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Dottorato di Ricerca in Musica e Spettacolo Curriculum “Storia e Analisi delle Culture Musicali”

Dodicesimo Seminario Annuale dei Dottorandi

20 e 21 febbraio 2018 Aula di Storia della Musica “Nino Pirrotta” IV Piano, Edificio di Lettere e Filosofia

Martedì 20 febbraio

11:30 Lezione magistrale

Amalia Collisani (Università di Palermo) L’invenzione del melologo. Ragioni e attualità di un’idea di teatro

Pausa pranzo

14:30 Gianluca Bocchino Problemi di paleografia musicale: a proposito delle correzioni/integrazioni musicali delle chansons RS 206 e RS 1752

15:00 Livio Giuliano La pastorella, poesia borghese e misoginia: una catena di contrafacta nella Francia del Duecento

15:30 Luca Vona Musica, liturgia e memoria dei defunti nell'Inghilterra dei Tudor. Eredità Medievale e influssi continentali tra primo e secondo Prayer Book

Pausa

16:30 Emanuele Del Verme La viola da gamba rinascimentale a Napoli: dalla trattatistica locale alle fonti archivistiche e materiali

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17:00 Sébastien Guillot-Génton Mario Savioni (1608-1685): le cantate da camera

17:30 Valentina Panzanaro Ballerini francesi nella Roma di fine Seicento: il caso singolare del maestro di ballo “Sig. Pietro Arnò…”

Mercoledì 21 febbraio

10:00 Eleonora Di Cintio Opera a quattro. Sul felice incontro tra Domenico Cimarosa e Matteo Babini, autori della Penelope (Napoli, 1794)

10:30 Francesco Serratore L’assenza del Wenzhou guci fra le pratiche musicali della comunità cinese di Milano. Gap generazionale o transnazionalismo identitario?

11:00 Ilaria Meloni Varianti regionali e processi di trasformazione del canto femminile a Giava: chi è la sindhen nel “jaman now”?

Pausa

12:00

Discussione generale

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ABSTRACT

Gianluca Bocchino Problemi di paleografia musicale: a proposito delle correzioni/integrazioni musicali delle chansons RS 206 e RS 1752

Molteplici sono i problemi di natura paleografica musicale nella tradizione manoscritta galloromanza di difficile risoluzione, ma in alcuni casi, attraverso un’attenta indagine, è possibile formulare delle ipotesi di ricerca. L’intervento propone l’esame paleografico musicale delle canzoni Espris d’amor et de longue atandance (RS 206) e Qui que de chanter recroie (RS 1752), entrambe unica musicali del Canzoniere di Saint-Germain de Prés (Paris, BnF fr. 20050), ma tradite, con solo testo, anche dal Canzoniere francese di Berna (Bern, Burgerbibliothek, 389) che prevede soltanto lo spazio per la musica – rispettivamente U e C nella tradizione filologica oitanica. Si tratta di due canzonieri strettamente imparentati, come dimostrò nel lontano 1886 lo studio (in più punti precisato, ma fin oggi mai smentito) di Eduard Schwan. Ambedue i testi presentano, nella prima trascrizione del primo verso del refrain, lo stesso identico problema (una lieve ipometria) causato dal medesimo fattore (un monosillabo, ja, che in entrambi i casi sembra essere stato aggiunto in un secondo momento). Gli editori, prescindendo dal contesto musicale, ristabiliscono la misura del verso (un heptasyllabe maschile) sopprimendo il monosillabo in entrambi i testi che, in linea di principio, sarebbe la soluzione più economica. In U però la trascrizione della melodia permette di verificare che insieme al monosillabo fu aggiunto anche il neuma corrispondente. Il contesto musicale, in particolar modo le correzioni/integrazioni neumatiche presenti, suggerisce di riconsiderare il problema dell’edizione critica di RS 206 e RS 1752 in una prospettiva più ampia che affianchi all’indagine condotta sul testo l’analisi degli elementi melodici.

Livio Giuliano La pastorella, poesia borghese e misoginia: una catena di contrafacta nella Francia del Duecento

Il genere della pastorella, nato nel XII secolo in area occitana e molto in voga durante il XIII nella Francia del nord, ha generato sin dall’Ottocento un dibattito molto acceso. Presente nei codici a fianco di chanson d’amore, jeux-partis e canzoni moraleggianti, la pastorella si distingue per il linguaggio e il modo sfrontato con cui dipinge l’incontro tra un cavaliere e una pastora, in contrapposizione con la compostezza, la pudicizia e l’eleganza delle composizioni cortesi che cantano l’amore impossibile del poeta per la dama. Nell’intento di indagare le ragioni del successo di questo genere, la critica ha spesso sottovalutato di considerare le connessioni con il resto della letturatura e il ruolo della musica. Attraverso l’analisi di una delle catene di contrafacta che coinvolgono pastorelle, nella mia relazione avanzo l’ipotesi che queste composizioni irriverenti si siano spesso confrontate sul territorio comune della musica con le loro precedenti cortesi, religiose e moraleggianti, facendone una parodia con l’intento di superare l’etica che le fondava. Nella seconda parte della relazione mi interrogo sulle ragioni di tale confronto. Nelle città della Francia del nord del Duecento, dove lo sviluppo del commercio determinò la crescita della ricchezza e la nascita della classe borghese, la pastorella si faceva portavoce di un linguaggio e di una rappresentazione dell’amore cinica e materialista, che 4

scavalcava l’etica cristiana e quella cortese dominanti, rendendo esplicita la misoginia fino ad allora celata nella poesia devozionale e nella lirica della fin’amor. Tali conclusioni sono rese possibili dall’intersezione degli studi musicologici con gli studi di genere, che fornisce nuovi strumenti di lettura di un corpus di testi rappresentativo, nei temi e nella morale, della nascente società borghese, dimostrando ancora una volta come lo studio della musica e della poesia dal punto di vista dei rapporti di genere possa dirci tanto di importante sulla storia della cultura e della società.

Luca Vona Musica, liturgia e memoria dei defunti nell'Inghilterra dei Tudor. Eredità Medievale e influssi continentali tra primo e secondo Prayer Book

La ricerca si propone di delineare il mutamento delle idee e delle pratiche connesse al morire in Inghilterra, tra il tardo Medioevo e la prima epoca Tudor, fino al regno di Edoardo VI. L’indagine si svolge in ambito liturgico e musicologico, inquadrando la riforma dei riti e dei testi relativi alla celebrazione delle esequie all’interno di un ampio quadro storico, culturale, sociale e teologico. L’approccio interdisciplinare consentirà una migliore comprensione relativamente alla persistenza di elementi medievali nella prassi dei riti funebri, anche dopo la riforma anglicana. L’obiettivo, rispetto agli studi specialistici finora pubblicati, da un lato in ambito teologico e liturgico, dall’altro in ambito musicologico, è quello di ricostruire un quadro più ampio e approfondito dell’evoluzione dei riti funebri e della memoria dei defunti, tra tardo medioevo e prima epoca Tudor, colmando le lacune dei testi liturgici riformati, fin troppo parsimoniosi nelle loro indicazioni rubricali. L’indagine musicologica, che costituisce un’ampia parte della presente ricerca, offrirà un punto di osservazione privilegiato per individuare le specifiche istanze che informarono la revisione dei riti. La polifonia ecclesiastica inglese, infatti, si sviluppò proprio nel contesto delle liturgie intercessorie per i defunti, a partire dal quattordicesimo secolo. Si cercherà inoltre di ricostruire l’evoluzione stilistica della polifonia ecclesiastica inglese nel periodo di riferimento, analizzando alcuni repertori editi e inediti. La presente ricerca si propone la messa in discussione di alcuni pregiudizi che hanno caratterizzato la letteratura scientifica, anche recente, in merito a una presunta, drastica frattura tra la teoria e la prassi liturgica pre-riformata in Inghilterra e quella anglicana. Il contributo si propone di evidenziare, dunque, gli elementi di persistenza e continuità3 con la cultura medievale, pur all’interno del nuovo apporto rappresentato dalla cultura umanistica e dalla teologia riformata.

Emanuele Del Verme La viola da gamba rinascimentale a Napoli: dalla trattatistica locale alle fonti archivistiche e materiali

La prima testimonianza letteraria dell’uso del termine “Viola da Gamba” si trova nella Regola Rubertina di Sylvestro Ganassi, stampata a Venezia nel 1542. L’antefatto relativo alle origini italiane dello strumento va tuttavia individuato nella conquista aragonese del Regno di Napoli, avvenuta per mano di Alfonso V nel 1442. Dal punto di vista organologico, il secolo intercorso tra questi due avvenimenti è un periodo di grande fermento, caratterizzato da una forte sperimentazione tecnologica innescata dal tentativo di 5

definire un nuovo equilibrio statico tra le forze operanti all’interno degli strumenti ad arco - da braccio e da gamba - in seguito all’introduzione del ponticello arcuato. Di particolare interesse, sebbene poco conosciuto, è il ruolo giocato dagli artigiani operanti all’ombra del Vesuvio nella definizione di uno strumento musicale innovativo – la viola da gamba - a partire dallo strumento maggiormente in voga dell’epoca: la vihuela valenzana. Se da un lato oggi si è raggiunto un buon livello negli studi sui liutai operanti nell’Italia settentrionale (in particolar modo per le scuole veneziana e bresciana), gli studi sugli artigiani napoletani hanno risentito della diffusa carenza di fonti documentarie, a loro volta conseguenza di una vicenda storica intricata, caratterizzata dal susseguirsi di diverse dominazioni oltre che dai conflitti del secolo scorso. La relazione si propone di condividere i primi esiti dello studio condotto sulle fonti documentarie e materiali in un percorso che, a partire dalle testimonianze rinvenute nella trattatistica coeva, approderà all’analisi di un’inedita fonte materiale riconducibile al luogo e all’epoca di nostro interesse: il basso di viola da gamba “Domenico Russo” conservato nel Tiroler Landesmuseum di Innsbruck.

Sébastien Guillot-Génton Mario Savioni (1608-1685): le cantate da camera

Mario Savioni fu uno dei compositori di cantate da camera tra i più noti e famosi della scuola romana nel XVII secolo. Nato a Roma nel 1608, fu attivo negli anni 1620 come sopranista e contralto alla di S. Pietro in Vaticano, poi dal 1631 come contralto a S. Luigi dei Francesi sotto il magistero di V. Ugolini. Già all’età di dodici anni, cantò la parte di Dorino nell’Aretusa di F.Vitali, in casa di Monsignore Corsini a Roma. Vent’anni dopo, nel 1640, cantò la parte di Aman nel Dialogo di Ester di Pietro Della Valle, e nel 1642, il ruolo di Alceste nel opera d’Atlante di , rappresentato sontuosamente nel per il carnevale. Grazie alla alta protezione del Cardinale – nipote del pontefice Urbano VIII – Savioni fu subito dopo assunto cantore soprannumerario in Cappella Pontificia, dove si sviluppò ininterrottamente la sua carriera di cantore contralto e di maestro di cappella, fino alla sua morte nel 1685 a Roma. Nella Città eterna, Savioni assunse anche il ruolo di musicista ‘straordinario’ e fu familiare dei nobili e cardinali del tempo – i Barberini, i Chigi, i Pamphilj – pur frequentando la corte della Regina Cristina di Svezia. La ricca produzione musicale di Savioni comprende componimenti sacri e spirituali, oratori volgari, e soprattutto una vasta collezione di arie e cantate profane da camera (188 al catalogo), tutte conservate in partiture manoscritte, e quasi sempre in raccolte, che costituiscono un collegamento importante nell’evoluzione del genere a Roma. In questa relazione studieremo le fonti, i testi e la presentazione materiale delle cantate, la loro circolazione e trasmissione in Italia e all’estero, infine le loro condizioni d’esecuzione nel ambito romano nella seconda metà del XVII secolo.

Valentina Panzanaro Ballerini francesi nella Roma di fine Seicento: il caso singolare del maestro di ballo “Sig. Pietro Arnò…”

Il tema della ricezione della musica strumentale francese, in particolar modo la musica da ballo, alla luce di recenti studi, ha dato ampio spazio a discussioni e riflessioni di tipo 6

metodologico non solo sui problemi relativi all’interpretazione dello stile francese, ma anche sulle difficoltà insite nel lavoro di ricostruzione e d’interpretazione storica dei percorsi di alcuni musicisti, ballerini o maestri di ballo, italiani o forestieri (e non) che, in questo periodo, svolsero almeno una parte della loro carriera a Roma. Numerosi sono, in realtà, gli artisti europei (tra pittori, scrittori, architetti e musicisti), nello specifico francesi, che diedero vita a un fenomeno di mobilità in Italia particolarmente intenso. Lo scopo di questo studio è quello porre attenzione e riflettere sulla presenza a Roma della famiglia Arnò - maestri di ballo francesi - in special modo su Pietro Arnò il quale, con buona probabilità, fu autore e copista nel 1663 della sezione francese trascritta nel manoscritto romano ‘Muzi’ conservato nella Biblioteca Vaticana. Il confronto tra le danze francesi, Courante La Duchesse e Courante Lavignone presenti nella raccolta, con le danze codificate da Beauchamps-Feuillet (1706), rappresenta un tentativo di ricostruzione dei percorsi culturali per comprendere la motivazione della loro precoce, quanto sorprendente, circolazione a Roma. Sulla scorta di queste considerazioni, e soprattutto tenendo conto dell’esiguo numero di ricerche e lavori svolti sulla produzione strumentale da ballo di fine Seicento, lo studio delle danze francesi, contenute nel manoscritto unitamente a quanto si legge nei documenti di archivio, ci permette di far un po’ di chiarezza sulla questione delle danze francesi o ‘alla francese’ praticate a Roma nella seconda metà del Seicento sulle quali ancora persistono zone d’ombra.

Eleonora Di Cintio Opera a quattro. Sul felice incontro tra Domenico Cimarosa e Matteo Babini, autori della Penelope (Napoli, 1794)

È noto che un operista del Settecento dovesse strutturare la partitura melodrammatica in virtù di fattori contingenti, primo fra tutti la disponibilità di un determinato cast. L'influenza degli interpreti nella genesi di un'opera lirica è stata così rilevante da indurre vari studiosi a rimarcare come “le capacità vocali e attoriali dei cantanti fossero sempre alla base delle scelte creative di librettisti e compositori” (Staffieri), e che la storia stessa del teatro musicale settecentesco possa essere letta quale “storia di cantanti prima che di partiture, generate da istanze edonistiche” (Mattei). Tale lettura, condivisibile per la maggior parte delle opere nate indicativamente fino agli anni Ottanta del secolo, risulta più difficilmente applicabile almeno ad alcuni dei titoli creati al crepuscolo del Settecento, frangente in cui tanto la morfologia melodrammatica, quanto le professionalità dell'operista e dell'attore subiscono una serie di ripensamenti radicali, derivanti da stimoli eterogenei: la diffusione su scala europea di certa filosofia illuminista, della letteratura drammatica inglese e francese, nonché della fama di alcuni attori di prosa sui generis, attivi sui palcoscenici d'oltralpe (Talma su tutti). Come e quanto incidono tali cambiamenti sul modo di fare teatro musicale al tramonto dell'ancien régime e, nello specifico, nel lavoro di operisti e cantanti alle prese con la creazione di un melodramma? Esaminando il caso dell’opera Penelope (Napoli, 1794), scritta da Domenico Cimarosa e il cui primo interprete maschile fu il tenore Matteo Babini (1754-1816), vorrei cercare di illuminare, prioritariamente sulla base di evidenze musicali, la complessità di quella che risulta essere stata una vera e propria collaborazione artistica: un lavoro svolto a quattro mani da due dei più raffinati protagonisti della scena melodrammatica italiana tardo settecentesca, entrambi all’epoca al culmine delle rispettive carriere, e latori, 7

ciascuno a seconda dei propri mezzi, di lucide istanze espressive, forse non più leggibili in termini meramente edonistici.

Francesco Serratore L’assenza del Wenzhou guci fra le pratiche musicali della comunità cinese di Milano. Gap generazionale o transnazionalismo identitario?

Nel mio percorso di ricerca sulle pratiche musicali dei migranti cinesi di Milano ho avuto modo di osservare notevoli differenze fra le musiche realizzate dai migranti a Milano e quelle, invece, realizzate a Wencheng, la contea cinese della provincia di Wenzhou da dove la maggior parte di essi provengono. A Milano vi sono soprattutto musiche relative all’ambito popular cinese. Risultano, invece, molto poco utilizzate nel capoluogo lombardo buona parte delle tradizioni musicali che appartengono alla sfera religioso/rituale anche se questa scarsa presenza ci fornisce indicazioni utili alla ricerca. Fra queste, intendo rivolgere l’attenzione ad una delle più diffuse e conosciute pratiche musicali di tutta l’area di Wenzhou, il guci, sul quale non esistono ad oggi ricerche specifiche pubblicate in lingua occidentale. Il Wenzhou guci è uno spettacolo di cantastorie, nel quale un unico esecutore si esibisce in una performance che comprende musica strumentale, canto e recitazione. Mayfair Yang nel suo saggio Shamanism and Spirit Possession in Chinese Modernity pubblicato nel 2015 parla di revival dei rituali sciamanici nella provincia di Wenzhou facendo riferimento proprio al Wenzhou guci. Basandomi sul lungo periodo di lavoro sul campo realizzato a Milano e a Wencheng e sull’analisi delle fonti bibliografiche locali, introdurrò le caratteristiche principali del Wenzhou guci. In seguito, facendo riferimento alle interviste realizzate ai cantastorie di Wencheng con un passato da migranti, e a quelle sottoposte ad una potenziale audience di migranti cinesi che tutt’ora vivono in Italia, presenterò le forme che assume il guci a Milano (anche per assenza). Da questo risultano: 1) Un gap generazionale per cui i giovani cinesi della diaspora non sembrano essere interessati alle tradizioni musicali rituali della madrepatria. 2) Un processo per cui anche gli anziani scelgono di mantenere la loro sfera rituale nel territorio d’origine grazie alla possibilità di spostarsi agevolmente, generando quella che può essere definita una forma di “transnazionalismo identitario”.

Ilaria Meloni Varianti regionali e processi di trasformazione del canto femminile a Giava: chi è la sindhen nel “jaman now”?

A Giava, la musica e le arti performative assumono tratti caratteristici a seconda dei contesti regionali. Alcune delle arti tradizionali sono considerate “alte” e “colte” (sopan), come quelle dei centri cortesi di Yogyakarta e Surakarta (Giava centrale). Altre sono invece ritenute “basse” o “popolari” (rakyat) e sono ancora diffuse in aree rurali come Banyumas (Giava centro-occidentale). Queste varianti, poco indagate nel vasto campo di studi sulla musica giavanese, si riscontrano nella pratica del canto femminile (sindhenan o sindhen). Le cantanti centro-giavanesi partecipano a performance di gamelan, teatro delle ombre (wayang kulit) e teatro danzato (wayang orang) legate ad un passato cortese e tutt’ora investite di un certo prestigio sociale. Le cantanti di villaggio, dall’altro lato, prendono parte a spettacoli di intrattenimento e rituali locali, non legati all’etichetta di 8

corte o a contesti ufficiali. Nel caso di Banyumas, troviamo la pratica delle cantanti- danzatrici (lénggér), forme di trance-dance (ebeg, buncis) e diversi tipi di bamboo music come bongkelan e angklung. Questa differenziazione porta, oltre che ad una diversa identità della cantante e ad un diverso tipo di funzione del canto, a varianti stilistiche nell’elaborazione vocale dei brani che rendono perfettamente identificabili i tipi di sindhenan così definiti “halus” (raffinato) e “kasar” (grezzo). Tuttavia, questo divario viene sempre più livellato dalle nuove tendenze legate al dilagare dei generi pop locali (campursari e dangdut) e ad una uniformazione delle varianti regionali che dalla dicotomia corte-villaggio porta ad un’apertura e fusione in un contesto più ampio. Di conseguenza, la musicista di corte e la cantante-danzatrice di villaggio, che rimangono due realtà relativamente importanti, si avvicinano sempre di più ad un ibrido che rimanda alla figura della pop-singer sovraregionale ed in linea con il “jaman now” (secolo corrente).