victoria, as set out in two recent publications: - Guidelines for Lawyers Acting for Children and Young People in the Children’s Court (Victoria Law Foundation, 1999). These Guidelines can be downloaded from the website of the Victoria Law Foundation at

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www.victorialaw.org.au. - Children’s Court Duty Lawyer Manual [draft] (Victoria Legal Aid, 2003). Because this is still a draft being worked on I regret that I am unable to circulate a copy of the Manual. I am hopeful that the Manual will be in its final form within the next few months, at which time a copy should be made available to AIAF. I will say at the outset that my personal experience in dealing with the Victorian system of child representation in public law proceedings in the Children’s Court is such that I can recommend this model as one to be follo- wed. It is effective in getting the instructions of the competent child across to the presiding Magistrate. The training of the Children’s Court duty lawyers, provided by Legal Aid Victoria, ensures that the child’s instructions are zea- lously and forcefully advocated. The system ensures that the child will have a well trained lawyer to represent him or her on the first occasion the case comes before the Court. It is an efficient and cost effective model, although it depends for its effectiveness largely on the training of the lawyers and the competence and cooperation of the Children’s Court Magistrates and support staff, including Children’s Court Clinic psychologists and other personnel.

5. THE GUIDELINES (CHILDREN’S COURT OF VICTORIA)

he Guidelines are founded upon Article 12 of the UN Convention on the TRights of the Child, which provides that the child shall have an opportu- nity to be heard in legal proceedings either directly or through a representa- tive. The Guidelines set out the general approach which the child’s lawyer should take. Tips are given on interviewing techniques, communicating with chil- dren, assessing the child’s capacity to give instructions (relating to age, matu- rity and intellectual capacity), taking instructions and legal obligations rela- ting to confidentiality, legal professional privilege and conflict of interests. Important principles include: - The lawyer must make sure the child understands the proceedings. - The child’s instructions must always be put to the Court, whether or not the lawyer agrees with those instructions. - The lawyer must show the child all relevant documents unless there is a Court order suppressing a report. - The lawyer must assess whether the child should give evidence (this is rare when the child is very young). - The lawyer must participate in settlement negotiations to try to resolve the case. - The lawyer must explain the final outcome of the Court proceedings and advise the child in relation to any rights of appeal or review. - Children are always entitled to be represented by a duty lawyer in the Children’s Court, irrespective of the financial circumstances of the family. Duty lawyers are employed and trained by Legal Aid Victoria, the govern- ment funded body which provides legal services in the State of Victoria for Legal Aid those who cannot afford for a lawyer privately. They tend to be relatively young and inexperienced, however a zealous commitment to legal

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representation of children is part of the job requirement. Duty lawyers are stationed at the Children’s Court everyday so they can see children as soon as they are bought into the Court for any proceedings. Duty lawyers work under enormous pressure, often having to see several new clients each mor- ning. Very often the children have just been removed from their families or otherwise apprehended by the police or social workers and bought to the Children’s Court on just a few hours notice. Children are often distressed and confused. Perhaps this is the first time they have been separated from their family and bought to Court. The duty lawyer must prioritise his or her clients in order of urgency, assess capacity to give instructions, take instructions, speak with the police or social workers about the reasons for the case being bought to Court, prepare argu- ment and then appear before the Magistrate. After the hearing the duty law- yer must report the outcome to the child and help the child come to terms with the consequences. If the child is incapable of giving instructions a duty lawyer can represent a parent. As parents are often in conflict it is rare that a duty lawyer will repre- sent both parents but this can happen when the parents are united in their approach to the Court proceedings. An interesting feature of the Australian procedure is that Children’s Court hearings are held in open Court, that is, members of the public are allowed to attend. However, there are severe restrictions on reporting Children’s Court proceedings and any report must not identify the parties or witnesses. The open Court policy is based on the principle that the public have a right to know how the justice system operates, even when children are involved. Contrast the situation in England and Wales where all proceedings concer- ning children are held in private, that is, no members of the public are allo- wed in Court. My personal view is that the open Court policy, which applies in the Family Court of Australia as well as in the Children’s Court, works well. The diffi- culty with the closed Court is that it can encourage parties aggrieved by deci- sions to complain about unfair secret hearings.

6. THE DUTY LAWYER MANUAL (LEGAL AID VICTORIA)

he Duty Lawyer Manual establishes correct procedures for dealing with Tcases. After taking instructions from the child and discussing the case with police or social workers, the duty lawyer will first try to negotiate an appro- priate interim order. This can involve, for example, the child remaining in the care of a family member while the circumstances of the case are investigated by police, social workers and psychologists. Where no suitable family mem- ber is available the child can be placed in foster care temporarily. If negotiation does not lead to agreement the duty lawyer must present the child’s case to the Magistrate. An initial hearing after apprehension of the child normally takes about 1-2 hours. No formal evidence is given, rather oral submissions are made from both sides. After explaining the action which the duty lawyer should take, the Manual summarises the relevant law relating to various types of proceedings which

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come before the Children’s Court (for example, child suffered or likely to suffer physical injury, sexual abuse or emotional harm; child’s physical deve- lopment or health significantly harmed; irreconcilable differences, etc). After the initial hearing the Human Services Department will prepare reports summarising the evidence and recommending what should be done. The chil- d’s lawyer considers these reports with the child, takes instructions and on the second hearing date (usually within three weeks of the first hearing) the child’s case is presented in accordance with instructions. The lawyer may recommend that the Court order the Children’s Court Clinic to prepare a family assessment. These are usually reserved for cases where there is some issue of emotional health or serious family dysfunction in relation to which the Court should require expert psychological or medical evidence. Once all the evidence has been prepared the case, if still contested, will be listed for a Final Hearing before a Children’s Court Magistrate. Final hea- rings can sometimes last several days. The child’s lawyer may choose to brief a senior lawyer, either a solicitor or a barrister, to assist presenting the chil- d’s case at the Final Hearing.

7. NEW SOUTH WALES: REPRESENTATION PRINCIPLES FOR CHILDREN’S LAWYERS

n March 2002 the Law Society of New South Wales published the second Iedition of Representation Principles for Children’s Lawyers. This manual is derived largely from the Victorian Guidelines for Lawyers Acting for Children and Young People in the Children’s Court and American Bar Association Standards of Practice. Like the Victorian Guidelines it sets out general policy recommendations rather than specific duties like the Victorian Duty Lawyer Manual. Unlike the material from Victoria the New South Wales Representation Principles consider both models for child legal repre- sentation, that is, the direct representative model which applies in the Children’s Court of Victoria and the best interests representative model which applies in the Family Court of Australia. The New South Wales Representation Principles do not purport to recom- mend one particular model of Child Representation. They are intended as a guide for all child lawyers irrespective of what model of representation they work with. They are a useful adjunct to the Victorian Guidelines and Duty Lawyer Manual because clear explanations are given for some of the most important concepts and procedures. There is a very clear description of the differences between direct representation and best interests representation. Importantly, Principle B4 provides that a lawyer should not act as both a direct representative and a best interests representative for the same child. The reason for this is that there may be a conflict between the child’s instruc- tions and what the lawyer thinks is in the child’s best interests. Such conflict would undermine the child’s faith in the legal system and compromise the principle in Article 12 of the UN Convention on the Rights of the Child that the child shall be heard. This principle has not always been followed in the past. For example, where a child has been involved in both public law and private law proceedings, a

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Legal Aid Duty Lawyer has sometimes been appointed to act on behalf of the child in both the Family Court of Australia private law proceedings and in the Children’s Court public law proceedings. In the Family Court the child’s law- yer acts as a best interests representative and in the Children’s Court as a direct representative. Although this practice may have been acceptable in the past, as a result of the clear guidance in Principle B4 good practice dictates that separate lawyers should be appointed for the Family Court and the Children’s Court proceedings. Principle B2 requires that where the child is unable or unwilling to provide instructions the child’s lawyer should act as a best interests representative. This New South Wales principle appears to conflict with the Victorian Children’s Court model which provides that the child incapable of giving instructions will not be legally represented but will have his or her circum- stances explained to the Court by the Human Services Department (Victorian Guidelines, Section 5).

8. AUSTRALIAN FEDERAL JURISDICTION: THE FAMILY COURT OF AUSTRALIA

n 1975 the Australian Federal government passed the Family Law Act, a Iradical piece of legislation which established the Family Court of Australia, introduced no fault divorce based on 12 months separation and established a Counselling Service as part of the Family Court. One of the radical changes was to introduce the concept of separate representation of children in priva- te law cases, such representation to be provided by specialist Federal govern- ment employed family lawyers without cost to the family. It was established through a series of case reports that the role of the Family Court separate representative is to be a best interests representative. This means that the child involved in Family Court private law proceedings is not entitled to direct legal representation where the lawyer is bound by the chil- d’s instructions. This is in marked contrast to the position in the Children’s Court of Victoria. For the most part Family Court separate representatives are government employed legal aid lawyers with specialist training in representation of chil- dren. However, the model also allows for legal aid bodies, which fund the representation, to engage private lawyers as separate representatives. Occasionally solicitor separate representatives will brief a barrister to appear in court, particularly when the case is complex. The way in which the Family Court separate representative prepares and pre- sents the child’s case has been developed substantially over the past quarter century. Just this year the Law Council of Australia Family Law Section (the national representative body for Australian family lawyers) developed a sub- stantial training programme for Family Court separate representatives. Recently the term child representative has come to replace separate represen- tative and when referring to the Family Court I will use the term child repre- sentative for clarity. In 2002 the Family Court published draft Guidelines for the Child’s Representative. Although the Family Court Guidelines are not yet officially

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in force I understand that they are being followed already as a general rule. The Law Council of Australia Family Law Section Training Manual for child representatives, A Child’s Voice, is a massive volume comprising over 400 pages of law, commentary, case studies, exercises and advice. The draft Family Court Guidelines are included in the Training Manual. The first two day training course using the new Manual was conducted in Sydney in May 2003. I cannot hope to summarise adequately the contents of A Child’s Voice in this brief paper. I strongly urge the IAIF to obtain a copy of the Manual from the Law Council of Australia and to secure permission to use it for training child representatives in Italy. Although, as mentioned before, the Family Court model provides for the chil- d’s representative to act in the child’s best interests, and not as a direct repre- sentative bound by the child’s instructions, much of the Manual provides use- ful guidance for direct representatives as well. Therefore, whether Italian child representatives decide to follow the direct representation model or the best interests representation model, or a hybrid of the two, or a completely new model, A Child’s Voice, should be essential reading for all trainers and representatives. In particular, the draft Family Court Guidelines for the Child Representative should be studied. This is somewhat more digestible, comprising a mere 16 pages. The Family Court Guidelines, like the other documents referred to in my pre- sentation, are founded on Article 12 of the UN Convention on the Rights of the Child. The crucial distinguishing features of the Family Court child representative are set out in Section 4 of the Guidelines: - The child representative is an impartial best interests advocate (that is, not a direct representative bound by instructions of the child). - The child representative does not take instructions from the child but is required to ensure the Court is fully informed of the child’s wishes, in an admissible form where possible. The Family Court child representative has a wide range of powers and responsibilities including the power to call evidence and initiate enquiries into the child’s circumstances. Where the Family Court child representative considers the child’s expressed wishes are contrary to his or her best interests, the representative must put evidence of the child’s wishes before the Court but must also make submis- sions which are in accordance with the child’s best interests. This dual role of explaining the child’s wishes and advocating the child’s best interests, in circumstances where these conflict, has lead to some criticism from lawyers who argue that a child representative is likely to lose the trust of the child in these circumstances.

9. AUSTRALIA: A SUMMARY

t can be seen that two distinct models of child representation exists in IAustralia. In the Children’s Court of Victoria the representative acts strictly on the child’s instructions. In the Family Court of Australia (private law) the

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child’s representative is not bound by instructions and must present the case in the child’s best interests. There has been much debate over the past quar- ter century as to which model is preferable but, despite (or perhaps because of) the debate there are strong advocates for both models. I can say from per- sonal experience that both models work successfully, although from time to time problems have arisen in the past, due mainly to lack of government fun- ding. With the recent publication in Australia of the Victorian Guidelines for law- yers acting for children and young people in the Children’s Court, the New South Wales Representation Principles for Children’s Lawyers and the Law Council of Australia Family Law Section Training Manual A Child’s Voice, taken together with the draft Victorian Children’s Court Duty Lawyer Manual and the draft Family Court Guidelines for the Child’s Representative, I can state with some confidence that the representation of children in Australia is the most effectively planned and structured in the world, so far as I am aware. However, there are critics of the single lawyer models which prevail in Australia. I will now deal with the situation in England and Wales.

10. THE SYSTEM OF CHILD REPRESENTATION IN ENGLAND AND WALES

he English system provides for the best possible representation of children Tin public law proceedings. The child’s instructions are presented to the court by a Law Society Children Panel solicitor who, in difficult cases or in cases which run in the Family Division of the High Court of Justice, may brief a barrister for court hearings. In particularly complex or important cases the child may have a solicitor and two barristers, with one of the barristers being Queen’s Counsel. The child’s best interests are represented by a Children’s Guardian appointed by the Children and Family Court Advisory and Support Service (CAFCASS), an independent government body set up on 1 April 2001 to provide representation for children and advice to courts and families. The Children’s Guardian may also brief barristers for court hea- rings. It can therefore be seen that, in especially complex or difficult cases, the child may be represented by up to six lawyers at court hearings. In addition, the Local Authority, which brings the child protection procee- dings to court, will also have a solicitor (preferably one who is a member of the Law Society Children Panel) and the solicitor may decide to brief one or two barristers for Court hearings. If the child’s parents, or other interested parties, also join in the proceedings with their own legal representatives you will understand that it can sometimes get quite crowded in the court rooms of the Family Division of the High Court of Justice! The English model of dual representation is a paragon and, in theory, it should be the best in the world. It provides for the child to have, in effect, two lawyers, one a direct representative bound by instructions and the other a best interests representative. Unlike the Australian child representation schemes which have limited funding from legal aid bodies, there is no limi- ted budget affecting the representation of children in England. The Legal

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Services Commission will fund proceedings as far as this is reasonably requi- red in the child’s best interests. Child public law cases in England can some- times cost hundreds of thousands of pounds of legal aid and government money. But the standard of legal representation provided is without equal anywhere in the world. As with the Australian and American models, the scheme for representation of children in England is based on the principles set out in Article 12 of the UN Convention on the Rights of the Child. Law Society Children Panel soli- citors are well qualified and experienced. They must be qualified for at least three years and undergo rigorous training and assessment procedures before they are allowed to handle cases without supervision. Similar standards apply to CAFCASS Children’s Guardians. One of the great advantages of the English system is that it is supported by a number of non-government bodies whose members comprise qualified law- yers and non-lawyer child advocates who specialise in representing children. These include the Association of Lawyers for Children, the National Youth Advocacy Service, the Law Society (which runs the Children Panel) and the Solicitors Family Law Association. All of these organisations provide trai- ning for children lawyers and liaise with government on policy and legisla- tion to ensure that children are offered the best possible standards of legal representation. The SFLA has, for many years, published a Guide to Good Practice for Solicitors Acting for Children, now in its 6th edition (January 2002). In many respects the SFLA Guide to Good Practice offers advice simi- lar to that provided by the Victorian Guidelines and the New South Wales Representation Principles for Children’s Lawyers. I suspect that the SFLA Guide to Good Practice was very carefully considered by the Victorian and New South Wales people who drafted their documentation. A commendable novelty in the SFLA Guide to Good Practice is the encouragement for the child’s lawyer to represent the child in any mediation or conciliation process, although this delicate role must be handled with care. Unfortunately, the English system of child representation has run into serious difficulties over the past couple of years. There are many reasons for this, but the underlying main difficulty seems to be that the government is seeking to cut the cost of child legal representation. CAFCASS has been engaged in an exercise of forcing Children’s Guardians to accept contractual terms of enga- gement which are generally seen to be downgrading the role by reducing job security and remuneration. As a result, there are now fewer lawyers in England and Wales willing to take on the role of Children’s Guardian on the terms being offered by CAFCASS. A consequence of this is that there are serious delays in the appointment of children’s representatives, sometimes delays of many weeks. This delays the finalisation of legal proceedings con- cerning children in extremely vulnerable circumstances. My personal view is that the English system, although it is probably the best in the world in theory, is so expensive to maintain that it is unlikely to con- tinue much longer in its current form. I suspect that funding cuts will mean that the dual representation model will have to be eventually radically chan- ged. It is also likely that increasingly severe restrictions on legal aid funding of children cases will be introduced.

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The difficulties in England have recently been compounded by a reform in the government departmental structure announced just this month. The mini- sterial office of Lord Chancellor has been abolished (after 1,400 years!) and the responsibilities of the Lord Chancellor have been divided between other ministries. A new Minister for Children has been appointed with CAFCASS coming under the umbrella of this Minister’s responsibility. Interestingly, the new Minister for Children is Margaret Hodge, the wife of well-known law- yer Henry Hodge, whose Camden practice does a lot of family law work, including child representation. I hope that this means that the new Minister for Children will listen to her husband’s colleagues about the problems child representatives are now facing in England!

11. CONCLUSIONS

he ideal model for child representation must be the English one, which Tprovides for dual representation through one lawyer acting as a direct representative bound by the child’s instructions and another lawyer acting in the child’s best interests. However, this model is expensive to run and, like a Rolls Royce, if you cannot afford to run the machine it does not go anywhe- re. I think a more pragmatic model is to provide the child with just one law- yer. If the child has the capacity to provide instructions then the lawyer should be bound by those instructions as a direct representative. If the child is too young or otherwise incapable of giving instructions, then the lawyer should opt to represent the child’s best interests. The Children’s Court of Victoria model is effective, although I do have concerns about the policy that the child incapable of giving instructions is, in effect, without a lawyer to advocate his or her best interests. I do not think the government authorities which prosecute child protection cases can properly undertake the role of representing the child’s best interests because there is too great a risk of a conflict of interests. I will be leaving with the AIAF workshop organisers a bundle of training materials which I have gathered together from Australia and the United Kingdom and I hope that they will be able to make good use of this in prepa- ring materials for training Italian child representatives. Annexed to this pre- sentation is an Appendix which lists some useful websites in the United Kingdom and Australia so you can conduct your own research on the various overseas models. I congratulate all of you for making the personal commitment to learn how to become effective children’s lawyers. Although I no longer work as a child representative, I recall my experience as a separate representative for chil- dren in the Family Court of Australia many years ago with pride. The lawyer acting for the child has the great satisfaction of knowing that he or she is always on the right side. It is a most rewarding and worthy career to follow. I wish you all the best of luck in your work as lawyers acting for children.

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APPENDIX - WEBSITES

UNITED KINGDOM AUSTRALIA www.cafcass.gov.uk www.lawcouncil.asn.au Children and Family Court Advisory Law Council of Australia (Family Law and Support Service Section) CAFCASS is an independent govern- National family lawyers’ body. ment body set up 1 April 2001 to pro- Sponsors biennial Australian Family vide representation for children and Law Conference (next: 26-30 October advice to courts and families. Service 2004, Gold Coast, Queensland). Runs Principles and Standards were publis- training programs for child representa- hed March 2003. tives in private law cases, but much is relevant to public law cases (next: 8-9 www.doh.gov.uk August 2003, Adelaide, South Department of Health Australia). The Department oversees welfare of “looked after children”, that is, chil- www.victorialaw.org.au dren and young people in the care of a Victoria Law Foundation government service. National Research organisation established by Standards for the Provision of the government in Victoria, Australia. Children’s Advocacy Services were Guidelines for Lawyers Acting for published in November 2002. Children and Young People in the Children’s Court can be downloaded www.lawsociety.org.uk from the free publications list. Law Society of England and Wales Site provides information on the Law www.austlii.edu.au Society’s Children Panel, a specialist Australian Legal Information Institute panel of solicitors who represent chil- Database established by Australian law dren. schools. Publishes Australian legisla- tion and reported cases and has links www.sfla.org.uk to law in other jurisdictions. For exam- Solicitors Family Law Association ple, look up the Victorian Children and The main representative body of family Young Persons Act 1989 which esta- lawyers in England and Wales, with blishes the Children’s Court and provi- over 5000 members. Many useful des for legal representation of children. publications, for example, Guide to Good Practice for Solicitors Acting for www.childrenscourt.vic.gov.au Children (6th edition, January 2002). Children’s Court of Victoria Why not join? Website launched May 2003. Comprehensive materials on the ope- www.alc.org.uk ration of the Children’s Court, inclu- Association of Lawyers for Children ding extensive links to research mate- Specialist child care lawyers who act rials, resources and other relevant in public and private law matters. websites.

www.nyas.net National Youth Advocacy Service NYAS is a charity which provides advi- ce and advocacy for children, parents and others. NYAS advocates do not have to be qualified lawyers, but are trained in working with young people.

380 QUALE AVVOCATO PER IL MINORE. PROPOSTE PER UN MODELLO ITALIANO

1. INTRODUZIONE SOMMARIO 1. Introduzione na lunga discussione nazionale, a) Ambito di applicazione che ha preso spunto dallo svilup- b) Law Guardian, Guardian ad litem, “Modello Tandem” - po internazionale in questo set- Padrino per la legislazione tedesca? U 2. La curatela processuale secondo le disposizioni del paragrafo tore, ha portato alla riforma del diritto 50 FGG. dei minori del 1998 con la conseguen- La posizione giuridica del curatore. te introduzione nella legislazione Art. 50 e segg. FGG tedesca della figura del curatore, altri- Varie menti definito “avvocato del minore” 70 b FGG- Procedimenti di internamento del minore (paragrafo 50 FGG - legge sulla 3. Curatore speciale, tutore e curatore processuale: volontaria giurisdizione), quale rap- delimitazione delle rispettive figure. presentante degli interessi dei bambini 4. Standard per i curatori processuali e degli adolescenti. Questa riforma 5. Ricorso contro la nomina del curatore processuale- Art. 20 costituisce il risultato di lunghi lavori Abs 1 FGG preparatori i cui fondamenti sono spe- cialmente da ricercare nella discussio- ne di diritto costituzionale e nella con- venzione europea per la salvaguardia dei diritti del fanciullo. Questa legisla- zione si è proposta di dare una risposta IL CURATORE a quelle cause nelle quali è in gioco il destino dei minori. PROCESSUALE -

A) AMBITO DI APPLICAZIONE OVVERO, L’AVVOCATO

i tratta di cause davanti al Tribunale DEL MINORE? Sdi famiglia e a quello dei minori aventi ad oggetto in particolare l’affi- damento e la regolamentazione del diritto di visita sorti in seno a cause di separazione e divorzio, l’allontana- MARIA ENRICA mento dalla famiglia affidataria, misure dirette ad impedire il pericolo immi- MAZZA TEUBNER nente al benessere del bambino ovvero dirette a sostituire la manifestazione del consenso nel procedimento di adozione. AVVOCATO SPECIALISTA Tuttavia questa lista, nella spiegazione relativa all’art. 1 comma 4, che deve IN DIRITTO DI FAMIGLIA, essere rilasciata per la ratifica della proposta di legge di attuazione della FRANCOFORTE, GERMANIA Convenzione dell’Aja del 25 gennaio 1996 relativa all’esercizio dei diritti dei minori, va ben al di là dell’espressa previsione di casi contenuti nel paragra- fo 50 comma 2 e 3 del FGG. A tal proposito alcuni sostengono che questa enumerazione del governo federale sia da considerare determinante per la futura attuazione concreta dei procedimenti previsti dal BGB in cui sia neces- saria la nomina di un curatore processuale, ossia, i procedimenti in cui si trat- ti di: 1. Assunzione del diritto di conferimento del nome ( § 1617 comma 2 e 3); 2. Sostituzione del consenso dell’altro genitore nell’attribuzione del nome (§ 1618 comma 4); 3. Assunzione del potere di decidere nel caso in cui ci sia un contrasto insa- nabile tra i genitori in relazione all’esercizio della potestà genitoriale

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(§ 1628); 4. Privazione del potere di rappresentanza di uno dei genitori, del tutore o del curatore ( § 1629 comma 2 riga 3, §§ 1796, 1915); 5. Decisioni da assumere nel caso di contrasto insanabile tra i genitori e un curatore ( § 1630 comma 2); 6. Affidamento di questioni relative all’esercizio della potestà genitoriale al curatore personale ( §1630 comma 3); 7. Sostegno dei genitori alla persona affidataria ( § 1631 comma 3); 8. Internamento, con privazione della libertà ( §§ 1631 b, 1800, 1915); 9. Restituzione del bambino, concessione del diritto di visita ad un terzo, allontanamento dalla persona affidataria, dai genitori o dai soggetti legit- timati ( § 1682); 10. Pregiudizio al benessere del bambino ( §§ 1666, 1666 a); 11. Questioni di esercizio della potestà genitoriale nel caso di genitori che vivano separati ( §§ 1671, 1672); 12. Sospensione della potestà genitoriale ( § 1674, 1678 comma 2); 13. Potestà dei genitori nel caso di morte di uno dei genitori ( § 1680 comma 2, § 1681); 14. Potestà dei genitori dopo la decadenza ( § 1680 comma 3); 15. Diritto di visita con il minore ( § 1684, 1685); 16. Limitazione o esclusione della facoltà di decidere in questioni riguardan- ti la vita quotidiana o l’assistenza richiesta nel caso concreto ( § 1687 comma 2, §§ 1687°, 1688 comma 3 riga 2, comma 4); 17. Misure da adottare in caso di impedimento dei genitori (§ 1693); 18. Nomina di un tutore, di un protutore o curatore ( §§ 1773 bis, 1792, 1915, 1916); 19. Decisioni in caso di contrasti insanabili o assegnazione dei rispettivi ruolo tra diversi tutori o curatori ( § 1797, 1798, 1915 ); 20. Sottrazione della potestà ad un tutore o curatore per l’educazione religio- sa del pupillo o del minore ( § 1801 comma 1, § 1915); 21. Misure prima della nomina o in caso di impedimento di un tutore o cura- tore ( §§ 1846, 1915); 22. Decadenza del tutore, protutore o curatore ( §§ 1886 bis, 1889, 1895; 1915), 23. Modifica o controllo di disposizioni del Tribunale ( § 1696). In ogni caso il governo federale ne deduce che attraverso i paragrafi 50 e 50 b FGG nel diritto tedesco siano state esaudite tutte le richieste contenute in questa convenzione.

B) LAW GUARDIAN, GUARDIAN AD LITEM, “ MODELLO TANDEM” - PADRINO PER LA LEGISLAZIONE TEDESCA?

l Prof. Salgo, uno dei principali sostenitori della necessità di rappresentan- Iza degli interessi dei minori, ha pubblicato nel ‘93 un libro intitolato “L’avvocato del bambino. Rappresentanza processuale dei minori nelle cause civili a tutela degli stessi. Uno studio di diritto comparato”. In questo libro l’autore presenta diversi modelli riguardanti la rappresentanza del minore.Tra l’altro vengono esaminati in maniera approfondita il modello americano del

382 QUALE AVVOCATO PER IL MINORE. PROPOSTE PER UN MODELLO ITALIANO

“Law Guardian” adottato nello Stato di New York, il modello di “Guardian ad litem” adottato in Florida nonché il modello inglese, altrimenti definito “modello Tandem”. Tale studio pone in rilievo la portata e i limiti connessi ai diversi modelli adottati, in quanto dalle esperienze degli altri sistemi giuridi- ci si pensava di ricevere importanti suggerimenti e spunti per la riforma della legislazione tedesca. Il sistema tedesco tuttavia non può essere paragonato a nessuno dei modelli sopra citati. Infatti il legislatore non ha adottato per il minore un modello di rappresentanza giuridica, vale a dire la rappresentanza del minore attraverso un avvocato, bensí ha creato per il minore una rappresentanza sui generis, una rappresentanza specifica per il minore, giustificando la propria scelta col compito che lo stesso deve svolgere. Il legislatore partendo dal presupposto, che infatti la rappresentanza d´un minore va al di lá d´una mera rappresen- tanza giuridico-formale e che si tratta infatti di far valere gli interessi ogget- tivi d´un minore, i quali possono essere in conflitto sia con quelli dei suoi legali rappresentanti, come pure con i suoi stessi interessi soggettivi, adotta una figura ibrida tra quella dell’avvocato e quella dell’assistente sociale. Benché durante i lavori preparatori il ministero federale della giustizia aves- se richiesto tra l’altro uno studio di diritto comparato che presentasse le solu- zioni adottate negli altri paesi nei procedimenti incentrati sulla tutela dei minori, la soluzione scelta, della curatela processuale, è diretta ed esplicita- mente ancorata agli esempi processuali tedeschi, vale a dire è orientata, all’i- stituto giuridico del curatore processuale nei procedimenti di assistenza ed internamento ( 67, 70 b FGG). Il ruolo del curatore processuale è stato infatti descritto dal legislatore in maniera analoga a quello del curatore nelle cause di assistenza ed interna- mento: La legge dice: - Si tratta di un curatore sui generis. - Non è richiesta una nomina formale per il curatore in quanto è sufficiente una semplice comunicazione. - Il curatore non è soggetto alla sorveglianza del Tribunale, peculiarità che deriva senz’altro dalla natura dell’incarico. - Non deve tener conto della manifestazione del volere del soggetto affida- to alla sua curatela, non è tenuto a seguirne le direttive, ma deve avere di mira la tutela degli interessi obiettivi del medesimo. Egli deve farsi porta- voce davanti al Tribunale delle richieste del soggetto sottoposto alla cura- tela, nella misura in cui queste si conciliano con gli interessi del medesi- mo. Benché a livello teorico, fossero esistite buone e valide ragioni per una ado- zione del modello “Tandem” inglese, tale possibilità era predestinata ad esse- re accantonata fin dall´inizio, per la predominanza nel sistema inglese, anche nel campo del diritto minorile, del principio adversalial mentre invece nel diritto tedesco vige, in tutti i casi che hanno per oggetto un minore, il siste- ma processuale inquisitorio. Il sistema “Tandem” in vigore nel diritto inglese presenta infatti, grazie alla doppia distribuzione dei ruoli del suo rappresentante, svariati vantaggi. Questo modello concilia i vantaggi di un sistema processuale civile inquisi-

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torio con quelli di un sistema in cui regna il principio del contraddittorio. Nel Children Act del 1989 viene infatti specialmente sottolineato l´aspetto inqui- sitorio della funzione del Guardian ad litem e con cio´ la conseguente intro- duzione di elementi inquisitori in un processo ancora oggi fondato sul prin- cipio del contraddittorio. Infatti, anche il minore ha il diritto ad essere ascol- tato dal giudice, così come pure ha il diritto di vedere tutelati i diritti che gli sono stati riconosciuti. La nomina di un avvocato, che sia obbligato a perse- guire ed esprimere in linguaggio giuridico gli obiettivi del suo cliente mino- renne, ne è quindi una necessaria conseguenza. D’altro canto il cliente a causa della sua minore età deve ricevere una adeguata tutela da parte dello Stato. Il “Guardian ad litem” rappresenta quindi in questa prospettiva quello che, a suo avviso, è “l’interesse obiettivo del bambino”, vale a dire egli si pone nell’ottica di interpretare e scoprire l’interesse oggettivo del minore. I diritti del minore intesi come diritti soggettivi, ovvero i suoi interessi sogget- tivi, vengono invece rappresentati da un avvocato e cio´ sia nelle cause con- tro i genitori, sia in quelle contro le autorità. La legislazione tedesca in materia di rappresentanza del minore, pur essendo consapevole della necessitá d´una rappresentanza, non è concepita, come invece è avvenuto in altri sistemi giuridici, secondo il modello dell’avvoca- to. Infatti solo impropriamente si puó parlare di avvocato del minore. Inoltre l’istituto del curatore processuale è stato inserito nei procedimenti di volon- taria giurisdizione per i quali vige esclusivamente il principio processuale inquisitorio, da cui deriva la funzione predominante della tutela del minore, nelle cause incentrate sulla sua persona. La dottrina tedesca aveva, nella fase che precedeva l´introduzione la figura dell´avvocato del minore, aspramente criticato la circostanza che il minore nei processi di cui egli è parte, fosse visto solo come oggetto del processo. Attraverso l’introduzione della figura del curatore processuale il minore doveva ricevere la possibilità di ottenere una voce al fine di poter tutelare i diritti riconosciutigli dalla costituzione nonchè i suoi interessi. Tuttavia è lecito porsi qui la domanda se questo modello contenga in nuce la necessarie potenzialità che permettano di accordare tutela ai diritti e interessi soggetti- vi del minore. La legislazione tedesca é basata sul principio del “Wohl des Kindes”, quindi sul principio del benessere del minore. Il curatore processuale risponde auto- nomamente, e se ne assume conseguentemente la responsabilità, alla doman- da su quali siano le misure da adottare che meglio rispondano all´interesse e al benessere del minore. Il curatore processuale deve di regola comunicare al Tribunale quali siano gli interessi soggettivi del minore, d’altro canto lui e non il minore decide e propone al Tribunale quali siano le misure da adotta- re al fine di tutelare al meglio il suo benessere. L´interesse obiettivo e non quello soggettivo è l´interesse cui la legge fa riferimento. La legge stabilisce in modo chiaro che l´interesse obiettivo del minore è ció che conta ed è quan- to il curatore processuale deve salvaguardare. In questa ottica, si deve quin- di fortamente temere, che rimanga poco spazio per una tutela degli interessi soggettivi del minore. La vecchia critica, malgrado l´introduzione del § 50, continua, a mio avviso, ad avere le sue ragioni d´essere, infatti nonostante oggi il minore abbia ottenuto un portavoce, quella che verrà espressa non sarà

384 QUALE AVVOCATO PER IL MINORE. PROPOSTE PER UN MODELLO ITALIANO

la voce del minore ma quella del suo rappresentante . Il minore continua ad essere, malgrado la nuova figura del curatore processuale, oggetto del pro- cesso. Dunque rispetto alla legislazione inglese quella tedesca presenta una spiccata connotazione paternalistica nei confronti del minore.

2. LA CURATELA PROCESSUALE SECONDO LE DISPOSIZIONI DEL PARAGRAFO 50 FGG.

LA POSIZIONE GIURIDICA DEL CURATORE.

a legge di riforma del diritto di famiglia tedesco, entrata in vigore il L1.07.1998, si è proposta, tra l’altro, l’obiettivo di tutelare la posizione giu- ridica del bambino. Secondo quanto disposto nel paragrafo 50, I c della FFG (legge sulla volon- taria giurisdizione), il Giudice (Amtsgericht, bzw. Familiengericht) può nominare un curatore per il bambino qualora sia necessario per tutelarne al meglio gli interessi. A differenza di quanto previsto dalla legge italiana, la legge tedesca prevede la possibilità di ricorrere a tale nomina nelle cause di divorzio, in cui sorgano controversie in merito all’affidamento del bambino, dal momento che gli interessi di quest’ultimo possono trovarsi in contrasto con quelli di entrambi i genitori. Peraltro la legge di riforma ha previsto, discostandosi in tal senso dalla pre- gressa normativa, la possibilità di un affidamento congiunto del bambino. Tale riforma, se, da un lato, sembra venire incontro alla necessità del minore di mantenere vivi i contatti con entrambi i genitori, non ha tuttavia contribui- to ad allentare la tensione delle parti nel processo. Infatti, nonostante le nuove previsioni normative, i genitori tendenzialmente instano per l’affida- mento in via esclusiva del bambino. L’avvocato del bambino, in qualità di portavoce dello stesso, ha il compito di rappresentarne gli interessi senza tuttavia condividerne le scelte.

ART. 50 E SEGG. FGG

l giudice può nominare al minore un curatore per un procedimento che Iriguarda la sua persona in quanto ciò sia necessario per la tutela dei suoi interessi. La nomina è di regola necessaria, se 1. gli interessi del minore sono in evidente contrasto con quelli dei suoi rap- presentanti legali; 2. oggetto del procedimento sono provvedimenti che possono mettere in pericolo il benessere del bambino, ovvero provvedimenti ai quali è colle- gata la separazione del minore dalla sua famiglia ovvero la revoca totale della potestà ( §§ 1666, 1666 a del BGB, cod. civ. tedesco, di seguito indi- cato semplicemente BGB), 3. oggetto del procedimento è l’allontanamento del minore dalla persona che se ne prende cura (§ 1632, IV c del BGB), dal coniuge, dal compagno o dal soggetto che abbia diritto di visita ( § 1682 BGB).

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Qualora il Giudice in questi casi decida di non nominare un curatore per il procedimento, tale decisione deve essere motivata. (3) La nomina non è necessaria o deve essere revocata se l’interesse del bam- bino viene rappresentato adeguatamente da un avvocato o da un altro rappre- sentante processuale. (4) Qualora la nomina non sia revocata prima, il curatore cessa dalle funzio- ni 1. con il passaggio in giudicato della decisione che conclude il procedimento, 2. con ogni altra decisione che concluda il procedimento. (5) La rifusione delle spese e la retribuzione del curatore sono conformi al paragrafo 67, III c. La norma disciplina: 1. le ipotesi in cui può essere nominato un curatore per il bambino(comma I), 2. le ipotesi in cui tale nomina è obbligatoria ( comma II) 3. le ipotesi di ammissione o revoca (commi III e IV). L’ultimo comma opera un rinvio ad altra norma per disciplinare i profili delle spese e dei compensi del tutore. Questo articolo è applicabile in tutti i procedimenti che riguardano la perso- na del minore, purché di natura non esclusivamente patrimoniale. 1. Comma I - Nomina di un curatore a discrezione del giudice- Il giudice può nominare un curatore quando ciò sia necessario per la tute- la degli interessi del minore, valutando ogni concreta circostanza del caso concreto. Il giudice può richiedere tale nomina qualora malgrado l’audi- zione personale del bambino e malgrado la collaborazione dello Jugendamt (servizio sociale per i minorenni) vi sia il pericolo che il rap- presentante legale del bambino non sia in grado, a causa di un interesse proprio, di tutelare adeguatamente gli interessi dello stesso. L’esempio cui il legislatore si è riferito è quello dei genitori che chiedano in via esclusiva l’affidamento del bambino (rilevante conflitto di interessi con il rappresentante legale). Pertanto deve essere data al minore la possibilità di chiedere la nomina di un curatore sin dall’inizio del procedimento. 2. Comma II - Nomina obbligatoria - Nei casi elencati nel comma II la nomina del curatore sarebbe di per sé necessaria, anche se il giudice, dandone adeguata motivazione, può deci- dere di ometterla. a) Rilevante conflitto di interessi con il rappresentante legale. Il conflitto deve essere accertato concretamente, essendo irrilevante il fatto che sia astrattamente possibile. b) Procedimenti ai sensi dei §§ 1666, 1666a BGB. In questi casi la necessità della tutela degli interessi del minore tramite un terzo è determinata dalla particolare gravità della situazione famigliare (affidamento famigliare, revoca della potestà dei genitori). In tali casi si può supporre che il rappresentante legale non sia in grado di tutelare gli interessi del bambino in quanto l’imminente intervento dello Stato trova giustificazione in un suo errore (maltrattamento, omissione di cura, abuso). c) Imminente/possibile allontanamento del minore.

386 QUALE AVVOCATO PER IL MINORE. PROPOSTE PER UN MODELLO ITALIANO

Questa ipotesi si riferisce a casi in cui chi ha la tutela del bambino, il quale è stato per lungo tempo in affidamento famigliare o nella casa della perso- na scelta ai sensi dei §§ 1682, 1685 BGB, contro la volontà di quest’ulti- ma, lo voglia allontanare dal suo ambiente di riferimento e il giudice sia invece di avviso contrario. Anche in questo caso si può supporre un con- flitto di interessi tra i genitori e il bambino.

VARIE

l giudice può nominare il curatore in qualsiasi fase del procedimento, sce- Igliendo, a sua discrezione, la persona cui affidare l’incarico. Normalmente la scelta ricade su professionisti quali avvocati, pedagoghi, assistenti sociali, psicologi infantili etc. ma nulla osta a che l’incarico venga affidato a terzi motivati (p.e. parenti). Sostanzialmente la scelta dipende dalla particolarità e dalle difficoltà del caso concreto: qualora l’attività richieda una particolare competenza giuridi- ca, l’incarico sarà affidato ad un avvocato; qualora invece si tratti di risolve- re un conflitto potenziale tra le parti sarà affidato ad un pedagogo o uno psi- cologo. Tali professionisti sono scelti sulla base delle competenze specifiche di cui sono in possesso. Spesso hanno frequentato corsi specialistici in cui sono previste accanto lezioni teoriche periodi di tirocinio. Capitolo a parte meritano i compensi previsti per l’attività del curatore. Questi infatti vengono pagati dallo Stato, il quale a sua volta può rivalersi sulle parti. Peraltro sembra fin d’ora opportuno precisare che tali costi vengono pagati soltanto limitatamente a quanto pattuito nel conferimento dell’incarico. Il curatore dunque dovrà attenersi espressamente alla lettera dell’incarico, nella consapevolezza che attività ivi non espressamente contemplate non daranno diritto ad alcun compenso.

70 B FGG- PROCEDIMENTI DI INTERNAMENTO DEL MINORE

l paragrafo 70 b FGG è entrato a far parte nel 1990 nel FGG . Queste norme Ile quali riguardano i procedimenti di assistenza ed internamento dei mino- ri, sono norme speciali rispetto al § 50 FGG. La posizione del curatore pro- cessuale è qui piú differenziata, la sua funzione è analoga a quella del cura- tore processuale del § 50 FGG. Nei procedimenti di internamento, il curatore processuale deve essere sentito dal giudice prima dell´emanazione d’un prov- vedimento d´urgenza e nel caso in cui cio´non sia avvenuto, il giudice deve provvedere entro brevissimi tempi all´ascolto del curatore processuale. La legge regola in maniera molto frammentaria i diritti e i doveri del curato- re nel procedimento. Il curatore processuale è nello stesso tempo rappresen- tante degli interessi del bambino e rappresentante legale del medesimo. Tuttavia non è tenuto ad adeguarsi alle istruzioni e ai desideri del bambino, in quanto ha ricevuto l’incarico non già, come potrebbe apparire a prima vista, dal bambino, bensì dal Tribunale. A tal proposito si può osservare che non esiste alcun rapporto di mandato tra

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bambino e curatore processuale. Il curatore processuale ha di mira gli inte- ressi obiettivi del minore, il che significa che suo compito precipuo è quello di tutelarne gli stessi. Questo emerge in maniera evidentissima nel fatto che il curatore non può essere costretto dal bambino a ricorrere ai mezzi di impu- gnazione qualora ritenga che la decisione adottata ben si concili con l’inte- resse obiettivo del bambino. Tale principio non si trova in contrasto con la norma contenuta nel paragrafo 59 FGG la quale riconosce al bambino che abbia compiuto gli anni 14 un autonomo diritto di impugnazione. Il curatore processuale peraltro deve accettare l’eventualità che il bambino non voglia collaborare, nè sia disponibile a manifestare la sua volontà. Tra l’altro egli non puo´obbligare il soggetto legittimato a esercitare la potestà a consentir- gli di fare visita al minore. Nel caso in cui si manifesti un netto rifiuto da parte del legale rappresentante, a questo potrebbe essere tolto, l’esercizio della potestà genitoriale cioè il diritto di rappresentare il bambino durante il processo nonchè potrebbe essere dato l’incarico a un curatore processuale o ad un’altra persona, in qualità di curatore speciale. Soltanto il Tribunale può nominare, qualora lo ritenga necessario, un curato- re processuale. Il bambino non ha alcun diritto di scelta. Eventualmente è ammessa la possibilità di una ricusazione da parte del minore, qualora que- st’ultimo manifesti una totale avversione nei confronti del curatore incarica- to. Anche nei confronti del centro di assistenza minorile il curatore proces- suale ha una posizione indipendente - si ricordi che suo compito precipuo è tutelare l’interesse del bambino - in quanto deve rappresentare gli interessi del bambino del cui processo si tratta. Il curatore processuale non è legitti- mato di per sè a prendere in visione i fascicoli del centro di assistenza mino- rile. Tuttavia può fare ricorso al Tribunale per ottenere gli atti che ritenga necessario prendere in visione.

3. CURATORE SPECIALE, TUTORE E CURATORE PROCESSUALE: DELIMITAZIONE DELLE RISPETTIVE FIGURE.

ccanto alla nuova legislazione relativa all’istituto della curatela proces- Asuale contenuta nel paragrafo 50 FGG, il BGB ha mantenuto la possibili- tà già contemplata nel diritto precedente di privare in tutto o in parte del pote- re di rappresentanza i rappresentanti legali del bambino, siano essi i genitori legittimati all’esercizio della potestà ovvero i genitori adottivi, il tutore o il curatore del bambino. Presupposto di tale provvedimento è l’esistenza di un potenziale conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato. Qualora il soggetto legittimato sia privato solo in parte dell’esercizio della potestà, deve essere nominato un curatore speciale. Qualora invece venga privato comple- tamente della potestà, viene nominato un tutore. Competente per materia è il Tribunale di famiglia, anche se il giudice tutela- re mantiene la propria competenza in merito alle misure di sorveglianza e controllo del curatore. Con il conferimento dell’incarico ad un curatore, conformemente alla previ- sione dell’art. 50 FGG, il legislatore voleva che, senza del resto privare espressamente del potere di rappresentanza il rappresentante legale del bam- bino, venisse incaricato un curatore processuale per il minore.

388 QUALE AVVOCATO PER IL MINORE. PROPOSTE PER UN MODELLO ITALIANO

Il curatore speciale e il tutore sono rappresentanti legali del bambino e, in quanto tali, titolari dell’incarico. Il curatore processuale, conformemente ai paragrafi 50 e 70b FGG, invece è un curatore sui generis, è, per dirla in altri termini, un consigliere processuale, al quale non si applicano le previsioni del BGB, che sono invece vincolanti per curatori e tutori. Tutore e curatore speciale sono legittimati in luogo dei genitori ad esercitare la rappresentanza legale. Sono soggetti alla sorveglianza e controllo del Tribunale. Invece al curatore processuale, nella sua qualità di consigliere processuale, non competono i diritti del rappresentante legale. D’altro canto non è sottoposto al controllo e sorveglianza del Tribunale, nei confronti del quale non ha alcun obbligo di rendere le informazioni e il conto della gestione. Non può neppure essergli destinato un compito o un ambito di lavoro. Il suo compito è quello di “prendersi cura degli interessi dei minori nei procedimenti giudiziari”. A lui non competono i poteri di un rappresentante legale, il suo compito è di natura diversa: il curatore infatti deve conciliare le difficoltà legate alla tute- la degli interessi del bambino nei procedimenti giudiziari e la posizione di inferiorità strutturale del bambino con la difesa formale dei partecipanti adul- ti e dei loro procuratori ( di norma avvocati). Con l’aiuto del curatore processuale al minore deve essere consentito di disporre delle stesse armi ovvero di prender parte ad armi pari al processo. I suoi interessi devono essere tutelati con l’aiuto del curatore processuale, soprattutto nei casi in cui i rappresentanti legali del bambino a causa di un conflitto di interessi non siano nella condizione di perseguire effettivamente gli interessi del bambino nel processo. Conformemente al dettato normativo, il curatore processuale prende nel processo il posto e la posizione del legale rappresentante del minore. A lui è affidato il compito di prendersi cura degli interessi del bambino nel processo. Il Tribunale deve permettere al curatore processuale di partecipare al proces- so come se lui fosse un rappresentante legale. Quindi, nonostante la formula- zione ambivalente della legge, il legislatore non ha inteso conferire al cura- tore processuale poteri di rappresentanza, nè tanto meno sostituirlo al rappre- sentante legale. Piuttosto il curatore deve, in qualità di rappresentante legale, prendere parte al processo,al posto del vero rappresentante legale del bambi- no, al quale, a causa di un conflitto di interessi,non risulta possibile rappre- sentare adeguatamente gli interessi del bambino. Il curatore processuale può attraverso propri ricorsi e iniziative ovvero attra- verso l’esperimento dei normali mezzi di impugnazione influenzare il corso del processo e conseguentemente prendersi cura del processo incentrato sul bambino. Il curatore processuale è legittimato e nello stesso tempo obbligato a informare il Tribunale della necessità di un intervento che ponga fine a situazioni di pericolo per la persona del bambino. Qualora il curatore proces- suale sia di avviso contrario rispetto a una decisione adottata dal rappresen- tante legale, deve prendere posizione in merito e nello stesso tempo propor- re la nomina di un curatore speciale. In determinati casi la curatela processuale può, conformemente alla norma del paragrafo 1909 BGB essere trasformata in una curatela speciale. Bisogna tuttavia tenere a mente che il curatore processuale non è un curato-

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re speciale nè tanto meno un rappresentante legale. Pertanto qualora il tempo a sua disposizione e le sue competenze specifiche siano insufficienti, il Tribunale deve verificare se ricorrano i presupposti per la nomina di un cura- tore speciale.

4. STANDARD PER I CURATORI PROCESSUALI

on l’istituzione della BAG (Bundesarbeitsgemeinschaft) (Gruppo di lavo- Cro delle Regioni) per la curatela processuale per bambini e giovani nel 2000, si sono riuniti i curatori processuali di tutta la Germania con l’obietti- vo di stilare i criteri guida cui l’avvocato del minore deve attenersi nella rap- presentanza degli interessi del minore nei procedimenti giudiziari. Gli Standard sono il risultato di numerose proposte di riforma nelle quali rimanevano aperti i profili, i diritti e i doveri di questa rappresentanza. Anche nelle discussioni tra gli addetti ai lavori era chiaro che giudici, avvocati, psi- cologi e sociologi avevano una visione totalmente diversa dei compiti da affi- dare al curatore processuale. Per esercitare questa professione, di norma è richiesta un’esperienza di lunga data nella rappresentanza degli interessi dei minori e dei giovani nei procedi- menti civili a tutela di minori. Per questo motivo sono stati adottati principi pratici e deontologici già collaudati all’estero e frutto di esperienze non sol- tanto giuridiche. Degni di nota sono in particolare il codice etico e pratico dell’associazione inglese NAGALRO il quale offre un enorme aiuto all’o- rientamento grazie all’esperienza di lunga data maturata nel settore. Il crite- rio centrale della rappresentanza degli interessi si fonda, conformemente al paragrafo 50 FGG, sulla ricerca del benessere personale del bambino. Le direttive si occupano tra l’altro di definire la qualifica, l’indipendenza, l’i- doneità del rappresentante processuale sia dal punto di vista personale sia in riferimento al suo rapporto con i minori, i principi fondamentali di lavoro, il modo di procedere nella rappresentanza degli interessi, così come la rappre- sentanza del bambino nel processo. In riferimento alla qualifica viene ricono- sciuto un particolare significato all’esperienza pratica e a particolari compe- tenze giuridiche, pedagogiche e psicologiche. Di norma queste devono esse- re acquisite attraverso corsi specialistici ed essere poi approfondite e aggior- nate nell’esercizio della professione. In Germania si sono costituite nel frat- tempo svariate organizzazioni che si occupano del perfezionamento profes- sionale. L’introduzione della figura del curatore processuale nella legge tedesca è stata determinata dalla consapevolezza che gli interessi del minore e il dirit- to minorile finora non sono stati oggetto dell’attenzione che meritavano. Questa introduzione deve essere sicuramente valutata quale importante miglioramento della posizione giudica del minore anche se non è ancora suf- ficiente a tutelare, così come formulata, gli interessi dei minori. In conside- razione dei diritti riconosciuti ex lege ai genitori nei confronti dei minori, è naturale attendersi che una partecipazione del rappresentante processuale ai procedimenti in cui siano in gioco gli interessi di minori venga intesa quale intromissione nel diritto dei genitori. Molti tribunali infatti non nominano anche se a causa dei conflitti tra i legali rappresentanti cio´ sarebbe veramen-

390 QUALE AVVOCATO PER IL MINORE. PROPOSTE PER UN MODELLO ITALIANO

te necessario, un curatore processuale. Quindi, nonostante questo tipo di curatela rappresenti in Germania una tute- la minima per i minori, rimane ancora oggi aperta la diatriba se sarà accetta- ta in toto dai Tribunali e dai genitori. Inoltre nonostante le numerose richie- ste circa l´implementazione della norma, fino ad oggi mancano dati specifici ed attendibili sulla figura del curatore processuale e sulla sua accettazione da parte dei tribunali.

5. RICORSO CONTRO LA NOMINA DEL CURATORE PROCESSUALE- ART. 20 ABS 1 FGG

a ricusazione del curatore processuale da parte dei legali rappresentanti del Lminore crea ai tribunali non pochi problemi, in quanto questa figura è ancora poco conosciuta e i legali rappresentanti del minore non intendono cedere il loro posto ad una persona che ritengono estranea al processo rite- nendo lesa la loro potestá genitoriale. Inoltre sostengono che non sia neces- sario coinvolgere nel processo persone estranee in quanto l´interesse del minore è salvaguardato sia dal giudice che dagli assistenti sociali. Spesso l´avvocato d´una delle parti coinvolte nel processo, ricusa il curatore proces- suale con un atto iscritto. La legge è chiara su questo punto. Non è possibile ricusare la figura del curatore processuale in quanto tale. È solo possibile presentare contro la persona nominata dal tribunale un ricorso che contenga i motivi della ricusazione. Se il ricorso non viene accolto dal tribunale di famiglia, sul ricorso de quo si pronuncia definitivamente l’OLG (Oberlandgericht-Corte d’appello).

391 Finito di stampare nel mese di maggio 2004 presso la Tipografia QUATRINI A. & figli snc - Viterbo

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