SOMMARIO

1.- IL TERRITORIO COMUNALE DI AVETRANA: CARATTERISTICHE NATURALI GENERALI 4 2.- EVOLUZIONE DELL’USO DELLE RISORSE NATURALI IN AVETRANA DALLE ORIGINI SINO AGLI ANNI ’60 DEL SECOLO SCORSO 13 2.1.- Le motivazioni “umane” connesse al soddisfacimento dei bisogni vitali 13 2.2.- Le motivazioni storiche 15 2.2.1.- Premessa 15 2.2.2.- Gli interventi pubblici e le azioni private in merito alla “questione agraria” meridionale 16 2.3.- L’origine e la formazione della “civiltà contadina” e della “società rurale” in Avetrana in contrapposizione alla civiltà ed alla società feudale e burgensatica 20 2.3.1.- La “civiltà contadina” e la “società rurale” in Avetrana 24 2.4.– Il paesaggio agrario tradizionale 25 3. – EVOLUZIONE DELL’UTILIZZAZIONE DEL TERRITORIO IN AVETRANA DAGLI ANNI ’60 DEL SECOLO SCORSO ALL’ATTUALITA’ 33 3.1.- Premessa 33 3.2.- Evoluzione demografica ed economico-sociale 36 3.3.- Evoluzione strutturale dell’agricoltura avetranese ed attuale utilizzazione del territorio 41 3.3.1.- Premessa 41 3.3.2.- Superficie territoriale ed utilizzazione del suolo 42 3.3.3.- Frammentazione della proprietà terriera e probabili effetti della stessa sulla futura destinazione del suolo 45 3.3.4.- Ripartizione della superficie a destinazione agricola 50 3.3.4.1.- Premessa 50 3.3.4.2.- I Seminativi 50

2 3.3.4.3.- I “Prati permanenti e pascoli” e le “superfici a bosco e pioppeti”: ovvero, le superfici a “macchia” 51 3.3.4.4.- Le coltivazioni permanenti: l’ulivo e la vite 57 3.3.4.5.- La superficie a “cava” 62 3.3.4.6.- L’allevamento del bestiame 62 4.- LA COMPILAZIONE DELLE CARTE TEMATICHE TERRITORIALI E LA PRODUZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA: LORO CONTENUTI E METODOLOGIA PROCEDURALE 63 4.1.- Premessa 63 4.2.- Metodologia di rilevazione dei dati 63 4.3.- Elaborazione dei dati 65 4.4.- Principali risultati dell’indagine territoriale 67 5.- CONCLUSIONI 68

3 1.- IL TERRITORIO COMUNALE DI AVETRANA: CARATTERISTICHE NATURALI GENERALI .

La superficie territoriale del Comune di Avetrana si estende su 73,28 Kmq ed occupa l’estrema zona orientale del territorio provinciale di . La predetta superficie territoriale, infatti, confina ad ovest ed a sud con l’agro comunale di (Ta), mentre ad est confina con gli agri comunali di Porto Cesareo, Nardò e Salice Salentino (Le) ed a nord con gli agri comunali di San Pancrazio Salentino ed Erchie (Br).

Il confine territoriale sud decorre pressoché parallelo alla costa ionica da cui dista mediamente circa tre chilometri; la superficie territoriale avetranese degrada, in modo più o meno continuo e più o meno accentuato, verso sud e cioè verso la costa passando da un’altitudine media della zona nord di m 75 s.l.m., ai m 60 del centro abitato, ai m 20-25 delle zone sud. L’ubicazione del territorio avetranese nell’estremo lembo delle Murge Tarantine, conferisce, allo stesso, diversificate e specifiche caratteristiche strutturali naturali: il

4 centro abitato è circondato da una serie di bassi rilievi che si “aprono” verso sud in direzione del mar Jonio; sul versante meridionale si elevano i rilievi “Monti della Marina”, “Monte d’arena”, “Monte la Conca”, e, in località “Sierri”, il cordone delle “Serre” o “Belvedere”. L’intero territorio si presenta quindi come un grande anfiteatro aperto sul versante costiero jonico. La conformazione naturale della superficie territoriale, degradante più o meno uniformemente verso sud e quindi più o meno uniformemente esposta a mezzogiorno (alla stregua di un enorme piano inclinato) e la vicinanza della stessa alla zona costiera, hanno una notevole influenza sul clima locale – che, in generale, è tipicamente mediterraneo con estati molto calde e siccitose ed inverni miti – e quindi sulla biosfera del territorio. In sede di redazione del P.U.G. e, cioè, in sede di pianificazione dell’impiego delle risorse naturali finalizzato al conseguimento dei massimi livelli di efficienza e di sviluppo territoriale armonico e sostenibile, si ritiene importante illustrare, seppure in estrema sintesi – e prima ancora di esporre la situazione attuale e le condizioni umane e storiche che la hanno determinata – le caratteristiche naturali del territorio avetranese con particolare riferimento alla sua principale (e sino a qualche decennio addietro, unica) utilizzazione: quella agricola. Particolarmente influenti sulla biosfera locale (tipologia, quantità e qualità della flora e della fauna) risultano anche le caratteristiche geopedologiche territoriali da cui dipendono l’autonoma disponibilità di adeguate risorse vitali con particolare riferimento alle risorse idriche (per quantità e qualità delle stesse) necessarie per soddisfare i fabbisogni civili ed agricoli – e di altre attività produttive – e da cui dipendono la tipizzazione dell’ecosistema e la capacità produttiva (fertilità) della terra e quindi il livello di ricchezza da essa detraibile. In riferimento alle caratteristiche geologiche – rimandando ad una più puntuale e completa trattazione dell’argomento alla specifica Relazione Tecnica – in questa sede si richiamano gli aspetti generali inerenti all’idrologia e cioè alla circolazione ed alla presenza delle acque sotterranee in relazione alle possibilità di un loro attingimento ed utilizzazione; ciò assume rilevante importanza poiché, essendo del tutto assente sul territorio avetranese una idrografia superficiale, da sempre la ricerca e l’utilizzo delle

5 acque di falda – oltre a quelle pluviali raccolte in apposite cisterne - ha interessato la popolazione locale ed ancora attualmente il rinvenimento e l’utilizzo di tale acqua nelle zone non servite da impianti idrici pubblici, hanno essenziale importanza. La geologia del territorio avetranese, nelle linee generali, è caratterizzata da una notevole omogeneità. Le formazioni rocciose, costituite da una massa calcarea di notevole potenza, prevalentemente piatta, comprendono alcuni termini del quaternario, del terziario e del cretaceo medio e superiore. In virtù delle proprietà fisiche, tipiche delle masse rocciose calcaree, caratterizzate, com’è noto, da una notevole resistenza alla rottura, le formazioni litologiche si presentano in qualche sito in banchi ed in strati di notevole spessore, privi di fessurazioni o con lievi fenditure sottili; più in generale, però, la roccia, avendo subito l'azione di particolari sollecitazioni meccaniche di varia natura ed origine, si presenta sensibilmente fessurata. Il fenomeno assume particolare rilevanza negli strati più superficiali in cui lo stato fessurativo generale risulta accentuato a causa di processi di natura carsica particolarmente attivi in virtù delle caratteristiche climatiche - temperatura e precipitazioni - che nella zona risultano particolarmente ottimali all’instaurarsi ed allo svolgersi del fenomeno. Il notevole volume fessurativo complessivo influisce in modo sensibile sulla dinamica delle acque pluviali nelle formazioni rocciose e, conseguentemente, sulla capacità di accumulo e quindi sulla potenza, sulla ricchezza e sulla qualità della falda acquifera. Invero, il movimento delle acque è, almeno in parte, limitato dalle intrusioni, nelle fessurazioni rocciose, di terra rossa e di bolo. Per questo motivo la roccia calcarea - che quando è estratta da banchi non fessurati e quindi non contaminati appare di colore molto chiaro - sul territorio di Avetrana risulta sempre variamente e più o meno intensamente colorata; ciò si constata anche su “carote” di roccia estratte da ragguardevoli profondità. Visto con l’ottica più puntuale, il sottosuolo del territorio di Avetrana si caratterizza, nelle linee generali, per la presenza dei seguenti quattro strati di roccia:  primo strato: è costituito da calcareniti, spesso in facies di scogliera. Lo spessore di questa massa rocciosa si aggira mediamente intorno ai 12-15 metri;  secondo strato: si tratta di uno strato di spessore limitato formato da argille grigio- azzurre plioceniche e/o pleistoceniche. Tale formazione costituisce uno strato

6 impermeabile, non sempre continuo, su cui si posa una prima falda acquifera (“lente”);  terzo strato: è costituito da conglomerato calcarenitico a grana piuttosto fine imbibito di umidità e scarsamente permeabile; tale strato si presenta in blocchi a grana omogenea molto spesso privo di fessurazioni ma alquanto discontinuo e perciò consente all’acqua di percolazione di attraversarlo;  quarto strato: è costituito da roccia calcarea compatta, di potenza indefinita, ascrivibile al cretaceo medio e/o superiore. Contiene, al livello del mare, la falda profonda di acqua dolce. Non sempre i primi tre strati descritti si riscontrano nel loro ordine; più spesso uno di essi non è presente. L’idrologia della zona appare strettamente correlata alle caratteristiche stratigrafiche ed alla notevole permeabilità dei calcari che, in generale, consentono al loro interno una sensibile percolazione e circolazione delle acque pluviali. Tuttavia, in questo quadro generale si riscontra una certa variabilità nella frequenza, nell'intensità e nella consistenza delle discontinuità o fessurazioni, che determina l'irregolare distribuzione spaziale degli accumuli idrici sotterranei e la loro ubicazione a diversi livelli di profondità. In termini di profondità, un primo accumulo idrico si riscontra, intorno ai 10-15 metri, a livello di “lente” costituita dalle argille plioceniche e/o pleistoceniche laddove sono presenti; tale accumulo idrico è, però, inutilizzabile per scopi irrigui e/o industriali a causa della sua modestissima entità peraltro fortemente influenzata dall'andamento pluviometrico. L’utilizzazione di queste acque, in un passato più o meno recente, avveniva in forma intensiva e serviva a soddisfare prevalentemente i fabbisogni domestici e l’abbeveraggio degli animali. A livello del mare, e quindi ad una profondità dal p.d.c. alquanto variabile (in relazione alla variabilità della quota sul l.m.m. che caratterizza il territorio e di cui si è accennato in precedenza) si rinviene un accumulo idrico di grande interesse per i fini irrigui - o altri scopi produttivi - seppure caratterizzato da una certa variabilità in termini di consistenza e di profondità. Questa falda di acqua dolce, che “galleggia” sulle acque salate (più dense) risulta molto abbondante e di buona qualità. In prossimità della zona costiera le falde risentono, inevitabilmente, della vicinanza del mare e le acque che le costituiscono, ancorché

7 abbondanti, sono molto frequentemente inadatte per l'irrigazione perchè contengono elevati livelli di salinità. Le acque di falda che costituiscono una enorme ricchezza territoriale naturale la cui qualità e quantità è in stretto quanto delicato equilibrio – spesso ignorato e/o non sufficientemente considerato – con l’ambiente superficiale, vanno salvaguardate sia mediante una loro adeguata utilizzazione (numero di pozzi, profondità dello scavo, emungimenti appropriati, ecc.) sia mediante appropriate azioni di tutela della loro qualità. Le forme e le quantità di utilizzazione delle falde acquifere (numero di pozzi, profondità dello scavo, emungimenti strettamente indispensabili) assumono particolare rilevanza specialmente nelle zone a più bassa quota sul l.m.m. (zona sud del territorio avetranese) laddove più sottile è lo strato di acqua dolce galleggiante su quella salata e quindi laddove più elevato è il rischio di un loro rimescolamento. In riferimento alla salvaguardia della qualità si rileva che attraverso il volume fessurativo delle rocce calcaree, nelle acque di falda percolano e quindi defluiscono i liquidi di superficie e cioè:  le acque pluviali le quali percolano negli strati profondi dopo aver “dilavato” le superfici su cui si sono depositati i residui carboniosi (fumi di scarico dei mezzi meccanici, degli impianti di riscaldamento, ecc.) e le sostanze in essi contenute (metalli pesanti, ecc.); il fenomeno, per ovvi motivi, assume particolare rilevanza nel centro urbano;  i reflui liquidi prodotti dalla moderna “società dei consumi”, il cui smaltimento e il cui carico inquinante purtroppo, specialmente in assenza di rete fognante pubblica, non sempre è controllato e controllabile (zone periferiche, case sparse, insediamenti residenziali, ecc.) e nei quali sono disciolti e/o sospesi e/o dispersi, sostanze inquinanti di natura organica (agenti patogeni) ed inorganica particolarmente tossici e nocivi (deiezioni liquide e solide, detersivi, insetticidi e disinfettanti, solventi e sostanze coloranti, sostanze oleose ed idrocarburi derivanti dalla riparazione, manutenzione e lavaggio di mezzi meccanici, ecc.). La salvaguardia ambientale globale - spesso si considera il solo ambiente superficiale, di più immediato impatto – è obiettivo di assoluta priorità nella pianificazione

8 territoriale, finalizzata all’utilizzazione razionale delle risorse naturali, di una società civile ed evoluta. Le caratteristiche pedologiche , ovvero le caratteristiche del terreno agrario, dell’agro avetranese sono alquanto variabili in relazione alla conformazione e composizione del substrato roccioso ed in relazione all’origine del terreno stesso: alloctona (terreni di trasporto) o autoctona (terreni formati sul luogo). Il terreno agrario esplorabile dall’apparato radicale delle piante, denominato “suolo” e costituito da roccia “sciolta”, poggia sugli strati rocciosi precedentemente succintamente citati, che costituiscono il “sottosuolo”; la natura di quest’ultimo è alquanto importante per il “rifornimento” idrico, per via capillare, degli strati più superficiali del terreno agrario durante i periodi più caldi e siccitosi e quindi è alquanto importante per le capacità produttive di quest’ultimo. In agro di Avetrana prevalgono i terreni autoctoni derivati, secondo le teorie più accreditate, dal disfacimento della roccia calcarea sotto l'azione dell’elevata temperatura e delle acque di pioggia. Tali terreni presentano molto spesso le caratteristiche peculiari delle cosiddette “terre rosse” e cioè: a) notevole presenza di ossidi ed idrossidi di ferro ed alluminio (che conferiscono il colore); b) scarsa presenza di carbonato di calcio nonostante derivino dalla roccia calcarea e riposino sulla medesima; c) esigua presenza di sostanza organica per gli effetti dell’alta temperatura; d) limitato spessore che, infatti, si aggira mediamente intorno ai 20 centimetri. Tale tipologia di terreno, caratterizzato da fertilità media e medio-bassa, ricopre pressoché uniformemente – con qualche eccezione comunque di modesta entità – il territorio a sud e la parte centrale a nord del centro abitato di Avetrana. Tuttavia, sul territorio del Comune di Avetrana si riscontrano anche ampie zone di terreno alloctono di origine alluvionale, fresco e profondo, con notevole presenza di humus e perciò molto fertile. Tale tipologia di terreno si riscontra nel territorio a nord- est e nord-ovest del centro abitato di Avetrana (“Pozzelle”, “Sinfarosa”, “Ruggianello”, “Frassanito”, “Centonze”) con qualche presenza nella zona sud-ovest (“Cannelli”, ecc.). Su aree molto limitate si riscontra una particolare tipologia di suolo poggiante su banchi

9 piatti di roccia calcarenitica priva di fessurazioni: tali suoli, costituiti da uno strato sottilissimo di particelle, peraltro molto grossolane, risultano del tutto inutilizzabili, poiché “sterili”, ai fini agricoli (“San Francesco”). Dal punto di vista chimico i terreni della zona – con specifico riferimento ai terreni ascrivibili alla tipologia delle “terre rosse”, autoctoni - risultano soddisfacentemente dotati di elementi fosfatici e, in particolare, potassici: a tale composizione chimica del suolo è dovuta l’elevata sapidità, concentrazione delle sostanze nutritive e conservabilità delle produzioni locali giustamente rinomate (prodotti “paesani”). Generalmente molto scarsa appare, invece, come già detto, la presenza di humus e quindi di sostanze azotate. Fanno eccezione alcuni terreni alluvionali di colore scuro (“patuli”) in cui è prevalente la presenza di azoto. Altra importante caratteristica naturale del territorio avetranese è costituita dalla presenza su di esso di estese associazioni naturali spontanee costituite dalle essenze della flora mediterranea. Di tali associazioni vegetali, di cui si dirà diffusamente in seguito in merito all’utilizzazione del territorio, allo scopo di pervenire ad una loro appropriata collocazione naturalistica, appare utile evidenziare in questa sede, seppure succintamente, le caratteristiche più salienti:  foresta : è costituita da piante selvatiche d’alto fusto che si stabilizzano in un territorio – costituendo una comunità vegetale molto fitta – e che alla fine della fase evolutiva giungono, in relazione al clima, ad una associazione vegetale stabile che i naturalisti indicano, appunto, con il nome di “climax” (foresta o “climax tropicale”, foresta o “climax siberiana”, ecc.). Nelle foreste, all’ombra delle piante di alto fusto, si sviluppano densi “strati” di vegetazione lianosa ed arbustiva; l’ultimo strato è costituito da vegetazione erbacea perenne;  bosco : è un’associazione vegetale di piante d’alto fusto, meno fitta sia nei componenti primari che in quelli secondari (sottobosco) rispetto alla foresta. Il bosco, che può avere origini naturali oppure può essere realizzato dall’uomo, a scopo “estetico-ambientale” o “produttivo”, può essere costituito da una sola – ovvero da una prevalente – essenza legnosa (lecceto, faggeto, pineta, pioppeto, ecc.); tale associazione non raggiunge lo stato di climax;  macchia mediterranea : tale associazione vegetale naturale - e quella di cui si dirà appena dopo, la gariga - riveste particolare importanza per il nostro territorio. A pag.

10 181 della pregevole opera “La flora” del T.C.I. 1 si legge che la “ macchia (“maquis” dei francesi) è da noi, nel linguaggio comune, un luogo selvaggio densamente occupato da una boscaglia talora impenetrabile ”. E, più specificatamente, “caratteri generalissimi e più tipici della macchia mediterranea sono: anzitutto il predominio in essa di arbusti ” (e sovente di alberi allo stato di arbusto ... un’altezza media della vegetazione di 2-3 metri circa; la ricchiezza di liane ...che contribuiscono a creare un intreccio inestricabile , una tale densità e compattezza della vegetazione che ben pochi sono gli spazi in cui possa svilupparsi la vegetazione erbacea (le sottolineature sono state da noi apposte). Non dissimile è la definizione di macchia data da Polunin e Huxley 2 secondo cui “... la macchia è un tipo molto naturale e caratteristico della vegetazione mediterranea; folta, spesso impenetrabile, costituita da arbusti alti 2 metri o anche più, ... ”; i predetti Autori, altresì, distinguono una “macchia di alto fusto” ed una “macchia di basso fusto”; quest’ultima, tuttavia, sarebbe pur sempre “costituita da arbusti alti da un metro e mezzo a due metri; ...”. Sempre in riferimento alla macchia mediterranea per il Fenaroli 3 “ con il termine di macchia si intendono associazioni di piante arbustive e suffruticose, o in condizioni ecologiche di maggior favore anche arboree, ... negli stadi progressivamente più degradati la macchia assume un più modesto portamento arbustivo per divenire bassa macchia negli stadi cespugliosi ... ”. Quindi, affinché un’associazione vegetale possa essere definita “macchia” o “macchia mediterranea” è indispensabile che presenti tutte insieme, nessuna esclusa, le seguenti caratteristiche: • luogo pressoché selvaggio; • presenza di intensa boscaglia ricca di liane e talora impenetrabile, costituita se non da alberi almeno da arbusti; • vegetazione di altezza non inferiore a m 1,5 (macchia bassa); • scarsa presenza di vegetazione erbacea per assenza pressoché totale di spazi in cui svilupparsi.

1 Collana “Conosci l’Italia” vol. II: “La flora ”, Touring Club Italiano, Milano 1958. 2 Polunin O. – Huxley A.: “Guida alla flora mediterranea ”, Ed. Labor, Milano, 1968. pag. 17-19 3 Fenaroli L.: “Note illustrative della carta della vegetazione realie d’Italia ”, Minist. Agr. e For., Collana verde 28, Roma, 1970.

11 La macchia mediterranea è tipicamente e prevalentemente costituita da associazione di leccio, oleastro, corbezzolo, ginestra spinosa, lentisco, cisto, mirto, fillirea, dafne, euforbia, ecc.. La macchia non ha origine univoca: essa può rappresentare il risultato finale dell’azione antropica sulla foresta originaria sfruttata e degradata dall’uomo (macchia secondaria), ovvero può costituire la più diretta ed elevata espressione vegetale delle condizioni ambientali particolarmente difficili e siccitose, tipiche dell’area mediterranea (macchia primaria). Quest’ultimo tipo di macchia mediterranea è quello più diffuso nella nostra zona di cui costituisce una vera e propria condizione di climax.  gariga : con la definizione di gariga si designano formazioni cespugliose “aperte”, cioè discontinue, che possono derivare dalla degradazione della macchia ovvero possono costituire l’espressione vegetale più elevata delle condizioni ambientali estremamente difficili, con particolare riferimento a quelle pedologiche caratterizzate spesso da ampi spazi di roccia più o meno emergente. Partecipano alla costituzione della gariga quasi tutte le specie legnose della macchia anche se si presentano in forme ridotte; nelle nostre zone non di rado partecipano alla costituzione della gariga anche alcune piante aromatiche tra cui il timo, la salvia, la lavanda, ecc.. Pertanto, le associazioni vegetali che costituiscono la gariga si differenziano dalla macchia pressoché esclusivamente per la loro altezza, sempre molto ridotta; infatti, anche le formazioni cespugliose della gariga, seppure discontinue, coprono quasi del tutto, o perlomeno, coprono estesamente, la superficie su cui si sviluppano lasciando liberi soltanto piccoli spazi sempre che non siano quelli occupati dalla roccia nuda.  steppa : è un’associazione naturale di consistenza erbacea (durante la stagione calda e siccitosa dissecca ed il suolo appare nudo) costituita da essenze vegetali annuali e perenni; a volte un’essenza perenne predomina e la comunità naturale assume la sua denominazione: steppa ad asfodeli, ecc..  gariga-steppa : allorquando la gariga è molto rada ovvero la steppa presenta diffusa vegetazione cespugliosa, si configura un’associazione vegetale naturale mista che può denominarsi “gariga-steppa”. Sia la steppa sia la gariga-steppa in relazione alla rispettiva totale o parziale “praticabilità”, sono state utilizzate, da sempre, per il

12 pascolo del bestiame; per tale motivo le predette associazioni vegetali pur non essendo realizzate dall’uomo sono incluse tra le colture agricole sia dall’Amministrazione del Catasto terreni con la “qualifica” di pascolo semplice (steppa) e di pascolo cespugliato (gariga-steppa), sia dall’ISTAT nei Censimenti dell’Agricoltura che le include nella “Superficie Agricola Utilizzata” (S.A.U.). Tutte le predette associazioni vegetali (con esclusione, ovviamente, della foresta) sono presenti sul territorio avetranese. L’azione dell’uomo può portare alla degenerazione, graduale o immediata e totale, delle predette associazioni naturali; tale processo, tuttavia, è reversibile poiché, come illustrato dal sotto riportato schema di POLUNIN – HUXLEY (Op. Cit., pag. 11) dall’abbandono della coltura agricola possono rigenerarsi le comunità vegetali naturali:

2.- EVOLUZIONE DELL’USO DELLE RISORSE NATURALI IN AVETRANA DALLE ORIGINI SINO AGLI ANNI ’60 DEL SECOLO SCORSO .

2.1.- Le motivazioni “umane” connesse al soddisfacimento dei bisogni vitali.

Al settore primario, com’è noto, afferiscono l’agricoltura (spesso enunciata come sinonimo del settore), le foreste, la caccia e la pesca, le cave, le torbiere, le miniere ed i

13 pozzi, ecc., e cioè tutti i comparti da cui l’uomo trae direttamente i beni (economici e non) utili a soddisfare i propri bisogni. Il comparto forestale ha primariamente fornito all’uomo il nutrimento sia vegetale che animale; ha, altresì, tipicamente e prevalentemente fornito all’uomo il legno utilizzato per costruire ricoveri, per cucinare, per riscaldarsi, per realizzare ogni sorta di utensili, attrezzature e manufatti per uso domestico e per il lavoro, per il trasporto su terra e sulle acque, per la difesa e per fini bellici, ecc.. Avanti nel tempo dalle superfici boschive e macchiose sono stati ricavati gli spazi entro cui l’uomo ha ritenuto più conveniente – rispetto al libero procacciamento naturale – produrre i beni a lui più utili ed entro cui, quindi, allevare piante ed animali: nasceva così l’agricoltura le cui superfici si espandevano sempre più a scapito di quelle forestali sino alla pressoché totale scomparsa di queste ultime. Sicché, in relazione alla loro natura ed alla loro relativa facile conversione, le superfici del comparto forestale (costituito da flora e fauna selvatiche) sostituite dalle superfici del comparto agricolo (costituito da flora e fauna domestici) sono quelle, tra i beni naturali originari, su cui più ha inciso l’azione antropica. Sul territorio comunale di Avetrana l’utilizzazione di prodotti tipici forestali e l’azione antropica, come sopra accennata, si sono protratte sino ai tempi più recenti. Attualmente le formazioni forestali e macchiose esistenti sul territorio comunale avetranese sono confinate quasi esclusivamente sulle superfici accidentate e/o scoscese, con roccia affiorante e/o più o meno emergente, pietrose, ecc., e pertanto impraticabili e/o scarsamente fertili e quindi non utilizzabili ai fini agricoli (contrade “Marina”, “Canale di San Martino”, “Abbatemasi”, “Centonze”, “Montedarena”, “Cannelli”). Oltre alla primaria utilizzazione dei beni forestali l’uomo utilizzò molto presto anche le altre risorse naturali; infatti, risultando – in un ambiente selvatico e scarsamente praticabile – alquanto faticoso, oltre che rischioso, il trasporto dei beni naturali essenziali, l’uomo si instaurò nei luoghi dove la maggior parte delle risorse naturali erano più “fertili”, ovvero di più facile acquisizione: laddove, cioè, non solo la legna era più copiosa e di migliore qualità, ma laddove la terra era più fertile (si praticava la prima agricoltura), le acque erano presenti o facilmente reperibili (si scavavano i primi pozzi), la roccia forniva rifugi e ricoveri naturali (in territorio avetranese la grotta di San

14 Martino, la grotta dell’Erba, ecc.) ovvero era facilmente cavabile e modellabile (nascevano le prime cave), ecc.. Si originavano così le prime comunità ad economia “chiusa” che per molti secoli rimasero isolate 4; da qui:  la necessità dell’autosufficienza delle risorse naturali “locali”;  il bisogno “vitale” di utilizzare ai massimi livelli (come si evidenzierà in seguito) il suolo e le risorse naturali disponibili;  il divario di benessere sociale tra zone naturalmente “più dotate” e zone meno

“dotate”.

2.2.- Le motivazioni storiche.

2.2.1.- Premessa.

In passato chi possedeva il settore primario e cioè “la terra”, per le ragioni precedentemente accennate, deteneva il principale e pressoché unico mezzo di produzione di ricchezza e, in forza della stesso, deteneva il potere. Per contro, chi non disponeva di terra era un uomo che viveva in condizioni estremamente disagevoli, impegnato con ogni energia a procacciarsi la pur minima quantità di cibo necessaria per assicurare a se stesso e, specialmente, ai propri figli, il soddisfacimento dell’elementare bisogno della sopravvivenza. Insomma, con riferimento al passato: da una parte i proprietari della terra, pochissimi, che occupano una posizione di predominio e ne assaporano i vasti privilegi che da essa derivavano; dall’altra una moltitudine indigente, estremamente bisognosa e vulnerabile e quindi facilmente soggiogabile al potere. La condizione di enorme squilibrio economico e sociale ebbe il suo culmine con il feudalesimo allorquando la terra era interamente detenuta dal Signore (Principe, Barone, ecc.) e tutti gli altri erano ad esso soggiogati in un rapporto di vassallaggio e di servitù della gleba.

4 E’ interessante rilevare che prima della diffusione delle automobili e cioè sino a pochi decenni addietro, molti avetranesi (ed ovviamente non solo essi), con particolare riferimento alle donne, non conoscevano il mare e non erano mai stati neanche in un paese confinante (Manduria, Erchie, ecc.).

15 Nel meridione d’Italia, già Regno di Napoli, e quindi nei territori di cui faceva parte anche Avetrana, il feudalesimo, ovvero l’assetto feudalistico della società e quindi il possesso delle grandi proprietà, oltre che feudali anche ecclesiastiche e burgensatiche, si è protratto molto avanti nel tempo. L’evoluzione agricola, alla stessa stregua dell’evoluzione del pensiero e dell’azione dell’uomo e della sua storia, è evidentemente un fenomeno continuo, si verifica giorno dopo giorno; noi non potendo – e neanche sapremmo – esaminare puntualmente il fenomeno evolutivo ci soffermeremo su quelli che riteniamo siano gli eventi che più hanno influito sull’attuale assetto strutturale e produttivo dell’agricoltura avetranese caratterizzata dal prevalere della proprietà fondiaria polverizzata e dispersa 5 e dalla destinazione del suolo alle colture dell’olivo per la produzione di olive da olio, della vite per la produzione di uva da vino, dei seminativi generalmente utilizzati per realizzare colture cerealicole ed in particolare il frumento duro.

2.2.2.- Gli interventi pubblici e le azioni private in merito alla “questione agraria” meridionale.

Il primo grande evento che incise profondamente nell’evoluzione dell’agricoltura meridionale è costituito dal varo, nel Regno di Napoli, durante il cosiddetto decennio napoleonico, (Leggi 6 agosto e 6 settembre 1806, Decreti 1/6/1807 e successivi, Legge 3 dicembre 2008) delle leggi sull’eversione feudale e sulla quotizzazione dei demani mediante cui si impostò e si attuò un seppur timido accesso del bracciante indigente al possesso della terra; tale accesso riguardò quasi del tutto i territori demaniali – originando le denominate contrade “Li Tumani”, presenti non solo in agro di Avetrana ma anche in agro di Manduria, ecc. - e si attuò attraverso i contratti di enfiteusi, l’istituzione di proprietà collettive, l’istituzione degli usi civici sulle proprietà delle università agrarie, ecc.. L’attuazione delle leggi eversive della feudalità e l’accennato inizio dell’accesso alla terra della classe bracciantile si interrompeva pressoché totalmente con la restaurazione borbonica.

5 Proprietà fondiaria “polverizzata” vuol dire che la superficie agricola territoriale è suddivisa in aziende di piccole e piccolissime dimensioni; quando la proprietà è “dispersa” vuol dire che le aziende agricole non solo sono piccole o piccolissime ma altresì le stesse sono suddivise in piccolissimi appezzamenti distanti tra di loro.

16 I provvedimenti e le proposte non sortirono, però, gli effetti che i pochi illuminati giuristi dell’epoca si erano prefissati, a motivo del bassissimo livello culturale e sociale della grande massa di contadini meridionali, avvezzi da secoli al vassallaggio ed alla supina soggezione oltre che verso i clericali (che brandivano minacciosi l’arma della scomunica) anche verso il “baronato” locale, padrone di vastissimi feudi. I feudatari e gli ecclesiastici detenevano, oltre alla proprietà della terra, anche la proprietà delle case (o meglio “ricoveri” che le persone abitavano in promiscuità con gli animali) e di tutti gli altri mezzi di produzione (animali, attrezzature, ecc.) ed in particolare detenevano i frantoi oleari. Non pochi conflitti sorsero tra i feudatari e gli ecclesiastici ed i detentori dei beni burgensatici, in relazione al diritto di costruire i predetti frantoi e di liberalizzare la molitura delle olive: era, però, pur sempre, una lotta fra classi dominanti. Tali trappeti, generalmente sotterranei 6, erano pochissimi ed essendo, peraltro, molto lento il processo di estrazione dell’olio dalle drupe, le stesse venivano ammucchiate e pressate nei cosiddetti “camini” per essere lavorate nel tempo; nelle annate di “carica” la lavorazione delle olive durava fino all’inizio dell’estate (l’olio ovviamente puzzava di rancido; è da dire però che lo stesso non era utilizzato solo per l’alimentazione ma anche per l’illuminazione, per la fabbricazione del sapone, per la lavorazione della lana, ecc.). Una svolta decisiva si registra solo con l’avvento dell’unità d’Italia, allorché lo spezzettamento delle grandi proprietà diventa concreto fenomeno e crea una grande massa di piccoli possessori “arrivati alla terra” non soltanto attraverso le quotizzazioni demaniali, ma anche – e soprattutto – attraverso altre vie, quali l’affitto, l’enfiteusi, la parzionaria, la colonia migliorataria, ecc.. Sta di fatto, però, che le terre cedute ai cosiddetti “bracciali” furono quasi sempre di piccolissime dimensioni 7 e sempre quelle marginali, quelle cioè a “rendita nulla”; le terre migliori, anche quando cambiarono intestatario, rimasero indivise e continuarono a

6 Una esauriente trattazione di tale tipologia di frantoi oleari è riportata nell’interessante lavoro di Lucia Fasano Milizia “ I frantoi sotterranei in Terra d’Otranto ” , Ed. Capone, Cavallino (LE), 1991. 7 La suddivisione della terra in piccole quote di superficie, seppure con motivazioni diverse, fu perseguita sia dai concedenti pubblici, che da quelli privati; per il concedente pubblico tale criterio era motivato da scopi socio-umanitari poiché consentiva di soddisfare più richieste e riscattava, almeno in parte, dal totale stato di indigenza più nuclei familiari; per il concedente privato tale criterio era motivato da scopi speculativi poiché, disponendo l’utilista della sola forza delle braccia, il predetto concedente aveva

17 costituire il deprecabile latifondo fornitore di “rendite” che venivano, dai proprietari assenteisti, spese (e non poche volte addirittura dissipate) nelle grandi città (in particolare a Napoli capitale prima amministrativa e poi di adozione della nobiltà meridionale). Ciò determinava una vera e propria “fuga di capitali”, che già erano scarsi, dall’agricoltura verso altri settori produttivi. Fu proprio la mancanza di capitali liquidi, a cui solo il lavoro poteva sopperire, che all’inizio favorì lo sfaldamento delle parti “più difficili” (terreni rocciosi, pascoli, ecc.) delle grandi proprietà, dando vita a tutta una serie di contratti ad meliorandum con l’immancabile presenza del “morto” 8. Quindi, in forma larvata, dalla seconda metà del Settecento e nel decennio napoleonico ma, in particolare, a far tempo dalla unificazione d’Italia e cioè un secolo prima degli anni intorno al 1960, si venne a creare nel Meridione e quindi anche nel territorio avetranese una nuova situazione in cui: da una parte, continuava il permanere delle grandi proprietà borghesi e “padronali” derivate prevalentemente da quelle feudali e da quelle ecclesiastiche; dall’altra parte, veniva a crearsi una miriade di piccoli e piccolissimi contadini che per la prima volta potevano assaporare la soddisfazione di poggiare i piedi e le speranze di un futuro migliore su di un proprio pezzo di terra, seppur piccolo e ingrato. Quali le motivazioni economiche e sociali di base che originarono, più o meno coattivamente (per i proprietari) ovvero liberamente, il diffuso fenomeno di accesso alla terra del bracciantato agricolo pur con la permanenza delle grandi proprietà del latifondo assenteista? La grande proprietà terriera, suddivisa in estese masserie, conservò l’ordinamento produttivo cerealicolo-pastorale – caratterizzato da bassissimi impieghi unitari di capitale e lavoro e quindi tipicamente latifondistico – utilizzando i terreni migliori e più facilmente lavorabili a cereali (frumento, avena, orzo) in rotazione col maggese, ad erbai (veccia-avena) ed anche a pascolo. Allo scopo di incrementare le entrate, pur conservando sostanzialmente immutato il latifondo e la sua conduzione a bassissimo rischio d’impresa, la grande proprietà diede

convenienza a proporzionare la terra al numero dei componenti familiari del predetto utilista: meno estesa era la terra, più radicale e profondo, più accurato e quindi più produttivo era il miglioramento. 8 Versamento una tantum da parte dell’utilista di una quota in denaro alla stipulazione del contratto; tali versamenti, essendo illegali, non venivano riportati in contratto e pertanto venivano effettuati “in nero”.

18 inizio alla sistematica concessione, con contratti “ad meliorandum” dei terreni più difficili, rocciosi e coperti da macchia e perciò improduttivi, a numerosi utilisti parziari i quali bonificarono quei terreni e realizzarono sugli stessi vigneti, oliveti, mandorleti, ecc. e cioè colture ad elevata produttività; mediante la ripartizione dei prodotti realizzati sui terreni bonificati, che fino ad allora non avevano dato alcuna produzione, la grande proprietà incamerò cospicue entrate nette suppletive praticamente a “costo zero”, pur lasciando sostanzialmente invariata la proprietà terriera “produttiva” 9. Si spiega così: per un verso, la cessione di terreni difficili e marginali, la cui messa a coltura richiedeva un elevato assorbimento di manodopera - prima per migliorarli e poi per condurli - da parte dei grandi proprietari e, per altro verso, la “ corsa al pezzo di terra ”, seppure ingrato e nonostante tutto, da parte del bracciantato agricolo che viveva nell’indigenza non solo perché chiamato a lavorare sporadicamente e solo in alcuni periodi dell’anno (raccolta delle olive, mietitura, ecc.), ma era altresì retribuito con salari irrisori. Tale processo, in forma più o meno spontanea e più o meno massiva, si è sviluppato nel tempo ed ha raggiunto il suo culmine nel secondo dopoguerra (post 1945) allorquando: le accresciute esigenze di beni voluttuari e di consumo e quindi le accresciute esigenze finanziarie dei proprietari terrieri, da una parte, ed il ritorno dei reduci di guerra senza lavoro e le estreme condizioni di miseria della grande massa di popolazione (che ovunque aveva scatenato scontri di piazza, occupazione delle terre, ecc.) dall’altra, determinarono lo “spoglio” di alcune antiche masserie di cui rimasero i fabbricati e pochi – relativamente – ettari di terreno limitrofo (Strazzati, Sinfarosa, Mosca, Frassanito, ecc.). Ultimo importante evento storico che ha determinato l’accesso alla “terra” della classe più indigente e che quindi ha influito sull’evoluzione strutturale dell’agricoltura avetranese è costituito dall’attuazione della Riforma Fondiaria, regolata dalla Legge 21 ottobre 1950, n. 841, la famosa cosiddetta “Legge stralcio”, varata d’urgenza sulla spinta degli accennati moti popolari, anche molto violenti, che frequentemente sfociavano con l’occupazione abusiva delle terre. Con i terreni espropriati furono costituiti nella zona est del territorio comunale avetranese (contrada Centonze) alcuni “poderi”, provvisti delle relative case coloniche

9 Per i terreni ceduti in enfiteusi, anch’essi pressoché improduttivi, i concedenti facevano proprio un

19 in cui dimorava la famiglia contadina assegnataria, ubicati a ridosso della S.P. Avetrana-Salice S. (qualche casa colonica fu realizzata ad ovest del centro abitato di Avetrana in adiacenza della S.P. Avetrana-Manduria). Quando i poderi erano realizzati lontano dai centri abitati come quelli di Avetrana gli stessi venivano dotati di centri sociali provvisti di chiese, scuole, negozi, uffici di assistenza tecnica, e di altri servizi: si costituiva così il “borgo colonico”. Quello in agro di Avetrana è uno dei rari borghi colonici realizzati nel territorio salentino.

2.3.- L’origine e la formazione della “civiltà contadina” e della “società rurale” in Avetrana in contrapposizione alla civiltà ed alla società feudale e burgensatica.

I contadini, entrati in varie epoche storiche e in vari modi, in possesso del roccioso “pezzo di terra” dovevano, per forza di cose, migliorarlo e, mancando, a tal fine, le risorse finanziarie, impiegarono l’unica risorsa di cui disponevano: il lavoro proprio e di tutti i componenti familiari compreso donne, vecchi e bambini. Migliorare la terra significò quasi sempre trasformare il terreno roccioso o la macchia per farne sede di colture arboree, principalmente vite ed olivo, più resistenti alla siccità e capaci di assicurare più alti redditi rispetto alle colture erbacee. In tal modo centinaia di ettari pietrosi, rocciosi e coperti di vegetazione macchiosa si trasformarono in ordinati «fazzoletti» di terreno coltivato. L’impianto dei vigneti, degli oliveti e delle altre colture legnose, per le citate scarsità e mancanza di altri mezzi, richiese ovviamente un numero impressionante di ore di lavoro per ettaro. Nonostante ciò le trasformazioni furono compiute perché il contadino mirava a far suo un reddito netto più elevato possibile, senza tener conto dell’onere quasi inumano che in termini di sacrifici fisici il conseguimento di tale reddito comportava. Ma tant’è: questa nuova schiera di piccoli imprenditori era stata così duramente sfruttata (continuando ancora ad esserlo quando doveva lavorare sulla terra altrui per arrotondare le esigue entrate), che con entusiasmo e quasi con gioia riversò sulla propria magra terra tutte le risorse fisiche di ogni componente della famiglia, compresi le donne, i vecchi ed i bambini.

canone in denaro perpetuo.

20 Si diede così avvio a quella mirabile opera di trasformazione fondiaria (dissodamenti e spietramenti, impianti di colture legnose, realizzazione di muri a secco, strade, trulli, ecc.) che per la sua capillarità e per la dimensione del suo insieme non trova – e, certamente, non troverà mai più – riscontro nella storia della nostra agricoltura. E’, infatti, talmente inimmaginabile oggi – e tanto meno in futuro – il compimento di un’opera del genere, che riteniamo rivesta fondamentale interesse ricordare le varie operazioni ed i vari mezzi attraverso i quali si è compiuto quell’autentico prodigio di cui stiamo trattando e che costituisce la storia più recente dell’agricoltura e della società rurale avetranese la cui conoscenza riteniamo sia molto utile – se non indispensabile – per pianificare un coerente ed armonioso sviluppo territoriale. Nel far ciò, ci limiteremo alle due colture – vite e olivo – che per produttività ed estensione interessano in misura preminente l’agro avetranese. A) Impianto del vigneto. Non solo quando si trattava di mettere a coltura il pascolo o la macchia, ma anche quando si operava sul seminativo, si dissodavano, con lavoro manuale, gli strati più profondi mai toccati in precedenza. Il dissodamento del terreno («scatena») costituiva l’operazione più gravosa e più lenta, perciò più lunga, della trasformazione. Essa condizionava l’estensione territoriale del miglioramento fondiario in quanto la quantità di terra dissodata dipendeva dalla disponibilità di braccia della famiglia coltivatrice e dal tipo di terreno più o meno roccioso che si doveva bonificare. Quasi sempre, perciò, si proseguiva per piccoli o piccolissimi lotti. La zappa “da scatena” era particolarmente pesante e robusta, in quanto doveva vincere la tenacità del suolo che, quasi secco d’estate, presentava una notevole coesione. La pesantezza dell’attrezzo si rendeva necessaria per aumentarne la forza di penetrazione, mentre la robustezza della lama era indispensabile perché con essa, facendo leva sul manico, si staccavano le grosse zolle o si sradicava qualche ciocco di macchia o qualche pietra. Il piccone era usato per divellere pietre più grosse, per sradicare ciocchi di piante macchiose più robuste. Il lavoro di dissodamento, per la “durezza” del terreno, la pesantezza degli attrezzi, il clima torrido in cui veniva eseguito, è rimasto tristemente famoso per la sua improbità e perciò, normalmente, era eseguito da soli uomini.

21 Lo spietramento, che si effettuava dopo aver spaccato con le mazze di ferro i massi più grossi, era eseguito anche dai ragazzi e dalle donne e consisteva nel raccogliere e trasportare le pietre ai margini del fondo, in particolare al confine con la strada di accesso. Le pietre depositate ai limiti del campo venivano utilizzate per la costruzione di muri a secco o di massicciate stradali. I muri avevano la funzione di delimitare il fondo, di proteggere le colture dalle greggi, (specialmente lungo il bordo delle strade o quando il fondo migliorato confinava con un pascolo o con un seminativo) oppure di vero e proprio “accumulo” delle pietre e nel qual caso i manufatti assumevano dimensioni, specialmente per larghezza, notevoli. Il pietrame trovava impiego anche nella edificazione di trulli, nelle vespaiature e nella costruzione di ciglioni per “terrazzamenti” o per evitare l’erosione del terreno dal ruscellamento delle acque pluviali. Normalmente la messa in opera delle massicciate stradali e la costruzione dei muri a secco o dei trulli si effettuava in inverno quando il terreno bagnato impediva l’esecuzione dei lavori di normale coltura e lasciava più libero il contadino. Lo spietramento durava abitualmente diversi anni, perché a mano a mano che si lavorava la terra venivano fuori nuove pietre di piccole dimensioni che, raccolte prima in piccoli cumuli, successivamente si trasportavano fuori dal fondo per la rifinitura o la riparazione delle massicciate stradali. Le buche per l’impianto delle talee venivano eseguite molto frequente con l’uso del piccone per vincere la roccia nei punti in cui il suolo non presentava la necessaria profondità. Anche per tale motivo molte piante di vite (nonostante lo svellimento del vigneto risalga a qualche decennio) non sono state totalmente eradicate e dai pedali “americani”, incastrati nelle rocce e rimasti vitali, emettono ancora ricacci. B) Impianto degli uliveti . All’olivo generalmente furono riservate le terre peggiori, cioè quasi sempre quelle coperte dalla “macchia”. Moltissimi oliveti si ottennero innestando sul luogo, alla debita distanza, le migliori piante di olivastro e/o oleastro già esistenti, smacchiando e spietrando la rimanente parte: per tale motivo quasi tutti i vecchi uliveti, anche quelli su terreni fertili – evidentemente anch’essi in passato ricoperti di macchia - sono costituiti da piante sparse e cioè senza un sesto ordinato.

22 Altri uliveti invece, si costituirono ex novo; in tali casi, normalmente, non si dissodava tutto il terreno, ma ci si limitava a scavare una grossa buca nel punto in cui doveva collocarsi la pianta ricavata da grossi olivastri e/o oleastri capitozzati («curmuni») di cui era ricca la macchia locale. Successivamente si eseguivano le operazioni di smacchiamento e spietramento; con le modalità già esposte per l’impianto del vigneto. In tali impianti gli ulivi sono disposti in filari. Molti uliveti furono realizzati in consociazione con la vite. Tale consociazione risultava economicamente conveniente perchè consentiva di usufruire subito della produzione viticola ed alla fine della carriera produttiva della vite – circa 25-30 anni e cioè più breve della coltura specializzata perchè la “consociata” risente della concorrenza degli ulivi sempre più accentuata col crescere di questi ultimi – di disporre di un giovane e vigoroso oliveto già alquanto produttivo poiché aveva usufruito delle accennate cure colturali riservate alla vite. Tale consociazione fu incentivata specialmente dai grandi proprietari terrieri che cedevano le loro terre marginali e macchiose con contratti “ ad meliorandum ” e segnatamente a “colonia migliorataria ventinovennale” (impropriamente denominata “mezzadria”) ricavando subito il 50% (pressoché netto) della produzione viticola ed alla fine dei 29 anni (alla scadenza del contratto) il colono lasciava loro, al posto del terreno macchioso originario, un terreno spietrato ed un vigoroso oliveto. In agro di Avetrana moltissimi oliveti tradizionali, la parte prevalente di quelli ordinati in filari, sono stati realizzati in consociazione con la vite: ne è testimone qualche –ormai sempre più sporadico- ricaccio. Anche i terreni condotti a seminativo furono preliminarmente bonificati mediante decespugliamento e ripetuti spietramenti ed anche in essi, con il pietrame di risulta, furono realizzati gli stessi manufatti (muri a secco, massicciate di strade poderali ed interpoderali, trulli, ecc.). Sui seminativi furono attuate, prevalentemente, le produzioni destinate all’autoconsumo familiare (frumento, leguminose da granella, pomodoro, ecc.) ed all’alimentazione degli animali da lavoro (avena, erbai) e da cortile (orzo, granturco). Per tale motivo, la superficie degli appezzamenti a seminativo, anche di piccole dimensioni, veniva spesso parcellizzata e cioè suddivisa, “a rotazione” fra diverse colture.

23 Anche negli oliveti, specialmente in quelli in accrescimento (gli oliveti “tradizionali” entravano in produzione dopo circa 40 anni dall’impianto e per tale motivo si diceva che essi li realizzava il “nonno per il nipote” 10 ), dato l’ampio sesto d’impianto e quindi gli ampi spazi di terreno praticamente “nudo”, di realizzavano le predette colture erbacee (specialmente quelle foraggiere) con esclusione delle “sfruttanti” graminacee (frumento, avena ed orzo). In prossimità delle strade poderali ed interpoderali, dei muri a secco, dei trulli, negli spazi laddove più estesa era la roccia affiorante, ecc. si allevavano fruttiferi (fichi, mandorli, peri, fico d’India, noci, ecc.) che fornivano la frutta destinata prevalentemente all’autoconsumo familiare ed a regalie. La superficie a vigneto era lavorata esclusivamente con la zappa, quella a seminativo e ad uliveto generalmente era arata; laddove l’aratro non arrivava (vicino ai tronchi, ai muri a secco, alle rocce emergenti e tra di esse, ecc.) la lavorazione del terreno era completata con la zappa e nel contempo si nettavano i ciocchi degli ulivi ed i manufatti “ a secco” dalla vegetazione cespugliosa infestante (rovi, lentisco, ecc.). Con le predette modalità e motivazioni, laddove c’erano terreni rocciosi, superficiali, macchiosi, sorsero verdeggianti uliveti, vigneti e colture erbacee, i cui frutti: per un verso, finalmente, spensero o almeno attutirono la “fame” atavica della popolazione contadina e dell’intera comunità; per altro verso, consentirono la nascita di una diffusa (e non più concentrata) attività di scambio e di mercato e quindi una generalizzata crescita economica e sociale. Lo strumento di un tale “miracolo” fu esclusivamente il lavoro delle braccia, nella sua concezione di sacralità più autentica, strumento che fu animato e sorretto dal soffio di libertà che condusse il «bracciale» dallo schiavismo di fatto verso l’autonomia imprenditoriale e dall’ardente anelito del piccolo o medio contadino ad elevare sempre più, socialmente ed economicamente, se stesso e la propria famiglia.

2.3.1.- La “civiltà contadina” e la “società rurale” in Avetrana.

Con il diffuso accesso alla terra della classe bracciantile e con la formazione di proprietà terriere di piccole ed anche medio e medio-grandi dimensioni, si sviluppa la

10 Ciò costituisce una mirabile testimonianza di lungimiranza economica ed un magistrale esempio di

24 massima espressione del ruolo e della funzione economico e sociale dell’agricoltura avetranese quale unica attività di produzione di ricchezza e di sostentamento dell’intera comunità; per ovvi motivi, si sviluppa contemporaneamente la massima espressione della “società rurale” e della “civiltà contadina” tipicamente caratterizzate:  da una economia “chiusa” ovvero da “autoconsumo comunitario”; la comunità, cioè, consuma quello che la “campagna” locale produce sia in beni alimentari: olio, vino, latte e formaggi, grano, leguminose da granella, pomodori e altri ortaggi, verdure, frutta, ecc.; sia in altri beni: legna da ardere (derivata principalmente dalla potatura di olivi, viti ecc.), lana, cotone, ecc.;  dalla grande prevalenza della popolazione direttamente interessata all’attività agricola (circa l’80%) e dalla pressoché totale restante parte addetta alla fornitura di servizi più o meno direttamente collegati e dipendenti dall’agricoltura; la società rurale era suddivisa, sostanzialmente, in due categorie: quella degli “illani” (piccoli proprietari terrieri, coloni, affittuari, compartecipanti, braccianti, ecc.) e quella degli “artieri” (fabbri, maniscalchi, falegnami di “arte grossa” e di “arte fina”, calzolai, sarti, barbieri, ecc.);  dalla stretta interconnessione tra andamento della produzione agricola e benessere sociale: se l’agricoltura è florida l’intera comunità ne risente favorevolmente; viceversa il verificarsi di avversità atmosferiche e/o di virulenti attacchi parassitari deprimono l’intera popolazione poiché sono fonti di stenti non solo per gli agricoltori, ma per l’intera comunità;  dalla persistenza del “baratto”, cioè della retribuzione “in natura” con olio, vino, formaggio, frumento o farina, ecc., di prestazioni di servizio fornite dagli “artieri”;  dall’osservanza delle tradizioni locali tramandate da secoli e che la civiltà contadina aveva mantenuto immutate nel tempo anche in relazione all’isolamento geografico e quindi culturale della comunità rurale.

2.4 – Il paesaggio agrario tradizionale.

altruistica solidarietà generazionale: attualmente, purtroppo, spesso si realizza l’opposto.

25 Alla fine degli anni ’50 del 1900 si era sviluppata e consolidata sul territorio avetranese, la massima espressione di un’agricoltura “tradizionale” o “ secolare”: le varietà ed i sistemi di allevamento dell’ulivo, della vite, dei fruttiferi per autoconsumo, erano quelli “di sempre”, come erano quelle “di sempre” le produzioni di cereali (frumento, avena, orzo, granturco, ecc.), di leguminose da granella (fave, ceci, fagioli, dolichi o fagioli dall’occhio, piselli, cicerchia, ecc.), di foraggiere (vecchia, sulla, ecc.) di pomodoro, di cotone, tabacco, ecc.. Anche gli attrezzi da lavoro erano quelli di “sempre”: l’aratro a “trampolo” (“aratrino”) e, in particolare, quello “a chiodo” (“forca”), la falce per la mietitura dei cereali (“fauci”) e quella per lo sfalcio dei foraggi (“falcione”), la zappa, ecc., sono del tutto simili a quelli raffigurati sui reperti archeologici (vasi, ecc.). Mediante l’evoluzione delle vicende umane e storiche, precedentemente esaminate, sul territorio comunale di Avetrana si era sviluppato un paesaggio agrario caratterizzato e costituito dalla dominante presenza delle masserie , più o meno estese, che formavano il solo insediamento delle popolazioni nelle campagne (tutti gli altri addetti al settore dimoravano stabilmente in paese). Il complesso masserizio è sempre costituito: dai fabbricati ad uso abitativo; dai fabbricati tecnici destinati a caseificio, al deposito e conservazione dei prodotti (olio, frumento ed altre granelle, paglie, fieno, ecc.), a ricovero di animali (stalle, scuderie, ovili) ed attrezzature (traini, birocci, ecc.); da un’ampia area di servizio, a volte delimitata e/o ripartita con “muri a secco” di notevoli dimensioni in cui sono ubicati: gli ovili scoperti (“curti”); una grande cisterna per l’abbeveraggio degli animali ; un’area destinata all’accatastamento dei covoni (“mannucchi”) mediante la formazione di grandi biche (“pignuni”) spesso provvista di uno spazio lastricato di pietra dura (“chianche”) su cui effettuare la trebbiatura di cereali, di leguminose da granella, di veccia da seme, ecc., mediante calpestio animale. Le masserie costituivano dei mondi sotto molti aspetti autosufficienti, non solo in merito al soddisfacimento delle necessità alimentari (presenza di forno, di spazi – broli – per la coltivazione di verdure, orticole e frutta da autoconsumo, ecc.) e dei servizi (dotazione di officine, ecc.), ma anche in merito al soddisfacimento delle necessità spirituali ed a tale scopo alcune masserie erano dotate di Cappelle consacrate in cui la

26 domenica e nelle maggiori festività veniva celebrata la S. Messa (il prete veniva compensato con “offerte” in natura: formaggio, polli, uova, ecc.). L’ordinamento produttivo delle masserie avetranesi era quello tipicamente cerealicolo- pastorale, oppure cerealicolo-olivicolo-pastorale. In tutte le masserie, pertanto, vi era l’allevamento del bestiame ovi-caprino di cui erano preziose e ricercate tutte le relative produzioni: quella del latte e quindi dei prodotti lattiero-caseari (formaggio, ricotta, cacioricotta, ecc.), quella della carne (agnelli, agnelloni, animali di fine carriera, ecc.), quella della lana, quella del letame ad elevato potere fertilizzante. Il gregge veniva alimentato mediante pascolo errante sfruttando i residui di produzione di post raccolta dei seminativi aziendali ed extraziendali, oppure l’erba spontanea dei seminativi a maggese, dei “pascolativi”, dei pascoli cespugliati ed anche quella presente sulle strade “di campagna” extraziendali: i muri a secco sui confini stradali e l’occlusione degli accessi ai fondi – “porte” – praticati sugli stessi con rami spinosi (“scuerpi”), impedivano – non sempre con successo! – che il gregge invadesse i terreni coltivati. Quando il pascolo era molto distante dai fabbricati masserizi, allo scopo di abbeverare gli animali, specialmente nei periodi più caldi, oltre alle grandi cisterne presenti in prossimità dei fabbricati, sui terreni aziendali ne furono realizzate altre sempre di grande dimensione. Laddove erano presenti, allo stesso scopo dei precedenti venivano utilizzate le grandi cisterne (“acquaroni”), ubicate ai bordi dei “tratturi”, e realizzate a servizio degli armenti durante la grande transumanza regionale ed interregionale; le acque di tali manufatti venivano, altresì, proficuamente attinte ed utilizzate dagli agricoltori per l’abbeveraggio degli animali da lavoro e per l’esecuzione dei trattamenti antiparassitari liquidi. I grandi “acquaroni” pubblici, realizzati lungo gli itinerari della grande transumanza, costituiscono preziosa testimonianza di una “epica” pratica di allevamento e, pertanto, costituiscono importanti elementi del paesaggio agricolo tradizionale avetranese. Oltre ai fabbricati masserizi, elementi importanti del paesaggio agrario tradizionale avetranese sono i diversi fabbricati “padronali” di varie dimensioni, sparsi sul territorio e generalmente realizzati all’interno di appezzamenti di terreno di medie o medio-grandi dimensioni. Tali fabbricati erano destinati a vari usi spesso tra loro concomitanti: villeggiatura estiva, sorveglianza dei prodotti ancora sul campo, deposito e prima lavorazione del prodotto raccolto (tabacco, fichi secchi, ecc.), ricovero di

27 persone, animali e mezzi di trasporto per proteggersi dal freddo e dalle piogge nel periodo invernale e dal caldo nel periodo estivo, in particolare durante la pausa di lavoro di qualche ora, a mezzogiorno per mangiare qualcosa e riposare (nel periodo considerato in campagna si andava all’alba e si ritornava al tramonto). Frequentemente tali fabbricati erano provvisti di brolo (“giardino” recintato) e la strada poderale di collegamento degli stessi alla viabilità pubblica era alberata (viale) e/o delimitata da muro a secco con ingresso provvisto di colonne munite di cancello. Alcune di tali costruzioni furono realizzate con buona tecnica e presentano apprezzabili elementi architettonici. Più diffusi nella campagna avetranese erano i cosiddetti “ locali ricovero ” cioè i fabbricati costituiti da uno o due vani di semplice e modesta fattura, provvisti di cisterna sottostante che, con esclusione della villeggiatura, svolgevano le medesime funzione dei precedenti. I trulli ed i “ paiaruni ” (quest’ultimi così definiti perchè, a differenza dei primi, la loro copertura non era realizzata in pietra ma da paglia sostenuta da assi di legno costituiti da adeguati pezzi di ramo sfrondati) presenti esclusivamente nelle zone rocciose e realizzati in piccoli ed anche piccolissimi appezzamenti, costituiscono e rappresentano, nel paesaggio agricolo tradizionale, i “parenti poveri” dei predetti “locali ricovero” dei quali svolgevano simili mansioni. Una particolare tipologia di fabbricati rurali, sempre di modesta fattura e dimensione, era costituita dagli “ iazzi ”, vere e proprie aziende “senza terra”; in tali iazzi, ubicati generalmente in prossimità del centro abitato, si allevava un piccolo gregge di capre (10-20 capi), nutrite quasi esclusivamente con pascolo errante (troppo spesso, purtroppo, abusivo) e con cui, transitando per le vie del paese, si vendeva il latte “porta a porta” mungendolo direttamente sul luogo. Infine, con riferimento ai fabbricati, fanno parte del paesaggio agricolo tradizionale avetranese, alcune Cappelle ed alcune Colonne votive , di antichissima costruzione a testimonianza del secolare sentimento religioso della comunità e di ringraziamento di qualche grazia ricevuta. Elementi di grande importanza e di rilevante impatto del paesaggio agricolo tradizionale avetranese sono i “ muri a secco ” presenti con notevole intensità a delimitare appezzamenti, strade interpoderali, viabilità rurale, cortili, “corti” di masserie, ecc. delle

28 cui motivazioni tecnico-economiche di realizzazione (utilizzazione e smaltimento “in loco” del pietrame di risulta della bonifica dei terreni rocciosi) e funzioni (protezione delle colture dal pascolo abusivo, ecc.) si è detto in precedenza. I “muri a secco” presentano tipicamente sezione trasversale tronco-conica e sono costituiti da due pareti contrapposte delimitanti un’intercapedine riempita con pietrame minuto e chiuse alla sommità da una fila di grosse pietre “di testata” (cordolo) che, adeguatamente incastrate, assicurano la stabilità statica del manufatto. I muri a secco di grandi dimensioni, sia per larghezza delle basi, sia per altezza, sono chiusi alla sommità da due file di adeguate pietre “di testata”. In relazione alle loro dimensioni i “muri a secco” furono realizzati per le seguenti prevalenti funzioni:  muri a secco di normali dimensioni : tali manufatti (aventi generalmente una base inferiore di circa m 0,80-1,00 ed un’altezza di m 1,20-1,80), oltre alla già citata motivazione di impiego del pietrame di risulta di bonifica del suolo roccioso, svolgono la funzione: a) di delimitazione della proprietà; b) di protezione delle colture dai greggi al pascolo errante; c) di barriera taglia-fuoco e cioè di difesa dagli incendi che possono verificarsi sulle sedi stradali o sugli appezzamenti confinanti; d) di ripartizione delle grandi superfici appartenenti alla stessa proprietà (specialmente nelle masserie) in relazione alla diversa fertilità del suolo (muri particellari), alla parzializzazione delle superfici a pascolo, della diversa destinazione produttiva, ecc.; e) di delimitazione delle strade poderali di collegamento dei fabbricati alla viabilità pubblica (masserie, fabbricati padronali); ecc.;  muri a secco di notevole larghezza ma di normale altezza : oltre che per le funzioni di delimitazione degli appezzamenti, tale tipologia di manufatto fu realizzata per la prevalente motivazione di smaltimento “in loco” mediante accumulo “ordinato” ai bordi del campo, dell’abbondante materiale pietroso di bonifica il cui trasporto in luoghi lontani dal campo sarebbe stato molto oneroso ed economicamente non giustificabile e di sbarramento al deflusso delle acque meteoriche con la conseguente asportazione del suolo;  muri a secco di notevole altezza : specialmente presenti nelle masserie ed utilizzati per la perimetrazione dell’intera area di servizio antistante i fabbricati, per la

29 delimitazione e ripartizione delle “corti”, per la delimitazione del “brolo” per la produzione di orticoli, di frutta, ecc., destinata a soddisfare l’autoconsumo aziendale, ecc.; tali manufatti erano, altresì, utilizzati per la recinzione di “broli” di pertinenza dei fabbricati padronali (di cui si è detto in precedenza) ed anche per la recinzione di alcuni ampi cortili di pertinenza di case di abitazione, ubicate alla periferia del centro abitato ed utilizzati: per la produzione familiare di verdure, orticoli, fruttiferi tra cui agrumi; per l’allevamento degli animali di bassa corte (galline, colombi, oche, conigli, ecc.) e delle api, ecc.; per il deposito di attrezzi agricoli; per l’accatastamento della legna (fascini di sarmenti e di frasca d’ulivo, legna d’ulivo, ecc.); ecc.. I muri a secco, mediante l’intensità della loro presenza sul territorio e le loro dimensioni, evidenziano e testimoniano: a) il livello di fertilità del suolo poiché l’intensità della loro presenza e le loro dimensioni sono inversamente proporzionali alla fertilità naturale del suolo: nelle zone dove i terreni sono profondi e fertili (contrade “Pozzelle”, “Centonze”, “Frassanito”, “Tre torri”) i muri a secco sono pressoché inesistenti, mentre tali manufatti aumentano di numero e di dimensioni mano a mano che aumenta la rocciosità del suolo (la stessa cosa si verifica, per ovvi motivi, anche per i trulli); b) il livello di frammentazione della proprietà fondiaria ed il contrasto tra le dimensioni degli appezzamenti, spesso alquanto esigue, e la scarsa fertilità del suolo; c) il lavoro umano ed i sacrifici profusi per la bonifica dei terreni rocciosi. Per tutti i motivi succintamente esposti, i muri a secco rivestono fondamentale importanza paesaggistica e storico-culturale poiché, per un verso, delineano ed evidenziano il fitto reticolo di piccoli appezzamenti con cui è costituita la maglia fondiaria avetranese e perchè, altresì, essi stessi per la loro diffusione e la loro “fisicità” costituiscono elementi rilevanti del paesaggio agrario tradizionale; per altro verso, i muri a secco (come anche i trulli) costituiscono incancellate “pagine” di storia (anche se esse illustrano solo la punta di un iceberg) su cui tuttora è possibile leggere le vicende umane della popolazione avetranese ingiustamente ignorate o troppo presto dimenticate. Elemento essenziale del paesaggio agrario è costituito, senza dubbio, dalla copertura vegetale del territorio e cioè dall’uso dello stesso. Il paesaggio agrario tradizionale avetranese presentava ampie aree coperte da associazioni vegetali naturali tra cui alcune aree a bosco “naturale ” (contrada

30 “Modunato”) ed altre a bosco realizzato dall’uomo (pinete, ecc. - contrade “Montedarena”, “Sinfarosa”, “Strazzati”, “Rescio”, “Perrino”) 11 , a macchia mediterranea (contrade “Montedarena”, “Modunato”, “Centonze”, “Abbatemasi”, “Canale di San Martino”, “Marina”, “Cannelli”), a steppa e, in particolare, a gariga e gariga-steppa (contrade “Centonze”, “Abbatemasi”, “Cannelli”). Nel paesaggio agricolo tradizionale avetranese esistente all’epoca di riferimento, il seminativo costituisce la prevalente utilizzazione, a scopo produttivo, del territorio. L’ampiezza degli appezzamenti a seminativo risultava alquanto variabile: da qualche decina di ettari (masserie, grandi proprietà terriere) a qualche migliaio di metri quadrati; la loro distribuzione territoriale era alquanto uniforme; ad essi erano destinati tutti i tipi di terreno: da quelli più fertili a quelli rocciosi e marginali. Le superfici a seminativo di grandi e medio-grandi dimensioni, la cui produzione era prevalentemente destinata al mercato, erano destinate alle colture cerealicole (del frumento, dell’avena e, in minor misura, dell’orzo) in rotazione, tipicamente triennale, con le leguminose da granella oppure con le cosiddette colture “da rinnovo” (granturco, tabacco, cotone, ecc.), con gli erbai, con il maggese “nudo” e “vestito”. Le piccole superfici a seminativo condotte da coltivatori diretti, braccianti, ecc., le cui produzioni erano destinate a soddisfare innanzitutto l’autoconsumo familiare ed il fabbisogno alimentare degli animali da lavoro (equini, asini) e degli animali di “bassa corte” (galline, colombi, ecc.), erano utilizzate, previa parcellizzazione “in fasce” dell’appezzamento, per realizzare nella stessa annata agraria le tipologie e le quantità di prodotto (frumento, leguminose da granella, pomodoro, avena, orzo, granturco, erbai, ecc.) in relazione alle necessità familiari ed aziendali. La più rappresentativa coltura del territorio avetranese è, da sempre, quella dell’ ulivo costituita con alberi di tipo “secolare” (peraltro, l’unica tipologia esistente all’epoca di riferimento); tali ulivi, che connotano il paesaggio agricolo tradizionale avetranese, sono allevati a “vaso alto” e costituiti con le cultivar “Ogliarola salentina”, “Cellina di Nardò” e, sporadicamente, anche dalla più “recente” “Coratina”.

11 entrano nella composizione del paesaggio agrario, anche alcuni viali alberati (masserie, fabbricati padronali) ovvero singoli filari lungo il confine con la viabilità pubblica ed alcuni gruppi di piante, (che per la limitata superficie che occupano non possono essere definiti “bosco”), costituiti da essenze di pino, eucalipto, cipresso, ecc., di un certo rilievo estetico-ambientale.

31 Gli uliveti di tipo “secolare” più “giovani” sono quelli con sesto d’impianto regolare (a filari) generalmente realizzati in consociazione con la vite. Gli uliveti più antichi sono quelli costituiti con sesto irregolare originati, come precedentemente esposto, dall’innesto “in loco” di olivastri spontanei presenti nella macchia, successivamente eliminata. Poiché alcuni di tali oliveti occupano terreni molto profondi e fertili (contrade “Cimitero”, “Feudo”, “San Biagio”, “Modunato”) – quei terreni, cioè, tra i primi, per ovvi motivi, ad essere antropizzati – si deduce facilmente che la loro origine risale ad un’epoca, “inimmaginabile”, in cui la macchia invadeva ancora la maggio parte di un territorio selvaggio e primitivo e la stessa lambiva il centro abitato di Avetrana: gli ulivi, pertanto, possono definirsi veri e propri “testimoni del tempo”. Ecco perchè quegli ulivi ultrasecolari: con i loro ciocchi possenti emergenti dal suolo; con i loro tronchi, spesso percorsi da “corde” e localmente rigonfi da vistosi “mammelloni”, screpolati, contorti, svuotati, aperti e suddivisi in due o più parti ma sempre imponenti quanto “eleganti”; con le loro sempreverdi chiome maestose; che non producono soltanto un prezioso bene materiale (insostituibile nell’alimentazione dell’uomo di cui ne migliora lo stato di benessere e la qualità della vita), ma che, altresì, producono preziosi beni monumentali paesaggistici (poiché maestosi e veri e propri “monumenti naturali”), ambientali (poiché ricchi di chioma sempreverde), culturali (poiché testimoni e protagonisti delle vicende umane del popolo avetranese); ecc., costituiscono un patrimonio non solo privato ma anche pubblico. Importante componente del paesaggio agricolo tradizionale è costituito anche dal vigneto per la produzione di uve da vino allevato ad alberello e costituito prevalentemente con le cultivar “Primitivo” e “Negroamaro”. Ai vigneti erano destinati i terreni più fertili (contrade “Sinfarosa”, “Pozzelle”, “Ruggianello”, “Centonze”, “Frassanito”, “Tre torri”) ma gli stessi per i motivi in precedenza esposti erano realizzati anche sui terreni marginali adeguatamente all’uopo bonificati; su questi ultimi terreni il vigneto era frequentemente realizzato in consociazione con l’ulivo. Altre colture legnose, se si eccettua qualche ficheto e qualche sporadico mandorleto , erano praticamente assenti nel panorama colturale avetranese; singole piante da frutto (fichi, mandorli, peri, susini, noci, fichi d’India, ecc.), le cui produzioni erano destinate a soddisfare l’autoconsumo familiare, erano, invece, molto

32 diffuse all’interno dei seminativi, degli uliveti ed anche dei vigneti (in particolare in quelli meno fertili). Una particolare tipologia di utilizzazione del territorio avetranese è costituita dall’estrazione di “conci di tufo” dalla roccia arenaria – effettuata manualmente da manodopera specializzata (“zuccaturi”) - con la consequenziale formazione di cave più o meno profonde e più o meno estese e prevalentemente ubicate, con riferimento all’epoca considerata, ad est del centro abitato ed in prossimità dello stesso. Frequentemente il fondo delle cave di una certa dimensione e dove si riscontra una sufficiente quantità di terra mista a tufo, previa raccolta del pietrame di risulta dell’attività estrattiva e spianamento della superficie, è stato utilizzato per realizzare colture agricole (uliveti, colture erbacee, qualche agrumeto, ecc.); il fondo di altre cave, non “bonificato”, si è ricoperto di vegetazione cespugliosa spontanea.

3. – EVOLUZIONE DELL’UTILIZZAZIONE DEL TERRITORIO IN AVETRANA DAGLI ANNI ’60 DEL SECOLO SCORSO ALL’ATTUALITA’.

3.1.- Premessa.

Alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, e cioè circa 50 anni addietro, il fenomeno evolutivo, progressivo ed univocamente orientato, della proprietà terriera precedentemente esaminato, registra una repentina inversione di tendenza, inimmaginabile sino a qualche anno prima, originando nuovi processi evolutivi alcuni dei quali apparentemente tra loro contrastanti. Tra i principali nuovi processi evolutivi e le motivazioni che li hanno originati, si evidenziano: a) l’interruzione della plurisecolare corsa “al pezzo di terra”, ad essa subentra addirittura il fenomeno opposto delle “terre abbandonate” alimentato prevalentemente proprio da coloro che su quelle terre, pur sempre marginali, tanto lavoro e tanti sacrifici avevano riversato ma che con lo sviluppo dell’industria e del terziario avevano trovato occupazioni alternative (spesso anche in zone lontane) ritenute più gratificanti e certamente ben più remunerative. In merito, molto significativo per il territorio avetranese e quindi degno di nota, è il caso degli

33 assegnatari della Riforma Fondiaria. Infatti con l’assegnazione di quei terreni (furono espropriati e quindi assegnati terreni marginali), che dovevano essere trasformati mediante incisive opere di miglioramento fondiario e con i quali dovevano essere realizzate aziende familiari economicamente autonome – a tale scopo gli assegnatari usufruivano di appropriata assistenza tecnica e di adeguati incentivi contributivi – non furono conseguiti gli obiettivi istituzionali: agli inizi degli anni ’60, infatti, appena qualche anno dopo l’assegnazione dei poderi, molte case coloniche furono abbandonate, alcune furono occupate abusivamente e destinate ad usi impropri, le strutture di servizio del Borgo, compresa la chiesa, furono chiuse. La principale motivazione per cui gli obiettivi istituzionali non furono conseguiti e l’assegnazione dei poderi, pur tanto agognata e per cui si era combattuta una “guerra tra poveri”, fallì quasi del tutto, è da ricercarsi nell’inadeguato momento storico in cui tale assegnazione avvenne: nella seconda metà degli anni ’50 e cioè proprio alla vigilia del boom economico e quindi proprio quando la “fame di terra” andava spegnendosi e si ricercavano in altri settori produttivi più remunerative occupazioni. Anche altre concause contribuirono a determinare l’insuccesso della Riforma Fondiaria avetranese e tra queste, principalmente, la ridotta superficie aziendale in relazione alla bassa fertilità naturale del suolo e l’assenza di abitudine e quindi l’insofferenza, specialmente femminile, a vivere lontano dal centro urbano; b) la diffusa frammentazione fondiaria poiché, i proprietari terrieri, che sino ad allora avevano ceduto solo i terreni rocciosi ed improduttivi, conservando “gelosamente” i terreni migliori, in relazione: al verificarsi del massiccio esodo bracciantile determinato dalle opportunità occupazionali offerte dal settore industriale e da quello dei servizi sia all’estero (Belgio, Germania, Svizzera, ecc.), sia nel nord Italia, sia anche a livello locale dai poli industriali di Brindisi e Taranto e dalla crescente espansione dei servizi (ospedali, sociale, ecc.); all’introduzione delle 6 ore lavorative giornaliere ed all’aumento dei saggi salariali e degli oneri contributivi (C.A.U.) e quindi all’elevato costo orario del lavoro e, in generale, alla crescente sindacalizzazione del lavoro agricolo; alle consequenziali crescenti difficoltà del reperimento della manodopera ed all’elevato costo della stessa; all’assenza di ricambio generazionale; ecc.; hanno preferito vendere le loro terre, previo

34 frazionamento in piccoli appezzamenti (contrade “Sinfarosa”, ecc.) frammentando ulteriormente il tessuto fondiario; c) la spinta riduzione superficiale degli appezzamenti di terreno poiché, in relazione al diritto ereditario italiano, che assicura agli eredi (a parità di grado di parentela) uguali diritti, in fase di esecuzione di divisione ereditaria, per un male interpretato concetto di equità (è corretto dividere in parti uguali il valore totale dei beni e non fisicamente i singoli beni stessi!) ed anche allo scopo di evitare di commettere errori di valutazione e/o ingiustizie nella formazione delle quote, si è proceduto al frazionamento ed alla suddivisione, fra tutti gli eredi, dei terreni aventi le stesse caratteristiche per ordinamento colturale e per fertilità (un pezzo ciascuno di vigneto molto fertile ed uno ciascuno di vigneto meno fertile, un pezzo ciascuno di quell’oliveto e di quell’altro, ecc., ecc.); considerando il numero dei figli che componevano le famiglie sino a qualche decennio addietro, è facile comprendere come nel giro di due-tre generazioni, gli appezzamenti di terreno, già originariamente di esigue dimensioni, si siano via via sempre più rimpiccioliti; il fenomeno è particolarmente accentuato per i terreni molto fertili, a cui nessun erede era - ed è - disposto a rinunciare con la conseguenza di costituire appezzamenti di vigneto estesi quanto un suolo edificatorio, oliveti costituiti da 5-6 alberi seppure di ragguardevoli dimensioni, ecc.. Tale fenomeno, insieme alla vendita spezzettata di alcune grandi proprietà (di cui si è accennato al precedente punto b)) hanno condotto all’attuale assetto strutturale della proprietà fondiaria e dell’agricoltura avetranese costituita prevalentemente da una fitta maglia di aziende ad ordinamento produttivo attivo ed intensivo, di piccole e piccolissime dimensioni (polverizzazione fondiaria) peraltro costituite da più appezzamenti, spesso minuscoli e distanti fra di loro (dispersione fondiaria); d) la scomparsa di alcune tipologie colturali che da secoli avevano caratterizzato il paesaggio agricolo tradizionale avetranese e la introduzione di nuove tipologie colturali. Tra le colture legnose è totalmente scomparsa la consociazione vite-ulivo; è in via di estinzione la vite allevata ad alberello pugliese; non vengono effettuati nuovi impianti di ulivo di tipo tradizionale; per altro verso sono stati introdotti e si sono rapidamente diffusi gli impianti olivicoli intensivi (che entrano rapidamente in produzione grazie anche, in molti casi, all’apporto di acqua irrigua) e gli allevamenti

35 viticoli “appoggiati”. Tra le colture erbacee risulta alquanto diffuso il frumento duro, mentre, per ovvi motivi, sono del tutto scomparse le foraggiere destinate all’alimentazione degli animali da lavoro; ormai sporadica è la coltivazione delle leguminose da granella, del pomodoro tradizionale in asciutto; la lavorazione dei terreni è effettuata meccanicamente e laddove l’organo lavorante non arriva (vicino ai “muri a secco”, ai ciocchi di ulivo, ecc.) data la scarsa reperibilità della manodopera e l’alto costo della stessa, il terreno rimane incolto ricoprendosi di vegetazione infestante erbacea ed arbustiva (rovi, lentisco, ecc.); spesso tale vegetazione è eliminata con l’impiego di diserbanti chimici. Molti terreni a seminativo, anche tra i più fertili, sono lasciati incolti; e) l’abbandono, pressoché totale di alcuni fabbricati masserizi, quasi totalmente privati dei terreni che costituivano il complesso originario; altri sono stati destinati ad usi extragricoli. I fabbricati “padronali” ed i “locali ad uso ricovero”, perduta la loro funzione originaria (l’agricoltore ora ha l’automobile e comunque a mezzogiorno fa sempre ritorno a casa) sono in stato di abbandono. Le grandi cisterne (acquaroni) delle masserie e quelle realizzate a servizio della transumanza, in relazione all’attuale approvvigionamento idrico dai pozzi profondi e, comunque, alla cessata loro funzione originaria, sono in abbandono e, spesso, in precarie condizioni statiche. Ormai la maggior parte dei “muri a secco”, anche quelli di pregevole fattura, - ed alla stessa stregua i trulli – non più “nettati” dalla vegetazione spontanea e su cui, per mancanza di manodopera, non si realizza più la necessaria manutenzione, presentano numerosi e più o meno vasti crolli e sono totalmente ricoperti, specialmente nelle zone olivetate (contrada “Ruggiano”, “Modunato”, “Specchia Rascina”, “Ubbriaco”, “Demani”, “Chiepo-Casanova”) da vegetazione cespugliosa (rovi, lentisco, mirto, olivastro, ecc.).

3.2.- Evoluzione demografica ed economico-sociale.

Per la trattazione dell’argomento saranno utilizzati i dati dei Censimenti Generali della Popolazione effettuati dall’ISTAT, a partire dal 1961, con periodicità decennale. La popolazione residente nel Comune di Avetrana, dopo un periodo di incremento continuo, ancorché non costante (rilevante è l’incremento di popolazione del periodo

36 1971/1981, ammontante a ben 1.684 unità, pari al 27,7% e cioè in quel decennio la popolazione residente è cresciuta più di ¼), dal 1991 mostra una marcata tendenza al decremento ed infatti, da quella data al 2009 i residenti sono diminuiti di 1.325 unità, pari al 15,7% (Tab. 1, Graff. 1a e 1b). La densità della popolazione residente, rispetto al territorio, in relazione all’ampiezza relativa dello stesso, per il Comune di Avetrana risulta alquanto favorevole; nel 2009 tale densità è pari a 97 abitanti per chilometro quadrato (al 2001 la densità di popolazione per l’intera Provincia di Taranto risultava pari a 238 abitanti per chilometro quadrato contro i 100 ab./Kmq di Avetrana e cioè circa 2,4 volte più elevata). La ripartizione della “ popolazione attiva in condizioni professionali ”, tra addetti al settore agricolo ed addetti agli altri settori produttivi, per il Comune di Avetrana, evidenzia un continuo decremento degli addetti al settore primario e, di contro, un progressivo aumento degli addetti agli altri settori. Gli addetti agricoli nel Comune di Avetrana sono passati, in termini assoluti, dalle 2.307 unità del 1961 alle 695 unità del 2001, con una riduzione di ben 1.612 unità (- 69,9%); in termini relativi, nello stesso periodo, gli addetti agricoli, rispetto alla totale popolazione attiva, sono passati da un’incidenza pari al 79,5% del 1961 ad un’incidenza pari al 30,7% del 2001 e rispetto alla popolazione residente sono passati dal 38,7% del 1961 al 9,5% del 2001 (Tab. 2, Graf. 2). Appare alquanto evidente come anche per il Comune di Avetrana (comunità agricola e rurale per antonomasia) il settore agricolo ha perduto molta della sua tradizionale importanza economica e sociale a vantaggio degli altri settori produttivi: a partire dal 1991, infatti, la comunità avetranese realizza il sorpasso “epocale” degli addetti ai settori produttivi secondario (industriale) e terziario (servizi), rispetto a quello primario (Tab. 2, Graf. 2). Purtroppo, il calo degli addetti in agricoltura è accompagnato dal cosiddetto fenomeno della “senilità” e cioè dall’aumento dell’età media degli agricoltori. Infatti, nel periodo 1971/2001, mentre gli addetti compresi nella classe di età “14-19 anni” sono passati da 236 a 13 unità, gli addetti compresi nella classe di età “55 anni ed oltre”, sono passati da 134 a 100 con una variazione assoluta rispettivamente, di –223 e –34 addetti corrispondenti ad una variazione relativa di –94,5 e –25,4% (Tab. 3, Graf. 3).

37 38 39 40 Lo stesso fenomeno si osserva e si evidenzia dall’incidenza del numero degli addetti più giovani e di quelli più anziani rispetto agli addetti totali: tale incidenza per gli addetti compresi nella classe di età “14-19 anni” è passata dal 13,8% del 1971 al 1,9% del 2001 con un decremento di ben 11,9 punti percentuali; mentre per gli addetti compresi nella classe di età “55 anni ed oltre” è passata dal 7,8% del 1971, al 14,4% del 2001 (Tab. 3, Graf. 3). I dati innanzi esposti, che quantificano il calo della popolazione attiva in agricoltura e la concomitante “senilizzazione” della stessa – quantificano, cioè, la cosiddetta “fuga dai campi”, in particolare delle “forze giovanili” – determinati da varie cause (meccanizzazione delle operazioni colturali, bassi redditi, penalizzante considerazione sociale, ecc.) evidenziano la profonda evoluzione strutturale del fattore lavoro delle aziende agricole tradizionali che certamente inciderà non poco sul futuro dell’agricoltura avetranese.

3.3- Evoluzione strutturale dell’agricoltura avetranese ed attuale utilizzazione del territorio.

3.3.1- Premessa.

Nei capitoli precedenti sono state illustrate le “tipologie” colturali ovvero gli aspetti “qualitativi” delle principali colture agricole presenti sul territorio avetranese. In questa sede, allo scopo di pervenire alla dimensione “quantitativa” delle predette colture ovvero all’entità delle superfici aziendali occupate dalle stesse e quindi alla loro incidenza “strutturale”, saranno utilizzati i dati dei Censimenti Generali dell’Agricoltura che, ad iniziare dal 1961 e con cadenza decennale, vengono effettuati dall’ISTAT. Purtroppo i dati riguardanti il Comune di Avetrana e rilevati con l’ultimo Censimento, effettuato nel 2000, risultando gravemente errati ed irrealistici, non possono essere e non saranno da noi utilizzati 12 .

12 L’estrema abnormità di tali dati emerge immediatamente con l’entità della superficie destinata ad “utilizzazione extragricola” inconcepibilmente assunta pari a 2.575 ettari (Tab. 4) corrispondente al 35,1% della superficie territoriale: secondo tale dato il centro abitato di Avetrana e la viabilità pubblica dovrebbero occupare oltre 1/3 dell’intero territorio avetranese! Si stima che la predetta utilizzazione extragricola della superficie, all’anno 2000, sia sovradimensionata di almeno 2.000 ettari che, evidentemente, è sottratta all’utilizzazione agricola con improbabili quanto inficianti ripercussioni sul

41 Poiché gli ultimi dati utilizzabili dei Censimenti ISTAT si riferiscono alla situazione del 1990, il dato riferito alla situazione attuale e cioè al 2009 sarà da noi stimato sulla base dei dati effettivi da noi rilevati con indagine diretta sull’intero territorio comunale e riguardante le caratteristiche e la destinazione produttiva di ogni singolo appezzamento.

3.3.2- Superficie territoriale ed utilizzazione del suolo.

La superficie territoriale avetranese, estesa 7.328 ettari, sino al 1990 era destinata, più o meno costantemente, per oltre 7.000 ettari ad utilizzazione agricola – costituente, cioè, la superficie totale delle aziende agricole – e con valori oscillanti intorno ai 260 ettari era destinata all’utilizzazione extragricola e cioè occupata dal centro abitato, dalla viabilità pubblica, ecc.; con riferimento a quest’ultima superficie, considerando lo sviluppo urbanistico e gli insediamenti industriali e dei servizi verificatisi nell’ultimo ventennio, le aree attualmente occupate dal centro abitato, dagli insediamenti turistico- residenziali (zona Urmo) e produttivi del secondario (zona P.I.P.) e del terziario (ristoranti, impianti sportivi, ecc.) dalla viabilità pubblica, dalla condotta idrica e relativa pista di servizio “Irrigazione del I Lotto”, dal Cimitero, dalla vasca di decantazione delle acque bianche, dalla vasca di accumulo di acqua potabile dell’EAAP, ecc., si stima ammontino ad un valore oscillante intorno ai 400 ettari. Per differenza la superficie ad utilizzazione agricola attualmente oscilla intorno ai 6.928 ettari (Tab. 4, Graff. 4a e 4b).

numero delle aziende agricole avetranesi e sull’appropriata ripartizione della predetta superficie tra le diverse colture. Il fatto è tanto grave quanto inspiegabile – grave: perchè essendo il Censimento Generale dell’Agricoltura l’unica, rara – poiché decennale – e quindi preziosa fonte di dati “strutturali” dell’agricoltura italiana (si dice che decennalmente si fa la “fotografia” dell’agricoltura), disaggregati a livello comunale, gli stessi sono diffusamente utilizzati a qualsiasi livello (regionale, nazionale ed internazionale) da tutti coloro che a vario titolo si occupano di fatti agricoli (ricercatori, economisti, funzionari degli Uffici pubblici preposti agli interventi di politica agraria, analisti territoriali, liberi professionisti, ecc., ecc.); inspiegabile: poiché la rilevazione e la pubblicazione dei dati statistici, implica almeno tre livelli di controllo e di responsabilità: l’Ufficio Comunale di Censimento (U.C.C.) che designa e coordina i rilevatori controllando che gli stessi attuino la completa e corretta assunzione dei dati; l’Ufficio Provinciale di Censimento (U.P.C.) preposto all’istruzione dei rilevatori, mediante appositi corsi, all’assistenza ed al controllo dell’operato dell’U.C.C.; funzionari delle sedi periferiche e centrali dell’ISTAT che effettuano il controllo finale dei dati e che, allorquando uno o più di tali dati si scosta sensibilmente da quello analogo del precedente Censimento, dovrebbero chiedere all’U.C.C. le adeguate motivazioni e conferme.

42 43 44 3.3.3- Frammentazione della proprietà terriera e probabili effetti della stessa sulla futura destinazione del suolo.

In questi ultimi 20 anni in relazione all’evoluzione strutturale della proprietà fondiaria avetranese, si sono verificati dei fenomeni contrapposti: per un verso, lo spezzettamento dei fondi è continuato alimentato pressoché esclusivamente da motivi ereditari (raramente è stato causato da vendite); per altro verso, si è verificata una vera e propria inversione di tendenza rispetto al passato e cioè si è avviato il fenomeno dell’accorpamento (che si è molto accentuato nei tempi più recenti) alimentato dalla vendita (spesso “svendita”) di appezzamenti di terreno più o meno estesi, la cui conduzione risulta ormai del tutto antieconomica e per i quali l’alternativa alla vendita è l’abbandono. Gli effetti dei due fenomeni, considerati nello sviluppo complessivo ventennale, si stima si compensino tra loro e, pertanto, si assumono come invariati, e quindi rappresentativi della situazione attuale, i dati del Censimento 1990 (Tab. 5, Graff. 5a, 5b e 5c). Dal 1970 al 1990 e quindi all’attualità, il numero delle aziende agricole avetranesi è passato da 1.515 a 2.124 con un incremento di ben 609 aziende (+ 40,2%) determinando una sensibile riduzione delle dimensioni medie delle predette aziende ed accentuando il fenomeno patologico della “polverizzazione fondiaria”; attualmente, infatti, ben 1.029 aziende, e cioè circa la metà delle totali (48,4%) sono costituite da una superficie inferiore ad un ettaro e 1.517, ben il 71,4% delle totali, sono costituite da una superficie sino a due ettari: tali 1.517 aziende (più che aziende bisognerebbe definirle “proprietà”) occupano una superficie complessiva di 1200 ettari, pari ad appena il 17,3% della totale. Considerando: che, come già accennato in precedenza, le aziende non solo sono di piccole dimensioni (“polverizzazione fondiaria”) ma che le stesse sono costituite da più corpi distanti tra loro (“dispersione fondiaria”); che l’attuale livello di meccanizzazione delle operazioni colturale e quindi il consequenziale cospicuo investimento di capitale agrario per costituire un sufficiente parco macchine; l’impiego di acqua irrigua derivata da pozzo aziendale; ecc.; le aziende agricole, “per restare sul mercato” devono avere, generalmente, una dimensione superficiale minima di almeno dieci ettari, allo stato attuale, – salvo ordinamenti produttivi particolari – le aziende che in agro di Avetrana possono considerarsi “vitali” ovvero “economicamente autonome” sono quelle

45 comprese nella classe d’ampiezza di “10 ettari ed oltre” il cui numero ammonta a 115 unità (Tab. 5, Graff. 5a, 5b e 5c). Quali le prospettive future delle 2009 aziende, formate da più corpi e con dimensioni inferiori a 10 ettari e quale la destinazione delle rispettive superfici che nel complesso ammontano a 3106 ettari? Molte di tali aziende, per motivi dovuti: a) al progressivo aumento dei costi di produzione ed alla contemporanea ed altrettanto progressiva diminuzione del prezzo di vendita dei prodotti agricoli; b) all’anzianità del conduttore ed all’assenza di ricambio generazionale; c) al declino del part-time, specialmente di quello intersettoriale, sinora diffusamente praticato (da operai, impiegati ed anche da professionisti) poiché sono ormai molto pochi coloro i quali, oltre a svolgere il loro lavoro nella normale occupazione, sono disposti a “sacrificare” le loro ore libere e spesso i loro giorni di ferie, per coltivare il “pezzo di terra”, molto spesso ereditato e di cui ne avevano conservato il possesso per motivi prevalentemente afferenti alla sfera sentimentale; d) ecc.; inevitabilmente si estingueranno. I terreni delle predette aziende, specialmente quelli di buona fertilità e/o “confinanti”, alimenteranno il crescente fenomeno dell’accorpamento; molti appezzamenti, invece, specialmente se di scarsa fertilità naturale, saranno abbandonati e quindi resteranno incolti e su di essi rispunterà la vegetazione infestante cespugliosa 13 costituita dalle essenze della macchia mediterranea (lentisco, cisto, mirto, timo, ecc.), ricreando quelle associazioni vegetali naturali (gariga, gariga-steppa) che sino a mezzo secolo addietro e cioè sino agli anni ’60 del secolo scorso, come esposto nei capitoli precedenti, per autentica “fame di pane” e per la consequenziale “fame di terra” con tanto sudore era stata eliminata per lasciar posto alle colture agricole: si attuerà, cioè, il percorso inverso di rigenerazione dell’associazione vegetale naturale sui terreni attualmente agricoli terreni agricoli “steppa” “gariga-steppa” “gariga” “macchia mediterranea” indicata nello schema Polunin-Huxley riportato a pag. 13.

13 i cui organi ricaccianti insinuati nelle anfrattuosità e nelle fessurazioni carsiche della roccia calcarea, sono rimasti sempre vitali.

46 47 48 49 3.3.4- Ripartizione della superficie a destinazione agricola.

3.3.4.1- Premessa.

Sulla base della rilevazione diretta dei dati, si stima, al 2009, la situazione strutturale riportata in Tab. 6. La superficie a destinazione agricola è ripartita dall’ISTAT in 5 tipologie di utilizzazione:  terreni a “seminativo”;  terreni a “prati permanenti e pascoli”;  terreni a “colture permanenti”; che nel loro insieme costituiscono la S.A.U. (Superficie Agricola Utilizzata);  superficie a “boschi e pioppeti”;  “altre superfici”. La S.A.U. allo stato attuale si estende su 6.238 ettari circa; rispetto ai periodi precedenti per tale superficie si riscontra una lieve contrazione determinata dall’espansione della superficie territoriale ad utilizzazione extragricola motivata nel precedente paragrafo.

3.3.4.2.- I Seminativi.

Al 2009 tale qualità di coltura conferma la costante tendenza trentennale alla contrazione passando da 1.534 ettari del 1982 agli attuali circa 1.150 ettari (- 25,0%) (Tab. 6, Graff. 6a e 6b). La destinazione attuale dei seminativi, rispetto a quella precedentemente illustrata per l’agricoltura tradizionale (periodo ante anni ’60) è profondamente cambiata; infatti, con la progressiva estinzione dell’autoconsumo familiare e la totale scomparsa degli animali da lavoro e da bassa corte (“da cortile”), sono, rispettivamente, sempre più rare le superfici a leguminose da granella (fave, ceci, fagioli, dolichi o fagioli dall’occhio, piselli, ecc.), pomodoro locale, ecc. e sono scomparse del tutto le superfici ad avena, orzo, granturco, erbai (di veccia-avena, di sulla), ecc.. Allo stato attuale, sostanzialmente, i seminativi in agro di Avetrana sono prevalentemente coltivati a frumento duro (70% circa); una modesta aliquota è destinata

50 a colture orticolo-industriali (pomodoro, ecc.) condotte in irriguo (5% circa); i restanti 290 ettari circa (25,0%), distribuiti in piccoli appezzamenti, su tutto il territorio, seppure con maggiore intensità nelle zone scarsamente fertili, sono abbandonati e non più coltivati. Questi ultimi terreni incolti, oltretutto e purtroppo, determinano condizioni di grave rischiosità per il verificarsi ed il propagarsi di incendi che, estendendosi alle zone vicine (“macchia”, ecc.) provocano ingenti danni economici ed ambientali.

3.3.4.3.- I “Prati permanenti e pascoli” e le “superfici a bosco e pioppeti”: ovvero, le superfici a “macchia”.

Siccome le due tipologie ISTAT di utilizzazione del suolo (ancorché la seconda, a differenza della prima, non è inclusa nella S.A.U.), nel caso specifico di Avetrana, sono molto simili e quindi tra loro (come meglio si dirà in seguito) comparabili, si preferisce riguardarle congiuntamente. I “ prati permanenti ” sono colture foraggiere poliennali, condotte in irriguo le cui erbe vengono somministrate agli animali (fresche o allo stato di fieno) previa falciatura delle stesse. I “ pascoli ” sono di due tipi: “ prati pascoli ”, che derivano dai predetti prati permanenti quando l’erba non è falciata ma pabulata direttamente sul posto dal bestiame; “ pascoli naturali ”, costituiti dalle “steppe nude” ovvero “ pascoli semplici ”; dalle “steppe” con sporadica presenza di vegetazione arborescente (perastri, olivastri, querce, ecc.) ovvero “ pascoli arborati ”; dalla “gariga-steppa” ovvero “ pascoli cespugliati ”. Poiché la superficie a “prati permanenti” ed a “prati e pascoli” in agro di Avetrana è inesistente, la S.A.U. a “prati permanenti e pascoli” è costituita esclusivamente dai pascoli naturali . La “ superficie a boschi e pioppeti ” (questi ultimi sul territorio avetranese sono inesistenti): nella “superficie a boschi” l’ISTAT include i “boschi” propriamente detti, la “macchia mediterranea” e la “gariga”: quest’ultima, che include la gariga-steppa, è di assoluta prevalenza.

51 52 53 Poiché:  i predetti “pascoli naturali” inclusi nella S.A.U. sono costituiti pressoché totalmente dal pascolo cespugliato e quindi dalla “gariga-steppa”;  la superficie a “bosco” inclusa nelle “altre superfici” è costituita prevalentemente dalla “gariga”;  non essendoci tra le due associazioni vegetali naturali (gariga e gariga-steppa) una linea di demarcazione netta e che, per tale motivo, sia i rilevatori dei dati che i possessori aziendali intervistati, inconsapevolmente ed incolpevolmente, non abbiano inteso in modo corretto ed univoco le tipologie censuarie scambiandole tra loro;  le due tipologie di utilizzazione del suolo, genericamente definite a “macchia”, in relazione all’estensione ed alla ubicazione territoriale, esposta e panoramica, rivestono particolare importanza paesaggistico-ambientale; le due tipologie di utilizzazione del suolo e cioè le superfici a “prati permanenti e pascoli” e le superfici a “boschi e pioppeti”, ambedue genericamente definite a “macchia”, sono state unificate e congiuntamente riguardate (Tab. 6a, Graf. 6aa). Nel ventennio 1970/1990 la superficie a “macchia” sul territorio comunale di Avetrana ha fatto registrare una consistente diminuzione passando, in termini assoluti, dai 1.687 ettari del 1970 ai 604 del 1.990 con una contrazione di ben 1.083 ettari (- 64,2%) e, in termini relativi, passando, nello stesso periodo, da un’incidenza sull’intera superficie a destinazione agricola territoriale, dal 23,7% (e, cioè, da circa ¼) all’8,5%. Nel successivo ventennio 1990/2009, per la stessa utilizzazione del suolo, si registra, invece, una sostanziale costanza dei valori se si eccettua una lieve espansione (+ 66 ettari) in termini assoluti delle superfici (Tab. 6°, Graf. 6aa) 14 . La notevole contrazione delle superfici “a macchia” nel periodo 1970/1990, è da attribuirsi alla conversione produttiva delle stesse: prevalentemente da pascolo ad uliveto intensivo. La dimensione del fenomeno fu originata da due eventi contemporanei quanto concomitanti:

14 La differenza delle superfici a “macchia” 1990/2009 è da attribuire ad una lieve imprecisione, pressoché inevitabile, del dato censuario rilevato nel 1990.

54  55

 da una parte, l’originaria utilizzazione pascolativa con greggi ovi-caprine di quelle superfici ( pascolo cespugliato , pascolo arborato , pascolo semplice ) risultava pressoché del tutto esaurita e ciò in relazione alla decadenza delle grandi masserie e, di conseguenza, alla contrazione della consistenza del bestiame ovi-caprino ed all’estinzione della zootecnia tradizionale, tipicamente “estensiva” e contraddistinta da modesta produttività (nelle aziende in cui non si allevava bestiame, il pascolamento delle superfici macchiose veniva concesso a terzi in cambio di corresponsioni “in natura”: agnello a Natale e/o a Pasqua, qualche “forma” di formaggio e/o di cacioricotta, ecc.);  d’altra parte, nello stesso periodo veniva introdotto, anche in agro di Avetrana, l’”uliveto intensivo” che, con specifico riferimento a quella tipologia di terreno, si diffuse con estrema rapidità poiché: l’olivicoltura, da sempre, costituisce attività portante dell’economia agricola avetranese e poiché: l’ulivo si adatta a tutte le tipologie di terreno; si poteva disporre di appezzamenti macchiosi di grandi e medio-grandi dimensioni (sempre più rari) tali da consentire l’economica realizzazione di pozzi profondi e quindi l’impiego di acqua irrigua; l’ulivo, le cui operazioni colturali possono essere integralmente meccanizzate ben si adatta alla contemporanea diffusione della meccanizzazione agricola; la tipologia olivicola intensiva raggiunge rapidamente la fase di piena produzione; la forma di allevamento intensivo e l’impiego dell’acqua irriga, che oltretutto attenua l’alternanza produttiva, consentono di realizzare cospicue rese medie unitarie anche sui terreni dotati di scarsa fertilità naturale; il soddisfacente prezzo di vendita del prodotto (olive, olio) e gli aiuti comunitari alla produzione (integrazione di prezzo) e per altro verso, le relativamente modeste cure colturali richieste dall’ulivo, conferivano allo stesso elevati livelli di redditività; ecc.. Nel periodo successivo 1990/2009, la costanza quantitativa della superficie “a macchia” è motivata dal fatto che fin dall’inizio degli anni ’90 la conversione produttiva pascolo/ulivo intensivo, con la stessa rapidità con cui un decennio prima era “esplosa”, andava rapidamente esaurendosi; anche tale fenomeno era determinato da più cause concomitanti: indisponibilità, ormai, di appezzamenti suscettibili ad essere economicamente migliorati (insufficiente dimensione dell’appezzamento, assenza di

56 uno strato di terreno, ancorché sottile ma più o meno continuo, ecc.); calo della redditività dovuta prevalentemente al rincaro dei prezzi dei mezzi tecnici (in particolare dell’energia elettrica e dei carburanti necessari per attuare la pratica irrigua) e quindi ai crescenti costi di produzione; emanazione di norme legislative sempre più stringenti a tutela della vegetazione cespugliosa spontanea della flora mediterranea anche allorquando la stessa risulta “sporadica” e “dispersa” sul terreno o dovunque ubicata 15 . Le “ altre superfici ”, comprendono i suoli occupati da fabbricati rurali e relative aree di servizio, dalla viabilità poderale, dai muri a secco, ecc.; nelle “altre superfici” sono inclusi anche i terreni sterili (estese rocce affioranti, fondo di cave esaurite, ecc.). Sulla base dei dati precedenti e considerando, in particolare, gli spazi di transito e di manovra richiesti dai mezzi meccanici si stima che le “altre superfici” aziendali occupino complessivamente circa 220 ettari (Tab. 6, Graff. 6a e 6b).

3.3.4.4.- Le coltivazioni permanenti: l’ulivo e la vite.

Anche in questa tipologia di utilizzazione del suolo i dati relativi al 2009, sono quelli emersi dall’indagine diretta espletata sull’intero territorio comunale. Le coltivazioni permanenti nel 2009 occupano una superficie di 4.888 ettari, pari al 78,4% della S.A.U. ed al 70,6% della superficie aziendale totale (Tab. 7). Tali coltivazioni permanenti, costituite da ulivo , vite , fruttiferi ed agrumi , nell’ultimo ventennio, risultano variate di consistenza non tanto nel numero di aziende in cui le stesse, singolarmente o insieme, sono presenti, quanto nella destinazione di terreni all’interno delle aziende stesse.

15 Quella, che per tutta la storia dell’umanità, compresa quella avetranese, fino alla fine degli anni ’60 del 900, era considerata meritoria opera di bonifica agraria e ancor più meritoria bonifica del suolo , incoraggiata e sostenuta dallo Stato (con elargizione di contributi in conto capitale e/o in conto interessi) e dallo Stesso indicata e promossa (molti poderi della Riforma Fondiaria erano costituiti in gran parte da terreni cespugliosi da bonificare) e dopo un periodo di “tollerante transizione”, a partire dalla fine degli anni ’80 – inizio degli anni ’90 – diventa reato , sempre più stringente e, lodevolmente, sempre più strettamente controllato e sempre più severamente punito: corsi e ricorsi dei bisogni dell’umanità e della sua storia.

57 58 59 60 L’ ulivo . Allo stato attuale tale coltura si estende su circa 3.730 ettari, corrispondenti al 53,8% della totale superficie aziendale, ed è presente in ben 1.750 aziende pari all’82,4% del numero totale delle aziende agricole avetranesi: i predetti dati confermano la tradizionale “vocazione” olivicola di Avetrana (Tab. 7, Graff. 7a, 7b e 7c). Sul territorio comunale di Avetrana, come accennato in precedenza, attualmente sono diffuse sia la tipologia olivicola tradizionale o “secolare” (prevalente), sia la tipologia “intensiva” di relativamente recente introduzione. Delle motivazioni e modalità di esecuzione degli impianti secolari e delle loro caratteristiche peculiari, si è già detto in precedenza, in particolare nella descrizione del “paesaggio agricolo tradizionale”, a cui, pertanto, si rimanda. Anche della motivazione di realizzazione dei nuovi impianti olivicoli si è sufficientemente detto nel precedente paragrafo. In relazione alle modalità di realizzazione, tali impianti sono generalmente effettuati con cultivar di nuova introduzione (“Leccino”, “Nociara”, “Coratina”, “Frantoio”, ecc.), mettendo a dimora mediamente 400 piante/ettari; la maggior parte di tali impianti è condotta in irriguo. In coincidenza all’introduzione di queste nuove tipologie olivicole fu effettuato il rinfittimento dei alcuni impianti olivicoli “tradizionali”. In agro di Avetrana l’ulivo occupa tutte le tipologie di suolo, ma, in particolare, è diffuso intensamente nelle zone meno fertili; pertanto, la coltura, con maggiore o minore intensità, è diffusa su tutto il territorio avetranese fatta eccezione per alcune aree a nord dello stesso. La vite . La coltura viticola avetranese, costituita esclusivamente da vite per la produzione di uva da vino, nel periodo post 1961, risulta in costante e progressiva contrazione; attualmente, la coltura occupa circa 1.150 ettari, pari al 16,6% della superficie totale aziendale ed è presente in circa 700 aziende, corrispondenti al 33,0% delle totali aziende agricole (Tab. 7, Graff. 7a, 7b e 7c). Si è già detto precedentemente che il tradizionale sistema di allevamento ad “alberello”, inadatto all’esecuzione meccanizzata delle operazioni colturali, è in via di estinzione; tutti i nuovi impianti, infatti, sono realizzati con forme “appoggiate”, tendoni e varie tipologie di controspalliere (attualmente con prevalenza assoluta di queste ultime) impiegando quasi sempre cultivar di nuova introduzione: da qualche anno, invero, si registra un ritorno alla tradizionale cultivar “Primitivo”.

61 Spesso i nuovi impianti viticoli sono condotti in irriguo. La vite, che generalmente occupa i terreni più fertili, è diffusa su tutto il territorio comunale avetranese ma la stessa è particolarmente concentrata nelle aree fertili a nord- est e nord-ovest del predetto territorio. I “ fruttiferi ed agrumi ”. I fruttiferi (mandorleti, ficheti, ecc.) e gli agrumi (generalmente ubicati nelle cave) risultano del tutto sporadici sia in termini di aziende che di superfici interessate (Tab. 7, Graff. 7a, 7b e 7c).

3.3.4.5.- La superficie a “cava”.

Nel periodo post 1961 in relazione: al rapido e massiccio sviluppo dell’edilizia e quindi all’elevata domanda di conci di tufo, alla meccanizzazione dell’attività estrattiva e alla disponibilità di adeguati mezzi di trasporto del pesantissimo materiale tufaceo, riprese in Avetrana una intensa attività estrattiva con la conseguente formazione di “nuove cave” di grandi dimensioni e di notevole profondità. Anche le “nuove cave” sono ubicate, prevalentemente, ad est del centro abitato di Avetrana e in prossimità dello stesso; in merito alla utilizzazione del fondo-cava vale, per le predette nuove cave, quanto esposto per le “vecchie cave” nella descrizione del paesaggio agricolo tradizionale, a cui si rimanda.

3.3.4.6.- L’allevamento del bestiame.

L’allevamento del bestiame nell’economia agricola avetranese riveste sempre minore importanza sia in termini assoluti (per la contrazione del numero degli allevamenti e relativi capi di bestiame), sia in termini relativi (per il peso crescente delle produzioni vegetali). La zootecnia avetranese, come già accennato in precedenza, è basata sull’allevamento ovi-caprino che all’attualità si stima sia costituita da 1.500- 1.600 capi suddivisi in una decina di aziende, tra vecchie masserie ed altre strutture più recenti (per esempio, alcuni fabbricati, più o meno adattati, costituenti i poderi della Riforma Fondiaria); irrilevante è la presenza di capi bovini.

62 4.- LA COMPILAZIONE DELLE CARTE TEMATICHE TERRITORIALI E LA PRODUZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA: LORO CONTENUTI E METODOLOGIA PROCEDURALE.

4.1.- Premessa.

Nei capitoli precedenti, in merito all’utilizzazione del territorio avetranese – previa sintetica descrizione delle motivazioni che l’avevano determinata, connesse all’evoluzione dei bisogni umani e delle vicende storiche (ante 1961) ed alla rivoluzione tecnologica, economica e socio-culturale (post 1961) – è stata esposta la situazione “generale”:  nei suoi aspetti “qualitativi” tradizionali o “storici” (riportati nella descrizione del “paesaggio agricolo tradizionale”) ed attuali (descrizione delle tipologie colturali);  nei suoi aspetti “quantitativi” e “strutturali” e cioè nel numero e nelle caratteristiche delle aziende agricole (superfici, lavoro, ecc.) e nella ripartizione della superficie territoriale (in ettari) secondo i dati forniti dall’ISTAT – Censimento Generale dell’Agricoltura, fra le varie tipologie colturali (ulivo, vite, ecc.); di tali tipologie colturali si è indicata una ubicazione territoriale di massima. A completamento del presente lavoro di ricerca si è proceduto alla compilazione delle carte tematiche territoriali su cui sono state esattamente localizzate e dimensionate le varie utilizzazioni del suolo e su cui è stata precisamente indicata l’ubicazione dei beni diffusi del paesaggio agrario ed i segni della stratificazione storico-insediativa; per una reale ed oggettiva illustrazione di questi ultimi elementi e testimonianze del paesaggio agrario, si è proceduto altresì, alla produzione di una adeguata documentazione fotografica. La realizzazione dei predetti documenti conclusivi, ha richiesto un cospicuo lavoro di ricerca, di rilevazione diretta dei dati territoriali e di elaborazione degli stessi.

4.2.- Metodologia di rilevazione dei dati.

La rilevazione dei dati territoriali non è stata effettuata “per campione” ma bensì ha riguardato l’intero territorio – e cioè ha riguardato la “totalità” (pur con qualche

63 comprensibile lacuna) degli appezzamenti di terreno che costituiscono le aziende agricole presenti sul territorio comunale di Avetrana; all’uopo sono stati percorsi centinaia di chilometri di strade provinciali, comunali (ex vicinali), interpoderali ed anche poderali (masserie, grandi proprietà). Per ogni singolo appezzamento sono state rilevate le sue caratteristiche e l’utilizzazione dello stesso:  presenza di fabbricati e manufatti rurali: masserie, fabbricati padronali, Cappelle, locali uso ricovero (esclusi quelli con volte a solaio), grandi cisterne (“acquaroni”), muri a secco, trulli, ecc.;  presenza di colture agricole e tipologie delle stesse: uliveto “secolare”; uliveto tradizionale di tipo “secolare”; uliveto intensivo e superintensivo; vite ad alberello ed appoggiata; seminativi coltivati ed incolti e di questi ultimi il livello e lo stato di “incoltura” (presenza di piante poliennali bulbose; di vegetazione cespugliosa spontanea, ecc.);  presenza di associazioni vegetali naturali e tipologie delle stesse: bosco, macchia mediterranea, gariga con vari livelli di intensità cespugliosa; steppa con vari livelli di presenza di piante cespugliose; ecc.;  presenza di cave attive o esauste e, di queste ultime, utilizzazione della superficie di fondo: a colture agricole (uliveto, agrumeto, ecc.), a “macchia”, a incolto sterile. La predetta rilevazione “puntuale” dei dati territoriali è stata effettuata con l’ausilio di documentazione catastale, di aerofoto e del sistema informatico G.I.S.. In concomitanza dell’assunzione dei predetti dati “puntuali” sono stati eseguiti i rilievi fotografici illustrativi della presenza, della struttura, costituzione e dello stato dei “beni diffusi del paesaggio agrario” e dei “segni della stratificazione storico-insediativa”, e di ogni altro elemento costituente il paesaggio agrario di particolare interesse paesaggistico e storico. Le informazioni relative ad alcune tipologie vegetali (ulivo, “macchia”, ecc.) sono state assunte direttamente “in loco”; alcune informazioni riguardanti i fabbricati rurali (in particolare masserie, Cappelle e Colonne votive) sono state attinte dalla relativa bibliografia.

64 4.3.- Elaborazione dei dati.

Gli elementi costitutivi del paesaggio agricolo avetranese, in relazione alla loro specificità ovvero alla loro omogeneità tecnico-economica ed anche per una adeguata semplificazione espositiva, sulla base della ripartizione della superficie aziendale ISTAT – Censimento Generale dell’Agricoltura (esposta nel precedente capitolo) sono stati così suddivisi e/o raggruppati: a) “S.A.U. ” (Superficie Agricola Utilizzata):  “seminativi ” e “ prati permanenti e pascoli ”: considerando, come in precedenza specificato, che della seconda tipologia di utilizzazione del suolo aziendale in Avetrana esistono solo i “pascoli naturali” (sono del tutto assenti i “prati permanenti” ed i “prati pascoli”) costituiti da pascoli semplici (steppa), “pascoli arborati” (steppa con sporadica vegetazione arborescente) e “pascoli cespugliati” (steppa con sporadica vegetazione cespugliosa) e cioè costituiti sostanzialmente da “terreni nudi” simili ai seminativi e, in particolare, simili ai seminativi incolti su cui è rispuntata la vegetazione naturale spontanea (cespugliosa, bulbosa, ecc.); considerando, altresì, il crescente fenomeno dell’”abbandono delle terre” e che ormai non esiste una linea di demarcazione ben netta tra seminativi, seminativi abbandonati e steppa, le due tipologie di utilizzazione del suolo sono state raggruppate in un’unica rappresentazione grafica;  “colture permanenti ”: • “ulivo ”: della coltura olivicola sono state rilevate 5 distinte tipologie: uliveto “secolare”; uliveto “tradizionale” o di “tipo secolare”, uliveto “rinfittito”, uliveto “intensivo”, uliveto “superintensivo”. Tali tipologie, sulla base del valore paesaggistico, storico ed ambientale, sono state suddivise in due sole tipologie: “uliveto secolare”, “altri uliveti”; • “vite ”: per tale coltura sono state rilevate le tre forme di allevamento: “alberello”, varie tipologie di “controspalliera” e “tendone”, di cui si è detto in precedenza. Soltanto sulla base delle diverse forme di allevamento non si ritiene opportuno distinguere diversificate utilizzazioni del territorio e, pertanto, per il vigneto è assunta un’unica tipologia colturale;

65 b) “Superfici a boschi e pioppeti ”: la “superficie a bosco” (in agro di Avetrana i pioppeti sono inesistenti), sulla base delle caratteristiche della comunità vegetale costituita dalla flora mediterranea, è stata appropriatamente distinta (per la descrizione delle specifiche caratteristiche delle associazioni o comunità vegetali naturali si rimanda al 1° capitolo) in:  superficie a “bosco”: comunità (naturali o realizzate dall’uomo) costituite prevalentemente da piante arboree;  superficie a “macchia mediterranea”: in questa tipologia, oltre alla “macchia mediterranea” propriamente detta, è inclusa anche la gariga (che spesso deriva dalla degradazione della prima); ciò è apparso opportuno non esistendo tra le due comunità vegetali una linea di demarcazione ben netta e poiché ambedue le predette comunità sono conosciute e denominate col nome generico di “macchia”;  una particolare tipologia di flora arborea è costituita dalle “alberature” (in filari singoli o doppi – viali -, gruppi di piante, ecc.), costituite con essenze forestali, di particolare rilevanza paesaggistica; c) “Altre superfici ”: tali superfici, come già in precedenza accennato, sono quelle occupate da fabbricati rurali e relative aree di pertinenza, dalla viabilità poderale, da muri a secco, da terreni sterili (aree rocciose, fondo cave, ecc.). Con specifico riferimento a fabbricati e manufatti rurali, particolarmente rilevanti per interesse paesaggistico, storico e culturale e, pertanto, riportati su carta tematica, sono:  le masserie (per il cui numero e denominazione e per una sommaria descrizione delle stesse, si rimanda al “P.U.G. – Documento Programmatico Preliminare”);  le case coloniche ed i fabbricati di servizio del Borgo della Riforma Fondiaria;  le grandi cisterne o “acquaroni”;  i muri a secco;  i trulli, le Cappelle di culto, le Colonne votive. Una notevole componente del paesaggio agricolo avetranese è costituita dalle cave esauste che, pertanto, sono state raggruppate a costituire una specifica tipologia di utilizzazione del territorio, distinta per destinazione della superficie di fondo (si fa rilevare, che tali cave, in relazione alla destinazione della superficie di

66 fondo – ad uliveto, a macchia, terreno sterile, ecc. – sono già incluse nelle relative superfici aziendali prima esaminate):  cave esauste da uliveto;  cave esauste a “macchia”  cave esauste sterili.

4.4.- Principali risultati dell’indagine territoriale .

La rilevazione diretta dei dati relativi ad ogni singolo elemento strutturale e costitutivo del paesaggio agricolo avetranese e la adeguata elaborazione dei predetti dati, ha consentito:  la compilazione delle seguenti Carte Tematiche Territoriali 16 : • Tavola 1 : Rilevazione delle colture ovvero copertura vegetale del territorio; • Tavola 2 : Rilevazione Beni diffusi del paesaggio agrario, Segni della stratificazione storico-insediativa, Aree a bosco, macchia mediterranea, oliveto secolare; • Tavola 3 : Rilevazione del paesaggio agrario Zona Urmo Belsito: aree a macchia mediterranea e oliveto; • Tavola 4 : Rilevazione del paesaggio agrario: Cave esauste; • Tavola 5 : Aree sottoposte a vincolo naturalistico: S.I.C., S.I.N., Parco territoriale, Biotopo, Faunistico-venatorio; Rilevazione del paesaggio agrario: bosco, macchia mediterranea.  la produzione della Documentazione Fotografica illustrativa dei beni diffusi del paesaggio agrario e dei segni della stratificazione storico-insediativa di maggiore rilevanza naturalistica, paesaggistica e storico-culturale:

Le predette Carte Tematiche Territoriali e Documentazione Fotografica fanno parte integrante della presente relazione di studio territoriale.

67 5.- CONCLUSIONI.

All’attuale assetto e caratteristiche del territorio e dell’agricoltura avetranese si è pervenuti attraverso due distinti processi evolutivi di diversa natura e tra loro consecutivi. Nel primo processo evolutivo, avviatosi sostanzialmente con l’Unità d’Italia (invero, l’avvio risale agli albori della comunità avetranese) e conclusosi a cavallo degli anni ‘50-60 del secolo appena trascorso (e cioè durato circa un secolo) si è realizzata l’evoluzione strutturale dell’agricoltura con la trasformazione delle grandi proprietà, condotte con ordinamento cerealicolo-pastorale estensivo, in una fitta maglia di piccole e piccolissime aziende ad ordinamento produttivo attivo ed intensivo; conseguentemente si è modificato radicalmente il paesaggio agricolo trasformandosi da generalmente spoglio a verde intenso dei vigneti e degli uliveti realizzati dal lavoro contadino. In questo periodo, nonostante il profondo sconvolgimento della struttura fondiaria, della proprietà della terra e delle colture realizzate sulla stessa, pressoché del tutto immodificate rimangono le tecniche colturali ed i processi produttivi ancora basati sul lavoro umano e su consolidate tradizioni secolari. Altrettanto immutata rimane l’organizzazione familiare e sociale che continua ad essere fondata sui valori e sui tradizionali canoni della civiltà contadina e rurale. Nel secondo processo evolutivo, iniziato in coincidenza con la conclusione del primo (anni ’50-60 del 1900) si è realizzata l’evoluzione tecnologica dell’agricoltura, più nota come “industrializzazione” del settore, che ha radicalmente modificato e rivoluzionato le tecniche colturali ed i processi produttivi. L’agricoltura moderna ha come suoi più rilevanti connotati: un bassissimo numero di addetti al settore; la meccanizzazione più o meno integrale di tutte le operazioni colturali, comprese quelle di raccolta dei prodotti; il diffuso – ed a volte eccessivo ed improprio – impiego di prodotti chimici (antiparassitari, diserbanti e fertilizzanti) e di acqua irrigua; elevate rese di produzione, non sempre di buona qualità, un discutibile impatto ambientale ed una rilevante influenza sull’equilibrio dell’ecosistema.

16 Alcuni elementi costitutivi del paesaggio agricolo (muri a secco e trulli – specialmente se più o meno diroccati -, modeste superfici macchiose, ecc.), ubicati isolatamente oppure in un contesto territoriale di scarso interesse relativo, pur rilevati non sono stati riportati sulle carte tematiche territoriali.

68 In concomitanza con l’innovazione tecnologica si realizza anche il processo evolutivo dell’assetto strutturale ed organizzativo sociale “tradizionale” che si attesta su modelli di tipo “cittadino”. Specialmente il popolo contadino desidera affrancarsi rapidamente dal gravoso legame con la “terra”: rapidamente: perchè il lavoro dei campi è spossante e socialmente degradante; perché i contadini non vogliono più sentirsi chiamare “cafoni” persino dagli “artieri” il cui tenore di vita dipendeva da quanto essi, sacrificandosi e lavorando duramente, “producevano”; perchè volevano rimuovere i ricordi di immani sacrifici e di tante privazioni. Purtroppo, però, a causa degli “eccessi” che inevitabilmente accompagnano le “rivoluzioni” sociali e culturali, troppo in fretta si abbandonarono e si dimenticarono il modello di vita e il patrimonio di tradizioni e di valori propri della società rurale e della civiltà contadina: tradizioni e valori che, per fortuna le nuove generazioni, culturalmente più elevate e libere da condizionamenti e da preconcetti, mostrano, invece di apprezzare e che, pertanto, stanno adeguatamente e saggiamente rivalutando. Anche in tale ottica nella documentazione allegata alla presente relazione (oltre alle carte tematiche illustrative dell’utilizzazione del territorio, di cui in relazione si è riportata la descrizione qualitativa e si è fornita la consistenza quantitativa) è riportata la illustrazione fotografica di alcune rilevanti testimonianze della civiltà contadina e rurale avetranese; tali testimonianze, alla stessa stregua della lodevole iniziativa di conservare, nella Sala Consiliare della nuova sede municipale, una porzione di muro originario a “memoria” delle antiche vestigia del preesistente fabbricato, a parere di chi scrive, meritano di essere salvaguardate e consegnate alle nuove generazioni. Ciò costituirebbe, oltretutto, un pur modesto contributo alla conoscenza – come afferma il Ricchioni 17 – di “.... quella storia dei cafoni meridionali, non ancora scritta, e ch’è intessuta di tanti eroismi e cosparsa di tante ingiustizie”.

17 Ricchioni V.: “Lavoro agricolo e trasformazione fondiaria ”, in “Terra di Bari”, Ed. , Bari, 1929, pag. 93

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