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INDICE

Introduzione Cap. 1. Le coup de marteau e la tâche non facile di trascinare nel categoriale le bloc obscur, non defini (il non categoriale) del sonno Cap. 2. Imbarchiamoci nel sogno di Proust Cap. 3. L’extra-temporale Cap. 4. Due modi di “essere letteratura” (Kafka e Proust) Cap. 5. Messung/mensuration (di nuovo Kafka/Proust) Cap. 6. La scena-madre Cap. 7. La vita vera un’opera d’arte // L’opera d’arte una vita vera Cap. 8. Ce à l’inanalysé CAP. 9. Embrasser le visage Cap. 10. Voyeurismo e serialità Cap. 11. La dialectique de la curiosité et de l’indifférence Cap. 12. Les plaisirs et les jours. Comme un baiser inconnu Cap. 13. Impressions de route en automobile. L’ansia e il potere “creatore” Cap. 14. Jean Santeul. L’après-coup Cap. 15. Jean Santeuil. La scena primaria Cap. 16. Jean Santeuil. Non categoriale e categoriale... Cap. 17. Un’altra scena madre Cap. 18. Ad infinitum Cap. 19. Odeurs, lumière, bruits cap. 20. A mo’ di conclusione Cap. 21. Ubi Urszene

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INTRODUZIONE

Si tratta di un work in progress. Quindi lacunoso e non-finito. I primi capitoli, costruendo un parallelo Kafka/Proust spinto fino ad un piccolo tentativo di “sinossi”, costituiscono una sorta di appendice di Kafka. Un “tipo particolare” (da poco uscito in 2a Ed. Aracne). Il cap. 6, La scena madre, è un tributo a Giampaolo Lai; esso contiene, infatti, il massimo di “analisi grammaticale” che io sia mai riuscito a fare di un testo... La scena madre, quella del “drame du coucher”, che incrocia a meraviglia la scena-cardine della Lettera al padre di Kafka e del suo Frammento su quel che Bataille chiama “enfantillage”, inevitabilmente “ritorna”; in molti capitoli (penso al Cap. 17, Un’altra scena madre). Ricordiamo che Proust ha fatto una mirabile analisi grammaticale del testo di Flaubert in A proposito dello “stile” di Flaubert (1920). Interessante, di Étienne Brunet, Le Vocabulaire de Proust in 3 voll.; e, di Jean Milly, L’étude distributionelle des phrases dans la Recherche. Metterei quasi sullo stesso piano, Lʼœuvre cathédrale di Luc Fraisse. L’insistenza sul “drame du coucher” è dovuta, oltre alla cattura subìta da parte delle le straordinarie variazioni concettualmente e musicalmente orchestrate sul tema, al fatto che nel suo corso comincia quel “declino della volontà” che sarà la fonte dell’involontario della “memoria involontaria”. Questo lavoro su Proust completa anche il lavoro su Girard (Edipo. Un innocente, Guerini), che in uno dei suoi primi saggi, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita (Bompiani), si rivolge proprio a Proust per esemplificare e approfondire il senso del “desiderio mimetico”. Evidentemente, è il Cap. 11, La dialectique de la curiosité et de l’indifférence, quello dedicato quasi esclusivamente al desiderio mimetico. Qui rimando al § 7 (del Cap 21, Ubi, Urszene), Heures [...] enserrées dans la mémoire en vue de ce beau sacrifice; oltre che alla nuova Introduzione della 2a Ed. di Edipo. Un innocente, ancora in preparazione). La lettura combinata di Girard e di Kafka mi ha condotto alla seguente conclusione: il sacrificio, nel caso dell’e-ducazione, è 4

sacrificio dell’ac-ategoriale a favore delle categorie. Nell’attacco psicotico, è sacrificio delle categorie in favore dell’acategoriale. Problema: come compiere questi due sacrifici, che sono inevitabili, in modo che l’educazione non estirpi l’in-fanzia (trasformandola in in-effabile/in-effato) e che la crisi psicotica non estirpi la parola (soprattutto, non la trasformi in delirio, in fatum delirante)? Sappiamo che il sacrificio è figura centrale in Girard. Lo è anche in Kafka. Ad ogni piè sospinto abbiamo incontrato l’Opfer. Nel Cahier 57, del 1911, anche Proust ci parla, ripetutamente di questo sacrificio. In che cosa esso consiste? Citiamo due passi di un brano che riportiamo per intero in nota nel già richiamato § 7: “[...] heures conservées dans la mémoire, enserrées dans la mémoire en vue de ce beau sacrifice et d’où nous les tirerions [...] pour offrir à une idée la forme d’ < une > épithète, entre les journées d’autrefois qui sont restées particulièrement belles qui sont dans notre souvenir. Une fin d’après-midi lumineuse dans une église de campagne devientrait un adjectif, une promenade l’hiver en forêt en donnerait peut-être une autre, afin du sacrifice de tous ces beaux jours d’autrefois de tirer une goutte de parfum”. Sembra evidente; dalla realtà categorizzata viene distillato un epiteto, un aggettivo che sostituiscono, nella celebrazione di un vero e proprio sacrificio, quella realtà.1 Ma l’epiteto, l’aggettivo, sono già una nuova realtà categorizzata. Sono l’opera di Proust. Blanchot [...]2 Rimando al paragrafo. E al Cap. 21; leggendo il quale mi è successo qualcosa di sorprendente (secondo Peirce un fatto “sorpendente” invoca una adeguata “abduzione”): più di un anno fa, dopo una lettura/scrittura di/su Proust durata alcuni mesi e intensissima, di colpo (tout d’un coup, per usare un’espressione-chiave proustiana), ho chiuso. La cosa mi ha anche “sorpreso”. Sul momento mi sono dato la seguente spiegazione: hai lavorato come un asino, avrai pure diritto ad una pausa (non di riflessione ma di riposo)! La spiegazione non mi ha persuaso. In seconda battuta ho, infatti, pensato d’essermi imbattuto in un “qualcosa” – kafkianamente

1 Vedi lʼintera lettera a Bibesco (26 ottobre 1912, CORR, 11, 236) da cui distilliamo solo questa frase: “Et dʼheures exaltées, il ne reste quʼune phrase, parfois quʼune épithète, et calmes”. 2 Lettera a René Blum (20 febbraio 1913): “[...] je travaille depuis longtemps à cette œuvre, jʼy ai mis le meilleur de ma pensée; elle réclame maintenant un tombeau qui soit achevé avant que le mien soit rempli” (CORR, 12, 79). 5

in un “aculeo”, freudianamente in una “roccia basilare” – che metteva in questione ogni approdo... dei miei studi proustiani. È dovuto passare più di un anno. Per circostanze “di forza maggiore” ho dovuto rileggere il mio Kafka e il mio Girard per sentirmi invogliato a rileggere il mio Proust incompiuto; meglio: troncato, non sul nascere, ma quasi. Non sono ancora in grado di fare un’“abduzione” pertinente; comunque, finita la lettura dei primi paragrafi dell’ultimo capitolo (l’attuale 21), ho continuato a leggere e scrivere come se non avessi mai interrotto! Mi viene in mente l’incontro con un amico francese. Molto tempo fa. Ci siamo rivisti dopo più di vent’anni. Una lunga passeggiata e una lunga chiacchierata: è stato come se avessimo ripreso dal giorno prima. Qualcosa forse affiora. A lungo mi ha assillato l’après-coup proustiano; l’ho avvicinato alla Nachträglichkeit freudiana... Ecco, progressivamente mi è diventato chiaro che non era in gioco un temps vécu ma un temps à l’état pur, meglio: un extra- temps (un extra-temporel). Nulla di più lontano da Proust del tentativo, après-coup, di godere l’attimo ch’è stato bello ma non si è saputo cogliere e godere. Nulla di più lontano del culto della memoria o, addirittura, della mnemotecnica! Quel che coglie Proust, ad un tratto, è l’eterno (l’extratemporel). Ad un tratto. Sì, da un certo momento in poi, sull’espressione-chiave après- scoup, ha avuto la meglio l’altra, attrettanto chiave: tout d’un coup. Si tratta sempre di un éclair! Ho più di una volta avvicinato (ad esempio in Edipo. Un innocente, Cap. 3 Bis) all’Amleto (Atto III, Scena I), il famoso passo in cui Proust descrive il tentativo... meglio: la serie di tentativi di ripescare il ricordo... (La strada di Swann). Proust parla anch’egli di “viltà”: “Non so. Adesso non sento nulla, s’è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante (et chaque fois la lâcheté qui nous détourne de toute tâche difficile, de toute œuvre importante), m’ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica. E ad un tratto (et tout d’un coup) il ricordo m’è apparso”. Shakespeare: “[...] se non che il timore di qualche cosa dopo la 6

morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna (the undiscovered country, from whose bourn no traveller returns), confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo? Così la coscienza ci rende vili (thus conscience does make cowards of us all), e così la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome d’azione”. Amleto ha detto della morte come del paese da cui nessuno è tornato. Ma ecco che proprio qui, Proust, che sembra aver solo arieggiato Shakespeare, lo supera (o lo corregge). Sì, perché la ricerca del supposto “ricordo”, di fatto dell’éclair, dell’extra-temps, fa incappare Proust nella morte. Nella morte del tempo: “Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a lui trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l’animo nostro si sente sorpassato da se medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso (quand lui, le chercheur, est tout ensemble le pays obscur où il doit chercher) dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? Non soltanto: creare (chercher? Pas seulement: créer). Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce”. Sì, la fissura avviene tra il ricercatore e lui medesimo. Ma, a differenza da Amleto, il ricercatore proustiano fa due cose che Amleto non fa: (1) ritorna dalla morte; (2) crea (altra vita). Morte e rinascita. Ma, fin qui, nulla di nuovo. Cioè, nulla che non avessi già incrociato nella mia rilettura (/scrittura). Deleuze però afferma (incipit del Cap. 21) che la Recherche “n’est pas une robe, [...] pas une cathédrale, mais une toile d’araignée en train de se tisser sous nons yeux”. È essa proprio une toile d’araignée? Nel senso che non è per niente quel che Proust pensava che fosse (une cathédrale o une robe)? Ecco quel che mi ha molto probabilmente bloccato. Ho letto Proust. Su Proust. Un’infinità di Cahier... di Proust. Ma, ecco spuntare un problema nuovo: l’opera di Proust è quella che ci ha consegnato più recentemente Tadié? O essa va integrata dai cahier? Dei quali, peraltro, Tadié ha annesso ad ogni capitolo della Recherche il massimo consentito da una pubblicazione nella Pléiade? 7

È qui che, probabilmente, mi sono arenato. Il problema: esiste l’opera di Proust? È, quindi a disposizione del lettore appassionato? O si tratta di un’opera infinita nel senso di non-finita; che il lettore, prima ancora di leggerla, deve ricomporre; facendo ricorso a tutti i cahier possibili? Strano. Come Kafka, anche Proust ha fatto bruciare dei brouillon a Céleste... (Kafka a Dora Diamant). Anche se ha conservato tutti i possibili brouillon, le paperolles... Sembra che abbia conservato anche il testo di molte lettere non spedite... Chissà quanto materiale si potrà ancora trovare... Vedi Il cappotto di Proust di Foschini Lorenza (Mondadori, 2010)... Ma ecco forse l’abduzione adeguata:

Se un’opera è in-finita; se, cioè, (1) di essa RISULTATO non si conosce ancora la totalità; (2) di quel che si conosce si deve scegliere tra versioni (molte versioni) differenti l’una dall’altra... come se la può cavare il lettore? Ma Ma l’aggettivazione dell’opera come “in-finita” REGOLA può significare (1) che non è ancora conchiusa; (2) che bisogna conchiuderla; ma anche (3) che essa propone l’inconchiudibile. Allora Allora L’opera di Proust è in-finita perché parla CASO dell’infinito: dell’extra-temps, del temps à l’état pur; non di quello vécu; caso mai di quello invivable; tranne che nello spazio di un éclair (forse). Si può leggere l’opera; l’opera omnia; la totalità dei cahier... Trarne mille ispirazioni... Ma deve rimaner chiaro che si sarà colta la “lezione” di Proust solo quando si sarà stati apaci di distillare, dalla sua opera, un “epiteto”, un “aggettivo” (forse).

Per queste ragioni ed altre ancora, la lettura di lavori come (in ordine di pubblicazione) Marcel Proust. Alla ricerca di Swann, di Giuseppe Scaraffia (Edizioni Studio Tesi, 1986), Album Proust. Iconografia ordinata e comentata da Luciano De Maria (Mondadori, 1987), Alla ricerca ddi Marcel Proust, di Attilio Bertolucci (Video0Rai) e Attilio Bertolucci alla ricerca di Marcel Proust, a cura di Giulio Ungarlli (Nuova ERI, 1995) etc., è un atto, forse inevitabile, di “idolatria” (come si sa, è Proust stesso a condannare senza remissione queste ed altre forme di “idolatria”). 8

Infine, la lettura di testi come Jalousie, La précaution inutile o la versione breve di Albertine disparue ritrovata nel 1986 negli archivi della nipote di Marcel Proust, è affascinante, in ogni caso irrinunciabile, ma depiastante dallʼextra-temps... Non riusciamo, infatti, a condividere il punto di vista di Daria Galateria che, nellʼintroduzione a Gelosia, richiama nobili ascendenze: “[...] ha ragione un altro critico, Giacomo Debenedetti: la Ricerca del tempo perduto è lʼimmensa istruttoria di un geloso, lʼimplacabile interrogatorio che Proust, con lʼossessiva ostinazione della mania gelosa, rivolge alla sfuggente vita. Come Proust, il geloso si occupa del passato. Pensa che nasconda una verità, dolorosa per lui, ma chiara e conoscibile, che lo elude. Ed è convinto che un interrogatorio apparentemente svagato e divagatorio, che prenda le cose alla lontana e ci giri intorno – per non insospettire lʼamato, rendendolo per sempre reticente – possa fargli raggiungere la certezza. La verità [...]” (op. cit., p. X)... Quasi che in Proust la “verità” – una delle parole chiave – fosse quella che si svela (o non si svela) al geloso! Quasi che la ricerca potesse ridursi ad un implacabile interrogatorio... La Nostra coglie di sguincio lʼessenziale quando allude alla “sfuggevole vita”...

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TITOLI PROUSTIANI

À LA RECHERCHE DU TEMPS PERDU

A cura di Clarac e Ferré, Gallimard, Paris, 1954, voll. 3. (1913), Du côté de chez Swann; e (1919) À lʼombre des jeunes filles en fleurs. (1921), Du côté des Guermantes e (1921-1923), Sodome et Gomorrhe, vol. II. (1923), La prisonnière e (1925), Albertine disparue, vol. III. (1927), Le temps retrouvé, vol. III.

A cura di Tadié, Gallimard, Paris, 11987-1989, voll. 4. Du côté de chez Swann, Gallimard, Paris, vol. I. À lʼombre des jeunes filles en fleurs, voll. I-II. Du côté des Guermantes, vol. II. Sodome et Gomorrhe, vol. II. La prisonnière, vol. III. Alberine disparu (o La fugitive), vol. IV. Le temps retrouvé, vol. IV.

A cura di Bertini, Einaudi, Torino, 1978, voll. 7. Dalla strada di Swann, vol. I. Allʼombra delle fanciulle in fiore, vol. II. I Guermantes, vol. III. Sodoma e Gomorra, vol. IV. La prigioniera, vol. V. La fuggitiva, vol. VI. Il tempo ritrovato, vol. VII.

A cura di De Maria, Milano,1983-1993, voll. 4. Dalla strada di Swann e Allʼombra delle fanciulle in fiore, vol. I; La parte di Guermantes, vol. II; Sodome et Gomorrhe, voll. II-III; La prigioniera, Albertine scomparsa e Il tempo ritrovato, vol. IV.

Le abbreviazioni: Dalla parte di Swann = SW. Allʼombra delle fanciulle in fiore = OF. Dalla parte dei Guermantes = G. Sodoma e Gomorra = SG. La prigioniera = P. Albertine scomparsa = AS. Il tempo ritrovato = TR.

Le esquisses: Du côté de chez Swann e À lʼombre des jeunes filles en fleurs I, Gallimard, Paris, 1987, vol. I-II. À lʼombre des jeunes filles en fleurs II, Du côté des Guermantes, vol. II. Sodome et Gomorrhe, e La prisonnière, vol. III. Albertine disparue e Le temps retrouve, vol. IV.

Cahiers, abbreviazioni. (C57, ES, XLI, TR, 899-890) = Cahier 57, esquisse XLI, Il tempo ritrovato.

Notes et variantes. Ad esempio (CI, NV, 469, TR, 1268) = Carnet I, Notes et Variantes 469, Il tempo Ritrovato 1268).

Cahiers: 3. Textes retrouvée. Recueillis ed présentés par Philip Kolb, Gallimard, Paris, 1971. 5. Mon ami Marcel Proust. Souvenirs intimes par 10

Maurice Dupay, ibidem,1972. 7. Ètudes proustiennes II, ibidem,1975. 8. Le Carnet de 1908. Ètabli et présenté par Philip Kolb, ibidem, 1976. 9. Ètudes proustiennes III, ibidem, 1979. 10. Poèmes. Presentés et annotés par Claude Francis et Fernande Gontier, ibidem, 1982 (tr. it. Poemi, Einaudi,Torino, 1983. Poesie, Feltrinelli, Milano, 1993). 11. Ètudes proustiennes IV, ibidem, 1982. 12. Ètudes proustiennes V, ibidem,1984. 13. Quelques progrès dans lʼétude du cœur humain, par Jaques Rivière, ibidem, 1985. 14. Ètudes proustiennes VI, ibidem, 1987. Matinéee chez la Princesse de Guermantes. Cahiers du Temps retrouvé. Edition critique étabile par Henri Bonnet en collaboration avec Bernard Brun, Gallimard, Parigi, 1982. Carnets. Éditions étabile et présentée par Florence Callu et Antoine Compagnon, Gallimard, Paris, 2002.

Correspondance de Marcel Proust, Plon, Paris, voll. XXI, 1970-1990 = CORR. Marcel Proust-Jacques Rivière, Correspondance 1914-1922. Presentée et annotée par Philp Kolb, Gallimard, Paris, 1976. Lettres à Reynaldo Hann. Présentés, datées et annotées par Philip Kolb, Gallimard, Paris, 1984. Proust. Le lettere e i giorni. Dallʼepistolario 1880-1922. Edizione curata da Giancarlo Buzzi, Mondadori, Milano,1996 = LG.

Altri scritti: PG = (1896), Le Plaisirs et les jours, in Jean Santeuli prédédé de Les Plaisirs et les jours. Édition établi par Pierre Clarac, Gallimard, 1971; tr. it. I piaceri e i giorni, Newton Compton, Roma, 1981. P = (1919), Pastisches et mélanges... tr. it. Pastiches, Marsilio, Venezia,1991. PM = (19019), Pastisches et mélanges in Contre-Sainte-Beuve... tr. it. Mélanges, in Scritti mondani e letterari... CSB = (1918), Contre Sainte-Beuve, in Contre Sainte-Beuve. Précédé de Pastisches et mélanges et suivi de Essais et Articles, par Pierre Clarac, Pléiade, Gallimars, 1971; tr. it. Contro Sainet-Beuve, in Scritti mondani e letterari, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Einaudi, Torino, 1971. EA = Essais et Articles, in Contre Sainte- Beuve... tr. it. Saggi e articoli, in Scritti mondani e letterari... John Ruskin, Sésame et les Lys, précédé de Sur la lecture, éditions Complexe, 1987. LʼIndifférent, Gallimard, Parsi, 1978; tr. it. Lʼindifferente, Einaudi, Torino, 1978. Précaution inutile, “Les Œuvres libres”, 1923; tr. it. Precauzione inutile, Passigli, Firenze, 2009. Albertine disparue. Édition intégrale. Texte établi, présenté et annoté par Jean Milly, Librairie Honoré Champion, Paris, 1992.

Altri ancora: Jalousie, (versione abbreviata del ciclo di Albertine pubblicata da Proust nel 1921 nelle Œvres libres), Le Castor Astral, Bordeaux, 2007; tr. it. Gelosia, Editori Riuniti, Roma, 2008. Précautione inutile (versione abbreviata de La Prisonnière pubblicata nel 1923 nelle Œvres libres), Le Castor Astral, Bordeaux, 2008, tr. it. Precauzione inutile, Passigli Ed., Firenze, 2009. Albertine disparue (versione abbreviata di Albertine disparue tratta dalla “copie dactylographiée” ritrovata nel 1986 negli archivi di Suzy Mante- 11

Proust): Albertine disparue. Éditione originale de la dernière version revue par lʼauteur étabile par Nathalie Mauriac et étienne Wolff avec 4 planches hors texte, Grasset, Parigi, 1987 + Albertine disparue. Édition intégrale. Texte établi, présenté et annoté par Jean Milly, Librairie Honoré Champion, Paris, 1992.

Si avverte il lettore che le citazioni, nei primi capitoli, sono dallʼedizione francese curata da Clarac e Ferré (Gallimard, Paris, 1954) e dalla traduzione italiana curata da Bertini (Einaudi, 1978). Da un certo momento in poi, dallʼedizione francese curata da Tadié (Gallimard, 1987-1989) e dalla traduzione italiana curata da De Maria (Mondadori, Milano, 1983-93). Una volta completata la ricerca provvederemo ad uniformare il testo. 12

Cap. 1

LE COUP DE MARTEAU E LA TÂCHE NON FACILE DI TRASCINARE NEL CATEGORIALE LE BLOC OBSCUR, NON DEFINI (IL NON CATEGORIALE) DEL SONNO

Mais de plus je ne veux être ni pressé, ni tourmenté, ni deviné, ni devancé, ni copié, ni commenté, ni critiqué, ni debiné. Ce sara temps quand ma pensée aura fini son êuvre de laisser faire à la bêtise des autre (Lettera a Georges de Lauris, dicembre 1909; CORR, IX, 225).

Vinteuil alla sua morte non ha lasciato che dʼ“indéchiffrables notations”, lʼamica di Mlle Vinteuil ha impiegato “des annèes à débrouiller le grimoire [...] en étabilissant la lecture certaine de ces hiéroglyphes inconnus”, ed estraendo “de papier plus illisibles que des papyrus pontués dʼécriture cunéiforme, la formule éternellement vraie de lʼAnge écarlate du matin” (P, 766- 767; 671).

1) Paratassi e nuova ipotassi

Come dire: invece di interpretare il sogno utilizzando le categorie, introdurre il sogno (il non categoriale) nel categoriale. Straordinario che della “martellata” si parli nel bel mezzo della descrizione dellʼesperienza più straordinaria della Recherche, quella dellʼintervallo tra sonno e veglia; e per descriverne il momento culminante; quello del risveglio dal nero gorgo del sonno profondo (SG, 407).3 Proust sa bene che nel sonno non vale la “catégorie du temps”, la “loi du temps”; ci si trova in “un autre temps: une autre vie” (SG, 372-373; 408-409).4

4 “[...] esso [sogno] non tiene conto delle infinitesimali divisioni del tempo, sopprime i passaggi, oppone i contrasti maggiori, disfa in un istante il lavoro di consolazione così lentamente tessuto nel giorno” (F, 129). 13

Si tratta di una vita “folle” (proprio perché fuori dalle categorie): quel che nel sonno viene dimenticato “è la realtà stessa delle cose che mi circondano – se dormo – e la cui non-percezione fa di me un pazzo (un fou)”; al posto di essa, nella veglia, “uno spazio bianco (un pur blanc)” (SG (Tadié), 374; 410).5 Il sogno è per ciascuno di noi la propria pazzia (Freud)...6 Pazzia è soprattutto il sogno profondo (a cui corrisponde il brusco risveglio): Kristeva (Le temps sensible, Gallimard, Parigi, 1994, pp. 291 sgg.) segnala che, invece di unʼ“altra scena” qui si parla di un “secondo appartamento (un second appartement)” (non solo “camera” ma insieme di camere): “nel quale, lasciando il nostro”, ci ritiriamo per dormire (SG (Tadié), 370; Raboni, 221): “Ha le sue suonerie a parte (il a des sonneries à lui), e qualche volta vi siamo svegliati bruscamente da una scampanellata (par un bruit de timbre), perfettamente intesa dalle nostre orecchie benché nessuno abbia suonato (quand personne nʼa sonné)” (SG, 370; 221). Straordinario il seguito. Qui importava segnalare il Leitmotiv delle suonerie, delle scampanellate. Nel secondo appartamento che è il sogno, suona il campanello, ma nessuno, in realtà, lʼha suonato... Un indugio sulla paratassi (e la costruzione della nuova ipotassi) in Proust. (Per ipotassi intendiamo la decostruzione, nella notte, dei discorsi della veglia che, nel sogno, risulteranno “resti diurni”; per ipotassi, invece, intendiamo la costruzione di un altro discorso, quello onirico; che utilizza i “resti” dei discorsi distrutti dalla paratassi).7 Sempre dalla medesima pagina di Sodoma e Gomorra: dai sonni profondi ci svegliamo “non sapendo chi siamo, non essendo nessuno, nuovi (ne sachant qui on est, nʼétant personne, neuf)”. Ed è più bello quando lʼapprodo al risveglio “si compie brutalmente” cosicché i nostri pensieri del sonno non hanno il tempo di dileguarsi progressivamente... “Allora dal nero uragano (du noir orage) che a noi sembra dʼaver attraversato (ma non diciamo neppure noi), usciamo supini, senza pensieri; un ʻnoiʼ che sarebbe

5 “[...] pensavo che alla mia opera avrei lavorato alla grande tavola di legno bianco (sur ma grande table de bois blanc)” (TR, 1033; 775). 6 Vedi Lʼinterpretazione dei sogni, 1900, in O, vol. 3, pp. 91 sgg.: “La resurrezione al risveglio, dopo quel benefico accesso di alienazione mentale che è il sonno [...]” (F, 131). 7 Vedi, più diffusamente, Cesario e Serritella, Il transfert, grazie alla operativizzazione di Luborsky, diventa un semplice, anche se prezioso, test di vischiosità-flessibilità, in Il transfert da Freud a Luborsky (Cesario e Serritella, Borla, Roma, 2001, pp. 9 segg.); Cesario, La Traumdeutung e lʼimpresa di Freud, in Lezioni di psicologia dinamica (Borla, Roma, 2003, pp. 130 sgg.). 14

senza contenuto. Da quale martellata (coup de marteau) è mai stato colpito lʼessere o la cosa che si trova là per ignorare tutto, stupefatto fino al momento in cui la memoria accorsa gli rende la coscienza o la personalità? E ancora, per questi due tipi di risvegli è necessario non addormentarsi, anche se profondamente, sotto la legge dellʼabitudine: perché, tutto ciò che lʼabitudine stringe nelle sue reti, essa lo sorveglia. Bisogna sfuggirle, prendere il sonno nel momento in cui credevamo di far tuttʼaltra cosa che dormire, in una parola, prendere un sonno che non sia sotto la tutela della previdenza, nella compagnia, seppur nascosta, della riflessione”. Già in Du côté des Guermantes, pagine straordinarie sul sogno, equiparabili a quelle dellʼincipit della Recherche a cui rimandiamo: “Non si è più nessuno (on nʼest plus personne)” (G, 84-88; 87-91).8 Qui, però, attiro la vostra attenzione sulla descrizione del processo di paratassi e di nuova ipotassi... Vedi il “disco del risveglio (disque tournant du Réveil)”, tradotto meglio da Raboni: “piattaforma girevole” (SG, 102). Vedi il “coup dʼéponge” in La prisonnière, (P, 121), tradotto da Paolo Serini “la spugna del sogno” (P, 121) e, invece, come si deve, “colpo di spugna” da Raboni (P, 514). Anche qui: “non siamo più (on nʼest plus)” (P, 123; 123). Anche qui un sogno con interpretazione incorporata... Inevitabilmente a questi “colpi” di martello o di spugna, fa eco il “pugno sul cranio” e la “scure per il mare gelato” di Kafka: “Bisognerebbe, credo (ich glaube) leggere soltanto i libri che mordono e pungono (die einen beißen und stechen). Se un libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio (mit einem Faustschlag auf den Schädel weckt), a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo egualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male (wie ein Unglück das uns sehr schmerzt), come la morte di uno che ci è più caro di noi stessi (wie der Tod eines, den wir lieber hatten als uns), come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio (wie ein Selbstmord), un libro devʼessere la scure per il mare gelato dentro di noi (ein Buch sein suß die Axt sein für das gefrorene Meer in uns). 9 Questo credo (Das glaube ich)”...

8 “Si è dormito troppo, non si esiste più (on nʼest plus)” (P, 123; 515). 9 Lettera a A Pollak, 27.I.1904, in Franz Kafka. Kritische Ausgabe. Briefe, vol. 1 (1900-1912), Fischer, Frankfurt, 1999; tr. it. Lettere, Mondadori, Milano, 1988. 15

Il lavoro del sogno è equiparabile al lavoro della memoria involontaria: “Spesso era, molto semplicemente, durante il sonno che queste ʻripreseʼ, quasi da capo del sogno, voltando dʼun colpo (dʼun seul coup) parecchie pagine della memoria, parecchi foglietti del calendario, mi riportavano, mi facevano retrocedere a unʼimpressione dolorosa ma remota, che da molto tempo aveva lasciato il posto ad altre e che ridiventava presente” (AS, 538; 147).10 Torniamo alle Intermittenze del cuore in Sodoma e Gomorra (759-762; 174-178): al clamoroso “sconvolgimento” di tutto lʼessere del Narratore (egli sta sperimentando la perdita della nonna), segue il sonno e il sogno... Interessante anche qui la descrizione del lavoro della paratassi e dellʼipotassi... Il Narratore vuole permanere nel cuore dellʼesperienza... Egli vuole configgersi i “chiodi” (immagine cristica) dei tormenti subiti dalla nonna e ora ricordati... Non vuole, cioè, rifugiarsi nel pensiero “abituale-abitudinario”... Vuole permanere nellʼinvolontario della memoria involontaria: “Non cercavo di render più dolce la sofferenza, di abbellirla, di fingere (feindre) che la nonna fosse soltanto assente [...]. Mai non lo feci, perché non solo mi stava a cuore soffrire, ma anche rispettare lʼoriginalità della mia sofferenza, quale lʼavevo subìta dʼimprovviso senza volerlo (tout dʼun coup sans le vouloir), e volevo (et que je voulais) continuare a subirla seguendo le sue leggi [...]”... Ma lʼ“industria dellʼintelligenza nel preservarci dal dolore, già si dava a costruire su macerie ancora fumanti (sur des ruines encore fumantes = paratassi), a gettare le prime fondamenta (les premières assises = nuova ipotassi) della sua opera utile e nefasta (de son œuvre utile et nefaste), troppo assaporavo la dolcezza di ricordare questo o quel giudizio dellʼessere amato, di ricordarli come se (comme si) lei avesse potuto esprimersi ancora, come se (comme si) tuttora esistesse, come se (comme si) continuasse a esistere per lei”...

10 “Di più: se il Sogno mʼaveva affascinato, era anche per la sua formidabile sfida con il Tempo. Non avevo visto tante volte, in una notte, in un minuto dʼuna notte, tempi lontanissimi, relegati a distanze immense dove non riusciamo a distinguere più nulla dei sentimenti provati allora, precipitarsi a tutta velocità su di noi, abbagliandoci con la loro luce come se fossero aerei giganteschi e non le pallide stelle che credevamo, farci rivedere tutto ciò che avevano contenuto per noi, dar lʼemozione, la sorpresa (le choc), la chiarezza della vicinanza immediata per poi, al momento del risveglio, riprendere la distanza miracolosamente abolita, tanto da farci ravvisare in essi – a torto, per altro – uno dei modi per ritrovare il Tempo perduto?” (TR, 912; 597-598). 16

Che fa il Narratore? Si addormenta... Qui il sonno sopraggiunge ad impedire che la nuova ipotassi si instauri sulle macerie della paratassi provocata dallʼintervento della memoria involontaria. Interessante il ricorrere del “come se”, chiaramente equivalente al “fingere”: quel che qui il Narratore cerca non è una “nuova” ipotassi, ma la permanenza nella paratassi... Quantʼè difficile permanervi! Bisogna “imbarcarsi”: “nous nous sommes embarqués [Pascal!] sur les flots noir de notre sang comme sur un Léthé intérieur...11 Il Narratore farà anche un sogno, lʼunico talmente particolareggiato da comportare una interpretazione quasi inevitabile... E, più avanti, alla fine di questo dolorosissimo e gioiosissimo capitolo della Recherche, un altro addormentarsi e un altro sogno: “alors ma grandʼmère mʼapparut assise dans un fauteuil”... Ma, anche nei sogni, il dolore si attutisce...: “Il mio cuore era troppo piccolo per lei” (SG, 198). Dovrà aspettare la matinée...12 Proust va in un oltre in cui converge con: “Ora, quelle mattine (e questo mi induce a dire che il sonno ignora forse la legge del tempo) il mio sforzo per svegliarmi consisteva soprattutto in uno sforzo di far entrare la massa oscura, indefinita (le bloc obscur, non défini), del sonno da me or ora vissuta, nella cornice del tempo (aux cadres du temps). Non è un compito facile (Ce nʼest pas une tâche facile) [...]” (SG, 983; 409). No, non è per niente facile. Benjamin ci dice addirittura che il testo della Recherche è paratattico: “Basta pensare alla sterminata serie dei ʻsoit queʼ che con una deprimente minuzia mostrano unʼazione alla luce degli innumerevoli motivi che possono averla provocata. Eppure in questa disposizione paratattica viene alla luce ciò in cui la debolezza e il genio di Proust non sono più che una sola cosa: la rinuncia intellettuale, lʼincrollabile scetticismo che egli opponeva alle cose”.13

11 “Mi ero imbarcato sul sonno di Albertine (je mʼétais embarqué sur le sommeil dʼAlbertine)” (P, 72; 69) 12 “Al ricordo di quel che provai davanti a quel quadro di Gustave Moreau, io, che di impressioni simili ne ho soltanto una lʼanno, invidio le persone dalla vita così regolata che, ogni giorno, possono consacrare qualche tempo alle gioie dellʼarte” (1898, Note sul mondo misterioso di Gustave Moreau, SA, 626). 13 Per un ritratto di Proust, 1929, in Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino, 1993, p. 366). 17

2) Un indice de mensuration

Ricorderete che la nostra definizione del compito assolto da Kafka è stata la seguente: egli ha saputo entrare nel categoriale portandosi dietro lʼacategoriale, le bloc obscure et indéfini; e, usando il categoriale, è riuscito a dire lʼacategoriale. A trasportare quel bloc nel tempo, nel linguaggio, nella veglia. Il Narratore ci spiega anche che cosa ha fatto: ha creato un nuovo “indice de mensuration” (come fa a non venire in mente il signor K. agri-mesore?). Lʼautomobile si è fermata per un instante; ad una grande altezza sul mare; il Narratore apre lo sportello” della carrozza e “il suono percepito distintamente dʼogni onda che sʼinfrangeva aveva nella sua dolcezza e nella sua chiarezza qualcosa di sublime. Non era forse esso come un indice di misurazione (un indice de mensuration), che, capovolgendo le nostre impressioni abituali (renversant nos impressions habituelle), ci mostra come le distanze verticali possano essere assimilate alle distanze orizzontali, contrariamente allʼidea che la nostra mente se ne fa di solito (au contraire de la représentation que notre esprit sʼen fait dʼhabitude)? E ci mostra come, avvicinando in tal modo il cielo a noi, essi non siano grandi; e siano anche meno grandi per un suono che le percorra come faceva quello di quelle piccole onde, giacché lo spazio che il suono ha da attraversare è più puro. E, infatti, se si indietreggiava dal dazio due metri soltanto, non si avvertiva più quel suono di onde al quale duecento metri di strapiombo non avevano tolto la delicata, minuziosa e dolce precisione” (SG, 898; 318-319). Vi invito a leggere il bel commento di Fernandez.14 Vi intrattengo solo su alcuni punti: se lʼacategoriale vive fuori dalle convenzioni del tempo etc., esso coincide inevitabilmente con lʼindividuale (il generale è tale solo grazie alla conferma che lo scorrere del tempo su di lui ingenera). Avete notato il ricorrere (per due volte) del termine habitude (come sostantivo e come aggettivo). Sappiamo lʼinvasività di questa figura nella Recherche. Talvolta porta la lettera maiuscola: Habitude (OF, 15 sgg.; 248 sgg.). Ad esempio in Allʼombra delle fanciulle in fiore.15

14 Op. cit., pp. 118-119. 15 OF,17, 32; 250, 267. Habitude ricorre cinque volte (OF, 4-5; 237). Vedi anche 672; 267: “Senza dubbio quellʼamicizia sarebbe sparita, unʼaltra ne avrebbe preso 18

Scegliamo – sempre nellʼincipit di Allʼombra... – lʼepisodio della visione, dal finestrino del treno, della “belle [et grande] fille” che esce dalla casa cantoniera; visione che, anchʼessa, avviene al risveglio dal sonno; è il momento dello “spuntar del sole”: “provai dinanzi a lei quel desiderio di vivere che rinasce in noi ogni volta che prendiamo di nuovo coscienza della bellezza e della felicità. Dimentichiamo sempre che lʼuna e lʼaltra sono individuali (individuels), e, sostituendo loro nel nostro spirito un tipo convenzionale (un type de convention) che formiamo facendo una specie di media fra (une sorte di moyenne entre) i volti differenti che ci sono piaciuti, fra i piaceri che abbiamo conosciuti, finiamo col non avere che immagini astratte (abstraites), le quali sono languide e insipide appunto perché prive di quel carattere di cosa nuova, diversa da ciò che abbiamo già conosciuto, il carattere proprio della bellezza e della felicità”.16 Lʼacategoriale è individuale; quando penetra nel categoriale, lo fa come una scheggia.17

il posto (allora la morte, poi una nuova vita avrebbero, sotto il nome dʼAbitudine [Habitude], compiuto la loro duplice opera); ma, fino al suo annientamento, ogni sera essa avrebbe sofferto, e quella prima sera soprattutto, messa in presenza dʼun avvenire già attuato (avenir déjà réalisé) dove non cʼera più posto per lei, si ribellava, mi torturava con il grido dei suoi lamenti, ogni qualvolta il mio sguardo, incapace di distogliersi da ciò che lo feriva, cercava di posarsi sul soffitto inaccessibile”. LʼAbitudine con lʼiniziale maiuscola la incontriamo per la prima volta in SW, 11; 15. Infine in F, 420, 429; 6, 17. Solo unʼaltra parola, “Tempo, ha tanto spesso la maiuscola; vedi TR. 16 Lettera a Georges de Lauris dellʼ8 settembre 1903: “[...]. Non ho nemmeno tentato di dormire sul treno. Ho visto lʼalba. Il che non mi accadeva da molto, e mi è parsa un bello spettacolo, lʼaltra faccia, a parer mio più affascinante, del tramonto (une inversion plus charmante à mon gré du coucher). Al mattino, folle desiderio di violare piccole cittadine addormentate (leggete cittadine [villes] non ragazze [filles]), quelle a occidente in un residuo chiaro di luna, e quelle a oriente nella piena luce del sole nascente, ma mi sono trattenuto e sono rimasto sul treno. [...]” (LG, 587; CORR, III, 418). 17 Ramon Fernandez insiste molto (e puntualmente) sul fatto che la scoperta, la ricreazione-creazione è sempre di un dato individuale, di unʼimpressione (op. cit., pp. 64 sgg.). Cita, ad esempio, da Il tempo ritrovato: “Certo, ci sono molti altri errori dei nostri sensi [...] che ci falsano lʼaspetto reale del mondo. Ma, infine, avrei potuto, a rigore, nella trascrizione per quanto possibile esatta che mi sarei sforzato di dare (dans la trascription plus exacte que je mʼefforcerais de donner), non mutar posto ai suoni, astenermi dallo staccarli dalla loro causa, accanto alla quale lʼintelligenza li colloca dopo averli uditi [...]” (TR, 622; 388)... ma sarebbe stata impresa vana... Ho pensato agli anni passati a registrare e trascrivere parola per parola le conversazioni psicoterapeutiche. E mi sono ricordato del cap. 6, Un esempio di finzione, di Lezioni di psicologia dinamica (Borla, Roma, 2003, pp. 76 sgg.); vi utilizzavo, oltre al testo derivato dalla trascrizione esatta, parola per parola, anche lʼesatto vissuto relativo, sentimento per sentimento. 19

E, se accolto, porta con sé lo sconosciuto; per il Narratore questo sconosciuto è bellezza e felicità. Qui, tra parentesi, afferma: “(la sola forma, sempre particolare [toujours particulière], in cui ci sia possibile conoscere il sapore della felicità)”. Evidente: non si tratta di un “stato” di felicità; ma di una scheggia di felicità... Ma che altro volete? Favorisce lʼesperienza di felicità connessa alla visione della bella lattaia, la cessazione momentanea dellʼAbitudine: “Perché la lattaia beneficiava del fatto che era il mio essere completo, capace di gustare i piaceri più vivi, a trovarsi di fronte a lei”. Lʼessere “complet” è lʼessere “endormi-revéillé”: “Di solito viviamo con il nostro essere ridotto al minimo [il minimum coincide con la moyenne], e la maggior parte delle nostre facoltà restano addormentate (endormies), riposando sullʼabitudine (sur lʼhabitude), che sa quel che cʼè da fare e non ha bisogno di loro [il sonno delle facoltà, dellʼessere “completo”, è quello che sa evitare il risveglio]. La fanciulla torna sui suoi passi... “non potevo staccare gli occhi dal suo volto sempre più largo, simile a un sole che possa esser fissato e che si avvicina fino a un palmo da voi, lasciandosi guardare da vicino, abbagliandovi dʼoro e di rosso”. Il volto della fanciulla è un sole che sorge e che può essere guardato da vicino... Sappiamo che il sole non può essere guardato da vicino... Ma una scheggia del sole sì! Sappiamo che il Narratore si è svegliato; e di fronte aveva il sorgere del sole. Una striscia di cielo “rosa”; che è diventata “rossa”: “cosicché passavo il mio tempo a correre da un finestrino allʼaltro per riunire, per ricomporre su di unʼunica tela (rentoiler) i frammenti intermittenti ed opposti del mio mattino scarlatto e versatile e per averne una veduta totale ed un quadro continuo”. Trepido il Narratore rincorre i frammenti di atemporale; li vuole reintoler, inquadrare, collocarli in un continuum; tradurli in categoriale. (Ricordate il Narratore – siamo allʼinizio della matinée – inciampato su un ciottolo un poʼ più rialzato del precedente, dapprima cerca di “recuperare lʼequilibrio”; ma poco dopo, nel tentativo di comprendere lʼesperienza della memoria involontaria, rimane a “titubare (tituber)” come ha fatto poco prima “(col rischio di far ridere lʼinnumerevole folla di autisti): con un piede sulla pietra più elevata, lʼaltro su quella più bassa. Ogni volta che facevo solo materialmente 20

quel medesimo passo, esso mi restava infruttuoso” (TR, 867; 196- 197).18

18 Consideriamo due ragionamenti di Proust. Il primo: “Il pittore aveva sentito dire che su Vinteuil incombeva una minaccia di alienazione mentale. E assicurava che era possibile dedurlo da certi passaggi della sua sonata. Swann non trovò assurda quellʼosservazione, ma ne rimase turbato; poiché unʼopera di musica pura non contiene nessuno dei rapporti logici la cui alterazione nel linguaggio denuncia la follia (car une œuvre de musique pure ne contenant aucun des rapports logiques dont lʼaltération dans le langage dénonce la folie), che si potesse riconoscere la presenza della follia in una sonata gli sembrava qualcosa di altrettanto misterioso quanto la follia di una cagna, la follia di un cavallo, fenomeni che dʼaltronde si verificano realmente” (SW (Tadié), 211; 260-261). Sembra evidente: la musica è acategoriale; quindi, in essa non vi sono rapporti logici; non si dà, quindi, la possibilità di unʼalterazione dei medesimi; in altre parole, nella pazzia non si dà pazzia. Il secondo: “Le pédéraste trouve quand il en trouve un autre une sorte de prédestination que ne trouve pas lʼamoureux. Mais voudrait une non tante mais vite croit demi tante une tante qui lui plaît. Il voudrait et croit trouver des non tantes, car emplissant son désir bizarre, de tout le desir naturel, croit avoir un désir naturel dont il peut retrouver lʼéchange hors de la pédérastie” (Le Carnet de 1908, 63). Anche qui: evidente! Il pederasta non vuole riconoscersi tale; vuole una non- checca (tante); presto considera, però, mezza-checca una checca che gli piace... Giustamente, sulla scorta delle ricchissime annotazioni di Proust sullʼomosessualità, Kristeva sostiene che, nella nostra epoca, lʼomosessualità, essendo ancora patrimonio di una minoranza (e fino a quando sarà patrimonio di una minoranza), rasenta la psicosi. In modo meno crudo si potrebbe dire che non essere omosessuali preserva lʼidentità non solo sessuale ma toute courte: “En effet, cet apparent pansexualisme est une suspension de la sexualité au profit du délire ou de lʼindifférence. En fixant nos pulsions et nos désirs sur un fétiche, un organe ou une personne, la sexualité bloque nos potentialités de folie: elle les restreint, les naturalise, parfois les banalise, le plus souvent les absorbe. Il en est rien avec Charlus. À la fois espace (plante bisexuée) et force (insecte fugitif), écartelé entre deux états hétérogènes et dissymétriques, Charlus met à nu les latences psychoyiques de lʼhomosexualité. Dans la mesure où celle-ci se revèle omnipésente à Proust, le baron exibe les latences délirantes de toute sexualité” (op. cit., p. 114; il corsivo è dellʼautrice). Divertente una lettera di Proust a Daniel Halevy dellʼautunno 1888; Proust difende la propria omosessualità ma anche la lingua francese (la grammatica, la sintassi etc.): “Tu mʼadministres une petite correction en règle mais tes verges sont si fleuries que je ne saurais tʼen vouler, et lʼéclat et le parfum de ces fleurs mʼont assez doucement grisé pour mʼadoucir la cruauté des épines. Tu mʼas battu à coups de lyre. Et la lyre est enchanteresse. Je serais donc enchanté si... Mais je vais tʼexpliquer ma pensée ou plutôt causer avec toi comme avec un garçon exquis de choses très dignes dʼinterêt, encore quʼon nʼaime pas en causer entre soi. Jʼespère que tu me sauras gré de cette pudeur. Je trouve lʼimpudicité un chose horrible. Elle me paraît bien pire que la débauche. Mes croyances morales me permettent de croire que les plaisirs des sens son très bons. Elle me recommandent aussi de respecter cercains sentiments, certaines délicatesses dʼamitié, et particulièrement la langue française, dame aimable et infiniment gracieuse, dont la tristesse et la volupté sont également exquises, mais 21

Deve andare oltre la rincorsa fisica, il fisico titubare. Deve trovare una nuova unità di misura... Il volto della fanciulla replica il sorgere del sole (sorto già due volte, nella striscia rosa; quindi in quella rossa). Esso è “imporporato dai riflessi del mattino [...], più rosa del cielo” diventato ormai rosso; forse più rosso ancora... Il Narratore adesso insegue questo volto (il treno è ripartito): non vuole essere separato dalla creatura che ha provocato, “anche a sua insaputa”, questa felicità... La sconosciuta – questa volta non una passante ma una oltre la quale si è costretti a passare –, era “una parte dʻuna vita diversa (autre que) da quella che conoscevo, separata da essa da un orlo (lisière) e dove le sensazioni che gli oggetti destavano non erano più le stesse; e uscirne, ora, sarebbe stato come morire a me stesso”. Il Narratore vuole permanere in uno stato... Non vuole uscire dallʼacategoriale... Vuole trascinarsi lʼacategoriale nel categoriale... Ma capisce che i progetti di riprendere lo stesso treno per fermarsi alla stessa stazione “aveva pure il vantaggio di fornire un alimento alla disposizione interessata, attiva, pratica, macchinale, pigra, centrifuga, che è propria del nostro spirito, il quale si distoglie volentieri dallo sforzo necessario (effort quʼil faut) per approfondire in noi stessi, in modo generale e disinteressato, unʼimpressione piacevole che abbiamo avuta. E, siccome dʼaltra parte vogliamo continuare a pensarci, il nostro spirito preferisce immaginarla nellʼavvenire, preparare abilmente le circostanze che potranno farla rinascere: il che non cʼinsegna nulla sulla essenza di quella impressione, ma ci evita la fatica di ricrearla (de la recréer) in noi stessi e ci permette di sperare di riceverla di nuovo dallʼesterno”. Qui la fuga dallʼistante nel categoriale si organizza in un pro- getto; in una fuga nellʼavvenire che ricorda quella ipotizzata da Freud in chi preferisce temere che qualcosa di tremendo accada nel futuro piuttosto che accettare che sia già avvenuto (nel passato) o stia avvenendo (nel presente).19

à qui il ne faut jamais imposer des poses sales. Cʼest déshonorer sa beauté” (CORR, I, 123). 19 Unʼallure simile: “Perché nellʼamore non cʼè da temere, come nella vita reale, soltanto lʼavvenire, ma anche il passato, che molte volte si attua per noi solo dopo lʼavvenire (qui ne se réalise pour nous souvent quʼaprès lʼavenir), e non parlo solo del passato che veniamo a conoscere solo a cose fatte, ma di quello conservato da gran tempo in noi ce che, dʼimprovviso, impariamo a leggere” (P, 87; 85). Vedi anche “Ma il futuro, a volte, abita dentro di noi a nostra insaputa, e le nostre parole, credendo di mentire, disegnano una realtà imminente (mais quelquefois lʼavenir 22

Avete visto comʼè aggettivata la disposizione a costruire un progetto: interessata, attiva, pratica, macchinale, pigra, centrifuga... Generale e disinteressata è invece quella a ricreare... lʼacategoriale. Cioè a ricreare, trasformandole in “equivalenti intellettuali”, le impressioni individuali; i frammenti di acategoriale...

3) Il couloir

Abbiamo citato una delle pagine finali di Il tempo ritrovato (TR 1044 sgg.; 389). Qui il Narratore ricorda la sera in cui è iniziato il “declino” della sua “volontà”, della sua “salute”... Quando, “non potendo più sopportare dʼattendere (ne pouvant plus supporter dʼattendre) il giorno successivo per posare le labbra sul volto di mia madre, (pour poser mes lèvres sur le visage de ma mère) avevo preso la mia risoluzione (jʼavais pris ma résolution) [SW, 32; 40], ero balzato dal letto e, in camicia da notte, mʼero messo alla finestra, donde entrava il chiaro di luna: finché non avevo visto Swann andarsene”. Rileggendo questo passo dopo aver riletto Kafka, inevitabile ricordare lʼepisodio che accadde al piccolo Kafka (di cui nella Lettera al padre e nel famoso frammento)... Tornando a Proust-Kafka, in entrambi i casi sono in questione i metodi educativi (“Mais dans lʼéducation quʼon me donnait”) (SW, 32). Si è già parlato, a questo proposito di questa educazione di “stupidità: “la stupidité de mon éucation”... (SW, 11). Metodi fatti valere dal padre, ma, di conserva, anche dalla madre. Anche qui, per caso, troviamo un “couloir” (SW, 34) a svolgere una funzione discriminante tra categoriale (il padre) e non- categoriale (la madre che si dà al figlio, a ciò indotta dal padre che, questa volta, ha capito che il figlio soffre; è un malato di nervi; e, in quanto malato di nervi, parzialmente esonerato dalle categorie). In comune nelle due vicissitudini, lʼiniziativa dei due piccoli: Entrambi si ribellano. Kafka viene punito. Proust viene accontentato... Ma con una punizione incorporata: il declino della sua “volontà”; che, molto probabilmente, è alle origini della memoria “involontaria”! Non vediamo in questa convergenza di Proust e Kafka il riscontro di una “familiarità” tra i due; perché il tema è universale;

habite en nous sans que nous le sachions, et nos paroles qui croient mentir dessinent un réalité prochaine)” (SG, 639; 776) 23

lʼeducazione, di Proust, di Kafka, di ognuno di noi, è sempre educazione alla categorie. Ricreare, lʼabbiamo visto, comporta un effort quʼil faut pour approfondir en soi-même... Non è un caso che qui, alla fine della Recherche, quando il tempo è stato ritrovato, il Narratore ricordi questo episodio nevralgico della sua infanzia.20 In cui lʼin-fante ha abdicato alla propria “volontà” (e alla propria “salute”) nello stesso momento in cui la madre abdicava alla propria. Volontà = sforzo = sforzo di volontà...21 Avrebbe potuto il piccolo Narratore prendere una “risoluzione” diversa? Avrebbe potuto fare lʼeffort quʼil fallait...? Ricordate il cane delle Indagini di un cane? Il piccolo cane che fa domande ai cani che si producono nella “scena primaria”? Il piccolo cane dovrà fare le sue indagini da solo. Da solo dovrà fare il Narratore la sua ricerca... Il ricercatore scoprirà che gli uomini “concepiscono lʼetà come qualcosa di misurabile (comme quelque chose de mesurable)” (TR, 623 sgg.; 389 sgg.); mentre il tempo è “incorporato” in noi... È, quindi, misurabile solo in noi. Quando il ricercatore avrà scoperto lʼessenza delle cose, potrà (e dovrà) accogliere una “enorme dimensione” che non sapeva di avere; quella del tempo incorporato, del tempo in lui: “Ero colto da vertigine nel vedere sotto di me, e tuttavia in me, quasi io avessi molte miglia di profondità, tanti anni”... Ricordate che nel paragrafo seguente, e conclusivo, il Narratore parlerà dei vecchi “appollaiati sopra vivi trampoli, crescenti senza

20 Nella biblioteca del principe di Guermantes il Narratore sfoglia distrattamente François le Champi; e risorge “il fanciullo chʼio ero allora, che quel libro aveva ridestato in me, perché, conoscendo di me solo quel fanciullo, subito lo aveva chiamato, desideroso dʼesser guardato dai suoi soli occhi, dʼessere amato dal suo solo cuore, e di parlare a lui solo. Infatti, il libro che mia madre mʼaveva letto ad alta voce a Combray fin quasi al mattino aveva serbato per me tutto lʼincanto di quella notte. [...]. Contemplato [François le Champi] la prima volta nella mia cameretta di Combray, nella notte forse più dolce e più triste della mia vita, quando, ahimè [...], avevo ottenuto dai miei genitori una prima abdicazione, cui potevo far risalire il declino della mia salute e della mia volontà, la mia rinuncia, ogni giorno aggravatasi, a un compito difficile [...]” (TR, 883-887; 215-218). 21 In occasione della matinée il Narratore decide di fare tutti gli sforzi necessari ed è ricompensato dallʼinfittirsi degli interventi della memoria involontaria e dallʼindividuazione del processo creativo: “Mentre me lo domandavo, ormai risoluto (en étant résolu aujourdʼhui) a trovare la risposta [...]” (TR, 867; 198); “Perciò mi sforzavo (je mʼefforçais de tâcher) di vedere chiaro [...]” (TR, 869; 199). 24

posa, a volte più alti di campanili, tali da render loro difficile e periglioso il camminare, e da cui, dʼimprovviso, precipitan giù”... Come evitare di pensare ai trampoli ricorrenti in Kafka? Il Narratore, alla fine della sua ricerca, si trova arrampicato su simili trampoli; uno degli “esseri “mostruosi” che occupano “un posto ben altrimenti considerevole, accanto a quello così angusto (si restreinte) riservato loro nello spazio (dans lʼespace): un posto al contrario, prolungato a dismisura (prolongée sans mesure), – poiché essi toccano simultaneamente, giganti immersi negli anni, età così lontane lʼuna dallʼaltra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi, – nel Tempo”.22 “Tempo”, come “Abitudine”, maiuscolo... Alla fine siamo nella “dismisura”. Il ricercatore, infatti, ha trovato il tempo “in se stesso”; con la conseguenza della deformazione (essere “mostruosi”) del categoriale sotto la pressione dellʼacategoriale che lo penetra. Ecco la nuova “unità di misura”, la “dismisura”.

4) Declino della volontà e memoria involontaria

Abbiamo detto di Proust e di Kafka che entrambi si ribellano. Kafka viene punito. Proust viene accontentato... Ma con una punizione incorporata: il declino della sua “volontà”; che, molto probabilmente, è alle origini della memoria “involontaria”! Sembra però vivissima una differenza tra Proust e Kafka. Proust non ha scritto nessuna Lettera al padre. Ne siamo sicuri? Ricordate come risuonato lacrimose e lapidarie insieme queste parole (il tempo, hanno messo già tra quel che è accaduto allora e adesso una “muraglia”: la muraglie de lʼescalier [...] nʼexiste plus depuis longtemps): “E da molto tempo a mio padre non è più possibile dire alla mamma: ʻVai col piccolo?ʼ Quelle ore mi sono

22 Questi “giganti” richiamano le statue gigantesche e sonore di Memnone; di cui ha già parlato (vedi Kristeva, op. cit., pp. 156, 364): “Quelquefois le matin, hereux dans mon lit, sentant ma pensée en moi pleine comme une statue de Memmon, quʼil suffisait dʼun rayon de soleil sur les arbres dépouillés de la cour pour la faire chanter [...]” (G, C 40, 41, ES XV, 1142): “[...] et je chante, car le poète est comme la statue de Memnon; il suffit dʼun rayon de soleil levant pour le faire chanter” (P, C3, ES 1.4, 1096): “Le bonheur nʼest quʼune certaine sonorité des cordes qui vibrent à la moindre chose et quʼun rayon fait chanter. Lʼhomme heureux est comme la statue de Memnon un rayon de soleil suffit à le faire chanter” (Carnet 1908, 625). 25

ormai inaccessibili. Ma da un poʼ di tempo ho ricominciato a sentire molto bene, se mi concentro (si je prête lʼoreille), i singhiozzi che ebbi la forza di trattenere davanti a mio padre (que jʼeus la force de contenir devant mon père) e che scoppiarono quando, più tardi, mi ritrovai solo con la mamma. In realtà, essi non sono mai cessati (ils nʼont jamais cessé); ed è soltanto perché la vita si è fatta adesso più silenziosa intorno a me che li sento di nuovo, come quelle campane di conventi (comme ces cloches de couvents) che il clamore della città copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si rimettono a suonare nel silenzio della sera (dans le silence du soir)” (SW, 37; 46). Quanti richiami! E quanto vertiginosi: a grappolo: – le silence du soir: riecco Kafka; – ed ecco lo stesso Proust consegnare, di fatto, alla madre la sua Lettera al padre; – sì, perché, se il padre ha abdicato, ha imposto al figlio quel medesimo sforzo – jʼeus la force de contenir – chʼegli compie per risalire alle sue “impressioni” fondamentali (eguale e contraro); – quindi, cʼè stata rinuncia allʼesercizio della volontà – per noi preludio dellʼinvolontario della “memoria involontaria”, però anche sforzo (di trattenere i singhiozzi); – il singhiozzo dirotto, apparentemente silenziato, dimenticato, riemerge come quelle campane di convento... che, anchʼesse sopraffatte dai rumori del giorno, si fanno sentire “al volger della sera”. – Quanta vertigine in queste “cloches” che, nominate quimì, saranno rinominate infinite volte; quante infinite volte avverrà lo sforzo, riuscito o no, di ricordare.23

23 Jean Santeuil, 247-248: “Chaque jour cʼétaient les premiers tintements lointains des lʼangélus qui dans la campagne les faisaient rebrousser chemin dands le sentier, sa bonne et lui, afin de rentrer pour le dîner. De même les poésies qui celébraient la douceur des cloches le laissaient insensibile comme la froide allégorie dʼun sentiment convenu. Il ne sʼarrêtait jamais pour les écouter; il nʼen avait encore remarqué la douceur. Mais comment douter quʼalors il lʼéprouvait déjà confusément? Dix ans plus tard, sa vie ayant bien changé, un jour que dans la rue du faubourg Saint-Germain il se sentait vaguement attristé par le regret indistinct des années perdues de son irrévocable enfance et de sa vie au grand air, il sentit tout à coup un son insouciant et léger frapper à la cloison de son oreille. Un autre son suivit, puis un autre, et un à un les battements doux et profonds des cloches dʼune chapelle lointaine arrivérent à lui, montés sur la brise. Il aperçut à travers ses larmes, entre les blés, au soleil baissant, le sentier qui ramenait au jardin paternel, et devant lui sa grande ombre de petit enfant. Suspendu au vol léger de ces années dʼenfance comme Prométhée à celui des Océanides invisibles qui venaient 26

5) La dismisura

Allʼombra delle fanciulle in fiore: “Ma no, – mi rispose, – quando un animo è portato al sogno, non bisogna tenernelo lontano, razionarglielo. Finché distoglierete il vostro animo dai suoi sogni, esso non li riconoscerà; sarete il trastullo di mille apparenze perché non ne avrete compreso la natura. Se un poʼ di sogno è pericoloso, quel che ce ne guarisce non è il sognar meno, ma di più, è ” (OF, 446).24 dʻaussi loin murmurer des paroles délicieuses avec la même voix fraîche et grave, Jean épiait chaque tintement avec une crainte croissante, au fur et à mesure des volées valentie, que la dernière écoutée ne fût plus suivie dʼaucune autre, mais en sentait bientôt palpiter une autre, si près de lui et si loin quʼil semblait sentir son cœur lointain dʼautresfois battre mélodieusement dans sa poitrinne. Pour pouvoir lui dire ces mots qui réveillent brusquement toute le cœur et que ceux-là seuls que nous aimons le plus ou nous connaissent le mieux peuvent nous dire, il fallait bien que Jean, dans ces retours anciens avec sa bonne, leur eût livré étourtiment les secrets déjàs profonds de son âme quʼelles avaient pieusement gardés. Mais à lʼheure où ce tramèrent ces liens si forts entre le cloches et la vie de Jean que le son dʼautres cloches suffirait plus tard à la lui rendre toute pour un instant, à lʼheure où les cloches prenaient son âme dʼalors pour la lui prêter plus tard quand il aurait besoin dʼy retremper son âme viellie, ils étaient encore si légers quʼil ne les sentait pas et quʼen essayant de lui en parler on ne lui parlait de rien”. Rimandiamo a dove, ne Il tempo ritrovato, questa pagina viene ripresa. Citiamo solo un brano in cui riaffiora lo “sforzo”: “Alors, en pensant à tous les événements qui se plaçaient forcément entre lʼinstant où je les avais entendus et la matinée Guermantes, je fus effrayé de penser que cʼétait bien cette sonnette qui tintait encore en moi, sans que je pouisse changer aux chaillements de son grelot, puisque ne me rappelant plus bien comment ils sʼéteignaint, pour les réapprendre, pour bien lʼécoute, je dus mʼefforcer de ne plus entendre le son des conversations que les masques tenaient autour de moi” (TR, 1046-1047). 24 Abbiamo incontrato unʼallure di discorso molto simile in Girard. “Si guarisce da una sofferenza solo a condizione di sperimentarla pienamente” (F, 126). Vedi in CSB, Proust, a proposito di Sylvie di Gérard de Nerval: “Questo racconto – che chiamate una pittura ingenua –, è, non dimenticatelo, il sogno di un sogno (cʼest le rêve dʼun rêve, rappelez-vous)” CSB, 237; 37); a proposito del sogno, da leggersi tutta la parte dedicata a Nerval. “Il ne faut jamais avoir peur dʼaller tropo loin car la vérité est au-delà” (lettera a Ernst Robert Curtius, 18 settembre 1922, CORR, XXI, 479). Da Jalousie: “Eh, signore, è che solo il male fa osservare e imparare, e permette di scomporre i meccanismo che, altrimenti, non si conoscerebbero. Un uomo che ogni sera cade come una massa nel suo letto e non vive più fino al momento di svegliarsi e di alzarsi, questo uomo penserà mai di fare, se non delle grandi scoperte, almeno delle piccole osservazioni sul sonno? A malapena sa di dormire (à peine sait-il sʼil dort). Un poʼ di insonnia non è inutile per apprezzare il sonno, per proiettare qualche luce in quella notte. Una memoria senza lacune non 27

Sempre in Allʼombra...: “Ora, i ricordi dʼamore non fanno eccezione alle leggi generali della memoria, rette a loro volta dalle leggi più generali dellʼabitudine. Siccome questa affievolisce tutto, quel che meglio ci rammenta una persona è proprio ciò che avevamo dimenticato (perché era insignificante e gli abbiamo lasciato tutta la sua forza). Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, nel soffio dʼun vento di pioggia, nellʼodor di rinchiuso dʼuna camera o nellʼodore dʼuna prima fiammata, dovunque ritroviamo di noi stessi quel che la nostra intelligenza, non sapendo come impiegarlo, aveva disprezzato: lʼultima riserva del passato, la migliore, quella che, quando tutte le nostre lagrime sembrano esaurite, sa farci piangere ancora. Fuori di noi? In noi, (Hors de nous? En nous) per meglio dire, ma sottratta ai nostri stessi sguardi, in un oblio più o meno prolungato (dans un oubli plus ou moins prolongé). Solo grazie a questʼoblio (cʼest grâce à cet oubli) che possiamo di tanto in tanto ritrovare lʼessere che fummo, situarci di fronte alle cose così comʼera situato quellʼessere, soffrire di nuovo, perché non siamo più noi, ma lui (parce que nous ne sommes plus nous, mais lui), e perché egli amava ciò che a noi è adesso indifferente (indifférent)” (OF, 643; 236). Alcune cose, una più interessante dellʼaltra: – lʼabbiamo già capito: il tempo (il categoriale) lo troviamo solo in noi: incorporato, immagazzinato; diventato sonno sognato fino in fondo; dimenticato. – Lʼoblio (la rimozione?) consente il “ritrovamento”; – e lo consente nella più grossolana delle trasgressioni del categoriale: nella disidentità; meglio: nella perdita del categoriale che è, per eccellenza, primcipium individuationis.

è un eccitatore moltto potente per studiare i fenomeni della memoria” (J, 64; 28- 29). Queste affermazioni concludono alcune pagine centrate sul tentativo di liberare ricordare il nome della signora dʼArpajon; ridefinito come tentativo di liberare “tenebroso prigioniero rannicchiato nella notte interiore” – definita, questʼultima, anche “gran ʻnascondinoʼ (grand ʻcache-cacheʼ)”. A dire la verità, la lettura di queste pagine, se non per le ipotesi a cui sembra approdare, sicuramente per il modo in cui queste ipotesi costruisce, ricorda le pagine dedicate da Freud, in Psicopatologia della vita quotidiana, al recupero del nome di Signorelli o al ripescaggio di quellʼ“aliquis” che lʼinterlocutore di Freud ha cassato nella citazione del virgiliano “exoriar(e) aliquis nostris ex ossibus ultor”. Tutta proustiana è, invece, la seguente considerazione: “Ed è più triste di quanto non crediate quando vi si [nella dimenticanza di un nome] sente lʼannuncio della stagione in cui i nomi e le parole svaniranno dalla zona chiara del pensiero (de la zone claire de la pensée) e in cui bisognerà, per sempre (pour jamais), rinunciare a nominare con se stessi (à se nommer à soi-même) coloro che si è conosciuti meglio” (ibdem). 28

Proseguiamo il discorso sullʼoblio-rimozione. In Sodoma e Gomorra il Narratore racconta come ha scoperto che la nonna era “perduta per sempre” proprio “ritrovandola” (nellʼatto di togliersi gli stivaletti si ricorda della nonna che glieli toglieva quandʼera piccolo: “Sconvolgimento di tutto il mio essere”) (SG, 755 sgg.; 911 sgg.): “Lʼessere che mi veniva in aiuto, che mi salvava dellʼaridità dellʼanima, era quello che, vari anni prima, in un momento di sconforto e di solitudine identici (identiques), in un momento in cui non avevo più nulla di mio (je nʼavais plus rien de moi), era entrato e mʼaveva restituito a me stesso (à moi-même), giacché era me e più di me (car il était moi et plus que moi) [...]”. Facilita il ricordo (involontario) la coincidenza di un gesto che si fa adesso con uno che si fece tanto tempo fa... Ma non è questo lʼessenziale, almeno qui; lʼessenziale è il chiarimento folgorante del superamento del principio di individuazione; attraverso lʼintervento, là dove non cʼè più niente di me, di qualcuno mi restituisce a me, perché è me... Correzione: “e più di me”. Il Narratore “per la prima volta” ha un ricordo “pieno e involontario”, della “vera nonna”; della “realtà viva”: “Tale realtà non esiste per noi finché non sia stata ricreata (recréée) dal nostro pensiero (se non fosse così, gli uomini che hanno preso parte a unʼimmane battaglia sarebbero tutti grandi poeti epici)”. Di nuovo la ricreazione (che è anche una vera e propria creazione)...25

25 Abbiamo già citato, nel cap. 4 di Edipo. Un innocente, il passo delle famose Petites Madeleines: “Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a lui trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta lʼanimo nostro si sente sorpassato da se medesimo (dépassé par lui-même); quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? Non soltanto: creare (Chercher? Pas seulement: créer). Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce” (SW, 45; 50). Vedi anche il passo dei Campanili di Martenville: “Quel piacere, il cui oggetto era solo presentito, e che io stesso dovevo creare (jʼavais à créer moi-même) [...]. Oppure non li avevo mai visti (ne les avais-je jamais vus) [...]” (OF, 77-78; 31-317); il passo dei tre alberi: “Ce plaisir [...] que jʼavais à créer moi-même” (OF, 718; 870)... “La creazione del mondo non è avvenuta una volta per tutte [...], avviene, deve avvenire ogni giorno” (TR, 458). Molto interessanti le pagine di Contro Saint- Beuve in cui è evidente una tensione tra creazione e ricostruzione: “E quel fanciullo che gioca così in me sulle rovine (sur les ruines) non ha bisogno di nessun nutrimento: si nutre semplicemente del piacere procuratogli dalla scoperta di unʼidea. Egli la crea, esso lo crea (il la crée, elle le crée)” / “In fondo, tutta la mia filosofia mira, come ogni filosofia vera, a giustificare, a ricostruire quel che è (à reconstruire ce qui est)” (CSB, 303 sgg.; 107 sgg.) 29

Ma, per venire allʼoblio-rimozione: “È certo lʼesistenza del nostro corpo, simile per noi a un vaso che racchiuda la nostra spiritualità, a indurci a supporre che tutti i nostri beni interiori, le nostre gioie possate.26 Forse è egualmente inesatto credere chʼessi sfuggano o ritornino (peut-être est-il aussi inexact de croire quʼelles sʼéchappent ou reviennent). Comunque sia, se restano in noi, per la maggior parte del tempo rimangono in un regno sconosciuto, dove non ci rendono nessun servigio, e dove anche i più usuali son soffocati da ricordi di un ordine diverso (et où elles même les plus usuelles sont refoulées par des souvenirs dʼordre différent) e che escludono ogni simultaneità (simultanéité) con essi nella coscienza. Ma, se riafferriamo la cornice di sensazioni (le cadre de sensations) dove son custoditi, essi hanno a loro volta il medesimo potere di scacciare tutto ciò che è loro incompatibile (ce même pouvoir dʼexpulser tout ce qui leur est incompatible), e dʼinsediare in noi (dʼinstaller [...] en nous) soltanto lʼʻioʼ che li ha vissuti. Ora, poiché quello che ero improvvisamente ridivenuto non esisteva più dalla sera lontana in cui la nonna mʼaveva svestito non appena giunti a Balbec, fu con estrema naturalezza, non dopo la giornata presente ignorata da quellʼʻioʼ, ma – come se esistessero nel tempo sequenze diverse e parallele – senza soluzioni di continuità (sans solutions de continuité), subito dopo (tout de suite après) la prima sera dʼun tempo, che aderii allʼattimo (à la minute) in cui la nonna si era chinata su di me. Lʼʻioʼ chʼero stato allora e che era stato così a lungo assente si trovava di nuovo tanto vicino a me che mi sembrava di udire ancora le parole immediatamente precedenti (les paroles qui avaient immédiatement précedé), che pur non erano ormai nulla più dʼun sogno (plus quʼun songe), come un uomo mal desto (mal éveillé) crede di distinguere accanto a sé i rumori del suo sogno che dilegua. Adesso ero soltanto quellʼessere [...]”. Rintracciamo solo alcuni filoni Forse è “inesatto” parlare di rimozione e di ritorno del rimosso; anche se si può parlare di “incompatibilità” (e si parla di refoulement).

26 “Nous ne voyons que nos corps parce que cʼest pas dans la catégorie du Temps que nous nous voyons” (C 51, ES XLI, TR, 877). “Et, désabusé de cette fausse idée de nous-même que nous donne lʼhabitude pour la commodité de la vie de nous identifier avec notre corps, ce qui fait que nous < nous > représentons notre pensée comme quelque chose du volume à peu près dʼune banane, pour quʼelle puisse tenir entre nos yeux et notre cheveux –, et lʼabitude aussi de ne pas nous voir dans le temps [...]” (C 11, ES XLII, TR, 901). 30

O forse è giusto parlare di “mozione” in ogni caso; sia quando lʼesperienza vissuta viene a forza espulsa dalla coscienza che quando essa vi viene a forza immessa. Lʼespulsione è così immediata e radicale che lʼio protagonista di questa esperienza da allora in poi è come se non fosse mai esistito; solo lʼincidente (involontario) che lo immette di forza nella coscienza lo ricrea (lo crea). La “continuità” è una continuità tutta particolare: quella tra un vissuto intensissimo après-coup e lʼesperienza (equivalente) che è stata immediatamente espulsa... Perché in questione è lʼ“attimo” (la “minute”). La fenomenologia di questa esperienza ripete quella del risveglio da un sonno profondissimo. Lʼinconscio freudiano, quindi, è traducibile in un “regno sconosciuto” dei vissuti mancati. Mancati perché il non categoriale non viene rimosso; proprio perché è per sua stessa natura invivibile (nel categoriale). La vera incompatibilità è tra categoriale e non categoriale. Siamo ingannati dal fatto di avere un corpo; che rassomiglia a un vaso; il quale ultimo “contiene”...27

27 A proposito del contenere etc., un passo almeno apparentemente contraddittorio, “E proprio perché contengono (contiennent) così le ore del passato i corpi umani possono far tanto male a coloro che li amano: perché contengono tanti ricordi di gioie e di desideri già svaniti in loro, ma così crudeli per colui che contempla e prolunga nellʼordine del Tempo il corpo diletto di cui è geloso, geloso fino a desiderarne la distruzione” (TR, 390). 31

Cap. 2

IMBARCHIAMOCI NEL SOGNO DI PROUST

[...] mais pour une jeune fille qui ne serait dʼabord sur lʼhorizon de la mer, quʼune fleur ]...] mais une fleur pensante (F, 501) Lʼhomme nʼest quʼun roseau, le plus faible de la nature, mais cʼest un resau pensant (Pensées, 186)

“je mʼétais embarqué sur le sommeil dʼAlbertine” (P, 72) “Oui, mais il faut marier. Cela nʼest pas volontarie, vous êtes embarqué” (Pensées, 397) “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi (Wir haben das Land verlassen und sind zu Schiff gegangen! Wir haben di Brücke hinter uns, – mehr noch, wir haben das Land hinter uns abgebrochen!)” (la gaya scienza, af. 124)

“Seulement le cœur – ou le corps – a ses raisons que la raison ne connaît guère” (Lettera Jaque Bizet, 1888, CORR, I, 104). “Le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point” (Pensées, 397).

“Joie, pleurs de joie, joie” (lettera a Antoine Bibesco, marzo 1903, CORR, III, 258: Bibesco torna a Parigi nel 1903. Proust non può riceverlo. Gli manda questo biglietto) “[...]. Dieu dʼAbraham, Dieu dʼIsaac, Died de Jacob, non des philosophes et des savants. [...]. Père, juste, le monde ne tʼha point connu, mais je tʼai connu, Joie, joie, joie, pleurs de joie. Je mʼen suis séparé. [...]” (Pensées, 711)

16 versioni... Lʼeroe di sveglia in piena notte; ha perso la nozione dello del tempo e dello spazio... si crede in una camera dove ha dormito tanto jadis... pensa allʼarticolo sul Figaro... si alza e la madre gli porta lʼarticolo... Contraddizione: se lʼeroe, malato, dorme solo di giorno, come è potuto precipitare in un sonno così profondo da fargli dimenticare la disposizione della camera? Questa contraddizione è 32

risolta provvisoriamente: dormivo solo di giorno e quella notte ebbi solo pochi minuti di sonno ma mi prese così bruscamente... Alla fine Proust trova una soluzione migliore: oppone “autrefois”, quando lʼeroe conduceva una vita normale e dormiva la notte e “mentenant” quando, divenuto insonne, dorme solo di giorno (vedi Introduzione, ed. Tadié, vol. 1, p. 1960).

“[...] lʼinteresse dellʼesistenza risiede quasi tutto nelle giornate in cui la polvere della realtà è mista a nebbia magica, in cui un banale incidente diventa una molla romanzesca. Un intero promomtorio del mondo inaccessibile sorge allora dalla luce del sogno ed entra nella nostra vita, dove, simile al dormente che si risveglia (comme le dormeur éveillé), scorgiamo le persone sognate, così ardentemente sognate da credere che non le avremmo mai viste se non in sogno” (AF, 865; 1047-1048).28

1) La pre-ouverture della Recherche

Nei Cahiers Marcel Proust 11, ho trovato un articolo di Bernard Brun: Le dormeur éveillé. Genèse dʼun roman de la mémoire.29 Straordinario. Il titolo richiama uno dei racconti delle Mille e una notte che ha ispirato (insieme a Sommeil et les rêves di Alfred Maury)

28 Sembra proprio che Proust abbia fatto tesoro delle meditazioni di Schopenhauer relative alla musica. Questa sarebbe “la copia dʼun modello (la Volontà) che non può mai essere rappresentato direttamente”. Come dire: la musica attinge lʼacategoriale; il musicista lʼincarna lʼessenza in un paradigma analogo, tratto dal mondo reale. Nel cahier 58 (scritto alla fine del 1910), la frase che descrive lʼaffiorare del ricordo ha lo stesso stampo della celebre frase che termina lʼepisodio della madeleine. Ma qui è la musica che occupa e svolge il ruolo del gioco giapponese: “[...] refaisant le même pas que jʼavais fait pour quʼil fît renaître encore une fois lʼinsaisissable frôlement des visions indistinctes qui proposaient impérieusement à mon esprit lʼénigme de leur bonheur. Toutes les fois où je réussissais à ne pas me contenter de faire naturellement le pas avec ma jambe mais à le refaire en quelque sorte en moi où mon âme retrouvait assez dʼélan pour retoucher une fois encore le point intérieur quʼelle nʼavait saisi mais dont le concact instantané et glissant lui causait une telle joie, à ce moment-là, comme certaines pages musicales ont souvent le don dʼévoquer certains paysages [...]” (C 58, ES, XXIV, TR, 804). 29 Études proustienne IV. Proust et la critique anglo-saxonne (Gallimard, Paris, 1982, pp. 239 sgg.). 33

Proust ancora prima che per la grande ouverture della Recherche, per il “preambolo narrativo” del suo “saggio” Contre Sainte-Beuve.30 (Ho riletto, qualche giorno dopo, lʼincipit della Recherche. Straordinario bis. Quasi tutto è stato conservato, precisato, superato. Mi ha colpito, come già-freudiano, lʼespressione: “semplicité primière”: “[...] non sapevo dove mi trovassi e, in un primissimo momento, nemmeno chi fossi; avevo nella sua semplicità primaria (dans sa semplicité primière) soltanto il sentimento dellʼesistenza così come può fremere nella profondità di un animale” [SW, 5; 8]. Ricordate la scena “primaria”?). Lʼincipit della Conversation avec maman, che doveva contenere la teorizzazione estetica del Contre Sainte-Beuve, si gioca tutto sulle vicissitudini nellʼaddormentarsi e del ridestarsi.. Si tratta di vicissitudini che producono diversi “errori”...31 Il Nostro è, infatti, disorientato del tempo e nello spazio;32 si trova estraneo al concatenamento causa-effetto33... Da un certo punto in poi però, questi errori assumono un valore positivo: mettono in moto la memoria... della camera... di tutte le

30 Siamo autorizzati ad utilizzare i materiali dei Cahiers dal fatto che Proust ha conservato tutto; in modo quasi maniacale. (Ha fatto bruciar nel corso nel 1917, da Céleste, nel grande forno della cucina, trentadue “taccuini neri”. Si pensa che la materia di questi Cahiers sia stata ricopiata e messa in bella altrove. Proust non distruggeva nulla che potesse ancora servigli; così ha sempre conservato Jean Santeuil. 31 “Plus triste est lʼerreur du malade” (C3, 251). Ma questo malato è anche uno che sʼaddormenta, si sveglia, si riaddormenta... 32 “/ Et la porte ayant changé de place, met à côté de nous, au lieu du couloir sʼen allant dans la maison, une cour, le mur” (C3, 245);32 “[...] et nous flottons incertains entre les lieux et les années qui tornent autour de nos yeux étourdis qui ne peuvent sʼouvrir” (C3, 246-247); “Jʼavais du mʼendormir assez brusquement, et sans garder avec moi le plan de la chambre. Jʼavais du être surpris par le sommeil / mʼendormir assez brusquement et sans avoir le temps de / oublié de / Jʼavais du mʼendormir assez brusquement Le sommeil avait du me prendre assez brusquement à un moment où jʼavais laissé un instant tomber de la pensée le plan du lieu où je me trouvais; quand je mʼéveillai je lʼavais perdu; je ne savais pas où je me trouvais” (C3, 250); “Et ils sʼéveiellent et leur corps / ses membres étourdis cherchent à reconnaître leur position, sʼils sont étendus sur le sopha du club ou dans le son corps < étourdi > cherche à reconnaître sa position, sʼil sʼéveille vient de dormir assis dans le fauteuil du club ou couché sur le plancher de la barcque, et tandis que le dormeur lʼâme du dormeur encore à peine éveillé hésite et attend hors de lʼespace et du temps entre les lieux, les conditions et les années, ses membres cherchent dans leur mémoire les souvenirs de leurs attitudes lʼimage des lieux” (C3, 254)... 33 Vedi più avanti. 34

camere34 in cui, nel passato e altrove, il Narratore si è addormentato... Brun spiega in che modo la memoria messa in moto dal risveglio brusco (tout dʼun coup)35 seguìto, a sua volta, ad un brusco addormentarsi (sulla poltrona, sulla barca, sul letto...) contribuisce a strutturare, insieme alla memoria propriamente “involontaria”, il romanzo in cui “il narratore racconta il dormente svegliato che racconta lʼeroe”... Quel che sʼè presentato come un “incidente” (lʼaddormentarsi o il risvegliarsi), pur conservando molto dellʼin-cidentale, acquista tutto il valore “rivelatorio” del tout dʼun coup.36 Questo spiega come mai la “cérémonie du dormir” (C1, 280), dʼapprima definita “la place du crucifix” (C1, 279), diventa la fonte dellʼimmortalità... In ogni caso, lʼingresso nel misterioso, quello stesso in cui non cʼè più, infine!, il concatenamento causa-effetto: “Quʼelle était reposante pur mes yeux cette obscurité mysterieuse que je retrouvais là sans me souvenir quʼelle y était déjà quand je mʼétais endormi qui me semblait venue là sans que je mʼen fusse aperçu, et plus reposante encore pour mon esprit < qui sentait quʼil était suspendu pour une seconde encore < comme > dans ce hamac délicieux qui ne touche pas au monde intell[ectuel] / des effets audessus de la terre, sans plus saisir lʼenchaînement des effets et des causes >” (C5, 262). “Mais Maman alors dort dans la chambre et je nʼentends pas sa respiration ni le bruit de la mer. Mon lit change encore de direction ou

34 “Toutes celles quʼil avait eues < depuis mon enfance > se présentaient successivament à sa mémoire < obscure, > reconstruisant < chacune > autour dʼelles, toutes le chambres tous les lieux” (C1, 277). 35 Citiamo solo due luoghi in cui i tout dʼun coup sʼinfittiscono... Essi preannunciano la fenomenologia della memoria involontaria... Il dormiente che si sveglia di colpo, anche di colpo si è addormentato... “de ces mots où brusquement on croit sentir la dame jusque là indifférente avait tout dʼun coup < un > de ces mots par qui je mʼaperçevais < tout dʼun coup placé à mon insu > dans sa vie à elle, où je nʼavais pas cru que je fusse entré” (C1, 285); “Tout dʼun coup jʼapercevais Jʼavais établi que se trouvait autour de moi, ici la commode, là la cheminée, plus loin la fenêtre. Tout dʼun coup je voiais” (C1, 286)... 36 Citiamo solo due luoghi in cui i tout dʼun coup sʼinfittiscono... Essi sono preannunciano la fenomenologia della memoria involontaria... Il dormiente si sveglia di colpo; ma anche di colpo si è addormentato... “de ces mots où brusquement on croit sentir la dame jusque là indifférente avait tout dʼun coup < un > de ces mots par qui je mʼaperçevais < tout dʼun coup placé à mon insu > dans sa vie à elle, où je nʼavais pas cru que je fusse entré” (285); “Tout dʼun coup jʼapercevais Jʼavais établi que se trouvait autour de moi, ici la commode, là la cheminée, plus loin la fenêtre. Tout dʼun coup je voiais” (C1, 286)... 35

plutôt je ne cros pas que ce soit un lit [... ]” (C1, 277 + 282 et passim)... Il letto è un letto o altro? Su di esso la madre dorme e respira: “Mais Maman alors dort dans la chambre et je nʼentends pas sa respiration ni le bruit de la mer. Mon lit change encore de direction ou plutôt je ne cros pas que ce soit un lit ]” (C1, 277 + 282 et passim). Proprio così, è dice “bonsoir” etc...37

2) Oltre lʼAntico e il Nuovo Testamento

Abbiamo citato nel terzo capitolo un “pezzo”, un pezzo-forte di cui qui cerchiamo di richiamare lʼessenziale per punti.

37 “[...] et Maman je suis souffrant et Maman dort dans la même chambre au fond, pour mʼen assurer je veux tâter sʼil nʼy a pas de tapis et appeler Maman, mais ma voix ne peut pas sortir de ma bouche et mon bras ne remue pas et pendant un istant encore les formes, et les temps vont tourner autour de mon corps étourdi et rompu [...]” (C3, 248). In ogni “devant lui la chambre où ses parents dorment côte à côte” (C3, 246). La madre viene a dirgli “bonsoir” (o bonjour...): “Comme jʼavais déjà pris lʼhabitude de ne dormir que le jour, on entrait chez moi 8 heures cʼétait le momenti où Maman entrait me dire bonsoir (jʼavais déjà pris lʼhabitude de < ne > dormir que le jour, je mʼendormais après le 1er courrier” (C1, 247). Lo bacia/abbraccia: “Maman entra dans ma chambre et mʼembrassa avec pour me donner mes lettres. Elle nʼentrait quʼun moment à celle heure là. Elle avait ce visage. La tendresse nʼétait pas cachée sur son visage, comme autrefois quand elle espérait faire de moi un homme vaillant et quʼelle voulait diminuer et entretenir le moins possible lʼexaltation de ma tendresse pour elle. Maintentant elle accordait jʼétais un malade quʼelle nʼespérait plus guérir et elle cherchait à me donner des consolations. Et puis les chagrins avaient brisé sa volonté. Et sa voix son visage restaient toujours en une harmonie secrète avec ceux quʼelle pleurait comme si quelque chose de rude avait du leur faire du mal. Elle avait gardé quelque chose dʼun geste dʼinfini respect, de timidité infinie dʼinfinie douceur avec lequel au cimetière elle avait laissé tomber comme épouvantée, les en poussière légère et brisée la pelletée de terre sur le cercuil de sa mère. Même sa gaîté avec nous nous restait douce, et se jouait sans éclat et sans monter jusquʼà lui audessous de son chagrin. Elle avait A cette heure là pourtant elle mʼembrassait vite et se retirait < ne restait jamais à causer, > pour me montrer que admettant que malade, je dormisse le jour mais ne voulant pas laisser périmer en moi pour des jours meilleurs lʼhoraire dʼune vie saine et pratique, et me montrer quʼil ya [des] heures pour tout [...]!” (C 3, 255-256). Anche qui il campanello: “Tout à lʼheure le réveil va sonner, il faudra se lever vite pour avoir le temps de descendre à la cantine boire une un verre de café au lait avant de partir musique en tête dans la campage” (C5, 277). 36

(I frammenti collazionati da Brun sono riportati nellʼordine in cui essi sono stati scritti...38 Essi ricoprono ottantaquattro pagine (Proust 45, Proust 88, C3, C5, C1, 242-286). Un bel poʼ se consideriamo che siamo ai primi abbozzi dellʼouverture della Recherche... La lettura di una piccola parte di questi Cahiers ci aiuta a capire come lavorava Proust: il metodo adottato da Proust gli permette “di sviluppare simultaneamente diversi progetti e di riprenderli poi, isolatamente, su vari fogli o cahiers. [...]. La stessa scena o lo stesso paragrafo sono [...] ripresi innumerevoli volte (alcuni paragrafi addirittura trentacinque”39) 1) Risveglio: “Je rallumais un instant”, 2) Desiderio che suoni il campanello: quel suono significherà il soccorso (colui che dorme, infatti, è un malato ed è stato colto da una grave crisi): “Quel bonheur, il pourra sonner, on viendra lui porter secours.” 3) “J'éteignais, je me rendormais”. 4) Sogno: come Eva nacque da una costola dʼAdamo, una donna nasce da una posizione della sua coscia... 5) Nel sogno pensa che il piacere gli deriverà dalla nuova Eva; ma si tratta di unʼillusione: “je mʼimaginai que cʼétait ellequi me lʼoffrait”. 6) I “baisers” da chi vengono? 7) Siamo nella veglia o in un luogo dove è possibile ricordare: il curato gli tirava i boccoli. 8) Questo il terrore dellʼinfanzia (qui definito come “la dure Loi”). 9) La liberazione da questo terrore avviene attraverso il taglio dei boccoli e rappresenta un punto di rottura: “La chute deKronos, la découverte de Prométhée, la naissance du Christ avaient pas pu soulever aussi hautle ciel audessus de lʼhumanité jusque là écrasée, que nʼavaitfait la coupe de mes boucles, qui avait entraîné avec elle àjamais lʼaffreuse appréhension”.40 10) Ricorriamo qui ad un frammento precedente in cui (a) il punto di rottura è paragonato solo a quello determinato dalla caduta di Kronos (per il momento niente Prometeo e Cristo); ma, in compenso, (b) il taglio dei boccoli è descritto come un decollamento (evirazione; Sansone); come (3) la soppressione di un organo (la mente va alla mancanza dellʼorgano adatto a

38 Le parole cancellate da Proust sono in corsivo; le cancellazioni successive sono separate da una barra obliqua; le aggiunte sono messe tra (< >)... Talvolta incontriamo dei refusi... 39 Tadié, Proust, 1983, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1985, pp. 18, 20). 40 Svegliatosi dallʼincubo si accorge che... “jʼavais les cheveux ras” (C5, 260). 37

baciare ne La prigioniera): “[...] le supplice de mon enfance [...] avait pris fin il y avait plus de dix ans au moment où on mʼavait à jamais coupé mes boucles, [...] / dans la région comprise entre ma tête et mon corps / la < courage > indifférence de ma nuque conquête de sa liberté La sereine indifférence de ma nuque, conquise depuis le jour où elle avait été affranchie de ses terreurs par la suppression de lʼobjet organe qui en était de siège” (C5, 263). 11) Quindi, almeno a questo punto, sembra che il taglio dei capelli, lʼevirazione vera e propria, “tolga” (hegelianamente) il terrore dʼessere tirato per i capelli “da dietro”... Tolga, cioè, la paranoia. Forse attraverso quel famoso meccanismo che va sotto il nome di trasformazione del passivo in attivo? Che “toglie”, hegelianamente, per conservare: toglie di mezzo ma anche toglie in moglie = mette al centro. Questo meccanismo, da San Paolo in poi, va sotto il nome di Grazia. Vedremo meglio la grazia proustianamente intesa al lavoro: quando trasformerà il “manque de volonté” in “mémoire involontaire”... 12) Qui sembra che i boccoli, al Narratore, glieli abbiano tagliati... Su sua richiesta? Ricordo che i miei boccoli mio padre decise di farmeli tagliare dal barbiere quando protestai: già da troppo tempo allʼasilo mi scambiavano per una bella bambina. Ricordo che sollevavo il grembiule... Solo adesso colgo il “volgare” dellʼatto esibizionistico: sono un uomo, guardate qua! 13) Prima di proseguire: sì, nel nuovo regime (Nuovo Testamento) la paura della castrazione non cʼè più... Ma, forse, è stata sostituita da altre paure (lʼevirazione non è stata “à jamais”): “À vrai dire dʼautres cra[intes]souffrances cet dʼautres craintes lʼavaient peutʼêtre remplacée, mais si différentes que c'était le monde de la nouvelle Loi mais lʼaxedu monde avait été déplacé”. 14) Da quel che segue – pensieri del sogno o della veglia o del dormiveglia – si capisce che adeguato è il richiamo alla venuta del Cristo; essa ha, infatti, portato una nouvelle Loi (un Nuovo Testamento)41 opposto alla Loi encienne (allʼAntico Testamento, la dure Loi). La vecchia legge, il Vecchio Testamento (il luogo del terrore) è rappresentato dal sonno/sogno: “Ce monde de lʼancienne loi jʼyrentrais aisément en dormant, je ne mʼéveillais”...

41 Una “nuova era”: “perte de mes boucles < mʼavait délivré un > / [et que] depuis un évènement < qui en mʼen délivrant > data pour moi une ère nouvelle, le jour où on coupa mes boucles, je ne peux plus concevoir” (C1, 274). 38

15) Il terrore della castrazione (il curato che tira i boccoli dal di dietro derrière ma tête: paranoia) incombe di notte. È smentito nella veglia dalla rassicurazione: i boccoli sono stati tagliati. Prima di dormire – “Et avant de me rendormir,me rappelant bien que le curé était mort et que jʼavais lescheveux courts” – il sognatore si crea un nido protettore (il famoso bacio del “drame du coucher”, in quanto “ostia”, “viatico” etc., non avrà il compito di produrre quel che qui è pensato come gesto di autotutela? (vedremo più avanti il ricorso ad un bacio autoerotico): “Et avant de me rendormir,me rappelant bien que le curé était mort et que jʼavais lescheveux courts, jʼavais tout de même soin de me faire aveccimenter avec lʼoreiller, le drap et la couverture, mon mouchoir et le mur un nid protecteur, où je avant de rentrer dansce monde bizarre où tout de même le curé vivait et jʼavais desboucles”. 16) Qui il Narratore incrocia altre sensazioni – quelle relative alla masturbazione, arte impoetica e poetica insieme – che equivalgono a quelle oniriche. Qui scoppia il grido di gioia: esse coincidono con “le son des cloches de Pâques”. Ma il Narratore capisce che queste sensazioni – provate in occasione della masturbazione possono successivamente tornare soltanto in sogno. Da cui il diventare del sogno, da dura legge, anche alcova di piacere: “Des sensations qui < ellesaussi > ne reviendront plus, quʼen rêve”. 17) Meglio ancora: il Narratore, di queste sensazioni osa parlare solo in quanto oniriche: “De cessensations là je n'oserais pas parler, si elles ne revenaient / si ellesnʼétaient à cette époque quelquefois revenues dans mon sommeil”. 18) In quanto sensazioni oniriche – o che sono capaci di inaugurare il sogno – esse coincidono con il primo amore che è “involontario”: “La Rochefoucauld a dit que nos premières amoursseules sont involontaires. Il en est ainsi aussi de ces plaisirssolitaires qui plus tard ne nous servent quʼà tromper lʼabsenced'une femme, à nous figurer quʼelle est avec elle”. 19) Si può, quindi, affermare che lʼautoerotismo è “involontario” (A). 20) Aggettiveremo ulteriormente questo piacere. Proseguiamo: questo piacere il Narratore lo cerca, per la prima volta, nel cabinet chiuso. Qui succede qualcosa di interessante: il Narratore chiuderà nel momento culminante le finestra; ma lʼiris o il lillà (il giovane lillà) che si è intromesso attraverso un interstizio, fungerà da testimone (il seme – frutto proibito – andrà “come” a rompere il suo ramo...). La finestra è un 39

elemento centrale della scena. Qui non una via per spiare qualcun altro, ma una via attraverso la quale giungono i testimoni del nostro piacere: “Mais à douzeans quand [...] jʼallai m'enfermer pourla 1re fois dans le cabinet [...] où des colliers de graines dʼirisétaient suspendus, < ce que je venais chercher > c'était unplaisir inconnu, special original, qui nʼétait pas lasubstitution dʼun autre”. 21) Intanto, unʼaltra definizione del piacere autoerotico: esso è “originale” (B); non sostituisce un altro (sarà il contrario: ogni altro piacere sostituirà quello autoerotico; ma, non trascuriamo che qui si tratta del “prino” piacere autoerotico (“pourla 1re fois”; ʻLa Rochefoucauld a dit quʼon nʼaime quʼune fois dansa sa vie. “Les autres amours sont moins involontairesʼ” [C5, 265]). 22) A dire il vero cʼè anche una esibizione; si potrebbe dire che il primo piacere (proprio per questo “amore”) autoerotico è condiviso con un giovane fiore: “Elle fermait parfaitement à clefs, mais la fenêtreen était toujours ouverte laissant passage à un jeune lilas quiavait poussé sur le mur extérieur et [...] avait passé parl'entrebaillement sa tête odorante. Si haut (dans les comblesdu château) jʼétais absolument seul mais cette apparence dʼêtreen plein air [...] ajoutait un trouble délicieux [...] au sentiment de sécurité que de solides verroux donnaient à ma solitude”. 23) Una terza definizione (C): piacere autoerotico, condiviso con un giovane lillà, non è esteriore ma interiore: “Lʼexploration que je fis alors en moi-même à la recherche dʼun plaisir que je ne connaissais pas”. 24) La precisazione che il piacere, quello provato la prima volta (vedi sopra), oltre che essere autoerotico è anche “interiore” è essenziale. Lʼ“en moi-même” è lʼantesignano dellʼinteriorità di tutto, piacere e dispiacere. E richiama lʼinvito di San Agostino: “Noli foras ire. In te ipsum redi. In interiore homine, habitat veritas”. 25) Quarta definizione (D): è extra-temporale: “[Lʼexploration] ne mʼaurait pas donné plus dʼémoi, plusdʼeffroi, sʼil sʼétait agi pour moi de pratiquer à même mamoëlle et mon cerveau une opération chirurgicale. À toutmoment je croyais que jʼallais mourir. Mais que mʼimportait,ma pensée exaltée par le plaisir sentait bien quʼelle était plusvaste, plus puissante que ce monde cet univers que j'apercevaisau loin par la fenêtre et que / dont en temps habituel où danslʼimmensité et lʼéternité duquel je pensais < en temps habituel > avec tristesse que je nʼétais 40

quʼune parcelle éphémère.En ce moment aussi loin que les nuages sʼarrondissaient audessus de la forêt, je sentais que mon esprit allait encore unpeu plus loin, quʼil / et laissait entre la fin / lʼextrémité des choses etnʼétait pas entièrement rempli par elles, laissait une petitemarge encore. Mon regard Je sentais mon regard puissant dansmes prunelles porter comme de simples reflets sans réalité lesbelles collines bombées qui sʼélevaient comme des seinsdes deux côtés du fleuve. Tout cela reposait sur moi, jʼétaisplus que tout cela, je ne pouvais mourir”. 26) In un frammento anteriore: “Je ressuscitais à une vie où je nʼavait / jʼéprouve en dormant les sensations des années pendant lesquels jʼépruvais ces sensations, ces idées bizarres dʼun autre temps que nous ne pensions plus pouvoir jamais ressentir [...]” (C5, 259-260). Qui lʼaggettivazione “bizzarro”, prima usata per qualificare il regno del terrore (vedi anche “ce mond bizarre où jʼavais de nouveau des boucles” [C1, 275]), caratterizza il regno del passato, del risuscitato. 27) Ad ogni modo, le sensazioni sono “détachées de toute ma vie présente”.42 28) A questo punto il frutto della eiaculazione appare insieme come il frutto proibito che, colto, dà accesso alla conoscenza; ma anche come il tramite per lʼaccesso alla tenerezza. In ogni caso, allʼio interiore: “À ce moment lʼodeur du lilas je sentis < comme > unetendresse qui mʼentourait, ʻ'était lʼodeur du lilas que dansmon exaltation jʼavais cessé de percevoir et qui venait à moi,qui venait à moi comme [...]. Mais une odeur âcre qui < une odeur de séve > sʼymêlait comme si jʼeusse cassé la branche; jʼavais seulementlaissé sur la feuille une trace argentée et naturelle, comme lefait le fil de la vierge ou le colimaçon. Mais sur cette brancheil mʼapparaissait [une trace argentée et naturelle], comme le fruit défendu dans le sur lʼarbredu mal. Et comme les peuples qui donnent à leurs divinitésdes formes inorganisées, ce fut sous [...] lʼapparence [...] ce fil dʼargent quʼon pouvait tendre presque indéfinimentsans le faire finir [...] et que je devais tirer de moi-

42 “< Cʼétaient aussi > dʼautres impressions, à peine plus moins anciennes, < mais > si basses quʼun écrivain serait inexcusable de les dépeindre si lʼimpossibilité où on est de les ressentir une fois passée la première adolescence, ne fais[ait] leur en laissant le parfum, donnait quand elles passaient se montraient dans mes rêves ce charme dʼêtre détachées de tout lien avec la réalité terre, de sʼy épanuir comme des fleurs dʼeau [...]” (C5, 254-265). 41

même, en allant tout au rebours de ma vie naturelle, que je me représentais dès lors et pour quelque temps le diable”. 29) La divinità e il diavolo coincidono? Sicuramente lʼAntico Testamento è diventato un altro Nuovo Testamento = il sogno è diventato, da luogo di terrore, luogo di scoperta (e di scoperta della vita eterna = della conoscenza). 30) Si dovrebbe concluderne che la Recherche produce una rottura epistemologica ed esistenziale tra Antico e Nuovo Testamento e unʼaltra prospettiva... 31) Richiamiamo un frammento anteriore semplificandolo al massimo: “Je me rendormais. Parfois pendant mon sommeil, CommeEve [...] sortit dʼune côte dʼAdam, une femme [...] sʼélevait dune fausse position de ma cuisse. [...]. < Je lʼembrassais, > Je mʼéveillais. [...]. < le reste du monde mʼapparaissait comme bien peu réel auprésde celle que je venais de quitter, > jʼavais encore aux lèvres le goût de la saveur de sajoue [...]. Bientôt jʼavaisoublié la fille voluptueuse de mon rève, aussi vite que si çʼavait été une amante véritable. [...]. Dʼautres fois [...] jʼerrais en dormant dans ces années perdues dont les portes ne serouvraient pour nous que dans le sommeil. Et mon rêve / Dans mon réve j'étais< devenu > celui que je n'avais plus cru possible d'être jamais” (C5, 264).

3) Nous nous sommes embarques

Imbarchiamoci nel sogno di Proust. O meglio, in quella sorta di passaggio continuo dalla veglia al sogno e dal sogno alla veglia, transitando per la zona umtratile e luminescente che è il dormiveglia: ogni interpretazione onirica, vigile e semi-vigile, in un circolo ermeneutico senza fine, diventa meta-intepretazione di tutte le interpretazioni precedenti. “Cʼest le m[oment] lʼheure où le malade qui passe la nuit dans un hotel étranger et qui est éveillé par un crise affreuse, se réjouit en apercevant sous la porte une raie de jour.43 Quel bonheur, il pourra sonner, on vientra lui porter secours. À ce moment la raie de jour qui brillait sous sa porte sʼéteint. Cʼest minuit, on vient dʼéteindre le gaz

43 Alla “raie de jour” dellʼincipit di Du côté de chez Swann, corrisponderà, alla fine de À lʼombre des jeunes filles en fleurs, un “pan de soleil”. Allʼultimo momento Proust trasferisce in questo volume la scena dellʼapertura delle tende della camera di Balbec da parte di Fraçoise: gioioso contrasto con i “couchers” e i “reveils” inquieti che iniziano il romanzo... e lo assillano. 42

qu'il avait pris pour le matin et il lui faudra rester toutela longue nuit à souffrir intolérablement, sans secours. Jʼéteignais, je me rendormais. Quelquefois comme Eve naquitdʼune côte dʼAdam, une femme sʼélevait naissait d'une fausseposition de ma cuisse. Pétrie du Formée par le plaisir quejʼétais sur le point de goûter, je mʼimaginai que cʼétait ellequi me l'offrait. Mon corps qui sentait en elle sa proprechaleur voulait se rejoindre à elle, je mʼéveillais. Tout lereste des humains mʼapparaissait comme bien lointain àc[ôté] / auprès au prix de cette femme que venais de quitter,avec qui jʼavais connu tant de plaisir; cʼétait la plus récenteet la plus / et je lʼavais vue de cette manière jʼavais la tête joue< encore > chaude encore de ces baisers, le corps courbaturé par le poids de sa taille. Puis / Bientôt Peu à peu, jʼavaisson souvenir se dissipait sʼévanouissait; et bientôt jʼavais oubliéla fille de mon rêve < maintenant > aussi vite que si cʼeutété une amante véritable. Dʼautres fois je rentrais me promenais en dormant dans ces jours de notre enfance, jʼéprouvais sans effort ces sensations qui ont à jamais disparu avecla dixième année et que, dans leur insignifiance nous voudrions tant connaître de nouveau, comme quelquʼun quisaurait ne plus jamais revoir lʼété aurait aussi bien la nostalgiemême du bruit des mouches qui est dans la chambre quisignifie le chaud soleil dehors, même du grincement desmoustiques qui signifie la nuit parfumée. Je rêvais que notrevieux curé allait me tirer par mes boucles, ce qui avait été laterreur, < la dure Loi >, de mon enfance. Cette La chute deKronos, la découverte de Prométhée, la naissance du Christ avaient pas pu modifier aussi complètement soulever aussi hautle ciel audessus de lʼhumanité jusque là écrasée, que nʼavaitfait la coupe de mes boucles, qui avait entraîné avec elle à jamais lʼaffreuse appréhension. À vrai dire dʼautres cra[intes]souffrances et dʼautres craintes lʼavaient peutʼêtre remplacée, mais si différentes que cʼétait le monde de la nouvelle Loi mais lʼaxedu monde avait été déplacé. Ce monde de lʼancienne loi jʼyrentrais aisément en dormant, je ne mʼéveillais quʼau momentoù le curé me ayant vainement essayé dʼéchapper au pauvrecuré, mort aprés tant dʼannées, je sentais mes bouclesvivement tirées derrière ma tête. Et avant de me rendormir,me rappelant bien que le curé était mort et que jʼavais lescheveux courts, jʼavais tout de même soin de me faire aveccimenter avec lʼoreiller, le drap et la couverture, mon mouchoir et le mur un nid protecteur, où je avant de rentrer dansce monde bizarre où tout de même le curé vivait et jʼavais desboucles. Il y a dʼautres sensations encore qui caractérisent une enfance à peineun peu plus adolescente. Elles sont de celles dont on ne devrait 43

pasparler si elles / pourrait pas parler, si elles < nʼ > étaient exclusivement attachées à un âge si lointain, quʼelles / Parmi dʼautres sensations par elles mêmes peu poétiques qui sont si inséparables dʼun âge[pass. illis.]. / Il est des sensations Des sensations qui < ellesaussi > ne reviendront plus, quʼen rêve, caractérisent lesannées qui suivent, et si peu poetiques quʼelles soient, sechargent de toute la poésie de cet âge, comme rien ne nʼestsi plein du son des cloches de Pâques et des premières violettesque ces derniers froids de lʼannée qui gâtait nosvacances et forcaient à faire du feu pour le déjeuner. De cessensations là je n'oserais pas parler, si elles ne revenaient / si ellesnʼétaient à cette époque quelquefois revenues dans mon sommeil quirevenaient alors quelquefois dans mom sommeil je nʼoseraispas parler, si elles nʼy apparaissaient étaient apparues, presquepoetiques, détachées de toute ma vie présente, comme blanchescomme ces fleurs dʼeau qu'on dont la racine ne tient pas à laterre. La Rochefoucauld a dit que nos premières amoursseules sont involontaires. Il en est ainsi aussi de ces plaisirssolitaires qui plus tard ne nous servent quʼà tromper lʼabsencedʼune femme, à nous figurer quʼelle est avec elle. Mais à douzeans quand on va sʼenfermer la 1re foi[s] jʼallai mʼenfermer pourla 1re fois dans le cabinet qui était en haut du château et < denotre maison à Combray > où des colliers de graines dʼirisétaient suspendus, < ce que je venais chercher > cʼétait unplaisir inconnu, special original, qui nʼétait pas la substitution dʼun autre. La fenêtre Cʼétait, pour des cabinetsune très grande pièce; le plaisir / sentiment de sécurité que jʼavaisà y être enfermé seul était rendu plus troublant par la fenêtre ouverte où un jeune lilas, poussé dans l'interstice du mur venait passer sa tête odorante. Elle fermait parfaitement à clefs, mais la fenêtreen était toujours ouverte laissant passage à un jeune lilas quiavait poussé sur le mur extérieur et passait avait passé parlʼentrebaillement sa tête odorante. Si haut (dans les comblesdu château) jʼétais absolument seul mais cette apparence dʼêtreen plein air, non séparé ajoutait un trouble délicieux à la solitu[de] au sentiment de sécurité que de solides verroux donnaient à ma solitude. L'exploration que je fis alors en moi-même à la recherche dʼun plaisir que je ne connaissais pasnʼaurait pas été ne mʼaurait pas donné plus dʼémoi, plusdʼeffroi, sʼil sʼétait agi pour moi de pratiquer à même ma moëlle et mon cerveau une opération chirurgicale. À toutmoment je croyais que jʼallais mourir. Mais que mʼimportait, ma pensée exaltée par le plaisir sentait bien quʼelle était plusvaste, plus puissante que ce monde cet univers que 44

j'apercevaisau loin par la fenêtre et que / dont en temps habituel où danslʼimmensité et lʼéternité duquel je pensais < en temps habituel > avec tristesse que je nʼétais quʼune parcelle éphémère. En ce moment aussi loin que les nuages sʼarrondissaient audessus de la forêt, je sentais que mon esprit allait encore unpeu plus loin, quʼil / et laissait entre la fin / lʼextrémité des choses etnʼétait pas entièrement rempli par elles, laissait une petitemarge encore. Mon regard Je sentais mon regard puissant dansmes prunelles porter comme de simples reflets sans réalité les belles collines bombées qui sʼélevaient comme des seinsdes deux côtés du fleuve. Tout cela reposait sur moi, jʼétaisplus que tout cela, je ne pouvais mourir. Jʼavais Je reprishaleine un instant; pour mʼasseoir sur le siège sans êtredérangé par le soleil qui le chauffait, je lui dis: ôte toi de là mon petit que je mʼy mette et je tirai le rideau de la fenêtre, mais la branche du lilas lʼempéchait de fermer. Enfin tout sʼéleva un pâle jet dʼopale, par élans successifs, comme, au moment où il sʼélance, le jet d'eau de St Cloud que / dontjʼai que jʼai reconnu nous pouvons reconnaître – car un jetdʼeau / il dans lʼécoulement incessant de ses eaux, il a saper[sonnalité] son individualité que dessine gracieusement sacourbe résistante – dans un portrait quʼen a laissé Hubert Robertnle portrait quʼen a laissé Hubert Robert, alors seulementque la foule qui l'admirait avait des [[[qui Proust ha lasciato “un mot en blanc]]] qui font dans le tableaudu vieux maître des petites valves roses, vermillonnées ounoires. À ce moment l'odeur du lilas je sentis < comme > unetendresse qui mʼentourait, cʼétait l'odeur du lilas que dansmon exaltation jʼavais cessé de percevoir et qui venait à moi,qui venait à moi comme [...]. Mais une odeur âcre qui < une odeur de séve > sʼymêlait comme si jʼeusse cassé la branche; jʼavais seulementlaissé sur la feuille une trace argentée et naturelle, comme le fait le fil de la vierge ou le colimaçon. Mais sur cette brancheil mʼapparaissait comme le fruit défendu dans le sur lʼarbredu mal. Et comme les peuples qui donnent à leurs divinitésdes formes inorganisées, ce fut sous cette lʼapparence de cette ce fil dʼargent quʼon pouvait tendre presque indéfinimentsans le faire finir, que / et et que je devais tirer de moi- même,en allant tout au rebours de ma vie naturelle, que je me représentai dès lors et pour quelque temps le diable. Malgré cetteodeur de branche cassée, de linge mouillé, cʼétait la tendreodeur < ce qui surnageait cʼétait la tendre odeur des lilas,elle venait à moi comme tous les jours > (C1, 267-271).

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Cap. 3

LʼEXTRA-TEMPORALE

Da Il tempo ritrovato (870 sgg.; 199 sgg.). Qual è il meccanismo che opera nella memoria involontaria? Esemplifichiamo a partire dal primo degli interventi della m.i. nel preambolo della matinée (in una sorta di rincorsa ne avvengono uno di seguito allʼaltro una mezza dozzina). Tra la sensazione del lastricato ineguale di Guermantes e le lastre diseguali del battistero di Venezia (etc.) cʼè una “analogia”; ma anche un “enorme divario”: esse sono “incomparabili (incomparables)”.44 Ciò che le rende incomparabili è la “distanza” che si è instaurata tra esse: “Sì, se il ricordo, grazie allʼoblio (grâce à lʼoubli), non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se è rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha conservato le distanze, il suo isolamento nella profondità dʼuna valle o sulla vetta dʼuna montagna, esso ci fa di colpo (tout à coup) respirare unʼaria nuova – nuova proprio perché è unʼaria che sʼè respirata in passato – quellʼaria più pura che invano i poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa sensazione profonda di rinnovellamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti”. Le “impressioni” avute nel passato sono andate a raccogliersi “in mille giare sigillate (mille vases clos)”; 45nellʼoblio; “di colpo” unʼimpressione analoga la richiama.

44 “[...] ogni impressione è duplice – per una metà inguainata nellʼoggetto, per lʼaltra, la sola che potremmo conoscere, prolungata in noi stessi – [...]” (TR, 223). 45 In Jean Santeuil: “Nella nostra bocca aperta che si ode man mano respirare sempre più profondamente, la notte verserà a lungo le sue urne di oblio (ses outres dʼoubli)” (JS, 296; 127). Una notazione, qui, che preannuncia il nesso strettissimo, lungo tutta la Ricerca, tra la “vocazione” artistica e la “vocazione” tout court; ad esempio, da parte del piccolo della madre (nella “scena madre”)... Luc Fraisse: “Et à Venise, où la mère du Héros a dans le souvenir, ʻsa place réservée et immuable comme une mosaïqueʼ, nʼoublion pas que les deux visiteurs entrent dans lʼéglise Saint-Marc, ʻfoulant tous deux les mosaïques de marbre et de verre du pavageʼ (TR, 646). Cʼest cet instant qui, superposé par la mémoire involontaire à la sensation de pavés inégaux devant lʼhôtel des Guermantes, fait naître en ressuscitant toutes les découvertes du Temps retrouvé [...]” (Lʼœuvre cathédrale, op. cit., p. 315). 46

Fondamentale e il tout à coup, la rottura della continuità temporale: le impressioni hanno “in comune,” questo: “Che io le provavo a un tempo (à la fois) nel momento presente e in un momento lontano, sì da far interferire il passato sul presente (jusqʼà faire empiétier le passé sur le present), da rendermi titubante nello stabilire in quale dei due mi trovassi (à me faire hésiter à savoir dans lequel des deux je me trouvais). Invero, lʼessere che in me delibava allora tale impressione la delibava in ciò che essa aveva di comune (commun) in un giorno trascorso e nel momento presente, in ciò che aveva di extratemporale (dʼextra-temporel): un essere che compariva solo quando, per una di tali identità tra presente e il passato (par une de ces identités entre le présent et le passé), gli era possibile trovarsi nellʼunico elemento (dans le seul milieu) in cui gli è dato vivere, e gioire dellʼessenza delle cose: ossia, fuori del tempo (en dehors du temps)”. Per lʼingresso nellʼextra-temporale (nellʼacategoriale), fondamentale è la fuoriuscita dal presente; ma anche dal passato... E anche dal futuro: “Questo spiegava come le mie inquietudini riguardo alla mia morte fossero cessate nello stesso momento in cui avevo riconosciuto, inconsciamente, il sapore della madeleine, dato che in quel momento lʼessere chʼio ero stato era un essere extratemporale, e, quindi, incurante delle vicissitudini del futuro”. Si tratta di un “meraviglioso espediente (expédient) della natura”; che fa vivere un “autentico momento del passato [...]. Solo un momento del passato? Molto di più. Forse; qualcosa che, comune sia al passato sia al presente, è molto più essenziale di entrambi”; è lʼeterno:46 “e, grazie a questo sotterfugio (grâce à ce subterfuge),

46 “ma tale contemplazione [di “frammenti dʼesistenza sottratti al tempo”], sebbene partecipe dellʼeternità (quoique dʼéternitè), era fuggitiva”. Tutto il contrario della “contemplazione dʼun passato che lʼintelligenza dissecca [...] conservando di essi [dei frammenti di passato e presente] soltanto quanto conviene al fine utilitario (à la fin utilitaire), strettamente umano, che essa loro assegna”. Acategoriale come convenzionale. “Un tale fatto [che la partenza, nel corso della matinée, verso una “vita nuova” fosse stata provocata da un “ritorno in società” invece che essere germinata nella solitudine] nulla aveva di straordinario; unʼimpressione capace di resuscitare in me lʼuomo eterno (lʼhomme éternel) non essendo necessariamente legata alla solitudine più che alla società [...]” (TR, 918; 253). “Adesso non era più così: poiché la felicità che provavo non veniva da una tensione puramente soggettiva dei nervi che ci isola dal passato ma, al contrario, da un allargamento della mente in cui si riformava, si attualizzava quel passato, dandomi – ma, ahimè, momentaneamente – un valore di eternità (une valeur dʼéternité)” (TR, 1036; 381). “Io dico che la legge crudele dellʼarte è che gli esseri umani muoiano e che noi stessi moriamo, dopo aver esaurito tutte le sofferenze, perché cresca lʼerba non dellʼoblio, ma della vita eterna (mais de la vie éternelle), lʼerba folta delle opere 47

aveva permesso al mio essere di cogliere, di isolare, di fermare, per la durata dʼun lampo (la durée dʼun éclair), ciò che di solito esso non cattura mai: un frammento di tempo allo stato puro (un peu de temps à lʼétat pur)”. Fondamentale (1) la necessità dellʼespediente, del sotterfugio; il quale è, di tutta evidenza, lʼoblio (vedi la formula che si ripete: “grâce à”); fondamentale (2) fondamentale... è lo strappo della continuità del tempo; non cʼè nessuna glorificazione dellʼistante” (“Fermati, istante, sei bello!”); cʼè solo la constatazione di un lampeggiare (il tout à coup è consustanziale alla scrittura proustiana).47 Ma la cosa si complica. Va al di là del ricordo che rinnovella, grazie allʼespediente del connubio di analogia e dislivello tra impressione presente e impressione passata: “Ma, anche per quanto concerneva le immagini dʼun altro genere, quelle del ricordo, sapevo che la bellezza di Balbec io non lʼavevo mai trovata (pas trouvée) quando cʼero stato; e neppure quella che essa aveva lasciata, quella del ricordo, era la medesima da me ritrovata nel mio secondo soggiorno. Avevo troppo sperimentato lʼimpossibilità di attingere nel reale quel che era in fondo a me stesso”; “Tuttavia, di lì a poco, dopo aver riflettuto su quelle resurrezioni compiute dalla memoria, mi resi conto che, sotto altra forma (dʼune autre façon), oscure impressioni avevano qualche volta – e già a Combray, dalla ʻparte di Guermantesʼ –, sollecitato il mio pensiero nella stessa guisa di quelle reminiscenze, ma racchiudendo in sé non una sensazione passata, bensì una verità feconde, sulla quale le generazioni future verranno lietamente a far le loro ʻcolazioni sullʼerbaʼ, incuranti di chi dorme là sotto” (TR, 1038; 388). “La durata eterna (la durée éternelle) non è promessa ai libri più che agli uomini” (TR, 1043; p. 387)... Come vedete man mano che il narratore procede al compimento dellʼopera, si infittisce il pensiero dellʼeterno; ma con inflessioni anche auto-ironiche. Di che tipo di eternità si tratta? Lo vedremo. Cito dal Contro Sainte-Beuve: “[...] sino ad attingere lʼeterno (lʼéternel): quellʼeterno che lʼimpressione contiene al pari dʼun profumo di biancospino o di qualsiasi cosa che si sappia approfondire” (CSB, 308; 111). Da In memoria delle chiese assassinate: “[...] la cui moralità [trattasi delle realtà che ispirano le opere degli artisti], infine, facendole guardare sotto un aspetto dʼeternità (sous un aspect dʼéternité) [...] lo spingeva a sacrificare al bisogno di percepire e alla necessità di riprodurle, per assicurarne una visone chiara e durevole, tutti i suoi piaceri, tutti i suoi doveri e financo la stessa vita (jusquʼà sa proprie vie) [...]” (MCS, 76; 131). 47 Quasi nella medesima pagina, la “durata dʼun lampo” è ripresa come “piccola zona [petite zone]”, “un istante [un instant]” 2vv., “di colpo [instantanément], “di colpo [tout dʼun coup”]... 48

nuova (mais une vérité nouvelle), una immagine preziosa che cercavo di scoprire, con sforzi simili a quelli che uno compie per ricordare qualcosa, quasi le nostre idee più belle fossero come motivi musicali, che ritornino in noi senza che li abbiamo mai uditi (sans que nous les eussions jamais entendus), e che ci sforziamo di ascoltare, di trascrivere”. Quindi (1) viene ricreata, après-coup, lʼesperienza passata non vissuta; (2) ma, più importante ancora, viene creata ex novo unʼesperienza mai avuta (nellʼesempio, una musica mai udita; non semplicemente “mancata”).48 Detto diversamente, a parte la vivificazione dellʼesperienza passata tramite il ricordo “involontario” del passato, abbiamo la costruzione di “figure”: “infatti, si trattasse di reminiscenze sul tipo del rumore del coltello o del sapore della madeleine, o di quelle verità scritte con lʼausilio di figure (à lʼaide de figures)49 delle quali cercavo di cogliere il significato nel mio pensiero [...]”... Ora, il ricorso alle figure per dire il nuovo corrisponde ad una creazione; anche se alla creazione di qualcosa di necessario. Quasi che lʼacategoriale sia un altro mondo, retto da altre leggi: “la loro caratteristica [delle figure] era chʼio non ero libero di sceglierle, che mi venivan date tali e quali (telles quelles). [...]. Quando al libro interiore di tali segni sconosciuti (signes inconnus) (segni in rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente [mon inconscient], cercava, urtava, contornava come un palombaro che scandagli) nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a decifrarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione (en un acte de création) in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi”. “[...] o meglio, come la vita stessa, quando, raccostando una qualità comune a due sensazioni (en rapprochant une qualité commune à deux sensations), ne avrà liberato una lʼessenza comune (leur essence commune) riunendole insieme, per sottrarle alle contingenze del tempo, in una metafora (dans une métaphore)” (TR, 889; 221).

48 1913, intervista a É.J. Bois: “[...] nous sentons combien ce passé était différent de ce que nous croyons nous rappeler, et que notre mémoire volontaire peignait, comme les mauvais peintres, avec des couleurs sans verité” (Textes retrouvés, Gallipard, Paris, 1971, p. 289). 49 Lʼespressione ricorre altre due volte nella medesima pagina: “sa figure materielle”, “aux caractères figurés”. 49

Unʼidea sullʼordito metafora-metonimia in Proust secondo Genette: “In apparenza nel meccanismo della reminiscenza si trova effettivamente solo lʼanalogico puro, dato che essa riposa sullʼidentità di sensazioni provate a grandissima distanza lʼuna dallʼaltra, e nel tempo e/o nello spazio. [...]. La metafora è ora, apparentemente, scevra di qualsiasi metonima. [...]. In realtà, lʼesperienza reale non comincia con la percezione di una identità di sensazione, ma con un sentimento di ʻpiacereʼ, di ʻfelicitàʼ che appare in un primo momento ʻsenza la nozione della causaʼ [...]. Nel Temps retrouvé, la ʻfelicitàʼ provata porta in sé fin dallʼinizio una specificazione sensoriale, delle ʻimmagini evocateʼ, azzurro intenso, frescura, luce, che designano Venezia ancora prima che sia stata reperita la sensazione comune [...]. Vediamo dunque che la relazione metaforica non è mai percepita per prima, e che addirittura, nella maggior parte dei casi, essa compare solo alla fine dellʼesperienza, come la chiave di un mistero recitato interamente senza di lei”.50 Creazione, ricreazione... Difficile dire.51 Vedi questo passo: “non siamo affatto liberi di fronte allʼopera dʼarte, che non la componiamo a nostro piacimento (à notre gré), ma

50 Metonimia in Proust, in Figure III. Discorso del racconto, Gérard Genette, 1972, Einaudi, Torino, 1976, pp. 57-58. 50 “[...] è anche una austera lezione atta a insegnarci che non agli esseri noi dobbiamo attaccarci, perché non sono essi a esistere realmente (ce ne sont pas les êtres qui existent réellement) e ad essere quindi passibili dʼespressione, bensì le idee” (TR, 908; 241). Non so come mai Spitzer, per dimostrare lʼauto-ironia con cui Proust avvicina anche i temi più sacri (come quello dellʼ“essenza”) invece dellʼimmersione dellʼintuizione sensibile in un fluido spirituale, non cita il passo seguente: “Mi sembrava che quelle sfumature celesti rivelassero le deliziose creature che si erano divertite a metamorfosarsi in legumi e che attraverso il travestimento della loro carne salda e commestibile lasciavano scorgere in quei colori teneri dʼaurora, in quegli accenni dʼarcobaleno, in quello spegnersi di sere azzurre, lʼessenza preziosa (cette essence précieuse) che io potevo ancora riconoscere quando, dopo che ne avevo mangiato a pranzo, giocavano per tutta la notte lo scherzo, poetico e grossolano come una fantasmagoria di Shakespeare, di trasformare il mio vaso da notte in una profumiera” (SW,121; 147-148) (Spitzer, op. cit., p. 289). Già in Jean Santeuil: “Alors je sens [...] dans telle odeur de cabinet de toilette où les savons ont été trempées [...]. lʼessence variée et individuelle de la vie en bateau [...] dans un cabinet de toilette [...]” (JS, 400-401). 51 Utile questo passaggio dal Contro Sainte-Beuve: “Ma – si obietterà – Gérard, per comporre Sylvie, si recò a rivedere il Valois. Verissimo. La passione considera reale il proprio oggetto; lʼamante di sogno di un paese (lʼamant de rêve dʼun pays) vuole vederlo; altrimenti, non sarebbe sincero: Marcel Prévost si dice: ʻsi tratta di un sogno, restiamocene a casaʼ. Ma, tutto sommato, solo lʼinesprimibile, solo quel che si credeva di non poter far entrare in un libro, resta in questo (CSB, 241; 41). 50

che, preesistente a noi (préxistante à nous), dobbiamo, dacché è a un tempo necessaria e nascosta, e come faremmo per una legge della natura, scoprirla”. Questa realtà – la “nostra vera vita (notre vraie vie)” – che si scopre è quella nascosta nellʼacategoriale? Lʼaccesso al quale comporta quello sconvolgimento della vita normale che si incarna nellʼopera dʼarte?52 Citiamo da Proust palimseste di Genette in Figures I: “Comment concevoir en effet quʼune métaphore, cʼest à dire un déplacement, un transfert de sensations dʼun objet sur un autre, puisse nous conduire à lʼessence de cet objet? Comment admettre que la ʻvérité profondeʼ dʼune chose, cette vérité particulière et ʻdistincteʼ que cherche Proust, puisse se révéler dans une figure qui nʼen dégage les propriétés quʼen les transposant, cʼest-à-dire en les aliénant? Ce que rélève la réminiscence, cʼest une ʻessence communeʼ aux sensations et, à travers elles, aux objets qui les éveillent en nous, et dont lʼécrivain doit ʻposer le rapportʼ dans une métaphore. Mais quʼest-ce quʼune essence commune, sinon une abstraction, cʼest-à-dire ce que Proust veut éviter à tout prix, et comment une description fondée sur le ʻrapportʼ de deux objets ne risquerait-elle pas plutôt de faire sʼévanouir lʼessence de chacun dʼeux?”53 Semplificando: scoprire lʼanalogia tra una sensazione presente ed una sensazione passata, secondo Proust, porta allʼannullamento delle distanze temporali e schiude “une minute affranchie de lʼordre du temps”... Commenta Genette: “Lʼobjet présent nʼest alors quʼun prétext, quʼune occasion: il sʼévanouit aussitôt quʼil a rempli sa fonction mnémonique. Aussi bien nʼy a-t-il pas ici de véritable métaphore, puisquʼun des termes en serait purement accessoire. Lʼʻessence communeʼ se réduit en fait à la sensation ancienne dont lʼautre nʼest que le véhicule” (46-47)... Ad esempio, il Narratore, per descrivere il mare che gli appare dalla finestra del Grand Hôtel, utilizza dei termini alpestri... Domanda: “Mais on ne voit pas que cet éblouissant contrepoit de mer et de montagne nous conduise à lʼʻessenceʼ de lʼune ou de lʼautre. Nous nous trouvons devant un paysage paradoxale où la montagne et la mer ont changé leurs qualités et pour ainsi dire leurs substances, où la montagne sʼest faite mer et la mer montagne, et rien nʼest plus loin

52 “mi accorgevo che quel libro essenziale, lʼunico vero libro, un grande scrittore non ha, nel senso comune della parola, da inventarlo, in quanto esiste già in ognuno di noi, ma da tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli dʼun traduttore” (dellʼacategoriale?) (TR, 222). 53 Éd. du Seuil, Paris, 1966, pp. 45-46. 51

que cette sorte de vertige, du sentiment de stable assurance que devrait nous inspirer une véritable vision des essences” (48)... Il pensiero di Genette dovrebbe essere ulteriormente articolato. La mia reazione: certo!, siamo colti da vertigine... perché non approdiamo allʼessenza delle cose, ma allʼinterstizio tra le cose, allʼa- temporale (e allʼa-spaziale). A proposito del compimento dellʼopera e del suo non compimento: “La Recherche du temps perdu est, comme le dit Blanchot, une œuvre ʻachevée-inachevéeʼ, mais sa lecture même sʼachève dans lʼinachèvement, toujours en suspens, toujours ʻà reprendereʼ, quisquʼelle trouve son objet sans cesse relancé dans une vertigineuse rotation” (ibidem, p. 63). Citiamo un passo famoso – anche perché sembrerebbe annunciare una sorta di psicologia del profondo! – dalle ultime pagine del Tempo ritrovato: “E, senza dubbio, tutti quei piani diversi sui quali il Tempo, dopo che lʼavevo riafferrato durante quel ricevimento, disponeva la mia vita, inducendomi a pensare che, in un libro che volesse raccontare una vita, sarebbe stato necessario usare, anziché la psicologia piana usata di solito, una specie di psicologia dello spazio, aggiungevano una bellezza nuova (nouvelle) alle resurrezioni operate dalla mia memoria involontaria, mentre stavo solo a pensare nella biblioteca, poiché la memoria, introducendo il passato nel presente senza alterarlo (sans le modifier), qual era (tel quʼil était) nel momento in cui era esso il presente, sopprime (supprime) appunto quella grande dimensione del Tempo secondo la quale si attua la vita” (TR, 1031; p. 373). Quindi, la memoria involontaria recupera il passato (quel che ci è accaduto ma che non abbiamo vissuto; e non avremmo potuto viverlo perché, ce lo insegna Proust, si vive sempre e solo après- coup), tel quel! Allora è una ricreazione! A questo approdo ci spinge lʼidentificazione di unʼesperienza telle quelle... Ma dobbiamo fare attenzione al fatto che questo tel- quel non cʼè mai stato. E quando “avviene” (ac-cade nellʼanimo, nella mente, nel corpo)... avviene (ac-cade) raramente (al Narratore, in modo compiuto, solo alla fine della sua vita, allʼinizio della matinée dei Guermantes). Infatti, lʼac-cadere tel quel del passato nel presente, tel quel un altro presente, comporta lʼeliminazione della dimensione del Tempo; avvia allʼacategoriale anche se, introducendolo lʼacategoriale nel libro di una vita, lo categorizza. Abbiamo parlato a proposito di Kafka di categorizzazione dellʼacategoriale. 52

Vedremo meglio più avanti, ma possiamo anticipare che il tempo perduto è quello vissuto dentro le categorie: memoria volontaria, intelligenza, psicologia piana; quello ritrovato non è il tempo passato nel senso di “storicamente” passato; il tempo “anteriore”; quello ritrovato è il tempo/non-tempo, lʼextra-temporale, lʼacategoriale; lʼeterno; ma non nel senso che dura per sempre, che non finisce più, perché subentra infine lʼimmortalità; ma perché, nel breve spazio della vita mortale ci è dato – dalla memoria involontaria (una sorta di grazia) – cogliere lʼacategoriale e iscriverlo nella dimensione della nostra vita (del tempo). La ricerca (del tempo perduto) è ricerca del divino, dellʼeterno che solo a pochi, e a quei pochi solo talora, è dato (se lo cercano). Un evidente paradosso; quello della combinazione di involontarietà e di sforzo, di intelligenza profonda e intelligenza piana; qualcosa come la combinazione di opere e grazia dove è proprio, forse, il fallimento dellʼopera che produce la grazia: “Dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata” (Romani, 5, 20).54 “Ma – e ancora in seguito, come già vari episodi hanno potuto dimostrarlo – il fatto che lʼintelligenza non sia lo strumento più sottile, più potente, più appropriato per afferrare il vero, è solo unʼulteriore ragione per cominciare con lʼaiuto dellʼintelligenza, e non con lʼintuito dellʼinconscio, non con una fede elementare nei presentimenti. È la vita che, a poco a poco, caso per caso, ci permette di notare come quel che è maggiormente importante per il nostro cuore, o per il nostro spirito (esprit) non ci sia insegnato dal ragionamento, ma da altri poteri. E allora lʼintelligenza stessa, rendendosi conto della superiorità di questi, abdica ragionevolmente di fronte a loro e accetta di diventarne collaboratrice e serva. È la fede sperimentale (foi expérimentale)” (????????); vedi Proust di Roger Shattuck, 1974, Mondadori, 1991, pp. 144-151: “fois expérimentale. Credo scientifico. Esperimento pieno di fede. Intelligenza e intuizione lavorano insieme, controllandosi e incoraggiandosi lʼuna lʼaltra”.

54 “Esto peccator et pecca fortiter, sed fortius fide et gaude in Christo” (Sii pure peccatore, pecca coraggiosamente, ma ancor più coraggiosamente confida e rallegrati in Cristo)” (Lutero, lettera a Melantone del 1° agosto 1521, edizione di Weimar, WA Br 2, n. 424. La traduzione è di Silvana Nitti. Vedi il suo Abituarsi alla libertà. Lutero alla Wartburg, Claudiana, Torino, 2008). Ma forse ha ragione Citati: “Anche la rivelazione di Marcel è un dono: non importa parlare di grazia o di caso, perché nel mondo moderno la grazia prende lʼaspetto e il nome del caso” (op. cit., p. 375). 53

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Cap. 4

DUE MODI DI “ESSERE LETTERATURA” (KAFKA E PROUST)

La soluzione proustiana [...] consiste nella negazione del Tempo e della Morte, nella negazione della Morte in conseguenza della negazione del Tempo. La Morte è morta in quanto il Tempo è morto. [...]. (A questo punto una breve impertinenza consistente nel considerare Le Temps retrouvé altrettanto inadeguato come titolo, per quanto riguarda la soluzione proustiana, quando Delitto e Castigo lo è di unʼopera che non contiene alcuna allusione né al delitto né al castigo. Il tempo non è ritrovato, è negato. [...]. Proust è questo soggetto puro. Egli è quasi esente dallʼimpurità della volontà. [...]. Quando il soggetto è esente da volontà, lʼoggetto è esente da casualità (Tempo e Spazio presi insieme).55

1) Essere letteratura

Proust: “La vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent réelment vécue, cʼest la littérature; cette vie qui, en un sens, habite à chaque instant chez tous les hommes aussi bien que chez lʼartiste” (TR, 895) + “Pour ceux qui, comme moi, croient que la littérature est la dernière espression del la vie [...]” (lettera a Louis de Robert, 24 marzo 1911, CORR, X, 271). Kafka: “Io non ho un interesse letterario, ma sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro” (lettera a Felice del 14.VIII.1913).56

55 Proust, Samuel Bechett, 1929, SugarCo Ed., Milano, 1978, p. 79. “Lʼinizio è un ricominciare. In realtà questi libri non possono nemmeno avere una fine; che finiscano è una concessione alla limitatezza della nostra vita fisica legata alla materia finita. Per il tempo che seguiamo Proust siamo immessi nellʼinfinita corrente dello spirito che non conosce lʼarresto e la morte. [...]. Questʼarte [...] non tende in avanti ma in profondità, non vuole precorrere il tempo ma vuole uscire dal tempo” (Marcel Proust, Ernst Robert Curtius, 1925, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 90, 98). 56 “Ich habe kein literarisches Interesse, sondern bestehe aus Literatur, ich bin nichts anderes und kann nichts anderes sein” (Briefe an Felice, Fischer, Frankfurt, 2003; tr. it. Lettere a Felice, Mondadori, Milano, 1974). La lettera prosegue: “Recentemente in una Storia della credenza del diavolo ho letto questo racconto. 55

In una lettera a Milena (9.VIII.1920) Kafka sembra suggerire una coesistenza di letteratura ed angoscia: “[...] anzi sono fatto di essa [di angoscia] ed essa è forse la mia parte migliore”.57 Risultano abbastanza evidenti: (1) nella famosa distinzione tra letteratura e vita, lʼappartenenza totale alla vita; (2) la definizione di questa appartenenza come angoscia. Quasi che lʼastrazione dalla vita in cerca, nelle parole di Proust, della “vita vera”, non possa dissociarsi dallʼangoscia. Come vedremo tra poco: come lʼozio non possa dissociarsi dalla malattia.

2) Letteratura e ozio

Tra tutti gli interventi critici a sfavore del Du côté de chez Swann, al momento della sua pubblicazione nel 1914, citiamo quello di Henri Ghéon: “Si sente che Marcel Proust ha davanti a sé tutto il tempo necessario per maturare, mettere insieme, portare a compimento unʼopera considerevole. Il tempo è tutto suo: ne approfitta alla sua maniera. [...]. Marcel Proust invece di riassumersi, di concentrarsi, si abbandona. Non cerca la linea di sviluppo di un carattere ma i suoi aspetti contraddittori e diversi. Non si cura della logica e ancora meno della ʻcomposizione. [...]. Ecco il suo divertimento”.58

ʻUn ecclesiastico aveva una voce così bella e dolce che era un piacere ascoltarla. Allorché un giorno udì tanta dolcezza, un prete osservò: questa voce non è la voce di un uomo, bensì del diavolo. Alla presenza di tutti gli ammiratori esorcizzò il demonio che infatti uscì, dopo di che (poiché si trattava di un corpo umano tenuto in vita dal diavolo invece che dallʼanima) cadde a terra e cominciò a puzzareʼ. Così allʼincirca, proprio così è il rapporto tra me e la letteratura, salvo che la mia letteratura non è dolce come la voce del monaco”. 57 “ja ich bestehe aus ihr und sie ist vielleicht mein Bestes)” (Briefe an Milena, Erweiterte Neuausgabe, Fischer, Frankfurt, 2004; tr. it. Lettere a Milena, in Lettere, Mondadori, Milano, 1988). 58 Du côté de chez Swann, in “Nouvelle Revue Francaise”, 1 gennaio 1914. Non molto diverso il tenore dellʼarticolo di Jacques Boulenger, Marcel Proust, in “LʼOpinion”, 20 dicembre, cioè allʼindomani dellʼattribuzione a Proust del Goncourt per Allʼombra delle fanciulle in fiore: “Dʼaltra parte non si preoccupa minimamente di mettere in luce, di disporre i fatti e i suoi commenti ai fatti secondo la loro importanza in rapporto a un disegno, a un piano, a unʼarmonia prestabiliti. [...]. E il suo romanzo annota tutto quello che gli torna alla memoria, senza studiarlo attentamente, senza curarsi minimamente della costruzione e della forma del libro, senza altra preoccupazione che la verità, obbedisce ben più alle regole della critica scientifica che non alle norme (dʼaltronde segrete) dellʼarte” (ora in Mais lʼArt est difficile, Première série, Plon, Parsi, 1921, p. 92). La chiusa forse riscatta tutto? 56

Citiamo solo lʼincipit della lunghissima lettera di risposta di Proust: “Voi dite, Signor, che il mio libro è unʼopera nata da una vita dʼozio, che ho tutto il tempo che voglio. Mi scuserete se non entro in particolari privi dʼinteresse per voi; vi dirò soltanto che una professione attiva non è lʼunica cosa che possa sottrarre un uomo allʼozio (une profession active nʼest pas la sule chose qui puisse priver un homme de loisir), prendendogli il suo tempo. Una malattia, per esempio, può essere assillante e faticosa, assorbirlo ed invecchiarlo come la più dura delle professioni, anche manuali”.59 Risulta evidente unʼaccusa allʼ“ozio”, al “loisir” ed una difesa da questa accusa. Proust, però, non accampa una vita “attiva”. Propone che esista qualche cosʼaltro (nʼest pas la seule chose) che è capace di consentire una “composizione”, potremmo dire: una categorizzazione.60 “Finalmente un lettore che intuisce che il mio libro è unʼopera dogmatica e di struttura (et une construction)”, Proust potrà infine scrivere a Jacques Rivière. “[...]. Quella che esprimo alla fine del primo volume, in quella parentesi sul Bois de Boulogne che ho messo lì come semplice paravento per terminare e chiudere un libro che per motivi pratici non poteva superare le cinquecento pagine, è il contrario della conclusione. È una tappa, che si presenta come soggettiva e dilettantesca, sulla via che porta a una conclusione del tutto oggettiva e convinta. Inferirne che il mio atteggiamento mentale è uno scetticismo disincantato, sarebbe esattamente come se uno spettatore, vedendo alla fine del primo atto del Parsifal che il personaggio non capisce niente della cerimonia ed è cacciato dal Gurnemantz, supponesse che Wagner ha voluto dire che la semplicità di cuore non porta da nessuna parte. In questo primo volume avete visto la sensazione piacevole che mi procura la madeleine inzuppata nel tè – dico che smetto di sentirmi mortale etc. e non capisco perché. Lo spiegherò solo alla fine del terzo volume. Tutta lʼopera è costruita in questa maniera. Se Swann affida così fiduciosamente Odette a Charlus (e sembra chʼio abbia voluto riproporre la banale situazione del marito che si fida dellʼamante della mogli) è che Charlus, e Swann lo sa, lungi dallʼessere lʼamante di Odette, è un omosessuale che ha orrore delle donne. [...]. No, se non avessi convinzioni intellettuali, se cercassi soltanto di ricordare il passato e di duplicare con questi ricordi lʼesperienza, non mi prenderei, malato come sono, la briga di scrivere. Ma questa

59 2 gennaio 1914, Correspondance, op. cit., vol. XIII, 1985, p. 23. 60 Vedi anche, tra le altre, la lettera a Paul Souday, del 10 novembre 1919 (CORR, XVIII, 462-465). 57

evoluzione del pensiero, non ho voluto analizzarla astrattamente bensì ricrearla [...]. Le seconde volume accentuera ce malentendu. Jʼespère que le dernier le dissipera. [...]” (6 febbraio 1914; CORR, XIII, 98-100; 1082-1083).61 Qui Proust è ancora fermo allʼidea di due volumi: Il tempo perduto e Il tempo ritrovato! Mariolina Bongiovanni Bertini, nel suo Guida a Proust, forse meglio di molti altri offre un raccourci dellʼimmenso lavoro di composizione fatto da Proust nel lavoro per la Recherche (pp. 231- 288/345-367)... A queste pagine rimandiamo (anche se qua e là torneremo anche noi su alcune svolte)...

3) Loisir, malattia, angoscia

Ma il punto resta comunque: quel che Ghéon definisce “loisir”, Proust “malattia”, Kafka angoscia... e sembra essere sempre la “letteratura”, in che cosa consiste? E ancora: qual è la differenza che Proust fa tra avere “convinzioni intellettuali” e farsi categorizzare? Ricordate che abbiamo pensato di cogliere il tratto distintivo di Kafka (la sua “essenza”) nel suo essere (e anche auto-definirsi) un “tipo particolare” (nella sua “particolarità”). Bataille ha parlato di “enfantillage”: vedi “La parfaite puérilité de Kafka” e “Le mantien de la situation enfantine”, “lʼunivers joyeux de Franz Kafka”,62 il suo rimanere esente dalle categorie (anche se capace di dirci lʼacategoriale in un categoriale unico per la sua limpidità; sottolineiamo: “unico”): “Il ne voulut pas sʼopposer à ce père qui lui retirait la possibilité de vivre, il ne voulut pas être à son tour, adult et père. À sa manière, il mena une lutte à mort pour entrer dans la société paternelle avec la plénitude de ses droits, mais il nʼaurait admis de réussir quʼà une condition: rester lʼenfant irresponsable quʼil était”.

61 Vedi anche André Maurois in Alla ricerca di Marcel Proust: “Quando parlate di cattedrali, io non posso non sentirmi commosso della vostra perspicacia, che vi consente di indovinare quello che non ho mai rivelato a nessuno e che scrivo qui per la prima volta: Portico, Vetrate dellʼabside etc., per rispondere in anticipo alla stolta critica che mi si fa di mancare di costruzione (______) nei miei libri, mentre io vi dimostrerò che il loro solo pregio è proprio nella solidità delle minime parti” (______, p. 150). 62 Kafka, (1950) in La littérature et le mal, in Œuvres complètes, Gallmard, Paris, vol. IX, 1979, pp. 271-286 58

Se consideriamo Proust troviamo che incappa alcune volte in Kant... Ad esempio, nel 1910, in Da aggiungere a Flaubert (Cahier XXIX, fogli 43-45; SA, p.10) egli paragona Flaubert, “genio grammaticale”, a Kant: “La sua originalità immensa, duratura, difficilissima a riconoscersi perché si è incorporata nella lingua letteraria del nostro tempo a tal punto che, anche sotto il nome di altri scrittori, noi leggiamo sempre Flaubert, senza sapere che essi non fanno altro che parlare come lui, è unʼoriginalità grammaticale. [...]. E la rivoluzione nella visione, nella rappresentazione del mondo che deriva dalla sua sintassi – o che ne è espressa, è forse altrettanto grande di quella operata da Kant trasferendo il centro della conoscenza dal mondo nellʼanima”. Spulciamo A proposito dello “stile” di Flaubert (1920): “Confesso di esser rimasto stupito nel veder trattato da scrittore poco dotato per scrivere un uomo che, per lʼuso affatto nuovo e personale che fece del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, rinnovò la nostra visione delle cose quasi quanto Kant, con la sua dottrina delle categorie e della realtà del mondo esterno. Non chʼio abbia una predilezione per i libri di Flaubert o per il suo stile. Per ragioni che sarebbe troppo lungo sviluppare qui, sono convinto che solo la metafora possa conferire allo stile una sorta dʼeternità; e in tutto Flaubert non cʼè forse una sola bella metafora” (SA, 538-539). È evidente: Kant è un creatore come Flaubert e come i grandi; come coloro che hanno creato un mondo nuovo; hanno categorizzato il mondo diversamente da coloro che lo avevano caratterizzato prima. Proust prende le distanze da Flaubert... È impegnato a categorizzare il mondo a modo suo... Anche le sue categorie saranno... Lambiremo il problema del couloir... Vedremo che il “drame du coucher”63 sarà approfondito molto più da Proust che da Kafka (almeno, in Proust avremo molte “riprese”, in Kafka unʼicastica formulazione nella famosa Lettera al padre e poche riprese (una fondamentale in un frammento)... Ma qua basta solo accennare ad alcuni punti in comune (tra Proust e Kafka): per Kafka e per Proust la letteratura è tutto... Le convenienze (ogni matrimonio è matrimonio di convenienza) sono niente; Kafka vive in famiglia. Idem Proust. Invita gli amici in famiglia. Quando i genitori muoiono, eredita e diventa ricchissimo... Ma spende e spande... Non risparmia...

63 Più estesamente: “le théâtre et le drame de mon coucher” (SW, 44). 59

Il periodo dedito allʼ“enfantillage” è sicuramente quello dedito allo snobismo...

4) Letteratura: chargée de réalité

Ma la pubblicazione di Jean Santeuil ha rivelato che, tra il 1895 e il 1899, negli anni in cui Proust frequentava più intensamente i salotti, i teatri... scriveva un romanzo di più di mille pagine in cui erano presenti, non solo i temi della Recherche, ma anche i primi abbozzi della medesima.64 Ricordiamo due avvenimenti capitali nella vita letteraria (e non solo... se la vita è letteratura la letteratura è – Sainte-Beuve o Contre Sainte-Beuve – vita (di Kafka e di Proust). Nel 1912 Kafka pubblica Il verdetto. Che dice della sua scrittura (nel Diario, 23 settembre 1912)?65 Proust ha pubblicato nel 1907 Sentimenti filiali di un matricida (“Le Figaro” il 1 febbraio 1907). Che ci dice sulla sua scrittura (nella lettera a Robert Dreyfus del 3 febbraio 1907 [CORR, VII, 62])? Alcuni passaggi chiave del Diario e della lettera: Kafka: – “Questo racconto, Il verdetto, lʼho scritto – nella notte fra il 22 e il 23, – dalle dieci di sera alle sei del mattino, in un fiato; – “La stanchezza scomparsa intorno alla mezzanotte. Entro

64 Proust si interrogherà, nel bel mezzo del Contre Sainte-Beuve – Carnet de 1908... – sulla sua capacità di scrivere romanzi: “Sono un romanziere?” Ma, mentre tenta la strada di Jean Santeuil, romanziere si sente. Lettera a Reynaldo Hahn del venti marzo 1896: “Sans cela cʼest sur tout le roman que tu serai obligé de mettre ʻdéchireʼ” (CORR, II, 52); al medesimo il 4 settembre dello stesso anno: “Hier jʼai fait la pagination des 90 pages de mon roman” (CORR, II, 118); a sua madre il 16 dello stesso mese: “[...] jʼai encore travaillé à mon roman [...]” (CORR, II, 124); sempre alla madre il 21 ottobre dello stesso anno: “dans le petit récit que je tʼai envoyé et que je te prie de garder et en sachant où tu le garde car il sera dans mon roman” (CORR, II, 137)... A Bibesco il 20 dicembre 1902 (sta lavorando su Ruskin): “Il cosiddetto lavoro che ho ripreso mi è per molti versi penoso. Soprattutto perché quel che faccio non è lavoro vero, ma documentazione, traduzione etc. Basta per riaccendere la mia sete di creazione, senza minimamente appagarla. Adesso che dopo un lungo torpore ho per la prima volta guardato , nella mia mente, avverto il vuoto della mia esistenza. Cento personaggi di romanzo (cent personnages de romans), mille idee mi chiedono di dar loro corpo, come le ombre che nellʼOdissea supplicano Ulisse di far loro bere un poʼ di sangue per restituirle alla vita, e lʼeroe le allontana con la spada” (LG, 495-496; CORR, III, 196). 65 Confessioni e diari, Mondadori, Milano, 1972. 60

tremando nella camera delle sorelle. Prima di dar lettura mi stiro davanti alla domestica e dico: ʻHo scritto fino adessoʼ”; – “Ieri, da Baum, ho letto alla presenza […]”; – “Verso alla fine la mia mano, senza controllo, mi girò veramente davanti alla faccia. Avevo le lacrime agli occhi”. Proust: – Calmette mi ha chiesto questo articolo mercoledì mattina con una lettera che non ho letto a causa di una crisi che “mercredi matin à dix heures du soir”; – mi sono riposato fino “jusquʼà deuz Heures du soir”; – “À trois heures je me suis levé sans penser à lʼarticle”; – “je lʼai aussitôt commencé et je lʼai écrit sans brouillon, sur les feuilles que le Figaro a eues, jusquʼà huit heures. Soffermiamoci sui Diari di Kafka in cui Kafka esibisce quel che Bataille definisce “enfantillage”: “Verso la fine la mia mano, senza controllo, mi girò veramente davanti alla faccia. Avevo le lacrime agli occhi”. (Noterete che convivono il gesto sbarazzino della mano e le lacrime agli occhi). Qualcosa di simile lo rintracciamo in Proust. Considerate la fine di Sodoma e Gomorra: il Narratore viene a sapere che Mlle Vinteuil è amica di Albertine... e piomba in un clima che richiama Sentimenti filiali di un matricida: sotto il segno di Oreste... il narratore si immagina dʼessere punito... per che cosa? “dʼaver lasciato morire la nonna”... Gli si apre una “terra incognita” (come vedremo, poco prima è definita “patria perduta” quella originaria dellʼartista)... Egli si avvia “a una vita terribile, meritata e nuova (terrible, méritée et nouvelle)”; ma che sia nuova implica la terribilità di cui è meritevole. In lui si apre “la strada funesta, e destinata a farsi dolorosa (la voie funeste et destinée à être douloureuse) del Sapere”... Bene, nel mezzo di questo cataclisma vi aspettereste due aggettivi come quelli che troverete alla fine del passo che segue? “[...] per avviarmi a una vita terribile, meritata e nuova, forsʼanche per farmi esplodere davanti agli occhi le conseguenze funeste che gli atti malvagi generano allʼinfinito; non solo per chi li ha commessi, ma anche per chi non abbia fatto, non abbia creduto di far altro che contemplare uno spettacolo curioso e divertente (un spectacle curieux et diverissant), come avevo fatto io, ahimè!, in quel lontano crepuscolo a Montjouvain, nascosto dietro il cespuglio [...]” (SG, 1115; 368-369). Curioso e divertente! Si tratta del famoso sacrilegio ai danni della fotografia di Vinteuil fatto dalla figlia e dalla sua amica complici... Da piccolo, il Narratore 61

ha spiato questo sacrilegio... (In occasione di una visita resa dai genitori a Vinteuil ha spiato Vinteuil impegnato non con una fotografia ma con uno spartito)... Le immagini di Montjouvain il Narratore le ha “tenute in serbo” inconsapevole del loro potere “nocivo”. Ma adesso che vive sulla propria pelle quel sacrilegio (e forse lo carica dei rimorsi verso la nonna/madre morta/e da poco etc.), come mai usa quei due aggettivi: “curioso” e “divertente”? Come ce la caviamo? A me sembra che la sola ipotesi possibile sia la seguente: Kafka e Proust vivono la loro “particolarità”; questa, nel loro caso, si chiama “letteratura”. Ma in loro, lʼessere “tipi particolari” non significa essere “stravaganti” come una volta si definivano in modo benevolo i matti (quelli della propria famiglia o quelli di una famiglia amica). Significa rimanere nellʼinterregno tra in-fanzia e scrittura; non adolescere, crescere fino a diventare “adulti” (cresciuti); significa tentare e riuscire a immettere lʼin-fanzia (lʼin-dicibile) nella scrittura lʼin-fanzia. È per questo che qualsiasi evento transiti nella scrittura, in una scrittura che sia allʼaltezza dellʼin-fanzia, diventa gioioso: “E la realtà più terribile (la réalitè la plus terrible) apporta insieme alla sofferenza, la gioia dʼuna bella scoperta, perché non fa che dare una forma nuova e chiara (ne fait que donner une forme neuve et claire) a ciò che fa tanto tempo andavamo rimuginando senza rendercene conto (sans nous en douter)” (SG, 1115-1116; 369). Ma sentite che ruolo gioca la letteratura de Il tempo ritrovato: “la littérature ne pouvait plus me causer aucune joie, soit par la faute, étant trop peu doué, soit per la sienne, si elle était en effet moins chargée de réalité que je nʼavais cru” (TR, _____). È del tutto evidente, se teniamo conto di quel che abbiamo scoperto, che la letteratura qui configurata non è quella a cui è approdato Proust (o da cui anche è sempre decollato: la dizione dellʼineffabile. Ora, qual è la realtà di cui la letteratura è chargée (di cui è portatrice)? Quella di un altro universo o di un universo altro (diversamente categorizzato)...

5) Messa in forma del néant

Ritorniamo quindi allʼantitesi “tutto”/“nulla”... Abbiamo detto che Mariolina Bertini, sulla scorta di una serie di studi, indica in modo convincente e anche commovente le tappe 62

della costruzione della Recherche; di cui, peraltro, lʼ“essenziale” è stato da Proust pensato fin dallʼinizio. “Essenza” è in Proust, come vedremo, una figura chiave. Ora, lʼessenza è individuata fin dallʼinizio... E che cosʼè lʼessenza? Essa coincide con la “vera vita”; essa produce “resurrezioni” di eventi non solo dimenticati ma mai vissuti; essa introduce nellʼ“extra-temporale”... Nellʼaca-tegoriale? Importante però è avere ben chiaro che qui non si dà lʼingresso allʼimmortalità; “solo” quello alla vita; ma alla vita vera; quella vissuta... ma non “vissuta” appieno rispetto a quella vissuta sono in parte o après-coup; a quella vissuta dentro un mondo categorizzato da chi le vive... Alberto Beretta-Anguissola: “Tra lʼalba e il tramonto, tra lʼinizio di un secolo e la sua fine, lʼuomo proustiano non progredisce. La ricerca della verità e lʼautoliberazione dalla falsa coscienza è sì un itinerario immerso nel tempo, punteggiato di tappe, periodi, arretramenti e avanzate; ma questo ʻprogressoʼ non è altro che il graduale riconoscimento del tragico primato del dolore, della malattia, del vizio, della crudeltà, della morte, della solitudine, dellʼangoscia. La storia esiste in Proust solo come via crucis dellʼautocoscienza, una salita al calvario la cui ultima ʻstazioneʼ – la più atroce – è paradossalmente, il più alto trionfo entro unʼottica radicalmente diversa, che non è certo quella di una salvezza religiosa, ma una vera resurrezione estetica”.66 Condivido la conclusione tragica. Ma voglio precisare che la resurrezione è “nascita”; “nuova nascita”?, no, “vera nascita” (in diretta con la “vraie vie”); al proprio mondo; al mondo che abbiamo categorizzato. E come lo abbiamo categorizzato? Introducendo in esso la nostra in-fanzia (“enfantillage”). Come abbiamo già fatto, invitiamo il lettore a leggere Mariolina Bertini a proposito delle tappe della costruzione della Recherche. Qui ricordiamo solo una di queste tappe: la Prisonnière “è il risultato di unʼelaborazione oltremodo travagliata, perseguita attraverso innumeri tentativi. Se risaliamo infatti ai cahiers del 1910-1911 ci attende una scoperta sconcertante: Vinteuil non esiste, o meglio, esiste scisso in due personaggi diversi, lo scienziato Vington e il musicista Berget. Vington, uomo allʼantica, mite e pudibondo, abita nei pressi di Combray ed ha una figlia lesbica che convive scandalosamente con unʼamica. Amareggiato dal comportamento della figlia, muore ed è

66 Proust inattuale, Bulzoni, Roma, 1976, p, 84. 63

vittima, in effige, delle profanazioni rituali della figlia e della sua amica. Sarà proprio questʼamica, però, ad assicurare lʼimmortalità alla sua opera scientifica, passando anni e anni, a ʻrivedere i suoi manoscritti, ordinare le sue collezioni, proseguire i suoi esperimentiʼ. Fu solo verso il maggio del 1913, al momento della correzione delle bozze Grasset, che Proust decise di fondere i due personaggi sino ad allora distinti, facendo della musica di Vinteuil le due componenti inscindibili della sua metafora della creazione artistica che trovi posto della Recherche. Vington cessò di esistere come scienziato, divenne compositore e Swann cominciò, come del testo definitivo, a porsi il problema della sua identità ascoltando la meravigliosa Sonata: era possibile che il sublime musicista, lʼaudace innovatore avesse qualche parentela con il maestro di musica di Combray, così timido e insignificante? In un secondo tempo, sulle stesse bozze, il nome Vington divenne prima Vindeuil, poi Vinteuil: era nato il personaggio in cui sarebbero confluiti due motivi, sino ad allora separati, della musica come ʻtrasposizione della profondità nellʼordine sonoroʼ e della profanazione come momento oscuramente necessario sulla via della salvezza”.67 Citiamo solo dei frammenti di una pagina dellʼepisodio che studieremo meglio: “E proprio quel culto [della figlia verso Vinteuil che ha contagiato lʼamica] aveva fatto sì che, in momenti nei quali si va allʼopposto delle proprie inclinazioni, le due fanciulle potessero trarre un piacere insano dalle profanazioni che ho raccontate. Lʼadorazione per il padre era la condizione stessa (la condition même) del sacrificio della figlia. E la voluttà di quel sacrilegio non le esprimeva, certo, avrebbero dovuto rifiutarsela; ma essa non le esprimeva per intero (ne les exprimait pas tout entières). [...]. Passando anni e anni a risolvere il rebus lasciato da Vinteuil, procurando la lettura certa dei suoi ignoti geroglifici, lʼamica di Mademoiselle Vinteuil ebbe almeno la consolazione di assicurare al musicista cui aveva offuscato gli ultimi anni di vita una gloria compensatrice e immortale. Da relazioni non consacrate dalle leggi (de relations qui ne sont pas consacrées par les lois) derivano legami di parentela non meno molteplici, non meno complessi, semplicemente più solidi, di quelli che nascono dal matrimonio” (P, 262-263; 670).

67 Guida a Proust, op. cit., p. 273. Vedi: Lignon, vol. I ed. Tadiè, (C, 29, ES, L, 795); Vington, vol. I (C 14, ES LI, 796-801), vol. III (C 14, ES XIII, 1143-1150); Berget: vol. I (variante,1202-1203), II (V, 1218), III (V, 1144). Per “variante” si intende una correzione del testo posteriore al manoscritto. 64

Come non pensare al matrimonio secondo Kafka? Che dice al padre, meglio: gli scrive, che per lui i matrimoni sono sempre stati matrimoni di convenienza: nel senso di matrimoni con la legge, con le categorie? Qui abbiamo un matrimonio celebrato fuori da ogni legge. Il sacrilegio, non solo va a braccetto con lʼadorazione (e con lʼopera dʼarte o la sua scoperta), ma ne è la “condizione” (= la legge)! Lʼamica di Mlle Vinteuil “come negli illeggibili taccuini (carnets) dove un amico geniale, non sapendo dʼessere tanto vicino alla morte, ha annotato scoperte che rimarranno forse per sempre sconosciute, [...] aveva estratto (dégagé) da carte illeggibili dei papiri punteggiati di scrittura cuneiforme la formula eternamente vera, infinitamente feconda di quella gioia ignota, la speranza mistica dellʼAngelo scarlatto del Mattino (du Matin). [...]. Era grazie a lei chʼera potuto giungere sino a me lo strano richiamo che avrei sentito per sempre come una promessa dellʼesistenza di qualcosa di diverso – qualcosa la cui realizzazione era affidata, probabilmente, allʼarte – dal niente (le néant) che avevo trovato in tutti i piaceri e nello stesso amore; la promessa secondo cui la mia vita, che mi sembrava tanto vana, non era almeno del tutto incompiuta (pas tout accompli)” (P, 262-263; 671). Avviandoci alla conclusione di questo incipit: è evidente che lʼamica di Mlle Vinteuil ha individuato nei carnets dellʼumile maestro la “formula” (= la legge) che consente la speranza del “mattino” (= della nascita: alla viva vera); ma è altrettanto vero che i carnets in questione sono quelli di Proust... Insomma, sappiamo che il Contre Sainte-Beuve, lʼultima tappa verso la Recherche, vuole dimostrare che lʼ“io” dellʼartista non corrisponde allʼ“io” sociale che gli corrisponde. Sainte-Beuve ha misinterpretato il valore di Flaubert, Baudelaire etc... (avrebbe misinterpretato anche il valore di Proust) perché ha cercato (e non ve lʼha trovato) il loro valore nella loro vita mentre esso era nella loro opera. Quindi, niente psico-critica! Ma non possiamo nasconderci che Proust ha messo in forma il “néant”; ha creato dal nulla; ha portato alla luce (“matin”). “Tutti” i suoi piaceri – il suo sfarfallare nei salotti etc. – non erano “niente”; anzi, erano questo “niente”.68

68 In questi occhi forse acquistano un significato nuovo i passi seguenti: “[...] pour faire de lʼart, cʼest-à-dire retrouver la vie, il fallait non pas réproduire ce que nous croyons la vie, le passé, les actions et les mots, mais retirer successivement tout ce que nous avions, dans le moment même où nous lʼéprouvions et bien plus 65

“Niente”, però, sarebbe stata la sua vita se fosse coincisa con quella di Swann, di Charlus e via elencando... Se fosse coincisa con la nostra (e con quella della maggior parte dei nostri contemporanei). Qui è “il “terribile” e “il bello”! Diversamente da Kafka Proust ci ha lasciato cahiers e carnets in abbondanza. Sembra che conservasse anche le lettere che non spediva... E questo ci consente di seguire il processo attraverso il quale lʼin-fanzia si fa nuovo discorso; discorso categorizzato da Proust medesimo. In Kafka abbiamo sospettato (ad un certo punto affermato in – bona – fide) questo passaggio dellʼa-categoriale in un categoriale nuovo. Ma non abbiamo che scritti “perfetti” (“accompli”). Perfetti (accompli) erano anche le mille varianti... Diciamoci la verità, nei cahiers si sente palpitante lʼanelare alla perfezione; ma anche la perfezione di un passaggio... penso a quello del Mar Rosso verso la Terra Promessa... Si incrociano le “tappe”; ma che meraviglia! Lʼ“Angelo scarlatto” si leva... ma possiamo levarci insieme con lui! Paradossale che proprio lʼautore del Contre Sainte-Beuve autorizzi la nostra) psicocritica sui generis.

6) Proust legislatore (categorizzatore)

Marcel Proust e i segni, di Gille Deleuze: “Lʼessenziale nella Ricerca non è la memoria e il tempo, ma il segno e la verità. Lʼessenziale non è ricordare, ma apprendere. La memoria infatti non vale se non come una facoltà capace dʼinterpretare certi segni, il tempo non vale se non come quella materia o il tipo di questa o quella verità”.69, ensuite dans ls mémoire et le raisonnement déposé sur la vie, qui lʼobscursissait et à la reproduction de quoi tant dʼartistes bornent lʼart, croyant ainsi être réels et vivants”” (Cahier 58, in Matinée chez la Princesse de Guermantes, Gallimard, 1982, p. 143). “ʻPer me la mia opera è tutto. Non so se vivrò abbastanza per vederla finalmente pubblicata ed è abbastanza naturale che, con lʼistinto dellʼinsetto che ha i giorni contati, io mi affretti a mettere al sicuro quel che è uscito da me e mi rappresenterà” 68 (lettera pubblicata da Léon Pierre-Quint, in Marcel Proust et sa stratégie lietteraire, Corrêa, Paris, 1954, p. 146). 69 1964, tr. it. Einaudi, Torino, 1967, p. 87. Indicheremo le pagine con la sigla (D, 5) etc. 66

Giustamente Deleuze insiste sul fatto dellʼimportanza dellʼ“involontario” in quando casuale incontro con qualcosa che interroga violentemente, esige una risposta: “I termini ʻvolontarioʼ e ʻinvolontarioʼ non indicano facoltà differenti, ma piuttosto un differente esercizio delle medesime facoltà. Fino a che si esercitano volontariamente, la percezione, la memoria, lʼimmaginazione, lo stesso pensiero hanno solo un esercizio contingente: in tale caso, ciò che percepiamo, potremmo ugualmente ricordarlo, immaginarlo, pensarlo; e viceversa. [...]. Lʼesercizio involontario è il limite trascendente o la vocazione di ogni facoltà. Al posto del pensiero volontario, tutto ciò che costringe a pensare, tutto ciò che viene costretto a pensare, tutto il pensiero involontario, che non può pensare se non lʼessenza” (D, 93-94). “Indubbiamente il segno non si riduce allʼoggetto; ma è anche inguainato in esso. Indubbiamente, il senso non si riduce al soggetto; ma dipende a metà dal soggetto, dalle circostanze e dalle associazioni soggettive. Al di là del segno e del senso, cʼè lʼEssenza, come ragion sufficiente degli altri due termini e del loro rapporto” (D, 86). In altre parole: nellʼepisodio della madeleine entrano in tensione la madeleine e il Narratore. La verità non è né nella prima né nel secondo. Dovʼè? “[...] via via che la serie si avvicina alla propria legge [...] presentiamo lʼesistenza del tema originale o dellʼidea, che supera insieme i nostri stati soggettivi e gli oggetti in cui sʼincarna” (D, 67)”..70. Il problema è “mais pourquoi les images de Combray et de Venise mʼavaient-elles, à lʼun et à lʼautre moment, donné une joie pareille à une certitude, et suffissante, sans autres preuves à me rendre la mort indifférente?” (TR, 867; 544). Perché? La Recherche si incarica di spiegare questo perché. La differenza tra il primo e lʼultimo volume sta nel fatto che al perché è data infine una risposta... Proust cita la madeleine come un caso dʼinsuccesso (D, 15): “Jʼavais alors ajourné de chercher les causes profondes” (TR, ____)_

70 Lettera a Jaques Benoist-Méchin del maggio 1922: “Je pense, en effet, que les hommes nʼaiment pas telle ou telle femme isolée, mais un certain type de femme dont il ne sʼécartent jamais. Si, par la suite dʼun deuil ou dʼune séparation, ils perdent la femme quʼils aiment, ils courent après son type. Quʼil poursuivent obstinément, quoique souvent à leur insu” (CORR, XXI, 239). 67

Ma anche la scoperta della morte della nonna (“je venais dʼapprendre quʼelle était morte... que je lʼavais perdue pour toujours” [SG, 758; ___]) è un episodio di memoria involontaria (D, 22-23). Ed è dominato non dalla gioia ma dal dolore...71 Penso che lʼunica è decidere che anche la scoperta dellʼavvenuta perdita della nonna è una gioia; anche se una gioia dello spirito! In fondo, la vera gioia è gioia della verità... (in questo caso, della perdita; della morte. Sì, perché qui la resurrezione è paradossale; è la resurrezione di una morta; di una morta che viene a slacciarci lo stivaletto... per dirci: non ci sono più! Secondo Deleuze “Proust distingue con cura due casi di segni sensibili: le reminiscenze e le scoperte: le “résurrections de la mémoire”, e le “vérités à lʼaide de figures” [TR, 879]” (D, 53). Ebbene, nel caso dello stivaletto che porta alla nonna etc... cʼè una resurrezione che porta ad una scoperta A proposito del “Cʼétait comme au commencement du monde, comme sʼil nʼy avait encore eu quʼeux deux sur la terre... “ (SW, Sonata__). “Il mondo implicato dallʼessenza è sempre un principio del Mondo in generale, un inizio dellʼuniverso, un cominciamento radicale assoluto. [...]. Lʼessenza è la nascita stessa del Tempo. Ciò non significa che il tempo si sia già svolto: non ha ancora le dimensioni distinte secondo le quali potrebbe snodarsi, e neppure le serie separate nelle quali si distribuisce su ritmi differenti. Alcuni neoplatonici si servivamo di una parola profonda per indicare lo stato originario che precede ogni sviluppo, ogni dispiegarsi, ogni ʻesplicitazioneʼ: la complicatio [...]” (D, 45-46). Ancora: “Lʼextra- temporale di Proust è questo tempo allo stato nascente, e il soggetto artista che lo ritrova” (D, 47). “Unʼessenza è sempre una nascita del mondo [...]” (D, 49)... Possiamo trascurare la complicazione della complicatio. Fondamentale è la definizione dellʼessenza come nascita del Tempo. Possiamo pensare che ci stiamo affacciando al mondo “superuranio”, quello delle idee (e Proust talvolta pensa proprio questo);72 possiamo semplicemente pensare di aver colto una legge

71 Giustamente Citati qualifica “intermittenza del cuore” anche lʼemersione della scena di Montjouvain a partenza da “le mie due sorelle maggiori” (SG [Tadié], 499) di Albertine: “À ces mots [...] une image sʼagitait dans mon cœur, une image tenue en réserve pendant tant dʼannées [...]”; come nel caso della nonna, “alcuna estasi di luce” (Citati, op. cit., p. 349). 72 “Il loro carattere distintivo sta nel fatto che sono idee platoniche capovolte, le quali non abitano il ʻregno sovracelesteʼ, ma questa terra: il mondo delle sensazioni, dellʼodore e del sapore, del suono e della vista (Citati, La colomba pugnalata, Mondadori, 1995, p. 247). 68

(e Proust più spesso pensa proprio questo)... Di fatto è successo che un nuovo mondo è cominciato. Cioè, una nuova categorizzazione... Proust, in un passo straordinario, sembra contraddire lʼidea che lʼamicizia (come la conversazione etc.) sia nociva proprio in quanto distrae dallʼio interiore. Leggete: “Par lʼart seulement, nous pouvons sortir de nous, savoir ce que un autre de cet univers qui nʼest pas le même que le nôtre et dont les paysages nous seraient restés aussi inconnus que ceux quʼil peut y avoir dans la lune. Grâce à lʼart, au lieu de voir un seul monde, le nôtre, nous le voyons se multiplier, et autant quʼil y a dʼartistes originaux, autant nous avons de mondes à notre disposition, plus différents les uns des autres que ceux qui roulent dans lʼinfini...” (TR, ______).73 Tra creatori è condivisibile la diversità delle categorizzazioni; tra gli idolatri esiste lʼuniformità, la conformazione ad una medesima categorizzazione. Detto tra noi, siamo molto schivi, ma non vi sembra che lʼindividuare delle “leggi” da parte di Proust rassomigli molto alla “legiferazione”? Proust = legislatore = nuovo categorizzatore (al pari degli atri grandi).

7) La “vera vita” non è il passato ritrovato, è lʼessenza (lʼacetegoriale) attinto (nello spazio di un mattino)

Citavamo: “Unʼessenza è sempre una nascita del mondo [...]” (D, 49)... Ne deriva una concezione del tempo che fa i conti con la creazione, nel tempo, del tempo (nelle categorie, di nuove categorie): “È evidente che alla memoria volontaria sfugge qualche cosa di essenziale: lʼessere in sé del passato. Essa fa come se il passato si costituisse come tale dopo essere stato presente. Bisognerebbe dunque aspettare un nuovo presente perché quello precedente

73 Citiamo un altro passo straordinario sullʼamicizia. A Antoine Bibesco, 11 maggio 1903: “Volevo dirti che il tuo (dʼaltronde naturalissimo) mutato atteggiamento nei miei confronti, il fare misteri – o piuttosto il non confidarsi, il non fare domande, insomma la mancanza di unione – ha trovato in me un qualcuno che non era prima (un être que je nʼétais pas) di conoscerti, fatto quello che è da te, e che si era abituato a non vivere più solo per sé, a includere nellʼorizzonte della sua vita un altro e di conseguenza a incanalare in questo indiscernibile prolungamento del suo io ciò che la sua vita poteva trascinare con sé, così come lo trovava, ogni giorno, cose preziose o fango, con tutti gli spettacoli che aveva colti e rispecchiati, e i segreti in cui si era imbattuta. Perdendo adesso il mio secondo me (cioè te) (or perdant mon deuxième moi [cʼest à dire toi]) per il tuo diverso atteggiamento, non ho potuto cambiare la nuova forma che avevi dato al primo [...]” (LG, 544-545; CORR, III, 310-311). 69

passi, o diventi passato. Ma così ci sfugge lʼattesa del tempo. Poiché se il presente non fosse passato oltre che presente, se il momento stesso non coesistesse con sé come presente e passato, esso non passerebbe mai, e non verrebbe mai a rimpiazzarlo un nuovo presente. Il passato quale è in sé coesiste col presente che è stato, non gli succede” (D, 57). Ne discende che “Combray risuscita sotto una forma assolutamente nuova. Combray non sorge quale è stata presente. Combray sorge come passato, ma questo passato non è più relativo al presente che è stato, né al presente rispetto al quale è adesso passato. Non si tratta più della percezione, né di quella della memoria volontaria. Combray appare quale non poteva essere vissuta: non in realtà, ma nella sua verità; non nei suoi rapporti esteriori e contingenti, ma nella sua differenza interiorizzata, nella sua essenza. Combray appare in un passato puro, che coesiste con i due presenti, ma al di là della loro portata, dove né la memoria volontaria attuale, né la trascorsa percezione cosciente possono raggiungerlo. ʻUn peu de temps à lʼétat purʼ. E cioè: non una semplice somiglianza tra il presente e il passato, tra un presente che è attuale e un passato che è stato presente; e nemmeno unʼidentità dei due momenti; ma, al di là di questo, lʼessere in sé del passato, più profondo di ogni passato che è stato, di ogni presente che fu. ʻUn peu de temps à lʼétat purʼ, vale a dire lʼessenza del tempo localizzata” (D, 59-60). Più avanti (dobbiamo saltare molti passaggi): “[...] lʼessenza che sʼincarna nel ricordo involontario non ci svela più questo tempo originale. Ci fa, sì, ritrovare il tempo, ma in tuttʼaltro modo: quel che ci fa ritrovare è lo stesso tempo perduto. Sopraggiunge bruscamente in un tempo già trascorso, già sviluppato. Ritrova in questo tempo che passa un centro di avvolgimento, ma che è ormai soltanto lʼimmagine del tempo originale. [...]. La reminiscenza ci presenta il passato puro, lʼessenza in sé del passato. Questo essere supera indubbiamente tutte le dimensioni empiriche del tempo. Ma è, nella sua stessa ambiguità, il principio a partire dal quale tali dimensioni si snodano nel tempo perduto, come è anche il principio in cui si può ritrovare lo stesso tempo perduto attorno al quale possiamo avvolgerlo di nuovo per avere unʼimmagine dellʼeternità. Il passato puro è lʼistanza che non si riduce a nessun presente che passa, ma anche lʼistanza che fa passare tutti i presenti, che presiede al loro passaggio: in questo senso, esso implica anche la contraddizione tra la sopravvivenza e il nulla. Dalla loro fusione nasce la visione ineffabile. La memoria involontaria ci dà lʼeternità, ma in modo tale che non abbiamo la 70

forza di sopportarla più di un istante, né il modo di scoprirne la natura. Quella che ci dà è dunque piuttosto lʼimmagine istantanea della eternità. E, dal punto di vista delle essenze, ogni Io della memoria involontaria rimane inferiore allʼIo dellʼarte” (D, 61-62). Interessanti le annotazioni di Deleuze sul tempo (perduto, ritrovato etc.). Sappiamo che Proust ha pensato diversi titoli; ad un certo punto, nella lettera a Georges de Lauris del 24 marzo 1912, pensa che bisognerebbe pubblicare nel primo volume (sʼils ont des titres différents) la prima, la seconda, la terza e la quinta parte “en ne donnant la quatrième que dans le second volume et en y prévenant quʼelle se place avant la dernière du premier volume” (CORR, XI, 76). In Introductions, notices, notes et variantes dellʼedizione curata da Tadié (vol. I, 1041 sgg.) si fa lʼipotesi che la quinta parte sia costituita da quello che sarà Il Tempo ritrovato. Fatto sta che il processo di pubblicazione (chʼè anche un processo di complicazione della redazione) del testo è laborioso (e straordinariamente interessante); ad un certo punto nel 1913 Proust, mentre lavora alla correzione dei primi fogli delle bozze, pensa ancora a due volumi, e pensa già ai titoli ben noti Il tempo perduto e Il tempo ritrovato... Ritengo però che questa titolazione, contro quella anchʼessa prevista per lʼopera nel suo complesso, Le intermittenze del cuore (vedi lettera a Gaston Gallimard, 6 novembre 1912, CORR, XI, 286),74 sia responsabile dellʼerrore che tutti quanti, almeno sulle prime, siamo tentati di fare: cʼè un tempo che si perde e che si può ritrovare! Abbiamo visto che il ritrovamento non è ritrovamento del tempo perduto (dissipato); è individuazione del tempo nascente; è lʼorigine del monto (e, quindi, del tempo)...75 Ricorderemo più avanti che Macchia ha definito i momenti della memoria involontaria “allucinatori”... Essendo esperti di allucinazioni sappiamo che i paranoici considerano le voci che li perseguitano attendibili; meglio: vere in ogni loro parte. Guai a contestar loro qualche incongruenza... Il profeta, invece, anche lui oggetto di voci, nella misura in cui è un “vero” (non un “falso”) profeta, non crede alla realtà delle voci; tanto meno al fatto chʼesse si rivolgano a lui.

74 J.-L. Vaudoyer, marzo 1913: titolo: Les Intermittences du Passé; primo volume Le Temps perdu, secondo volume, Le Temps retrouvé (CORR, XIII, 114). Bernard Grasset, maggio 1913: titolo generale À la recherche du temps perdu (primo volume Du côté de chez Swann, secondo volume Le côté des Guermantes) (CORR, XIII, 176). 75 Georges Poulet propone una diversa titolazione: “lʼœuvre proustienne sʼaffirme comme une recherche non seulement du temps, ma de lʼespace perdu” (Lʼespace proustien, Gallimard, Paris, 196, p. 19). 71

Vedi lʼesempio di Samuele (1 Samuele, 3): per tre volte Samuele, nel sonno (giace accanto al Santuario) è risvegliato; da qualcuno che lo chiama per nome; egli risponde: “Eccomi!”; corre da Eli che dorme nella sua casa (attigua al Tempio) e che pensa essere lʼautore della chiamata e, raggiuntolo, gli dice: “Eccomi, giacché mi ha chiamato”. Per due volte Eli gli risponde. “Non tʼho chiamato, figlio mio, torna a dormire”. La terza, intuisce che il Signore chiama il fanciullo e gli dice: “Va a dormire; a attento: se ti chiamerà, tu dì: ʻParla, o Signore, ché il tuo servo è in ascoltoʼ”. In occasione della quarta chiamata – la buona –, Samuele usa la formula suggeritagli da Eli e Iddio gli si presenta e gli parla. Una grande complicazione. Samuele, infatti, il giorno seguente apre, sì, i battenti della casa del Signore, ma non ha il coraggio di riferire la visione ad Eli; e nʼha ben dʼonde: Dio gli ha preannunciato lo sterminio della stirpe di Eli, Jahvé gli ha dato lʼincarico di riferire la sua decisione ad Eli. Ma le orecchie di Samuele sono ambedue rintronate da quellʼannuncio (“Ecco, io sto per fare in Israele una cosa tale che, chiunque lʼudrà, gli rimbomberanno ambe le orecchie”, è il proemio della parola di Dio che lʼha raggiunto nella notte, ma non nel sonno). È allora Eli che lo chiama: “Eccomi”, dice di nuovo Samuele, che gli risponde immediatamente. Ma aspetta che Eli completi la sua chiamata: “Che ti disse? Deh, non tenermelo celato! Mandi a te Iddio questo e questo, se mi celerai parola di quanto ti disse!”. E il testo continua: “Allora Samuele gli svelò ogni cosa, senza tenergli celata parola. Eli concluse. ʻLui è il Signore. Faccia pure ciò che è bene agli occhi suoi!ʼ” Dio si manifesta al Profeta (che poi parlerà al popolo al posto di Dio) in modo insolito. Non richiesto. Una sorta di violenza. Il piccolo Samuele risponde... ma a Eli che non lʼha interrogato; poi a Dio; ma non annuncia a Eli il messaggio di Dio... Poi lo fa. Le esperienze involontarie sono casuali e violente; e brevi. Delle finestre sul mondo sconosciuto (dello spirito e della verità). Sì, sono finestre; non a caso la finestra è un Leitmotiv della Recherche).76 Viene in mente lʼ“analisi grammaticale” praticata da Giampaolo Lai: quando, nel testo di un locutore, i “predicati finzionali” superano il tasso del 12 %, si ha ragione di inferirne che tale locutore si è affacciato alla “finestra del possibile” (della finzione).

76 Lo spioncino attraverso il quale Charlus vede Morel (SG, 464-465, 467) etc... 72

Il mondo proustiano è un mondo in cui ci si affaccia spesso alla finestra; si contemplano spettacolo straordinari 77 (il sacrilegio compiuto dalla figlia di Venteuil e della sua amica; lʼincontro di Clarlus e di Jupien...); e, a poco a poco, si scoprono le leggi che governano il mondo a cui si appartiene; ma anche quelle che governano altri mondi. Che noi stessi possiamo produrre... Quando Proust sostiene che la verità si rivela nel suo io interiore (dentro di lui) ripete una formula antica; penso a Giovanni, 4, 23-24: “Ma lʼora viene, è già al presente è, che i veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità; perciocché anche il Padre domanda tali che lʼadorino. Iddio è Spirito: perciò convien che coloro che lʼadorano lʼadorino in spirito e verità”; e a Matteo 18, 20: “Dovunque due o tre sono raunati nel mio nome, quivi io sono nel mezzo di loro”... Lʼ“io interiore” non coincide con lʼ“io sociale”... In interiore homine habitas veritas esortava santʼAgostino. Non sciogliamo lʼenigma. Sappiamo poco; ma quanto basta per essere certi che in quellʼinteriorità, a gradi diversi, incontriamo, se non Dio, lo spirito e la verità.

77 “La sua opera è come una finestra attraverso cui si apre alla vista un nuovo panorama; lo sguardo si posa su un paesaggio finora sconosciuto. [...]. Per un artista di questo genere la propria vita non significa alla fine se non lʼindispensabile organo della vista e acquista lo stesso valore che possono avere gli strumenti dellʼosservazione per il ricercatore delle scienze naturali” (Curtius, op. cit., p. 34). 73

Cap. 5

MESSUNG/MENSURATION (Di nuovo Kafka/Proust)

[...] car là seulement un hasard peut mettre en présence de nos paroles le cœur fraternel et à jamais inconnu qui saura les ressentir (Lettera a Jean-Louis Vaudoyer, 21 marzo 1912. Correspondence de Marcel Proust, Plon, Paris, vol. XI, 1984, p. 67).

“Je prends le volume, je le coupe et je me dis: je vais lire un quart dʼheure et puis le quart dʼheure passe... je lis... je lis toujours. [...]. ʻMais cʼest abominable, cette femme qui lit toujours, le matin, le jour, le soir, la nuit elle lit, elle lit, elle lit toujours!ʼ” (Madame Straus à Marcel Proust, 13 maggio 1922; CORR, XXI, 183).

1) Lo spuntar del tempo e dello spazio

Ho cominciato a scrivere delle note da annettere a 2 + 2 = 5, il testo che approfondisce gli esiti di Edipo. Un innocente. Interessanti mi sembravano i punti di contatto tra Proust e Kafka. Al di là dello spuntar del giorno e della notte (vedi Kafka. Un “tipo particolare”): lo spuntar del giorno o della notte sono lo spuntar del tempo e dello spazio... Un contatto proprio in un luogo cruciale: quello del “corridoio”, una figura insistente; quello della scena primaria... Ma con nessuna intenzione di instaurare un parallelismo tra due autori... Solo lʼubiquietarietà di un tema che tocca tutti e, inevitabilmente, anche i due grandi narratori Dicevo: ho cominciato... e mi sono ritrovato con questo malloppo. Il titolo: lʼextra-temporale. Qualcosa che ha un rapporto strettissimo con lʼa-categoriale illustrato sia in Kafka. Un “tipo articolare” sia in Edipo. Un innocente. 74

Penso che mi sono avvicinato allʼessenziale di Proust in lavori precedenti.78 Ma penso anche di averlo forse semplificato, mondanizzato... Quasi che tutto il lavoro sullʼaprès-coup servisse a spiegare come vivere appieno la vita... In Edipo. Un innocente ho citato Proust a proposito della Nachträglichkeit freudiana... Ma, se lo si capisce appieno, lʼaprès-coup porta a cogliere il vivibile, non dopo il colpo, ma altrove; e, più che il vivibile, porta a cogliere questo altrove: lʼextra-temporale. Nella prima parte lavoriamo proprio sul concetto e la pratica della “misurazione” per approdare alla “dismisura”. E il pensiero va, inevitabilmente, allʼagrimensore (Landvermesser) del Castello. E capiamo sempre meglio che quellʼagri-mensura (Landvermessung) è paradossale; lʼagrimensore non dice, forse non sa, da dove viene; qui il principium individuationis fallisce; o trionfa il suo oltre: lʼagrimensore non ha metri di mensura (mensuration; Messung). Anchʼegli, infatti, avrà a che fare con lʼimmensurabile (nello spazio. Nel tempo: con lʼextra-temporale). Immensurabile che, nella scena finale della Recherche, si esprimerà nella figura, insieme tragica e comica, dellʼessere “mostruoso” – monstrum = prodigio, portento – arrampicato su smisurate e non misurabili stampelle... Questo scritto nasce sotto forma di “appunti”, di osservazioni provocati da un testo vecchio ma stimolante, Proust, di Ramon Fernandez.79 Talvolta brevi squarci di un testo, quando soprattutto è passato, dallʼultima sua lettura, quanto tempo basta perché lʼ“abitudine” abbia diminuito il suo potere, rivelano più di quanto rivelerebbe uno studio sistematico? Non ho saputo resistere: fatte le osservazioni contenute nei due primi capitoli, ho riletto la Recherche.

78 Simbolizzazione come costruzione. Intervento sulla "Recherche", con unʼintroduzione ricavata da Freud: La rappresentazione dellʼoggetto perduto, Vallecchi, Firenze, 1981; Su Georges Simenon. Maigret, conversazionalismo, abduzione, proustismo, schizo-scrittura, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1996. 79 Éditions Grasset & Fasquelle, 1979. Da allora ho riletto... e per la prima volta una piccola biblioteca che avevo riunito negli anni. Illeggibili sono lavori come Le sexe de Proust, di Stéphane Zagdanski (Gallimard, Paris,1994), Proust et son père, di Christiam Péchenard (Quai Voltaire, Paris, 1993). Filosofia di Proust, di Federica Sossi (Unicopli, Milano, 1899)... Le sommeil de Marcel Proust, di Dominique Mabin (PUF, Parigi, 1992) che che ne dica il prefattore, Philip Kolb... Hommage à Marcel Proust, La Nouvelle Revue Franaise, Paris, 1923 75

Nellʼedizione diretta da Luciano De Maria (Mondadori, 1989, voll. 4). Nelle osservazioni di cui ho appena detto, cito lʼedizione diretta da Mariolina Bongiovanni Bertini (Einaudi, 1978, voll. 8). Nel corso della rilettura mi avvalgo dellʼedizione francese diretta da Pierre Clarac e André Ferré (Pléiade, 1954, voll. 4), ricorrendo anche alla nuova edizione, quella diretta da Jean-Yves Tadiè (Pléiade, 1989, voll. 4) ricca delle esquisse che richiamano di volta in volta i Brouillons-Cahiers... Per la prima volta, oltre a capire meglio il significato e la bellezza della Recherche, ho notato le sue talvolta esasperanti lungaggini, peraltro segnalate dallo stesso Proust; ad esempio, ne La prigioniera: “Quanto ai nostri sentimenti, ne abbiamo parlato troppe volte per ripetere qui quel che assai spesso lʼamore è soltanto lʼassociazione dellʼimmagine di una giovine donna (che in caso diverso non ci tarderebbe a diventar insopportabile) con i battiti del cuore inseparabili da unʼattesa intermittente, vana, e da un appuntamento cui essa non sia venuta” (P, 3). Nel 1986 Claude e Nathalie Mauriac si imbatterono in un dattiloscritto rimasto fino ad allora ignoto. Si capì subito che si trattava dellʼ“originale” di cui quello usato a partire dal 1925 era solo una copia. La differenza fondamentale era rappresentata dai tagli; uno macroscopico: a p. 648, con mano tremante, Proust aveva inserito lʼordine perentorio di eliminare 250 pagine del dattiloscritto. Nel 1987 Nathalie Mauriac pubblicò da Grasset il testo breve ritrovato.80 Fu uno choc... Chissà, se Proust fosse vissuto abbastanza, avrebbe tagliato e tagliato... Come aveva fatto Flaubert. Questʼultimo, dalle iniziali 4500 pagine, ne portò solo 500 alla stampa. E tagliò pagine bellissime. Vedi Madame Bovary. La censure dévoilée (Alinéa, Rouen, voll. 2, 2007). In italiano vedi La prima Madame Bovary (Medusa, Milano, 2007). (Evidentemente non si tratta di tutte le 4500 pagine; ma di quanto basta per leggere il meglio di quel che è stato tagliato). Come vedremo, lʼesperienza della lettura e rilettura di Proust, Cahier compresi, porterà ad altri approdi. Consideriamo sul momento quel che Leo Bersani sostiene a proposito di Flaubert e Proust. Rimando a Déguisement du moi et art fragmentaire (Cahiers Marcel Proust, 7. Études proustiennes II, Gallimard, Paris, 1975, pp. 43-65). Una breve citazione: “Flaubert

80 Jean Milly ha pubblicato un testo, come dire, “completo”; un testo che, con qualche espediente, permette di individuare les différentes couches chronologiques: Albertine disparue. Édition intégrale. Texte étabi, présenté et annoté par Jean Milly, Librairie Honoré Champion, Pars, 1992. 76

rêve à un style équivalent à la réalité indépendante de ses sujets; Emma cherche la réalité équivalente au vocabulaire des clichées romantiques. [...]. Le sens du moi chez Marcel est tellemet dépendant de la forme de ses espérances que leur destruction vide littéralement son imagination. Par conséquent, le rytme dʼillusion et de désillusion est différent chez Flaubert et chez Proust. Pour Proust, ce rytme consiste en une disparité entre le moi et le monde, plutôt quʼen un déséquilibre proprement flaubertien entre des fictions impersonnelles, inépuisables et une réalité qui est soit hypothétique et au-delà du langage (Flaubert parle dʼun sujet romanesque comme dʼune idée platonisienne), soit platement matérielle et inférieure au langage (Tostes et Yonville)”. Questa volta (la terza?), mi ha indotto a rileggere tutto lʼessermi imbattuto in un termine che abbiamo dimostrato ricorrente in Kafka, tanto da assurgere al rango di Leitmotiv, quello della “martellata”: “Da quale martellata (coup de marteau) è mai stato colpito lʼessere o la cosa che si trova là per ignorare tutto, stupefatto fino al momento in cui la memoria accorsa gli rende la coscienza o la personalità?” (SG, 407). Dicevo del testo di Fernandez... prima di rivedere quanto avevo scritto il pensiero è andato a Jacques Dubois. In sede di celebrazione del centenario della nascita di Simenon, ho portato in sintesi i risultati della mia ricerca su Simenon.81 Tra lʼaltro, un aspetto forse trascurato, il côté proustiano di Simenon. In sede di dibattito un amico, anche per amor di polemica, eccepì proprio su questo punto (che, peraltro, nel mio intervento, era tout à fait secondario). Ricordo che Jacques Dubois, con la sua autorevolezza, intervenne per difendere la mia posizione. Chiesi informazioni su di lui e venni a sapere di un suo scritto Pour Albertine. Proust et le sens du social (Seuil, Paris, 1977). Lo lessi subito e mi piacque moltissimo. È lʼunico testo che ho scorso dopo la scrittura di questi appunti ampliati. Mi ha colpito, mutatis mutandis, una certa analogia... Le pagine più sottolineate riguardano proprio quelle in cui si incontra, ad esempio, la frase seguente: “Comme si temps et espace avaient cessé dʼêtre catégories stables” (p. 77).82

81 Abduction, identification et dé-identification chez Maigret. Les résultats dʼune recherche, “Traces” (Université de Liège. Travaux du Centre dʼÉtude Georges Simenon), 2003, n. 14, pp. 33-50. 82 In nota: tutto un capitolo è intitolato “La contingente”. “Lʼenvie irréprensible de déguster des crèmes glacées armoriées, le rire cruel et voluptueux, le métaphorisme bariolé, tout est là pour donner un sentiment de pure dèpense, 77

2) Importanza degli aggettivi

Forse, per cogliere subito la novità dellʼapproccio a Proust, è meglio leggere tout dʼabord la seconda parte. In essa viene dimostrata lʼubiquitarietà di una scena-madre: quella dellʼ“angoscia” della perdita, “calmata” dai baci della madre. Vengono individuati degli sviluppi di questa scena (dei suoi stadi). Prima viene tracciata la distanza tra la sua prima edizione, nella Recherche (inizio di Dalla parte di Swann) e la sua ultima edizione, avvenuta in tre vagues (fine de Il tempo ritrovato)... Individuato il puntum gaudens, cioè il “compimento” dellʼœuvre – non nel recupero del tempo passato e perduto, ma del recupero della dimensione del tempo: che passa senza che nessuna “gloria” possa essere risparmiata e senza che nessun ¶wxaton possa redimere83 –, vengono illustrate le molte tappe: da Allʼombra delle fanciulle in fiore a Albertine scomparsa... Scopriremo che in Albertine confluiranno, non tanto per agglutinarvisi, ma per appalesarsi e farsi superare – tutte le figure dellʼamore: la madre, la sorella, lʼamante, la morte...

langagière en même temps quʼérotique. Le discours a perdu ses balises; le roman est saisi, avec son personnage, dʼune sorte de folie: la lubricité dʼAlbertine sʼépanche somptueusement. On atteint à un comble, où toute détermination paraît superflue” (p. 83); “Tout cela étant, elle [Albertine] active avec éclat une dynamique inhérente au roman proustien et qui vise à faire quʼil nʼy ait ni linéarité narrative ni continuité sémantique. Elle devient donc, à certain moment, le moteur mais aussi lʼemblème dʼun système de signification qui ne cesse de renvoyer à un ailleurs, à plus loin et à plus tard, tout en sachant quʼen fin de compte il nʼy aura pas de butée” (p. 165). 83 In pagine per me straordinarie di Jean Santeuil, il Narratore ripete due volte lʼaggettivazione “irreparabile”; la seconda: “Si dice che quel che è stato nella nostra vita sia irreparabile, che nulla possa far sì che ciò che è stato non sia stato” (JS, 318-319; 150-151). Scopriremo che lʼunica riparazione possibile, lʼunica possibile redenzione avverrà col passaggio da Jean Santeuil alla Recherche; dal tentativo di godere la vita, alla rinuncia ad essa. “Quel nome che contiene qualcosa della voce di mia madre, del tempo che stava allora scorrendo, della mia scuola, dellʼincanto non già della giovinezza, ma della mia giovinezza. Quel nome io lo venero, esso per me ha qualcosa di più divino di una reliquia che contenesse sangue di Cristo, qualcosa che nessun artista o filosofo potrebbe riprodurre. Il nostro tempo [...]” (JS, 319; 151). Il bacio della madre, anche nella Recherche, sarà paragonato ad unʼ“ostia”. Ma lʼessenziale sarà il passaggio allo spirito e alla verità. La parola “irreparabile” ricorre unʼaltra volta (JS, 724; 584). 78

Scopriremo che tutti gli elementi costitutivi della scena-madre sono sempre presenti (mutatis mutandis). È come se il Narratore avesse capito tutto fin dallʼinizio; o quasi. Per dirla per metafora, netto è il passaggio dai Campanili di Martinville (les clochers de Martinville), al centro del secondo episodio di memoria involontaria (SW, 181 sgg.; 219 sgg.), ai “viventi trampoli (échasses) che aumentano senza sosta sino a diventare, a volte, più alti dei campanili (parfois plus hautes que des clochers)”,84 che concludono Il tempo ritrovato (TR, 1048; 760-761)... I singhiozzi del Narratore piccolo (SW, 37; 46) risuoneranno dallʼinizio fino alla fine... come le campane di conventi (comme ces cloches de couvents). Sentiremo lʼappel plaintif dei piccioni (P, 400).85 Il salto di qualità è dato dallʼabbandono del mondano invito a vivere la propria vita, anche se après-coup; e dallʼindividuazione dellʼ“enorme dimensione” (TR, 760) del Tempo: Temps è la parola che campeggia la fine della Recherche spesso con lʼiniziale maiuscola; sconfigge lʼHabitude, lʼaltra parola che spesso veste lʼiniziale maiuscola: la comprensione dellʼenorme dimensione del tempo porta al superamento (e al compimento = œuvre) “lʼimmenso desiderio di conoscere la vita” provato un tempo sulle strade di Balbec” (AS, 165) e lʼ“immensa aspirazione” al piacere provata soprattutto per Albertine (OF, 1128). Giustamente, in Stesura e fortuna di “Jean Santeuil”, ormai anni fa, Mariolina Bongiovanni Bertini, parlava di “rinuncia alla vita”. Talvolta si incontrano, sotto la penna di Proust, anche se in forma abbreviata, presi al volo, passi come quello di Giovanni 12, 24: “In verità, in verità, io vi dico che se il granel del frumento, caduto in terra, non muore, rimano solo; ma, se muore, produce molto frutto”.86 Ma, ad essere sinceri, più che questa “trouvaille” – importanza non del “vivere” un “vissuto” mancato ma di affacciarsi allʼextra- temporale –, quel che ci ha colpiti è la musicalità del linguaggio di Proust. Di conserva abbiamo lavorato sullʼaggettivazione della scena-madre di volta in volta evocata... Una sorta di “analisi grammaticale”; in fondo, simile a quella fatta da Proust sullʼopera di

84 Di échasses si parla già allʼinzio della ricerca. Sul portico di Balcec il nostro eroe vede “ces grandes statues de saints qui montées sur [des] échasses forment une sorte dʼavenue” (OF, 842). Vedi Lʼœuvre cathédrale, op. cit., pp. 415-416. 85 Vedi, di Luc Fraisse, Lʼœuvre cathédrale, op. cit., pp. 181-188. 86 In Jean Santeuil, Einaudi, Torino, 1976, p. XLIII. 79

Flaubert. Vedi A proposito dello “stile” di Flaubert; pubblicato Proust vivo, nel 1920.87 Marcel allʼintervistatore: “Mais lʼartiste sʼest transformé, son horizon sʼest étendu en même temps que sa sensibilité sʼaffinait et se développait jusquʼau point quʼil peut dire: ʻ Il nʼest pas un seul adjectif qui dans mon œuvre nouvelle ne soit sentiʼ”.88

3) Il Carnet 1908

Dicevo, mʼè successo di mettermi a leggere quel che ho sugli scaffali e che, con lʼandare degli anni, è diventato una piccola biblioteca proustiana. E mi sono accorto di aver già letto – e sottolineato – Ramon Fernandez. Allora (Bompiani, 1980) il titolo era Proust o la genealogia del romanzo moderno... Richiamo qui, dai Cahiers Marcel Proust, il n. 8, Le Carnet de 1908.89 Penso che Kolb abbia ragione quando definisce questo Carnet “document capitale tel quʼil est, comme une mine que les chercheurs pourront exploiter encore avec profit. [...]. Le seul de ces carnets qui ait une importance considérable” (Introduction, 28, 32). Ad un certo punto di questa introduzione, Kolb cita una lettera di Proust (del 16 agosto 1909), a Mme Straus, la stessa che gli ha

87 In “Nouvelle Revue Fraçaise” e firmato Marcel Proust. Vedi Scritti mondali e letterari, Einaudi, 1984, pp. 538-552. Tadiè, nel suo Proust, dà prima per pubblicato questo saggio nel 1922 (op. cit. p. 306) poi no (p. 313). 88 Le temps, 12.11. 1913, Textes retrouvés, Gallimard, Paris, 1971, 287. In una lettera a Robert Dreyfus (10 settembre 1988) il diciassettenne Proust immagina un suo autoritratto e lo commenta: “Mia cara, conosci X, cioè M. P? Ti confesserò chʼio lʼho un poʼ in uggia, con i suoi continui slanci, la sua aria affaccendata, le sue passioni, i suoi aggettivi (et ses adjectifs). [...]” (Correspondance, Plon, Paris, vol. I, 1970, p. 118; tr. it. Le lettere e i giorni, Mondadori, Milano, 1996, p. 25). 89 Ètabli et présenté par Philip Kolb, Gallimard, Paris, 1976. Basta, forse, a dare lʼidea della complessità della ricostruzione filologica del testo della Recherche... questa notazione di Henri Bonnet in Matinée chez la Princesse de Guermantes. Cahiesr du Temps retrouvé. Èdition critique établie par Henri Bonnet en collaboration avec Bernard Brun, Gallimard, 1982, p. 17: “On peut y ajouter [ai sette primi Cahiers contenenti il Contre Sainte-Beuve...] une partie du Carnet I (bizarrement publié sous le titre de Carnet 1908 alors quʼil contient des textes qui, de lʼaveu même du trascripteur, Philip Kolb, ne sont pas de lʼannée de référence)”. 80

regalato i cinque famosi carnet: “[...] je viens de commencer – et de finir – tout un long livre”.90 Mi sembra valido il suggerimento di Kolb: “Non sbagliamoci sul significato che questa frase comporta. Quel chʼegli vuole dire, è che ha finito di scrivere lʼinizio e la fine (le commencement et la fin) del suo romanzo. Rimanda a più tardi lo scriverne la parte intermedia. Questo procedimento gli permette di assicurare subito una struttura solida al suo romanzo, ed è a ciò chʼegli tiene particolarmente”.91 In altre parole: ad un certo punto Proust ha una “illuminazione”; e concepisce lʼinsieme della sua opera. Di essa scrive lʼinizio e la fine... A chi ha finito di leggere lʼopera nel suo insieme, risulta evidente che le ore di insonnia che preludono al ricordo delle varie camere, quindi della camera di Combray, va collocata prima della matinée dai Guermantes e dopo il soggiorno a Tansonville da Gilberte diventata Mme de Saint-Loup. Quindi, è in sogno che il Narratore recupera – e poi racconta come da sveglio – il “drame du coucher”, la tazza di tè etc. Alla fine (conclusione) del “drame”, la lettura fino allʼalba, da parte della madre, di François le Champi. La madeleine “si colloca, nella cronologia generale della storia, in un momento imprecisato tra le notti di insonnia delle prime pagine e la rivelazione finale” (Mariolina Bertini, Guida a Proust, op. cit., p. 533). Lʼultimo capitolo del Tempo ritrovato boucle la boucle: il Narratore si avvia alla matinée in uno stato dʼanimo identico a quello che aveva immediatamente prima della madeleine; ed ecco Venezia. “Lʼinsistenza del Narratore nellʼaccostare a questo nuovo miracolo il ricordo dellʼesperienza della madeleine non ha nulla di casuale: i due episodi si corrispondono, sono esattamente simmetrici” (Bertini, op. cit., p. 356). E di nuovo François le Champi. Un altro boucler la boucle. È il libro che la mamma, a conclusione del “drame”, e fino allʼalba, gli ha letto. Sintomatiche, infatti, nel dattiloscritto del 1909 (Cahier 57) due eliminazioni dal “Combray” in vista del “Tempo ritrovato”: 1) la rilettura di François le Champi; 2) dallʼepisodio della piccola madeleine, una riflessione sullʼextra- temporale riferita alle lastre ineguali del battistero di San Marco.

90 Parte del seguito: “[...]. Car cʼest trop inconvenant et trop long pour être donné en entier. Mais je voudrais bien finir, aboutir. Si tout est écrit, beaucoup de choses sont à remanier” (Corréspondance de Marcel Proust. Texte établi, présenté et annoté par Philip Kolb, Plon, Paris, 1982, vol. IX, p. 163). 91 Introduction a Cahiers Marcel Proust 8, op. cit., p. 21. Il corsivo è dellʼautore. 81

Vedi la “variante” – per variante si intende una correzione posteriore al manoscritto – alla pag. 43 del vol. 1 dellʼedizione Tadié, pp. 1118-1122. Le Temps retrouvé finisce come è cominciato Du côté de chez Swann: “longtemps”... A proposito dellʼultima frase del Tempo ritrovato, e del Cahier XX, lʼultimo del manoscritto definitivo, vedi, di Tadié, sia Marcel Proust (Gallimard, Paris, 1996, pp. 892-895) che TR, variante, 1317- 1320; ma, soprattutto, Le temps sensible di Julia Kristeva, Gallimard, Paris, 1994, pp. 355-367. Utili riferimenti: a proposito del Contre Sainte-Beuve, lettera a Alfred Vallette dellʼagosto 1909: “[...] quand on aura fini le livre, on verra (je le voudrais) que tout le roman nʼest que la mise en œuvre des principes dʼart émis dans cette dernière partie, sorte di préface si vous voulez mise à la fin” (CORR; IX, 156). A proposito della Recherche, la lettera a Jaques Boulanger, 1 gennaio 1920: “[...] la dernière page de mon livre est écrite depuis plusieurs années (la dernière page de tout lʼouvrage, la dernière page du dernier volume)” (CORR, XIX, 35).92

4) Repetita...

Abbiamo detto della lettera a madame Straus del 1909... A madame de Noailles, nel dicembre 1908: “Je voudrais, quoique malade écrire une étude sur Sainte-Beuve. La chose sʼest bâtie dans mon esprit de deux façons différentes entre lesquelles je dois choisir. Or je suis sans volonté et sans clairvoyance. La première est lʼessai classique, lʼEssai de Taine en mille fois moins bien (sauf le contenu qui est je crois nouveau). La deuxième commence par un récit du matin, du réveil, Maman93 vien me voir

92 Forse Lʼœuvre cathédrale di Luc Fraisse (José Corti, Parigi, 1990) è il testo che meglio e più doviziosamente individua e segnala il procedimento di scrivere insieme inizio e fine e, quindi, di sparpagliare, disseminare. Vedi, in particolare, la seconda parte (pp. 402-538). 93 Nel Contre Sainte Beuve: “Chiamo, nessuna risposta, nessun rumore (aucun bruit). Chiamo di nuovo, odo dei passi furtivi (des pas furtifs), avverto unʼesitazione alla mia porta che cigola (qui grince)” (CSB, 217; 11); è evidente lʼavvio delle sonorità che caratterizzeranno le varie edizioni del “drame du coucher”. Questa versione sarà ripresa in Albertine Scomparsa (AS, 566; 181) dove sarà ripreso anche il rapporto Sainte-Beuve con la sua propria madre: “Ma un bel mattino (mais un matin), sua madre, entrando nella sua camera, posa vicino a lui il giornale [...]” (CSB, 226; 24). 82

près de mon lit, je lui dis que jʼai lʼidée dʼune étude sur Sainte-Beuve, je la lui soumets et la lui développe” (CORR, VIII, 320-321). Lʼabbiamo già visto: il “saggio” sarà collocato alla fine della “ricerca” (anche se avviato lungo tutte le vicissitudini della stessa) e il “risveglio” sarà collocato allʼinizio... Roger Duchêne: “Peut-être même croyat-il, à se moment-là, de commencer que le Sainte-Beuve. Il voulait débuter par une mise en scène: ʻun récit du matin, du réveilʼ. La rédaction de ce récit, fortement autobiographique, a fait basculer le projet. Lʼintroduction a engendré le roman” (Lʼimpossible Marcel Proust, Laffont, Paris, 1994, p. 606). Richiamiamo più ampiamente il testo della lettera a Alfred Vallette, agosto 1909: “[...]. Je termine un livre qui malgré son titre provisoire: Contre Sainte-Beuve. Souvenir dʼune Matinée est un véritable roman et un roman extrêmement impudique en certaines parties. [...]. Le livre finit bien par une longue conversation sur Sainte- Beuve et sur lʼesthétique [...]. Et quand on aura fini le livre, on verra (je le voudrais) que tout le roman nʼest que la mise en œuvre des principes dʼart émis dans cette dernière partie, sorte de préface si vous voulez mise à la fin” (CORR, IX, 155-156). Proust sa ormai che è un “romanziere”! 94 Ha anche in mente la struttura di un “véritable” romanzo: la cui conclusione è anche la sua prefazione. Perché il “roman” lʼha avuta vinta sullʼ“essai”. Leggete lʼintervista a É.J. Bois, scritta di pugno da Proust nel 1913 per pubblicizzare Du côté de chez Swann che sta per uscire, per capire che tutto era già stato pensato (Textes retrouvés, Gallimard, Paris, 1971, pp. 284-291). A Jacques Rivière, 6 febbraio 1914: “Ce nʼest pas quʼà la fin du livre [di Du côté de chez Swann], et une fois les leçons de la vie comprises, que ma pensée se dévoilera. Celle que jʼexprime à la fin du premier volume, dans cette paranthèse sur le Bois de Boulogne que jʼai dressée là comme un simple paravent pour finir et clôturer un livre qui ne pouvant pas pour des raisons matéreilles excéder cinq

94 In Jean Santeuil: “Puis-je appeler ce livre un roman? Cʼest moins peut-être et bien plus, lʼessence même de ma vie, recueillie sans y rien mêler. [...]. Ce livre nʼa jamais été fait, il a été récolté” (JS, 181). Ma a René Blum, 20 febbraio 1913: “Je souhaiterais que M. Grasset pubbliât, à mes frais, moi payant lʼédition et la publicité, un important ougrave (disons roman, car cʼest une espèce de roman) que jʼai terminé” (CORR, XII, 79). Sempre a René Blum, 7 novembre 1913: “[...] je nʼai pas pu entreprende la réduction dʼune partie de mon roman en une nouvelle pour vous” (CORR, XII, 294). 83

cents pages, est le contraire de ma conclusion. Elle est une étape [...]” (CORR, XIII, 99). Henri Bonnet: “[...] Proust a toujours dit que le dernier chapitre de son livre avait été écrit immédiatement après le premier, celui des Cahiers 9 et 10, de fin 1909”. Un premier état de Swann, un testo pubblicato incompiuto nel 1945, costituirebbe la preparazione della Recherche. Essa si trova nella sua forma più completa allʼinizio del Cahier 26. Oltre al primato dellʼimpressione sensibile sul valore intellettuale, si incontra un ricordo involontario che riemergerà in Il tempo ritrovato fin dalla prima versione de Lʼadoration perpétuelle – la prima delle due sezioni in cui Il tempo ritrovato (Matinée chez la Princesse de Guermantes) doveva essere articolato, la seconda essendo Le bal des têtes –, quello dellʼurto della forchetta contro un piatto... Bonnet: “Il touche donc au but qui est Le temps retrouvé et cela dès cette première version de son œuvre. [...]. Mais le récit du heurt de la fourchette contre lʼassiette sera finalmente reporté à la fin de la Recherche, au Temps retrouvé. Il aura suffit à Proust dʼavoir magistralement décrit dès le début de Swann le souvenir provoqué par la petite madeleine, et par la suite dʼautres réminiscences et de nombreuses impressions, mais don il sʼabstient de tirer le conséquences”. In una lettera a Valette – che rifiuterà la pubblicazione, nellʼagosto 1909, della parte romanzesca del Sainte- Beuve –, Proust dice: “Cʼest un livre dʼévénements les uns sur les autres à des années dʼintervalle [...]”: “Lʼexpression est curieuse – annota Bonnet –. Elle prouve que dès le départ, ou presque, Proust a prévu de retrouver ses personnages beaucoup plus tard [...]”. Ora, cʼè una stretta parentela tra “les brouillons beuviens et les brouillons romanesques”, ma anche una svolta: “Proust a dû inventer une forme nouvelle (le sujet insomniaque et la remémoration). Ce changement dans la technique dʼexpression ne pouvait pas ne pas avoir dʼincidence sur le message estétique apparemment commun aux deux projets successifs” (Bernard Brun). Bonnet parla diffusamente della scoperta di Voker Roloff: la fine del testo dedicato a François le Champi nel Cahier 10 non è riprodotta in Du côté de chez Swann, ma figura ne Il tempo ritrovato pubblicato nel 1927; Bonnet conclude che Proust non vuole anticipare quel che deve risultare come compimento dellʼopera! Nel testo curato da Bonnet troviamo i Cahiers 51 (1909), 58 e 57 (1910-1911), 57 (1913-1916). Vedi Proust di Jean-Yves Tadié (1983, Il Saggiatore, Milano, 1985 pp. 15-43): Sainte-Beuve. Ricordi di una mattinata (Conversation avec Maman Ò Bal costumé) Ò Bal des têtes Ò LʼAdoration perpétuelle. 84

Ripetiamolo: Proust non è più un saggista o un novelliere: è un romanziere. Nel maggio del 1908, in una lettera a Luis dʼAlbufera, aveva fatto una lista di quel che stava scrivendo: “une étude sur la noblesse / un roman parisien / un essai sur Sainte-Beuve et Flaubert / un essai sur les Femmes / un essai sur la Pédérastie (pas facile à publier) / une étude sur les vitraux / une étude sur les pierres tombales / une étude sur le roman” (CORR, VIII, 112-113). Lʼha vinta la forma del romanzo. Di un romanzo particolare che ha incluso in se stesso tutto il resto: tutti gli études e tutti gli essais... 95 Di questo romanzo indica, nel Carnet de 1908, le “pages écrites” (56).

5) Quando nasce Agostinelli?96

Dal Cahier de 8 sappiamo che Proust ha già pensato ad Albertine: “Dans la 2e partie du roman la juene fille sera ruinée, je lʼentretiendrai sans chercher à la posséder par impuissance du bonheur. [...]. Dans la Seconde partie jeune fille ruinée, entretenue sans jouir dʼelle (comme Mlle Georges par América, Luigia par Sallenauve) par impuissance dʼêtre aimé. Chartres” (C8, 49-50). Sappiamo che Albertine affiora come nuovo personaggio nel Cahier 71 (detto Cahier Dux), risalente al 1913. E prende corpo nel Cahier 54, risalente sempre al 1914. E questo autorizza a cogliere lʼidentità Albertine-Agostinelli: Agostinelli, infatti, fugge e muore nel 1914. Ma la questione che dobbiamo risolvere è la seguente: la Jeune fille di cui nel Carnet de 1908, chi è? Se non Agostinelli (e Albertine)? E questo in virtù di quella facoltà divinatoria di cui Proust parla, riferendola alla sua esperienza, in una lettera a Reynaldo Hahn (fine di ottobre 1914) centrata sulla perdita recente dellʼamico/amante; dopo osservazioni come “Ce nʼest pas parce que les autres sont morts que le chagrin diminue, mais parce quʼon meurt soi-même”: “Si

95 Nel giugno del 1911, a “un jeune homme”, possibile suo segretario, scriverà: “Je termine un roman ou livre dʼessais qui est une œuvre extrêmement considérable, au moins par sa folle longueur” (COO, X, 308). 96 Henri Bonnet, in La progrès spirituel dans “La recherche” de Marcel Proust (Nizet, Parigi, 1979) – e anche in Les amours et la sexualité de Marcel Proust (Nizet, Parigi, 1985) – sostiene ancora che Proust non era un omosessuale. Da tuttʼaltra parte William Carter nel suo Proust in love (2006, tr. it. Castelvecchi, Roma, 2007). Utile anche, sempre di Bonnet, Marcel Proust. De 1907 À 1914. (Avec une bibliographie générale), Nizet, Paris, 1971. 85

jamais je veux formuler de telles choses ce sera sous le pseudonyme de Swann. Dʼailleurs je nʼai plus à les formuler. Il y a longtemps que la vie ne mʼoffre plus que des événements que jʼai déja décrits” (CORR, XIV, 358-359). 97 Vedi la lettera a Pierre de Polignac del febbraio 1920: “Au reste cette tristesse était par avance consolée par lʼart car avec cette prévision qui me rend la vie si insipide (parce quʼelle arrive en retard sur mes livres) jʼavais écrit (dans un volume à paraître) votre mariage (san votre nom bien entendu ni rien de vous il y a un an)” (CORR, XIX, 105-106). Proprio in Albertine scomparsa: “E tuttavia queste cose dolorose [...] quante volte ce le siamo dette, senza saperlo, senza volerlo, con parole da noi stessi credute menzognere ma alle quali i fatti hanno dato a posteriori (après-coup) il loro valore profetico (leur valeur prophétique)!” (AS, 507; 110). Secondo Pierre-Edomond Robert – Notice su La prisonnier – (1) i Cahiers 13, 47, 48, 50 e 74 dimostrano che il personaggio di Albertine compare nellʼopera di Proust solo nella primavera del 1913; e che la riorganizzazione di À la recherche du temps perdu che seguì fu parallela agli avvenimenti vissuti con Agostinelli: la sua partenza nel dicembre 1913, la sua morte nel maggio 1914; (2) “à lʼinvers – mais ce nʼest pas une contradiction, la vie venant seulement appuyer les intention littéraires –,98 Proust avait annoncé lʼillustration des thèmes liés à la scène de Montjouvain, par une remarque dʼune impression ressentie

97 “La réalité de lʼexpérience utilisée dans la Recherche est hors de doute. Mais elle est ici racontée avant dʼetre vecue. Lʼexpérience précedente, sa mise par écrit et sa mise en mémoire engendrent un récit prémonitoire qui oriente lʼexpérience à venir. À trop se souvenir et à trop raconter, Proust sʼest lui-même prédéterminé. Comment purrait-il vivre comme nuovelle une installation quʼil sait dʼavance et se récite par cœur? Ainsi fait-il dans tous les domains. À vingt-huit ans, il ne peut plus rien lui arriver... Il nʼest plus disponibile pour lʼévénement (ou le sentiment). Il sait comment cela sʼest passé, doit se passer, va se passer. Il ne peut plus le découvrir. Il ne peut que lʼapprofondir. Et quelquefois, rarement, se laisser surprendre par un impossibile imprévu” (Duchêne, op. cit., pp. 352-353). 98 Duchêne, partito dalla lettera a Reynaldo del 20 marzo 1896 – “Jʼai frappé et même – une seule fois – sonné. Je nʼai entendu aucun bruit, vu aucune lumière, on ne mʼa pas ouvert et je rentre bien triste. Dormez-vous seulement?” (CORR, II, 52) – in cui individua un antenato della scena quasi identica che vede protagonista Swann verso Odette, conclude: “Comme si les idées de lʼauteur sur la jalousie avaient étés par lui vérifiées dans la vie après-coup, sorte de douloureuse confirmation par lʼévénement dʼun système déjà arrêté dans son esprit” (Lʼimpossible Marcel Proust, Laffont, 1994, 308). 86

dans Du côté de chez Swann: ʻCʼest peut-être dʼune impresison ressentie aussi auprès de Montjouvain, quelques années plus tard, impression restée obscure alors, quʼest sortie, bien après, lʼidée que je me suis faite du sadismeʼ. [...]. Avant dʼobserver Mlle Vinteuil et son amie, le narrateur comment à lʼintention du lecteur: ʻOn verrà plus tard que, pour de tout autres raisons, le souvenir de cette impression devait jouer un rôle important dans ma vieʼ. Alors que la phrase précédente était une addition à la dactylographie de 1912, la seconde a été ajoutée à la dernière minute puisquʼon ne la trouve que dans les épreuves Grasset qui préparent la pubblication de novembre 1913. Cette seconde phrase annonce le coup de théâtre de novembre 1913 qui conclut Sodome et Gomorrhe, le départ brusqué de Balbec, lorsque Albertine apprend au narrateur quʼelle connaît intimement Mlle Vinteuil et son amie [...]” (Notice, P, 1631-1651 + SW, 159; 193-194). Comunque, interessante mi sembra la genealogia di Albertine che traccia Painter facendola risalire addirittura al suicidio dellʼeroina lesbica di Avant la nuit [1893]. E più interessante la conclusione: “Par quasi che Proust abbia imposto al suo amore per Agostinelli un corso già prestabilito ed esistente non soltanto nellʼesperienza amorosa complessiva della sua vita ma anche nellʼatmosfera del romanzo. Agostinelli fu condotto lungo un cammino che menava alla tragica fine dallʼineluttabile meccanismo di un capolavoro; fu ucciso dalla Recherche [...]. La Recherche è unʼopera consacrata da due sacrifici umani, dalla morte di Mme Proust e dalla morte di Agostinelli, e di tutte e due Proust, nella sua mente e nella realtà, fu parzialmente responsabile” (Marcel Proust, 1959, tr. it. 1980, pp. 518-519).

6) Après-coup/non après-coup; categoriale/non categorale

Torneremo spesso su questo punto; perché è vero che la Recherche narra di una ricerca; quindi: di una perdita e di un ritrovamento (del Tempo). Ma chi scrive la Recherche, questo Tempo, oltre ad averlo perso, lʼha anche ritrovato. E scrive la Recherche dal punto di vista di chi lʼha ritrovato. Da qui la perfezione della scrittura (escluse le pagine che Proust avrebbe dovuto o limare o togliere). Da questo punto di vista risulta più chiaro che, essendo lʼaprès- coup collocato... sin dallʼinizio... alla fine dellʼopera (che è nata tutta intera dalla testa di Giove), esso non implica un invito a vivere 87

pienamente la propria vita ma lʼindicazione sconcertante che abbiamo sempre accesso allʼeterno, allʼextra-temporel. Lʼilluminazione che abbiamo detto, segna una svolta nel lavoro di Proust. Fino a quel momento egli ha cercato di scrivere un romanzo su?, una critica di?, Sainte-Beuve. Lo scenario è quello di una conversazione con la madre nel corso di una matinée... Nel corso della quale (conversazione e matinée) vuole dimostrare che il “metodo” di Sainte-Beuve è sbagliato (esso consistendo nellʼinformarsi della vita degli autori, intervistando coloro che li hanno conosciuti, leggendo tutti i documenti disponibili)... I giudizi che incontriamo nel Carnet sono tranchant: “Cette médiocrité du moi lʼempêche de se replacer dans lʼétat où était lʼécrivain donc de le comprendre, – elle empêche aussi dʼécrire” (C8, 77); “Folie moins délétère que bouchage des artères di cerveau” (C8, 68). Meglio pazzi come Gérard de Nerval che imbecilli come Sainte- Beuve! Infatti, come spiegare il fatto che Sainte-Beuve non abbia capito la genialità dei poeti e romanzieri più originali del suo tempo, li abbia considerati al di sotto di scrittori che erano loro inferiori? “Pense, se dit-il, que tous ces gens ont été plus grands que lui” (C8, 77)... Proust è un “romanziere”; e scriverà un romanzo; un romanzo che includerà, trasfigurato, lo studio critico su Sainte-Beuve. Nel romanzo, Madame de Villeparisis finito di dire il poco conto in cui tiene uomini di genio come Balzac, Victor Ugo, Vigny, detto della “vulgarité affreuse” de M. Beyle, cioè di Stendhal, conclude: “Je crois que je peux en parler, car ils venaient chez mon père, et, comme disait M. Sainte-Beuve qui avait bien de lʼesprit, il faut croire sur eux ceux qui les ont vus de près et ont pu juger plus exactement de ce quʼil valaient” (AO, 711)... Come vedete, qui, nel romanzo, Sainte-Beuve è diventato Madame de Villeparisis... Proust, crea unʼopera, non di critica letteraria o di filosofia, ma dʼimmaginazione. E, nel romanzo, trae le conseguenze del lavoro fatto su Sainte-Beuve: “Cette leçon pouvait se réduire en somme à ceci: quʼil nous arrive souvent dans la vie de nous tromper non seulment sur la valeur dʼun écrivain ou dʼun artiste, mais aussi sur le caractère des hommes que nous croyons connaître pour les avoir fréquentés” (Kolb, 25). Sì, proprio così. Non più la confutazione della tesi di un critico letterario che giudica le opere degli scrittori... ma il lavoro di comprensione (di uno psicologo?, di un sociologo?) che giudica le 88

opere degli uomini (e le proprie). E, per farlo, inventa un metodo che niente ha a che fare con quello di Sainte-Beuve. Perché parte da una concezione opposta: più frequentiamo una persona, più conversiamo con essa, meno la capiamo (per questo, la persona che capiamo di meno siamo noi stessi). Per “comprenderla” abbiamo bisogno di strumenti raffinati... quelli di cui Proust ci fornisce. Qui sotto alcuni passaggi del Cahier 8: “Nous croyons le passé médiocre parce que nous le pensons mais le passé ce nʼest pas cela, cʼest telle inégalité des dalles du baptistère di St Marc (photographie du Baptistère) de St Marc à laquelle nous nʼavions plus pensé, nous rendant le soleil aveuglant sur le canal. Peut-être dois-je bénir ma mauvaise santé, qui mʼa appris, par le lest de la fatigue, lʼimmobilité, le silence, la possibilité de travailler.99 Les avertissements de mort. Bientôt tu ne pourras plus dire tout cela. La paresse ou le doute ou lʼimpuissance se réfugiant dans lʼincertitude sur la forme dʼart. Faut-il en faire un roman, une étude philosophique, suis-je romancier?100 (Ce qui me console, Gérarnd de Nerval Voir page XXX de ce cahier). Tiens ferme ta couronne. Je sens que jʼai dans lʼesprit comme le lac de Genève invisible la nuit.101 Jʼai quattre visages de jeunes filles, deux clochers, un filière noble, en lʼhortensia normand un ʻallons plus loinʼ, dont je ne sais ce que je farai – devoirs parfois des fétisches dont je ne sais plus le sens. Je fixe devant moi quatre têtes de jeunes filles et ne vois plus la réalité qui [ ] oublié: Ma je sens quʼun rien peut briser ce cerveau” (C8, 60-61; vedi TR, 920). “Approfondir des idées (Nietche, philosophie) est moins grand quʼapprofondir des réminiscences parce que comme lʼintelligence ne crée pas et ne fait que débrouiller non seulement son but est moins grand mais sa tâche est moins grande. Aucun homme nʼa jamais eu dʼinfluence sur moi (que Darlu et je lʼai reconnue mauvaise). Aucune action extérieure à soi nʼa dʼimportance: Nietche et la guerre, Nietche et Wagner, Nietche et ses scrupules. La réalité est en soi. (Wagner disant: opéra et mariage. Emerson: il faut vivre une idée absurde). Pour ajoutes dans la dernière partie à ma conception de lʼart. Ce qui se présente ainsi obscurément au fond de la conscience, avant de le réaliser en œuvre, avant de le faire sortir au dehors il faut lui faire traverser une région intermédiaire entre notre moi obscur, et

99 “Vous ai-je parlé dʼune pensée de Saint-Jean: Travaillez pendant que vous avez encore la lumière. Comme je ne lʼai plus je me mets au travail” (lettera a Georges Lauris, dicembre 1908 (CORR, VIII, 316). 100 Lʼincipit di Jean Santeuil: “Puis-je appeler ce livre un roman?”. 101 Incontreremo il “lac” come simbolo dellʼinconscio. 89

lʼextérieur, notre intelligence, mais comment lʼamener jusque-là, comment le saisir. On peut rester des heures à tâcher de se répéter lʼimpression première, le signe insaisissable qui était sur elle et qui disait: approfondis-moi, sans sʼen approcher san la faire venire à soi. Et pourtant cʼest tout lʼart, cʼest le seul art. Seule mérite dʼêtre exprimé ce qui est apparu dans les profondeurs et habituellement sauf dans lʼillumination dʼun éclair, ou par des temps exceptionnellement clairs, animants, ces profondeurs sont obscures. Cette profondeur, cette inaccessibilité pour nous-même est la seule marque de la valeur – ainsi peutʼêtre quʼune certaine joie. Peu importe de quoi il sʼagit. Un clocher sʼil est insaisissable pendant des jours a plus de valeur quʼune théorie complète du monde” (C8, 101- 103). “Je nʼai pas trouvé le beau dans la solitude que dans la societé, je lʼai trouvé quand par hasard, à une impression si insignificante quʼelle fût, le bruit répété de la trompe de mon automobile voulant en dépasser un autre, venait sʼajouter spontanément une impression antérieure du même gènre qui lui donnait une sorte de consistance, dʼépaisseur, et qui me montrait que la joie la plus grande que puisse avoir lʼâme cʼest de contenir quelque chose de générale et qui la remplisse tout entière. Certes ces moments-là sont rares. Mai ils dominent toute la vie. Ajouter pour dire quʼil faut quʼil y ait presque hallucination car pour bien revoir, il faut croire et pas seulement imaginer [...]. Ne pas oublier [...]. Ne pas oubiler [...]. Ne pas oublier [...]” (C8, 124-125).

7) Bois de Boulogne e bal de têtes

Du côté de chez Swann, sostiene Painter, “termina con un brano, unico nel romanzo, in cui per un attimo il Narratore emerge dallʼabisso del passato per osservare il presente nel quale sta scrivendo. [...]. [Proust] aveva deciso di terminare lʼepisodio di Gilberte con un confronto tra il Bois del 1988, quando ci andava ad aspettare Léonie Clomesnil, e il Bois del 1912”. 102 I termini del problema sono già posti: “[...] i diversi elementi di un ricordo sono solidali tra loro e la nostra memoria li mantiene in equilibrio (équilibrées) allʼinterno dʼun sistema cui non possiamo sottrarre o rifiutare nella [...]” (SW, 426; 514)... Quindi quellʼequilibrio va rotto.

102 Marcel Proust, 1959, tr. it. Feltrinelli, 1980, pp. 498-499. 90

A questa rottura provvede la memoria involontaria. Il Bois è “al primo risveglio di questo maggio delle foglie” (SW, 509). In un momento, quindi, di svolta, di perdita dellʼequilibrio; lo dice lʼossimoro: il maggio che annuncia la primavera, qui annuncia lʼautunno... Il Bois ha, infatti, lʼ“aspetto provvisorio e arificioso” di un “vivaio” in cui sono trapiantate “due o tre specie preziose”; è, questo risveglio di maggio, la stagione in cui il Bois de Boulogne rivela “il maggior numero dʼessenze diverse (essences diverses) e giustappone il maggior numero di parti distinte in un composito insieme” (SW, 422; 510). Il Bois non è un “semplice bosco”, ma risponde “a una destinazione estranea alla vita (étrangère à la vie) dei suoi alberi”: “la mia esaltazione non era provocata solo dallʼammirazione per lʼautunno, ma da un desiderio. Insomma fonte dʼuna gioia che lʼanima assapora, dapprima, senza afferrarne la causa, senza capire che niente di esterno la motiva (sans comprendre que rien au dehors ne la motive)” (SW, 423; 511). Il narratore intuisce che deve discendere in se stesso: “Ma la bellezza [...] non era fissata fuori di me (nʼétait pas fixée en dehors de moi), nei ricordi di unʼepoca storica, in qualche opera dʼarte, in un tempietto allʼAmore. [...]. Lʼidea di perfezione che custodivo in me (que je portais en moi), lʼavevo prestata (je lʼavais prêtée) allʼalta sagoma dʼuna victoria [...]” (SW, 424; 512). Lʼesperienza che il Narratore fa rivisitando il Bois, deve farla anche rivisitando coloro che lo popolano: “E io non avevo più fede da infondere in tutte quelle nuove componenti dello spettacolo per dare loro la consistenza, lʼunità, la vita (lʼexistence): mi passavano davanti in ordine sparso, a caso (au hazard), senza verità (sans vérité), prive in se stesse dʼuna qualsiasi bellezza che i miei occhi potessero, come allora, sforzarsi di comporre” (SW, 425; 513). Il Narratore capisce che rischia il feticismo (lʼidolatria rimproverata a Ruskin): “Ma quando una fede scompare, le sopravvive, e si fa via via più vivace per mascherare il vuoto del nostro perduto potere di dare realtà alle cose nuove, un attaccamento feticistino alle cose vecchie chʼesso aveva animate, come se in quelle e non in noi stessi (comme si cʼétait en elles et non en nous que) risiedesse il divino e la nostra attuale incredulità avesse una causa contingente, la morte degli Dei. Che orrore ! [...]. Che orrore!” (SW, 425; 513). Lʼorrore è già quello che il Narratore proverà nel corso del bal de têtes. Egli vi incontrerà alcune donne “invecchiate, nientʼaltro più 91

che lʼombra terribile di ciò che erano state, vagare alla disperata ricerca di chissà che cosa nei boschetti virgiliani” (SW, 515)... Il Narratore capisce che non è ancora giunto alla meta: “Ma adesso, anche se non mi conducevano a uno sbocco, quegli attimi mi sembravano di per sé abbastanza incantevoli. Volevo ritrovarli identici (tels que) a come li ricordavo [...]” (SW, 426; 514). Ma quel che il Narratore deve scoprire e accettare è che tutto è cambiato: “La realtà che avevo conosciuto non esisteva più” (SW, 515).

8) Platonismo senza super-uranio

Ricordate la lettera a André Chaumeix del 12 dicembre 1919? Che ha come argomento unʼobiezione di M. de Pierrefeu? “Pour en finir avec tout, si vous avez quelquefois lʼoccasion de causer avec M. de Pierrefeu, vous pourrez lui dire que le dernier chapitre de mon œuvre ayant été écrit avant le premier, et tout lʼouvrage étant fait et terminé, il nʼa pas besoin dʼattendere ma mort comme il dit pour finir À la Recherche du Temps Perdu (titre detestable qui je le reconnais trompe sur la composition serrée de lʼœuvre). Cette composition est si inflexible que M. Francis Jammes mʼayant adjuré dʼôter de Du côté de chez Swann un épisode qui le choquait, jʼai été sur le poit de lui donner satisfaction, cet épisode étant en effet inutile dans le premier volume. Mais je me suis rendu compte que si je lʼenlevais, le trosième et le quatrième volumes étaient détruits puisque cʼest le ressouvenir de cet épisode qui en excitant la jalousie du narrateur (celui qui dit je et qui nʼest pas toujours moi) amenait ce quʼon appelait au théâtre la péripétie” (CORR, XVIII, 524). A Jean de Pierrefeu, il 4 gennaio 1920, Proust assevererà: “Le dernier mot en était écrit en 1914. Donc tout est fait” (CORR, XIX, 49).... Sur Proust, di Jean-François Revel,103 è uno degli scritti più stimolanti. Penso, ad esempio, allʼidea che esista in Proust un platonismo sui generis; un platonismo, cioè, che non fa capo ad un super-uranio (a un “bene” assoluto).104 Allʼidea che “la thèse de Proust sur la création littéraire est le retournement exact de celle de Sainte-Beuve, et elle est du même

103 1960, Grasset, Parigi, 1987. 104 Ibidem, pp. 221 sgg. 92

niveau. À la thèse que lʼêuvre procède du moi des dîners en ville, Proust réplique quʼelle procède dʼun moi qui ne mange jamais”.105 Non a caso Revel sostiene che il genio di Proust consiste nellʼessere riuscito a descrivere la “verità”... Non solo quella interiore ma anche quella interiore. Dimostra che le due sono tra loro interconnesse... Interessante lʼinsistenza sullʼimportanza del “vissuto” e sul fatto che questo “vissuto” è ossessivo; quasi che quel che ossessiona non sia unʼesperienza accaduta solo nella realtà della vita di Proust ma sia accaduta anche – lo diciamo proustianamente – nella sua pre-vita (nella sua preistoria): “Mais il fallait un labeur aussi minutieux que celui de George D. Painter pour ne pas suggérer seulement, mais démontrer cette superposition, si littéteral, si surprenant, entre le vécu et le récit” + “Bien quʼil nʼy ait dans la Recherce, selon Proust lui-même, aucune incorporation littérale et intégrale dʼun personnage ou dʼun événement réels, il me semble également indiscutable que rien, absolument rien, nʼy est créé de toutes pièces, et que lʼauteur nʼy parle jamais que de ce quʼil a vécu ou vu”106 + “[...] seul le temps – même pour lui – peut opérer ce décollement, et, dès lors, ce nʼest pas une ʻdimension métaphysiqueʼ qui sʼest ʻconsitutéeʼ, mais une autre chose vécue qui survient”107 + Proust = “lʼobsédé qui reproduit quelques scènes impossibles à modifier”.108 Ma lʼessenziale è la diffidenza di Revel verso lʼidea che Proust difenda a spada tratta la sua opera come una “costruzione” (“dogmatica” etc.): “Dʼun côté persiste tout en sʼatténuant lʼimprovisation préparée de lʼauteur qui voulait coucher sur le papier quelque souvenirs obsédants, mais qui, sachant obscurément que ces souvenirs resurgiront toujours [...] délaisse à tout propos cette ligne principale, prend la liberté de se jeter dans les digressons les plus longues, et cʼest ce retour perpétuel, quoique de plus en plus espacé, qui donne à la Recherche ses melodie et ses contrepoints, et qui peut faire parler de composition ʻsavanteʼ (ainsi Du côté de chez Swann sʼouvrant sur un coucher et finissant sur un lever). De lʼautre côté [...] une autre improvisation se déploie, au service dʼune pensée de constatation, écrit au présent, cʼest lʼimprovisation des digressions qui enveloppent et noient les images primitives, finissant par nous les faire perdre de vue, à nous et à lʼauteur” + “[...] si copieuse soit la rhétorique quʼa pu faire couler la fameuse et mytique

105 Ibidem, pp. 228 segg. 106 Ibidem, p. 38. 107 Ibidem, pp. 66-67. 108 Ibidem, p. 35. 93

ʻcomposition en rosaceʼ, façon pudique de dire quʼil sʼagit dʼun ensemble de pièces aux coutures hasardeuses, de plusieurs coulées dʼinspiraton librement suivies”.109 Ne concludiamo che, forse, lʼessenziale dellʼopera di Proust è il suo essere insieme “compiuta” e “incompiuta”. Qualcosa come un platonismo senza iperuranio... Nel qual caso lʼossessione opera già negli scritti della giovinezza... Prosegue attraverso Jean Santeuil, attraverso lʼesperienza del tête-à-tête con Ruskin, attraverso il Contre Sainte- Beuve e attraverso la Recherche. La “ricerca” abbraccia tutto questo percorso, e procede oltre...

10) Infine: qual è la Recherche?

Eugène Nicole in La Recherche et les nom,110 dimostra nei brouillon “la résurgence de Noms beaucoup plus anciens” che, al di là del Jean Santeuil, risalgono a Plaisirs et les Jours... Come a dire: la ricerca comincia fin dai primi scarabocchi (se scarabocchi possono essere definiti Plaisirs et les Jours). Serge Doubrovsky in Corps du texte / text du corps: “Le commencement de la Recherche est recherche du commencement, il ne saurait faire partie de lʼhistoire quʼil raconte, puisquʼil est, comme tel, anhistorique”111... Come a dire: lʼinizio della ricerca si perde nella notte dei tempi proprio perché essa è ricerca di quel che da sempre è là (Da-sein)... “Ce nʼest pas donc pas seulement tout lʼespace-temps proustien, Combray, Balbec, Paris, Doncières, Venise, ʻles lieux, les personnages que jʼy avais connuesʼ (I, 9) que produit littéralement cet introït insomniaque, mais lʼacte de la production même, allégorisé par lʼépisode de la madeleine: remémoration de la remémoration, souvenir de la naissance du souvenir, lʼouverture insomniaque se donne ainsi comme un terminus a quo ultime, un point de départ ansolu du récit, don lʼévolution ultérieure sera une immense involution – une sorte de hors-texte, qui est en même temps une matrice du texte. Cette position paradoxale, voire intenable, rejette

109 Ibidem, p. 36. 110 In Cahiers Marcel Proust, 14, Études proustiennes, VI, Gallimard, Parigi, 1987, pp. 76-77. 111 Ibidem, pp. 56-57. 94

lʼouverture en une sorte de no manʼs land, une atopie ou utopie de lʼécriture, pour reprendre des termes chers à Barthes”.112 Bernard Brun, in Le roman de Proust: établir un texte, publier des manuscrits, di fronte alla scelta se pubblicare (come verrà fatto dalla nuova edizione della Pléiade) o no i brouillon: “On remarque dès les cahiers de brouillon une horreur du blanc qui va sʼaggravant dans les manuscrits et que les éditeurs postumes, à partire de La Prisonnière, ont été obligés de respecter peu ou prou. Lʼédition cohérente dʼun texte uniformément établi selon des principes systematiques serait une erreur historique. Le discontinu, lʼinachevé sont des données fondamentales du roman qui jusquʼà présent ont été inutilement occultées au non de la perfection du grand œuvre. [...]. Jean Santeuil, Contre Sainte-Beuve, Matinée chez la princesse de Guermantes ne sont pas des ʻinéditsʼ enfin publiés, parties trop longtemps ignorées de lʼœuvre complète de Marcel Proust, mais des brouillons interrompus destinées au roman ou plus exactement, dans le cas des deux premiers et pour éviter toute vision finaliste, ʻtéléologiqueʼ, des dossiers de travail qui ont été réutilisés, des années après, pour rédiger ce roman”...113 Questa dichiarazione (preliminare) non dice tutto il pensiero di Brun, ma chiarisce lʼincompiutezza dellʼopera... Meglio, il suo essere un cantiere sempre – da sempre e per sempre – aperto. Più avanti, dopo aver dimostrato la dialettica insolubile che lega i frammento allʼinsieme, il movimento della scrittura nei brouillon alla genesi dellʼopera concepita nella sua globalità – e che trova la sua illustrazione più straordinaria nella struttura delle “Matinées”: “Elle informe la Recherche entière, à partir de la première phrase”: “Le vieux couple un peu triste ʻgenèse et structureʼ déraille très vite en ce sens que, vus de près, les brouillons développent une écriture folle plus quʼils ne la contiennent. Lʼeffort de structuration, dans les limites dʼun projet toujours provisoire parce que toujours remis en question, éclate sous la plume, vers le discontinu, vers le proliférant. Il nʼest récupéré quʼin extremis, pour les besoins de la publication, par une série de condensations, de renoncement”... Molto interessante per noi che abbiamo immaginato una Recherche abbreviata sulle orme di Flaubert, Sodome 1913 di Antoine Compagnon... È o no possibile pubblicare, insieme, il Proust edito e quello inedito? Pubblicare i brouillon non significa disconoscere la differenza assoluta tra le esquisse e il testo compiuto? Ad esempio, consideriamo Flaubert: lʼunità del suo lavoro

112 Ibidem, p. 54; il corsivo è dellʼautore. 113 Ibidem, p. 124 95

è la pagina; la riprende dodici o tredici volte, la riscrive da cima a fondo, modificandola sempre, fino ad arrivare ad un punto di equilibrio in cui unʼaltra scrittura sarebbe una copia... Ma, la scrittura di Flaubert è “fermée, convergente”, quella di Proust “ouverte, expansive”: “ce pourquoi Proust a tant réflechi à la question de lʼunité, de lʼachèvement du livre, un achèvement qui ne fût pas une fermeture ounì un enfermement, à lʼimage de cette cathédrale, de ce bœuf mode ou de cette robe, qui ne rejettent jamais une greffe mais ne perdent pas pour autant leur essence. [...]. Vient la guerre: Proust continue dʼaugmenter son livre, gonfle sans relâche, il ajoute jusquʼà la mort. La Recherche que nous connaissons nʼest pas plus achevée que ce que nous connaissons pas, et à ce compte-là, il faudrait aussi nous passer de tout ce qui a paru après la mort de Proust, de La Prisonnière au Temps perdu. [...]. Des larges pans de la Recherche sont des brouilloins, à lʼétat dʼécriture brouillonne, et la perpective finaliste est une erreur, qui juge le texte final toujours meilleur que les versions antérieures. À lʼachèvement de la page flaubertienne, il faut opposer la phrase proustienne, unité de la lecture et de lʼécriture, sans imaginer de médiation entre la phrase et le livre ou lʼœuvre, au nom de laquelle trancher. [...]. Et tout appartient à ce livre, la séparation de lʼavant-texte et du texte est contingente, elle nʼest pas nécessaire. Tous les brouillons appartient au livre”.114

114 Ibidem, pp. 153-154. Gli autori che ho citato portano a riprova delle loro affermazioni una documentazione alla quale rimando il mio lettore. 96

Cap. 6

LA SCENA-MADRE

[...] je la vois [...] comme lʼombre du sapin qui se développait sûr le parquet par les volets découpée sur le clair de lune115

[...] race sur qui pèse une malédiction [...] fils sans mère, à laquelle ils sont obligés de mentir toute la vie et même à lʼheure de lui fermer les jeux [...]116

[...] les fils nʼayant pas toujours la ressemblance paternelle, même sans être invertis et en recherchant des femmes, ils consomment dans leur visage la profanation de leur mère? Mais laissons ici ce qui mériterait un chapitre à part: les mères profanées117

[...] et maman qui aussitôt lʼentendait [le cri du parquet] me faisant avec la bouche le petit bruit qui signifie viens mʼembrasser118

[...] elle mʼa cent fois trop aimé puisque jʼai maintenant la double torture de penser quʼelle a pu savoir, avec quelle anxiété, quʼelle me quittait, et surtout de penser que toute

115 “Mais cette nuit enchantée [...] où ma mère était à côté de mon lit, sur le fauteuil di cretonne, dans sa belle robe de chambre à ramages bleus [...]; je la vois [...] comme lʼombre du sapin qui se développait sûr le parquet par les volets découpée sur le clair de lune” (C &, ES X, SW, 676). 116 (SG, 615). 117 SG, tadié, 300. 118 Lettera a madame de Noailles, 28 dicembre 2005, dopo la morte della madre: “Sono andato in certe stanze dellʼappartamento dove per caso non ero più stato ed ho esplorato così zone sconosciute del mio dolore, che si estende sempre più infinito man mano che mi ci inoltro. Cʼè unʼassicella del parquet vicino alla camera della mamma su cui non si può passare senza che scricchioli e mamma, appena sentiva lo scricchiolio, mi faceva con le labbra il piccolo rumore che significa: vieni a darmi un bacio (me faisait avec la bouche le petit bruit qui signifie: viens mʼembrasser)” (Correspondence de Marcel Proust, Plon, Paris, vol. V., p. 346). “Mais cette nuit enchantée [...] où ma mère était à côté de mon lit, sur le fauteuil di cretonne, dans sa belle robe de chambre à ramages bleus [...]; je la vois [...] comme lʼombre du sapin qui se développait sûr le parquet par les volets découpée sur le clair de lune” (C &, ES X, SW, 676). 97

la fin de sa vie a été si affligé, si constamment préoccupée par ma santé [...]119

Elle est absente de cette préface [a Sésame et les lys], et jʼai même remplecé le mot “ma mère” qui était fictif et ne sʼappliquait pas à alle par le mot “ma tante” pour quʼil ne soit pas question dʼelle dans ce que jʼécris junsquʼà ce que soit achevé quelque chose qui jʼai comencé et qui nʼest rien que sur elle.120

Il sait que les êtres [...] quʼon a le plus aimés, on ne pense jamais à eux, au moment où on pleure le plus, sans leur addresser passionnément le plus tendre sourir dont on soit capable. [...]. Est-ce plutôt, que ce sourire-là nʼest que la forme même de lʼinterminable baiser que nous leur donnons dans lʼInvisible?121

Nessuno è andato più in là di Proust nel ricercare il significato completo di questa scena. Ma non possiamo per questo leggerla acriticamente come autobiografica.122

Jean Milly, nellʼLʼouverture de La Prisonnière dʼaprès le manuscrit ʻdefinitifʼ et les dactylographies:123

119 Lettera a Maurice Barrès, 19 gennaio 1906 (CORR, VI, 28). 120 Lettera Lucien Daudet, giugno 1906 (CORR, VI, 100). 121 Une grande-mère, 1907 (CSB, 548). 122 Proust, Roger Shannuck, 1974, Mondadori, Milano 1991, p. 17. “[...] lʼanecdote du baiser du soir nʼa pas à y être racontée comme elle sʼest passée, mais comme elle doit lʼêtre pour avoir le maximum dʼefficacité sur le lecteur de ci livre. Avec le temps et au fil des divers récits, elle sʼest précisée, amplifiée, modifiée, métamorphosée. Signe du travail du romancier, non de la fidélité du biographe” (Lʼimpossible Marcel Proust, Roger Duchêne, Laffont, Paris, 1994, p. 23). Duchêne, pur ricordando il nucleo autobiografico reperibile nella lettera a Maurce Barrès del 19 gennaio 1906 (CORR, VI, p. 28), preferisce dare un maggiore valore alla dédicace autobiografica a Les Plaisirs et les Jours (dove lʼarca rappresenta il seno materno che accoglie il figlio malato). Ancora, a proposito della madeleine: “[...] Proust nʼa pas forcément raconté la pure vérité. La présence de ʻla vieille cuisinièreʼ est gênante pour Painter, soucieux de situer la scène au moment où lʼauteur conçoit la Recherche. [...]. En fait, on ne sait ni où ni quand eut lieu lʼexpérience de la biscotte, ni même si Proust lʼa effectivement connue un beau jour. [...]. Avec lʼexpérience de la biscotte, Proust tient, sans quʼil le sache encore, la découverte fondatrice de toute la Recherche, le principe de son existence et de son déroulenement, le moyen technique et pratique dʼy introduire la narration” (ibidem, pp. 603-604; vedi anche p. 668). (Quando ad Alberttine/Alostinelli: “Comme presque toujours avec Proust, ce nʼest pas seulement la fiction qui sʼispire de la réalité, cʼest aussi la réalité qui rejoint la fiction”, ibidem, p. 685) 98

“Lʼarticulation est faite avec la fin de Sodome et Gomorre II et, ce qui est typiquement proustien, tout de suite avec lʼensemble de lʼhistoire du personnage, qui est suggérée comme connaissant trois stades – enfance, jeunesse, âge adulte – où est vécu dans des circonstances différentes un même événement fondamental: la séparation douloureuse dʼavec un être aimé, suivi de la brusque possibilité donnée par une puissance (le père, le capitaine de Borodino, ʻla vieʼ) de le retrouver. Cette mise en série fait du début de La Prisonnière une reprise de ʻCombray Iʼen retraçant dans un autre contexte la scène fondatrice et itérative du baiser chacque jour apaisant et ʻnourrissantʼ”.124 Interessante un passo che ritorna: manoscritto e aggiunte (NAF 16715): “la vie, quand elle re nouvelle pour nous la grâce inespérée de < si elle doit une fois de plus > nous faire échapper < délivrer > contre toute prévision à une < de > souffrance inévi qui paraissaient inévitables, le fait dans des conditins différents / renouvelle sa grâce identique das des conditions différents, jusquʼà affecter /par fois si oppos[ées] / le fait dans...... la vie, si elle doit une fois de plus nous délivrer contre toute prévision de souffrances qui paraissaient inévitables, le fait dans de conditiones différents, opposées par fois jusquʼau point quʼil a presque un sacrilège apparent à constater lʼidentité de la grâce qui nou est faite < octroyée >”.125

123 In Cahiers Marcel Proust,14. Études proustiennes VI, Gallimard, Paris, 1987, pp. 288-337. 124 Ibidem, p. 291. 125 Vedi anche la prima dattilografia (DI) e la seconda (D2) (in Milly, op. cit., pp. 285-296, 309, 315). 99

Dal tintement timide, ovale et doré de la clochette pour les étrangers di Dalla parte di Swann, al tintement, alla petite sonnette, del Tempo ritrovato... passando dal car mon heure pouvait sonner dans quelques minutes, nel medesimo.

1) Baci e abbracci

Cʼè un tema, addirittura un filone, della Rercherche che la psicologia “piana” sarebbe tentata di cavalcare. Quello del bacio126 – baiser o embrasser –; quello della buonanotte – bonsoir –. A partire, certamente, dal bacio della madre; a continuare con quello della nonna; per non parlare di quello di Albertine: un bacio mancato, inaugura, allʼepoca del suo secondo soggiorno a Balbec, la relazione amorosa del Narratore con Albertine... Questo tema è però tale da imporsi anche ad una psicologia “dello spazio” (o della profondità). Perché (1) domina tutta la Recherche, dal suo inizio alla sua fine; (2) e presenta delle caratteristiche diverse alla sua fine rispetto a quelle che aveva al suo inizio (e nel suo sviluppo). Il fatto stesso che lʼultima redazione del medesimo episodio sia diversa dalla prima anche solo sul piano lessicale, ci porterà a ipotizzare che in questo luogo, quello delle numerose e diverse edizioni di una medesima scena, luogo ostico per lo psicologo, perché facilmente vi è tentato dallo psicologismo, si “il” luogo in cui si esprime, si avventura e si conclude lʼavventura del ricercatore.

2) La prima edizione del bacio della buonanotte

Partiamo dalla prima edizione (SW, 23-45; 29-55). Il “solo tra noi” per il quale le visite di Swann fossero oggetto di “preoccupazione dolorosa” è il Narratore. Torniamo di qualche pagina indietro (esattamente 15 nel testo italiano e di 19 in quello francese).

126 Douglas Alden nel suo Le plus ancien état du texte proustien après les épreuves Grasset, si dilunga sullʼ“ambiguità” del testo proustiano a proposito del “baiser” come strumento della “possession”: “Il ne paraît pas très expérimenté dans lʼart du baiser car, en cette occasion en tout cas, il se borne à embrasser la joue dʼAlbertine” (In Cahiers Marcel Proust 14, Études proustiennes, VI, Gallimard, Paris, 1987, pp. 99 sgg.). 100

La sua venuta, spesso imprevista (vedremo: che lo sarà anche la sua partenza) è segnalato da un suono: “Le sere in cui, seduti davanti a casa sotto il castagno, intorno al tavolino di ferro, sentivamo dal fondo del giardino, non il sonaglio abbondante e chiassoso (non pas le grelot profus et criard) che sommergeva, che stordiva al passaggio, con il suo rumore gelido, implacabile e metallico (de son bruit ferrugineux, intarissable et glacé), tutte le persone di casa che lo scatenavano entrando ʻsenza suonare (sans sonner)ʼ, ma il doppio tintinnio timido, ovale e dorato del campanello per gli estranei (le double tintement timide, ovale et doré de la clochette pour les étrangers), tutti si affrettavano a chiedersi: ʻUna visita, chi può essere?ʼ” (SW, 13-14; 18).127 Segnaliamo la distinzione tra lo scampanellare discreto di Swann e lʼindiscreto non scampanellare degli altri nella forma condensata che segue: non pas le grelot profus et criard [...] de son bruit ferrugineux, intarissable et glacé [...] mais le double tintement timide, ovale et doré de la clochette pour les étrangers. Ebbene, questo paragone occupa poche righe (SW, 14; 18). Anticipiamo, nella forma condensata, le vicissitudini sonore del “drame du coucher”128 non quando esso è preannunciato ma quando è in corso e si spinge verso il momento della “catastrofe”: coups hésitants de la clochette [...] avant que le diner fût sonné [...] et quand le grelot de la porte mʼeut averti quʼil venait de partir [...] comme ces cloches de couvents [...] se remettent à sonner dans le silence du soir. Queste vicissitudini si svolgono in molte pagine (14 nel testo francese, 23-37, 13 in quello italiano: 33 46) e si scandiscono in quattro tappe (SW, 27/35; 23/30; 34/42; 37/46). Pensiamo che decisivo per distinguere tra Swann e gli altri sia lʼinaugurazione: “non pas”: Swann non è indiscreto come gli altri. Egli

127 “[...] il tintinnio, indubbiamente, è ovale soltanto perché o è la campanella, ma qui come in altri casi la spiegazione non comporta comprensione: qualunque sia la sua origine il predicato ovale e dorato si basa su tintinnio, e, mediante una confusione quasi inevitabile, tale qualificazione non viene interpretata come un transfert, ma come una ʻsinestesiaʼ: lo slittamento metonimico non è soltanto ʻcamuffatoʼ, ma addirittura trasformato in predicazione metaforica. Così, invece di essere antagoniste e incompatibili, metafora e metonimia si sostengono e sʼinterpretano, e dare alla seconda il posto che le spetta non consisterà nel compilare una lista concorrente in antagonismo a quella delle metafore, ma piuttosto nel mostrare la presenza e lʼazione delle relazioni di ʻcoesistenzaʼ proprio allʼinterno del rapporto di analogia: il ruolo della metonimia nella metafora” (Genette, p. cit., p. 42). 128 Definito anche “drame du déshabillage”. 101

si distingue per lʼ“esitazione”: timide, ovale et doré de la clochette pour les étrangers in contrasto con profus et criard [...] son bruit ferrugineux, intarissable et glacé. Swann si dimostra discreto, non solo nella descrizione dello scenario su cui è annunciato il “drame”, ma anche nel corso dello svolgimento di questʼultimo: il suo scampanellare è “esitante”. Anche se la sua “visita” causa un vero e proprio “drame”, rimane che il povero Swann è estraneo al medesimo; ignora dʼesserne la causa. Quando il dramma “ritorna” per essere “ritrovato” (nella sua “essenza”, nella sua “verità)”, avviene una sorta di capovolgimento nellʼaggettivazione; quella indiscreta – rebondissant, ferrugineux, intarissable, criard et frais – viene attribuita non allʼarrivo di Swann (al suo scampanellare) ma alla di lui partenza di Swann. Che dedurne? Ricordate? In questione cʼè la differenza tra “étrangers” e no (e Swann è considerato uno straniero affatto speciale). Addirittura si tratta quasi di “ennemi[s]” o no (SW, 14; 19)... Ora, il “ritorno”, non del rimosso mal del “ritrovando”, fa esplodere lʼ“estraneità” di Swann (la sua “ostilità”) che pure è lʼunico ospite (lʼunico straniero/potenzialmente hostis) che frequenta la casa del Narratore; perché fa esplodere lʼestraneità di tutto (madre, padre, Narratore compreso).129 “Je mourrais sʼil le fallait” (C6, ES X, SW, 674): è in ballo la sopravvivenza... (Vedi più avanti la nota a proposito dellʼ“importanza”). Si va ad una bellum omium contra omnes... Nemica è anche la nonna; proprio in quanto è il doppio della madre: “sans dormire, loin de ma mère et ma grandʼmère” (SW, 9). Domanda: “Quel serait mon plus grand malheur?: “Ne pas avoir connu ma mère, ni ma grandʼmère”. In uno dei testi preparatori, uno dei più poveri, troviamo: “Mais je pleure plus en écrivant ce che mon père a fait ce jour là que je ne pus le faire alors, dans lʼeffroi de le fâcher, et je, lui donne tous les soirs, quand je pense à lui, les remerciements et les baisers que je nʼai pas osé lui donner alors” (ES X, SW, 675). Anche il padre è amato e odiato... Paradossalmente ritroveremo lo stesso Narratore estraneo/ostile a sé medesimo in un Cahier quando, alla maniera di Jean Santeuil, si autobacia (“je saisis mon propre bras avec transport

129 Biblioteca Guermantes, François de Champi: “In un primo tempo mi ero chiesto con rabbia chi fosse lʼestraneo che venava a farmi male. Ero io, lʼestraneo (cet étranger, cʼétait moi-même); era il bambino che io ero allora e che il libro, conoscendo di me solo quel bambino, aveva suscitato in me [...]” (TR, 884; 564). 102

et jʼy déposai un baiser”). Teniamo in mente che il bacio della madre ha lo scopo di “pacificare” il Narratore; lʼauto-bacio è una sorta di sua auto-consolazione tramite un atto di auto-erotismo. Non so che ve ne pare, ma la cosa mi sembra ci sembra alquanto interessante... Ci torneremo... Torniamo adesso ad uno dei tournant del “drame du coucher”: “Le sere in cui cʼerano degli estranei (etrangers) o semplicemente Swann, la mamma, infatti, non saliva nella mia camera”. Il Narratore cenava prima di tutti; fino alle otto poteva sedere al tavolo; quindi doveva salire: “quel bacio prezioso e fragile (baiser précieux et fragile) che di solito la mamma mi affidava mentre ero nel mio letto e sul punto di addormentarmi, mi toccava trasportarlo dalla sala da pranzo alla mia camera a tenerlo in serbo per tutto il tempo che impiegavo a spogliarmi, senza che la sua dolcezza si incrinasse, senza che si versasse o evaporasse il suo volatile potere, e proprio quelle sere in cui avrei avuto bisogno di riceverlo con maggior precauzione ero costretto ad afferrarlo, a portarlo via bruscamente, pubblicamente, senza nemmeno avere il tempo e la libertà di spirito necessari per mettere in quel che facevo la speciale attenzione dei maniaci (cette attention des maniaques) che si sforzano di non pensare a nientʼaltro mentre chiudono la porta, per poter poi opporre al ritorno della loro incertezza morbosa il vittorioso ricordo del momento nel quale lʼhanno chiusa”. “Eravamo tutti in giardino quando risuonarono i due esitanti squilli di campanello (quand retentirent les deux coups hésitants de la clochette)”. Questo lʼincipit del primo episodio. Arriva Swann, la madre del Narratore va ad accoglierlo e lo porta in disparte: “Ma io la seguii; non potevo decidermi (je ne pouvais me décider) ad abbandonarla dʼun sol passo, pensando che prestissimo (tout à lʼheure) avrei dovuto lasciarla nella sala da pranzo e salire nella mia camera senza avere come le altre sere la consolazione che sarebbe venuta a baciarmi (quʼelle vînt mʼembrasser). [...]. Avrei voluto non pensare alle ore dʼangoscia che mi aspettavano quella sera, solo nella mia camera e incapace di addormentarmi; cercavo di persuadermi che esse non avevano alcuna importanza (aucune importance) perché domattina le avrei dimenticate, di attaccarmi a delle idee di futuro (idées dʼavenir) che 103

avrebbero dovuto condurmi, come su un ponte, al di là dellʼabisso imminente che mi terrorizzava”.130 Lʼangoscia del Narratore è lʼangoscia di chi, sprovvisto di ponti, non è in grado di immaginare i suoi spostamenti nello spazio e nel tempo; non ha “idee di futuro” (né di passato...). È evidente che non possiamo copiare e commentare tutte le pagine... Molto più avanti: “Con gli occhi non lasciavo mia madre, sapevo che, una volta a tavola, non mi sarebbe stato permesso di restare per tutta la durata (pendant toute la durée) del pranzo e che, per non contrariare mio padre, la mamma non si sarebbe lasciata baciare a più riprese (ne me laisserait pas lʼembrasser à plusieurs reprises) davanti agli altri come se fossimo stati in camera mia. Così mi ripromettevo, in sala da pranzo, quando si fosse cominciato a mangiare e io avessi sentito avvicinarsi lʼora, di fare in anticipo (dʼavance), riguardo a quel bacio (baiser) che sarebbe stato così breve e furtivo, tutto ciò che potevo fare da solo, di scegliere con lo sguardo il punto della guancia che avrei baciato, di preparare il mio pensiero in modo da riuscire, grazie a quel mentale inizio di bacio (grâce à ce commencement mental de baiser), a consacrare per intero il minuto (toute la minute) accordatomi dalla mamma a sentire il suo viso contro le mie labbra, simile al pittore che, potendo contare solo su brevi sedute di posa, prepara la sua tavolozza e fa in anticipo a memoria, basandosi sugli appunti, tutto ciò per cui può a stretto rigore fare a meno della presenza del modello”. Vani i tentativi di orientarsi nel tempo... Bisogno assillante de “tutto” (toute la minute...) Il fattaccio. Prima che il pranzo fosse servito (“avant que le diner fût sonné”), il nonno, vista lʼaria stanca del Narratore, chiede che venga mandato a letto (“Stasera, del resto, si pranza tardi”). Il padre, “che non teneva così scrupolosamente fede ai trattati come la nonna e la mamma”: “ʻSì, andiamo, vai a lettoʼ Feci per baciare (embrasser) mia

130 A proposito dellʼ“importanza”: “ʻDʼaltronde, non ha la minima (aucune espèce) importanzaʼ. Frase equivalente a un riflesso (analogue à un réflex), identica, nelle più gravi come nelle più trascurabili circostanze; e rivelatrice (dénonçant), come in questo caso, dellʼeffettiva importanza attribuita alla cosa in questione da chi, a parole, gliela nega (en celui qui la déclare sans importance). Frase tragica, a volte, che sfugge prima dʼogni altra – e così carica, allora, di sconforto – a ogni uomo che, appena un poʼ orgoglioso, abbia perduto lʼultima speranza cui sʼaggrappava perché qualcuno gli ha rifiutato un favore: ʻAh, bene, non ha la minima importanza, mi arrangerò diversamenteʼ, quando il diverso arrangiarsi verso il quale non ha la minima importanza, vedersi respinti è, in qualche caso, il suicidio” (OF, 740; 898). 104

madre, proprio in quellʼistante risuonò la campanella del pranzo (à cet istant on entendit la cloche du dîner). ʻMa no, va, lascia stare tua madre, vi siete già detti buonanotte (bonsoir) a sufficienza, queste manifestazioni sono ridicole. Coraggio, sali!ʼ” Saltiamo... Prima di morire (“prima di seppellirmi nel letto di ferro”), il Narratore ha “un moto di rivolta” ed escogita un “espediente (ruse)”: scrive alla madre una lettera in cui le chiede di salire “per una cosa grave” che non poteva dirle per lettera. Difficile ogni mediazione (inesistente ogni ponte). Bisogna leggere una dopo lʼaltra queste pagine straordinarie per cogliere, insieme alla sofferenza del piccolo Narratore, lʼironia, talvolta feroce, del Narratore maturo. Lʼespediente finisce con ridursi ad una menzogna: il Narratore dice a Françoise che la madre aspetta la sua lettera (in essa le dà una risposta su qualcosa che lʼha pregato di cercare). Françoise porta la lettera... Abbastanza più avanti: “Adesso non ero più separato da lei; le barriere erano cadute, un filo delizioso ci univa. E non era tutto: la mamma, certo, sarebbe venuta!” Se bellʼe capito: lʼangoscia che il piccolo prova quando è privato del bacio della madre è la stessa che proverà quando, diventato grande, si sentirà privato dellʼamore della sua donna e via di seguito.131 In virtù delle vicissitudini del “desiderio” mimetico” – su cui ritorneremo – per cui lʼessere amato, quando sa che lo amano, non corrisponde (mostra la sua “indifferenza”); ama, invece (diventa “differente”), solo quando non lo si ama... “Ma quando, come nel mio caso, essa è entrata dentro di noi prima ancora che quello abbia fatto la sua apparizione nella nostra vita, allora, aspettando, fluttua libera e vaga (elle flotte en lʼattendant, vague), priva di una destinazione

131 Lʼavvenuta partenza di Albertine fa precipitare il Narratore nellʼansia; unʼansia senza limiti; che confluisce da tutte le esperienze del passato, prima fra tutte quella del passato: “Et hélas aussitôt tous le souvenirs de toutes les anxiétés que jʼavais eues depuis mon enfance, ralliées par lʼinquiétude nouvelle se mirent à revenir. Hélas si quand tant de fois en pensant à Albertine jʼavais en réalité pensé à la princesse de Clèves, à lʼhéroïne (le nom), à Maggie et à tant dʼautres de sorte que ce que jʼéprouvais pour elle la dépassait infiniment, maintenant lʼangoisse que jʼéprouvais ce nʼétait pas seulement celle dʼapprendre quʼelle était partie, cʼétait, revenues sʼassembler mais se fondant toutes ensemble devenues homogènes et toutes rangées sous le nom dʼAlbertime, quoique elles lui fusse bien antérieures, les angoisses que jʼavais eues tant de soirs à Combray quand je rentrais le soir de promenade. [...]. quand il avait fallu dir adieu à maman devant le train, et celle de Combray le soir où elle nʼétait pas montée me dire bonsoir à cause de M. Swann [...]” (C 71, ES I, AS, 630). 105

precisa, al servizio un giorno di un sentimento, lʼindomani di un altro, ora della tenerezza filiale, ora dellʼamicizia per un compagno”. Segue lʼimmaginazione in cui Swann o chi per lui, lo stesso Narratore, si serve di un “intermediario” per mandare un messaggio allʼamata circondata da amici a una festa, a teatro: “[...] ecco che uno dei momenti la cui successione le avrebbe composte, un momento non meno reale degli altri, forse addirittura più importante per noi dal momento che la nostra diletta vi è più implicata, siamo in grado di rappresentarcelo, lo possediamo, vi interveniamo, lʼabbiamo – quasi – creato (nous lʼavons crée presque): il momento in cui le diranno che noi siamo lì, lì giù (là, en bas)”. Nel bel mezzo della narrazione dellʼesperienza archetipica di ogni altra esperienza; di quelle, perlomeno (ma lo sono tutte) che avvengono sotto lʼorizzonte del “desiderio mimetico”, fa la sua comparsa per la prima volta lʼidea della “creazione”. La madre rimanda Françoise “senza risposta”. Il Narratore prende unʼaltra iniziativa (perché, se questo episodio è quello dove avviene la grande “abdicazione”, è quello in cui avvengono anche le grandi “risoluzioni”): “Allʼimprovviso (tout à coup) la mia ansia cadde, una felicità (félicité) mʼinvase come quando un farmaco potente comincia ad agire e ci toglie un dolore: avevo preso la risoluzione (je venais de prendre la résolution) di non cercare più di addormentarmi senza aver rivisto la mamma, di baciarla a qualsiasi costo (coûte que coûte) – benché fossi certo che questo avrebbe significato sopportare a lungo le conseguenze della sua irritazione – quando fosse salita a coricarsi. La calma che risultava dalla fine delle mie angosce mi metteva in uno straordinario stato di allegrezza (allégresse), non meno di quanto avviene per lʼattesa, la sete e la paura del pericolo. Aprii la finestra (jʼouvris la fenêtre)132 senza rumore e mi sedetti in fondo al letto: non facevo quasi nessun movimento perché da giù non mi sentissero”. Lʼabbiamo già detto: è il momento delle grandi scelte, delle grandi decisioni. Ora sappiamo che la grande decisione del Narratore è quella di cogliere “al volo” il senso delle esperienze della

132 La finestra sarà uno dei Leit-motiv della scena-madre(primaria): “Le tre rivelazioni cruciali di perversione sessuale che ha il Narratore sono tutte associate con lʼatto dello spiare, non già come per Stendhal nella scabrosa incisione, attraverso il buco della serratura ma, in maniera tipicamente proustiana, attraverso una finestra. Il narratore scopre il lesbismo spiando Mlle Vinteuil e la sua amica attraverso la finestra a Montjouvain; la sodomia quando assiste allʼincontro tra Charlus e Jupien nel cortile della duchessa. E il piacere solitario nel gabinetto del piano superiore a Combray, dove lui stesso viene scoperto dal pergolato e dal torrione di Roussainville” (Painter, Marcel Proust,1959, tr. it. 2980, pp. 438-439). 106

memoria involontaria ; sappiamo che questa “risoluzione” a fare ogni “sforzo”, necessario perché il “compito” sia attuato, viene presa nel preambolo della matinée (e conservata in tutto il suo decorso). Sappiamo anche che quando la memoria involontaria si attiva, il Narratore è colto alla sprovvista (tout dʼun coup); è invaso da una straordinaria felicità... Una volta accertato che, nel racconto dellʼesperienza della grande “abdicazione”, si addensano risoluzione, tout à coup, straordinaria allegrezza, siamo costretti a concludere che questo racconto contiene tutti gli elementi del “capolavoro”. Si tratta di una sorta di ante-prima... Sappiamo già il seguito: il Narratore sa che lo aspettano conseguenze gravi; “molto più gravi di quanto un estraneo non potesse supporre, tali in verità chʼegli avrebbe creduto solo qualche colpa davvero vergognosa fosse in grado di provocarla. Ma nellʼeducazione che mi veniva impartita la gerarchia delle colpe non era la stessa che nellʼeducazione degli altri ragazzi, e davanti a tutte le altre (certamente perché non ce nʼera alcuna dalla quale io avessi bisogno dʼessere più attentamente preservato) ero abituato a collocare quelle di cui capisco ora che possedevano la caratteristica comune di essere commesse per cedimento a un impulso nervoso”: commento: sappiamo, comunque, che ogni educazione, per severa che sia, ubbidisce sempre al principio della categorizzazione. Il piccolo pensa che, come punizione sarà mandato in collegio: “Ebbene, avessi anche dovuto gettarmi dalla finestra (par la fenêtre) cinque minuti dopo, preferivo agire così. Quel che volevo adesso, era la mamma, dirle buonanotte (lui dire bonsoir), ero andato troppo in là sulla via verso la realizzazione di questo desiderio per poter tornare indietro”: commento: quale risolutezza! “Sentii i passi dei miei genitori che accompagnavano Swann, e quando il sonaglio della porta (le grelot de la porte) mi avvertì che se nʼera andato, mia affacciai alla finestra”. Segue qualcosa che rassomiglia alla scena primaria comʼessa viene dipinta da Freud: “Mio padre e mia madre rimasero soli, e si sedettero un istante; poi mio padre disse: ʻBene, se vuoi, possiamo salire a coricarciʼ. – ʻSe vuoi tu, amico mio, anche se io non ho nemmeno unʼombra di sonno [...]. Ma vedo la luce nellʼoffice, e dal momento che la povera Françoise mi ha aspettata, le chiederò di slacciarmi il corpetto mentre tu ti spogliʼ. E mia madre aprì la porta traforata che dal vestibolo immetteva sulle scale. Subito la sentii che saliva a chiudere la sua finestra (sa fenêtre). Andai senza rumore nel 107

corridoio (dans le couloir) [...]”: come abbiamo già visto, incrociamo il famoso couloir. Che ritornerà poco più avanti. In sintesi stretta: il piccolo si getta nelle braccia della madre che lo guarda sbalordita, in collera (“comme un fou”). “Ma io le ripetevo: ʻVieni a dirmi la buonanotte (viens me dire bonsoirʼ”; il padre compie un atto di clemenza: “[...] poiché non aveva principi (nel senso della nonna), non aveva – propriamente parlando – alcuna intransigenza” (questo padre rassomiglia a quello di Kafka per la sua arbitrarietà): “Visto che in camera sua ci sono due letto, diʼ a Françoise di prepararti il letto grande e dormi accanto a lui, per stanotte (et couche pour cette nuit après de lui). Su, buonanotte, io che non sono nervoso come voi (je ne suis pas si nerveus que vous) me ne vado a dormire!” Qui la grande “abdicazione”... della madre... Poiché il Narratore non riesce a prendere sonno, la madre gli fa scegliere un libro e glielo legge: François de Champi... Quasi senza soluzione di continuità segue, una sorta di stilizzazione del lungo racconto in un “archetipo”: “E così, ogni volta, svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo delle tenebre indistinte [...]”. Preceduto, poche pagine prima dal seguente: “Sono passati parecchi anni (il ya bien des années de cela). [...]. In realtà essi [i singhiozzi] non sono mai cessati; ed è soltanto perché la vita si è fatta adesso più silenziosa intorno a me che li sento di nuovo, come quelle campane di conventi (comme ces cloches de couvents) che il clamore della città (le bruit de la ville) copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si rimettono a suonare nel silenzio della sera (se remettent à sonner dans le silence du soir)”. In questa anticipata stilizzazione ricompare – o semplicemente, insiste – il motivo del sonner. Quando il Narratore scrive, quella Combray è morta per sempre: “Morto per sempre? Poteva darsi.133 Il caso ha gran parte in tutto ciò, e spesso un secondo caso, quello della nostra morte, non ci permette di aspettare troppo a lungo i favori del primo”. Seguono le madeleins... (Vedi più avanti: Mancanza di volontà e memoria involontaria).

133 “Il était mort [Bergotte]. Mort à jamais? Qui peut le dire?” (P, 187). In questo caso Proust suggerisce che lʼunica possibilità di accesso allʼimmortalità dellʼanima è lʼarte. 108

Sì, è proprio lʼapprossimarsi della morte – di cui la matinée è una grande rappresentazione (della morte di tutti gli eroi della Recherche ma anche di quella del ricercatore) – che provocherà lʼultima edizione del bacio della buonanotte.134

134 Il Giornate di lettura Proust rievoca le letture dellʼinfanzia e dellʼadolescenza. Cito alcuni passaggi sparsi lungo alcune pagine; in cui si vede Proust (infante/adolescente) rischiare ancora una volta il “castigo”; ma non perché ha voluto la madre presso di sé; ma perché ha voluto, solo nei prati o nella sua camera, continuare a leggere; dopo che i genitori si sono coricati... Eventualmente “indifferente” verso di lui è lo scrittore che non ha prolungato il suo racconto: “– Prima della colazione, che, ahimè, avrebbe messo termine alla lettura, avevo ancora due ore buone, Ogni tanto sentivo il rumore della pompa (le bruit de la pompe), da cui stava per scorrere lʼacqua, e che mi faceva alzare gli occhi e guardarla attraverso la finestra chiusa [...]. Qualcuno, senza aspettare più oltre, si sedeva in anticipo a tavola. Gesto desolante, perché sarebbe stato cattivo esempio per gli altri, avrebbe indotto a credere che fosse già mezzodì e spinto i miei genitori a dire troppo presto la parola fatale (la parole fatale): – Si, chiudi il libro, è ora di colazione –. [...].. “[...] e dove [nella sua camera la sera] il suono delle campane giungeva così fragoroso (le bruit des cloches arrivait si rétentissant) a causa della vicinanza della chiesa (alla quale, dʼaltronde, nelle grandi feste, gli altarini ci collegavano con una strada di fiori), che potevo immaginare che venissero sonate sotto il nostro tetto, proprio sopra la finestra da cui salutavo il curato [...] allora, quella vita segreta si ha lʼimpressione di chiuderla con sé, quando si va, tutti tremanti, a tirare il chiavistello dellʼuscio; di spingerla dinanzi a sé nel letto e, infine, di coricarsi con lei (coucher [...] avec elle) tra le grandi lenzuola bianche che ci salgono sin sopra il viso, mentre, da presso, la chiesa suona (sonne) per lʼintera città le ore dʼinsonnia dei moribondi e degli innamorati. [...]. In quel boschetto, il silenzio era profondo, il rischio di essere scoperto quasi nullo, la sicurezza resa più dolce dalle voci lontane che, da giù, mi chiamavano invano (mʼappelaient en vain), e talvolta si avvicinavano, salivano i primi ripiani, cercando dappertutto, e poi tornavano indietro, non avendomi trovato; solo, di tanto in tanto, il suono dorato delle campane (le son dʼor des cloches) che, lontano, di là dalle praterie, sembrava echeggiare dietro il cielo turchino, mi avrebbe potuto avvertire del passar del tempo; ma, stupito della sua dolcezza e turbato dal silenzio più profondo, non ero mai sicuro del numero dei rintocchi (je nʼétais jamais sûr du nombre des coups). Non erano le campane tonanti (ce nʼétait pas le cloches tonnantes) [...]. Il loro suono non giungeva in fondo al parco che debole e dolce [...]. Infine, qualche volta, a casa, un bel pezzo dopo cena (longtemps après le dîner), le ultime ore della sera davano anchʼesse ricetto alla mia lettura [...]. Allora, rischiando il castigo che mi sarebbe stato inflitto se fossi stato scoperto, e lʼinsonnia, che, terminato il libro, sarebbe durata lʼintera notte, appena i miei genitori si erano coricati (dès que mets parents étaient couschés), riaccendevo la candela; mentre nella via vicina, tra la casa dellʼarmaiolo e lʼufficio postale, bagnati di silenzio, il cielo oscuro, eppure azzurro, era pieno di stelle [...]. Allora, per dar modo ai tumulti da troppo tempo scatenatisi in me di placarsi dirigendo altri movimenti, mi alzavo, mi mettevo a camminare lungo il mio letto (je me mettais à marcher le long de mon lit) [...]. apprendevamo da un personaggio secondario che esso [matrimonio] era stato celebrato, non sapevamo esattamente quando, in quello stupefacente epilogo, scritto, sembrava, dallʼaltro dei cieli, da un essere indifferente (par une personne 109

3) Manque de volonté e mémoire involontaire

Penso che Bloch-Dano abbia qualche ragione nellʼaddebitare lʼabdicazione al padre. “Allons, bonsoir, moi qui ne suis pas si nerveux que vous, je vais me coucher”: “Tout y est, meme le ʻvousʼ qui fait de la mère et du fils deux êtres fragiles de ma même espèce”.135 Ricordate la reazione del Narratore allʼabdicazione del padre? “Non si poteva ringraziare mio padre; lo si sarebbe soltanto infastidito con quelle ʻmorboserieʼ, come le chiamava lui. Me ne stetti là senza azzardare un movimento; lui era ancora davanti a noi (devant nous) alto, nella sua camicia da notte bianca sotto lo scialle indiano viola e rosa che a quando soffriva di nevralgie sì annodava intorno alla testa col gesto di Abramo che, nella stampa da Benozzo Gozzoli regalatami da Swann, dice a Sara che deve separarsi da Isacco (quʼelle a à se départir du côté dʼIsaac). Sono passati diversi anni [...]” (SW, 36-37; 66). Riecco i “vous” sotto forma di “nous”; figlio e madre accoppiati... Bloch-Dano osserva: Proust paragona suo padre a Abramo che dice a Sarah chʼessa deve separarsi da Isacco: “Il fait là une confusion pleine de sens et peut-être volontaire entre Sarah, lʼépouse en titre, et Agar, la servante dont le patriarche a eu un fils, Ismaël. Ce glissement lui permet de dire lʼessentiel: son père renvoie sa femme ʻdu côté deʼ son fils, comme Abraham a renvoyé dans le désert Agar avec Ismaël. En lui ouvrant la chambre de Marcel, il lui ferme la sienne: ʻAllons, bonsoir, je vais me coucherʼ”. Da qui – come vedremo, già in Jean Santeuil –, la ratifica della “irresponsabilità” del Narratore. Irresponsabilità di fronte alle categorie... Il Narratore doma la “volontà” della madre (e del padre); ma contrae, come una di tara, la “mancanza di volontà.136 indifférente) alle nostre passioni di un giorno, sostituitosi allʼautore. Avrei voluto che il libro continuasse e, se questo fosse stato impossibile, ottenere almeno altri ragguagli [...]” (GCSB, 161-171; 216-226). 135 Madame Proust, Grasset, Paris, 2004, p. 111. 136 Considerando, quasi a caso, un testo, Giornate di lettura; insistente è il tema dello sforzo – “il supremo sforzo (le dernier effort)” (PM, 171; 232)” – necessario per “creare (créer)” (ibidem). Nemica è la “pigrizia (paresse)”, in cui si esprime lʼimpossibilità di volere: “il est incapable de les vouloir”, “mancanza di volontà (manque de volonté)”, lʼ“inerzia della volontà (inertie de [...] sa volonté)” (PM, 178- 179; 234)... La lettura, quando non si è più fanciulli, svolge la stessa funzione della psicoterapia: “il medico “vuole per te” (“qui voudra pour lui”), e, così facendo, 110

Ma consideriamo bene: la memoria “involontaria” è lo strumento decisivo nellʼesperienza esistenziale e artistica del Narratore (e di Proust). Essa è la porta che si apre per caso: “Ma proprio, a volte, nel momento in cui tutto ci sembra perduto giunge lʼavvertimento che può salvarci; abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su niente e la sola attraverso la quale si può entrare, e che avremmo cercato invano per cento anni, lʼurtiamo senza saperlo (on y heurte sans le savoir), e si apre (TR, 866; 542);137 vedi già nel Jean Santeuil: “Allora sentiva che grazie a quella porta spinta dal caso (poussée par un hasard) egli ripudiava quanto non era ancora la vita” (JS, 839; 709). Sempre in Jean Santeuil: “[...] sapendo che un giorno o lʼaltro la realtà contenuta in quegli istanti, lʼavrebbe ritrovata – a condizione di non cercarla (à condition de ne pas la chercher) – [...]” (JS, 534-537; 380-383); in John Ruskin: “[...] per trovarla [la felicità] non bisogna cercarla (il faut, pour la trouver chercher autre chose que lui) [...]” (PM, 110; 164).138

“restituisce allʼinfermo la volontà (restituer au malade la volonté)” (PM, 180; 234): “Ora, questʼimpulso che lo spirito pigro (paresseux) non può trovare in sé e che gli deve venire da altri, è chiaro chʼesso lo deve ricevere in seno alla solitudine, fuori della quale – lo abbiamo visto –, non può prodursi quellʼattività creatrice (activité créatrice) che si tratta precisamente di suscitare il lui. Dalla pura solitudine quello spirito non potrebbe trarre nulla, perché esso è incapace di mettere in moto da sé la sua attività creatrice” (PM, 179-180; 235). 137 “Tout à coup, mon père nous arrêtait et demandait à ma mère: ʻOù sommes- nous?ʼ Epuisée par la marche mais fière de lui, elle lui avouait tendrement quʼelle nen savait absolument rien. Il haussait les épaules et riait. Alors, comme sʼil lʼavait sorti de la poche de son veston avec la clef, il nous montrait debout devant nous la petite porte de derrière de notre jardin qui était venue avec le coin de la rue de Saint-Esprit nous attendre au bout de ces chemins inconnus” (SW, 115). è “Cʼest le héros qui heurte sans le savoir à la bonne porte de la vocation; mais cʼest le narrateur qui, comme autrefois le père, en a sorti la clé de sa poche, parce que lui connaît dʼavance tout lʼitinéraire. Si donc on rapproche ces deux passsages, qui prouvent la valeur symbolique que Proust entend donner à un itinéraire de promenade, on peut conclure que le cheminement vers une église, les deux étapes de ce cheminement – sentiment de distance puis brusque accès – sont un autre équivalent en raccurci de toute la vocazion. Lʼéglise, cʼest le temps retrouvé qui livre les secrets de lʼart, mais avant dʼy accéder, on doit – sans toutefois jamais la perdre de vue, elle ou sono clocher qui la résume – faire un long détour, celui du temps perdu, celui encore des deux ʻcôtésʼ” (Luc Fraisse, Lʼoeuvre cathédrale, Corti, Parigi, 1990, ppp. 239-240). 138 Lettera (18 febbraio 1907) a Georges de Lauris a cui è morta la madre: “[...] ne cherchez pas à la voir car vous ne la verrez jamais [...]. En ce moment tâchez simplement de vivre, de survivre, en laissant tout cela se faire en vous sans collaboration de votre volonté et les douces images renaîtront dʼelle-mêmes pour ne plus jamais vous quitter” (Correspondence de Marcel Proust, Plon, Paris, vol. VII 1981, p. 87). Vedi anche “Ma le parole ʻQuellʼamica è la signorina Vinteuilʼ 111

Pensiamo che vada colto un nesso profondo tra questa involontarietà e “ “le manque de volonté”, la “paresse”, di cui il Narratore, in ogni lavoro – da Les Plaisirs et les jours in poi – si rimprovera. 139 Ora, la memoria involontaria, presuppone lʼabbandono dello “sforzo” di volontà; presuppone, eventualmente, il fallimento di quel disperato sforzarsi che è implicito nellʼinsorgenza dellʼhasard: fino a quel punto, ma invano, si è bussato a tutte le porte; infine... È come dire che lʼabdicazione, in quanto abdicazione alla volontà, è abdicazione alla salvezza per opere in favore della salvezza per fede. Se presupponiamo queste considerazioni che fanno convergere mancanza di volontà e memoria involontaria, cogliamo la portata del passaggio, quasi senza transizione, dal racconto del famoso baiser al primo ricordo involontario. È evidente: senza dirlo Proust lo esibisce; meglio: lo dimostra: la memoria involontaria agisce quando, e solo quando, la volontà si è arresa (anche da sempre o sia venuta a mancare nellʼoccasione). erano state il “Sesamo” che sarei stato incapace di trovare io stesso, che aveva fatto entrare Albertine nelle profondità del mio cuore straziato. E la che sʼera richiusa su di lei (e la porte qui sʼétait refermée), avrei potuto cercare per centʼanni, senza sapere come si potesse riaprirla” (SG 1127-1128; 382). E vedi anche perlomeno il titolo di Francesco Orlando: Proust, Sainte-Beuve e la ricerca in direzione sbagliata, in Studi in onore di Mario Fubini, Liviana, Padoba, 1970. 139 Strano, quasi indisponente, che Giovanni Macchia non abbia colto questo nesso... (Tutti gli scritti su Proust, Einaudi, torino, 1997, passim). Comunque, un passo di Jean Santeuil permette di cogliere la primazia della mancanza di volontà. Dice la madre di Jean al marito “che con i suoi piedi appoggiati agli alari, osservava bonariamente il fuoco”: “Non è la salute come avevamo pensato, né [...] un temperamento appassionato. [...]. E nemmeno [...] lʼimmaginazione, né [...] la pigrizia. Lo scoglio è lʼassenza di quella forza (lʼabsence dʼune force) che a sei anni gli avrebbe impedito di piangere la sera, a letto, invece di dormire [...]. Questo forza, la cui assenza è un terribile scoglio – disse la signora Santeuil –, si chiama la volontà. – Punta volontà, bruttʼaffare –, rispose il signor Santeuil allontanando bruscamente dal fuoco i suoi calzini che cominciavano odorar di strinato” (JS, 232- 233; 60). Vedi Rivère: “Vedete come si possa, io credo che si debba, mettere in rapporto la mancanza di ingegnosità [qui “ingegnosità” sta al posto di “volontà”] in Proust e il magnifico spessore del suo libro. Tale spessore è un miracolo che poteva darsi solo mediante o tramite un organismo morale del tutto privo di difesa. Proprio per non aver mai litigato con la vita Proust ha potuto riceverne lʼimpronta con questa prodigiosa minuziosità. Proprio per non aver dapprincipio voluto niente ha raccolto tanto” (Jacques Rivière, Proust e Freud. Alcuni progressi nello studio del cuore umano, 1923-1925; tr. it. Pratiche Editrice, Parla, 1985, p. 133)... “[...] ne riprodusse [il marchio della vita] la confusa impronta con una fedeltà quasi rivoltante” (ibidem, p. 350)... “Semmai vi fu in Proust qualcosa di mostruoso, fu la sospensione di qualsiasi chimica pragmatica” (ibidem, p. 155). 112

Tra poco produrremo qualche stralcio del “seguito” dellʼepisodio che, nelle esquisse, viene definito “le drame du coucher”. Ma è importante capire subito che siamo di fronte a un dittico; le cui due pale sono la sconfitta della volontà e lʼinvolontarietà della memoria. Il nesso che unisce le due pale è il loro costituire un unico dittico. Entriamo un poʼ nel dettaglio: la mancanza di volontà del Narratore ha prodotto un “atto di rivolta” (SW, 36); questʼultimo ha sconfitto la volontà della madre (e del padre). Il risultato: “Così, per la prima volta, la mia tristezza non era più considerata una mancanza da punire, ma un male involontario (un mal involontaire) al quale era toccato un riconoscimento ufficiale (quʼon venait de reconnaître officiellement), uno stato nervoso di cui io non ero responsabile [...]. E non ero poco fiero, di fronte a Françoise, di questo rivolgimento del destino (de ce retour des choses humaines) che, a distanza di unʼora da quando la mamma sʼera rifiutata di salire in camera mia e mi aveva sdegnosamente fatto rispondete che dovevo dormire, mi innalzava alla dignità di persona adulta, facendomi raggiungere di colpo (dʼun coup) a una sorta di pubertà della sofferenza, di emancipazione delle lacrime. [...]. Mi sembrava di aver riportato sì una vittoria, ma contro di lei, di essere riuscito a piegare la sua volontà (détendre sa volonté), a far cedere la sua ragione (fléchir sa raison) [sospensione del categoriale] così come avrebbero potuto riuscirci la malattia, i dispiaceri o lʼetà [...]” (38; 47-48).140 Nel Cahier 6 si parla di “indisposition involontaire” (C 6, ES X, SW, 676).141

140 Il seguito: “e che quella notte inaugurasse unʼera e fosse destinata a restare come una data, ma una data triste. Se ne avessi avuto il coraggio, adesso avrei voluto dirle: ʻNon voglio (non je ne veux pas), non dormire quiʼ. Ma conoscevo la saggezza pratica, realistica si direbbe oggi, che mitigava in le la natura ardentemente idealista della nonna, e sapevo che, ora che il male era fatto (maintenant que le mal était fait), avrebbe preferito lasciarmene gustare il pacificante piacere e non disturbare mio padre. Certo, il bel viso di mia madre brillava ancora di giovinezza quella sera, mentre mi stringeva teneramente le mani e cercava di frenare le mie lacrime; ma mi sembrava, ecco, che fosse qualcosa che non avrebbe dovuto essere, e la sua collera sarebbe stata meno triste per me di quella dolcezza nuova che la mia infanzia non aveva mai conosciuta; mi sembrava di aver tracciato nella sua anima, con mano empia e segreta, una prima ruga, di averle fatto spuntare il primo capello bianco”: “Il bacio della buonanotte è negato quando ne ha bisogno ed è concesso quando non lo desidera più” (Proust, Roger Shattuck, 1974, Mondadori, Milano, 1991, 119). 141 Mi sembra preziosa la notazione seguente: “Capital. [...]. Mais la paresse mʼavait gardé de la facilité, peut-être à son tour la maladie allait me protéger contre la paresse” (C 57, ES LX, TR, 942). 113

Cioè, cʼè stata una sorta di torsione dal “manque de volonté” al “mal involontaire”; che ha consentito lʼulteriore torsione verso ma la “mémoire involontaire”... Certo, non si può trascurare un altro elemento: il “retour des choses humaines”; quello che, in Jean Santeuil, è stato definito “riconoscimento di un nuovo governo”, una sorta presa del potere, di trionfo (del figlio sulla madre etc.). Tutto ciò comporta un ribaltamento: se prima il Narratore dipendeva dal bacio della madre, dʼora in poi la madre dipenderà dallʼaver dato o no quel bacio... Il servo diventerà padrone... E la lotta comporterà violenze (fino al sadismo). La dialettica servo-padrone porterà al perdono, forse una delle figure più straordinarie della Recherche. Il perdono, però, sarà il frutto dellʼabbandono della lotta. A George de Lauris, che ha perso la madre, scrive Proust il 18 febbraio 1097: “Soyez inerte, attendez que la force incompréhensible [...[ qui nous a brisé, vous relève un peu [...]”. Il Narratore diventerà “inerte”, “nolente”... Solo allora potrà godere della “grazia”. Ora, il dittico mancanza di memoria e involontarietà della memoria si raddoppia nel dittico scena-madre e ricordo involontario. Il “drame du coucher”, infatti, per molti versi si sovrappone alla scena in cui avviene il tout dʼun coup: basta segnalare la ricorrenza nel corso del “drame” di tre motivi cardine: (1) lʼirruzione di una gioia inspiegabile; (2) il disvelamento di una verità, di una essenza; (3) la scomparsa della paura della morte.142

142 In occasione del ricordo involontario: “Una deliziosa voluttà (un plaisir délicieux) mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa (sans la notion de sa cause) [sospensione del categoriale]. Di colpo (aussitôt) mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dellʼamore, colmandomi di unʼessenza preziosa (essence précieuse): o meglio, quellʼessenza non era dentro di me, io ero quellʼessenza” (SW, 45; 56). Nel corso del “drame du coucher”: il padre “non aveva ancora intuito la mia infelicità di ogni sera” (combien jʼétais malereux tous les soirs)” (SW, 37; 47) Ò “Allʼimprovviso (tout dʼun coup) la mia ansia cadde, una felicità mʼinvase (une félicité mʼenvahit) come quando un farmaco potente comincia ad agire e di toglie il dolore. [...]. La calma che risultava dalla fine delle mie angosce mi metteva in uno straordinario stato di allegrezza (dans une allégresse extraordinaire)” (SW, 32; 40-41) Ò “Andai senza rumore nel corridoio; il cuore mi batteva così forte che facevo fatica a camminare, ma almeno non batteva più dʼansia, ma di spavento e di gioia (dʼépouvante et de joie)” (35; 44) Ò La possibilità che la madre vada a dargli lʼultimo bacio (gli ultimi baci), sottrae il Narratore ad un rischio mortale: lʼandare a letto da solo = “scavarmi da me la mia tomba sistemando le coperte, indossate il sudario della camicia da notte” (SW, 35) Ò “Subito la mia ansia cadde; adesso non era più fino a domani, come un attimo prima, che avevo lasciato mia madre, giacché il mio biglietto [...] mi avrebbe fatto entrare estasiato e invisibile nella sua stessa stanza [...]” (SW, 37-38) Ò “Sapevo 114

Il ricordo involontario è descritto come un ricordo fallito. Avranno successo solo i ricordi, questa volta incalzanti, della matinèe. Ma è evidente che il fallimento è descritto in modo perfetto. (Abbiamo già detto della scrittura contemporanea dellʼinizio e della fine della Recherche)... In modo perfetto, in ogni caso, è descritto il nesso tra mancanza di volontà e involontarietà della memoria. Basta considerare il fatto che, quasi senza transizione, si passa dal racconto del “drame du coucher” a quello del ricordo involontario... Quando il Narratore scrive, la scena primaria è scomparsa: “Sono passati parecchi anni da allora.143 La parete delle scale [...] non esiste più da molto tempo. [...] Quelle ore mi sono ancora inaccessibile. Ma da un poʼ di tempo ho ricominciato a sentire, molto bene, se mi concentro, i singhiozzi che ebbi la forza di trattenere [...]” (SW, 46). Qualche pagina più avanti: “E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo delle tenebre indistinte, simile a quelli che lʼaccensione di un bengala o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per le altre parti sprofondato nel buio [...]” (SW, 54). E poco più avanti: “Ma poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto nella memoria involontaria, dalla memoria dellʼintelligenza, e poiché le informazioni che questa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto (SW, 54-55)”. E ecco, immediatamente lʼinterrogativo: “Morto per sempre? Poteva darsi. Il caso ha gran parte in tutto ciò, e spesso un secondo caso, quello della nostra morte, non ci permette di aspettare troppo a lungo i favori del primo”. Segue, lo ripetiamo: senza transizione, il primo ricordo involontario, quello provocato dalla madeleine... Troppo complesso da ripresentare e commentare. Lo richiamiamo per frammenti facendo precedere il richiamo, anche questo per frammenti, della scena I dellʼAtto III dellʼAmleto che è citato implicitamente (un che una notte simile non si sarebbe mai ripetuta; che il desiderio più grande che io avessi al mondo, tenere mia madre con me, nella mia camera, durante le tristi ore notturne, contrastava troppo con la necessità della vita (était trop en opposition avec les nécessités de la vie) [di nuovo il categoriale] e con il volere (et le vœu de tous) di tutti perché lʼesaudimento che gli era stato concesso quella sera potesse essere altro che eccezionale e artificioso” (SW, 43; 53) Ò “Quella dolcezza nuova (cette douceur nouvelle) che la mia infanzia non aveva mai conosciuta” (SW, 39; 48). 143 “Plus rien de ce qui composait cette scène nʼexiste plus” (C 8, ES XII, SW, 692). 115

esempio dellʼintertestualità proustiana; talvolta recondita). “Essere, o non essere: questo è il problema [...]. Morire, dormire... nientʼaltro (no more) [...]. È un epilogo da desiderarsi devotamente, morire e dormire! Dormire, sorse sognare, sì, lì è lʼintoppo (ay, thereʼs the rub); perché in questo sonno della morte quali sogni possan venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo terreno imbroglio, deve farci riflettere (must give us pause). [...]. Chi vorrebbe portar fardelli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non che il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna (But that the dread of something after death,The undiscovered country, from whose bourn, no traveller), confonde la volontà (returns, puzzles the will), e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo? Così la coscienza ci rende vili (thus conscience does make cowards of us all), e così la tinta nativa della risoluzione (and thus the native hue of resolution) è resa malsana (is sicklied oʼer) dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome dʼazione”. Leggendo il testo proustiano incontriamo il dilemma vita/morte; più profondo quello morte/altra vita (sonno/sogni); il ritorno possibile dalla terra da cui Shakespeare sembra sostenere che nessuno è tornato: come dire, nessuno tranne Proust! E la viltà144 che non consente il ritorno (la resurrezione). Tale ritorno costituisce lʼ“opera”: “Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a lui trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta lʼanimo nostro si sente sorpassato da se medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. (grave incertitude, toutes les fois que lʼesprit se sent dépassé par lui-même; quand lui, le chercheur, est tout ensemble le pays obscur où il doit chercherer où son bagage ne lui sera de rien). Cercare? Non soltanto: creare (Chercher? pas seulement: créer). Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce. E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma lʼevidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva (et je recommence à me demander quel pouvait être cet état inconnu, qui nʼapportait aucune preuve logique, mais lʼévidence

144 (Nelle Intermittenze del cuore, ritorna la “pusillanimità (pusillanimité)” SG, 759; 920); e sempre nel bel mezzo di un ricordo involontario, come ostacolo al suo pieno dispiegarsi. 116

de sa félicité, de sa réalité devant la quelle les autres sʼévanousissaient). Voglio provarmi a farlo riapparire (je veux essayer de le faire réapparaître). Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza alcuna luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo (je demande à mon esprit un effort de plus), gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che sfugge. [...]. Ma, sentendo come lʼanimo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima dʼun tentativo supremo. [...]. Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, lʼattimo antico che lʼattrazione dʼun attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. [...]. Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mʼha consigliato di lasciar stare (et chaque fois la lâcheté145 qui nous détourne de toute tâche difficile, de toute œuvre importante), di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica. E ad un tratto il ricordo mʼè apparso [...]” (SW 44 sgg., 55 SGG.).

4) Lʼultima edizione

Le pagine appena scorse sono bellissime. Un capolavoro. Contengono una critica letteraria; una critica memorialistica; uno studio psicologico... Tutto quel che noi abbiamo tralasciato di valorizzare e fa parte della ricchezza sovrabbondante ma puntuale di queste pagine. Che sono scritte dal Narratore che ha capito tutto; che, infatti, ha scritto, insieme, la prima e lʼultima parte della sua ricerca. Andiamo allʼultima edizione (TR, 1034-1048; 744-761). Lʼultima edizione arriva in tre ondate. La prima. Il ricordo di quella sera e di quella notte incalza da qualche pagina: “E avrei finalmente realizzato ciò che tanto avevo desiderato, e creduto impossibile (impossible), così come, avevo creduto impossibile (impossible), tornando casa, abituarmi ad andare a

145 Il “courage” è stato nominato in un brouillon preparatorio spostato nel Tempo ritrovato (in cui si incontrno la “minute extratemporelle” e lʼ“homme extratemporel”...dellʼEsquisse XI (SW, C 25, ES XIV, 701. 117

dormire senza il bacio di mia madre (sans embrasser ma mère) o, più tardi, allʼidea che ad Albertine piacessero le donne, lʼidea con la quale alla fine ero riuscito a convivere senza nemmeno accorgermi della sua presenza: perché né i nostri peggiori timori né le nostre maggiori speranze sono al di sopra delle nostre forze, e possiamo riuscire a dominare gli uni e a realizzare le altre” (Tr, 1045; 745). Lʼimpossibile è diventato, sta per diventare, possibile. Poco fa il Narratore ha detto che non cʼè nulla che la nostra intelligenza non riesca a fronteggiare: “Dove la vita mura, lʼintelligenza apre una via di scampo, giacché se non esistono rimedi a un amore non condiviso, dalla, dalla constatazione di una sofferenza si esce, non fossʼaltro che traendone tutte le conseguenze. Lʼintelligenza ignora le situazioni bloccate, prive di vie di scampo, della vita” (TR, 589).146 La premessa della prima vague dellʼultima edizione è lʼintera matinée-rappresentazione della morte (su questo più avanti). Come riprendendo il discorso interrotto? Ricordate? “Morto per sempre?” Ora la fine incombe, il Narratore ha scoperto lʼ“idea del Tempo”: “ma [...] era ancora tempo, e io stesso sarei stato ancora in grado? [...]. Ma già scende la notte durante la quale non si può più dipingere, e sulla quale il giorno non tornerà più ad alzarsi. [...]. Giacche la mia ora poteva suonare fra pochi minuti (car mon heure pouvait sonner dans quelques minutes). Bisognava tener presente, infatti, che avevo un corpo, ossia che ero continuamente minacciato da un doppio pericolo, esterno e interno. [...]. E avere un corpo è la peggiore minaccia per la mente. La vita umana e pensante (pensante), di cui bisogna dire non tanto che è un miracoloso perfezionamento della vita animale e fisica, quanto che è unʼimperfezione – non meno rudimentale, ancora, dellʼesistenza dei protozoi in polipai, del corpo della balena ecc. – nellʼorganizzazione della vita spirituale. Il corpo tiene chiuso lo spirito in una fortezza; presto la fortezza è assediata da ogni parte, e alla fine bisogna che lo spirito si arrenda” (TR, 1035; 745).

146 “E questʼinferiorità dellʼintelligenza tocca tuttavia allʼintelligenza stabilirla. Perché, se non merita la suprema corona, essa sola è capace di assegnarla” (CSB, 10). Vedi lʼincipit della lettera Louis de Rober del maggio 1913: “Mon chier ami, lʼaissez-moi vous dire que je suis arrivé à me rendre compte que les impossibilités les plus inéluctables nʼexistent pas” (Correspondance, op. cit., vol. XII, p. 170). 118

In questo passo, come quasi in tutti, si affollano tantissimi pensieri; la notte durante la quale non si può dipingere richiama Giovanni 9, 4 (“la notte viene in cui nessuno può operare”)147 – tra poco sarà richiamato in Giovanni 12, 24, il seme che deve morire per portare frutto) –, la vita “pensante” richiama la canna pensante di Pascal, lʼessere dellʼuomo come il meno attrezzato richiama Nietzsche e i greci... Ma, di nuovo, lʼimpossibile sta diventando possibile; non ostanti le forze immani da poco evocate. Seconda ondata. Il Narratore sta pensando al suo libro: “Se avessi lavorato, sarebbe stato solo di notte (ce ne serait que la nuit)” (TR, 1043; 755). Interrompiamo per una osservazione. Straordinario: la nuova edizione definisce la notte non come il luogo in cui egli riesce a dormire se non baciato e ribaciato dalla madre, ma come il luogo in cui egli lavorerà; meglio, lavorerà solo di notte (nonostante la notte

147 Già in una lettera Georges de Lauiris dellʼ8 novembre 1908: “Georges, quand vous le pourrez: travaillez. Ruskin a dit quelque part une chose sublime et qui doit être devant votre esprit chaque jour, quand il a dit que les deux grands commandements de Dieu (le deuxième est presque entèrement de lui mais cela ne fait rien) étaient: ʻTravaillez pendant que vous avez encore la lumièreʼ et ʻSoyez miséricordieux pendant que vous avez encore la miséricorde. [...]. Après le premier comandement tiré de Saint-Jean vient cette phrase: car bientôt vient la nuit où lʼon ne peut plus rien faire (je cite mal). Je suis déjà, Georges, à demi dans cette nuit malgré de passagères apparences qui ne signifient rien. [..]. Alors si la vie apporte des déboires on sʼen console car la vraie vie est ailleurs, non pas dans la vie même, ni après, mais au dehors, si un terme qui tire son origine de lʼespace a un sens en un mondo qui en est affranchi [...]ʼ” (CORR, VIII, 1981285-286). (In cauda un evidente accenno allʼatemporalità-aspazialità). Sempre a Georges de Lauris, 6 marzo 1909: “I gesti sono meno importanti di ciò che si dice, ciò che si dice lo è memo di ciò che si scrive, e la realtà è altrove (la réalité est ailleurs)” (CORR, IX, p. 62; LG, 935). Sempre a George de Lauris, nel dicembre del 1908, auto- ironicamente aveva detto: “Vous ai-je parlé dʼune pensée de Saint-Jean: Travaillez pendant que vous avez en ore la lumière. Comme je nʼai plus je me mets au travail” (CORR, VIII, 316). A Robert Dreyfus, 16 maggio 1908: “Sit tratterà di una novella e quindi ci sarà il tempo di riparlarne, Ma la stessa ragione per cui penso che lʼimportanza e il carattere sovrasensibile dellʼarte facciano forse sì che certi romanzi aneddotici, per quanto gradevoli, non meritino del tutto lʼalta valutazione che sembri darne (lʼarte essendo troppo superiore alla vita, quale la giudichiamo con lʼintelligenza e la descriviamo con le parole, perché ci si possa accontentare di copiarla): la stessa ragione non mi consente di fare dipendere la realizzazione di un progetto artistico da elementi essi stessi aneddotici e troppo attinti alla vita per non partecipare della sua contingenza e della sua irrealtà (et à son irréalité)” (CORR, VIII, 123; LG, 894). 119

sia, per antonomasia, Vangelo docet, il luogo in cui non si può operare).148 “Ma vi sarebbero volute molte notti, forse cento, forse mille [egli stesso precisa più avanti che sta pensando a le Mille e una notte]. [...]. Un giorno anche i miei libri, come il mio essere di carne, avrebbero certo finito per morire. Ma bisogna rassegnarsi a morire. Si accetta il pensiero che fra dieci anni, fra cento anni noi, i nostri libri, non ci saremo più. La durata eterna non è promessa ai libri più che agli uomini”. Di nuovo, come riprendendo un filo interrotto: “Ma ero, io, ancora in tempo? Non era troppo tardi? Non mi chiedevo soltanto: Sono ancora in tempo?ʼ ma: ʻSono ancora in grado?ʼ La malattia che facendomi, come un rude direttore di coscienza, morire al mondo, mi aveva favorito, ʻperché se il seme, dopo esser stato messo nella terra, non muore, rimarrà solo, ma se muore recherà molti fruttiʼ, la malattia dalla quale, dopo che lʼindolenza mʼaveva protetto contro la facilità, sarei stato forse protetto dallʼindolenza, la malattia aveva logorato le mie forze e come avevo notato da tempo, soprattutto quando avevo smesso di amare Albertine, le forze della mia memoria. Ora, la ricreazione tramite la memoria di impressioni che sarebbe stato necessario approfondire, chiarire, trasformare in equivalenti dellʼintelligenza (or la recréation par la mémoire dʼimpressions quʼil fallait ensuite approfondir, éclairer, transformer en équivalents dʼintelligence), non era forse una delle condizioni, quasi lʼessenza stessa dellʼopera dʼarte (de lʼœuvre dʼart) quale lʼavevo concepita poco fa nella biblioteca?” (TR, 1044; 755-756).149 E qui il pensiero va al François le Champi lettogli una volta dalla mamma e ricordato poco fa nella biblioteca: “Era quella sera – la sera dellʼabdicazione di mia madre – che era cominciato, insieme alla morte lenta della nonna, il declino nel momento in cui, non sopportando più dʼaspettare lʼindomani per posare le labbra suo viso di mia madre (pour poser mes lèvres sur le visage de ma mère),

148 Come fare a non pensare a Kafka? 149 A Robert de Montesquiou, novembre 1905: “Mais je suis vencu par la douleur, par la maladie, chaque jour quand je crois mʼetre rendu maître, non par la volonté hélas, mais par lʼintelligence, de ma peine, quand je crois la connaître, en avoir fait le tour et que je crois que ce chagrin que je veux pour compagnon de toute ma vie nʼa plus de secrets pour moi, alors à ce moment, au hasard dʼune impresison, une nouvelle douleur surgit, la même mais qui a tellement une autre force que je retombe sous un nouvel inconnu” (CORR, V, 367): “Ce nʼest pas en trempant une madeleine dans une infusion. Mais dans ses expériences douloureusement cruciales quʼil da découvert le principe dʼoù sortira À la recherche tu tamps perdu” (Duchêne, op. cit., p. 524). 120

avevo preso la mia risoluzione (jʼavais pris ma résolution), ero saltato dal letto ed ero andato, in camicia da notte, a installarmi davanti alla finestra (à la fenêtre) da cui entrava la luce della luna (par où entrait le clair de la lune) finché non avessi sentito andar via il signor Swann. I miei genitori lʼavevano accompagnato, avevo sentito il cancelletto del giardino aprirsi, suonare (sonner), rinchiudersi. Di colpo (tout dʼun coup), allora, pensai [...]” Sonner... Ed ecco, in due pagine, lʼultima vague: “Se era questa nozione del tempo incorporato, degli anni passati come non separati da noi, che io avevo ora intenzione di mettere così fortemente in rilievo, era perché in quello stesso momento, nel palazzo del principe di Guermantes, il rumore dei passi (le bruit des pas) dei miei genitori che accompagnavano il signor Swann, il tintinnio saltellante, ferruginoso, instancabile, stridulo e fresco della campanella (ce tintement rebondissant, ferrugineux, intarissable, criard et frais), annuncio che il signor Swann se nʼera finalmente andato e che la mamma stava per salire, io li sentiti ancora, sentii proprio loro (eux- mêmes), pur situati così lungi nel passato. Allora, pensando a tutti gli avvenimenti che si collocavano per forza di cose fra lʼistante in cui li avevo sentiti e il ricevimento Guermantes, mi fece spavento pensare che fosse proprio quella campanella a tintinnare ancora dentro di me (cʼétait bien cette sonnette qui tintait en moi), senza chʼio potessi cambiare nulla alle note stridule del suo sonaglio (sans que je pusse rien changer aux criallements de son grelot), visto che, non ricordando più bene come si spegnessero, per riapprenderlo, per ascoltarlo bene, dovetti sforzarmi di non sentire più il suono delle parole (je dus mʼefforcer de ne plus entendre le son des conversations) che le maschere si scambiavano attorno a me. Per cercare di sentirlo più da vicino ero costretto a discendere in me stesso (sʼest en moi-même que jʼétais obligé de redescendre). Quel tintinnio (ce tintement) dunque, era sempre stato lì, e così, fra lui e lʼistante presente, tutto quel passato indefinitamente trascorso che non sapevo di portare con me. Quando la campanella aveva suonato (quand elle avait tinté) io esistevo già, e dopo, perché sentissi ancora quel tintinnio (ce tintemant), bisognava che non ci fosse stata discontinuità, che nemmeno per un istante avessi cessato, mi fossi preso il riposo di non esistere, di non pensare, di non avere coscienza di me (conscience de moi), giacché quellʼistante lontano stava ancorai in me, potevo ritrovarlo, tornare sino a lui, solo scendendo più profondamente in me (rien quʼen descendant plus profondément en moi). Ed è perché contengono così le ore del 121

passato che i corpi umani possono fare tanto male a chi li ama, perché contengono tanti ricordi di gioie e di desideri già cancellati per loro, ma tanto crudeli per chi contempla e prolunga nellʼordine del tempo il corpo adorato di cui è geloso, geloso fino a sperarne la distruzione. Infatti dopo la morte il Tempo si ritira dal corpo, e i ricordi – così indifferenti, così sbiaditi – sono cancellati da colei che non è più e presto lo saranno da colui che ancora torturano, ma nel quale finiranno col perire quando il desiderio di un corpo vivo smetterà di alimentarli. Profonda Albertine (profonde Albertine) che io vedevo dormire e che era morta” (TR, 1046-1047; 759-760; lʼultima frase nellʼedizione curata da Tadiè, TR, 624). Che ve ne sembra? Non è detto nulla di nuovo; ma a parte la decisiva discesa nel profondo (seguendo Albertine “la profonda”: torneremo sulla tappa cruciale rappresentata dai baci e dagli abbracci con A.), avviene qualcosa, come dire, sul piano grammaticale (o glossologico) che acumina – ma ce nʼera bisogno? – la conscience de soi. Per il Narratore ce nʼera bisogno. Componiamo una sequenza: ce tintement rebondissant, ferrugineux, intarissable, criard et frais [...] cʼétait bien cette sonnette qui tintait en moi [...] sans que je pusse rien changer aux criallements de son grelot [...] je dus mʼefforcer de ne plus entendre le son des conversations [...] sʼest en moi-même que jʼétais obligé de redescendre [...] rien quʼen descendant plus profonément en moi. Ricordiamo, ora, le due sequenze presentate in Dalla parte di Swann: – la prima relativa alla distinzione tra assidui, familiari, e stranieri: non pas le grelot profus et criard [...] de son bruit ferrugineux, intarissable et glacé [...] mais le double tintement timide, ovale et doré de la clochette pour les étrangers; – la seconda relativa alla partenza di Swann (le famose dieci pagine): sonné [...] et quand le grelot de la porte mʼeut averti quʼil venait de partir [...] comme ces cloches de couvents [...] se remettent à sonner dans le silence du soir. Sopra abbiamo pensato che il testo di Dalla parte di Swann suggerisse la caratterizzazione di Swann come discreto, anche se “straniero” (potenziale “nemico”); ma abbiamo visto anche il familiare” (heimlich) è il potenzialmente nemico... Nemica (potenziale), potenziale estranea, è la madre (a parte il padre etc.)... Nemico/estraneo (a se medesimo) è il Narratore... È proprio questo che il “ritrovamento” segnala. 122

Infatti, quel che avviene in sede di ritrovamento concerne il “drame” nel suo svolgimento; addirittura, nella sua fase culminante: “Si cʼétait cette notion du temps incorporé [...] que jʼavais maintenant lʼintention de mettre si fort en relief, cʼest quʼà ce moment même, dans lʼhôtel du prince Guermantes, ce bruit des pas de mes parents conduisant M. Swann, ce tintement [...]” (TR, 1046). Si parla esclusivamente del “bruit” etc. che si accompagna alla fine della visita di Swann (e allʼinizio della fase culminante che possiamo collocare nel “couloir”). Completiamo la frase: “[...] ce tintement rebondissant [...] qui mʼannonçait quʼenfin M. Swann était parti et que maman allait monter, je les antendis encore, je les entendis eux- même. Eux situés pourtant si loin dans le passé”. Mi sembra chiaro: chi “monte” è il nemico; lo scontro sarà aspro. Quei passi, non solo quelli che hanno accompagnato Swann alla “porte” ma soprattutto quelli fatti verso la “chambre”... “io li sentii ancora, sentii proprio loro”... Basta questo... Teniamo in mente che il ritrovamento è il ritrovamento di se stesso; della propria mamma in se stesso... Ma concludiamo: il Narratore è assalito da stanchezza e sgomento; perché, sente (e capisce) che tutto quel tempo (“senza una sola interruzione”), non solo era la sua vita (“non solo era la mia vita”), ma anche...: (non solo era me stesso) “ma anche che dovevo tenerlo ogni minuto (toute minute) attaccato a me, che mi faceva da sostegno (quʼil me supportait), a me che, appollaiato sulla sua sommità vertiginosa, non potevo muovermi senza spostarlo.150 La data in cui sentivo il rumore della campanella del giardino (le bruit de la sonnette du jardin) di Combray, così lontana eppure interiore (si distant et pourtant intérieur), era un punto di riferimento (un point de repère) in quella dimensione enorme che non sapevo di possedere. Avevo le vertigini vedendo sotto di me, eppure in me, come se la mia altezza fosse di leghe, un tale numero di anni” (TR, p. 1047; 760). Straordinario: la sonnette, da ricordo lancinante, diventa un punto di riferimento. La notte “la più dolce e la più triste” della sua vita,151 diventa “distante eppure interiore”.

150 Togliere: “come potevo invece fare con lui”... 151 “Ma era piuttosto nella storia della mia propria vita, ossia non da semplice curioso, che lʼavrei trovata [la bellezza del libro]; e collegandola, più spesso che allʼesemplare materiale, allʼopera, come a quel François le Champi contemplato per la prima volta nella mia cameretta di Cambray, durante la notte più dolce e più triste, forse, della mia vita (pendant la nuit peut-être la plus douce et la plus triste de ma vie), quando avevo, ahimè! (in un periodo in cui i misteriosi Guermantes mi sembravano tanto inaccessibili), ottenuto dai miei genitori una prima abdicazione dalla quale potevo far datare il declino della mia salute e della mia volontà, la mia 123

La distanza diventa interiore. La dimensione del tempo diventa interiore. Egli stesso, al pari di coloro di cui riuscirà forse, prima della fine della sua vita – se il tempo mi basterà “a compiere la mia opera (accomplir mon œuvre)” –, a descrivere, è diventato un “mostro”; arrampicato sui trampoli (questi “aumentano senza sosta sino a diventare, a volte, più alti dei campanili” = il ricordo va immediatamente ai campanili, quella volta non metaforici, di una delle prime memorie involontarie).152 Sa che la forza di “tenere attaccato” a sé “quel passato che scendeva già a tale lontananza” non è infinita... Lʼabbiamo visto: lʼeterno, ahimè, dura un momento. Il tempo di cui il Narratore ha colto la “dismisura (sans mesure)”, lʼenormità, è stato da lui colto nel suo essere senza misura. E, miracolo, lʼincommensurabile è diventato misurabile: detto tra parentesi: “(Era per questo [il Narratore ha appena ricordato il duca di Guermantes vacillante sulle gambe malferme] che il volto degli uomini dʼuna certa età era così impossibile confonderlo, anche per gli occhi dei più ignari, con quello di un giovane, e non appariva che attraverso una sorta di nuvola di serietà)”. Il metro non serve a misurare il non misurabile. Eppure il Narratore è riuscito a misurare. Lʼenormità della dimensione del tempo... (Purtroppo Leo Spitzer, che ci ha lasciato annotazioni interessantissime sullo stile di Proust, ha lavorato solo su Du côté de chez Swann perché esso “anticipa già tutti i personaggi e tutti i temi dei volumi successivi).153 rinuncia ogni giorno più grave a un compito difficile – e ritrovavo oggi nella biblioteca dei Guermantes [..]” (TR, pp. 886-887; 567). 152 Data lʼenorme cultura di Proust e stante il contributo costante e ricchissimo che questa sua cultura dà ad ogni frase, la tessitura della frase, è impensabile che la mente di Proust qui non sia andata a Montaige: “Così abbiamo un bel montare sui trampoli (sur des es), ma anche sui trampoli (sur des hechasses) bisogna camminare con le nostre gambe. Ed anche sul più alto tronco della terra non siamo seduti che sul nostro culo)” (Essais, Gallimard, 2009, vol. III, p. 481; édition Villey- Saulnier, PUF, Paris, 2004, 115; tr. it. Saggi, Casini Ed., Roma, 1953, p. 1168). 153 Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Einaudi, Torino, 1959, pp. 231-336. Spitzer colloca tra le “triadi simmetricamente costruite: “le grelot profus et criard qui arrosait, qui étourdissait au passage de son bruit ferrugineux, intairissable et glacé... mais le double tintement timide, ovale et doré de la clochette” (SW, 14) insieme a “Cʼétait le clocher de Saint-Hilaire qui donnait à toutes les occupations, à toutes les heures, à tous les points de vue de la ville, leur figure, l5)eur couronnement, leur consécration” (SW, 64) (ibidem, p. 245). Cita 124

5) Un ajout su “car mon heure pouvait sonner dans quelques minutes”

In un frammento di Jean Santeuil, – I Monet del marchese di Révellion – in modo impressionante, Proust si affaccia al luogo che non è un luogo, al di-là a cui manca il “di” e il “là”. Citiamo (correggendo qua e là la traduzione di Fortini), segnalando lʼessenziale con lʼabbinamento dellʼoriginale: “Ognuno di essi [luoghi] ha di volta in volta le sue differenti espressioni, onde chi ama un luogo ama i tempi diversi e tutte le ore di quel luogo (aime les temps différents et toutes les heures). Poiché sente che la vita di un luogo, per quanto possa sembrare poco animata, è in realtà molto più varia di quanto siamo soliti credere. Quando, mentre già il sole si fa penetrante, il fiume dorme ancora nei sogni della nebbia, noi non lo vediamo più di quanto esso stesso si veda (nous ne la voyons pas plus quʼelle ne se voit elle-même). Qui è già il fiume, ma là lo sguardo è interrotto, si vede solo il nulla (on ne voit plus rien que le néant), una bruma che impedisce di guardar più lontano. In quella parte della tela, non dipingere né quel che si vede, poiché non si vede nulla, né quel che non si vede, perché si deve dipingere solo quel che si vede, ma dipingere che non si vede, e che allʼocchio incapace di vogare sulla nebbia sia inflitta sulla tela la medesima sconfitta che ha subìto sul fiume, questo è davvero bello (à cet endroit de la toile, peindre ni ce quʼon voit puisquʼon ne voit rien, ni ce quʼon ne voit pas puisquʼon ne doit peindre que ce quʼon voit, mais peindre quʼon ne voit pas, que la déffaillance de lʼœil qui ne peut pas voguer sur le brouillard lui soit infligée sur la toile comme sur la rivière, cʼest bien beau). E è bello anche quando si tratta di una cattedrale, perché il portale che non si vede è una cosa molto bella ma è una cosa che vive nella natura. E certe ore della propria vita sono nel non sono viste (et certaines heures de sa vie sont de ne pas être vues), nellʼessere visitate dalla nebbia e allora nessuno può avvicinarle, e questʼora della propria vita è bella anchʼessa (et cette heure de sa vie est belle aussi). Noi non sapevamo tutto quel che cʼè di reale e di vario nella vita del luogo che amiamo, anche lʼora nella quale non è più un luogo e che tuttavia non lo rende puramente negativo perché il suo incanto può essere manifestato (même lʼheure où il nʼest point vu et qui nʼest pas purement négatif puisque le sempre “le grelot profus et criard qui arrosait, qui étourdissait au passage de son bruit” (S, 14) a proposito dellʼanafora insieme a “il fallait que je le [le baiser] prisse, que je le dérobasse brusquenment, publiquement” (SW, 23) (ibidem, p. 259). 125

charme de cela peut être rendu). Sappiamo bene che quel luogo è bello dʼautunno, quando è quasi trasfigurato, ma lo avremmo amato meglio se non lo avessimo avuto in un solo momento dellʼanno come uno spettacolo, se avessimo amato tutte le ore della sua vita perché manifestano appunto la sua vita, la sua vita, (si nous avions aimé toutes les heures de sa vie parce quʼelles manifestent sa vie, sa vie) quando lʼestate fa tanto ardenti le tegole del tetto della chiesa e orla il sentiero familiare di tanti papaveri fioriti e manipoli di fieno, o se, un giorno di sgelo, invece di andarcene quasi colui che senza toccarlo scorreva su quel paesaggio fosse stato un nemico estraneo a quel luogo, noi avessimo veduto il sole, il turchino del cielo, il ghiaccio spezzato, il fango, lʼacqua corrente far del fiume uno specchio abbacinante che lʼocchio non può fissare e dove non può più riconoscersi (que lœil ne peut fixer et où il ne peut se reconnaître), non riuscendo a ritrovar la forma di nulla (ne retrouvant la forme de rien), mentre gli alberi spogli e lucidi di brina son là, intorno ad una radura o lungo qualche riva, chi sa (on ne sait)” (JS, 896-897; 470- 771). Sembra proprio che Proust, superando ogni problematica della memoria, volontaria o involontaria, colga la vita anche là dovʼessa non è: “non è”; bel diverso da “non è più”. Non si tratta di ricordare quel che sʼè vissuto; si tratta di vivere il non-vissuto! E il non-vivibile.

6) I suoni nei Cahiers

Prendetelo come un divertissement: ho recuperato nei Cahiers i testi preparatori delle scene, come dire, “sonore”, commentate in questo capitolo. Le cito qui sotto. SILLOGE dei testi preparatori del “drame du coucher” in due tranche: – quella relativa alla costruzione dello scenario rassomiglia molto a quella di La strada di Swann: bruit de cloche [...] le carillon profus, étourdissant et criard [...] ses tintements ferrugineux et glacés [...] sans sonner [...] le double tintement timide, ovale, doré de la sonnette des ʻétrangersʼ (680-681); 126

– quella relativa allʼarrivo e alla partenza di Swann: neuf heures sonnent (688) la sonnette retentit (688) un bruit de pas sur le gravier puis la sonnette de la porte (890).154 Notiamo che (1) tutto avviene nel giro di tre pagine (contro le dieci del testo pubblicato); che (2) si passa senza transizione dallʼo scamanellare per il prazo, a quello per lʼarrivo di Swann a quello per la sua partenza; (3) e che, immediatamente, segue lʼosservazione: “Cʼétait le momenti où on allait monter” (691): impersonale; non sale un nemico; salgono i nemici (tra questi ci siamo anche noi: “si sale”). A questa frase incardinata sullʼimpersonale segue: “Il fallai envisager les choses en face. [...]. Bientôt jʼentendis Maman qui montait fermer sa fenêtre, jʼallai dans le couloir sans bruit. Mon cœur battai [...]”... Nel silenzio più profondo – almeno per quel che riguarda il Narratore, “sans bruit” – quel che si fa sentire (“battait”) è il suo cuore. Anticipiamo: dai Cahiers al testo definitivo, il passaggio evidente, per quel che riguarda Dalla parte di Swann, dal momento della formulazione della premessa – penso alla differenza tra heimlich e un-heimlich (per dirla freudianamente) –, al momento della descrizione della crisi scandita in varie tappe. Anticipiamo sempre: inversamente, nel Tempo ritrovato, abbiamo il passaggio da una descrizione dettagliata (addirittura, dispersa) ad una oltremodo sintetica. SILLOGE dellʼultima ora: un bruit de pas [...] la sonnette de la porte [...] le ressort déclenché de lʼhorologerie va sonner lʼheure? Lʼheure! Mais < la > dernière heure. SILLOGE dal Tempo ritrovato: le son rebondissant, rougeâtre, cressonier et criard de la petite sonnette [...] je lʼententais encore en moi sonner [...] son tintement [...] son grelot [...] descendis en moi- même [...] écouter de plus près son tintement [...] elle avait retenti à mes oreilles à Combray [...] jusquʼau jour où tinte la petite sonnette de Combray [...] sans avoir à sortir de moi 1. “Les soirs où assis autour de la petite table de fer, dévant le perron, nous entendions au bout du jardin non pas le carillon profus, étourdissant et criard qui arrosait au passage de la pluie multipliée de ses tintements ferrugineux et glacés toute personne de la maison qui entrait sans sonner, mais le double tintement timide, ovale, doré

154 Vedi nelle esquisses del Tempo ritrovato quel che manca qua: “[...] les après- midi de Combray dans le bruit de cloche de lʼhorologe de mon voisin [...]” (C 57,

ES XXXI, ES XLI.2, TR, 847). 127

de la sonnette des ʻétrangersʼ” (C 8, ES XII, SW, 680-681) + “[...] je fixais avant que neuf heures sonnent la place de la joue de maman où je lʼembrassai” (C 8, ES XII, 688) + “jʼavais entraîné Maman dans le vestibule pour lui dire bonsoir et ne lʼavais pas encore embrassée quand la sonnette retentit, cʼétait M. Swann; à ce moment mon père ouvre la porte, dit: ʻVoyons, on sonne, monteʼ” (C8, ES XII, SW, 688) + “Je mʼassis au pied du lit et quand un bruit de pas sur le gravier puis la sonnette de la porte mʼeurent averti que M. Swann venait de partir, jʼentrouvris la fenêtre” (C 8, ES XII, SW, 890) + “[...] les après-midi de Combray dans le bruit de cloche de lʼhorologe de mon voisin [...]” (C 57, ES XXXI, ES XLI.2, TR, 847). 2. Lʼappressarsi dellʼultima ora (arriva la notte nella quale non si può più “operare”): “Capitalissime. [...]. Dans lʼignorance, qui est la notre aussi, dʼune aiguille qui est arrêtée et qui ne sait pas, au point où le ressort déclenché de lʼhorologerie va sonner lʼheure? Lʼheure! Mais < la > dernière heure. Peut-être ma crainte dʼavoir déjà parcouru presque tout entier ma minute qui la précède, quand déjà le coup se prépare, le coup dans mon cerveau [...]” (C 57, ES LX, TR, 943). 3. “E tout dʼun coup entendant dans mon souvenir mes parents qui accompagnaient M. Swann vers la porte, puis le son rebondissant, rougeâtre, cressonier et criard de la petite sonnette qui me signifiait quʼil venait de partir, je lʼententais encore en moi sonner à cette époque qui était encore actuelle et qui ne mettait à sa date que le événements que jʼétais obligé de placer entre elle et le moment présent, que cʼétait bien elle qui sonnait, sans que je pusse rien changer à son tintement, puisque ne me rappelant pas bien dʼabord comment sʼétegnait son grelot, je mʼefforçai de ne plus entendre le son des conversations autour de moi et descendis en moi-même écouter de plus près son tintement pour lʼobserver mieux. Ce passé si profond je le portais ave moi quisque quand elle avait retenti à mes oreilles à Combray dans ce passé si profond, jʼexistais déjà. jʼétais déjà, et depuis je nʼavais cessé un seconde dʼexister, de penser, dʼavoir conscience de moi, puisque ce passé mʼétait intérieur, comme une longue galerie où je pouvais retourner jusquʼau jour où tinte la petite sonnette de Combray sens être arrêté par une clôture [,] par une route extérieure, sans avoir à sortir de moi [questʼultima espressione sottolineata] “ (C57, ES, XLI, TR, 899-890).

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7) Tornando alla prima edizione: la “serie”

Se Combray è la storia di un fanciullo, Un amore di Swann è una storia dʼamore. Chi è lʼeroe di questo secondo romanzo. Sembra che lo sia il nostro Proust. Citiamo fior da fiore... scegliendo, in questa breve incursione – incursione molto interessante perché ci aiuta a capire i torti e le ragioni sia di Sainte-Beuve che del Contre-Siante-Beuve – due lettere in cui Proust preannuncia la scrittura... Lettera a Reynaldo Hahn del 26 aprile 1895 (Proust ha 14 anni): “Attendre le petit, le perdre, le retrouver, lʻaimer deux fois plus en voyant quʼil est revenu chez Flavie pour me prendre, lʼespérer pendant cinq ou le faire attendre cinq minutes, voilà pour moi la véritable tragédie, palpitante et profonde que jʼécrirai peut-être un jour et quʼen attendant je vis” (CORR, I, 380)155 Jʼécrirai... (Il 18 gennaio 1895, concludendo un lettera a Reynaldo: “Sache que dand la liturgie catholique présence réelle veut justement dire présence idéale” [CORR, I, 363]. Cʼè già la liturgia cattolica; lʼostia/viatico etc. Dalla présence réelle del drame du coucher, la futura Adoration Perpetuelle Ò Tempo ritrovato).156 Diciassette anni dopo, scrive a Albert Nahmias fils – che ha mancato un appuntamento; lettera dl 20 agosto 1912 (CORR. VI, 17- 190: “Un jour je peindrai ces caractères qui ne sauront jamais, même à un point de vue vulgaire, ce que cʼest que lʼélégance, prêt pour un bal, dʼy renoncer pour tenir compagnie à un ami. Ils se croient par là mondains et sont le contraire”) Je peindrai! Poco prima: “Vous nʼêtes même pas en pierre qui peut être sculptée si elle a la chance de rencontrer un sculpteur [...], vous êtes en eau, en eau banale, insaisissable, incolore, fluide, sempi terenellement inconsistante, aussi vite écoulée que coulée”. Andiamo a leggere che cosa dirà Swann a Odette che ha preferito andare dai Verdurin a vedere Un Nuit de Cléopâtre invece di restare con lui: “[...]. Alors, si tu es cela, comment pourrait-on

155 Le lettere a Reynaldo Hahn sono state pubblicate: Lettres à Reynaldo Hahn. Présentées datées et annotées par Philippe Kolb, Gallimard, 1956. La lettera in questione è a p. 37. 156 Vedi lʼidentica conclusione della lettera a Lucien Daudet del maggio 1916 (CORR, XV, 153): “[...] si ta soirée nʼadmet pas que je te retrouve quelque part, ne prends pas la peine de me répondre, et je me contenterai – cʼest le pain quotidien de ma solitude, de ta présence réelle”. 129

tʼaimer, car tu nʼes même pas une personne, une créature définie, imparfaite, mais du moins perfectible. Tu es une eau informe qui coule selon la pente quʼon lui offre, un posisson sans mémoire et sans reflexion qui, tant quʼil vivra dans un aquarium, se heurtera cent fois par jour contre le vitrage quʼil continue à prendre pour de lʼeau” (SWW, 290). Agostinelli... In Impressions de route (1907) descrive Agostinelli utilizzando immagini femminili “mon mécanicien avait revêtu une vaste mane de caoutchouc et coiffé une sorte di capuche qui, enserrant la plénitude de sin jeune visage imberbe, le faisait sembler [...] à quelque pèlerin ou plutôt à quelque nome de vitesse (PM, 66-67). La metafora che paragone lo chauffeur al volante con Cécile au clavier (PM, 6) sarà utilizzata tale e quale per Albertine nella Prisonnière (P, 884)... Agostinelli si iscrive come allievo aviatore col nome di Marcel Proust! Annega, dopo un incidente. Il fattaccio avviene mentre va verso di lui, ma non può più raggiungerlo, una lettera di Proust (30 marzo 1912 CORR, XIII, 217-223): gli promette di far incidere su di un aeroplano i versi del “Cygne” di Mallarmé.... Tra gli altri questi: “Le vierge le vivace et le bel Aujourdʼhui / Vat-il nous déchrere avec un coup dʼaile ivre / Ce lac dur oublié, que hante sous le givre, / / Le trasparent glacier des vols qui nʼont pas fui” (219). Questo fa il Narratore con Albertine a proposito di uno yacht (AS, 445-446): “[...] je ferai graver sur le... du yacht [...] ces vers de Mallarmé que vous amiez... Vous vous rappelez, cʼest la poésie qui commence par: Le vierge [...]”. Nella medesima lettera Proust elogia fa lʼelogio di una frase di Agostinelli (“une phrase était ravissante (crépusculaire etc)”. Diventerà quella di Albertine: “je nʼoublierai pas cette promenade deux fois crépusculaire (puisque la nuit venait et que nous nous allions nous quitter)” (AS, 468). Nel Notice a Un amour de Swann, ed. Tadiè, vol. I, p. 1184: “Lʼoriginalité dʼʻUn amour de Swannʼ nʼest pas dans les personnages quʼil réunit, ni même peut-être dans la peinture dʼune passion destructrice, de cette angoisse que rien ne peut apaisr, et quʼa connue lʼenfant de Combray puisqʼà la mère correspond la courtisane, ma dans lʼhistoire dʼune vocation”. Interessante: la cortigiana corrisponde alla madre... Lʼautore del Notice coglie qualcosa di essenziale... 130

In psicologia, figuriamoci in psicoanalisi!, si tende a considerare le vicissitudini amorose dipendenti dallʼimago materna. Non si colgono le implicazioni della retrodatazione dellʼEdipo fatta da Melania Klein etc... Retrocedendo si incrocia il desiderio di procreare; si incrocia la propria nascita... Conclusione: si scopre che non esiste un punto di partenza e un punto di arrivo; siamo in presenza di una “serie”. Di essa parla Deleuze: “Ne concluderemo che forse lʼimmagine della madre non è il tema più profondo, né la ragione della serie amorosa: è ben vero che i nostri amori ripetono i sentimenti verso la madre, ma questi già ripetono altri amori che non abbiamo vissuto noi stessi. La madre appare piuttosto come la transizione da unʼesperienza a nʼaltra, la maniera in cui comincia lʼesperienza nostra, ma già si riallaccia ad altre esperienze, che furono fatte da altri. Al limite, lʼesperienza amorosa è quella dellʼintera comunità attraversata dalla corrente di unʼeredità trascendente”.157 Se accettiamo lʼidea della “serie”, non viene prima la madre. Né la cortigiana. La madre è sempre “anche” una cortigiana, la cortigiana è sempre “anche” una madre... Nella parte che fin qui abbiamo trascurato del “drame du coucher” – quella del ricorso alla scrittura (di una lettera) per ottenere la presenza (“réelle”) della madre, abbiamo visto che Proust parla di “specializzazione”: Swann, se avesse letto la lettera, se ne sarebbe beffato! “Invece, come ho appreso in seguito, unʼangoscia simile fu per lunghi anni il tormento della sua vita, e nessuno, forse, avrebbe potuto capirmi meglio di lui; a lui, quellʼangoscia che si prova sentendo lʼessere al quale si vuol bene in un luogo di piacere (dans un lieu de plaisir) dove noi non siamo, dove non possiamo raggiungerlo, è lʼamore che lʼha fatta conoscere, lʼamore cui è in qualche modo predestinata, da cui sarà accaparrata, specializzata (spécialisée) [...]”. Che vuol dire? Proprio quel che vuol dire la “serie” deleuziana. Di volta in volta lʼamore si manifesta come amore della madre, della cortigiana, della sorella, della moglie etc...158

157 Marcel Proust e i segni, op. cit., pp. 69-70. 158 Non pensa ad una “serie” Proust quando descrive così la risatina di Charlus? “Una risatina che gli veniva probabilmente da qualche nonna bavarese o lorenese che anche lei lo ereditava a sua volta, identico, da unʼantenata, in modo che suonava così, immutato, da parecchi secoli in certe vecchie e piccole corti dʼEuropa, e si gustava la sua qualità preziosa come quella di certi strumenti antichi divenuti rarissimi” (SG ____; 179 [Tadié, 332-333]______). Vedi Lʼœuvre cathédrale, op. cit., p. 421. 131

Pietro Citati, ne La colomba pugnalata. Proust e la Recherche,159 parla di “complesso edipico” (101), di “Edipo veggente” (173-174), “tremendo peccato edipico” (262, 267, 266), di “passine edipica” (348), di “assoluta e quasi mostruosa identità edipica” (145) con la madre, di “assoluta identità incestuosa” (264) con la stessa...160 Citati ricorda lʼincipit duna lettera di Proust ad Antoine Binesco a cui è recentemente morta la madre: “[...] ho visto la tua grafia stravolta, quasi irriconoscibile, con i caratteri rimpiccioliti e contratti, come occhi diventati piccoli a forza di piangere, è stato per me un altro colpo [...]”. I caratteri di Bibesco richiamano alla memoria di Proust uno degli episodi “archetipici” (Citati) della sua vita, la telefonata da Fontainebleu: “Ma una volta la chiamai al telefono da Fontenebleau, e tuttʼa un tratto dalla cornetta mi giunse la sua povera voce rotta, torturata, incrinata, mutata per sempre da quella che conoscevo. Ed è accogliendo quei sanguinanti brandelli chʼebbi per la prima volta lʼatroce percezione di ciò che era spezzato in lei Succede lo stesso con la tua lettera, nella quale si avverte lʼinfinita fatica di scrivere [...]” (LG, 486; CORR, III, 182). Citati commenta: “Lʼidentità giunse ancora più in profondo. Violando qualsiasi tabù, lʼamico diventò la madre di Proust” (119). È evidente che siamo in presenza di una concezione non “seriale” – come quella deleuziana – ma consequenziale. Deleuze, infatti, se avesse incrociato lʼincipit della lettera a Bibesco avrebbe “completato”. Citati infierisce: “Nel Pronao viene ripetuta due volte la scena del Peccato Originale, raccontata nel terzo capitolo della Genesi, e che qui appare in luoghi e forme diverse. La prima scema è lʼepisodio del bacio materno, rifiutato e poi concesso, che costituisce una specie di ʻevento primordialeʼ: esso vive da sempre e per sempre nella memoria e nellʼimmaginazione di Proust, che lo antepone agli eventi di Combray, perché non ha bisogno di nessuna madeleine e tazza di tè per rievocarla” (263). Noi abbiamo cercato di leggere questa scena come una “serie di scene”...

159 Mondadori, Milano, 1995. 160 A proposito della conclusione del “drame du coucher”: “Risalita nella stanza del figlio, ma madre gli legge François le Champi di George Sand: lo legge con tutta ʻla tenerezza naturale, lʼampia dolcezzzaʼ che le frasi reclamano; omette le scene dʼamore, così che il figlio non capisce che il libro parla di lui. Se Marcel non comprende, noi comprendiamo benissimo: in François le Champi il figlio (sia pure dʼelezione) ama la madre, vuole sposare e sposerà la madre: lo stesso desiderio colpa il cuore di Marcel e di Proust” (p. 263). 132

Citati richiama lʼultima edizione del “drame”: “Ascolta il passo dei suoi genitori, che accompagnano Swann alla porta, e il suono della campanella, ʻquel tintinnio rimbalzante, ferruginoso, inesauribile, stridulo e frescoʼ: lo sente, lo sente ancora, senza che essi sia cambiato in nulla, senza che dopo tanti anni abbia mai cessato di echeggiare dentro di lui. Così unʼaltra volta la Recherche torna al principio, rievoca la scena archetipica, formando la perfezione di un cerchio. Tutto ritorna – ma nulla è stato espiato” (382-283). Ripeto, noi abbiamo cercato di trovare la differenza. Strano!, lo stesso Citati, precisando il metodo di scrittura di Proust, sembra aver colto il metodo della “seriazione”: “Durante lʼelaborazione, Proust si mosse contemporaneamente verso tre direzioni. Da un lato, frantumò le grandi scene in scene minori: liberò ogni motivo dalla scoria che lʼaffliggeva; spesso frantumò in piccoli motivi. Poi, nelle stesse pagine o in pagine vicine, intrecciò ogni motivo con motivi dʼintonazione diversa, ottenendo effetti di contrasto, di dissonanza o di parallelismo. Infine trasformò una parte dei motivi in Leitmotiv” (390). Jean-Yves Tadié, nella sua monumentale biografia (Proust, Gallimard, 1996), a proposito di Auteuil, parla di una “plaquee indicant ʻlʼeauferrugineuseʼ” e suggerisce che “ce mo rare et sonore”abbia colpito Marcel bambino e sia stato trasferito alla “sonnette” di Combray. E pensa che la presenza del “ferrugineux” sia a nel “drame du coucher” che nella “matinée”, “ouvrant et fermant lʼœuvre et lui donnant une cohésion structurelle supplémentaire, un nuoveau mouvement circulaire, infini comme la source” (21).161

161 “[...] chissà cosa avrebbe dato per poter avere uno di quei bicchieri che suo padre usava tutti i giorni e nascondeva in una piccola cavità della roccia sovrastante la fontana, per esser certo che nessun altro se ne servisse. E uno dei sogni di Jean era quello di ritrovare a Auteuil la villa di Montmorency dove talvolta andava a bere un bicchier dʼacqua ferruginosa (dʼeau ferrugineuse)” (JS, 868; 740). Per quel che può valere un repertorio dei suoni del Jean Santeuil eventualmente legati al “drame du coucher”: “facendo suonare sul loro passaggio la campanella (la clochette) della porta” (JS, 284; 114); “poi si sentiva il tintinnio agro della campanella (le petit son aigre de la sonnette)” (JS, 342; 175); “[...] il sole, come mosso simultaneamente dallo scampanio (par le sonneur) [...]. pareva, come uno scampanio (les battements des cloches) [...] come un ultimo colpo (comme un dernier coup de sonne) , quando si crede ormai ristabilito per sempre il silenzio, rintocca ancora” (347-348; 181-182); “tintinnare del campanello (tintement de la sonnette)” (353; 187); “al nitido tintinnio delle campane della chiesa (net tintement des cloches)” (JS, 515; 360); “si udirono i rintocchi della pendola (on entendit une sonnerie)” (JS, 569; 418); “Jean [...] tirò un piccolo campanello (une petite sonnette) che come quelli di campagna continuò a lungo le agre gocce del 133

8) Tornando alla prima edizione: vocazione/ispirazione/ scrittura/œuvre

Ma qui vogliamo cogliere unʼaltra sollecitazione che ci viene dal Notice di cui sopra. Lʼautore del Notice probabilmente non ci ha neppure pensato; ma leggendolo per la prima ho capito che la scrittura di quella lettera è la prima e drammatica esperienza che il Narratore fa della scrittura (scioccamente, quindi, si sostiene che il Narratore solo obliquamente fa riferimento alla propria vocazione letteraria... Essa è centrale, come strumento che fallisce e che riesce nel bel mezzo del “drame”. Riprendiamo il “drame”. Lʼabbiamo visto: il Narratore se nʼè andato “senza viatico” in camera sua: “Ma prima di seppellirmi” (SW, 28 sgg; 35 sgg.). È una questione di vita o di morte! Il narratore ha un “moto di rivolta” e vuole “tentare un espediente (une ruse) da condannato”: “Scrissi a mia madre (jʼécrit à ma mère) [...]”... Ricordate? Jʼécrirai... Jʼécrirai... La prima scrittura avviene è quella di un fanciullo in cerca di un “viatico”... Il Narratore scrive alla madre “supplicandola per una cosa grave (une chose grave) che non potevo dirle per lettera (que je ne pouvais lui dire dans une lettre)”. La cosa grave è lʼinseppellimento... La scrittura della lettera sembra no strumento per sopravvivere... Ma è fin dallʼinizio definito inefficace. Con la scrittura della lettera il Narratore non può dire questa cosa “grave”... Che fa il Narratore? Scritta la lettera, “non esita[i] a mentirle” (a Françoise): “dicendole che non ero assolutamente io a voler scrivere (ce nʼétait pas du tout moi qui avais voulu écrire) alla mamma ma era stata lei che, lasciandomi, mi aveva raccomandato di non dimenticare di farle avere una risposta a proposito di qualcosa che mʼaveva pregato di cercarle; e si sarebbe certo moto arrabbiata se non le fosse stato consegnato il biglietto in questione (ce mot)”... Quindi, lʼautore della lettera (lo scrittore) mente sostenendo che non ha deciso lui di scrivere... suo chiaro tintinnio (à égreber les gouttes aigres dʼun son clair)” (JS, 780; 646); “e aver suonato una piccola campanella che tintinna a lungo (une petite sonnette qui tint longtemps)” (JS, 891; 765). 134

Si chiamerà poi ispirazione? Françoise non gli crede. Ma porta il “mot”... E torna: “il maggiordomo non poteva consegnare la lettera (remettre la lettre) in quel momento davanti a tutti, ma che quando avessero portato i rince-bouches avrebbe trovato il mondo di farla arrivare alla mamma”. Che succede? “Subito la mia ansia cadde (aussitôt mon anxieté tomba)”. La speranza che il testo sarà letto toglie immediatamente lʼansia; la fa cadere... “adesso non era più fino a domani (jousqʼà demain), come un attimo prima, che avevo lasciato mia madre, giacché il mio biglietto (mon petit mot), non potendo irritarla (e a maggior ragione in quanto quel maneggio rischiava di rendermi ridicolo agli occhi di Swann), mi avrebbe fatto entrare estasiato e invisibile nella sia stanza, le avrebbe parlato di me allʼorecchio; e quella sala da pranzo proibita, ostile, ancora un istante prima, lo stesso gelato – la ʻgranitaʼ –, gli stessi rince-bouches mi sembravano racchiudere voluttà malefiche e mortalmente malinconiche perché la mamma le assaporava lontano da me, mi si apriva simile a un frutto che, divenuto dolce, fa scoppiare il suo involucro, sul punto di sprizzare, di proiettare fino al mio cuore inebriato lʼattenzione della mamma nel momento in cui avrebbe letto le mie parole (tandis quʼelle lirait mes lignes). Adesso non ero più separato da lei: le barriere erano cadute, un filo delizioso ci univa (un fil délicieux nous réunissait). E non era tutto: la mamma, certo, sarebbe venuta!” La lettera ristabilisce la “présence réelle”... Addirittura ne annuncia una più completa... Quel che è successo al Narratore enfant è successo a Swann adulto: “[...] unʼangoscia simile fu per lunghi anni il tormento della sua vita, e nessuno, forse, avrebbe potuto capirmi meglio di lui; a lui, quellʼangoscia che si prova sentendo lʼessere al quale si vuol bene in un luogo di piacere (dans un lieu de plaisir) dove noi non siamo, dove non possiamo raggiungerlo, è lʼamore che lʼha fatta conoscere, lʼamore cui è in qualche modo predestinata, da cui sarà accaparrata, specializzata (spécialisée) [...]”. Proseguiamo il brano: “ma quando, come nel mio caso, essa [angoscia] è entrata dentro di noi prima ancora che quello [lʼamore] abbia fatto la sua apparizione nella nostra vita, allora, aspettandolo, fluttua libera e vaga, priva di destinazione precisa )elle flotte en lʼattendant, vague et libre, sans affectation déterminée), al servizio un giorno di un sentimento, lʼindomani di un altro, ora della tenerezza filiale, ora dellʼamicizia di un compagno. E la gioia della quel io feci il 135

primo apprendistato quando Françoise tornò a dirmi che la mia lettera (ma lettre) sarebbe stata consegnata. Swann lʼaveva conosciuta bene anche lui, quella gioia ingannevole [...]”. Meglio di così non potrebbe essere illustrata la “serie”. La gioia è, però, ingannevole... “Mia madre non venne [...]”! “[...] mi fede dire da Françoise quelle parole: ʻNon cʼè rispostaʼ”! Il filo si è spezzato Il Narratore sente accrescersi la sua agitazione... Teme che non riuscirà ad addormentarsi... Ma... “Allʼimprovviso la mia ansia cadde (tout à coup mon anxiété tomba”... Di nuovo... “[...] una felicità (félicité) mʼinvase come quando un farmaco potente comincia ad agire e ci toglie il dolore: avevo preso la risoluzione di non cercare più di riaddormentarmi senza aver visto la mamma, di baciarla a qualsiasi costo [...]. La calma che risultava dalla fine delle mie angosce mi metteva in uno straordinario stato di allegrezza (dans une allégresse extraordinaire) non meno di quanto avviene per lʼattesa, la sete e la paura del pericolo. Aprii la finestra sena rumore e mi sedetti in fondo al letto; non facevo quasi nessun movimento perché da giù non mi sentissero”. La felicità, lʼallegrezza... come sappiamo sono gli indicatori dellʼazione della memoria involontaria... Potremmo dire: i primordi dellʼœuvre! Della scrittura riuscita. Il Narratore ha deciso di andare oltre il potere di una lettera, di uno scritto... Aspetterà la madre; lʼabbraccerà “ad ogni costo”. Sappiamo il resto. “La mamma passò quella notte nella mia camera [...]”. Come dire, la scrittura ha collaborato... Interessante: che fa la mamma? Gli legge George Sand... Tutta la notte. Mi sembra straordinario. Ho prelevato dal testo i brani che servivano alla mia dimostrazione. Bisogna però ricordare che essi vivono dentro un testo molto più ampio; il cui respiro non è quello della nostra dimostrazione (o tentativo di dimostrazione)... Come dire: nelle lettere di cui sopra Proust dice la sua sofferenza (che, lʼabbiamo ormai chiaro, è identica a quella vissuta nel “drame du coucher”; tutti i drammi sono egualmente “drammatici”...)... E di volta in volta conclude: Scriverò! Dipingerò! Annuncia qualcosa che non sta facendo nelle lettere. 136

Ecco: la differenza tra quelle lettere inviate ai suoi destinatari e quelle lettere inserite nellʼœuvre è la differenza che passa tra la vita e lʼarte (o tra la vita di un aspirante artista e quella di un artista)...162

9) Le vocabulaire de Proust

Molto interessante relativamente ad un approccio non contenutistico al testo, Le Vocabulaire de Proust di Étienne Brunet.163 Ce ne dà unʼidea Jean Milly nel suo Lʼétude distributionelle des phrases dans la Recherche.164 Milly, in Combray I, individua le seguenti percentuali di frasi B (brevi = 34 %) M (medie = 41 %) e L (lunghe = 25 %). Chiama “extension” ognuno di queste percentuali. Individua in “Combray I” tre episodi successivi: “réveils”, “soirée à Combray” e “la madeleine”. Suddivide gli episodi in frammenti soprattutto sulla base delle modificazioni nellʼestensione:

B M L fragm. 1 la résurrection du passé. Extensions 33 24 43 fragm. 2 la madeleine; recherche – 66 34 0 anxieuse du souvenir. fragm. 3 la madeleine; réminiscence de – 2 29 69 Combray,

Questo quadro dice molte cose anche solo intuitivamente. Milly osserva, sempre in “Comnbray I”, un fenomeno interessante; quello dellʼalternanza regolare dei frammenti successivi tra un profilo alto, cioè più ricco di frasi lunghe e medie rispetto alla media dellʼinsieme, e un profilo basso, più ricco di frasi brevi:

profil Impression de réveil bas Évocations tournoyantes haut

162 Jean-Yves Tadié, nella sua biografia di Proust, fa una coppia della lettura da parte della madre del Narratore di François le Champi e la traduzione dalparte della madre di Proust di Ruskin... (Marcel Proust, Gallimard, Paris, 1996, p. 346). 163 Slatkine-Champion, Genève-Paris, 1983, voll. 3. Fa coppia con questo enorme lavoro quello di Luc Fraisse, Lʼœuvre cathédrale. Proust et lʼarchitecture médiévale (José Corti, Parigi, 1990). Lʼautore definisce il suo lavoro anche Dictionnaire raisonné de lʼarchitecture médiévale chez Proust (ibidem, pp. 154, 424, 483). 164 In Cahiers Marcel Proust, 14, Études proustienne VI, Gallimard, Paris, 1987, pp. 31-49. 137

La lanterne magique bas Promenades de ma grande mère haut Désir du baiser et arrivée de Swann haut La père de Swann bas Portrait de Swann haut Double vie de Swann bas Privation du baiser au lit haut Conversation avec Swann bas Anticipation du baiser et envoi au lit haut Alternance dʼangoisse et dʼapaisement haut Conversations après le départ de Swann bas Scène dans lʼescalier avec mes parents bas Réflections sur leur compréhension haut Lecture de François le Champi moyen La résurrection du passé haut La madeleine: recherche anxieuse bas La madeleine: réminiscence de Combray haut e dà molte spiegazioni. Alcune delle quali: – cʼè un grande ritmo alternativo che fa succedere i passaggi amplificatori e i passaggi a frasi più brevi, “presque avec une régularité de respiration”; – il testo di “Combray I”, racchiude molte allusioni al teatro: lʼarrivo teatrale di Swann, lo squillo del “coucher”, il teatro del “déshabillage”... questo suggerisce “de comparer cette alternance à celle des tirades et des dialogues, ou encore à celle, à lʼopéra, des airs ou des morceaux dʼensemble et des récitatifs”; – certi “référents” dʼordine psicologico comportano degli “allungamenti, come la memoria, la tristezza, lʼesaltazione, lʼironia del narratore, lʼamore. Ugualmente, certi gesti ed atteggiamenti: il bacio materno, la lettura, il sonno, le passeggiate; certi luoghi: Combray, il giardino, la case, le camere; – i frammenti di conversazione sono a basso profilo; come il passaggio sulla lanterna magica, importante per il seguito del romanzo e a tendenza estetica nettamente marcata: il profilo basso è dovuto alla sua colorazione psicologica “dysphorique”; – mentre i diversi frammenti che annunciano il bacio della sera sono, a causa della loro carica affettiva, di profilo alto: il fatto è che non sono più portatori di speranza, come i precedenti, e vi regna una intensa drammatizzazione; il discorso che rende questʼultima è frammentato; 138

– lo stesso dicasi, nellʼepisodio della madeleine, per la ricerca ansiosa del ricordo (per opposizione al frammento seguente in cui lʼapparizione di Combray nel ricorso di manifesta euforicamente in un blocco di frasi lunghe raggruppate in modo compatto). La drammatizzazione intensa è un fattore di abbreviamento.

139

Cap. 7

LA VITA VERA UNʼOPERA DʼARTE // LʼOPERA DʼARTE UNA VITA VERA165

1) Sorella morte; non distrugge, cura

Soffermiamoci su quel che è accaduto tra la prima e lʼultima edizione dellʼangoscia relativa al bacio... Lʼabbiamo già detto, la matinée è una grande rappresentazione della morte: “[...] – il Tempo che di solito non è visibile, e per diventarlo cerca dei corpi e, ovunque li trovi, se ne impadronisce per proiettare su di essi la sua lanterna magica” (TR, 612). “Ed io che fin dallʼinfanzia ero vissuto alla giornata, ma con unʼimpressione definitiva di me stesso e degli altri, mi accorsi allora per la prima volta, dalle metamorfosi verificatesi in tutte quelle persone, del tempo che era passato per loro, il che mi sconvolse con la rivelazione che

165 “[...] la Recherche [...] non è, rigorosamente parlando unʼopera di fiction, bensì unʼautobiografia creativa. Proust era convinto, e non a torto, che la sua vita avesse la forma e il significato di una grande opera dʼarte [...]” (Marcel Proust, George Painter, 1959, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1980, p. 15). Provate a leggere Painter e poi Anne Henry (Marcel Proust. Théorie pour une estétique, Klincksieck, Parigi, 1981). Io lʼho letta dopo aver riletto Painter. Henry cerca di dimostrare nella filosofia la nascita del romanzo; esso nasce come dimostrazione. Come dire, il bal des têtes è solo un mezzo per approfondire la conversation avec Maman... Il lavoro è interessantissimo anche perché rintraccia fonti allora non ancora individuate. Penso che abbia ragione Tadié quando obietta: “in nessun caso un saggio filosofico o una sintesi ideologica può dar luogo a un romanzo; al contrario, il loro effetto sarebbe piuttosto di bloccarlo” (Proust, op. cit., p. 214). Scherzosamente verrebbe da ipotizzare che Anne Henry abbia preso alla lettera Grasset che, rintracciato in Svizzera nel 1914, scrive a René Blum che non ha a portata di mano il “trattato”! (Pierre-Quint, Proust et la stratégie litteraire, Corréa, Paris, 1954, pp. 127-133). Benjamin mi sembra categorico: “La biografia di questʼuomo è tanto importante perché essa mostra come qui, con una stravaganza e una determinazione rare, una vita abbia tratto in tutto e per tutto le sue leggi dalle necessità della sua opera. E la grottesca avversione di cui la sua opera è rimasta vittima in Germania [...] deriva in parte dal fatto che non si è voluto percorrere la strada più ovvia: rappresentare la vita di uno dei nostri contemporanei più singolari” (Carte su Proust, 1929, in Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino, 1993, p. 382). Molto interessanti le pagine che Genette (Palimpsestes. La littérature au second degré, Éd. du Soleil, Paris, 1982, pp. 355-358) dedica alla lettera a Madame Scheikevitsch (3 novembre 1915, CORR, XIV, 280-285) in cui Proust, anticipando il seguito del suo romanzo, intreccia il “je” dellʼautore della lettera a quello del Narratore. 140

esso era passato anche per me (aussi pour moi). Di per sé indifferente (indifférente en elle-même), la loro vecchiaia mi rattristava avvertendomi dellʼapprossimarsi della mia” (TR, 927; 615). Tutti sono destinati a morire. Il Narratore incluso. Il Narratore incontra una quantità di cadaveri ambulanti.166 Vedi la descrizione atrocemente ironica della nipote di madame Saint- Euverte come cullata dentro una bara.167 Vedi la straordinaria descrizione dellʼattuale duca di Guermantes.168

166 Cadaveri ambulanti = “tours mouvantes” (C 51, C 51, ES XLI, TR, 877); “tours ambulantes” (C 11, ES XLII, TR, 901). “Poiché noi tutti, viventi, non siamo che morti non ancora entrati in funzione [...] (comme nous ne sommes tous, nous les vivants, que des morts qui ne son pas encore entrés en fonctions)” (PM,186; 241). 167 “La nipote [di madame de Saint-Euverte], ignoro se fosse a causa dʼuna malattia di stomaco o di nervi, dʼuna flebite, dʼun parto imminente o recente o dʼun aborto, che ascoltava la musica distesa e senza alzarsi per nessuno. La cosa più probabile è che, fiera delle sue belle sete rosse, pensasse di fare su quella chaise longue un effetto della Récamier? Non si rendeva conto di determinare per me una nuova fioritura del nome Saint-Euverte, che a così lungo intervallo segnava la distanza e la continuità del Tempo. Ciò che stava cullando, in quella navicella dove il nome Saint-Euverte e lo stile Impero fiorivano in fucsie di seta rossa, era il Tempo” (TR, pp. 732-733) 168 “Non era più che un rudere, ma superbo, anzi meno ancora che un rudere: quella bella cosa romantica che può essere una roccia nella tempesta. Sferzato da ogni parte dalle ondate di sofferenza, di collera del soffrire, di inarrestabile marea della morte che lo circondavano, il suo volto, sgretolato come un masso, serbava lo stile, la linea che avevo ammirati; era corroso come una di quelle belle teste antiche in estrema rovina, ma di cui siamo estremamente felici di poter ornare il nostro studio. Sembrava semplicemente appartenere, rispetto a una volta, a unʼepoca più antica, non solo a causa di ciò che aveva preso di ruvido e di rotto nella sua materia un tempo così brillante, ma perché allʼespressione penetrante e vivace era succeduta, plasmata dalla malattia, unʼinvolontaria, inconsapevole (une involontaire, une inconsciente) espressione di lotta contro la morte, resistenza, difficoltà di vivere. Le arterie, perduta ogni elasticità, avevano dato al viso, un tempo disteso, una durezza scultorea. E, senza che il duca se ne rendesse conto (sans que le duc sʼen doutât). Svelava nella nuca, nella guancia, nella fronte aspetti in cui lʼessere, come costretto ad aggrapparsi accanitamente a ciascun minuto, sembrava travolto da una tragica raffica, mentre le ciocche bianche della sta stupenda capigliatura, fattasi meno folta, schiaffeggiavano con la loro schiuma lʼinvaso promontorio del volto. E come riflessi strani, unici, che solo lʼapprossimarsi della tempesta in cui tutto verrà sommerso dà alle rocce rimaste sino a quel momento dʼun altro colore, capii (je compris) che il grigio plumbeo delle guance logore e irrigidite, il grigio quasi bianco e increspato delle ciocche sollevate, la fievole luce ancora concessa agli occhi che vedevano appena, erano colori non già irreali, semmai, al contrario, sin troppo reali, ma fantastici (non pas irréelles, trop réelles au contraire, mais fantastiques), e attinti alla tavolozza, inimitabile nelle sue nerezze spaventose e profetiche, della vecchiaia, della vicinanza della morte” (TR,1017; 123-124) 141

Qui si aggiunge una complicazione: “Ma a spiegare la mia angoscia era una ragione più grave: scoprivo lʼazione distruttrice del Tempo proprio nel momento in cui volevo accingermi a rendere chiare, a intellettualizzare in unʼopera dʼarte, delle realtà extra- temporali” (TR, 619).169 Il tutto si gioca nella quadratura di questa contraddizione. Consideriamo alcuni punti. La morte, prima di arrivare, matura producendo la decrepitezza dei cadaveri ambulanti della matinée. Ma, prima ancora, sopraggiunge ogni volta che nella nostra vita un “io” si sostituisce agli altri “io” determinandone, per lʼappunto, la scomparsa;170 il Narratore può affermare: “Capivo infatti che morire non era qualcosa di nuovo, che dallʼinfanzia in poi ero morto tante volte” (TR, 748). Ma cʼè qualcosa per la quale si può arrischiare la vita: “Quante volte [...] ero stato incapace dʼaccordare la mia attenzione a cose o persone che poi, quando la loro immagine mi fosse stata presentata da un artista mentre ero solo, avrei fatto chilometri, avrei rischiato la vita per ritrovare” (TR, 364). Sappiamo che la memoria involontaria produce un essere incurante della morte: “Ma perché le immagini di Combray e di Venezia mi avevano dato, in quel momento e in questo, una gioia simile a una certezza, e capace senza bisogno dʼaltre prove di rendermi indifferente la morte?” (TR, 544) (Abbiamo già citato lʼincuranza rispetto alle “vicissitudini del futuro” (TR, 548)... “Ma se anche quelli [rapporti] con il mio corpo, con me stesso, si fossero interrotti...? Sicuramente sarebbe accaduta la stessa cosa. Il nostro amore della vita non è che una vecchia relazione di cui non sappiamo liberarci. La sua forza sta nella sua permanenza. Ma la morte, interrompendola, ci guarirà del desiderio dellʼimmortalità” (TR, 275). Se Swann vivrà, e vivrà dopo essere morto, al di là della sua vita e della sua morte, egli vivrà nellʼopera: “La morte di Swann! Swann non svolge, in questa frase, il ruolo dʼun semplice genitivo. Ciò che intendo è la morte particolare, la morte messa dal destino al servizio di Swann. Infatti, per semplificare, diciamo la morte, ma ce

169 “[...] puisque si, depuis une heure, je tenais à la vie, cʼétait à cause de lʼœuvre que je venais de sentire tressaillir dans mon esprit et pour la mettre au jour” (C 11, ES XLII, TR, 901-902). 170 Sulla molteplicità degli “io” etc. vedi Il tempo ritrovato (741, 749)... “Ebbene, la sostituzione così completa di questo io nuovo non è un cambiamento altrettanto profondo, una morte altrettanto totale dellʼio che si era, quanto vedere un volto rugoso sormontato da una parrucca bianca rimpiazzare lʼantico?” (AS, 271). Forse la pratica geniale di Proust nellʼambito del pastiche è tributaria alla molteplicità degli io (più che allʼidentificazione con gli altri io) 142

ne sono tante, quasi, quante persone. [...]. Allora, pochi minuti prima dellʼultimo respiro, la morte, come una suora che, invece di distruggervi, vi avesse curati, viene ad assistere ai vostri ultimi istanti, a coronare di unʼaureola suprema lʼessere ormai gelido il cui cuore ha smesso di battere (alors, quelques minutes avant le dernier souffle, la mort, comme une religieuse qui vous aurait soigné au lieu de vous détruire, vient à assister à vos derniers instants, couronne dʼune auréole suprême lʼêtre à jamais glacé dont le cœur a cessé de battre). [...]. Swann era [...] una notevole personalità intellettuale e artistica; e sebbene non avesse ʻprodottoʼ nulla, ebbe la ventura di durare un poʼ più a lungo. Eppure, caro Charles Swann che ho conosciuto così poco, quando io ero ancora così giovane e voi sullʼorla della tomba, se si ricomincia a parlare di voi, e forse vivrete (peut-être vous vivrez), è perché quello che, probabilmente, ritenevate un piccolo imbecille (un petit imbécile) ha fatto di voi lʼeroe di un romanzo (P, 199-200; 600). Prima della conclusione scanzonata e solenne (peut-être vous vivrez grazie a un petit imbécile) una prefigurazione della morte stessa come madre-suora che dissipa lʼangoscia della perdita (della fine); qui non cʼè una madre che bacia e abbraccia per dare al proprio figlio il riposo del sonno; cʼè una madre che, invece di distruggere, cura!

2) In cima ai trampoli. In cima ai campanili.

Comunque, si siamo avvicinati alla risposta: “Adesso non era più così: perché la felicità che provavo non veniva da una emozione puramente soggettiva dei nervi che ci isola dal passato ma, al contrario, da un allargamento della mente in cui si riformava, si attualizzava quel passato, dandomi – ma, ahimé, momentaneamente – un valore dʼeternità (mais hélas! momentanément, une valeur dʼéternité)” (TR, 1036; 746). Lʼeternità è momentanea! La sola opera possibile è il raggiungimento della verità, della vera vita, nel compimento dellʼopera: “Forse, dicevo ad Albertine, proprio in questo, in questa qualità sconosciuta dʼun mondo unico e che nessun musicista ci aveva mai fatto vedere, consisteva la prova più autentica del genio, assai più che nel contenuto dellʼopera stessa. ʻAnche in letteratura?ʼ Mi chiedeva Albertine. – ʻAnche in letteraturaʼ. E, ripensando alla monotonia delle opere di Vinteuil, spiegavo ad Albertine che i grandi scrittori non hanno mai fatto che 143

una sola opera o, meglio, rifranto attraverso mezzi diversi una medesima bellezza chʼessi recano al mondo” (P, 795). Lʼopera: “Felice chi ha incontrato quella [la verità] prima di questa [la morte], chi ha sentito suonare (a sonné), per vicina che lʼuna debba essere allʼaltra, lʼora della verità prima dellʼora della morte” (TR, 910; 595). E qui ritorna il “suonare” dellʼora fatale. Funesta non è la morte ma la perdita della verità; della “vera vita”: “[...] la grandezza dellʼarte vera (la grandeur de lʼart véritable) [...] era [...] di farci conoscere quella realtà che rischieremmo di morire senza aver conosciuta e che, è, molto semplicemente, la nostra vita (notre vie). La vera vita (la vraie vie), la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura” (TR, 895; 577; Kafka). “Io dico che è legge crudele dellʼarte che gli esseri muoiano e che noi stessi moriamo, dando fondo a tutte le sofferenze, perché spunti lʼerba non dellʼoblio (non de lʼoubli) ma della vita eterna (mais de la vie éternelle), lʼerba rigogliosa delle opere feconde, su cui le generazioni verranno a fare allegramente (gaîment), senza preoccuparsi di chi dorme sotto, il loro ʻdéjeuner sur lʼherbeʼ” (TR, p. 1038; 749). La vera vita, lʼopera, nata dallʼoblio (del quale abbiamo tessuto le lodi nella prima parte), fa rigogliosa la vita eterna. Consideriamo questo passo: “E poiché, malgrado tutto, cʼera ancora una certa somiglianza fra il potente principe dʼora e il ritratto serbato dal mio ricordo, ammiravo la forza di rinnovamento originale del Tempo che, pur rispettando lʼunità dellʼessere e le leggi della vita, sa cambiare così la scena, introducendo arditi contrasti in due aspetti successivi dʼun medesimo personaggio (aspects successif dʼun même personnage)” (TR, 935; 424). Gli aspetti successivi dʼun medesimo personaggio corrispondono a due diversi personaggi... Abbiamo già parlato dei diversi “io”; il Narratore sa che è morto già diverse volte; la memoria involontaria gli ha dimostrato che il suo potere è di provocare delle “resurrezioni”... È necessario fare a questo punto quel che ha fatto il Narratore: fin dallʼesperienza delle madeleines... dei tre alberi visti scendendo verso Hudimesnil... il Narratore ha capito lʼessenziale del meccanismo della memoria involontaria: je fais le vide devant lui, je remets en face de lui la saveur ancore récente de cette première gorgée et je sens tressaillir en moi quelque chose qui se déplace (SW, 46)... mon esprit ayant trébuché entre quelque année lointaine et le moment présent.... (OF, 717). 144

Ecco i termini: farsi prendere dallo spostamento del sapore recente verso chissà dove... verso un ulteriore... tentennare tra un anno lontano e un momento presente... Lʼesperienza della memoria involontaria è esperienza del vacillare. Del vacillare tra presente e passato? No! Questa è una delle vulgate più povere. Del vacillare tra la vita e la morte? No! Sì, del vacillare tra la vita non vera e quella vera: lʼapprodo a questʼultima è lʼœuvre. Sui trampolini del Tempo (non del presente né del passato) si dà unʼesperienza mostruosa ma salutare (curativa); quella che sconfigge lʼangoscia per la perdita (i baci della buonanotte); ma non ispirando una fede incrollabile in chissà che cosa (la vera fede); 171 ma facendo perdere e insieme acquistare, acquistare e insieme perdere, passato e presente (nemmeno si parla del futuro). Perché il tentennare si radicalizza. Non è alla ricerca di chissà che cosa. È la scoperta dellʼessenza dei trampoli. Dellʼeterno. Il tempo ritrovato è quello che si esperimenta nel vacillare. Non correndo alla finestra (da Combray, a Balbec, a Parigi...); o su è giù per un corridoio (idem). Alla ricerca di un bacio, di un abbraccio... Perché la morte è diventata una sorella; che cura e che guarisce. Guarisce dalla paura che il tempo passi (e noi con lui). Dallʼalto dei trampoli, è possibile in uno sguardo panoramico capace di cogliere il passare, lʼessere presente, il protendersi verso il futuro; nella loro lʼessenza...

171 “È questa lʼultima analogia tra lʼarte e la critica, forse la più importante: il loro comune potere di resistere al tempo e alla morte non – come la magia o la religione – con la certezza della vittoria, ma con quella fiducia trepida che si esprime nello sguardo delle cose destate per la prima volta alla vita dallʼattenzione disinteressata, non violenta, tenera dellʼuomo” (Mariolina Bongiovanni Berini, Introduzione a Scritti mondani e letterari, Einaudi, 1971, pp. XLIV-XLV). “A sinistra cʼera un villaggio che si chiamava Champieu (Campus Pagani, secondo il curato). Sulla destra, al di là delle messi, si scorgevano i due campanili (deux clochers) rustici e cesellati (ciselés etrustiques) di Sant-André-des Champs, sfilacciati (effilés) essi stessi, scagliosi, embricati dʼalveoli, bulinati, biondeggianti e grumosi (écailleux, imbriqués dʼalvéoles, guillochés, jaunissants et grumeleux) come due spighe” (SW, 146 177-1789). 145

Ma fuori dal sic transit gloria mundi. Al di fuori, cioè dalla prospettiva di un ¶sxaton. Sembra che glorioso (meglio: curativo) sia non il mondo che passa, né quello che arriverà ed è atteso; ma quello breve e fragile in cima ai trampoli. In cima ai campanili.

3) Di nuovo dismisura e misura

Ripercorriamo questo cammino a partire da un passo già citato: “Ora, la ricreazione tramite la memoria di impressioni che sarebbe stato necessario approfondire, che poi bisognava chiarire, trasformare in equivalenti dellʼintelligenza (or la recréation par la mémoire dʼimpressions quʼil fallait ensuite approfondir, éclairer, transformer en équivalents dʼintelligence), non era forse una delle condizioni, quasi lʼessenza stessa dellʼopera dʼarte quale lʼavevo concepita poco fa nella biblioteca?” (TR, 1044; 755-755).172 Ma quel che nel corso della matinée il Narratore scopre, è la morte anche fisica degli eroi del suo romanzo e di se stesso. Tutta qua la differenza? E vi par poco? Una cosa è, infatti, per il Narratore, parlare di aprés-coup...173 che sono avvenuti nel corso della sua vita. Altra cosa è sperimentare, sulla scena della matinée in cui recitano solo dei cadaveri ambulanti, che agli “io” morti si accompagnano anche dei “corpi” morti; e, tra questi, il proprio. Si tratta come di una sanzione più definitiva.

172 “Ciò che chiamiamo la realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente [...], unico rapporto che lo scrittore deve trovare per incatenare per sempre (à jamais) lʼuno allʼaltro, nella sua frase, i due diversi termini. Si possono elencare di seguito quanto si vuole, in una descrizione, gli oggetti che figuravano nel luogo descritto: la verità comincerà solo nel momento in cui lo scrittore prenderà due oggetti diversi, ne porrà il rapporto, analogo a quello dellʼarte e quello della scienza, e li fisserà con gli indispensabili anelli del bello stile. Anzi, quando, come la vita (ainsi que la vie), avvicinando una qualità comune alle due sensazioni, egli ricaverà la loro essenza comune, riunendole entrambe, per sottrarle alle contingenze del tempo, in una metafora” (TR, 889; 750). 173 Considerando solo Il tempo ritrovato, le ricorrenze della formula après-coup si bilanciano con quelle rétrospettive o rétrospectivement: a posteriori = après-coup (pp. 487, 502, 1507; 85, 104, 510)... in un secondo momento = après-coup (p. 975; 674); retrospettiva = rétrospective (p. 487; 86); retrospettivamente = rétrospectivement (p. 484, 511, 564, 642, 1007; 82, 115, 178, 273, 711); a priori = à priori (p. 556; 169). Una sola volta: “solo in un secondo tempo” = après-coup (p. 975; 674). 146

È la scoperta “crudele” della altrui morte e, soprattutto, della propria, che produce nel Narratore la “decisione”: “E adesso capivo (je comprenais) cosa fosse la vecchiaia [...]. La crudele scoperta che avevo appena fatto non avrebbe potuto non servirmi, certo, per quanto concerne la materia stessa del mio libro. Poiché avevo deciso (jʼavais décidé) che essa non poteva essere costituita soltanto dalle impressioni veramente piene, quelle che situate al di fuori del tempo (en dehors du temps), fra le verità con le quali contavo di incastonarle, quelle che si riferiscono al tempo, al tempo in cui sono immersi e cambiano gli uomini, le società, le nazioni, avrebbero avuto un posto importante” (TR, p. 932; 621). Proprio così; non basta cogliere le impressioni véritablement pleines – tutte le esperienze di memoria involontaria che hanno preceduto la matinée hanno implicato solo una parte del processo creativo, del processo che porta alla “vera vita” –; bisogna collocarle nella prospettiva effimera del tempo (veramente effimero). Il Narratore è preso da stanchezza e sgomento: “sente”, capisce: “tutto quel tempo così lungo – non solo era stato senza una sola interruzione, vissuto, pensato, secreto da me, non solo era la mia vita, non solo era me stesso, – ma anche che dovevo tenerlo ogni minuto (toute minute) attaccato a me, che mi faceva da sostegno, a me che, appollaiato sulla sua sommità vertiginosa, non potevo muovermi senza spostarlo.174 – La data in cui sentivo il rumore della campanella del giardino (le bruit de la sonnette du jardin) di Combray, così lontana eppure interiore (si distant et pourtant intérieur), era un punto di riferimento (un point de repère) in quella dimensione enorme che non sapevo di possedere. Avevo le vertigini vedendo sotto di me, eppure in me, come se la mia altezza fosse di leghe, un tale numero di anni” (TR, 1047; 760). Per quanto tempo riuscirà il Narratore a rimanere attaccato a quella sommità? Fin quando saprà spingersi “lʼimmenso desiderio di conoscere la vita” provato un tempo sulle strade di Balbec” (AS, 165). Nel frattempo, straordinario!, la notte “la più dolce e la più triste” della sua vita,175 quella compendiata nel bruit de la sonnette du jardin di Combray, rimane “lontana” ma diventa “interiore”.

174 Togliere: “come potevo invece fare con lui”. 175 “Ma era piuttosto della storia della mia propria vita, ossia non da semplice curioso, che lʼavrei trovata [la bellezza del libro]; e collegandola, più spesso che 147

Il Narratore ha “incorporato (incorporée)” (TR,1056; 759) il tempo; ne ha, cioè, avuta una visione piena. E che cosa succede? Che il non misurabile diventa misurabile ma solo paradossalmente: il Narratore si spaventa di nuovo: del fatto che, come il duca di Guermantes che ha visto vacillante su gambe malferme, è appollaiato su “viventi trampoli, più alti di campanili”. Quanto sono alti i trampoli? Quanto è lungo il tempo passato e quanto quello che ancora deve e può passare? Il Narratore, per la prima volta riconosce la misurabilità del tempo; tra parentesi: “(Era per questo che il volto degli uomini dʼuna certa età era così impossibile confonderlo, anche per gli occhi dei più ignari, con quello dʼun giovane, e non appariva che attraverso una sorta di nuvola di serietà?)”... Ma, essendo il tempo infinito lʼunica misura è la “dismisura”: se al Narratore rimarrà il tempo di “compiere (accomplir)” la sua “opera (œuvre)”, quella di descrivere gli uomini, “a costo di farli sembrare mostruosi” come occupanti “un posto [...] prolungato a dismisura (une place [...] prolongée sans mesure)”. E il tempo è infinito non perché non finisce mai; ma perché, allo sguardo acuto del Narratore, appare, dans lʼespace dʼun matin, di un frammento della sua opera, “eterno”. “Eterno” è il tempo infinito quando sboccia “dentro” il Narratore... Ricordate lʼincipit del lungo paragrafo: “Certo, ci sono molti errori dei nostri sensi [...]” (TR, 557). Seguono due pagine; tra lʼaltro: “E anche se non avessi avuto modo di preparare [...] le cento maschere che conviene applicare a uno stesso viso, a seconda almeno degli occhi che lo vedono e del senso in cui ne leggono i tratti e, per gli stessi occhi, a seconda della speranza o del timore o, al contrario, dellʼamore e dellʼabitudine che nascondono per trentʼanni i cambiamenti dellʼetà, insomma, non mi fossi proposto [...] di rappresentare certe persone non al di fuori, ma al di dentro di noi (pas au dehors mais au dedans de nous), là dove un loro minimo gesto può provocare turbamenti mortali [...]” (TR, 1045-1046; 757- 758). allʼesemplare materiale, allʼopera, come a quel François le Champi contemplato per la prima volta nella mia cameretta di Cambray, durante la notte più dolce e più triste, forse, della mia vita (pendant la nuit peut-être la plus douce et la plus triste de ma vie), quando avevo, ahimè! (in un periodo in cui i misteriosi Guermantes mi sembravano tanto inaccessibili), ottenuto dai miei genitori una prima abdicazione dalla quale potevo far datare il declino della mia salute e della mia volontà, la mia rinuncia ogni giorno più grave a un compito difficile – e ritrovavo oggi nella biblioteca dei Guermantes [...]” TR, 886-887; 567). 148

Il difficile è misurare il tempo che passa, il suo passare, dentro di noi... Ma: “Dʼaltronde, che noi occupiamo un posto in continua crescita nel Tempo, tutti lo sentono, e questa universalità non poteva non rallegrarmi poiché era la verità, la verità sospettata da ciascuno, che io dovevo sforzarmi di chiarire. Non solo tutti sentono che occupiamo un posto nel Tempo, ma questo posto anche i più semplici sono in grado di misurarlo approssimativamente (le plus simple la mesure approximativement) così come misurerebbero (comme il mesurerait) quello che occupiamo nello spazio, dal momento che anche una persona non particolarmente perspicace, vedendo due uomini che non conosce, tutti e due con i baffi neri o tutti e due rasati, dice che sono due uomini lʼuno dʼuna ventina, lʼaltro dʼuna quarantina dʼanni. Spesso ci si sbaglia, certo, in questa valutazione, ma il fatto stesso che si ritenga di poterla fare significa che si concepisce lʼetà come qualcosa di misurabile (comme quelque chose de mesurable). Al secondo uomo con i baffi neri si sono effettivamente aggiunti ventʼanni di più” (TR, 1046; 768-759). È probabile che, rileggendole, Proust avrebbe limato qua e là queste pagine. Quel che possiamo dire è quanto segue: è difficile, quasi impossibile, misurare; a causa del quoziente personale che interferisce; ma una misura sembra, anche se approssimativa, possibile a proposito dellʼinvecchiamento: si distingue un uomo di quarantʼanni da uno di venti... Ma abbiamo visto il Narratore, nel corso della matinée, aggrapparsi al nero del suoi baffi (TR, 620), al nero dei suoi capelli neri (TR, 750), allo scopo di dimostrarsi di non essere, come tutti gli altri, anche lui un cadavere ambulante... Possiamo ipotizzare che la misura più clamorosa è quella dellʼinvecchiamento; tutti sembrano riuscire, almeno approssimativamente, a orientarsi; ma è proprio lʼetà ad essere la meno misurabile; proprio perché essa, quando viene messa al centro della nostra attenzione così come essa lo è stata al centro dellʼattenzione del Narratore nel corso della matinée, rivela la sua “dismisura”.

3) Je lui pardonnai

Facciamo un decisivo passo avanti; facendo un passo allʼindietro. Abbiamo già capito che la conclusione dellʼopera è contenuta nel suo inizio; il Narratore deve cogliere “al volo” il 149

meccanismo... Unʼanticipazione straordinaria è in Albertine scomparsa: il Narratore, sempre trascinato nelle infinite escalation del desiderio mimetico (vedi il cap. 11: La dialectique de la curiosité et de lʼindifférence. Negazione e desiderio mimetico), riesce a perdonare; interrompendo così lʼescalation nellʼunico modo possibile (Girard): “Per persuadermi della sua innocenza [di Albertine] mi bastava baciarla (il me suffisait de lʼembrasser), e potevo farlo adesso chʼera caduto il muro che ci separava, simile a quello impalpabile e resistente che dopo un litigio sʼinnalza fra due innamorati e contro cui si infrangerebbero i loro baci (contre laquelle se briseraient les baisers). No, non aveva bisogno di dirmi niente. Avesse fatto pure, povera piccina, quel che aveva voluto: cʼerano sentimenti nei quali potevamo unirci al di sopra di quanto ci divideva. Se la storia era vera, e se Albertine mi aveva nascosto i suoi gusti [verso le donne], era stato per non farmi soffrire. Ebbi la dolcezza di sentirglielo dire, a quella Albertine. Dʼaltronde, ne avevo mai conosciuto unʼaltra? Nei nostri rapporti con un altro essere, le maggiori cause dʼerrore sono che noi abbiamo buon cuore oppure che, quellʼessere, lo amiamo. Si ama per un sorriso, per uno sguardo, per una spalla. È quanto basta; nelle lunghe ore di speranza o di tristezza si fabbrica allora una persona, si compone un carattere. E quando, più tardi, si frequenta la persona amata, non si può, a qualsiasi crudele realtà si sia messi di fronte, togliere quel carattere buono, quella natura di donna che ci ama, allʼessere cui appartengono quel certo sguardo, quella certa spalla, più di quanto possiamo toglierla, quando invecchia (quand elle vieillit), a una persona che conosciamo fin dalla giovinezza (depuis sa jeunesse). Evocai lo sguardo bello, così buono e compassionevole, di quella Albertine, le sue grosse guance, il suo collo dalla grana larga. Era lʼimmagine di una morta; ma, poiché quella morta viveva, mi fu facile fare immediatamente ciò che avrei infallibilmente fatto se mi fosse stata accanto in vita (e che farei se mai dovessi ritrovarla in unʼaltra vita): la perdonai (je lui pardonnai)” (AS, 530-531; 138). Straordinario questo perdono; che interrompe ogni escalation, anche solo immaginaria. E che si consuma di fronte allʼinvecchiare di qualcuno che conosciamo dalla sua giovinezza (ed è forse morto). Il tempo passato con costui (qui: costei) diventa “perdonabile” perchʼegli (ella) viene sbalzato dal tempo nellʼeternità (nel profondo di noi). 150

Cap. 8

CE RETOUR À LʼINANALYSÉ

[...] je ne dissimule pas que ce nʼest pas un sujet “curant” et jʼai trouvé plus loyal de vous le dire; plus prudent aussi car est certainement la dernière que jʼécrirai et où jʼai tâché de fair tenir ma philosophie de résonner toute ma “musique” [...]176

“Si je me permets de raisonner ainsi sur mon livre, poursuit M. Marcel Proust, cʼest quʼil nʼest à aucun degré une œuvre de raisonnement, cʼest que ses moindres éléments mʼont été fournis par ma sensibilité, que je les ai dʼabord aperçus au fond de moi-même, sans les comprendre, ayant autant de peine à les convertir en quelque chose dʼintelligible que sʼils avaient été aussi étrangers au monde de lʼintelligence que, comment dire? un motif musical”. 177

Cerchiamo di cogliere i movimenti del pezzo suonato da Proust ne La prigioniera sulla partitura della sonata e del settimino di Venteuil. Sì, perché di musica si tratta. “Come quando, in un paese che non crediamo di conoscere (dans un pays quʼon ne croit pas connaître) e al quale, in effetti, ci siamo accostati da una parte diversa, di colpo (tout dʼun coup), dopo la svolta dʼun sentiero, ci troviamo ad imboccarne un altro di cui ogni

176 Dalla presentazione che Proust fa del romanzo che vuole pubblicare a Eugène Fasquelle (lʼeditore) il 28 ottobre 1912 (CORR, XI, 256-257). 177 Intervista a Élie-Joseph Bois, Le temps, 12.11.1913, in Textes retrouvés, Gallimard, 1971, p. 290. (Sulle vicissitudini di questa intervista redatta dallo stesso Proust, vedi, di Henri Bonnet, Marcel Proust de 1907 à 1914. Essai de biographie critique, Librairie Nizet, Paris, 1959, pp. 121-122, 144-145). “Flaubert fu il primo a sbarazzarsi dal parassitismo degli aneddoti e dalle scorie della storia. Fu il primo a metterli in musica (il les met en musique)” (EA, 595; 548). “Per la sua opera Proust ha composto, se si può dire così, la propria musica: è la sonata per violino e piano e il settimino di Vinteuil” (Curtius, op. cit., p. 38). “Forse Proust è stato il primo tra i grandi artisti moderni, a scrivere con le parole alcune partiture musicali” (Debenedetti, Rileggere Proust, 1922-1966, Mondadori, Milano, 1982, p. 204). Leggere La musica in Proust, di Luigi Magnani (Einaudi, Torino, 1978). Se si esclude la “Premessa”, decisivo. 151

minimo tratto ci è familiare ma che, semplicemente, non eravamo abituati (on nʼavait pas lʼhabitude) a prendere da quel lato, e tuttʼa un tratto (tout dʼun coup) pensiamo: ʻMa è il sentiero che conduce al cancelletto del giardino dei miei amici ÚÚÚ (mais cʼest le petit chemin qui mène à la petite porte du jardin de mes amis ÚÚÚ), che conduce a due minuti da casa loroʼ; e, in effetti, la figlia dei padroni di casa è lì, venuta a salutarci al passaggio; così, tuttʼa un tratto (tout dʼun coup), io mi riconobbi, nel mezzo di quella musica nuova per me (au milieu de cette musique nouvelle pour moi), in piena sonata di Vinteuil; e, più meravigliosa di unʼadolescente, la piccola frase, avvolta, bardata dʼargento, tutta grondante di sonorità brillanti, leggere e dolci come sciarpe di velo (enveloppée, harnachée dʼargent, toute ruisselante de sonorités brillantes, légères et douces comme des écharpes), venne a me, riconoscibile sotto quelle vesti novelle (sous ce parures nouvelles). La mia gioia dʼaverla ritrovata (ma joie de lʼavoir retrouvée) [...]” (P, 249; 656-657). Sul limitare di queste pagine straordinarie, ricorrenze di alcuni Leitmotif: (1) lʼincalzante tout dʼun coup; (2) il paese conosciuto da cui nessuno è ritornato (Shakespeare); (3) la petite porte du jardin de mes amis. La piccola frase, nota, si presenta “da un lato” sconosciuto. Lʼaggettivazione della musica “nouvelle”: enveloppée, harnachée dʼargent, toute ruisselante de sonorités brillantes, légères et douces comme des écharpes. Vedremo che la musica nuova, il nuovo, si presenta con una sonorità più schietta. Così come più schietta si presenta al Narratore la sonorità del campanello del grelot di Cambray in sede di “ritrovamento”. Diamo subito un senso alla “sonorità” maggiore... Abbiamo rilevato la sonorità schietta che, nel Tempo ritrovato, annuncia lʼarrivo di Swann; abbiamo rilevato chʼessa eguaglia la sonorità invadente e volgare del non scampanellare, in Du côté chez Swann, dei familiari... solo supposti non stranieri... E abbiamo ipotizzato che, nel Tempo ritrovato, lo straniero ritorni, come straniero – vedi il “paese straniero”, il “paese non conosciuto” –, come unheimlich; ma che il “ritorno” qui coincida col “ritrovamento”; da cui lʼaccento di trionfo... nella aumentata sonorità... Ebbene, qui, ne La prigioniera, lʼaccento di trionfo – in cui confluisce la gioia del ritrovamento insieme con la crudezza del ritrovato –, è sistematico. “Appena ricordata [la piccola frase], disparve, e mi ritrovai in un mondo ignoto [...]. Quello che stava davanti a me mi faceva provare 152

tanta gioia quanta me ne avrebbe data la Sonata se non lʼavessi conosciuta; era dunque, essendo altrettanto bella, altra cosa (en étant aussi beau, était autre)” (P, 249-250; 657): fondamentale è la novità dello sguardo (qui dellʼorecchio). La “nuova opera” comincia “in mezzo a un acre silenzio, in un vuoto infinito [...] in un rosa aurorale”: “Mentre la Sonata si apriva su unʼalba liliale e campestre (liliale et campêtre), dividendo il suo candore leggero ma sospendendosi sullʼintrico lieve eppure consistente dʼun pergolato rustico (rustique) di caprifoglio sopra gerani bianchi, era su superfici uniformi e piane come quelle del mare che, in un mattino di tempesta, cominciava, in mezzo a un acre silenzio, in un vuoto infinito, la nuova opera, ed era in un rosa aurorale che, per costruirsi progressivamente davanti a me, quellʼuniverso ignoto veniva estratto dal silenzio e dalla notte” (P, 250; 657). Di seguito: “Quel rosso così nuovo, assente nella tenera, campestre e candida (tendre, champêtre et candide) Sonata, tingeva tutto il cielo, come lʼaurora, dʼuna speranza misteriosa. E già un canto lacerava lʼaria (perçait [...] lʼair), un canto di sette note, ma così strano, così diverso da tutto quanto avessi mai immaginato, al tempo stesso ineffabile e chiassoso (à la fois ineffable et criard), non più gemito di colomba (non plus roucoulement de colombe) come nella Sonata, ma squarciante lʼaria (déchirant lʼair), vivo come la tinta scarlatta in cui era immerso lʼinizio, qualcosa come un mistico canto del gallo, un richiamo, ineffabile ma sopracuto, dellʼeterno mattino (ineffable mais suraigu del lʼéternel matin)” (P, 250; 657-658).178 Appare chiara lʼaumentata sonorità... Segnaliamo lʼaccoppiamento ineffable et criard // ineffable mais suraigu (“criard”, in Du côté... è il “grelot” aperto dai familiari stranieri- nemici): lʼ“eterno” si affaccia sulla scena come novità assoluta. Bellissima ma terribile. Il canto del gallo richiama alla mente, insieme, il tradimento di Pietro e la salvezza del Cristo. Lʼatmosfera “fredda, lavata di pioggia, elettrica” cambiava ad ogni istante “cancellando la promessa purpurea dellʼaurora”: “A mezzogiorno, tuttavia (pourtant), in un trionfo ardente e passeggero di sole (dans un ensoleillement brülant et passeger), questa

178 A proposito delle cloches, di Combray, esse riappaiono il giorno in cui rivivono nel septuor di Vinteuil. E Luc Fraisse segnala che non si presta attenzione al fatto che la tonalità generale del septuor è ispirata dallʼimmagine delle “cloches qui, avant dʼapparaître, sont annoncées par un ʻchant [...] criardʼ, ʻdéchirant lʼaitʼ qui ʻperçait déjà, ʻun appel [...] suraigu de lʼéternel matin, ʻun mystique chant du coqʼ [...] (Lʼœuvre cathédrale, Corti, Parigi, 1990, p. 163). 153

sembrava compiersi in una felicità greve, paesana e quasi rustica bonheur lourd, villageois et presque rustique), dove il vacillare di campane scatenate e squillanti (où la titubation de cloches retentissants et déchaînées) (simili a quelle che incendiavano di calore la piazza della chiesa di Cambray, e che Vinteuil, che tante volte doveva averle sentite, aveva forse colte in quelʼattimo nella sua memoria come un colore che si abbia a portata di mano su una tavolozza) sembrava materializzare la più spessa delle gioie. A dire il verro, esteticamente quel motivo gioioso non mi piaceva, lo trovavo quasi brutto, il suo ritmo si trascinava così faticosamente a terra (sʼen traînait si péniblement à terre) che si sarebbe potuto imitarne quasi tutto lʼessenziale con semplici rumori, battendo in un certo modo le bacchette su un tavolo” (P, 250; 658). Finisce così il primo “movimento” (o la “presentazione” del motivo)... evidentemente della partitura proustiana. (Come vedrete, non riusciremo a illustrare tutti i movimenti)... ensoleillement brülant et passeger // bonheur lourd, villageois et presque rustique // titubation de cloches retentissants et déchaînées... La festosità dello scampanio – che compete, per vincere, col canto del gallo – è solo un segno bruciante e passeggero di una felicità greve (lourd)... Infatti, si trascina per terra... Altro che voli... Si capisce che al Narratore non piaccia. Gli sembra addirittura “brutta”. Ma “il motivo trionfante delle campane (le motif triomphant des cloches) viene cacciato e disperso da altri”... Il trionfo delle campane richiama il frastuono inutile dei familiari di Cambray... Saltiamo alcune pagine (circa quattro): “La gioia suscitata in lui [in Vinteuil] da certe sonorità, la moltiplicazione di forze chʼegli ne aveva tratta per trovarne di nuove, trascinavano ancora lʼascoltatore di scoperta in scoperta; o meglio, era lo stesso creatore a trascinarlo, attingendo dai colori appena trovati una gioia immensa che gli dava la forza di scoprire, di gettarsi su quello chʼessi sembravano invocare, estasiato, trasalendo come allʼurto dʼuna scintilla quando il sublime scaturiva spontaneo dallʼintersezione dei ʻfiatiʼ, ansimante, ebbro, sconvolto, vertiginoso nellʼatto di dipingere il suo grande affresco musicale come Michelangelo quando, appeso a testa in giù alla sua scala, scagliava tumultuosi colpi di pennello sulla volta della Cappella Sistina. Vinteuil era morto da parecchi anni (Vinteuil était mort depuis nombre dʼannées); ma, in mezzo a questi strumenti che aveva amati, gli era stato concesso di continuare, per un tempo illimitato, una parte almeno della sua vita. Della sua vita dʼuomo, 154

soltanto (de sa vie dʼhomme seulement)? Se lʼarte non era davvero che un prolungamento della vita, valeva la pena di sacrificarle qualcosa? Non era, lʼarte, irreale quanto la vita stessa?” (P, 254-255; 662-663). Vinteuil è morto da anni. Ricordate: Combray è morta. Immediato lʼinterrogativo: morta per sempre? Qui, addirittura: nella sua vita dʼuomo, soltanto? Risposta: “Ascoltando meglio quel Settimino, non mi era possibile pensarlo”. Perché? “Il rosseggiante Settimino differiva singolarmente, non cʼera dubbio, dalla bianca Sonata; la timida interrogazione (la timide interrogation), cui rispondeva la piccola frase (la petite phrase), dalla supplica anelante (de la supplication haletante) per lʼadempimento della stana (étrange) promessa chʼera risuonata così acre, così sovrannaturale, così breve (qui avait retenti, si aigre, si surnaturelle, si brève), facendo vibrare lʼancora inerte rossore del cielo mattutino al di sopra del mare” (P, 255; 663). Qui lʼinterrogazione (della piccola frase) è “timide”; la supplica dei “primi gridi dʼaurora (premiers cris dʼaurore)” (P, 253; 661) è “haletante”... Ricordate i “coups hésitants de la clochette” che dicono lʼarrivo di Swann... Nella Prigioniera le due sonorità sfumano lʼuna nellʼaltra? “Eppure, quelle frasi tanto diverse erano fatte degli stessi elementi [...]. La musica di Vinteuil stendeva, nota dopo nota, tocco dopo tocco, le colorazioni ignote, inestimabili, di un universo insospettato, frammentato dalle lacune che separavano i successivi ascolti della sua opera; le due interrogazioni così dissimili che dominavano il movimento della Sonata e quello così diverso del Settimino, lʼuna spezzando in brevi richiami (brisant en courts appels) una linea continua e pura, lʼaltra rinsaldando dentro unʼarmatura indivisibile degli sparsi frammenti, lʼuna così calma e timida (si calme et timide), quasi distaccata e come filosofica (presque détachée et comme philosophique), lʼaltra così pressante, ansiosa, implorante (si pressante, anxieuse, implorante), erano tuttavia unʼunica preghiera, sgorgata davanti a differenti albe interiori, pur essendosi rifratta attraverso i differenti ambiti di pensieri altri, di ricerche dʼarte via via progredite nel corso di anni durante i quali il compositore sʼera sforzato di creare qualcosa di nuovo” (P, 255; 663). Semplificando: i musicologi possono scovare “col ragionamento” somiglianze che sono “esteriori” piuttosto che “sentite 155

con lʼimpressione diretta”. Quando Vienteuil “recuperava, a varie riprese, la stessa frase, la variava, si divertiva a cambiarne il ritmo, a farla riapparire nella sua forma primitiva, tali somiglianze, volute (voulues), opera dellʼintelligenza, forzatamente superficiali, non arrivavano mai ad essere impressionanti quanto le somiglianze dissimulate, involontarie (involontaires), che prorompevano sotto colori diversi da due distinti capolavori; perché Vinteuil, nella sua potente ricerca del nuovo, interrogava allora se stesso, attingeva con tutta la potenza del suo sforzo creativo la sua propria essenza (sa propre essence) a profondità dove, qualunque sia la domanda, è con lo stesso accento, il suo, chʼessa risponde” (P, 256; 664). Quindi: anche il creatore ricorre allʼintelligenza oltre che allʼimpressione... Ma è lʼ“involontario” che porta allʼ“essenza”. Con quel che segue il Narratore vuole dirci che lʼartista abita nel paese straniero (Shakespeare); e che questo paese è, però, una patria sconosciuta (un-heimlich = heimlich)... “Ogni artista è come il cittadino dʼuna patria sconosciuta (dʼune patrie inconnue), da lui stesso obliata, diversa da quella da cui verrà, salpando alla volta della Terra, un altro grande artista. Tuttʼal più. A quella patria Vinteuil sembrava, nelle sue ultime opere, essersi avvicinato. Lʼatmosfera, in esse, non era più la stessa che nella Sonata, le frasi interrogative vi si facevano più pressanti, più inquiete, le risposte più misteriose; lʼaria dilavata del mattino e della sera sembrava influire persino sulle corde degli strumenti. [...] i suoni [...] mi parvero singolarmente penetranti, quasi striduli (presque criards). Era unʼasprezza (acrêté) affascinante e, come in certe voci, vi si coglieva una sorta di qualità morale e di superiorità intellettuale. Ma poteva urtare (mais cela pouvait choquer). Quando la visione dellʼuniverso si modifica, si depura, diventa più adeguata al ricordo della patria interiore (de la patrie intérieure), è naturale che questo si traduca in unʼalterazione delle sonorità nel musicista, come nel colore nel pittore” (P, 257; 665). Quindi: entrambe le sonorità (Sonata e Settimino) sono gradi di avvicinamento allʼessenza; quella del Settimino è più prossima allʼessenza, quindi più “criarde”. La “patria perduta (perdue)”, i musicisti “non se la ricordano”; ma ciascuno di essi, “sempre inconsapevolmente”, rimane “accordato in un cero unisono (en un certain unisson) con lei”... Si tratta di un “unisson” diverso da quello che incontreremo in Jean Santeuil (vedi cap. 13); qui non cʼè unʼaderenza al reale, una individuazione precisa del medesimo; cʼè, di esso, una creazione: “Lʼunico vero viaggio, il solo bagno di Giovinezza (le seul bain de 156

Jouvence), non consisterebbe nellʼandare verso nuovi paesaggi, ma nellʼavere altri occhi, nel vedere lʼuniverso con gli occhi di un altro, di cento altri, nel vedere i cento universi che ciascuno di essi vede, che ciascuno di essi è (que chacun dʼeux est) [...]” (P, 258; 666). E a questo punto – anche se saltiamo una pagina – si colloca un passaggio straordinario: “Ma che cosʼerano le parole – che, come ogni esteriore parola umana, mi lasciavano affatto indifferente – rispetto alla celeste frase musicale con la quale mi ero appena intrattenuto? [...]. E come certi esseri sono gli ultimi testimoni dʼuna forma di vita che la natura ha abbandonata, mi chiedevo se la musica non fosse lʼesempio unico di ciò che sarebbe potuta essere – se non vi fossero state lʼinvenzione del linguaggio, la formazione delle parole, lʼanalisi delle idee (lʼanalyse des idées) – la comunicazione delle anime. È, la musica, come una possibilità che non ha avuto seguito; lʼumanità ha imboccato altre strade, quella del linguaggio parlato e scritto. Ma quel ritorno al non analizzato (ce retour à lʼinanalysé) era così inebriante che, uscendo da quel paradiso, il contatto con esseri più o meno intelligenti mi sembrava assolutamente insignificante” (P, 258-259; 666-667). Penso che lo spostamento dei nostri “appunti”, da alcune considerazioni teoriche che pure restano cruciali, allʼanalisi delle sonorità di alcuni passi salienti dellʼœuvre, la dica lunga... Realizzi una sorta di “unisson” con Proust. A più riprese torna questa o quella frase, “ma mutata ogni volta [...] la stessa eppure diversa”: “Poi le frasi si allontanarono, tranne una che vidi ripassare sino a cinque, sei volte senza riuscire a scorgerne il volto, ma la cui voce era così carezzevole, così diversa (si caressante, si différente) – come lo era, probabilmente, la piccola frase della Sonata per Swann – da ogni desiderio che una donna avesse mai potuto suscitare, da fare di quella frase che mʼoffriva con tanta dolcezza una felicità cui si sarebbe dovuto davvero aspirare e che pure capivo tanto bene, la sola Sconosciuta, forse, che mi sia stato dato incontrare. Poi quella frase si disfece, si trasformò, come faceva la piccola frase della Sonata, e diventò il misterioso richiamo dellʼinizio. Le si oppose una frase dʼindole dolorosa, ma così profonda, così vaga, così interna, così – quasi – organica e viscerale (mais si profonde, si vague, si interne, presque si organique et viscérale) che, ogni volta, non si sapeva se le sue riprese fossero quelle di un tema o di una nevralgia” (P. 260; 668-669). Trasformazioni a non finire... Incontro con la Sconosciuta... Ritorno della ricchissima aggettivazione: mais si profonde, si vague, si interne, presque si organique et viscérale... 157

Ben presto fra i due motivi, una “lotta a corpo a corpo” e il Narratore è come uno “spettatore interiore incurante, a sua volta, di nomi e particolari e interessato a quel loro combattimento immateriale e dinamico di cui seguiva con passione le peripezie sonore” (P, 260; 669)... Quel che stiamo facendo noi... “Alla fine, fu il motivo gioioso a trionfare; non era più un richiamo quasi inquieto lanciato verso un cielo vuoto, era una gioia ineffabile (ineffable) che sembrava venire dal paradiso, una gioia tanto diversa da quella della Sonata quanto da un angelo dolce e grave di Bellini, suonatore di tiorba, potrebbe esserlo, avvolto in una veste scarlatta, un arcangelo di Mantegna intento a soffiare in una buccina. Sapevo che quella nuova sfumatura di gioia, quellʼappello ad una gioia ultraterrena (cet appel vers une joie supra-terrestre), non li avrei mai dimenticati. Ma sarebbe mai stata, una simile gioia, realizzabile per me?” (P, 260-261; 669). Ricordate il ricorrente interrogativo: sono un romanziere? La risposta, lo sappiamo ormai molto bene, avviene nella forma dellʼaccesso allʼextratemporale, allʼetraterrestre. In cui è detto il non-dicible (quellʼ“ineffable” che è ritornato tre o quattro volte). Sì, lʼineffabile è detto; detto musicalmente: la musica di Vinteuil meglio ancora: quella frase, “poteva caratterizzare nel migliore dei modi – come tagliando netto con tutto il resto della mia vita, con il mondo visibile – le impressioni chʼio ritrovavo nella mia esistenza, a larghi intervalli, come i punti di riferimento, le pietre angolari per la costruzione di una vita vera (les amorces pour la construction dʼune vie véritable) [...]” (P, 261; 669). Il Narratore è approdato allʼ“essenza”, alla “vita vera”... E lʼha fatto approfondendo quelle “impressioni” che, ad intervalli, ha avuto (ne fa un rapido elenco)... Sono tutte state impressioni relative a fatti di nessun rilievo... E anche adesso: chi è stato Vinteuil? Uno sconosciuto, un “triste, compìto piccolo borghese”; proprio così: “il presentimento più estraneo a ciò che assegna la vita terra-terra, lʼapprossimazione più ardita allʼesultanza dellʼal di là (lʼapproximation la plus hardie des allégresses de lʼau-delà)” sono venute da piccole frasi del piccolo Vinteuil. Il regno dei cieli è dei poveri; che hanno sete di giustizia... di vita vera. Seguono pagine straordinarie sulla connessione tra sacrilegio- adorazione-deciframento... Si tratta di pagine, come quasi tutte, autobiografiche... 158

È stata lʼamica di Mademoiselle Vinteuil, colei che ha spinto la figlia al sacrilegio, ad “estrarre” “da carte più illeggibili dei papiri punteggiati di scrittura cuneiforme la formula eternamente vera, infinitamente feconda di quella gioia ignota, la speranza mistica dellʼAngelo scarlatto del Mattino” (P, 261; 671). Ricordiamo che i brogliacci del Tempo ritrovato si intitolano “LʼAdoration perpétuelle” e “Bal de têtes”... Il primo dei due titoli suggeriva un parallelo tra il rito cattolico della perpetua adorazione della presenza nel Santo Sacramento e la scoperta dellʼindistruttibile verità del Tempo Ritrovato... E, da sempre, il corpo di Cristo – “mangiatene tutti” – è il bacio della madre: “[...] chinando sul mio letto il suo viso amoroso (sa figure aimante), protendendolo (lʼavait tendue) verso di me come unʼostia per una comunione di pace (comme une hostie pour une communion de paix) dalla quale le mie labbra avrebbero attinto la sua presenza reale (sa présence réelle) e il potere di addormentarmi” (SW, 13; 17-18)... Vi dirò la verità: tutta la faccenda del sacrilegio mi risulta fasulla. Che differenza cʼè tra il bacio che equivale ad unʼostia e lʼostia che equivale a un bacio? Non è sempre desiderio di “presenza reale”? E di “perpetuità”? 159

Cap. 9

EMBRASSER LE VISAGE

Questo è uno dei titoli che incontriamo nel Carnet de 1908 (C8, 56) e che Klob ritiene che corrisponda “au morceau où Proust donne une description si originale et charmante du baiser” (II, 363-365 = Le côté de Guermantes)” (Introduction, C8,14). Ecco il brano introdotto dal titolo “Pages écrites”: “Robert et le chevreau, Maman part en voyage. Le côté de Villebon et le côté de Méséglise. Le vice sceau et ouverture du visage. La déception quʼest une possession, embrasser le visage. Ma gd mère au giardin, le dîner de M. de Breteville, je monte, le visage de Maman alors et depuis dans mes rêves, je ne peux mʼendormir, concession etc. Les Castellane, les hortensias normands, les chatelains anglais, allemand: la petite fille de Louis-Philippe, Fantasie, le visage maternel dans un petit fils débauché. Ce que mʼont appris le côté de Villebon et le côté de Méséglise” (C8, 56). Come contrappeso: “oubliant son visage, je me jetais sur elle et ce furent de violentes caresses que je sentais apprises à elle par des bergers, et où jʼavais lʼimpression de ne plus être moi, dʼêtre un jeune paysan quʼune jeune paysanne plus hardie et déjà dessalée roule dans le foin” (AS, CA 36, 23, 24, 50; ES XVIII, 714). Vedi anche: “À cause de toutes les apparitions successives de visages différents quʼoffrait Mme de Guetmantes, visages occupant une étendue relative et variée tontôt étroite, tantôt vaste, dans lʼensemble de sa toilette, mon amour nʼétait pas attaché à telle ou telle de ces parties changeantes de chair et dʼéttoffe qui prenaient, selon les jours, la place des autres et quʼelle pouvait modificer et renouveler presque entièrement sans altérer mom trouble parce quʼà travers elles, à travers le nouveauu collet et la joue inconnue, je sentais que cʼétait toujours Mme de Guermantes. Ce que jʼaimais cʼétatit la personne invisible qui mettait en mouvement tout cela” (SG, 362).

Lettere a Reynaldo Hahn: 3 luglio 1896: “Seulement je serai bien content aussi, ah! mon cheri petit, bien bien content quand je pourrai vous embrasser, vous vraiment 160

la personne quʼavec Maman jʼaime le mieux au monde” (CORR, II, 88); 8 agosto 1896: “Mais si ma fantasie est absurde, cʼest une fantasie de malade, et quʼà cause de cela il ne faut contrarier” (CORR, II, 97); maggio 1912: “Mais je suis tellement fastiné après ma mauvaise nuit que je veux fumer vite pour tâcher de dormir, car jʼai besoin et besoin. Mais je nʼaurais pas pu mʼendormir sans vous avoir embrassé, sans vous avoir donné le baiser de Combray, jʼembrasse votre petite main mon Gunibuls” (CORR, XI, 39-40).

Lettera a Georges de Lauris, 7 ottobre 1908: “Vedervi è sempre una delizia [...]. Ciascuna delle vostre membra salvatesi miracolosamente [...]. Tutto il vostro corpo [...]. I vostri occhi soprattutto, che subitaneamente si abbuiano se qualcosa di triste vi passa nel cuore, ma al cui fondo con repentina ascensione si aprono squarci di azzurro, magnifiche schiarite: il vostro corpo tutto vorrei ora vedere e toccare, per avere troppo dimenticato che è la condizione indispensabile di quella spontaneità spirituale che è voi [...]. Mi sembra di avere fino a oggi troppo esclusivamente amato la vostra intelligenza e il vostro cuore, e proverei adesso una gioia pura ed esaltante, come il cristiano quando mangia il pane e beve il vino e canta venite ad oremus, recitando accanto a voi la litania delle vostre caviglie e le lodi dei vostri polsi (la litanie de vos chevilles et les louanges de vos poignets) (CORR, VIII, 239; LG, 907-908).

1) Incesto e sacrilegio

Abbiamo visto che la scena archetipica è quella del bacio della buonanotte dispensato dalla madre. Ora, in francese, baiser significa bacio; embrasser, usato molto spesso come equivalente, significa sia bacio che abbraccio; significa anche amplesso (vedi embrassement). Ad esempio, ne La prigioniera: “Ma lei, la sera, aveva continuato a baciarmi in quel modo (à mʼembrasser de la même manière), che mi rendeva furioso. [...]. E così, non avendo più da lei 161

le soddisfazioni carnali (le satisfactions charnelles) alle quali tenevo [...]” (P, 404; 826).179 In ogni caso spesso siamo sullʼorlo del sacrilegio (frequentissimo in Proust).180 Citiamo da Dalla parte di Swann: “La sola consolazione, quando salivo a coricarmi, era che la mamma (maman) sarebbe venuta a darmi un bacio (viendrait mʼembrasser) una volta che io fossi a letto. Ma quella buonanotte (ce bonsoir) durava così poco, lei ridiscendava così presto, che il momento in cui la sentivo salire, e poi nel corridoio (couloir) a doppia porta trascorreva il lieve fruscio della sua veste da giardino in mussola azzurra dalla quale pendevano dei cordoncini di paglia intrecciata, era per me un momento doloroso. [...]. A volte. Quando dopo avermi baciato (embrassé) apriva la porta per uscire, io desideravo richiamarla, dirle ʻdammi un altro bacio (embrasse-moi une fois encore)ʼ, ma [...]. Ora, vederla indispettita distruggeva tutta la calma (tout le calme) di cui mi aveva riempito per un istante prima chinando sul mio letto il suo viso amoroso (sa figure aimante), protendendolo (tendue) verso di me come unʼostia (comme une hostie) per una comunione di pace dalla quale le mie labbra avrebbero attinto la sua presenza reale e il potere di addormentarmi” (SW, 13; 17-18)... 181 In Albertine scomparsa: “cercava [la madre, a Venezia] di avvicinare il più possibile a me [il suo sguardo appassionato], di innalzare, sporgendo le labbra, in un sorriso che sembrava baciarmi (un sourire qui semblait mʼembrasser), entro la cornice e sotto il baldacchino del più discreto sorriso dellʼogiva [...]” (AS, 624; 251). La madre, lʼamante, la sorella etc. verranno poste sotto lo stesso segno; sarà solo lo sviluppo affettivo a creare dei “dipartimenti” – qui lʼ“emigrazione” –, delle “suddivisioni”; dipartimenti e suddivisioni che lʼansia, lʼangoscia, elimineranno. (La figura che

179 Lettera di Proust al nonno, Nathé Weil, del 17 maggio 1988; Proust chiede un soccorso economico per una disavventura in una maison de passe: “Mais 1° dans mon émotion jʼai cassé un vase de nuit, 3 francs 2° dans cette même émotion je nʼai pas pu baiser. [...]. il nʼarrive pas deux fois da la vie dʼêtre trop trouble pour pouvoir baiser” (CORR, XXI, 551). 180 Straordinario a questo proposito, di Georges Bataille, Proust in La littérature et le mal, 1957, in Œuvre complètes, Gallimard, Paris, vol. IX, 1979, pp. 259-261. Basta ricordare che la parte finale del Tempo ritrovato in origine si intitolava “Lʼadoration pérpetuelle”: questo titolo tracciava “un parallelo tra il rito cattolico della perpetua adorazione della presenza nel Santo Sacramento e la scoperta dellʼindistruttibile verità del Tempo Ritrovato, che inconsapevolmente il Narratore ha adorato per tutta la vita” (Painter, op. cit., p. 547). 181 In una nelle versioni del “drame du coucher”, la parola “hostie” ricorre quattro volte (C 8, ES XII, SW, 665-666); in unʼaltra tre (C8, ES XII, SW, 680). 162

abbiamo già incontrato, nel Tempo ritrovato, della sorella morte, porta a conclusione sia lʼagglutinamento in un solo sentimento angoscioso di ogni figura soggetta alla perdita, sia la ripartizione in sentimenti diversi, di amor filiale, sororale, dʼamante...). Vediamo intanto in Dalla parte di Swann: “E tuttavia [...] non riuscireste [...]: allo stesso modo che di sera, tornando a casa – nellʼora in cui si risvegliava in me lʼangoscia che più tardi emigra nellʼamore, e può divenirne inseparabile per tutta la vita –, non avrei desiderato che venisse a darmi la buona notte (me dire bonsoir) una mamma più bella e più intelligente della mia. No: come quel che mi era necessario per potermi addormentare felice – con quella pace senza turbamento che nessuna amante (aucune maîtresse) mi poté ispirare più tardi, poiché di loro si dubita sempre, anche nel momento in cui si presta loro fede, e non ci è dato mai di possedere il loro cuore come era dato a me ricevere in un bacio quello di mia madre, tutto (tout entier), senza la riserva dʼun pensiero nascosto, senza residuo dʼunʼintenzione non rivolta a me – era che fosse lei, che lei chinasse verso di me quel volto dove cʼera sotto lʼocchio qualcosa che sembra fosse un difetto, e che amavo come il resto [...]” (SW, 185; 225).

2) Lʼincomprensione della strada che porta “alla vera vita”, fa scadere la “creazione” a “creazione fittizia”.

Qui sotto richiamiamo, da A lʼombra delle fanciulle in fiore e da La parte dei Guermantes, due scene molto interessanti: i baci e gli abbracci con Albertine, quelli falliti, quelli riusciti. Riusciti? In A lʼombra delle fanciulle in fiore succede che, prima di partire, Albertine offra al Narratore un convegno nella sua camera... Alcuni punti di somiglianza e di contrasto rispetto alla scena- madre: – esaudimento – sperato – del desiderio (di baciare) avviene in termini rovesciati: “Potrete assistere al mio pranzo accanto al mio letto (vous purrez venir assister à mon dîner à côté de mon lit)”: quasi che il Narratore possa qui stare accanto alla madre, non solo non lontano dal banchetto, ma nel corso del banchetto; – riecco la finestra; ma accanto cʼè Albertine; accanto, non alla porta del giardino: “Mi guardava sorridendo. Accanto a lei, nel riquadro della finestra (à côté dʼelle, dans la fenêtre), la valle 163

era illuminata dal chiaro di luna” (la luna è un altro elemento costitutivo della scena); – infine, anche qui qualcosa suona (e la scena viene interrotta): “Albertine con tutte le sue forze, aveva suonato (Albertine avait sonné de toutes ses forces)”. “Vedevo di lato le sue guance, che spesso apparivano pallide ma, così, erano irrorate, illuminate da un sangue chiaro, rilucenti come certe mattine dʼinverno, quando le pietre parzialmente lambite dal sole sembrano di granito rosa e sprigionano gioia. [...]. Poi, dʼun tratto (tout à coup), pensai che ogni dubbio era immotivato: mʼaveva detto di andare quando fosse stata a letto. Quella che mʼinfondeva, in quel momento, la vista delle guance di Albertine era altrettanto viva, ma sfociava in un altro desiderio: non di una passeggiata, ma di un bacio (mais du baiser). Le chiesi se i progetti che le attribuivano fossero veri: ʻSì, rispose, passerò la notte nel vostro albergo, e siccome sono un poʼ raffreddata, mi coricherò prima di mangiare. Potrete assistere al mio pranzo accanto al mio letto (vous purrez venir assister à mon dîner à côté de mon lit) e, dopo, giocheremo a quel che vorrete (et après nous jouerons à ce que vous voudrez). [...]. Mentre la Gilberte che vedevo ai Champs Élysées era unʼaltra rispetto a quella che ritrovavo in me quando ero solo, adesso, di colpo (tout dʼun coup), nellʼAlbertine reale (réelle), quella che vedevo ogni giorno, che credevo piena di pregiudizi borghesi e sempre sincera con sua zia, sʼera incarnata lʼAlbertine immaginaria, quella dalla quale, quando ancora non la conoscevo, mʼera parso dʼessere furtivamente sogguardato sulla diga, quella che, vedendomi andar via, era rincasata – si sarebbe detto – a malincuore. [...]. Poi, dʼun tratto (tout dʼun coup), pensai che ogni dubbio era immotivato: mʼaveva detto di andare quando fosse stata a letto (quand elle serait couchée). [...]. Trovai Albertine coricata nel suo letto (couchée dans son lit). Lasciandole il collo scoperto, la camicia bianca mutava le proporzioni del viso che, congestionato dal calore del letto, o dal raffreddore, o dal pranzo, sembrava più rosa; pensai ai colori che avevo avuto accanto a me poche ore prima, sulla diga, e dei quali avrei infine conosciuto il sapore; la sua guancia era attraversata, dallʼalto in basso, da una delle lunghe trecce nere e ricciute che, per piacermi, aveva del tutto disciolte. Mi guardava sorridendo. Accanto a lei, nel riquadro della finestra (à côté dʼelle, dans la fenêtre), la valle era illuminata dal chiaro di luna (clair de lune). La vista del collo nudo di Albertine, di quelle guance dʼun rosa troppo acceso, mi aveva precipitato in una tale ebbrezza [...]. E tutto quanto la natura potesse concedermi di vita, mi sarebbe parso ben povero, gli aliti del 164

mare mi sarebbero parsi ben avari per lʼimmensa aspirazione (pour lʼimmense aspiration)182 che sollevava il mio petto. Mi chinai verso Albertine per baciarla (je me penchais vers Albertine pour lʼembrasser). Se la morte mi avesse colto in quellʼattimo, mi sarebbe sembrata indifferente o piuttosto impossibile, giacché la vita non era fuori di me, era in me (mʼeût paru indifférent ou plutôt impossible, car la vie nʼétait pas hors de moi, elle était en moi); [...]. ʻFinitela o suono (finissez ou je sonne)ʼ, intimò Albertine vedendo che mi slanciavo su di lei per baciarla (je me jetais sur elle pour lʼembrasser). [...]. Stavo per conoscere lʼodore, il sapore di quellʼignoto frutto rosa. Sentii il suono precipitoso, prolungato e stridulo (jʼentendis un son précipité, prolongé et criard). Albertine, con tutte le sue forze, aveva suonato (Albertine avait sonné de toutes ses forces)” (OF, 931-934; 1124- 1128).183 Interessante cogliere anche qui, come quasi sempre, gli elementi costitutivi dellʼultima edizione (della scena-madre): mʼeût paru indifférent ou plutôt impossible, car la vie nʼétait pas hors de moi, elle était en moi. Solo che qui prevale lo strazio della perdita.184 In La parte dei Guermantes, Albertine, che da tempo, a Parigi, viene a trovare il Narratore, una volta, senza che il Narratore abbia “suonato”, compare; questa volta, la scena avvenuta a Balbec è invertita: il Narratore è a letto e Albertine seduta accanto a lui, sul letto: lʼesaudimento reintroduce la scena-madre.

182 Abbiamo già incontrato “lʼimmenso desiderio di conoscere la vita” provato un tempo sulle strade di Balbec”; (AS, 165) e la “dimension énorme” del Tempo (TR, 1047) 183 Rimandiamo, per lʼesperienza – De lʼamitè au désir – con Charlotte, a Jean Santeuil (JS, 837-841). Richiamiamo fuggevolmente, la “scène du lit” nel Cahier 25 (OF, 1007-1009): “Je santais en moi quelque chose se soulever, comme une torture qui eût voulu saisir et emporter ce fruit rose; je levai, je me jetai vers le lit, les lèvres tendues dans un besoin de savoir le goût de la surface rose ed violacée qui tournait devant moi. À demi dressée, elle dit sevèremet: Je vous défends, je vous défends, prenez garde, un mouvement de plus, je sonneʼ. Je me rappellai ses paroles habituelles, lʼunique chance de cet instant que je ne retrouverais pas: ʻSeulement vous embrasser. – Jamais, jamais, je sonneʼ. Elle avais pris la sonnette, je mʼavançai encore, jʼétais presque à sa joue, elle sonna et un coup interminable retentit dans lʼhôtel, je mʼéchappai”. (C 25, ES LXXI, OF, 1008-1009). Notate che questa descrizione è meno sintetica. Peraltro, ad essa segue un lungo commento che nel testo definitivo ci è risparmiato. Alla conclusione del commento: “[...] dès que jʼeus eu la preuve, par cette experence décisive quʼelle nʼétait même pas embrassable, je cessai de penser à elle”. Non andrà così con Albertine. 184 A proposito di questo passaggio, interessante, di Yves Sandre, Destin dʼune variante (in Cahiers de Marcel Proust, 7. Études proustiennes, II, Gallimard, Paris, 1975, pp. 143-155). 165

Il Narratore, che non ama più Albertine, è comunque coinvolto in unʼesperienza che ha tutta la struttura della memoria involontaria. Il Narratore si trova di fronte ad Albertine diverse: quella della prima Balbec (della banda delle fanciulle in fiore), quella della seconda Balbec (dello “scacco”), lʼultima, la “nuova”. Tale pluralità favorisce la perdita dʼequilibrio (preliminare essenziale della memoria involontaria). Penso alla rottura dellʼequilibrio determinata dallʼimpertinenza filologica di Albertine; a quella della scomparsa del volto di Albertine (non più percepito dagli occhi che le si sono avvicinati troppo per poterlo ancora vedere) durante il bacio. Ma – qui il tragico –, tale scomparsa, invece di essere interpretata come lʼaccesso allʼ“essenza” alla vera Albertina, alla “vera vita” con lei, viene misinterpretata come lʼirrilevanza di unʼAlbertine a cui si è diventati “indifferenti” (nel momento in cui essa è diventata “docile”)... Leggete queste pagine (G, 350-370; 427-552). Che sono straordinariamente ricche. Perché lʼesperienza con Albertine non è solo calata nella storia del Narratore, ma, verrebbe da dire, nella storia di tutti noi; tanto sono ricchi ed eloquenti i riferimenti artistici, filologici, storici; tanto numerose e profonde sono le pieghe della narrazione... Segue il testo a brani e con veloci annotazioni: “Ogni tanto sentivo il rumore dellʼascensore (le bruit de lʼascenseur) in salita [...] un rumore in se stesso doloroso, nel quale risuonava una sorta di sentenza di abbandono. E io mʼimmalinconivo al pensiero di dover restare a tu per tu con lei [con la “grigia giornata”] che non mi conosceva più di unʼoperaia installatasi accanto alla finestra (près de la fenêtre) per avere più luce nel suo lavoro. [...]. Allʼimprovviso (tout dʼun coup), senza chʼio avessi sentito suonare (sans que jʼeusse entendu sonner), Françoise aprì la porta, introducendo Albertine che entrò sorridente, silenziosa e grassoccia, contenendo nella plenitudine del suo corpo, pronti perché continuassi a viverli, venuti sino a me, i giorni passati (les jours passés) in quella Balbec dove non ero più tornato (où je nʼétais jamais retourné)”.185

185 Nel Cahier 46 Albrtine non si affaccia, come dire, ex-abrupto: “Il était quattre heures de lʼaprès-midi, jʼetendis sonner, cʼétait Albertine” (C 46; ES XXVIII, G, 1218-1220). Nelle esquisse a questʼepisodio sono dedicate 4 pagine (C 46, ES XXVII, G, 1217-1221), ne La parte dei Guermantes molte di più (G, 350370; 427- 452). Nel Cahier, qualcosa di velatamente volgare: “ʻEh bien où avons-nous dit que vous alliez me chatouiller? Je crois que je suis très sensible aux genoux?ʼ [Tutto è cominciato dagli oreilles e con essi finirà]. Elle sʼinstalla commodément, presque méthodiquement; ainsi abaissées ses joues pleines paraissaient plus belles et plus roses. [...]. Elle continuait à me chatouiller les genoux, lʼair de ne pas savoir 166

Ricompaiono figure tipiche: la finestra e il suono. E poi il tempo perduto (i giorni passati che non sono più tornati). “Certo ogni volta che rivediamo una persona con la quale i nostri rapporti – per insignificanti che siano – sono venuti mutando, è come se due epoche si confrontassero tra loro (une confrontation de deux Époques)”: “Aveva un altro viso o, meglio, aveva finalmente un viso [...]”. Il confrontarsi di due epoche determina la perdita dellʼequilibrio186 che è il preliminare della memoria involontaria. Qui il Narratore non ritroverà qualcosa che ha perduto perché non lʼha vissuto pienamente; bacerà e possederà quellʼAlbertine che non ha mai baciato né posseduta. Prezioso qui più che altrove il richiamo alla “creazione” come creazione della donna da parte di Adamo: vedi più avanti. “Questa volta tuttavia [...]. Cʼerano, in lei, novità più attraenti; sentivo, nella stessa graziosa fanciulla chʼera venuta a sedersi accanto al mio letto (qui venait de sʼasseoir près de mon lit), qualcosa chʼera diverso, e nelle linee per il cui tramite, nello sguardo e nei tratti del volto, si esprime la volontà abituale, un cambiamento di fronte, una semiconversione, come fossero andate distrutte le resistenze contro le quali mʼero schiantato a Balbec, la sera in cui formavamo una coppia simmetrica ma inversa rispetto allʼattuale, perché allora era lei ad essere coricata e io accanto al suo letto (un couple symétrique mais inverse de celui de lʼaprès-midi actuelle, puisque alors cʼétait elle qui était couchée et moi, à côté de son lit)”. Di questo capovolgimento della situazione abbiamo già detto. Il Narratore, pur consapevole di non essere “affatto innamorato” di Albertine, sogna intorno ad essa: “Certo, non ero affatto innamorato di Albertine: figlia della nebbia che regnava oltre i vetri, poteva solo soddisfare il desiderio dellʼimmaginazione che il nuovo tempo aveva risvegliato in me e che era una via di mezzo fra i desideri cui vengono incontro le arti della cucina e quelle della scultura monumentale, giacché mi faceva sognare (me faisait rêver), insieme, sia di mischiare alla mia carne una materia diversa e calda sia di attaccare in un qualche punto al mio corpo disteso un corpo davantage, timide, innocente, réservée. Au but dʼun instant je lui dis: ʻCela ne me chatuille plus, donnez-moi votre joueʼ, et je voulus mʼapprocher pour y passer ma mustache et mes lèvres sur la joue et lʼoreille dʼAlbertine [...]”: qui la mancanza dellʼorgano destinato al bacio. 186 “E, dʼaltronde, anche materialmente, quando non era più tenuta in equilibrio (elle était non plus balancée) dalla mia immaginazione di contro allʼorizzonte marino, ma immobile accanto a me, Albertine [...]”; “ma, beninteso, i due elementi disuniti (désunis) possono essere nuovamente riuniti dalla gelosia”. 167

divergente, così come il corpo di Eva aderisce solo per i piedi allʼanca di Adamo, al cui corpo è pressoché perpendicolare, nei bassorilievi romanici della cattedrale di Balbec, raffiguranti in modo così nobile e pacato – ancora, quasi, come un fregio antico – la creazione della donna (la création de la femme) [...]”. Il Narratore conversa con Albertine. E scopre che parla in modo radicalmente diverso dalle prime volte a Balbec. E lʼattrae a sé: “Era una tale novità (cʼétait si nouveau), era così visibilmente unʼalluvione di cui si potevano immaginare le capricciose scorrerie attraverso terreni un tempo sconosciuti, che alle parole ʻa mio giudizioʼ io trassi a me Albertine, e a ʻritengoʼ la feci sedere sul mio letto” (je lʼassis sur mon lit)”. Il Nostro continua a dirsi che non è innamorato, che è “del tutto indifferente (fort indifférent)”... Ma viene colto alla sprovvista da una novità dietro unʼaltra: “[...] credo, tuttavia, che a farmi decidere sia stata unʼennesima scoperta filologica”. Albertine – che è “ormai, sul bordo del [mio] letto (maintenant [...] au coin de mon lit) – dice: “Sembra una piccola Musmè”; usa, cioè, non solo unʼespressione che è nuova sulle sue labbra, ma anche spiacevole; ma spiacevole in modo tale da costituire unʼulteriore novità: “È verosimile che, se le cose avessero seguito il loro corso normale, lei non lʼavrebbe mai imparata [lʼespressione usata], e io non ci avrei visto alcun inconveniente, dato che non cʼè vocabolo più orripilante (horripilant). Sentendolo, si avverte lo stesso mal di denti di quando ci si infila in bocca un pezzo troppo grosso di gelato. Ma in Albertine carina comʼera, nemmeno ʻmusmèʼ riusciva a dispiacermi. In compenso, mi parve il sintomo, se non di unʼiniziazione esteriore, almeno di unʼinterna evoluzione... [...]. Di fronte a ʻmusmèʼ tutte le mie perplessità svanirono, e mʼaffrettai a comunicarle: ʻSapete? Non soffro per niente il solletico; potreste farmelo per unʼora e non me ne accorgerei nemmeno?” Inizia lʼavvicinamento ulteriore: “Se non vi dispiace; ma sarebbe più comodo se vi stendeste sul mio letto. – Così? – No, venite più dentro. – Ma non vi peso? Non aveva finito questa frase che sʼaprì la porta, e Françoise entrò con la lampada.” Françoise, questa volta, non inaugura una nuova tappa nella relazione con Albertine, ma la interrompe. 168

Ad un certo punto un errore di grammatica di Albertine, qui difficilmente traducibile, crea una ulteriore complicità tra lei e il Narratore: “Uscita Françoise, Albertine tornò a sedersi sul mio letto: – Sapete di che cosa ho paura? Le dissi. Che se continuiamo così, non potrò fare a meno di baciarvi (vous embrasser). – Sarebbe una bella disgrazia. – Non raccolsi subito lʼinvito. Per un altro, forse, sarebbe stato addirittura superfluo, perché Albertine aveva una pronuncia così carnale e così dolce che dava, solo a parlarvi, lʼimpressione di baciarvi (elle semblait vous embrasser). Ogni sua parola era un favore concesso, e la sua conversazione vi copriva di baci (sa conversation vous couvrait de baisers)”. Al narratore appaiono tre Albertine; tra le quali deve fare un confronto (“un confronto [une confrontation] fra diverse immagini intrise di bellezza”): – quella sulla spiaggia (Balbec 1) = “semplice proiezione (projection)”; – una donna vera (une femme vraie); ma ha imparato che con lei è possibile solo conversare: “non era possibile toccarla né baciarla (de la toucher, de lʼembrasser) (Balbec 2); – infine, una Albertine disponibile: “[...] lʻidea che baciare (embrasser) le guance di Albertine era una cosa possibile implicava per me un piacere superiore ancora a quello di baciarle (embrasser). Che differenza (quelle différence), fra il possedere (posséder) una donna sulla quale – poiché non è che un pezzo di carne – ad applicarsi è solo il nostro corpo, e il possedere la fanciulla che scorgevamo sulla spiaggia, accanto alle sue amiche, in determinati giorni, senza nemmeno sapere perché proprio in quei giorni e non in altri e ogni volta per questo, tremando di non rivederla!” Allʼindifferenza è seguita la “differenza”: “è per questo che sono le donne un poʼ difficili, quelle che non riusciamo a possedere, che non sappiamo nemmeno, in principio, se potremo mai possedere, sono davvero interessanti. Perché conoscerle, avvicinarle, conquistare, è far variare di forma (faire varier de forme), di grandezza, di rilievo lʼimmagine umana [...]. Le donne che incontriamo per la prima volta da una mezzana non sono interessanti, perché rimangono invariabili (invariables)”. Differenza e variazione fanno tuttʼuno... “ “[...]. Albertine teneva, strette attorno a sé, le impressioni (impressions) di tutta una sequenza marittima che mi era 169

particolarmente cara. Sentivo che sulle sue gote avrei baciato (jʼaurais [...] embrassé) lʼintera spiaggia di Balbec”. Siamo così in pieno sogno... Meglio, in piena realizzazione di un sogno... Segue la lunga preparazione e la lunga effettuazione del bacio. Infine: “Allʼassenza di un tale organo [capace di baciare] supplisce [lʼuomo] con le labbra; e raggiunge così, forse, un risultato un poʼ più soddisfacente che se fosse costretto ad accarezzare lʼamata con una zanna di corno”: evidentemente tutta questa montatura del bacio come impossibile, in assenza di un organo capace di baciare... sta ad indicare la novità del bacio che il Narratore sta per poggiare sulle guance di Albertine. “Inizialmente, man mano che la mia bocca veniva accostandosi alle guance che i miei sguardi le avevano proposti di baciare, questi ultimi, postandosi, scorsero delle guance nuove: il volto, visto da più vicino e come al microscopio, palesò, nella sua grana grossa, una robustezza che modificò il carattere del viso”. Il Narratore ha scoperto, fin dallʼinizio, che Albertine ha “un altro viso: “meglio, aveva finalmente un viso”. A poco a poco questo volto cambia ulteriormente... E finisce con lo scomparire: “[...] tuttʼa un tratto (tout dʼun coup), ahimè, i miei occhi smisero di vedere, il mio naso, schiacciatosi, cessò a sua volta di percepire qualunque odore, e da quei segni detestabili appreso, senza per questo conoscere meglio il sapore del desiderato color rosa, che stavo infine baciando (jʼétais en train dʼembrasser) la guancia di Albertine”. Lʼorgano non esiste; la vista non soccorre; neanche il tatto; quando il naso si avvicina per annusare, finito schiacciato contro la guancia, perde ogni suo potere. Cessa dʼessere un naso. Segue lʼabbraccio nel senso più profondo: “Fu, forse, perché recitavamo (secondo la figura descritta dalla rivoluzione di un solido) una scena che invertiva (la scène inverse) quella di Balbec, ed ero io a trovarmi coricato mentre lei, in piedi, poteva schivare un attacco brutale e dirigere il piacere a modo suo, che Albertine mi lasciò prendere con tanta facilità ciò che un tempo mʼaveva rifiutato con così severo cipiglio?” Quanta delusione in questa descrizione! In Dalla parte di Swann, il Narratore prova di fronte alla reale madame de Guermantes una delusione che richiama quella di Amiel di Stendhal: “È questa, è soltanto questa, (cʼest cela, ce nʼest que cela), Madame de Guermantes!” (SW, 175; 213)... “ʻPossibile? Lʼamore è solo questo?ʼ – si chiedeva Lamiel, stupefatta (Quoi! Iʼamour ce nʼest que 170

ça? se disait Lamielétonnée). [...]. Poi scoppiò a ridere, ripetendosi: ʻMa come! il famoso amore è tutto qui?ʼ (Puis elle éclata de rire en se répétant: ʻComment,ce fameux amour ce nʼest que ça!ʼ).187 È tutta qui lʼAlbertine che desideravo (inevitabile approdo del desiderio mimetico quando è stato soddisfatto).188 Ma, nel suo corso, lʼesperienza – descritta in lungo e in largo, e in profondo... – appare come una “sperimentazione”: “Insomma, così come, a Balbec, Albertine mʼera apparsa tante volte diversa (différente), adesso – come se, accelerando prodigiosamente (prodigieusement) la rapidità dei mutamenti di prospettiva e dei mutamenti di colorazione offertici da una stessa persona in una serie successiva di incontri (dans nos diverses rencontres avec elle), avessi voluto condensarli tutti in pochi secondi per riprodurre sperimentalmente (expérimentalment) il fenomeno che diversifica (diversifie) lʼindividualità di un essere, traendo lʼuna dallʼaltra, come da un astuccio, tutte le possibilità chʼesso racchiude – durante il breve tragitto delle mie labbra verso la guancia furono dieci le Albertine che io vidi; quellʼunica fanciulla era una dea dalle molteplici teste [...]”. È chiaro: questa esperienza è identica a quelle che, allʼinizio della matinée si susseguiranno in un crescendo prodigioso; anche qui cʼè del “prodigioso”! Per non parlare addirittura del tratto che rende il Narratore più vicino alla “scoperta”: il titubare non solo tra due punti esperienziali, uno recente e uno passato, ma tra due punti dellʼesperienza di una medesima persona, tra due suoi volti... La differenza sta “solo” nel fatto che nel corso della matinée il Narratore capirà pienamente il meccanismo della memoria involontaria. In sintesi: capirà che non cʼè tempo (passato; non vissuto) che si possa “ritrovare”; si può solo cogliere la dimensione del “Tempo”; del suo “immenso” svolgersi (immenso è il desiderio di vivere, immensa lʼaspirazione al piacere, immenso è il tempo; almeno, considerato dalla cima dei trampoli). Qui non lo capisce; da cui la delusione (anche se la descrizione fatta dal Narratore è perfetta). Avviene la presa di possesso della terra “incognita” – che diventa cognita –; il Narratore protesta ancora il suo disinteresse: il suo desiderio era “momentaneo e puramente fisico”; ma “un

187 Lamiel, 1838-1842, Gallimard, Paris, 1983, pp. 152-153; tr. it. in Stendhal. Romanzi e racconti, vol. 3°, Mondadori, Milano, 2008, pp. 1152-1153. 188 “E se lʼipocrisia le chiude la bocca, in fondo al cuore, si dice: ʻCome, il filosofo di Rembrandt è tutto qui (ce nʼest que cela)?ʼ” (1895, Camille Saint-Saëns, pianista, SA, 383; 324). Proust parla in modo critico... a proposito di una donna che non capisce Rembrandt... 171

cambiamento ancor più sbalorditivo si produsse in lei quella stessa sera, non appena le mie carezze mʼebbero condotto alla soddisfazione di cui certo sʼavvide e chʼio temetti, anzi, potesse provocarle il piccolo moto di repulsione, e di pudore offeso, avuto da Gilberte in un momento analogo, dietro il boschetto di lauri ai Champs Élysées. Fu esattamente in contrario. Già nel momento in cui lʼavevo fatta sdraiare sul mio letto (je lʼavais couchée sur mon lit) e avevo cominciato ad accarezzarla, Albertine aveva assunto un atteggiamento che non le conoscevo (que je ne lui connaissais pas), di buona volontà docile (docile), di semplicità puerile. Cancellando dal suo volto ogni abituale pretesa o preoccupazione, lʼattimo che precede il piacere – simile, in questo, allʼattimo che segue la morte – aveva, per così dire, restituito ai suoi tratti ringiovaniti lʼinnocenza della prima età”... Seguono alcune pagine... “Arrivata alla porta, stupita chʼio non lʼavessi preceduta (étonnée que je ne lʼeusse pas devancée), mi tese la guancia, pensando che non ci fosse nessun bisogno dʼun grossolano desiderio fisico, adesso, per baciarci (pour que [...] nous nous ebrassions). Poiché i brevi rapporti che avevamo avuti erano di quelli cui talora conducono unʼintimità assoluta e una scelta del cuore, Albertine sʼera sentita in dovere dʼimprovvisare e aggiungere momentaneamente ai baci (aux baisers) che ci eravamo scambiati sul mio letto il sentimento di cui essi sarebbero stati il segno per un cavaliere e la sua dama secondo la concezione dʼun menestrello gotico”. La situazione si è completamente capovolta: adesso chi conduce il gioco è il Narratore (Albertine è diventata “docile”); il turno del desiderante ora tocca a Albertine. La quale se ne va quasi “cacciata” (étonnée que...)! Conclusione: “Questo è il terribile inganno dellʼamore: che comincia col farci giocare, anziché con una donna del mondo esterno, con una sorta di bambola (poupée) interna al nostro cervello – la sola, dʼaltronde, che abbiamo sempre a nostra disposizione, la sola che potremo possedere, e che lʼarbitrio del ricordo, poco meno assoluto di quello della fantasia, può aver resa tanto diversa (différente) dalla donna reale quanto la Balbec del sogno lo era stata, per me, dalla Balbec della realtà. Creazione fittizia (création factice) cui gradualmente, per la nostra sofferenza, costringeremo la donna e reale ad assomigliare”. Tremendo. 172

Lʼincomprensione della strada che porta “alla vera vita”, fa scadere la “creazione” a “creazione fittizia”.

3) Sodoma e Gomorra: baciare Albertine = baciare la madre

“Aveva [Albertine] unʼespressione così dolce, così tristemente docile, come se aspettasse da me la felicità, che facevo fatica a trattenermi dal baciare (à ne pas lʼembrasser) – dal baciare con lo stesso tipo di piacere, quasi, che avrei provato baciando mia madre (à lʼembrasser presque avec le même genre de plaisir que jʼaurais eu à embrasser ma mère) – quel volto nuovo (se visage nouveau), che non somigliava più al musetto sveglio e colorito dʼuna gatta ribelle e perversa dal roseo nasino allʼinsù, fuso nella bontà a larghe colate appiattite e cadenti” (SG, 831; 59). “Era da Trieste, da quel mondo sconosciuto (de ce mond inconnu), in cui sentivo che Albertine era felice, in cui stavano i suoi ricordi, le sue amicizie, i suoi amori infantili (ses amours dʼenfance), che si sprigionava questa atmosfera ostile, inesplicabile, simile a quella che saliva un tempo sino alla mia camera di Combray dalla sala da pranzo dove sentivo conversare e ridere con gli estranei, fra il rumore delle forchette, la mamma che non sarebbe venuta a darmi la buonanotte (maman qui ne viendrait pas me dire bonsoir); o a quella che aveva riempito, per Swann, le case (les maisons) in cui Odette andava a cercare, la sera, inconcepibili piaceri (dʼinconcevables joies). [...]. Il collo di Albertine, che usciva affatto libero dalla camicia da notte, era potente, dorato, di grana grossa. Lo baciai con la stessa purezza con cui avrei baciato mia madre (je lʼembrassai aussi purement que si jʼavais embrassé ma mère) per calmare un dispiacere di fanciullo che credevo, allora, di non poter mai estirpare dal mio cuore. [...]. Rimasi solo nella camera, nella stessa camera con soffitto troppo alto dove ero stato infelice il giorno del primo arrivo, dove avevo pensato con tanta tenerezza a Mademoiselle de Sternaria, spiato il passaggio di Albertine e delle sue amiche come quello di uccelli migratori posatisi sulla spiaggia, dove lʼavevo posseduta (possédée) con tanta indifferenza (avec tant dʼindifférence) la volta che avevo mandato il lift a cercarla, dove avevo conosciuto la bontà della nonna e, poi, avevo preso coscienza della sua morte (puis appris quʼelle était morte); le imposte, sotto le quali filtrava la luce del mattino, le avevo aperte la prima volta per vedere i primi contrafforti del mare (quelle imposte che Albertine mi faceva chiudere perché non ci vedessero mentre ci baciavamo [pur 173

quʼon ne nous vît pas nous embrasser]). Mi accorgevo (je prenais conscience) delle mie trasformazioni confrontandole con lʼidentità delle cose. Ci si abitua ad esse come alle persone, e, quando di colpo (tout dʼun coup), ricordiamo il significato diverso che hanno comportato per noi – una volta perduto ogni significato (quand elles eurent perdu toute signification) – gli avvenimenti, così diversi da quelli presenti, di cui sono state cornice, la diversità degli atti compiuti sotto lo stesso soffitto, fra le stesse librerie a vetri, il cambiamento nel cuore e nella vita che tale diversità implica, ci sembra ancora accresciuto dalla permanenza immutabile dellʼarredo, rafforzato dallʼunità di luogo” (SG, 1121, 1124, 1125-1126; 375, 378, 380-381). “Quando penso, adesso, che al nostro ritorno da Balbec la mia amica era venuta ad abitare a Parigi con me, sotto lo stesso tetto, rinunciando allʼidea di recarsi in crociera, e aveva la sua camera a venti passi dalla mia, in fondo al corridoio (au bout du couloir), nello studio ornato dʼarazzi di mio padre (dans le cabinet à tapisserie de mon père), e ogni sera, molto tardi, prima di lasciarmi, mi faceva scivolare in bocca la sua lingua come un pane quotidiano (elle glissait dans ma bouche sa langue, comme un pain quotidien), [altro che bacio] come un cibo nutriente e dotato del carattere quasi sacro (presque sacré) [lʼostia] proprio dʼogni carne cui le sofferenze da noi patite per causa sua hanno finito col conferire una sorta di dolcezza morale, ciò che subito viene fatto dʼevocare a paragone non è la notte che il capitano Borodino [83 sgg.] mi permise di passare in caserma, concedendomi un favore che, in fin dei conti, mi guariva da un disagio effimero, ma quella in cui mio padre mandò la mamma a dormire nel lettino accanto al mio (mais celle où mon père envoya maman dormir dans le petit lit à côté de moi). È così che la vita, se deve liberarci una volta di più da sofferenze che sembravano inevitabili, lo fa in condizioni talmente diverse, o addirittura opposte, che sembra quasi di commettere sacrilegio (sacrilège) constatando lʼidentità della grazia (grâce) ricevuta” (P, 10; 390).189

189 Lʼintermediario tra il Verbo e la carne è “un état de grâce” che diventa un luogo possibile: “Cʼest lʼespace-temps de la loi comme expérience imaginaire et, inversement, lʼéxperience de lʼimaginaire comme réalité impérative (comme foi) et cependant constructible (foi relativisée, dérisoire). Ni dans le status corruptionis du péché sans entendement, ni dans le status integrationis de lʼentente conceptuelle pacifiée, le narrateur imaginaire se maintient dans lʼentre-deux du status graciae” (Kristeva, op. cit., p. 384). 174

Evidente: tutti gli elementi della scena ritornano; il bacio (anche se è quello di unʼamante), il corridoio, lʼabdicazione del padre (qui egli abbandona la sua camera)...190

4) Il desiderio mimetico attraversa anche la scena primaria. Come sua parte costitutiva: tout dʼun coup nous entendîmes la cadence régulière dʼun appel plaintif

Albertine si è negata; poi si è offerta. Alla fine (ne La prigioniera) si nega di nuovo... e definitivamente.191 Prima di richiamare la descrizione di questo terzo atto, come preliminare dello stesso, illustriamo il lapsus192 invocato a carico di Albertine; quello che induce il presentimento della sua scomparsa; della sua fuga e della sua morte. Incrociamo qui alcuni temi che riprenderemo (come quello dellʼinconscio)... Quanto ai lapsus ricordate quello anchʼesso straordinario su cui ha scritto Lavagetto (Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust, Einaudi, 1991): è possibile immaginare che Proust lʼabbia fatto appositamente, questo lapsus: attribuisce in un primo

190 Albertine = madre = nonna... A Balbec...“[...] mi gettai fra le braccia della nonna premendo le labbra sul suo viso come se in quel modo accedessi al cuore immenso che lei mi spalancava. Quando stavo così, con al bocca incollata alle sue gote, alla sua fronte (ma bouche collée à ses joues, à son front), vi attingevo qualcosa di tanto benefico, di tanto nutriente (de si nourricier), da poter conservare lʼimmobile serietà, lʼavidità tranquilla di un bambino che succhia il seno materno (dʼun enfant qui tète)” (OF, 668; 809). “In quei momenti, accostando la morte della nonna a quella di Albertine, mi sembrava che la mia vita fosse macchiata da un doppio assassinio che solo la viltà del mondo poteva perdonarmi” (AS, 126; 97). 191 Qualcuno ha detto che, facendola morire, Proust lʼha sottratta al nefasto lavoro del tempo. 192 Proust usa la parola lapsus in Allʼombra delle fanciulle in fiore (949; 1145). A proposito dei lapsus, alcuni passaggi: “E dopo uno di quei rallentamenti del discorso da cui una parola esplode allʼimprovviso (et après un de ces ralentissement du débit où tout dʼun coup une parole éclate), come contro la volontà di chi parla, e quasi che unʼirresistibile convinzione travolgesse, in lui, gli sforzi balbettanti che faceva tacere: ʻNo, no, mi disse con slancio, vostro padre non deve presentarsi” (SW, 225; 271-272). “E una volta, avendo affermato in presenza di lei che Charlus nutriva, in quel momento, un sentimento abbastanza intenso per una certa persona, vidi, stupefatto, balenare negli occhi della principessa quel raggio peculiare e istantaneo che traccia nelle pupille una sorta di incrinatura (comme le sillon dʼune fêlure) e che proviene da un pensiero che il nostro discorso ha involontariamente (nos paroles, à leur insu) sommosso nel nostro interlocutore, un pensiero segreto destinato a non tradursi in parole, ma a emergere, su dalle profondità da noi sconvolte, alla superficie momentaneamente alterata (un instant altérée) dello sguardo” (SG, 714-715; 866-867). 175

momento a Charlus la stanza 43 del postribolo maschile (TR, 480 sgg.); ma, quando, in un secondo momento, ci ripensa, vi si colloca lui stesso.193 Preannunciamo che, accanto a tanti sotto-temi ricorrenti – la finestra, il corridoio, il rumore etc... – qui predomina quello della “differenza/indifferenza”. Di questo aspetto che, come vedremo, caratterizza tutta la psicologia proustiana, anticipiamo questo: il “gioco mimetico” è sempre in atto e sempre con escalation terribili (angoscianti). Tale gioco consiste nel mostrarsi “indifferente” allʼamata. Questo è considerato il metodo, lʼunico metodo, capace di far accedere al suo amore. Lʼinevitabile risultato è che, quando lʼamata si concede, quando diventa “differente” verso di noi, noi diventiamo “indifferenti” verso di lei... Solo lʼesperienza della matinée – inutilmente vissuta prima: già ne Dalla parte di Swann etc. – placherà lʼescalation. Abbiamo già incrociato il “perdono”... “Così, commosso che fosse tanto modesta e si credesse disprezzata dai Verdurin le dissi teneramente: ʻMa, mia cara, potete ben credere che vi darei volentieri qualche centinaio di franchi, perché andaste a fare la signora chic dove vi piacesse, e offrire un bel pranzo ai Verdurin. Ahimè! Albertine era parecchie persone. La più misteriosa, la più semplice, la più atroce si mostrò nella risposta che mi diede in tono di disgusto e della quale, a dir la verità, non distinsi bene le parole (anzi le parole dellʼinizio, perché non finì la frase). Una volta che si è capito, si comprende anche retrospettivamente (rétrospectivement). Grazie tante! Piuttosto di spendere anche un solo soldo per quei vecchi, preferisco mi lasciate libera, una volta, di andare a farmi rompere (jʼaime bien mieux que vous me laissiez une fois libre pour que jʼaille me fair casser)...ʼ Subito, di colpo (aussitôt), sʼimporporò il viso, assunse unʼespressione desolata, si mise la mano davanti alla bocca come se avesse potuto farvi rientrare le parole che aveva appena pronunciate e che io no avevo capite. ʻCosa state dicendo? Albertine? – No, niente, ero mezzo addormentata (Non, rien, je mʼendormais à moitié)” (P, 337; 754-755). Saltiamo un pel pezzo di conversazione (sul presunto lapsus): “Non smisi di insistere: ʻInsomma, abbiate almeno il coraggio di finire la frase, siete rimasta a rompere (vous en êtes restée à casser)... – Oh! No! Lasciatemi stare! – Ma perché? – Perché è terribilmente

193 Dubois ne segnala due che noi non riprendiamo (op. cit., p. 24). 176

volgare, mi vergognerei troppo a dirlo davanti a voi. [...] je rêvais tout haut” (P, 338; 755). (Allʼocchio – o allʼudito – acuto risulta subito evidente che il Narratore sta facendo un vero e proprio lapsus a proposito di un lapsus presunto: vous en êtes restée à casser? Ma Albertine ha appena detto: jʼaime bien mieux que vous me laissiez une fois libre pour que jʼaille me fair casser!... In ogni caso, un bel pasticcio). Più avanti: “Ma, mentre lei parlava, proseguiva in me, nel sonno vivo e creatore dellʼinconscio (dans le sommeil fort vivant et créateur de lʼinconscient) (sonno in cui finiscono di incidersi le cose che ci hanno soltanto sfiorati, in cui le mani addormentate si impadroniscono della chiave giusta, cercata invano sino a quel momento), la ricerca di cosa Albertine avesse voluto dire con la frase interrotta della quale avrei voluto conoscere la fine. E tuttʼa un tratto (tout dʼun coup) mi caddero addosso due parole atroci, a cui non avevo minimamente pensato: ʻIl culo (le pot)ʼ. Non posso dire che vennero dʼun sol colpo (dʼun seul coup), come quando, in una lunga sottomissione passiva a un ricordo incompleto, pur cercando piano piano, con prudenza, di estenderlo, si rimane piegati, appiccicati ad esso. No, contrariamente al mio modo abituale di ricordare vi furono, credo, due vie parallele di ricerca, e una teneva conto non soltanto della frase di Albertine, ma del suo sguardo esasperato quando le avevo proposto di regalarle del denaro per dare un bel pranzo, uno sguardo che sembrava dire: ʻGrazie, spendere del denaro per delle cose che mi annoiano quando senza denaro ne potrei fare che mi divertono!ʼ E fu, forse, il ricordo di quel suo sguardo a farmi cambiare metodo per trovare la fine di ciò che Albertine aveva voluto dire. Sino a quel momento mi ero lasciato ipnotizzare dallʼultima parola. ʻrompere (casser)ʼ; rompere che cosa? Che cosa aveva voluto dire? Rompere il muso (du bois)? No. Le scatole (du sucre)? No. Rompere, rompere, rompere (casser, casser, casser). E, di colpo (tout à coup), il ritorno allo sguardo accompagnato da unʼalzata di spalle ( au regard avec haussement dʼépaules), con cui Albertine aveva reagito alla mia proposta di dare un pranzo, mi fece retrocedere (me fit rétrograder) in modo analogo anche nelle parole della sua frase (aussi dans les mots de sa phrase). E così vidi che non aveva detto ʻrompere (casser)ʼ ma ʻfarmi rompere (me faire casser)ʼ. Orrore! Era questo che Albertine avrebbe preferito. Doppio orrore! Perché nemmeno lʼultima delle puttane, che vi consenta o lo desideri, usa con lʼuomo che vi si accinge questa schifosa espressione. Se ne sentirebbe avvilita. Solo con una donna, se ama le donne, può dire così senza scusarsi se, fra poco, si darà a un 177

uomo. Albertine aveva mentito dicendomi che stava mezzo sognando. Distratta, impulsiva, non pensando che era con me, aveva alzato le spalle, sʼera messa a parlare come avrebbe fatto con una di quelle donne, con, forse, una delle mie fanciulle in fiore. E bruscamente richiamata alla realtà, rossa di vergogna, ricacciandosi in gola quel che stava per dire, disperata, non aveva più voluto pronunciare una sola parola!” (P, 339-340; 756-757) Divertente questa interpretazione dʼun lapsus (presunto perché mai si saprà se Albertine era o non era una donna a cui piacevano le donne). Proust parla di “ricerca inconscia” in Tadié (P, 843); in Clarac e Ferré “scoperta (découverte)” (P, 340). E, come abbiamo visto, adotta lʼatteggiamento tipicamente abduttivo di Peirce: si ritrae così come Albertine si è ritratta (alzando le spalle)... nel tentativo di recuperare le parole non dette quasi andandole a cercare in cima a un gesto sintomatico... Il Narratore propone una rottura; abbastanza interessante: “[...] vi chiedo, per abbreviare il grande dolore che proverò, di dirmi addio questa sera (de me dire adieu ce soir) e di andarvene domattina senza chʼio vi riveda, mentre starò dormendo (pendant que je dormirais)ʼ” (P, 341; 759). Proust insiste. Il Narratore vuole abbandonare Albertine ma vuole anche tenersela presso di sé. Qui risulta chiaro, meglio forse che altrove, che il gioco mimetico attraversa il terreno dei lapsus ma anche quello del baiser/embrasser etc. dimostrandosi il problema centrale: evidentemente, come abbiamo già avuto modo di precisare, il tema centrale è il conflitto a-categoriale/categoriale; abbiamo già cercato di dimostrare in Edipo. Un innocente che la rimozione è rimozione dellʼacategoriale; in Proust, lʼacategoriale (il tempo perduto) – come in Kafka, ma con unʼapprossimazione se possibile maggiore – viene immesso nel categoriale (il tempo ritrovato). Questo lʼapprodo dei nostri Appunti. Lʼapprodo della rilettura – La scena-madre – è che lʼapice della Recherche si ha solo in cima ai trampoli, in cima ai campanili di Martinville (non di fronte ad essi). Si ha, cioè, in una sorta di ritorno al non-categoriale. Una volta raggiunto il luogo-non luogo in cui, in un categoriale perfetto, si è, infine, in grado di compiere lʼopera (questʼopera la si può compiere solo di notte). Ma veniamo al lapsus etc.: “Se Albertine, dal canto suo, avesse voluto giudicare quel che provavo da quel che le dicevo, avrebbe infatti appreso esattamente il contrario della verità (exactement le contraire de la vérité), visto che manifestavo il desiderio di lasciarla 178

unicamente quando non potevo fare a meno di lei, e a Balbec le avevo confessato due volte di amare unʼaltra donna – una volta Andrée, unʼaltra volta una persona misteriosa –, proprio le due volte in cui la gelosia aveva riacceso il mio amore per Albertine. Le mie parole non riflettevano dunque in alcun modo i miei sentimenti. Se il lettore ne ha unʼimpressione alquanto debole e proprio perché, in quanto narratore (cʼest quʼétant narrateur), io gli espongo i miei sentimenti nello stesso momento in cui gli ripeto le mie parole. Ma se gli nascondessi i primi e lui conoscesse soltanto le seconde, i miei atti, così poco in rapporto con esse, gli darebbero spesso lʼimpressione di mutamenti improvvisi da fargli credere chʼio sia pressoché folle (à peu près fou). Tale procedimento non sarebbe, del resto, molto più falso di quello che ho adottato, perché le immagini che mi facevamo agire, così opposte a quelle dipinte dalle mie parole, erano in quel momento molto oscure: non conoscevo che imperfettamente la natura secondo la quale agivo; oggi ne conosco chiaramente la verità soggettiva. Quanto a quella oggettiva, vale a dire se le intuizioni di tale natura cogliessero le vere intenzioni di Albertine più esattamente del mio ragionamento, se io abbia avuto ragione a fidarmene e se essa, anziché individuare le intenzioni di Albertine, non le abbia invece alterate, è qualcosa che mi riesce difficile dire” (P, 347; 765). “Sapevo che non poteva lasciarmi senza avvertirmi; dʼaltronde non poteva né desiderarlo (otto giorni dopo doveva provare le nuove vesti di Fortuny) né farlo decentemente, visto che mia madre tornava quella fine della settimana e sua zia lo stesso. Perché, se era impossibile che se ne andasse, le dissi a più riprese che il giorno dopo saremmo usciti insieme per andare a vedere i vetri di Venezia che volevo regalarle, e perché fui sollevato sentendole dire che era dʼaccordo? Quando venne a darmi la buonanotte (dire bonsoir) e la baciai (je lʼembrassai), non fece come al solito; si voltò, e – non erano passati che pochi istanti dal momento in cui avevo pensato comʼera dolce che mi desse tutte le sere ciò che aveva rifiutato (quʼelle me donnât tous les soirs ce quʼelle mʼavait refusé) a Balbec – non mi restituì il bacio (elle ne me rendit pas son baiser). [...]. La baciai (je lʼambrassai) una seconda volta, stringendomi contro il cuore lʼazzurro scintillante e dorato del Canal Grande e gli uccelli accoppiati, simboli di morte e di resurrezione. Ma una seconda volta, anziché restituirmi il bacio (au lieu de me rendre mon baiser), lei si scostò, con quella specie di ostinazione istintiva e nefasta degli animali che sentono la morte. [...]. Mi parve comunque che averla tutta in bianco, con il collo nudo, davanti a me, così come (comme) 179

lʼavevo vista a Balbec nel suo letto, mi avrebbe dato abbastanza audacia perché lei fosse costretta a cedere. [...]. Ad un tratto sentimmo la cadenza regolare dʼun appello lamentoso (tout dʼun coup nous entendîmes la cadence régulière dʼun appel plaintif). Erano i piccioni che cominciavano a tubare (roucouler). [...]. La somiglianza fra il loro tubare e il canto del gallo (chant du coq) era profonda e oscura come nel Settimino di Venteuil, la somiglianza del tema dellʼadagio, costruito sullo stesso tema-chiave del primo e dellʼultimo brano, ma talmente trasformato dalle differenze di tonalità, di tempo etc. che il pubblico profano, se apre un saggio su Venteuil, si stupisce vedendo che sono costruiti tuttʼe tre sulle stesse quattro note, quattro note che, dʼaltronde, si possono suonare (jouer) con un dito al pianoforte senza ritrovare nessuno dei tre brani. Allo stesso modo, quel pezzo melanconico eseguito dai piccioni era una sorta di canto del gallo in minore [tonalità triste se non mortifera; vedi W.A. Mozart: concerto per pianoforte e orchestra K 491 in do minore di Giorgio Pagannone, Carocci, Roma, 2006], che non sʼelevava al cielo, non sʼinnalzava verticalmente, ma regolare come il raglio dʼun asino (comme le braiment dʼun âne), avvolto di dolcezza, andava da un piccione allʼaltro su una stessa linea orizzontale e mai si raddrizzava (et jamais ne se redressait), mai mutava il suo lamento laterale in quellʼappello gioioso (en ce joyeux appel) lanciato tante volte dallʼallegro dellʼintroduzione e dal finale. So che pronunciai allora la parola ʻmortʼ, come se Albertine stesse per morire. [...]. Quando vidi che Albertine non prendeva lʼiniziativa di baciarmi (elle ne mʼembrassait pas), e rendendomi conto che era tutto tempo perso e che solo a partire dal bacio (à partir du baiser) sarebbero cominciati i minuti pacificanti (calmantes) e veri, le dissi: ʻBuonanotte (bonsoir), è troppo tardiʼ, perché così lei mi avrebbe baciato e poi saremmo andati avanti. Ma dopo avermi detto: ʻBuonanotte (bonsoir), cercate di dormire beneʼ, esattamente come le prime due volte lei si limitò a un bacio sulla guancia (baiser sur ma joue). Stavolta non osai richiamarla. Ma il cuore mi batteva così forte che non potei rimettermi disteso. Come un uccello che si sposta dallʼuna estremità allʼaltra della sua gabbia, passavo senza posa dalla preoccupazione che Albertine potesse andar via a una calma relativa. [Albertine se ne va]. Dʼimprovviso (tout à coup), nel silenzio della notte, fui colpito da un rumore (bruit) in apparenza insignificante che mi riempì di terrore, il rumore della finestra (le bruit de la fenêtre) di Albertine che si apriva violentemente. [...]. Inoltre, il rumore (bruit) era stato violento, quasi sgarbato (violent, presque mal élevé), come se avesse aperto rossa di collera e dicendo: ʻQuesta vita mi soffoca, 180

basta, ho bisogno dʼaria!ʼ. Non mi dissi esattamente queste cose, ma continuai a pensare a quel rumore (bruit) della finestra aperta da Albertine come a un presagio più misterioso e più funebre dʼun grido di civetta. In preda a unʼagitazione (agitation) come non ne avevo più avute, forse, dalla sera di Combray quando Swann aveva pranzato a casa nostra, andai avanti e indietro tutta la notte per il corridoio (couloir), sperando, col rumore che facevo, di attirare lʼattenzione di Albertine, che avrebbe avuto pietà di me e mi avrebbe chiamato; ma dalla sua camera non sentivo venire alcun rumore (aucun bruit). A Combray avevo chiesto a mia madre di venire. Ma con mia madre temevo la sua collera e basta, sapevo di non diminuire il suo affetto esprimendole il mio. Per questo ho tardato a chiamare Albertine. A poco a poco sentii che era troppo tardi” (P, 399-403; 820-825). Il giorno dopo, e il successivo... “Ma lei, la sera, aveva continuato a baciarmi in quel modo (à mʼembrasser de la même manière), che mi rendeva furioso. [...]. E così, non avendo più da lei le soddisfazioni carnali (le satisfactions charnelles) alle quali tenevo [...]” (P, 404; 826). Albertine se ne va: “E quando, così, non ci fosse nessun inconveniente riguardo alla partenza, scegliere una giornata di bel tempo come questa – ce ne sarebbero state tante – in cui Albertine mi fosse indifferente (indifférente), e io fossi tentato da mille desideri; avrei dovuto lasciarla uscire senza vederla e poi alzarmi, prepararmi in fretta, lasciarle due righe, approfittando del fatto che, poiché in quel periodo non avrebbe potuto andare in nessun luogo che mi mettesse in agitazione. Mi sarebbe stato possibile, durante il viaggio, non raffigurarmi le cattive azioni che avrebbe potuto compiere, e che in quel momento, del resto, mi erano del tutto indifferenti (bien indifférentes); e, senza averla rivista, partire per Venezia. Suonai (je sonnais) per Françoise perché andasse a comprarmi una guida e un orario ferroviario, come avevo fatto da bambino (comme jʼavais fait enfant) [...]. Françoise, che aveva sentito la mia scampanellata (coup de sonnette), entrò [...]” (P, 414; 837). Albertine se nʼè andata.194

194 Più avanti, ad ulteriore testimonianza del desiderio mimetico: “E tuttavia, forse, se fossi stato interamente fedele, non avrei sofferto di infedeltà che non sarei riuscito a concepire. Mentre ciò che mi torturava immaginare in Albertine era il mio perpetuo desiderio di piacere a nuove donne, di iniziare nuovi romanzi; era attribuirle uno sguardo chʼio stesso il giorno prima, non avevo potuto, nemmeno al suo fianco, impedirmi di gettare sulle giovani cicliste sedute ai tavoli del Bois de Boulogne” (P, 806). 181

5) Il Narratore è figlio, fratello, amante... ma anche madre

Cito alcuni passi dalla Prigioniera che precedono lʼepisodio appena ricordato. E danno la conferma che “in nuce” lʻopera è contenuta già nel suo inizio; figuriamoci in quello che è il suo massimo sviluppo (la storia con Albertine).195 Cʼè una sorta di auto-analisi del Narratore; profonda, acuta. Una collezione di tutti gli elementi della scena-madre in una prospettiva che va mutando... Infatti, si ha la netta impressione che già ora, nel mezzo della messa in schiavitù di Albertine e di se stesso, il Narratore abbia colto lʼessenziale: “E il sonno di Albertine era, in effetti, quello dʼun bambino. [...]. Mi meravigliavo – come una madre, ancora (comme une mère encore)”. Il narratore è diventato madre, da bambino angosciato per lʼassenza della madre, dei suoi baci... Superando quellʼangoscia che annulla ogni “divisione”, che fa tuttʼuno di madre, sorella, figlia, amante... Qua e là il Narratore è ancora lui; ma solo perché non è ancora albeggiata la matinèe. Leggete queste pagine che richiamo solo a brandelli; e che danno unʼulteriore conferma del fatto che lʼopera è compiuta fin dal suo inizio; le manca solo quello che si chiama: “tirare le conseguenze”. “Se, un tempo, mʼero esaltato credendo di scorgere del mistero negli occhi di Albertine, adesso ero felice solo nei momenti in cui da quegli occhi, persino da quelle guance capaci di riflettere come occhi, a volte così dolci ma subito imbronciate, riuscivo a eliminare ogni mistero. Lʼimmagine che ricercavo, nella quale mi riposavo (je me reposais), attaccato alla quale avrei voluto morire (contre laquelle jʼaurais voulu mourir), non era più di unʼAlbertine dal passato sconosciuto, ma anzi di unʼAlbertine che conoscessi il più possibile (ed è per questo che il mio amore poteva essere duraturo solo a

195 Ad esempio, allʼinizio del Contro Saint-Beuve incontriamo – e siamo nel periodo che va dal 1905 al 1909 – quasi tutti gli episodi di memoria involontari. Mutatis mutandis. Ad esempio, la madeleine – che, in quanto conquille Saint-Jacques, porta con sé una quantità straripante di richiami – è qui rappresentata da “pane abbrustolito (pain grillé)” (CSB, 211-212; 6-7). Se consideriamo, invece, la Recherche, dal pain grillé si passa alla madeleine; che però, prima, si chiama biscotte. Nei folios 2 r°-10 r° del Cahier 25 si trova una nuova versione del testo sulla memoria involontaria, rifatta rispetto al Cahier 8, ed è qui che la biscotte si trasforma in una petite madeleine... (vedi Introduzione a Du coté de chez Swann, ed. Tadiè, vol. I, p.1068). 182

patto di restare infelice, giacché, per definizione, non soddisfaceva il bisogno di mistero), di unʼAlbertine che non riflettesse un mondo lontano ma desiderasse unicamente – e, in effetti, cʼerano dei momenti in cui sembrava che fosse così – di starmi accanto, in tutto simile a me (toute pareille à moi), immagine di ciò che precisamente era mio e non dellʼignoto (de ce qui précisement était mien et non de lʼinconnu). Quando è così – da unʼora dʼangoscia concernente una persona, dallʼincertezza se riusciremo a tenerla con noi o invece ci sfuggirà – che un amore è nato, questo amore porta con sé il marchio della rivoluzione che lʼha creato. Ricorda ben poco quel che prima dʼallora avevamo visto pensando a quella stessa persona. E le mie prime impressioni (premières impressions) di fronte ad Albertine sulla riva del mare potevano in minima parte sussistere nel mio amore per lei; in realtà, tali impressioni anteriori non occupano che pochissimo spazio in un amore del genere (ces impressions antérieures ne tiennent quʼune petite place dans un amour de ce genre), nella sua forza, nella sua sofferenza, nel suo bisogno di dolcezza, nel suo aspirare a un ricordo pacifico (paisible), pacificante (apaisant) in cui ci si vorrebbe rifugiare senza scoprire più niente di colei che si ama (ne plus rien apprendre de celle quʼon aime), nemmeno se vi fosse qualcosa di odioso da sapere (même sʼil y avait quelque chose dʼodieux à savoir); – persino se conserva le impressioni anteriori (même en conservant les impressions antérieurs), un tale amore è fatto di ben altra materia! A volte spegnevo la luce prima che lei entrasse. E nel buio, guidata dalla luce dʼun tizzone, Albertine si sdraiava accanto a me (se couchait à mon côté). Solo le mie mani, le mie gote riconoscevano, mentre i miei occhi – i miei occhi che tante volte temevano di trovarla mutata – non la vedevano. E così, col favore di questo amore cieco, lei si sentiva più del solito, forse, sommersa dalla tenerezza. Mi spogliavo, mi coricavo e – Albertine seduta su un angolo del letto (assise sur un coin du mon lit) – riprendevamo la partita o la conversazione interrotta dai baci (baisers); e tale, nel desiderio che solo ci fa provare interesse per lʼesistenza e il carattere di una persona, è la fedeltà che serbiamo alla nostra natura, mentre abbandoniamo via via le varie creature successivamente da noi amate (nous abbandonons successivement les différents être aimés tour à tour par nous), che una volta, scorgendomi nello specchio nel momento in cui baciavo (au moment où jʼembrassais) Albertine, chiamandola ʻbambina miaʼ, lʼespressione triste e appassionata del mio viso, simile a quello chʼesso avrebbe avuto accanto a Gilberte, di cui non mi ricordavo più, e a quella che forse avrebbe avuto un giorno 183

Albertine, mi fece pensare che al di sopra dʼogni considerazione concernente la persona (giacché lʼistinto vuole che consideriamo lʼattuale come lʼunica vera) io assolvevo ai dovere dʼuna devozione ardente e dolorosa rivolta come unʼofferta (offrande) alla giovinezza e alla bellezza femminili. E tuttavia, a questo desiderio dedicato come ʻex votoʼ alla giovinezza, e ai ricordi stessi di Balbec, nel bisogno chʼio avevo di tenere così Albertine ogni sera accanto a me (tous les soirs [...] auprès de moi) si mischiava qualcosʼaltro, qualcosa chʼera stato sino allora estraneo alla mia vita amorosa pur non essendo del tutto nuovo nella mia vita (qui avait été étranger jusqʼici à ma vie, au moins amoureuse, sʼil nʼétait pas entièrement nouveau dans ma vie). Era un senso di pacificazione (apaisement) quale, non avevo più provato dalle lontane sere di Combray in cui mia madre, chinandosi sul mio letto, mi portava un bacio di riposo (le repos dans un baiser). Certo, mi sarei molto stupito, a quel tempo, se mʼavessero detto che non ero poi così buono, e, soprattutto, che avrei mai cercato di privare qualcuno dʼun piacere. È probabilmente che, allora, mi conoscessi molto male, visto che il mio piacere dʼavere Albertine fissa in casa mia non era tanto un piacere positivo, quanto quello dʼaver ritirato dal mondo, dove ciascuno poteva a sua volta goderne, la fanciulla in fiore che così, se non mi dava grandi gioie, almeno ne privava gli altri. Lʼambizione, la gloria mi avrebbero lasciato indifferente. Tanto più ero incapace di provare dellʼodio. Eppure, amare carnalmente voleva dire, per me, godere dʼun trionfo su tanti concorrenti. Non lo ripeterò mai abbastanza: era, più dʼogni altra cosa, una pacificazione (cʼétait un apaisement plus que tout)” [...]. Ciò non toglie che, sul finire del pomeriggio, io fossi felice dellʼapprossimarsi dellʼora in cui avrei potuto chiedere alla presenza di Albertine la pace (apaisement) della quale avevo bisogno. Disgraziatamente, fu una di quelle sere che non portavano calma (apaisement), e in cui il bacio (baiser) datomi da Albertine al momento di lasciarmi, affatto diverso dal bacio abituale (bien différent du baiser habituel), non mi avrebbe procurato più tranquillità di quanta me ne procurasse un tempo il bacio (baiser) di mia madre i giorni in cui era arrabbiata e io sentivo, pur non osandolo richiamarla, che non sarei riuscito a prender sonno. [...]. Non era più la calma (apaisement) del bacio (du baiser) di mia madre a Combray ciò che provavo in quelle sere accanto (auprès) ad Albertine, ma, al contrario, lʼangoscia di quando mia madre mi diceva a malapena buonasera (à peine bonsoir) o, addirittura, non saliva affatto in camera mia, perché era arrabbiata con me o perché qualche ospite la tratteneva. Quellʼangoscia – non la sua trasposizione nellʼamore – 184

no, proprio quella stessa angoscia, che un tempo sʼera specializzata (spécialisée) nellʼamore e che, una volta operatasi la spartizione, la divisione delle passioni, gli era stata assegnata in modo esclusivo, adesso sembrava nuovamente estesa a tutte, ridiventata indivisa comʼera nellʼinfanzia (semblait à nouveau étendue à toutes, redevenue indivise, de même que dans mon enfance), quasi che tutti i miei sentimenti, tremando (qui tremblaient)196 di non poter trattenere Albertine accanto al mio letto (auprès de mon lit), come unʼamante e al tempo stesso come una sorella, come una figlia, financo come una madre (à la fois comme une maîtresse, comme une sœur, comme une fille, comme une mère aussi) della cui buonanotte quotidiana ricominciavo a provare il puerile bisogno, avessero preso ad assomigliarsi, a unificarsi nella prematura sera della mia vita (dans le soir prématuré de ma vie), che sembrava dover essere non meno breve dʼun giorno dʼinverno (qui semblait devoir être aussi brève quʼun jour dʼhiver). Ma, pur provando la stessa angoscia della mia infanzia, il mutamento dellʼessere per il quale la provavo, la diversità del sentimento chʼesso mi ispirava, la trasformazione stessa del mio carattere mi rendevano impossibile pretendere la pacificazione (da Albertine come allora da mia madre (le changement de lʼêtre qui me la faisait éprouver, la différence de sentiment quʼil mʼinspirait, la transformation même de mon caractère, me rendaient impossible dʼen réclamer lʼapaisement). [...]. Ogni minuto mi avvicinava al saluto serale (du bonsoir) che Albertine, alla fine, mi dava. Ma quella sera il suo bacio (baiser), dal quale lei era assente e che non riusciva ad incontrarmi, mi lasciava talmente ansioso che – mentre, col cuore palpitante, la guardavo raggiungere la porta – pensavo: ʻSe voglio trovare un pretesto per richiamarla, trattenerla, fare la pace (faire la paix), devo affrettarmi, non ha più che qualche passo da fare per esser fuori della stanza, soltanto due, soltanto uno, sta girando la maniglia, apre, è troppo tardi, ha richiuso la porta!ʼ Forse non troppo tardi, tuttavia. Come un tempo (comme jadis) a Combray, quando mia madre mi lasciava senza avermi calmato con il suo bacio (sans mʼavoir calmé par son baiser), volevo slanciarmi sui passi di Albertine, sentivo che non avrei avuto pace (paix) finché non lʼavessi rivista, che rivederla stava per diventare qualcosa di immenso come non era ancora mai stato (que se revoir allait devenir quelque chose dʼimmense quʼil nʼavait pas encore été jusquʼici), e che se non fossi riuscito a sbarazzarmi da solo di quella tristezza avrei forse preso la vergognosa abitudine dʼandare a

196 Vedi il tremare, il tremito... fondamentali in Kafka; parole-chiave. 185

mendicare dalla mia amica; saltavo fuori dal letto quando Albertine era già in camera sua, passavo e ripassavo lungo il corridoio (dans le couloir) nella speranza che lei uscisse e mi chiamasse; rimanevo immobile davanti alla sua porta per non rischiare di lasciarmi sfuggire un suo sommesso richiamo; tornavo per un istante nella mia camera e vedere se, per un caso fortunato, non vi avesse dimenticato un fazzoletto [...]. Qualche volta, in sere come quella, ricorsi a uno stratagemma (ruse) che mi assicurava il bacio (qui me donnait le baiser) di Albertine. Sapendo quanto, una volta coricata, il suo addormentarsi fosse rapido (e lo sapeva anche lei se istintivamente, non appena si stendeva, si toglieva le pantofole che le avevo regalate e lʼanello, posandolo accanto a sé come faceva in camera sua prima di mettersi a letto), e sapendo quanto il suo sonno fosse profondo e tenero il risveglio, mi allontanavo col pretesto dʼandare a cercare qualcosa e la facevo stendere sul mio letto (je la faisais étendre sur mon lit). Quando tornavo, sʼera addormentata (elle était endormie), e io mi trovavo davanti questʼaltra donna chʼella diventava (cette autre femme quʼelle devenait) quando la si vedeva di fronte. Ma ben presto la sua personalità cambiava, perché mi sdraiavo al suo fianco (je mʼallogeais à côté dʼelle) e trovavo il suo profilo. Potevo mettere la mano nella sua, sulla sua spalla, sulla sua guancia: Albertine continuava a dormire. Potevo prenderle la testa, rovesciarla, accostarla alle mie labbra, farle circondare il mio collo con le braccia: lei continuava a dormire come un orologio che non si ferma, come un animale che continua a vivere in qualunque posizione lo si metta, come una pianta rampicante, un convolvolo che continua a protendere i suoi rami qualunque appoggio gli si dia. [...]. Il suo sonno, dʼaltronde, non lʼallontanava da me, e lasciava sussistere in lei la nozione della nostra tenerezza; aveva anzi lʼeffetto di abolire tutto il resto; la baciavo (je lʼembrassais), le dicevo che uscivo a fare due passi e lei, socchiudendo gli occhi, mi diceva stupita (e, in effetti, era già notte): ʻMa dove vai a questʼora, caro?ʼ (aggiungendo a ʻcaroʼ il mio nome), e subito si riaddormentava. Il suo sonno non era che una sorta di cancellazione del resto della vita, un silenzio uniforme da cui spiccavano di tanto in tanto solo parole familiari di tenerezza. Avvicinandole lʼuna allʼaltra, si sarebbe composta la conversazione incorrotta (sans alliage), lʼintimità segreta dʼun puro amore (dʼun pur amour). Quel sonno così calmo (si calme) mi estasiava come estasia una madre (comme ravît une mère), che lo considera una qualità, il buon sonno del bambino (le bon sommeil de son enfant). E il sonno di Albertine era, in effetti, quello dʼun bambino (et son sommeil était dʼun enfant, en effet). E anche il suo 186

risveglio, talmente naturale, talmente dolce, prima ancora che si rendesse conto di dovʼera, che mi chiedevo a volte con spavento se, prima di vivere con me, non fosse tata abituata a non dormire sola, a trovarsi accanto qualcuno quando riapriva gli occhi. Ma la sua grazia infantile era più forte. Mi meravigliavo – come una madre, ancora (comme une mère encore) – [...]” (P, 75-77, 87, 111-115; 462-464, 475, 502-506).

6) Da Albertine scomparsa

Citiamo, un poʼ alla rinfusa, da Albertine scomparsa. Avendo già dettagliato la prima e lʼultima edizione della scena- madre, dopo aver illustrato alcune tappe significative, qui diamo un elenco delle numerose ricorrenze dei suoi elementi costitutivi; ma senza commentare. Lʼunico commento, come dire, cumulativo può essere il seguente: la scena-madre domina tutta la Recherche. E, anche quando essa non è rievocata con lʼinserto di modulazioni decisive, i suoi elementi costituivi sono sparsi dappertutto. Come dire: chi non è interessato, può concludere qui la lettura. “Questa seconda ipotesi non era quella dellʼintelligenza, e il timor panico che avevo provato la sera in cui Albertine non mʼaveva baciato (pas embrassé), la notte in cui avevo sentito il rumore della finestra (le bruit de la fenêtre), questo timore non era ragionato” (AS, 423; 10) + “Quando mi era lontano, adesso, il desiderio di Venezia! Come un tempo a Combray quello di conoscere Madame de Guermantes quando veniva lʼora in cui non tenevo più che a unʼunica cosa, avere la mamma in camera mia (avoir maman dans ma chambre). Ed erano proprio, in effetti, tutte queste inquietudini che, richiamate dalla nuova angoscia, erano accorse a rafforzarla, ad amalgamarsi con essa in una massa omogenea che mi soffocava” (AS, 424; 11-12) + “[...] e non ho detto [...] che dal giorno in cui aveva smesso di baciarmi (avait cessé de mʼembrasser) Albertine era stata lʼimmagine stessa della scontentezza, tutta rigida, impalata, con una voce triste nelle cose più semplici, lenta nei movimenti, senza più un sorriso” (AS, 427; 14-15) + “[...] vivere senza di lei [...] passare davanti alla porta della sua camera [...] sapendo che lei non cʼera, coricarmi senza averle dato la buonanotte (sans lui avoir dit bonsoir), ecco [...]” (AS, 448; 41) + “Dismisi ogni fierezza nei confronti di Albertine, le mandai un telegramma [...] che chiedevo solo di baciarla (lʼembrasser) per un istante tre volte alla settimana 187

prima che andasse a dormire. [...]. Poiché avevo bisogno della sua presenza, dei suoi baci (de ses baisers). [...]. Anche quando lei usciva, quando ero solo, continuavo a baciarla (je lʼembrassais encore). [...]. Istintivamente mi passai una mano sul collo, sulle labbra, che si sentivano baciati (embrassés) da lei da quando era partita e che non lo sarebbero stati mai più; vi passai una mano così come la mamma, quando era morta la nonna, mi aveva accarezzato dicendomi: ʻPovero piccino, la nonna che ti voleva tanto bene non ti bacerà più (ne tʼembrassera plus)” (AS, 476-477; 72-73) + “[...] a me che ricevevo così teneri baci (embrassait alors si tendrement) da colei che adesso era morta” (AS, 480; 77) + baci = baisers 2 vv. (AS, 482; 80) + “Cercavo di baciare (embrasser) lʼimmagine di Albertine [...] io lʼavevo baciata (embrassée) per la prima volta [...]” (494; 94) + “Avevo anche voluto persuadermi che i nostri rapporti fossero lʼamore, che praticassimo reciprocamente i rapporti chiamati amore, dal momento che lei ricambiava docilmente i baci (les baisers) che le davo. E per aver preso lʼabitudine di crederlo, non avevo perduto soltanto una donna che amavo, ma una donna che mi amava, una sorella, una figlia, una tenera amante (ma sœur, mon enfant, ma tendre maîtresse)” (AS, 498; 99) + “Chi mʼavrebbe detto a Combray, quando aspettavo con tanta tristezza la buonanotte (bonsoir) di mia madre, che le mie ansie sarebbero scomparse per una fanciulla la quale non sarebbe stata a tutta prima, sullʼorizzonte del mare, che un fiore da cui i miei occhi sarebbero stati attratti ogni giorno – ma un fiore pensante (mais une fleur pensante197) e nei cui pensieri io aspiravo tanto puerilmente a occupare un grande spazio da soffrire al pensiero che ignorasse i miei buoni rapporti con Madame de Villeparisis? Sì, era per la buonanotte (bonsoir), per il bacio (baiser) di quellʼestranea che avrei dovuto, in capo a qualche anno, soffrire come quando, bambino, mia madre non veniva a salutarmi (me voir). Questa Albertine così necessaria, del cui amore la mia anima era ormai quasi unicamente composta, se Swann non mi avesse parlato di Balbec io non lʼavrei mai conosciuta” (AS, 501; 102-103) + “le avrei consentito di soddisfarli, e adesso potrei ancora baciarla (je lʼembrasserais encore)” (AS, 509; 112) + “volevo baciarla (je voulais lʼembrasser)” (AS, 511; 115) + “Per persuadermi della sua innocenza mi bastava baciarla (lʼembrasser) [...] e contro cui si infrangerebbero i baci (baisers)” (AS, 530; 138) + “Avermi dato un bacio (mʼavoir embrassé) (AS, 531; 139) + “il desiderio di baciare (embrasser) le grosse guance di Albertine” (AS, 532; 140) + “[...] Albertine sarebbe

197 Pascal! 188

venuta a dargli il bacio della buonanotte (viedrait lui dire bonsoir et lʼambrasser)” (AS, 534; 143) + “[...] così come dopo il lungo intervallo seguito al bacio rifiutato (baiser refusé) (AS, 537; 146) + “Lei mi diceva che non faceva nulla di male, che aveva soltanto, il giorno che aveva baciato (embrassé sur les lèvres) Mademoiselle Vinteuil [...]” (AS, 539; 149) + “continuava a tormentarmi quel bacio (baiser) che Albertine mʼaveva detto di aver dato” (AS, 540; 150) + “quando abbracciavo (jʼembrassais) unʼoperaia” (AS, 552; 164) + “Ciò che avrei voluto era che la nuova venuta venisse ad abitare a casa mia, e mi desse ogni sera, prima di lasciarmi, un bacio familiare di sorella (un baiser familial de sœur). Avrei dunque potuto credere – se non avessi sperimentato quanto mi era insopportabile la presenza di unʼaltra – di rimpiangere un bacio (baiser) più di certe labbra, un piacere più di un amore, unʼabitudine più di una persona” (AS, 554; 166) + “di colpo (tout dʼun coup) mi tornò in mente il ricordo di una frase che le avevo detta a Balbec il giorno che lei mi aveva regalato una matita. Rimproverandola di non aver permesso che le dessi un bacio (mʼavoir laissé lʼembrasser), le avevo detto di trovare tanto naturale questo, quanto ignobile che una donna avesse rapporti con unʼaltra donna” (AS, 556; 168) + “Ora, io non avevo mai ripensato a quel nipote, che era stato forse lʼiniziatore grazie al quale io avevo avuto da lei il primo bacio (jʼavais été embrassé la premère fois)” (AS, 614; 238) + “dai dolci baci della sera (baisers du soir) che Albertine mi dava sul collo” (AS, 642-643; 272).198

198 Da Il tempo ritrovato, in aggiunta ai passi già citati, ricordiamo i seguenti: “Uno, allora, con il tono di chi confessa qualcosa di satanico, azzardava: ʻSapete, barone, da ragazzo, voi non ci crederete, guardavo dal buco della serratura i miei genitori che si baciavano (sʼembrasser)” (TR, 827; 494). “Guardavo Gilberte e non pensai: “ʼVorrei rivederlaʼ, ma le dissi che mi avrebbe sempre fatto piacere essere invitato a casa sua assieme a delle ragazze molto giovani, possibilmente povere, in modo da poterle fare contente con qualche piccolo regalo, senza chiedere loro, d'altronde, più che di far rinascere in me le fantasticherie, le tristezze dʼun tempo, e forse, un giorno improbabile, un casto bacio (un chaste baiser)” (TR, 988; 688- 689). 189

Cap. 10

IL VOYEURISMO E SERIALITÀ

Ho riletto lʼultimo capitolo di Marcel Proust. À la recherche du temps perdu di Gérard Coges:199 “Esplication de text”. Coges invita a rileggere “Le sommeil dʼAlbertine” (III, 577-580 [...]): “Depuis ʻEntre les deux décors si différents...ʼ jusquʼà ʻJe mʼétais embarqué sur le sommeil dʼAlbertineʼ”... Ne viene una convincente interpretazione del celebre episodio de La prisonnière tutto centrata sul tentativo (illusorio) del Narratore di ottenere il possesso dellʼaltro: di Albertine; possesso favorito dal fatto chʼella dorme; e soggiace al suo sguardo (sguardo che non può ricambiare): il classico registro del voyeurismo... tipico del Narratore. Qui si tratta del sonno di Albertine; e Albertine è sospettata di saffismo proprio perché il Narratore ha scoperto che la sua amica “era stata quasi allevata dallʼamica di Mademoiselle Vinteuil” (P, 462); non cʼè bisogno di ricordare che il Narratore, adolescente, ha spiato Mademoiselle Vinteuil e la sua amica in uno scambio lesbico colorato del sadismo contro il padre Venteuil ormai morto (presente in effigie). Proprio la conclusione della sezione richiamata da Coges “Je mʼétais embarqué sur le sommeil dʼAlbertine”, mi suggeriva unʼaltra chiave. È evidente il richiamo al pascaliano “Nous sommes embarqués”, sottinteso, nella medesima barca... che è questa vita etc. Conseguentemente è difficile che la chiave voyeuristica sia quella esclusiva. In ogni caso, ho letto la sezione e vi propongo di seguirne lo sviluppo; mi sembra utile allargarla: (P, 573-589; 450- 469). Forse è utile una precisazione: la Recherche non va letta come una via crucis le cui stazioni propongono un percorso lineare scandito in tappe. Forse neppure la via crucis propriamente detta è scandibile in tappe... quasi che il Cristo sia maturato passo dopo passo fino a diventare capace del sacrificio sul Golgota... I sinottici e non solo i sinottici insistono nel chiarire che ogni gesto, ogni parola del Cristo sono stati profetizzati... Non a caso nel canone cristiano i profeti sono stati collocati per ultimi rispetto al canone ebraico dove sono

199 PUF, Paris, 1990, pp. 116 sgg. 190

collocati tra la “legge” e gli “scritti”: il Nuovo Testamento doveva essere il seguito, lʼadempimento delle profezie.200 Siamo, quindi, in presenza non tanto di una “crescita” quanto di una “dimostrazione”.201 Lo stesso si può dire di Proust o del Narratore; che non procede da una caduta reso la redenzione (dal tempo perduto a quello ritrovato)... Nel corso della matinée il Narratore capisce – quasi attraverso una rivelazione – che la sua “vocazione” è reale. Questo fa sì che la tale vocazione agisca retroattivamente su tutta la Recherche. Che, quindi, in quellʼistante, si presenti tutta e perfetta (= compiuta). Sappiamo che Proust ha immaginato, di essa, insieme lʼinizio e la fine... 202 Ne consegue che lʼepisodio del “sonno di Albertine” non va letto come una tappa... Ma come un evento inevitabile... Come una “stazione” sacra... Dove non è opportuno fermarsi (ricordate lʼepisodio della “trasfigurazione”?);203 ma che rivela unʼessenza...

200 La Bibbia ebraica e quella cristiana, che si fonda sullʼebraica, non si equivalgono. Alle loro sacre scritture gli ebrei danno il nome di Tanakh, un acronimo post-biblico derivato dagli equivalenti ebraici delle lettere t, n e k (pronunciate kh) corrispondenti alle parole ebraiche torah = legge o insegnamento, nebiʼim = profeti, ketubim = scritti. Se si ribattezzasse lʼAntico Testamento con uno acronimo equiparabile, questo sarebbe Takhan, perché lʼordine è, grosso modo, legge, scritti, profeti. Vedi Dieu. Une biographie, di Jack Miles, 1995, Robert Laffont, Parigi, 1996, pp. 22 sgg., 434 sgg. 201 “In questo libro, dove non con cʼè un solo fatto che non sia fittizio, dove non cʼè un solo personaggio ʻa chiaveʼ, dove tutto è stato inventato da me secondo le necessità della mia dimostrazione (______), io debbo dire in lode del mio paese che solo i parenti milionari di Françoise, che avevano abbandonato il loro ritiro per aiutare la nipote priva di appoggio, son persone reali che esistono” (G, ______). 202 Interessanti, a questo proposito, le notazioni di Roger Shattuck (Proust, 1974, Mondadori, Milano, 1991, pp.154-162). Anche queste di Genette: “Il y a une réussite de Proust, qui est dʼavoir entrepris et mené à son terme une expérience spirituelle; mais conbien peu nous importe cette réussite auprès de cette autre, qui est dʼavoir encore réussi lʼéchec de son entreprise, et de nous avoir laissé de cet échec le spectacle parfait quʼest son œuvre” (Proust palimpseste, in Figures I, Éd. Du Seuil 1966, p. 67). 203 Matteo 17, 1-13, Marco 9, 2-13; Luca 9, 28-36: “E sei giorni appresso, Gesù prese seco Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato in loro presenza, e la sua faccia risplendé come il sole, e i suoi vestimenti divennero come luce. Ed ecco, apparvero loro Mosé ed Elia, che ragionavano con lui. E Pietro fece motto a Gesù, e gli disse: Signore, egli è bene che non stiam qui; se tu vuoi, facciam qui tre tabernacoli; uno a te, uno a Mosé, e uno a Elia”... Pietro non ha capito quel chʼè successo: il Cristo è stato loro rivelato come la realizzazione di Mosé e di Elia... 191

“E, in se stesse, cosʼerano Albertine e Andrée? Per saperlo, bisognerebbe immobilizzarvi, non vivere più in questa attesa perpetua di voi in cui voi passate sempre diverse; bisognerebbe non amarvi più per fermarvi, non conoscere più il vostro arrivo interminabile e sempre sconcertante (votre interminable,204 et toujours déconcertante arrivée), o fanciulle, o raggio successivo nel turbine in cui palpitiamo di vedervi riapparire, riconoscendovi appena nella velocità vertiginosa della luce”... La sezione che stiamo esaminando è piena di queste precisazioni circa lʼ“essere in fuga”... Ogni essere è in fuga; sia quello che amiamo (lʼaltro), sia noi rispetto a noi stessi (altrʼaltro noi stessi)... Quindi lʼimmobilizzazione non è possibile... Ma il sonno immobilizza? (In questo caso Albertine)... Nella concezione proustiana lʼimmobilità è possibile solo quando cessa lʼinteresse (anzi, da questa cessazione consegue necessariamente): “Non dico che non verrà il giorno in cui persino a queste luminose fanciulle noi daremo dei tratti estremamente definiti (des caractères très tranchés); ma sarà perché avranno smesso di interessarci, il loro arrivo non sarà più per il nostro cuore lʼapparizione chʼesso si aspettava diversa e che lo lascia, ogni volta, sconvolto sulle nuove incarnazioni. La loro immobilità sarà il riflesso della nostra indifferenza (indifférence), che le consegnerà al giudizio dellʼintelletto”. Il sonno immobilizza Albertine? E il Narratore? Talvolta succede che, per il Narratore, Albertine sia, oltre a quella che lʼ“abitudine” ha forgiato (“ci si rende conto di quale lavoro di modellatura compia giorno dopo giorno lʼabitudine”), quella chʼegli ha visto a Balbec... E qui ritorna la seconda frase del “drame du coucher”, quella della “riposante” accoglienza... “Le sere (les soirs) non li leggeva ad alta voce [la mamma gli aveva letto François le Champi], la mia amica mi faceva un poʼ di musica, o iniziava con me delle partire a dama o delle conversazioni chʼio interrompevo, le une e le altre, per baciarla (pour lʼembrasser). I nostri rapporti erano dʼuna semplicità che li rendeva riposanti (qui les rendait reposants). [...]. Non era lei, in effetti [...], la fanciulla che avevo vista per la prima volta a Balbec [...]”? Sì, nel Narratore “viveva ancora il desiderio ispiratomi un tempo dal corteo insolente e fiorito”...

204 “attesa interminabile (attente interminable)” (P, 575; 453)... 192

Ma Albertine “prigioniera della sua gabbia” è la stessa dellʼAlbertine della “piccola banda”? “Questo [il modellarsi di Albertine con ombre misteriose], dʼaltronde, era dovuto al sovrapporsi non solo delle immagini successive (des images successives) che mʼero costruite di Albertine, ma anche delle grandi qualità dʼintelligenza e di cuore, dei difetti di carattere, per me insospettati le une e gli altri, che Albertine, in una germinazione, una moltiplicazione di se stessa (une moltiplication dʼelle-même), una carnosa efflorescenza dai cupi colori, aveva aggiunti (ajoutés) a una natura in altri tempi pressoché nulla (jadis peu près nulle) e adesso difficile da approfondire (maintenant difficile à approfondir)”. Straordinario: anche dopo essere stata prigioniera, Albertine è diventata “difficile da approfondire”... Che cosa il Narratore cerca di volta in volta di “approfondire”? Le “impressioni”... Sulle “impressioni” e il loro “approfondimento” – che porta allʼ“estrazione” da esse delle “essenze” – si gioca tutta la Recherche... Diventata prigioniera, Albertine è passata dal “pressoché nulla” allʼ“inapprofondibile”... Albertine non più “una semplice sagoma sullo sfondo del mare”; la sua figura ha registrato un “arricchimento, un incremento di solidità e di volume”... Un passaggio dalla psicologia piana... Ecco il “sonno di Albertine”: Distesa dalla testa ai piedi sul mio letto (sur mon lit), in un atteggiamento talmente naturale che sarebbe stato impossibile inventarlo, mi dava lʼidea dʼun lungo stelo fiorito che qualcuno avesse posato là, e così era in effetti: la capacità di sognare (le pouvoir de rêrver) che avevo soltanto in sua assenza la ritrovavo (je la retrouvais), in quei momenti, accanto a lei (auprès dʼelle), come se, dormendo, si fosse trasformata in una pianta. Il suo sonno realizzava così, in una certa misura, la possibilità dellʼamore: da solo, potevo pensare a lei ma lei mi mancava. Non la possedevo (je ne la possédais pas); lei presente, le parlavo, ma ero troppo assente da me stesso per poter pensare. Quando lei dormiva non dovevo più parlare, sapevo che lei non mi guardava più (je savais que je nʼétais plus regardé par elle), non avevo bisogno di vivere alla superficie di me stesso (je nʼavais plus besoin de vivre à la surface de noi-même). Chiudendo gli occhi, perdendo coscienza, Albertine sʼera spogliata, lʼuno dopo lʼaltro, dei vari caratteri dʼumanità che mʼavevano deluso dal giorno in cui lʼavevo conosciuta. Ormai era animata solo dalla vita inconsapevole dei vegetali, degli alberi, una vita più remota dalla mia, più strana, e che tuttavia mʼapparteneva di 193

più (vie plus différente de la mienne, plus étrange et qui cependant mʼappartenait davantage)”. Interrompiamo un momento: il sonno di Albertine non comporta, qui, la presa di possesso, a cui è preliminare la presa dello sguardo... Sembra che la “capacità di sognare” coinvolga anche il Narratore; il quale è messo in contatto con una vita “differente” dalla sua, “strana”... Ma lʼessenziale è la “differenza”! Proseguiamo: “Il suo io non scappava via ogni momento (sʼéchappait pas à tous moments), come quando conversavamo, attraverso i varchi del pensiero inconfessato e dello sguardo (et du regard). Albertine aveva richiamato a sé tutto ciò che di lei era al di fuori di lei; si era rifugiata, racchiusa, riassunta (elle sʼétait réfugiée, enclose, résumée) nel suo corpo. Tenendola sotto il mio sguardo (en la tenant sous mon regard), fra le mie mani (dans mes mains), io avevo quellʼimpressione di possederla tutta intera (jʼavais cette impression de la posséder tout intière) che non avevo quando era sveglia (que je nʼavais pas quand elle était réveillée). La sua vita mi era sottomessa (sa vie mʼétait soumise), esalava verso di me il suo respiro leggero. Ascoltavo il mormorio di quellʼemanazione misteriosa, dolce come uno zefiro marino, fiabesca come un chiaro di luna, chʼera il suo sonno. Finché durava, potevo sognare di lei e al tempo stesso guardarla (je pouvais rêver à elle et pourtant la regarder), e – quando il sonno diventava più profondo (plus profond) – toccarla, baciarla (la toucher, lʼembrasser). Quel che provavo allora era un amore puro, immateriale e misterioso (un amour devant quelque chose dʼaussi pur, dʼaussi immatériel, dʼaussi mystérieux) che se mi fossi trovato davanti alle creature inanimate di cui è fatta la bellezza della natura. E, in effetti, non appena dormiva un poʼ profondamente (un peu profondément), Albertine smetteva dʼessere la semplice pianta chʼera stata: il suo sonno, in riva al quale sognavo (son sommeil, au bord duquel je rêvais) con una fresca voluttà di cui non mi sarei mai stancato, di cui avrei potuto godere allʼinfinito, era per me un intero paesaggio” . Albertine, da “una” pianta che era è diventato un intero paesaggio... Albertine ha catturato nel suo sogno il Narratore... Sì, Albertine è diventata ancora più prigioniera – si è “riassunta” nel suo corpo –, è stata dominata dallo sguardo del Narratore... Ma è chiaro che il Narratore “sogna di lei” e “al tempo stesso” la guarda; e quando il sonno diventa più “profondo”, la tocca e la bacia... 194

Ma il piacere è “puro, immateriale, misterioso”; come le essenze che si sprigionano dalle impressioni... quelle impressioni che il sogno “approfondisce” (il sonno di Albertine, quando diventa più “profondo” trascina nel profondo anche il Narratore)... Sì, cʼè del voyeurista; ma anche del violentatore (il Narratore guarda, tocca, bacia)... Ma, invece di considerare il “sonno di Albertine” nella chiave della spiata di Montjouvain non è forse il caso di considerare quella spiata nella chiave di questo sogno? “Approfondire” non implica una violenza? Il Narratore si avvicina al letto... si siede sulla sedia accanto al letto; addirittura sul letto (à côté du lit, puis sur le lit même): “Ho passato sere incantevoli a parlare, a giocare con Albertine, mai però paragonabili per dolcezza a quelle in cui la guardavo dormire (mai jamais dʼaussi doux que quand je la regardais dormir). [...]. Ormai era immobile (elle restait désormais immobile). [...]. Pur conoscendo diverse Albertine in una sola, mi sembrava di vederne ancora molte altre riposare accanto a me. Le sue sopracciglia, arcuate come mai le avevo viste, circondavano i globi delle palpebre come un dolce nido dʼalcione, Razze, atavismi, vizi affioravano alla superficie del suo volto. Ogni volta che spostava la testa creava una donna nuova, una donna di cui non sospettavo lʼesistenza. Mi sembrava di possedere non una, ma innumerevoli fanciulle (il me semblait posséder non pas une, mais dʼinnobrables jeunes filles)”. Mi sembra evidente: qui non avviene la presa di possesso di Albertine, ma lʼapertura allʼinfinito di fanciulle che il sogno riscuote da Albertine (e dal Narratore)... Ricordatevi delle razze, degli atavismi, dei vizi... Più avanti il Narratore ne parlerà a proposito di se medesimo... Albertine è ormai “immobile”; sì, possibile oggetto di un “ratto”; ma essa si moltiplica... Della molteplicità derivante non si dà presa di possesso; si dà possibilità di “approfondimento”: “Il suo respiro, gradatamente più profondo (plus profonde), le sollevava regolarmente il seno e, sopra, le mani incrociate, le perle, che lo stesso movimento spostava in modo diverso, come le barche (comme ces barques), le cime dʼormeggio che il moto dellʼonda fa oscillare. Allora, sentendo che il suo sonno aveva raggiunto la pienezza, che non rischiavo più dʼurtare negli scogli della coscienza ricoperto ora dal mare profondo del sonno profondo (par la pleine mer du sommeil profond), saltavo decisamente sul letto senza far rumore (délibérément je sautais sans bruit sur le lit), mi coricavo lungo il suo corpo, le cingevo con un braccio la vita, le posavo le 195

labbra sulla guancia e sul cuore e poi, su tutte le parti del corpo, la sola mano rimastami libera e sollevata anchʼessa, come le perle, dal suo respiro di dormiente; io steso (moi-même) venivo lievemente spostato da quel movimento regolare. Mi ero imbracato nel sonno di Albertine (je mʼétais embarqué sur le sommeil dʼAlbertine)”. Mi sembra evidente che qui non cʼè una presa di possesso; niente di brutale; cʼè lʼapertura allʼinfinito; il Narratore salta su letto della dormiente e si imbarca nel suo sonno... A proposito del voyeurismo, il Narratore, dopo aver tratto un piacere “meno puro”: “Sceglievo per guardarla, il lato del suo viso che non si vedeva mai, e che era così bello (quʼon ne voyait jamais et qui état si belle)”... Quel che il Narratore vede è quel che non ha mai visto... Vedere lʼinvisibile corrisponde al voyeurismo? Se sì, evviva il voyeurismo. In tal modo il Narratore accede alla “differenza”: “Ma quanto più strano è che una donna sia attaccata, come Rosita a Doodica, a unʼaltra donna (à une autre femme) dalla cui diversa bellezza (dont la beauté différente) si deduce un carattere differente (un autre caractère), e per vedere la quale bisogna mettersi di profilo mentre lʼaltra la si vede di faccia”... “[...] potevo baciarla senza aver interrotto il suo sonno (je pouvais lʼembrasser sans avoir interrompu son sommeil). Mi sembrava, in quei momenti, dʼaverla posseduta più completamente, come una cosa incosciente e senza resistenza della muta natura (il me semplait que je venais de la posséder plus complètement, comme ne chose inconsciente et sans résistance)”: il Narratore bacia Albertine senza interromperne il sonno; gli “sembra” di averla posseduta più completamente; in realtà ha avuto un contatto con Albertine inconscia; con se stesso inconscio; con lʼinconscio. “Assaporavo il suo sonno con un amore disinteressato e pacificante (désintéressé et apaisant) [...]”. Sappiamo che il disinteresse (e il pacificante) sgorga dallʼinvolontario... “[...] ascoltarla parlare non mi faceva discendere in lei così profondamente (je ne descendais pas tout de même aussi avant en elle)”... Qui il Narratore, scendendo “assi avant en elle”, scende anche di più in se stesso... Non è un caso che qui viene tralasciata la “conversazione” (“comme quand nous causions”)... “Continuavo a sentire, a raccogliere, di momento in momento, il mormorio, rasserenante (apaisant) come unʼimpercettibile brezza, del suo puro respiro (de sa pure haleine). Avevo davanti a me, mia (à moi), tutta unʼesistenza fisiologica; non meno a lungo di quanto, un 196

tempo, rimanevo disteso sulla spiaggia, al chiaro di luna, sarei rimasto ora a guardarla (à la regarder), ad ascoltarla. Talvolta si sarebbe detto che il mare ingrossava, che la tempesta si faceva sentire sin nella baia, e io mi mettevo come lei (comme elle) ad ascoltare il rombo del suo respiro, chʼera adesso un russare”. Albertine è diventato il paesaggio; questa volta marino... Quando Albertine aveva troppo caldo, si toglieva, già quasi addormentata, il chimono e lo gettava su una poltrona. Un chimono prezioso per il Narratore geloso: nella sua tasca interna una firma, un appuntamento... “Quando sentivo che il sonno di Albertine era ormai profondo, lasciavo i piedi del suo letto, da dove lʼavevo contemplata a lungo senza alcun movimento (sans fair un mouvement). Per azzardare un passo, preso da una curiosità ardente nel percepire il segreto di quella vita offerta, floscia e indifesa (offert, floche et sans défence) sopra la poltrona, Forse lo facevo, quel passo, anche perché guardar dormire senza muoversi (sans bouger) diventa, alla lunga, stancante. E così, piano piano, voltandomi di continuo per controllare che Albertine non si svegliasse, arrivavo fino alla poltrona. Là mi fermavo, restando a lungo a guardare (je restais longtemps à regarder) il chimono così comʼero (comme jʼétais) rimasto a lungo a guardare Albertine. Ma (e forse ho avuto torto) mai ho toccato il chimono, messo la mano nella tasca, guardato le lettere. Alla fine, capendo che non mi sarei deciso, me ne tornavo a passi di lupo accanto al letto di Albertine e mi rimettevo a guardar dormire lei [...]”. Il chimono è descritto come un corpo: offert, floche et sans défence; esso è paragonato al corpo di Albertine: comme; guardato sì, ma violato no! Il Narratore se ne sta “immobile”. Tale e quale Albertine... Quando la bacia, bacia la vita che esce da lei e entra dentro di lei: “[...] per avere il suo respiro vicino alla mia guancia, nella sua bocca, che schiudevo sulla mia dove, contro la mia lingua, passava la sua vita”. “Ma a questo piacere di vederla dormire, che era dolce quanto quello di sentirla vivere, un altro metteva fine, ed era quello di vederla svegliarsi”. Lo svegliarsi, lo sappiamo, è il passare da un mondo allʼaltro... nel quale non ci si orienta, non ci riconosce... Il piacere che prova il Narratore è vedere Albertine riconoscersi: nella sua casa, in lui: “Si trattava – a un livello più profondo, più misterioso (à un degré plus profond et plus mystérieux) – del piacere stesso che la mia amica abitasse in casa mia. [...]. Ancora più dolce era che, dal fondo del sonno (du fond du sommeil) risalendo gli ultimi gradini della scala del sogno, fosse nella mia camera (dans ma chambre) che Albertine 197

rinasceva alla coscienza e alla vita, si chiedeva fugacemente ʻdove sono (où suis-je)?ʼ e, vedendo gli oggetti da cui era circondata, la lampada la cui luce le faceva appena sbattere gli occhi, poteva rispondersi che era a casa dal momento che si svegliava a casa mia (chez moi). In quel primo, delizioso momento dʼincertezza, era come sʼio prendessi di nuovo e più completamente possesso (possession) di lei, giacché non era lei che, dopo essere uscita, rientrava in camera sua, ma era la mia camera che, non appena riconosciuta da lei, si affrettava a rinchiuderla, a contenerla (la contenir), senza che gli occhi di Albertine manifestassero il minimo turbamento, restando invece calmi come se nemmeno si fosse addormentata. Rivelata dal suo silenzio, lʼesitazione del risveglio non si rifletteva per nulla nel suo sguardo”. Sappiamo dellʼangosciante disorientamento nella “chambre” che è una di tante “chambres” e non si sa quale... Ebbene, qui è come se qualcuno – il Narratore – avesse vegliato accanto al dormiente, partecipato al suo sonno e al suo sogno, per poter garantire una transizione, da un mondo allʼaltro, senza trauma... Il Narratore insiste sulla “differenza” tra Albertine adesso e Albertine a Balbec... Non sono passati molti anni... Eppure un mutamento “sostanziale e improvviso” è avvenuto; quando ha scoperto che la sua amica era stata “quasi allevata” dallʼamica di Mademoiselle Vinteuil... Quando ha avuto il sospetto che Albertine fosse lesbica... La spiata di Montjouvain e il sonno di Albertine si incontrano. Il Narratore vorrebbe eliminare il mistero proposto dalla possibilità che Albertine sia lesbica; cerca unʼimmagine diversa da questa troppo “differente” dalla prima; disperatamente: “lʼimmagine che cercavo, nella quale mi riposavo, accanto alla quale avrei voluto morire”... Il Narratore desidera, addirittura, unʼAlbertine non diversa da lui: “che desiderasse [...] di starmi accanto, in tutto simile a me (toute pareille à moi), immagine di ciò che precisamente era mio e non dellʼignoto (image de ce qui précisement était mien et non delʼinconnu)”... Il Narratore che da poco si è “imbarcato”, vuole sbarcare... Sazio di ignoto, cerca il noto... Le “prime impressione (premiètes impressions)” di fronte ad Albertine sulla riva del mare non possono sussistere nellʼamore per lei... queste “impressioni anteriori (impressions antéreieures)” occupano un piccolissimo spazio in “un amore del genere”, “nella sua forza, nella sua sofferenza, nel suo bisogno di dolcezza, nel suo 198

aspirare a un ricordo pacifico, pacificante (paisible, apaisant) in cui si vorrebbe rifugiare senza scoprire più niente di colei che si ama, nemmeno se vi fosse qualcosa di odioso da sapere”. Ecco riemergere quel che va sotto il nome di “paresse”: non ricerca delle “impressioni”, ma paura di esse... Ricerca della pace, della pacificazione... “persino se conserva le impressioni anteriori, un tale amore è fatto di ben altra materia! A volte spegnevo la luce prima che lei entrasse. E nel buio, guidata appena dalla luce dʼun tizzone, le mie gote riconoscevano, mentre i miei occhi – i miei occhi che tante volte temevano di trovarla mutata – non al vedevano (sans que mes yeux la vissent). È così, con favore di questo amore cieco, lei si sentiva più del solito, forse, sommersa di tenerezza”. È evidente che il voyeurismo è audacia di vedere lo sconosciuto (anche il lesbismo della figlia di Venteuil e della sua amica, lʼomosessualità di Charlus etc. Leggete gli “approfondimenti, talvolta abissali, di Proust su i due “casi”). Qui il Narratore non vuole vedere... Tenebris faventibus... – quale filologia diversa di “nel buio, guidata appena dalla luce” – sommerge Albertine nelle tenerezze... Il Narratore è reticente alle nuove impressioni... Vuole non volere... Quando, vedendosi nello specchio mentre sta baciando Albertine chiamandola “bambina mia”, scopre una novità: scopre che lʼespressione “triste e appassionata” del proprio viso è “simile a quella chʼesso avrebbe avuto un tempo accanto a Gilberte”... Tutto questo lo porta ad unʼipotesi nuova: “mi fece pensare che al di sopra dʼogni considerazione concernente la persona (giacché lʼistinto vuole che consideriamo lʼattuale come lʼunica vera) io assolvevo ai doveri dʼuna devozione (devotion) ardente e dolorosa rivolta come unʼofferta (comme une offrande) alla giovinezza e alla bellezza femminile” La mente va alle “serie” deleuziane. Non si tratta di archetipi! Di serie! Emerge – è quasi un sintomo (cioè, un segnale) – il linguaggio religioso (non per questo profanatorio) che caratterizza, ad esempio, il “baiser” della buonanotte: “E tuttavia, a questo desiderio dedicato come un ʻex votoʼ alla giovinezza, e ai ricordi stessi di Balbec, nel bisogno chʼio avevo di tenere così Albertine ogni sera accanto a me (tous les soirs [...] après de moi) si mischiava qualcosʼaltro, qualcosa chʼera stato sino allora estraneo alla mia vita amorosa (qui avait été étranger jusquʼici à ma vie, ou moins amoureuse) pur non essendo del tutto nuovo nella mia vita (sʼil nʼétait pas entièrement nouveau dans ma vie). Era un senso di pacificazione (apaisement) che non avevo più provato dalle lontane sere di Combray in cui mia madre, 199

chinandosi sul mio letto, mi portava in un bacio il riposo (le repos dans un baiser)”. Lʼabbiamo già notato, anche se solo in sede di anticipazione, a proposito di “razze, atavismi vizi”, di binari, di serie... Poco sopra abbiamo incontrato formule religiose... che si rivolgono a riti sacri; che al Narratore sembrano estranee alla sua vita amorosa appartenendo solo a quella filiale. Il fatto è che il “bacio” filiale ha una valenza amorosa e quello dʻamante una valenza filiale... E tutti ubbidiscono a delle regole... Quali? Forse, piuttosto che parlare di “archetipi” è più prudente parlare di “serie”... Il narratore, nel tentativo di venire al dunque – al comune denominatore della vita amorosa sensu lato – conclude: “Lʼambizione, la gloria mi avrebbero lasciato indifferente (indifférent). Tanto più ero incapace di provare dellʼodio. Eppure, amare carnalmente voleva dire, per me, godere dʼun trionfo su tanti concorrenti (jouir pour moi dʼun triomphe sur tant de concurrentes). Non lo ripeterò mai abbastanza: era, più dʼogni altra cosa, una pacificazione (un apaisement)”. La pacificazione, lʼabbiamo visto, è il risultato che produce il bacio della buona notte. Ora il Narratore ci spiega che essa consiste in un trionfo sulla concorrenza; un freudiano concluderebbe che il “padre” e i suoi equivalenti sono i concorrenti; e Girard, mutatis mutandis, approverebbe. Sostenendo che può emergere il triangolo anche se non necessariamente edipico... Ma proseguiamo. “Poco importava che, prima del suo ritorno, io avessi dubitato di Albertine, lʼavessi immaginata nella camera (dans la chambre) di Montjouvain; mi bastava che, in vestaglia, si sedesse di fronte alla mia poltrona, o ai piedi del mio letto se, comʼera più frequente non mi ero alzato, per deporre tutti i dubbi sul suo conto, rimettendoli a lei perché me ne liberasse (pour quʼelle mʼen déchargeât) con lʼabdicazione (lʼabdication) dʼun credente in preghiera. Per tutta la serata, lei aveva saputo, maliziosamente appallottolata (pelotonée espièglement) sul mio letto, giocare con me come una grossa gatta [...]”... Straordinario. Ricompare lʼ“abdicazine” (al culmine del “drame du coucher” abdicò il padre; ma, forse lʼabdicazione più dolorosa fu quella della madre)... Tutto qui avviene in una prospettiva religiosa: avete notato lʼallure del “Padre nostro”: “rimettici i nostri peccati come noi li 200

rimettiamo” = “per deporre tutti i dubbi sul suo conto, rimettendoli a lei”... Il congiuntivo non infrequente in Proust ma raro in francese in “pour quʼelle mʼen déchargeât” ne è unʼaltra prova. (Per non parlare del fatto che in ballo è la preghiera di un credente). Quando, dopo le seduzioni che abbiamo saltato, “poi, al momento di lasciarmi, mi si avvicinava per darmi la buonanotte (pour me dire bonsoir), era la loro dolcezza divenuta quasi familiare (quasi familiare) chʼio baciavo (que je la baisais) sui due lati del suo collo poderoso che non mi pareva mai, allora, abbastanza scuro, né di grana abbastanza grossa, come se queste due solide qualità avessero avuto in Albertine qualche rapporto con la sua leale bontà”. Sì, le seduzioni di Albertine danno a questa lʼaccesso al bacio del Narratore perché la rendono “quasi familiare”; quasi identica alla madre (etc)... Di nuovo lʼ“aura” di sacralità che si infittisce (su un personaggio = una funzione), poi si estende (ad un altro/a a tutti/e) etc. Più avanti: “[...] in mezzo ad espressioni carnali, se ne riconoscevano altre chʼerano tipiche (qui étaient propres à) di mia madre e di mia nonna. A poco a poco, infatti, venivo assomigliando a tutti i miei parenti (à tous mes parents), a mio padre che (in tuttʼaltro modo dal mio, certo, perché le cose si ripetono, sì, ma non senza grandi variazioni [car si les choses se répètent, cʼest avec de grandes variations]) si interessava tanto a quale tempo facesse; e non a lui soltanto, ma sempre di più a mia zia Léonie”. Tra poco ritorniamo sul padre... Evidente la rassomiglianza di Albertine alla madre ma, immediatamente dopo, quella del Narratore al padre (a tutti i parenti): la “serie” si riproduce, e ogni “stazione” ripete quella del corrispondente itinerario, ma anche lo varia. La zia Léonie... Anche lei passava il tempo... tra lʼaltro a spiare dalla finestra quel che succedeva nel paese...: “A zia Léonie, così bigotta, e con la quale avrei giurato di non avere il minimo punto di contatto”... Invece! Anche la maniacalità, la sedentarietà... della zia... “Ora, sebbene ogni giorno ne trovassi il pretesto in un malessere particolare, a far sì che io rimanessi così sovente a letto era un essere, non Albertine, non un essere chʼio amassi, ma un essere che aveva su di me più potere dʼun essere amato: era, trasmigrata in me (trasmigrée en moi), dispotica al punto da far a volte tacere i miei sospetti gelosi o almeno da impedirmi dʼandare a verificare se fossero o meno fondati, era mia zia Léonie. Non bastava chʼio assomigliassi esageratamente a mio padre, tanto da non accontentarmi di consultare come lui il barometro, ma da 201

diventare io stesso un barometro vivente, e mi lasciassi comandare da mia zia Léonie restandomene a osservare il tempo, non solo dalla mia camera o addirittura dal letto? Ecco che, adesso, parlavo ad Albertine un poʼ come da bambino, a Combray, avevo parlato a mia madre, un poʼ come la nonna parlava con me. Superata una certa età, lʼanima del bambino che siamo stati e lʼanima dei morti da cui siamo usciti vengono a gettarci a manciate le loro ricchezze e le loro disgrazie, chiedendoci di cooperare ai nuovi sentimenti che proviamo e nei quali, cancellando la loro vecchia effigie, li rifondiamo in una canzone originale (en une création originale).205 Così, tutto il mio passato a partire dagli anni più remoti e, al di là di questi, il passato dei miei parenti mischiavano al mio impuro amore per Albertine la dolcezza dʼun affetto al tempo stesso filiale e materno (à la fois filiale et maternelle). Siano destinati a ricevere, da una certʼora in poi tutti i nostri parenti, che arrivano da lontano e si raccolgono attorno a noi”. Forse non cʼè bisogno di commento. Il sesso magnificamente descritto; quindi: “Cʼera solo, quando si metteva su un lato, un certo aspetto del suo viso (così bello e buono se visto di fronte) che non potevo sopportare, adunco come in certe caricature di Leonardo, rivelante, si sarebbe detto, la malvagità, lʼaspra avidità di guadagno, la furbizia di una spia (la furberie dʼune espionne), la cui presenza presso di me mʼavrebbe fatto orrore e che sembrava smascherata da quel profilo. Mʼaffrettavo a prenderne fra le mani il volto di Albertine e la rimetterlo di faccia”. È questione di spionaggio! Di novo sesso: e considerazioni sulla vita amorosa (la vita in comune): promossa dalla dolcezza, ma inevitabilmente un “inferno segreto” che traspare “in modo involontario” da gesti “sintomatici”. Vita in comune non importa con chi; perché nonna, zia, madre padre... queste figure si rieditano in quelle del Narratore e di Albertine... Perché la vita (in comune o no) è inferno. Questa vita che è inferno da dove è nata? “[...] a chi mi avesse chiesto cosa significava quella vita da eremo, in cui mi sequestravo al punto da non andare più a teatro, avrei potuto (e non avrei voluto) rispondere chʼessa traeva origine dallʼansia di una sera (elle avait pour origine lʼanxiété dʼun soir) e dal bisogno di provare a me stesso, nei giorni che lʼavrebbero seguita, che colei di cui avevo scoperto lʼincresciosa infanzia non avrebbe avuto la possibilità, se lʼavessi voluto, di esporsi alle stesse tentazioni. [...]. Distruggerle [le possibilità di tradimento] – o tentare di farlo – giorno dopo giorno era probabilmente la causa

205 Dellʼ“air de la chanson” Proust parla altrove (CSB, 303). 202

per la quale (était sans doute la cause pourquoi) mi era così dolce baciare quelle guance che non erano più belle di tante altre (qui nʼétaient pas plus belles que bien dʼautres); sotto ogni dolcezza carnale un poʼ profonda cʼè il permanere dʼun pericolo”. Nʼétaient pas plus belles que bien dʼautres = tutte le situazioni (“stazioni”) appartengono a un percorso seriale; elle avait pour origine lʼanxiété dʼun soir / était sans doute la cause pourquoi = molto probabilmente non cʼè origine né causa se non inerente alla “serialità”. Anche se tutto sembra originare dallʼ“anxiété” e su essa riconverge. 203

Cap. 11

LA DIALECTIQUE DE LA CURIOSITÉ ET DE LʼINDIFFÉRENCE206

1) Negazione e bastian contrario

Abbiamo già diverse volte commentato uno breve e celebre scritto di Freud del 1925, Die Verneinung.207 Lʼessenziale del meccanismo della negazione: “Oppure – prosegue Freud –: ʻLei domanda chi possa essere questa persona del sogno: Non è mia madre.ʼ Noi rettifichiamo: dunque è la madre. Ci prendiamo la libertà, nellʼinterpretazione, di trascurare la negazione e di cogliere il puro contenuto dellʼassociazione”. Freud precisa: “Talvolta si riesce a procurarsi in modo assai comodo (sehr bequeme) un chiarimento desiderato sul materiale rimosso inconscio. Si domanda: qual è secondo Lei la cosa più inverosimile fra tutte in quella situazione? Che cosa a Suo parere era allora più lungi da Lei? Se il paziente cade in questa trappola e nomina la cosa in cui gli riesce di credere di meno, quasi sempre (fast immer), così facendo, confessa la cosa giusta”.208

206 Pierre-Edmon Robert, Notice, in La prisonnière, À la recherche du temps perdu, édition étabile sous la direction de Jean-Yves Tadié, Gallimardi, 1988, vol. III, p.1646. “Cʼest précisément parce quʼelle lʼaimait quʼaucun visage, quʼaucun sourire, quʼaucune démarche ne lui étaient aussi agréables que les siens et non parce que son visage, son sourire, sa démarche étaient plus agréables que dʼautres, quʼelle lʼaimait” (Lʼindifférent, Einaudi, 1978,42). 207 Lezioni di Psicologia dinamica, Borla, Roma, 2003, pp. 51 sgg.; Letteratura è psicoanalisi, Borla, Roma, 2005, pp. 83 sgg.; Chi ha paura della psicologia dinamica?, in Per una nuova interpretazione dei sogni, a cura di Benelli, Moretti & Vitali, Milano, 2006, pp. 139-171. 208 1925, Die Verneinung, in Gesammelte Werke, Frankfurt, Fischer, vol. XIV, 1948, 5a ed. 1976, pp. 11-15; tr. it., La negazione, in Opere, Torino, Boringhieri, vol. 10, 1978, pp. 197-201. Eguaglia il “comodo” di Freud il “forse” di Proust nel passo seguente: “Ma quello scuotere la testa, così abitualmente associato a un avvenimento futuro, insinua proprio per questo un senso dʼincertezza nella negazione (dénégation) di un avvenimento passato. Di più: evoca semplici ragioni di convenienza personale piuttosto che un atteggiamento di riprovazione o unʼimpossibilità morale. Vedendo Odette far segno che non era vero, Swann capì che forse (peut-être) lo era” (SW, 362; 437-438). 204

Commentando nelle Memorie dʼoltretomba, lʼ“apologia” di Zanze contro lʼaffermato “falso” compiuto da Silvio Pellico – che ha raccontato dʼessere stato da lei abbracciato… in carcere –, il visconte de Chateaubriand afferma: “La vivace sposa non vuole riconoscersi nel delizioso efebo rappresentato dal recluso; ma contesta il fatto con tanta grazia, che negandolo lo prova (mais elle conteste le fait avec tant de charme, quʼelle le prouve en le niant”.209 In letteratura è psicoanalisi ho sostenuto che lʼessenziale del ragionamento di Freud è contenuto nel breve passaggio di Chateaubriand. In 2 + 2 = 5 ho richiamato la “negazione della negazione” di Hegel... Qui vorrei dimostrare che Proust conosce bene il meccanismo; che cʼè un intervento suo che ha lʼallure della dichiarazione di Freud; che è proprio dellʼarte la lettura à rebours. Ma vorrei, soprattutto, dimostrare (1) che Proust fa una descrizione addirittura più precisa, o completa, dellʼoperari della negazione: contemplando, oltre alla negazione (esagerata) che bisogna capovolgere in affermazione, anche lʼaffermazione esagerata... (2) che la sua perspicacia coglie lʼambivalenza del meccanismo: la negazione o lʼaffermazione esagerate dicono sempre, anche se solo parzialmente, il vero; 3) che il gioco a nascondino pervade tutto lʼuniverso delle relazioni umane; e coincide con quello che Girard definisce “desiderio mimetico”.210

209 De Chateaubriand, 1834-1994, Mémoires dʼoutre-tombe, Librairie Garnier Frères, Paris, voll. VI, p. 317; tr. it. Memorie dʼoltretomba, Einaudi-Gallimard, Torino, 1995, vol. 2, p. 738. 210 Dei commentatori di Proust Mariolina Bongiovanni Bertini è uno dei pochi che ha richiamato il lavoro di Girard non solo nella bibliografia (Guida a Proust (Mondadori, 1981, pp. 35, 80, 130, 401-402). Giustamente Bertini cita un passo del Tempo ritrovato in cui è chiaramente descritto il rapporto amoroso come un mors tua vita mea: “A questo punto, lei ha capito: [...] può dispensarsi dal dare di più, e approfittare dʼun momento in cui lui non può più stare senza vederla, in cui vuole metter fine alla guerra a qualsiasi costo (il veut a tout prix terminer la guerre), per imporgli una pace (en lui imposant une pax) la cui prima condizione sarà il platonismo dei rapporti” (TR, 819; 485). Citano Girard solo in bibliografia Henri Bonnet nella seconda edizione di Marcel Proust de 1907 à 1914, Nizet, Paris, 1971, p. 258; Roger Shattuck in Proust, 1974, Mondadori, Milano, 1991, pp. 205, 216; Gérard Cogez in Marcel Proust. À la recherche du temps perdu, PUF, Paris, 1990, p. 124. Tadié, nella bibliografia annessa alla traduzione del 1987-1989, non lo cita... François Revel, al pari di Girard, proprio a proposito dellʼomessualità, richiama alcune notazioni sul narcisismo fatte da Freud (op. cit., pp. 149 sgg.). 205

A proposito di desiderio mimetico... Proust fu un prodigioso imitatore, un irresistibile caricaturista. Vedi i suoi Pastiches. Pensando ad essi Citati parla di “istinto mimetico allo stato puro”.211 Segnalo lʼintroduzione alla traduzione dei medesimi (con testo a fronte) di Giuseppe Merlino.212 Opportuno il suo richiamo alla lettera a Marie Nordlinger, indispensabile aiuto nella traduzione di Ruskin: “Travaillez-vous? Moi, plus. Jʼai clos à jamais lʼère des traductions, que Maman favorisait. Et quant aux traductions de moi-même je nʼen ai plus le courage”.213 Straordinario questo “tradurre se stesso”. Questa impossibilità di uscire dal circolo mimetico. Al massimo: tradurre se stessi. Proust tenta di distinguere tra fare pastiche = tradurre gli altri e scrivere = tradurre se stesso. A Georges de Lauris (13 marzo 1915): “[...] je ne crains pas de faire dire des choses pas trop mal à Sainte- Beuve ou à Henri de Régnier [...]; ne prenant jamais, même inconsciemment, le bien dʼautrui, je ne fais jamais de pastiche plus ou moins involontaire dans mes œuvres. Cela me donne plus de plénitude et de gaieté quand jʼen fais ouvertement”.214 Osserva Giuseppe Merlino: “È lʼunico caso in Proust, io credo, in cui lʼaggettivo ʻinvolontarioʼ non appartiene al registro euforico della rivelazione, della verità e dellʼarte”.215

211 Introduzione a Marcel Proust di Leo Spitzer, Einaudi, 1959, p. XI. A proposito della capacità di immedesimazione e di presa i distanza: in due lettere, una a Louis de Robert (1 maggio 1913, CORR, XIII, p. 165) e una a Gide (22 marzo 1914, CORR, XIII, p. 119; tr. it. Lettere a Gide, SE, Milano, 1987, p. 23), Proust, quasi negli stessi termini, proprio lui che è “impotente a ottenere qualcosa per sé (me)” ha invece “il potere di procurare la felicità agli altri”: “Ho riconciliato non soltanto avversari ma persino amanti, ho guarito malati mentre non ho potuto far altro che peggiorare il mio male, ho indotto al lavoro dei pigri rimanendo tale io stesso”. Vedi la lettera a Proust a Robert de Montesquiou del 13 dicembre 1895: “Alors, en effet, par lʼeffet qui entraîne le corps à la suite de lʼâme, la voix, lʼaccent se rythmaient sans doute sur lʼallure de cette pensée empruntée. Si lʼon vous a dit plus, et si lʼon a parlé de caricature, jʼinvoque votre axiome [...]” (CORR, I, 451-452). 212 Marsilio, Venezia, 1991. 213 dicembre 1906. CORR, VI, 308. 214 CORR, XV, p. 84. 215 Ibidem, p. 38. In realtà Proust dirà qualcosa di molto simile (e di più articolato) nel suo saggio, del 1922, su Flaubert: un lettore di Flaubert... “vorrebbe continuare a parlare come loro. Bisogna permetterglielo un momento, lasciare che il pedale prolunghi il suono, bisogna cioè fare una parodia volontaria (un pastiche volontaire) per poter dopo di ciò ridiventare noi stessi e non continuare a fare parodia involontaria (un pastiche involontaire) per tutta la vita. La parodia volontaria (volontaire), la si fa del tutto spontaneamente: è chiaro che quando, anni fa, scrissi una contraffazione (dʼaltronde, detestabile) di Flaubert, non mi ero chiesto se il 206

Evidente: il pastiche è sempre volontario; ubbidisce, cioè, sempre alla volontà di potenza = alla volontà di imitazione... Lʼabbandono... il manque de volontè, apre alla possibilità della grazia... Richiamerò solo alcuni snodi dellʼesperienza del Narratore allo scopo di dimostrare la forza del desiderio mimetico, tale da comportare una lotta per la vita (la propria) e per la morte (lʼaltrui). Girard stesso ha trovato nellʼopera di Proust una dimostrazione articolata delle sue tesi.216

2) Freudianamente

Premettiamo unʼaffermazione decisa: “La menzogna è essenziale allʼumanità. Vi svolge un ruolo altrettanto importante, forse, quanto la ricerca del piacere, ricerca da cui è dʻaltronde comandata” (AS, 232).217 Il problema è, quindi, intravedere attraverso il velo... Segue la dichiarazione ad allure freudiana, a proposito di Charlus: “[...] avrei dovuto pensare che ci sono, lʼuno davanti allʼaltro,

canto che udivo dentro di me dipendesse dalla ripetizione deglʼimperfetti o dei participi presenti: altrimenti, non avrei potuto scriverlo. Oggi, cercando di segnalare in fretta talune particolarità dello stile di Flaubert, ho compiuto un lavoro inverso. Il nostro spirito non è mai soddisfatto finché non abbia saputo compiere una chiara analisi di quanto aveva prodotto in modo inconscio oppure una ricreazione vivente di quanto aveva prima analizzato” (A proposito dello “stile” di Flaubert, in Scritti mondani e letterari, Einaudi, Torino, 1984, 595; 547) 216 I mondi di Proust, 1961, in Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani, Milano, pp. 168-197); Problemi di tecnica in Proust e Dostoevskij (ibidem, pp. 199-220); La conversione proustiana, 1978, in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (Adelphi, Milano, 1983, pp. 473-478). Girard dimostra che, in Shakespeare, in Dostoevskij e in Joyce, il desiderio mimetico si esprime nellʼinsistente innamoramento della donna di un proprio amico (amata perché già amata quindi amabile, amanda). In Kafka. Un “tipo particolare” (2008, p. 256) ho segnalato Beethoven (vedi Maynard Solomon, Beethoven. La vita, lʼopera, il romanzo familiare, 1977, ed. italiana Marsilio Editore, Venezia, 2007): lʼ“immortale amata”, Antonietta Brentano, era moglie di un suo amico. Qui non possiamo non ricordare che Painter, il celebre biografo di Proust, dimostra la medesima ricorrenza in Proust (op. cit., pp. 67, 92, 312, 559). Painter, diversamente da Girard, supinamente iscrive questa vicissitudine del desiderio mimetico nellʼomosessualità. La medesima cosa Jean-Yves Tadié nella sua monumentale biografia (Marcel Proust, Gallimard, 1996, pp. 133, 495). Si distingue Duchêne (op. cit. 219). 217 “Lʼinterprete dei segni amorosi è necessariamente interprete di menzogne” (Gilles Deleuze, Marcel Proust, op. cit, p. 12). 207

due mondi, il primo costituito dalle cose che gli esseri migliori, i più sinceri (le meilleurs, les plus sincères), dicono, e dietro a questo il mondo composto dal succedesi di ciò che gli stessi esseri (ces mêmes êtres) fanno; e così, quando una donna sposata ci dice di un giovanotto: ʻOh! È verissimo (cʼest parfaitement vrai) che ho per lui unʼimmensa amicizia (immense amitié), ma è una cosa assolutamente innocente (très innocent), assolutamente puro (très pur), potrei giurarlo (je pourrais le jurer) sulla memoria dei miei genitoriʼ, dovremmo noi stessi (on devrait soi-même), anziché esitare, giurarci (jurer à soi-même) che con ogni probabilità (probablement) è appena uscita dalla stanza da bagno dove si precipita, per non avere bambini, dopo ciascuno dei suoi convegni con il giovanotto in questione” (AS, 612; 235). Il troppo che stroppia. (Per semplificare, in generale ordiniamo le citazioni in ordine cronologico; cioè, a partire da Dalla parte di Swann etc.).

3) Il troppo che stroppia...

Legrandin “era uno snob. Certo, di tutto questo non traspariva mai nulla nel linguaggio che i miei parenti e io amavamo tanto. E se io chiedevo: ʻConoscete i Guermantes?ʼ, Legrandin il conversatore rispondeva: “No, non ho mai voluto conoscerliʼ, sventuratamente, giungeva soltanto secondo a rispondere così, perché un altro Legrandin, che egli nascondeva con cura nel fondo di se stesso, che non faceva vedere a nessuno perché quello là, quel Legrandin, sapeva sul conto del nostro, e del suo snobismo, certe storie compromettenti, un altro Legrandin aveva risposto con la ferita dello sguardo, con il rictus della bocca, con il tono esageratamente grave (par la gravité excessive) della risposta, con le mille frecce da cui il nostro Legrandin sʼera trovato di colpo (en un instant) crivellato e illanguidito come un san Sebastiano dello snobismo: ʻAh! Come mi fate male! No, non conosco i Guermantes, non risvegliate il grande dolore della mia vitaʼ. [...]. Questo, ben inteso, non vuol dire che il signor Legrandin non fosse sincero quando tuonava contro gli snob. Non poteva sapere, almeno da se stesso, di esserlo lui, giacché noi non conosciamo mai che le passioni degli altri, e quel che arriviamo a sapere delle nostre è solo dagli altri che abbiamo potuto scoprirlo. Su di noi, esse agiscono in modo meramente secondario, attraverso lʼimmaginazione che sostituisce i moventi originari con altri moventi di ricambio, più decorosi dei primi” (SW, 128-129; 157-158) + 208

Leggere anche il seguito... + “– Chì? E perché? chiese il presidente dellʼordine, dissimulando la propria esultanza sotto uno stupore esagerato (exagéré); vi riferite ai miei ospiti? Aggiunse, sentendosi capace di continuare la finzione; ma cosa cʼè di chic nellʼinvitare a colazione degli amici? Devono pur mangiare, da qualche parte” (AF, 687; 832) + “ʻDʼaltronde, non ha la minima (aucune espèce) importanzaʼ. Frase equivalente a un riflesso (analogue à un réflex), identica, nelle più gravi come nelle più trascurabili circostanze; e rivelatrice (dénonçant), come in questo caso, dellʼeffettiva importanza attribuita alla cosa in questione da chi, a parole, gliela nega (en celui qui la déclare sans importance). Frase tragica, a volte, che sfugge prima dʼogni altra – e così carica, allora, di sconforto – a ogni uomo che, appena un poʼ orgoglioso, abbia perduto lʼultima speranza cui sʼaggrappava perché qualcuno gli ha rifiutato un favore: ʻAh, bene, non ha la minima importanza, mi arrangerò diversamenteʼ, quando il diverso arrangiarsi verso il quale non ha la minima importanza, vedersi respinti è, in qualche caso, il suicidio” (OF, 740; 898) + “Rimasi serio. Da un lato, trovavo stupido che mostrasse di credere o di voler far credere che nessuno, in realtà, fosse più chic di lei. Dallʼaltro, le persone che ridono così forte (si forte) di ciò che dicono, e che non è per niente spiritoso (et qui nʼest pas drôle), ci dispensano in tal modo, prendendo lʼilarità a loro carico, dal parteciparvi” (SG, 702; 851) + “Questo tono non traeva in inganno, e i segni opposti per mezzo dei quali esprimiamo i nostri sentimenti traducendolo nel loro contrario (par leur contraire) sono di così facile lettura che ci si chiede come possa esserci ancora qualcuno che dice, per esempio: ʻHo tanti inviti (jʼai tant dʼinvitations) che non so dove sbattere la testaʼ per dissimulare di non essere invitato da nessuno (pour dissimuler quʼil ne sont pas invités)” (SG, 1023; 268) + “Ma preferivo avere lʼaria di chi sa, non quella di chi domanda. Dʼaltronde, Albertine non mʼavrebbe risposto, o avrebbe risposto con un ʻnoʼ la cui ʻnʼ sarebbe stata troppo (trop) esitante e lʼ ʻoʼtroppo (trop) deciso” (SG, 1097; 348) + Ma era sicuramente per incontrarvi qualcuno, per prepararvi qualche piacere. Altrimenti, non ci avrebbe tenuto tanto (tellement). Voglio dire: non mi avrebbe ripetuto tante volte che non ci teneva (elle ne mʼeût pas répeté quʼelle nʼy tenait pas)” (P, 88; 476) + “ʻCredo che voi conosceste molto bene mio padre. – Ah! Lo credoʼ, disse Madame de Guermantes, in un tono malinconico che rivelava come capisse il dolore della figlia e con un voluto eccesso di intensità (avec un excès dʼintensité voulu) apparentemente inteso a dissimulare che non era sicura di ricordare molto esattamente il padre. ʻLʼabbiamo conosciuto molto bene, me lo 209

ricordo molto beneʼ. (E, in effetti, poteva ricordarselo: era venuto a trovarla quasi ogni giorno per venticinque anni). ʻSo benissimo chi era, vi diròʼ [...]” (AS, 580; 197-198).

4) ... e lʼinverso

“[...] a meno che parole siffatte, che in qualche modo devono essere lette alla rovescia (à lʼenvers), la loro lettura significando il contrario (le contraire) della verità, non siano il necessario effetto, il grafico negativo di un riflesso” (AF, 860; 1040) + “A volte, la scrittura in cui decifravo le menzogne di Albertine, senza giungere ad essere ideografica, aveva semplicemente bisogno dʼessere letta allʼincontrario (à rebours)” (P, 91; 479)

5) Non solo lʼaffermazione; anche lʼomissione...

“In Albertine, la sensazione della menzogna era data da molte particolarità già emerse nel corso di questa narrazione, ma principalmente (principalement) da questa: che, quando mentiva, il suo racconto peccava o per insufficienza, omissione (omission), inverosimiglianza, o – al contrario (au contraire) – per eccesso (excès) di fatterelli destinati a renderlo verosimile. La verosimiglianza, malgrado quel che ne pensa il mentitore, non è la verità. Non appena, mentre si sta ascoltando qualcosa di vero, si percepisce qualcosa che è soltanto verosimile, che lo è, forse, più del vero, che lo è forse troppo (qui lʼest peut-être trop), lʼorecchio musicalmente un poʼ esperto sente che non è così, come un verso falso o una parola ad alta voce, per un altro” (P, 178-179; 577-578).

6) Così è costruito il nostro linguaggio

Il troppo che stroppia... la recisa negazione, la recisa omissione... che costringono chi vuole sapere la “verità” a procedere à rebours... non sono delle eccezioni, sono la norma. Così funziona il linguaggio: “Le parole ʻquando ci si chiama marchese di Saint-Loupʼ, il signor di Guermantes le pronunciò con enfasi (avec emphase). Certo, sapeva benissimo che chiamarsi ʻduca di Guermantesʼ era ancora di più. Ma se il suo amor proprio tendeva piuttosto ad 210

esagerare la superiorità del suo titolo, lo spingevano ad attenuarla non tanto le regole del buon gusto, quanto le leggi dellʼimmaginazione. Ciascuno di noi vede in una luce migliore ciò che vede a distanza, ciò che vede negli altri. Così, le leggi generali che governano la prospettiva dellʼimmaginazione valgono per i duchi esattamente come per tutti mortali. E non soltanto le leggi dellʼimmaginazione, ma anche quelle del linguaggio. Ora, in questo caso si poteva applicare lʼuna o lʼaltra delle due leggi del linguaggio. Secondo la prima, ci si esprime come i componenti della propria categoria intellettuale e non come quelli della propria casta sociale. Il duca di Guermantes poteva dunque essere, nellʼeloquio, e persino quando voleva parlare della nobiltà, tributario dei piccolissimi borghesi che avrebbero detto ʻquando ci si chiama duca di Guermantesʼ, mentre una persona colta, uno Swann, un Legrandin, non lʼavrebbero mai detto. Un duca può scrivere un romanzo da droghiere, magari proprio sui costumi mondani, i suoi titoli nobiliari non essendogli, in questo caso, di nessun aiuto, e un plebeo meritare, con i suoi scritti, dʼessere definito aristocratico. Chi fosse, nella fattispecie, il borghese dal quale il signor di Guermantes aveva sentito dire ʻquando ci si chiamaʼ, probabilmente lo ignorava lui stesso. Ma unʼaltra legge del linguaggio vuole che, di tanto in tanto – così come si manifestano, e poi scompaiono, certe malattie di cui, in seguito, non si sente più parlare –, nascano in modi perlopiù imprecisabili (o spontaneamente, o per un caso paragonabile a quello che fece attecchire in Francia unʼerba grama americana perché un suo seme, rimasto impigliato nei fili dʼuna coperta da viaggio, era caduto su una scarpata della ferrovia) delle espressioni che, nello stesso decennio sentiamo usare da persone le quali, in proposito, non hanno preso nessun accordo tra loro” (G, 235-236; 284-285). “Non pretendo certo che mia nonna e i suoi rari simili fossero i soli a ignorare questo genere di calcoli. La media dellʼumanità, esercitando professioni delicate a priori, raggiunge in parte, grazie alla sua mancanza di intuito (par son manque dʼintuition), lʼignoranza di cui la nonna era debitrice al suo nobile disinteresse. Bisogna scendere, spesso, fino ai mantenuti, uomini o donne, per dover cercare il movente dellʼatto o delle parole apparentemente più innocenti nellʼinteresse, nella necessità della sopravvivenza. Quale uomo, quando una donna chʼegli sa dʼessere tenuto a pagare gli dice: ʻNon parliamo di danaroʼ, ignora che questa frase devʼessere considerata quel che in musica si chiama ʻuna battuta vuotaʼ? e che, in seguito, se gli dichiara: ʻMi hai fatto troppo soffrire, non mi dici la 211

verità, non ce la faccio piùʼ, dovrà interpretare: ʻUn altro protettore mi offre più di teʼ? E questo è ancora il linguaggio di una cocotte abbastanza vicina alle donne della buona società Gli apaches offrono esempi più eloquenti. Ma il signor di Norpois e il principe tedesco, se non conoscevano gli apaches, sʼerano abituati a vivere sullo stesso piano delle nazioni, e queste sono a loro volta, a dispetto della grandezza, esseri egoisti e astuti, che si possono domare solo con la forza o lʼinteresse, il quale può spingerle sino allʼomicidio – omicidio, in molti casi, simbolico anchʼesso, giacché il rifiuto di battersi o la semplice esitazione a battersi possono significare, per una nazione, ʻperireʼ” (G, 260-261; 315).

7) Lʼinconscio etc.218

In Freud il meccanismo della negazione è assimilabile a quello della rimozione; meglio, è una delle forme in cui la rimozione si manifesta. La rimozione in Freud implica lʼinconscio... Alberto Beretta Anguissola e Daria Galanteria, nelle note a Albertina scomparsa, citano uno studio di linguistica quantitativa, quello di Étienne Brunet: Le vocabulaire di Proust (Genève-Paris, Slaktine-Champin, 1983), vol. II, Index de À la recherche du Temps perdu, p. 752, da cui risulta che la parola inconscio, nelle forme sostantivali, aggettivali o avverbiali occorre 60 volte, corrispondenti al quadruplo rispetto alla frequenza media dello stesso vocabolo nella prosa letteraria del tempo di Proust (AS, 802). Non seguiamo i nostri nellʼimpresa anche per loro ardua di rintracciare influssi freudiani... Casomai, saremmo tentati di pensare a influssi proustiani su Freud! In realtà pensiamo (1) a un effetto dello spirito del tempo (ma allora perché il “quadruplo”?); (2) pensiamo che lʼinconscio è sempre esistito. Per inconscio non si deve intendere lʼinconscio freudiano. Quello dovuto alla rimozione... In Girard vediamo lʼutilizzazione del termine e del concetto di inconscio (legati al termine e al concetto di transfert [duplice]) indipendenti dal termine e dal concetto di rimozione. Noi abbiamo proposto che la vera rimozione è rimozione dellʼinfanzia, dellʼacategoriale.

218 “Une vérité clairement comprise ne peut plus être écrite avec sincérité” (Senancour, in Textes retrouvés. Recueillis et présentés par Philp Kolb, Gallimard, Paris, 1971, 84). 212

Alcune dichiarazioni dirimenti: “[...] quanto lavoro egli [Flaubert] dové sostenere per fissare tale visione, per farla passare dallʼinconscio nella coscienza (la faire passer de lʼinconscient dans le conscient), per incorporarla nelle varie parti del discorso!” (1920, A proposito dello “stile” di Flaubert, SA, 592; 544) + “Gli atti creativi procedono [...] non dalla conoscenza delle loro leggi, ma da una potenza oscura e incomprensibile, che non rafforziamo illuminandola” (1895, Chardin et Rembrandt, SA, 382; 323) + “Si tratta di tirar fuori dallʼincosciente (tirer hors de lʼinconscient) per farla entrare nel regno dellʼintelligenza, ma cercando di serbarla in vita (mais en tâchant de lui garder sa vie), di non mutilarla, di disperderne il meno possibile, una realtà che la solo luce dellʼintelligenza, pare, basterebbe a distruggere” (1922, Risposte ad unʼinchiesta delle “Annales”, SA, 640-641; 593). Lo scopo è quello di trovare un “esatto dosaggio di memoria e di oblio (exact dosage de mémoire et dʼoublie)” fornito dai ricordi involontari (1913, Swann spiegato da Proust, SA, 559; 509).219 Quindi, alcuni passaggi in cui è individuato allʼopera lʼinconscio: “[...] per esempio, in Corneille, e nei quali un romanticismo intermittente, contenuto, e per questo tanto più emozionante, non è tuttavia penetrato sino alle sorgenti fisiche della vita, non ha modificato lʼorganismo inconscio e generalizzabile (organisme inconscient et généralisable) in cui dimora lʼidea” (G, 549; 667) + “La filosofia parla spesso di atti liberi e atti necessari. Forse non cʼè atto più completamente subìto di quello che, in virtù di una forza ascensionale compressa (en vertu dʼune force ascensionelle comprimée) durante lʼazione, fa sì che, messo a riposo il pensiero, un ricordo fino allora livellato agli altri dalla forza oppressiva (oppressive) della distrazione risalga di slancio, giacché più dʼogni altro conteneva, a nostra insaputa (à notre insu), un fascino di cui ci accorgiamo soltanto ventiquattʼore dopo. E nemmeno cʼè atto, forse, più libero di questo, ancora sciolto dallʼabitudine, da quella sorta di mania mentale che, in amore, favorisce lʼesclusivo rinascere dellʼimmagine di una determinata persona” (OF, 822-823; 997) + “[...] la fanciulla, la Galatea appena desta nellʼinconscio di quel corpo (dans lʼinconsciet de cet corps) dʼuomo [...]” (SG, 621; 753) + “[...] ma in modo quasi inconscio, come per unʼabitudine o una particolarità animale (dʼune façon quasi inconsciente, par une sorte dʼhabitude et de particularité animale)” (TR, 703; 344) + “Era, quellʼin fin dei conti me ne infischio, un esemplare fra mille dello straordinario linguaggio,

219 Vedi quanto osservato sullʼoblio nel cap. 1. 213

così diverso da quello che parliamo abitualmente, in cui lʼemozione fa deviare ciò che volevamo dire e fa sbocciare al suo posto (à sa place) una frase affatto differente, emersa da un lago ignoto (émergée dʼun lac inconnu) in cui vivono le espressioni che non hanno rapporto col pensiero e per ciò stesso lo rivelano” (TR, 822; 489) + “Nelle persone che amiamo cʼè, immanente ad esse, un certo sogno che noi perseguiamo anche se non sempre riusciamo a discernerlo. [...]. Questo desiderio che si risveglia ogni volta alla vista dʼuna cavallerizza, chi può mai dire a quale sogno durevole e inconscio (à quel rêve durable et inconscient) sia legato, inconscio e non meno misterioso, per esempio, per chi ha sofferto tutta la vita di crisi dʼasma, dellʼinflusso dʼuna città apparentemente simile alle altre in cui, per la prima volta, respira liberamente? [...]. Nel signor di Charlus, tutto il suo sogno di virilità [...]. Insomma, il suo desiderio dʼessere incatenato, dʼessere percosso, tradiva, nella sua bassezza, un sogno non meno poetico (aussi poétique que) del desiderio, in altri, dʼandare a Venezia o di mantenere delle ballerine” (TR, 839- 840; 509-511) + “Dʼaltronde di Charlus ce nʼerano due, senza contare gli altri. Fra i due, lʼintellettuale passava il suo tempo a dolersi dʼandare verso lʼafasia, di pronunciare di continuo una parola, una lettera al posto di unʼaltra, Ma non appena gli succedeva realmente di farlo, lʼaltro Charlus, quello inconscio (le subconscient), che voleva essere invidiato quanto lʼaltro commiserato e ricorreva a civetterie che lʼaltro disdegnava, interrompeva immediatamente come un direttore dʼorchestra con degli orchestrali che pasticciano, la frase cominciata, e con unʼingegnosità infinita riattaccava quanto veniva dopo alla parola detta, in realtà, al posto di unʼaltra, facendola sembrare scelta a bella posta” (TR, 861; 536).220

220 Se è presente il concetto di inconscio, come del resto risulta evidente da molti dei passi già citati – considerate la forza ascensionale etc. –, inevitabilmente sono presenti quello di proiezione e quello di repressione/rimozione, di transfert... Proiezione: “E benché fosse solo, questa idea esterna alla sua figura, impalpabile, immensa e sussultante come una proiezione (projection), sembrava precederlo e guidarlo, simile a quelle Divinità, invisibili al resto degli umani, che stavano al fianco dei guerrieri greci” (G, 40; 40) + “Non era solo nel firmamento che proiettavo (que je mettais) il pensiero di Madame de Guermantes” (G, 120; 141) + “E ancora resta incerto se li abbiamo già incontrati – o se non abbiano piuttosto quel carattere di cosa non vista per la prima volta che viene proiettato su di essi da unʼillusione (que projette sur eux une illusion), da una suddivisione (perché parlare di sdoppiamento non era sufficiente)” (AS, 492; 92) + “non facciamo altro che proiettare (projecter) fuori di noi (hors de nous)” (AS, 496; 97). Repressione/rimozione: “Madame Verdurin non potè reprimere (réprimer) che in parte il sorriso [...]” (SG, 953; 191) + “E di colpo (tout dʼun coup), ricordando certi moti dʼimpazienza dʼAlbertine, dʼaltronde subito repressi (quʼelle réprimait du reste 214

aussitôt) (P, 295; 708) + “E poiché le impressioni che, per me, davano alle cose il loro valore, erano di quelle che gli altri non provano, o rimuovono (refoulent) senza pensarci come insignificanti [...]” (SG, 949; 187) + “Ma la natura che reprimiamo (que nous refoulons) non cessa per questo di abitare in noi” (P, 291; 703). Transfert: “Ma lʼimmaginazione non le situava più ora, nello stile di una grande attrice; a partire dalle mie visite a Elstir, era su arazzi, su certi quadri moderni che avevo trasferito (reporté) la fede interiore nutrita un tempo per la recitazione, per lʼarte tragica della Berma [...]” (G, 36; 38) + “Tuttavia, trascorsi alcuni giorni [...] fu questʼultimo [il ricordo di Madame Guermantes] che, alla fine, riformò più spesso, come spontaneamente, mentre i suoi concorrenti sʼeliminavano fra loro; fu sul suo versante che infine mi trovai – ancora volontariamente, tutto sommato, e come per scelta di piacere – ad aver trasferito (transferé) ogni mio pensiero dʼamore” (G, 61; 69) + “A dimostrarlo (più ancora della noia che si accompagna alla felicità) è quanto il vedere o non vedere quella persona, lʼesserne o non esserne stimati, lʼaverla o no a nostra disposizione, ci sarà indifferente quando non dovremo più porci il problema (a tal punto ozioso che non ce lo porremo neanche più) se non in relazione alla persona in quanto tale (en tant que se rattachant à elle), il processo di emozioni e di angosce essendo ormai obliato – almeno in rapporto a lei, perché potrebbe essersi sviluppato di nuovo, ma trasferito a unʼaltra persona (mais transferé à une autre). Prima, quando era ancora legato a lei, credevamo che la nostra felicità dipendesse dalla sua persona: dipendeva semplicemente dalla terminazione della nostra ansia. Il nostro inconscio (notre inconscient) era dunque, in quel momento, più chiaroveggente di noi, rendendo così piccola la figura della donna amata [...]” (AS, 433; 21-22). Presente anche il concetto (e la pratica) della libera associazione: “Anche la lettura dei giornali mi era odiosa e, perdipiù, non è inoffensiva. Dentro di noi, in effetti, da ogni idea, come da un crocevia in una foresta (comme dʼun carrefour dans une forêt), partono tante strade che, nel momento in cui meno ce lʼaspettiamo, mi trovavo davanti a un ricordo” (AS, 543; 153). (Lʼesempio massimo di libere associazioni è La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, di Sterne). Sappiamo, comunque, che Proust rifiutava le libere associazioni come metodo: “Au reste, je crains que lʼarchitecture de À la recherche du temps perdu ne soit pas plus sensible dans ce livre que dans Swann. Je vois des lecteurs sʼimaginer que jʼécris, en me fiant à dʼarbitraires et fortuites associations dʼidées, lʼhistoire de ma vie. Ma composition est voilée e dʼautant moins rapidement perceptible quʼelle se développe sur une large eschelle [...] mais pour voir combien elle est rigoureuse [...]” (lettera a Paul Souday, 10 novembre 1919. CORR, XVIII, p. 464). Ma ancora: “E come procede Proust per ottenere questo richiamo, questa resurrezione? Proprio nello stesso modo raccomandato da Freud: per associazione di idee. A dire il vero, mentre Freud, che è esterno al suo malato, cerca di provocare in lui delle associazioni, lo tenta, non gli dà tregua, Proust, che opera su se stesso, è costretto ad aspettare passivamente lʼoccasione di una associazione feconda. Soltanto il puro caso può premiarlo [...]. Ma una volta che il caso è stato catturato, lo sforzo di concentrazione che Proust fa per ricavarne ogni vantaggio e fargli restituire tutto quanto contiene è molto più vicino alla pressione che Freud esercita sul suo paziente e allʼappello costante da lui rivolto alla sua memoria” (Jacques Rivière, Proust e Freud. Alcuni progressi nello studio del cuore umano, 1923-1925; tr. it. Pratiche Editrice, Parla, 1985, p. 57). Infine: “Lʼʻassociation libreʼ est un discours qui a su perdre toute impatience et qui se déroule, en compression ou en extension, à lʼimage des intermittences syntaxiques de Proust. Elle devrait se dérouler à lʼimage de la phrase de Proust. 215

8) Il Proust e Freud di Rivière

Proust e Freud. Alcuni progressi nello studio del cuore umano, raccoglie alcuni saggi (conferenze) di Jacques Rivière che cadono nel periodo 1924-1925 e che sono stati pubblicati in Les Cahiers de lʼOccident nel 1927.221 Anche se solo di sfuggita, ricordiamo che Rivière era un rappresentante autorevole della Gallimard che, dopo Du côté de chez Swann, pubblicato da Grasset, pubblicherà tutto Proust; conoscerà Proust; avrà un significativo carteggio con lui... Rilevato che lʼinconscio “non è una scoperta di Freud”,222 e dichiarata lʼ“ignoranza in cui sono reciprocamente vissuti”,223 definisce quel che hanno in comune: “Proust e Freud inaugurano un nuovo modo di interrogare la coscienza. Rompono con le indicazioni del senso intimo; non vogliono più rimanervi paralleli; aspettano, spiano, anziché i sentimenti, i loro effetti; vogliono capirli attraverso i loro segni. Lʼuomo interiore è qui trattato per la prima volta come un corpo sulla cui composizione non possono ragguagliare se non le reazioni a cui dà luogo. Il metodo induttivo si estende agli aspetti psicologici che finora eravamo abituati ad accogliere e a credere veri”.224 Cioè: “lʼipocrisia è inerente alla coscienza. Spingendo allʼestremo lʼidea di Freud, dirò che avere coscienza significa essere ipocriti”.225 Ma il “rivelatore” è soprattutto Proust, perlomeno nellʼambito letterario e per quel che riguarda lo stesso Rivière. Cominciando da Rivière (e a seguire): “Per quanto almeno mi riguarda, Proust sarà stato il più spaventoso rivelatore su me stesso che potessi incontrare”;226 “Per primo Proust commette quella terribile empietà,

Qui y parvient? Personne. Souvent, lʼanalyse échoue à perdre lʼimpatience sans sombrer dans la dépression” (Kristeva, op. cit., p. 368). “Le souffle enfin retrouvé comme temps, et ouvert à tous vents comme lui, dans cette association libre et interminable quʼest la Recherche et que la mort seule peut interrompre (ibidem, p. 300). 221 Tr. it. Pratiche Editrice, Parma, 1985. 222 Ibidem, p. 28. 223 Ibidem, p. 43. 224 Ibidem, p. 161. “Tutto quello che gli scrittori si sono abituati a subire, allʼimprovviso semplicemente [Proust e Freud] lo guardano: per decifrarlo, si servono di tutte quelle tracce, di tutti quei segni che deposita sui visi o sulle parole, di tutti quei residui non sfruttati, e anziché riprodurli, li interpretano” (ibidem, p. 115). 225 Ibidem, p. 34. 226 Ibidem, p. 160. 216

che mi rivolta e mi affascina ad un tempo, di affrontare se stesso con spirito positivo”.227 E continuando a citare: “Per vincere unʼillusione così forte (è poi unʼillusione?) e così necessaria alla continuazione della vita sulla terra, sarebbe occorsa una indipendenza di spirito che taluni troveranno forse diabolica, e che a volte mi appare così, ma a volte anche come il dono più straordinario che sia mai toccato in sorte ad essere umano, come una delle manifestazioni più belle, più potenti del genio dellʼuomo”;228 “Lʼintelligenza in lui non si concede tregua; non si fa affettata né rigida, ma con magnifica pigrizia, lenta come una rete che si tira su, riporta tranquillamente alla superficie lʼenorme preda della sensibilità; la contraddice nei particolari; tra nelle sue maglie trattiene soltanto il vero. Non so proprio come descrivere questa operazione, debole, delicata e decisiva. Anchʼessa è imposta forse, o permessa, si deve osarlo dire, da una certa mancanza di carattere in Proust, ma unita alla più rara intrepidezza intellettuale”.229 Qualcosa che sconvolge Rivière, nella lettura delle “Intermittenze del cuore” è la concezione proustiana della convivenza di “io” differenti: “Il nostro autore giunge così allʼidea di mirabile audacia secondo la quale siamo composti di serie diverse e parallele,230 la durata psichica si svolge su parecchi piani senza contatto fra loro, anche quando sʼintersecano, solo lʼunità del nostro corpo può darci lʼimpressione che siamo un unico essere, mentre in realtà ci sono parecchi io che vivono in simbiosi, come si dice in biologia, disponendo fra tutti di una sola coscienza, a cui, per conoscersi, devono attingere di volta in volta la luce. In altre parole, Proust ha introdotto lo sdoppiamento della personalità nella vita normale. [...]. Lo trovo sconvolgente”.231

227 Ibidem, p. 76. 228 Ibidem, p. 96. 229 Ibidem, pp. 159-160. Benjamin riprende quasi tale e quale questa immagine della preda nel 1929; in Per un ritratto di Proust, in Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino, 1993, p. 367 230 “Ora, poiché quello che ero improvvisamente ridiventato non era più esistito dalla lontana prima sera in cui la nonna, al mio arrivo a Balbec, mi aveva aiutato a svestirmi, fu con assoluta naturalezza, non già dopo lʼattuale giornata (che quellʼio ignorava), bensì – come se ci fossero, nel tempo, delle serie distinte e parallele – immediatamente dopo quella sera, senza alcuna soluzione di continuità con essa, che aderii allʼattimo in cui la nonna sʼera chinata su di me” (SG, 917). 231 Ibidem, 71 217

In ogni caso, quanto al desiderio mimetico, vedi “altalena descritta da Proust”...232

9) Proust e Freud in Genette

Solo un cenno ad uno scritto molto bello di Gérard Genette, Proust e il linguaggio indiretto.233 Genette recupera unʼaggettivazione proustiana: “E alla cattiva abitudine di parlare di sé e dei propri difetti bisogna aggiungere lʼaltra, che fa blocco con la prima, di denunciare negli altri la presenza di difetti perfettamente analoghi ai nostri. Ora, è sempre di questi difetti che parliamo, quasi fosse un modo per parlare di noi, deviato (détournée) e tale da assommare il piacere di confessare a quello di assolverci” (OF, 743; 901): “manière de parler [...] détournée”. Nello scritto di Genette ritroviamo molti dei passaggi segnalati da noi. Ma Genette non richiama mai Gerard; solo da un certo punto in poi Freud; ad esempio parla di “negazione (négation)”, di pensiero “represso, compresso (réprimée, comprimée)”, di “espulsione (expulsion)”, di “ritorno del rimosso (retour du refoulé)”, di spostamento (déplacé) già prima di citare Freud (272, 274, 276; 203, 205, 206). Ad un certo “il confronto sʼimpone tra queste allusioni involontarie e i lapsus studiati da Freud (209). Genette qui cita n passaggio che noi abbiamo già citato: “Era, quellʼin fin dei conti me ne infischio, un esemplare fra mille dello straordinario linguaggio, così diverso da quello che parliamo abitualmente, in cui lʼemozione fa deviare ciò che volevamo dire e fa sbocciare al suo posto (à sa place) una frase affatto differente, emersa da un lago ignoto (émergée dʼun lac inconnu) in cui vivono le espressioni che non hanno rapporto col pensiero e per ciò stesso lo rivelano” (TR, 822; 489). Qui Genette sceglie una posizione divertente: “applicheremo – afferma – questa formula di Proust, più rigorosa forse [di quella freudiana] nella stessa ambiguità”. E in nota: “Esiste una definizione più bella dellʼinconscio?” (210). Ma da questo momento in poi il testo si infittisce di repressione (meno di ritorno del rimosso), di “transfert” (216), soprattutto di negazione: “La terza e ultima forma di confessione involontaria

232 Ibidem, p. 109. 233Proust et le langage indirect, in Figures II, Le Seuil, Paris, 1969; tr. it. Proust e il discorso indiretto in In Figure II, Einaudi, Torino, 1972. 218

risponde anchʼessa a un principio enunciato, qualche anno dopo, da Freud”: nel 1925; Proust è morto nel 1922. “Questʼintrusione del contenuto rimosso nel discorso, ma in forma negativa, che Freud chiama Verneinung e che in Francia dopo Lacan viene generalmente tradotta con dénégation, risponde alla forma retorica dellʼantifrase” (214). Più avanti, facendo propria lʼargomentazione di Freud, parla anche di “amalgama di denegazione e di proiezione” (215). Concludiamo questo veloce richiamo con una notazione che ci sembra centrale: “La sola realtà autentica, come sappiamo, è per Proust quella che si offre nellʼesperienza della reminiscenza e si perpetua nellʼesercizio della metafora – presenza dʼuna sensazione in unʼaltra, ʻbalenìoʼ del ricordo, profondità analogica e differenziale, trasparenza ambigua del testo, palinsesti della scrittura. Lungi dal riportarci a una qualsiasi immediatezza del percepito, il Temps retrouvé ci sprofonderà senza uscita in quello che James chiamava lo ʻsplendore dellʼindirettoʼ, nellʼinfinita mediazione del linguaggio” (223).

10) La verità e lʼarte

Lo scopo del Narratore è di trovare la “verità”. Importantissimo: la verità si mostra solo attraverso gli interstizi: “Lo scrittore non si deve offendere se lʼinvertito dà alle sue eroine un volto maschile. Solo questa particolarità un poʼ aberrante consente allʼinvertito di attribuire poi a quel che legge tutta la sua generalità. [...]. Allo stesso modo, se Charlus non avesse dato allʼʻinfedeleʼ, su cui piange Musset nella Nuit dʼoctobre o nel Souvenir, il viso di Morel, non avrebbe né pianto, né capito, giacché solo per questa via angusta e traversa (puisque cʼétait par cette seule vie, étroite et détournée, que) egli aveva accesso alle verità dellʼamore” (TR, 910-911; 596). Ma, forse più importante?, solo lʼarte – quella di cui Proust ci dà un esempio –, può raggiungere questa verità: “Questo lavoro dellʼartista – cercar di scorgere sotto la materia, sotto lʼesperienza, sotto le parole, qualcosa di diverso – è esattamente lʼinverso del lavoro (le travail inverse) che compiono incessantemente in noi, quando viviamo distolti da noi stessi, lʼamor proprio, la passione, lʼintelligenza, lʼabitudine, ammassando sopra le nostre impressione vere (nos impressions vraies), per nascondercele completamente, le nomenclature, le finalità pratiche che chiamiamo erroneamente la vita. Insomma, quellʼarte così complicata è precisamente la sola arte viva (le seul art vivant). Essa sola esprime per gli altri e fa vedere a 219

noi stessi la nostra propria vita (notre propre vie), la vita che non può essere ʻosservataʼ, le cui apparenze, una volta osservate, hanno bisogno dʼesser tradotte e, spesso, lette alla rovescia (souvent lues à rebours) e decifrate con fatica. È il lavoro fatto dal nostro amor proprio, dalla nostra passione, dal nostro spirito dʼimitazione, dalla mostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quello che lʼarte dovrà disfare; quello che lʼarte ci farà compiere è il cammino in senso opposto (en sens contraire), il ritorno alla profondità dove ciò che è realmente esistito è sepolto, a noi conosciuto” (TR, 896; 578-579).

9) La verità...

In ogni caso, la verità non è né in quello che viene negato né in quello che viene affermato, né in quello che viene omesso... La verità è qualcosa di troppo complesso... Freud ha detto: sarebbe “comodo” se... Proust: “Ma quello scuotere la testa, così abitualmente associato a un avvenimento futuro, insinua proprio per questo un senso dʼincertezza nella negazione (dénégation) di un avvenimento passato. Di più: evoca semplici ragioni di convenienza personale piuttosto che un atteggiamento di riprovazione o unʼimpossibilità morale. Vedendo Odette far segno che non era vero, Swann capì che forse lo era” (SW, 362; 437-438) + “ʻNon voglio conoscerloʼ va tradotto con ʻnon posso conoscerloʼ. Questo è il senso intellettuale. Ma il senso passionale è realmente: ʻNon voglio conoscerloʼ. Si sa che non è vero (on sait que cela nʼest pas vrai), ma se lo si dice non è per semplice artificio, bensì (anche) perché lo si prova (mais on le dit parce quʼon épruove ainsi), e tanto basta alla soppressione della distanza, cioè alla felicità” (OF, 771; 935) + “Morel, nel suo desiderio di dare quella lezione, non era del tutto insincero (tout à fait insincère)” (SG, 1077; 362) + “Per metà, dunque, era sincera (elle était doc à demi sincère)” (SG, 885; 117) + “È possibile che il barone fosse sincero quando parlava di Morel come di un buon amico, e che dicesse la verità credendo di mentire (quʼil dît la vérité peut-être en croyant mentir) quando diceva: ʻNon so cosa faccia, non conosco la sua vitaʼ” (P, 214; 618) + “Dʼaltronde, sono tanti i diversi sentimenti che possono contribuire (dʼailleurs, tant de sentiments différents peuvent contribuer) a formarne uno solo (à en former un seul), che è difficile dire se non vi fosse (quʼon ne saurait pas dir sʼil nʼy avais), in questo suo interesse, qualcosa di affettuoso (quelque chose dʼaffectueux) per Swann” (AS, 578; 195) + “Quante volte un gran 220

signore è derubato ogni anno da un amministratore che egli stesso ha allevato, di cui avrebbe giurato che era onesto, e forse lo era (et qui lʼétait peut-être)! Ora, questo sipario che nasconde i moventi altrui diventa più impenetrabile se di quella persona siamo innamorati” (AS, 618; 242) + “In quel caso, certo, bisogna lottare contro unʼamicizia che porta diritto al tradimento. E proprio questo credo di aver sempre fatto. Ma per chi non ne ha la forza, non si può dire che lʼamicizia che affettano per il detentore sia, in loro, una pura astuzia (une pure ruse); la provano sinceramente (ils lʼéprouvent sincèrement), e per questo la manifestano con un ardore che, una volta consumato il tradimento, fa sì che il marito o lʼamante ingannato possa dire con stupefatta indignazione: ʻSe aveste sentito che proteste dʼaffetto mi prodigava, quel miserabile! Che si derubi un uomo del suo tesoro, posso ancora capirlo. Ma che si senta il bisogno diabolico di giurargli (de lʼassurer de), prima, la propria amicizia, è unʼignominia, una perversità dʼun grado inimmaginabileʼ. Ebbene no, non cʼè in questo nessun piacere perverso, e nemmeno una menzogna interamente consapevole (ni même mensonge tout à fait lucide). [...]. Ma la ragione ultima, che non faceva che elevare a una sorta di appassionato parossismo le prime due, lui stesso, forse (peut-être), la ignorava, e le altre due esistevano realmente (réellement), così come era realmente esistito in Albertine, quando aveva tanto desiderato andare da Madame Verdurin [...]. Madamoiselle Vinteuil, aveva allora aumentato il mio tormento, rafforzato i miei sospetti, ma retrospettivamente mi provava che aveva tenuto ad essere sincera, e per una cosa innocente, anzi proprio, forse, perché (et peut-être justement parce que) era una cosa innocente” (AS, 621-622; 246-248) + “(e tutto ciò, sebbene lo scrivesse come una menzogna, era in fin dei conti vero)” (. TR, 340) + “[...] giacché per far sembrare nuove le cose anche se sono vecchie, e persino se sono nuove (car pour quel le choses paraissent nouvelles si elles sont nanciennes, et même si elles sont nouvelles), occorrono – nellʼarte come nella medicina o nella mondanità – dei nomi nuovi” (TR, 726; 372; il “même si trova nellʼedizione curata da Tadié, 304) + “(Eppure, esse erano reali; quanto notavo di soggettivo nellʼodio come nella stessa vista non impediva che lʼoggetto potesse avere qualità o difetti reali, e non faceva affatto (nullement) svanire la realtà in un puro relativismo)” (TR, 913; 599) + “E forse era vero (et cʼétait peut-être vrai)” (TR, 1021; 729) con un bel poʼ di considerazioni che procedono e seguono. La verità, quella complessa, si iscrive nel volto degli “esseri”... “Persino quando la sentiva suonare [la ʻpiccola fraseʼ], non era 221

[Odette] obbligata allʼespressione estatica che assumeva un tempo, giacché questa, nel frattempo, era diventata il suo volto (car celui-ci était devenù sa figure)” (SG, 906; 140) + “Molto spesso, infatti, per scoprire che siamo innamorati, forsʼanche per diventarlo, bisogna che arrivi il giorno della separazione” (AS, 109). Ma sappiamo, proprio dal Tempo ritrovato, che gli uomini divengono...

10) Desiderio mimetico, escalation = rappresaglia... Perdono

Jupien aveva “in perfetta simmetria (en symétrie parfaite) col barone”... (SG, 604; 733). È, questo, uno dei pochi passi in cui Proust parla di vera e propria “simmetria”. Le parole più usate sono “differenza” e “indifferenza”; per farmi amare devo apparire indifferente e il reciproco... fino alle rappresaglie e oltre. A proposito della straordinaria storia dʼamore di Swann: “Di tutti i modi di produzione dellʼamore, di tutti gli agenti di disseminazione del male sacro, uno dei più efficaci è certo questo gran soffio dʼansia (souffle dʼagitation) che passa a volte su di noi. La sorte è segnata allora: sarà lui, lʼessere della cui compagnia godiamo in quellʼistante, sarà lui che ameremo. Non cʼè nemmeno bisogno che, prima, ci piacesse più di altri, e nemmeno altrettanto. Occorreva soltanto che la nostra inclinazione per lui diventasse esclusiva (exclusif). E tale condizione si realizza quando – nel momento in cui non ne disponiamo (à ce moment où il nous fait défaut) – alla ricerca dei piaceri prodigatici dalla sua grazia (à la recherche des plaisirs que son agrément nous donnait) si sostituisce bruscamente dentro di noi (sʼest brusquement substitué en nous) il bisogno ansioso (un besoin ansieux) che ha per oggetto quellʼessere medesimo, un bisogno assurdo, che le leggi di questo mondo rendono impossibile soddisfare e difficile da guarire – il bisogno insensato e doloroso di possederlo” (SW, 230-231; 280). Lʼindifferenza (indifférence) (SW, 230; 279), il disinteresse (désinteréssement) (SW, 229; 278) esibiti sono lʼarma per far soffiare nellʼaltro lʼansia e il desiderio di possesso: “Proprio a quellʼangoscia [a quellʼansia, a quellʼagitazione], forse, egli era debitore dellʼimportanza che Odette aveva assunta per lui. Le persone, di solito, ci sono così indifferenti (indifférents) che, quando abbiamo collocato in una di loro delle simili possibilità, nei nostri confronti, di sofferenza e di gioia, essa appartiene quasi a un altro 222

universo (à un autre univers), si circonda di un alone di poesia, trasforma la nostra vita in unʼestensione emotiva dove si misura la sua maggior o minore vicinanza rispetto a noi” (SW, 235-236; 286). “[Swann] felice che [...] dopo aver così a lungo simulato con Odette una sorta di indifferenza (une sorte dʼindifférence), non gli fosse ora accaduto di darle, mediante la gelosia, quella prova di troppo amore (cette preuve quʼil lʼaimait trop) che, fra due amanti, esime per sempre (à tout jamais) colui che la riceve dallʼamare lʼaltro a sufficienza” (SW, 275; 333-334). Avete notato che fa parte costitutiva dellʼescalation il “trop” che caratterizza la negazione. È inevitabile che alla negazione si associ lʼaffermazione... perché si produca lʼescalation... del desiderio (mimetico). Ma continuando: “Certo, dellʼestensione del suo amore Swann non aveva immediata coscienza. [...]. ʻÈ un progresso davvero notevole, si diceva il giorno dopo; a voler essere obiettivi, ieri, a letto con lei, non ho provato nessun piacere: che strano, la trovavo addirittura bruttaʼ. E certamente era sincero, ma il suo amore si estendeva ben oltre le regioni del desiderio fisico (mai son amour sʼétendait bien au delà des régions du désir phisique). La persona stessa di Odette non vi occupava molto spazio. Quando il suo sguardo incontrava sul tavolo la fotografia di Odette, o quando lei veniva a trovarlo, faticava a identificare quel volto di carne o di cartoncino con il turbamento costante e doloroso che abitava in lui. Quasi con stupore si diceva: ʻÈ leiʼ, come se, allʼimprovviso (tout dʼun coup), qualcuno ci mostrasse, esteriorizzata davanti a noi, una nostra malattia (une des nos maladies) e noi non vi riconoscessimo alcuna somiglianza con la nostra sofferenza. ʻLeiʼ, Swann cercava di chiedersi che cosa fosse; giacché una somiglianza fra amore e morte, piuttosto che quelle, così vaghe, di cui si suole parlare, è che lʼuno e lʼaltra ci spingono a indagare più a fondo il mistero della personalità” (SW, 308; 373). Fino a qualcosa che rassomiglia molto al mors tua vita mea: “Il lavoro di causalità che finisce col produrre tutti gli effetti possibili e, di conseguenza, anche quelli che meno avevamo creduto tali, questo lavoro è talvolta lento, reso un poco più lento dal nostro desiderio – il quale, cercando di accelerarlo, lo intralcia –, dalla nostra stessa esistenza, e non giunge a compimento che quando abbiamo cessato di desiderare e, qualche volta, di vivere (nʼabouti que quand nous avons cessé de désirer, et quelquefois de vivre). Swann non lo sapeva forse per esperienza propria, non era forse già, nella sua vita, – sorta di prefigurazione di quanto sarebbe avvenuto dopo la 223

sua scomparsa –, una felicità post mortem il matrimonio di Odette che aveva appassionatamente amata – anche se non gli era piaciuta di primo acchito – e che aveva sposata quando non lʼamava più, quando lʼessere che, in Swann, aveva tanto sognato e tanto disperato di vivere tutta la vita accanto a Odette, quellʼessere, ormai, era morto?” (OF, 471; 568). Swann, sposato, si innamora di unʼaltra donna: “Perché la gelosia di Swann rinascesse non era indispensabile che questa donna gli fosse infedele, bastava che per una qualunque ragione (pour une raison quelconque) si fosse trovata lontana da lui, a un ricevimento per esempio, e mostrasse dʼessersi divertita. Bastava questo a risvegliare in lui lʼantica angoscia (lʼancienne angoisse), lamentevole e contraddittoria escrescenza del suo amore che allontanava Swann da ciò che lei era come un bisogno di raggiungere qualcosa (il sentimento reale che la giovane donna nutriva per lui, il desiderio nascosto delle sue giornate, il segreto del suo cuore), perché fra Swann e colei chʼegli amava quellʼangoscia frapponeva un ammasso refrattario di sospetti antecedenti, che avevano la loro causa in Odette o, forse, in unʼaltra ancora, venuta prima di Odette, e non permettevano più allʼamante invecchiato di conoscere la sua attuale amante se non attraverso il fantasma remoto e collettivo della ʻdonna che suscitava la sua gelosiaʼ, fantasma in cui aveva arbitrariamente incarnato il suo nuovo amore” (OF, 524-525; 633-634). Qualcuno vedrebbe in questo passo un riferimento alle “imagines” parentali etc. A nostro parere, invece, le medesime imagines, lungi dallʼessere produttrici del desiderio, sono esse stesse il prodotto del desiderio mimetico. Dalle rappresaglie alla rinuncia alla rappresaglie: “Ma, mentre in passato, egli aveva fatto il giuramento, se mai avesse smesso dʼamare colei che non immaginava sarebbe diventata un giorno sua moglie, di manifestarle implacabilmente unʼindifferenza finalmente sincera (son indifférence, enfin sincère) per vendicare il proprio orgoglio a lunga umiliato, tali rappresaglie (représailles), che gli erano ormai consentite senza alcun rischio [...], adesso, non significavano più nulla; insieme con lʼamore era scomparso il desiderio di mostrare che in lui non cʼera più amore. E lo stesso uomo che, quando soffriva per Odette, avrebbe tanto voluto farle vedere, un giorno, dʼessere innamorato dʼunʼaltra, ora che ne aveva la possibilità prendeva mille precauzioni perché la moglie non sospettasse il suo amore” (OF, 525; 634-635). 224

A proposito dellʼamore del Narratore per Gilberte: “Parallelamente, in amore, per quanti sforzi si facciano, le barriere non possono essere infrante dallʼesterno ad opera di chi è condotto alla disperazione, ma quando questi non se ne preoccuperà più, allora, di colpo (tout à coup), per effetto dʼun lavoro compiuto altrove (par lʼeffet du travail venu dʼun autre côté), nellʼanimo di colei che non amava (accompli à lʼinterieur del celle qui nʼaimait pas), le stesse barriere prima attaccate senza successo cadranno senza costrutto. Se fossi andato da Gilberte ad annunciarle la mia futura indifferenza [...]” (OF, 612-613; 740-741).234 Il Narratore capisce bene che lʼunica soluzione è il perdono: “Non capiva che bisogna amare anche gli orgogliosi, e vincere il loro orgoglio con lʼamore e non con un orgoglio più potente (elle ne comprenait pas quʼil fallait aimer même les orgueilleux et vaincre leur orgueil par lʼamour et non pas par un plus puissant orgueil)” (AS, 604; 226). Come abbiamo già visto, il Narratore perdona Albertine (AS, 138). Abbiamo visto anche che il perdono permette di superare le vicissitudini atroci e interminabili del desiderio mimetico; ma permette

234 Ne il tempo ritrovato, un bellʼesempio di desiderio mimetico: alta è negli uomini “la proporzione delle sofferenze provocate da donne ʻche non erano il loro tipoʼ. Questo, forse, ha più di una causa: prima di tutto, poiché non sono ʻil nostro tipoʼ, allʼinizio ci lasciamo amare senza amare, e lasciamo così che attecchisca sulla nostra vita unʼabitudine che non si sarebbe formata con una donna ʻdel nostro tipoʼ, la quale, sentendosi desiderata, si sarebbe resa preziosa, non ci avrebbe accordato che rari appuntamenti, non si sarebbe installata in tutte le ore della nostra vita in quel modo che poi, se viene lʼamore e lei ci viene a mancare per un litigio, per un viaggio durante il quale si lascia senza notizie, non strappa in noi un solo legame, ma mille. In secondo luogo, questa abitudine è sentimentale perché alla sua base non cʼè un grande desiderio fisico, e se nasce lʼamore il cervello lavora molto di più, cʼè un romanzo al posto di un bisogno. Delle donne che non sono ʻil nostro tipoʼ non diffidiamo, lasciamo che ci amino e, se poi le amiamo, le amiamo cento volte di più delle altre, e senza nemmeno avere, con loro, la soddisfazione del desiderio appagato. Per queste ragioni e parecchie altre (et bien dʼautres), il fatto che proviamo i dolori più grandi con donne che non sono ʻil nostro tipoʼ non dipende solo dallʼirridente destino che realizza sempre la nostra felicità nella forma che meno ci piace. Una donna che sia ʻil nostro tipoʼ è raramente pericolosa perché non vuol saperne di noi, ci accontenta, ci lascia presto, non si installa nella nostra vita, e ciò che è pericoloso e ci procura sofferenze in amore non è la donna stessa, è la sua presenza di tutti i giorni, è lʼessere in ogni momento curiosi di quello che fa; non è la donna, è lʼabitudine” (TR, 1021-1922; 729-730). Odette, che è stata definta da Swann – alla fine di Un amore di Swann (una donna “che non era il mio tipo” (S, 382), definirà nel Tempo ritrovato Charlus allʼopposto: “Pauvre Charles, il était si intelligent, si séduisant, exactement le genre dʼhommes que jʼaimais” (III, 1021). Il Narratore commenterà: “Et cʼétait peut-être vrai”. 225

anche di compiere lʼopera. Dimostrazione chiara quantʼaltre mai che lʼopera è la trasformazione della propria vita; la cui essenza si trova quando si approda alla verità, a quella verità chʼè possibile anche solo intravedere solo se ci si colloca fuori dal campo di battaglia del desiderio mimetico. Solo una volta Proust spezza una lancia a favore dellʼamicizia235 e confessa che qualcosa non gli è indifferente (riconosce, cioè, di stare in una relazione non allʼinsegna del desiderio mimetico); forse perché siamo già nellʼaprès?: “Oggi sono quanto meno sicuro che esista il piacere, se non di vedere, almeno di aver visto (si non de voir, du moins dʼavoir vu) una cosa bella assieme a una certa persona. Unʼora è arrivata per me in cui se ricordo il battistero, davanti ai flutti del Giordano dove san Giovanni immerge il Cristo mentre la gondola ci aspettava davanti alla Piazzetta, non mi è indifferente (il ne mʼétait pas indifférent) che accanto a me in quella fresca penombra ci fosse una donna drappeggiata nel suo lutto con il fervore rispettoso ed entusiasta della donna anziana che si vede a Venezia nella SantʼOrsola del Carpaccio [...]” (AS, 646; 276-277). Un passo, forse, anche più eccezionale ne La prigioniera: “È probabile che meglio sarebbe valsa la solitudine, più feconda, meno dolorosa [rispetto allʼesperienza con Albertine]. Ma quanto alla vita del collezionista che Swann mi consigliava, che il signor di Charlus mi rimproverava di non conoscere quando con un misto di spirito, di insolenza e di compiacimento mi diceva: ʻQuantʼè brutta la vostra casa!ʼ, quali mai statue, quali quadri lungamente perseguiti e infine posseduti o, nel migliore dei casi, contemplati con disinteresse, mi avrebbero, quanto la piccola ferita che si cicatrizzava abbastanza in fretta, ma che lʼincosciente sbadataggine di Albertine, degli estranei o dei miei stessi pensieri (ou de mes propres pensées) non tardava a riaprire, consentito lʼaccesso a quellʼuscita fuori di se stessi (sur cette issue hors de soi-même), a quella via di comunicazione privata (ce chemin de communication privé), ma destinata a immettersi nella grande strada dove passa ciò che ci è dato conoscere solo quando cominciamo a soffrire: la vita degli altri (la vie des autres)?” (P, 387; 807-808).

235 “Purtroppo avrei dovuto lottare contro lʼabitudine di mettersi al posto degli altri, che favorisce, è vero, la concezione di unʼopera, ma ne ritarda lʼesecuzione” (TR, p. 687). 226

NOTA

Desiderio mimetico e desiderio creativo.

In un passo più vertiginoso di altri, Proust illustra le vicissitudini del desiderio (riecco i baci); il desiderio “crea” il suo oggetto. Intraprendendo anche una lotta con lʼoggetto reale che cerca di imporsi qual è (ma è?) al desiderante costringendolo a delle correzioni (che sono, però, altre creazioni). Risulta evidente, in questo passo, che si tratta delle vicissitudini del desiderio mimetico. La “creazione”, esito straordinario, della memoria involontaria, appartiene ancora al desiderio mimetico. Solo il perdono consentirà un atto veramente “creativo”. “Questo stupore è indubbiamente dovuto, in parte, al fatto che la persona ci mostra allora, di sé, una nuova faccia (une nouvelle face de lui-même); ma tale è la molteplicità di ciascun essere, la ricchezza delle linee del suo viso e del suo corpo – linee di cui, non appena ce ne stacchiamo, ben poco sopravvive nellʼarbitraria semplicità del nostro ricordo, giacché la memoria ha scelto una certa particolarità che ci ha colpiti, isolandola, esagerandola, facendo di una donna che ci è parsa alta uno studio in cui la sua altezza risulta smisurata, o di una donna che ci è parsa bionda e rosea una pura ʻArmonia in rosa e oroʼ –, che nel momento in cui la donna ci è di nuovo vicina (de nouveau [...] près de nous), tutte le altre qualità dimenticate, sorta di contrappeso rispetto a quella ricordata, ci assalgono nella loro confusa complessità, riducendo lʼaltezza, diluendo il rosa, e sostituendo allʼunico oggetto della nostra ricerca altre particolarità che adesso, mentre ci chiediamo perplessi come mai ci aspettassimo così poco di rivederle, rammentiamo dʼaver notate la prima volta (la première fois). Ricordavamo il pavone, gli andavamo incontro, e troviamo un ciuffolotto. E questo inevitabile sbalordimento (cet étonnement) non è il solo: accanto, ce nʼè un altro, nato dalla differenza, non più fra le stilizzazioni del ricordo e la realtà, ma fra lʼessere che abbiamo visto lʼultima volta e quello che ci appare oggi in unʼaltra visuale, rivelandoci un nuovo oggetto. Il volto umano è davvero come quello del Dio di una teogonia orientale, un grappolo (grappe) intero di volti giustapposti su piani diversi e che è impossibile vedere tutti insieme. Ma in gran parte, il nostro stupore deriva dal fatto che lʼessere ci presenta anche una medesima faccia 227

(lʼêtre nous présente aussi une même fâce). Occorrerebbe un tale sforzo per ricreare (pour recréer) tutto quanto cʼè stato fornito da ciò con cui non ci identifichiamo – fosse solo il sapore dʼun frutto – che appena ricevuta lʼimpressione (quʼà peine lʼimpression reçue), scendiamo insensibilmente la china del ricordo, e senza rendercene conto (sans nous en rendre compte), in pochissimo tempo, siamo già lontanissimi (très loin) da quel che abbiamo provato (senti). Così, ogni nuovo incontro (chaque nouvelle entrevue) è una sorta di raddrizzamento (redressement) che ci riporta a ciò che avevamo pur (bien) visto. Non ce ne ricordavamo già più, perché il ʻricordareʼ un essere è, in realtà, un dimenticarlo (tant ce quʼon appelle se rappeler un être, cʼest en realité lʼoublier). Ma fin tanto che sappiamo ancora vedere (nous savons encore voir), quando un tratto dimenticato ci riappare lo riconosciamo, siamo costretti a rettificare la linea deviata, ed è per questo che la perenne, feconda sorpresa (la perpétuelle et féconde surprise) grazie alla quale trovavo così salutari, così distensivi gli appuntamenti quotidiani con le belle fanciulle della spiaggia, era fatta, non meno che di scoperte, di reminiscenze (tout autant que de découvertes, de réminiscences). Se a questo si aggiunge lʼagitazione (lʼagitation) provocata da ciò che le fanciulle rappresentavano per me, qualcosa che, non coincidendo mai esattamente con le mie supposizioni (qui nʼétait jamais tout à fait ce que jʼavais cru), faceva sì che la speranza del prossimo appuntamento non fosse più simile alla precedente speranza, ma al ricordo ancora vibrante dellʼultimo incontro, si capirà come ogni (chaque) passeggiata desse un violento colpo di timone (un violent coup de barre) ai miei pensieri, e non proprio nel senso tracciato prima (et non pas du tout dans le sens que), a mente fresca [???], nella solitudine della mia camera. Tale direzione era dimenticata, abolita quando tornavo in albergo, ronzante come un alveare [comme une ruche = vedi la “grappe” di visi giustapposti] dei discorsi che mi avevano turbato e che risuonavano a lungo dentro di me. Ogni essere è distrutto appena smettiamo di vederlo; la sua apparizione successiva è una nuova creazione (création nouvelle), diversa da quella che lʼha immediatamente preceduta (différente de celle qui lʼa immédiatement précédé), se non da tutte le altre (sinon de toutes). Il minimo grado di varietà che possa regnare in queste creazioni (créations) è, infatti, di due. Se ricordiamo unʼocchiata energica, un atteggiamento ardito, la volta successiva sarà inevitabilmente da un profilo quasi languido, da una certa sognante dolcezza, che saremmo stupiti, vale a dire colpiti in modo pressoché esclusivo (presque uniquement frappés). Confrontando il nostro 228

ricordo con la nuova realtà (réalité nouvelle), ciò che segnerà la nostra delusione, o la nostra sorpresa, ci apparirà come un ritocco della realtà stessa (comme la retouche de la réalité), avvertendoci che non avevamo ricordato bene (en nous avvertissant que nous nous étions mal rappelé). Ma lʼaspetto del viso trascurato lʼultima volta, e proprio per questo, ora, più sorprendente, più reale, più innovatore, diventerà a sua volta [???] materia di fantasticheria, di ricordo (deviendra matière à rêverie), à souvenirs). Sarà un profilo languido e pastoso, unʼespressione dolce, sognante che desidereremo rivedere. E allora, di nuovo (de nouveau), la volta successiva (la fois suivante). Quel che cʼè di volitivo negli occhi penetranti, nel naso appuntito, nelle labbra serrate, verrà a correggere lo scarto (lʼécart) fra il nostro desiderio e lʼoggetto cui esso ha creduto di corrispondere (entre notre désir et lʼobjet auquel il a cru correspondre). Beninteso, questa fedeltà alle impressioni prime (cette fidélité aux impressions premières), e puramente fisiche, ritrovate ogni volta (chaque fois) accanto alle mie amiche, non riguardava soltanto i tratti del viso, giacché, come si è visto, ero sensibile anche alla loro voce, per me forse più conturbante ancora (nella misura in cui non si limita, come il viso, a offrire le medesime superfici singolari e sensuali, ma appartiene allʻabisso inaccessibile che dà la vertigine dei baci senza speranza [lʼabîme inaccessible qui donne le vertige des baisers sans espoir]), la loro voce, simile al suono unico dʼun piccolo strumento nel quale ciascuna si risolveva per intero e che era suo soltanto (et qui nʼétait quʼà elle). Tracciata da unʼinflessione, una certa linea profonda dʼuna di quelle voci mi meravigliava quando, dopo averla dimenticata, la riconoscevo. E così, le correzioni che ogni nuovo incontro (les rectifications quʼà chaque rencontre) mi costringeva ad apportare, per un ritorno alla perfetta calibratura (pour un retour à la parfaite justesse), erano quelle dʼun accordatore o dʼun maestro di canto non meno che dʼun disegnatore” (OF, 916-918; 1107-1109). 229

Cap. 12

LES PLAISIRS ET LES JOURS. COMME UN BAISER INCONNU

1) Un duello

Si sa che nel febbraio del ʻ97 Proust sfidò a duello Jean Lorrain; questi aveva concluso una stroncatura de Les Plaisirs et les jours (usciti del 1896) con unʼallusione allʼamicizia non del tutto platonica che legava lʼautore di quei languidi racconti a Lucien Daudet... Probabilmente vide a suo tempo giusto Kolb236 quando propose che Proust non poteva rimanere insensibile alla derisione del suo modo di scrivere poiché le frecciate di Lorrain si sarebbero potute applicare anche al Jean Santeuil chʼegli stava scrivendo. La lettura delle prime pagini è, infatti, imbarazzante. Sono pagine stucchevoli. Ad un certo punto ci si imbatte in passi come il seguente: “Il suo snobismo [di madame Fremer] non era che immaginazione, ed era tutta la sua immaginazione. [...]. Portando sempre gli stessi riccioli, la sua acconciatura non mutava mai come, del resto, i suoi princìpi. I suoi occhi brillavano di stupidità. [...]. Aveva, per fiducia in Dio, lo stesso agitato ottimismo sia la vigilia di un garden party che quella di una rivoluzione, con gesti rapidi che sembravano scongiurare il radicalismo o il cattivo tempo. [...]. Del resto non aveva dimenticato i vecchi amici più umili, e si ricordava soprattutto di loro quando erano ammalati o in lutto, circostanze toccanti in cui dʼaltronde non ci si può lamentare di non esser stati invitati, come in società” (PG, 122-123)...

2) Je mʼéveillai peu à peu au monde des rêves

Inutile segnalare che già sono presenti anche parole e concetti che caratterizzeranno la Recherche: la mancanza di volontà (PG, 48, 111-112 [5 vv.], 115), lʼabitudine (112, 153), gli esseri di fuga delle jeune filles en fleurs incontrare sulle rive del mare... “Nulla resta, nulla vi passa [nel mare] se non sfuggendo [...]” (PG, 143; 170), il sonno/sogno: “Appena coricato mi riaddormentai. Dopo un poʼ di tempo, difficile a precisare quanto lungo, mi risvegliai gradatamente,

236 Le premier roman de Proust, in Saggi e ricerche di letteratura francese, vol. IV, Bottega dʼErasmo, Torino, 1963, pp. 215-277. 230

o piuttosto mi svegliai gradatamente al mondo dei sogni (ou plutôt je mʼéveillai peu à peu au monde des rêves), confuso allʼinizio come il mondo reale per un risveglio normale, ma che poi diventò preciso. [...]” (PG, 128; 154-155); il valore strategico dellʼindifferenza: “Se in un mese, col rischio di guastare con tanti artifici le gioie che ti ripromettevi allʼinizio di questʼamore, disdegnerai quella che ami, se saprai mostrare malizia e fingere indifferenza (si tu sais pratiquer la coquetterie et affecter lʼindifférence), se non andrai ai convegni e riuscirai a tener lontane le tue labbra dal seno che lei ti offrirà come un mazzo di rose, il vostro amore fedele e condiviso si alzerà per lʼeternità sulla base incorruttibile della tua pazienza” (GP, 49; 71- 72)... la “présence réelle” (PG, 134; 161)

3) Se cacher dans une chambre

Le dinamiche del desiderio mimetico vi sono già evidenziate. Vedi il sottocapitolo XVI, Lʼestraneo di Rimpianti e sogni, colore del tempo (PG, 152 sgg.). Ma, soprattutto, tutto intero La fine della gelosia. Una relazione che ricorda molto quella con Albertine... “A parte la signora Seaune, alla quale vi avranno certo presentato. Se ne avete voglia, pare sia facile. Personalmente, non mʼinteressa.[...]. A quanto pare, non è ben fatta. E lui [François di Gouvres] non ha voluto seguitare” (PG, 179)... Si tratta della sua donna! Il Nostro, che ha già bellʼe individuato la “legge psicologica” dellʼincostanza (PG, 177), avrà pane per i suoi denti... Nelle mille peripezie nelle quali il desiderio mimetico lo precipita, il Nostro arriva alle soglie della ripetizione della scena primaria (classicamente intesa). Come potrà non venirvi in mente la camera 43? “Pensava, approfittando del fatto che la sua relazione con lei non era conosciuta, di fare scommesse sulla sua virtù con altri uomini, lanciarli su di lei, vedere se era capace di cedere, cercare di scoprire qualcosa, di sapere, nascondersi in una camera (se cacher dans une chambre) (ricordava di averlo fatto per divertimento quando era più giovane) e vedere tutto” (PG, 153-154; 182-183; vedi anche PG, 194). E ritorna la scena-madre... Il Nostro, a causa di un incidente, è sul letto di morte... Vuole che la sua donna sia felice: che gli uomini le diano la felicità... ma non il piacere! “Allora gli tornò in mente uno dei suoi desideri di bambino, del bambino che era quando aveva 231

sette anni e andava a letto ogni sera alle otto. Quando la madre, invece di restare fino a mezzanotte nella camera che era accanto alla sua e poi coricarsi, doveva uscire verso le undici e si vestiva; egli la supplicava di vestirsi prima del pranzo e di uscire subito (non importava dove andasse) perché non sopportava lʼidea che, mentre cercava di addormentarsi, lei si preparasse per una festa e quindi uscisse. Per fargli piacere e calmarlo, sua madre veniva a salutarlo alle otto in abito da sera e andava da unʼamica ad aspettare lʼora del ballo. Solo così, in quelle sere così tristi per lui, durante le quali la madre andava al ballo, poteva, addolorato ma tranquillo, addormentarsi. Adesso gli veniva alle labbra la stessa preghiera che rivolgeva a sua madre, ma rivolta a Françoise. Avrebbe voluto chiederle di sposarsi subito, che si preparasse perché egli potesse infine addormentarsi per sempre, desolato ma calmo (désolé, mais calme), senza mostrarsi inquieto per quanto sarebbe accaduto dopo che si fosse addormentato” (PG, 161; 191-192). Uno dei meccanismi di difesa di Freud: il passaggio dal passivo allʼattivo! Tutte queste mosse, e altre ancora, sono definite “precauzioni da bambini (précautions bonnes pour les enfants)” (PG, 162; 192). Come non ricordare la Précaution inutile237 – chiaro il riferimento al sottotitolo di Le Barbier de Séville – il titolo della versione abbreviata de La Prisonnière pensata per Les Œuvres libres (e uscita nel novembre 1923, dopo La Prisonnière; questʼultima uscita il 18 novembre 1922). E come non ricordare che questo non è lʼunico testo dato da Proust alla rivista dellʼeditore Fayard; nel novembre 1921 vi è apparso un estratto di Sodome ed Gomorrhe II che ha preso il titolo di Jalousie. Ora il capitolo di Les Plaisirs et les jours che stiamo commentando si intitola La Fin de la jalousie; essa è la morte!

4) Comme un baiser inconnu

Qui di seguito ricordiamo, ricominciando dallʼinizio di Les Plaisirs, alcuni passi relativi alla scena-madre. Bisogna imparare a vivere; superare, quindi, il bisogno dei baci: “Quando cominciò la mia adolescenza, mia madre, che non mʼaveva lasciato e anche la notte restava accanto a me, ʻaprì la porta dellʼarcaʼ e uscì. Poiché come la colomba ʻtornò la sera stessaʼ.

237 Precauzione inutile, Passigli Editori, Firenze, 2009. 232

Poiché guarii completamente, come la colomba ʻlei non tornò piùʼ. Bisognò ricominciare a vivere, ad ascoltare parole più dure di quelle di una madre; oltre tutto, le sue, sempre così dolci fino ad allora, non erano più le stesse, ma impresse dalla severità della vita e del dovere che lei doveva insegnarmi” (PG, 6-7; 23). Qui il bacio che diventa amplesso (con un donna sconosciuta): “Ora, come in virtù di una tacita intesa e della quale non poteva determinare lʼinizio, [il visconte di Sylvanie] le [ad “una giovane signora”] baciava (baisait) i polsi e le accarezzava il collo. La vedeva così felice che una sera osò di più: cominciò a baciarla (lʼembrasser); poi lʼaccarezzò a lungo e di nuovo la baciò (lʼembrassa) sugli occhi, sulle guance, sulle labbra, sul collo, sul naso” (PG, 15; 34). Qui non cʼè lʼapprofondimento; il contrario; più avanti: “[...] si fermava allʼesterno delle cose, e rifletteva su se stessa non per approfondirsi (non pour sʼapprofondir), ma per ammirarsi voluttuosamente e maliziosamente come in uno specchio” (PG, 37; 58). Nel passo seguente, invece, il bacio “ritorna”; “dal fondo del passato”: “Le due sere che passava agli Oublis veniva [sua mare] a darmi la buonanotte a letto (me dire dire bonsoir dans mon lit), antica abitudine che aveva perduto perché vi trovavo troppo piacere e troppa pena, tanto che non mi addormentavo più a forza di richiamarla perché mi desse ancora la buonanotte; e non osavo più infine, pur avendone ancora lʼappassionato bisogno, intentando sempre nuovi pretesti [...]. Baciai (jʼembraissai) mia madre. Mai più son riuscita sentire la dolcezza di quel bacio (de ce baiser). [...]. Se allora saltavo con tutte le mie forze, baciavo (jʼambrassais) mille volte mia madre, correvo avanti come un giovane cane [...]. Mentre stavamo per metterci a tavola, vicino alla finestra (vers la fenêtre) accostai il viso a quel viso riposato dalle sofferenze passate e la baciai con passione (je lʼembrassai avec passion). Mi ero sbagliata nel dire che non avevo più ritrovato la dolcezza del bacio dato agli Oublis. Il bacio di quella sera fu più dolce di qualunque altro. O meglio, fu il bacio degli Oublis che, evocato dal fascino di un uguale momento (dʼune minute pareille), ritornò dolcemente dal fondo del passato e venne a posarsi fra le guance ancora un poʼ pallide di mia madre e le mie labbra” (PG, 86-94; 108-117). Infine, un bacio dato in sogno: “[...]. Si avvicinò a me, mise allʼaltezza della mia guancia la sua testa rovesciata di cui potevo contemplare la grazia misteriosa, e spingendo la lingua fuori delle bocca fresca, sorridente (dardant sa langue hors de sa bouche fraîche, souriante), raccolse le mie lacrime allʼorlo dei miei occhi. Poi 233

le ingoiò con un rumore leggero delle labbra che mi sembrò come un bacio sconosciuto (comme un baiser inconnu), più intimamente inquietante che se mi avesse realmente toccato. Mi risvegliai allʼimprovviso, riconobbi la mia camera [...]. Il suo nome pronunciato in una conversazione mi fece trasalire, evocò lʼimmagine insignificante che lʼavrebbe accompagnato senza quella notte (avant cette nuit), e nonostante mi fosse indifferente (et pendant quʼelle mʼétait indifférente) come qualsiasi altra banale donna della società elegante, mi attirò più irresistibilmente della più cara amante o del più affascinante destino. Non avrei fatto un passo per vedere lei, ma per quellʼaltra ʻleiʼ avrei dato la vita. Ogni ora cancella un poco il ricordo del sogno, già alterato in questo racconto. [...]. Ahimè! Lʼamore è passato su di me come un sogno, con una potenza di trasfigurazione altrettanto misteriosa. E voi che conoscete la donna che amo, ma che non eravate nel mio sogno, non potete capirmi: non cercate quindi di consigliarmi” (PG, 129-130; 156-157). È qui evidente lo scardo – la differenza – tra sogno e realtà... Ma, infine, il perdono: “La persona che ci ha duramente provato e della cui essenza siamo saturi, non può più far passare su di noi lʼombra di una gioia o di un dolore. È più che morta per noi. Dopo averla ritenuta lʼunica cosa preziosa di questo mondo, dopo averla maledetta, dopo averla disprezzata ci è impossibile giudicarla; il profilo del suo viso si delinea appena agli occhi del nostro ricordo stanchi di esser stati troppo a lungo fissi su di lui. Ma il giudizio sulla persona amata, giudizio che ha tanto variato spesso torturando con la sua chiarezza in nostro cuore cieco, spesso accecandoci per mettere fine al crudele disaccordo, deve compiere unʼultima oscillazione. Come qui paesaggi che si scoprono solamente dallʼalto, dallʼalto del perdono (de hauteurs du pardon), ci appare nel suo vero valore colei che era più morta per noi dopo essere stata tutta la nostra vita” (PG, 133; 160).

234

Cap. 13

IMPRESSIONS DE ROUTE EN AUTOMOBILE LʼANSIA E IL POTERE “CREATORE”

Il 19 novembre 1907, per la prima volta vengono pubblicate, sul Figaro, le Impressions de route en automobile che costituiscono lʼincipit di In memoria delle chiese assassinate. Chi guida lʼautomobile è Agostinelli. QuellʼAgostinelli che sarà un decisivo ascendente di Albertine. 238 Richiamo qui uno squarcio abbastanza lungo perché testimonia, in modo inequivocabile, la preesistenza, rispetto alla matinée, dellʼesito della Recherche. Per contestualizzare il brano che citiamo, ricordiamo che Proust non ha molto tempo da perdere se vuole “arrivare prima di notte dai propri genitori”. Il lettore, con la memoria rinfrescata sui numerosi ritorni della scena-madre, coglierà lʼanticipazione di sviluppi insospettati. È precisato che si tratta di una questione di “indipendenza”. Dai genitori? No! Dal potere. Ma come viene definito questo potere? “Creatore”. E non abbiamo ancora detto lʼessenziale: qui, chi aspetta, ansiosamente, sono i genitori. E sono loro che sentono, infine, il suono della “trompe”, come un suono “presque humain”, liberatorio. Infatti, allʼangoscia che coglie, classicamente, Proust/Narratore allʼapprossimarsi della notte, corrisponde lʼansa dei genitori che aspettano il suo arrivo. Come dire: questʼansia è inevitabile. Alla fine, lʼ“attesa”, come “attesa della felicità”, viene definita “prodigiosa”. Abbiamo la famosa “abdicazione”. Qui, ancora più chiaramente che agli inizi di Dalla parte di Swann, essa è abdicazione sia del

238 “Quando scrivevo queste righe, non prevedevo che sette od otto anni dopo quel giovine mi avrebbe chiesto di copiare a macchina un mio libro, avrebbe imparato a volare sotto il nome di Marcel Swann, in cui aveva amichevolmente associato il mio nome di battesimo e quello di uno dei miei personaggi, e avrebbe trovato la morte, a ventisei anni, in un incidente aviatorio, al largo di Antibes” (PM, 122) 235

padre che della madre: ma non di fronte a un bisogno “nervoso” del figlioletto. Infatti, lʼabdicazione – che, non trascuriamolo, è abdicazione al potere creatore di cui sopra –, è “apparente e geniale”. Ci limitiamo a segnalare momenti a nostro avviso cruciali inserendo, tra parentesi, il testo originale. “Ma di quel viaggiatore ciò che lʼautomobile ci ha restituito di più prezioso è quella mirabile indipendenza (admirable indépendance) che gli permetteva di partire allʼora che voleva e di fermarsi dove più gli garbava. Mi comprenderanno tutti coloro cui il vento, passando, ha ispirato talora il desiderio irresistibile di fuggire con lui fino al mare a vedere, invece degli inerti ciottolati del villaggio invano sferzati dal fortunale, i flutti sollevati, in atto di rendergli colpo per colpo e rumore per rumore (coup pour coup et rumeur pour rumeur); tutti coloro, soprattutto, che sanno che cosa possa significare, certe sere, il timore di chiudersi con la propria pena lʼintera notte; tutti coloro che conoscono quale allegrezza (allégresse) sia, dopo aver lottato a lungo contro la propria angoscia (angoisse), e quando si comincia a salire verso la propria camera soffocando i battiti del cuore, poter fermarsi e dirsi: ʻEbbene, no, non salirò in camera (je ne monterai pas); mi farò invece sellare il cavallo, tirar fuori lʼautomobileʼ; e poi fuggire, tutta la notte, lasciando dietro di sé i villaggi dove la nostra angoscia ci avrebbe soffocati, dove la indoviniamo sotto ogni piccolo tetto addormentato, mentre passiamo, a tutta velocità, senza esserne riconosciuti, inafferrabili da lei. Ma lʼautomobile si era fermata allʼangolo dʼuna strada infossata, davanti a una porta feltrata di giaggioli fioriti e di rose. Eravamo giunti alla casa dei miei genitori. Il meccanico suona la tromba (donne de la trompe), perché il giardiniere ci venga ad aprire: la tromba il cui suono ci è sgradito per il suo stridore, e la sua monotonia (cette trompe dont le son nous déplait par sa stridence et sa monotonie), ma che, come qualsiasi altra materia, può diventare gradevole se sʼimpregna di un sentimento. Esso è risonato nel cuore dei miei genitori come una parola insperata, gioiosamente (au cœur de mes parents il a retanti joyeusement)... – Mi sembra dʼaver sentito... Non può essere che lui! – Essi si alzano, accendono una candela, proteggendola contro il vento della porta che hanno già aperta, impaziente, mentre in fondo al giardino la tromba, di cui non possono più fraintendere il suono divenuto gioioso, quasi umano (joyeux, presque humain), non cessa di lanciare il suo appello, sempre eguale, come lʼidea fissa della gioia imminente, urgente e reiterato come la loro crescente ansietà (son appel uniforme comme lʼidée fixe 236

de leur joie prochaine, pressant et répété comme leur anxiété grandissante). E io pensavo intanto che, nel Tristano e Isolda (nel secondo atto, anzitutto, quando Isolda agita la sua sciarpa a moʼ di segnale; e poi nel terzo, allʼarrivo della nave), è, nel primo caso, alla ripetizione stridente, indefinita e sempre più rapida (à la redite stridente, indéfinie et de plus en plus rapide) di due note, la successione viene talvolta prodotta dal caso nel mondo inorganizzato dei rumori; nel secondo caso, alla zampogna dʼun povero pastore, e allʼintensità crescente, allʼinsaziabile monotonia della sua gracile melodia (à lʼintensité croissante, à lʼinsatiable monotonie de sa maigre chanson), che Wagner, con unʼapparente e geniale abdicazione della sua potenza creatrice (par une apparente et géniale abdication de sa puissance créatrice), ha affidato lʼespressione della più prodigiosa attesa di felicità (de la plus prodigieuse attente de félicité) che abbia mai riempito lʼanima umana” (PM, 68-69; 123-124).

237

CAP. 14

JEAN SANTEUIL

LʼAPRÈS-COUP

1) Vocabolario (e enciclopedia)

Il vocabolario (e lʼenciclopedia) che servirà a raccontare la matinée è già tutto presente in questo testo preparatorio... Segnalo alcune ricorrenze (anche se senza nessuna velleità di completezza). Enciclopedia: “Un quadro, senza che noi ce ne accorgiamo, ci dice una cosa sola” (JS, 766) + “E [...] aveva baciato il suo faccino mentre [...] è assorto in quella gran cosa misteriosa che si chiama dormire. Perché i bambini e il cane [...] fanno con il loro corpicino gravi cose, come dormire, come morire” (JS, 734) + “Ainsi il sentait que par la porte poussée par un hasard il répudiait ce qui nʼétait pas encore la vie [...]” (JS, 837-842; 707-712) + “Esagerazione e falsità rese ancor più verosimili dallʼeccessiva (trop grande) mobilità dellʼocchio, dallʼeccessiva (excessive) elasticità del corpo [...]” (JS, 378; 213)... Vocabolario: indifférence (JS, 378; 212), fausse indifférence, 748 + habitude (habitudes, douces aveugles), 410, 520, 559 737 (les vieux gonds de lʼhabitude), 810, 823 + paresse, 232 (e vv.), 235, 420, 428, 441, 523, 627, 703, 706, 866 + volonté, 222 (3 vv.), 232 + approfondir, 440, 620, 628, 633, 701 + extraire, 486, 632 + tout à coup;239 scegliamo solo le pagine dedicate ad un prodromo del bacio, mancato, ad Albertine a Balbec; lʼespressione in sei pagine ricorre 9 volte! (vi fa la sua comparsa anche lʼhasard (3 vv.)240 + la généralitè

239 Tout à coup, tout dʼun coup... sono il sigillo della memoria involontaria: “tout dʼun coup sans le vouloir” (SG, 759). 240 Vedi un passo in cui al tout dʼun coup si aggiunge il meccanismo dello squilibrio... “[...] ad un tratto (tout dʼun coup) [...]. Tuttʼa un tratto (tout dʼun coup). [...]. Invece in quel momento di tanta felicità non temeremo di perderla [la vita] e di non lasciar traccia. Perché quel che ci rapisce nel piacere che proviamo è qualcosa che sentiamo nel profondo, qualcosa che non è di oggi, perché il sentimento di un passato nel quale abbiamo veduti eguali (pareils) meli fioriti è interno a quel piacere, e non è più soltanto del passato...” (JS, 279-280; 109-110). “In quel punto, lʼodore muffito di un libro che qualcuno gli aveva passato, simile a 238

des idèes, 453 + essence 295, 401, 490, 497, 519, 520, 522 (3 vv.), 565, essence intime des choses, 521 (2 vv.), essence intime de nous-mêmes, 521 (2 vv.), essence merveilleuse, 326; essence divine, 361; essence heureuse, 300, essence précieuse, 741, essence mistérieuse, 832, essence commune, 400, 875 + journées pareilles dʼautrefois, 297+ sensibilité involontaire, 222 + intelligence Jean nʼavait plus confiance dans lʼintelligence, dans le raisonnement), 485 + résurrection, 236, je ne voyait plus dʼinconvéniente sérieux à mourir, 702-703 + vérité, 397, vérité des idées, 521-522, vie véritable, 395, 756, vie nouvelle et véritable, 840, vraie vie, 724, notre vraie nature, 401, 881, vie intèrieure 745 (3 vv.), 755-756 + traduction 669 (4 vv.), 672-673 (4 vv): [...]. Traduction / [...]. traduciton / [...]. Traduction / ]...] Traduction (nella “vita mondana” di Jean)...

2) Intorno al vecu (a proposito dellʼaprès-coup)

“Li stava guardando [i filari di vite] quando le foglie più alte gli parvero un poʼ più chiare di quanto non gli fossero parse prima e di quanto non fossero effettivamente in quella stagione. Poco a poco parvero illuminarsi ancora, come fossero sul punto di dorarsi. Capì (il comprit) che, dietro lo schermo delle nubi, riappariva un filo di sole; le vigne erano ancora nellʼombra ma era unʼombra dove già le illuminava un poʼ di pallido sole sommesso. Subito Jean si rivide [aussitôt Jean se revit) sul sentiero di La Fort dove tanto spesso un pallido sole [...]. Quella somiglianza durò solo un attimo. [...]. Ma Jean ricordava la Bretagna (mais Jean se rappelait la Bretagne) [...]. Oh, perché non posso essere là (y être) a vederle [le barche], lʼuna dopo lʼaltra [...]. Oh, è ora il momento – si diceva –. Bisognerebbe che ci potessi essere (je puisse y être) prima di cinque minuti [...]. E guardava disperatamente il prato steso ai suoi piedi e i campi lavorati che poco prima illuminati dal tramonto diventavano cupi e senza saper ricevere alcun riflesso [...]. Guardava disperatamente [...]” (JS, 387-388; 222-223). Evidentemente Jean non sta cercando in se stesso. Sta cercando in un luogo esterno (“là”, nella Bretagna, eventualmente nel ricordo)... Si capisce la disperazione... Più avanti va già meglio. La “verità preziosa” che giace sulla sabbia di una certa spiaggia ci arriva “lungo le sole vie che possano

(comme ceux) quello dei libri che egli trovava allora nella biblioteca del pievano, bastava ad inebriarlo” (JS, 300; 132). 239

condurvi, quelle dellʼimmaginazione [...]” (JS, 397; 233)... “Forse la bellezza, la felicità sono, per il poeta, in quella invisibile sostanza che si può chiamare immaginazione, che non può applicarsi alla realtà presente, che non può applicarsi nemmeno alla realtà passata restituita dalla memoria e che fluttua (flotte) solo intorno alla realtà passata imprigionata in quella presente?” (JS, 399; 235).241 Ecco profilarsi la fluttuazione tra presente e passato. Insieme, un superamento dellʼimportanza dellʼuno e dellʼaltro. Fondamentale, ormai lo sappiamo, è il disequilibrio tra lʼuno e lʼatro; disequilibrio che apre un interstizio attraverso il quale si dà un lampo di extra-temperale (di acategoriale). Quando una “sensazione” si fa avanti “nel presente come fosse stata quella di un passato, dallʼaccostamento (du rapprochement)242 sgorgava qualcosa di simile ad una sensazione collocata fuor del potere dei sensi, nel campo dellʼimmaginazione; la quale avendo ora innanzi a sé un oggetto eterno poteva conoscerlo, sì che, a un tratto, ecco una qualche realtà, sviluppatasi separatamente dalla mia vita, e che un tempo ho visto passare come un quadro, eccola apparire, conservata nella memoria. E invece della tristezza di chi possiede appena una collezione, invece di vivere senza vivere, ecco la coscienza di aver vissuto, o meglio di aver vissuto qualcosa che ancora vive e che sarà possibile vivere domani (je me sens vivre, avoir vécu, ou plutôt avoir vécu quelque chose qui vit encore et quʼon pourra vivre demain) (JS, 400; 237).243

241 “Metafore che ricompongono e ci restituiscono la menzogna della nostra prima impressione, di quando, passeggiando in un bosco o seguendo le rive di un fiume, abbiamo pensato in un primo momento, udendo rotolare qualche cosa, che si trattasse di un frutto, e non di un uccello, o di quando, sorpresi dallo scatto vivace sopra le acque di uno slancio improvviso, abbiamo creduto al volo di un uccello, prima di aver udito la trota ricadere nel fiume. Ma anche questi paragoni pieni di fascino e di vita, che sostituiscono alla constatazione di ciò che è la resurrezione di quel che abbiamo sentito (la sola realtà interessante), scompaiono accanto ad immagini veramente sublimi, degne delle più belle di Hugo” (1907, Le éblouissements, della contessa di Noailles, SA, 491-492). 242 Di rapprochement si riparla (JS, 470). Se ne riparla nel Cahiers (C 58, 115): Quand un tel esprit [...] trouvait un telle vérité [...] il fallait le rapprochement de deux termes différents ayant une base commune cʼest à dire une métaphore”. In Matinée chez la Princesse de Guermantes, Cahiers du Temps retrouvé. Édition critique étabile par Henri Bonnet en collaboration avec Bernard Brun, Gallimardi, Paris,1982. 243 “Il piacere che vi dà la sua [di Chardin] raffigurazione pittorica dove si lavora di cucito, dʼuna dispensa, dʼuna cucina, dʼuna credenza, è, colto al suo passaggio, affrancato dallʼistante (dégagé de lʻinstant), approfondito (approfondi), eternato (éternisé), il piacere che gli dava la vista dʼuna credenza [...]” (1895, Chardin e Rembrabd, SA, 374; p. 314). 240

Qui è evidente il valore del rapprochement244 che, individuando qualcosa di comune a due sensazioni risalenti lʼuna al presente e lʼaltra al passato, schiude lʼaccesso allʼextra-temporale. Ma è decisivo il bisogno di “aver vissuto”... Nel mezzo dellʼesperienza, o après-coup rispetto ad essa, lʼessenziale è ancora il vivere la vita. Non il superarla.245 Fondamentale è ancora il godere la vita: “Non sappiamo quando, cercando la bellezza dʼuna montagna o dʼun cielo, la troveremo nel rumore di una ruota di gomma o nellʼodore di una stoffa, in quelle cose che han navigato nella nostra vita (qui ont flotté sur notre vie) e dove il caso le riconduce a navigare (les ramène flotter), ma meglio armate questa volta perché noi si possa goderne (mais mieux armées cette fois-ci pour en jouir), distruggendo la loro immagine passata e la loro realtà presente, strappandoci alla schiavitù del presente, inondandoci con la coscienza di una vita durevole” (JS, 402; 239). “Durevole”! “Permanente”! Siamo ancora dentro lo spazio- tempo. Comunque, anche se è intravisto il “processo” che allʼextra- temporale attraverso il superamento delle cadenze del tempo (presente/passato), si ha quasi la sensazione che lʼimmaginazione sia, per lʼappunto, un “organo che serve lʼeterno (lʼorgane qui sert lʼéternel)” (JS, 401; 238); quasi che lʼeterno fosse qualcosa che è là a disposizione per chi abbia lʼorgano adeguato alla sua degustazione... Come nel passo in cui è ricercato lʼunisono con la natura (non lʼessenza; e non in se stesso): “[...] tutto gli dava un piacere incompleto [...] e soprattutto, per quanto bello fosse lʼoggetto, pareva non innalzar lui al proprio unisono (à son unisson) ma lasciar che la sua anima impotente e incompresa si colmasse di disagio e la sua intelligenza di disperazione. [...]. E ognuno dei sentimenti di Jean pareva rimaner anchʼesso, senza sforzo, allʼunisono con ogni cosa (à

244 Identico valore la lʼ“urto (choc)” (“del presente e del passato”) (JS, 402; 238). 245 Un passo molto interessante: “[...] i giorni vi appaiono come le piccole suddivisioni che segnano i minuti sul vostro orologio, quasi piccole caselle vuote dove si collocheranno questi o quegli avvenimenti e, più spesso, nessun avvenimento (et le plus souvent aucun événement du tout), ma che, a parte il loro contenuto, non differiscono affatto le une dalle altre” (JR, 249; 78). Poiché questo passo è nel Jean Santeuil, tendiamo ad interpretarlo nel senso che capita spesso di non vivere la propria vita pienamente = un avvenimento equivale a un non- avvenimento; in quanto non avvenuto per noi; se lo incontrassimo nella Recherche, lo interpreteremmo nel senso che ogni avvenimento, anche quello après-coup, è un non-avvenimento se non dà accesso allʼextratemporale. Lʼunico avvenimento è lʼavvento della verità e dello spirito. 241

lʼunisson de toutes choses), gustando la perfetta gioia che risulta dallʼarmonia” (JS, 492-493; 336).246 Facciamo il confronto con altre pagine, insuperate nel Santeuil, ricche di notazioni importanti (penso a quelle sullʼidentificazione con il criminale in un “atto di rivolta”247) e nelle quali, non a caso, avviene un approfondimento (è la parola giusta) di notazioni già fatte (vedi la fine di Da Beg-Meil a Penmarch, in un giorno di tempesta, JS, 211 sgg.), ma imprecise: penso a quelle sulla trasformazione di un paesaggio marino in un paesaggio montano (JS, 211). Le riprendiamo a spizzichi e bocconi: “[...] un immaginario più strano e sconcertante, quello che si riferisce a cose dove abbiamo lasciato una parte di noi stessi e che è situato non più nellʼastratto, bensì in noi (mais en nous), in un punto che gode e trema [et qui tremble = Kafka!] quando lo si tocca [...]. Fisionomia che è tanto in loro quanto in noi (qui est en nous autant quʼen eux), ma che solo noi forse possiamo dare a quei luoghi [...]. Ci sono [i luoghi] più cari dʼogni cosa al mondo; perché nulla fuori di noi (rien en dehors de nous) può restituirci una impressione che abbiamo avuta. È un tesoro che può conservarsi in un solo scrigno: la memoria, e che può esser donato agli altri solo da una sorta di allusione: la poesia. [...]. Viventi [le idee] simultaneamente (à la fois) nel suo passato [di Jean], nel suo passato a Penmarch, e nel presente; e più profonde, collegando questo a quello, più reali, mostrando con ciò il valore dellʼattimo passato e di quello presente, di qualcosa che esiste in sé veramente (de quelque chose qui, lui, existait vraiment) e che non sarebbe finito in quello stesso minuto. [...]. E infatti non divorava più la vita con lʼangoscia di vederla sparire sotto il godimento (il ne dévorait plus la vie avec une sorte dʼangoisse de la voir disparaître sous la jouissance), ma la gustava con fiducia, sapendo che un giorno o lʼaltro la realtà contenuta in quegli istanti, lʼavrebbe ritrovata – a condizione di non cercarla (à condition de ne pas la chercher) – nel brusco richiamo di un colpo di vento, dʼun odore di fuoco, dʼun cielo basso [...]. Realtà [...] che, in quelle brusche svolte della memoria disinteressata, ci fa navigare (flotter) tra passato e presente, nella loro essenza comune (dans leur essence commune), che nel

246 Vedi anche il passo in cui il desiderio è di essere allʼunisono con Fontainbleau: “Tu vorresti vedere quella cosa unica che è una città o un luogo, che è quella e non altra, sulla quale non puoi nulla, cui tu non puoi togliere uno solo dei giorni chʼessa ha vissuto, farla più vecchia o più giovane; che è lei, saporoso residuo della sua esistenza passata, sulla quale non hai, eccetto quello di goderne, altro potere (aucun pouvoir que dʼen jouir)” (JS, 571; 40). 247 Riprese (JS, 454). 242

presente ci ha richiamato il passato, essenza che ci turba perché è in noi stessi (essence qui nous trouble en ce quʼelle est en nous-même) [...]” (JS, 534-537; 380-383). Comunque, in Jean Santeuil ci si avvicina solo al ritrovamento: “Dieci anni più tardi [...] udì ad un tratto (dʼabord) un suono di pianoforte [...]. Voleva ritrovare quelle ore (il voulait retrouver ces heures) [...]. Ma non vi ritrovò più (il nʼy retrouva plus) quel vago desiderio dʼamare [...]” (JS, 818-819; 686-688); “Jean sentì [...] qualcosa agitarsi improvvisamente (avait trassailli) in fondo allʼanimo suo. Certo era qualche melodia dimenticata nella quale cʼera quel medesimo motivo (cette même phrase) [...] che [...] tentava di tornare alla vita [...]. Jean cercava di riudire la melodia che tuttʼa un tratto (tout dʼun coup) aveva colpito qualcosa dentro di lui [...]. Per caso (par hasard), accavallandosi un poʼ, le dita di Loisel han cavato da quel buon pianoforte un suono proprio altrettanto aspro quanto (un son juste aussi aigre que) quello del pianoforte del signor Sandré. Altrimenti Jean non vi avrebbe pensato mai più, perché da allora non ci aveva mai più pensato” (JS, 897-898; 772)... Blanchot giustamente afferma, a proposito dellʼesperienza di memoria involontaria sopra-descritta: “E ciò è davvero impressionante. Quasi tutta lʼesperienza del Temps perdu si ritrova qui: il fenomeno di reminiscenza, la metamorfosi annunciata (trasmutazione del passato in presente), la sensazione di trovarsi di fronte a una porta aperta sul campo proprio allʼimmaginazione, e infine la risoluzione di scrivere alla luce di quegli istanti per restituirli alla luce”.248 Invito il lettore a leggere questo scritto, peraltro breve, di Blanchot. In sintesi: come mai Proust che ha già la chiave dellʼarte si limita a scrivere Jean Santeuil e non la sua opera?, e, “in questo senso, continua a non scrivere”? Tenendo ben presente che tutta la Recherche è la storia di una vocazione; dapprima mancata e solo alla fine intravista e colta... vocazione a scrivere. La risposta di Blanchot: il Proust del Jean Santeuil “sembra concepire unʼarte più pura, concentrata sui soli istanti, senza riempitivi, senza ricorso ai ricordi volontari né alle verità dʼordine generale formate o riprese dallʼintelligenza, alle quali più tardi crederà aver fatto largo posto nella sua opera; insomma un racconto ʻpuroʼ, che sarebbe fatto dei soli punti da cui trae origine, come un cielo dove, al di fuori delle stelle, non ci fosse che il vuoto”.

248 Lʼesperienza di Proust, 1995, in Il libro a venire, Einaudi, Torino, 1969, p. 27). 243

Blanchot richiama la seguente affermazione di Proust che non abbiamo citata quando parlavamo del rapprochement: “Perché il piacere chʼessa [la vita che sgorga dallʼurto di un presente e di un passato identici etc.] ci dà è un segno della superiorità sua; e a questa superiorità io mi son fidato, per non aver voluto scrivere nulla di quel che vedevo, di quel che pensavo, di quel che ragionavo, di quel che ricordavo, per scrivere solo quando un passato risuscitava improvvisamente erompendo da un odore o da una visione mentre sopra di lui palpitava lʼimmaginazione, e quando quella gioia mi ispirava” (JS, 238). Blanchot vede in questo impegno a scrivere solo degli istanti di memoria involontaria qualcosa come una ricerca di scrittura automatica. Macchia descrive questi istanti come “vere e proprie allucinaz249ioni”.250 Ma, anche considerando queste allucinazioni come resurrezioni, è difficile immaginare, tanto più praticare, una “allucinazione permanente”: “Proust scopre che gli istanti privilegiati non sono dei punti immobili, una sola volta reali, tali da dover essere raffigurati come unʼunica fuggitiva evanescenza; ma che dalla superficie della sfera al suo centro passano e ripassano, volti, in modo incessante anche se intermittente, verso lʼintimità della loro vera realizzazione, procedendo dalla irrealtà alla profondità nascosta, che raggiungono quando è raggiunto il centro immaginario e segreto della sfera: la quale, a partire da qui, sembra rigenerarsi nel momento che è compiuta”. Per Proust, maturato fino allʼaltezza della sua opera, “lo spazio dellʼimmaginario romanzesco è una sfera, generata, grazie ad un moto ritardato infinitamente, da istanti essenziali, anchʼessi sempre in divenire, e la cui essenza non è dʼessere puntuali, ma è la durata immaginaria che Proust, alla fine della sua impresa, scopre essere la sostanza stessa di quei misteriosi fenomeni di scintillazione”.251

249 NV, OF, 1397: “Mais le nez, le front, le pli des lèvres, donnait comme dans une hallucination la figure de sa mère, plus vraie quʼen sa mère même car fallait que lʼimagination la repoussât et par là donnât plus de force, de consistance à la perception”. 250 Lʼoblio, in Tutti gli scritti su Proust, Einaudi, Torino, 1997, p. 114. Vedi Kristeva, op. cit., pp. 263, 292, 310. Proust medesimo: “Quelquefois même cette heure prématurée sonnait deuz coups de plus que la dernière, il y en avait donc une que je nʼavais pas entendue, quelque chose qui avait eu lieu nʼavait pas eu lieu pour moi; lʼineterêt de la lecture, magique comme un profond sommeil avait donné le change à mes oreilles hallucinée et effacé la cloche dʼor sur la surface azurée du silence (SW, 87-88) 251 Ibidem, pp. 30-31. 244

Insomma, anche “contro se stesso”, Proust “rimase docile alla verità della sua esperienza, che non solo lo svincola dal tempo ordinario, ma lo impegna in un tempo altro, il tempo ʻpuroʼ in cui la durata non può mai essere lineare e non si riduce ai soli avvenimenti”. La scelta di abbandonare Jean Santeuil, di non parlarne con nessuno, quasi fino quasi a dimenticarselo lui medesimo, dimostra la profondità della sua ispirazione e “la sua decisione di seguirla sostenendola nel suo moto infinito. Se Jean Santeuil fosse stato terminato e pubblicato, Proust si sarebbe perduto, la sua opera impossibile e il Tempo smarrito definitivamente”.252 Avevamo segnalato, nel Jean Santeuil, la tendenza a cogliere lʼessenza in un luogo specifico; quasi chʼessa fosse una cosa specifica, un tesoro preesistente ad ogni sua ricerca... Una tendenza idolatrica... A recuperare il “vissuto”; lʼaprès-coup essendo allora solo una ricerca del risarcimento per il non-vissuto-abbastanza... Blanchot ci aiuta precisando che il passaggio alla Recherche avviene attraverso lʼabbandono del “poetico” inoltrandosi in un viaggio nel deserto. Un viaggio che simbolicamente dura quarantʼanni... Basterebbero i quaranta giorni nel deserto del Cristo; peraltro sono essi che i quarantʼanni preannunciavano... Nel corso di

252 Ibidem, p. 32. Richiamo qui un passo fondamentale sempre a proposito del tempo in Proust: “Quale istante! [matinée, inciampamento, San Marco a Venezia etc.]. Un momento ʻliberato dallʼordine del tempoʼ e che in me ricrea ʻun uomo liberato dallʼordine del tempoʼ. Ma subito, con una contraddizione di cui, tanto è necessaria e feconda, appena si avvede, Proust, quasi fosse una svista, dice che quel minuto fuori del tempo gli ha permesso di ʻottenere, dʼisolare, di immobilizzare – la durata di un lampo – ciò che non afferra mai: un poʼ di tempo allo stato puroʼ. Perché questo rovesciamento? Perché quel che è fuori del tempo mette a sua disposizione il tempo puro? Perché, grazie alla simultaneità che ha realmente ricongiunto il passo di Venezia e il passo di Guermantes, lʼallora del passato e il qui del presente, come due adesso chiamati a sovrapporsi, e grazie alla congiunzione di quei due presenti che aboliscono il tempo, Proust ha fatto inoltre lʼesperienza incomparabile, unica, dellʼestasi del tempo. Vivere lʼabolizione del tempo, vivere questo moto rapido come il lampo per il quale due istanti infinitamente separati vengono (a poco a poco benché subito) uno incontro allʼaltro, unendosi come due persone che nella metamorfosi del desiderio sembrano identificarsi, significa percorre tutta la realtà del tempo, e percorrendola sperimentare il tempo come spazio e luogo vuoto, cioè libero dagli avvenimenti che lo riempiono sempre nella vita ordinaria. Tempo puro, senza avvenimenti, mobile vacanza, distanza agitata, spazio interiore in divenire, dove le estasi del tempo si dispongono in una simultaneità affascinate, che cosʼè dunque tutto questo? È proprio il tempo del racconto, il tempo che non è fuori del tempo, ma come fuori è sperimentato, sotto forma di uno spazio, lʼimmaginario spazio in cui lʼarte trova e dispone le sue risorse” (ibidem, p. 22). 245

questo viaggio Proust si fa carico di ogni esperienza; non solo delle minuzie, ma di tutto; ed, eventualmente, di tutte le minuzie. Non si risparmia nulla. Da qui il respiro infinito della Recherche; respiro che alita in ogni sua più piccola frase. La lettura dei Cahiers ci aiuta a capire lʼenormità del lavoro che Proust ha fatto per preparare le varie parti del romanzo... Come dire: ha rinunciato a fermare lʼistante perché bello. Ha reso bello tutto il deserto in cui qualche istante appare... e ne basta uno solo per renderlo terra promessa. Come non ricordare la Lettera a Antoine Bibesco del 15 ottobre 1912? “Prendi per esempio il pezzo sulla chiesa [LʼÉglise de village]: se scrivessi come si usa oggigiorno, da una sola delle impressioni che lo compongono – se ne avessi raccontato come cosa importante la storia – avrei potuto ricavare un articolo, e quindi da tutto il pezzo una decina di articoli. Se per esempio, anche senza andare al fondo dellʼimpressione che ho tratto dalle pietre tombali, avessi assunto delle pose, fatto gesti stravaganti, avrei fatto colpo, i lettori vi avrebbero scritto qualcosa di originale. Invece la mia impressione approfondita, illuminata, intima (approfondie, éclaircie, possedée) io la celo fra molte altre (je la cache à côté) sotto uno stile piano, dove occhi acuti sono sicuro che la scopriranno prima o poi. Dei momenti di esaltazione rimangono soltanto, e pacati, una frase, talvolta un epiteto (il ne reste quʼun phrase, parfois quʼune épithète, et calmes)” (CORR, XI, 235-236; LG, 998-999).

3) Capitalissime issime, issime

Ricordate? “Oh, è ora il momento – si diceva –. Bisognerebbe che ci potessi essere (je puisse y être) prima di cinque minuti [...]. E guardava disperatamente il prato steso ai suoi piedi”... Nei Cahiers si ritrova lo stesso approccio. Mi riferisco alle vicissitudini che portano Marcel alla ricerca di una sconosciuta. Tutto parte da un flôrer questa volta molto più audace di quello ipotizzato per Albertine (P, 887): “Elle ecrasa ses seins sur moi comme pur mʼen révéler, seul condifence quʼelle put me faire, la consistance de la forme” (C 36, ES SG, 961)... Vista... scomparsa... “Du moins en rentrant comme les heures dʼexaltation de Combray, je sentis en moi une vie plus grande que la mort” (ibidem). Nei Cahiers 49 e 24 la ricerca della sconosciuta. Chi è la fille aux roses rouges che la “sfiorato”? Mlle Vigognac, Mlle Tronchin, la femme de chambre della baronessa Picpus? Marcel passa da una delusione allʼaltra: “Que le 246

nom de Vigognac mainenant me paraissait indifférent et laid, quelle forme biscornue de jeune fielle mièvre et desséchée il prenait” (C49, ES VIII, SG, 998). Ma rimane il fatto che Marcel cerca in una persona, fuori di sé... quel che sembra tanto prezioso da inaugurare una vita “più grande della morte”. Cito ora dal Cahier 57 che, insieme col Cahier 58, contiene le sole vestigia della prima versione di À la recherche du Temps perdu.253 “Capitalissime issime, issime de peut-être le plus de tte lʼœuvre: quand je parle du plaisir éternel de la cuiller, tasse de thè etc. = art: Était-ce cela ce bonheur proposé par la petite phrase de la Sonate à Swann qui sʼétait trompé en lʼassimilant au plaisir de lʼamour et nʼavait pas su où le trouver (dans lʼart); ce bonheur que mʼavait défini comme plus supraterrestre encore que nʼavait fait la petite phrase de la Sonate, lʼappel mysterieux, le cocorico du Sextuor que Swann nʼavait pu connaître car cet évangile là nʼavait été divulgué quʼun peu plus tard et Swann était mort comme tant dʼautres avant la révélation [...]” (C 57, 331). Capitalissimo. Il “plaisir éternel” non è in una frase. Neppure in quella che Swann è morto senza capire... A proposito del Quatuor de Vinteuil (scritto su tutta la pagina incluso il margine, normalmente riservato alle correzioni, alle aggiunte): “Je pourrai sans doute quand jʼai compris ce quʼil y a de réel dans lʼessence commune du souvenir et que cʼest cela que je voudrais conserver (mais ne sachant pas encore que cela se peut par lʼart, sachant seulement que cela ne se peut ni par le voyage, ni par lʼamour, ni par lʼintelligence) dire que jʼendends à travers la porte le quator de Vinteuil (aux œuvres de qui la matinée sera consacrée)” (C 56, 292-293). Riecco la “porta”. La frase di Venteuil può essere, è, la porta; ma per accedere a che cosa? “Et je dirai à peu près ceci: comme jadis à Combray quand ayant épuisé les joies que me donnait lʼaubépine et ne voulant pas en demander à une autre fleur, je vis dans le chemin montant de Tassonville, un centre de nouvelles joies naître pour moi dʼun buisson dʼépine rose, ainsi nʼayant plus de joie nouvelle à épouser dans la sonate de Vinteuil, je sentis tout dʼun coup en entendant commencer le quatuor que jʼéprouvais de nouveau cette joie, la même et pourtant intacte encore, envéloppant et dévoilant à mes yeux un autre univers, semblable mais inconnu; et la ressemblance

253 Cahiers 57 [Notes pour Le temps retouvé], in Matinée chez la Princesse de Guermantes, op. cit. (C 57). 247

sʼachevait de ce que le début si différent de tout ce que je connaissais dans ce quatuor sʼirradiait, flambait, de joyeuses lueurs écarlates; cʼétait un morceau incarnadin [carnicino, color rosa], cʼétait la sonate en rose”. Il classico tout dʼun coup... E la sottolineatura che la porta si apre, non su qualcosa che ci è sfuggito e finalmente cogliamo, ma su qualcosa che per la prima volta ci appare. Continuando: “La sonate de Vinteuil mʼavait paru tout un monde, mais un monde que je connaisais entièrement et voici que le Dieu qui lʼavait créée nʼy avait pas épuisé son pouvoir en en faisant une seconde, cʼest à dire une tout autre, aussi originale quʼétait la sonate de sorte que la sonate qui mʼavait semblé une totalité nʼétait plus quʼune unité, que je dépassais maintenant la notion de lʼun et comprenais ce quʼétait le multiple grâce à la richesse de ce genie qui me prouvait que la beauté dont il avait manifesté lʼessence dans la sonate avait encore bien dʼautres secrets à dire, bien dʼautres paradis à ouvrir”.254

4) Lʼaprès-coup “impossibile à expliquer ici”

A proposito di après-coup come tentativo riuscito di cogliere il “vissuto” anche se con qualche ritardo, può essere utile leggere la lettera di Proust alla principessa Bibesco del 24 aprile 1912 e il commento, veramente immiserente, della stessa principessa nel libro di memorie dedicato a Proust, Au bal avec Marcel Proust. Ecco la lettera (il testo italiano lo riprendo da Al ballo... tradotto;255 ad esso segue il commento della Bibesco): “Ho appena ricevuto con molta gioia, nella sua rilegatura da formulario, da agenda, da guida o promemoria (e nel senso originale di queste parole decadute non è esso tutto questo, e anche lʼagenda perché le vostre parole devono essere ʻagiteʼ?) un piccolo libro – un grande libro – che ha poi suscitato in me molta ammirazione e molta tristezza (beaucoup dʼadmiration et de tristesse). Ma la gioia è il riceverlo e in un momento in cui è particolarmente benvenuto. Avevo ricevuto due giorni prima un invito per la serata dellʼIntransigeant,

254 E così iterando: “Je ne concevais pas que se genre de beautés quʼelle contenait ne fût pas entièrement épuisé et consommé en elle [...]. Et voici que cette phrase rose, aussi merveilleuse que mʼavait paru la première fois celle de la sonate, mais tout autre [...] venait naître, comme à côté dʼune jeune fille, une sœur toute différente” (C 57, 293-294). 255 Al ballo con Marcel Proust, Sellerio Editore, Palermo, 1978, pp. 74-77; tr. it. Au bal avec Marcel Proust, Gallimard,1928, Parigi, 1956, pp. 83-86. 248

dove non andrò (où jen nʼiraias dʼallieurs). Proprio la stessa serata e nello stesso luogo in cui vi ho visto lʼanno scorso così bella, così eloquente, ma così ostile tanto che non potrei attribuire la cosa se non alle circostanze imperfette dellʼincontro e anche allʼinterpretazione errata che forse avete dato in quel momento a cose che non vi riguardano, ma che voi giudicate, che avete troppo dimenticato in seguito perché io tenti anche soltanto lʼimpresa impossibile di farvele ricordare. Vi avevo poi spesso ripensato, avvolto in quellʼombra che si proietta ora anche sui vostri Paradisi [la principessa aveva pubblicato Les Huit Paradis], e il biglietto che annunciava la serata del Carlton mi aveva restituito esattamente quella mia impressione di allora (mʼavait rendu si exactement mon impression). Cosicché il vostro Alessandro Asiatico [un libro della principessa su Alessandro Magno] è veramente venuto con un ʻvolto di soleʼ. Purtroppo proprio il libro mi ha dimostrato che il nostro dissenso è più profondo e riguarda le idee (notre dissentiment était plus profonde et touchait aux idées). Non che io non abbia una grande ammirazione per quelle parole che sono come gioielli con una montatura di silenzio, per quellʼarte così audacemente, così abilmente reticente. Quello che voi dite non è che una piccola parte di ciò che avete pensato. Proferendo quello che avete taciuto (e però definito come una circonferenza di cui si sia misurato il diametro e che si tralascia di tracciare), un commentatore potrà scrivere unʼopera più lunga. E questo silenzio è anche un piedistallo e indica lʼaltezza a cui bisogna istallarsi per leggervi; è anche una convenienza e permette lʼaccordo del vostro pensiero moderno o futuro con le immagini lontane, e fa fiorire quelle sentenze profonde come un prato su un tappeto (del verde tappeto che fioriva sotto lʼesercito di Keïthoun, etc.) o come il chiacchiericcio di un uccello. Ma, a meno che il libro non sia tutto in funzione della fine (e perché questo non potrebbe essere vero?) niente mi è più estraneo del cercare la presenza della felicità nella sensazione immediata, e a maggior ragione nella realizzazione materiale (rien ne mʼest plus étranger que de chercher dans la sensation immédiate, à plus forte raison dans sa réalisation matérielle, la présence du bonheur). Una sensazione, per quanto sia disinteressata, un profumo, una luce, se sono presenti sono ancora troppo in mio potere per rendermi felice (sʼils sont présents sont encore trop en mon pouvoir pour me rendre hereux). È quando me ne ricordano un altro, quando li gusto tra il presente e il passato (entre le présent et le passé) (e non nel passato, impossibile spiegare qui [et non pas dans le passé, impossibile à expliquer ici]) che essi mi rendono felice. Alessandro 249

ha ragione di dire che cessar di sperare è la disperazione stessa. Ma se non smetto di desiderare, io non spero mai. E forse anche la grande sobrietà della mia vita sociale, senza luce, è una circostanza contingente che alimenta in me la perennità del desiderio. E quando non si pensa al proprio piacere (et quand on pense pas à son propre plaisir), se ne trova anche a constatare le leggi per le quali ci viene strappato quello che pensavamo di potere conservare, compresi i cuori. E lʼinteresse delle leggi per le quali, viceversa, ci sono infine date le cose su cui non avremmo mai creduto di poter contare (nous sont finalement apportées le choses sur lesquelles nous nʼaurions jamais cru pouvoir compter), questʼinteresse è in grado di compensare per noi la delusione di possedere ciò che ci sembrava bello quando lo desideravamo. Mi accorgo che dopo avervi detto che non pensavo mai a me, non vi parlo che di me e di una gioia in cui però penso tanto a voi. Ma mi accorgo anche che è come esegeta di voi che parlo di me. Perché le ultime parole si accorderebbero in modo singolare con quelle di Alessandro: si cessa più radicalmente di sperare ciò che si possiede che non quello che non si avrà. La morte che preconizzate non somiglia alla vita che conduco (la morte que vous préconisez ne ressemble-t-il pas à la vie que je mène)? Ma a questʼultima mancherà sempre la grazia deliziosa e veramente perfetta delle vostre parole quando dite che la ʻstoria della sua vita si conclude sul discorso di un uccelloʼ. È la perfezione stessa, lʼarte suprema che rifiuta le ricchezze inutili e che, anche in questo senso, è omissione (et qui, en se sens-là encore, est omission). Conserverò sempre vicino a me il promemoria blu (sembra di questo colore alla luce elettrica) in cui cʼè tutto quel che è importante ricordare, il formulario in cui forse troverò dei rimedi e in ogni caso dei veleni. E cercherò di comprendere meglio Alessandro e la principessa Bibesco dei quali una parte mi sfugge. Degnatevi di accettare, Principessa, la mia ammirazione e il mio riconoscente rispetto” (CORR, XI, 108-111). Il testo della principessa: “La parte che gli sfuggiva di me era quella che dedicavo al movimento, alla deliziosa spontaneità del vivere. Mentre egli alimentava in sé il desiderio con la rinuncia. Io mi disincantavo in altro modo. Il mio eroe vinceva tutte le battaglie, prendeva tutte le città, non rinunciava a nulla, otteneva tutto, e moriva a trentadue anni, completamente disperato. Ci voleva soltanto una bella salute. Marcel Proust mi confessava di aver giocato la sua vita a chi-perde-vince al contrario di Alessandro, che, pur vincendo sempre, aveva perso. Questa lettera straordinaria mi dava la soluzione dellʼenigma proustiano, molto tempo prima della rivelazione del Temps retrouvé; essa situava la felicità ʻtra il presente 250

e il passatoʼ, e non nel presente; essa creava quella regione intermedia, quello spazio sentimentale nuovo in cui Marcel Proust ha vissuto e gustato i suoi piaceri. Ecco la sua invenzione che contraddice il vecchio Carpe diem di Orazio; egli non ha goduto del momento, ed è così che raggiunse quella regione felice dove riusciva a alimentare ʻla perennità del desiderioʼ Cosa cʼè di più mistico, oserei dire i più cristiano di questa assenza davanti alla presenza reale della felicità?”256

256 Ibidem, pp. 86-87; pp. 77-78. 251

CAP. 15

JEAN SANTEUIL

LA SCENA PRIMARIA

In Jean Santeuil, nel frammento che comincia con annotazioni circa lʼAmour di Stendhal, troviamo condensate in unʼunica vicenda due avvenimenti della vita amorosa e gelosa (e conoscitiva) di Swann: lʼansiosa ricerca di Odette che ha detto di sé chʼè andata a prendere una cioccolata da Prévost (SW, 277 sgg.); lʼincontro fallito con Odette (che forse era in camera con unʼamante a cui fa da seguito lʼattività di spionaggio a proposito della lettera di Odette a Forchenville) (SW, 336 sgg.). Preferiamo commentare la visita di Jean alla sua amata signora S. Si tratta di diverse pagine (JS, 750 sgg.; 613 sgg.) delle quali riprendiamo alcuni elementi anche trasgredendo le cadenze temporali... Jean va ad una festa; ad una certʼora ha concordato con la signora S. (dʼora in poi la chiameremo semplicemente S.) che andrà a “dirle buonanotte ancora una volta (lui redire encore un fois bonsoir)”. Ci va. Il giorno dopo, la sera, fa unʼimprovvisata. Trova la finestra illuminata. La scena primaria: Jean cerca di guardare attraverso le imposte... Non vede niente, ma sente i rumori. Ode “il brusìo di una conversazione (le bruit dʼune conversation)”; certo odia “quel brusìo di voci (ce bruit de voix)” che gli ha rivelato la presenza di un atro; la “coppia nemica”. Ma “ora possedeva almeno un vantaggio su di loro, li aveva lì, e, se avesse bussato per farsi aprire la finestra (se faire ouvrir la fenêtre), sarebbe stato lui in quel momento il vincitore, perché essa sarebbe rimasta in trappola, confusa, piena di vergogna [...]. E poi, aveva la conoscenza di un fatto (la connaissence dʼun fait), in quel mistero che lo turbava così dolorosamente. Si diceva: almeno ho imparato questo, almeno lo so (jʼai appris cela, je sais cela). Benché la vita di lei fosse qualcosa chʼegli non conosceva, che sfuggiva al suo possesso, ecco che un caso (un hasard),257 come un gran colpo di rete, gliene portava una parte”...

257 Si tratta di una parola-chiave nel lessico del giovane Proust. Vedi la sua lettera del luglio 1893 in Une nouvelle Croix de Berny, il romanzo epistolare fallito: in Écrits de jeneusse, 1887-1895, Institut Marcel Proust International, Combray, p. 248. 252

La mente va a Noè che mostra le pudenda ai figli... Unʼaltra scena-primaria... La vergogna di lei... ma anche la sua: “Aveva un poʼ vergogna a bussare, a far vedere che era tornato; ma non poteva però resistere al desiderio di far conoscere che era lì, che aveva saputo tutto (quʼil avait tout su). E poi, tutte quelle cose che, a distanza, quando pensava che ciò potesse accadere a sua insaputa (à son insu), senza che ne si volesse saperne di lui, quasi contro di lui, lo turbavano, pareva che vedendole, penetrandole, qualunque vergogna egli avesse dovuto averne, qualunque pena a tornarsene indietro, almeno il loro mistero sarebbe stato spezzato. Era sul punto di bussare alla persiana (il alla frapper au volet) e il suo cuore gli batteva forte nel petto come quando sta per avvenire un grande mutamento in noi (un grand changement en nous)”... Un grande cambiamento...258 Dunque: questa volta il Narratore non guarda dalla finestra della sua camera, ma, attraverso la finestra, dentro la camera di S. Non vede niente. Ma sente... “Allora ciò che per noi è lʼignoto e intorno al quale sʼaggira abbaiando il nostro pensiero (alors lʼinconnu pour nous, ce devant quoi rôde et aboie notre pensée)”... Come non pensare alle Indagini di un cane? Che vede il cane? Niente. Sente e immagina. Jean si consola col fatto che “ha imparato questo, sa questo”... Anche se il contenuto della rivelazione è doloroso (vedi Les Plaisirs et le jours)... Ma che cosa sa? Intanto un particolare ci colpisce. Lʼingresso su questa scena (primaria) del “caso”. Sappiamo che il “caso” è elemento costitutivo, anzi augurale, della memoria involontaria... Domanda (perdonate il salto pindarico): la memoria involontaria non è una via di accesso alla scena primaria? Probabilmente. La scena primaria può allora essere definita come il non categorizzato; addirittura in non categorizzabile. È questo lʼextra-temprale?

258 Di grande cambiamento si riparlerà (JS, 811; 679). 253

Ma continuiamo... Jean sente un “rumore di voci (bruit de voix)” che sale dalla “finestra aperta (la fenêtre ouverte)”: sicuramente S. si sta spogliando; “luci e voci [...] conservavano per lui la medesima punta dolorosa di quando lo avevano colpito, perché volevano dire in realtà: ʻAspettava proprio qualcuno, cʼè qualcuno, ora che ti crede andato viaʼ. Ma lʼamore che pone tanta passione nella persona che amiamo e che, quando vediamo che non è tutta (toute) nostra, che è forse tutta (toute) dʼaltri, pone con la gelosia, che è quasi il suo inverso (qui est comme son envers), una curiosità così appassionata nel sapere tutto (à savoir tout) quel che fa lʼessere amato, faceva sì che quel lembo di vita segreta, quella introvabile pagina di realtà (cette page introuvable de réalité) che la luce della finestra gli preannunciava, gli si presentasse come qualcosa di immensamente interessante (dʼun interêt immense) capace di dare alla sua intelligenza, malgrado il suo contenuto doloroso, una specie di soddisfazione”... Una realtà, un lembo di realtà è stata “trovato”... La ricerca del tempo perduto! Jean vuole “tutto”; il bisogno della totalità accomuna la ricerca dellʼinnamorato e quella del geloso... Ma almeno coglie un lembo, un morceau di realtà... Scoperta: Jean ha sbagliato finestra: “La persiana si aprì completamente, comparve un vecchio signore, e un altro che gli stava vicino. [...]. Capì (il comprit)”. A parte la notazione che questo categorico, definitivo “il comprit” denuncia la scoperta = il ritrovamento (che avviene sempre tout dʼun coup), cosa capì Jean? Forse capì che la scena primaria, il rapporto, cioè, con lʼacategoriale deve rimanere acategoriale... Il bisogno di trasformarlo in savoir, come sapere di ogni cosa (tout), lo vanifica... O la scena primaria è la scena vuota? La possiamo percorrere in una direzione o nellʼaltra: ciascuna è lʼinvers dellʼaltra... Perché contemplare la scena primaria significa contemplare lʼextra-temporale (lʼextra-categoriale). Un pomeriggio Jean va da S: “suonò (sonna), udì il rumore (entendit du bruit); ma, per quanto suonasse, nessuno venne ad aprire. Si disse che cʼera forse qualcuno, volle disturbarli, volle battere ai vetri (frapper au carreau), ma nessuno aprì”... Quando ripassa, S. gli apre: dormiva etc...: “Era curioso di sentirla parlare, forse mentire, sentendo che tutte (toutes) le cose 254

che gli piacevano, che avrebbe voluto sapere, che non poteva sapere (quʼil eut voulu et ne pouvait savoir), erano là, davanti a lui, svolgendosi maldestramente sotto la pressione della sua triste curiosità”... Di nuovo il bisogno di sapere tutto... Ma questo paragrafo è chiuso in modo stupefacente: “Perché nellʼignoto di eventi che ci sono celati, è molto difficile che tutto ciò che è falso desti i nostri sospetti e che la verità sia quel che ci immaginiamo. Perché non è determinata dalle le possibilità che ci fingiamo, bensì da una realtà anteriore a noi sconosciuta”...259 S. quasi sicuramente mente; ma non è detto... La realtà antérieure è quella perduta e lʼoggetto della ricerca. Jean torna a casa... Cerca di leggere una lettera che S. gli ha chiesto di imbucare... “avrebbe preferito leggere tutta (toute) la lettera”... Quanto la legge tutta, ad un tratto, tout dʼun coup, legge “Ho fatto bene ad aprire, era mio padre” (in SW sarà lo zio). La scoperta. Egli capì. Dʼun tratto... Si affaccia al segreto di S.: “Rimaneva lì, perduto, desolato, ma tuttavia tenendo la verità in mano, tenendo per caso (par hasard) attraverso il vetro trasparente (à travers le vitrage trasparent) [unʼaltra finestra] di una busta che [...] lasciava scorgere un poʼ della vita segreta della sua amica, una parte di una vita celata alla sua conoscenza”. Ecco che lʼignoto intorno al quale rôde et aboie il ricercatore, gli si rivela: per caso... Che cosa gli si rivela? Intanto, che cosa vorrebbe più precisamente che gli si riveli? “Quel che è (ce qui est), quel che oggi è stato (ce qui a été aujourdʼhui), non secondo i suoi [di S.] racconti, ma in sé (mais en soi), quale era per lʼaltro (tel quel cʼétait pour lʼautre), per Dio; (pour Dieu, le fait), ecco quel che il nostro pensiero non può raggiungere”.260 Ma vorrebbe raggiungere.

259 Qualcosa di simile più avanti: “È vero che nemmeno il ragionamento contrario [...] è corretto, perché nessun ragionamento si applica alle contingenze della realtà”. 260 “[...] mi sembrava di far piangere lʼanima di mia madre, lʼanima del mio angelo custode, lʼanima di Dio” (PJ, 118). “È un dio [amore] che si nasconde e ride quando non lo vediamo più. Giuoca, e i suoi giuochi son crudeli perché non depone mai le sue frecce” (JS, 696). 255

La conoscenza di Dio! O, meglio ancora, la conoscenza che ha Dio... Proseguendo: “Ecco una parte (un peu) di quanto gli portava un settore aperto nellʼignoto, quella lettera, e di quanto gli metteva sotto gli occhi: un poʼ (un peu) di quella vita vera (vie véritable), il segreto di un avvenimento che probabilmente non avrebbe mai conosciuto, che essa non gli avrebbe mai raccontato, parte di quellʼignoto che non sapeva come raggiungere e che il caso (le hasard), un mezzo sicuro, gli illuminavano bruscamente (brusquement) e gli facevano apparire. Traendolo dallʼoscurità della camera dalle imposte [chiuse]”. Di nuovo il caso. E di nuovo la vita vera... Di nuovo il ritrovamento... Attraverso una parte, un poʼ, unʼocchiata sulla scena primaria, par la fenêtre... Qualche pagina più avanti: “[...] rimpiangiamo di non essere più in rapporto con quella strana forza naturale (cette force singulière de la nature) che poteva farci soffrire ma che almeno schiudeva la nostra vita su un moto così reale, così strano, così impossibile (sur un courant si réel, si curieux, si impossible). E se allora un nome letto per caso (par hasard) [...]”...

256

Cap. 16

JEAN SANTEUIL

Non categoriale e categoriale...

1) Le categorie = une échelle

“Il portello (la petite porte) del giardino si richiuse lentamente su Jean. Per la terza volta era tornato a dire buonanotte (bonsoir) a sua madre ed era stato accolto piuttosto male. [...]. Presto la finestra (la fenêtre) si aprì, una minuscola figura bionda comparve su di una candida camicia da notte, e disse a bassa voce: – Mammina, ho bisogno di te un minuto [...]. Per Jean il momento di andare a letto era sempre un momento veramente tragico, reso tanto crudele da un vago sentimento di orrore. Fin da quando scendeva la sera (déjà quand le jour tombait), prima che fosse portata la lampada, il mondo intero poteva abbandonarlo, avrebbe voluto aggrapparsi alla luce, impedirle di morire, di trascinarlo con sé nella morte. [...]. Ma fino a quella sera, quando Jean aveva finito di spogliarsi, chiamava sua madre perché venisse a dargli un bacio mentre entrava a letto. Quel bacio era un dolce viatico (ce baiser-à, cʼétait le viatique) [...];261 era la cara offerta (la douce offrande) di focacce che i greci appendevano al collo della sposa o dellʼamico defunti, mentre li deponevano nella tomba, perché compissero senza terrore il viaggio sotterraneo e attraversassero sazi i regni bui. Così Jean assaporava lungamente le tenere guance di sua madre; poi sulla sua fronte febbrile essa posava un bacio fresco come una benda umida (comme une compresse), che attraverso la pelle ardente e sottile, insinuandosi tra la frangia bionda, recava a quella piccola anima la calma (venait calmer sa petite âme). Allora si addormentava. Quella buonanotte nel suo letto era il dono atteso con febbrile pazienza il cui potere meraviglioso calmava come un esorcismo (comme un enchantement), come lʼolio sul mare, quel suo cuore agitato. Il gesto di sua madre che si abbassava a baciarlo (qui si bassait pour lʼembrasser), sterminava subito lʼinquietudine e lʼinsonnia. Era questo che gli stava mancando e che da allora in poi gli sarebbe mancato tutte le sere. [...]. Questo era il solo punto sul quale [la madre] fosse

261 “[...] la signora Servan riceveva il suo bacio senza restituirlo, come una reliquia (comme une relique) dipinta a colori vivaci” (JS, 341; 174). 257

severa con lui. E lui, ancora troppo giovane (trop jeune encore) per sapere distinguere il morale e il fisico, la libertà e la necessità, si sentiva oscuramente responsabile della propria agitazione, della propria tristezza e delle lacrime, senza tuttavia aver la forza di dominarle. Jean udì nel corridoio il passo di Augustin [...]. Si alzò, andò alla finestra (près de la fenêtre), scorse la madre, il padre e il dottore vicini, quali la luce della luna, come una lampada troppo debole, illuminava senza permettergli di distinguerli, mostrandoli e nascondendoli a un tempo. [...]. Ma la mamma venne e al calore del suo bacio tutta la sua agitazione si sciolse in dolcezza, in lacrime. [...]. Per fortuna – aggiunse ridendo [il dottore] –, le pene di quellʼetà sono senza importanza.262 È lecito credere che Jean, prendendole sul serio, si sbagliasse meno dellʼironico dottore. Quelle ore infantili suonavano (sonnaient) contro il vivo metallo del suo cuore e il suono (le son) che esse avevano allora poté diventare più profondo (plus grave) quando il suo cuore si fu fatto più duro, diventar più rauco (se fêler) o approfondirsi; ma quel suono (ce son) rimase il suo. [...]. Lʼabitudine, la sola delle antiche potenze di questo mondo che sia più forte della sofferenza, poté vincere poco a poco in Jean la crudele angoscia che abbiamo visto tormentarlo e che, per tutti quegli anni dʼinfanzia lo fece soffrire ogni sera. Ma nella sua giovinezza e persino nella sua maturità, ogni qual volta (chaque fois) una circostanza qualsiasi sopravvenisse a sospendere gli effetti anestetici dellʼabitudine, ogni volta (chaque fois) [...] egli sentì in fondo alla propria anima, vaga come una figura nota e perduta di vista, ridestarsi una inquietudine vecchia come lui stesso. [...]. Quel nuovissimo senso di irresponsabilità che, di fronte ad Augustin, sua madre aveva allora riconosciuto pubblicamente come si riconosce un nuovo governo (comme on reconnaît un gouvernement nouveau),263

262 “ʻDʼaltronde, non ha la minima (aucune espèce) importanzaʼ. Frase equivalente a un riflesso (analogue à un réflex), identica, nelle più gravi come nelle più trascurabili circostanze; e rivelatrice (dénonçant), come in questo caso, dellʼeffettiva importanza attribuita alla cosa in questione da chi, a parole, gliela nega (en celui qui la déclare sans importance). Frase tragica, a volte, che sfugge prima dʼogni altra – e così carica, allora, di sconforto – a ogni uomo che, appena un poʼ orgoglioso, abbia perduto lʼultima speranza cui sʼaggrappava perché qualcuno gli ha rifiutato un favore: ʻAh, bene, non ha la minima importanza, mi arrangerò diversamenteʼ, quando il diverso arrangiarsi verso il quale non ha la minima importanza vedersi respinti è, in qualche caso, il suicidio” (OF, 740; 898). 263 “Jean [...] al primo rumore sʼera asciugati gli occhi, glorioso del suo potere (glorieux de son pouvoir) su sua madre [...] sorrideva a Augustin con la gioia del trionfo (avec la joie du trionphe) [...]” (JS, 208; 34). Una lettera alla madre del 6 dicembre 1902 ci dice dei risvolti di complicità e reciproco ricatto che lʼalterazione nervosa, lʼabdicazione etc. avevano prodotto: “La verità è che quando vado bene, 258

lo informava sui suoi diritti, gli garantiva lʼesistenza, ne assicurava lʼavvenire. [...]. Certo la sua volontà, allora, era già abbastanza debole (sa volonté était déjà bien faible alors). Solo poco a poco, in seguito a sforzi continui (Ce nʼest que peu à peu, à la longue de ces efforts constants) [...]. E finalmente abbiamo un ultimo motivo di aver preso sul serio, come Jean medesimo, quelle pene infantili: ed è che, malgrado il sorriso del dottore, o di suo padre, forse mai egli ebbe a provarne di più strazianti (il nʼen éprouva peut-être jamais de plus cruels). Più tardi, infatti, quandʼera triste, gli interessi, le occupazioni, le idee, i ricordi gli porgevano una scala (une échelle),264 grazie alla siccome la vita che mi fa andare bene ti esaspera, tu distruggi tutto fino a farmi andare male di nuovo. [...]. È triste però non potere avere insieme affetto e salute. Se avessi lʼuno e lʼaltra in questo momento [...]” (LG, 493; CORR, III, 191). Sempre alla madre, data incerta, probabile maggio 1903: “Car jʼaime mieux avoir des crises et te plaire que te déplaire et nʼen pas avoir” (CORR, III, 328). Vedi nella lettera a Jaques Bizet del 14 giugno 1888 il riconoscimento del ruolo svolto dalla “malattia” nelle tenzoni familiari: “[...] peut-être parce quʼelle redoute pour moi cette affection un peu eccessive, nʼest pas? Et qui peut dégénérer (elle le croit peut-être) en... affection sensuelle...”. La madre ha proibito a Marcel di incontrare Jacques: “Sur mon refus énergique elle mʼa du moins défendu dʼaller chez toi ou de te voir chez moi. Scène furieuse, désespoir lent, menaces, mauvaise santé [...]” (CORR, ______, 554-555). 264 Di fronte ad un attacco di panico come quello provocato dallʼimprovvisa partenza di Albertine, lʼunica risorsa è il “concatenare”: “Aussi, si ma réflexion sʼattachait à une de ces séries, si je commençais à penser à la musique, à la maladie, à Bergotte, aux Guermantes, les idées sʼenchaînaient les unes les autres comme elles le faisaient autrefois; oui, comme elles le faisaient autrefois jʼen sus sur car si tout dʼun coup jʼaperçevais lʼidée quʼAlbertine était partie, il me semble que je me suis livré pendant me réflexions à quelque chose dʼaussi absurde quʼun rêve que la réalité dément et quʼone secoue au réveil” (C 71; ES I, AS, 631). Nel Tempo ritrovato troveremo un altro modo di concatenare: “Ciò che chiamiamo realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente [...] unico rapporto che lo scrittore deve trovare per incatenare per sempre lʼuno allʼaltro, nella sua frase (por en enchaîner à jamais dans sa phrase), i due diversi termini. Si possono elencare di seguito quanto si vuole, in una descrizione, gli oggetti che figuravano nel luogo descritto: la verità (la vérité) comincerà solo nel momento in cui lo scrittore prenderà due oggetti diversi, ne porrà il rapporto, analogo nel mondo dellʼarte a quello che è il rapporto esclusivo di causa ed effetto nel mondo della scienza, e li fisserà con gli indispensabili anelli (anneaux) dello stile. Anzi, quando, come la vita, avvicinando una qualità comune alle due sensazioni, egli ricaverà la loro essenza comune, riunendole entrambe, per sottrarle alle contingenze del tempo, in una metafora” (TR, 889; 570). Questo passo, su cui abbiamo già a lungo meditato, riconosce il concatenamento causa- effetto che colloca ogni evento nello spazio e nel tempo; ma lo distingue da quello che, invece, colloca lʼessenza fuori dello spazio e del tempo. I due eventi simultanei e diversi che la memoria involontaria produce, non devono essere concatenati come si suole fare quando si coordina il passato e il presente... ma come si deve se si vuole attingere lʼextratemporale, lʼessenza. 259

quale (par où), se aveva la forza di afferrarla (sʼil avait la force de la saisir), poteva evadere di riflessione in riflessione o di creatura in creatura, in quel campo aperto della speranza e dei secoli, dove lo spirito può correre come un puledro lasciato libero. Ma la sua infanzia si agitò miseramente in fondo a un pozzo di tristezza265 donde nulla poteva ancora aiutarlo ad uscire, non ancora illuminata neppure dallʼidea della causa delle sue pene. E dʼaltronde, della sua tristezza, egli non conobbe più tardi se non le cause seconde (il ne connut guère plus tard que les causes secondes), perché la causa prima gli parve sempre tanto inseparabile da sé medesimo che non poté mai rinunciare ad essa senza rinunciare a se stesso” (JS, 202- 211; 27-37). Lʼincipit – “il portello del giardino si richiuse lentamente su Jean” – è un poʼ spiazzante. Ma, dopo poco, ci ritroviamo. A parte una serie di motivi diventati tipici: forza dellʼabitudine, mancanza di volontà... qui, ancora più forse che in SW, viene equiparata la paura della notte alla paura della morte; e, questa paura, viene definita come “importante” (non “senza importanza”)... Jean è “ancora troppo giovane”... ma ha capito che il riposo del sonno equivale al riposo della morte. Solo col progredire dellʼetà riuscirà a costruire una “scala”; fondamentalmente quella che collega una causa col suo effetto; le categorie famose: anche se le cause categoriali sono sempre “causes secondes”... La causa prima... Ma, se andiamo alla ricerca della causa “prima”, ci inoltriamo nel “privo di prima e dopo”... Ci inoltriamo nellʼacategoriale. Nellʼirresponsabilità... La morte ci offre lʼacategoriale in una forma che spaventa, almeno apparentemente; la nascita, in una forma che, almeno apparentemente, rallegra. Forse Hereafter potrebbe insegnarci qualcosa. A capire che lʼacategoriale spaventa, ma non è spaventoso.

2) Ancora sullʼacategoriale

“La porta era aperta. Jean sentì che Réveillon aveva udito e, vedendo ormai pronta la sua valigia, posò in fretta le labbra indifferenti sulle guance di sua madre, sgradevolmente infiammate dalla fretta e dal malumore [...]. Salita la scala [quattro ore dopo, approdato allʼalbergo], arrivando ad un pianerottolo sconosciuto, si

265 Questo “fond dʼun puits de tristesse” richiama il “lac inconnu” del Tempo ritrovato. 260

sentì a un tratto (brusquement) lontano da sua madre. E nel fondo del petto si destò una palpitazione debole ma immensa, come in lontananza, il palpito continuo del mare. Erano forse pensieri, desideri, paure, inquietudini, slanci fino allora cresciuti sotto lʼala di sua madre e ora recati così lontano da lei, i quali, a un tratto (tout dʼun coup) accorgendosi dʼessere abbandonati, balzavano in lui come per slanciarsi fuori, spaventati, disperati, folli della loro impotenza [...]” (JS, 356 sgg.; 190 sgg.). Dallʼalbergo la cui camera è una “prigione” e il cui letto una “tomba”, Jean telefona alla madre... “Ma commovente, limpido, ecco il campanello che trilla e pare balzare qua e là (voici le timbre qui sonne, resonne, semble courir çà et là). [...]. Poi, dʼun tratto (tout dʼun coup) – ed è come se tutti se ne fossero andati dalla camera ed egli cadesse fra le braccia di sua madre – viene proprio contro di lui, così dolce, così fragile, così delicata, così chiara, così fusa, come un piccolo frammento di ghiaccio spezzato, la voce di sua madre. – Sei tu, caro? – È come se gli parlasse per la prima volta (pour la première fois). Come se la ritrovasse, dopo la morte, in paradiso. Perché per la prima volta (pour la première fois), egli ode la voce di sua madre. [...]. Il campanello suona (il sonne). È finito (est fini)”. La collocazione nel tempo del suono della voce della madre – la “prima volta” (2 vv.) – è fatta da chi, risbattuto nellʼacategoriale, si ri- affaccia al categoriale... Grazie al telefono...

3) La madre da ritrovare

Lite di Jean con i genitori. Fuga in camera. Ricerca, nellʼarmadio, di qualcosa per coprirsi perché ha freddo... La sua mano “tanto eccitata e quasi folle” trova un mantello di velluto nero orlato di frange, foderato di satin rosso e di ermellino: “come ferito dalla violenza del colpo, esso entrò nella camera stretto nel pugno di Jean come una fanciulla che un guerriero abbia afferrata per le chiome”. È il mantello della madre: “Turbato guardò il mantello, che nei suoi colori ancora freschi, nel suo velluto ancora dolce, somigliava a quegli anni che non servivano più a nulla, senza rapporto con la vita ma non appassiti, intatti nel suo ricordo. Lʼavvicinò al naso, sentì il velluto scivolare ancora sotto la palma della mano e credette di stare abbracciando sua madre, quella sera, quando, accompagnata dal signor Sandré che era ancora valido, ancora giovane, bella, senza aver conosciuto il dolore o la malattia, essa usciva [...] posandogli 261

sulla guancia prima di salire in carrozza, con le sue labbra belle e fresche, un bacio limpido (un baiser limpide) come la sua fiducia e come al sua felicità. Provò la voglia irresistibile di abbracciare sua madre, ancora una volta, in quel modo. [...]. Ma sua madre non era più lei. La morte di suo padre, la pigrizia di Jean [...] lʼavevano mutata. [...]. egli non lʼavrebbe più ritrovata. E fra qualche anno non lʼavrebbe neppur ritrovata quale era adesso. [...]. Avrebbe voluto baciare sulle guance della madre quanto restava della sua giovinezza e della sua felicità, trattenere con i suoi baci per ore intere gli attimi che passavano, la vita che scorreva, la bellezza che appassiva, le speranze che fuggivano, lʼesistenza insomma della persona in rapporto alla quale egli concepiva ogni cosa e che un giorno sarebbe stata completamente annientata, senza chʼegli potesse mai più ritrovarla (sans quʼil pût jamais la retrouver), senza che nulla di lei sopravvivesse come non fosse mai esistita” (JS, 419 sgg.; 257 segg.). Ecco quel che bisogna ritrovare. La madre? Sì, ma la madre degli anni rimasti, in noi, “non appassiti, intatti (pas fanées, intactes)”... E quali sono? Quelli in cui non si è ancora costruita la “scala”... Non si sono ancora imparate le categorie...

4) Essere madre alla madre e a se stesso

“Di sera in sera, risalì fino a quella quando aveva pianto tanto a lungo, col viso contro il cuscino, dopo tante prove dellʼindifferenza (indifférence) di Marie Kossichef [...]. E siccome il lenzuolo era abbondantemente ripiegato poté farne una specie di dolce cuscino sopra le spalle. Anche la sua bocca scomparve e, come quando era piccolo (comme quand il était petit), ebbe bisogno di farle riprender aria; ʻun giorno soffocheraiʼ, diceva la governante. Sorrise, con una delle sue mani afferrò lʼaltra e la baciò (il sourit, prit une des ses mains ave lʼautre et lʼembrassa). [...]. Andò a prendere un piccolo scialle di sua madre con quale, quando era piccolo (pendant son enfance), essa, se li aveva freddi, era solita fasciargli i piedi. Nelle sue maglie quello scialle conservava gran parte di quella calda tenerezza e di quel passato freddoloso. E così se lo posò intorno al collo con grande dolcezza, come fossero state le braccia di sua madre (commme les bras mêmes de sa mère qui le passa autour de son cou). Si figurò di appoggiare la testa sul seno di lei, come quando era malato o triste; e, ripiegata sulla persona lʼala bianca del lenzuolo, si addormentò” (JS, 829-830; 698-699). 262

Jean è diventato capace di essere madre a se stesso.266 E fa da madre alla madre (diventata infante): “Jean socchiuse la porta della camera da letto di sua madre, e scorse il suo bel profilo severo, i capelli sciolti, gli occhi chiusi, il naso, la bocca placata e chiusa come ogni bocca infantile (comme une buche dʼenfant), dormente sul cuscino. Si tolse le scarpe per non svegliarla, camminò in punta di piedi fino al letto, posò un bacio sul sottile lenzuolo che la copriva fino al mento, gonfiato dalle sue braccia, e poi, vedendo che non si svegliava, sui suoi capelli. [...]. Jean non era più triste e non aveva più paura di dormire. Sentiva che durante il sonno avrebbe avuto vicino sua madre. [...]. E infatti, come questa fu dolce (Quʼelle fut douce, en effet)!” Sua madre [...] non appena, svegliato, egli suonò il campanello (il sonna), apparve tutta preparata, pettinata, col volto fresco su un abito da mattino. [...]. Ogni tanto la faceva alzare dalla sedia per abbracciarla” (JS, 854-856; 726-727).267 Se si tiene presente che questa scena avviene in assenza del padre (fuori Parigi per lavoro), essa acquista una possibile connotazione incestuosa. Vedi Evelyne Bloch-Dano, a proposito della lettura da parte della mamma al Narratore settenne di François de Campi: “lʼhistoire – ô génie de Proust! – dʼun amour incestueux entre enfant ed sa mère adoptive...”268

266 Un gesto molto simile lo ritroviamo nei Cahiers. La “sonnette de la porte” ha avvertito il Narratore che Swann se nʼè andato, egli apre la finestra, vede e sente le manovre dei genitori preparatorie dellʼandare a letto: “Jʼétais dans une disposition si joyeuse que ces paroles insignifiantes qui montaient du jardin mʼenchantaient je me répétais fort < Zut, xut, [mot illisible] > avec le même accent enivré que si ces mots avaient signifié quelque vérité délicieuse, je sautais seul dans ma chambre, je mʼaddressai un sourire dans ma glace, et ne sachant sur quoi fair tomber ma tendresse et ma joie, je saisis mon propre bras avec transport et jʼy déposai un baiser. Hélas cette joie dura peu” (C 8, ES XII, SW, 690-691). 267 In uno dei Cahiers, il famoso “drame du coucher” si conclude, prima che con lʼaddormentarsi del Narratore, con lʼaddormentarsi della madre: “Je la priai de se coucher, elle referma le volume à la couverture cerise, et fu convenu que nous en continuerions un outre jour la lecture. Elle sʼendormit. Jʼai quelquefois – bien rarement – dans mon enfance connu le sentiment du repos complet, du repos sans tristesse, du calme parfait. Je ne lʼai jamais connnu comme cette nuit-là. Jʼétais si hereux que je nʼosais pas mʼendormir. Je ne sais pas quando je mʼendormis” (C 6, ES X, SW, 676). 268 Op. cit., Grasset, Paris, 2004, p. 112. Anche se, dal Narratore, sappiamo che la mamma “saltava tutte le scene dʼamore” (SW, 52). 263

Cap. 17

UNʼALTRA SCENA MADRE

1) Onomatopee

Ho letto con grandi attesa, e grande delusione, la monumentale biografia di Proust scritta da Jean-Yves Tadié (benemerito curatore dellʼultima edizione riveduta della Recherche con annesse moltissime Esquisses e variantes), Marcel Proust.269 Mi ha, invece, subito incuriosito la sua definizione del “téléphone avec sa mère”270 come “scène presque aussi capitale que celles du baiser du soir”... Mi sono messo subito al lavoro dopo aver pensato – che non è forse il caso di parlare al plurale della scena del bacio (o del “drame di coucher”) e al singolare del “téléphone avec la mère”; perché in entrambi i casi abbiamo attiva una “seriazione”; – che Tadié ha forse trascurato un altro “coup de télépnone”, quello di Albertine (in Sodoma e Gomorra [SG, 127 sgg; 885 sgg.])... Albertine non è la madre... Ma ormai sappiamo che lʼangoscia, di volta in volta, “si specializza” e si orienta sulla madre, sulla sorella, sullʼamante... Unificando tutte queste figure, seriandole. Tadié individua uno svolgimento della seriazione che dura 23 anni; a partire dal 20 ottobre 1896 quando Proust scrive su se stesso come Jean Santeuil (JS, 360 sgg.; 190 sgg.), passando per Giornate di lettura del 1907 (CSB, 527 sgg.; 476 sgg.), per arrivare a Dalla parte dei Guermantes del 1920 (G, 131 sgg.; 157 sgg.). Riandiamo questa seriazione ricordando che, come il Narratore nel bel mezzo del “drame”, lo stesso Swann aveva sofferto. Di che cosa? Del fatto che Odette era in “un luogo di piacere” dovʼegli non era...271 (Come lo era stata la madre del Narratore insieme a tutti gli altri, compreso Swann)...

269 Gallimard, Paris, 1996, pp. 328-329. 270 Il titolo del Jean Santeuil è Jean à Beg-Mail. I. Le téléphonage à sa mère. 271 Swann, se avesse letto la lettera scritta dal Narratore e mandata, con lʼintermediazione di Françoise, alla madre, se ne sarebbe beffato! “Invece, come ho appreso in seguito, unʼangoscia simile fu per lunghi anni il tormento della sua vita, e nessuno, forse, avrebbe potuto capirmi meglio di lui; a lui, quellʼangoscia 264

Ora, la differenza che salterà agli occhi tra “drame du coucher” e “drame du téléphone” è che il telefono sembra proprio abolire la distanza. Siamo nello stesso luogo... Vedremo meglio. Per orientarci è utile tener presenti le seguenti scadenze: morte della nonna (materna) il 29 gennaio 1890; scrittura del pezzo sul coup de téléphone il 1896; lettera (di cui qui sotto) a Bibesco, 4 dicembre 1902 (la madre ha perso recentemente i suoi genitori); morte della madre il 26 settembre 1905. Tenere presente che, sotto la penna dello scrittore, la nonna sta spesso per la madre; in ipotesi questo non implica “equivalenza” ma “seriazione”. Allora, il 4 dicembre 1902 Proust scrive ad Antoine Binesco, a cui è recentemente morta la madre... e, ad un certo punto, ricorda la voce della propria madre sentita al telefono a Fontainebleau di cui Proust ha scritto già nel Jean Santeuil: “ho visto la tua grafia stravolta, quasi irriconoscibile, con i caratteri rimpiccioliti e contratti (avec ses lettres diminuées, retrectés), come occhi diventati piccoli (devenus tout petits) a forza di piangere, è stato per me un altro colpo come se per la prima volta (comme si pour la première fois) avessi la sensazione netta della tua infelicità. Ricordo che quando Mamma perse i suoi genitori – provandone un dolore al quale ancora mi chiedo come abbia potuto sopravvivere – la vedevo ogni giorno, ogni momento. Ma una volta ero andato a Fontainebleau e le ho telefonato. Nella cornetta dʼun tratto (tout dʼun coup) mi giunse la sua povera voce rotta, torturata, incrinata, uccisa per sempre (sa pauvre voix brisé, meurtrie à jamais), diversa da quella che avevo sempre conosciuto, piena di incrinature e di fenditure (pleine de fêlures et de fissures); ed è accogliendo nel ricevitore quei brandelli sanguinanti e distrutti (les morceuax saignants et brisés) chʼebbi per la prima volta (pour la première fois) lʼatroce percezione di ciò che era spezzato in lei (à jamais brisé en elle). Succede lo stesso con la tua lettera, nella quale si avverte lʼinfinita fatica di scrivere, tanto di parlare del tuo dolore che di non parlarne. La tua lettera mʼha fatto piacere se posso dire così, ma mi ha reso molto infelice. [...]” (LG, 486; CORR, III, 182). Sigliamo: ses lettres diminuées, retrectés // devenus tout petits // sa pauvre voix brisé, meurtrie à jamais // pleine de fêlures et de fissures // les morceuax saignants et brisés // à jamais brisé en elle. che si prova sentendo lʼessere al quale si vuol bene in un luogo di piacere (dans un lieu de plaisir) dove noi non siamo, dove non possiamo raggiungerlo, è lʼamore che lʼha fatta conoscere, lʼamore cui è in qualche modo predestinata, da cui sarà accaparrata, specializzata (spécialisée) [...]” (SW,30; 38). 265

Sembra unʼomotopeia: tutto si incrina, si rompe... Si disfa, anche, e sanguina e muore. Ma, a livello sonoro, sovrasta lʼincrinatura e la rottura: diminuées / retrectés / brisé / fêlures / fissures / morceuax / brisés / brisé... Proust scrive subito la pagina del Jean Santeuil e la manda alla madre perché la conservi... Il 21 ottobre 1896 (mercredi matin, 9 heurs ½) scrive alla madre: “Je ne peux pas te dire lʼheure épouvantable que jʼai passée hier de 4 heures à 6 heures (moment que jʼai rétroplacé avant le téléphon dans le petit récit que je tʼai envoyé et que je te prie de garder et en sachant où tu le gardes car il sera dans mon roman). Jamais je crois aucune de mes angoisses dʼaucun genre nʼa atteint à ce degré” (CORR, II, 137). Kolb situa la telefonata il pomeriggio del martedì precedente (CORR, II, 139). Nella carte-lettre che la mamma gli spedisce il 20 ottobre (1) lei medesima gli parla di “demoiselles du téléphon”; (2) fa risuonare unʼonomatopeia gioiosa: nessuno è contento tranne le porte e i campanelli che hanno intonato degli alleluia chiassosi: “[...] malgré toutes mes offres aux demoiselles de versement extra – (demoiselles du téléphon) elles mʼont renvoyée à la cabine. Tu a donc dû avoir une longue station! Je bouillais pour toi. Il nʼy a de content de ton départ que les portes et sonnettes qui ont entonné de bruyants halleluias. [...]” (CORR II, 134). Siglando: demoiselles du téléphon / content / départ / portes / sonnettes / entonné / bruyants halleluias. Sempre il 21 ottobre (mercredi 2 heures) la madre definisce le pagine appena lette “bien douces mais bien tristes, mon pauvre loup” (CORR, II, 141). La sua carte-lettre ha come anticipato le “demoiselles” ed ha come preventivamente bilanciato, con lʼonomatopea gioiosa, quella triste (ma dolce). (Mme Proust invita anche il figlio a perdonare al telefono “tes blasphèmes passés. Quel remords dʼavoir méprisé, dédaigné, éloigné un tel bienfaiteur”... Il telefono è un “benefattore”? Nella misura in cui riesce a togliere la distanza, a ricreare la “présence réelle”? Che ora vedremo. Teniamo presente che la reazione di Mme Proust è al testo che comparirà in Jean Santeuil. In ogni caso lʼonomatopea gioiosa è quasi sarcastica: nessuno è contento tranne le porte e i campanelli... Perché essi non sono più sottoposti alla regolamentazione severa di Marcel... Ma non è proprio la sua assenza da casa che dovrebbe rattristare la casa medesima? 266

2) Jean Santeuil

“[...] si sentì a un tratto lontano da sua madre (il se sentit brusquement loin de sa mère)”... Tutto parte da questa lontananza. Poco prima, al momento della partenza – adesso è arrivato (allʼalbergo delle Rocce Nere di Trouville) – ha “posato in fretta le labbra indifferenti sulle guance di sua madre, sgradevolmente infiammate dalla fretta e dal malincuore. Ma che cosʼè la madre? “[...] si sentì a un tratto lontano da sua madre. E nel fondo del petto si destò una palpitazione debole ma immensa (une palpitation faible mais immense), come, in lontananza, il palpito continuo del mare (lʼincessante palpitation de la mer). Erano pensieri, desideri, paure, inquietudini, slanci fino allora cresciuti sotto lʼala di sua madre (qui avaient grandi jusquʼlà sous lʼaile de sa mère) e ora recati così lontano da lei (si loin dʼelle), i quali, a un tratto (tout à coup) accorgendosi dʼessere abbandonati, balzavano in lui come per slanciarsi fuori, spaventati, disperati, folli nella loro impotenza, torma tumultuosa e debole, infantile e tenera come una nidiata di piccoli albatri che vengano gettati in mare quando la riva è ormai lontana e che gridino, spezzando il loro slancio con lʼimpotenza delle ali, e chiamino la madre che non può udirli e sentano il loro cuore balzare fino a lei senza che possano, veloci come lei, raggiungerla?”272 Lʼangoscia che scoppia è cresciuta sotto lʼala materna! Lʼala materna non ha impedito tale crescita. Lʼha soltanto custodita. Anticipando: ha offerto un luogo – la sua ala – in cui il piccolo ha potuto costruire le sue “abitudini”; le abitudini che lo rendono insensibile alla realtà (cieco). Comunque qui è la madre al centro... Il figlio, arrivato in un albergo lontano da casa (dalla madre), entra nella “sua camera” che non sente per niente “sua” perché non è della madre... La camera desiderata è qui descritta come la camera visitata dalla madre: “quando sua madre seduta in una poltrona gli sorrideva senza parlare”...

272 comme por sʼélancer dehors, effrayée, désespérée, folle de nʼen avoir pas la force, foule tumultueuse et faible, enfantine et tendre, comme une couvée de petits goélands quʼon jette à la mer quand le bord est perdu de vue et qui poussent des cris, brisent leur élan à lʼimpuissance de leurs ailes, appellent leur mére qui ne peut pas le entendre et sentent leur cœur sauter jusqʼà elle sans quʼallant aussi vite que lui puissent la rejoindre? 267

“[...] quando Jean entrava in quellʼanima diffusa che era la sua camera, per così dire egli non faceva che rientrare in se stesso (rentrer en lui-même), o meglio, era la camera che entrava in lui (ou plutôt cʼétait sa chambre qui entrait en lui) con tutta la vivacità della simpatia e la dolcezza dellʼabitudine (avec toute la vivacité de la sympathie et la douceur de lʼhabitude). Egli si sentiva, pur solo comʼera, con cuore ricco, più disteso, più vasto”. Entrare nella propria camera = entrare in se stesso... No!, = entrare della camera in lui... Questo è stato il procedimento fondamentale: in contrasto con lʼentrare nel nuovo (rappresentato dal mondo ma anche da “sé medesimi), fare entrare il nuovo... Cioè, invece di affrontarlo, addomesticarlo. Comunque, lʼessenziale è che la manovra (dellʼingresso nella camera sua o della sua camera in lui etc.) avvenga sotto il segno dellʼ“abitudine”. Ascoltate la colonna sonora stridula dei tentativi di “entrare” nella camera ignota = nellʼignoto: “egli si sentì suo malgrado diminuito, indurito, smussato (diminué, durci, éponité), incapace di penetrare in quelle cose estranee che la simpatia non riusciva a schiudergli, a rompere il fascio (briser le faisceau) di quelle forze che parevano nemiche, ad aprirsi a una strada in quel mondo compatto, duro e glaciale (dans ce monde compact, dur et glacé). [...]. In quello specchio invece doveva cercare, con grandi sforzi dolorosi, di aprirsi una fessura (tâcher de se faire une fissure), di entrare. E il minuscolo palpito del cuore che balzava verso sua madre, cresceva, batteva ora proprio sotto la pelle”. Siglando: diminué, durci, épointé / briser le faisceau / compact, dur et glacé / une fissure.. Sembra di risentire Proust nella lettera a Bibesco... Evidente: la durezza dellʼignoto richiede una eguale durezza da parte del suo investigatore. Jean è incapace di questa durezza. Si vede in quel letto, incapace di dormire, “col pensiero a sua madre, mantenuto lontano da lei (gardé loin dʼelle) da quelle coperte mute e troppo ricamate, sentendo il palpito infinito del suo cuore crescere nel silenzio della notte, e lʼirrevocabilità dellʼassenza (lʼirrévocable de lʼabsence), lʼimmobilità del riposo, lʼangoscia della solitudine e dellʼinsonnia. La camera era una prigione; ma quel letto era la sua tomba”. Come nel “drame du coucher” qui a far problema è lʼassenza; lʼassenza della madre. Ad essa corrisponde la morte. 268

Ricordate che anche in Dalla parte di Swann il Narratore sente che dovrà andare a seppellirsi: “scavarmi da me la mia tomba sistemando le coperte, indossare il sudario della camicia da notte” (SW, 35)... Che fa il nostro eroe? “Si slanciò fuori della stanza [...]”... Pronto a partire per rientrare a casa (della madre = “sua”)... Riecco però la minaccia: “Riparto, fra tre ore sarò felice, ah, la mamma... No, la mamma sarà seccata, forse si arrabbierà, è impossibile, domani sarò più calmo. Domani? Allora dovrò passare la notte qui? No! Parto”. Anche qui Shakesperare è richiamato in filigrana: dormire, sognare = domani; domani? Ma ecco il soccorso del telefono. Il nostro eroe deve fare “qualcosa che lo ponga [ponesse] immediatamente in comunicazione (en immediate communication) con la mamma”... Ci sono, però, degli ostacoli. Il tempo passa. “Ma commovente, limpido, ecco il campanello che trilla e pare balzare qua e là (mais, commotionant, clair, voici le timbre qui sonne, resonne, semble courir çà et là)... Altre difficoltà: la “voce forte e dura (forte et dure)” di un ragazzo; poi unʼ“altra voce forte e dura (forte et dure)... “Poi tuttʼa un tratto (tout dʼun coup) – ed è come se tutti se ne fossero andati dalla camera ed egli cadesse fra le braccia di sua madre – viene proprio contro di lui (vient là tout contre lui), così dolce, così fragile, così delicata, così chiara, così fusa (si douce, si fragile, si délicate, si claire, si fondue), come un piccolo frammento di ghiaccio spezzato (un petit morceau de glace brisée), la voce di sua madre. – Sei tu, caro? –” Sigliamo – il suono del campanello: commotionant, clair, voici le timbre qui sonne, resonne, semble courir çà et là; – delle voci dei ragazzi: forte et dure / forte et dure... – della voce della madre: si douce, si fragile, si délicate, si claire, si fondue, un petit morceau de glace brisée. Sembra evidente, soprattutto nella ricchissima aggettivazione della voce della madre, la compresenza del dolce e dello stridulo. Lo stridulo richiama lo stridulo del suono del campanello (che potrebbe, invece, essere qualificato “clamore”); ma il petit morceau de glace brisée richiama lo stridulo della lettera a Bibesco... Eppure esso abita la voce “ritrovata”! Ma ritrovata come? 269

Il nostro eroe cade; tra le braccia della madre; la quale viene “contro di lui (contre lui)”; ma dolce etc.; anche se come un piccolo frammento di ghiaccio spezzato = la dolcezza comporta una incrinatura? È come se [elle lui] parlasse per la prima volta (pour la première fois), come se la ritrovasse, dopo la morte, in paradiso (comme sʼil la retrouvait après sa mort dans le paradis), perché per la prima volta (pour la première fois) egli ode la voce di sua madre. Ascolta sempre quel che gli dice, ma la sua voce non lʼaveva mai notata, non più della propria voce, dʼaltronde. Allora, ricevendola così tuttʼa un tratto (tout dʼun coup), proprio quando la desidera di più e meno lʼaspetta (au moment où il le désire le plus et sʼy attends le moins), quando è preparato ad udire ancora la voce di un ragazzo, è stupefatto per lʼabisso che cʼè tra quelle dure voci (ces dures voix) e quel piccolissimo frammento di ghiaccio spezzato (et ce tout petit morceau de glace brisée) su cui paiono colare lacrime, mentre tutte le pene sofferte da anni continuano a circolare in quella voce, singhiozzi o gemiti chʼessa non ha mai lasciato sfuggire per non addolorare i suoi e che [sono] nascosti là, vicinissimi, come i ricordi dei morti sono nellʼaspetto consueto della sua camera (dans lʼaspect coutumier de sa chambre), a un palmo di mano da lei (à un doigt dʼelle), nei cassetti. Ma soprattutto quel che lo colpisce e lo stupisce dopo quelle voci maschili, è trovare in quella voce che pare cento miglia lontana dalle loro, trovare quella cosa che gli pare di non aver mai vista e di scoprire lì per la prima volta (pour la première fois): la dolcezza – la dolcezza, la piccola essenza divina che ha spesso sognata, non immaginandola affatto comʼera, soave, magnifica (suave, magnifique): e che ora egli ha lì, nel suo orecchio, vicinissima, come i minuscoli frammenti offerti di un cuore spezzato (comme les petits morceaux offerts dʼun cœur brisé), una piccola scheggia di ghiaccio che fonde (un petit morceau de glace qui fond). Tutto appare nuovo (vedi lʼiterato “per la prima volta”); quindi si rivela lʼignoto; infatti, il ritrovamento della madre avviene come negli inferi... Già presenti gli accenni autoironici del Tempo Ritrovato: nel TR il Narratore legge il proprio invecchiamento in quello dei cadaveri ambulanti della matinée; qui scopre la propria voce in quella della madre... après sa mort. Non conosce nessuna delle due... Le sente per la prima volta... E accede alla rivelazione: nel TR la porta, infine, non spinta, si apre; qui è la voce della madre che – au moment où il le désire le plus et sʼy attends le moins – gli si rivela. Diversa da quella dura e forte del ragazzo (dei ragazzi)... La rivelazione? 270

Lʼ“abisso” = la dimensione del Tempo... Il Tempo che ha portato via, con la sua falce, i genitori della madre (i suoi nonni)... La madre ha conservato i segni dei morti nei cassetti; ma ha conservato un aspetto “consueto” alla sua camera... Ha cercato di non incrinare lʼabitudine... Ma “soprattutto” egli “trova” quel che non ha mai visto: la dolcezza. Non lʼha mai immaginata così: insieme “soave, magnifica” e “vicinissima come i minuscoli frammenti offerti di un cuore spezzato (comme les petits morceaux offerts dʼun cœur brisé), una piccola scheggia di ghiaccio che fonde (un petit morceau de glace qui fond). Siglando: petits morceaux offerts dʼun cœur brisé / petit morceau de glace qui fond. Sembra che la durezza, lo stridulo, dellʼaggettivazione complessiva sia smussata dal “petit” iterato... e dal “fond”. Il “fond”, se da una parte addolcisce il “morceau”, dallʼaltra suggerisce una possibilità di elevarsi verso lʼalto... Cioè: la scoperta (la rivelazione) è della coesistenza possibile dei diversi aspetti della realtà; del noto e dellʼignoto; della vita e della morte... Non rimane che lʼesaltazione di questa voce in cui coesiste la presenza e lʼassenza: “Come sente allora tutto quel che egli è per sua madre. [...]. In quel frammento di voce spezzata (dans ce petit morceau de voix brisée) si sente tutta la sua vita per lui, lʼunica tenerezza che sia tutta per lui (toute à lui) senza nemmeno una particella trattenuta per sé, la voce pura come una scheggia di ghiaccio (pure comme un petit morceau de glace) dove non cʼè voce, né forza, non la voce e non la forza dellʼorgoglio, dellʼegoismo, dei desideri, dellʼinteresse, ma solo la voce della dolcezza, della sovrannaturale dolcezza che era vicino a lui senza che egli lo sapesse, che non aveva nulla di straordinario, in apparenza, e che, sorpresa così, tuttʼa un tratto (tout à coup), fra [quelle] altre voci, si fa sentire come se fosse a cento miglia da quelle; la voce della dolcezza che si rompe e si fonde (qui se brise et fond) tanto cara allʼorecchio del cuore. Siglando: ce petit morceau de voix brisée / pure comme un petit morceau de glace / qui se brise et fond. Di nuovo la coesistenza. “Ma egli è ben presto riafferrato dalla vita; che cosa deve dirle? Si parlano ed egli non ode [più] la sua voce, come, vivendo con lei, non conosce la sua persona. Essa è là. Pur continuando a parlare, come di questioni pratiche, si dice; – Mamma, mamma, sei là, avvicinati, voglio darti un bacio (je veut tʼembrasser), oh, passerà molto tempo prima che ti possa dare un bacio (je ne tʼembrasserai 271

pas dʼici longtemps), mamma, mammina, mamma! – Sʼaccorge che sua madre si stanca, non comprende più distintamente quel chʼessa gli sta dicendo... Il campanello suona. È finito (Il sonne. Cʼest fini)”. Il sonne. Cʼest fini. Ricordate la sottrazione allʼultimo momento del bacio da parte di Albertine? “Stavo per conoscere lʼodore, il sapore di quellʼignoto frutto rosa. Sentii il suono precipitoso, prolungato e stridulo (jʼentendis un son précipité, prolongé et criard). Albertine, con tutte le sue forze, aveva suonato (Albertine avait sonné de toutes ses forces)” (OF, 934; 1128)... Che cosa finisce qui? Non il bacio della madre, della sorella, dellʼamante etc... Ma il bacio della madre etc. vivente e morta; presente-assente. Finisce qui la rivelazione della compresenza della presenza e dellʼassenza e della capacità di viverle insieme che si è data in unʼestasi. Non a caso, come sappiamo dalla medesima lettera – 20 octobre, mardi soir 7 heures – in cui Proust ha parlato alla madre dellʼ“heure épuovantable”, egli ha riorganizzato la disposizione dei mobili della stanza, lʼha piegata, il più possibile, ai suoi bisogni- abitudini: “Je viens de parler à la femme de chambre, elle va me mettre mon lit autrement, tête au mur (parce quʼon ne peut ôter les ciels de lit), mais le lit au milieu de la cambre. Je crois que ce sera plus commode pour moi” (CORR, II, 138).

3) Giornate di lettura

Qui il telefono viene evocato per la sua comodità fittizia, fittizia perché nasconde un mistero, qualcosa di “sacro”: “Prima [di metterci a leggere] facciamo molte telefonate. E poiché siamo bambini e giochiamo con le forze sacre senza tremare [sans frisone = Kafka] dinanzi al loro mistero, del telefono pensiamo soltanto che ʻè comodoʼ, anzi, dato che siamo bambini viziati, pensiamo che ʻnon è abbastanza comodoʼ [...]”. Il telefono è comodo perché rende presente lʼassente; anche se – è qui il “vizio” dei bambini “viziati” – si chiede al telefono dʼessere più rapido a togliere lʼassenza: “[...] non troviamo ancora sufficientemente rapido nei suoi mutamenti lʼammirevole incantesimo nel quale, in effetti, trascorrono a volte alcuni minuti prima che compaia accanto a noi, invisibile ma presente, lʼamica con la quale avevamo il desiderio di parlare, e che, pur restando al suo tavolino, nella città lontana dove abita, sotto un cielo diverso dal nostro, con 272

un tempo diverso che noi ignoriamo e chʼessa sta per raccontarci, si trova dʼun tratto (tout à coup) trasportata a cento miglia di distanza (lei, e tutto lʼambiente in cui rimane immersa), contro il nostro orecchio, nel momento in cui il nostro capriccio lʼha ordinato”. Il paradosso sta nel fatto che le “Vergini vigilanti” etc., rendono presente lʼassente, ma, loro, rimangono invisibili: “Perché questo miracolo si rinnovi per noi, non dobbiamo far altro che accostare le labbra alla membrana magica e chiamare – a volte un poʼ a lungo, lo ammetto – le Vergini vigilanti delle quali udiamo ogni giorno la voce senza mai conoscerne il volto (dont nous entendons chaque jour la voix sans jamais connaître leur visage) e che sono i nostri Angeli custodi delle tenebre vertiginose di cui sorvegliano le porte, le Onnipossenti per opera delle quali i volti assenti sorgono accanto a noi, senza che ci sia consentito di scorgerli (sans quʼil nous soit permis de les apercevoir) [...]”... Non solo queste Vergini... rimangono a noi invisibili, ma, quali Danaidi dellʼInvisibile, Furie gelose, interrompono il nostro “contatto” con lʼinvisibile nostro interlocutore: “mentre mormoriamo una confidenza (tandis que nous murmurons une confidence) ci gridano ironicamente: ʻVi ascoltoʼ proprio nel momento in cui speravamo che non ci udisse nessuno, le irate officianti del Mistero, le Divinità implacabili, le signorine del telefono!” Riecco les demoiselles du téléphone evocate dalla madre... “Ed appena il loro richiamo ha risuonato nella notte piena di apparizioni sulla quale le nostre orecchie sole si aprono, un rumore leggero, un rumore astratto (une bruit léger, un bruit abstract) – quello della distanza soppressa (celui de la distance supprimée) –, ed ecco che la voce della nostra amica si rivolge e noi”... Se le Furie gelose possono interrompere la nostra conversazione telefonica, restaurando così la distanza da poco abolita, è vero anche che suoni che importunano la voce dellʼinterlocutore finiscono col consolidare lʼimpressione che la distanza è stata realmente abolita, un ponte è stato gettato: non solo con lʼinterlocutore ma con il mondo a cui egli appartiene: “Se, in quel momento, entra dalla sua finestra (par sa fenêtre) e giunge a importunarla, mentre ci parla, la canzone di un passante, la tromba di un ciclista o la fanfara lontana di un reggimento in marcia, tutti questi suoni echeggiano non meno distintamente per noi (quasi a dimostrarci che è proprio lei che ci sta accanto, con tutto quel che la circonda in quel momento, quel che colpisce le sue orecchie e distrae la sua attenzione) – frammenti di verità, estranei allʼargomento della conversazione, inutili in se stessi, ma tanto più 273

necessari a rivelarci tutta lʼevidenza del miracolo – tocchi sobri e fascinosi di colore locale, atti a descriverci la via e lo stradone di provincia su cui si affaccia casa sua, tocchi quali li sceglie un poeta quando vuole, dando vita ad un personaggio, evocare intorno a lui il suo ambiente”. In questo scritto Proust in modo meno drammatico, chiamando le signorine del telefono: Vergini vigilanti, Angeli custodi, Onnipossenti, Danaidi dellʼInvisibile, Furie gelose, Divinità implacabili; dando cioè ad esse, per definizione “invisibili”, funzione protettrice (Angeli custodi) ma anche persecutrice (Furie gelose), sottolinea il fatto che la stessa “presenza” implica lʼassenza. La “présence réelle” – quella del corpo e del sangue del Cristo che, per transustansazione, è passato nel pane e nel vino della Santa Cena, è anche e inevitabilmente assenza (morte; anche attraverso la crocefissione): “È lei. È la sua voce che ci parla, che è presente (qui est là). Eppure comʼè lontana! Quante volte non lʼho potuta ascoltare senza angoscia, come se davanti a quellʼimpossibilità di vedere, senza lunghe ore di viaggio, colei la cui voce era così vicina al mio orecchio, avvertissi meglio quel che cʼè di deludente nellʼapparenza della più dolce vicinanza e a quale distanza possiamo essere alle cose amate nel momento stesso in cui pare che non avremmo che da tendere la mano per trattenerle. Presenza reale (présence réelle) – questa voce vicina – nellʼeffettiva separazione (dans la séparation effective). Ma anche anticipazione di una separazione eterna. Molto spesso, ascoltandola così, senza vedere colei che mi parlava da tanto lontano, mi è parso che quella voce gridasse dalle profondità da cui non cʼè ritorno (que cette voix clamait des profondeurs273 dʼoù lʼon ne remonte pas), ed ho conosciuto lʼansia che mi avrebbe affettato un giorno, quando una voce sarebbe ritornata così, sola e non più legata ad un corpo che non avrei riveduto mai, per mormorarmi allʼorecchio parole che avrei voluto poter baciare a volo su labbra ormai in polvere per sempre (que jʼaurais voulu pouvoir embrasser au passage sur des lèvres à jamais en pussière)”.

3) La parte dei Guermantes

Lʼabbiamo capito: presenza reale è anche reale assenza e viceversa. Non se ne esce: se si è nel categoriale! Diversamente, più profondamente, il dilemma è tra essere dentro o fuori dal

273 Vox clamans in deserto... 274

categoriale; e tale problema si pone solo a chi è ormai dentro il categoriale. Per costui la scena madre, la scena primaria, è una finestra sullʼacategoriale... Lʼimpressione netta è che nel Jean Santeuil troviamo tutto; il problema e la sua soluzione; Dalla parte di Swann e il Tempo ritrovato. Le tappe successive servono a creare delle “cadenze”. In La parte dei Guermantes ritroviamo il pezzo di Giornate di lettura perfezionato. A perfezionare quello di Jean Santeuil. “Quel giorno a Doncières il miracolo, ahimè, non accadde (ce jour-là, à Doncières, le miracle nʼeut pas lieu)”. E segue il gioco al massacro tra le comunicazioni possibili: il Narratore arriva allʼufficio postale, la nonna lo ha già chiamato; entra nella cabina: “la linea era occupata, a parlare era qualcuno il quale, evidentemente, ignorava che non ci fosse nessuno (quʼil nʼy avait personne) a rispondergli giacché, quando portai allʼorecchio il ricevitorie, quel pezzo di legno si mise a sbraitare come Pulcinella (ce morceau de bois se mit à parler comme Pulchinelle); io lo feci tacere (je le fis taire), come al teatro dei burattini, rimettendolo al suo posto, ma, proprio come Pulcinella, non appena tornavo a prenderlo ricominciava il suo sproloquio (il recommançait son bavardage). Come estrema, disperata risorsa finii, riagganciando definitivamente il ricevitore, col soffocare le convulsioni del troncone sonoro (par étouffer le convulsions de ce tronçon sonore), che blaterò (qui jacassa) fino allʼultimo secondo, e andai a cercare lʼimpiegato, il quale mi disse dʼaspettare un momento; poi parlai, e dopo qualche istante di silenzio giunse alʼimprovviso (tout dʼun coup) quella voce che a torto credevo di conoscere perfettamente (cette voix que je croyais à tort de connaître si bien) [...]” quʼil nʼy avait personne / ce morceau de bois se mit à parler comme Pulchinelle / je le fis taire / recommançait son bavardage / par étouffer le convulsions de ce tronçon sonore / qui jacassa / tou dʼun coup “Si bien?” Illusione. Dopo lʼapertura sulle demoiselles, ripresa da Giornate di Lettura, la delusione, ripresa da Jean Santeuil. Qualche variante: il Narratore ha sempre seguito ciò che diceva sullo “spartito aperto del suo viso (la partition ouverte de son visage)” dove gli occhi avevano una parte importante: “mentre la sua voce in quanto tale, lʼascoltavo oggi per la prima volta (pour la première fois)”. Diventata “un tutto” indipendente dai ricordi, priva dellʼ“accompagnamento dei tratti del volto”, manifesta al 275

Narratore la sua dolcezza: “scopersi quanto dolce fosse quella voce; né forse, dʼaltronde, lo era mai stata fino a quel punto (peut- être dʼailleurs ne lʼavait-elle jamais été à ce poit)”. Quindi, una totale novità. Una voce nuova, una nonna nuova. Raramente Proust che insiste sulla “creazione” o “ricreazione” ha segnalato una così radicale svolta; in questo caso: dalla nonna che conosceva a questʼaltra. Peraltro, la nonna crede di potersi “abbandonare allʼeffusione di una tenerezza che di solito conteneva e celava per “principi educativi”... Ritorniamo al tema dei principi educativi del “drame du coucher”... Ma con un approfondimento: “Era dolce; ma comʼera triste, anche, a causa innanzitutto della sua stessa dolcezza, decantata, quasi, più di quanto poche voci umane siano mai riuscite ad esserlo, dʼogni durezza, dʼogni egoismo, di qualsiasi elemento di resistenza agli altri! Fragile a forza di delicatezza. Sembrava di continuo sul punto di spezzarsi, di spirare in un puro fiotto di lacrime: e avendola tutta sola accanto a me, guardandola così senza maschera del volto, notavo per la prima volta (pour la première fois) i segni delle afflizioni che lʼavevano incrinata nel corso della vita”. Lʼultimo accordo richiama Dalla parte di Swann: “Certo, il bel viso di mia madre brillava ancora di giovinezza quella sera, mentre mi stringeva teneramente le mani e cercava di frenare le mie lacrime; ma mi sembrava, ecco, che fosse qualcosa che non avrebbe dovuto essere, e la sua collera sarebbe stata meno triste per me di quella dolcezza nuova che la mia infanzia non aveva mai conosciuta; mi sembrava di aver tracciato nella sua anima, con mano empia e segreta, una prima ruga, di averle fatto spuntare un primo capello bianco” (SW, 48). Siamo in pieno Jean Fanteuil... ma impreziosito. La tristezza proviene “innanzitutto” dalla dolcezza Ò sembra un ossimoro ed è è una condensazione ed una sineddoche... La nonna è dolce proprio perché è triste... // la dolcezza è decantata, quasi, più di quanto poche voci umane siano mai riuscite ad esserlo Ò un superlativo // fragile a forza di delicatezza Ò altra condensazione e sineddoche // sempre sul punto si spezzarsi... Siamo nel “primario”; nel “fuori maschera”; nellʼa-categoriale... Di che cosa è onomatopea tutto questo? “Elle était douce, mais aussi comme elle était triste, dʼabord à cause de sa douceur même, presque décantée. Plus que peu de voix humaines ont jamais dû 276

lʼêtre [...] fragile à force de délicatesse, elle semblait à tout moment prête à se briser, à expirer en un pur flot de larmes [...]”.274 Tutto cambia in virtù di un radicale “isolamento”: della nonna “per la prima volta separata da me (pour la première fois séparée de moi)”... “Gli ordini, i divieti [...] erano aboliti in quel momento e potevano esserlo anche per il futuro dal momento che la nonna non esigeva chʼio restassi accanto a lei, sottoposto alla sua legge (nʼexigeat plus de mʼavoir près dʼelle sous sa loi)”. Abbiamo visto che lʼindicazione “pour la première fois” nel Jean Santeuil ricorre tre volte; rieccola qui; essa indica il “primario” della “scena primaria”. È, infatti, per la prima volta che il Narratore si trova fuori dal categoriale (sa loi)... Ma, forse, più importante ancora: (pour la première fois) “séparée de moi”. Quasi che la separazione fosse una conquista... Quasi che il fare comunità, con la mamma, con la nonna... fosse accettare una “loi” come sempre “sa loi”, legge di un altro. Anche se la “libertà” acquisita (“la libertà che ormai mi lasciava”: di trattenermi a Doncières) che il Narratore non era mai riuscito ad immaginare... gli sembra “allʼimprovviso triste come la libertà che mi sarebbe toccata dopo la sua morte”. “Gridai: ʻNonna, nonnaʼ [...]”. La comunicazione è caduta. Entrambi cercano di ristabilirla, ma invano. Angoscia: il Narratore ricorda quando, bambino, lʼaveva perduta tra la folla: “angoscia, più che di non ritrovarla, di sapere che lei mi stava cercando e pensava chʼio la stessi cercando” Ò di nuovo condensazione e sineddoche mobile; “angoscia abbastanza simile a quella che avrei provata un giorno parlando a qualcuno che non può più rispondere e che si vorrebbe, almeno, potesse ascoltare tutto quanto non gli abbiamo mai detto (au moins tant faire entendre tout ce quʼon ne leur a pas dit), e sapere che non soffriamo” Ò tale e quale “né forse, dʼaltronde, lo era mai stata sino a quel punto”... Comunione delle anime; al di là di ogni dicibile... Cʼè qualcosa che non abbiamo mai detto; chissà, forse non riusciremo a dirlo mai; se solo riuscissimo a far sapere che non soffriamo più...

5) Sodoma e Gomorra

274 A proposito di onomatopeia vedi La phrase de Proust, in Julia Kristeva, op. cit., pp. 341 sgg. 277

Anche qui, ampi stralci soprattutto di Giornate di lettura. Ma tutto immerso nella tensione della gelosia... Una serie di manovre: il Narratore, nella speranza che Albertine gli telefoni, gira il commutatore e ristabilisce la comunicazione tra il centralino e la sua camera... Sarebbe stato più semplice avere un ricevitore nel piccolo corridoio su cui si affaccia la camera di Fançoise... Ma questʼultima odia il progresso: citazione da Giornate di lettura a proposito del telefono come invenzione... Quindi, il telefono è stato installato nella camera del Narratore e, “per evitare che disturbasse i suoi [mie] genitori, la suoneria (sonnerie) era stata sostituita con una semplice raganella (bruit de tourniquet)”... Il Narratore è “torturato dallʼincessante ritorno del desiderio [...] di udire il segnale della chiamata (bruit dʼappel)”: “poi, al culmine di una tormentata ascensione nelle spirali della mia angoscia solitaria, dal fondo (du fond) dʼuna Parigi popolosa e notturna fattasi ad un tratto vicina (proche soudain de moi), affiancatasi alla mia libreria, sentii di colpo (tout dʼun coup), meccanico e sublime (mécanique et sublime) come, nel Tristano, lo sventolìo della sciarpa o lʼoboe del pastore, il ronzio di trottola del telefono (le bruit de toupie du téléphone). Mi precipitai, era Albertine”. Segue una telefonata tormentatissima. Passano messaggi contraddittori, tormentati dalla gelosia (del Narratore) e dalla (supposta) mendacità (di Albertine)... Una parte che abbiamo già incontrato in Giornate di lettura qui si carica dʼaltri significati: “Ma dovʼera (mais où était-elle)? Alle sue parole si mischiavano altri suoni: la tromba dʼun ciclista, la voce dʼuna donna che cantava, la fanfara lontana risuonavano (retentissaient) non meno distintamente della cara voce, come per mostrarmi che accanto a me (près de moi), in quel momento, cʼera proprio Albertine nel suo ambiente attuale, come una zolla di terra assieme alla quale si fossero prelevate tutte le graminacee che la circondavano”. Evidentemente non basta! Quel che dovrebbe permettere una collocazione di Albertine (una risposta alla domanda angosciata: “Ma dovʼera?”) testimonia solo il suo essere altrove. Leggete la lunga telefonata (alla fine della quale: “Françoise entrò ad annunciarmi: ʻCʼè la signorina Albertine”)... Ad un certo punto un nesso col “drame du coucher”: quel che ci si aspettava: “[...] sentii come al desiderio di rivedere il viso vellutato che, già a Balbec orientava ciascuna delle mie giornate verso il momento in cui, davanti al mare violetto di settembre, sarei stato vicino a quel fiore roseo, tentasse dolorosamente dʼunirsi un 278

elemento ben diverso. Avevo imparato a riconoscerlo a Combray, quel terribile bisogno di un essere, in rapporto a mia madre, e tanto da voler morire se lei mi mandava a dire da Françoise che non sarebbe salita. Un simile sforzo dellʼantico sentimento per combinarsi, così da fare tuttʼuno, con lʼaltro, più recente, che aveva come unico voluttuoso oggetto la superficie colorata, il roseo incarnato dʼun fiore di spiaggia, questo sforzo, spesso, finisce semplicemente col creare (nel senso chimico del termine) un corpo nuovo, destinato a durare solo pochi istanti. Almeno per quella sera, e per molto tempo ancora, i due elementi rimasero dissociati. Ma già sulla scorta di quelle ultime parole udite al telefono, cominciai a capire che la vita di Albertine era situata (non materialmente, certo) a una tale distanza da me, che mi sarebbero sempre occorse faticose esplorazioni per metterci sopra le mani [...]”. I due elementi sono il bisogno dellʼessere-madre e quello dellʼessere-amante... Abbiamo già dimostrato (?) che i due elementi convergono in uno.275

275 Tra quel che segue anche una qualificazione dellʼamante (e, per intermediazione, della madre) come “puttana”; un classico! Albertine faceva parte di quella categoria di persone “cui la portinaia si impegna, con il fattorino, a consegnare la vostra lettera non appena rincaseranno – fino a quando, un bel giorno, scoprite che lei stessa, la persona incontrata altrove, e alla quale vi siete permessi di scrivere, è la portinaia. Abita veramente, insomma, allʼindirizzo che vi ha dato, ma in portineria (e, dʼaltronde, lʼindirizzo è quello di una piccola casa dʼappuntamenti, di cui la persona in questione, oltre che portinaia, è anche tenutaria)”. 279

Cap. 18

AD INFINITUM?

1) Tasse de thè e tasse

Cercherò di presentare lo “schema” del ragionamento che, a proposito del “drame du coucher” e della “tasse de thé” e del nesso stretto e rivelatore che esiste tra i due episodi, svolge Julia Kristeva nel suo lavoro su Proust già citato – Proust. Le temps sensible (Gallimard, Paris, 1994) – che a noi sembra, almeno ad oggi, il migliore, il più originale, il più penetrante. (Verrebbe da dire: nonostante che Kristeva sia una psicoanalista). Ricordiamo in quali termini la madeleine emerge: “Elle [mia madre] envoya chercher un de ses gâteaux courts ed dodus appelés Petites Madeleines qui semblent avoir été moulés dans la valve rainurée dun coquille de Saint-Jacques” (SW, tadié, 44) = “Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano petites madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una ʻcappasantaʼ” (SW, 55). Da dove vengono le madeleines? Sappiamo che allʼinizio del Contro Saint-Beuve la madeleine è rappresentata da “pane abbrustolito (pain grillé)” (CSB, 211-212; 6-7). Se consideriamo, invece, la Recherche, dal pain grillé si passa alla madeleine; che però, prima si chiama biscotte... Nei folios 2 r°-10 r° del Cahier 25 si trova una nuova versione del testo sulla memoria involontaria, rifatta rispetto al Cahier 8, ed è qui che la biscotte si trasforma in petite madeleine... (vedi Introduzione a Du coté de chez Swann, ed. Tadiè, vol. I, p. 1068 e SW, ES XIV, 697-702). Kristeva parte dalle Maddalene del vangelo e privilegia Maria Maddalena la peccatrice (Luca 7, 37; Giovanni, 12, 1-8; 20, 15) Attraverso i secoli Maria Maddalena diventa la patrona dei profumieri, dei guantai e delle donne pentite. Nel XVII secolo il nome comune di “maddalena” viene dato ai frutti dellʼepoca della Santa- Maddalena (pesche, prugne, mele, pere). Nel XIX secolo si designano con lo stesso nome dei dolci in omaggio ad una cuoca, Madeleine Paulmier. Il dolce è popolare a Illiers (Combray)... Peraltro Illiers è una tappa del pellegrinaggio medievale che va da Parigi al santuario di San Giacomo di Compostella in Ispagna. La chiesa di Illiers porta il nome di San Giacomo e il dolce ricava la sua 280

forma dalla conchiglia che i pellegrini attaccavano al cappello o al mantello = coquilles Saint-Jacques. Come e perché si passa dalla prosaica “biscotte” al nome di peccatrice, poi di santa, poi di banale “friandise”... François le Champi è un testo che contribuisce a strutturare la ricerca.276 Esso, infatti, compare allʼinizio della Recherche: la madre del Narratore lo legge la notte che passa con Narratore; e alla sua fine: nella biblioteca del principe di Guermantes il volume “campêtre” provoca il quarto ricordo involontario e la rivelazione dellʼestetica dello scrittore.... François le Champi narra la storia di un bambino ritrovato – “champi veut dire ʻenfant trouvéʼ en potois berrichon” – che, accolto dalla mugnaia Madeleine Blanchet, è fatto oggetto dʼun amore inconscio da parte di questʼultima; poi diventa lʼamante, quindi il marito della madre adottiva quando, adulto, ritrova Madeleine diventata, nel frattempo, vedova. Lʼatmosfera erotica sembra che abbia urtato i contemporanei soprattutto dopo la sua rappresentazione allʼOdéon nel 1849: “On est donc fondé à penser que cʼest précisément le thème incestueux, celui de la mère pécheresse, qui a retenu et maintenu lʼattention de Proust sur François le Champi, par-delà ses réticences vis-à-vis du style de G. Sand. La meunière Madeleine Blanchet trasmettra ainsi, avec la blancheur de sa farine, le goût dʼun amour interdit qui va sʼinsinuer dans le credo esthétique du narrateur, transformé en objet apparemment anodin: les pedites madaleines” (20). Kristeva segnala due fatti, “minori”, che, nel corso dellʼevoluzione del testo, attraverso le sue varie esquisses, gettano una luce interessante sulla genesi della scrittura proustiana. 1. Il nome di Madeleine Blancot appare in una variante di Du côté de chez Swann: “[...] je sentais que [...] elle [lʼincontro con Madeleine Blanchet) aurait plus tard de lʼimportance dans la vie des personnages, que se cʼétait pas un scène détachée, mais un commencement qui tendait vers un avenir inconnu” (SW, VR, 1117); quindi scompare. Come mai? 2. Il 1 marzo 1896 La vie contemporaine pubblica una novella di Proust LʼIndifférent. Questa novella è stata scoperta e pubblicata da Philip Kolb nel 1978. In una lettera del 1910 a Robert de Fleurs

276 Vedi la lettera a Lucie Daudet del settembre 1913 (CORR, XII, 259) + (SW, VA, 1118-1122). 281

(CORR, X, 196-197) Proust chiede allʼamico se ha una copia di questa novella... Evidentemente lʼha perduta ma la vuole rileggere... Una donna, che si chiama Madeleine de Gouvres, vi si innamora di un giovane, Lepré, che le è “indifferente”... Egli ama le prostitute... Kristeva suggerisce un parallelo tra Madeleine/Indifferente e Odette/Swann; Odette sarebbe un amalgama delle prostitute amate dallʼIndifferente e la nobile donna che si chiama Maddalena; un ponte possibile: lʼamore comune per le cattleye... (“mot fétiche” di Odette e di Swannn... “faire cattleya”...). Kristeva: lʼincesto alla Sand, dal giovane Proust (che scrive LʼIndifferente), è capovolto, camuffato, reso ancora più vizioso: la sua Maddalena è intoccabile ma essa ama; Lepré ama, ma delle “donne ignobili”. “De la farine de George Sand émergent les cattleyas dʼune passion noble et froide qui côtoie lʼgnoble” (23) Ponte ancora più convincente: Proust, mentre scrive di Swann, ha bisogno de LʼIndifferente e lo chiede al suo amico... proprio perché Swann e Odette gli richiamano Lepré e Madeleine de Gouvres... In buona sostanza Kristeva propone che la “tazza di tè” sia carica di unʼambivalenza fortissima. È la madre che gliela offre... Quando la memoria involontaria da essa fa sorgere Combray, il Narratore si ricorda di quando era la zia Léonie a offrirgliela. La madre, quindi, (1) è la madre di cui il Narratore ha bisogno e che gli si concede = incesto (Madeleine Blanchet), (2) è la madre a cui il Narratore si rifiuta (Madeleine de Gouvres) = degradazione... La peccatrice Maria Maddalena sarà santificata in un modo del tutto diverso da quello narrato dai Vangeli: “la parte excitante de la femme, de la mère, gèle en femme intouchable dans lʼIndifférent” (26). La madeleine avrà, quindi, un sapore puro e dolce; del rapporto con la madre conserverà solo la tenerezza. Ma... Kristeva segnala altre Maddalene... Il Narratore associa ad un Tempio, questa volta orientale, i dolci che accompagnano il tè dagli Swann (SW, 497; 611)... Ma torniamo allʼambivalenza: la madeleine offerta al Narratore dalla madre diventa, attraverso la memoria involontaria, quella offertagli dalla zia: Kristeva vi vede uno “spostamento”: lʼesperienza presente – “la madeleine maman” – sarebbe dʼunʼintensità distruttiva (32); per questo si sposta sullʼesperienza passata, sulla “madeleine 282

zia”... Abbozzata a distanza, la zia Léonie “suggère une version dérisoire de lʼimage maternelle que le narrateur nʼaura aucun mal à désacraliser” (32). Darà a un bordello il “canapé” della zia, quello stesso sul quale ha conosciuto i primi piaceri: con una cuginetta (di nuovo lʼincesto) (OF, 568; 698)... “[...] on comprend [...] que tante Léonie assume le rôle de cette mère sur laquelle le narrateur doit se venger pour enfin sʼen séparer et quʼadviennent le plaisir sexuel ainsi que lʼécriture” (33).277 La madaleine della zia aveva permesso “à la saveur vertigineuse” provocata dalla maddalena della madre, “de trouver son sens et ses mots”. Allʼaltro capo del percorso iniziatico dellʼadolescente, il giovane uomo gode introducendo nellʼorgia del bordello lʼinnocenza degli idilli amorosi e incestuosi con la cugina sul canapé della zia... “À deux reprises, donc, une gradation de la maternité rabaissée – dʼabord, simplement distante; enfin explicitement profanée – assure le temps sensible du narrateur. Son style: dire la saveur de la madeleine. Et sono plaisir: jouir en se vengeant” (33). Kristeva, sostituendo al bordello di cui in Allʼombra delle fanciulle in fiore quello degli uomini di Le Temps retrouvé, può affermare che lʼoralità mobilizzata dalla madeleine “révèle son sens pervers. Têter le sein maternel devient fellation. Le liquide qui muille lʼobjet du désir excite la pulsion orale autant que la pulsion urétrale. Le thè ne rappelle-t-il pas davantage lʼurine que le lait? Lʼérotisme homosexuel connaît le rituel du pain trempé dans lʼurine. De quoi profaner non seulement maman et les madeleines, mais lʼeucharistie elle-même. Toutes convoquées, adorées et avilies” (34) (Peraltro, nellʼargot, tasse sta per orinatoio pubblico). Suggerisco di leggere questo libro. Kristeva sviluppa la sua ricerca, a partenza da questa interpretazione della tazza di tè come sbocco del dramma dellʼandare a letto; attraverso lʼesperienza con Albertine: “On ne sait pas assez que cʼest surtout par les seins que les femmes lʼéprouvent [la jouissance]. Et, voyez, les leurs se touchent complètement” (SG, 191)... per finire col barone di Charlus nel bordello maschile...

277 Kristeva segnala che, sia nellʼepisodio della “tazza di tè”, sia in quello del “canapé” della zia, è questione di migrazione di anime morte: “Ma non appena li trovai [i mobili] là, dove quelle donne se ne servivano, tutte le virtù che respiravano nella camera di mia zia a Combray mi apparvero davanti, suppliziate dal contatto crudele cui, indifese, le avevo abbandonate. Non avrei sofferto di più se avessi consentito che violassero una morta. Non tornai più dalla mezzana, perché mi sembrava che i mobili fossero vivi e mi suppliziassero, come gli oggetti apparentemente inanimati che, in un racconto persiano, racchiudono anime che subiscono un martirio e implorano dʼessere liberate”. 283

La proposta fondamentale è che il sadomasochismo sia un mezzo di identificazione... che la poiesis trasforma in scrittura (nellʼanalista: in interpretazione).278

2) Il pavé...

Nella Morte della cattedrali (1918) Proust, a proposito della celebrazione del sabato santo, cita Émile Mâle: Gesù Cristo è “la pierre angulaire du monde” (CSB, 144). Kristeva fa molte osservazioni utili. “Ce passage sʼavérera capital” (137). Il simbolo della “pierre angulaire”, trasferito da Amiens a Venezia, poi a Parigi sotto lʼaspetto banale di una “dalle”, sarà, per Proust, la sorgente della felicità (del “flot de lumière” estatico)... Kristeva segue le peripezie bibliche, dallʼAntico al Nuovo Testamento, per descrivere la pietra che prima funziona come “pietra dʼintoppo/sasso dʼinciampo”, poi diventa “capo del cantone” (1 Pietro, 2, 6-7) = Cristo... “Heurter la pierre, achopper – comme le fait si souvent le narrateur – serait ainsi une manière de se fier au sacré. Car celui-ci est pierre” (137)... Lʼoggetto è un oggetto dove si nasconde qualche ora della nostra vita: “Lʼoggetto in cui si nasconde – o, meglio, la sensazione, perché a noi ogni oggetto è sensazione –, può darsi benissimo che non lʼincontriamo mai” (CSM, 211; 5). Secondo Kristeva Proust ci dà due esempi. 1. La “fetta di pane abbrustolito (tranche de pain grillé”) (CSB, 211; 5) – che è anche “pane inzuppato (pain trempé)” e “pane abbrustolito (biscotte)” (CSB, 212; 6) –, diventerà “madeleine” e... “pavé”, a Venezia. 2.

278 “[...] il serait important réfléchir sur la parte sadomasochiste de la performance esthétique qui se dissimule dans lʼinterpretation analytique en générale, mais davantage encore face à la psychose ou à lʼautisme. Plaisir sadomasochiste inconsciet de sʼidentifier avec une âme enchainée, avec cette sensation palpitante et mytique qui mʼignore come autre tout en mʼincluant dans son toucher, sa salive, sa respiration, son regard plat, fuyant ou percutant. Plaisir violent, aussi, de ce mot que je nʼentends ni ne vois, mais je génère. Jʼobserve par un trou de ma conscience, provisoirement ouverte en chair, une psyché entravée. Je lʼensemence de ma fusion, mais je sais quʼelle a besoin de ma distance. Ainsi, cette autre chair pourra, peut-être, de mon plaisir nommé, devenir réellement quelquʼun dʼautre, un sujet” (op. cit., pp. 204-355; il corsivo è dellʼautore). 284

Incontriamo, nel Carnet de 1908, lʼ“inegalité des dalles du baptistère de St. Marc” (C, 1908, 60); nel Contre Sainte-Beuve i “pavés inégaux et brillantes (le lastre di pietra mal livellate e scintillanti)” (CSB, 212; 6); il “pavé inégal et brillant (lastre ineguali e scintillanti)” (CSB, 213; 7): “Tout à coup, un flot de lumière mʼinonda. Cʼétait une même sensation du pied279 que jʼavais éprouvée sur le pavage un peu inégal et lisse du baptistère de Saint-Marc” (CSB, 213): “[...] le pied heurte un obstacle. Équivalent du corps et de sa partie la plus sensible qui est le sexe, le pied est ici en contact avec une différenze inattandue: ʻpavés inégaux et brillantsʼ” (139). Nella versione finale si tratterà di “pavés mal équarris” (TR, 445). Gli epiteti “inégaux” e “mal équarris” ricordano le “pietre conce a scarpello” (Esodo 20, 25) con le quali “non” doveva essere costruito il Tempio secondo il comandamento divino... Lʼostacolo provoca un “trouble”: “[...] un oggetto più importante mi tratteneva, non sapevo ancora quale, ma sentivo trasalire nel profondo di me (au fond de moi-même tressailir = di nuovo Kafka) un passato che non riconoscevo. Sentivo una felicità invadermi, e intuivo che stavo per essere arricchito da quella pura sostanza di noi stessi che è unʼimpressione (impression) passata, un poʼ di vita pura conservata pura [...]” (CSB, 213; 6-7). Gli stessi termini evocavano “le plaisir oral du contact de la bouche avevc les petites madeleines” (139)... “Moins infantile que celle de la madeleine, plus nettement différenciée – le pavé est une géométrie en acte” (139)... Comunque: la pietra angolare, la pietra di inciampo, la pietra del cantone di Gesù subisce qui una nuova metamorfosi: il narratore vi urta, “mais du même pas, et en sʼy fiant, il manifeste à la fois sa faute et le dépassenet de celle-ci” (139)...

3) Madre = Venezia = madre = ?

Nellʼesquisse XV.2 (Cahier 3; Contre Sainte-Beuve), il Narratore e la madre sono in viaggio verso Venezia: “Avant dʼarriver à Venise et tandis que le train avait déjàs dépassé Mestre, maman me lisait les descriptions éblouissantes que Ruskin en donna, la comparant tour à tour aux rochers de corail de la mer des Indes et à une opale”... Di nuovo la madre legge... Non più Sand ma Ruskin...

279 In italiano si traduce solo di “sensazione”! 285

Un altro indicatore della struttura della ricerca e del boucler la boucle che avviene tra baiser-madeleine-Sand e Ruskin-pavé... Più tardi la madre aspetta il figlio leggendo. Kristeva: “La ville a absorbé la mère; elle absorbe en conséquence le fils” (147). Rileggiamo due sequenze di Albertine scomparsa. 1. “Non che si fosse costretti, a Venezia come a Combray quando il sole picchiava forte, ad abbassare, lungo il canale, delle tende; ma erano tese fra i quadrilobi e i viticci dʼuna finestra gotica. Lo stesso posso dire di quella del nostro albergo alla cui balaustra mia madre mʼaspettava guardando il canale con una pazienza (avec une patience) che forse non avrebbe mostrata ai tempi di Combray, quando – riponendo in me delle speranze che poi non si sarebbero realizzate – non voleva lasciarmi vedere quanto bene mi volesse (elle ne voulait pas me laisser voir combien elle mʼaimait). Sentiva, adesso, che la sua freddezza apparente non avrebbe più cambiato nulla, e la tenerezza che mi prodigava era come quegli alimenti proibiti che non si rifiutano più ai malati quando si è ben certi che non potranno guarire. Certo, gli umili particolari che rendevano individuale la finestra della camera della zia Léonie su rue de lʼOiseau, la sua asimmetria provocata dallʼineguale distanza fra le due finestre vicine, lʼaltezza eccessiva del suo davanzale di legno, e il ferro a gomito che serviva ad aprire le imposte, i due lembi di raso azzurro e inamidato che una fascia divideva e teneva scostati, di tutto ciò esisteva lʼequivalente (lʼéquivalent) in quellʼalbergo di Venezia dove sentivo anche quelle parole così particolari, così eloquenti, grazie alle quali riconosciamo da lontano la dimora (demeure) in cui rientriamo per la colazione e che restano più tardi nel nostro ricordo come testimonianza che quella dimora fu per un certo tempo nostra (la nôtre); ma lʼincarico di pronunciarle non era demandato, come a Combray e un poʼ dappertutto (comme il lʼétait à Combray et comme il lʼest en peu partout), alle cose più semplici, se non addirittura alle più brutte, ma allʼogiva ancora mezzo araba riprodotta in tutti musei di calchi e in tutti i libri dʼarte illustrati come un capolavoro dellʼarchitettura del Medioevo; da parecchio lontano, appena superato San Giorgio Maggiore, scorgevo quellʼogiva che mʼaveva veduto, e lo slancio dei suoi archi spezzati aggiungeva al suo sorriso di benvenuto la distinzione dʼuno sguardo più elevato e quasi incompreso. E poiché dietro quei balaustri di marmo di vari colori la mamma leggeva aspettandomi (maman lisait en mʼattendant), il viso raccolto in una veletta di tulle dʼun bianco non meno straziante di 286

quello dei suoi capelli per me che sentivo come mia madre lʼavesse, nascondendo le lacrime, aggiunta al suo cappello di paglia non tanto per apparire ʻeleganteʼ alle persone dellʼalbergo, quanto per sembrare a me meno in lutto, meno triste, quasi consolata della morte della nonna; poiché, non avendomi riconosciuto subito, non appena la chiamavo dalla gondola mandava verso di me, dal fondo del cuore, il suo amore che sʼarrestava solo dove non cʼera più materia per sorreggerlo (là où il nʼy avais plus de matière pour la soutenir), alla superficie del suo sguardo appassionato che cercava di avvicinare il più possibile a me, di innalzare, sporgendo le labbra, in un sorriso che sembrava baciarmi (en un sourire qui semblait mʼembrasser), entro la cornice e sotto il baldacchino del più discreto sorriso dellʼogiva illuminata dal sole di mezzogiorno: a causa di tutto ciò quella finestra (cette fenêtre) ha preso nella mia memoria la dolcezza delle cose che assieme a noi, contemporaneamente a noi, ebbero la loro parte in una certa ora, che suonava identica per noi e per loro (dans une certaine heure qui sonnait, la même pour nous et pour elles): e per quante e quanto splendide siano le forme racchiuse fra le due colonne, quella finestra (cette fenêtre) illustre conserva per me lʼaspetto intimo dʼun uomo di genio con il quale si sia trascorso un mese nello stesso luogo di villeggiatura e che abbia contratto per noi una qualche amicizia, e se da allora, ogni volta che vedo il calco di quella finestra (cette fenêtre) in un museo, sono costretto a trattenere le lacrime, è semplicemente perché essa mi dice la cosa che più dʼogni altra può commuovermi: ʻMe la ricordo molto bene, vostra madreʼ” (AS, 203-205; 250-252). Straordinario: – Venezia = Combray; Venezia è un “equivalente” di Combray; e sappiamo che le “idee” sono lʼ“equivalente” delle “essenze”; – un ruolo centrale è recitato sempre dalla finestra (vedi il voyeurismo); – differenza: il Narratore vede; ma è soprattutto veduto (dalla madre/ogiva); – differenza: a Venezia (ora) la madre non è impaziente; ha rinunciato a volere che il figlio voglia;280 – mostra (esibisce) quanto lo ami;

280 In unʼesquisse la reitroduzione della figura paterna (che qui viene abolita): “Mais aussitôt je pensais à une peine que je lui avais faite là-bas, le besoin dʼêtre tendre pour elle mʼenvahissait, et comme elle nʼy serait pas si jʼy partais car elle ne voudrait pas quitter mon père, jʼaurais cette angoisse sur laquelle toute la beauté de lʼunivers nʼest pas un baume” (AS, CA 3, ES XV.1, 691). 287

– la madre nasconde solo il dolore per la morte della nonna = il Narratore il dolore per la morte della madre... – Differenza: il luogo (una volta era la “camera”) lasciato, è ritrovato e sentito come proprio. – Differenza decisiva: lʼora “suona”, la medesima, per noi e per loro. 2. La possibilità di incontrare la Baronessa Putbus... spinge il Narratore a chiedere alla madre di ritardare la partenza da Venezia. “Lʼimpressione che lei non prendesse per un solo istante in considerazione e nemmeno sul serio la mia preghiera risvegliò nei miei nervi eccitati dalla primavera veneziana il mio vecchio desiderio di resistenza a un complotto immaginario tramato contro di me dai miei genitori (à un complot imaginaire tramé contre moi par mes parents) (persuasi di potermi costringere a obbedire), la stessa volontà di lotta (cette volonté de lutte), desiderio che mi spingeva un tempio a imporre bruscamente la mia volontà alle persone più amate, salvo conformarmi io alla loro dopo essere riuscito a farli cedere” (AS, 230; 283). E rieccoci a Combray... In tutti i particolari: complotto; rivolta; volontà ritardataria di cedere... Ma una differenza: questa volta a “ne pas bouger” non è la madre (che a Combray non aveva voluto salire a baciarlo, presa da Swann) ma il Narratore (che, preso dalla Baronessa etc., non vuole partire; raggiungere la madre alla stazione)... “Dissi a mia madre che non sarei partito [...]. E quando venne il momento (et quando fut venue lʼheure) in cui mia madre, seguita da tutte le sue cose, si imbarcò per la stazione, io mi feci portare una consumazione sulla terrazza, davanti al Canale, e mi sistemai lì, guardando il sole che tramontava (regardant se coucher le soleil) su una barca ferma di fronte allʼalbergo un musicante cantava Sole mio. [...]. Presto sarebbe partita, sarei rimasto solo a Venezia, solo con la tristezza di saperla addolorata per causa mia, e senza la sua presenza a consolarmi. Lʼora del treno si avvicinava (lʼheure dʼun train sʼavançait). La mia solitudine irrevocabile era così imminente che mi sembrava già cominciata e totale. [...]. La città che avevo davanti aveva smesso dʼessere Venezia. [...]. E tuttavia quel luogo qualunque era strano come un luogo dove si sia appena arrivati (où on vient dʼarriver), che non ci conosca ancora, come un luogo da cui si sia appena partiti (dʼoù lʼon est parti) e ci abbia già dimenticati. [...]. Ma, nello stesso tempo, quel luogo mediocre mi sembrava lontano. [...] sentivo che quellʼorizzonte così vicino, che avrei potuto 288

raggiungere in unʼora (en une heure), era una curvatura della terra affatto diversa da quella dei mari della Francia, una curvatura lontana che lʼartificio del viaggio aveva fatto ormeggiare accanto a me (près de moi); e così quel bacino al tempo stesso insignificante e lontano mi riempiva dello stesso miscuglio di disgusto e di spavento che avevo provato da bambino (tout enfant) la prima volta che avevo accompagnato mia madre ai Bagni Deligny; in effetti nel paesaggio fantastico composto da unʼacqua cupa cui non sovrastavano il cielo e il sole e che circondato di cabine comunicava tuttavia, lo si sentiva, con invisibili profondità coperte di corpi umani in mutande, mi ero chiesto se tali profondità, nascoste ai mortali da baraccamenti che impedivano di sospettarne lʼesistenza dalla strada, non fossero lʼingresso dei mari glaciali che lì avevano inizio, se i poli non vi fossero compresi, e se quello stretto spazio non fosse appunto il mare libero del polo; questa Venezia senza simpatia per me e in cui stavo per rimanere solo non mi sembrava meno isolata, meno irreale, ed era il mio sgomento che il canto di Sole mio, innalzato come una deplorazione della Venezia che avevo conosciuta, sembrava prendere a testimone” (AS, 230-232; 233-235). Quindi: – questa volta è il Narratore che abbandona la madre; – lʼ“heure” risuona per lo meno tre volte; – il Narratore si trova in un luogo più strano delle varie “chambres”... in un luogo où on vient dʼarriver / dʼoù lʼon est parti... – sembra si ripeta, capovolta, nel verso doloroso, la reciprocità per noi/per loro; – ed ecco riaffacciarsi una scena che risale allʼinfanzia e che appare, dilatata, già in Jean Santeuil (CSB, 305-306; 137-138). La scena di un accesso ad un luogo sconosciuto: al mondo! “Certo avrei dovuto (il aurait fallu) smettere di ascoltarlo per poter ancora raggiungere mia madre (si jʼavais voulu pouvoir rejoindre encore ma mère) e prendere il treno con le, avrei dovuto decidere (il aurait fallu décider), senza perdere un solo secondo (sans perdre une seconde), di partire, ma era proprio ciò che non potevo fare; rimanevo immobilizzato, incapace non solo di alzarmi ma anche di decidere che dovevo alzarmi” (AS, 232; 233). Ricordate la grande “risoluzione” presa dal Narratore bambino? Qui, niente risoluzione... Impigliato nella romanza non riesce a prendere la “risoluzione”: “ciascuna delle frasi [della romanza], una volta passata, si trasformava in un ostacolo a prendere efficacemente tale risoluzione 289

(résolution) o, meglio, mi costringeva alla risoluzione opposta, non partire, perché faceva sì che passasse lʼora (car elle me faisait passer lʼheure)” (AS, 232; 233). Intanto lʼora passa. “[...] e, pur dicendomi: ʻIn fin dei conti, non faccio altro che ascoltare unʼaltra fraseʼ, sapevo che questo voleva dire: ʻ Rimarrò solo a Venezia (je resterai seul à Venise)ʼ”. Solo! La canzone ha “un incanto disperato ma fascinatore”... Il Narratore guarda – tramontare – il sole fermo dietro San Giorgio Maggiore, “così che quella luce crepuscolare (cette lumière crépusculaire) avrebbe fatto per sempre nella mia memoria con il brivido della mia emozione e la voce di bronzo del cantante una mescolanza equivoca, immutabile e straziante”. Sappiamo quanto il “crepuscolare” abbia colorato di sé la relazione tempestosa tra Proust e Agostinelli... “Rimanevo dunque immobile, con una volontà dissolta (avec une volonté dissoute), senza decisione apparente; in quei momenti essa è probabilmente già presa (sans doute à ces moments-là elle est déjà prise); spesso anche i nostri amici possono prevederla. Ma noi, noi non possiamo; tante sofferenze, altrimenti, ci sarebbero risparmiate. Ma infine, da antri più oscuri di quelli da cui si slancia la cometa che può essere predetta – grazie allʼinsospettabile potenza difensiva dellʼabitudine inveterata, grazie alle riserve nascoste che con impulso improvviso essa getta allʼultimo momento nella mischia –, scaturì infine la mia azione: mi misi le gambe in spalla e arrivai, con gli sportelli già chiusi, ma in tempo per trovare mia madre che, rossa dʼemozione, si sforzava di non piangere, perché credeva che non sarei più arrivato. Poi il treno partì, e vedemmo Padova e poi Verona venire incontro al treno, venire a dirci addio (nous dire adieu) quasi sino alla stazione e – quando ci fummo allontanati – riguadagnare, loro che non partivano e avrebbero ripreso la loro vita, una la sua pianura, lʼaltra la sua collina”. Chi dice “bonsoir” – “adieu” – sono due città. E dicono addio sia al Narratore che alla madre (sia alla madre che al Narratore). Che vuol dire? Forse che “entrambi” hanno imparato qualcosa; a farsi dire addio (bonsoir)... E a dire addio... Alla possibilità di prendere delle decisioni; perché queste prendono noi: se ne accorgono i nostri amici – delle decisioni già “prese” mentre cerchiamo di prenderle – secondo quella 290

legge fondamentale per cui solo gli “altri” colgono le leggi cui sottostiamo (noi, a nostra volta, siamo lʼ“altro” per i nostri amici)... Anche in Freud – la Minuta H – sono gli altri che colgono il delirare dei nostri pensieri (deliranti)... La “risoluzione” scaturisce, sembra, da quegli stessi antri sotterranei di cui non si poteva sospettare lʼesistenza (più sopra). Il sotterraneo che prima rappresentava lʼignoto, ora rappresenta lʼabitudine. Sì, paradossalmente, è lʼabitudine a sparigliare un gioco al rialzo massimo (vedi il procedere verso il basso-più basso, lʼalto-più alto della romanza)... Ma non lʼabitudine sic et simplicter: lʼabitudine “invétérée”... Il destino? “Le ore passavano (le heures passaient). Mia madre non sʼaffrettò a leggere le lettere che aveva solo aperte (ma mère ne se pressa pas de lire les deux lettres quʼelle avait ouvertes)... Di nuovo qualcosa da leggere... Ma la lettura, qui, è rinviata... Infine, la madre legge “stupita”; quindi solleva la testa e i suoi occhi sembrano posarsi via via sui ricordi distinti, “incompatibili” e che lei non riesce a “mettere insieme”... Il Narratore, ad un certo punto, apre la sua busta: Gilberte gli annuncia il suo matrimonio don Robert de Saint-Loup. Gli dice di avergli telegrafato in proposito a Venezia... “Di colpo (tout dʼun coup) sentii nel mio cervello un fatto, che vi si era installato allo stato di ricordo, lasciare il suo posto e cederlo a un altro” (AS, 234; 288). Il tout dʼun coup è il classico clic della rivelazione (della memoria involontaria). Qui il Narratore scopre di aver fatto un lapsus di lettura. Ha letto Albertine dovʼera scritto Gilberte nel telegramma in cui Gilberte – e non Albertine – gli diceva di essere “vivissima” e di voler “parlare di matrimonio”... “Quante lettere legge in una parola una persona distratta e soprattutto prevenuta, che parte dallʼidea che quella lettera sia dʼuna certa persona? Quante parole nella frase? Leggendo si indovina, si crea (on crée); tutto parte da un errore iniziale; quelli che seguono (e non soltanto nella lettura delle lettere e dei telegrammi, non soltanto in ogni lettura) sono, per straordinari che possano apparire a chi non ha lo stesso punto di partenza, assolutamente naturali. Una buona parte di quello che crediamo, ed è così fino alle conclusioni ultime, con unʼostinazione pari alla buona fede, viene da un primo equivoco riguardo alle premesse”. 291

Ricordate che Swann è stato anche lui vittima di un equivoco: “E dire che ho sciupato anni della mia vita, ho desiderato di morire, ho avuto il mio più grande amore, per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo” (SW, 461). La madre, dopo aver letto, va di nuovo a ricordi “incompatibili” con ciò che ha letto (e a cose incompatibili tra loro)... Il figlio scopre che ha letto una cosa per unʼaltra... E si trattava di una questione di vita e di morte! Albertine è veramente morta! La “luce crepuscolare” è veramente – e rimane – “crepuscolare”... Le due sequenze – ulteriori versioni del “drame du coucher” – che abbiamo rilette sembrano dirci questo: 1. il Narratore trova unʼintima comunione con la madre (attraverso di lei con la nonna che è morta; con la morte dei propri cari); 2. quindi capisce che sia lui che la madre sono esposti allo “stupore”; il mondo sotterraneo che in Jean Santeuil era abitato tranquillamente dalla madre e temuto dal figlio, incombe qui su entrambi.

In unʼesquisse la reitroduzione della figura paterna: “Mais aussitôt je pensais à une peine que je lui avais faite là-bas, le besoin dʼêtre tendre pour elle mʼenvahissait, et comme elle nʼy serait pas si jʼy partais car elle ne voudrait pas quitter mon père, jʼaurais cette angoisse sur laquelle toute la beauté de lʼunivers nʼest pas un baume” (AS, CA 3, ES XV.1, 691).

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Cap. 19

ODEURS, LUMIÈRE, BRUITS

Lʼœuvre inachevée, inachebable, quʼil ne faut pas achever, ad uno dei suoi stadi, quello che va sotto il nome di Contre Sainte- Beuve, costruisce lo scenario seguente: “... Maman me quitte, mais je repense à mon article et tout dʼun coup jʼai lʼidée dʼun prochaine Contre Sainte-Beuve. Dernièrement, je lʼai relu, jʼai pris contre mon habitude des quantités de petites notes que jʼai là dans un tiroir, et jʼai des choses importantes à dire là- dessus. Je commence à bâtir lʼarticle dans ma tête. À toute minute des idées nouvelles me viennent. Il nʼy a pas un demi-heure de passé, et lʼarticle tout entier est bâti dans ma tête. Je voudraus bien demander à maman ce qʼelle en pense. Jʼappelle, aucun bruit ne répond. Jʼappelle de nouveau, jʼentend des pas furtifs, une hésitation à ma porte qui grince” (CSB, 217). A metà dicembre 1908, in una lettera a Madame de Noailles, Proust, del suo lavoro, diceva quanto segue: “Je voudrais, quoique malade, écrire une étude sur Sainte-Beuve. La chose sʼest bâti dans mon esprit de deux façons différentes entre lesquelles je dois choisir. Or je suis sans volonté et sans clairvoyance. La première est lʼassai classique, lʼEssai de Taine en mille fois moins bien (sauf le contenu que est je crois nouveau). La deuxième commence par un récit du matin, du réveil, Maman vient me voir près de mon lit, je lui dis que jʼai lʼidée dʼune étude sur Sainte-Beuve, je la lui soumets et la lui développe. [...]” (CORR, VIII, 320-321). Lo scenario, quindi, è quello di una conversazione con la madre nel corso di una matinée... Succede che, fin dallʼinizio, la scena con la madre, la scena- madre è preceduta dal racconto dei vari “gradi” del risveglio; il risveglio è una sorta di resurrezione... Il Narratore esce da uno stato di depersonalizzazione... Brun: “Mais lʼunité de temps, au fil des brouillions, devait vite éclater, par lʼévocation de la nuit précédant la matinée, puis des nuits et des matinées passées” (qui sotto, p. 231). Ebbene, è nel punto di transizione tra sonno/sogno e veglia che si inseriscono i “rumori”. Conclusione provvisoria: lʼimportanza dei rumori è legata al fatto chʼessi richiamano alla consapevolezza; ma alla consapevolezza della tenebra del sogno. 293

Bernard Brun, in Étude génétique de lʼouvertureʼ de La Prisonnière, 281 cita ampiamente i vari cahier che preludono a La Prisonnière (a partenza dal Contre Sainte-Beuve)... Inizialmente – Cahier 4, 1909 –, il nostro eroe, al risveglio, intuisce (o abduce) che tempo fa sulla base delle luci e degli odori. Ad esempio. “Quʼimportait que je fusse couché, les rideaux fermés, je savais que lʼheure existait / lʼheure quʼun seule de ses particularités de lumière ou dʼodeur suffi[sait] à une seule de se manifestations de lumière ou dʼodeur je savais que lʼeure ÉTAIT < non pas dans mon imagination mas dans la realité présente du temps, > [...]” + “Ce rayon chaud qui traverse ma chambre mʼélance vers la vie quʼil mʼouvre, se glissant dans la serrure de la maison de Combray où la salle à manger est pleine de soleil, où on va partir pour lʼéglise / sur la place si ma chambre est encore obscure parce que les rideaux sont fermés le petit couloir vitré < avec double porte > qui y conduit est d[éjà] a déjà, étendue par terre, une riante carpette de soleil [...]”... Anche se i suoni non sono assenti; poco oltre: “Quand jʼentendis la cloche de lʼéglise sonner deux he[ures] Parfois lʼodeur < de pétrole > dʼune automobile qui passait se pénétrait par la fenêtre, cette odeur que les délicats et le matérialistes croient nous gâter la hioie des champs [...]”... Nel cahier 3 (inizio del 1909) compaiono e acquistano forza i suoni. Ad esempio: “À la couleur plus ou moins claire de cette raie du jour au-dessus des rideaux je sais le temps quʼil fait. [...]. Mais je nʼai pas besoin dʼelle de lʼavoir vue. La tête < encore > tournée contre le mur, et même avant quʼelle ai par[u] / quelquefois avant dʼavoir tourné les yeux vers les rideaux les premiers bruits de la rue morf[ondus] vibrants / jʼai entendu avec les bruits de la rue les premiers bruits de la rue me sont arrivés avec / le roulements du < premier > tranway mʼont apporté avec eux, < dans leurs sonorités, leur atmosphère, > lʼabbatement / la tristesse lʼennui de la pluie où il se morfondent [...]” + “Les jours où lʼair sous les timbres des véhicules qui passent lʼair retentit tinte comme une clochette ou résonne comme un mirliton, où la rue invisible mʼétait périphérique par le bruit, un appel rare semble le faire vibrer sonner au milieu du vide, et un appel clair des jours dʼété lʼensoleille et même le construit à neuf en beau quartier vide qui sʼétende à peine construit vers la banlieu, les cimitières, lʼair friable sur lequel les différents timbres incisent des traits de toutes couleurs lʼair résistant du printemps du

281 In Cahiers Marcel Proust. 14. Études proustiennes, VI, Gallimard, Parigi,1987, pp. 211-287. 294

printemps léger mais comme consistant comme un habit flottant quʼarlequinise les timbres multicolores des véhicules qui”... Anche se ad un certo punto sembra che sia tutta una questione di nervi: “Mais les jours Et peut-être même ces le temps quʼil fait nʼa même pas plus besoin que de la couleur du jour, de la sonorité des bruits de la rue pour se révéler à moi et mʼemmener dans appeler vers la saison et le climat dont il semble détaché un envoyé. Les nerfs qui / Ce qui vit en moi de nerfs excités, apaisés / Le petit monde intérieur de nerfs, de souffles À sentir le calme et les mouvements / et lʼapaisement et la lenteur < de communication et dʼéchanges > qui règne dans la petite salle cité intérieure < de nerfs et de vaisseaux > que je porte en moi [...]”. Saltiamo il cahier 50 (fine 19010)... DallʼÉtude génétique cito adesso solo estesamente il Cahier 53 (di esso una piccolissima parte nellʼEsquisse II, P, 1099-1100). Lʼampia citazione ubbidisce anche al desiderio i mostrare come scrive e riscrive Proust: “cinquante pages de brouillons successifs pour trois pages de La Prisonnière” (Brun p. 286)282... Proust, oltre a correggere un tentativo, lo riscrive... Interessante, a parziale completamento, sempre a proposito de La Prisonniere, di Jean Milly, Lʼouverture de La Prisonnière dʼaprès le manuscrit ʻdefinitifʼ et les dactylographies.283 Allo scopo di “mostrare”... (1) riportiamo tutto il cahier: in corsivo, le parti cancellate da Proust, nel soffietto < > le aggiunte (2) data la lunghezza del cahier (pp. 273- 283), talvolta saltiamo una parte e indichiamo questo salto con [...] in neretto. In sintesi: – contro ogni previsione, si ripete la felicità originaria: allora, a Combray, con la madre, adesso, a Parigi, con Albertine, – ma la gioia non è la stessa (sembra incombere, invece, la morte); – succede invece che il nostro eroe assapora i piaceri quando se ne sta solo nel suo letto lontano da Albertine! – Anzi, starsene a letto, starsene, cioè, inattivi (lʼinvolontarietà), sembra favorire il godimento dei piaceri! – Chi se ne sta a letto – chi si affida allʼinvolontario – accede a ciò che lo “scultore del blocco caotico, lʼuomo dimenticato che

282 “Chaque brouillon, chaque état du roman à une époque déterminée de la rédactiom est provisoirement definitif. Chaque avant-texte est écrit pour être un texte. Cʼest après coup, une fois réécrit, refait, une fois le roman publié quʼil devient avant-texte” (p. 212). 283 Ibidem, pp. 288-337. 295

fummo” libera dal fondo di noi stessi: “unʼaltra vita” (abbiamo visto che il “bloc obscure” è la notte, il sonno profondo, portato dal risveglio nello stato di veglia... – La rinuncia alla “matinée” godibile con i sensi fa accedere alla matineè “unica, eterna”. – Il nostro eroe preferisce essere presente a se stesso (al suo “moi” profondo) allʼessere nella compresenza con Albertine. Sceglie, cioè, la solitudine.

[...]. La vie nous réserve accorde quelquefois ce qui nous semblait puls insensé. Depuis le jour soir où ma mère était venue coucher dans ma chambre à Combray au moment où il ne me paraissait ni possible comme il me paraissait inévitable et mortel de passer la nuit sans lʼembrasser avoir embrassée, ma mère était venu coucher dans ma chambre à Combray, jamais, comme [...]. Elle habitait avec nous, couchait sa chambre était au bout du couloir à deux chambres quelques pas de la mienne. Jamais depuis le soir où ma mère était venue coucher auprès de moi de Combray où maman, soudain apaisée par mon père, était venue coucher dans le grand lit à côté du mien, la vie ne mʼavait au rebours de toutes le prévisions, accordé [...] non, il me faut remonter jusquʼau soir de Combray au moment quand je pense quʼAlbertine vint habiter à Paris avec nous, quʼelle renonça à lʼdée dʼaller à Amsterdam [...] quʼelle eut sa chambre à vingt pas de la mienne < dans le cabinet à tapisseries de mon père, > au bout du couloir, il me faut remonter au soir de Combray où maman soudain apaisée par mon père, vint coucher dans le grand lit à côté du mien, si je veux où je ne pouvais me décider à passer la nuit sans avoir embrassé maman, quand < par miracle > mon père lʼapaisa, elle vint coucher dans le grand lit à côté du mien il me faut remonter à ce soir où maman vint coucher dans mon petit grand lit à côté du mien je veux trouver un exemple comparable une autre circonstance où la vie mʼai fait remise, contre toute prévision, dʼun malheur qui me semblait à la fois inévitable et mortel. À Combray elle mʼavait accordé cette nuit Mais elle ne me donnait pas cette fois la joie que jʼavais connue à Combray. La présence dʼAlbertine < auprès de moi, > ne faisait que mʼépargner une souffrance [...]. Elle [la souffrance] perdait dʼautant plus de sa force que je souffrais mo[ins] ma souffrance de ce soir là se guérissait peu à peu, comme lʼidée de la mort sʼaffaiblit chez un malade au fur et à mesure quʼil sʼéloigne de la crise qui a failli lʼemporter > Apaisé le soir par un baiser dʼAlbertine, de la sentir ensuite, couchée < toute la nuit > dans une chambre voisine, je restais souvent couché le jour, faisant venir 296

soit des chevaux, soit un[e] automobile pour quʼAlbertine pût se promener ou se distraire et mʼarrageant toujours à ce que quelque amie à elle en qui jʼavais confiance, et de préférence Andrée vînt la chercher; le soir Sans doute cet apaisement me permettait de goûter grâce à cet apaisement je nʼétais plus fermé à certains des joies, mais loin de les devoir à Albertine, je les goûtais surtout au contraire < pendant quʼelle nʼétait pas auprès de moi, > dans la solitude [...]. Dès le matin, avan[t] la tête encore tournée contre le mur et avant dʼavoir vu la couleur de la raie du jour par-dessus des grands rideaux des fenêtres, je savais déjà le temps quʼil faisait par les premiers bruits de la rue, selon quʼils étaient arrivés amortis et déviés par lʼhumidité ou vibrant comme des flèches dans lʼespace sonore et vide dʼun matin froid et pur, par le roulement du premier tranway que je sentais morfondu dans la pluie ou en partance pour lʼazur de quelle couleur était la raie du jour pard-dessus de grands rideaux des fenêtres, je savais déjà quel temps il faisait; les premiers bruits de la rue me lʼavaient appris, selon quʼil mʼétaient arrivés amortis et déviés par lʼhumidité ou vibrant comme des flèches dans lʼespace sonore et vide dʼun matin froid et pur [...]. Et peut-être < le bruits > eux-mêmes avaient-ils été devancés par lʼodeur ou par quelque émanation plus rapide et plus pénétrante, qui traversait mon sommeil même et établissait entre mon être et la journée commençante une harmonie si immédiate, quelque émanation plus rapide et plus pénétrante – peut-être une odeur – qui à travers mon sommeil même mettait mon organisme en harmonie avec la journée, y répandait une tristesse à laquelle je pouvais conjecturer que viendrait au de hors sʼassocier la neige, ou y déchaînait mettait en branle tant de cris de joie de melodies / chans cantiques en lʼhonneur du soleil que ceux-ci finissaient par amener mon réveil, un réveil en musique, comme on dit au régiment. < Quand je sonnais (Esther q.q. part) Françoise mʼappportait mon courier [...]. je regardais dans le Figaro si ne sʼy trouvait pas un article que jʼavais adressé à – seul travail ma seule œuvre depuis page écrite depuis tant dʼannées – que jʼavais envoyé à ce journal et qui nʼy paraissait pas. < Mettre ici le petit bonhomme barométrique qui est dans le Cahier brun puis voir au verso > après le petit bonhomme < au avant mais enfin dans la matinée. > Jʼentendais le pas dʼAlbertine dans le couloir, le bruit de sa jupe, tant sa chambre était près de la mienne. [...]. Dʼailleurs quand elles allaient en automobile le chauffer était à ma dévotion. Ainsi calme je pouvais lui répondre [à Albertine] que ce serait pour une autre fois que ce jour là je resterais couché. < En effet le médecin mʼavait prescrit ordonné de garder presque continuellement le lit > Elle me 297

disait il fait si beau. Je le savais bien disait comme il serait agréable de faire une longue promenade par ce beau temps par ce beau temps une longue promenade, celle que je voudrais. Mais je la laissais partir, car tous les plaisirs de cette promenade seul, dans mon lit, je les goûtais, grâce au désir, à lʼappétit que la journée commençante en avait éveillé en moi / Mais je la laissais partir, car je savais que seul, dans mon lit, le désir de cette promendade mʼen ferait goûter tous les plaisirs. [...]. Car je savait bien que seul dans mon lit les désirs Resté dans mon lit, je ne prenais pas moins ma parte des plaisirs de la journée commençante; le désir purement arbitraire, la velléité capricieuse et purement individuelle de les goûter nʼaurait pas suffit à les mettre à ma portée si le temps particulier quʼil faisait ne mʼen avait plus quʼévoqué le souvenir bien plus quʼévoqué les images passées affirmé la réalité actuelle, accessibile immédiatement accessibile à tous les hommes quʼune circostance contingente et par conséquent négligeable, ne forçait pas à rester couchés. Certains beaux jours il faisait pourtant si froid quʼil semblait quʼon eût écart[è] on était en si libre large communication avec la rue, quʼil semblait quʼon eût écarté le jointures de la ma[ison] disjoint les murs de la maison et quand le tranway passait, son timbre comme eût fait < auprès de moi > un couteau dʼargent, semblait frapper résonnait aussi, comme eût fait auprès de moi un couteau dʼargent, frappant une maison de verre [...]. intercalant < das lʼair de > ma chambre de Paris de véritables pleins de < belles > incrustations de ma vie dʼautrefois, où je me réjoussais commme si jʼallais sauter du lit pour aller retrouver St Loup et ses amis ou me promener du côté de Méseglise. Ainsi jʼavais refusé dʼaller prendre < Ces évocations où ne passent pas seulement devant vos yeux / Ces similitudes Cette similitude des journées avec de plus ansiennes qui ne nous montrent pas seulement lʼapparence des choses < vue alors, > mais du fond de nous-même dégagent comme le sculpteur du bloc chaotique, lʼhomme oublié que nous fûmes quand nous les vivions, et qui ainsi jour par jour nous appelle à une autre vie, nous fait pénétrer dans une autre profondeur des choses, était celle qui convenait vraiment à ce que jʼavais de plus profond en moi, qui me donnait les joies dʼune mémoire profonde, intéresant à son mon souvenir le couches les plus souterraines de moi-même, les soulevant puissamment à la plus gde profondeur. Cʼétait le trait particulier de ma nature, ces joies que jʼéprouvais dans les promendades avec Me de Villeparisis quand je croyais reconnaître trois arbres. Mais même pour ceux qui ne sont pas ainsi faits, quand on a assez déjà un peu vécu, chaque br[uit] 298

tintement de pluie, chaque bouffée de chaleur, chaque buée odeur de brume, de sa main invisible déroule devant nous un petit tableau, paysage que nous avons vu sous la pluie, au soleil, par un temps de brume. [...]. Pour avoir refusé de jouir < imparfaitement avec mes sens > de cette matinée, je joussais < pleinement, avec mon imagination, > de toutes les matinées pareilles, ou plutôt dʼune matinée passées ou possibile, ou plutôt dʼune matinée unique, éternelle, < comblant mon esprit de sa plénitude et > dont jʼavais reconnu les signes toujours identiques et qui emplissait elles nʼétaient que lʼapparition intermittente. Elle comblait mon esprit de sa / Sa plénitud com[blait] Elle comblait mon esprit de sa plénitude et lui communiquait une allégresse que mon état de maladie débilité ne diminuait pas. < Je lʼavais vite reconnue; lʼair vif avait de lui-même tourné la page où se trouvait lʼÉvangile du Jour et où je pourrais le suivre de mon lit comme faisait autrefois ma tante Octave. > Notre bien-être résulte bien moins < en effet > de notre bonne santé, de nos forces, que de lʼexcédent de forces que nous nʼemployons pas et qui le reste le même si nous que nous ne trasformons pas en activité. [...]. Celle dont je dérbordais et que je tenais immobile dans mon lit, me faisait tressauter, intérieur bondir, et chanter, comme une machine sous pression quʼon arrête. Alors, convalescent affamé qui jouit de touts les mets quʼon lui refuse encore je sentais que si jʼépousais Albertine je me priverais à jamais des fruits de la solitude me demandais si en épousant Albertine je gâcherais ma vie tant en assumant la tâche trop lourde pour moi de me consacrer à un autre être, quʼen vivant absent de moi-même par cette présence continuelle et en me privant à jamais des fruits de la solitude. [...]. cet objet abstrait, contratictoire et inexistant, la Beauté. [...]. jʼavai soif de guérir, de sortir, dʼêtre et non pas avec Albertine, dʼêtre libre, et parfois au moment où une femme inconnue passait dans la rue, tantôt à pied, tantôt de toute la vitesse de son automobile, je souffrais de ne pas pouvoir tomber sur elle comme une flèche tirée de lʼembrasure de ma fenêtre par une arquebuse et immobliser la fuite du visage où mʼattendait la possibilité des baisers que je ne goûterais pas > tandis quʼAlbertine DʼAlbertine, elle, je nʼavais plus rien à apprendre. [...]. Et puis parfois vers la fin de la matinée lʼair froid sʼadoucissait; le timbre du tramway qui y a un heure perçait de son fifre lʼair transparent et blu comme avec une vrille, y chantait comme un violon, et au milieu [...]. Conclude, quasi magistralmente, Brun: “Dans ce système, Albertine commence à gêner. [...]. Il nʼy a pas une Beauté, mais des femmes belles, et cʼest la femme inconnue que le héros appelle. Les 299

bruit de la rue, comme Albertine, cʼest lʼappel de lʼextérieur, du désir amoureux, qui est antinomique de lʼappel de lʼart. Le narrateur doit rester au lit, dans sa chambre. Il ne faut pas quʼil aille à la fenêtre, quʼil se promène, quʼil voyage” (pp. 286-287). Comunque lʼincipit dellʼouverture: – il Narratore congettura il tempo che fa a partire non dalla “nuance” della “raie du jour” ma dal suono dei “premiers bruits”; – forse i rumori della strada sono stati anticipati da qualche emanazione “più rapida” proveniente dal sonno; – in ogni caso il risveglio è un “réveil en musique”. “Dès le matin, la tête encore tourné contre le mur et avant dʼavoir vu, au-dessus des grands rideaux de la fenêtre, de quelle nuance était la raie du jour, je savais déjà le temps quʼil faisait. Les premiers bruits de la rue me lʼavaient appris, selon quʼils me parvenaient amortis et déviés par lʼhumidité ou vibrants comme des s dans lʼaire résonnante et vide dʼun matin spacieux, glaciale et pur: dès le roulement du premier tranway, jʼavais entendu sʼil était morfondu dans la pluie ou en partance pour lʼazur. E peut-être ces bruits avaient-ils été devancés eux-mêmes par quelque émanation plus rapide et plus pénétrante qui, glissée au travers de mon sommeil, y répandait une tristesse annonciatrice de la neige, ou y faisait etonner, à certain petit personnage intemittent, de si nombreux cantiques à la gloire du soleil que ceux-ci finissaient par amener pour moi, qui encore endormi commençais à sourire et dont les paupières closes se préparaient à être éblouies, un étourdisssant réveil en musique” (P, 519). Che dire di un altro risveglio, da una notte di insonnia, in pieno martellare dei “cri” di Parigi... giù core, trompette, flûte... “lʼouïe, se sens délicieux”: “Le lendemain de cette soirée où Albertine mʼavait dit quʼelle irait peut-être, quis quʼelle nʼirait pas chez les Verdurin, je mʼéveillai de bonne heure, et, encore à demi endormi, ma joie mʼapprit quʼil y avait, interpolé dans lʼhiver, un jour de printemps. Dehors, des thèmes populaires finement écrits pour des instruments variés, depuis la corne du raccommodeur de porcelaine, ou la trompette du rempailleur de chaises, jusquʼà la flûte du chevrier qui paraissait dans un beau jour être un pâtre de Sicilie, orchestraient légèrement lʼair matinal, en une ʻouverture pour un jour de fêteʼ. Lʼouïe, se sens délicieux [...]” (P, 623; 50ʼ7 sgg.). Venendo a Lʼouverture de La Prisonnière dʼaprès le manuscrit ʻdefinitifʼ et le dactylographies di Jean Sally a cui abbiamo già rimandato per gli ulteriori stadi della scrittura dellʼ“ouverture”: “Ce qui se passe, cʼest que les déplacements de séquences au cours de la 300

genèse, les déstructurations suivies de restructurations elle-mêmes remises en jeu, le interférences de structures différentes tendent à faire de la construction du texte, au niveau local, un ʻpuzzle sans modèleʼ ou dont les modèles seraient, selon le cas, thématiques ou systématiques, les pièces sʼassemblant tantôt selon leurs ʻ coleursʼ, tantôt selon leurs formes”. E più avanti: “Dans sa microstructure, la diversité de ses éléments, et les changements successifs des relations qui les unissent et dont rien nʼassure quʼils nauraient pas continué si Proust nʼavait pas été définitivement interrompu, nʼempêchent pas une grande cohérence thématique et une apparence de cohérence narrative”.284

284 Ibidem, pp. 335, 337. 301

Cap. 19

A MOʼ DI CONCLUSIONE

Leggete la lettera che Proust manda a Zadig, il cane che ha regalato a Reynold Hahn nel novembre 1911: “Ti voglio tanto bene perché tu hai molsto dischpiacere (beauscoup de schasgrin) e amore per la stessa persona che me, e non potevi trovare meglio nel mondo intero. Ma non sono geloso che lui stia più con te, perché è giusto e tu sei più infelice e innamorato. Ecco come lo so, genstile caniolino (gentstil chouen). Quando ero piccolo e avevo dispiacere perché dovevo staccarmi dalla mamma o per un viaggio o per andare a letto o per una ragazza che amavo ero più infelice di adesso (quando jʼétais petit et que jʼavais du chagrin pour quitter Maman, pour partir en voyage, ou pour me coucher, ou pour une jeune fille que jʼaimais, jʼétais puls malhereux quʼaujourdʼhui), prima di tutto perché come te non ero libero di andare a distrarmi dal mio dispiacere e mi chiudevo con lui, ma poi anche perché ero prigioniero nella mia testa, nella quale non cʼerano idee, ricordi di letture (où je nʼavais aucune idée, aucun souvenir de lecture), progetti dove rifugiarmi. E tu sei così, Zadig, non ha mai fatto letture, non hai idee. E devi essere ben infelice quando sei triste. Ma sappi, caro Zadig, che quella specie di caniolino chʼio sono come te può dirti e dirti perché è stato uomo e tu no. Questa intelligenza che abbiamo ci serve solo a sostituire le impressioni che fanno amare e soffrire con delle false impressioni che fanno amare e soffrire meno (cette intelligence ne nous sert quʼà remplacer ces impressions qui te font aimer et souffrir par des fac- similés qui font moins de chagrin et donnent moins de tendresse). Nei rari momenti in cui ritrovo tutto il mio affetto, tutta la mia sofferenza, è perché le mie sensazioni non sono più basate su false idee ma su qualcosʼaltro che esiste, uguale, in e in me, caniolino mio (dans les rares moments où je retroove toute ma tendresse, toute ma souffrance, cʼest que je nʼai plus senti dʼaprès ces fausses idées, mais dʼaprès quelque chose qui est semblable en toi et en moi mon petit chouen). E questo mi sembra così superiore al resto che è solo quando torno a essere cane, un povero Zadig come te, che mi metto a scrivere, e solo i libri scritti così sono quelli che mi piacciono (je me mets à écrire et il nʼy a que les livres écrits ainsi que jʼaime). Quello che porta il tuo nome [il protagonista dellʼomonimo scritto di Voltaire], vecchio mio, non è per niente così. È un piccolo motivo di contrasto 302

fra il tuo padrone, che è anche il mio, e me. Ma tu non litigherai con lui perché non pensi. Caro Zadig, siamo tutti e due vecchi e malati. Ma mi piacerebbe venirti a trovare, perché tu mi avvicini al tuo padrone invece che allontanarmene. Ti abbraccio con tutto il mio affetto e al tuo amico Reynaldo mando il tuo piccolo riscatto [il denaro per lʼacquisto del cane regalato a Reynaldo Hahn]” (CORR, X, 372-373; LG, 975-976). Un mese prima Proust, in una lunga lettera a Maurice Barrès (1 ottobre 1911) ha detto che sta scrivendo: “une espèce dʼimmense roman” (CORR, X, 553). Lʼessai è diventato una espèce de roman; il roman, comunque, un immense roman... Proust sta scrivendo quel che diventerà Le côté de chez Swann... Ma sta anche lavorando a costruire lʼinsieme della Recherche... Questa lettera mi è parsa straordinaria. In essa si affacciano, nel colloquio tenero con lʼamico più tenero...285 moyennat il suo (il loro) cane, quasi tutti i temi della Recherche... Ma la si può interpretare in vari modi. Un esempio, quello di Roger Duchêne: “Si la scène de la biscotte-madeleine et les autres exemples donnés dès le Sainte- Beuve ne racontent pas forcément des expériences biographiques, il traduisent, et cʼest lʼessentiel, une conviction qui doit être profondément ancrée chez Proust pour quʼil lʼexprime avec une telle force dans une lettre à son ami le plus cher, celui auquel il ment le moins parce quʼil a le plus confidence en lui. On sʼétonne que le plus intelligent de nos romanciers, celui dont les analyses sont les plus fines et les plus subtiles, à partir des situations les plus ténues et à propos des personnages les plus complexes, sʼillusionne à ce point sur le principe même de son écriture. Si lʼimpulsion vient de son cœur, de son immense désir de retrouver les sentiments, heureux ou malheureux, de son passé, cʼest bien évidemment avec son intelligence quʼil les décrit. Sentir comme le ʻchouenʼ Zadig ne suffit pas si lʼon nʼa pas aussi, prour exprimer, lʼesprit que Voltaire a donné à sono personnage” (Ibidem, pp. 634-635). Il pensiero va ad una lettera a Jacques Copeau (rappresentante di Gallimard) del 22 maggio 1913, in cui un ruolo decisivo, proprio

285 “Adieu, on vieux genstil. Je ne peut pas dire que je pense souvent à toi, car tu es installé dans mon âme comme une de ses couches superposées et je ne peux pas regarder du dedans au dehors, ni recevoir une impression du dehors au dedans sans que cela ne traverse mon binchnibuls intérieur devenu translucide et poreu” (a Hahn, ______). 303

nel passaggio da inconscio a conscio, è affidato allʼintelligenza: “[...]. Mais jʼai craint que faisant allusion à des pages que vous avez lues de moi, [elle] ne contint un malentendu. Le souvenir auquel jʼattache tant dʼimportance nʼest nullement se quʼon appelle généralement ainsi. Lʼattitude dʼun dilettante qui se contente de sʼenchanter du souvenir des choses est le contraire de la mienne. Non que théoriquement, avec préméditation, jʼaie constitué à cet égard un système. Rien de plus inconscient chez moi. Mais de même quʼen lisant Stendhal, Thomas Hardy, Balzac, jʼai revelé chez eux, avec mon intelligence, des traits profonds de leur instinct que jʼaimerais dessiner car cela nʼa jamais été fait si un peu de temps mʼétait encore concédé. Mais je peux dire que le souvenir de Dostoïewski, Tolstoï (vous comprenez bien que quand je cite de grands noms ce nʼest pas pour mʼégaler à eux! ni même en approcher de mille lieues!) le ʻil devait plus tard se rappeler toujours le moment où il avait remarqué cette porteʼ est encor quelque chose dʼextrêmement contingent et accidental relativement à ʻmonʼ souvenir, où tous les elements matériels constitutifs de lʼimpression antérieure se trouvant modifiés le souvenir prend au point de vue de lʼinconscient la même généralité, la même force de réalité superieure que la loi en physique, par la variation des circostances. Cʼest un acte et non une volupté passive. Dʼailleurs la notion de plaisir nʼexiste . Non que ma vie soit dépourvue de plaisirs comme on croit mais cʼest que je ne le cherche jamais, il accompagne seulement lʼamour ardent que jʼai des choses et qui peut-être en effet est un peu surextité par la privation. [...]” (CORR, XIII, 179-180; il corsivo è dellʼautore). Riprendiamo una lettera celebre, quella in risposta a Jacques Rivière, il segretario della NRF che, il 6 febbraio del 1914, gli ha espresso tutto il suo entusiasmo per Le côté de Chez Swann... Ma è chiaro che, se accettiamo la critica di Proust a Sainte- Beuve, non è importante quel che lo scrittore dice della sua opera ma la sua opera; in ballo ci sono due “io! diversi... “Finalmente un lettore che intuisce che il libro è unʼopera dogmatica e strutturata (enfin je trouve un lecteur qui devine que mon livre est un ouvrage dogmatique et une construction). [...]. Come artista, ho trovato più onesto e delicato non rivelare, non proclamare che quel che mi prefiggevo era la ricerca della verità, e in che cosa essa consisteva per me. A tal punto detesto le opere ideologiche nelle quali la narrazione è un continuo tradimento delle intenzioni dellʼautore, che ho preferito non dir nulla. È solo alla fine del libro, che dopo aver compreso le lezioni della vita, che il mio pensiero si paleserà. Quella che esprimo alla fine del primo volume, in quella 304

parentesi sul Bois de Boulogne che ho messo lì come semplice paravento per terminare e chiudete un libro, che per motivi pratici non poteva superate le cinquecento pagine, è il contrario della conclusione. È una tappa, che si presenta come soggettiva e dilettantesca (esse est une étape, dʼapparence subjective et dilettante), sulla via che porta a una conclusione del tutto oggettiva e convinta. [...]. In questo primo volume avete visto la sensazione piacevole che mi procura la madeleine inzuppata nel tè – come dico, smetto di sentirmi mortale etc. e non capisco perché. Lo spiegherò solo alla fine del terzo volume. Tutta lʼopera è costruita in questa maniera (tout est ainsi construit). [...]. No, se non avessi convinzioni intellettuali, se cercassi soltanto di ricordare il passato e di duplicare con questi ricordi lʼesperienza, non mi prenderei, malato come sono, la briga di scrivere (non, si jen nʼavais pas de croyances intellectuelles, si je cherchais simplement à me souvenir et à faire double emploi par ces souvenirs avec les jours vécus, je ne prenderais pas, malade comme je suis, la peine dʼécrire). Ma questa evoluzione del pensiero, non ho voluto analizzarla astrattamente bensì ricrearla, farla vivere. Sono costretto quindi a dipingere gli errori senza ritenermi in dovere di dire che li giudico tali: tanto peggio per me se il lettore crede che li considero verità. [...]” (CORR, XIII, 98-100; LG, 1082-1083; il corsivo è dellʼautore).

305

Cap. 21

UBI UR-SZENE?

1) Lavori in corso

Molto interessanti i materiali raccolti nei Cahiers Marcel Proust 7. Études proustiennes II.286 A partire dallʼintervento iniziale di Jean Ricardou sulla metafora, “Miracles” de lʼanalogie (pp. 11-3) che non citerò. Deleuze afferma che la Recherche “nʼest pas une robe, [...] pas une cathédrale, mais une toile dʼaraignée en train de se tisser sous nons yeux” (Table ronde, ibidem, p. 91). Che, cioè, non è quel che Proust pensava che fosse: “je bâtirais mon livre, je nʼose dire ambitieusement comme une cathédrale, mais tout simplement comme une robe” (TR, 103). È une toine dʼarignée? Alla medesima tavola rotonda (Proust et la nouvelle critique, New York University, 1972) Barthes paragona Proust al Beethoven delle variazioni su Diabelli: “on sʼaperçoit que là on a affaire à trente- trois variations sans thème. Et il y a un thème qui est donné au début, qui est un thème très bête, mais qui est donné justement, un peu, à titre de dérision. Je dirais que ces variations de Beethoven fonctionnent un peu comme lʼœuvre de Proust. Le thème se diffracte entièrement das les variations et il nʼy a plus de traitement varié dʼun thème. Se qui veut dire quʼen un sens sans la métaphore (car dʼidée de variation est paradigmatique) est détruite. Ou, en tout cas, lʼorigine de la métaphore est détruite; cʼest une métaphore, mais sans origine” (ibidem, p. 102). Dobbiamo, cioè, venire a patti con lʼidea stessa di “origine”? Genette, alla medesima tavola rotonda: “Mais dʼautre part, sa théorie littéraire est tout de même un peu plus subtile que la grande syntèse achevante et clôturante du Temps retrouvé” (ibidem, p. 112)... E ancora: il testo di Proust “nʼest plus aujourdʼhui ce quil était, dison, en 1939” quando si conosceva solo la Recherche, più due o tre opere considerate minori: “À mon avis, lʼévénement capital dans la critique proustienne de ces dernières années, ce nʼest pas ce que nous pouvons écrire ou avoir écrit sur Proust, cʼest ce quʼil a

286 Gallimard, Paris,1975. 306

continué, si jʼose dire, dʼécrire lui-même: cʼest la mise au jour de cette masse dʼavant-textes et para-textes qui font la Recherche plus ouverte aujourdʼhui quʼelle ne lʼétait hier, lorsquʼon la lisait comme une œuvre isolée. Je veux dire que non seulement elle sʼouvre, comme on lʼa toujours su, par la fin, en ce sens que sa circularité lʼempêche de se clore en sʼarrêtant; elle sʼouvre aussi par le début, en ce sens que non seulement elle ne finit pas, mais que dʼune certaine manière elle nʼa jamais commencé, parce que Proust a toujours déjà travaillé à cette œuvre. Et en un sens il y travaille encore: nous nʼavons pas encore tout le texte proustien; tout ce que nous en disons aujourdʼhui sera en partie périmé quand nous lʼaurons dans son entier; mais heureusement, pour lui et pour nous, nous ne lʼaurons jamais dans son entier” (Ibidem, pp. 112-113). Abbiamo a che fare con un cantiere con i lavori in corso? Con un accostamento alla non-finibilità insieme kafkiana e freudiana?287 Lʼacategoriale, anche se riversato nel categoriale, resta in- finibile (in-effabile). In Sur deux versions anciennes des “côtés” di Combray, Quémar288 sostiene una posizione paradossale ma, proprio per questo, molto interessante: “Cʼest évidemment de ʻbrouillonsʼ quʼil sʼagit. Ou mieux: dʼʻavant-textesʼ, puisque loin dʼêtre dʼinformes ʻfourre-toutʼ ou de simples ébauches isolés, ils appartiennent à une suite romanesque. ʻAvant-textesʼ quʼil serai injuste de ne prendre en considération que relativement à lʼœuvre definitive, en se contentant dʼinventorier leurs imperfections et leurs manques; auxquels il convient au contraire de conferer le statut de ʻtextesʼ, ayant une fonction dans un ensemble, répondant à une ou des intentions

287 Come dire: il transfert chissà quando comincia se comincia e chissà quando finisce se finisce. Luborsky ha operazionalizzato il transfert; lo ha reso verificabile sperimentalmente, ne ha quindi dimostrato lʼesistenza e la monitorabilità. Applicando il suo test (CCRT) a terapie non psicoanalitiche abbiamo dimostrato che il transfert è ubiquo. Abbiamo rilevato, oltre agli EERR (Episodi Relazionali relativi al paziente) anche gli EERRDD (Episodi Relazionali Didattici; relativi, cioè, allo psicoterapeuta); abbiamo dimostrato lʼutilità della rilevazione degli EERR su entrambi i fronti (paziente e terapeuta); con ciò stesso verificato una vecchia ipotesi: che non esiste un transfert ma un co-transfert. Procedendo oltre, possiamo aggiungere che non esiste nulla che non sia lʼapprodo di un transfert (di un trasferimento)... Ma anche che lʼapprodo di ogni trasferimento è sempre solo provvisorio. Il transfert da Freud a Luborsky. La verifica luborskiana di una terapia sistemico-relazionale, Cesario/Serritella, Borla, Roma, 2001. 288 In Cahiers Marcel Proust, 7. Études proustiennes II, Gallimard, Paris, 1975, pp. 117-118) 307

precises du romancier par rapport à un projet global à un stade donné de sa genèse. Car ʻà chaque instant de la rédaction, il y a déjà pour celui qui rédige, œuvre et non pas préparation à lʼœuvreʼ (Jean Bekkemin-Noël, Le Texte et lʼavant-texte, Larousse, 1971, p. 13). Mais on ne se privera pas pour autant de survellier, à lʼintérieur de chacun des deux fragments, les hésitations, les modifications de structure et les glissements de sens, enfin les additions, qui accompagnent la cristallisation progressive des motifs, ni de comparer entre elles les deux versions et les rapprocher du texte de la Recherche, si lʼon veut saisir lʼavènement des ʻformesʼ et de ʻsignificationsʼ, et de tenter de comprendre le fonctionnement du discours proustien” (pp. 223-224). Il paradosso consiste nel considerare testo anche lʼavantesto. Quémar dimostra, ad esempio, come per tappe, a partenza da ricordi autobiografici, si siano formati i due côté, ciascuno avente al suo centro lʼimmagine di una donna, con annessa lʼimmagine di un fiore... e ciascuno avente una porta dʼaccesso diversa... Dimostra, quindi, un viaggio verso la perfezione. Ricostruisce, cioè, la genesi del testo... Ma incappiamo in elementi sorprendenti. Ad esempio, i due côté che, nel testo definitivo, appariranno prima incomunicabili, alla fine comunicabil, sono presentati – nei due frammenti IV e XII – subito sia incomunicabili che comunicabili: (1) “Car je sus alors que le côté de Méséglise et le côté de Garmantes nʼétaient pas aussi inconciliables que je le croyais autrefois et quʼon pouvait partir du côté de Méséglise couper par Garmantes” (IV, 176); (2) “Mais aux années dont je parle unir le côté de Germantes et le côté de Meséglise me paraissait aussi impossible que de faire venir lʼOrient près de lʼOccident et de les ranger lʼun à côté de lʼautre. Alors je ne savais pas quʼil nʼy avait pas tant de différence entre le côté de Garmantes et le côté de Meséglise” (ibidem). Ma, soprattutto, Quémar ci spiega che la scena-madre del “drame du coucher” forse è tardiva. La scena-madre? Tardiva? Il primum movens tardivo? Non è possibile, il primum movens coincide con i primordi, è i primordi. Forse no. Ricordate il Leitmotiv della reincarnazione? O, in tono minore, delle tappe evolutive? “Puis elle [croyance] commençait à me devenir intelligibile, comme après la métempsycose les pensées dʼune 308

existence antérieure” (S, 3) “jʼavais seulement dans sa semplicité première, le sentiment de lʼexistence comme il peut frémir au fond dʼun animal; jʼétais plus denué que lʼhomme des cavernes” (S, 5)... Non esiste, quindi, un primum movens che fittizio; un semblant di esso. La scena-madre risale a oltre “le madri” di goethiana memoria; e la “robe” sarà, se mai lo sarà, attillata solo in un futuro stadio evolutivo (o di reincarnazione). Consideriamo il “drame” come lo si ritrova nei “morceaux” riportati da Quémar dei Cahier IV e XII che sono i più antichi sui “côté” (situabili, il primo a cavallo tra il 1908 e il 1909______).289

2) Il drame du coucher

Il “drame du coucher” sembra aver costituito inizialmente il legame tra il motivo delle passeggiate (almeno della masseggiata verso Villebon/Garmantes) e quello dei “dîners familiaux” con Swann: “Mais à partir de là, débordant peu à peu le cadre stricte de ces réceptions tant redoutées par le jeune garçon et perdant de vue le thème du coucher, le discours sʼorganise en une sorte de portrait- roman de Swann [...]” (pp. 213-214) In ogni caso “le récit de ces soirées de Combray ne se referme pas sur lui-même, cʼest-à-dire sur le thème de la chambre de lʼenfant et du baiser maternel. On est encore loin de cette unité circulaire du ʻcoucher du soir à Combrayʼ, qui, dans le roman, circonscrit ce quʼon est convenu dʼappeler ʻCombray Iʼ. Lʼentrée en scène de Swann entraîne lʼécrivain dans un développement centré sur ce personnage,

289 Kuémar a proposito del Cahier IV envers, f°s 71 V°-57 V° e CSB 61-73: si tratta di un “ensemble suivi assez complexe” perché Proust lʼha molto “remanié et augmenté”. Si tratta di una messa a punto a partire da esquisse diverse contenute nei primi cinque cahier e destinate al CSB narrativo. Allʼinizio questi “marceaux” erano stati redatti nella prospettiva di un prologo ad una versione narrativa del SB (alla quale verosimilmente Proust pensava quando cominciò a riempire i cahier, nel 1908). Allʼinizio si trattava di evocare le ore vissute, prima e dopo lo spuntare del giorno, nellʼattesa di una conversazione mattutina “avec Maman” su Sainte-Beuve. Poi si sono aggiunti dei frammenti su dei ricordi subentrati nel corso di insonnie, in un tempo anteriore a quello di questa matinée. Allora Proust sembra essere scivolato verso “une utilisation nouvelle de cette matinée” che “si sostituisce à lʼutilisation qui lui avait dʼabord été assignée” (Maurice Bardèche, Marcel Proust romancier, Paris, 1971, I, p. 211): il Sainte-Beuve narrativo è abbandonato e quel che era destinato al suo prologo darà nascita allʼ“ouverture” di Swann. 309

et le drame du coucher est ainsi complètement oublié” (Ibidem, p. 214). “Mais ce qui distinguait pardessus tout pour moi Garmantes cʼest que le jours où nous étions allés nous promener de ce ʻcôtéʼ, comme nous rentrions tard on nous envoyait coucher // presque // assitôt notre soupe prise et que Maman ces soirs là ne montait pas me dire bonsoir dans mon lit. Toute la journée pendant la promenade je pensais à la Comtesse de Garmantes, // ou // aux nymphéas comme si je nʼavais pas eu cette appréhension pour le soir. Mais sur le retour quand le vent commençait à tomber, mon angoisse me prenait. Et cʼest ainsi sur le côté de Garmantes que jʼai appris à distinguer en moi ces états distincts, presque opposés, qui se succèdent dans ma vie, dans chaque journée // même // où la tristesse revient à une certaine heure avec la régularité de la fièvre, et pendant lesquels ce qui fu désiré // redouté, // accompli, dans les états différents paraît presque incompréhensible. En rentrant de Garmantes je savais que je nʼavais guère plus dʼune demie heure avant lʼinstant où il faudrait dire bonsoir à Maman” (IV, 176-177).290 Quindi: (1) i côté sono “opposti” (IV, 162); nel romanzo lo rimarranno; diventeranno conciliabili sono alla fine: un esempio tra i molti della scrittura simultanea dellʼinizio e della fine e della successiva distribuzione... (2) il “drame” è solo una questione di “ritardo” nel ritorno dal “côté de Garmantes”; (3) ma “tuote la journée” il Narratore pensa alla Comtesse de Garmantes (o alle “nymphéas”; (4) “comme si je nʼavais pas eu cette appréhension pour le soir”: come se non ci fosse nessun presagio del “drame”; (5) che irrompe tempestoso; (6) solo ad un certo punto il Narratore scopre la “regolarità” del fenomeno. (7) Ma qual è il fenomeno? Citiamo un passaggio immediatamente precedente (e immediatamente susseguente a quello citato dianzi): “Mais aux années dont je parle unir le côté de Garmantes et le côté de Meséglise me paraissait aussi impossible que de faire venir lʼOrient près de lʼOccident et de les ranger lʼun à côté de lʼautre. Alors je ne savais pas quʼil nʼy avait pas tant de différence entre le côté de Garmantes et le côté de Meséglise. Il y a encore quelques autres choses que je ne savais pas alors et que je sais aujourdʼhui. Mais elles son sans valeur. Et alors je savais des choses précieuses que je ne saurai jamais, jamais plus. Mais le côté de Garmantes avait surtout quelque chose qui me le rendait différent de tout le reste mais à laquelle chose curieuse je ne commencais à penser quʼà 7 heures du soir. Cʼest sur

290 “[...] Meséglise et Guermantes nʼétaient pas aussi absolument opposés et inconciliables que je le croyais pendant toute non enfance [...]” (XII, 178). 310

le côté de Meséglise petit chemin qui mène à la route de Garmantes et que jʼai appris depuis être du côté de conduire à Meséglise que jʼai appris que cʼest assez pour faire naître lʼamour quʼune femme fixe son regard sur nous et que nous sentions quʼelle pourrait nous appartenir. Mais cʼest sur la route de Garmantes que jʼai appris que cʼest assez pour faire naître lʼamour qʼune femme détourne son regard de nous et que nous sentions quʼelle ne pourrait pas nous appartenire. Mais ce qui distinguait... (IV, 176). Quindi: la differenza tra avere il bacio della sera o non averlo – simile alla differenza tra i due côté, tra lʼoriente e lʼoccidente –, sappiamo che apparirà fasulla alla fine (ma è già apparsa fin dallʼinizio)... Quindi: la “regolarità” è la regolarità tra il bene e il male, tra la presenza e lʼassenza... Non si tratta di “episodi”, di “drammi”, di “scene”... Si tratta della pulsazione dellʼuniverso...291 E questa pulsazione è governata, anche questa volta, dal “desiderio mimetico”? Per trovarsi immerso in una storia dʼamore basta che una donna “détourne son renard de nous”! Vedremo più avanti... Sulla strada per Meséglise Marcel ha imparato lʼamore corrisposto; sulla strada per Garmantes quello non corrisposto. Ma lʼuno è lʼaltra faccia della medesima medaglia. Straordinario il passo che ri-citiamo in cui sembra quasi che le contraddizioni si impennino ma anche perdano il loro “valore”: “Il y a encore quelques autres choses que je ne savais pas alors et que je sais aujourdʼhui. Mais elles son sans valeur. Et alors je savais des choses précieuses que je ne saurai jamais, jamais plus”. Ritorniamo al tema del “baiser”: “Tel était le côté de Guermantes [ et vous me mèneriez dans un pays où il y aurait dʼaussi beaux, de plus beaux nymphéas, une // une plus jolie rivière, de plus belles routes, si ce nʼest pas ce pays là et non un autre, cela ne me fera pas plus de plaisir que si ma mère avait envoyé me dire bonsoir au lieu dʼelle une femme qui lui // aurait // ressemblé qui aurait été aussi belle et aussi intelligente, plus intelligente et plus belle. La petite irrégularité que Maman avait dans le menton me

291 “[...] et qui allait jusquʼau village quʼon voyait au fond avec le gare un peu distante, et sur lequel passait aux 'heuresʼ le son de lʼhorologe de lʼéglise dont nous nous arrêtions pour compter les coups, affaibli, horizontal, détaché dans sa forme nette du reste de lʼair // quʼil traversait sans sʼy mélanger // par sa densité quʼil semblait avoir emprunté aux cloches, et comme côtelé de nervures par la palpitation // successive // de toutes le lignes de sa trame, vibrant audessus des herbes comme lʼélytre de gaze // et le métal // dʼune libellule invisible” (XII, 181). 311

rappelait que cʼétait bien elle mʼétait alors plus chère, quʼun menton plus parfait chez une autre. [...]. Ce que nous aimons dans un pays comme dans une personne ce nʼest pas sa beauté que dʼautres peuvent égaler, éclipser, cʼest son individualité. Quand je voulais que Maman vienne me dire bonsoir dans ma chambre, vous mʼauriez envoyé une mère plus belle, plus intelligente et qui nʼaurait pas été elle, même plus belle même plus intelligente cela ne mʼeut fait aucun plaisir. Le défaut la petite fente quʼelle avait dans le menton, en me montrant que cʼétait bien elle mʼétait beaucoup plus agréable que le menton parfait dʼune autre. Une rivière plus belle que la Vivette // mais qui ne serait pas elle // , // avec // de nymphéas plus éclatantes, je ne tiens pas du tout à aller la voir. Que ne donnerais-je pas pur retourner à Combray, et avec quelle émoti plaisir jʼy retrouverais ces particularités dépourvues de beauté peutʼêtre mais qui disent cʼest bien là, lʼendroit. Où le chemin diverge, la ferme unique en face des deux fermes, lʼallée dʼarbres qui mène à lʼancien Calvaire, rien que le nom de la station qui précède Combray, et qui est émouvant pour moi comme le nom de la rue où habite une femme aimée. Et si lʼon veut y penser, dans la différence dʼun endroit aimé et dʼune femme aimée, qui sans cela se ressemblent tant et qui est [que] le paysage est attaché éternellement à la même place, ou plutôt quʼil est la place même git tout le problème toujours mal posé du voyage” (XII, 204- 206).

3) Lʼescalation manca

Qui, lo rileva Quémar, esiste una corrispondenza dʼamorosi sensi; non vige ancora la regola della “differenza” che alimenta lʼescalation... Qui la “differenza” non ostacola ma accudisce lʼunione... Qui sono il paese, la strada (côté de Gueramntes), la madre che si ama... che vengono amati; un paese, un côté, una madre più regolari/perfetti – addirittura più belli (più intelligenti: qui si tratta della madre) – sarebbero meno amabili. Il Narratore pone il problema del viaggio... Sappiamo gli sviluppi che avrà... Qui il viaggio va da un côté allʼaltro, dalla madre alla madre... Ma sappiamo che lʼamore passa da un coté allʼaltro... “Tel était le Côté de Guermantes. Le Côté de Méséglise, tout en champs élevés audessus de la ville et étendus à lʼinfini a fait // à jamais // pour moi, des bleuets des coquelicots, de la fleur du 312

pommier, de lʼaubépine, quelque chose de bien différent des fleurs quʼune femme du monde ou un dilettante prétendent aimer, // et // dont il caractérisent dʼun mot heureux la couleur singulière ou le parfum” (XII, 206). Un côté non è da meno dellʼaltro... Di nuovo la differenza; tra lʼamato e il non amato; differenza non cʼè – cʼè solo passaggio, pulsazione – tra un côté e lʼaltro, tra la madre che dà la buona notte e quella che la nega... Quindi, solo pulsazione, palpitazione... Nella versione definitiva le due figure femminili – Mlle Swann e Mme de Guarmantes – sono prima sognate dal Narratore che se ne fa inevitabilmente unʼimmagine arbitraria; una “songerie” che favorisce la cristallizazione amorosa prelude al “coup de foudre” dellʼincontro e la prepara. “Rien de cela au stade de nos inédits. Au Cahier IV, Mlle Swann et la comtesse de Garmantes sont lʼune et lʼautre mentionnées pour la première fois au moment même de leur rentrée en scène. Pas la moindre rêverie antérieur de la part du protagoniste. Et de la part du romancier, pas la moindre préparation plus haut dans le texte. Contrevenant au mode de présentation auquel il recourra ultérieurement pour les ʻpersonnages importantsʼ dans toute lʼœuvre, Proust introduit ici les deux femmes dans la trame romanesque ʻde plain-pied et comme à [Tadié, p. 68], précisément parce quʼil improvise” (p. 271). Solo a partire dal Cahier XII comincerà quella “rêverie” intorno a Mlle Swann che si svilupperà nel testo definitivo. Quanto alla contessa, nel Cahier VIII il curato di Cobray lʼha menzionata come dama altera che ha rifiutato di riceverlo; ma il Narratore “na pas commencé encore de lʼimmaginer. Ni au Cahier IV ni au Cahier XII son apparition [di Mme de Guermantes] nʼentraîne donc de déception, et pas davantage celle de Mlle Swann. Bien au contraire. Cʼest là une différence fondamentale par rapport au texte finale. [...]. De fait, cʼest, dans les deux cas, toute la rencontre dans son déroulement, ainsi que la signification sʼattachant aux deux femmes, qui distinguent nos versions de la rédaction définitive. [...]. Proust reprende au Cahier XII, en le développant, le récit di Cahier IV, avec le schéma qui sʼétait imposé à lui à ce stade originel. Dʼabord une rencontre gratificante, puis une rencontre frustrante, mortificante; schéma exactement inverse de celui quʼil a retenu dans le texte imprimé. [...]. “à la différence de ce qui se produira dans le texte definitif, le coup de foudre se réalise ici, dès le Cahier IV, sous 313

le signe du bonheur, cʼest-à-dire de la réciprocité.292 [...]. Lʼamour sʼinstaure donc dans le roman sous le signe de la fusion des coeurs et des pensées. Car cʼest bien de cela quʼil sʼagit ici” (pp. 273-277). Citiamo due passaggi: (1) “Un jour que nous étions partis ʻdu coté de Villebon elle était justement à la porte du parc dans une petite robe capote rose, je ne pouvais pas mʼempêcher de la regarder, elle me regardait aussi [...]. elle sʼarrêta, continua à regarder, puis enfin se décida à sʼen aller, et je voyais au loin la petite capote voile // entre les arbres [...]” (IV, 167).293 (2) “Et dans les amours plus vastes et plus exigeants qui ont pour dessein une fusion des pensées, des volontés, le fait dʼapercevoir quʼune jeune fille ne veut que ce que nous voulons, que nous tenons une // grande // place dans sa pensée tout cela peut entraîner comme rétroactivement lʼamour qui se sera proposé cela pour but. Quʼon sente quʼelle dise ʻnousʼ et notre cœur avide dʼun cêur dans ce heures solitaires de la jeunesse ne peut se détacher de celle qui lʼa mis contre le sien” (XII. 189). In questʼultimo passaggio del Cahier XII un incontro tacito dʼun cuore con un altro cuore: “rencontre purement sentimentale, sans nuance érotique. [...]. rien dʼelle [de Mlle Swann] nʼes perçu en de

292 “Tel était le côté de ʻGarmatesʼ et ce que jʼaimais dans ces lieux cʼétait comme toujours quand on aime, non pas leurs beautés, mais eux-mêmes” (p. 170). “[...] le jour où // perdu // après une longue journée dʼautomobile dans un pays que je ne connaissais pas, mon chauffeur me dit quʼen prenant la première route à droite on arriverait [à] Garmantes, ce fu absolument comme sʼil me disait quʼen prenant le premir chamin à gauche en tournant de deuxième à droite je tomberais droit sur ma jeneusse ou sur mon premier amour. Au reste nʼen est-il pas un peu ainsi chaque fois que se présente le paradoxe dʼun idéal réalisé, dʼune chose qui nʼa été connue que par lʼimagination et qui par une volte face soudaine tombe sous les yeux, chaque fois quʼil faut se dire devant une ville cʼest Venise, devant un Monsieur qui se promène cʼest Victor Hugo, devant un lavoir, // ce sont les Sources du Loir” (IV, 172) = “[...] suivez la route pendant dix minutes, la seconde avenue de chênes à gauche vous tomberez sur Guermantes, cʼa été comme sʼil mʼavait dit, continuez tout droit la première à gauche et vous avez à droite votre passé, votre jeunesse: vous allez toucher lʼintangible, vous allez atteindre aux inaccessibles lointains dont on ne connaît jamais sur terre que la direction, ʻle côtéʼ (XII, p. 178). 293 “Mlle Swann vit mon oncle mon grand père, mais moi elle ne se contenta pas de me voir, elle me regarda. Ses cils se plissèrent légèrement comme sous lʼeffort dʼune attention profonde et dissimulée les deux petites fleurs de myosotis semblèrent sortir légèrement des paupières, // me // toucher et entrer vite pour quʼon ne remarquat pas leur mouvement. Mais rentrées à leur place habituelle et ne semblant plus me voir que comme mon grand père, mon oncle et le chemin, elles restèrent fixés sur moi pendant tout le temps que nous montions en quelque sorte vers elle, quoique de lʼautre côté de la haie, avec un persistance sans trêve, dans une immobilité qui me troublait infinement” (XII, 187). 314

hors de sa figure: rien de son corps. [...]. Seul est vu le visage, donc, et dans ce visage, nulle allusion encore eu teint, à la carnation” (p. 277). È solo nella seconda versione del Cahier XII che la visione dellʼamata si tingerà di erotismo... Quémar parla di un “apax”; potremmo dire di un “inaudito” (o udito una sola volta): “Ce ne sera plus la pure extase sentimentale, la grave et mutielle effusion des deux versions précedentes, effusion dʼautant plus remarquable quʼelle est quasiment un hapax dans le contexte de la Recherche” (p. 279).

4) Il senso del souvenir

Riprendiamo dai Cahier: “mais une réalité qui sʼimpose à moi avec tant de charme que la vue de la petite flamme de toile rouge dʼun coquelicot // hissée en haut de son cordage vert et // claquant au vent // contre la bouée noire et graisseuse // sur un talus, me fait battre le cœur, avec tant de mystère ainsi que je cours encore // comme quand jʼétais petit // si // je suis sur quʼon ne me voit pas quand jʼaperçois un pommier en fleurs, et reste à dégager de ses beaux pétales que je reconnaîtrais entre tous ce qui peut en eux solliciter aver cette force mon amour et mon étude. Sur ces pétales il y a comme une petite épaisseur // invisible // impalpabile // et qui offre une douce résistance à mon regard avant quʼil arrive jusquʼà la blancheur charnue des pétales; // elle est probablement faite de tous les regards que jʼai fixés sur eux autrefois et que mon regard dʼaujourdʼhui est obligé de retraverser pour arriver jusquʼà la fleur; ces fleurs là ce nʼest pas une fantasie esthétique qui me les fait aimer, elles sʼimposent à moi de toute la puissance dʼun passé que je ne suis pas libre de changer” (XII, 206-207) Si parlava prima di una pulsazione tra côté dellʼuniverso; lʼimportanza dei côté deriva dalla loro storia (che precede e segue la vita del Narratore come quella di tutti). In Déguisements du moi et art fragmentaire, Leo Bersani sostiene che il ruolo cruciale dei ricordi involontari294 è legato alla loro

294 Claudine Quémar in Sur deux versions anciennes des “côtés” de Combray (Cahiers Marcel Proust, 7. Études proustiennes II, Gallimard, Paris, 1975, pp. 217- 118) a proposito di Cahier I envers, f°s 71 V°-57 V° e CSB 61-73: si tratta di un “ensemble suivi assez complexe” perché Proust lʼha molto “remanié et augmenté”. Si tratta di una messa a punto a partire da esquisse diverse contenute nei primi cinque cahier e destinate al CSB narrativo. Allʼinizio questi “marceaux” erano stati 315

“signification estrêmement modeste” (31): “Or ces souvenirs ne créent rien; sans eux, la narrateur nʼaurait sans doute jamais eu conscience de cette essence extra-temporelle que la mémoire involontarie dégage dʼune sensation présente et dʼune sensation passée, mais cette essence nʼen est pas moins une verité qui concerne lʼhistoire des sensations de Marcel et ne contient en elle- même rien qui puisse inspirer un avenir. Lʼintérêt réel des essences liberées par les souvenirs involontaires est quʼelles rendent impossibile tuote formulation définitive du moi” (51) “Certes, la mémoire involontarie, dans la mesure où elle offre des preuves dʼʻun moi individuel, identique et permanentʼ, apaise la crainte de la discontinuité psychologique chez Marcel. Mais elle fait plus; elle démolit toute tentative de fixer le moi dans une totalité stable en montrant combien toute définition de soi-même est instable” (52). “Donc, lʼessence libérée par un souvenir involontarie est, dʼabord, personnelle: elle nʼest pas dans les choses, elle est dans les analogies ou les identités particulières que lʼappareil sensoriel de Marcel établit entre sensations. Il ne sʼagit pas non plus de lʼessence de la personnalité; il est plutôt question dʼune qualité de sensation commune à deux moments de sa vie. Enfin, les souvenirs involontarires de Marcel mettent en doute certaines façons habituelles de définir le passé; il suggèrent des nouvelles dispositions des divers éléments dans un épisode ou dans un cadre du passé. Ainsi ces souvenirs autorisent la notion dʼune personnalité jamais ʻfinieʼ, toujours ouverte – notion sous-jacente à une écriture constamment en train de recréer, dʼimproviser le moi” (53). “Être lʼartiste de sa propre vie suppose la possibilité de vivre selon certains styles au lieu de certaines obsessions – cʼest-à-dire la possibilité de se répéter dans une variété divertissante de paroles, de gestes, dʼactions” (65).

redatti nella prospettiva di un prologo ad una versione narrativa del SB (alla quale verosimilmente Proust pensava quando cominciò a riempire i cahier, nel 1908). Allʼinizio si trattava di evocare le ore vissute, prima e dopo lo spuntare del giorno, nellʼattesa di una conversazione mattutina “avec Maman” su Sainte-Beuve. Poi si sono aggiunti dei frammenti su dei ricordi subentrati nel corso di insonnie, in un tempo anteriore a quello di questa matinée. Allora Proust sembra essere scivolato verso “une utilisation nouvelle de cette matinée” che “si sostituisce à lʼutilisation qui lui avait dʼabord été assignée” (Maurice Bardèche, Marcel Proust romancier, Paris, 1971, I, p. 211): il Sainte-Beuve narrativo è abbandonato e quel che era destinato al suo prologo darà nascita allʼ“ouverture” di Swann. 316

5) Di nuovo il drame du coucher (e la non escalation e il souvenir)

Torniamo al “drame”: “Elles continuent // dans le champs la minute qui est terminée dans ma vie. Elles sont en dehors de moi la seule chose qui soit à la même profondeur que le passé qui est dans mon cœur. // Par là elles nʼont pas seulement pour moi la beauté de la nature, elles en ont lʼexistence vraiment réelle. Indépendante de notre caprice dʼaujourdʼhui, à laquelle il faut nous plier et qui ne se plie pas à nous” (XII, 207). Il profondo del cuore e il dehors – il fuori di me – sono due côté... Da qui la portata non “estetica” del ricordo... Esso rappresenta il passaggio tra i due côté... “[...]. On me dannerait des pays immenses où il nʼy aurait ni coquelicots, ni bleuets, ni pommiers, ni aubépines, // je nʼen voudrais pas, // je ne me sentirais pas dans la nature. Le Côté de Guermates a fixé à jamais de traits différents mais aussi nécessaires une autre partie de ce qui est pour moi lʼimage du bonheur. // Si // Je ne peux plus concevoir la nature sans aubépines, je ne peux plus non plus la concevoir sans rivière. Une des // rares // plaisirs que jʼespère encore goûter et qui fuyant toujours devant moi me redonnent pourtant par leurs signaux enchantés la force de continuer encore ma route, cʼest de retourner un jour // dîner // à ce petit restaurant sur la Vivette. Ce nʼest pas un restaurant sur une autre rivière que je voudrais, je voudrais partir à la même heure de la ville laborieuse, en cariole. Il me semble que cʼest // seulement // en replicant exactement le présent sur le passé, en faisant passer // exactement // le lignes dʼaujourdʼhui par tous le points dʼautrefois que je peux espérer une coïncidence parfaite et vraiment heureuse” (ibidem). Passato e presente = due côté di cui si è temuto che non comunicassero e invece comunicano... Il “viaggio” è viaggio da un côté allʼaltro... Saltiamo due pagine circa: “[...] Madame de Guermantes mʼa vu, sʼest informée de mon nom, elle sʼest repentie de sa raillerie. Elle mʼaimera, elle a voulu mʼenvoyer une dépêche, cʼest elle qui passe en ce moment, elle sera à Combray avant nous, voici ce quʼelle me dira [...]” (XII, 209). Mentre Mlle Gilbert lo ha fissato innamorata, Mme de Guermantes ha allontanato lo sguardo da lui (ha gettato verso di lui “un regard dédaigneux”, XII, 203)... 317

Il viaggio da un côté allʼaltro comporta il passaggio dallo sguardo “fixé” a quello “dédaigneux” e viceversa... Comporta la possibilità che, invece di arrivare noi in ritardo a casa e perdere, di conseguenza, il bacio di Maman, miracolo, miracolo!, sia Mme de Guermant che ci preceda (“elle sera à Combray avant nous”)!

5) Il punctum dolens

È a questo punto che più di un anno fa ho interrotto la lettura di Proust (e la scrittura su Proust). Chissà, forse perché esausto: avevo letto in media una decina e più di ore al giorno. Ma, forse, perché Leo Bersani, nel suo Déguisements du moi et art fragmentaire, mi aveva colpito al cuore. Un veloce richiamo: il ruolo cruciale dei ricordi involontari295 è legato alla loro “signification estrêmement modeste” (31): “Or ces souvenirs ne créent rien; sans eux, la narrateur nʼaurait sans doute jamais eu conscience de cette essence extra-temporelle que la mémoire involontarie dégage dʼune sensation présente et dʼune sensation passée, mais cette essence nʼen est pas moins une verité qui concerne lʼhistoire des sensations de Marcel et ne contient en elle-même rien qui puisse inspirer un avenir. Lʼintérêt réel des essences liberées par les souvenirs involontaires est quʼelles rendent impossibile tuote formulation définitive du moi” (51). E come potrebbe essere diversamente se allʼaccesso allʼintemporel è accesso allʼacategoriale?

295 Claudine Quémar in Sur deux versions anciennes des “côtés” de Combray (Cahiers Marcel Proust, 7. Études proustiennes II, Gallimard, Paris, 1975, pp. 217- 118) a proposito di Cahier I envers, f°s 71 V°-57 V° e CSB 61-73: si tratta di un “ensemble suivi assez complexe” perché Proust lʼha molto “remanié et augmenté”. Si tratta di una messa a punto a partire da esquisse diverse contenute nei primi cinque cahier e destinate al CSB narrativo. Allʼinizio questi “marceaux” erano stati redatti nella prospettiva di un prologo ad una versione narrativa del SB (alla quale verosimilmente Proust pensava quando cominciò a riempire i cahier, nel 1908). Allʼinizio si trattava di evocare le ore vissute, prima e dopo lo spuntare del giorno, nellʼattesa di una conversazione mattutina “avec Maman” su Sainte-Beuve. Poi si sono aggiunti dei frammenti su dei ricordi subentrati nel corso di insonnie, in un tempo anteriore a quello di questa matinée. Allora Proust sembra essere scivolato verso “une utilisation nouvelle de cette matinée” che “si sostituisce à lʼutilisation qui lui avait dʼabord été assignée” (Maurice Bardèche, Marcel Proust romancier, Paris, 1971, I, p. 211): il Sainte-Beuve narrativo è abbandonato e quel che era destinato al suo prologo darà nascita allʼ“ouverture” di Swann. 318

Di questo accesso si può – Proust può – descrivere la fenomenologia; ma, da un certo momento in poi, incomincia una terra incognita che incognita deve e non può non restare. Leggo nel bellissimo testo di Luc Fraisse (Lʼœuvre cathédrale, op. cit.) la parte dedicata ai “cloches” (pp. 154-188) e, in particolare, quella intitolata Le clochers et le temps retrouvé – Jouy-le-Vicompte vu du clocher. Fraisse considera il “clocher” di Combray “le principe ordonnateur du petit monde de lʼenfance. Comme plus généralement lʼéglise, le chocher sert au romancier de point dʼancrage” (168; il corsivo è dellʼautore)... Ecco, in questione è lʼesistenza di un principio ordinatore. Una possibilità è che questo principio ordinatore governi il percorso verso lʼinnefabile; e verso la pronuncia di questo ineffabile. E che qui si fermi, perché qui comincia, quasi fatiche di Sisifo, lʼopera non derisoriamente ma novellamente, sempre novellamente ripresa. Qui, forse, lo splendido perché, della Recherche, siano stati composti contemporaneamente lʼinizio e la fine. Sì, lo sappiamo, Proust difende la sua “costruzione”... Ed ha le sue buone ragioni per farlo. Ma la sua cosrruzione, quando approda, approda allʼin-costruibile; il fari lʼin-effabile (lʼin-volonario) produce una fuoriuscita dallʼin-effabile che solo al lettore si presenta come un fatum che schiude lʼin-effabile. Secondo quel circuito che la lettura di Kafka ci ha insegnato. Kafka dice lʼin-fanzia in modo straordinariamente categorizzato. Ma la lettura di Kafka, se non introduce nellʼin-effabile, non ha senso... almeno per noi. Interessante che sia Kafka che Proust abbiano cercato di far bruciare almeno una parte della loro opera. In compenso Proust sembra che sia stato attaccatissimo ai suoi manoscritti. Quasi nella speranza che una novella figlia pentita di Venteuil, in sede postuma, potesse interpretarli e dar loro la loro forma definitiva. Io penso che, soggiacente allʼincessante riscrittura della sua opera, ci sia, acuto, in Proust, il sentimento della sua interminabilità. Interminabilità non come difetto = incapacità di approdare, ma come senso profondo = è proprio lʼin-terminabile, il senza termine, che si può, forse, dire... E che Proust dice. Prendiamo Fraisse perché nel corso del suo tentativo di dimostrare il “compimento” dellʼopera (della cattedrale) fino alla perfezione, si imbatte in materiale che suggerisce anche lʼim- perfezione come potenzialità in-effabile. 319

Il “clocher” di Combray “sʼoffrira comme lʼélelement fixe qui permet de rattacher lʼunivers nouveau de cette fin de roman à lʼunivers ancien de Swann” (p. 169). “Element fixe”! “Rattacher”! Qui Fraisse cita dal cahier 73 (1915): “Et, comme les carnets où un chimiste de génie aurait tracé des découvertes qui auraient pu rester à jamais ignorées, elle [la figlia di Venteuil] avait exhumé de ces papiers épars et illisibles la formule de cette flamme écarlate, de cette joie inconnue, de cette mystique espérance de lʼange du matin, et des frêles cahiers retrouvés, des indications elliptiques à demi effacées, elle avait fait surgir, solide comme lʼairain des cloches de Combray et les pierres du clocher et de la place ruisselants de soleil comme je les apercevais de mon lit, la titubation de leurs volées et le débordement de leur joie” (C14, ES XIII, P, 1147). Sì, possiamo pensare che Proust, nonostante tutto, cercasse la “formula”. Ma il suo lascito è lʼassenza di formule. Secondo Fraisse, invece, “le clocher de lʼéglise Saint-Hilaire survient sous sa plume comme une chernière rattachant solidement au vieux fonds du roman les excroissances tardives” (169). Fraisse cita sia il carnet I: “Un clocher sʼil est insaisissable pendant des jours a plus de valeur quʼune théorie complète du monde” (CI, NV 474, TR, 1268) e la lettera a Bibesco del 19 aprile 1903: “comme en tout cas un clocher se suffit à soi-même” (CORR, III, 305); ma non ne conclude che lʼinafferrabilità supera la completezza, tuttʼaltro; secondo Fraisse queste riflessioni le ritroviamo in Du côté de chez Swann, a proposito della chiesa Saint- Hilaire: “Et sans doute, toute une partie de lʼéglise quʼon apercevait la distinguait de tout autre édifice, par une sorte de pensée qui lui était infuse, mais cʼétait dans son clocher quʼelle semblait prendre conscience dʼelle-même. Affirmer une existence individuelle, et responsabile. Cʼétait lui qui parlait pour elle” (SW, 64). Forse si può concludere: “le clocher semble donc livrer lʼessence même de tout travail de la mémoire sur le temps” (Fraisse, 172...) Ma il problema resta se lʼessenza sia o no racchiudibile in una formulazione “fixe”! Ma veniamo a Jouy-le-Vicomte. Fraisse: “[...] il sʼagit de reconnaître les symboles dans tous ces clochers qui ornent les paysages, tant citadins que champêtres, du roman proustien. En premier lieu chez Proust, le clocher semble devoir figurer surtout le regard particulier du créateur, le processus de la création rapporté au sens de la vue. Cʼest un écrivain au cœur 320

de la modernité qui fait prononcer à son curé de village lʼéloge des paysages fragmentés: ʻMais ce qui est incontestablement le plus curieux dans notre église, cʼest le point de vu quʼon a du clocher qui est grandiose [...]. Surtout on embrasse à la fois des choses quʼon ne peut voir habituellement que lʼune sans lʼautre, comme le cours de la Vivonne et les fossés de Saint-Assise-lès-Combray dont elle est séparée par un rideau de grands arbres, ou encore comme les différents canaux de Jouy-le-Vicomte. [...]. Chaque fois que je suis allé à Jouy-le-Vicomte, jʼai bien vu un bout de canal, puis quand jʼavais tourné une rue, jʼen voyais un autre, mais alors je ne voyais plus le précédent. Jʼavais beau les mettre ensemble par la pensée, cela ne me faisait pas un grand effet. Du clocher de Saint-Hilaire cʼest autre chose, cʼest tout un réseau où la localité est prise. Seulement on ne distingue pas dʼeau, on dirait de grandes fentes qui coupent si bien la ville en quartiers, quʼelle est comme une brioche dont les morceaux tiennent ensemble, mais son dèjà découpés. Il faudrait, pour bien faire, être à la fois dans le clocher de Saint-Hilaire et à Jouy-le-Vicomteʼ” (SW, 105-106). Ma come essere “à la fois” qui e là? Come avere lʼubiquità! Impossibile, lo sappiamo. E lo sa anche Proust: “on embrasse à la fois des choses quʼon ne peut voir habituellement que lʼune sans lʼautre”. E sappiamo la forza che ha, in Proust, lʼAbitudine, con la lettera maiuscola. È chiaro, la memoria “in-volontaria”, vulnera lʼabitudine. Ma, se va bene, non sostituire ad essa unʼaltra abitudine. La “toglie” hegelianamente, ma, non hegelianamente, “toglie in sposa” lʼaverla tolta. Fraisse, invece: “Le point de vue morcelé mais globale, que lʼon a du clocher sur Jouy-le-Vicomte, est la réplique inversée des fragments de clocher que lʼon aperçoit en parcourant le rues situées derrière lʼabside. La ressamblance entre ces deux perceptions contraires est le découpage en moraceau; la différence est que vu des rue et dʼen bas, le clocher nʼapparaît que moraceau par moraceau, quand vu du clocher, le village de Jouy-le-Vicomte sʼoffre comme une totalisation de morceaux” (174-175). Fermiamoci un momento solo per sottolineare questa “totalisation de morceaux”. Ma Proust non ha appena segnalato: “seulement on ne distingue pas dʼeau”? Non ha appena parlato di “grandes fentes”? Di una brioche “dont les morceaux tiennent ensemble, mais son dèjà découpés”? Da dove quella “totalisation”? 321

“On retire, de ce point de vue panoramique et morcelé, lʼimpression que la fragmentation chez Proust garde une valeur positive et même créatrice; cʼest pourquoi nous avons dégagé bien des significations esthetiques du thème de Jouy-le-Vicomte [...]. Clocher morcelé dans les rues, clocher morcelant le village: ne serait-ce pas la figuration successive du temps perdu et du temps retrouvé, régis par la même loi, mais à une échelle simplement différente? Ainsi, la même vie du héros, la même église construite par le narrateur, serair le temps perdu, parcourue dʼétape en étape, visitée chapelle après chapelle, puis le temps retrouvé, une fois aperçus tous les morceaux côté à côté, une fois dessiné le plan dʼensemble qui composent le temps perdu. Les parties composantes demeurent les mêmes, et pourtant apparaissent différemment, quand on en fait un parcours analytique, ou quand on en prend une vue syntétique. Celui qui aperçoit des fragments de clocher rue après rue, voilà le héros dans le temps perdu; celui qui réunit les moraceaux depuis le clocher, voilà le narrateur dans le temps retrouvé. Ainsi, le contrepoint de ces deux prises de vue, du clocher à partir des rues, du village à partir du clocher, juxtaposerait symboliquement et les étapes de la vocation et les voix narratives dans la Recherche” (p. 175). Teniamo conto che il finale del lavoro di Fraisse, che si concentra sulla “chiave di volta” – conclusione del capitolo “Voute” –, è al massimo aperto: “[...] la clé de voûte existe, cʼest une pierre angulaire, fondation instable et suspendue dans les airs; cʼest, à lʼimage dʼAlbertine, une insaisissable pierre de fuite” (op. cit., il corsivo è dellʼautore). In ogni caso, Luc Fraisse è forse lʼautore più convincente... Quasi convincente!296

296 Fraisse torna sullʼepisodio segnalando un divertente pendant – o contro-altare – in La fugitive nel soggiorno veneziano: “Ma gondole suivait les petits canaux; comme la main mystérieuse dʼun génie qui mʼaurait conduit dans les détours de cette ville dʼOrient, ils semblaient, au fur et à mesure que jʼavançais, me pratiquer un chemin creusé en plein cœur dʼun quartier quʼils divisaient en écartant à peine, dʼun mince sillon arbitrairement tracé, les hautes maisons aux petites fenêtres mauresques. [...]. On sentait quʼentre les peuvres demeures que le petit canal venait de séparer, et qui eussent sans cela formé un tout compact, aucune place nʼavait été réservée” (627). E commenta: “Le village vu des rues, cʼest la vision fragmentaire et analytique du temps perdu; aperçu du clocher, cʼest le panorma synthétique du temps retrouvé. Il nʼest pas étonnant quʼà Venise, le héros ne reproduise que la première moitié de lʼexpérience à Jouy-le-Vicomte, puisque La fugitive appartient à lʼétape centrale de la vocation, lʼâge des mots, âge positif où les croyances sont révolues, en attente des révélations finales. Venise vue du clocher, ce sera le souvenir transfiguré de la cité des doges, durant la dernière 322

In effetti, è proprio così: “Point dʼirradiation des épisodes, point au contraire de convergence pour le héros, le clocher entre aussi, très tôt et de plus en plus, grâce à ce rythme ample de diastyoles et de systoles, en dialogue avec tout le roman; tout reflue du clocher, et tout afflue vers lui. En sorte que tout dans la Recherche – mais on le comprend très tard – porrait répondre à ce titre de comédie cité par Proust en 1917: Course au clocher” (Fraisse, 188, cita da una lettera a Lionel Hausser del 1 luglio 119117, CORR, XVI, 177). Incoraggiamo il lettore a meditare tutte le pagine su “cloches” e “clocher”. Ma ritorniamo al Carnet de 1908: “Ce qui se présente ainsi obscurément au fond de la conscience, avant de le réaliser en œuvre, avant de le faire sortir du de hors, il faut lui faire traverser une région intermédiaire entre notre moi obscure, et lʼextérieur, notre intelligence, mais comment lʼammener jusquʼlà, comment le saisir? On peut rester des heures à tacher de se répeter lʼimpression première, le signe insaisissable qui était sur elle et qui disait: approfondis-moi, sans sʼen approcher, sans le faire venir à soi. Et pourtanti cʼest tout lʼart, cʼest le seul art. Seul mérite dʼêtre exprimé ce qui est appartenu dans les profondeurs et habituellement sauf dans lʼillumimation dʼun éclair, ou par des temps exceptionellement clairs, animants, ces profondeurs sont obscure. Cette profondeur, cette inaccessibilité pour nous-même est la seule marque de la valeur – ainsi peut-être quʼune certaine joie. Peu importe de quoi il sagit. Un clocher sʼil est insaisissable pendant des jours a plus de valeur quʼune théorie complète du monde” (102). “Habituellement sauf dans lʼillumimation dʼun éclair”. Di nuovo lʼabitudine. Che insegna (historia magistra vitae!) che lʼilluminazione avviene in un “éclair”. Ci ritroviamo con la “tache non facile” di trascinare nel categoriale “le bloc obscur, non defini” (il non categoriale) del sonno.

7) Heures conservées dans la mémoire, enserrées dans la mémoire en vue de ce beau sacrifice

La lettura combinata di Girard e di Kafka mi ha condotto alla seguente conclusione: il sacrificio, nel caso dell’e-ducazione, è sacrificio dell’ac-ategoriale a favore delle categorie. Nell’attacco matinée du roman. Cette vision synthétique, les quartiers du vitrail sertis dans les plombs la préfiguraient secrètement, dès la première description de lʼéglise à Combray” (op. cit., p. 524). 323

psicotico, è sacrificio delle categorie in favore dell’acategoriale. Problema: come compiere questi due sacrifici, che sono inevitabili, in modo che l’educazione non estirpi l’in-fanzia (trasformandola in in-effabile/in-effato) e che la crisi psicotica non estirpi la parola (soprattutto, non la trasformi in delirio, in fatum delirante)? Sappiamo che il sacrificio è figura centrale in Girard. Lo è anche in Kafka. Ad ogni piè sospinto abbiamo incontrato l’Opfer. Nel Cahier 57, del 1911, anche Proust ci parla, ripetutamente di questo sacrificio. In che cosa esso consiste? Citiamo due passi di un brano che riportiamo per intero in nota: “[...] heures conservées dans la mémoire, enserrées dans la mémoire en vue de ce beau sacrifice et d’où nous les tirerions [...] pour offrir à une idée la forme d’ < une > épithète, entre les journées d’autrefois qui sont restées particulièrement belles qui sont dans notre souvenir. Une fin d’après-midi lumineuse dans une église de campagne devientrait un adjectif, une promenade l’hiver en forêt en donnerait peut-être une autre, afin du sacrifice de tous ces beaux jours d’autrefois de tirer une goutte de parfum. Quant à ces minutes 297 de particulière”. Sembra evidente; dalla realtà categorizzata viene distillato un epiteto, un aggettivo che sostituiscono, nella celebrazione di un vero e proprio sacrificio, quella realtà. Ma l’epiteto, l’aggettivo, sono già una nuova realtà categorizzata. Sono l’opera di Proust. Blanchot ci ha spesso spiegato perché e come la scrittura

297 Cahier 57, Esquisse, XXIV, in Le temps retrouvé, a cura di Tadié, Gallimard, Parigi, 1989, p. 827: “Cette vérité, de la plus poétique à celle qui n’est que psychologique, il faudrait que ce qui l’exprime – langage, personnage, action – fût en quelque sorte entièrement choisi et créé par elle, de façon à lui ressembler entièrement, à ce qu’aucune parole étrangère ne la dénaturât. Je n’aurais voulu, si j’avais été un écrivain, n’y employer comme matière que ce qui dans ma vie m’avait donné la sensation de la réalité et non du mensonge. Pour le vêtement des plus poétiques il serait fait comme les robes d’aurore etc., comme entre les robes couleur du temps de la substance transperente des heures les plus belles, dont nous avons gardé le souvenir, de < telle > matinée d’automne, de telle fin d’après-midi d’été où une chose nous apparut, < où > nous vîmes tout d’un coup engendrées par elles deux, une réalité poétique et complète, moment vraiment musicaux, heures conservées dans la mémoire, enserrées dans la mémoire en vue de ce beau sacrifice et d’où nous les tirerions pour fournir – parfois plusieurs seraient nécessaires – vérifier pou cela – pour offrir à une idée la forme d’ < une > épithète, entre les journées d’autrefois qui sont restées particulièrement belles qui sont dans notre souvenir. Une fin d’après-midi lumineuse dans une église de campagne devientrait un adjectif, une promenade l’hiver en forêt en donnerait peut-être une autre, afin du sacrifice de tous ces beaux jours d’autrefois de tirer une goutte de parfum. Quant à ces minutes de particulière allégresse où nous sentîmes tout d’un coup en une chose les qualités, l’essence incarnée d’une autre, elles nous fourniraient ce qui en est l’équivalent dans le langage, une métaphore”. 324

uccida; anche se per far vivere... La cosa non è molto semplice. Si tratta, come pensiamo faccia Kafka, di rimanere sulla soglia, tra ca- categoriale e categoriale. E, in sortite avventurose, di a-categorizzare il già categorizzato, e categorizzare le deiecta membra “novellamente” (da “buona novella”)... e così di seguito... L’adjectif nel quale una chiesa perirà e risorgerà, sarà l’epiteto “momentané”. In un passo del Cahier 28 Proust dà il seguente esempio pratico d’impressionismo letterario: “quand dans un tableau de Turner représentant un monument pour parler de l’importance de 298 l’effet de lumière je dis que le monument apparaît momentané”. 290 Così, l’eroe osserva nella chiesa Saint-Hilaire “un sourire momentané de soleil”, o ancora, “des flocons [...] plutôt posés là momentanément par une lueur du dehors prête à s’évanuir que par de coulers à 299 jamais attachées à la pierre”: il narratore, tout à coup, colloca il monumento di Combray nella luce provvisoria e cangevole d’una prospettiva impressionistica (e questa “sacrifica” la realtà del monumento). A proposito di “sacrificio” ricordiamo due passi di La parte dei Guermantes dedicate alla Berma, illusioni e delusioni e ri-illusioni: “E non fu senza malinconia che constatai in me tanta indifferenza per qualcosa cui, un tempo, avevo sacrificato la salute, il riposo (in francese: à ce que jadis jʼavais préféré à la santé, au repos). Non che il mio desiderio di poter contemplare da vicino le preziose molecole di realtà intraviste con lʼimmaginazione fosse meno appassionato dʼallora. Ma lʼimmaginazione non le situava più, ora, nello stile di una grande attrice; a partire dalle mie visite a Elstir, era su certi arazzi, su certi quadri moderni che avevo trasferito (reporté) la fede interiore nutrita un tempo per la recitazione, per lʼarte tragica della Berma; dal momento che la mia fede, il mio desiderio non tributavano più alla dizione e ai gesti della Berma un culto incessante (un culte incessant), il ʻdoppioʼ di essi chʼio serbavo nel cuore era a poco a poco deperito (avait dépéri peu à peu), come quei ʻdoppiʼ dei trapassati (des trépassés) dellʼantico Egitto che bisognava nutrire di continuo per mantenerli in vita. Lʼarte della Berma era diventata gracile e pietosa. Non era più abitata da unʼanima profonda. [...]. la ʻScena della Dichiarazioneʼ, la Brema vivevano allora, ai miei occhi, di una sorta dʼesistenza assoluta (une sorte dʼexistence absolue). Avulse dal mondo dellʼesperienza corrente, esistevano in sé e per sé, toccava a me avvicinarle per penetrarne quel che avessi potuto e

298 Cahier 28, Esquisse XXIV, in Le temps retrouvé, op. cit., p. 1407, nota a p. 818, p. 1407. 299 Du côté de Chez Swann, Gallimard, Parigi, 1987, p. 60. 325

certo, pur spalancando gli occhi e lʼanima, non ne avrei assorbito che una minima parte. Ma come mi sembrava piacevole, la vita! Che poi quella chʼio stesso conducevo fosse insignificante, non aveva importanza, non più dei momenti in cui ci si veste, ci si prepara per uscire, perché al di là di essa esistevano in assoluto, avvicinabili solo con difficoltà, irriducibile a un possesso totale, quelle realtà più concrete; Phèdre, lo stile della Berma. [...]. Cʼera stato un momento in cui, malato, avrei avvertito la necessità di andare a sentire la Berma quandʼanche avessi creduto di dover morire (même si jʼavais cru en murir). [...]. Ne provavo [della perdita dellʼassoluto] uno scoramento tanto più profondo in quanto, se lʼoggetto del mio ostinato e attivo desiderio non esisteva più (nʼexistait plus). persistevano in compenso le medesime disposizioni a una qualche elaborazione fantastica che, pur mutando dʼanno in anno, sfociava in un impulso violento e incurante del rischio (une pulsion brusque, insoucieuse du danger). Quella sera in cui, pur sentendomi male (malade), partivo per andare a vedere in un castello un quadro di Elstir o un arazzo gotico, assomigliava talmente al giorno in cui sarei dovuto partire per Venezia, o ero andato ad ascoltare la Berma, o ero partito per Balbec, da farmi presentire come lʼoggetto attuale del mio sacrificio (lʼobjet présent de mon sacrifice) mʼavrebbe lasciato, di lì a poco, indifferente, e come avrei potuto, allora, passargli vicinissimo senza degnare dʼunʼocchiata quel quadro o quellʼarazzo per i quali avrei affrontato adesso tante notti insonni, tante crisi dolorose. Dallʼinstabilità del suo oggetto misuravo la vanità del mio sforzo (la vanité de mon effort) e, nello stesso tempo, la sia incredibile enormità, come quei nevrastenici la cui stanchezza raddoppia se gli si fa notare che soni stanchi. Nellʼattesa, il mio fantasticare rendeva prestigioso tutto ciò che ad esso potesse ricollegarsi. E persino nei più carnali fra i miei desideri, sempre orientati in una certa direzione, concentrati attorno alla medesima fantasia (autour dʼun même rêve), avrei potuto individuare il motore primo in unʼidea, unʼidea cui avrei sacrificato la vita (à laquelle jʼaurai sacrifié ma vie) e al centro della quale, come nei sogni ad occhi aperti che facevo a Combray, in giardino, durante i miei pomeriggi di lettura, si collocava il concetto di perfezione (lʼidée de perfection) (P, 36-37, 44-46; 38-39, 49-50). Per punti: – è evidente, insistito, il tema del sacrificio; che diventa addirittura “sacrifico della vita”. – Il “même si jʼavais cru en murir” richiama “sino al punto di” in Jalousie: “terribile bisogno di un altro essere che, a Combray, avevo imparato a conoscere con mia madre, e sino al punto di 326

voler morire (jusqʼà vouloir mourir) se mi faceva dire da Françoise che non sarebbe potuta salire” (J, 193; 141). Qui si tratta di Albertine che ricorda la madre. Entrambe le esperienze di abbandono, a questo punto, si ripetono nella delusione- abbandono della Berma etc. – Infatti, il brano che abbiamo citato termina col ricordo dei “sogni ad occhi aperti che facevo a Combray”... – La pulsion brusque, insoucieuse du danger = lʼobjet présent de mon sacrifice... fanno capo a un desiderio che, ad un certo punto non esiste più: nʼexistait plus. – In questione è proprio il “concetto di perfezione”! – Perfezione in generale; perfezione dei rapporti con lʼarte, con la madre... con tutto. – La nostra idea è che Proust abbia scoperto che questa perfezione non si dà come modello perseguibile (non a caso parlerà di “idolatria”: dellʼarte, ma anche della madre, di Albertine... – Si dà solo come éclair. Come non ricordare, a questo punto, il “coup de sonnette” mancato che segna lʼaddio di Albertine insieme col viaggio per Venezia: “Suonai (je sonnai) per Françoise perché andasse a comprarmi una guida e un orario ferroviario, come avevo fatto da bambino (enfant) quando avevo voluto preparare, già allora, un viaggio a Venezia, attuazione dʼun desiderio violento (réalisation dʼun désir aussi violent) quanto quello che preparavo ora; dimenticavo che, dopo, ce nʼera pur stato uno che avevo realizzato senza alcun piacere (sans aucun plaisir), quello di Balbec, e che Venezia, essendo anchʼessa un fenomeno visibile, non avrebbe probabilmente potuto, non più di Balbec, realizzare un sogno ineffabile (un rêve ineffable) – il tempo gotico attualizzato in un mare primaverile (celui du temps gothique, actualisé dʼun mer printanière) – che veniva istante dopo istante (dʼinstant en instant) a sfiorare la mia mente con unʼimmagine incantata, carezzevole, inafferrabile, misteriosa e confusa (dʼune image enchantée, caressante, insaisissable, mystérieuse et confuse), Françoise, che aveva sentito la mia scampanellato (mon coup de sonnette), entrò [...]” P, 414; 837). Ecco come viene definito anche definito lʼextra-temps: temps gothique. Nel suo Lʼœuvre cathédrale (op. cit. pp. 277 sgg.), Fraisse dimostra che il “gotico” è il soubassement à lʼessor di tutta la ricerca... Il “gotico” è consustanziale alla creazione dellʼuniverso di Combray etc. Nel Chaier 12 (del 1909) la parola “gotico” non è anora 327

presente. Si parla della Maison des Archers “dont lʼun [des lilas en fleurs] depassait le toit de sa flèche rose comme dun minaret peint, les autres entremêlaint en jouant au-dessus du pignon les joyeuses fusées de leurs fleurs mauves et blanches” (C 12, ESLIV, SW 814). Nel cahier 14 (del 1910) lʼedificio del parco riappare inalterato: “Au milieu de ces lilas était un étroit pavillon de vieilles tuiles au pignon saillant quʼon appellait la maison des archers (C 14; ESLIX, SW 857). Insomma, freccia, minareto, fuso, saliente... tracciano un tempo – quello gotico, ancora prima che il gotico si instauri (a Combray) – chʼè perpendicolare e non verticale. Come lʼEclair” Il senso verticale del temps gothique, anche se venato dʼuna nostalgia che allʼapparizione (allʼepifania) associa ancora, ma volontariamente, il souvenir del passato, lo troviamo in una splendida pagina del Du côté de chez Swann: “Anche quando [a Combray] si andava a fare acquisti dietro la chiesa, da dove era impossibile vederlo (là où on ne la voyait pas), tutto sembrava regolato in rapporto al campanile (tout semblait ordonné par rapport au clocher) che spuntava ogni tanto tra le case (surgi ici ou là entre les maisons), ancor più commovente, forse, quando appariva così, solo, senza la chiesa (ainsi sans lʼéglise). [...]. Non dimenticherò mai, in una curiosa città della Normandia non lontana da Balbec, due incantevoli palazzi del XVIII secolo, che mi sono per molti aspetti cari e venerabili e in mezzo ai quali, guardando dal bel giardino che dalle scalinate scende verso il fiume, la guglia gotica (la flèche gothique) dʼuna chiesa chʼessi nascondono (quʼils cachent) si slancia quasi a completare, a sormontare le loro facciate (sʼélance, ayant lʼair de terminer, de surmonter leurs façades), ma in una maniera così diversa (mais dʼune manière si différente), così preziosa e anellata, scintillante, rosea, che si vede benissimo che non appartiene a loro (quʼelle nʼen fait pas plus partie) più di quanto la cuspide (flèche) cremata e porporina dʼuna conchiglia rastremata a torretta e candita di smalto non appartenga ai due sassi gemelli tra i quali, sulla spiaggia, si trova prigioniera. [...]. ecco che nessuna [delle piccole incisioni] tiene sotto il suo dominio una parte intera di quelle apparizioni (comme fait le souvenir) del campanile di Combray nelle stradine dietro la chiesa. Lo si vedesse alle cinque [...] rialzare bruscamente (surélevant brusquement) con la sua punta isolata (dʼune cime isolée) la linea degli apici dei tetti; [...] o, stando in riva alla Vivonne, lʼabside, muscolosamente raccolta e rialzata alla prospettiva, desse lʼimpressione di balzar fuori (semblât jaillir) dallo sforzo che faceva il campanile di lanciare la sua cuspide nel cuore 328

del cielo (de lʼeffort que le clocher faisait pour lancer sa flèche au cœur du ciel); era sempre a lui che bisognava tornare, era sempre lui a dominare tutto, coronando le case con un pinnacolo inatteso (dʼun pinacle inattandu) che sʼelevava davanti ai miei occhi come il dito di Dio (le doigt de Dieu), nascosto col corpo dentro la folla degli umani che per questo io potessi confonderlo con loro. [...]. E anche oggi, se in una grande città di provincia o in un quartiere di Parigi che non conosco bene un passante che mi ha ʻmesso sulla stradaʼ mi mostra là in fondo, come punto di riferimento, una torretta dʼospedale o un campanile di convento che fa capolino con la sommità del suo zucchetto ecclesiastico allʼangolo della via in cui dovrò inoltrarmi, basta che la mia memoria riesca oscuramente a trovargli qualche tenue somiglianza con lʼamata e scomparsa fisionomia perché il passante, se si volta per assicurarsi che non mi stia smarrendo, possa vedermi, con sua grande sorpresa, restare là per delle ore, immobile, davanti al campanile, dimentico della passeggiata intrapresa o della commissione da fare, cercando di ricordare, sentendo in fondo a me stesso rassodarsi, riassestarsi le terre riconquistate allʼoblio; e allora, certo, e più ansiosamente di quando, poco fa, lo pregavo di indicarmela, io cerco la strada, svolto in una via... ma... soltanto nel mio cuore (mais... cʼest dans mon cœur)” (SW, 65-67; 80-82). Tornando, infine, alla “rimozione originaria”, essa indica la rottura dello “scudo”... Equipollente ad essa è la “censura” nel “lavoro onirico”. L’“elaborazione secondaria”, secondo Freud, è responsabile dellamodificazione sostanziale del significato del sogno. Il sogno 300 “interpreta (deute)” i bisogni del dormiente (ad esempio gli “stimoli” notturni); l’interpretazione (Deutung) del sogno è, dunque, un’interpretazione dell’interpretazione... L’addormentarsi implica l’ingresso in un universo non governato dalle categorie (spazio-temporali). Il risvegliarsi è, invece, risvegliarsi alle categorie. Da qui la dimenticanza, la rimozione, la censura. Si tratta di due universi tra loro incompatibili. Il sonno (la notte) comporta, quindi, la distruzione dei “discorsi” del giorno; di essi, infatti, nel “racconto” del sogno non ci saranno altro che “resti”...

8) “Il me semblait que j’étais moi-mëme ce dont parlait l’ouvrage: une église” (SW, 3)

300 Die Traumdeutung, 1900, in Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt, vol II/III, p. 227; tr. it. L’interpretazione dei sogni, in Opere, Boringhieri, Torino, 1966, p. 208. 329

Luc Fraisse, in L’œuvre cathédrale, lavora molto sulla figura 301 della “chiesa”. Da essa Proust parte (vedi la prima pagina di SW citata nel titolo di questo paragrafo); con essa termina nel TR. Secondo Fraisse la chiesa di Saint-Hilaire era, fin dall’epoca di Combray, una prefigurazione completa dell’ultima matinée: “voilà pourquoi une église se reforme das l’ultime apparition des personnages, dans l’ultime scène du cicle romanesque”. Fraisse cita una lettera di Proust a Hubert del 1895 in cui dice di Mme Lemaire “me tenant ainsi depuis quatre ans sur les fonts baptismaus des lettres” (CORR, I, 455) e commenta: “Les fonts baptismaux se trouvent, comme on sait, généralement à l’entrée de l’église: la topographie du monument évoque donc déjà ici à l’itineraire de la vocation. Arrêté sur le seuil de l’église, le visitaur se 302 voit entrer en leittérature”. Il problema è: “Che cos’è la letteratura?” In ogni caso Swann parte dal sogno (“[...] il me semblait que j’étais moi-même ce dont parlait l’ouvrage: une église”) e il Tempo ritrovato nel sogno finisce. Nell’immateriale, dove scocca “lampo” dell’eterno, del tempo allo stato puro. Cahier 51, 1909, primo abbozzo del “Bal de tête”: “Mais il avait fait tout cela pendant que je n’existais pas encore”! Sì, tutta l’esistenza è stata una non-esistenza. L’esistenza comincia con la scoperta della quarta dimensione, quella del tempo; e questa scoperta coincide con quella della propria morte. Dell’immateriale, extratemporale. Dal Cahier 51: “Tout commence à pâlir, à diminuer, un jour tout s’éteindra. Certes j’avais déjà vu les travaux visibles de l’ouvrier invisible et présent, toute la mâle œuvre de l’Enchantuer quand je regardais le marbre boursouflé et les tapisseries fondues dans l’église de Combray. Mais il avait fait tout cela pendant que je n’existais pas encore. Tandis que les fils blancs qu’il a mêlé das la barbiche noire de M. Froideaux, la poudre de clair de lune dont il a saupoudré la barbe de M. de Taines, l’imperceptible petit rayonnage autour des sourcils devenus fournis das le coin des yeux comme ridés, dans le bas de la bouche devenue d’un homme dont il a desséché la figure enfantine du petit Bétourné, tout cela, toute cette végétation féérique qu’il a fait pousser sure les hôtes irréel du palais de contes de fées, qui ont l’air de sortir d’un songe dony ils n’ont pas conscience, et d’avoir travesti de quelque tissu immatériel et

301 Vedi op. cit., pp. 208-272. 302 Op. cit., p. 269. 330

enchanté, quelque chose comme une étoffe de clair de lune ou d’argent, tout cela me semble que c’esy à mes dépences que cela s’est fait, et que c’est dans ma force et ma puissance de vie, que l’Enchanteur est venu chercher ses poudres colorées et son fil. Et pourtant elle est bien jolie son œuvre; je n’aurais jamais pu croire qu’on aurait pu ajouter la figure du petit Bétourné un charme de songe. Et pourtant il a l’air d’un chevalier de conte car ce sérieux, cette gravité, on sent qu’il les a rapportés d’une chevauchée dans l’immatériel, dans le temps, pendant que l’Enchanteur avait d’autre jeux et cherchait à faire saillir une statue de Mme de Forcheville dans le corps de sa fille qui déforme tout son corps, le rend énorme. Et elle aussi ses cheveux comme les fils de la tapisserie, comme la filigrane du vitrail de Combray étincellent de l’argent de leur assise, d’un argent poétique aussi et naturel. Mon dieu voilà donc Mme de Villeparisis, je savais bien que la pauvre femme avait été à deux pas de la tombe, avait falli y tomber, mais je vois qu’elle n’a pu se relever tout à fait, elle reste projetée en avant, cassée en deux, prête à tomber” (C 51, EX XLI, TR, 875-876).

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