NUMERO 279 in edizione telematica 10 aprile 2020 DIRETTORE: GIORS ONETO e.mail: [email protected]

il dolore di una scomparsa Nei miei pensieri c'è una gara che ancora non ho completamente digerito, la finale dei Giochi di Los Angeles del 1984. In quell'occasione, se avessi giocato con più accortezza le mie carte, la vita per il vincitore, , sarebbe stata più difficile. Ecco, voglio riprendermi dagli infortuni e avere occasione di giocarmi un'altra partita con i grandi campioni di quella finale olimpica: sono certo che stavolta sarei più avveduto strategicamente. Le riflessioni che precedono, pronunciate in occasione di un'intervista che rilasciò nel percorso intermedio tra l'Olimpiade del 1984 e quella successiva di Seul, e a commento di una storica finale che pure lo vide, ma con più di un rimpianto, quinto al traguardo, aprono il ricordo commosso per la sua scomparsa, caduta dolorosamente a Potenza, la sua città, appena cinquantasettenne, proprio nelle ore in cui, dopo aver perso il padre e con la madre ricoverata, sembrava che giovane età ed efficienza di costituzione lo avessero definitivamente protetto dagli assalti finali del Covid 19. Emerso fin dalle prime avventure agonistiche nelle Gymnasiadi e nei Giochi della Gioventù, sospinto da una corsa d'eccezionale levità, destinato ad iscrivere il proprio nome tra i massimi esponenti del mezzofondo veloce mondiale nell'intero arco degli anni Ottanta, Sabia visse dunque il suo giorno di grazia sulla pista di Los Angeles in una finale che vide sul traguardo, uno dietro l'altro, in testa il fuoriclasse brasiliano con il primato olimpico dinanzi a , il gotha della specialità del tempo. Nella stessa stagione, pupillo preferito di Carlo Vittori, dopo aver vinto il titolo continentale indoor sugli 800 allo Scandinavium di Göteborg e dopo aver firmato in maggio, a Busto Arsizio, in 60"08, la migliore prestazione mondiale sui 500 metri, nel mese di giugno, a Firenze, lasciandosi alle spalle , Sabia s'era in pratica affiancato al primato di con un sorprendente 1'43"88, scoprendo quindi le carte relativamente alle proprie possibilità sulla via di Los Angeles, avendo poi, nell'imminenza dei Giochi, nella preolimpica organizzata il 30 luglio a San Diego, conferma d'un formidabile stato di forma con la realizzazione della migliore prestazione italiana sui 600 metri. Dopo la finale californiana, nel successivo quadriennio furono più gli infortuni che le possibilità di affermazione a prevalere sulle aspirazioni del fuoriclasse lucano. Ma a Seul, malgrado le disavventure fisiche, la classe era intatta, e Sabia, pur debilitato,pure con ogni probabilità intimamente soddisfatto di aver centrato la seconda finale olimpica – risultato mai conseguito, né prima né dopo, da un italiano nel mezzofondo veloce, condiviso da nel settore femminile – non andò oltre il settimo posto al traguardo di una gara rimasta anch'essa nella storia per l'affermazione strepitosa di dinanzi a Joaquim Cruz e a Said Aouita. Alla vigilia di quei Giochi, sul prato dell'Arena milanese aperta ai Campionati Assoluti, in un periodo di grande sofferenza dell'atletica italiana e di debolezza politica di Primo Nebiolo, alla testa dei compagni Sabia aveva guidato la rivolta degli azzurri della staffetta 4x400 avverso l'esclusione olimpica personalmente dettata dal presidente del Coni Arrigo Gattai. Quella di Seul fu l'ultima apparizione internazionale dell'atleta lucano, sicuramente in anticipo rispetto alla giovane età. Nella stagione successiva, insieme con il completamento di diciassette presenze in maglia azzurra, con l'affermazione ai campionati nazionali indoor, portando a sei la somma dei titoli italiani conquistati, Donato Sabia lasciò il segno definitivo di una classe cristallina e di un potenziale smisurato, né patendo ostracismi federali né, tantomeno, ergendosi ad eroe di un antidoping che per altri sarebbe stato funzionale a spudorate prebende.

SPIRIDON/2

Mondiali a rimorchio dello spostamento olimpico

Atletica ferma. Come tutto lo sport, come un bel pezzo di mondo. Come la stampa sportiva costretta ad arrabattarsi con fantasmagorici e irreali scenari di mercato del calcio, con anniversari a profusione, con celebrazioni (Brignone, Wierer) che ci hanno un po’ saturato, baloccandosi su non irresistibili interrogativi sul futuro di campioni vicini alla quarantina come Valentino Rossi o Zlatan Ibrahimovic. Con la polizia che blocca chi si reca dal giornalaio, considerata “attività non necessaria” con grande scorno per i pochi editori impuri del comparto (Elkann, Cairo, Caltagirone). Un mondo fermo, immobile che vive di passato, che non si può concentrare su un presente immobile e sogna il futuro. Disegnando scenari, pianificando date. Ha fatto per bene il CIO che non ha dovuto attendere segnali ulteriore sull’espansione del Coronavirus per ratificare le nuove date dei Giochi di Tokyo (23 luglio-8 agosto 2021). Rien ne va plus. E a chi ricorda che il paragone con la guerra per l’attuale emergenza è inconsistente, lo spostamento olimpico sembra fatto apposta per evocare il precedente della seconda guerra mondiale, con uno spostamento ancora più macroscopico, di quadrienni addirittura. A trascinamento anche l’atletica si adegua alla priorità olimpica e fa traslocare i suoi mondiali dalle originarie date del 6-15 agosto 2021 al 15-24 luglio 2022 in Oregon. Il posizionamento rinnovato non è stato semplice perché ha dovuto fare i conti con altri due grandi eventi globali previsti nel 2022: i Giochi del Commonweath (equivalenti a un campionato continentale, di prestigio pari ai nostri Europei) e i campionati multi sport a Montreal. Piccola rivoluzione anche per quanto riguarda il periodo di qualificazione olimpica. Ora per le gare in pista (esclusi 10.000 e gare multiple) la qualificazione dovrà essere ottenuta con prestazioni ottenute tra il 1° dicembre 2020 e il 29 giugno 2021. Con il raggiungimento dei minimi previsti o con risultati validi per l’inserimento nel word ranking di specialità (doppia possibilità). Ma comunque restano validi per l’ammissione i risultati ottenuti tra il 30 giugno 2019 e il 5 aprile 2020. Questo statu quo finisce col disegnare una sorta di scenario poco realistico. Perché potrà essere ammesso ai Giochi un atleta che ha ottenuto il minimo anche 25 mesi prima dell’evento. Ma è chiaro che si sono voluti difendere i diritti acquisiti, con qualche soddisfazione e gratificazione anche sulla sponda italiana. Nel patrio recinto il coronavirus ha sterminato un bel pezzo della famiglia Sabia. Si sono già pubblicate e lette sincere commemorazioni dell’atleta e dell’uomo. Se c’era un ex ragazzo che poteva incarnare il volto dell’atletica pulita, senza fronzoli, senza alterigia e senza polemiche questi era il lucano che non aveva trasformato in alcun modo la notorietà dovuta a una doppia finale olimpica sugli 800. Aveva scelto di rimanere in Lucania, dopo una breve parentesi a Malta, perché era radicato alla sua terra con passione e semplicità. Una carriera spezzata troppo breve ma contrassegnata da un talento naturale, dalla doverosa applicazione ma anche dal dolore perché i tendini me hanno bloccato l’evoluzione e quando è diventato insopportabile l’unica soluzione possibile è stato il ritiro. Quando si parla di anziani a rischio si pensa che Sabia (57 anni) non poteva rientrare nell’elenco. Il coronavirus non fa distinguo di classe, di età, non divide sportivi e non sportivi. Un virus democratico ma terribile che ci costringe a fare i conti con la nostra storia e ad immaginarci diversi con uno sforzo che potrebbe valere un salto di qualità, una palingenesi universale. Ma non vorremo sognare troppo. La realtà rischia di rivelarsi più prosaica. Come le meste file al supermercato di questi giorni, quasi ad esorcizzare una Pasqua troppo strana per essere vera. DANIELE POTO

Questo è l'articolo che non avremmo voluto scrivere Sì proprio quello. Perché in fondo, per quanto non esente da ombre e zone buie come tutte le opere dell'uomo, lo sport è un po' il nostro mondo dei balocchi. Quello spazio che ci sembrava preservato, cinto da mura salde e protetto da logiche corrotte, almeno in gran parte. Nello sport ci si può accapigliare fra tifosi, ci si può appassionare alle gesta dei campioni come fossero quelle degli eroi dell'Iliade. Nello sport si ferma tutto perché c'è la finale dei 100 metri! E invece no, non si è fermato un bel niente! Al momento buono, quando era il momento di fermarsi, proprio lo sport si è trascinato senza dignità, per strappare fino all'ultimo centesimo, di euro, non del cronometro! Mi riferisco ovviamente alla triste figura che il mondo sportivo ha fatto in occasione dell'emergenza del Coronavirus. Il calcio, che muove masse di persone in tutto il mondo ha cercato fino all'ultimo di ignorare il pericolo e i morti per soldi sì nient'altro che per soldi! Quando invece doveva dare fra i primi il buon esempio! E lo spirito olimpico? Sepolto sulla via del sol Levante...che vergogna! Per fare tacere i fischietti abbiamo dovuto aspettare che le sirene delle ambulanze li coprissero. Mi auguro che dalle ceneri di questo mondo, diventato forse troppo di cartone, e quindi facilmente infiammabile, risorga qualcosa di più solido, qualcosa che davvero ai rianimi di spirito sportivo. SERENA TAJE’

SPIRIDON / 3

fuori tema

Un confessabile tentativo di sottrarci alla gravezza dei tempi in ricordo di un'antica pagina di sport, di un cavallo, della sua vita e della sua morte. Per tre stagioni, dal 1954 al 1956, Ribot ispirò in Italia la fantasia del prossimo,imponendo il proprio nome al livello degli atleti, dei calciatori, dei ciclisti più celebrati con la rarità delle sue affermazioni e l'esotismo di una disciplina tra le meno popolari. Da anni, oltre Oceano, una lapide grigia a indicarne l'identità su quanto resta del cuore, della testa, dei testicoli e degli zoccoli,vale come segno dell'esistenza del purosangue che morì, ventenne, per la prosaicità di una colica. Quando era stato presentato a Tesio, una vita intera dedicata all'allevamento e al mondo del galoppo con un elenco sterminato di successi delle giubbe bianche e croce rossa di S. Andrea, il proprietario era stato drastico, <<è brutto!>>. Conoscitore, come pochi, insieme con l'indimenticato Mario Fossati, del mondo del cavallo, Luigi Gianoli non scommise un soldo sul suo futuro: <>. L'autocrate, l'intrattabile Federico Tesio non ebbe tempo per ravvedersi, morendo due mesi prima dell'esordio del suo purosangue a San Siro, il 4 luglio 1954, inizio di un'avventura che avrebbe portato il figlio dal carattere bizzarro di Tenerani e di Romanella a chiudere imbattuto la carriera, sedici corse su sedici in Italia, Francia ed Inghilterra. Ultima, ottobre 1956, per la seconda volta, l'Arc de Triomphe a Longchamp, quella che costrinse un quotidiano parigino a fissarne definitivamente la statura: <<84.700 appassionati e il vostro cronista hanno avuto ieri, alle 16.47, la fortuna, unica, di vedere in azione la più formidabile macchina da galoppo mai apparsa su un ippodromo: Ribot, l'italiano, il cavallo del secolo>>. Fu, in realtà, cronaca difettosa. Diciotto anni prima, sempre a Longchamp, sempre appartenente alla scuderia italiana, il cavallo del secolo, imbattuto, era già apparso: condotto da Pietro Gubellini, perfetto nella struttura morfologica e dunque tra i preferiti di Tesio, Nearco aveva messo in fila, umiliandoli, i vincitori dei Derby inglese e francese. Accadeva una settimana dopo l'affermazione parigina dell'Italia di Vittorio Pozzo nei Mondiali di calcio, 4-2 in finale sull'Ungheria a Colombes, doppiette di Piola e Colaussi, e un mese prima che la grandeur transalpina ricevesse il colpo definitivo con l'apoteosi di Bartali, mi-dieu, mi-diable,al Parcdes Princes, tredici anni dopo la seconda vittoria di Ottavio Bottecchia. Secondo tradizione della scuderia novarese di Dormello, dall'inizio degli anni Trenta legata alla romana Olgiata – tempi in cui, scriveva Fossati, "le giubbe erano bandiere"– Tesio aveva legato il nome di Ribot alla storia dell'arte, richiamandosi al pittore e incisore francese Théodule-Augustin Ribot e aggiungendo l'ultimo nato alla filiera dei Fidia, degli Scopas, di Apelle, Botticelli, Donatello, El Greco, Cranach, Cavalier d'Arpino, Toulouse Lautrec. Dopo il successo di Longchamp, per l'addio alle corse di Ribot vennero confezionate due passerelle, in quella familiare di San Siroe alle Capannelle, pista mai frequentata. L'apparizione capitolina fu in linea con l'imprevedibilità del campione: superato il palo d'arrivo in compagnia di Magistris, forse infastidito da presenze insolite, sotto lo sguardo severo del suo indivisibile compagno di scuderia e di allenamento, Ribot scartò e mandò gambe all'aria Enrico Camici, il fantino di Barbaricina che aveva accompagnato la sua imbattibilità nei tre anni di carriera. Fu il saluto del campione al pubblico italiano. Trasferito in Inghilterra, generoso, da subito, nel ruolo di stallone – dette vita nella prima annata a Molvedo, futuro vincitore, cinque anni dopo la seconda affermazione del padre, sulla pista di Longchamp – acquistato negli Stati Uniti per un milione e mezzo di dollari, Ribot moriva, esule, nella Darby Dan Farm di Lexington, nel Kentucky. Era il 30 aprile 1972. [email protected]

SPIRIDON/4

di Ruggero Alcanterini

Ebbene sì, arriva il momento in cui uno si chiede che senso abbia avuto, abbia ed avrà quel che per una vita ha considerato ovvio, scontato, un fuori discussione tanto quanto lo stesso vivere la vita in tutte le sue espressioni. Banalmente, oggi ho pensato questo tra me e me, mentre ripercorrevo per la millesima volta i sentieri del parco, trascinato dal mio “labrabull” per nulla turbato dalle museruole sui musi degli umani. Così mi è venuto in mente Antonio Ghirelli, sessant’anni fa, quando nel ’60, al Corriere dello Sport, era ringhioso Direttore ad interim. Lui mi incrocio nel corridoio, mi squadrò e mi disse:“Guaglio’, ricordati che la notizia non sta nel cane che morde l’uomo, ma nel contrario!” Appunto, nel contrario di tutto quel che capitava sino a tre mesi fa e che oggi ci vincola, ci sommerge, al punto di chiedersi che senso abbia mantenerein vita argomenti che sino a ieri

erano dei mantra. Parlare e scrivere di atletica, scegliendola come metafora , forse può funzionare o potrebbe, sempre che ci si liberi di queste benedette mascherine. Dunque, siamo di forza in una pausa di riflessione possibile rispetto al vissuto e al futuro virtuale che, per quanto mi riguarda, non può che ripartire dai fondamentali sociali, educativi, culturali di una disciplina che, anche in questo momento epocale d’emergenza, si è rivelata in modo spontaneo, sino a divenire paradossalmente un problema d’ordine pubblico. Ecco un segnale, un qualcosa di confortante, che riconferma l’orientamento naturale al gesto atletico primario, come il camminare e il correre, di cui dovremmo tenere conto nel ruolo di custodi. Di custodi deputati, ma anche di tutori nella formulazione di linee strategiche, che orientino e favoriscano questi flussi sui territori, sino a ricostituire quelle linee sinergiche, quelle dinamiche che prima e dopo la Seconda Guerra nel Secolo scorso nobilitavano il movimento di matrice popolare con uomini e donne di assoluto livello agonistico. Soggetti divenuti miti per l’immaginario collettivo e provenienti da quell’humus in cui sarebbe opportuno tornare a seminare e raccogliere, migliorando la qualità di vita di una collettività oggi in gran parte consapevole della propria fragilità e del bene primario della salute da tutelare e difendere, proprio con la pratica più naturale dello sport. E chissà perché, quelli che si sono dedicati agli altri, senza per questo fare di podi e medaglie una questione di vita o di morte, hanno in genere teso ad enfatizzare valori certi, la qualità morale, sociale di gruppi, cenacoli, movimenti e singoli che hanno lasciato il segno, ma che hanno finito - a volte prima che poi - col dover consegnare il testimone. In questo periodo, Augusto Frasca ha tirato fuori un magnifico coniglio dal suo inesauribile cilindro, riportando alla luce un filamento del tessuto in memorabilia, che fu opera di Marco Martini, una raccolta di dati riguardanti Oscar Barletta, personaggio poliedrico e ineguagliabile maestro d’atletica, cui proprio io ed Augusto decidemmo di conferire con l’Associazione Cultura e Sport il Premio Altis, concepito giusto come il Recinto Sacro d’Olimpia, esaustivo del concetto alto del merito. Questo avvenne nel 1996, quando con Oscar furono celebrati Claudia Testoni e Fiorenzo Magni, preceduti nel ’94 da un altro immortale dell’atletica come Arturo Maffei e nel ’95 da un pilastro della storia del tennis come Mario Belardinelli… Ma perché adesso, proprio adesso questo ci sovviene ? Credo perché in qualche modo ci sentiamo liberati, sereni nella solitudine del limbo in cui siamo sospesi, tra il ricordo della partenza e l’incognita del traguardo.

SPIRIDON/5

… e se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi... di Pino Clemente

Siamo da tempo nel vortice del Covid-19, che ha distrutto e distruggerà una miriade di vite, anziani sofferenti e anche giovani e forti, come la falce della peste descritta mirabilmente nei Promessi sposi. In attesa del vaccino sperimentato da Andrea Combotto, radici a Bari, nell'Università di Pittsburgh, la nostra socialità è cambiata. Si sopravvive da isolati, obbligati a distanze misurate fuori dal perimetro di casa, si aboliscono gli abbracci, le contiguità di gruppo e il jogging, alla lettera gomito a gomito. Sospeso lo sport agonistico, dal professionistico a quello dei dilettanti e giovanile. Il Governo ha decretato l'isolamento che durerà fino a quando i contagi e le morti non cesseranno. E dopo, quando inevitabilmente emergerà la crisi economica? Ecco quindi la citazione, decodificata in positivo, dal male al bene, ripresa dal romanzo di Tomasi di Lampedusa, con Lancaster nella parte del principe di Salina. I nostri rapporti sociali devono cambiare, dietro le 'maschere' uomini e donne scopriranno il sorso di vita nel respiro, scopriranno i sani piaceri, "capitani della propria anima con l'anima del capitano". Si spera che ci siano interventi coordinati e tempestivi, sanitari ed economici, anche nella detenzione carceraria sovraffollata, e che la Comunità europea sia consapevole che il Covid-19 ha imperversato e imperversa come un conflitto bellico, e che la voce comunitaria debba essere prevalente, condizione obbligatoria per non dare spazio agli eccessi nazionalistici. Di Burt Lancaster si è discusso recentemente nel gotha di giornalisti e storici, insieme alla favola, relativa al presunto colloquio diretto tra Mennea e il presidente della Repubblica Cossiga alla vigilia dei Giochi di Mosca, decisivo per la partecipazione italiana, sconsideratamente rimessa in circolo da un giornale. Di Lancaster, oltre che di Frank Sinatra, s'è scritto a proposito delle gare e degli spettacoli organizzati allo stadio dei Marmi nell'estate del 1944 per le truppe alleate. La prestanza del formidabile attore fu poi valorizzata nel 1951 in Pelle di Rame, pellicola rievocante la figura del pellerossa Jim Thorpe, WhaTho-huck, Sentiero Lucente, vincitore nel pentathlon e nel decathlon all'Olimpiade di Stoccolma del 1912. Totalmente incapace di presumerne il valore, Jim Thorpe aveva venduto i diritti del film per una miseria, 1.500 dollari. Nel film, diretto da Michael Curtiz, stesso regista dello storico Casablanca interpretato da Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, l'allenatore di Thorpe-Lancaster è interpretato da Charles Bickford, statunitense, con scene memorabili: la sfida tra Colleges, e Bickford che presenta all'allenatore della squadra avversaria due soli atleti, uno per il mezzofondo e l'altro, Thorpe, per tutte le restanti prove, correndo, saltando, lanciando e sbalordendo!Laureato dal re Gustavo di Svezia come l'atleta più grande del mondo, Jim Thorpe fu successivamente squalificato per aver incassato quattro soldi giocando a baseball con i Rocky Mount Railroaders, nel North Carolina. Furoreggiò poi nel football americano. Fu infine riabilitato dal Comitato olimpico internazionale. Accadde nel 1983, trenta anni dopo la sua morte, povero e dimenticato, coniando nuove medaglie in sostituzione delle originali, sparite da un museo. Il 18 gennaio, a Los Angeles, le ritirarono i figli Bill e Dail dalle mani del presidente del Comitato olimpico internazionale Juan Antonio Samaranch. La squalifica di Thorpe per leso dilettantismo resta tra le più scandalose della storia dello sport internazionale. Accadde anche successivamente, e tra i casi più eclatanti va registrato quanto accaduto nel 1972 al grande sciatore austriaco Karl Schranz, rispedito in casa tre giorni prima della cerimonia di apertura dei Giochi di Sapporo. Memorabile la sua riflessione:<>.

SPIRIDON/6

Non che sia facile, madre Natura ci ha messo di traverso con un virus relativamente blando quanto a virulenza ma formidabile quanto a capacità di contagio, troppo per una società umana che ad oggi non ha ancora capito se la mascherina agli asintomatici serva a qualcosa o no, l' OMS che la dice non necessaria – la Ilaria Capua che non la usa – mentre per il difensivista ad oltranza Burioni naturalmente vale il contrario, l'altro virologo Crisanti (guru del tampone in Veneto) che chiede di mettere la barriera a 2 metri . . . anche nel buio dell' alcova.

Recente l'allarme aerosol, quello provocato dallo sciacquone del wc, da qui l'obbligo (peraltro non ancora sostanziato a livello di decreto governativo) di azionarlo a coperchio della tazza abbassato.

Intanto che è tornato udibile ogni singolo tocco delle nostre campane, il loro scandire religioso e laico del passare del tempo, la televisione ha trasformato ogni giornata nella cronaca integrale di una tappa di montagna del Giro d'Italia dove ogni scatto, anche velleitario, è spesso sottolineato con enfasi superflua rispetto al quadro generale della corsa, le fasi salienti ripetute a iosa a beneficio (?) di una popolazione più rimbambita dall' alea angosciosa che rivitalizzata – come dovrebbe - da serotonina e funzionalità della vitamina D, cose buone offerte da giornate di sole invece, proprio ora, troppo scansate all'aria aperta, mentre di fatto chi guarisce dal virus lo fa solo con le sue difese, non essendoci farmaci allo scopo.

Intanto il Giro, quello vero, è stato rimandato, resta in sospeso come buona parte di tutte le attività, l'impasse dell'economia un macigno sempre più pesante sulle spalle di tutti e dal quale dovremo pure liberarci - e con energia - al più presto, perchè se la salute viene prima di tutto, a fare girare il mondo “it's the economy, stupid”.

Chi starà fermo, individuo e nazione, rischia di essere perduto in un mare di debiti tale da non essere navigabile neppure per il più untuoso del moderno welfare, un conto spropositato ad attenderci quando saremo agli strascichi di un virus per ora fisso al centro della scena locale e mondiale da assoluto protagonista, noi tutti confusi su tutto: vaccino – non vaccino, tampone non tampone, focolaio circoscritto o da intervento magistratura, morti di corona o con corona, eurobond o non eurobond.

A maggiori conoscenze acquisite sul modus operandi rispetto al virus ed allargato il collo di bottiglia dei posti di terapia intensiva saranno i numeri comparati della statistica dei decessi di questi mesi rispetto al prima corrispondente a darci la dimensione effettiva del conto delle vite umane perdute, a dirci se la realtà in questi termini è di fatto stata così brutta come viene al momento dipinta, a dati statistici ancora incompleti.

Nonostante l'incombenza di una paventata seconda ondata, il passare del tempo tenderà a giocare a nostro favore, solo non dovremo sprecarne troppo sul lato dell'economia, adattarci senza tenere – oltre che la mascherina sul volto – la testa fasciata per quello che ci attende, non necessariamente troppo diverso e peggiore sul lato pure giustamente temuto dello scombussolamento delle relazioni sociali.

Se Lucia Mondella e Renzo Tramaglino sono sopravvissuti alla peste, con ogni probabilità sarebbero oggi sopravvissuti al covid-19, più subdolo fino a conseguenze estreme – sanitarie e non – che direttamente mortifero, a dispetto del collo di bottiglia effettivo di cui si diceva e del putiferio, auguriamoci esagerato, nel quale siamo ora calati.

SPIRIDON/7

Intanto, in una contrada del bel stivale preso a calci dal virus . . .

( da un episodio realmente accaduto e liberamente raccontato)

A buio fatto, nell'aria ferma e fredda come quasi mai lo scorso inverno, uscito che fui sull'alto balcone della mia dimora, a cercar conforto almeno nella immutata presenza del campanile mio a vegliare sulla Chiesa - mai chiusa al tempo dei morbi passati e rimasta ora orfana del popolo suo - scorsi un figuro mascherato scendere la via, radente i muri ove fossero presenti, l'andatura sghemba seppur sostenuta. Tenea costui un braccio suo distorto, a guisa di roncola pressato su la giubba che avea indosso, quasi a celare quel che sotto potea stare. Sortomi spontaneo il moto di rivolgere parola a costui col domandare ove stesse andando a quell'ora e date le circostanze di siffatto presente colle misure imposte dalle autorità, volse egli – piegando e così sbandando ancor più per un istante - il ceffo suo ascosto all' insù, in mia direzione, pronunziando con voce rauca pochi rancorosi epiteti, prima di destinarne, senza mai fermarsi, altri pochi di miglior creanza ad una vecchia comare che, al piano sulla via della casa poco avanti, sempre tesa costei ad origliare cosa possa passare fuori le stanze sue, subitanea avea le imposte discoste al primo verbo udito proferire nella via. Ebbe a dirmi quella vicina, da me in proposito interrogata il giorno appresso, che fosse costui un paesano un tempo seminarista - seppur senza farsi poi curato – ora praticante il mestiere di tollaro, per suo cruccio complicato da quel braccio malato pur se trattato ormai tempo addietro da gran dottore. Era, quella sera, egli diretto ad una stanza della parrocchia nostra ove, aiutato da altro devoto, dava ogni settimana stampa al bollettino della parrocchia madesima, cui si aggiungeva di questi tempi altro bollettino del comune nostro, portante notizie sullo stato del contagio. Non era dunque – a canoscenza sua - quel devoto passato al servigio del maligno, né portatore del nuovo morbo . . . P.S. - Dall' iconografia della peste risulta come il medico fosse allora meglio protetto di tanti sanitari al tempo del coronavirus, altro che mascherina obbligata . . . Mauro Molinari [email protected]

ARTE SPORT VITA - Giacomo Crosa ha condiviso, con gli amici suoi e miei, schegge di quel che fu il protrarsi di un connubio sport ed arte. Si tratta dell’Elogio allo Sport di Renato Guttuso, che fu in mostra con le sue opere nel 1984 e di cui sopravvive il catalogo con autografo dedicato proprio a Giacomo con un significativo “W L’ATLETICA” . Veniva ripreso l’antico vezzo egizio e poi greco di esaltare i “semidei” dei Giochi attraverso la suprema interpretazione artistica, da Policleto a Mirone, a Lisippo, sino a Canevari, Emilio Greco e lo stesso Guttuso, per andare di sintesi. I promotori delle Olimpiadi moderne e gli artefici dello sport con la S maiuscola continuarono ad enfatizzare l’dea canonica del bello associato alla salute, all’energia ed alla perfezione del gesto, all’armonia del corpo in movimento, come divinizzata espressione della vita, dal Doriforo al Discobolo, all’Apoxyomenos, quindi alle naiadi, alle ginnaste, ai calciatori, ai pugili dei maestri contemporanei, che trovarono da ultimo in Giulio Onesti e in Juan Antonio Samarach i caparbi continuatori di una tradizione nobilitante, avviata da Pierre de Coubertin già ad Atene nel 1896. Purtroppo, lo sciagurato integralismo dei più, nel 1949, prevalse con l’dea che artisti professionisti non potessero condividere la gloria olimpica e così si passò dalle gare alle mostre, senza via di scampo. In Italia siamo ancora in attesa di un Museo Nazionale dello Sport. Ma voglio concludere con una annotazione esemplificativa del ruolo degli artisti italiani nel campo, tema cui varrà la pena di dedicare un giusto approfondimento. Dunque, alle Olimpiadi di Amsterdam vennero per la prima volta assegnate le medaglie disegnate da Giuseppe Cassioli, che nell'aprile 1927 aveva vinto il concorso bandito dal CIO. Medaglie che rimasero al collo dei premiati sino ai Giochi di Atene 2004. Lando Ferretti, nel suo primo numero di Lo Sport Fascista, nel giugno del 1928, scriveva: "Ispirata al più puro classicismo, ma animata da un potente soffio di vita virilmente vissuta, la medaglia rappresenta il trionfo dell'atleta nello stadio: dai particolari anatomici dei corpi perfetti al movimento armonico delle masse, allo sfondo architettonico, è tutta un'euritmia che dà all'opera il crisma inimitabile della nostra arte. Il trionfo di Cassioli non è, infatti, soltanto l'affermazione d'un nobile artista, ma di tutta una scuola e d'una tradizione, per la quale l'Italia domina ogni rivale là dove si contenda una palma nel nome della bellezza". Ruggero Alcanterini

SPIRIDON/8

Don Bosco in Vaticano

Don Bosco ci ammaestra con le vive immagini dei suoi vecchi sogni, sempre attuali e fecondi di bene, stimolo per i giovani e non giovani a migliorare la propria vita. Un giorno, non sappiamo quando, Don Bosco sogna di trovarsi in San Pietro, dentro la grande nicchia che si apre sotto il cornicione, a destra della navata centrale, perpendicolarmente alla statua bronzea di san Pietro e al medaglione in mosaico di Pio IX. Egli non sa comprendere come sia capitato lassù. Vuole scendere. Chiama, grida, ma nessuno risponde. Finalmente, vinto dall’angoscia, si sveglia. Oggi, proprio dall’alto di quella nicchia... ci sorride. Quella nicchia, rimasta vuota per secoli, è stata riservata a Don Bosco con l’avallo del cardinale Pacelli, allora Segretario di Stato, con il consenso e la spinta di Pio XI, che di Don Bosco è stato più che devoto. Il gruppo statuario, del peso di 22 tonnellate, tutto in marmo Vittoria delle cave di Massa, occupa la nicchia alta 6,80m; la figura di Don Bosco misura metri 4,80 di altezza, senza tener conto del piedistallo di oltre un metro (1,07 per l’esattezza, largo 2,40 m). Don Bosco è rappresentato nell’atto che con nobile gesto della destra indica l’altare papale a due giovani, da lui avvolti da un’ampia carezza paterna. Sono san Domenico Savio e il beato Zeffirino Namuncurà. Rappresentano la gioventù dei nostri Paesi e delle terre di missione. Più alto Domenico Savio, l’allievo prediletto, colui che lo seguirà nell’onore degli altari; più piccolo il patagone Zeffirino, figlio del Gran Cacico, convertito con la sua tribù dal cardinale Cagliero, adottato da Don Bosco e dai Salesiani per significare che l’apostolato della gioventù non conosce limiti di continenti e pregiudizi di razze. Il blocco viene tirato sul sagrato con due grandi argani, girati a... benzina umana, dopo aver fatto uno scivolo di legno a copertura della scalinata. Semplice nella forma rituale la cerimonia della inaugurazuine della statua il 31 gennaio 1936, a 48 anni dalla morte del santo. Straordinario il concorso di autorità e personalità. Cospicua la folla di giovani, di allievi ed ex allievi, a gremire la navata centrale. Nell’occasione L’Osservatore Romano scrtive: “È una nuova affermazione di fede e di fervida devozione, che ha fatto rivivere la giornata indimenticabile della Pasqua del 1934” (Canonizzazione di Don Bosco, nda). La Basilica offre l’aspetto delle grandi liturgie. Un colpo d’occhio meraviglioso! Un fremito di giovinezza travolgente: 20.000 i giovani, la metà a rappresentare, per disposizione del Ministero, le Scuole di Roma. Alle 11:30 fa il suo ingresso il cardinale Eugenio Pacelli, Arciprete della Basilica, Segretario di Stato del Papa e protettore della Società Salesiana. È lui, futuro Pio XII, a benedire il monumento. Giuseppe De Mori, su L’Avvenire d’Italia, tratteggia il lavoro dello scultore Pietro Canonica: “In questo monumento concezione ed espressione toccano il vertice dell’arte. Il Canonica, scultore di fama mondiale e Accademico d’Italia, svincolandosi dalle meticolosità fotografiche e sorpassando gli atteggiamenti tradizionali di Don Bosco dipinto e scolpito, ne fissò energicamente la grandezza spirituale in una creazione che appartiene all’ arte Pietro Canonica “firma” la sua opera veramente degna di questo nome. Traspare infatti il carattere meditativo del santo, la sua forza intellettuale, la sua antiveggenza di santo e di apostolo; ciò che, sposato al sorriso paterno della sua forte bocca, integra bene il suo carattere esuberante di carità e di amore”. Pierluigi Lazzarini Exallievo e Storico di Don Bosco

SPIRIDON/9

Animula vagula, blandula... scelti da Frasca

… Tenetevi bene a mente ch'io narro d'un tempo in cui la fede era ancora di moda, e produceva negli spiriti eletti quei miracoli di carità di sacrifizio e di distacco dalle cose mondane che saranno sempre meravigliosi anche all'occhio miscredente del filosofo. Io non catechizzo, né pianto o difendo sistemi; e so benissimo che la divozione, volta in bigottismo dalle anime false e corrotte, può viziar la coscienza peggio che ogn'altra abitudine di perversità. Vi ripeto ancora ch'io non sono divoto; e me ne duole forse perché durai grandissima fatica a trovare un'altra via per cui salire alla vera e discreta stima della vita. Dovetti percorrere sovente, col disinganno al fianco, e la disperazione dinanzi agli occhi, tutta la profondità dell'abisso metafisico; dovetti sforzarmi ad allargare la contemplazione d'un animo, diffidente e miope sopra l'infinita vastità e durevolezza delle cose umane; dovetti chiudere gli occhi sui più comuni e strazianti problemi della felicità, della scienza e della virtù contraddicenti fra loro; dovetti io, essere socievole e soggetto alle leggi sociali, rinserrarmi nel baluardo della coscienza per sentire la santità e la validità eterna e forse l'attuazione futura di quelle leggi morali che ora sono derise calpestate violate per tutti i modi; dovetti infine, uomo superbo della mia ragione e d'un vantato impero sull'universo, inabissarmi, annichilirmi, atomo invisibile, nella vita immensa ed immensamente armonica dello stesso universo, per trovare una scusa a quella fatica che si chiama esistenza, ed una ragione a quel fantasma che si chiama speranza…Io sarei molto impacciato a guidarvi con sicurezza nel laberinto che mi parve esser sempre l'animo di questo giovine, e dinotarvene partitamente l'indole i pregi ed i difetti. L'era una di quelle nature rigogliose e bollenti che hanno in sé i germi di tutte le qualità, buone e cattive; col fomite perpetuo d'un'immaginativa sbrigliata per fecondarle e il ritegno invincibile d'una volontà ferrea e calcolatrice per guidarle e correggerle. Servo insieme e padrone delle proprie passioni più che nessun altro uomo; temerario e paziente, come chi stima altamente la propria forza, ma non vuole lasciarne sperperar indarno neppur un fiato; egoista e generoso o crudele secondo l'uopo, perché dispregiava negli altri uomini l'obbedienza a quelle passioni di cui egli si sentiva signore, e credeva che i minori debbano per necessità naturale cedere ai maggiori, i deboli assoggettarsi ai forti, i vigliacchi ai magnanimi, e semplice agli accorti. La maggioranza poi, la forza, la magnanimità, l'accortezza egli le riponeva nel saper volere pertinacemente, e valersi di tutto e osar tutto pel contentamento della propria volontà. Di tal tempra sono gli uomini che fanno le grandi cose, o buone o cattive. Ma come gli si era venuta formando nel suo stato umile e circoscritto un'indole così tenace e robusta, se non in tutto alta e perfetta? Io non ve lo dirò certamente. Forse la lettura dei vecchi storici e dei nuovi filosofi; e l'osservazione della società nelle varie comunanze ov'era vissuto gliela avevano mutata in persuasione profonda ed altera. Credeva che piccoli e grandi si dovesse pensare a quel modo per chiamarsi uomini… La sua fronte, vasto nascondiglio di grandi pensieri, saliva ancora oltre i capelli finissimi che ne ombreggiavano la sommità; gli occhi infossati e abbaglianti cercavano più che il volto l'animo e il cuore della gente; il naso dritto e sottile, la bocca chiusa e mobilissima dinotavano il forte propositoe il segreto e perpetuo lavorio interiore…Da Le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (Padova 1831-Mar Tirreno 1861), prima edizione del 1867 con il titolo Confessioni di un ottuagenario. Tra i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, colonnello durante l'impresa dei Mille, morì nel naufragio del vapore Ercole durante il trasferimento da Palermo a Napoli. Benedetto Croce, che poco o nulla aveva compreso della grandezza dell'opera, ne fece recensione negativa, seguito da allievi e adepti di modesto discernimento critico.

SPIRIDON/10

Faccia lei che sa Noi italiani siamo sempre pronti a giudicare. Figurati i giudici, che l’hanno per mestiere. Inebriati dalla loro intangibilità, tangono. Eccome se tangono. Li avevamo già visti accusare Salvini di sequestro di persona per aver negato lo sbarco ai clandestini. Ora si ripetono a Bergamo, dove la Procura indaga (al momento contro ignoti) per “epidemia colposa”. E ti pareva. Già Bertolaso, dopo il terremoto dell’Aquila, aveva assaggiato sulla sua pelle lo zelo di certe toghe: accusato di omicidio colposo plurimo, lesioni e corruzione, fu assolto, ma dovette lasciare il ruolo. I politici se ne ricordano, e col Coronavirus non vogliono rischiare. Per quello hanno inserito nel Decreto “Cura Italia” un emendamento che estende l’immunità penale e civile (già concessa a tutti gli operatori sanitari) anche a politici e amministratori. Una liberatoria totale non solo per i vertici nazionali, ma anche per governatori, assessori regionali, sindaci, dirigenti Asl. E qui gli italiani, già pronti a sbranare comandante, ufficiali ed equipaggio della nave Italia a tempesta virus ancora in corso, si lamentano: “troppo comodo”. Io non sono d’accordo. Sfido chiunque a scrivere qualcosa di certo sul Covid. Nel mondo si bara persino (anzi, soprattutto) sui numeri dei contagi e dei morti. Il dopovirus, poi, è ancora nella nebbia. E allora chiedo a chi vorrebbe giudicare (rispondete non a me, ma alla vostra coscienza): in una situazione dalle variabili così numerose e imprevedibili, senza precedenti storici a cui riferirsi, chi di voi piloterebbe la nave senza protezioni? Io consegnerei subito il timone a chiunque lo volesse: “faccia lei che sa”… Date retta: lasciamoli guidare. [email protected]

Siamo sempre soli il Venerdì Santo

Siamo sempre soli il Venerdì Santo, di fronte a questo corpo nudo. Se anche abbiamo percorso, seguendo Gesù, una parte della strada verso Gerusalemme, anche noi non abbiamo capito dove stavamo andando e soprattutto perché. Ci era più facile sperare in un miracolo, in una rivoluzione, che non immaginarci spettatori di questa volontà ostinata e frettolosa di mettere a tacere, umiliare ed annientare chi sapeva parlare di Dio in modo così intimo e speciale. E di quella parola così vitale sentiamo più che mai bisogno, di fronte a questa fine inattesa ed oltraggiosa. Ci avevi parlato di una nuova casa preparata per noi, ma forse era un sogno più che una promessa. E adesso non sappiamo dove cercarla, se su questo colle o nella Galilea dei nostri inizi. Anche del tuo sguardo avremmo bisogno, per capire cosa è rimasto vivo di noi, ora che la tua morte ci mette di fronte a tutto il dolore innocente che abbiamo già incontrato nel nostro cammino. E di fronte a cui siamo soli. Domani forse riusciremo a condividere con qualcuno quanto è accaduto e a cercare dei perché, ma oggi restiamo qui, resistendo al desiderio di scappare, sotto questa croce che taglia il cielo e, misteriosamente, lo avvicina alla terra. Restiamo qui impotenti, ma intuendo che qualcosa in quelle braccia abbandonate alla morte che non smettono di accoglierci, ci riguarda in modo personale. Domani usciremo dal silenzio se non dal dolore, ma oggi abbiamo bisogno che tu ci parli di te. E che ci regali un’attesa. Forse possiamo ancora affidarti pezzi della nostra vita perché diventino un viaggio.Ma è questo momento desolato del tuo viaggio che abbiamo bisogno di cogliere: davvero bisognava andarsene così per restare?Domani ti cercheremo in quella fessura luminosa dentro di noi che ci hai insegnato a riconoscere. E magari ritroveremo le tue parole e il tuo sguardo, le tue mani … Ma oggi ascoltiamo il silenzio. Metella Dei

SPIRIDON/11

Da Atletica Leggera. Numero255, marzo 1981. Fondatori Francesco Migliori e Marco Cassani. Direttore responsabile Dante Merlo, Redattore capo Gianni Merlo.

Frasi celebri Intervista di Gianni Merlo a . - Sei certo di non tornare a correre? - Al cento per cento. - Nebiolo è sicuro che ci ripenserai… - Una sicurezza per lui, non per me.

Numero 260/261, agosto/settembre 1981. Collaboratori:Guido Alessandrini – Enrico Arcelli – Giorgio Barberis – Gianni Benzi – Hein Beulke – Alfredo Calligaris – Renato Canova – Ugo Cauz – Paolo Colli – Franco Colombo – Carlo Degrandi – Oscar Eleni – Angelo Filighera – Sandro Filippini – Luciano Fracchia – Silvio Garavaglia – HelmarHommel– Salvatore Massara – Luigi Mengoni – Pierangelo Molinaro – Attilio Monetti – Carlo Monti – Fabio Monti – Remo Musumeci – Toni Nett – Giors Oneto – Ludovico Perricone – Gerardo Pinto – Dino Pistamiglio–Daniele Poto – Roberto L. Quercetani – Romano Rosati – Luciano Serra – Giulio Signori – Elio Trifari – Carlo Venini – Sergio Zanon. A Roma ho trovato l'atmosfera del '60, di GIAN MARIA DOSSENA. <>.

SPIRIDON/12

Oggi cercherò di individuale lo specifico stile di corsa che ognuno di noi pratica per realizzare una performance. C’è innanzi tutto lo stile che abbiamo definito di contatto, quello che ci permette di vivere attraverso le nostre diverse forze di realizzare il medio senza superare i limiti massimi della nostra disponibilità fisica e mentale. Questo stile di corsa si presenta come il primo di quattro stili che insieme costituiscono la tipologia del correre : i cosiddetti stile di contatto, performante, collettivo e motivato. Ognuno di questi stili manifesta una dimensione essenziale per l'esperienza della corsa e, più radicalmente, permette di fare riferimento a modi fondamentali di esistere . Quattro stili che ogni corridore conosce anche se tendenzialmente è portato a favorire uno sull’altro a seconda della sua personalità, della sua storia personale o età. Oggi ci intratteneremo sullo stile performante ,prima di affrontare i prossimi due in uno i prossimi numeri. Quali sono, tanto per cominciare le caratteristiche di un corridore performante , cioè in cerca di prestazioni? Quelle di concentrarsi sul risultato. E solo su quello. Nella vita, tutti ci poniamo obiettivi e cerchiamo i mezzi per raggiungerli. Lo stesso vale quando corriamo. Possiamo essere particolari profondamente interessato al risultato vogliamo ottenere. La gara, tutta orientato dalla realizzazione di una prestazione, avrà successo quando sarà raggiunto il tempo che ci siamo prefissati. E queste sono sostanzialmente anche le caratteristiche , con la sola differenza ch’egli per tutto ciò ci si concentra per avere un corpo in pieno effetto, correre molto assorbito, poco disponibile a ciò che lo circonda. Il suo corpo ha un solo nemico, il tempo di battere . Guardando questi corridori scopriamo che hanno delle caratteristiche particolari. Al loro arrivo sono riconoscibili dal primo gesto fanno una volta attraversato la linea: sollevamento del gomito e sembrano concentrati sul loro orologio! Correre per le prestazioni è davvero lasciarsi animare dalla sfida è voler avere successo, fare un risultato. Alla domanda quasi inevitabile di . "Quanto tempo hai impiegato ?” il corridore performante difficilmente dirà : "il Tempo ch’è durato”. Per il corridore in cerca di uno spettacolo, questa risposta non ha senso. La risposta, è in tempo reale segnata sul cronometro , ovvero il tempo che gli permette di controllare subito se il record è stato battuto o almeno se il tempo di oggi non differisce molto da quello di ieri. Per il nostro amico il tempo diventa un elemento di essenzialità : si cronometra il tempo impiegato a percorrere una certa distanza, si contabilizza la differenza fra risultati ottenuti, si calcolano i ritmi dei passaggi. Ma con questa mentalità alla fine anche lo spazio di vita diventa oggetto di misura! Ed anche la vita privata e famigliare è in genere assai condizionata mania di velocità . La strada o il percorso su cui si muovono diventano semplicemente reali spazi da un punto di partenza e un punto di arrivo, contrassegnato in aggiunta da indicatori di chilometraggio. La strada non ha più nulla da spartire con l’ambiente circostante, non ha più senso tranne quello d’essere misurata. Non c’è più il mondo del paesaggio ma quello della carta stradale segnata con chilometri che si susseguono. Un suo corpo è preparato alla tecnica. Per raggiungere le sue performances ovvero superare questi chilometri nel tempo voluto il corridore scopre in sé la capacità d’amalgamare la tecnica col suo fisco attraverso l l’uso con strumenti tecnici sempre più evoluti: l'orologio cronografo, combinato con il cardiofrequenzimetro, cintura portabottiglie, senza dimenticare il casco o gli auricolari. E sono tanti , con sempre maggiori novità, gli strumenti da mettere al servizio del corridore per assisterlo nella realizzazione delle sue ambizioni sportive. Spesso è portato a compiere sforzi che "lo tirano fuori" da sè stesso; così diventa per lui essenziale trovare sempre qualcosa di meglio per misurare i suoi sforzi, per appoggiarsi ad una tecnica acuta e ampia adatta a farlo sentire bene. A questo punto, scopriamo che il corridore di contatto è un buon sognatore! Non ha limite nelle sue ambizioni, per lui c’è solo l’ambizione di migliorarsi. Magari per fare meglio del collega d’ufficio o del portiere del condominio. Il massimo dei suoi sogni sono due. Più particolarmente , ed in primo luogo, c’è quella sorta di personal-trainer che è il cardiofrequenzimetro che gli manda un’infinità di dati nonché continui indispensabili messaggi cardiaci. Tramite iquei segnali il nostro può pianificare straordinari piani d’allenamento adatti a stabilire le andature più adatte per sfondare. E suggerirgli strategie di corsa. Un altro suo compagno di viaggio, più indispensabile per alcuni corridori, è quella la cintura, chiamata porta bidoni che nella parte posteriore ha le bottigliette con bevande rivitalizzanti completati da gel energetici posti in tasche laterali assieme a telefonino , termometri, manometri, anemometri, ecc.ecc. E chissà, magari anche qualcos’altro. Le loro scelte di dove corre sono inesorabili: Se da qualche parte non c'è grande impresa per i corridori senza essere costretto a correre efficacemente, non val la pena di prendere in considerazione la gara. Ma anche per loro il tempo passa il che vuol dire che stanno andando di meno. E’ vero che si può ripiegare sulle categorie “veterani” , purtroppo anche per loro le ambizioni trionfalistiche scemano. Ahiloro. Verrebbe voglia di fermarsi poi fortunatamente scoprono che attorno a lui c’è , da sempre, il contatto collettivo, quello a cui piace la folla, si diverte tuffarsi e talvolta anche tuffarsi nel confronto ed apprezzando magari anche i “rifornimenti d.o.c.” senza l’ambizione i bagnare il naso al collega d’ufficio o al portiere del condominio. Scoprendo quant’è bello correre per correre. N. Duruz,(da Spiridon Romand)

SPIRIDON/13

I Distanziati e la Prossemica ai tempi del Covid-19

Una mossa tattica per non contagiarsi è dunque tenere alla distanza di 1 metro e 50, 2 metri, il prossimo da amare come nel messaggio evangelico per evitare l’eventuale contagio reciproco dei portatori del virus senza sintomi. Gli addetti alle virali infezioni asseriscono che il rispetto delle distanze su strada è più preventivo delle mascherine. Distanziati è la parola nuova, ma il rapporto sociale dello spazio è una scienza, la Prossemica, fondata da E.T. Hall nel 1963, branca della Semiotica così cara ad Umberto Eco, che rimanda all’Etologia, lo studio delle distanze tra gli animali, che, violata la distanza di sicurezza, variabile da specie a specie, entrano in lotta di collisione. La Scienza del ruolo delle distanze, tra gli umani e gli oggetti, varia nei gruppi etnici: caratterizza i modelli prestativi delle discipline sportive, gli sport di contatto e gli sport che vietano e penalizzano il contatto. Esempi: il Rugby, la Lotta e gli opposti come l'atletica, dove in pratica il contatto è inesistente. Altro dimostrativo dell’abolizione del contatto, la rete: separando, nella Pallavolo, nel Tennis e nel Tennis da Tavolo, raggela l’aggressività e la canalizza. Nel mezzofondo e nelle gare di lunghe distanze, la locuzione 'stare gomito a gomito', così come fiato a fiato nel branco-gruppo, o procedere da soli, come nella Solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe. Dall’Etologia, la lepre che ‘fuggendo’ trascina all’inseguimento per incentivare le prestazioni dei più accreditati. A noi gratifica la connotazione della corsa podistica, la processione laica, la preghiera dei piedi. Dalla Passione di Cristo, Domenica delle Palme, alla Resurrezione, vietato l’assembramento dei fedeli. A chi, religioso a orologeria, contesta le preghiere, il dialogo con Dio e la Madonna degli anacoreti e delle suore di clausura, insegnavano: Soli e Santi, Nostra Signora della Solitudine. Meglio prima che dopo, tutti insieme appassionatamente, canti, balli, corse, concerti, cinema e musei. Pino Clemente

(ovvero l’Italia che affonda)

Pare che la Regione Piemonte sia intenzionata a rilevare lo stabilimento e il marchio Pernigotti, attivo dal 1880. Mi fa piacere per i 100 novesi che rischiano la cassa integrazione, ma perché allora il Comune di Torino non rileva lo storico negozio di articoli enologici Menietti, attivo in piazza Savoia dal 1911? Chiuderà nel primi mesi del 2019, e a trovarsi in strada (senza cassa integrazione) non saranno solo i due proprietari, ma anche i due commessi. Dice: va bè, ma sono solo 4. Solo 4? L’Istat ci informa che solo nei primi nove mesi del 2018 hanno abbassato la saracinesca 20mila esercizi privati. Sono “almeno” 40mila persone per strada, non 4. E’ tristissimo, ma è così. Calano gli acquisti. E non è solo la grande distribuzione ad aver causato questa crisi. Anche lei registra una flessione davanti a quel fenomeno epocale, inarrestabile, che si chiama Internet. La situazione è grave anche in Europa, ma l’Italia è quella che sta peggio. Ormai on line si compra tutto, e non solo da Amazon. Scarpe, abbigliamento, accessori, elettrodomestici, articoli tecnici, libri… Presto anche gli alimentari. Persino la ristorazione è minacciata: McDonald ha stipulato una convenzione con una società specializzata nella consegna dei pasti a domicilio dai ristoranti, per recapitare a casa senza sovrapprezzo i suoi cibi. Come fa un negozio, con le spese che ha e le tasse che deve pagare, a sostenere la concorrenza di chi ha meno spese e le tasse (pochissime) le paga nei paradisi fiscali? Il commercio al dettaglio è un malato grave, e nessuno conosce rimedi efficaci. Nessuno riesce a immaginare un mondo senza negozi. Eppure sta arrivando. [email protected]

E’ vero caro Manlio, sono in tanti a congiurare contro quella che viene definita “piccola attività commerciale”: grande distribuzione, stato inefficiente, assurda regolamentazione fiscale, aziende multinazionali (leggi: straniere), ecc.,ecc. Ma è altrettanto vero, che si voglia o no, siamo pure noi o almeno moltissimi di noi a contribuire , magari per il gusto di seguire la moda ma soprattutto per ignoranza, a distruggere i nostri negozi e la loro forza d’amalgama sociale con la scusa che quegli altri “ci fanno risparmiare”…

SPIRIDON/14

Aria ticinese Caminàa da nasc’condòn con la “Corona” Ma sa po’ proibìi una pasegiada fö da cà ? Nüm che còrom tüt i dì, anca do volt al dì. Mi a som partìit da corsa fö da cà e som nai sui sentée nel bosc’ch, mia tròp lontàn da cà. A ma fermi davanti al Fort Olimpo a Magadìn-Ponte a légi el cartèl dela desc’criziòn, una bèla sc’toria da l’ültima guera pasada. E pöö, a ma guardi in gìir per podée còor lontàn dala gént. A rivi ai cà da chesc’to quartiéer indoa dala picola piazèta un sentée u partìs in süla colina. Davanti a mi a vedi una Madonina che la ma guarda, ma senza indicaziòn particolàar. Dopo un sot pasàg’ dela ferovìa FFS lì visin a vedi un bivio con do sentée, vun u ga in nom “Sentiero Motto Rabello”. El dovrés colegàa la piana con la sc’trada da sòra che la va per Orgnana. Un sentée ripid, pién da böc’ e con sc’calit tüc’ iregolàar, quindi dificil per mì un tornàa indrè senza fàs del màa, ma a ga lo faia. Fasendo un altro sentée püsée in là, amò con sc’calit in pée e tanto scivolòos con sora tanta föia che ti vedi a mala pena l’alteza del sc’calìn, ti rivi sü ala fìn, nel vedée do o trè cà disabitàat, e a ma trövi lì davanti in fàcia una capèla, mèza abandonada, ma bèla che, per guardala sül davanti indoa a ghé un afresc’ch con sü el St. Antoni, ti sa trövi in bilich con la sc’carpada ripida e con sota la ferrovìa. Ma da chi l’è ? Chi l’è che u la cosc’trüìida propi lì ? In che occasiòn la sarà sc’taia faia ? Nesün del quartiéer ul sa e incöö a ghé poca gént in gìr, a sa pò domandàagh niént a nisün ! Chesc’ta chi lé una zona impervia … per fortüna che incöö i ma visc’t nesün !

Gian-Claudio Lanini

La Maison Banchi srl, nota azienda produttrice di materassi e cuscini sanitari e altri dispositivi medici, si è salvata dalla chiusura e ha salvaguardato 20 posti di lavoro, riconvertendosi alla produzione di mascherine. Ha ripreso vita anche la rete dei distributori, tutte partite Iva sull’orlo dell’estinzione e alla produzione hanno collaborato diverse aziende cinesi del pronto moda pratese che si sono gettate con entusiasmo nell’impresa «per dare una mano all’Italia». Sul pennone nel piazzale della Maison Banchi giustamente sventola, accanto al tricolore, la bandiera rossa della Repubblica Popolare Cinese. «Ho messo la bandiera di quelli che ci aiutano - spiega il titolare Massimo Banchi– non certo di quelli che si voltano dall’altra parte».

Banchi tiene a sottolineare che alla base di questa nuova avventura imprenditoriale c’è anche quella che chiama «una motivazione sociale». «Stavo per chiedere la cassa integrazione – racconta Banchi – e quando ho chiesto ai miei dipendenti di venire a lavorare non hanno avuto esitazioni. Per noi che facevamo prodotti di tipo sanitario molto sofisticati è stato facile fare mascherine. Siamo riusciti anche a tenere in piedi la rete dei nostri distributori porta a porta che girano a in tutta Italia e che non avevano più prospettive. Ma soprattutto abbiamo voluto fare qualcosa di utile in questa emergenza sanitaria e infatti abbiamo riservato grande attenzione a tenere il prezzo basso in rapporto alla qualità del prodotto. Le ditte cinesi che collaborano con noi hanno risposto con entusiasmo e non c’è stato bisogno di trattare sul prezzo».

Le mascherine, fatte a mano e che tutti i crismi sanitari, incellofanate una per una, sono vendute in farmacia, a tre euro e 95 «e nel prezzo finale – fa notare Banchi – c’è anche il 22% di Iva». La storia sarebbe del tutto a lieto fine se non fosse che è saltata una fornitura di 25mila mascherine ad un corpo dell’esercito italiano per quello che i titolari definiscono «il virus della burocrazia». «A noi gli ordini non mancano – dice Banchi – stiamo producendo al massimo delle nostre possibilità, ma ci aveva cercato un ufficiale di un importante corpo militare, che si era rivolto a noi dopo aver cercato mascherine da ogni parte del mondo, reputando che le nostre avessero un rapporto qualità prezzo molto buono. Siamo stati ben contenti di attivarci ma a quel punto è intervenuta la burocrazia, abbiamo prima dovuto fare l’iscrizione al Mepa, il portale acquisti della pubblica amministrazione e ci hanno detto che occorrevano 45 giorni, poi abbiamo scoperto che l’iter si bloccava perché agli effetti del Burt (Bollettino Ufficiale della Regione) l’azienda risultava non del tutto in regola, perché era ancora in corso la rateizzazione dei versamenti contributivi, che salvo errore, è prevista dalla legge e non è la dimostrazione della scarsa affidabilità di un imprenditore. Il risultato è che non siamo riusciti a fornire le 25mila mascherine. Per il Covid-19 – conclude Massimo Banchi - verranno trovate medicine e vaccini ma mi chiedo se si troverà mai il vaccino per sconfiggere la burocrazia».

SPIRIDON/15

- Ecco, che dopo la visione di un impressionante servizio inchiesta RAI sullo stato di degrado delle migliaia di ponti, viadotti e cavalcavia disseminati in tutto il sistema viario italiano, strutture perlopiù realizzate nel secolo scorso con materiali cementizi impastati con amianto e armate con ferro in molti casi mineralizzato, corrose e disgregate, ad evidente rischio di crollo, di implosione, abbiamo conferma che il disastro del Ponte Morandi sul Polcevera non è stato casuale, ma la conseguenza ovvia di un atteggiamento, di una filosofia gestionale, complessiva di chi tira a campare e la polvere con asbesto ha sinora preferito gettarla sotto il tappeto. Non è di certo rivendicando un ruolo per il responsabile allarme sull’ipotesi di demolizione con esplosivi - che ha modificato le scelte per le operazioni in corso a Genova, peraltro dopo il grave precedente del 24 luglio del 2008 con l’abbattimento al tritolo del Velodromo Olimpico a Roma - che ONA può pensare di aver assolto al compito che spetta ai difensori dei cittadini da rischi tossici: quello appunto da amianto è doppiamente perverso e subdolo, perché insito ovunque e killer a memoria debita. Dunque, per fare il punto su di una situazione esemplificativa come quella di Latina, di quanto complesso sia il problema, di quanto sia difficile affrontare il combinato disposto tra economia del territorio, sistema industriale, sicurezza del lavoro e della salute come bene primario non soltanto prioritario ma assoluto, l’Osservatorio Nazionale Amianto con il suo Presidente, l’avvocato Ezio Bonanni, ha indetto per il prossimo sabato 13 aprile un appuntamento irrinunciabile per chi ha a cuore il futuro di una regione simbolo come quella pontina: storicamente terra di redenzione naturale e di rinascita sociale, ora è di nuovo a rischio, afflitta appunto da siti contaminati da amianto, da rifiuti tossici e dal nucleare delle centrali , non di certo sopito da cessazioni burocratiche. Per questo, immaginiamo ONA alla stregua del grande Ponte sul Danubio, che Apollodoro di Damasco realizzò per Traiano diciannove secoli fa, opera straordinaria di oltre un chilometro, costruita anche con cemento romano, malta priva dell’amianto, che era comunque concepita per il breve termine, per l’uso esclusivo di una azione, in quel caso militare. Per questo vorremmo adottare simbolicamente non un sito istituzionalmente imponente, come il Tempio di Giove Anxur, che pure insiste in un punto nevralgico del panorama latino, ma più a nord quello assolutamente identificativo della necessaria compatibilità tra le opere dell’uomo e della natura in funzione di un giusto divenire, il Forum Appii. Il cippo e il ponte, che lo segnalano, si trovano al quarantatreesimo miglio della Regina Viarum, suggestione lirica per Orazio, punto di riferimento per Strabone e Plinio il Vecchio, tappa per San Paolo in viaggio verso Roma, quale ponte senza sponde né tempo, nodo di civiltà ponderata da ripristinare idealmente in un contesto di salubrità.

SPIRIDON/16 il racconto del mese

“Amo nel gatto l’indifferenza suprema e la signorilità con la quale si trasferisce dai salotti alle grondaie” Giorni fa, consultando un social network, ho notato questa citazione di François-René de Chateaubriand. La condivido pienamente, anche se ci potrebbe essere un’altra qualità che contraddistingue questa adorabile razza felina. Di cosa sto parlando? Di una spiccata raffinatezza sensoriale. Alcuni elementi della specie sembrano possedere gusti musicali. Ho avuto l’onore di ospitare uno di questi rari esemplari e vi assicuro che è stata un’esperienza sorprendente. Ma... meglio cominciare dall’inizio. Da molto tempo non toccavo il pianoforte. Lui stava là, contro la parete del salotto, con il suo colore scuro e la sua forma austera. Da dove venisse quella sensazione che provavo ogni qualvolta volgevo lo sguardo verso quella direzione non lo so. È difficile esprimerlo razionalmente... Incredibile! Rammaricarmi nei confronti di un oggetto! Non so spiegarlo... Insomma, era come se quello strumento supplicasse: “ma perché diavolo mi tieni qui come un baccalà, abbandonato a me stesso contro la parete?”. Capisco che raccontarla così sembra una follia, ma quello che provavo era comunque qualcosa che assomigliava al rimorso. Quando si scrive per professione, non c’è spazio per un’altra attività che non sia quella. Si chiama dedizione. Non c’è altro modo per farlo. Dalla prima frase del mio ultimo romanzo erano passati due anni, esattamente il tempo impiegato per riempire tutte quelle pagine. Alcuni dettagli, piuttosto noiosi, mi avrebbero occupato ancora per un breve lasso di tempo, ma, sostanzialmente, il mio lavoro era praticamente finito. Generalmente, in questa fase, mi assale una rilassatezza infinita, quasi inebriante. A questo punto, è quasi una norma, mi riavvicino timidamente al pianoforte, lo apro, provo l’accordatura, vado su e giù sui tasti con le scale e, dopo pochi giorni, riprendo a suonare come se non avessi mai smesso. Il caro, vecchio Hanon... Una settimana intera passata a voltare quelle pagine ingiallite piene di esercizi e stavo già provando una Sonata di Schubert ! Con la coda dell’occhio, mentre le dita correvano ancora incerte sulla tastiera, mi ero accorto di una presenza. Era Gatto che mi osservava. Quel felino senza nome si era presentato, tempo addietro, nel mio giardino. Santo cielo! Non avevo mai visto un animale in quelle condizioni, era la perfetta rappresentazione scenica del randagio malmesso. Davanti a quegli occhi disperatinon ho resistito, naturalmente, fregiandolo dell’onorificenza più ambita per un vagabondo: quella di animale domesticoa tempo pieno. Non gli avevo dato un nome, come aveva fatto Holly (“quella” Holly)eper la stessa ragione. Dunque, io stavo suonando e lui mi fissava senza muovere neppure un baffo. Sembrava non respirasse neppure, tant’era intento osservarmi. Ma poi, improvvisamente, guardando sempre di traverso, lo avevo intravisto fare dietrofront e andarsene rapidamente. “Bá! Ne avrà abbastanza!”, ricordo di aver pensato. In quel momento, stavo eseguendo le battute nere della sonata. Lo pseudonimo si spiega da sé: erano piene zeppe di note, quasi da oscurare il pentagramma. È questa parte della composizione che fa la differenza tra un pianista dilettante e un concertista... beh, ognuno si guadagna da vivere come può! Comunque, ci sono voluti diversi giorni e svariate esecuzioni di quel brano per farmi capire come stavano le cose: Gatto amava solo l’essenza romantica di Schubert. Evidentemente, la parte con movimento non lo interessava, anzi, forse lo infastidiva. Con il passare del tempo il nostro rapporto si era evoluto, trasformandosi in un sodalizio artistico. Rispettando la sua sensibilità musicale, eseguivo ossessivamente la sola parte melodica. Oltretutto, la circostanza mi risparmiava le solite frustrazioni con la tastiera. Alla sonata di Schubert, avevo aggiunto un’Aria di Bach, per esempio, e altre ancora. La coabitazione con Gatto andava a gonfie vele. Non appena mi sedevo al piano, mi saltava agilmente in grembo e per tutta la durata dell’esecuzione se ne stava accovacciato con le orecchie ritte e gli occhi stralunati, come fosse in trance - la superficie lucida dello strumento mi permetteva di vedere la sua immagine riflessa -. Ad intervalli regolari, girava lentamente il muso verso di me socchiudendo gli occhi. Poi si voltava nuovamente verso i tasti nella sua classica posizione d’ascolto. Quel movimento oscillante, che Gatto faceva con il suo muso di pelo corto tigrato, mi rilassava enormemente, addirittura da farmi inciampare meno frequentemente nei passaggi difficili. Il ménage di Gatto nella nuova dimora era estremamente tranquillo. Per un felino randagio come lui, probabilmente abituato a continue peripezie e spostamenti alla ricerca di cibo, la nuova vita era tutta racchiusa in una sfera di placida inattività. Nella stagione fredda se ne stava in casa acciambellato nel suo morbido giaciglio, salvo presentarsi puntualmente al mio fianco quando mi mettevo al pianoforte. Durante i mesi temperati le sue abitudini non cambiavano, l’unica differenza era la posizione della sua piccola alcova che mettevo all’esterno, appena fuori dall’ingresso. D’estate, mentre scrivevo in giardino all’ombra del mio albero preferito, mi faceva compagnia là sotto. Questo comportamento sedentario mi aveva convinto che Gatto adorava talmente la nuova sistemazione da chiudere definitivamente con l’altra, quella di strada. Non era un animale particolarmente espansivo. Che io ricordi, non l’ho mai sentito fare le fusa e neppure amava essere accarezzato. Non so se questo atteggiamento, che rasentava il cinismo, fosse dovuto ai travagli della vita precedente, oppure, più semplicemente, ad un carattere ombroso. Comunque, qualsiasi cosa fosse, non gli ho mai imposto niente; in conclusione, erano affari suoi e andava rispettato per quello che era. Con lo scorrere del tempo, Gatto si era appesantito. Quando suonavo, lui stava lì, immobile, al mio fianco, aspettando che lo sollevassi. Per un certo periodo di tempo ci aveva provato a farlo da solo, a volte riuscendoci e altre no. Ma, più avanti, si era dovuto rassegnare ad accettare il mio aiuto. Sono passati dieci anni e altri due romanzi di successo. Non posso affermare lo stesso cosa con la musica perché, nel frattempo, non sono migliorato granché come pianista. Ma non è di questo che voglio parlare. Nel mio giardino ci sono diverse piante. Quella che prediligo è un acero, chiamato confidenzialmente Rossofoglia. Sì, proprio quell’albero, dove mi rifugiavo a scrivere d’estate. Quando ci passo davanti mi fermo. C’è una piccola lapide bianca sotto. Reca la scritta “Schubert”. Guardando quell’incisione scura penso invariabilmente alla stessa cosa... Gatto non poteva riposare per sempre senza un vero nome.

Ermanno Gelati