DOTTORATO IN SCIENZE STORICHE, ARCHEOLOGICHE E STORICO-ARTISTICHE

Coordinatore prof. Francesco Caglioti

XXXI ciclo

Dottorando: Gianmarco Salvati

Tutor: prof. Valerio Petrarca; cotutor: prof. Alessandro Triulzi

Tesi di dottorato:

Le immagini del futuro dei giovani di

2018

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SOMMARIO

INTRODUZIONE ...... 4

Un quartiere, una ricerca ...... 7

Teorie, metodi, strumenti ...... 21

Struttura e contenuto della tesi ...... 31

CAPITOLO I – RADICI STORICHE E CONTESTO CONTEMPORANEO ...... 34

1. Le prime fonti e il regno di ...... 34

2. Il medioevo etiope ...... 37

3. Tewodros II, Menelik II ed i conflitti con l’Italia ...... 40

4. L’epoca di Haile Selassie e l’occupazione fascista ...... 44

5. Il Derg e i fronti di liberazione ...... 48

6. Il decentramento e la “democrazia etnicista” ...... 51

7. Il Tigray e la città di Mekelle ...... 57

CAPITOLO II – GIOVANI, FUTURO E IMMAGINAZIONE ...... 62

1. Introduzione ...... 62

2. Definire la gioventù ...... 65

3. Obblighi sociali, doveri morali ...... 74

4. “I want to be my own boss” ...... 85

5. “La conoscenza è saggezza”...... 90

6. Conclusioni ...... 94

CAPITOLO III – ASTUZIA, INGANNI E CREATIVITÀ. REPERTORI CULTURALI PER LA MOBILITÀ

SOCIALE ...... 96

1. Introduzione ...... 96

2

2. Saper essere “iwala” ...... 97

3. Storia di un Original Gangsta ...... 108

4. “The Wolf of Addis Abeba” ...... 117

5. Mickey, il “borko” ...... 124

6. Conclusioni ...... 131

CAPITOLO IV – DIPENDENZA DA SOSTANZE E PERCORSI DI RIABILITAZIONE...... 135

1. Introduzione ...... 135

2. “Eravamo ragazzi brillanti”. La dipendenza dal khat ...... 136

3. Immaginare futuri possibili attraverso il khat ...... 146

4. “Dalle tenebre alla luce” ...... 153

5. Conclusioni ...... 162

CAPITOLO V – “CANOVACCI” MIGRATORI. IMMAGINARI, PERCORSI E STRATEGIE DI

MOBILITÀ...... 168

1. Introduzione ...... 168

2. Un’immagine onnipresente...... 174

3. Questione di vita o di morte. “Wey n asa, wey n kassa”...... 186

4. Conclusioni ...... 194

CONCLUSIONI ...... 197

RIFERIMENTI ...... 203

Bibliografia ...... 203

Tesi di Laurea e di Dottorato ...... 216

Report ...... 217

Sitografia ...... 217

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INTRODUZIONE

Espongo in questo testo i dati raccolti durante la mia ricerca di dottorato nel triennio 2015-2018, svolta nella città di Mekelle, capitale della Regione Federale del Tigray, nel nord dell’Etiopia. La ricerca si

è svolta nell’ambito della Missione Etnologica Italiana in Tigray ed Etiopia (MEITE), diretta dal professor

Pino Schirripa. A partire dal 2007, la MEITE ha compiuto diverse campagne di studio che hanno visto coinvolti, oltre al Direttore, diversi ricercatori e studenti che, come nel mio caso, hanno condotto le proprie indagini per la stesura delle tesi di laurea magistrale o del dottorato di ricerca. La folta presenza di colleghi che hanno lavorato su quello che è, a tutti gli effetti, un “terreno condiviso”, è stata di fondamentale importanza per la stesura di questa tesi. Il lettore troverà, infatti, collegamenti ai lavori di numerosi membri della MEITE, con i quali ho instaurato un vero e proprio dialogo.

Durante il mio percorso di dottorato ho svolto 7 mesi di lavoro sul campo. Parte di questo lavoro si svolge in continuità e si basa su una mia precedente attività di ricerca, svolta presso il capoluogo tigrino per la durata di 5 mesi, a cavallo fra il 2013 e il 2014, i cui risultati sono stati raccolti nella mia tesi di laurea magistrale (Salvati, 2015).

Al centro della mia indagine, come si evince dal titolo di questo contributo, ci sono le immagini

– da intendere secondo la facoltà di immaginazione descritta da Arjun Appadurai (1996), di cui parlerò in dettaglio in seguito – che i giovani del capoluogo tigrino prendono in considerazione per il proprio avvenire. Parlare del futuro di questi giovani significa anzitutto parlare del loro presente, delle strategie che adottano, dei piani che hanno costruito per se stessi, degli obiettivi che vorrebbero realizzare e dei modi in cui riescono a sopperire alle difficoltà e agli ostacoli che di volta in volta si frappongono tra i miei giovani interlocutori e i loro desideri.

A proposito della “categoria” di futuro, mi preme innanzitutto sottolineare l’adozione da parte mia di una prospettiva alla quale mi hanno fatto giungere diverse letture, il confronto con numerosi 4

colleghi e soprattutto la mia attività di ricerca sul campo: in larga parte delle etnografie di numerosi accademici la gioventù africana viene rappresentata come in una sorta di attesa passiva (Dhillon – Yousef,

2009; Singerman, 2007), di stallo e di immobilità (Mains, 2012). Nel caso dei giovani con i quali sono stato a contatto, invece, essi non trascorrono le loro esistenze semplicemente restando immobili ad aspettare che accada qualcosa o che il governo si prenda cura di loro. Con questo non voglio certo affermare che nel caso della gioventù di Mekelle ci si trovi al cospetto di una porzione di umanità particolarmente laboriosa (qualunque osservatore potrebbe notare con facilità la presenza costante di folti gruppi di giovani che passano intere giornate sedute ai tavoli dei bar e agli angoli delle strade) ma a ben vedere, anche in quei casi di “apparente immobilità” che continuano a contraddistinguere la vita di molti dei miei interlocutori, vengono costantemente messe in atto pratiche e tecniche che forniscono, in modo creativo, soluzioni alle sfide del vivere quotidiano. Sono quelle “youthscapes” di cui parlano Maira e Soep

(2005) e Honwana (2014), che nel caso dei giovani da me studiati si rendono concrete come pratiche alternative di assistenza reciproca e di relazioni sociali tramite cui potersi garantire una forma di sussistenza, argomento posto al centro della mia indagine.

Alcinda Honwana ha descritto in questo modo gli spazi creativi per l’azione dei giovani, quelli che, appunto, definisce youthscapes:

Nevertheless, they are not just sitting and waiting for their elders or the government to do something. Instead, they are using their creativity to find solutions for everyday-life challenges. They are creating innovative spaces for action, or “youthscapes” (Maira & Soep 2005) with their own modus vivendi and modus operandi. Within these “youthscapes” they try to subvert authority, bypass the encumbrances created by the formal system and fashion new ways of functioning and manoeuvring on their own. These youth spaces foster opportunities and possibilities for desenrascar a vida, débrouillage and for “getting by” through improvisation (2014: 23-24, corsivo dell’autore).

La studiosa ha pertanto parlato, per la gioventù africana – e più in generale per quella globale – di ciò che definisce “waithood”, un periodo compreso fra l’infanzia e l’età adulta in cui, a causa delle fallimentari politiche neoliberiste e dell’instabilità politica e sociale, i giovani sono incapaci di avere lavori stabili e quindi provvedere alla propria cura e a quella delle loro famiglie (ivi: 19). Tuttavia, fa notare la studiosa, questo periodo permette ampi margini per la sperimentazione, l’esplorazione, l’improvvisazione di modi in cui sopravvivere e superare gli ostacoli: 5

Waithood is creative; young people have not resigned themselves to the hardships of their situation but are using their agency and creativity to fashion new “youthscapes” (Maira & Soep 2005) or sub-cultures with alternative forms of livelihood and social relationships in the margins of mainstream society. Through improvised and precarious strategies for desenrascar a vida, débrouillage and “getting by” young people in waithood use their energies to try and overcome their state of ‘want’ and lead decent and dignified lives (ivi: 26, corsivo dell’autore).

Questo modo di guardare all’incertezza che accompagna le vite dei miei interlocutori deriva soprattutto dal volume intitolato, non a caso, Etnographies of Uncertainty in Africa (2015), nel quale Elizabeth

Cooper e David Prattern, curatori del libro, hanno guardato all’incertezza non soltanto come a un problema da risolvere ma anche come a una risorsa impiegata per ribaltare la situazione. Scrivono gli autori:

Our focus is on uncertainty as a structure of feeling – the lived experience of a pervasive sense of vulnerability, anxiety, hope and possibility mediated through the material assemblages that underpin, saturate, and sustain everyday life. Uncertainty is implicated in a complex semantic field. Uncertainty belongs to a family of concepts that also includes insecurity, indeterminacy, risk, ambiguity, ambivalence, obscurity, opaqueness, invisibility, mystery, confusion, doubtfulness, scepticism, chance, possibility, subjunctivity, and hope. […] Such fecundity offers ample opportunity for analysis, as well as many challenges to conceptual clarity. As conceptual lens, uncertainty is often used in its negative and constraining sense in referring to a lack of absolute knowledge, the inability to predict the outcome of events or to establish facts about phenomena and connections with assurance. Yet, we also see uncertainty in a positive, fruitful, and productive framing. Uncertainty is not always and exclusively a problem to be faced and solved (Berthomé et al. 2012). Uncertainty is a social resource and can be used to negotiate insecurity, conduct and create relationships, and acta s a source for imagining the future with the hopes and fears this entails. As such, uncertainty becomes “the basis for curiosity and exlporation; it can call forth considered action to change both the situation and the self” (Whyte 2009: 213-14). In short, uncertainty is productive (Cooper – Prattern, 2015: 1-2).

Marco Di Nunzio, autore di uno dei contributi del volume appena citato, ha applicato questa prospettiva al suo studio sulla gioventù di Addis Abeba e ha proposto di guardare all’incertezza come a un “terreno di possibilità” (2015a: 153). L’autore, al quale il lettore troverà numerosi riferimenti in questo testo, scrive che i suoi informatori «not only valued uncertainty as a ground for social pratice and hope, they embraced it» (ivi: 152, corsivo mio).

Uno dei punti che cercherò di mettere in risalto riguarda la considerazione che quella immobilità che secondo diversi accademici caratterizzerebbe le vite di larga parte dei giovani africani, nel caso dei miei interlocutori sarebbe da intendere soprattutto come “non-mobilità” sociale: una delle affermazioni

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che con più frequenza ho sentito dire dai miei interlocutori riguarda la totale assenza di cambiamento, laddove per “cambiamento” sarebbe da intendere un’ascesa sociale che, a giudicare dalle loro parole, risponderebbe a ciò che Schielke chiama «middle-class fantasy» (2012: 179) e che nel loro caso si riferisce, infatti, al desiderio di possedere «una casa, una macchina, una famiglia» ed esperire un reale cambio di status, effettuando un avanzamento sociale che li porti «dai margini verso il centro» (ibidem, traduzione mia). Potendo effettuare un confronto fra la situazione in cui versavano alcuni dei giovani con cui sono stato maggiormente in contatto durante il mio primo soggiorno a Mekelle, risalente ormai a più di tre anni fa, e quella in cui si trovano al giorno d’oggi, ho potuto registrare che nulla o poco è cambiato nelle loro vite, sebbene per molti di essi si siano aperte le porte del mondo del lavoro o si siano potuti sposare e abbiano potuto formare una nuova famiglia. Ciò che manca, ascoltando le loro parole, sarebbe appunto l’assenza di quel cambiamento, di quell’avanzamento di status, elemento che mi fa concordare con l’analisi compiuta da Marco Di Nunzio (2015b) sui giovani da lui studiati ad Addis Abeba, per i quali registra un perpetuarsi delle condizioni di marginalità e di impoverimento dalle quali si cercavano (e si cercano) di liberare.

Un quartiere, una ricerca

Con lo scopo, duplice, di restituire al lettore un’immagine dei luoghi in cui si è svolta la mia ricerca e di introdurre alcuni dei temi posti al centro di questa indagine, vorrei descrivere le attività che si svolgono nel cuore del centro cittadino di Mekelle. Come mi venne detto da uno dei miei più assidui informatori, un uomo impiegato presso il Ministero dell’Istruzione del Tigray con cui mi incontravo spesso nelle numerose caffetterie che sorgono nei pressi degli uffici governativi, «non puoi studiare i giovani di Mekelle senza studiare Kebele Sedici». Le kebele sono unità amministrative nelle quali è divisa l’area urbana1, e kebele Sedici rappresenta il cuore del centro cittadino, lo spazio pubblico per eccellenza, dove si trovano la piazza principale della città, i quartieri generali delle principali istituzioni pubbliche e private – oltre al

1 Nella sua tesi di dottorato, Alessia Villanucci (2014) ha fatto notare la differenza fra le kebele di area rurale che possono coprire zone estremamente vaste e quelle di area urbana, corrispondenti a quartieri cittadini (ivi: 6, nota in appendice). 7

Ministero, la sede principale della Ethio-Telecom e della Commercial Bank of – e le più famose e frequentate attività commerciali. Nella transizione fra il giorno e la notte, questa porzione della città sembra “cambiare volto”. Questa ambiguità è sottolineata dai principali luoghi di ritrovo che si trovano nelle strade della kebele, che attraggono folti numeri di avventori durante l’intera giornata. A seconda dell’ora del giorno in cui alcune attività commerciali svolgono i propri affari, infatti, le azioni e le interazioni di lavoratori e clienti cambiano in modo significativo. Un’ulteriore ambiguità è insita nella percezione che di quest’area hanno gli abitanti stessi: riconosciuta come lo spazio pubblico per antonomasia, gli abitanti di ogni parte della città vedono la kebele come un luogo di attrazione ma al tempo stesso di pericolo, in cui divertirsi o rischiare di perdersi.

Un’efficace quanto affascinante definizione di Kebele Sedici mi è stata fornita dal professor Ivo

Strecker, uno dei più famosi studiosi dell’Etiopia contemporanei. Nel tardo pomeriggio di un giorno di metà ottobre del 2016 stavo camminando nelle strade del centro, dove avrei dovuto incontrare il mio fidato amico e interprete Agesom. Mentre camminavo, riconobbi in lontananza un piccolo gruppo di forengy2 seduti ai tavoli di una delle numerose bunna bet3 sparse in tutta la città, che in Kebelle Sedici sono presenti in ogni sua strada. Il gruppo era formato dal professor Wolbert Smidt, storico e antropologo tedesco che vive e insegna da lustri nel capoluogo tigrino, l’etnomusicologa indiana Dyva Shirivastava e il professor Strecker.

Il gruppo mi invitò a sedere con loro e Ivo Strecker, che avevo visto per l’ultima volta solo due anni prima, mi chiese col suo consueto interesse i progressi della mia ricerca, soffermandosi di volta in volta sui punti che riteneva essere più interessanti. Quando finalmente prese la parola mi raccontò dei nuovi progetti che lo portavano in Etiopia, tra cui quello di produrre un documentario etnografico su alcuni dei luoghi più importanti della città, includendo anche Kebele Sedici. Fu in quel momento che il professor Strecker, cercando di dare una definizione al centro della città, esclamò «Kebele Sedici è la vera

2 Il termine forengy, derivato dall’inglese foreigner, «indica tutto ciò che, dal punto di vista geografico, culturale, storico è considerato di origine “occidentale”, “non abissina”, di solito proveniente da zone esterne all’Africa» (Massa, 2009: 159, nota in appendice). 3 In tigrino, il temine bunna significa “caffè”, mentre bet “luogo”. Con bunna bet si definisce un’attività commerciale specializzata nel preparare e servire il caffè nella maniera tradizionale etiopica. 8

agorà di Mekelle». Questa definizione coglie appieno l’anima del luogo, o meglio, proprio per utilizzare ancora le parole di Ivo Strecker, il genius loci del quartiere. In un saggio dedicato a questo tema, Strecker

(2000) ha usato la definizione di Christian Norberg-Schulz, che spiega:

Man dwells when he can orientate himself within and identify himself with an environment or, in short, when he experiences the environment as meaningful. Dwelling therefore implies something more than “shelter”. It implies that the spaces where life occurs are “places”, in the true sense of the word. A place is a space which has character. Since ancient times the genius loci, or “spirit of place” has been recognized as the concrete reality man has to face and come to terms with in his daily life (Norberg-Schulz 1980: 5, cit. in Strecker, 2000: 85).

Nella sua semplicità e nella pertinenza del giudizio scientifico, la definizione di agorà ordinò i miei pensieri circa questa porzione della città, fornendo un’immagine istantanea di cosa voglia dire camminare fra le sue strade. Kebele Sedici è senza dubbio la vera agorà di Mekelle: proprio come nelle antiche polis greche, questa parte della città definisce lo spazio pubblico, il luogo designato per gli appuntamenti, brulicante di persone a ogni ora del giorno.

La Kebele copre una vasta area, ai cui quattro angoli si trovano alcuni dei più importanti e famosi luoghi ed edifici di Mekelle. Fra essi c’è Romanat Square, piazza principale e cuore del centro cittadino.

Questa piazza ospita alcune delle celebrazioni più importanti della città e della Regione, come i concerti in occasione degli anniversari del partito di maggioranza tigrino, il TPLF, o il festival dell’Ashenda4, uno degli eventi maggiormente sentiti e celebrati in Tigray.

Da Romanat Square una lunga strada asfaltata conduce al quartier generale della Commercial

Bank of Ethiopia, la filiale principale dell’istituto bancario. Su questo corso principale, affollato durante tutto il giorno da persone, automobili, motociclette, autobus e bajaj5, si trovano numerose attività commerciali, come boutique e negozi di scarpe, bar e alcuni tra i più famosi ristoranti, studi fotografici, negozi di computer ed elettronica, negozi di arredamenti. Dalla Commercial Bank of Ethiopia, poi, inizia un altro lungo tratto di strada perpendicolare a quella appena descritta, nella quale sorgono gli uffici della

Ethio-Telecom e un imponente palazzo di vetro che ospita, fra gli altri, gli uffici principali della Ethiopian

4 Il festival dell’Ashenda è una festività annuale non religiosa interamente dedicata al genere femminile. Nei giorni della celebrazioni, donne e ragazze fanno sfoggio della loro bellezza indossando abiti tradizionali e gioielli, assieme alla classica pettinatura conosciuta col nome quno. 5 I bajaj sono piccoli tre-ruote di importazione indiana che costituiscono il perno del trasporto cittadino. 9

Airlines. Alla fine della strada si trova l’Axum Hotel, il primo albergo turistico costruito a Mekelle, ancora oggi uno dei più frequentati della città. Alle spalle dell’albergo comincia una lunghissima strada asfaltata, meno affollata di attività commerciali, dove sorgono i resti del vecchio stadio di Mekelle, attualmente interessata dalla costruzione di una nuova struttura. Alla fine della strada, uno di fronte l’altro, si trovano il Milano Hotel e la Atse Yohannes Preparatory School, una delle scuole primarie più famose del capoluogo tigrino. Dopo la scuola inizia un ultimo tratto di strada che completa il perimetro appena delineato, ricollegandosi a Romanat Square. Lungo il suo percorso si incontrano la Social Court, diversi istituti scolastici, e infine il Ministero dell’Istruzione del Tigray, un imponente edificio di vetri blu.

Le strade grandi e asfaltate appena descritte sono le vie preferite dagli abitanti di Mekelle per svolgere una passeggiata, soprattutto nelle ore a ridosso del tramonto. Ogni giorno fiumi di persone affollano le carreggiate, fra cui soprattutto gruppi di giovani ragazzi e ragazze che percorrono in circolo l’intero percorso salutando amici e conoscenti che è facile incontrare lungo il tragitto.

All’interno di questa cornice, delineata dai grandi viali asfaltati appena descritti, si snoda il cuore di Kebele Sedici, costituito da un vasto reticolato di strade composto da parallele e perpendicolari che si incrociano fra loro venendo a formare una composizione simmetrica a scacchiera. Questa parte interna rispetto ai viali che la cingono non è asfaltata ma pavimentata con piccoli ciottoli. Le strade sono più strette, decorate da alberi dai larghi fiori rossi. Pur essendo perfettamente geometrica, con le sue strade che si intersecano di continuo, ancora oggi riesco a perdermi in questa zona quando cerco un posto in particolare. Non certo perché si tratti di un dedalo imperscrutabile di vicoli, quanto per il fatto che ogni strada sembri essere identica a un’altra: questa è la parte della città dove abbondano, infatti, piccole bunna bet, ristoranti, bar. Non c’è strada in cui non se ne contino diversi, tutti parimenti affollati a tutte le ore.

Come in una sorta di canovaccio prestabilito, quasi in ognuna delle strade di questa zona è possibile trovare una bunna bet, un bar, un biliardo, un night club, un ristorante, una pizzeria, una birreria e gli immancabili negozietti in cui è possibile acquistare qualunque cosa. Oltre a riconoscere alcuni fra i locali più famosi, uno dei modi di cui ho sempre disposto per orientarmi e capire in quale parte della Kebelle

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mi trovassi, era cercare con lo sguardo l’alto campanile della chiesa cattolica che si erge quasi al centro del quartiere.

Kebelle Sedici può a giusta ragione essere considerata, quindi, come la vera agorà della città, come il suo cuore pulsate. E proprio come un cuore il cui battito non può fermarsi, così le attività che si svolgono fra le sue strade sembrerebbero andare avanti 24 ore su 24, conoscendo, forse, soltanto pochissime ore di riposo prima dell’alba, quando gli esercenti ricominciano a lavorare fin dalle prime luci del mattino. Naturalmente, non tutte le attività e gli esercizi commerciali che sono presenti in questa zona della città si svolgono all’unisono: col passare delle ore che segnano le diverse fasi del giorno alcune attività effettuano una sorta di staffetta dandosi il cambio, mentre altre vanno avanti di pari passo per poi lasciare il campo ai locali notturni che in alcuni casi lavorano fino a salutare l’alba del giorno nuovo. E, come è facile immaginare, alcune attività divergono in modo significativo a seconda che esse si svolgano durante le ore del mattino o della sera, dando a Kebele Sedici una sorta di ambiguità: la kebele ha un volto cangiante che varia dal giorno alla notte, a seconda dei divertimenti e degli svaghi che promette.

Esaminando in dettaglio le maggiori attività che si consumano a tutte le ore in questa piccola porzione del capoluogo tigrino questo cambiamento risulterà più chiaro.

A partire dalle prime luci dell’alba aprono le proprie imposte caffè, bunna bet e ristoranti, pronti a servire tè, caffè e i primi pasti della giornata. Le bunna bet sono, in genere, esercizi di piccole dimensioni in cui vengono servite a tutte le ore bevande calde, tra cui a giocare la parte del leone è senza dubbio il caffè. Le attività che si svolgono nelle bunna bet sono appannaggio esclusivo di donne e giovani ragazze, che molto spesso sono anche le proprietarie dell’esercizio, mentre la clientela è maggiormente formata da uomini. Il caffè viene preparato e servito nella jebena, un recipiente in terracotta, che in questo tipo di attività non conosce soste: il flusso di clienti è costante per tutto il giorno e il caffè deve essere sempre pronto. Non tutti, infatti, hanno il tempo di attendere e di seguire la lunga cerimonia rituale che si compie durante la preparazione del caffè, che spesso viene effettuata anche in questi esercizi6 durante alcune ore

6 La cerimonia di preparazione del caffè è comunemente considerata segno di grande ospitalità ed è molto più frequente negli ambienti domestici. 11

del giorno in cui ci sono clienti che la richiedono appositamente o nelle quali bisogna richiamare l’attenzione dei passanti attirando gli acquirenti. La cerimonia prevede infatti una lunga preparazione in cui una donna, che nel caso delle bunna bet è spesso la proprietaria dell’esercizio, compie le diverse fasi della preparazione del caffè, partendo dalla tostatura dei chicchi grezzi e dal colore verde. I chicchi vengono tostati in un pentolino adagiato su un piccolo fornello alimentato a carbone e, quando hanno raggiunto la giusta tostatura, la donna officiante si appresta a spargere il fumo prodotto dai chicchi di caffè tostati agitando il pentolino nella stanza. Durante questo momento la performer produce rumore e bada bene a soffermarsi in prossimità degli ospiti facendogli inalare i vapori prodotti, i quali ricambiano alla cortesia mimando con le mani il gesto di spingere il fumo verso di sé, come per inebriarsene. Una volta tostati, i chicchi vengono macinati in un mortaio (anche se oggigiorno sempre più spesso viene utilizzato un macinino elettrico), la loro polvere viene miscelata con l’acqua e quindi versata all’interno della jebena, che viene adagiata direttamente sui carboni ardenti nella parte superiore del fornello. La miscela di acqua e caffè bolle all’interno del recipiente di terracotta fino a traboccare, e ogni volta che ciò accade la persona che celebra la cerimonia ripete l’azione della miscelatura più volte fino a quando la bevanda è pronta per essere servita, assieme agli immancabili pop-corn omaggio della casa. Le bevande calde come tè e caffè serviti nelle bunna house sono molto economiche in tutta la città e a Kebele Sedici vengono vendute al prezzo di 5 Birr. Probabilmente, proprio per il fatto di offrire prodotti così economici, sono le attività più affollate a tutte le ore del giorno. Camminando per le strade della kebele risulta difficile, se non impossibile, non incontrare durante tutta la giornata avventori che sostano per un bunna all’interno degli esercizi o all’aperto nelle loro immediate vicinanze, seduti su sgabelli posti sui marciapiedi riparati dall’ombra di alberi o di alti edifici.

A differenza delle bunna bet in cui vengono serviti soprattutto caffè e tè nelle loro diverse varianti, i caffè offrono una più variegata gamma di articoli. Anche in questi posti, tra i più frequenti tipi di attività che si trovano in Kebelle Sedici, è possibile bere del caffè, ma quasi sempre le jebena sono sostituite dalle macchine professionali elettriche utilizzate per preparare il caffè espresso. I nomi delle macchine sono spesso italiani: in alcuni dei più noti caffè della città mi è capitato di leggere i nomi di famose case

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produttrici italiane sulle macchine da caffè, che avevano quasi sempre un aspetto talmente antico da suggerirmi l’idea che si trovassero in quei luoghi da decenni. Nei caffè vengono serviti anche soft drinks e alcolici ma sono mete ambite anche da chi preferisce gustare un dolce, o uno snack salato, della pasta, insalate, un panino e in alcuni casi addirittura una pizza. In generale, l’orario di punta in cui sono maggiormente affollati sono le ore a ridosso del tramonto, quelle durante le quali le persone sostano con gli amici o i loro partner durante la loro passeggiata serale, scegliendo spesso di rimanere per cena. Questo secondo tipo di attività si differenzia dalle bunna house anche per il fatto di non essere esclusivamente appannaggio di lavoratrici di genere femminile. All’interno dei caffè è molto più facile trovare esercenti di genere maschile, impiegati sia in qualità di camerieri che come baristi addetti alle macchine elettriche, oltre che in qualità di cuochi.

Assieme a bunna bet e caffè, i primi esercizi ad aprire i battenti sono i ristoranti. In Kebelle Sedici sono fra le attività commerciali più numerose e nella zona si concentrano alcuni fra i più noti della città, capaci di attirare clienti da ogni angolo di Mekelle. I più affollati sin dalle prime ore del mattino sono quelli che offrono il primo pasto della giornata in modo rapido e soprattutto economico, servendo fra le altre cose alcune fra le pietanze più comuni con la quale effettuare la prima colazione. Oltre a questi, tra i ristoranti più famosi della zona compaiono poi quelli che si definiscono come cultural restaurants, nei quali vengono serviti esclusivamente pasti che fanno parte della tradizione culinaria del Tigray e dove, soprattutto nelle sere dei week-end, è possibile assistere ad esibizioni dal vivo di musicisti e artisti che si esibiscono nel repertorio della musica tigrina, alternandola con quello di altre regioni etiopi. A fare da contraltare ai cultural restaurants, nel quale si riproduce una versione stereotipata della cultura tigrina e più in generale etiope (non solo dal punto di vista culinario), si trovano quei ristoranti che, oltre a offrire i piatti più noti del menù tigrino, sono specializzati nella preparazione di forengy food, cibi che fanno parte di uno stile alimentare tipicamente occidentale oltre che asiatico. Sono i posti in cui è possibile scegliere fra una vasta gamma di pasti che va dai sandwich serviti nelle loro innumerevoli varianti a base di hamburger, pollo, pesce, alla pasta così come alla pizza, passando per suggestioni che evocano cibi orientali, fra cui alcuni classici della cucina cinese e, in modo sempre più frequente, di quella indiana.

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Molto spesso in questi luoghi la celebrazione dell’occidente non si consuma soltanto a tavola: oltre al cibo, nei locali viene scelto un accompagnamento musicale che privilegia gli artisti provenienti dal mondo occidentale. In molti casi alcuni dei ristoranti più famosi della città sono innanzitutto delle birrerie, nelle quali vengono servite le più famose birre alla spina di produzione etiope. Molto spesso le case produttrici prestano a questi luoghi il proprio logo e i propri colori per decorarne gli interni e forniscono sedie, tavolini e frigoriferi. Alcuni dei ristoranti e delle birrerie di tutta Mekelle, inoltre, prestano un servizio che contribuisce in modo decisivo ad alimentare il loro successo: quello di trasmettere via satellite le partite del calcio inglese ed europeo, assieme alle più importanti competizioni calcistiche come la Champions

League e i grandi eventi annuali come le Coppe continentali e mondiali (cfr. cap. IV, par. 3).

Un altro tipo di attività largamente diffuso è quello che molto comunemente viene designato col termine grocery ma che nei fatti somiglia più propriamente a un bar dove vengono serviti birre e alcolici.

Questi tipi di attività sono, da alcuni punti di vista, paragonabili alle bunna bet: anch’essi fanno parte infatti delle attività appannaggio del genere femminile. Molto spesso, come ho avuto modo di ascoltare da molti dei miei amici e informatori, le proprietarie sono donne divorziate, abbandonate dai mariti o dal passato torbido. Inoltre, al pari delle bunna bet, sono molto spesso luoghi di piccole dimensioni in cui l’aspetto estetico non è particolarmente curato, presentandosi spesso come semplici stanze con all’interno soltanto poltrone e tavolini, assieme agli immancabili frigoriferi sempre stracolmi di birre gelate e agli stereo che riproducono per tutta la giornata soprattutto musica tigrina. Nelle ore a ridosso del primo pomeriggio e poi per il resto della giornata fino a notte fonda, questi posti si riempiono di clienti che consumano fiumi di birra, sia all’interno che all’esterno del locale. Le bottiglie delle birre consumate vengono lasciate sui tavolini per essere in questo modo contate al momento in cui gli avventori lasciano il locale; per questa ragione è molto facile vedere tavolini completamente pieni di bottiglie di vetro. Una delle ragioni del successo di questo tipo di attività sta nel fatto di rappresentare una soluzione più economica rispetto a un caffè o un club. Tuttavia, quella economica non è la sola motivazione che spinge la clientela, ancora una volta formata soprattutto dal genere maschile, a scegliere di passare lì il proprio tempo libero. Mario Marasco (2016) ha recentemente evidenziato come alla base dell’interazione fra

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molte delle lavoratrici di questi piccoli bar e delle bunna house e la loro clientela maschile ci sia la pratica del mijnjan, il “saper flirtare”. Marasco descrive in questo modo l’interazione fra esercenti e avventori, definendola

[…] una “recita poco rischiosa”: gli uomini possono dedicarsi al mijnjan senza ricevere rifiuti palesi e senza dover essere sottoposti ad un esame più o meno velato da parte della donna, che in condizioni “ordinarie” valuterebbe ogni sua minima qualità o difetto […] d’altro canto, in questa recita, gioco di ruoli e generi, la donna può mettere a frutto tecniche (anche del corpo) e retoriche della femminilità borderline rispetto alla prostituzione esplicita, in una situazione di relativa sicurezza, mascherando con la seduzione e preservando intatta la propria indipendenza (dall’uomo, dal compagno, dalla famiglia), punto nevralgico della sua forza e della sua collocazione nell’arena dei piccoli imprenditori (molti dei quali, e cosa da non trascurare, sono suoi clienti) (2016: 92-93, corsivo dell’autore).

Questo tipo di interazione si presenta con le stesse modalità anche all’interno dei biliardi, una delle attività ricreative più diffuse in tutta la città e largamente presente anche in Kebelle Sedici. Anche in questo caso la clientela è quasi esclusivamente maschile, mentre le attività sono gestite soprattutto da ragazze e giovani donne che servono da bere, preparano le partite disponendo le biglie sui tavoli e intrattengono i giocatori in attesa del proprio turno o gli spettatori prestandosi al mijnjan.

La stessa cosa risulta essere particolarmente evidente anche all’interno di quelli che sono alcuni tra i più grandi e famosi night club della città. Dopo il tramonto questi club aprono i propri battenti attirando una vasta gamma di clienti tra cui è facile trovare giovani ragazzi e ragazze, soprattutto studenti universitari che hanno deciso di concedersi una serata all’insegna del divertimento e uomini e donne adulti che insieme agli amici festeggiano qualche avvenimento. All’interno di questi club è facile trovare dj che alternano nelle loro playlist vari generi musicali che vanno dagli immancabili ritmi della musica tigrina, eritrea e amarica all’hip-hop e alla musica da discoteca occidentale. Oltre ai dj, ai barman che servono liquori e alcolici ai banconi e a quelli addetti al controllo dei frigoriferi colmi di birra, in questi club il resto dello staff è formato da giovani e attraenti ragazze che servono ai tavoli e, ancora una volta, intrattengono la clientela maschile. Le ragazze si fermano per qualche minuto al loro tavolo, magari facendosi offrire da bere e aumentando così il numero di birra e alcolici serviti dal locale, oltre a concedersi in danze seducenti per accontentare i clienti che richiedono le loro attenzioni. Molti di questi club fanno della seduzione delle giovani ragazze che lavorano come cameriere una delle armi per attirare il maggior

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numero di clienti. Camminando per le strade di Kebelle Sedici a ridosso del tramonto, una delle scene che mi è capitato di osservare con maggiore frequenza è quella delle ragazze che, all’esterno dei night club, indossano abiti succinti e si preparano alla serata sistemando il proprio make-up.

Se, come sostenuto giustamente da Marasco, il mijnjan, il gioco della seduzione messo in atto tra clienti ed esercenti non si risolve in prostituzione esplicita, le cose sembrano cambiare al far della sera.

Quando la luce del giorno si spegne, night club, bar e piccoli alberghi accendono le luci rosse, simbolo evidente del fatto che al loro interno è possibile trovare delle prostitute. Nonostante la prostituzione sia molto più evidente in un’altra zona della città, quella di Kebele Quattordici, anche in Kebele Sedici abbondano i postriboli notturni che si illuminano con le luci rosse. Anche in questi casi le dinamiche sono simili rispetto a quelle degli altri locali di intrattenimento di cui ho già parlato e molto spesso si tratta degli stessi bar o club in cui venivano serviti birra e alcolici durante il giorno ma che adesso ospitano al loro interno operatrici del sesso a pagamento. Anche qui quelle che sono quasi sempre giovani ragazze in abiti succinti servono come cameriere e intrattengono la clientela, che però sa di poter chiedere esplicitamente le loro prestazioni sessuali a pagamento. Anche nei night club più famosi dove le cameriere non si prestano alla prostituzione esplicita è facile trovare operatrici sessuali in cerca di clienti. Era cosa molto frequente per me notare che in molti dei più famosi night club della città si aggirassero giovani seducenti e particolarmente estroverse che chiedevano da bere proponendo poi le loro performance.

Quando osservai per la prima volta all’opera una di queste donne adescare i suoi clienti mi trovavo in compagnia di due dei miei più cari amici che conosco a Mekelle, Kashu e Tewodros7. Eravamo in uno dei più famosi night club della città per festeggiare il nuovo lavoro di Tewodros, quando venimmo avvicinati da una ragazza dai modi seducenti e gentili che ci chiese da bere. Kashu versò della vodka alla ragazza, per poi congedarla in modo rispettoso ma che tuttavia fece indispettire non poco la nostra ospite, che ci lasciò con aria molto contrariata. Quando Kashu incontrò il mio sguardo, percependo immediatamente che avrei voluto rivolgergli una domanda sul perché avesse mandato via la ragazza, mi

7 In tutto il testo, i veri nomi dei protagonisti saranno sotituiti, al fine di proteggerne la privacy, da nomi di fantasia. 16

disse: «watch out Marco, she is barista», una risposta che mi lasciò evidentemente perplesso e fece esplodere Kashu in una risata fragorosa. Kashu utilizzò in quel caso un termine italiano per indicare la professione della ragazza, che lui aveva appreso durante la sua prima infanzia trascorsa in Eritrea, dove era nato da genitori etiopi. Molto spesso Kashu si rivolgeva a me con espressioni e modi di dire tipicamente italiani, in quanto, mi raccontava, ancora oggi sua madre era solita esprimersi in quel modo.

L’equivoco che si era creato in quella circostanza riguardava il fatto che in italiano il termine indica semplicemente una persona che lavora in un bar, mentre ciò che voleva intendere il mio giovane amico era appunto “prostituta”.

Il cambio radicale di Kebele Sedici tra il giorno e la notte riflette un altro tipo di ambiguità: quello relativo alla percezione che di questa parte della città hanno gli abitanti del capoluogo tigrino e, come si vedrà, le stesse persone che la frequentano. Un rapido esame della clientela che affolla in modo maggiore le strade della kebele mi permetterà di spiegare meglio a cosa mi riferisco. Sono soprattutto giovani i più assidui frequentatori della zona, che ne affollano le strade tutti i giorni e in qualsiasi orario. Camminando per le strade di Kebele Sedici si incontrano a tutte le ore folti gruppi di ragazzi di età e condizioni sociali diverse fra loro che passano le proprie giornate seduti ai tavoli dei bar, guardando le partite del calcio inglese, sorseggiando tè e caffè sugli sgabelli o semplicemente girovagando senza una meta precisa solo per lasciar scorrere il tempo.

Molti dei giovani che ho incontrato passeggiando nelle strade della kebele o sostando presso qualche bunna bet mi hanno raccontato che per loro, esse rappresentavano le sole attività della giornata, a causa della loro mancanza di occupazioni stabili. Fra queste, come sostengo più avanti (Cap. IV, par.

3), le attività quotidiane vengono svolte hanno la doppia funzione di riempire larga parte della giornata dei giovani che altrimenti si troverebbero ad affrontare larghe porzioni di “tempo non strutturato” (Mains

2012) e di fornire un supporto a quella facoltà di immaginazione descritta da Appadurai (1996) con la quale esplorare futuri probabili e soluzioni alternative.

Durante la mia attività di ricerca ho potuto registrare con frequenza le voci di chi commentava in modo insofferente il proprio sostare per ore e ore, a volte per l’intera giornata, lungo le strade della kebele,

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i quali molto spesso esprimevano una forte indolenza dovuta al fatto di vivere giornate sempre uguali, secondo una routine che spesso diventava ostile e fonte acuta di stress. Uno di questi era il mio amico

Tewolde il quale, in un pomeriggio di ottobre che passammo insieme proprio in una delle più famose bunna house della città parlando dei suoi progetti per il futuro e della voglia di aprire un suo business, commentò in questo modo la sua routine quotidiana:

Sono stanco di aspettare, sono stanco di passare tutto il tempo stando seduto in Kebele Sedici! Cosa posso dire? Forse sono un workaholic, ma non riesco a star fermo. Sono stanco di starmene seduto senza far niente. Mi sembra di star diventando stupido. Ci sono giorni in cui non so nemmeno cosa voglio, di cosa ho bisogno. Sono stanco dei giorni tutti uguali: ti svegli, vai in giro, prendi il caffè, usi il wi-fi, dormi, e il giorno dopo inizi tutto da capo. Ci sono giorni in cui sono confuso. Penso: «ora faccio colazione». Poi mi rendo conto di non avere fame. Poi mi dico che è meglio mangiare qualcosa, ma poi non lo voglio. Mi sembra di star impazzendo, e se non risolvo il problema impazzirò davvero. Credevo che il problema fossero i soldi, ma non è solo questione di soldi. È il fatto di stesso di fare qualcosa, di essere occupati, di lavorare. Se qualcuno adesso mi pagasse 1000 birr al mese per stare così senza far niente direi di no. Cosa posso dire? Forse sono un workaholic, ma non so stare senza far nulla. Questa situazione mi sta stressando, devo risolvere questo problema.

Tewolde si era laureato in architettura presso l’Università di Addis Abeba da oltre un anno, ma da allora non aveva trovato un’occupazione che, a suo dire, soddisfacesse le sue ambizioni o che gli desse modo di applicare le conoscenze che aveva acquisito durante il suo percorso universitario. Allo stesso modo si esprimeva il mio amico Behrane, il quale, già trentenne, commentava il fatto di non avere ancora un’occupazione fissa in questo modo:

I giorni stanno andando via tutti uguali, cercando un lavoro ma senza ottenere nulla. Sto iniziando a annoiarmi e soprattutto sto iniziando a essere molto stressato. Quando sono stressato mi escono dei foruncoli sul viso e non riesco a dormire bene. La mattina ho quasi sempre qualcosa da fare ma di pomeriggio mi annoio a morte. Sono stanco di stare tutto il tempo seduto in Kebele Sedici.

Behrane aveva una laurea magistrale in Tourism Management e sognava di poter diventare un insegnate presso una delle università del Tigray, in quanto si riteneva in possesso di tutte le qualità e i requisiti per ambire a tale posizione. Nel corso di un altro pomeriggio passato insieme, dove venimmo raggiunti da alcuni colleghi universitari di Behrane, il gruppo iniziò una lunga conversazione, in tigrino, sulla possibilità di poter essere assunti da un nuovo e importante college. Poi, con la consueta gentilezza,

Behrane mi tradusse alcuni dei passaggi più importanti per rendermi partecipe alla conversazione,

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aggiungendo con un largo sorriso stampato sul volto: «Stiamo sognando! Ad stanno per aprire un college privato, il “Panafrican”. Per ora è ancora un progetto ma noi stiamo già sognando che potrebbe assumerci. Pagano in dollari».

L’ambiguità di Kebelle Sedici emergeva, inoltre, anche nel giudizio di persone adulte e di anziani che la descrivevano come un luogo di perdizione e di rischio per i più giovani. Ma anche fra i giovani stessi non mancavano le voci di persone che, pur frequentando spesso la zona, riconoscevano la facilità con la quale si rischiava di perdersi, ammaliati dalle mille attività ricreative che a detta di molti finivano per trasformarsi in vere e proprie dipendenze.

In una mattinata di novembre mi trovavo con il mio amico e interprete Afeworki in Kebele Sedici, dove avremmo dovuto svolgere un’intervista. A causa del ritardo del nostro interlocutore aspettammo seduti sugli sgabelli di una bunna house, osservando con aria distratta il movimento delle persone attorno a noi. Fra esse venimmo colpiti da un uomo anziano che, mi sembrava, era incuriosito dalla mia presenza nella zona e per questo motivo lo invitammo a sedere con noi per bere qualcosa. L’uomo accettò ben volentieri, raccontandoci che lavorava nella zona come guardiano. Nei pressi della bunna bet dove eravamo seduti si trovava una scuola e per questo passavano spesso bambini molto piccoli che correvano incontro al nostro anziano ospite per salutarlo, abbracciarlo e baciargli le mani o le ginocchia in segno di rispetto. L’uomo rispondeva con affetto ai loro saluti benedicendo i pargoletti. La cosa mi diede lo spunto per porgergli tramite Afeworki alcune domande sulla sua opinione circa l’attuale generazione di giovani, alle quali l’uomo rispose in questo modo:

Sono triste a vivere in questi tempi, a vedere i ragazzi che sprecano le loro vite. Non si rendono conto che stanno buttando via le loro vite, stanno sprecando un tempo prezioso che non tornerà indietro, e ben presto se ne pentiranno. Passano il tempo a masticare8 o in Kebele Sedici, a bere e a fumare, sono dipendenti dal caffè. Ma è per colpa delle donne che lavorano nelle bunna bet, loro fanno un imbroglio: essiccano il khat e poi lo aggiungono nel caffè, così possono controllarli e farli diventare dipendenti per farli tornare e guadagnare.

Le parole del vecchio guardiano si scagliavano, come si vede, in particolare contro le gestrici delle bunna bet, accusandole, in modo certamente fantasioso, di drogare i loro giovani clienti per renderli

8 L’uomo si riferiva all’uso di masticare le foglie di khat, un narcotico coltivato e molto diffuso in Etiopia. L’uso di questo stupefacente sarà al centro del capitolo IV. 19

dipendenti e farli tornare costantemente. Dietro questa critica inverosimile, tuttavia, si cela una giusta considerazione circa il fatto che per molti giovani la frequentazione delle bunna house e di Kebele Sedici sia collegata in modo diretto ad alcune loro dipendenze, fra cui quella per il khat, per gli alcolici e per il fumo. In modo particolare, i piccoli bar che servono alcolici e le bunna bet costituiscono il luogo ideale al consumo di queste sostanze, offrendo nel cuore della zona pubblica per eccellenza un piccolo spazio privato che sfugge agli occhi giudicanti della comunità. Soprattutto il consumo del khat e delle sigarette sono attività che vengono svolte all’interno di questi luoghi. Mentre è facile vedere anche all’aperto gruppi di persone che bevono birra seduti ai tavolini, vedere qualcuno fumare o masticare il khat in strada è un evento molto meno frequente o addirittura impossibile. Fumatori e consumatori di khat sanno bene di star effettuando due attività storicamente soggette a un forte stigma da parte della società, badando bene, quindi, a svolgerla entro spazi sicuri dove poter mantenere il proprio anonimato. Nel corso della mia attività di ricerca mi è capitato molto spesso di osservare che, anche all’interno di piccoli bar e bunna house dove ero in compagnia di giovani che fumassero, capitasse di tanto in tanto che entrasse nel locale una persona anziana o un adulto, cosa che spingeva i miei giovani interlocutori a nascondere o a buttare le sigarette, sicuri, qualora fossero stati colti in flagrante, di incorrere in un giudizio negativo da parte loro.

Insistendo sul piano delle ambiguità nei giudizi e nelle percezioni che gli stessi avventori hanno di Kebele Sedici, c’è un elemento ulteriore che vale la pena di prendere in considerazione. In quanto luogo pubblico per eccellenza, le strade della kebele sono il posto in cui si incontrano amici, conoscenti, e nel quale ci si “mette in mostra”. Proprio per questo motivo, durante la mia permanenza a Mekelle ho ascoltato con grande frequenza le voci di chi mi raccontava che, siccome si trovava in un periodo di difficoltà e di ristrettezze economiche, si tenesse ben alla larga dall’agorà, per paura di sfigurare agli occhi di amici e conoscenti. La paura di un giudizio negativo, come quello dei fumatori che badano bene a nascondersi agli occhi giudicanti del pubblico o dei giovani che non possono mostrarsi squattrinati e bisognosi si fonda su un sentimento che permea le vite degli abitanti di Mekelle e costituisce uno degli elementi che ho preso maggiormente in considerazione nella mia ricerca. Quello di cui sto parlando è ciò che viene comunemente chiamato, anche nell’ambito della letteratura scientifica internazionale, col nome

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amarico di yilunta. Questa parola, che trova il suo corrispondente in tigrino nel termine sikifta, tende ad indicare al tempo stesso la paura dei gossip e di un giudizio negativo da parte degli altri assieme al sentimento, incorporato, del sapere di dover agire secondo principi onorevoli e socialmente condivisi9.

Un esempio ulteriore di cosa significhi provare yilunta e del modo in cui essa agisca sulla vita dei miei giovani interlocutori sta nelle parole che, ancora una volta, mi furono dette dal mio amico Tewolde, il quale metteva questo sentimento proprio in relazione al fatto di non poter frequentare Kebele Sedici a causa delle sue condizioni economiche disagiate:

Tewolde: Amico, in questi giorni l’yilunta mi sta uccidendo. Sono senza un soldo e non mi faccio vedere dagli amici. Ci sono dei miei amici molto importanti [benestanti] e non li ho ancora incontrati per non farmi vedere in queste condizioni. Ormai la gente può dire «Oh, Tewolde? Quello con la camicia nera? Con la maglia arancione? Con la t-shirt a strisce?». Ormai ho solo questi vestiti, non sono abituato.

Tewolde faceva riferimento soprattutto alla sua volontà di tenere nascosti agli amici il fatto che, essendo disoccupato ormai da più di un anno, le sue condizioni economiche fossero talmente peggiorate da costringerlo ad avere un guardaroba che non superasse tre indumenti. Il suo è solo un esempio tra le numerose testimonianze in cui ho potuto registrare le voci di giovani che mi raccontavano di come badassero bene a tenersi a debita distanza da Kebele Sedici per timore di incontrare amici ai quali avrebbero dovuto ricambiare la cortesia di offrire qualcosa da bere ed essere scoperti, quindi, senza un soldo in tasca.

Teorie, metodi, strumenti

Prima di esporre i risultati della ricerca, ritengo importante informare i lettori circa le teorie e le tecniche che mi hanno accompagnato sul campo, esponendo quegli strumenti che la disciplina antropologica ha messo a punto nel corso della sua lunga vita e che costituiscono quindi un sapere pratico, la “cassetta degli attrezzi” (Pavanello, 2010) del ricercatore.

Cosa fa esattamente un etnologo? Non è soltanto la domanda che, puntualmente, mi è stata rivolta tutte le volte che mi sono presentato come tale ad amici, parenti e conoscenti (che tutt’ora mi sembrano

9 L’argomento sarà esaminato dettagliatamente più avanti (cap. II, par. 3). 21

ancora piuttosto perplessi dalle mie risposte in merito). Nel tempo la disciplina ha formulato varie risposte al quesito, ognuna con il suo carico di criticità intorno alle quali gli studiosi non hanno fatto mancare le proprie riflessioni. Di certo le risposte istituzionali al quesito dicono ben poco delle attività che, un volta sul proprio posto di lavoro – il “campo”, il “terreno”, insomma il “laboratorio” (Cresswell, 1981) del ricercatore – questi svolge per adempiere al proprio compito. Stando a sentire Clifford Geertz, ciò che un buon etnologo dovrebbe fare è «andare sul posto, ritornare con le informazioni sul modo in cui le persone vivono là, e rendere queste informazioni accessibili alla comunità scientifica in una forma fruibile, senza girovagare per biblioteche meditando su questioni letterarie» (1990: 9). La citazione appena riportata apre immediatamente a un ulteriore argomento di dibattito: quello dell’importanza data alla forma in cui le informazioni raccolte durante la permanenza del ricercatore sul campo vengono presentate. Sembra emblematica, a tal proposito, la riflessione che Todorov (1989, cit. in Piasere, 2002:

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Amerigo Vespucci. Secondo il filosofo si può dubitare a buona ragione del suo primato: prima di lui lo stesso Colombo e Pietro Martire d’Anghiera avevano compreso e scritto a chiare lettere che la terra appena scoperta corrispondesse ad un mondo totalmente nuovo. Il punto decisivo a favore di Vespucci sarebbe stato, allora, il modo in cui le proprie teorie fossero esposte. Siamo qui di fronte al quel caso in cui, come dice Geertz, «il come si dice equivale al che cosa si dice» (1990: 75). Ha ragione, quindi, Mariano

Pavanello quando scrive che «il fare scienza in antropologia è inseparabile dalla retorica etnografica»

(2010: 92), cui aggiunge poi un’altra importante riflessione, che riguarda il fatto che l’etnografia (il prodotto scritto a partire dai dati raccolti durante l’etnologia) potrebbe rischiare di apparire una “finzione letteraria” quanto più essa tenda a tralasciare la soggettività del ricercatore, condizione imprescindibile di produzione della conoscenza. Eccoci dunque di fronte al più grande paradosso che si presenta dinanzi al ricercatore: quello «dell’etnologo che, da un lato, può avvicinarsi alla conoscenza del suo terreno solo mettendo in gioco tutta intera la sua soggettività, ma che, dall’altro, può scrivere la sua etnografia solo a condizione di limitare al minimo l’invadenza di questa sua soggettività» (ibidem). Altrettanto appropriate,

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per descrivere questa situazione all’apparenza paradossale, sono le parole di Ted C. Lewellen quando scrive:

Gli antropologi cercano di comprendere la natura dell’umanità, eppure sono sospettosi di ogni generalizzazione. […] In definitiva, gli antropologi sono tormentati da due esigenze diametralmente opposte: il rispetto dell’intensa particolarità della loro esperienza sul campo, per un verso, e la costruzione del significato di quella esperienza, con l’aiuto dei processi di generalizzazione, per l’altro (1986: 12).

Come sostiene Ugo Fabietti, nascondere la propria soggettività rappresenterebbe un duplice errore: da un lato in quanto cercare di occultarla, poiché considerata “non scientifica”, corrisponderebbe al non dire ciò che lo ha messo nella condizione stessa di conoscere; dall’altro ciò illuderebbe il ricercatore

«che la sua sia una attività scientifica libera da influenze esterne» (1999: 15). Non è il caso, adesso, di soffermarsi sullo stretto rapporto che coinvolge l’antropologia con la letteratura, ampiamente indagato dal Alberto Sobrero (2009), tuttavia vorrei richiamare la riflessione di Clifford Geertz, che scrive: «Il problema della firma, e cioè l’affermazione della presenza dell’autore all’interno di un testo, ha ossessionato l’etnografia fin dall’inizio […] c’è qualcosa di stravagante nel costruire testi apparentemente scientifici partendo da esperienze ampiamente biografiche» (1990: 16-17). Certamente il lettore ritroverà più volte, anche nei capitoli seguenti, riferimenti ad esperienze e sensazioni personali: non bisogna mai dimenticare che la pratica etnografica esige «l’impiego di se stessi come strumento di rilevazione»

(Colombo, 1998: 13, cit. in Piasere, 2002: 34) e che dunque la conoscenza dei fatti passa attraverso il ricercatore stesso. Concludo prendendo in prestito ancora una volta le parole di Geertz, che parla della

“sfida” cui è tenuta ad affrontare l’antropologia: quella di dover oscillare continuamente tra due orientamenti differenti, che vedono il ricercatore nella doppia veste di un «pellegrino e un cartografo nello stesso tempo» (1990: 18), dividendosi cioè tra un atteggiamento di profonda partecipazione nel contesto e con le persone cui rivolge il suo sguardo indagatore per comprendere la realtà circostante ed uno di distacco per poter analizzare i fatti e dargli un inquadramento di tipo scientifico.

Tornando alle tecniche utilizzate durante il lavoro di ricerca, la mia esperienza precedente mi aveva già permesso di entrare in confidenza con gli abitanti della città, stringere una rete quanto più durevole e proficua di rapporti ed “assorbire” gli stimoli provenienti dall’esterno, non solo conversando

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ma anche semplicemente confondendomi tra coloro che, seduti su uno sgabello, sorseggiavano un caffè osservando i passanti e quello che mi accadeva intorno. Come scrive Pino Schirripa, ciò che un etnologo deve svolgere per comprendere la realtà del nuovo contesto in cui conduce la propria ricerca

[…] non si riduce all’osservazione di precisi momenti (come ad esempio un rituale), né si conclude nel dialogo con specifici soggetti (sebbene questi rimangano fondamentali). Cose certo importanti, ma che assumono il loro pieno significato solo dentro quel continuo lavoro di costante attenzione, magari fluttuante e distratta, a ciò che ci circonda, a ciò che succede intorno a noi […] e che ci consente, per sedimentazione, di penetrare l’esperienza (Schirripa, 2005: 24).

Oltre alla possibilità di conoscere il campo e i suoi abitanti, ho potuto beneficiare anche del fatto di “essere conosciuto” da molti dei locali stessi. La frequentazione assidua di una zona o di un luogo particolare mi ha permesso di essere riconosciuto personalmente e di emergere dunque dalla bolgia di persone indefinite che venivano identificate soltanto come semplici forengy. In larga parte della zona in cui vivevo e dove più di frequente svolgevo gli incontri con i miei informatori, venni finalmente riconosciuto soprattutto da bambini e giovanissimi che mi si rivolgevano chiamandomi “Spiderman”: evidentemente la mia costituzione mingherlina, gli occhiali grandi con montatura scura e i capelli con la fila di lato gli ricordavano le sembianze dell’eroe nella sua forma umana e spesso, quando mi incrociavano, mi rivolgevano il tipico gesto del personaggio nell’atto in cui “spara” una ragnatela dalle proprie mani: con il palmo rivolto verso l’alto ed il medio e l’anulare piegati; la cui ripetizione da parte mia generava sempre grande ilarità. Questo riconoscimento fu per me motivo di grande soddisfazione (non solo perché venivo confuso con un super-eroe!) in quanto mi permetteva di uscire dall’anonimato che la condizione di “forengy” riservava. Il fatto di essere riconosciuto venendo associato a un celebre personaggio, che essi probabilmente conoscevano grazie alla circolazione dei film che lo vedono protagonista, rappresentava per me il simbolo della riduzione della distanza che ci separava e il fatto di entrare più in confidenza con essi. Roy Wagner si concentra su questo processo di avvicinamento e riporta l’esempio dell’idea che si erano fatti i Daribi della Nuova Guinea rispetto al suo mestiere di antropologo

(1992). I Daribi cercavano di “inventare” il loro antropologo in base a delle categorie note, identificandolo come un uomo del governo, un missionario oppure un dottore; essendo poi venuto a conoscenza del termine pidgin utilizzato per descrivere gli antropologi, lo studioso spiega di averlo utilizzato come 24

etichetta per il proprio lavoro e di essere stato pertanto «mandato giù» dagli indigeni presso i quali si trovava, nel senso di essere accettato nella loro comunità (1992: 33). Wagner sostiene così che lo sforzo dell’antropologo sul campo e quello dei locali consiste nel rimontare questo scarto tra noto e ignoto, che si risolve nella costruzione culturale dell’altro. Nel mondo che intende studiare, l’antropologo è sempre un perturbatore e talvolta un intruso, che con la sua presenza obbliga i suoi ospiti a discutere e riflettere sulla propria cultura, ma più spesso suscita l’insorgenza di dinamiche che tendono a ridefinire i ruoli sociali, a generare conflitti o a stabilire nuove intese sia all’interno della comunità che studia sia tra questa stessa comunità ed il mondo esterno (Fabietti, 1999).

Tra quelli che riguardano la riflessione circa la presenza dell’etnologo sul campo, un tema in particolare mi sembra particolarmente bisognoso di un’analisi approfondita, e riguarda il “prestigio” che mi veniva riconosciuto in quanto “occidentale”. Come ricorda Bernardino Palumbo spesso gli antropologi vengono visti dagli occhi della popolazione locale come dei veri e propri «beni che producono ricchezza» (1991: 245), sia sul piano del prestigio sociale e quindi sui vantaggi che la loro frequentazione potrebbe apportare, sia su quello strettamente economico: non solo nella forma di pagamenti o ricompense per servizi di vario genere, come quello, ad esempio, di traduttore o informatore, ma anche a livello più ampio.

Tra i metodi cui un antropologo spesso dichiara di fare uso vi è quello istituzionalizzato e reso celebre da Bronislaw Malinowski definito come “osservazione partecipante”. Questa consiste

«nell’osservare una realtà sociale, immergendosi nella sua vita quotidiana, cercando di penetrare nelle sue articolazioni, anche più recondite, al fine di coglierne tutti gli aspetti» (Pavanello, 2010: 44). Metodo principale, essa permetterebbe al ricercatore di fungere da «spettatore imparziale che percepisce ogni realtà e ogni pratica, inclusa la propria, come uno spettacolo» (Bourdieu, 2003: 179-180). Come si può a giusta ragione sostenere, una tale definizione «non fornisce di per sé una percezione di metodo scientifico» (Pavanello, 2010: 56) ma sembra corrispondere più a «un desiderio che a un metodo» (Geertz,

1990: 90). Un’impostazione metodologica bastata su queste pretese non poteva rimanere esente da critiche; col tempo numerosi studiosi hanno fatto emergere le criticità insite in essa, proponendo

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importanti riflessioni e cambiamenti di prospettive. Una di queste è quella fornita da Barbara Tedlock

(1991), che rovescia i termini passando dall’osservazione partecipante all’osservazione della partecipazione; per dirla ancora una volta con le parole di Pavanello: «una rivoluzione copernicana che ha spostato il focus dell’etnografia dalla ricerca dell’oggettivazione alla pratica dell’osservazione riflessiva»

(2010: 55). Questo spostamento pone nuova luce sul ruolo giocato dall’autore nella costruzione del significato, in quanto consci del fatto che la conoscenza stessa passa solo ed esclusivamente attraverso il ricercatore che impiega sé stesso ed i suoi presupposti teorici nell’apprendimento della realtà che lo circonda. L’antropologia ha preso coscienza del ruolo creatore assunto dall’etnologo nel momento stesso della sua partecipazione sul campo, dell’inferenza che esercita proprio in quanto osservatore, secondo il noto principio fisico di Heisenberg; ma anche di tutti quei cambiamenti che, proprio creati da questa sua inferenza, finiscono a loro volta con il condizionare l’osservatore stesso (Devereux, 1967, cit. in Piasere,

2002: 36-38). Accettare che quanto prodotto dai dati raccolti durante l’etnologia sia un processo di costruzione messo in atto dall’autore-osservatore e prendere coscienza delle perturbazioni create dalla presenza stessa sul campo serve ad evitare quella “illusione di oggettività” che ha a lungo accompagnato la nostra disciplina, secondo cui, usando le parole di Kilani, «l’oggetto dell’antropologo sarebbe un dato pronto da essere osservato, e il discorso dell’antropologo sarebbe identificabile con il linguaggio dell’osservatore neutro» (Kilani, 1997: 92). Pertanto sarà bene parlare di osservazione e di partecipazione sul campo, tenendo ben presente però che le modalità dell’osservazione rientrano nelle due grandi rubriche delle strategie della visione e dell’ascolto (Pavanello, 2010: 111) e che queste non vengono impiegate sempre secondo una precisa volontà ed applicate a momenti particolari cui si direziona l’osservazione del ricercatore. Mi riferisco ad un’acquisizione fondamentali di dati che avviene secondo ciò che Piasere ha definito con il concetto di “perduzione”, che rimanda ad «un’acquisizione inconscia o conscia di schemi cognitivo-esperienziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente già interiorizzati, acquisizione che avviene per accumuli, sovrapposizioni, combinazioni, salti ed esplosioni, tramite un’interazione continuata» (2002: 56). Lo studioso si collega a quello che Olivier de Sardan chiama concetto di “impregnazione”. Secondo l’autore francese, infatti: «Il ricercatore sul campo […] vivendo

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osserva, suo malgrado in un certo verso, e tali informazioni vengono “registrate” nel suo inconscio»

(1995: 79-80, cit. in Piasere, 2002:56). Come scrive Fabietti, questo modo “inconscio” di acquisizione dei dati può costituire un elemento fondamentale dell’esperienza etnografica (1999: 35), proprio in contrasto con quell’eccessiva “fiducia” che viene attribuita alla sola osservazione, che, sempre secondo lo studioso, potrebbe implicare «un’attitudine troppo centrata sull’attività esclusiva del ricercatore, come se questi fosse il padrone assoluto della scena etnografica» (ibidem). Ha ragione Francis Affergan, dunque, quando sottolinea come «vedere non consiste solo nello stare attenti, ma anche e soprattutto nello stare disattenti, nel lasciarsi accostare dall’inaspettato e dall’imprevisto» (Affergan, 1991: 31). Faccio riferimento a questi concetti per dire come, anche nel mio caso, oltre alle interviste in profondità, ai colloqui formali ed informali, alle domande specifiche di cui dirò fra poco, alcune cose vengono comprese solo attraverso il contatto diretto, prolungato, con i propri interlocutori. Questo è ciò che permette di dire a Piasere, sempre a proposito del concetto di perduzione, che esso rimanda ad un «capire attraverso una frequentazione» (2002: 56). Nel mio caso, “frequentare” assiduamente le persone, gli amici, e coloro che sono diventati gli informatori principali durante la mia permanenza sul campo, ha significato stringere relazioni di amicizia e fiducia che solo il contatto frequente e prolungato ha potuto permettere. Indagare la vita di questi giovani, cercare di comprendere i modi in cui essi alimentano le proprie speranze immaginando futuri possibili si è tradotto nel trascorrere, a volte, intere giornate con alcuni di essi, stando seduti a sorseggiare un bunna, guardando nelle tv dei bar gli highlights delle partite del calcio inglese ed europeo, andando a zonzo nelle ore in cui il sole non picchiava forte oppure stando seduti al fresco nelle ore più calde. C’è un elemento ulteriore che mi preme sottolineare riguardante il fatto che, contrariamente a quanto io stesso fossi portato a pensare durante la mia prima esperienza di ricerca, molto spesso durante questi momenti passati insieme si poteva rimanere a lungo senza scambiare una sola parola. Non di rado osservando altri gruppi oppure anche una sola coppia di amici seduti ai tavoli di un bar, tra adulti come tra giovani, si può notare quanto appena detto: spesso i loro incontri sono trascorsi nel pieno silenzio.

Per essere buoni amici, alle volte, esserci è la sola prerogativa fondamentale. Facendo ancora una volta riferimento all’opera di Leonardo Piasere, questo corrisponde a ciò che lo studioso definisce come

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«silenzio creatore» (2002: 54): momenti in cui, pur rimanendo in silenzio, si crea e si consolida una sentimento di amicizia e fiducia. Scrive Patrick Williams, a proposito della sua etnografia sui rom Mānuš:

«Non c’è bisogno di parlare. È così: dopo diversi mesi, dopo anni, non si deve parlare […] Non c’è nessuna parola, la più elaborata o la più ermetica, che equivalga al silenzio» (1997: 74).

Se il silenzio può servire a rafforzare le relazioni con il proprio interlocutore, quello che sicuramente resta fondamentale è il dialogo. La voce degli informatori è il veicolo principale attraverso cui l’etnologo raggiunge le informazioni che tende a ricercare: l’interazione verbale rappresenta l’elemento imprescindibile alla base di un lavoro etnografico in quanto fonte delle rappresentazioni e delle conoscenze dei soggetti della ricerca. È attraverso il dialogo che, come afferma Dilthey, si crea un «mondo condiviso» tra il ricercatore ed i suoi interlocutori (1974, cit. in Fabietti, 1999: 37) ed inoltre, come ci ricorda Piasere, «alcune cose accadono più facilmente se si fanno domande» (2002: 13). Il dialogo e le domande vengono veicolate attraverso quello che rappresenta lo strumento principe della ricerca antropologica: le interviste. Basandomi sulla teoria appresa dalla lettura del già citato testo di Mariano

Pavanello (2010: 216-218), ho effettuato per la maggior parte dei casi quelle che lo studioso definisce interviste “libere” ma “orientate”, condizionate cioè dal tema proposto dal ricercatore lasciando però l’interlocutore libero di spaziare tra vari argomenti, ponendo poi domande che prendessero spunto dalle risposte ricevute di volta in volta. Allo stesso modo mi sono servito di interviste “guidate”, atte ad affrontare questioni più specifiche, condotte mediante l’uso di tracce non eccessivamente formalizzate i cui quesiti vengono somministrati allo stesso modo delle interviste libere, non come se si trattasse di un questionario quindi, ma ponendo le domande come in una conversazione. In entrambi i casi, come suggerito dallo studioso, avevo bene in mente gli argomenti e le domande di cui discutere, in modo da

«non essere obbligato a condurre l’intervista col foglietto in mano» (ibidem) e creare quindi le condizioni ideali in cui mettere a proprio agio l’intervistato, evitando situazioni troppo formali che avrebbero potuto perturbare il contesto. Nella maggior parte dei casi ho potuto registrare i colloqui su supporto digitale, sempre chiedendo esplicitamente il permesso. Laddove non mi è stato possibile registrare in alcun modo su supporto digitale, sia per delicatezza dell’argomento che per evitare un’eccessiva formalizzazione del

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contesto, ho provveduto prendendo nota di parole chiave, argomenti trattati e elementi particolarmente rilevanti per poi, una volta congedato il mio interlocutore, scrivere una nota di campo cercando di ricostruire e descrivere la conversazione nella sua interezza. Bisogna tener presente ed accettare a questo proposito il fatto che, in ogni caso, la trascrizione di un’intervista, una conversazione formale, un dialogo, rappresenta sempre una reinterpretazione dell’interazione verbale stessa operata dal ricercatore, il che potrebbe portare ad una selezione, anche inconscia, relativa agli scopi del lavoro (Duranti, 2005). Per quanto la ricerca etnologica passi attraverso l’esperienza personale del ricercatore, essa dovrà convogliare in un testo scientifico, un’etnografia, ed è quindi l’elaborazione del testo stesso «il luogo decisivo su cui si gioca la partita» (Canevacci, 1998: 17).

La conduzione delle interviste e delle conversazioni si è svolta fondamentalmente su due diversi ordini linguistici, quello tigrino e quello inglese. La lingua principale parlata a Mekelle è il tigrino, idioma di origine semitica diffusa in Tigray, nel nord dell’Etiopia, ed in Eritrea, oltre alla lingua ufficiale della

Nazione che è l’amarico (dal nome della regione centrale dell’Amhara, dove sorge la capitale Addis

Abeba). La scrittura della lingua tigrina ed amarica prevede l’utilizzo dell’alfabeto ge’ez, un sistema di scrittura fonetica e sillabica in cui ogni simbolo corrisponde ad un gruppo consonante-vocale. A livello locale questa lingua presenta numerose inflessioni dialettali oltre ad innumerevoli inserimenti di parole di origine straniera, soprattutto italiane ed inglesi, conseguenza dell’occupazione del territorio da parte dei due paesi. Al giorno d’oggi la conoscenza della lingua inglese è in ampia diffusione: già da anni si apprende nelle scuole ed è utilizzato negli ultimi anni delle high school, mentre, soprattutto grazie alla presenza di docenti stranieri, interi corsi universitari sono tenuti in questa lingua. Esiste tuttavia ancora una differenza notevole tra le fasce benestanti della popolazione, tra cui è più facile incontrare abili conoscitori della lingua inglese e quelle più povere i cui membri hanno minori possibilità di proseguire gli studi a livelli superiori o frequentare corsi di lingua privata. Nonostante ciò la sua diffusione e l’interesse che l’inglese esercita continua e prende sempre più piede anche fra i membri delle classi meno abbienti. Durante la mia ricerca ho conosciuto varie persone che, sebbene ai limiti dell’indigenza, ne avessero una buona, se non ottima, conoscenza: oltre all’interesse personale, molto spesso a queste persone viene data la

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possibilità di apprendere la lingua frequentando corsi tenuti da volontari. Scrive Marc Augé a proposito dei problemi che possono nascere nel tradurre una parola da una lingua all’atra: «i pensieri ospitati nell’una non si addicono all’altra; ci si ritrovano troppo stretti o troppo larghi» (2000: 18). Pertanto il contributo degli interpreti si è rivelato un elemento fondamentale, imprescindibile della nostre ricerche. Oltre alla loro attività di traduttori, mi hanno procurato contatti con persone disposte a svolgere interviste e colloqui, specialmente se in possesso di informazioni particolari cui volevamo attingere, svolgendo la delicata attività di interprete. Non solo, oltre alla traduzione simultanea, essi hanno anche ricoperto l’incarico di sbobinatura e trascrizione delle interviste, traducendole, secondo un procedimento comune a tutti i membri della MEITE, consistente nella scomposizione dei discorsi in tre parti differenti. Nella prima venivano riportate le parole dell’intervistato e le domande che gli venivano sottoposte scritte usando l’alfabeto ge’ez; nella seconda procedendo ad una traduzione letterale di ogni singolo termine utilizzato in inglese ed infine rendendo una traduzione in inglese formale. Il metodo ha permesso un maggiore controllo sui termini e le espressioni utilizzate nel corso delle interviste, riducendo il rischio di traduzioni che omettessero alcuni elementi, oltre a fungere da strumento per evidenziare parole specifiche all’interno del testo che rappresentavano punti di particolare interesse ai fini della ricerca. Proprio al fine di ridurre al minimo il rischio di traduzioni incomplete o peggio alterate dai trascrittori, per tutta la mia permanenza ho badato bene a non far coincidere mai l’interprete con il quale si era condotta l’intervista con il suo trascrittore. È d’obbligo sottolineare quanto la loro attività non si limitasse a quella di meri traduttori: oltre al già accennato ruolo di “guide” al contesto cittadino, spesso sono stati loro a rendere comprensibili alcuni aspetti di azioni e comportamenti, oltre al fatto di rendermi familiare con alcune concezioni locali, prime fra tutte le modalità in cui ricambiare alle gentilezze di coloro che accettavano di farsi intervistare donandoci parte del proprio tempo. A questo proposito intendo specificare che proprio i miei traduttori sono state le uniche persone i cui servizi sono stati remunerati, mentre per tutti gli altri informatori ed interlocutori la riconoscenza che gli era dovuta è stata concretizzata sotto forma di doni di generi alimentari, come frutta, dolci o bevande alcoliche, soprattutto nei casi in cui ci si recava nelle loro abitazioni, assieme poi ad inviti per condividere un pasto. Per tutte le ragioni appena prese in esame

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è impossibile pensare ai collaboratori come membri estranei alla ricerca, recludendoli a livello di semplici mediatori la cui presenza poteva essere trascurata ed apparire come auto-escludente (Crapanzano, 1980).

Al contrario, utilizzando le parole di Robert Pool, essi «giocarono un ruolo importante e costitutivo in quello che stavo facendo. Essi non erano meri canali neutrali, ma filtri che distorcevano, e non erano

“terzi” invisibili […] ma coproduttori attivi (1993: 49).

Struttura e contenuto della tesi

Il primo capitolo ripercorre, brevemente, gli eventi fondamentali della storia d’Etiopia. Maggiore spazio verrà dato agli eventi moderni e contemporanei della nazione, fino ad arrivare ai più recenti sviluppi. Ho scelto di ripercorrere la storia recente del paese per introdurre il lettore allo scenario non solo storico ma anche politico che fa da cornice ai fatti presi in considerazione nell’etnografia, evidenziando i profondi cambiamenti e al tempo stesso le tensioni che ai giorni nostri interessano, oltre all’intera scena nazionale, anche la città di Mekelle.

È col secondo capitolo che comincia, invece, la parte più strettamente etnografica. Ho iniziato col cercare di definire i soggetti della ricerca, coloro che appartengono alla categoria dei “giovani”.

Assieme alle nozioni teoriche che definiscono il concetto di gioventù, ho cercato di mostrare la nozione locale di cosa voglia dire, nel contesto di Mekelle, essere una persona giovane: quali sono i criteri che determinano la collocazione di un individuo in questa categoria e quali siano, al contempo, i marcatori sociali che segnano il passaggio allo status di adulto. Una volta chiarito il concetto di gioventù, sarà possibile addentrarsi nell’indagine di ciò a cui i miei giovani interlocutori ambiscono per il proprio avvenire, analizzando le aspirazioni, i desideri e al tempo stesso quelli che chiamo obblighi sociali: norme comunitarie a cui i giovani sembrerebbero essere chiamati ad aderire. Gli ultimi due paragrafi, infine, prendono in considerazione due delle “immagini” del futuro maggiormente presenti nelle retoriche dei miei interlocutori, quelle dell’autoimprenditorialità e dell’istruzione superiore, indicate con una frequenza schiacciante nel corso delle mie interviste e considerate le vie principali per realizzare i propri ideali di

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successo personale, da un lato, e riconoscimento sociale, dall’altro, andando in questo modo a realizzarsi in quanto individui adulti, rispettati e di successo.

Il terzo capitolo, pur ponendosi in continuità con quello precedente, affronta il discorso sul futuro da una prospettiva opposta. Al centro dell’indagine verranno considerate, infatti, le strategie di quanti – per motivi molto vari – non possono riporre la propria fiducia nello studio o nell’autoimprenditorialità e che quindi “navigano” (Vigh, 2006a; Di Nunzio, 2012) l’economia dell’informalità – e talvolta dell’illegalità – allo scopo di esperire quella mobilità sociale che contraddistingue le aspirazioni di tutti i miei interlocutori. Verranno pertanto raccontati e analizzati tre casi etnografici, le storie di vita di giovani ragazzi che, in modi differenti, sfruttano quelli che Waage chiama “repertori culturali” (2006: 81): le loro capacità di improvvisazione, di trarre vantaggio dalle proprie relazioni, le astuzie e talvolta gli inganni messi in atto per sopperire alle difficoltà della vita quotidiana e al tempo stesso aprirsi alla possibilità di realizzare i propri obiettivi per l’avvenire.

Il quarto capitolo affronta l’argomento della dipendenza dei giovani da sostanze stupefacenti. In particolare, verranno presi in considerazione le attività e i discorsi di un gruppo di giovani dipendenti dal khat, uno stimolante di origine naturale coltivato nel Corno d’Africa e ampiamente diffuso anche nel contesto di Mekelle. Attraverso le parole dei miei interlocutori cercherò di evidenziare come la loro dipendenza sia legata in modo diretto all’incapacità di figurarsi futuri speranzosi e narrazioni positive. Nel caso dei protagonisti di queste storie, si vedrà infatti come l’incapacità di farsi carico delle responsabilità e degli obblighi a cui sono chiamati, assieme al fallimento – per alcuni di essi – delle retoriche positive circa l’alto valore simbolico dato allo studio come mezzo per ottenere lavori ben remunerati e posizioni vantaggiose, contribuisca in modo decisivo alla mancanza di speranza, alla frustrazione e al rancore che provano i protagonisti di questi paragrafi e che si lega a filo doppio con lo sviluppo delle loro dipendenze.

L’analisi dei percorsi di riabilitazione che vengono offerti a coloro che hanno una dipendenza servirà inoltre a mettere in luce le considerazioni che di essi hanno le istituzioni e la società civile.

Il quinto e ultimo capitolo si concentra su una delle immagini del futuro maggiormente tenuta in considerazione dai giovani di Mekelle, la possibilità dell’emigrazione internazionale. In particolare, larga

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attenzione sarà dedicata ai modi attraverso cui l’immaginario legato alla mobilità prende piede nel contesto mekellese, unitamente alle retoriche di quanti vedono nella migrazione lo strumento principale per cambiare la propria vita, secondo una delle retoriche che ho avuto modo di ascoltare più frequentemente, dove per “cambiamento” si intende non solo il passaggio verso lo status di adulto ma soprattutto un’effettiva trasformazione del proprio status sociale, e migliorare, in questo modo, le proprie condizioni di vita. A incidere sui desideri di mobilità dei giovani di Mekelle contribuiscono, come si cercherà di evidenziare, una moltitudine di fattori, fra cui la volontà di accedere a borse di studio e programmi di scambio di università straniere per completare e perfezionare il proprio percorso di studi, il desiderio di “vedere” il mondo, di toccare con mano un mondo altro che, attraverso i media internazionali, i racconti degli emigrati e la presenza stessa di individui stranieri a Mekelle, è sempre più presente nel capoluogo tigrino col suo carico di immagini e aspettative che contribuiscono a renderlo potentemente attrattivo.

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CAPITOLO I – RADICI STORICHE E CONTESTO CONTEMPORANEO

1. Le prime fonti e il regno di Axum

La storia dell’Etiopia e dunque quella degli umani che la hanno abitata può vantare radici profondissime: alcuni rilevanti scoperte archeologiche, celeberrime per la loro importanza, hanno collocato il suo inizio in età preistorica, risalente alle epoche del pliocene e del pleistocene. Tra queste la più nota è quella compiuta nel 1974 dall’equipe franco-statunitense guidata da Donald Joahnson presso

Hadar, nella regione Afar, che rinvenne quelli che allora erano considerati tra i più antichi resti fossili di ominidi, datati tra i 3,7 e i 2,5 milioni di anni fa. Questi consistevano in poco più della metà dello scheletro di una donna adulta, famosa in ambito internazionale con il soprannome di Lucy10, appartenente alla specie di ominidi denominata Australopithecus afarensis, ritenuta nostra progenitrice (Pankhurst, 2013).

Inoltre, altri ritrovamenti confermano la presenza di ominidi nelle regioni etiopi, come quella dell’Australopithecus aethiopicus, vissuto fra Etiopia e Kenia tra i 2,8 ed i 2,5 milioni di anni fa (Spedini,

1997). Oltre all’archeologia, alcuni riferimenti all’Etiopia sono presenti anche all’interno della Bibbia, come quelli che vedrebbero essere etiope Sefora, la sposa di Mosè, oltre a uno dei Re Magi (Buzi, 2007:

134); più importante, inoltre, è il racconto biblico dell’incontro avvenuto tra il mitico re d’Israele

Salomone e Makeda, sovrana di origine araba che regnava su quello che è l’attuale regione del Tigray, riconosciuta nel Testo Sacro come la regina di Saba. L’incontro fra i due è ripreso ed arricchito di dettagli nel Kebre Negast11: la loro unione avrebbe dato alla luce Bayna‐Lehkem, chiamato anche “Figlio del

Saggio”, colui che diverrà in seguito il futuro Imperatore d’Etiopia con il nome di Menelik I, capostipite della dinastia imperiale etiope che unificò durante la propria sovranità le popolazioni del nord del paese

10 Al giorno d’oggi questi resti sono custoditi presso il Museo Nazionale di Addis Abeba, dove i visitatori possono vederne un accurato calco in gesso. 11 Da tradursi come “Gloria dei Re”, una raccolta di cronache imperiali redatte nel XII secolo d.C. a scopi celebrativi, del quale il nucleo viene fatto risalire tra il IV e VI secolo d.C. 34

e al quale viene attribuito il merito di aver portato nella capitale del suo regno, Axum, l’Arca dell’Alleanza donatagli da Salomone proprio durante un viaggio che il ragazzo compì in Israele venendo riconosciuto come figlio legittimo dal leggendario Re (Munro‐Hay – Taor, 2002). Su questa leggenda si è basata la legittimazione dell’autorità monarchica, che faceva risalire le proprie origini a tempi antichissimi; come scrive infatti Joseph Ki-Zerbo: «Così, per intromissione della regina di Saba la dinastia salomonide di

Axum si attribuiva una prestigiosa antichità e […] questa leggenda conferiva ai sovrani discendenti di

Salomone una legittimità divina che rendeva sacrilegio qualsiasi oltraggio al loro potere» (Ki‐Zerbo, 1977:

110).

Stando a queste leggende, la storia del regno di Axum inizierebbe dunque verso il X secolo a.C., anche se per assistere alla comparsa di fonti storiografiche propriamente dette bisognerà attendere solo il II secolo a.C., quando la regione nella quale sorgeva l’allora capitale del regno divenne un centro attivo di traffici commerciali che si svolgevano via terra ma anche attraverso il mare grazie alla costruzione del porto di Adulis sul Mar Rosso, capaci di coinvolgere mete molto distanti, dal Mediterraneo fino all’India e al Lontano Oriente e che pertanto misero il regno in contatto con diverse popolazioni. Oltre all’allargarsi dei traffici commerciali, inoltre, prese piede una ricca e sviluppata civiltà la cui magnificenza è ancora oggi testimoniata dagli importanti reperti storici ed archeologici degli imponenti monumenti funebri e delle steli, entrambi simboli evidenti non solo del potere dei regnanti ma anche delle influenze che le culture greche, arabe e bizantine esercitarono sul regno, con il quale erano entrate in contatto attraverso il commercio. Tra il II ed il III secolo d.C. sull’asse Axum-Adulis partì l’espansione territoriale dell’Etiopia, che raggiunse l’apice del suo potere durante l’egida del re Ezana (320-342 d.C.), il quale grazie ad importanti successi militari riuscì ad allargare i suoi confini fino a occupare gran parte dell’altopiano, combattendo le popolazioni cuscite a sud e sconfiggendo il vicino regno di Kush, che si sviluppava attorno alla capitale Meroe, nel Sudan attuale. Tuttavia la più importante mossa del sovrano, capace di segnare in modo indelebile la storia del paese, fu l’adozione del cristianesimo in seguito alla sua conversione da parte di un monaco siriano, Frumenzio, divenuto il primo vescovo d’Etiopia dopo essere stato consacrato dal Patriarca d’Alessandria d’Egitto (Munro‐Hay – Taor, 2002). Nel V secolo, poi, un

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evento altrettanto importante per il consolidamento del cristianesimo nella nazione fu l’arrivo dei “Nove santi”: un gruppo di missionari di lingua greca, provenienti per lo più dalla Siria, a cui si deve la fondazione di numerosi monasteri nel Nord del paese e che pertanto svolsero un ruolo cruciale per l’introduzione in

Etiopia del sistema monastico (Ullendorff, 1968). Al re Ezana si deve anche l’introduzione dell’alfabeto

Ge’ez e inoltre fu il primo sovrano a coniare monete con sopra impressa la croce simbolo della religione cristiana, il cui avvento contribuì anche a rafforzare i rapporti con l’Impero Romano d’Oriente (Buzi,

2007), dove, nel frattempo, il cristianesimo era diventata la religione ufficiale nel 313 per merito di

Costantino; durante il VI secolo, infatti, Axum e Bisanzio stipularono un’alleanza per combattere le potenze persiane e arabe, con il regno etiope che arrivò a controllare anche l’area dove oggi sorge lo

Yemen fra 525 il 572.

Non molto tempo dopo, tuttavia, il regno di Axum andò incontro ad un progressivo declino che condusse alla sua scomparsa, sulle cui cause esistono diverse teorie. Tra queste una delle più accreditate riguarda la nascita ed il consolidamento di una potenza araba sull’altra sponda, rispetto al porto di Adulis, del Mar Rosso: mentre i primi gruppi di arabi fedeli all’allora nascente religione islamica arrivarono in

Etiopia nel 615 per fuggire alle persecuzioni messe in atto alla Mecca contro Maometto e i suoi seguaci, lo sviluppo della religione musulmana e la creazione di un forte potere politico fecero sì che il regno di

Axum non fosse più in grado di fronteggiare una potenza capace, nel giro di pochi anni, di assumere il controllo completo del Mar Rosso (Calchi Novati, 1994: 20). Privati del loro importante sbocco sul mare e sempre più minacciati dall’insediamento dei musulmani nell’entroterra, i sovrani di Axum decisero di spostare la capitale del regno più a sud, abbandonando il Tigray per trasferirsi nella regione dello Shoa, ergendo a capitale la città di Kabar, l’attuale Ankober. Oltre alla minaccia araba, altre cause parteciparono allo sfaldamento del regno, alcune di tipo economico, altre di tipo politico: l’organizzazione centralizzata della monarchia cedette il passo alla presenza di numerose entità politiche di minori dimensioni costantemente in lotta fra loro, governate dai ras, dignitari cristiani di origine tigrina che erano tenuti a versare tributi al potere centrale. Potrebbero inoltre aver pesato sulle ormai già fragili spalle del regno un periodo di siccità che condusse ad una grave carestia e gli attacchi delle tribù Beja che provenivano da

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occidente. Infine, quando ormai il centro politico era già stabilmente stanziato a sud, la città di Axum venne rasa al suolo nel 976 dagli Agau guidati dalla regina Guedit, detta anche “la mostruosa” (Ki‐Zerbo,

1977: 148). Nonostante la sua distruzione e il fatto di avere cessato già da tempo di essere la capitale del regno, Axum continuò a rappresentare il centro spirituale e religioso del paese: ancora in epoca medievale molti imperatori d’Etiopia continuarono a recarvisi per essere incoronati, una pratica iniziata nel XV secolo dal sovrano Zara Yakob, secondo un’usanza che restò in auge sino all’ascesa della città di Gondar nel XVII secolo, mentre ancora nel XIX secolo un viaggiatore britannico la definì come la “città sacra degli etiopi” (Pankhurst R., 2013: 40).

2. Il medioevo etiope

La ricostruzione del periodo successivo alla caduta di Axum è segnato da profonde incertezze a causa della mancanza di fonti certe. Nel 1100 assunsero il potere i membri della dinastia Zagwe, le cui origini sono ancora argomento di dibattito: secondo alcune cronache i suoi membri sarebbero divenuti noti col nome di “Re usurpatori”, mentre altri documenti in Ge’ez sembrano affermare la legittimità della loro dinastia, collegandoli in modo diretto alla stirpe salomonica (Munro‐Hay – Taor, 2002). Sulla loro dinastia restano comunque poche testimonianze, in quanto essi non coniarono monete e non lasciarono testi scritti, fatta eccezione per le megalitiche chiese di roccia che i suoi sovrani fecero edificare. Tra essi il più noto è il re , che rese la piccola città di Roha la Gerusalemme d’Etiopia, ancora oggi sito protetto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Alla morte del sovrano la città prese il suo nome, che come spiega Richard Pankuhrst (2013: 54), rimanderebbe ad un’antica leggenda: il nome Lalibela vorrebbe dire letteralmente “l’ape riconosce la sua regalità”, in quanto alla sua nascita il futuro sovrano sarebbe stato circondato da una nube di api. La sua dinastia venne soppiantata nel 1270 da Yakuno

Amlak, che uccise l’ultimo sovrano Zagwe e rivendicò per sé la discendenza diretta dai sovrani di Axum e quindi da Menelik I, dando vita ad un processo noto col nome di “restaurazione salomonide” e mettendo dunque in atto una vera e propria contesa per riappropriarsi di quella discendenza che era stata fonte unica della legittimità regale. Una volta al potere, la nuova dinastia spostò nuovamente la capitale

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più a nord, nella regione dell’Amhara e commissionò la redazione delle cronache imperiali del Kebre

Negast proprio con lo scopo di affermare la discendenza diretta da Menelik e sancire quindi che si trattasse della dinastia legittima cui spettava il potere. Oltre a questo testo, nello stesso periodo venne redatto anche il Fetha Negast, la “Legge dei re”, il codice legale del paese. Al suo interno erano presenti alcune leggi che sancivano ulteriormente la legittimità del potere regale, al quale spettava il comando per volontà divina, oltre ad attribuire al sovrano il diritto di emettere verdetti e di possedere schiavi. Questa epoca di restaurazione del potere imperiale è stato definito col nome di “medioevo etiope” (Calchi

Novati, 1994: 23), durante il quale, soprattutto durante il regno di Amda Sion (1314‐1344), colui che viene considerato il «vero fondatore dello Stato etiopico» (Calchi Novati, 1994: 26), prese corpo un sistema di tipo feudale legato al potere del negusa negasta, del Re dei Re, il quale concesse una serie di privilegi fondiari e favorì pertanto la formazione di una vasta aristocrazia costituita da notabili e militari che, nei secoli successivi, collaborarono con gli imperatori per amministrare le varie province. Anche il legame tra Stato e Chiesa venne molto rafforzato durante questo periodo attraverso la concessione di terre da parte dell’imperatore che otteneva, in cambio, l’appoggio del clero. Ben presto, tuttavia, il sistema feudale condusse alla disgregazione del potere politico e furono necessari, intorno alla metà del

Quattrocento, gli sforzi del nuovo sovrano Zara Yakob volti a ristabilire il potere nelle sue mani. Sotto di lui il regno trovò una nuova stabilità e consolidò i suoi possedimenti, mentre la Chiesa ortodossa venne unificata a seguito della violenta repressione delle eresie, dell’assimilazione delle popolazioni pagane e di quelle ebraiche grazie anche alla stesura di una forma scritta della liturgia.

Come era accaduto per l’antico regno di Axum, anche in questo caso la presenza musulmana che minacciava l’Impero provocò nuove tensioni e l’acuirsi di nuovi scontri che minarono non poco la stabilità della monarchia, non solo per motivi religiosi ma soprattutto per questioni politiche: il rifiuto di alcuni sultanati di versare i contribuiti al negus e la volontà di porre sotto la propria egemonia il golfo di

Aden, punto strategico per il controllo dei traffici commerciali, causarono l’aggravarsi delle tensioni tra il regno etiope e gli stati musulmani che si erano stabiliti nel Corno d’Africa (Zewde, 2001: 9). Il fatto che ancora una volta siano state le tensioni con le forze musulmane a causare i rischi maggiori per l’impero

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etiope non deve meravigliare: a partire dal VI secolo l’Islam rappresentò l’antagonista storico degli Stati dell’altopiano, ma al tempo stesso la sua presenza, i contatti e gli scambi che furono comunque frequenti influenzarono profondamente le istituzioni culturali della regione (Calchi Novati, 1994: 24). Con grandi sforzi, Zara Yakob riuscì nell’intento di placare le tensioni ma ben presto il sovrano dovette contrastare quelle che erano le mire espansionistiche di Ahmed Ibn Ibrahim, detto il “Gran”, cioè il mancino12. Agli inizi del Cinquecento il Gran perseguì il duplice obiettivo di spezzare il giogo dell’oppressione etiope e quello di convertire gli infedeli, espandendo i confini del suo dominio. Nel 1540 il suo esercito, partito dal sultanato dell’Adal, si era impadronito di parte dello Shoa, dell’Amhara e del Lasta, col solo Tigray a fungere da roccaforte del potere del negus. Il nuovo sovrano etiope giocò allora la carta vincente che avrebbe condotto definitivamente le sorti del conflitto a proprio vantaggio: in virtù degli accordi con le potenze cristiane europee, il successore di Zara Yakob, suo nipote Galawdewos, invocò l’intervento delle forze portoghesi, paese che vantava una folta presenza di mercanti ed esploratori sul territorio etiope.

Sebbene l’apporto militare del Portogallo fu indispensabile, a determinare la vittoria del negus contribuirono una grave carestia che colpì il sultanato dell’Harar, la nuova base militare delle forze musulmane, e infine la morte del Gran, avvenuta probabilmente in modo accidentale intorno alla metà del XVI secolo. Il negus riuscì dunque a recuperare parte del territorio perduto, fatta eccezione per ampi territori delle zone centrali che vennero occupati dalle popolazioni Oromo, anche dette Galla, le quali provenivano dalle zone meridionali e che nel corso del secolo vennero assimilate ai popoli del nord convertendosi al cristianesimo oppure all’Islam, che costituiva ormai una presenza assidua quanto stabile all’interno dei confini dell’impero.

All’alba del nuovo secolo la capitale fu nuovamente spostata presso la città di Gondar, fondata nel 1636, e l’impero visse una nuova fase di stabilizzazione caratterizzata dall’edificazione di castelli, chiese e dallo sviluppo di un’importante cultura urbana. Il potere centrale andò tuttavia nuovamente indebolendosi a causa delle spinte autonomiste di notabili locali e delle continue dispute per questioni dinastiche e teologiche, fino a sparire quasi completamente durante quella che fu nota come zamana

12 Secondo fonti arabe sarebbe invece noto come “il Conquistatore”. 39

masafent, “età dei giudici o dei principi”13, nella metà del Settecento. Durante questo periodo, che è stato definito come il preludio alla storia moderna dell’Etiopia (Zewde, 2001: 10), le province divennero sempre più indipendenti e gli imperatori vennero privati del loro potere, appannaggio ora dei signori feudali che si erano notevolmente rafforzati attraverso lo sfruttamento dei contadini, i quali erano costretti a versare ingenti tributi e a svolgere impegnative corvée. Questa situazione di frammentazione del potere e di lotte intestine venne sfruttata a proprio vantaggio dalle potenze europee: i francesi si allearono con i ras del Tigray, gli inglesi con i signori locali dell’Amhara e la Chiesa romana tentò di mettere in atto una nuova opera di evangelizzazione.

3. Tewodros II, Menelik II ed i conflitti con l’Italia

A mettere fine all’età dei giudici contribuì l’opera di un dignitario del nord, un ex soldato di nome

Kassa Hailu a servizio presso la corte del ras Alì, di cui sposò la figlia, il quale verso la metà dell’Ottocento sconfisse altri ras locali e si fece incoronare imperatore nel 1855 col nome di Tewodros II (1855-1868).

Durante il suo regno si raggiunsero l’unificazione militare e quella linguistica della Nazione: il Ge’ez venne sostituito dall’amarico come lingua ufficiale. Tuttavia, a nulla servirono, invece, gli sforzi del nuovo sovrano per favorire la riunificazione politica ed amministrativa: la volontà di Teodoro di dare vita ad uno Stato moderno ed industrializzato, oltre a quella di assumere sotto il proprio controllo quelli che erano i privilegi della Chiesa, si scontrarono con l’opposizione dei signori locali e quella stessa del clero, per nulla disposto a perdere i propri possedimenti terrieri. Nonostante sia passato alla storia come il

“primo monarca etiope moderno”, questa definizione non trova corrispondenza con la realtà dei fatti: le sue riforme non sortirono gli effetti desiderati e gli sforzi del sovrano costituirono soltanto tentativi velleitari piuttosto che programmi durevoli (Zewde, 2001: 31). Anche le sue iniziative in politica estera delusero le aspettative: sebbene avesse tentato di stringere alleanze con le potenze europee, in particolar modo con la Gran Bretagna in chiave anti egiziana, il sovrano morì suicida proprio dopo la sconfitta

13 Così definita in perché ricordava l’epoca biblica a cui si fa riferimento in Giudici 21:25, quando «non vi era un re in Israele: ogni uomo faceva quello che era giusto ai suoi occhi». 40

inflittagli dalle truppe inglesi di Robert Napier presso Magdala nel 1868, alla quale contribuì in modo decisivo il tradimento dei ras locali. Secondo quello che potrebbe ormai sembrare un classico nella storia dell’impero etiope, la morte del sovrano riaccese un nuovo periodo di dispute interne tra i vari signori locali che vantavano discendenze dirette dalla stirpe salomonica e rivendicavano dunque il potere per la propria dinastia.

Dopo un periodo di lotte durato quattro anni, il comando venne assunto da un aristocratico del nord della regione che nel 1872 si fece incoronare ad Axum col nome di Yohannes IV e spostò nuovamente la capitale dell’impero nel Tigray, continuando sulla strada verso l’ammodernamento tracciata da Teodoro ma raggiungendo, al contrario del suo predecessore, importanti successi: tramite un atteggiamento più cauto verso i poteri locali riuscì a garantirsi l’appoggio dei ras; tuttavia questo atteggiamento più “morbido” diede agio ai suoi maggiori feudatari, Adal di Gojjam e Menelik dello Shoa, di assumere maggior potere venendo a costituire una minaccia interna sempre presente, oltre ai rischi che provenivano dalle zone circostanti i confini dell’impero e soprattutto dalle potenze estere, materializzate nell’avanzata delle truppe anglo-egiziane e delle mire coloniali che l’Italia, già stanziata sulle coste della confinante Eritrea, aveva intrapreso verso l’Etiopia. La presenza italiana era già stabile da molti anni nel paese confinante con l’impero: nel 1869 una società privata, la Rubattino, aveva acquistato il porto di

Assab, che nel 1882 venne nazionalizzato e divenne di fatto il punto di partenza per le espansioni territoriali. Nel 1884 tra il negus e la potenza coloniale venne sancito il trattato di Hewet, di cui la Gran

Bretagna fungeva da garante, che attribuiva all’Etiopia il controllo della fascia costiera del Mar Rosso ed il diritto di transito per Massaua. Pertanto, quando l’Italia penetrò nell’entroterra fino alla città eritrea,

Yohannes considerò l’avanzata come un’evidente violazione dell’accordo e si aprirono le ostilità: il ras locale Alula abbracciò immediatamente le armi dando inizio ad azioni militari contro l’invasore italiano.

Pur rivolgendosi alla Gran Bretagna, l’Etiopia dovette fronteggiare l’atteggiamento ambiguo della potenza che doveva svolgere la funzione di garante, ma che finì invece con il legittimare addirittura i possedimenti coloniali italiani (Zewde, 2001: 54). La situazione per il negus si acuì in seguito all’attacco proveniente dal

Sudan per opera delle armate del sovrano Mahadi che perseguivano una jihad con l’intento di allargare il

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proprio potere: fu proprio lottando contro di esse che Yohannes trovò la morte, lasciando inoltre sospesa la questione della sua successione, che come prevedibile venne nuovamente contesa tra i due più influenti vassalli del sovrano scomparso.

La contesa si risolse in favore del ras dello Shoa, che salì al trono nel 1889 con il nome di Menelik

II, attribuendosi dunque la discendenza diretta dalla stirpe salomonica a cui era concessa la regalità per diritto divino. Per quanto riguarda la politica interna, il novo sovrano continuò l’opera di ammodernamento del suo predecessore e proseguì un processo di espansione territoriale che lo portò ad assumere il controllo di una porzione di territorio corrispondente quasi completamente a quella che è l’attuale estensione della federazione etiope, spostando ancora una volta la capitale ad Addis Abeba, nel centro della nazione. Per quanto riguarda la politica estera, invece, il suo regno si aprì con la rottura del negus con la potenza coloniale italiana, di cui era stato precedentemente alleato proprio in funzione anti

Yohannes IV. Ad aprire le ostilità furono i contrasti circa il Trattato di Uccialli, stipulato fra le due fazioni nello stesso anno dell’incoronazione del negus, intorno al quale nacquero delle controversie legate a motivi di interpretazione: mentre per il sovrano etiope si trattava di un accordo di alleanza, l’Italia protendeva per interpretare il Trattato come un patto di protettorato. In particolare, le controversie maggiori nacquero intorno all’interpretazione dell’articolo XVII del Trattato, il quale secondo la versione italiana prevedeva per il sovrano etiope l’obbligo di servirsi del re d’Italia per tutte le questioni internazionali, mentre nella versione amarica egli non era tenuto ad obblighi di esclusività, pur potendo servirsi a proprio piacimento dell’intermediazione, quando richiesta, dell’Italia. Dapprima si tentarono le vie diplomatiche: nell’ottobre del 1889 il cugino di Menelik, ras Maconnèn, il padre di quello che sarebbe divenuto il futuro imperatore d’Etiopia col nome di Haile Selassie, venne inviato in Italia a Napoli per incontrare l’allora Ministro degli Esteri Francesco Crispi, con cui negoziare le modalità di attuazione del trattato e stipulare una convenzione aggiuntiva. Tuttavia la strada diplomatica non sortì gli effetti sperati e, dopo lunghe proteste e dopo che le denunce di Menelik inviate al re d’Italia rimasero inascoltate, nel

1893 iniziarono gli scontri militari a seguito dello sconfinamento dell’esercito italiano dall’Eritrea all’Etiopia, che due anni dopo riuscì ad occupare le città tigrine di e Mekelle. Mentre l’Italia

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sperava di avere la meglio sull’Imperatore approfittando della propria superiorità tecnica e sfruttando l’appoggio dei ras locali che gli si opponevano, Menelik II riuscì a formare un’imponente armata formata dagli eserciti di tutte le regioni del regno, con cui dopo una serie di battaglie nelle quali aveva avuto la meglio pur senza trionfare nel conflitto, fra le quali quella dell’Amba Alagi nel dicembre 1895 e quella combattuta a Mekelle nel gennaio 1896, inflisse la sconfitta definitiva all’invasore italiano nella storica battaglia di Adua del 1 marzo dello stesso anno. L’eco della vittoria etiope sulla potenza europea ebbe una risonanza talmente forte da varcare i confini nazionali, arrivando nelle altre colonie africane e scuotendo gli stessi paesi europei ed occidentali, acquistando un peso simbolico maggiore nelle aree dove era più intensa la dominazione dei bianchi sui neri, come gli Stati Uniti e l’Africa meridionale (Zewde,

2001: 81). La vittoria definitiva e la conclusione del conflitto vennero sancite ufficialmente con il trattato di Addis Abeba, che riconosceva la totale indipendenza dell’Etiopia, la quale venne separata dalla colonia italiana dell’Eritrea nel 1900 attraverso il confine naturale sancito dal fiume Mareb. Negli anni successivi

Menelik fu all’apice del suo potere: definì i nuovi confini dell’impero attraverso accordi con le potenze coloniali stanziate nelle immediate vicinanze della nazione, fu il promotore di una nuova spinta verso l’ammodernamento del paese dando vita ai ministeri, alla burocrazia e all’amministrazione, favorì alcuni miglioramenti strutturali nel settore scolastico e quello dei collegamenti stradali. A seguito di una lunga malattia, la vita dell’imperatore si spense nel 1913, scatenando una nuova lotta per la successione che vedeva coinvolta anche la sua consorte, l’imperatrice Taitu, che aveva svolto un ruolo fondamentale nelle vicende politiche del regno (Zewde, 2001). La sovrana era stata esautorata già tre anni prima dai suoi avversari politici e dunque il potere venne assunto, seppur per brevissimo tempo, da colui che rappresentava l’erede al trono designato dallo stesso Menelik: nominato imperatore nel 1911, il nuovo sovrano Iyasu fu però deposto nel 1916 e sostituito dalla figlia del precedente imperatore scomparso,

Zawditu.

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4. L’epoca di Haile Selassie e l’occupazione fascista

Rappresentante dell’ala conservatrice e tradizionalista, la sovrana Zawditu dovette scontrarsi politicamente con il ras Tafari, cugino per via paterna di Menelik II14, le cui idee lo fecero assurgere a capo del partito progressista: già nel 1923 Tafari spinse per far entrare l’Etiopia nella Società delle Nazioni, fondata quattro anni prima, ottenendo un risultato importante al fine di superare l’isolamento del paese e resistere alle continue pressioni dell’Italia e delle altre potenze coloniali; inoltre, proprio con l’intento di stringere i rapporti con le potenze europee, il giovane principe intraprese un importante tour in ben nove paesi, tra cui l’Italia, la Svezia, l’Inghilterra, la Francia e la Grecia (Pankhurst R., 2013). Nel 1924, continuando sulla linea progressista, emanò un decreto col quale si provvedeva al graduale sradicamento della schiavitù, anche per riabilitare l’immagine del paese agli occhi del mondo internazionale. Il principe venne dunque nominato Re nel 1928, mentre la morte sospetta della sovrana Zauditu avvenuta due anni più tardi gli spalancò le porte all’ottenimento del titolo di Imperatore: nel 1930 assunse il comando e venne incoronato ad Addis Abeba col nome di Haile Selassie I (Calchi Novati, 1994: 108-110). Una volta al potere il nuovo sovrano accentrò il potere nelle sue mani pur confermando il suo ruolo di riformatore: si impegnò per ridurre i benefici e il potere dei feudatari e intervenne in vari settori della società, fino a concedere la Costituzione nel 1931, che come nota Calchi novati, sembrò assomigliare più ad un dono elargito con magnanimità che a un diritto per i suoi sudditi e di fatto pose il sovrano fuori e al di sopra della legge (1994: 112).

Solo pochi anni più tardi l’Imperatore dovette contrastare la nuova invasione da parte dell’Italia, nel frattempo divenuta fascista, che perseguiva la volontà di vendicarsi dell’onta subita nella battaglia di

Adua (Calchi Novati – Valsecchi, 2005). Pertanto si intensificò l’invio di truppe nei paesi già occupati da contingenti italiani, corrispondenti all’Eritrea, sottoposta alla supervisione del maresciallo Del Bono, e alla Somalia, fino all’apertura delle ostilità avvenuta già nel 1934 con il pretesto dell’incidente di Ual-Ual: nel dicembre dello stesso anno, una federazione anglo-etiope giunse nel presidio militare che si trovava al confine tra Etiopia e Somalia, trovandovi contingenti italiani; mentre gli inglesi si ritirarono, i soldati

14 Tafari era il figlio di Meconnén, cugino di Menelik II. 44

etiopi ingaggiarono un conflitto contro quelli che consideravano invasori. Heile Selassie tentò allora di rivolgersi alla Società delle Nazioni, che tuttavia mantenne un atteggiamento ambiguo per non rischiare di alterare i già fragili equilibri che si erano stabiliti tra i paesi europei e che da lì a poco sarebbero comunque degenerati fino all’apertura del secondo conflitto mondiale, mentre il governo di Roma contestava la stessa ammissione del paese etiope alla Società additandola di mancare dei “requisiti minimi della civiltà” (Pankhurst R., 2013). Nonostante le accese proteste dell’Imperatore, l’esercitò italiano iniziò l’invasione il 3 ottobre 1935, senza fra l’altro farla precedere da alcuna formale dichiarazione di guerra.

Adua venne massicciamente bombardata e già a novembre il maresciallo Del Bono riuscì ad occupare

Axum e Mekelle, venendo tuttavia sostituito per volontà di Mussolini da Pietro Badoglio. Le armate etiopi tentarono di arrestare l’invasione nemica affrontando gli italiani nelle due battaglie che si combatterono nel Tembien, nel nord della regione, durante i primi due mesi del nuovo anno: il primo scontro, culminato con la battaglia di Passo Uarieu15 si risolse con una sostanziale situazione di stallo, mente il secondo attacco vide sbaragliate le truppe etiopi che si erano rifugiate sull’Amba Aradam, cadute sotto i colpi letali degli italiani che utilizzarono armi chimiche (Del Boca, 2002), favorendo dunque l’avanzata delle truppe fasciste che raggiunsero la capitale Addis Abeba nel maggio del 1936. Heile Selassie dovette abbandonare la nazione, recandosi prima in Gibuti e poi in Inghilterra, dove trovò rifugio per circa cinque anni. La fuga dell’Imperatore causò il crollo totale dell’ordine pubblico ed il saccheggio della capitale, che venne formalmente occupata dalle truppe di Badoglio il 5 maggio: quattro giorni dopo Mussolini poté annunciare la conquista italiana dell’Etiopia (Pankhurst R., 2013), che venne unita con le colonie dell’Eritrea e della Somalia dando vita a quella che venne denominata Africa Orientale Italiana (AOI). La presenza militare dell’Italia durò solo pochi anni, nei quali vennero effettuati soprattutto interventi strutturali quali la creazione di vie di collegamento ed infrastrutture che si limitarono però alle sole aree urbane; in generale, l’intero paese non fu mai sottoposto all’egemonia italiana, e anche nelle città la

Resistenza fu sempre strenua. L’evento più noto della ribellione contro la potenza coloniale è quello

15 Ancora oggi tra le montagne del Tembien è presente un cimitero di guerra italiano a Passo Uarieu, che ebbi l’occasione di visitare assieme a Silvia Cirillo grazie all’agronomo italiano Giuseppe De Bac, all’epoca della nostra presenza sul campo impegnato nel Tigray. Anche a Mekelle, inoltre, sorge un cimitero nel quale riposano i combattenti italiani. 45

avvenuto nel 1937, quando ad Addis Abeba il viceré Graziani fu vittima di un attentato fallito che scatenò una violenta rappresaglia da parte delle forze armate italiane con la morte di migliaia di cittadini inermi.

La fine del colonialismo italiano non fu causata, tuttavia, dalla continua attività di guerriglia dei patrioti che vi si opponevano ma dalle vicende che coinvolsero l’Italia durante il secondo conflitto mondiale:

Francia ed Inghilterra, che avevano precedentemente accondisceso all’impresa coloniale italiana mutarono il loro atteggiamento ed appoggiarono in modo diretto la Resistenza; gli inglesi sferrarono un triplice attacco nei paesi dell’AOI fino a raggiungere Addis Abeba nell’aprile del 1941. Haile Selassie rientrò trionfante nella capitale il 5 maggio, nello stesso giorno in cui cinque anni prima la città era stata formalmente occupata, ponendo di fatto fine alle velleità imperialistiche fasciste. Il panorama che si presentava al suo ritorno aveva però subito importanti modifiche rispetto a quello che il sovrano aveva lasciato prima del suo esilio, caratterizzato soprattutto dalla forte ingerenza inglese: la Gran Bretagna rivendicava alcuni diritti economici e territoriali sul Paese in virtù degli accordi anglo-etiopici sanciti nel

1942 e nel 1944. C’erano inoltre da risolvere le questioni relative alla volontà dell’Imperatore di riprendere sotto il proprio controllo in nome dell’estensione territoriale precoloniale l’Eritrea e l’Ogaden, una zona semidesertica al confine con la Somalia. Se quest’ultima venne riannessa all’Etiopia, i problemi maggiori riguardarono l’Eritrea poiché sulla nazione gravavano gli interessi di diverse potenze, tra cui non solo

Italia e Gran Bretagna ma anche degli Stati uniti d’America, con i quali intanto il sovrano aveva stretto forti rapporti e che miravano ad avere un avamposto per i contatti col Medio Oriente; all’interno dell’ex colonia italiana, invece, i gruppi politici e l’opinione pubblica erano nettamente divisi fra unionisti ed indipendentisti. La questione venne risolta dall’ONU commissionando una speciale commissione d’inchiesta che nel 1950 si pronunciò in favore di una soluzione intermedia, cioè nella creazione di una federazione, scelta appoggiata anche dagli Stati Uniti. Proprio in virtù degli stretti rapporti instaurati con le potenze europee l’opera riformatrice e la spinta modernizzatrice che il sovrano aveva iniziato anni prima si riaccesero con ritrovato vigore e, tra le varie manovre apportate, nel 1955 venne modificata la

Costituzione con l’istituzione di un parlamento eletto a suffragio universale. Questa importante innovazione era comunque lontana dal comportare una svolta verso la democrazia, in quanto il vero

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cuore del potere restava saldamente nelle mani dell’imperatore, delle forze armate, dell’aristocrazia terriera e del clero ortodosso che continuavano ad esercitare il proprio comando in assenza di veri e propri partiti

(Calchi Novati, 1994: 116); inoltre venne avviato un processo di privatizzazione della terra che comportò un grave peggioramento nelle condizioni di vita dei contadini sui quali presto gravarono anche lunghi periodi di carestie e di siccità. Il malcontento cresceva anche in altri gruppi, come i reduci della resistenza, gli studenti, gli indipendentisti eritrei, ai quali si unirono proprio quei nobili che videro le loro prerogative essere sempre più prevaricate dal potere dell’Imperatore e che sfociò in un tentativo di colpo di stato nel

1960, approfittando di una visita di Haile Selassie in Brasile, il quale venne tuttavia prontamente sventato permettendo all’imperatore di riprendere il potere ed al tempo stesso intensificare la sicurezza ed il controllo autoritario. Nel 1962 il sovrano mise inoltre fine all’esperienza federale annettendo formalmente l’Eritrea e rendendola la quattordicesima provincia dell’impero. Alla base della svolta ci sarebbero l’incapacità della politica eritrea di sfruttare i margini di libertà che avrebbero potuto sfruttare a proprio vantaggio e le manovre messe in atto dall’Etiopia per mettere in ginocchio l’ex colonia, che veniva penalizzata sia economicamente con pesanti dazi che politicamente, con l’inferenza etiope in tutte le questioni interazionali (Calchi Novati, 1994). Per placare l’opinione pubblica e le pressioni delle forze d’opposizione, Haile Selassie mise in atto un progetto che mirava ad inserire nei quadri dirigenti proprio alcuni esponenti della nuova generazione di intellettuali e commercianti, ottenendo tuttavia l’esatto opposto del risultato agognato: le tensioni non si placarono ed erano ora forze interne al vertice del potere, compromettendo in maniera importante la stabilità dell’imperatore. All’alba degli anni Settanta le condizioni economiche e materiali del Paese conobbero un notevole peggioramento sulle cui cause contribuirono la precedente chiusura temporanea del canale di Suez16, l’aumento del prezzo della benzina e il concomitarsi di gravi periodi di carestia; nel 1974 iniziarono i primi tumulti e le prime manifestazioni organizzate che sfociarono in violenti scioperi soprattutto ad Addis Abeba, condotti dalle classi più disparate: tassisti, impiegati, studenti, inseganti e disoccupati alimentarono le proteste, ai quali si

16 Il Canale fu chiuso durante la Guerra dei sei giorni, combattuta fra Israele, da un lato, e Siria, Egitto e Giordania, dall’altro. 47

aggiunsero persino le forze dell’ordine, scegliendo di rinfoltire le loro file piuttosto che reprimerle con la violenza. Dalla voce dei manifestanti partivano richieste di concessione di libertà civili, riforme agrarie, elezioni governative, uguaglianza tra le religioni e via discorrendo (Calchi Novati 1994: 143). A sancire definitivamente il crollo del potere imperiale fu però la formazione di un Comitato, definito come Derg in amarico, nome col quale è poi passato alla storia, di stampo marxista-leninista all’interno degli ambienti militari che ambirono ad assumere il comando della rivolta. In breve tempo i membri del Derg arrestarono molti uomini politici e aristocratici ma soprattutto utilizzarono abilmente i mezzi di informazione per screditare il sovrano agli occhi dell’opinione pubblica, divulgando il suo coinvolgimento in operazioni finanziare che miravano esclusivamente a rimpinguare le casse imperiali: nel giorno dell’ 11 settembre 1974, in particolare, la televisione nazionale trasmise un documentario che denunciava lo sfarzo della corte regale mettendolo in contrasto con le crude immagini che mostravano le tragiche conseguenze delle carestie dell’anno precedente (Zewde, 2001: 235). Il giorno seguente Haile Selassie venne deposto dai militari del Derg che lo prelevarono presso il palazzo imperiale e lo condussero in reclusione a bordo di un Maggiolone Volkswagen17; mettendo fine per sempre ad «uno dei più sofisticati sistemi politici tradizionali del mondo» (Calchi Novati, 1994: 146). L’anno successivo l’ultimo imperatore d’Etiopia perse la vita, probabilmente per mano omicida (Del Boca, 2007).

5. Il Derg e i fronti di liberazione

Ad assumere il potere una volta destituito Haile Selassie fu il Provisional Military Administrative

Council (PMAC), a cui capo venne nominato Aman Andom, un patriota etiope di origine eritrea, che assunse anche il ruolo di capo di Stato. Nei primi anni il Derg provvide a scardinare tutte le istituzioni imperiali, sciogliendo il Parlamento e abrogando la costituzione, per arrivare a dichiarare il 20 dicembre

1974 che l’Etiopia era uno Stato socialista. Vennero attuate politiche di nazionalizzazione delle imprese, delle banche, delle case ma soprattutto della terra, infliggendo il colpo finale all’antico sistema feudale e

17 Come ritratto nelle fotografie esposte all’interno del “Red Terror Museum” di Addis Abeba, visitato nel dicembre del 2013. 48

strappando alla nobiltà e al clero ogni privilegio. La riforma agraria venne effettuata nel 1975 e si tradusse in una collettivizzazione dei possedimenti feudali, attribuendo a ogni contadino un appezzamento di terreno. Sulla nuova formazione statale gravarono presto i venti del terrore e della violenza: il Derg fu scosso da lotte intestine per la supremazia del potere che si erano manifestate sin dal principio con l’uccisione del Presidente Andom, avvenuta nel novembre del 1974, contribuendo a creare un clima di diffidenza estrema tra i membri stessi del comitato. Ad uscirne vincitore nel 1977, raccogliendo nelle proprie mani il potere completo, fu il maggiore Mengistu Haile Mariam, che aveva eliminato fisicamente tutti i suoi rivali (Zewde, 2001). Il clima di violenza non si limitò soltanto a un fenomeno interno ai quadri dirigenti del Comitato, estendendosi anche a tutti i suoi oppositori e toccando un tragico apice durante il periodo divenuto noto con il nome di “terrore rosso”, in cui vennero repressi nel sangue tutti i tentativi di ribellione al regime militare, colpendo duramente i gruppi giovanili oltre che i membri dell’Ethiopian

People’s Revolutionary Party, un’organizzazione politica formata perlopiù da giovani studenti delle regioni centrali e settentrionali, nata nel 1974 nell’ambiente universitario di Addis Abeba. Per quanto riguarda la politica estera un punto di svolta fondamentale per le sorti del regime fu rappresentato dalla guerra del 1977 che vide opposte Etiopia e Somalia, scoppiata a seguito dell’invasione delle truppe somale inviate dal dittatore Siyad Barre nella regione dell’Ogaden. Il regime allentò dunque i rapporti con gli Stati

Uniti, avvicinandosi spiccatamente verso il mondo sovietico e ricevendo aiuti militari dall’URSS e da

Cuba; in breve tempo le truppe etiopi ebbero la meglio sull’invasore somalo tramite una violenta controffensiva che in breve tempo ristabilì gli antichi confini. Negli anni successivi Mengistu consolidò sempre di più il suo potere personale, mentre andò rafforzandosi anche quello del Workers Party of

Ethiopian (WPE), il partito nato nel 1984 e depositario dell’ideologia rivoluzionaria (Calchi Novati, 1994).

Nel 1987 si assiste alla proclamazione della Repubblica Popolare d’Etiopia, basata sulla Costituzione e sull’Assemblea Nazionale, sebbene in realtà tutti i poteri fossero concentrati nelle mani dell’esecutivo del

WPE.

Nonostante il regime avesse perseguito gli ideali che avevano alimentato la rivoluzione anti imperiale, il malcontento crebbe soprattutto all’interno di quei ceti responsabili di aver animato i tumulti

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che avevano condotto alla deposizione dell’Imperatore, preparando in un certo modo il terreno fertile per la rivoluzione e se ne sentivano adesso derubati; tra i contadini, inoltre, crebbe l’insofferenza dovuta allo stallo delle loro condizioni di vita, che non migliorarono nonostante la nazionalizzazione delle terre.

Il Paese sembrava condannato a una perenne deficienza di cibo, sulla quale pesarono ripetuti periodi di siccità e la mancanza di investimenti. Tra il 1984 e il 1985 si verificarono gravi carestie, che condussero alla morte di un numero elevatissimo di persone: secondo alcuni dati le vittime potrebbero essere state un milione, e il governo fu in quell’occasione ampiamente criticato con l’accusa di aver occultato le tragiche condizioni in cui versava la Nazione per non offuscare i festeggiamenti per il decimo anno della rivoluzione avendo pertanto ritardato in modo fatale l’arrivo di aiuti (Calchi Novati, 1994: 154). In questo clima di aperta ostilità verso il regime si rafforzarono le posizioni di due fronti armati sorti nelle regioni settentrionali dell’Etiopia, che da lì a poco sarebbero stati i responsabili del nuovo ribaltamento della scena politica, cioè l’EPLF e il TPLF. L’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF) aveva assunto la leadership del movimento indipendentista in Eritrea nel 1973, dopo essersi duramente confrontato con l’altro movimento che protendeva verso l’indipendenza della ex colonia, l’Eritrean Liberation Front; il

Tigrayan People’s Liberation Front invece nacque all’interno dei movimenti studenteschi che si svilupparono negli ambienti universitari di Addis Abeba negli anni Sessanta e Settanta, per poi costituirsi ufficialmente nel 1974 a seguito di un’offensiva armata lanciata in Tigray con l’obiettivo di liberare il

Paese dal regime militare. In breve tempo il TPLF si configurò come l’organizzazione guida dei movimenti di liberazione dal Derg nel nord della Nazione e vide infoltirsi sempre più il numero dei suoi combattenti, ottenendo diversi successi militari contro il regime. Sebbene le due organizzazioni fossero accumunate dal perseguimento di un obiettivo comune, i loro rapporti erano sempre stati molto tesi a causa di profonde divergenze ideologiche: il TPLF si basava sul principio dell’autodeterminazione dei popoli e aveva un forte elemento antisovietico pur abbracciando un orientamento di stampo marxista- leninista, mentre l’EPLF era un movimento che rappresentava l’eterogenea composizione della società eritrea, pensata come un unico stato. Negli anni in cui furono impegnate, tuttavia, le due formazioni collaborarono strenuamente nella lotta contro il regime, conducendo la loro offensiva in maniera parallela

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e talvolta coordinata. Il Derg riuscì a contenere i loro attacchi per tutta la seconda metà degli anni Settanta e per buona parte degli anni Ottanta, ma la crisi economica e le tragiche condizioni in cui versava la

Nazione accrebbero il malcontento all’interno stesso dell’ambiente militare, fino a sfociare in un tentativo di colpo di stato nel 1989 che però non sortì gli effetti sperati. Nello stesso periodo il TPLF era divenuto la forza principale della regione del Tigray ed aveva stretto alleanze con le altre organizzazioni di stampo regionale che lottavano per l’indipendenza, fino a formare l’Ethiopian People’s Revolutionary

Democratic Front (EPRDF), con il quale vennero lanciate le offensive decisive contro il regime. Il Derg tentò nel 1990 la strada della diplomazia per mediare con le forze ribelli, ma questi tentativi fallirono miseramente. Nello stesso anno l’EPLF conquistò Massaua, mentre l’EPRDF intraprese la propria marcia verso la capitale etiope. Mengistu giocò dunque l’ultima carta, abbandonando il Socialismo ed annunciando l’accettazione delle forze di mercato internazionali; la sua mossa però non fu sufficiente a salvare il regime: nel 1991 l’EPLF prese il controllo della capitale eritrea di Asmara e poco dopo, il 21 maggio, le truppe dell’EPRDF entrarono trionfanti ad Addis Abeba, da dove Mengistu era fuggito trovando asilo in Zimbawe, dove ancora risiede, sancendo di fatto la fine del Derg. All’Eritrea venne formalmente riconosciuta l’indipendenza, mentre ad assumere il potere in Etiopia fu il Transitional

Government of Ethiopia (TGE), a cui presidente venne nominato un ex studente di medicina che aveva animato i movimenti studenteschi di Addis Abeba negli anni Settanta ed era stato uno dei creatori e leader principali del TPLF, il tigrino Meles Zenawi.

6. Il decentramento e la “democrazia etnicista”

Durante i primi anni del governo Zenawi, il TGE ha proceduto a una sistematica opera di dissoluzione di tutte le istituzioni messe in piedi dal regime militare del Derg, abbandonando l’originaria linea marxista, aprendosi all’economia di mercato e soprattutto inaugurando quella che Calchi Novati ha definito come “democrazia etnicista” (1994: 237). Quella che, almeno dall’epoca di Tewodros II, era stata l’idea di uno Stato etiope unitario e centralizzato, si era rivelata nei fatti un’ambizione piuttosto che una realtà; inoltre, all’alba della nuova epoca per l’Etiopia, non potevano essere trascurati i diversi poteri con

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base locale che avevano costituito i gruppi armati regionali (Kidane, 1997). Pertanto si rese indispensabile la necessità di dare vita a una nuova formazione statale fondata sul decentramento. In accordo con i principi che avevano guidato la rivoluzione, il TGE riconobbe i diritti all’autodeterminazione, all’autogoverno, all’autonomia culturale, alla secessione di tutti i popoli e proclamò la libertà culturale, di espressione e di organizzazione politica. Sempre nel 1991 erano stati convocati il Consiglio dei

Rappresentanti al quale vennero date le funzioni di un parlamento provvisorio, e l’Assemblea Costituente, entrambi costituiti su base etnica e nazionale piuttosto che su una logica di rappresentanza politica o sociale. Nel 1994 si è dunque giunti alla promulgazione della “Constitution of the Federal Democratic

Republic of Ethiopia”, dando vita a una repubblica parlamentare federale l’anno successivo (Federal

Democratic Republic of Ethiopia), in cui il potere esecutivo è nelle mani del Primo Ministro che è a capo del governo, quello legislativo è affidato ad un Parlamento bicamerale18 e quello giudiziario è considerato indipendente. Nella Carta sono inoltre sanciti la laicità dello Stato, separato dalla Chiesa, la protezione dei diritti umani e delle minoranze e il riconoscimento di tutte le lingue parlate nella Nazione, sebbene l’amarico resti l’idioma ufficiale. Il territorio è diviso in nove Stati Regionali19, ai quali sono concessi diversi poteri in maniera di giustizia, educazione, salute, cultura, mentre appannaggio del governo centrale restano le politiche fiscali e monetarie, le gestione dei progetti di sviluppo, la politica estera e la difesa

(Kidane, 2001)

Il progetto di decentramento e i principi sanciti dalla Costituzione non sembrano, però, aver trovato terreno fertile per essere realmente applicati, rivelandosi invece processi fallimentari (Kidane,

2001; Tarekegn, 1997); il federalismo esaltava la pluralità ma «nei fatti era un espediente per aumentare la forza di un partito-movimento che era nato dalla “liberazione” del Tigray e si trovava a governare l’Etiopia dal Ghebì, il palazzo che era stato di Menelik» (Calchi Novati G. 2014: 328). Nonostante, infatti, la Carta garantisca il diritto alla secessione, le spinte indipendentiste sono state duramente represse e il

Governo ha violato i diritti umani e i principi da lui stesso promulgati (Kidane, 2001: 22). Ben presto,

18 Questo organo è costituito da una Camera Alta chiamata House of the Federation, comprendente 108 seggi, e da una Camera Bassa, la House of People’s Representatives, che ne comprende 547. 19 Afar; Amhara; Benishangul/Gumaz; Gambella; Harari; Oromia; Somali; Southern Nations, Nationalities, and People Region (SNNPR); Tigray. Vi sono inoltre le due città a statuto speciale di Addis Abeba e Dire Dawa. 52

inoltre, sulla nuova formazione politica hanno soffiato venti nefasti che più che farla corrispondere a ciò che essa stessa aveva sancito con le sue leggi, l’hanno di fatto fatta assomigliare proprio a quel Regime sulle cui ceneri si era fondata: Theodore Vestal afferma in un articolo sulla libertà di associazione (1997) che i diritti garantiti dalla Costituzione siano per poco o nulla realmente goduti dai cittadini e che si possa parlare addirittura di un’adesione del Governo a un modello totalitario. Sin dai suoi albori anche l’esercizio delle libertà e dei diritti democratici basilari, come quello di voto, è sembrato essere soggetto a gravi sospensioni: già nel 1993, prima della nascita della Repubblica, l’Oromia Liberation Front (OLF) lasciò l’EPRDF denunciando i presunti brogli elettorali nel corso delle elezioni di quell’anno; inoltre, nelle successive elezioni per il Parlamento20 del 1995 e del 2000 l’EPRDF si presentava come l’unico candidato, imponendosi dunque con un vero e proprio plebiscito ma attribuendo al test elettorale soltanto una valenza simbolica più che una vera garanzia di diritti e partecipazione. La situazione presentò una notevole differenza nelle successive elezioni del 2005, data l’effettiva presenza di gruppi di opposizione organizzati e presenti su tutto il territorio nazionale. L’EPRDF fu dichiarato ancora una volta vincitore, ma le opposizioni ottennero per la prima volta un discreto numero di seggi all’interno del Parlamento, pur continuando a suscitare sospetti e a denunciare la presenza di brogli elettorali sfociati in grandi dimostrazioni popolari che sono state represse nel sangue di circa 200 vittime. Se durante queste elezioni l’opposizione era riuscita ad occupare alcune sedie in Parlamento, quelle successive del 2010 oltre a confermare la poltrona di Meles Zenawi hanno visto un tracollo delle forze antagoniste, a cui è stato assegnato un solo seggio contro i 546 andati alla maggioranza. Ad influire su questi risultato potrebbero essere state misure duramente repressive non solo contro i gruppi rivali, ma anche contro la libertà di associazione e di informazione: nel 2003 il Governo ha proceduto all’arresto di molti giornalisti indipendenti (Tronvoll – Hagmann, 2011), mentre già da tempo radio e televisioni sono sottoposte al suo totale controllo. Il progressi della principale forza di governo nel quinquennio 2005-2010 è stato ottimamente descritto e analizzato da Alessia Villanucci nella sua tesi di dottorato. La studiosa scrive:

20 Dal 1995, anno di costituzione della Repubblica Federale, si sono succedute in Etiopia regolari elezioni quinquennali per il Parlamento. 53

Secondo le dichiarazioni pubblicate dopo il voto dal bollettino settimanale del Ministero degli Esteri “A Week in the Horn”, la motivazione del risultato elettorale deve essere individuata nei progressi compiuti nel quinquennio 2005-2010 nel campo dello sviluppo. Tramite il voto, la popolazione avrebbe espresso il proprio apprezzamento per il miglioramento delle condizioni di vita apportato dalle strategie governative e per gli avanzamenti compiuti nel campo della costruzione di infrastrutture e servizi. Inoltre, secondo la stessa fonte, tra i motivi della vittoria dell’EPRDF sono da annoverare gli sforzi compiuti dal governo nella campagna elettorale e il fatto che l’opposizione non abbia saputo dotarsi di una piattaforma politica elaborata con cura e di una struttura organizzativa forte (Ministry of Foreign Affairs 2010; cit. in Tronvoll 2011: 14). Diversamente, per molti analisti internazionali, il fenomeno risulta spiegabile alla luce del processo di consolidamento del potere intrapreso dal partito a seguito della perdita di consensi registrata nel 2005. Dopo aver condotto una serie di meeting in tutto il paese, tra il 2005 e il 2006, per “chiedere perdono per i propri errori e riconquistare l’appoggio della popolazione”, l’EPRDF ha infatti posto nuova enfasi nel coinvolgimento degli abitanti delle aree rurali nelle attività politiche locali, intensificando l’opera di reclutamento dei propri membri, che da 760.000 nel 2005 sono aumentati a più di quattro milioni nel 2008, fino a superare i cinque milioni nel 2010 (Vaughan 2011: 632-633). Inoltre, in molte zone del paese i rappresentanti locali avrebbero incrementato i provvedimenti restrittivi e intimidatori ai danni degli esponenti e dei simpatizzanti dell’opposizione, la maggior parte dei quali è stata cooptata dal partito (HRW 2010a; Tronvoll 2011), mentre i più influenti a livello locale venivano arruolati nei ranghi delle rinnovate strutture amministrative delle kebele (Lefort 2010). Le regole elettorali emesse in vista delle elezioni amministrative del 2008 hanno aumentato il numero di posti nei consigli locali di kebele a 300, rendendo nei fatti impossibile, per le forze di opposizione, aspirare a controllare la maggioranza e rinsaldando la sovrapposizione tra le strutture del partito e quelle dell’amministrazione statale (Aalen, Tronvoll 2009b: 116). […] Il successo dell’EPRDF è dunque riconducibile alla capacità del partito di dispiegare a fini elettorali quell’efficiente macchina di mobilitazione che nel corso della ricerca è risultata la chiave dell’attuazione delle politiche governative e delle strategie di sviluppo sul territorio (Villanucci, 2014: 17-18).

Ad aggravare ulteriormente la storia recente dell’Etiopia ha contribuito il ritorno alle armi solo sette anni dopo la fine della lotta armata contro il Derg, nel conflitto che l’ha vista opporsi alla confinante

Eritrea. Sebbene all’indomani della caduta del regime venne riconosciuta l’indipendenza formale dell’ex territorio coloniale nel 1993 ed i rapporti sembrarono proseguire in maniera cordiale tra i due presidenti chiamati alla reggenza delle nascenti repubbliche, Meles Zenawi da un lato ed Isaias Afewerki dall’altro, già leader dell’EPLF, nel 1998 si assiste allo scoppio di una sanguinosa guerra di confine che ha fatto ripiombare le popolazioni del Tigray e dell’Eritrea in una nuova spirale di violenza, che nel corso dei due anni in cui si è combattuta ha causato ha causato migliaia di vittime, lo spostamento di alcuni villaggi e la chiusura delle frontiere, oltre che una vera e propria persecuzione nei confronti delle popolazioni civili della parte avversa presenti nei propri confini nazionali, verso le quali sono stati commessi atti in violazione dei diritti umani. Tra le ragioni del conflitto devono essere tenuti in considerazione il

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risentimento etiope per la scissione di quella che era la quattordicesima provincia della Nazione, la carenza di accordi economici e commerciali tra i due contendenti, l’assenza di trattati che riconoscessero in maniera chiara i loro confini e le zone d’influenza, l’adesione a sistemi economici differenti e non per ultima l’adozione eritrea di una moneta indipendente diversa dal Birr etiope, il Nakfa (Iyob, 2000). Il cessate il fuoco è arrivato con l’inizio del nuovo millennio: nel 2000 i due governi hanno firmato un accordo ad Algeri che ha sancito la creazione di un’area di “sicurezza temporanea” di venticinque chilometri, la nascita della missione di pace UNMEE (United Nation Mission in Ethiopia and Eritrea) e la nomina di una Commissione Indipendente con l’incarico di tracciare il confine ufficiale, che però non

è riuscita a trovare un accordo che accontentasse le due fazioni. Nel 2008 i Caschi Blu hanno interrotto la loro missione e, sebbene la tensione fra i due paesi sia rimasta molto alta, le armi sono state lasciate tacere.

Gli anni recenti della storia dell’Etiopia sono stati segnati dalla fine della ventennale leadership di

Meles Zenawi, che ha detenuto la carica di Primo Ministro fino al 20 agosto del 2012, data della sua scomparsa a Bruxelles dopo una lunga malattia; a succedergli è stato il suo vice, Hailemariam Desalegn, nominato dal Parlamento. Le successive elezioni, tenutesi il 24 maggio 2015, hanno confermato la reggenza del Primo Ministro e la supremazia dell’EPRDF che ha conservato 546 seggi contro l’unico attribuito alle forze di opposizione. Ben presto, però, la scena politica è stata segnata da rivolte e tumulti, che hanno condotto a pesanti misure repressive da parte del governo e infine alla nomina di un nuovo

Primo Ministro. I disordini hanno seguito le proteste scoppiate nella regione dell’Oromia e dell’Amhara e culminate con la proclamazione, il 9 ottobre, dello “stato d’emergenza”21. Largo clamore mediatico venne assunto, prima dell’emanazione del decreto, dal maratoneta di origine oromo Feyisa Lilesa durante le olimpiadi di Rio, il quale tagliò il traguardo e vinse la medaglia d’argento mimando con le mani il gesto

21 All’epoca del decreto mi trovavo a Mekelle e venni raggiunto, tramite posta elettronica, da una comunicazione emanata dalla Farnesina volta ad avvisare gli italiani in Etiopia del provvedimento. Nella mail venivano specificati gli obblighi, in alcune città, di seguire un coprifuoco nelle ore serali, di evitare gli eventi affollati e di non allontanarsi dal centro cittadino di Addis Abeba a causa dei gravi tumulti accaduti appena fuori dalla capitale, durante i quali era rimasta uccisa anche la ricercatrice statunitense Sharon Gray, colpita da una grossa pietra mentre viaggiava verso una località fuori dalla capitale. Tra gli altri divieti, lo stato d’emergenza ha comportato il blocco dei mezzi di comunicazione informatici e dei social media (Behrane Woldeyesus, 2016). 55

dell’ammanettamento, diventando presto il simbolo delle proteste (Berhane Woldeyesus, 2016: 16). In un numero della rivista Nigrizia, i fatti sono stati ottimamente descritti:

Lo stato di emergenza è stato decretato dopo i disordini scoppiati ai primi di ottobre nella cittadina di Bishoftu (per gli amgara, Debre Zeit). Oltre un milione i partecipanti alla grandiosa manifestazione culturale (irrecha) della tradizione oromo, e tutti a imitare il gesto di Feyisa. A quel punto, si sono scatenati i disordini repressi dalle forze di polizia. Secondo le fonti ufficiali, sarebbero morte 55 persone – oltre 500, secondo l’opposizione – che, anche a causa della calca venutasi a creare, sono precipitate in profonde cavità del terreno nel tentativo di darsi alla fuga. Era stato quest’ultimo evento – preceduto, a partire dal novembre 2015, da ripetute manifestazione antigovernative sia da parte degli oromo sia degli amhara – a generare l’ira in gran parte della vasta regione dell’Oromia, la cui popolazione costituisce il gruppo etnico maggioritario nel gigante del Corno d’Africa, che conta ormai 100 milioni di abitanti. La situazione si era andata deteriorando a partire dal novembre dello scorso anno, quando gli oromo dei territori limitrofi ad Addis Abeba organizzarono manifestazioni per opporsi a un piano governativo mirante a espandere il territorio amministrativo della capitale nelle aree rurali circostanti. L’iniziativa del governo aggravò ulteriormente la situazione di malcontento già diffusa tra gli oromo, gruppo che conta oggi oltre 40 milioni di persone, storicamente marginalizzato, impoverito e da sempre dominato politicamente dai gruppi etnici amhara e tigrino. Di fronte alle proteste, il governo fece marcia indietro e il piano di espansione venne cancellato, ma non prima che nelle manifestazioni perdessero la vita oltre 400 persone e migliaia finissero in prigione. […] Nemmeno un mese dopo, scoppiò un’ulteriore disputa regionale in seguito alla decisione del governo di ritracciare il confine tra la regione dell’Amhara e del Tigray, in favore di quest’ultimo. Il conflitto vide la popolazione amhara insorgere con grandi manifestazioni nelle città di Gonder e Bahir Dar. La rabbia dei dimostranti si rivolse inizialmente contro i tigrini proprietari di negozi e aziende nelle due città, ma poi l’odio si estese e s’intensificò contro la presenza tigrina (ivi: 16-17).

Nemmeno il tentativo di placare le proteste con la sostituzione di 21 dei 30 ministri in carica con la nomina di molti oromo tra i nuovi nominati (ibidem) ha sortito effetti, giungendo così, nel 2018 alle dimissioni di Hailemariam Desalegn e alla nomina di Aby Amhed, uno dei leader oromo all’interno della coalizione. Ad oggi, il nuovo primo ministro ha dato ordine di rilasciare centinaia di prigionieri politici, ha condannato gli abusi e le torture e legittimato la libertà di espressione e ha spinto per la risoluzione definitiva del conflitto con l’Eritrea22, con gli accordi di pace firmati lo scorso 16 settembre dal nuovo primo ministro e dal presidente eritreo Isaias Afeworki a Jeddah, in Arabia Saudita23.

22 https://www.africasacountry.com/2018/08/the-contemporary-state-of-ethiopia 23 http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/africa/2018/09/16/etiopia-eritrea-oggi-firma-accordo-pace_91777dc8- 5993-4721-9c60-6329167bcb68.html 56

7. Il Tigray e la città di Mekelle

La Regione del Tigray, di cui Mekelle è la capitale, si estende sull’altopiano etiope, con un’altitudine che spazia fra i 600 ed i 2700 metri, per superare i 3000 con i suoi rilievi montuosi. Essendo collocata all’estremo nord della Nazione, oltre a confinare con le regioni Afar e Amhara divide le proprie frontiere a ovest con il Sudan e a nord con l’Eritrea. L’area è principalmente arida, in quanto i corsi d’acqua che la attraversano, eccezion fatta per i fiumi Mareb e Tekeze, sono affluenti di scarsa entità e le precipitazioni si concentrano solo in brevi periodi dell’anno (Enciclopedia della geografia, 1996).

Sul piano politico, il Tigray è la storica roccaforte del TPLF, fortemente presente in tutti gli ambiti sociali, non solo attraverso gli eventi commemorativi, i monumenti celebrativi, una precisa forma iconografica che decora strade, negozi e abitazioni private ma anche perché la maggior parte dei ruoli principali nei quadri dell’amministrazione sono occupati da ex-militanti. In particolare, il ricordo della guerra di liberazione dal Derg e delle gesta dei freedom fighters impegnati nel conflitto è ancora particolarmente sentito ed esaltato fino ad essere mitizzato nei discorsi retorici. Come si è visto il TPLF

è stato uno dei movimenti principali che ha guidato la rivoluzione; oltre a questo fattore, inoltre, la stessa provenienza tigrina di Meles Zenawi sembra ancora oggi essere considerata particolare fonte di orgoglio regionale. Secondo i dati forniti relativi al 2007 dalla Central Statistical Agency (CSA), il Tigray ha una popolazione totale di circa 4,4 milioni di abitanti, di cui si stima che l’80% abiti in zone rurali, mentre il restante 20% in zone urbane. La popolazione risulta molto omogenea sia dal punto di vista etnico che da quello religioso: il 96% degli abitanti della regione sono Tigrini, seguiti dalle minoranze degli Amhara,

Irob e Afar. Sotto il profilo religioso, il 96% è di fede etiope ortodossa, il 4% musulmana, lo 0,4% cattolica

(CSA 2008).

La maggiore attività produttiva è l’agricoltura, che si concentra sulla coltivazione di alcuni tipici cereali presenti nei paesi del Corno d’Africa, quali teff, grano, mais, sorgo, ma anche di legumi, tuberi, sesamo, lino, ortaggi e frutta. Assieme all’agricoltura, la pastorizia costituisce l’altro settore principale con l’allevamento di ovini e bovini, oltre che di pollame. Il settore produttivo, quello commerciale e quello dei servizi sono ancora poco sviluppati: la crescita industriale è inoltre legato alla nascita dell’Endowment

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Fund for the Rehabilitation of Tigray (EFFORT), fondato con l’obiettivo di mobilitare e mettere insieme i capitali necessari per i grandi investimenti (Young, 1997).

Le aree urbane sono al giorno d’oggi caratterizzate da profondi interventi infrastrutturali che oltre a modificare l’aspetto delle città sta influendo molto sul tessuto sociale: l’introduzione del sistema capitalista e l’apertura all’economia di mercato avviata dopo la caduta del Derg ha condotto alla creazione di una borghesia imprenditoriale e commerciale, a cui restano però opposte le fasce meno abbienti della popolazione, ridotte ancora ai limiti dell’indigenza, delineando pertanto un contesto caratterizzato da una forte e profonda ineguaglianza sociale. Nelle zone rurali, dove risiede la maggior parte della popolazione tigrina, le condizioni sono decisamente più sfavorevoli: gli abitanti di queste aree vivono in villaggi poco estesi all’interno di vere e proprie capanne con muri a secco, tetti di paglia e prive di pavimentazione24.

Gli abitanti di queste aree vivono soprattutto di agricoltura, sebbene solo poco più del 40% dei caseggiati ha accesso all’acqua potabile (Welfare Monitoring Surveys 2004); tuttavia, il problema maggiore riguarda la carenza di terra: un vasto numero di contadini si ritrova privo di terreni di proprietà o con appezzamenti di piccole dimensioni poco adatti ad essere sfruttati (Young, 1997). L’aggravarsi di un processo di impoverimento, l’aumento della pressione demografica, prolungati periodi di carestie e siccità hanno alimentato un processo di emigrazione verso le città. Il governo regionale ha cercato di arginare questa tendenza favorendo gli investimenti proprio nelle zone più duramente segnate da situazioni di povertà: secondo Young (1997) la decisione di stabilire due importanti complessi industriali nei pressi di Adua e

Adigrat, uno tessile e l’altro farmaceutico, risponderebbe proprio alla volontà di risollevare le sorti degli abitanti di queste aree segnate dai problemi appena evidenziati. Grazie a questi miglioramenti le condizioni sociali ed economiche di alcuni distretti sono andate migliorando, favorendo la creazione di posti di lavoro e la possibilità di impiego e di guadagno molte persone (ibidem).

24 Come accennato precedentemente, abbiamo avuto l’occasione di visitare molte zone del Tigray in compagnia di un agronomo italiano, che proprio per il suo lavoro si recava spesso presso villaggi rurali segnati da una situazione di gravi difficoltà. 58

Al giorno d’oggi si può affermare che, in via generale, la Regione sta attraversando una fase di miglioramento che ha investito tutti i settori, da quello economico, a quello infrastrutturale e quello sociale; tuttavia, certamente ancora molto bisogna fare per colmare le gravi carenze del sistema.

Per quanto riguarda il livello amministrativo, il Tigray è suddiviso in sei diverse Zones, ognuna con una differente estensione territoriale. Una di esse corrisponde all’area urbana di Mekelle, la capitale della regione, che sorge nella sua parte meridionale ed è collocata in una zona montuosa che raggiunge circa i

2000 metri di altitudine. La città ospita circa 300mila abitanti (Mekelle City Administration, 2015), mostrando una continua tendenza all’accrescimento della popolazione. Secondo un’antica leggenda, il primo insediamento risalirebbe al periodo medievale, quando un monaco proveniente dall’area di

Gheralta decise di insediarsi in questa zona per istruire alcuni suoi discepoli e avviarli all’attività religiosa

(Lucchi, 2009).

La sua storia è legata a molte delle vicende che hanno segnato la lunga storia dell’Etiopia, in particolare a quelle che hanno riguardato le sue zone settentrionali: Yohannes IV la scelse come nuova capitale del Regno25, ergendola dunque a centro dell’attività politica; nel periodo coloniale fu inoltre occupata per due volte dai soldati italiani, la prima per pochi mesi a cavallo tra il 1895 e il 1986, poi di nuovo nel 1935 durante l’occupazione fascista e, in seguito, nel periodo post coloniale, fu in mano ai ribelli durante un’insurrezione (in tigrino “Woyane”, nome con cui è divenuta nota) nel 1943, condotta sfruttando proprio le armi lasciate dagli italiani e repressa dalla Gran Bretagna con pesanti bombardamenti aerei (Zewde, 2001). Successivamente fu flagellata da carestie dalle conseguenze tragiche, tra le quali la più devastante fu quella del 1984-85, responsabile di un vero e proprio esodo tra gli abitanti delle zone rurali, le più colpite, che raggiunsero il capoluogo per usufruire del ricovero fornito dai campi profughi allestiti in città; da lì a poco, nel 1989 venne conquistata dalle truppe del TPLF, vedendo incrementare il proprio peso politico in virtù della presa del potere da parte dell’EPRDF e infine, negli anni più recenti, ha subito i devastanti effetti del conflitto scoppiato a ridosso del nuovo millennio tra

Etiopia ed Eritrea, nel corso del quale è stata pesantemente bombardata.

25 In città è ancora presente il palazzo reale del sovrano, attualmente adibito a museo. 59

Dal 1991, l’anno della caduta del regime militare del DERG, la città ha assunto un peso sempre maggiore, diventando una delle città principali del Paese: in città sono presenti le sedi centrali del Governo

Regionale del Tigray, e della regione è anche il cuore economico e strategico: proprio per la sua vicinanza con l’Eritrea, infatti, è diventato anche un importante avamposto militare. Al giorno d’oggi Mekelle si configura come uno dei più sviluppati centri urbani del Tigray, sviluppandosi intorno a un vivace centro urbano che ospita alcune delle sedi principali degli enti governativi regionali, oltre che uffici pubblici e numerose filiali di importanti banche nazionali, tra cui l’imponente struttura della Commercial Bank of

Etihiopia, nel cuore del centro cittadino. Oltre a queste istituzioni nelle strade del capoluogo, spesso pavimentate con ciottoli, sono presenti un infinito numero di negozi, piccoli supermercati, botteghe di orafi e sarti, call center, internet point e soprattutto ristoranti e bar che brulicano a tutte le ore di visitatori.

Assieme a questi piccoli esercizi commerciali sono presenti diverse aree che ospitano mercati di dimensioni notevoli, da quelli ubicati nelle zone centrali a vocazione spiccatamente alimentare a quelli del legname e degli animali posti in aree più periferiche. Non si pensi, tuttavia, che queste zone più remote siano prive dell’effervescenza che caratterizza il centro: anche qui sono disseminati piccoli negozietti, spesso corrispondenti agli ingressi di abitazioni private, e sono presenti grandi infrastrutture come ospedali o, ad esempio, il palazzo della Municipalità. La maggior parte della rete stradale è inoltre costituita da strade asfaltate, sulle quali si muove un’incessante via vai di veicoli: sebbene siano ancora poche, rispetto alla popolazione residente, le vetture private, una fitta rete di piccoli ape car di importazione indiana denominati bajaj e minibus garantisce un rapido collegamento a tutte le zone della città. La presenza di tutti questi servizi, ai quali va aggiunta quella della Mekelle University, considerata da molti dei miei interlocutori come la seconda istituzione universitaria del Paese in quanto a importanza, seconda solo a quella di Addis Abeba, e quella di ulteriori istituti scolastici sia pubblici che privati, fanno del capoluogo tigrino un vero e proprio polo d’attrazione per molti individui e intere famiglie che vi si trasferiscono nella speranza di ottenere maggiori e migliori possibilità.

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Sul piano sociale la crescita economica e infrastrutturale della città ha condotto alla creazione e all’affermazione di alcune élites urbane26, come quelle borghesi imprenditoriali e commerciali o del ceto impiegatizio, ma anche all’inasprimento delle diseguaglianze: agli strati benestanti fanno da contraltare le classi dei meno abbienti, presenti ancora in vasto numero. Esistono ancora sacche di povertà e marginalità assolute, che si evidenziano nella folta schiera di anziani ridotti ai limiti dell’indigenza, mendicanti, invalidi, bambini di strada e individui che vivono di elemosina conducendo le proprie esistenze in una condizione di miseria inaccettabile.

26 Nella sua tesi di dottorato, Emanuele Fantini descrive la formazione, post guerra di Liberazione, dello Stato federale, paragonandolo al periodo del Termidoro francese e spiegando la nascita e il consolidamento della élite rivoluzionaria. Scrive lo studioso: «Analogamente al Termidoro francese (1794-1799), in questi paesi la rivoluzione viene istituzionalizzata attraverso il consolidamento di una élite rivoluzionaria in classe politica professionalizzata e la sua trasformazione in classe dominante grazie all’accumulazione primitiva di capitale resa possibile da un’ambigua inserzione nell’economia mondo» (Fantini, 2009: 24-25). 61

CAPITOLO II – GIOVANI, FUTURO E IMMAGINAZIONE

1. Introduzione

Il capitolo presente inaugura la parte più strettamente etnografica di questa tesi ed è dedicato all’individuazione dei protagonisti della ricerca, attraverso la definizione e la descrizione di cosa voglia dire, nel contesto di Mekelle, appartenere alla categoria della gioventù. Solo dopo questa operazione sarà possibile indagare e concentrarsi su quelle che sono alcune delle principali immagini nelle quali i giovani pongono la propria fiducia, che costituiscono dei veri e propri leitmotiv all’interno delle retoriche più frequenti che accompagnano i discorsi circa il proprio avvenire. Quando parlo di “immagini”, mi riferisco alla definizione che Arjun Appadurai ha fornito della categoria di immaginazione, e cioè come la capacità di pensare alternative possibili per il proprio futuro (2012 [1996]). Per il celebre studioso, si tratterebbe di una pratica sociale alimentata dai nuovi mezzi di comunicazione globale e dalle narrazioni provenienti da coloro che si sono trasferiti altrove – o dalle voci che circolano sul loro conto – attraverso la quale confrontarsi e immaginare altre vite possibili (ivi: 73). Scrive lo studioso:

Il ruolo di immaginazione e fantasia è mutato senza che ce ne accorgessimo. Più persone che mai nel mondo vedono le proprie vite attraverso il prisma delle vite possibili messe a disposizione dai mass media in tutte le loro forme. La fantasia è adesso cioè una pratica sociale che, in modi molteplici, entra nell’invenzione delle vite sociali per molte persone in molte società (ivi: 74)27.

Nel contesto mekellese, non solo i media e i racconti sugli emigrati che hanno trovato fortuna all’estero28 contribuiscono alla creazione di un nuovo immaginario: grazie alla crescente urbanizzazione e all’introduzione di quelle politiche di stampo neoliberale che hanno favorito l’impresa privata sono molti

27 Arjun Appadurai ha recentemente specificato che non il suo intento non era quello di fornire una versione edulcorata dei processi messi in atto dalla globalizzazione. Specifica, infatti, che mentre la possibilità di immaginare vite possibili si sia allargata, fornendo agli individui un maggior numero di alternative pensabili, le reali possibilità di accedervi sia, nei fatti, preclusa alla larga maggioranza degli individui (Appadurai, 2013). 28 L’argomento verrà trattato dettagliatamente all’interno del V capitolo. 62

coloro che, dopo un periodo di lavoro presso paesi occidentali, sono tornati nel capoluogo tigrino per investire il denaro guadagnato all’estero, beneficiando del generoso tasso di cambio tra valuta straniera e

Birr etiope e del basso costo della vita.

Come ha specificato lo stesso Appadurai nel suo “Il futuro come fatto culturale” (2013), il fatto che il prisma delle vite pensabili si sia ampliato non deve spostare l’attenzione dalle profonde ineguaglianze che segnano le reali possibilità di raggiungere gli obiettivi desiderati. Scrive lo studioso:

Ma qui sta la svolta nella capacità di aspirare: in nessuna società, infatti, è distribuita uniformemente. Si tratta di una sorta di meta-capacità, per cui i relativamente ricchi e potenti godono invariabilmente di una più completa capacità di aspirare. Che cosa significa questo? Significa che quanto meglio stai (in termini di potere, dignità e risorse materiali), tanto maggiore sarà probabilmente la consapevolezza dei collegamenti fra la maggiore o minore vicinanza degli oggetti a cui aspiri. Ciò perché coloro che stanno meglio hanno un’esperienza più complessa delle relazioni tra l’ampia gamma dei mezzi e dei fini; perché dispongono di una maggiore riserva di esperienze concernenti i rapporti fra aspirazioni e risultati; perché sono in una posizione più favorevole per esaminare e raccogliere le diverse esperienze di esplorazione e di prova; perché hanno molte occasioni di collegare i beni materiali e le opportunità più a portata di mano alle circostanze e opzioni più generali e generiche. […] Perciò, la capacità di avere aspirazioni è una capacità di orientamento (ivi: 258, corsivo mio).

Ciò non significa, va specificato, che chi non possiede i mezzi – economici, materiali, simbolici e relazionali – non nutra aspirazioni, ma che le reali occasioni per raggiungere i propri obiettivi risultino limitate. In questo passo Appadurai precisa bene quanto appena affermato:

Non sto dicendo che i poveri non possono desiderare, volere, esigere, progettare o aspirare. Ma che la restrizione delle circostanze in cui queste pratiche avvengono è costitutiva della povertà. Se la mappa delle aspirazioni (per continuare la metafora dell’orientamento) viene vista come una fitta combinazione di intersezioni e percorsi, la povertà relativa consiste in un ridotto numero di intersezioni cui aspirare e in un assottigliamento e indebolimento dei percorsi che dai concreti voleri vanno ai contesti intermedi, alle norme generali e ritorno. […] Dove le occasioni per tali congetture e confutazioni rispetto al futuro sono limitate (e questo potrebbe essere un buon modo di definire la povertà), ne deriva che la capacità in se stessa risulta relativamente meno sviluppata (ivi: 259).

Seguendo le preziosi indicazioni metodologiche fornite dallo studioso, devo infine precisare, come ha eccellentemente fatto Ugo Fabietti nella prefazione all’edizione italiana del volume di Appadurai, che bisogna intendere il futuro non soltanto come

[…] un possibile scenario prossimo venturo, ma un elemento dell’immaginario sociale mediante il quale le comunità, i gruppi, le collettività elaborano strategie di adattamento e di sopravvivenza in una realtà dominata dalle forze “impersonali” della finanza, delle strategie mediatiche nonché da apparenti bricolages ideologico-religiosi in un mondo caratterizzato 63

da quella che, oltre un secolo fa, Émile Durkheim chiamò “anomia sociale” (Fabietti, 2014: IX-X).

Quando affrontavo con i miei interlocutori il discorso circa il proprio avvenire, una parola ricorrente – o meglio sarebbe dire onnipresente – nei loro discorsi era quella di “vision”, da intendere appunto come visione o idea per il futuro. La medesima affermazione è stata registrata da Desirée Adami nella sua ricerca di dottorato incentrata sugli ideali di femminilità e di soggettività fra le giovani donne del capoluogo tigrino (2017). Secondo la studiosa, è possibile associare il termine al ruolo dell’immaginazione, della fantasia29 e dell’immaginario sociale, intese come «risorse imprescindibili per la costruzione di soggettività» (ivi: 71). Seguendo Taylor (2002), la studiosa descrive l’immaginario sociale come:

[…] il modo in cui le persone immaginano i propri mondi e la propria esistenza; ai modi in cui i soggetti si adattano gli uni agli altri, sviluppano aspettative, alle emozioni per il loro soddisfacimento o la loro disattesa, alla loro consapevolezza delle norme che regolano l’azione sociale. Gli immaginari sociali sono veicolati da immagini, racconti, storie e finzioni portatrici di significati affettivamente connotati che trovando condivisione nel tessuto sociale si trasformano in atti performativi e alimentano un senso di legittimità (Adami, 2017: 72).

Lo stesso tipo di considerazioni è stato impiegato dall’antropologo americano Daniel Mains nella sua ricerca sui giovani privi di occupazioni stabili a Jimma, nel sud dell’Etiopia. Secondo lo studioso, che si ricollega alla già citata nozione di Appadurai, l’immaginazione assume un’importanza ancor più capillare in contesti nei quali lo iato fra le aspirazioni per il proprio avvenire e la realtà economica e sociale è andato sempre più allargandosi, generando frustrazione e incapacità di posizionare le proprie esistenze all’interno di narrazioni positive. Scrive Mains: «In this contest the imagination takes on great importance. For youth, the ability to continually imagine desirable future enables hope to persist. In the moment that imagination fails, hope is cut» (Mains, 2012: 43).

È per questi motivi che, prima di addentrarsi nelle idee e nelle aspirazioni dei giovani per il proprio avvenire, bisognerà dare ampio spazio a specifiche concezioni, sentimenti e precetti morali che dirigono l’azione e la creazione del desiderio fra i miei interlocutori, analizzandoli e descrivendo il modo nel quale si declinano e operano nelle loro vite.

29 Da intendere come «le idee sul tipo di persona che ognuno vorrebbe essere» (Moore, 1994: 50, cit. in Adami, 2017: 73). 64

Negli ultimi due paragrafi saranno analizzate quindi le due immagini sulle quali i giovani investono maggiormente le proprie aspettative e le proprie energie, che rispondono ad altrettante possibilità che, anche e soprattutto nei discorsi pubblici e nell’agenda politica, vengono indicate come veri e propri volani per la crescita e per lo sviluppo della Nazione oltre che per quello individuale. Si tratta dell’alto valore attribuito allo studio, soprattutto all’istruzione universitaria, e all’obiettivo, frequentemente dichiarato dalla grande maggioranza dei miei interlocutori, di svolgere un lavoro autonomo impegnandosi in una propria attività. Oltre alla descrizione dei discorsi e delle pratiche circa queste immagini, si cercherà di metterne bene in evidenza le loro criticità e le difficoltà che esse possono generare.

2. Definire la gioventù

Per iniziare, dunque, credo che la scelta più giusta sia quella di partire dalla descrizione dei protagonisti di questa ricerca, ovvero i giovani della città. Bisogna immediatamente precisare che, in linea con le fondamentali linee di interpretazione antropologica, parlare di gioventù non vuol dire concentrarsi su una categoria fondata e inclusa entro precisi dati anagrafici ma su «una congiuntura biografica che è sempre localmente, relazionalmente e […] politicamente definita» (Massa, 2016: 124). Alessandro

Simonicca (2009) ha ripercorso i principali approcci della disciplina al tema della gioventù e delle classi di età, mostrando il passaggio da una concezione per cui le diverse fasi della vita fossero pensate come strutture chiuse a una prospettiva che tenesse conto dell’agentività del soggetto a favorire – o a resistere

– il proprio passaggio attraverso di esse. Scrive lo studioso:

La tematica delle “età” e delle “classi di età” in antropologia si conclude teoricamente con la centralità dell’aging come agency, in un percorso che potremmo definire dalla “struttura” alla “azione”. La problematica parte infatti con una nozione di “età” come termine distintivo capace di tessere sistemi di opposizione o complementarità fra datazione biografica e sistema sociale, struttura dei ruoli e accesso per età, allocazione e socializzazione, stratificazione e corso della vita, inserendosi nel più ampio quadro del ciclo di vita del gruppo domestico e della organizzazione e riproduzione di un intero gruppo sociale. Accanto a questa lettura politicamente “pesante” v’e l’altra prospettiva, di stampo fenomenologico, che individua genesi, significato e uso dell’età all’interno di un contesto sociale, tanto nella storia degli studi (Keith-Kertzer 1984; Saraceno 1986; Keith, et alii, 1994), quanto nelle più recenti stagioni di ricerca che ricostruiscono le fasi della vita in termini di costruzione e costituzione sociale e discorsiva delle soggettività (Hockey - James 2003; 2006). In questa prospettiva l’età non è mera precondizione di accesso al ruolo, ma è essa stessa un costrutto negoziato di significati

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collegati a determinati soggetti (“bambino”, “adulto”, “vecchio”, “malato”…) (Simonicca, 2009, 47).

Una volta chiara la connotazione socialmente, culturalmente e localmente costituita della categoria della gioventù e paventandosi quindi la difficoltà di una definizione generale, Deborah Durham

(2000) ha proposto di applicare alla gioventù il concetto, mutuato dalla linguistica, di shifter30. Mary

Bucholtz (2002) ha raccolto questa indicazione, spiegando dettagliatamente il modo di utilizzarla:

A shifter is a word that is tied directly to the context of speaking and hence takes much of its meaning from situated use, such as the deictics I, here, and now. Likewise, the referential function of youth cannot be determined in advance of its use in a particular cultural context, and its use indexes the nature of the context in which it is invoked. As a shifter, then, youth is a context-renewing and a context-creating sign whereby social relations are both (and often simultaneously) reproduced and contested (ivi: 528).

Per avvicinarmi all’esame di come la categoria di gioventù venga pensata e delcinata nel contesto di Mekelle, vorrei utilizzare la citazione fornita da Marco Di Nunzio a proposito dei giovani di Addis

Abeba (2015a). Per lo studioso napoletano, per i suoi informatori l’essere giovani, o “ancora” giovani, permetteva la possibilità di pensare di “avere ancora tempo” per cambiare le proprie esistenze (ivi: 156).

Come si potrà ben immaginare, primo e fondamentale passo – fin dal mio primo soggiorno nel capoluogo tigrino – per apprestarmi alla mia attività di ricerca è stato capire chi fossero gli individui che potessero rientrare in questa categoria. Seguendo le parole dei miei informatori e delle persone a cui ho sottoposto domande inerenti a conoscere le caratteristiche di coloro che potevano essere considerati “giovani”, per quanto riguarda il mero aspetto anagrafico, le loro risposte indicavano una fascia di età che parte dai quindici fino ad arrivare ai trent’anni31. Questo dato trova una corrispondenza quasi del tutto esatta con la definizione precisa riconosciuta dal Governo etiope circa l’età anagrafica in cui una persona può essere considerata giovane: come si legge all’interno della “National Youth Policy”, documento ufficiale del

Governo emanato dal “Ministry of Youth, Sports and Culture” (2004), in questa definizione rientra quella parte della società compresa fra i quindici ed i ventinove anni d’età. I curatori dello stesso documento

30 In italiano, un deittico. In linguistica, appunto, i deittici sono un insieme di forme linguistiche che vanno interpretate necessariamente facendo riferimento al contesto e alla situazione in cui sono prodotti. 31 Questa fascia d’età riflette i valori minimi e massimi che ho avuto modo di registrare durante le varie conversazioni in merito. Non tutti concordavano sull’esatto numero di anni, ma tutte le risposte ricevute sono comprese in uno spettro che non ha mai visto abbassarsi l’età minima per essere considerati giovani sotto i quindici anni né, al contrario, superare i trenta. 66

precisano, nell’introduzione, che non è soltanto l’età biologica a collocare un individuo all’interno di una precisa classe sociale, e che la definizione scelta risulti essere la “most suitable for research and policy purposes” (ivi: 4). Non è solo l’invecchiamento lineare nel corso della vita, infatti, a stabilire la classe, l’età o la generazione nella quale un individuo può essere identificato: queste categorie sono invece socialmente contrassegnate e riconosciute attraverso tappe, rituali, fasi della vita che non seguono un andamento esclusivamente cronologico ma vengono costituite anche a partire da fattori culturali socialmente determinati. Scrive bene Silvia Cirillo, a proposito delle classificazioni generazionali e di età, ribadendo che queste si basano «su modalità apparentemente universali di categorizzare e raggruppare i membri della società» (2015: 78). Anche nel caso della società etiope, seguendo le indicazioni fornite dall’antropologo e storico Jon G. Abbink all’interno dell’Encyclopedia Aethiopica, «age differences are formally distinguished and used as a vehicle for social organization. They usually lead to a ranked order

[…] in terms of social prestige, moral authority or decision-making power» (2003: 145). Altra importantissima indicazione è quella data dall’africanista Dirk Bustorf, il quale sempre all’interno della vasta opera enciclopedica sull’Etiopia, definisce l’età sociale come la più importante all’interno dell’organizzazione sociale etiope a discapito dell’età biologica. Scrive infatti lo studioso: «While the age of a person counted in years is, traditionally, of minor interest, the “social age” or generation class has great importance, as evidenced by the authority that seniority has in all Ethiopian cultures» (2010: 957).

Anche in questo caso, quindi, come in molte altre società, il ciclo di vita di un individuo è determinato da una successione di fasi ed eventi ritualizzati che permettono e allo stesso tempo marcano il passaggio da uno status sociale all’altro.

Partendo da queste definizioni ho dunque cercato di comprendere quali siano i valori sociali cui si è appena fatto riferimento, oltre all’età biologica, che contraddistinguono un individuo come persona giovane. Secondo una categorizzazione anagrafica, la fase della giovinezza costituisce una tappa intermedia, una condizione transitoria tra quella precedente dell’infanzia e quella non ancora raggiunta dell’età adulta. Nel contesto di Mekelle, le caratteristiche principali che segnano l’appartenenza a questa categoria riguarderebbero principalmente il perpetuarsi di quelle condizioni della propria esistenza in cui,

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pur avendo superato l’età dell’infanzia e della fanciullezza, non si è raggiunta l’indipendenza economica, non si possiede un’occupazione fissa o stabile, si è ancora compresi entro l’egemonia dei propri genitori, magari continuando a vivere presso la loro abitazione e, più in generale, non si è ancora sposati o non si

è in grado di poter avviare una propria famiglia. Fra queste considerazioni, l’elemento principale che sembrerebbe caratterizzare un individuo in quanto persona giovane va ritrovato a mio avviso proprio nell’incapacità di questi individui di fare a meno del supporto della propria famiglia di origine: come emerge dalla lettura di “Hope is cut” di Daniel Mains (2012), una delle chiavi di volta per segnare il transito dalla fase della gioventù a quella dell’età adulta sta proprio nella trasformazione dell’individuo da persona che ha bisogno dell’apporto, non solo economico, della propria famiglia o della propria comunità a figura di supporto, in grado di prendersi cura a sua volta dei propri cari e contribuire ai bisogni della società.

Scrive lo studioso: «Progress may be conceived of as a movement from dependence on one’s parents to offering assistence to one’s family and community. Young men’s inability to experience progress was directly linked with their struggles to attain economic indipendence, marriage, and fatherhood» (2012:

78).

Il tema appena preso in considerazione trova a mio avviso una stretta interrelazione con uno degli aspetti linguistici relativi alla definizione del termine “giovane”. La parola tigrina che traduce il termine è

“meneesay”, uguale per femmine e maschi, mentre più interessante a tal proposito è il caso che riguarda i termini “wedi”, da tradursi col maschile “ragazzo”, e “gual”, al femminile, con “ragazza”. Un’accezione particolare dell’uso di questi due termini offre il terreno per approfondire la questione: se poste in modo tale da seguire, infatti, il nome proprio del genitore dell’individuo in questione, le parole assumerebbero il significato letterale di “figlio/a di”. Ponendo un esempio concreto, se il padre di un giovane si chiamasse

Tesfay, suo figlio potrebbe essere riconosciuto come “Tesfay wedi”, così come sua figlia “Tesfay gual”.

Essere giovani ragazze o ragazzi significherebbe dunque essere considerati, anche in forma linguistica, come “figli di”, il che costituisce a mio avviso un indizio ulteriore su quanto la dipendenza dalla propria famiglia sia un elemento fondamentale per la definizione di un individuo quale persona giovane,

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marcando proprio la differenza netta con chi invece, una volta realizzatosi in quanto adulto, può smettere di contare esclusivamente sull’apporto economico dei propri genitori e fornire loro la propria assistenza.

Un’altra interessante questione linguistica riguarda, secondo la mia opinione, la forma usata per indicare gli individui che hanno compiuto il diciottesimo anno di età, quello che per la legge vigente in

Etiopia segna il raggiungimento della maggiore età e sancisce dunque la responsabilità civile e giuridica della persona (ACPF: 2012), la quale sembrerebbe risentire di un’influenza biblica. Di questi individui viene detto infatti che hanno raggiunto “l’età di Adamo” e “l’età di Eva”, tradotti in tigrino rispettivamente con “Akme Adam” e “Akme Ewan”, dove il termine “akme” traduce appunto l’italiano

“età”. Nel racconto biblico Adamo ed Eva, oltre a rappresentare l’uomo e la donna per antonomasia, vengono catalogate come persone adulte e formate, da cui discenderà la progenie dell’umanità.

Certamente la stessa definizione non può certamente essere applicata ai giovani etiopi che, pur avendo raggiunto l’età dei primi uomini, sembrerebbero ancora lontani dal poter essere definiti come individui adulti: nel contesto di Mekelle, in particolare, gli individui che hanno appena compiuto il diciottesimo anno di vita sono ancora compresi in età scolastica, dunque ancora lontani dal raggiungimento di quell’età anagrafica, da un lato, e di quei riconoscimenti sociali, dall’altro, per cui possano legittimamente essere considerati adulti. Le forme culturali che sanciscono il passaggio definitivo verso l’età adulta sembrano riguardare, secondo i dati da me raccolti, alcuni elementi fondamentali tra cui, come ho già accennato, il raggiungimento dell’indipendenza economica attraverso l’ottenimento e il mantenimento di una professione stabile, soprattutto per i giovani uomini che, seguendo ancora una volta le parole di Mains:

«sought to first attain indipendence and then offer economic support to a gradually increasing number of dependents, beginning with their immediate family, expanding to extended kin, and eventually supporting neighbors and other community members» (2012: 81). Prima di potersi dedicare alla cura della propria famiglia e degli altri facenti parte della comunità è quindi necessario dover raggiungere una certa indipendenza e stabilità economica, il che rappresenta una retorica piuttosto frequente emersa durante i colloqui che ho intrattenuto con i miei informatori. Molto spesso infatti, soprattutto nel caso di giovani ragazzi maschi, parlando delle proprie ambizioni mi hanno comunicato le loro intenzioni di badare in

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futuro alla loro famiglia di origine, ai propri cari e agli amici più sfortunati, ma solo a patto di aver prima

“realizzato se stessi”. Questo caso rientra a mio avviso entro una particolare concezione dell’essere adulti, incentrata su una forma di mascolinità socialmente riconosciuta che è stata documentata anche in altri studi relativi all’Etiopia e più in generale nel contesto africano (Cole, 2004; Johnson-Hanks, 2006).

Sebbene quest’ultima affermazione tenda ad evidenziare una certa propensione che parrebbe poter essere attribuita esclusivamente alla sfera maschile, non si pensi che il desiderio di affermare se stessi in quanto persona che si prende cura dei bisogni altrui sia inviso invece alle donne. In molti casi giovani ragazze mi hanno espresso il loro desiderio di provvedere ai bisogni della propria famiglia di origine e di persone care (cfr. Adami, 2017). Dalle voci di tutti coloro, maschi e femmine, cui ho domandato quali desideri volessero vedere realizzati nel loro prossimo futuro ho potuto ascoltare questa ambizione. Come emerge da vari studi svolti in diversi paesi dell’Africa, il matrimonio rappresenta uno dei principali marcatori che segna il passaggio verso l’età adulta e che permettere di fare esperienza diretta di un reale cambiamento all’interno delle proprie condizioni di vita (Meillassoux, 1981; Fortes, 1984;

Hutchinson, 1996; Stambach, 2000). Anche in questo caso, prima di poter compiere un cambiamento tanto carico di aspettative e di significati, i miei giovani interlocutori mi spiegavano che avrebbero prima dovuto raggiungere una posizione tale da poter sobbarcarsi le spese matrimoniali, garantire un’abitazione alla nuova famiglia che si sarebbe generata e soprattutto poter crescere i propri bambini, considerati come conseguenza naturale del matrimonio, dando loro la possibilità di vivere in condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di chi li ha messi al mondo.

Riassumendo brevemente quanto appena detto, il quadro che emerge dai dati analizzati verrebbe a caratterizzare la persona giovane in quanto, su un piano strettamente biologico e anagrafico riconosciuto in forma ufficiale dalla legislazione etiope, individuo appartenente ad una fascia d’età compresa fra i quindici ed i ventinove anni. Naturalmente l’età biologica non restituisce una definizione completa e questo fattore viene accompagnato da ciò che è stato definito come età sociale, che a ben vedere rappresenta, anche nel caso dell’Etiopia, il più importante fattore caratterizzante. Chi viene ad essere identificato come persona giovane risponde dunque ad una condizione che vede l’individuo ancora

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compreso entro l’egemonia del controllo dei genitori, della famiglia d’origine o più in generale della comunità, da cui continua a dipendere per i propri bisogni primari e che ambisce, a sua volta, a raggiungere una posizione tale da potersi fare carico delle necessità altrui.

La dialettica autonomia-dipendenza cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente non può essere analizzata concentrandosi solo su una delle due parti in essa coinvolte. Uno studio sui giovani, come sostengono Erdmute Alber, Sjaak van der Geest e Susan Reynold Whyte (2008), non può prescindere dall’analisi dei rapporti che intercorrono fra i membri di questa categoria e la loro controparte all’interno di questa dialettica, la generazione precedente da cui essi dipendono. Non sempre, tuttavia, gli studi condotti in Africa su temi quali i rapporti di parentela o le generazioni hanno raggiunto questa consapevolezza, focalizzandosi esclusivamente su una sola precisa categoria, come ad esempio quella dei giovani oppure degli anziani, mentre al giorno d’oggi la necessità di concentrarsi sulle relazioni che intercorrono tra i membri di generazioni differenti, soprattutto se coinvolte entro un’ottica dialogica, affettiva e conflittuale quale può essere proprio quella che vede protagonisti i vecchi e i giovani, ha acquistato uno spessore sempre maggiore (Cole – Durham, 2007). Prima di procedere, occorre fare chiarezza sul significato differente che può essere inteso quando si parla di generazioni. Se escludiamo per un momento la nozione che riguarda il legame famigliare indicato con questo termine, uno dei suoi principali significati indicherebbe una delle categorizzazioni all’interno delle quali vengono suddivisi i membri di una società. Nell’introduzione alla loro opera “Generations in Africa”, i già menzionati curatori del volume di saggi sul tema scrivono a proposito della definizione appena presa in considerazione:

«Generation is a relational term that refers to familiar reproduction but by extension may denote categories of seniors and juniors in society at large» (Alber – van der Geest – White, 2008: 4). In questo caso, non essendo necessariamente impiegato per indicare legami genealogici di parentela, il termine generazione assumerebbe la stessa nozione a cui rimanda il concetto di età. Entrambi sono infatti criteri con cui effettuare una classificazione basata su una posizione biologica e su una progressione in termini temporali attraverso l’avanzare nel corso dell’esistenza, le cui fasi, come già ricordato, sono segnate da una serie di passaggi e azioni ritualizzate. Pertanto risulta evidente il rimando, in questo senso, del termine

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generazione verso un principio attraverso cui è possibile strutturare l’organizzazione della società

(ibidem). Un’ulteriore importante definizione di questo concetto che non sia connesso con l’idea di un legame di parentela è quello che Karl Mannheim istituisce nel suo saggio classico del 1927-28 “The problem of generations” (1972: 276-322), col quale procede a rimuovere la componente biologica insita in esso.

Secondo il sociologo ciò che unisce i membri di una generazione – o meglio sarebbe chiamarla “coorte”32

(Alber – van der Geest – White, 2008: 5) proprio per distinguerla dalla definizione che indica una relazione genealogica – sarebbe l’aver fatto esperienza comune di un particolare evento storico venutosi a verificare in una precisa collocazione temporale. Non solo: perché gli individui possano essere considerati all’interno dello stesso gruppo è necessario che essi siano vicini tanto in senso anagrafico quanto nel contesto geografico. L’autore precisa infatti che: «No one, for example, would assert that there was community of location between the young people of China and Germany about 1800» (1972: 297-

298); e che inoltre «Some older generation groups experience certain historical processes together with the young generation and yet we cannot say that they have the same generation location» (ibidem). Ciò che in quest’ultimo caso marca la differenza fra i membri delle differenti generazioni è una diversa

“stratificazione” delle coscienze: secondo il sociologo le coscienze individuali sarebbero plasmate a partire da quelle “prime impressioni”, che sorgono facendo esperienza per la prima volta di un particolare fenomeno, alle quali si aggiungeranno, nel corso della vita, le sensazioni delle esperienze successive. Ecco la differenza principale tra le generazioni, e specialmente di quella che intercorre fra giovani e anziani: se il modo di essere esposti ad un determinato avvenimento storico varia a seconda delle coscienze individuali, e se queste ultime vanno a costituirsi sulla base delle prime esperienze che ne segnano i connotati, risulta evidente che il modo attraverso cui il preciso evento storico che essi vivono viene percepito e vissuto non potrà mai essere pienamente condiviso. Tuttavia ciò che marca questa differenza rappresenta ciò che viene definito dall’autore come la “collocazione generazionale”, la quale, paragonata dal sociologo stesso al concetto di “classe”, condiziona le intuizioni, i ricordi, le facoltà cognitive e quindi

32 La definizione di coorte come unità di individui esposti al medesimo evento storico in un uguale intervallo di tempo è stata utilizzata per la prima volta dal sociologo Norman B. Ryder in un saggio del 1965, dal titolo “The cohort as a concept in the study of social change” (in American sociological review, vol. 30, n. 6). 72

il modo di pensare degli individui che ne fanno parte33, e rappresenta solo il “potenziale” per una forma di azione sociale (ivi: 303). Per poter giungere a parlare di generazioni storiche in senso proprio occorre che si stabiliscano delle “unità generazionali”, le quali «significano un reagire unitario, una pulsazione e una configurazione affine di individui all’interno della stessa generazione. Nell’ambito dello stesso legame generazionale possono quindi formarsi più unità di generazione, antiteticamente opposte fra loro»

(Mannheim, 1974: 356).

Nel caso della società etiope e ancora più precisamente nel contesto di Mekelle, l’esposizione comune a un evento storico e soprattutto l’agire collettivo marcano la differenza fra la generazione di quei Freedom Fighters protagonisti delle insurrezioni contro il regime del Derg, e quella dei loro stessi figli, costituenti l’attuale generazione di giovani. Come hanno registrato diversi colleghi (Villanucci, 2014;

Adami, 2017), il ricordo della lotta di liberazione è ancora fortemente sentito e celebrato, fino ad essere quasi mitizzato. Ebbene, molto spesso, parlando con gli adulti, questi ultimi tendevano a evidenziare la differenza fra la loro generazione e quella attuale basandola proprio sullo sforzo e sui sacrifici compiuti durante la guerra. Mentre la precedente generazione di giovani, di cui molti di questi interlocutori aveva fatto parte, veniva esaltata per aver combattuto per la libertà della Nazione, arrivando a sacrificare la propria vita per essa, i membri di quella attuale mi venivano spesso descritti come pigri e svogliati. Inoltre, mi è capitato molto frequentemente di ascoltare i giudizi di quegli adulti che attribuivano le cause della vasta disoccupazione giovanile soltanto alla loro mancanza di spirito di sacrificio e di iniziativa.

Le considerazioni che le diverse generazioni fanno della propria controparte rappresenta uno degli argomenti emersi con maggiore frequenza durante le conversazioni che ho intrattenuto sul campo.

In particolare, una retorica molto comune riguarda non solo l’attitudine a formulare giudizi ma proprio quella circa la facoltà dell’avere giudizio, di essere cioè persone sagge e responsabili. Quest’ultimo elemento viene considerato in Etiopia, come in altri paesi africani (ma anche occidentali), uno dei vari marcatori che contraddistinguono il passaggio verso la fase della maturità, dunque dell’età adulta. In uno

33 Per comprendere appieno il senso di quanto detto potrebbe essere utile accostare le idee del sociologo tedesco a quelle che Émile Durkheim definì come “rappresentazioni collettive” (1898) e al pensiero di Maurice Halbwachs intorno al concetto di “memoria collettiva” (1949). 73

studio recente sulle condizioni delle giovani ragazze madre in Tanzania, Mette Line Ringsted (2008: 357-

378) mostra le difficoltà insite nel definire lo status sociale di un individuo nel caso in cui una giovane in età adolescenziale dia alla luce un nuovo nato senza tuttavia accettare il passaggio verso l’età adulta sobbarcandosi le responsabilità che essa comporta. Per essere considerati come adulti, scrive, un individuo deve essere riconosciuto in quanto dotato di “senso sociale”, la saggezza cioè di prendere decisioni moralmente apprezzabili e affrontare le proprie responsabilità. Le ragazze madri che lasciano ai propri genitori la cura dei neonati vengono giudicate e criticate non solo per essere rimaste incinte nelle circostanze sbagliate, ma anche e soprattutto poiché additate di mancare di quella virtù di giudizio necessaria per essere considerati persone mature.

3. Obblighi sociali, doveri morali

Alla domanda circa i desideri per il proprio avvenire, posso affermare senza timore di generalizzare che tutti i miei interlocutori mi hanno risposto dicendo di voler realizzare gli obiettivi appena presi in considerazione, manifestandomi la loro volontà – se non la necessità – di contrarre matrimonio, diventare genitori e passare da una posizione di necessità a un ruolo di sostegno (per i propri genitori, per gli altri familiari e per la propria comunità), quindi alle caratteristiche principali, come si è visto, di ciò che significa ricoprire il ruolo di persona adulta, realizzando un percorso di avanzamento sociale. Lo stesso tipo di retoriche circa il progresso e il successo personale è stato registrato da Daniel

Mains nella sua ricerca fra i giovani di Jimma, nel sud dell’Etiopia. Scrive l’antropologo:

The aspirations of young men followed a general narrative that placed individual success secondary to one’s relationship to family and community. Each step in this narrative contributes to the attainment of the next step. Young men often explained that after finding quality employment, they wanted to first help their parents and siblings before starting a family on their own. […] Once this was accomplished, young men expected to leave their parents’ home, usually for the purpouse of marriage. After marriage, children were thought to be a natural consequence. […] For most young men, after first helping their parents and siblings and then starting their own families, the ultimate goal was to help their community (2012: 69).

Queste idee di progresso e successo individuale non costituiscono, semplicemente, i cardini delle aspirazioni personali dei miei interlocutori, ma rispondono a canoni precisi stabiliti dalle norme

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comunitarie. Oltre alla loro volontà di aderire a questi canoni, i miei informatori mi hanno manifestato, altrettanto frequentemente, il proprio timore – e in molti casi la propria frustrazione – di non riuscire a raggiungerli. Sono numerosissime le persone che mi hanno parlato di ciò che essi stessi definivano come una pressione sociale, da parte della famiglia, dei conoscenti e degli amici, di cui temevano il giudizio. I marcatori sociali del passaggio dei giovani allo status di adulti mi venivano presentati come veri e propri obblighi, e sembrerebbero costituire una importante fonte di stress che fa dire a molte delle persone con cui ho interagito di sentirsi oppressi da “forze costringenti” dalle quali sembra impossibile evadere.

Questo tipo di sentimenti poggia su un concetto particolare che permea la vita dei miei interlocutori, noto nella lettura scientifica internazionale con il termine yilunta34. In lingua tigrina, invece, il medesimo concetto viene espresso col termine sikifta35.

Questo termine indicherebbe al tempo stesso la paura dei gossip e di un giudizio negativo da parte degli altri, assieme al sentimento incorporato del sapere di dover agire secondo principi ritenuti onorevoli e socialmente condivisi. L’allontanarsi da quelle che sono norme socialmente condivise porterebbe, secondo il giudizio dei miei interlocutori, a un giudizio negativo da parte della propria famiglia e dei propri conoscenti. Più dettagliatamente, quindi, provare l’yilunta vuol dire vivere una profonda vergogna basata su ciò che gli altri possono dire o pensare di un individuo e della propria famiglia. Scrive Eva Poluha nella sua ricerca sull’infanzia in Etiopia a proposito del significato di questo termine: «[Yilunta] means that you not only heed what other people will say about you and your family, but that you perpetually worry about it. To have yelugnta means always to act with an eye to the possible reactions of the people who surround you» (2004: 147). La studiosa evidenzia il carattere perenne di questo sentimento di timore reverenziale verso il giudizio altrui, specificando che esso abbia influenza diretta sulla capacità d’azione delle persone,

34 Il modo in cui riporto questo termine si basa sulle trascrizioni che mi sono state fornite dai miei traduttori a Mekelle. Tuttavia, nella letteratura internazionale è facile trovare diversi modi di trascrivere lo stesso termine, anche a causa della non uniformità nel modo di trascrivere l’alfabeto ge’ez sia in lingua amarica che in lingua tigrina. Il tipo di translitterazione che mi accingo a utilizzare si trova anche nel lavoro di Paula Heinonen (2011). Altri autori come Eva Poluha (2004) trascrivono il termine con “yelugnta”, mentre Daniel Mains (2007; 2012) usa la forma “yiluññta”. 35 La traduzione del termine tigrino corrisponde esattamente a quella della variante amarica. Il bilinguismo dei miei interlocutori, che si esprimevano tanto in amarico, la lingua nazionale, quanto in tigrino, li portava a utilizzare spesso entrambe le forme durante le nostre conversazioni. Constatata la perfetta aderenza di entrambi i termini al medesimo concetto, utilizzerò in questo testo la sua variante in amarico, per aderire alla letteratura internazionale e per non appesantire, con una versione ulteriore, la già ampia differenza dei modi di translitterazione del termine. 75

continuamente preoccupate dalle possibili conseguenze negative che potrebbero ricadere sulla propria reputazione. Dello stesso avviso è Daniel Mains, che registra le medesime preoccupazioni nella città di

Jimma, nel sud dell’Etiopia. Scrive l’antropologo statunitense: «Yiluññta is like a mosquito faintly whining in the ear, a reminder that others are watching and judging» (2007: 660). L’yilunta si configura, per questi autori, come un dispositivo di controllo sociale, considerazioni portate avanti anche da Paula Heinonen

(2011). La studiosa affronta l’argomento nella sua ricerca fra bande giovanili e bambini di strada, collegandolo appunto ai concetti di orgoglio e onore. La studiosa, che definisce quella etiope come una società “basata sulla vergogna”, scrive:

The “wider Ethiopian culture” is shame-based. The ideal Ethiopian child, male and female, is one that has been inculcated with and internalised a deep sense of yilunta. Roughly translated, yilunta means having a heightened perception of what others may say or even think about what one does in private or in public. Most importantly, yilunta means having a deeper sense of shame in personally knowing that one has done something shameful regardless of what people may think or say or even whether anyone knows about it (ivi: 41, corsivo dell’autore).

In quanto sentimento incorporato e dispositivo di controllo culturale, il concetto di ylunta potrebbe a giusta ragione essere paragonato a quello di habitus, per come postulato da Pierre Bourdieu

(1972). Per il filosofo francese esso rappresenta l’insieme delle disposizioni incorporate dell’individuo: quelle percezioni, valutazioni e azioni che contraddistinguono la capacità di agire delle persone, da intendersi nella doppia veste del risultato di un’azione organizzatrice impersonale e della rappresentazione individuale dei “modi di essere” (Pizza, 2012: 41). L’habitus è quindi al tempo stesso «strutturato e strutturante»: le disposizioni sono strutturate dal contesto sociale in cui si vive e strutturanti poiché capaci di riprodurre nuove rappresentazioni della realtà e nuove pratiche sociali (ibidem). Come altri dispositivi di controllo, l’yilunta viene rinegoziata, sfruttata o manipolata dagli individui. Nella sua ricerca di laurea magistrale sulle bande giovanili, anche Mario Marasco (2016) si è confrontato col tema, riprendendo il già citato lavoro di Heinonen e istaurando un dialogo (tutt’ora aperto e ricco di punti in comune per entrambi) col mio precedente lavoro (Salvati, 2015). Lo studioso descrive i modi in cui l’yilunta sia ampiamente manipolata nelle strategie messe in atto dai suoi interlocutori, e scrive:

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L’yilunta non è dunque un dictat dell’agire sociale, è sì un concetto incorporato ma non dai connotati graniticamente definiti: la vergogna da rifuggire e l’onore da far rispettare sono relativi ai termini dell’esistenza degli attori sociali, ovvero così come quei termini sono da essi di volta in volta esperiti; vergogna e onore sono relativi alla posta che è realmente in gioco nell’attualità delle loro vite e dei loro mondi morali, e dunque al loro posizionamento nella stratificazione sociale, nella rete di relazioni e delle loro possibilità di agire (Marasco, 2016: 171-172).

Fin dalla mia prima attività di ricerca a Mekelle ho avuto modo di constatare l’importanza dell’yilunta nelle vite dei miei interlocutori36, registrando opinioni molto simili a quelle descritte dagli studiosi sopra citati. Per porre alcuni esempi di quanto importante e ricorrente sia questo sentimento, che agisce sulle vite dei miei interlocutori, riporto un dialogo avvenuto, durante i periodi più recenti della mia presenza sul campo, col mio amico e interprete Afeworki, collaboratore e traduttore, da molti anni, di diversi membri della MEITE. Nel luglio del 2017, seduti nella tranquillità e nella riservatezza di una bunna bet, Afeworki mi spiegò la frustrazione derivante dal non avere ancora un’occupazione stabile e ben remunerata:

Non lavoro da mesi, mi sto deprimendo. Per qualche settimana avevo accettato un posto di lavoro come barista pur di fare qualcosa, per non stare a casa a deprimermi. Ho sempre pensato che anche pochi soldi sono meglio di niente, ma soprattutto per me la questione era avere qualcosa da fare, stare bene, stare sereno. Non lo facevo per i soldi, ma per fare qualcosa. Ora tu lo sai, non sono mai stato il tipo da provare certi sentimenti, come yilunta, non mi è mai importato, però un giorno mentre lavoravo al bar è capitato che alcuni miei parenti sono venuti al bar [il suo viso assume un’espressione spaventata] e mi hanno urlato contro. «Che ci fai qui?!», mi hanno detto. Vedi, qui c’è un rapporto diretto tra lavoro e dignità…si pensa ancora che fare dei lavori pagati poco o dei lavori umili significhi offendere la famiglia. Ma è un fatto storico, vecchio di centinaia di anni, non lo puoi cambiare da un giorno all’altro. Per farti un esempio, qualche settimana fa un mio parente è venuto a trovare mia nonna e li ho sentiti parlare. Ora loro sono anziani, ma parlavano della servitù come se non fossero nemmeno umani37.

36 Nel mio precedente lavoro di laurea specialistica (Salvati, 2015), mi sono concentrato – seguendo gli spunti teorici forniti da Mains (2007; 2012) – sull’importanza dell’yilunta per quanto concerne la scelta di alcuni giovani di rimanere privi di occupazioni stabili piuttosto che svolgere occupazioni storicamente soggette a stigma. 37 In alcune regioni etiopi e più in generale in diversi paesi del corno d’Africa, mestieri artigianali quali falegnami, fabbri, tessitori e ceramisti sono stati storicamente stigmatizzati almeno fino agli anni settanta del secolo scorso. Seppur con notevoli differenze ideologiche, il trattamento riservato a questi lavoratori era simile a quello delle classi inferiori del sistema delle caste indiane (Levine, 1974; Pankhurst A. 2001). Alula Pankhurst (2001) spiega che i lavoratori manuali erano marginalizzati in termini spaziali, economici, politici e sociali: i matrimoni con i non artigiani gli erano proibiti, non avevano diritti legislativi sulla proprietà della terra ed in molti casi lavoravano come mezzadri in proprietà altrui, costretti a versare i prodotti del proprio lavoro al padrone del terreno. Inoltre secondo lo studioso essi non osservavano gli stessi tabù alimentari dei Cristiani Ortodossi e dei Musulmani, tanto da essere tacciati di mangiare le carni di animali proibiti come il maiale o addirittura di bestie selvagge, come le scimmie e gli ippopotami ed essere pertanto non ammessi a condividere il cibo e a mangiare insieme ai membri di classi più agiate, una delle più importanti attività sociali in Etiopia. Un’ulteriore accusa nei loro riguardi era quella di possedere il malocchio (buda), una grave diffamazione che pesava sulle loro già logore condizioni di vita (ibidem). Sebbene la discriminazione verso questo tipo 77

Altri esempi raccolti durante periodi recenti della ricerca dimostrano invece in modo più dettagliato il ruolo dell’yilunta nel desiderare di raggiungere quei marcatori sociali quali il matrimonio e la genitorialità per segnare il proprio passaggio all’età adulta. Uno dei casi sui quali mi vorrei soffermare è quello di Hagos, un uomo di 34 anni che incontrai, per caso, durante un pomeriggio di settembre del

2016 mentre, nell’attesa di incontrare un amico, prendevo un caffè in una piccola bunna bet poco distante dalla sede mekellese di Save the Children, la nota organizzazione internazionale. L’uomo lavorava proprio per l’organizzazione e dopo il nostro incontro casuale, divenne uno dei miei più assidui informatori. Un giorno mi raccontò in questo modo la sua volontà di sposarsi:

Hagos: Voglio sposarmi, fare quello che devo. Vedi, quando arrivi a una certa età la tua famiglia inizia a chiederti quando ti sposi. Me lo dicono tutti i giorni! È difficile da spiegare, quando sei single la tua relazione con la società è diversa… per esempio, quando ci sono eventi sociali come matrimoni, feste, andarci da soli genera tristezza, solitudine. Ma soprattutto se sei single senti…senti qualcosa…

Gianmarco: [Notando la sua difficoltà di spiegare i suoi sentimenti] Yilunta?

Hagos: [Sgranando gli occhi, con un’espressione di sorpresa e quindi esplodendo in una fragorosa risata] Sì! Esatto! Come fai a saperlo!? Quando sei single avverti i rumors della gente…sei preoccupato da quello che pensa la tua famiglia, da quello che pensano i tuoi amici. Loro sono preoccupati per te, possono pensare che hai un problema. Adesso sono pronto, sono maturato abbastanza, ho un buon lavoro, posso prendere una casa, formare una famiglia.

Questo breve esempio raccoglie alcune delle retoriche che ho ascoltato con maggiore frequenza, e ribadisce come la volontà di contrarre matrimonio sia avvertita come una vera e propria necessità tanto per completare un percorso di maturazione personale quanto per aderire alle norme comunitarie ed evitare, in questo modo, il sentimento dell’yilunta.

Un esempio ulteriore, questa volta da un punto di vista femminile, arriva dalla testimonianza di

Helen38, all’epoca del nostro primo incontro, nell’agosto del 2016, giovane donna di 25 anni. Helen aveva un master in ingegneria del software e desiderava proseguire, come i suoi fratelli maggiori, il proprio

di lavoratori venne ufficialmente vietata durante il regime marxista militare del Derg, ancora oggi essa sembra influenzare le nozioni di status occupazionale (Mains, 2012: 29). 38 Come per gli altri casi, si tratta di un nome di fantasia. Si riferisce a una persona con la quale sia io che Désirée Adami siamo stati in contatto e abbiamo condotto interviste, seppur essendone venuti a conoscenza soltanto diversi mesi dopo il nostro primo incontro – avvenuto a poche settimane di distanza – con la giovane. Helen è il nome di fantasia che Adami le ha attribuito nella sua tesi di dottorato (2017), quindi, parlando della stessa persona e citando alcuni episodi particolari che hanno riguardato entrambe le nostre ricerche, mi riferisco alla ragazza nello stesso modo della mia collega. 78

percorso di studi attraverso un dottorato all’estero. Seppur altamente determinata a raggiungere questo obiettivo, sul quale pesavano anche le aspettative di suo padre, Helen lasciava spesso trasparire ansia e insicurezza circa il proprio avvenire (cfr. Adami, 2017: 272 e ss.). Uno dei punti critici che lasciavano intravedere sentimenti di frustrazione e di insoddisfazione era proprio il discorso circa il raggiungimento del matrimonio e della genitorialità. Helen perseguiva entrambi gli obiettivi, che voleva coniugare con il perfezionamento del suo percorso di istruzione superiore e il desiderio di fare carriera nel suo settore di studio, inseguendo il sogno di diventare docente universitaria. Passando, talvolta durante le stesse conversazioni, da uno stato di fiducia a uno di frustrazione, molto spesso Helen parlava del suo progetto di realizzarsi sul piano educativo e lavorativo e, successivamente, sposarsi e diventare madre. Il cambio di umore, spesso repentino, che accompagnava i suoi discorsi in merito riguardava la consapevolezza della ragazza di aver raggiunto un’età anagrafica per la quale, stando alle norme comunitarie, avrebbe già dovuto essere diventata madre. Anche Désirée Adami si è concentrata sulle considerazioni altalenanti di

Helen, parlando della doppia presenza di un “sé individualista”, “moderno”, e di un “sé morale” che si costruisce in adempimento ai vincoli e alle norme sociali:

La contraddizione delle sue parole non deve essere letta come un’incoerenza personale, come un’indecisione nelle proprie scelte. Piuttosto essa va esaminata alla luce delle più ampie trasformazioni socio-economiche che investono la società locale e gli istituti culturali che guidavano il passaggio di status e con esso un pieno e sicuro riconoscimento sociale. Il problema per Helen e per le altre protagoniste di questo studio non è semplicemente come raggiungere alcuni aspetti di una femminilità moderna, ma piuttosto come costruire un possibile spazio di una maternità opportuna all’interno dei valori parzialmente conflittuali che sono disponibili. Quella retorica di stampo neoliberale, di cui si è fatto cenno prima, per cui il futuro della donna (e con esso, più in generale, quello della nazione) è nelle sue mani e dipende dalla “appropriatezze” delle sue scelte, si scontra col tessuto connettivo comunitario, per cui valori di più lunga durata sono difficili da scalfire. La sottile convivenza tra logica individualista che porterebbe all’affermazione di un sé moderno e sviluppato, e logica comunitaria che riconosce un sé “morale”, sembra avere una scadenza temporale che ancora una volta si riversa sul corpo riproduttivo delle donne. Una giovane ragazza tra i 25 e i 28 anni, istruita e con una propria indipendenza economica, se da un lato rappresenta un modello di successo per le più giovani e un riuscito esempio dello sforzo statale in direzione dell’empowerment delle donne, dall’altro è anche una figura distopica rispetto alle più tradizionali aspettative sul genere femminile (2017: 275-276).

Un dettaglio particolare dell’abbigliamento di Helen si rivelò di fondamentale importanza per comprendere in che modo l’yilunta agisse su di lei e quale fosse la strategia che la giovane impiegasse per sfuggire ai gossip e a un giudizio negativo. Dal primo momento in cui ci conoscemmo, le vidi infatti 79

indossare sempre un piccolo anellino con brillante all’anulare della mano sinistra, che lei stessa dichiarava essere un anello di fidanzamento donatole dal suo promesso sposo. Diversi mesi dopo il nostro primo incontro, invece, Helen mi rivelò – cosa che fece anche con Désiréee – il suo segreto: non si trattava di un anello di fidanzamento; la ragazza lo indossava con lo scopo di farsi credere fidanzata e quindi prossima al matrimonio per evitare commenti negativi su di lei.

Nell’ottobre del 2016 ero seduto insieme a Helen in uno dei più frequentati bar del centro, osservando distrattamente il passeggio delle persone sul far della sera. All’improvviso la mia giovane amica assume un’aria triste, diventando stranamente – data la sua personalità conviviale e vivace – taciturna. Ho preso nota della conversazione scaturita in seguito alla mia domanda su cosa fosse accaduto, che è a mio avviso esemplare dei suoi stati d’animo e di quanto sto cercando di sostenere in queste pagine:

Helen: È la mia debolezza. Ho visto una persona…era una mia amica, abbiamo studiato insieme. [Scorgendola nuovamente tra la folla] La vedi? È quella con la borsa bianca. Guarda, ha una bambina. Abbiamo la stessa età. A 25 anni dovrei essere sposata, avere dei bambini.

Gianmarco: [Conoscendo ormai da tempo gli obiettivi della mia amica circa la volontà di proseguire i suoi studi e quindi, in seguito, diventare madre] Non devi abbatterti, non sei debole! Sei forte perché sta seguendo i tuoi obiettivi.

Helen: I miei obiettivi…e quali sono gli obiettivi di una ragazza? Sposarsi e avere figli!

Gianmarco: Se vuoi sposarti dovresti avere una relazione. Tanto per cominciare, perché non e togli quell’anello e accetti qualche invito?

Helen: [Dopo un breve silenzio] Yilunta? Sai cosa direbbero se mi vedessero senza anello e scoprissero che non sono ancora fidanzata? Mi direbbero «qual è il tuo problema?» e direbbero che sono sola perché nessuno mi vuole.

La mia interlocutrice richiamava una delle retoriche più comuni che ho avuto l’occasione di ascoltare e che, ironicamente, lei stessa era solita ripetermi quando mi chiedeva perché mai, alla soglia dei trent’anni e con un dottorato in corso, non fossi ancora sposato. «Qual è il tuo problema», mi dicevano lei e la stragrande maggioranza dei miei interlocutori ogni volta che affrontavamo l’argomento, facendomi intendere che, nella mia posizione lavorativa e anagrafica, avrei dovuto quantomeno essere sposato.

Pur non affrontando direttamente la questione dell’yilunta a proposito della nostra amica comune,

Adami analizza lo stratagemma messo in atto da Helen allo stesso modo:

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Il continuo riposizionarsi tra un desiderio e l’altro, tra una preoccupazione e una sua smentita, crea quasi un senso di vertigine e ammanta il discorso di un’angoscia palpabile, ma rende finalmente chiaro il bisogno di protezione rappresentato da quell’anello di fidanzamento che indossa Helen e che la mette al riparo da (pre) giudizi imbarazzanti. Esso, inoltre, le consente per il momento di superare simbolicamente le contraddizioni della sua condizione attuale, potendo così continuare verso la traiettoria di vita intrapresa, la quale, lontano dall’essere lineare e certa, è piuttosto attraversata da tensioni e da punti interrogativi. Le incertezze che lacerano la ragazza riguardano sia il raggiungimento di una vita futura desiderabile e desiderata sia, di riflesso, l’affermazione di sé stessa come donna matura moderna, ma anche moralmente accettata (Adami, 2017: 277, corsivo mio).

Prima di proseguire, c’è una constatazione ulteriore che va mossa commentando gli esempi etnografici appena riportati. I miei interlocutori parlavano della loro volontà di contrarre matrimonio solo dopo aver completato il loro percorso di crescita e di successo personale. Nel caso di Hagos ed Helen, il primo dichiarava di essere pronto a sposarsi ora che aveva un buon lavoro e poteva quindi provvedere alla formazione della propria famiglia, mentre la seconda desiderava perfezionare i suoi studi e fare carriera nel suo settore. Questi elementi coincidono con una retorica estremamente diffusa nel contesto di Mekelle, e cioè la volontà di voler condurre una “good life”, una buona vita, vero e proprio leitmotiv delle mie interviste. La “buona vita” cui facevano riferimento riguardava il fatto di svolgere lavori ben remunerati, di possedere una casa di proprietà o anche, come detto da molti, un’automobile. Si tratta di veri e propri simboli di benessere e di modernità, cose che, come sottolineato da Vacchiano, eccedono il loro valore d’uso e la loro materialità in quanto prodotti e si legano a precise rappresentazioni della modernità, costruite a loro volte su stili di vita “globali” fatti di realizzazione di sé e riconoscimento sociale (2012: 7). Comaroff e Comaroff (2005), d’altronde, hanno descritto accuratamente come la gioventù rappresenti il target privilegiato della “cultura dei consumi” (Massa, 2016: 127), e hanno rivelato somiglianze straordinarie fra i giovani di tutto il mondo (2001). Nel suo saggio sui desideri di mobilità sociale e geografica della gioventù eritrea, Aurora Massa ha giustamente notato che «le aspirazioni e i sogni giovanili prendono infatti forma anche su una scala globale ed egemonica di valori morali e standard di successo, che definisce ciò che è “moderno” e, di conseguenza, desiderabile» (2016: 127).

L’analisi del concetto di yilunta e quindi l’esame degli obblighi morali e dei doveri sociali che regolano le interazioni fra gli individui – e influiscono sulla percezione che essi hanno di loro stessi – sono utili per discutere delle caratteristiche che determinano il costituirsi di un rapporto di amicizia e 81

quali sono le regole che gli individui coinvolti in questa relazione sono chiamati a rispettare per dirsi, appunto, “buoni amici”. Mettere l’amicizia sotto la lente d’ingrandimento dell’indagine antropologica, evidenziando i meccanismi e le dinamiche che sottendono questo tipo di interazione, servirà da base per prendere in considerazione le relazioni di sfondo entro cui si snodano queste dinamiche e riflettere intorno alle categorie di dono, sostegno economico e reciprocità, che costituiscono una risorsa fondamentale per i giovani di Mekelle tanto per sopperire alle difficoltà della vita quotidiana che per lavorare attivamente alla costruzione delle possibilità per il proprio avvenire39.

Fin dai primissimi giorni in cui mi recai per la prima volta in Etiopia i miei interlocutori, con lo scopo di introdurmi a quelle che ritenevano essere nozioni fondamentali per comprendere la loro realtà sociale, esaltavano con enfasi l’alto valore attribuito all’amicizia. Nei dialoghi quotidiani erano onnipresenti retoriche secondo cui il popolo etiope sarebbe stato il più amichevole e generoso del continente africano, se non del mondo intero, con menzioni particolari agli abitanti di Mekelle e del Tigray come ai più amichevoli fra gli amichevoli. Negli aneddoti personali, nelle storie famigliari, nelle vicende storiche e politiche e nei racconti mitologici di antenati illustri si scorgevano spesso elementi che insistevano col rimarcare il valore dell’amicizia fino ad ergerla a elemento identitario socialmente condiviso. Fino nelle barzellette, nelle storielle raccontate dai bambini e nei modi di dire era possibile ritrovare il topos dell’individuo etiope, meglio ancora tigrino, disponibile e generoso che apre le porte della propria casa allo straniero o allo sconosciuto, per poi finire quasi sempre con l’esserne gabbato.

Come sostenuto da Daniel Mains (2012; 2013), in Etiopia i sentimenti di affezione sono inestricabili dall’interesse personale. Anche a Mekelle, le relazioni di amicizia comportano affetto, stima e lo scambio reciproco di beni materiali, e la constatazione che gli individui investano strategicamente nelle relazioni per ottenere vantaggi tanto nel breve periodo quanto nel futuro più o meno prossimo è un elemento ampiamente discusso nei prossimi capitoli (cap. III, par. 2-3-4; cap. IV par. 2-3) e nei lavori di altri colleghi che hanno lavorato in Etiopia (Di Nunzio, 2012; Adami, 2017).

39 Parte delle riflessioni mosse nelle pagine seguenti circa le relazioni di amicizia nel contesto di Mekelle sono confluite in un articolo (Salvati, 2018) che sarà presto pubblicato in un volume, curato da Pino Schirripa e Aurora Massa, dedicato agli studi condotti dalla MEITE durante primi dieci anni dalla sua costituzione (Massa – Schirripa, 2018). 82

Ciò che intendo sostenere è che l’amicizia sembra comportare necessariamente l’interesse economico, secondo una concezione per la quale il calcolo e l’affetto non sono elementi conflittuali ma sostenuti da un principio di reciprocità40. La condivisione, l’aiuto reciproco e lo scambio di regali paiono essere non solo qualità associate all’idea di amicizia, ma anzi sembrerebbero addirittura essenziali al significato più profondo di cosa voglia significare essere un amico. In questo senso concordo con la definizione usata da Daniel Hruschka nel descrivere le relazioni amichevoli come a «social relationship in which partners provide support according to their abilities in times of need, and in which this behavior is motivated in part by positive affect between partners. A common way of signaling this positive affect is to give gifts on a regular basis» (2010: 68).

In generale, lo scambio di doni e di attenzioni reciproche erano all’ordine del giorno in molti contesti pubblici: quotidianamente mi capitava di assistere nei piccoli treruote e nei minibus, ai battibecchi per il pagamento della corsa tra conoscenti che si erano incontrati casualmente nella vettura; allo scambio reciproco di birre alla spina tra amici che assistevano a una partita di calcio nello stesso locale, tutto per consolidare e testimoniare il proprio sentimento di amicizia. Uno dei temi maggiormente ricorrenti durante i discorsi che intrattenevo con i miei amici e informatori circa questo scambio vicendevole di doni e attenzioni riguardava il fatto che secondo il loro giudizio era praticamente inimmaginabile pensare a un amico che seppur con pochi soldi in tasca non invitasse gli altri compagni. In molti casi, quando chiedevo esplicitamente se fosse possibile che una persona in possesso di una somma di denaro non la condividesse con i propri amici la risposta, dopo attente riflessioni, era che sarebbe potuto succedere in potenza, ma che in effetti mai nessuno si sarebbe comportato in questo modo. In altre parole, sembrerebbe che il condividere ciò che si ha con i propri amici non sia un obbligo, mentre il non farlo andrebbe a violare i veri principi dell’amicizia. Uno degli aspetti più interessanti circa questo tipo di intendere l’amicizia nel contesto di Mekelle emergeva quando veniva affrontato nelle nostre conversazioni il discorso circa la possibile volontà di una delle parti coinvolte nella relazione di voler

40 Il concetto di reciprocità è stato oggetto di numerose riflessioni teoriche, riletture e rivisitazioni. Per un riepilogo delle maggiori linee di pensiero intorno a questo argomento si rimanda al saggio di Matteo Aria: “Dono, hau e reciprocità. Alcune letture antropologiche di Marcel Mauss” (2008:181-219). 83

approfittare dell’amicizia altrui solo per ottenere un vantaggio personale. A tal proposito, gli interlocutori a cui ho fatto notare questa implicazione hanno risposto che alla base di una leale relazione amicale c’è sempre un forte sentimento di affetto, proprio in virtù del quale si dona con piacere. In alcuni casi ho potuto prendere nota delle parole di coloro che, incalzati su questo tema, hanno affermato di aver conosciuto persone interessate esclusivamente a trarre vantaggio dalla loro frequentazione e che pertanto non potevano essere considerati veri amici poiché privi di affetto nei loro confronti.

A ben vedere, questo tipo di reciprocità inerente e al tempo stesso necessaria all’idea di amicizia sembrerebbe modellarsi sulla più classica quanto conosciuta delle teorie sul dono, quella resa celebre in seguito alla pubblicazione del Saggio sul dono di Marcel Mauss (1965 [1923-24]: 153-292), secondo cui l’atto del donare sarebbe basato sui tre momenti fondamentali del “dare, ricevere e ricambiare”. Nel contesto di Mekelle, il legame affettivo sarebbe dunque il perno fondamentale attorno cui ruota la circolarità del dono: gli amici sinceri sarebbero coloro i quali sono pronti a prendersi cura dell’altro condividendo i propri beni e prestando, all’occorrenza, il proprio supporto non solo morale ma soprattutto materiale, oltre che economico. A loro volta, chi riceve aiuto è pronto a ricambiare quando si presenterà l’occasione o quando potrà trovarsi nelle condizioni tali dall’offrire il proprio supporto, andandosi così ad affrancare da quella posizione di debito verso l’altro in cui ci si è venuti a trovare.

La compresenza nel contesto di Mekelle di elementi come affetto, condivisione, calcolo e interesse economico quali fattori che caratterizzano le relazioni di amicizia non deve, quindi, essere vista come qualcosa di nuovo o inusuale. In un recente contributo, Matteo Aria (2016) ha raccolto ed esaminato le riflessioni di importanti studiosi, capiscuola di diverse linee interpretative nel dibattito antropologico, a proposito dei discorsi sul dono. L’autore mostra come già a partire dallo stesso Mauss l’interpretazione dello scambio tenesse conto di una «combinazione tra interesse e disinteresse, tra libertà e obbligo», oltre a essere visto come un’interazione fra persone che ottemperavano a obblighi morali, per cui «lo scambio dei beni materiali è solo un aspetto di un’ampia gamma di trasferimenti non economici» (ivi: 19). Gli scambi che avvengono fra amici a Mekelle possono quindi essere interpretati secondo un’ottica che potrebbe dirsi maussiana: a reggere lo scambio reciproco e la condivisione sono degli obblighi morali –

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secondo le concezioni esaminate nelle pagine precedenti – e si articolano in modo equidistante tra altruismo e tornaconto personale, fra necessità e disinteresse.

4. “I want to be my own boss”

Alla domanda circa le idee per l’avvenire, la stragrande maggioranza dei miei interlocutori ha risposto affermando di voler intraprendere progetti di autoimprenditorialità. Sia che coloro con cui stessi affrontando l’argomento fossero persone istruite o che si fossero fermate ai primi cicli di apprendimento, tutti ripetevano indistintamente la frase che dà titolo a questo paragrafo: «I want to be my own boss». Senza timore di esagerare, generalizzando, posso affermare che rileggendo le interviste e gli appunti presi nel corso della mia attività di ricerca è più facile contare le persone che non abbiano menzionato questo leitmotiv piuttosto di quanti lo abbiano ripetuto. Essere il capo di se stesso, avviare un’attività in proprio, risponde evidentemente a un desiderio di realizzazione personale e, si potrebbe dire, individualista. Nel contesto mekellese, e più in generale etiope, ci sono delle considerazioni che bisogna necessariamente tenere in conto, che dimostrano quanto la dimensione individuale sia inscindibile da quella collettiva (Di

Nunzio, 2015b; Villanucci, 2014). Ho già ricordato nel paragrafo precedente le parole di Daniel Mains, che scrive come le narrative di progresso personale dei suoi giovani interlocutori a Jimma si piazzino in modo secondario rispetto alle relazioni di questi ultimi con le loro famiglie e con la loro comunità (2012:

69). Le retoriche di chi sostiene di voler intraprendere un’attività privata si coniugano però anche in linea con l’ideologia, condivisa dai vertici politici della nazione e dai suoi abitanti, secondo cui la crescita economica e sociale dell’individuo comporti, inevitabilmente, la crescita stessa del Paese. Marco Di

Nunzio (2015b) ha descritto brillantemente le strategie statali messe in atto dalla coalizione del EPRDF nel promuovere attivamente la diffusione e l’implementazione di attività imprenditoriali da parte di privati cittadini41. Secondo lo studioso napoletano, l’interesse dello Stato per questo tipo di attività è motivato da due ragioni principali:

41 Lo studioso dimostra con meticolosità come, per coloro i quali non abbiano una rete di contatti nel mondo imprenditoriale preesistente, l’autoimprenditorialità si risolva molto spesso in un fallimento, e che quindi l’implemento di questa opzione finisca col riprodurre le medesime condizioni di marginalità e di differenza sociale per quanti si trovano in condizioni di esclusione e di difficoltà economica. 85

The first is political and strategic. Vaughan and Tronvoll (2003) have pointed out that the EPRDF has long understood the political value in being seen as the main deliverer of development. This informed the government’s commitment to promote entrepreneurship among the poor. Indeed, the implementation of small-scale enterprise schemes in inner city Addis Ababa followed a period of intense political conflict, namely the 2005 post-election riots. That year, opposition parties registered a significant electoral success, particularly in the capital, and directly challenged the leadership of the ruling party. […] In the following years, small-scale enterprise schemes then served the EPRDF’s interest in winning back the support of urban groups, particularly the youth, which the ruling party had lost to the opposition parties. (Di Nunzio, 2015b: 1186-1187).

Da un lato, quindi, avrebbe rappresentato un modo per riacquistare visibilità e consenso soprattutto fra i settori più giovani della popolazione, quelli che, secondo i discorsi ufficiali della politica, erano stati etichettati come “disoccupati pericolosi” (ibidem) che avrebbero espresso il loro dissenso attraverso il voto alle forze di opposizione.

La seconda ragione è di tipo ideologico e si lega alle retoriche sullo sviluppo della nazione:

Another reason for the government’s engagement with small-scale enterprises is ideological and developmental. The politics of the ruling party, especially at the highest level, is informed by an ideological commitment to development: delivering development and economic growth for the country pervades the sense of mission through which Ethiopian political elites validate and justify their leadership. Thus the government’s implementation of small-scale enterprises has not been exclusively concerned with political mobilization; it has also been an attempt to deal with what the government considers the ultimate reason for the 2005 youth unrest: unemployment. To address this problem, the government has not simply provided “employment”. Entrepreneurship schemes have been designed to promote behaviour change in the urban youth: young people are envisioned to become entrepreneurs and create their own employment. Notably, entrepreneurship is not intended in its liberal meaning as a venture which is primarily individual. The EPRDF subscribes to a notion of entrepreneurship shaped by a political ideology, namely, Revolutionary Democracy, a political paradigm in fundamental opposition to notions of liberalism and individualism. Informed by Marxist-Leninist ideas of democratic centralism and proletarian democracy, the leadership of the EPRDF envisage a society in which the individual is conceptualized as part of the whole, committed to the common good and collective development of the country (Vaughan, 2011). Within this ideological framework, entrepreneurship is promoted as collectivist and development oriented: participants in government entrepreneurship schemes, and business people in general, are urged to contribute to the collective growth of society whilst pursuing their business ventures (ibidem).

L’ottima analisi di Di Nunzio mette bene in evidenza come i vertici statali abbiano non solo promosso i progetti di autoimprenditorialità per rafforzare la propria leadership, facendosi promotori della crescita e dello sviluppo della nazione, ma anche per favorire un cambio di attitudine fra i giovani stessi, facendo ricadere su di essi la responsabilità di crearsi in modo autonomo un’occupazione. Lo studioso specifica bene, inoltre, come in nome della Democrazia Rivoluzionaria - l’ideologia di base che 86

guida la giovane Repubblica – l’individuo venga concettualizzato come una parte del tutto e che, dunque, la crescita del singolo comporti inevitabilmente lo sviluppo collettivo.

Un esempio di quanto le ideologie statali abbiano pervaso le retoriche dei miei interlocutori sta nelle parole di Rahel, una giovane donna di 26 anni che ho conosciuto nell’agosto del 2016. Era la proprietaria della prima galleria d’arte nata in città, ubicata nella traversa di una delle strade principali del centro cittadino. La galleria ospitava una mostra permanente di giovani artisti tigrini ed etiopi in una piccola abitazione trasformata in studio, mentre all’esterno, in un curatissimo giardino, si svolgevano tutte le attività principali promosse dal centro artistico, come incontri di letteratura, arte e spettacolo che richiamavano ogni weekend decine e decine di giovani appassionati. La presenza di un bar nel centro costituiva le entrate principali della galleria, cui contribuiva, in maniera minore, anche la vendita delle opere d’arte ospitate, i cui ricavi venivano divisi fra gli artisti e la galleria. Nel commentare il successo della sua attività, Rahel mi raccontò con orgoglio:

Rahel: Questa è la prima galleria d’arte che sia mai stata costruita, non solo a Mekelle ma in tutto il Tigray! Sono molto felice del successo di questo posto, perché non sono soltanto una business woman, ma sono soprattutto una imprenditrice sociale [social enterpreuner]. Se cresco io, cresce tutta la comunità.

Gianmarco: In che modo pensi che il tuo successo sia utile alla crescita della comunità?

Rahel: Secondo diversi punti di vista. Sul piano economico, ogni volta che qualcuno compra da bere al bar contribuisce a pagare le tasse, che vanno al governo. Poi anche io pago le tasse, e questo è un bene. Poi, dal punto di vista sociale, questo posto è stato pensato come un luogo di aggregazione e di incontro, dove le persone possano conoscersi e imparare. Vedi, il bar non serve alcolici, ma solo soft drink, caffè e succhi freschi, mentre in tutti gli altri bar si servono birra e alcol, e anche il khat42. Per fare un business quello sarebbe un ottimo investimento, ma non è buono per formare persone buone. È per questo che qui c’è un’atmosfera pacifica e rilassata, per questo sono così attenta al verde, ai colori. Le persone che vengono qui possono leggere, possono imparare. E soprattutto e tiene a precisare che sia l’entrata che il wi-fi sono liberi, così tutti possono usare internet, informarsi e rilassarsi.

Come si vede dalla testimonianza di Rahel, oltre al contributo economico fornito attraverso il pagamento delle tasse e delle imposte, la mia giovane interlocutrice si definiva un’imprenditrice sociale in quanto perseguiva l’obiettivo di formare “good people”, come mi disse in un perfetto inglese, invitandoli alla lettura e alla conoscenza del mondo dell’arte e della letteratura. Nei mesi in cui ho frequentato il posto

42 Vd. Cap. IV. 87

ho assistito a manifestazioni artistiche, dibattiti alla presenza di storici, filosofi, studiosi e professori della

Mekelle University, capaci di attirare diverse decine di spettatori.

Altra testimonianza importante a proposito di queste retoriche, imbevute di ideologia politica, proviene dalle parole di uno dei miei più cari amici e informatori sin dalla mia prima attività di ricerca sul campo, Kebrom, che lavora come guida presso il Museo del Memoriale dei Martiri della Lotta di

Liberazione dal Derg. Durante uno dei nostri incontri, il mio amico si espresse in questo modo a proposito della possibilità di avviare una impresa propria:

Vedi, Marco, i nostri padri hanno combattuto per la libertà, hanno combattuto per il bene di tutta la Nazione! I Freedom Fighters43 si sono sacrificati per noi! Adesso anche noi [l’attuale generazione di giovani] dobbiamo combattere per il bene del Tigray, per il bene dell’Etiopia. Ma come? Non come hanno fatto loro, con le armi, ma dobbiamo cambiare! Dobbiamo crescere! Ci dobbiamo migliorare [improve], perché se miglioriamo noi, allora miglioriamo tutti! Anche noi siamo combattenti!

Le parole di Kebrom segnano la differenza rispetto alla passata generazione, quella dei Freedom

Fighters, la cui lotta ha portato alla caduta del Derg e a quella che viene indicata, nelle più comuni retoriche nazionaliste, come la conquista della libertà. L’ideale dello sviluppo collettivo perseguito attraverso la crescita – ciò che Kebrom chiamava il “cambiamento” – personale veniva visto dal mio amico come l’impegno che spettava all’attuale generazione di giovani, che aveva, al pari di quella precedente, l’obbligo di “lottare” per il bene comune.

Un altro esempio – che offre lo spunto per una questione ulteriore – risiede nelle parole del mio amico e interprete Afeworki, il quale coltivava il desiderio di avviare una propria attività44 ma, nell’estate del 2017, stava svolgendo un lavoro part-time per pochi mesi come segretario di un college privato. Il giovane commentò in questo modo le sue idee imprenditoriali:

Sai, in questo momento è una cosa buona mettere su un business, le persone si stanno abituando a un buon servizio e vogliono sempre prodotti migliori. Le cose sono cambiate, prima se un parente apriva un ristorante, per esempio, uno andava a mangiare da lui per favorirlo anche se il servizio non era dei migliori, ma adesso le cose sono cambiate, le persone sono diventate imparziali e questo è un bene, perché si favoriscono i business che offrono il

43 Il nome con cui vengono identificati i combattenti della guerra civile che ha portato alla caduta del Derg. 44 Nel corso del 2018, l’amico e collega Mario Marasco è tornato a Mekelle dove ha potuto seguire gli sviluppi della storia personale di Afeworki, con il quale ha continuato a lavorare in qualità di interprete. Il nostro traduttore, alla fine, ha aperto una casa d’appuntamenti, tenendo tuttavia segreto il suo investimento alla famiglia (Conversazione personale con Mario Marasco, luglio 2018). 88

miglior servizio! Se sei il proprietario di un business puoi fare molti soldi, puoi cambiare. E se cambi tu, cambia tutta la società. Per esempio, guarda mia sorella. Lei ha un salario fisso tutti i mesi. Se fai un lavoro salariato come quello di mia sorella hai lo stesso stipendio tutti i mesi, fai sempre lo stesso lavoro, fai sempre le stesse cose, diventa pesante. Non è perché sono pochi soldi, ma soprattutto perché vedi, nella vita una persona ha bisogno di vedere un cambiamento, un miglioramento. E poi, a seconda che ti impegni molto o poco hai sempre lo stesso stipendio ogni mese. Per questo nessuno si impegna troppo in un qualcosa che non gli appartiene, perché anche se ti impegni tantissimo alla fine il salario sarà sempre lo stesso. E poi ci sarà sempre il tuo boss a controllarti! Io odio questo tipo di controllo. Voglio essere libero. Devi essere a lavoro alle 8, andare in pausa per il pranzo e poi tornare fino alla sera. E poi il tuo boss starà lì a dirti “fai questo, fai quello”! Io so come fare il mio lavoro! Per questo non voglio avere un boss e voglio essere il mio stesso boss [My own boss]! Invece se lavori in proprio, quello che metti in più lo ritroverai per te stesso! Gli sforzi che fai vanno ad arricchire te stesso, non qualcun altro. Invece con un lavoro salariato se fai poco o sei fai molto guadagni sempre lo stesso, e gli stipendi sono bassi. Poi devi rispettare un sacco di orari, di ordini, devi partecipare ai meeting. Tu lo sai, mi conosci, non ho mai avuto sentimenti nazionalisti o cose così…ma i tigrini sono sempre stati grandi lavoratori, anche per una questione geografica. Se guardi il sud e il centro sono fertili e adatti all’agricoltura. In Tigray invece ci sono solo montagne e rocce, quindi la gente ha dovuto lottare per sopravvivere e si è dovuta ingegnare. Ancora oggi, in tutta Etiopia, la maggior parte dei business man in tutta l’Etiopia proviene dal Tigray.

Le parole del mio giovane amico e traduttore contengono alcune delle retoriche che ho ascoltato con maggiore frequenza. Oltre alle già accennate questioni circa la crescita individuale che viene fatta coincidere a quella collettiva, Afeworki affrontava una questione ulteriore che è stata spesso sollevata dai miei interlocutori: l’annosa questione dei meeting. Secondo le voci di quanti me ne hanno parlato, uno dei problemi principali derivanti dall’avere un lavoro salariato, soprattutto nel settore pubblico, scaturisce dall’obbligo di dover partecipare a costanti riunioni di aggiornamento, che a causa della loro frequenza e della loro lunga durata, porterebbero via gran parte del proprio tempo libero. Anche Alessia Villanucci, nella sua tesi di dottorato, ha registrato le medesime considerazioni, evidenziando come il governo centrale utilizzi meeting pubblici e privati, assieme alle celebrazioni rituali, con lo scopo di mobilitare e far aderire la popolazione a iniziative amministrative e di sviluppo (Villanucci, 2014: 63). Scrive la studiosa:

I meeting scandiscono sia la vita politica e comunitaria della kebele sia la vita lavorativa nei settori pubblici. In ogni istituzione governativa – dagli uffici amministrativi federali, regionali, di zona e di woreda, ai settori dell’educazione, della salute (scuole, health centers…), e così via – le decisioni e le valutazioni vengono effettuate in sede di meeting e gli impiegati sono frequentemente impegnati in attività assembleari di varia entità. […] I meeting, ricorrenti, frequentissimi, apparivano a molti dei cooperanti da me incontrati come uno dei fattori che maggiormente impedivano il raggiungimento dei risultati previsti nei tempi rapidi imposti loro dall’agenda degli aiuti internazionali. Le lamentele dovute al fatto di recarsi spesso negli 89

uffici governativi, previo appuntamento, e di non trovare i propri interlocutori perché impegnati in un meeting, erano costanti […]. In realtà, i meeting costituiscono un meccanismo centrale nella produzione del sistema di governance etiope. Sembrerebbe pertanto di assistere allo scontro di due paradigmi, quello neoliberista del sistema degli aiuti umanitari e quello sviluppista e partecipativo del governo dell’EPRDF, che in realtà si integrano nella realtà nazionale e locale e si alimentano vicendevolmente (ivi: 82, corsivo dell’autrice).

La spinta all’autoimprenditorialità e la volontà di essere il proprio datore di lavoro, assieme alle teoriche circa i bassi salari, le numerose ore di lavoro e la questione dei meeting, fanno sì che fra i miei interlocutori, il lavoro salariato, in modo particolare nel settore del pubblico impiego, sia visto come un’opzione da scartare a priori. Pochissime delle persone – di ogni estrazione sociale – con i quali ho affrontato l’argomento hanno dichiarato che avrebbero svolto volentieri un lavoro governativo. È importante esaminare, alla luce del lavoro svolto in Etiopia meno di dieci anni fa da Daniel Mains (2012), come gli sviluppi dell’Etiopia contemporanea abbiano condotto a una netta differenza nell’arco di pochi anni. Come infatti scriveva lo studioso americano nella sua ricerca sulla gioventù etiopica di Jimma, i suoi interlocutori perseguivano l’obiettivo di svolgere un impiego governativo nonostante i salari che non eccedevano – e in taluni casi neanche eguagliavano – gli introiti provenienti dal settore privato (2012: 31-

36).

5. “La conoscenza è saggezza”

Nel paragrafo precedente ho fatto notare le differenze che, nel corso degli anni, hanno interessato la volontà di diventare imprenditori autonomi piuttosto che svolgere un lavoro pubblico, che come ha descritto Mains costituiva fino a pochi anni fa uno degli obiettivi maggiormente agognati dai giovani per il proprio avvenire. Una continuità con il lavoro dell’antropologo americano sta invece nella fiducia accordata all’istruzione superiore come volano per la crescita e il successo personale e quindi collettivo del Paese. Scrive Mains:

At the base of young men’s narratives of progress was the notion that education should enable a person to achieve his goals. Both adults and youth often repeated the Amharic proverb “The one who eats and learns will never fail” (Yebelana yetemare wodeko ayewodikim), which expressed a widespread belied in the value of education. Being well fed and well educated in that both provide resources to withstand difficult times. […] Despite the apparent decrease in the utility of education in creating access to employment, most young people in Jimma were still convinced that education was the key to their success (2012: 72). 90

In continuità con le osservazioni di Mains, anche a Mekelle la convinzione che tramite l’istruzione superiore gli individui possano ottenere lavori ben remunerati e realizzare le proprie ambizioni di successo

è fortemente presente fra giovani di ogni estrazione sociale. In tutte le interviste, le conversazioni e i dialoghi informali che ho svolto, i miei interlocutori hanno sottolineato la loro fiducia nell’educazione come mezzo per migliorare le proprie condizioni di vita, sia che essi fossero studenti o persone che non hanno potuto proseguire il proprio percorso di istruzione scolastica, i quali guardavano con rammarico alla loro impossibilità di sfruttare quella che consideravano una grande possibilità. Tra i miei interlocutori, il numero di persone che non ha potuto continuare la propria istruzione – almeno nel settore dell’educazione pubblica – ha rappresentato la porzione senza dubbio più numerosa. Per accedere agli ultimi anni di istruzione secondaria e quindi, in seguito, all’università pubblica45, è infatti necessario sostenere un importante esame, che ha rappresentato per molti dei miei interlocutori la fine del proprio percorso educativo:

Il sistema educativo etiope prevede infatti un periodo di istruzione inferiore (Primary Education) della durata di otto anni, che racchiude gruppi di età che vanno dai sei ai quattordici anni, diviso in due cicli, il primo dal grade 1 al grade 4 ed il secondo dal grade 5 al grade 8. Al termine del grade 4 gli alunni devono sostenere un esame nazionale per procedere al livello successivo; alla fine del grade 8, invece, sostengono l’esame per ottenere il Primary School Certificate. I primi due cicli di istruzione inferiore sono quindi seguiti da due anni di istruzione secondaria (General Secondary Education), alla fine dei quali, raggiunto il grade 10, gli studenti devono sostenere un importante esame gestito dal Ministry of Education’s National Organization for Examinations noto appunto come “grade 10 exam”, superato il quale si viene in possesso dell’Ethiopian General Secondary Education Certificate, che permette di accedere a due successivi anni di istruzione superiore. Il grade 10 rappresenta una delle tappe fondamentali nel percorso di studi in quanto sancisce la demarcazione principale tra livelli d’educazione scolastica ed ha costituito, per molti dei giovani, sia maschi che femmine, con i quali sono stato in contatto, la fine della loro istruzione pubblica. Il ciclo successivo di apprendimento, anche questo della durata di due anni, prevede inoltre la scelta di due percorsi, divisi tra scienze naturali e sociali, al termine del quale è previsto un esame ulteriore (Ethiopian Higher Education Entrance Examination) per coloro che vogliano accedere ai livelli di istruzione superiore (Higher Education) che culminano l’ottenimento di un diploma; questo nuovo percorso può avere una durata differente tra gli uno e i due anni e viene seguito dai percorsi di laurea triennali

45 I corsi di laurea di primo livello (Bachelor) sono pagati anticipatamente dal Governo e poi rimborsati dagli studenti una volta entrati in possesso del titolo di studio e di una professione (sebbene non sia in possesso di dati che possano confermare – o smentire – questa versione dei fatti, sono molti gli informatori che mi hanno spiegato la facilità di non ripagare il debito contratto con l’Università a causa degli scarsi controlli da parte delle istituzioni). Allo stesso modo, gli studenti che vogliano continuare gli studi con una laurea specialistica devono provvedere al pagamento delle tasse per gli anni precedenti e solo successivamente potersi iscrivere. 91

(Bachelor) e quelli specialistici di uno o due anni (Master), fino ad arrivare ai dottorati (Salvati, 2015: 110-111).

La fiducia nello studio non riguarda soltanto la crescita individuale delle persone ma riguarda qualcosa di molto più ampio. L’enfasi sul valore dell’istruzione come mezzo per elevare la propria condizione sociale è andata infatti di pari passo con la convinzione, da parte dei vertici politici della Paese, che la grande diffusione dell’istruzione sarebbe risultata il mezzo principale attraverso cui rendere l’Etiopia una nazione più competitiva a livello internazionale, e ha rappresentato un punto di contiguità tra l’Impero di Heile Selassie, il regime dittatoriale del Derg guidato da Mengistu e la proclamata

Repubblica fondata dall’opera dell’EPDRF di Meles Zenawi. Tutti i leader che si sono succeduti concordavano sul valore essenziale dell’istruzione per il futuro del Paese e hanno devoluto ingenti risorse per la costruzione di scuole (Mains, 2012: 9). L’alto valore simbolico attribuito all’istruzione è tutt’oggi presente a Mekelle anche in una precisa forma iconografica: all’interno di molte delle case in cui sono stato ospite le immagini più frequenti con le quali si adornano le pareti, subito dopo i quadri di Gesù,

Maria, i santi e le fotografie dello scomparso ex primo ministro Zenawi, sono i ritratti dei giovani diplomati e laureati della famiglia, immortalati con tocco, toga e spesso con il titolo acquisito tra le mani.

Non in secondo piano a tal proposito, è la considerazione da parte dei suoi abitanti, della Mekelle

University come fiore all’occhiello dell’intera regione del Tigray e orgoglio della città, il cui valore celebrativo si manifesta sin dai giganteschi cartelloni posti agli ingressi principali del capoluogo tigrino, che attestano la scritta “Welcome to Mekelle, the city of Knowledge”.

Un indizio ulteriore in forma iconografica è presente anche nello stesso simbolo del TPLF. Nel corso delle numerose visite che ho compiuto al plesso museale del Memoriale dei Martiri della lotta di

Liberazione, da cui si erge un maestoso obelisco visibile da ogni parte della città, il mio amico Kebrom mi ha fatto notare come, nell’arco degli anni, il simbolo del TPLF sia cambiato: durante gli anni della lotta armata era rappresentato, accanto a un martello presente ancora oggi, un mitragliatore kalashnikov, sostituito poi da una fiaccola. Come mi fu spiegato dal mio amico, la fiaccola rappresenterebbe proprio l’istruzione, a dimostrazione dell’importanza capillare che essa ha assunto per i destini della Nazione.

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Anche i cancelli del grande palazzo in vetro che ospita il Ministero dell’Istruzione del Tigray, d’altronde, sono adornati col simbolo della fiaccola.

L’interesse dei vertici politici nello sviluppo dell’istruzione come volano della crescita nazionale è stata documentato anche da Désirée Adami, che ha giustamente fatto notare:

A questo punto è bene mettere in risalto un aspetto importante dell’educazione formale di alto livello (cioè quella accademica) che evidenzia l’interesse da parte del governo nell’istruzione come creazione di risorse umane necessarie per il bene pubblico piuttosto che per quello individuale. Mi riferisco al fatto che fino a pochissimi anni fa l’università era un’istituzione fortemente centralizzata: una volta superato l’esame di ammissione, gli studenti non potevano scegliere la facoltà da frequentare. La decisione piuttosto spettava all’università stessa, che operava le proprie scelte in collaborazione con i vari ministeri, sulla base del bisogno evidenziato di risorse umane nei diversi settori sociali ed economici. Questo approccio all’educazione era sostanziato da un punto di vista strumentale della formazione scolastica, centrato sul costruire il capitale umano per il bene della nazione e trovava una linea di continuità con il consenso post-Washington sull’educazione e lo sviluppo (Fine, Rose 2001). Infatti, nell’ “immaginario nazionale dell’istruzione” (Riggan 2009), le persone istruite rivestivano un ruolo cardine nel rimodellare la nazione, sia in quanto promotori delle narrative nazionaliste contenute nei programmi scolastici, sia in quanto personificazione della congiunzione tra progresso individuale e sviluppo del Paese. In tal senso il ruolo dell’università poggia in quella che è stato descritta come “l’università dello sviluppo” (Coleman 1994: 334), vale a dire un’istituzione che ha a che fare prima di tutto con la risoluzione dei problemi concreti dello sviluppo sociale locale (2017: 110-111).

Sebbene siano molti coloro che, soprattutto nel caso della mia ricerca, non hanno potuto proseguire gli studi fermandosi al grade 10 o non avendo ottenuto il punteggio necessario per accedere alla Higher Education, a partire dai primi anni del nuovo millennio l’Etiopia è stata interessata – oltre all’ampliamento delle istituzioni pubbliche che hanno visto aumentare sempre più il numero dei propri iscritti negli ultimi decenni – dalla grande diffusione di college privati di qualità (Mains, 2012: 5), che hanno permesso anche a coloro che erano stati fermati dagli scarsi punteggi degli esami nazionali di seguire corsi di istruzione superiore. Al giorno d’oggi anche a Mekelle questi enti sono ampiamente diffusi, e tutti quei giovani che, come dicevo poche righe più sopra, mi avevano detto di non aver superato gli esami nazionali, seguivano al tempo della mia ricerca corsi privati, soprattutto in campi tecnici e commerciali come la contabilità, lo studio di lingue straniere, corsi specialistici per auto-meccanici e scuole alberghiere. Non solo; ho avuto modo di registrare anche un altro dato interessante, riguardante l’attitudine di molti laureati presso università pubbliche che hanno tuttavia intrapreso un nuovo corso di studi presso istituzioni private, con la speranza di apprendere un sapere specifico in grado di garantirgli 93

maggiori possibilità di impiego. La citazione che dà nome a questo paragrafo è infatti uno dei leitmotiv che hanno accompagnato le mie conversazioni in merito. «La conoscenza è saggezza» (Knowledge is wisedom), ho sentito ripetere da un numero imprecisato di persone, non solo giovani ma anche adulti o persone più avanti con gli anni.

Le retoriche ricche di fiducia nell’istruzione di chi si apprestava a iniziare il proprio percorso di studi, di chi si stava per laureare o di coloro che guardavano con rammarico al fatto di non aver proseguito la propria educazione, si scontravano invece con la profonda frustrazione di quanti, una volta entrati in possesso della laurea, non avevano trovato lavori nei quali applicare le conoscenze acquisite né occupazioni ben remunerate, trascorrendo lunghi periodi privi di occupazioni stabili o legali. Le statistiche sulla disoccupazione che ho menzionato nel paragrafo precedente vedono infatti la larga presenza di persone con istruzione superiore, e larga attenzione alle loro parole e ai loro problemi sarà data soprattutto nei capitoli successivi (cfr. cap. IV, par. 2 e cap.V, par. 3). Lo stesso Mains parla per i giovani etiopi di Jimma di quella che, citando Dore (1976) e Gould (1993), chiama “diploma desease” oppure, con

Bourdieu (1984), “diploma inflation” (2012: 75). Per lo studioso, l’allargamento delle possibilità di ottenere un’educazione superiore ha finito con l’ampliare lo iato fra le aspirazioni personali dei giovani e le probabili traiettorie delle loro vite (ibidem).

6. Conclusioni

Le narrazioni positive che accompagnano le retoriche dei miei interlocutori si inseriscono, come ho cercato di sottolineare, nella più vasta concezione di una crescita collettiva e nazionale alla quale guardano con fiducia tanto i vertici dello Stato quanto i giovani protagonisti di questa etnografia. A loro volta, i giovani che manifestavano il loro desiderio di portare avanti percorsi di istruzione superiore o di autoimprenditorialità facevano coincidere le proprie aspettative di crescita non solo con quelle della collettività, ma con quelle norme sociali alle quali sentivano – e sentono – di dover aderire. Le parole di quanti sostenevano che, una volta esauditi i propri obiettivi di realizzazione, avrebbero voluto raggiungere gli agognati obiettivi del matrimonio e della genitorialità per marcare in modo definitivo il proprio

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passaggio allo status di adulto, hanno sottolineato l’importanza di conformarsi alle aspettative che la famiglia, i conoscenti e più in generale la comunità, esercitano su di essi.

La pressione sociale alla quale sono soggetti, viene concettualizzata e spiegata dai miei interlocutori tramite la nozione locale di yilunta (o sikifta, in tigrino), la paura costante del giudizio degli altri e al tempo stesso sentimento incorporato del sapere di dover agire secondo principi e valori stabiliti dalle norme comunitarie e socialmente condivisi. “Qual è il tuo problema”, si chiedeva Helen quando le raccontavo di non essere ancora sposato e di non avere figli alla soglia dei trent’anni. Dalla sua testimonianza si è potuto constatare quanto il giudizio altrui possa incidere sugli individui, tanto da portare la ragazza a indossare un finto anello di fidanzamento per non subire il sospetto di non essere desiderata in sposa e poter proseguire senza incorrere in gossip negativi il proprio percorso di studi, nonostante, arrivata alla sua età, fosse già abbondantemente in “età da marito”, secondo le concezioni locali. Allo stesso modo Hagos parlava del “sentire qualcosa”, di avvertire cioè che la propria “relazione con la società” risentisse costantemente del giudizio e delle aspettative degli altri. Come si avrà modo di vedere anche nei capitoli successivi, il concetto di yilunta permea la vita dei miei giovani interlocutori e modella le loro relazioni, le loro aspettative e le loro azioni non soltanto per quanto riguarda la volontà – o soprattutto la difficoltà – di raggiungere lo status di adulto, facendo sì che di volta in volta vengano impiegate strategie di rinegoziazione, di opposizione o resistenza per mitigare o evitare gli effetti della pressione sociale che incombe su di essi.

La immagini del futuro dello studio e dell’autoimprenditorialità costituiscono, in conclusione, le principali retoriche a cui ricorrono i miei interlocutori nel figurarsi narrazioni positive circa il proprio avvenire. Tuttavia, esse non costituiscono – come è facile immaginare – garanzie certe di vedere realizzate queste ambizioni. Nel capitolo successivo verranno quindi indagate le strategie di quanti, pur perseguendo i medesimi obiettivi di crescita e di avanzamento sociale, non possono riporre la propria fiducia e le proprie energie in queste due immagini.

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CAPITOLO III – ASTUZIA, INGANNI E CREATIVITÀ. REPERTORI

CULTURALI PER LA MOBILITÀ SOCIALE

1. Introduzione

Nel capitolo precedente mi sono concentrato su due delle “immagini” del futuro sulle quali i giovani di Mekelle ripongono più fiducia: studio e imprenditorialità. Ho posto enfasi su come queste due attività rappresentino al tempo stesso un desiderio agognato e una possibilità concreta per realizzare i propri obiettivi di successo personale. Ma cosa succede, invece, a quelle persone che non possono riporre le proprie speranze nello studio o nel lavoro autonomo? Cosa succede quando quelle immagini del futuro diventano sfocate, quando le speranze vengono deluse e le attese disincantate? Si è visto quanto siano restrittive le condizioni per proseguire il proprio percorso di studi nel settore dell’istruzione pubblica, l’unico in grado di garantire occupazioni ben retribuite e socialmente considerate di prestigio, come per esempio quello di docente universitario. In un articolo sull’economia della strada ad Addis Abeba, Marco

Di Nunzio ha efficacemente dimostrato come per i giovani che non provengono da famiglie benestanti o che non possiedono una buona rete di relazioni, rimanere privi di qualsiasi attività in attesa di un buon lavoro o di una buona opportunità non sia un’opzione praticabile e che il loro coinvolgimento nella sfera dell’economia informale sia l’unica strada percorribile (Di Nunzio, 2012). Analogamente, nel presente capitolo si cercherà dunque di dare spazio alle esperienze di quanti non possono riporre le proprie speranze e le proprie energie nello studio e nell’auto-imprenditorialità, né tantomeno possano contare su titoli di studio o di contatti fondamentali per gestire un business. Verranno indagate le strategie quotidiane e i progetti per il futuro di quanti si trovano ai margini del mondo del lavoro e dell’istruzione, assieme alle storie e alle alternative di chi ha già concluso o svolto un’attività in questi settori senza tuttavia migliorare le proprie condizioni di vita o essendone addirittura rimasto penalizzato. Per queste persone

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il ricorso all’immaginazione, alla fantasia e alla creatività risulta forse ancor più necessario rispetto a coloro che investono fortemente in un’attività lavorativa o in un percorso di studi. I protagonisti di questo nuovo capitolo saranno quindi quei giovani per i quali i mezzi tramite i quali realizzare i propri obiettivi appaiono maggiormente incerti. Ciononostante si vedrà come, anche per chi si trova ai margini del mondo dello studio o dell’economia legale, gli obiettivi di autorealizzazione siano sostanzialmente invariati e corrispondano a quei desideri di benessere, di crescita e di “modernità” che vengono incoraggiati anche dalle politiche statali. Pertanto, i protagonisti di questo capitolo saranno giovani privi di un’occupazione fissa, spesso senza famiglia o con genitori poveri o assenti che non possono (o non vogliono) fornirgli nemmeno il minimo supporto. Questi giovani, tuttavia, riescono a sopravvivere attraverso un’economia, quella comunemente indicata come informale, fatta di lavori occasionali, reti di relazioni, sotterfugi, improvvisazione e inganni che talvolta sfociano in veri e propri atti criminali. Oltre alla sopravvivenza e al superamento delle sfide poste dalla propria quotidianità, verrà posta enfasi su quanto il ricorso all’economia della strada rappresenti l’unico modo per lavorare attivamente alla realizzazione dei propri obiettivi futuri. Per dirla con Philippe Bourgois, in questo capitolo verranno indagate le vite e le strategie di coloro che operano all’interno di una “economia sotterranea” e che sono impegnati quotidianamente in “strategie alternative di produzione di reddito” (2005: 34-35).

Per introdurmi in questa analisi, ritengo opportuno iniziare dall’indagine circa alcune qualità che, secondo i miei interlocutori, rappresentano la chiave principale per il successo nell’economia della strada: quelle qualità inerenti e soggiacenti la nozione locale dell’essere “iwala”. Come si vedrà, questo è il termine che più di ogni altro viene utilizzato nel contesto di Mekelle per indicare coloro che navigano la strada e impiegano le proprie capacità di intelligenza, furbizia e creatività.

2. Saper essere “iwala”

Una delle prime volte che ho sentito il termine “iwala”, in modo piuttosto inusuale per un antropologo, i miei interlocutori stavano usando il termine per descrivere me. Era la prima volta che incontravo Aziz e Tewodros, due ragazzi di venti e ventuno anni, che mi erano stati presentati da un’amica

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comune. La mia amica Helen46 mi aveva invitato a conoscerli in un pomeriggio di settembre. Helen era stata loro insegnante quando lavorava presso uno dei più noti college privati della città e conservava con loro una relazione di profonda simpatia nonostante i due ragazzi fossero molto più giovani di lei. Nel corso della nostra assidua frequentazione, Helen aveva sempre mostrato un certo stupore di fronte alla mia conoscenza del contesto locale, di molte parole in lingua tigrina e della città di Mekelle, con reazioni che variavano dal divertito all’incredulo, arrivando a toccare punte di evidente fastidio quando si affrontavano temi inerenti la stregoneria e il mondo dell’invisibile, a proposito dei quali era solita commentare: «un forenji non dovrebbe sapere queste cose! E poi cosa c’entra con la tua ricerca?!». Pertanto, quel pomeriggio aveva deciso di farmi conoscere i due ragazzi con lo scopo, nemmeno troppo celato, di mostrargli questo straniero che pronunciava in modo buffo parole in tigrino. Furono gli stessi ragazzi, quando ci conoscemmo, a confessarmi di essere venuti appositamente per conoscermi e per sentirmi pronunciare le parole della loro lingua che conoscevo grazie alla mia ricerca, termini non usuali, non presenti nei colloqui di ogni giorno che sarebbero facili da apprendere per qualsiasi straniero ma che prevedevano invece una conoscenza approfondita del contesto e dei concetti di cui essi erano forieri. Al tempo stesso, Helen, che aveva preso molto seriamente i temi della mia ricerca e cercava spesso di coadiuvarmi presentandomi persone con le quali affrontare temi particolari, sperava di mettermi in contatto con due ragazzi che secondo il suo giudizio sarebbero stati due buoni contatti per il mio lavoro di campo. Iniziammo così una lunga passeggiata per le vie del centro, conversando e facendo reciproca conoscenza. Tenendo fede all’aspettativa di divertimento che aveva generato in Aziz e Tewodros, Helen mi chiedeva di tradurre parole dall’inglese al tigrino, con un coefficiente di difficoltà sempre più elevato ma che lei già sapeva essere di mia conoscenza. Era infatti partita da parole di uso comune riguardante generi alimentari fino ad arrivare a concetti intraducibili in inglese e che richiedevano, quindi, una descrizione dettagliata. Ad esempio, una delle risposte che destò maggiore scalpore nei nostri ospiti fu quella inerente la traduzione della parola sikifta (cap. II, par. 3). I ragazzi ridevano di gusto ad ogni mia risposta corretta, talvolta mostrandosi stupefatti e perfino complimentandosi con me. Oltre alla

46 Mi riferisco alla stessa persona protagonista dei precedenti paragrafi 98

traduzione, Helen invitava i due ragazzi a interrogarmi, facendogli chiedere dove si trovassero alcuni dei luoghi più importanti della città, come uffici governativi, sedi universitarie e luoghi di svago o di divertimento. Fu proprio durante una delle mie risposte che Tewodros esclamò, sorridendo e agitando su e giù l’indice della mano destra teso a indicarmi: «iwala!». Avendo ascoltato la parola per la prima volta, domandai immediatamente cosa significasse. Helen fu la prima a intervenire, dicendo:

Significa fico [cool]! Dici che una persona è iwala quando è una persona che ci sa fare [know- how], quando è ben informato [knowledgeable], quando è molto esperto di qualcosa. Vedi? Lui ti ha chiamato iwala perché tu conosci tutte queste parole, perché sai così tanto di cultura etiope e lui non si aspettava che uno straniero potesse conoscere tutte queste cose! Tu conosci ogni angolo di questa città, ogni kebele! Noi non ti stiamo accompagnando, oggi, sei tu che ci stai facendo strada. Conosci le strade di Mekelle meglio di noi!

La risposta di Helen si riferiva solo a uno dei significati plurali del termine iwala. Lontano dal possedere una traduzione univoca nella lingua straniera che i ragazzi possedevano meglio, l’inglese, Helen aveva dato diversi spunti che si riferivano al contesto nel quale il termine era stato utilizzato. I ragazzi stavano commentando con stupore la mia conoscenza dettagliata della città e del contesto, e nella traduzione di Helen erano già presenti, come si è notato, diversi aggettivi tutti inerenti il possedere conoscenze, abilità e competenze specifiche. Notando la mia curiosità, anche Aziz prese la parola fornendo la sua spiegazione del termine, seguito a ruota da Tewodros:

Aziz: Dici a qualcuno che è un iwala quando è un ragazzo di città [city boy], quando ci sa fare [know-how], oppure quando è sveglio [smart], quando è intelligente [clever].

Gianmarco: Quindi anche voi siete iwala?

Tewodros: Grazie per averci chiamato così! Qui tutti dobbiamo essere iwala! Se vuoi andare avanti [get by] e vuoi migliorare devi sapere come fare. Devi darti da fare e saper sfruttare tutte le occasioni. Ti faccio un esempio. Io sono nel commercio, ok? Se compro questo telefono a 100, cerco di rivenderlo al più possibile. Se vieni da me cercherò di vendertelo a 500, anche se non vale così tanto.

Gli esempi forniti da Aziz e Tewodros aggiungevano significati ulteriori alla risposta di Helen, allargando il contesto a situazioni che, come si è visto dall’intervento di Tewodros, prendevano spunto da situazioni personali. Tewodros lavorava a tempo pieno nel negozio di famiglia, una piccola bottega, del tipo più diffuso nel contesto di Mekelle, poco distante da una delle arterie principali del centro cittadino nella quale veniva venduto ogni tipo di merce, dai generi alimentari ai detersivi e a utensili di

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vario genere. Allo stesso modo dei giovani di cui ho parlato in precedenza (cap. II), anche il giovane con cui mi stavo intrattenendo quel pomeriggio sperava di gestire una propria attività commerciale, allargando il business di famiglia. Le parole dei due ragazzi descrivevano in particolare una qualità che essi associavano all’essere “ragazzi di città” e al possedere, quindi, le conoscenze necessarie al sapersi destreggiare in ogni situazione, per “andare avanti”, grazie alle proprie abilità, la propria intelligenza e la propria furbizia. La maggior parte degli interlocutori con i quali ho affrontato questo argomento mi ha dato risposte molto simili a quelle fornite dagli esempi appena riportati. Molto spesso, le persone che mi spiegavano il significato della parola iwala eseguivano un gesto con la mano che per me risultava essere denso di significato. Mi riferisco al gesto del passare il pollice lungo la propria guancia, dallo zigomo verso il mento, come a mimare il movimento di un rasoio47. Molto spesso, contemporaneamente al movimento della mano, i miei interlocutori facevano anche un occhiolino.

Affrontando la questione in termini analitici, ritengo opportuno poter inquadrare il termine iwala nella cornice teorica che Henrik Vigh ha impiegato a proposito delle sue ricerche in Guinea-Bissau, descrivendo il termine “dubriagem”. Questo termine deriva dal Creolo Portoghese e viene tradotto dall’autore – facendo notare un parallelismo interessante con l’espressione francese “se débrouiller”, di cui parlerò più avanti – come la capacità di districarsi o rendersi liberi dalle difficoltà, di sapersela cavare e del trarre vantaggio da una situazione (2006b: 51). Commentando le parole dei suoi informatori, giovani ex combattenti che vivono nell’area urbana di Bissau, segnati da condizioni di disagio, disoccupazione e conflitto, Vigh nota come la parola dubriagem venga utilizzata per descrivere una lista di azioni e relazioni che un individuo può compiere in modo da potersi garantire un lavoro, un pasto o semplicemente per poter andare avanti (ibidem). L’antropologo danese descrive così questa qualità:

Dubriagem is, in Pedro’s words, dynamismo; a dynamic quality of attentiveness and ability to act in relation to the movement of the social terrain one’s life is set in […]. It is motion within motion requiring both an assessment of immediate dangers and possibilities as well as an ability to envision the unfolding of the social terrain and to plot and actualise one’s movement from the present into the imagined future. It is, in this perspective, both emplotment and actualisation; simultaneously an act of analysing possibilities within a social environment, drawing trajectories through it and actualising these in praxis. As such, it designates both the

47 Sorprendentemente, il gesto appena descritto viene utilizzato allo stesso modo in Italia per descrivere la persona furba e astuta che opera spesso ai limiti della legalità. 100

action enabling one to survive in the here and now as well as moving into the imagined future towards possibilities and life chances. Dubriagem thus refers to the praxis of immediate survival as well as to gaining a perspective on changing social possibilities and possible trajectories. It is both the praxis of navigating a road through shifting or opaque socio- political circumstances as well as the process of plotting it, and though mobilisation might appear to be a direct road to physical destruction it can in fact be a roundabout route to the construction of future social being (Ivi: 52, corsivo dell’autore).

Da questo esempio si comprende bene come per l’autore la qualità del dubriagem costituisca al tempo stesso una strategia per sopperire alle necessità quotidiane e per muoversi verso il futuro sfruttando tutte le possibilità di cui è possibile approfittare: è al tempo stesso la passi di “navigare” un contesto segnato da circostanze socio-politiche “opache”, nel quale cioè l’instabilità e l’incertezza sono elementi preminenti, assieme al processo del fare progetti per il futuro. Vigh mette in relazione il concetto di dubriagem a quello che egli stesso definisce come “social navigation” (2006a). Per l’autore, con navigation48 bisogna intendere: «an effort to gain directionality […], to direct and control the movement of one’s life rather than having it be directed and moved by the shifting of the unstable social environment it is immersed in» (Vigh, 2006a: 130, cit. in Di Nunzio, 2012: 435). Il nesso fra i due concetti risulta ancora più evidente in questo passaggio:

[…] as an imagined and immediate stratagem for moving toward a goal while at the same time being moved by the social terrain the concept of social navigation provides insights into exactly this interplay between objective structures and subjective agency. It enables us to make sense of the opportunistic, sometimes fatalistic, and tactical ways in which youth struggle to expand the horizons of possibility in a world of conflict, turmoil, and diminishing resources; to make sense of the way that they seek to navigate networks and events as the social terrain their lives are embedded in oscillates between peace, conflict and (at times) warfare (Vigh, 2006b: 55).

Lo studioso mette bene in risalto, in questo modo, come la qualità del dubriagem, il sapersi districare, talvolta attraverso l’improvvisazione, diventi una componente necessaria, quasi fondamentale, per affrontare l’immediato e al tempo stesso “espandere gli orizzonti di possibilità”, esercitando, come affermato da Di Nunzio, una pratica sociale che consiste nel muoversi attraverso ed entro un contesto sociale di per sé in movimento (2012: 435).

48 Lo studioso ricorre a Honwana (2000), Johnson-Hanks (2002) e Mertz (2002) per il suo concetto di navigazione, inteso come prassi in contesti segnati da incertezza. Tuttavia, Vigh critica a questi autori la mancata elaborazione del concetto, che, sostiene, può essere trovato etnograficamente (Vigh, 2006b: 55, nota in appendice). 101

Le parole di Tewodros e Aziz, confrontate con gli esempi etnografici appena analizzati, assumono adesso una rilevanza ulteriore. Per loro, come si è visto, un city-boy, un ragazzo di città, deve possedere un

“capitale culturale”49 (Bourdieu, 1983) fatto di conoscenze specifiche (essere “knowledgeable”, il saper fare) e avere qualità come intelligenza, furbizia, astuzia e reattività. I due ragazzi esprimevano con convinzione quella che secondo loro si presenta al giorno come una necessità per agire, programmare, vivere e sopravvivere nel contesto urbano: saper essere degli iwala, il saper approfittare di tutte le occasioni e sapersi districare in un contesto, come si ha avuto modo di analizzare fino a ora, segnato da incertezza e difficoltà ma al tempo stesso interessato da cambiamenti profondi quanto accelerati; un contesto in movimento attraverso cui ed entro il quale muoversi per risolvere le sfide e i bisogni del vivere quotidiano e costruire al tempo stesso l’immaginario per il proprio futuro.

Un ulteriore esempio etnografico attraverso cui interpretare l’essere iwala è fornito dall’indagine compiuta da Trond Waage (2006) fra i giovani abitanti della città di Ngaoundéré, in Camerun.

L’antropologo norvegese descrive le strategie quotidiane di giovani disoccupati, studenti, facchini, autisti di taxi e portatori d’acqua, e si concentra sull’espressione francese “Je me débrouille”50, spesso esclamata dai suoi interlocutori. Secondo l’autore:

“Je me débrouille” is a stock phrase commonly used by young people in Ngaoundéré, and in the rest of Cameroon when they explain how they cope with unforeseen everyday life situations and challenges in the urban social environment. Young people usually voice the expression with a smile, which highlights the significance to young adults in contemporary Cameroon of the qualities of resilience, flexibility, creativity and sociability as essential for coping with these challenging demands. “Je me débrouille” similarly indicates a speaker’s openness to new suggestions and possibilities for employment or earning a living in his/her urban setting (Waage, 2006: 62, corsivo dell’autore).

49 Per spiegare in che modo utilizzo il concetto di “capitale culturale” coniato da Bourdieu, mi riferisco alla definizione che ne ha fornito Giorgio Marsiglia (2002). Lo studioso spiega il concetto del sociologo francese in questo modo: «Si tratta di una grande varietà di risorse, anche molto differenti anche se fondamentalmente omogenee: dalle abilità linguistiche ai beni culturali posseduti, dalle conoscenze e informazioni alle disposizioni e preferenze estetiche, dal rapporto con scuola e cultura alle esperienze e credenziali educative. In sintesi, si può dire che in Bourdieu il capitale culturale corrisponde all’insieme di proprietà, delle qualificazioni e delle esperienze culturali, siano esse trasmesse o indotte dalla famiglia, prodotte o rese disponibili dall’istruzione, o comunque incluse nell’appartenenza ad un campo culturalmente specifico» (Marsiglia, 2002: 87-88). 50 Tradotto dall’autore nella forma inglese di “I’m fending myself” o “I’m coping with this complicated situation” (Waage, 2006: 62, nota in appendice). In italiano, da tradurre con “me la cavo”. La forma all’infinito “se débrouiller”, si traduce letteralmente con “cavarsela, sbrogliarsela” (Dictionnaire français-italien / italien-français 1999, Robert&Collins). 102

Come nel caso dei giovani ex combattenti descritti da Vigh e dei giovani di Mekelle, anche Waage registra come, in contesti urbani contemporanei di diversi paesi africani, le qualità di resilienza, flessibilità, creatività e socievolezza risultino essenziali per superare situazioni quotidiane e per “aprirsi a nuove suggestioni e possibilità”. Le strategie impiegate dai giovani abitanti di Ngaoundéré per realizzare forme di mobilità sociale e ambire a nuove e migliori posizioni, sarebbero inoltre caratterizzate da inganni e raggiri, ciò che Waage chiama trickery (ibidem). L’autore propone infatti una lettura analitica molto interessante riferendosi al noto volume di Bayart, Ellis e Hibou “The Criminilization of the State in Africa”

(1999, cit. in Waage, 2006), dove gli autori scrivono a proposito dei repertori culturali per la mobilità sociale, i quali sarebbero legati a miti e leggende sui padri fondatori della società. Scrive l’antropologo norvegese:

These founding fathers are presented as heroes who emerge from the wild bush to take control of kingdoms by virtue of their personal powers of performance in the domains of war, hunting, magic and love. The same is true of the existence of modern states where one finds social practices that highlight trickery and deception as important social values. The Trickster, (which in for instance Kinshasa is given the local name débrouillardise) is a common character associated with “the greasy pole of politics”. The Trickster has a stock of tricks, changes alliances and demonstrates a high frequency of social redistribution in his cultural repertoire (1999:34–9). He utilizes all kinds of ambiguities, which lie at the heart of recurrent social phenomena found in contemporary Africa, among which are the wholesale looting of cities, banditry, prostitution, and other social ills (1999:15). It is in this light that Bayart et al. (1999:35) posit that by gathering biographical data on the founding fathers of modern Africa, most of whom started out from obscure origins before climbing to the top positions in politics, one could understand the recent development of the African state (Waage, 2006: 62- 63).

Si tratta di una prospettiva molto interessante che pone in relazione le qualità inerenti l’essere un débroullard, così come l’essere iwala o dubriagem, con il successo dei leader africani contemporanei che sono stati capaci di trasformare la loro posizione, partendo da origini talvolta “oscure” e arrivando a raggiungere i vertici della politica. Il fatto che, come nota Waage nell’esempio precedente, negli stati moderni sia possibile trovare pratiche sociali che evidenziano l’inganno e la creatività come importanti valori sociali sembra trovare un parallelismo con l’analisi che di questi stessi processi ha svolto Marco Di

Nunzio nella sua ricerca incentrata sui giovani di Addis Abeba. In un articolo nel quale ha esaminato le dinamiche dell’economia informale nella capitale etiope, Di Nunzio (2012) ha mostrato come le nozioni di intelligenza di strada, furbizia e astuzia costituiscano valori positivi per coloro che si definiscono 103

“Arada”. Arada è il nome del vecchio centro di Addis Abeba e, per estensione, è il nome che viene attribuito a individui ai quali vengono riconosciuti rispetto, intelligenza e furbizia (Di Nunzio, 2012: 437).

Scrive Di Nunzio:

In the words of my informants, street smartness is irdnna, and it was believed to be the main characteristic of an Arada. Ideas of street smartness not only constituted and described the collective dimension but also symbolically expressed the atomized dimension of the street and the fact that people have to look out for themselves if they want to get by. Moreover, behind the idea of being smart, there is not only a cultural narrative about the ability to do but also the broader capacity for achieving, for making something out of one's everyday life. Notions of street smartness, indeed, express not only forms of alternative sociality that people experiment on the street but also the kind of social and economic opportunities that people have access to and the aspirations and the motivations that people have when they turn to the street (ibidem, corsivo dell’autore).

Anche in questo esempio l’intelligenza di strada si rivela una risorsa che le persone utilizzano per andare avanti e badare a se stessi, capacità che si traduce non soltanto nell’abilità di fare qualcosa ma soprattutto di realizzare qualcosa. Ancora una volta, quindi, si rivela la doppia funzione di sopperire alle sfide del vivere quotidiano e al tempo stesso gettare le basi per tendere verso nuove e migliori posizioni per il proprio futuro. È lo stesso Di Nunzio a evidenziare questo dualismo nel motivare il suo interesse per l’economia della strada, che definisce come:

The material, moral, and symbolic economy of exchanges, social relations, identities, and meanings that my informants participated in to get by and, at the same time, define their aspirations for a better life. […] I argue that my informants' engagement with the street economy was not conceptualized as a means for sustaining unemployment, but rather was it often conceived as a form of “street labor” through which they positioned themselves in the broader society (ivi: 435).

I protagonisti dell’indagine di Di Nunzio, impegnati in diverse attività che appartengono alla sfera dell’economia informale e quindi dell’economia della strada, usano il termine “hustling”51 per descrivere la loro vita quotidiana sulla strada. Lo studioso evidenzia come col termine hustling sia possibile descrivere una vasta gamma di attività (ivi: 441-442), come giustamente notato da Loïc Wacquant nel suo lavoro sul

Ghetto afroamericano. Wacquant descrive infatti il termine come:

A field of activities that have in common the fact that they require mastery of a particular type of symbolic capital, namely, the ability to manipulate others, to inveigle and deceive, if need be by

51 Anche in questo caso, la traduzione non è univoca. Il significato del termine può variare a seconda del contesto, con significati quali “vivere di espedienti, svolgere attività frenetiche, imbrogliare”. 104

joining violence to chicanery and charm, in the pursuit of immediate pecuniary gain. These activities span a continuum that goes from the relatively innocuous and inoffensive […] to the felonious (Wacquant, 1998: 3-4, corsivo dell’autore. Cit. in Di Nunzio, 2012: 442, nota in appendice).

Di Nunzio aggiunge inoltre che tali nozioni si sono diffuse presso il centro di Arada, come in qualunque altro luogo, partendo dai ghetti neri americani attraverso la musica hip-hop e la cultura gangsta dei testi di artisti come Tupac52 (ivi: 441).

Questi ultimi esempi risultano particolarmente utili per riprendere la descrizione dettagliata di cosa voglia dire, nel contesto di Mekelle, essere un iwala, a cominciare da un esame più dettagliato di alcuni aspetti linguistici legati alla traduzione del termine. Oltre alle descrizioni citate all’inizio del paragrafo, la grande maggioranza dei miei interlocutori ha tradotto la parola introducendo anche un’interessante differenza semantica, segnalata con due differenti termini in lingua amarica. Da un lato, la traduzione amarica di “iwala” sarebbe proprio la parola “Arada”, che come si ha avuto modo di notare dall’analisi di Di Nunzio, denota coloro i quali sono in grado di sfruttare la loro intelligenza di strada e le loro abilità di furbizia, astuzia e creatività per affrontare le sfide della quotidianità e ambire al tempo stesso a esperienze di mobilità sociale. Dall’altro versante, una ulteriore traduzione in amarico sarebbe la parola

“duruye”, da tradurre nell’italiano “criminale, delinquente”. In un ulteriore articolo, lo stesso Di Nunzio

(2014b) traduce “duruye” nell’inglese “thug”, “criminale”, appunto. Anche Daniel Mains (2012), a proposito della sua ricerca fra i giovani disoccupati di Jimma, nel sud dell’Etiopia, traduce il termine

“duriye”53 con l’inglese “vagabond, thug”, aggiungendo però una annotazione importante: sebbene anche in questo caso la musica rap americana abbia valorizzato positivamente la “thug life”, la vita criminale, sarebbe stato molto raro a Jimma trovare qualcuno che si autodefinisse in questo modo (Mains, 2012:

61). La doppia valenza del termine iwala dipende pertanto dal contesto nel quale viene utilizzato, dal background della persona che lo utilizza e soprattutto dalle attività che vengono svolte da chi viene

52 Lo studioso precisa che ciò non implica che la cultura hip-hop abbia esportato nuove forme di sopravvivenza e nuove strategie ma abbia semplicemente influito nel tradurre col termine inglese hustling diversi tipi di attività già presenti e descritti secondo la categoria di mella, termine amarico per descrivere un “mezzo, formula o sistema” (Di Nunzio, 2012: 441). 53 Mains trascrive il termine come “Duriye”, mentre Di Nunzio con “Duruye”. Come si nota dalla traduzione in inglese, si riferiscono allo stesso termine amarico. Come già fatto notare in altre sezioni di questo lavoro, il modo di trascrizione delle parole tigrine e amariche dipende dalla lingua madre dell’autore. 105

chiamato in questo modo. D’altronde, è già stata fatta notare con la precedente citazione di Wacquant

(1998), come il termine inglese “hustler”, una delle possibili traduzioni (molto spesso adoperata anche dai miei interlocutori), possa indicare un largo spettro di attività che vanno da inganni e piccoli crimini all’aggressione criminale. Come spesso accaduto durante la mia attività sul campo, una lettura chiara della questione mi è stata fornita dal mio amico e interprete Afeworki, il quale mi spiegò in questo modo il doppio significato del termine iwala:

Dipende da chi lo dice: se tua madre o tuo padre ti dicono che ti stai comportando come un iwala, allora significa che secondo loro ti stai comportando come un ladro, come un criminale. Ma se te lo dice un amico, se lo usano i giovani, allora significa cool. In amarico c’è una differenza fra Arada, che significa cool, e duruye che significa criminale; in tigrino invece sono la stessa cosa, dipende da chi te lo dice.

La stessa considerazione venne fatta dal mio amico Senay, giovane venticinquenne col quale molto spesso, soprattutto durante la mia prima attività di ricerca, ho avuto modo di lavorare approfittando della sua ottima conoscenza dell’inglese. Anche lui mi fece notare la differenza di significato a seconda del background di chi lo utilizza. Durante un pranzo in cui incontrai il mio amico assieme a

Mario Marasco e Corinna Santullo, Senay ci spiegò in questo modo il significato del temine:

Se lo usano i giovani, allora vuol dire qualcosa che fa parte del western style, come “rapper” o come “gangsta”. Se lo usano le madri o i padri allora vuol parlano di qualcosa di sbagliato, di cose che non vanno bene. Se per esempio mio padre mi vedesse fumare, allora direbbe che sono un iwala.

Questo tipo di doppia valenza mi è risultata evidente fin da subito, quando spesso è accaduto che gli amici ai quali io stesso mi riferissi chiamandoli iwala reagissero sorridendo, ringraziandomi dell’avergli attribuito un tale appellativo oppure si sbrigassero a rilanciare dicendomi che loro non erano iwala, bensì

Arada, riferendosi agli ormai noti aggettivi positivi di furbo e intelligente. Un esempio in negativo legato alla traduzione del termine mi è stato fornito da Aleka54, un anziano gentiluomo intorno ai settant’anni, amico e collaboratore di diversi membri della MEITE. Durante un incontro presso uno dei ristoranti più famosi di Mekelle, nella piazza principale di Romanat Square, mi tradusse il termine proprio con

“vagabondo”. Ridendo, iniziò poi a intonare le strofe della vecchia canzone italiana dal titolo, appunto,

54 Aleka parla un italiano fluente, appreso durante la sua gioventù trascorsa ad Asmara. 106

“Vagabondo” e aggiunse: «non la conosci quella canzone? Vagabondo…vagabondo! Ha venduto anche le scarpe!»55, esplodendo quindi in una fragorosa risata. Durante il mio ultimo soggiorno ho avuto modo di approfondire la questione parlandone con Wolbert Smidt, uno dei maggiori conoscitori del Tigray e dell’Etiopia. Storico, insegna presso la Mekelle University e vive stabilmente nel capoluogo tigrino, che frequenta da oltre vent’anni, avendo imparato alla perfezione la lingua tigrina. Il professore tedesco mi ha fornito una spiegazione interessante, che conferma ancora una volta la doppia valenza del termine iwala ma soprattutto un suo slittamento semantico: da accezione negativa, maggiormente vicino all’amarico duruye, “criminale”, sarebbe poi passato in tempi recenti ai significati positivi di esperto

[knowledgeable], sveglio, intelligente. La sua spiegazione conferma le parole di Afeworki e Senay e sottolinea una riappropriazione e una nuova attribuzione di significato positivo ad opera delle moderne generazioni.

Proprio rileggendo le parole di Senay riportate in precedenza, la rivalutazione positiva di termini che potrebbero riferirsi a connotati negativi risulta evidente: Senay proponeva infatti la traduzione del termine in “rapper” oppure “gangsta”, due stili di vita recentemente rivalutati positivamente grazie al successo della musica rap e hip-hop americana (Di Nunzio, 2012; Mains, 2012).

Prima di proseguire, bisogna dunque fare una precisazione. Sebbene sia stato osservato come, con il termine iwala, sia possibile riferirsi a diverse qualità e a numerose attività, oltre al fatto che si tratti di una parola il cui significato dipende dal contesto in cui viene utilizzata e dalla persona che la adopera, anche io come Di Nunzio (2012), la utilizzerò per riferirmi a coloro i quali sono coinvolti nell’economia informale della strada e, pertanto, si autodefiniscono in questa maniera. Gli esempi etnografici, le storie di vita dei protagonisti dei prossimi paragrafi metteranno quindi in risalto il modo in cui quelle capacità di arguzia, improvvisazione e creatività prendano forma nel contesto di Mekelle dando vita a un sistema di scambi, inganni, sotterfugi, trovate e rimedi per sopperire alle difficoltà che la vita quotidiana presenta e per tendere a quella agognata mobilità sociale alla quale i giovani protagonisti degli esempi successivi ambiscono ma che risulta ulteriormente ostacolata dalla mancanza di prospettive concrete. Si noterà infatti come molti dei giovani di cui si parlerà non possiedano titoli di istruzione superiore; così come

55 Si riferisce al testo della canzone “Vagabondo”, incisa da Nicola Di Bari nel 1965. 107

non abbiano mezzi, conoscenze specifiche o una necessaria rete di network per affermarsi nell’arena dei lavoratori autonomi e realizzare quel desiderio di auto-imprenditorialità molto spesso presente nelle narrazioni e nell’immaginario dei giovani di Mekelle.

3. Storia di un Original Gangsta

Nell’agosto del 2016 ero tornato per la prima volta dall’inizio del mio Dottorato a Mekelle. Oltre all’iniziare la nuova attività di ricerca, stavo accompagnando un gruppo di studenti di Antropologia dell’Università La Sapienza che avrebbero dovuto frequentare la Summer School organizzata, come ogni anno, dalla MEITE in collaborazione con la Mekelle University. Un pomeriggio, io e Aurora Massa raggiungemmo il centro di Mekelle a bordo di un piccolo minivan che collega uno dei campus principali dell’università al centro città. Sorpresi dalle piogge abbondanti che iniziarono appena mettemmo piede fuori dal mezzo, ci riparammo in una bunna bet56, una delle tipiche caffetterie specializzate nel preparare e servire il caffè nella maniera tradizionale del Tigray che affollano il centro cittadino. Al suo interno c’erano diversi avventori che cercavano riparo dalla pioggia, tra cui molti ragazzi. La nostra presenza non passò inosservata fra i presenti e uno di essi, seduto accanto a me e Aurora, iniziò a scambiare con cordialità alcune chiacchiere con noi. Il ragazzo si presentò col nome di Ogy. Si trattava, per noi, di un nome decisamente inusuale e pertanto gli chiedemmo se fosse originario di Mekelle o, più in generale, del Tigray.

Ogy ci rispose di essere nato e cresciuto a Mekelle, aggiungendo quindi che il suo era un nome di origine

Oromo, uno dei gruppi più numerosi che compongono la popolazione etiopica, molto diffusi nella parte centro-meridionale del Paese, oltre che in Kenya e Somalia. All’epoca in cui ci conoscemmo Ogy aveva

23 anni e diceva di essersi appena laureato in architettura alla Mekelle University. Jeans larghi a vita bassa, scarpe sportive e camicia nera; capelli rasati nei lati e lunghi sulla testa, sguardo vispo e parlantina spigliata, il nostro ospite vantava una ottima conoscenza dell’inglese, che parlava nella variante più vicina alla sua versione americana, dicendo di averlo appreso grazie alla sua attività di guida turistica, al cinema e alla musica hip-hop, una delle sue passioni. Ogy ci chiese i motivi della nostra presenza a Mekelle,

56 In tigrino, la parola bunna significa “caffè”, mentre “bet” sta per “posto, luogo”. 108

dimostrandosi interessato e provvedendo inoltre a pagare i nostri caffè, adducendo le consuete le retoriche circa l’ospitalità del popolo etiope. Quando cessò di piovere io e Aurora prendemmo congedo dal nostro ospite, che ci invitò a scambiare i nostri numero di telefono e a chiamarlo nel caso avessimo voluto approfittare di lui per organizzare un viaggio turistico.

Sebbene non sia mai riuscito a organizzare un viaggio di piacere insieme a lui, Ogy divenne uno degli interlocutori principali oltre che informatore privilegiato col quale svolsi il mio lavoro di ricerca durante quel periodo. Ben presto, seguendolo nelle sue attività quotidiane e approfondendo la sua conoscenza, mi resi conto che era coinvolto in diverse attività che potrebbero essere ascritte all’economia dell’informalità, o come direbbe Di Nunzio (2012), all’economia della strada. Ogy non aveva alcuna occupazione fissa e ben presto ammise di non essersi mai laureato in architettura, come aveva invece affermato durante il nostro primo incontro, ma che data la sua grande passione per il design avrebbe desiderato seguire un corso di laurea in architettura, cosa che non gli era stato possibile fare a causa degli scarsi punteggi per l’accesso alle classi di laurea. Le sue entrate principali provenivano dalla attività di guida turistica che svolgeva saltuariamente, quando aveva l’occasione di incontrare persone straniere alle quali, proprio come aveva fatto con me e Aurora, proponeva tour organizzati da lui. Questa attività non era per lui un’occupazione stabile e regolata, non era stipendiato da un’agenzia né tantomeno era legato a un ufficio turistico: il suo lavoro consisteva appunto nell’abbordare gli stranieri che incontrava a

Mekelle, fare amicizia con loro e invitarli a servirsi di lui e dei suoi “colleghi” per le loro escursioni. Ogy poteva infatti contare su una vasta rete di conoscenze personali tramite cui riuscire a organizzare viaggi turistici in Tigray e in altre regioni, tra cui autisti di minivan, operatori turistici professionisti e amici che come lui si improvvisavano guide. Molto spesso, durante il periodo in cui ci frequentammo, capitava che qualche amico lo chiamasse perché era riuscito a organizzare un viaggio con un gruppo di turisti e avesse bisogno di un aiuto, o anche che, essendo già impegnati in altri viaggi, gli chiedessero di accompagnare un gruppo differente e condividere i ricavi. Molto spesso capitava che mi mostrasse sul suo cellulare le fotografie dei suoi ultimi viaggi presso alcune delle più note attrazioni turistiche, storiche e geografiche del Paese, come la Depressione della Dancalia o le millenarie chiese monolitiche di Lalibela. L’altra

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attività che svolgeva in maniera regolare era quella di insegnante di inglese e di “arti” presso la scuola di lingue del suo amico Filmon. La scuola si trovava nel distretto di Quiha, pochi chilometri a nord di

Mekelle dove sorge anche l’aeroporto cittadino.

Col passare del tempo, a mano a mano che Ogy realizzava che non ero un semplice forenji interessato a fare viaggi e che il nostro rapporto diventava più confidenziale, la conoscenza che avevo dei modi in cui il mio amico si guadagnava da vivere si allargava sempre più. Anche il suo atteggiamento sembrava cambiare costantemente: rispetto ai modi garbati, cortesi, col quale approcciò me e Aurora e rispetto al tono pacato del suo linguaggio in un inglese eccellente, più entravamo in confidenza più emergevano i suoi modi da “gangsta”, come egli stesso era solito definirsi e come recitavano le didascalie che accompagnavano le sue fotografie condivise sui social network. Ispirato dalla musica rap e hip-hop, il suo linguaggio era costellato di espressioni colorite57 che facevano parte di uno slang americano. Al posto degli “excuse me; sorry guys; can I ask you…”, con i quali si rivolse a noi durante il nostro primo incontro, comparivano praticamente in ogni frase una miriade di “yo man; bitch; motherfucker; fuck; nigga”.

Assieme ad alcuni amici aveva anche registrato delle canzoni in modo amatoriale e girato un video in cui si esibivano, ripreso dalla camera di un telefono cellulare. Oltre alla sua passione per la musica, nei mesi in cui entrambi eravamo a Mekelle, Ogy mi mise al corrente delle sue numerose quanto differenti attività svolte sulla strada, alcune delle quali consistevano nel commettere piccoli crimini o vere e proprie truffe, soprattutto ai danni di turisti stranieri. Un giorno, fu lui stesso a farmi notare una frase che aveva scritto e condiviso su un popolare social network, che recitava: “Still gambling, still hustling”. Alla mia domanda circa la spiegazione di questa frase, Ogy rispose in questo modo:

Ogy: Amico, quando sei stato un hustler, resti sempre un hustler. Ho cominciato fin da bambino, tu lo sai…ho sempre dovuto badare a me stesso! Vicino casa dove vivevo c’era un cinema. Il biglietto costava solo 2 birr. Quando uscivo di casa mio padre mi dava solo quei 2 birr per pagare il biglietto ma nel cinema potevi comprare anche da mangiare. Allora sai cosa facevo? Uscivo di casa un’ora prima del film e parlavo col padrone del posto. Amico, gli parlavo e lo facevo ridere! Facevo ridere quel figlio di puttana fino alle lacrime! E così alla

57 Nei dialoghi fra me e Ogy che riporto nel testo il lettore incontrerà diverse espressioni volgari. Ho trascritto esattamente i dialoghi nella loro interezza non certo per il gusto del turpiloquio o per destare scalpore, né tantomeno per provocare indignazione o per offendere qualcuno. Ho scelto deliberatamente di non censurare questi dialoghi per restituire al lettore un’immagine quanto più fedele del repertorio culturale a cui attingeva il mio interlocutore, modellato sullo stile e sulle espressioni degli artisti afroamericani del panorama rap e hip-hop statunitense. 110

fine il tipo mi faceva entrare gratis! Coi soldi che mi aveva dato mio padre prendevo anche il popcorn e mi godevo il film. Ero il figlio di puttana più felice del cinema! Tutti i ragazzi del quartiere volevano essere miei amici, perché a volte riuscivo a far entrare gratis anche loro. C’era anche un altro trucco [trick] che usavo per far soldi. Una volta vendevano dei chewing- gum da dove uscivano anche dei tatuaggi, costavano solo 25 centesimi. Io compravo le gomme, tiravo fuori i tatuaggi e li rivendevo separatamente, 25 centesimi per le gomme e 25 centesimi per i tatuaggi.

Gianmarco: E adesso? Sei ancora un hustler? Che trucchi usi?

Ogy: Te l’ho detto, amico. Una volta hustler, per sempre hustler. Adesso devo fare quello che bisogna fare. Se qualcuno dei miei nigga [amici] deve piazzare qualcosa sanno che devono venire da me. Conosco i migliori dealer [ricettatori], quelli che pagano meglio. Qualche giorno fa un mio amico mi ha chiamato dicendomi che aveva un telefono. Non quella merda cinese, era un buon telefono. Il mio amico mi ha detto che volevano dargli 1000 birr per quel telefono, allora gli ho detto di lasciar perdere quel figlio di puttana e venire da me. Amico, mi hanno dato 5000 birr per quel telefono, e il mio amico me ne ha dato una fetta. Te l’ho detto, conosco i migliori dealer della città

Gianmarco: E a te capita mai di prendere [rubare] qualche telefono o fai solo il broker?

Ogy: No amico, non la faccio più quella merda. Te l’ho detto, adesso preferisco solo piazzare la merce. È più sicuro, sono soldi facili. Una volta lo facevo, e anche in quello ero il migliore. Sai cosa facevo? Mi vestivo bene, amico, come un fottuto business-man. Così se finivo nei guai o se qualche poliziotto veniva a chiedermi qualcosa mi vedevano vestito così e mi dicevano: “Ci scusi, signore, dev’esserci stato un errore”. Adesso posso riconoscere un ladro da come è vestito. Lo sai come funziona in questa città. La gente ti rispetta solo se hai i soldi, se sei vestito bene.

In un’altra occasione ci capitò di assistere alla scena di un bambino di strada, un venditore di occioloni, arachidi tostate, che piangeva sconsolato a un angolo di strada davanti al suo cesto di noccioline rovesciate in terra. Alcuni passanti, per consolarlo, gli davano qualche birr. Io e Ogy eravamo seduti di fronte al bambino mentre prendevamo un caffè, e col suo solito tono Ogy mi raccontò che si trattava di un trucco che faceva anche lui. Mi disse che spesso, da bambino, andava in giro vendendo noccioline o uova, e molte volte, soprattutto quando non era riuscito a piazzare la sua merce, ricorreva a questo trucchetto per fare qualche soldo. I trucchi che mi aveva raccontato in queste occasioni si riferivano al periodo della sua infanzia, che Ogy ricostruiva definendosi, come si è visto, un hustler, un traffichino, un imbroglione, arrivando poi a raccontarmi un episodio che lo vedeva coinvolto in un’attività di ricettazione recente. Il mio interlocutore riconosceva la sua abilità nel commettere piccoli imbrogli e la sua conoscenza dei migliori ricettatori riaffermando il suo essere un hustler, qualità che rivalutava positivamente e, come si è notato, costituiva per lui una costante nel periodo della sua vita che andava dall’infanzia fino all’epoca

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del nostro dialogo. Le parole riportate sottolineano in modo evidente uno dei motivi che secondo egli stesso stavano alla base del suo successo in questo tipo di attività: il possesso di un “capitale simbolico” grazie al quale persuadere le vittime dei suoi inganni e mettersi al riparo da eventuali accuse. Secondo la definizione coniata da Pierre Bourdieu, il capitale simbolico si riferisce a:

Ogni specie di capitale (economico, culturale, scolastico o sociale) quando è percepita secondo categorie di percezione, principi di visione e di divisione, sistemi di classificazione, schemi tassonomici, schemi cognitivi che siano, almeno in parte, il risultato dell’incorporazione delle strutture oggettive del campo considerato, ossia della struttura della distribuzione del capitale nel campo considerato. […] Il capitale simbolico è un capitale a base cognitiva, fondato sulla conoscenza e sul riconoscimento (Bourdieu, 1995: 144).

Bourdieu si riferisce quindi alla percezione che gli individui hanno dei diversi tipi di capitale.

Ricorrendo all’esempio della corte regale di Luigi XIV, Bourdieu sostiene che il possesso di capitale simbolico sia la componente fondamentale per far sì

[…] che ci si inchini davanti a Luigi XIV, che gli si renda omaggio, che egli possa dare ordini e che quegli ordini siano eseguiti, che egli possa declassare, degradare, consacrare, ecc. […] perché tutte le piccole differenze, i sottili segni di distinzione nell’etichetta e nel rango, nelle pratiche e nell’abbigliamento, di cui è fatta la vita di corte, sono percepite da persone che conoscono e riconoscono praticamente (per averlo incorporato) un principio di differenziazione che consente loro di riconoscere tutte quelle differenze attribuendo ad esse un valore, persone, in una parola, pronte a morire per una questione di copricapi (ibidem).

Ogy era ben conscio, come si è potuto notare, che l’attitudine degli altri verso di lui dipendesse anche (o soprattutto) dal modo in cui era vestito, nel modo cioè in cui appariva ed era percepito dagli altri. Sebbene non me ne abbia mai parlato in modo diretto, ritengo opportuno pensare che anche i modi garbati in cui si era presentato a me e Aurora, aggiungendo in particolare il dettaglio – rivelatosi poi fasullo

– del possedere una laurea in architettura, servissero come mezzi attraverso cui rappresentare se stesso agli occhi dei turisti stranieri come una persona sicura e affidabile alla quale rivolgersi per viaggiare. Uno dei motivi che mi ha spinto a questa riflessione riguarda una rivelazione fatta da Ogy stesso circa il suo nome. Una domenica di ottobre ci stavamo recando a casa di suo padre, in una zona periferica di Mekelle, per pranzare insieme. Mentre compravo del vino e della frutta per ringraziare suo padre dell’invito, Ogy mi confessò che quello non era in realtà il suo vero nome. Si trattava a suo dire di un soprannome che gli era stato dato anni prima da amici, al quale ormai lui stesso e tutti quelli che lo conoscevano si erano

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abituati ma che non piaceva a suo padre. Pertanto, mi avvisò di riferirmi a lui con suo vero nome: Alem58.

Si trattava quindi di una menzogna il fatto che, come ci aveva detto la prima volta, si trattasse di un nome

Oromo. Ben presto, in seguito, venni a conoscenza dell’esatto significato di quel soprannome.

Contrariamente a quanto mi aveva detto, “Ogy” non era nemmeno il modo corretto di trascriverlo. La versione corretta era quella di “OG”, l’acronimo di “Original Gangsta”. Il soprannome si riferiva evidentemente alla sua passione per la musica e la cultura del Black American Ghetto, oltre che alle sue molteplici attività nell’economia sotterranea. Non trascorse molto tempo da quando, dopo questa rivelazione, capitò anche che diversi miei amici e conoscenti ai quali presentavo Ogy sorridessero ascoltando il suo nome ed esclamassero “original gangsta!”, sebbene lo stesso Ogy rispondesse ancora adducendo che si trattava, invece, di un nome Oromo. Si ricorderà come una delle traduzioni possibili del termine iwala fosse, appunto, quella di “gangster”. Si tratta di un caso evidente di quella riappropriazione di significato che il termine ha subito, andando a indicare valori socialmente positivi che lo stesso Ogy rivendicava per se stesso. Una volta che venni a conoscenza del termine tigrino, tentai appunto di “provarlo” attribuendo al mio amico questo aggettivo. Ogy sorrise e mi ringraziò di averlo chiamato iwala, aggiungendo in seguito alle mie domande che la traduzione della parola poteva essere proprio quella di “hustler” o anche “gangsta”, i due termini coi quali si descriveva sovente.

Tornando al pranzo a casa di suo padre, fu l’occasione per conoscere nuovi particolari della sua biografia. Suo padre, un uomo di origine eritrea di 43 anni, si era trasferito da Asmara a Mekelle esattamente 23 anni prima, quando nacque Ogy. Sua madre era invece di origini tigrine e morì poco dopo averlo dato alla luce. All’epoca in cui andammo a casa dell’uomo, il padre di Ogy era risposato da 8 anni con una donna più giovane di lui, di 32 anni. Quando andammo via Ogy mi spiegò che quella era una delle ragioni principali per le quali non viveva con la sua famiglia ma condivideva invece una piccola abitazione con Filmon, il suo amico che dirigeva la scuola di lingue. Nel corso degli anni non era stata la sua unica abitazione: aveva già ricevuto ospitalità per periodi diversi da vari amici che vivevano da soli,

58 Anche questo, come negli altri casi, si tratta di un nome di fantasia. Nel testo continuerò a chiamarlo Ogy, facendo riferimento al col nome col quale lo avevo conosciuto e che lui stesso mi aveva indicato, facendomi lo spelling della parola. 113

condividendo con loro le spese di affitto. Quando gli chiesi in che rapporti fosse con la moglie di suo padre e la loro famiglia mi rispose: «amico, qui in Etiopia le relazioni sono complicate. Se non vuoi avere problemi con la tua matrigna non devi stare con loro». La mancanza di una sicurezza economica garantita dalla famiglia rappresenta, secondo la mia opinione, una ragione ulteriore per comprendere il coinvolgimento di Ogy nelle trame dell’economia sotterranea. Oltre alla mancanza di educazione superiore e di fondi per finanziare progetti imprenditoriali, si aggiungeva anche la consapevolezza di non poter contare sull’apporto della propria famiglia. Il suo coinvolgimento nell’economia della strada rispondeva, a mio avviso, a quanto analizzato nel paragrafo precedente: era il modo attraverso cui guadagnarsi da vivere e andare avanti e anche attraverso cui costruire prospettive per il proprio futuro. Quando affrontavamo l’argomento, infatti, Ogy era solito usare alcune delle stesse retoriche di chi inseguiva un sogno di auto- imprenditorialità (cfr. cap. II), dicendo di voler essere il “capo” di se stesso e parlando dei magri guadagni di un lavoro salariato. Alcune di queste considerazioni sono emerse durante la conversazione che intrattenemmo in uno dei bar più famosi della città:

Voglio essere il capo di me stesso, amico! Il problema di questa fottuta città è che se lavori in uno di questi negozi ci sarà sempre il tuo boss a controllarti. Io non lo voglio questo tipo di controllo, amico, io voglio essere libero! E poi il tuo boss starà lì a darti ordini, a urlarti “fai questo, fai quello”. Fanculo, amico! Io so come fare il mio lavoro! Vai lì alle 8 di mattina, vai a pranzo e poi torni a lavoro fino alle 8 e per cosa? Per pochi spicci, per un’elemosina. Sono innamorato dei soldi, amico! I soldi ti fanno uomo. Un uomo senza soldi è quasi una femminuccia [pussy]! Chiunque può venire da te e darti 10 birr, e tu li prenderesti, ma sono solo spiccioli! Possono dirti qualunque cosa, ma tu lo accetterai per avere quei soldi Invece se hai soldi hai anche rispetto. Se hai i soldi nessuno, nessuno fa lo stronzo con te [fucks with you], non si avvicinano nemmeno!

Attraverso il suo coinvolgimento nell’economia informale, Ogy prendeva in considerazione la possibilità di mettere da parte i soldi necessari ad avviare un’attività, approfittando anche della vasta rete di conoscenze che la sua esperienza sulla strada poteva garantirgli. Parlando del suo desiderio di aprire un locale, queste considerazioni emergevano con chiarezza:

Ti dico un segreto, amico. Il mio sogno. Voglio aprire un club, si chiamerà “The Majestic”. Voglio che sia aperto 24 ore su 24, e potrai trovarci di tutto. La mattina sarà una caffetteria e farà anche da mangiare. Ci sarà da bere, servirà birra e alcolici. Poi la sera si trasformerà in un vero e proprio club, con musica e gente che balla. Amico, se aprissi questo locale farei un sacco di soldi [big money]. Filmon lo direbbe a tutti i suoi studenti, dopo le lezioni verrebbero a divertirsi qui. Io mi occuperei della musica, della pubblicità. Farei il dj e inviterei le migliori 114

fighe [pussy] della città! Sarebbe pieno, amico! Alcuni dei miei nigga mi farebbero avere i migliori liquori a poco prezzo. Sarebbe un posto di classe, amico, qualcosa che questi figli di puttana non si immaginano nemmeno.

Quando l’anno successivo tornai a Mekelle, venni a sapere da amici comuni che Ogy si era ormai trasferito in pianta stabile ad Addis Abeba. Tentai in molti modi di contattarlo ma il suo numero di telefono risultava ormai inattivo e non rispondeva a nessuno dei miei messaggi. Molte delle persone che lo conoscevano mi misero al corrente del fatto che fra loro i rapporti erano peggiorati. Il mio amico

Tseghaun, ad esempio, il proprietario del bar che frequentavo assiduamente, mi raccontò che Ogy era sparito all’improvviso e aveva lasciato un conto non pagato di oltre 1000 birr. Semera, che sarà protagonista del prossimo paragrafo, mi raccontò diversi dettagli della sua vita ad Addis, di cui parlerò più avanti. Uno degli amici comuni che mi diede per primo notizie di Ogy notizie fu Bereket, riferendomi di un loro incontro avvenuto nella capitale. Gli domandai se sapesse cosa stesse facendo ad Addis, così mi rispose ridendo: «Fa la cosa che gli riesce meglio: imbroglia i forenji [hustling forenji]! L’ho incontrato a Piazza59, era fuori al Taitu Hotel ad agganciare i turisti e ad accompagnarli in giro».

La considerazione di Bereket si riferisce al modo in cui, come è stato descritto da Marco Di

Nunzio (2012), le guide di strada per turisti ad Addis Abeba agiscono con i loro “clienti”. Scrive Di

Nunzio:

«It is on the street that they pick up tourists. They often present themselves not only as guides but also as young people interested in making friends with foreigners They often explained to me that the way tourists behaved shaped how they themselves behaved with the tourists. If the tourists were nice, generous, and understanding, the tourist guides would not cheat them. Conversely, if the tourists were not smart in understanding the necessities of survival faced by the street guides, for instance by being “stingy” or even refusing to pay for the time tourist guides spent with them, street tourist guides would resort to various tricks, such as taking a cut on any goods the tourist was buying or setting up a confidence trick in order to make tourists give money away» (2012: 438).

Anche Di Nunzio sottolinea l’importanza, per le guide di strada di Addis, di presentarsi non come guide ma come giovani mossi dalla volontà di fare amicizia con gli stranieri. Acquistare la loro fiducia è un elemento fondamentale per organizzare infatti un “confidence trick”, una truffa badata appunto sulla

59 Piazza è il nome di una delle zone centrali di Addis Abeba, che ospita alcuni degli alberghi più noti della città, fra cui il Taitu Hotel, il più antico. 115

fiducia in modo tale da far spendere soldi ai turisti e ottenerne una parte. Lo stesso sistema era portato avanti anche da Ogy a Mekelle, prima di trasferirsi nella capitale, probabilmente a causa della maggiore presenza di stranieri. Si ricorderà infatti che all’epoca del nostro primo incontro fu proprio lui a rivolgersi a me e Aurora, insistendo per offrirci i caffè e presentando il gesto come il “classico” segno di ospitalità e amicizia tipico dell’Etiopia. Nel periodo in cui ci frequentammo, mi raccontava spesso non solo dei suoi viaggi in compagnia di turisti stranieri, ma anche dei regali che aveva ottenuto da loro. Abiti, scarpe, attrezzi per le escursioni, lettori musicali, cuffie. Altre volte traeva vantaggio dalle sue frequentazioni anche solo ricevendo inviti per lauti pasti o serate di divertimento presso alcuni dei più noti – quanto costosi – locali di Mekelle. Un altro modo per ottenere vantaggi e ricavare una somma di denaro per se stesso, mi raccontava, era anche quello di procurare marijuana per i suoi ospiti. Capitò molto spesso che, soprattutto quando ci incontravamo di mattino presto, mi raccontasse di notti passate a far festa con alcol e fumo in compagnia di turisti, spiegandomi di essere anche riuscito a guadagnare facendo la cresta sui soldi che chiedeva ai suoi amici per comprare l’erba. In due occasioni, inoltre, riuscì a ricevere discrete somme di denaro da alcuni turisti che erano tornati nei loro paesi, con i quali era rimasto in contatto.

Riuscì infatti a farsi inviare dei soldi persuadendoli della sua volontà di iscriversi presso uno dei college privati di Mekelle, chiedendogli un aiuto economico che sarebbe servito a pagare le rate di iscrizione.

Non sempre però le cose funzionavano così bene. In più occasioni rimase anche diversi giorni senza riuscire a incontrare qualche turista, a ricevere una chiamata da uno dei suoi amici o a piazzare qualche buon affare. Un pomeriggio di ottobre, dopo un weekend fallimentare dal punto di vista lavorativo, Ogy si confidò in questo modo:

Amico, io non riesco a star fermo. Sono stanco di starmene seduto senza far niente. Mi sembra di star diventando stupido. Ci sono giorni in cui non so nemmeno cosa voglio, di cosa ho bisogno. Sono stanco di questa merda, dei giorni tutti uguali: ti svegli, vai in giro, prendi il caffè, usi il wi-fi, dormi, e il giorno dopo inizi tutto da capo. Ci sono giorni in cui sono confuso. Penso: “ora faccio colazione”. Poi mi rendo conto di non avere fame. Poi mi dico che è meglio mangiare qualcosa, ma poi non lo voglio. Mi sembra di star impazzendo, e se non risolvo il problema impazzirò davvero. Credevo che il problema fossero i soldi, ma non è solo questione di soldi. È il fatto di stesso di fare qualcosa, di essere occupati, di lavorare. Se qualcuno adesso mi pagasse 1000 birr al mese per stare così senza far niente direi di no. Cosa posso dire? Forse sono un workaholic [dipendente dal lavoro], ma non so stare senza far nulla. Questa situazione mi sta stressando, amico, devo risolvere questo problema.

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Da quest’ultima considerazione si può notare come per Ogy, il suo coinvolgimento nell’economia sotterranea rappresentava il posizionamento all’interno del mondo del lavoro. Pertanto, ritengo opportuno poter supporre che il suo trasferimento nella capitale fosse motivato dalla percezione dell’allargare le proprie possibilità lavorative, contando sulla maggiore presenza di stranieri e di strutture ricettive e turistiche.

4. “The Wolf of Addis Abeba”

Il coinvolgimento nell’economia informale, attraverso il ricorso alle abilità di un iwala del sapersi destreggiare in ogni situazione, approfittando delle occasioni per ottenere vantaggi grazie alla propria intelligenza e alla propria furbizia, riguarda anche il mio giovane amico Semera. Nel corso degli anni e delle diverse missioni etnografiche che ho condotto a Mekelle, Semera ha rappresentato uno degli informatori privilegiati con i quali condurre le mie ricerche oltre che uno degli amici con i quali sono stato maggiormente in contatto. Ho seguito la sua storia di vita fin dall’epoca del mio primo arrivo nel capoluogo tigrino, nel 201360. Come si vedrà, la sua parabola rappresenta un caso emblematico del perseguire l’obiettivo della mobilità sociale attraverso l’economia informale, ribaltando in modo drastico una situazione di difficoltà ed emarginazione. Attraverso la sua esperienza sulla strada, la sua rete di conoscenze e una brillante arguzia, Semera aveva sviluppato e perfezionato una vera e propria figura professionale: il falso ebreo. Si fingeva infatti un falascià, un ebreo etiope, essendo arrivato anche a parlare fluentemente la lingua ebraica. Partendo dal racconto dei nostri primi incontri, arriverò poi a descrivere in che modo la sua finzione fosse servita ad aiutarlo nell’inserimento nel mondo del lavoro e a permettergli di costruire immagini e speranze di mobilità, non solo sociale ma anche geografica, per il proprio futuro.

Ho conosciuto Semera quando aveva solo 19 anni. Era il 2013 e io visitavo Mekelle per la prima volta. La mia ricerca mi aveva portato a frequentare molto da vicino il Mekelle Youth Center61 (MYC)

60 Alcune parti di questo paragrafo, soprattutto quelle inerenti il passato di Semera, sono infatti riprese e rielaborate dal mio precedente lavoro di tesi specialistica (Salvati, 2015). 61 Il centro è presente da molti anni sul territorio e a dirigerlo, dal 2004, è Jon Nykamp, missionario della Serving in Mission (SIM). La SIM è una lega di diverse organizzazioni cristiane che vanta una storia ultra centenaria, iniziata nel 117

una struttura che sorge nel centro cittadino e che rappresenta uno dei maggiori luoghi di ritrovo diurni per giovani di tutte le età, genere e condizione sociale. Anche Semera era membro del MYC, sebbene nei primi mesi di ricerca non lo avessi mai incontrato. Quando ci conoscemmo mi raccontò infatti di essere appena tornato da un periodo di sei mesi trascorso ad Addis Abeba, dove mi disse di aver lavorato come guida turistica. Nonostante si fosse fermato, come tanti altri suoi coetanei, al grade 10, parlava un eccellente inglese, con un lessico e un accento molto più vicino alla sua versione americana. Semera era infatti cresciuto insieme a diversi missionari e volontari occidentali del centro e in particolare, da quando aveva solo 5 anni era seguito da una missionaria statunitense62, amica intima e collaboratrice del direttore del centro, che il giovane considerava come una vera e propria madre. La madre biologica del ragazzo era morta durante i suoi primi anni di vita, mentre suo padre aveva lasciato Mekelle stabilendosi definitivamente in Egitto. Insieme alla donna statunitense trascorse lunghi periodi nei quali vissero insieme a Mekelle, prima che questa si trasferisse nuovamente in pianta stabile negli Stati Uniti. Molto spesso Semera mi ha mostrato alcune fotografie che li ritraevano insieme. Dopo il ritorno della donna negli Stati Uniti, Semera dilapidò rapidamente tutti i fondi che gli erano stati lasciati. Successivamente, nelle settimane in cui lo frequentai, Semera mi confidò di aver mentito circa il suo lavoro nella capitale e che purtroppo aveva trascorso gli ultimi sei mesi in reclusione presso una prigione nella regione dell’Afar.

Questa rivelazione arrivò a seguito delle mie domande circa alcuni tatuaggi che, nascosti dalla maglia,

1893 come Sudanese Interior Mission. Opera in oltre settanta paesi del mondo inviando volontari con lo scopo di mandare avanti progetti di sviluppo e diffondere il Vangelo. Il direttore è coadiuvato da altri volontari occidentali ed etiopi, oltre che da personale remunerato. I servizi offerti dal centro sono i più svariati, partendo dalle attività sportive: il calcio è praticato su un campo in terra; basket, pallavolo e tennis, invece, si svolgono su due grandi campi in cemento. Sulle panche e i tavolini adiacenti ai campetti sono disegnate scacchiere per la dama e per gli scacchi. All’interno, invece, una grande sala ospita corsi di danza, di ginnastica artistica, di taekwondo, oltre al badminton, al ping-pong e così via, fino alla sala pesi della palestra, i cui macchinari sono nella maggior parte dei casi ricavati da vecchie parti di automobili e camion. Oltre a questo tipo di attività sportive e ricreative, all’interno della struttura sono presenti aule per l’insegnamento di lingue straniere, una sala computer, un’aula dedicata ai corsi di HIV/AIDS education e una biblioteca. Aperto a chiunque voglia partecipare a un’attività, o semplicemente frequentarlo, si può diventare membri del centro previo il pagamento annuale di soli quindici birr. La presenza di personale straniero è motivata anche da scopi filantropici e religiosi: ai tempi della mia presenza sul campo oltre al direttore lavoravano come volontari una coppia di svizzeri francofoni, una famiglia belga, uno statunitense ed un giovanissimo ragazzo australiano; tutti appartenenti a confessioni evangeliche, protestanti e pentecostali. Nel corso dei miei soggiorni nel capoluogo tigrino parte degli individui appena descritti è stata sostituita da nuovi volontari, sempre provenienti da paesi europei o nordamericani, mentre altri si sono stabiliti per un periodo più lungo. 62 In un colloquio avuto con il direttore del centro, l’uomo mi ha spiegato che l’invio di somme di denaro da parte dei volontari non rientra ufficialmente nei compiti dell’organizzazione ma si tratta di un intervento spontaneo, a seguito delle richieste degli stessi giovani membri del centro. 118

avevo intravisto: una croce sulla spalla destra e il numero romano XIII sul pettorale dello stesso lato.

Entrambi i tatuaggi erano di scarsa qualità, con uno sbiadito strato di inchiostro e un disegno che tradivano l’inesperienza di chi li aveva realizzati. Semera mi rivelò dunque che a imprimerli sulla sua pelle era stato un compagno di galera e mi raccontò di essere stato incarcerato per reati di contrabbando. A confermarmi questa versione dei fatti fu lo stesso Jon, il direttore del centro, durante un incontro che ebbi con l’uomo presso il suo ufficio. Purtroppo per il mio giovane amico, le sue vicende con la giustizia non si limitarono a quel periodo di reclusione: pochi giorni prima di lasciare definitivamente Mekelle, nel marzo del 2014, ricevetti una sua telefonata nella quale richiedeva la mia compagnia per tutto il pomeriggio, che trascorremmo insieme presso una stazione di polizia. Al nostro arrivo un agente ci fece accomodare in un ufficio, dove poco dopo arrivarono un ufficiale e una donna che Semera mi spiegò essere una sorella della sua defunta madre, con la quale aveva avuto delle controversie legate a questioni monetarie e che lui aveva pesantemente insultato. L’ufficiale chiese al giovane i documenti e le generalità per poi passare ad ascoltare le due parti coinvolte, che discussero con toni spesso concitati. Alla fine l’ufficiale sciolse la seduta dando disposizione a entrambe le parti in conflitto di non avere rapporti reciproci.

Nel primo periodo della nostra conoscenza, Semera riuscì a monopolizzare parte del mio tempo: il mio telefono era raggiunto quotidianamente da messaggi e telefonate in cui premeva fortemente per vederci, pranzare insieme in casa di qualche suo conoscente oppure insistendo nel volermi offrire i pasti e compiere visite in casa di amici e parenti. Ciò di cui all’epoca Semera aveva bisogno e che mi chiedeva di donargli in quanto suo amico erano il mio tempo e la mia presenza. Questo rispondeva, secondo il mio parere, all’assistenza e al sostegno che noi due, in qualità di amici, dovevamo garantire l’uno all’altro (cfr. cap. II, par. 4). La volontà di mostrarsi in mia compagnia era dovuta al fatto che secondo la sua opinione l’essere visto spesso assieme a un uomo occidentale era considerato come un elemento di prestigio, che avrebbe potuto spendere al fine di elevare la sua posizione e riabilitare la propria immagine. A questo lascerebbero pensare le ripetute visite in mia compagnia da amici, parenti e da quella che all’epoca era la sua fidanzata, la volontà di farmi conoscere la famiglia di quest’ultima e la mia presenza alla stazione di

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polizia, un’occasione particolare in quanto per tutta la durata del confronto nessuno mi rivolse domande, mi chiese pareri o mi domandò di intervenire, rimanendo accanto a Semera in completo silenzio. Ciò che io donavo al mio giovane amico era moneta spendibile per riabilitarsi agli occhi della famiglia e della comunità, essendo giunta la mia presenza in una fase cruciale della sua esistenza, quando seppur giovanissimo iniziava una nuova vita dopo essere stato a lungo definito, come ammesso dallo stesso direttore Jon, un “ragazzo problematico” che era finito anche col subire un arresto e il dover scontare un lungo periodo di incarcerazione.

La nozione che gli individui investono strategicamente in particolari relazioni sociali per ottenere vantaggi ed acquisire beni materiali è un tema ampiamente condiviso negli studi antropologici (Hart 1975;

Hoben 1973; Parkin 1972). A ben vedere, l’investimento di Semera nella relazione di amicizia avviata con me per riabilitarsi mi rendeva un “capitale sociale”, usando ancora una volta le parole di Pierre Bourdieu.

Scrive il sociologo francese:

«Il capitale sociale, invece, è l’insieme delle risorse attuali e potenziali che sono legate al possesso di una rete duratura di relazioni, più o meno istituzionalizzate, di interconoscenza e di inter-riconoscenza; o in altri termini, all’appartenenza a un gruppo, come insieme di agenti che non sono solamente dotati di proprietà comuni (suscettibili di essere percepite attraverso l’osservazione dagli altri o da se stessi) ma sono anche uniti da dei legami permanenti e utili» (Bourdieu, 1980: 2).

Come spesso mi confidava, attraverso la nostra frequentazione Semera sperava di poter acquisire credito e apparire come ragazzo perbene, onesto, istruito perché poliglotta, per il solo fatto di essere visto spesso in compagnia di un individuo occidentale, dopo essere stato a lungo etichettato come un poco di buono: “Se ti vedono con un forenji, penseranno che sei utile, che vali qualcosa”, mi disse durante uno dei nostri incontri. Come ricorda Berardino Palumbo, spesso sono proprio gli antropologi ad essere visti dagli occhi della popolazione locale come dei veri e propri «beni che producono ricchezza» (1991: 245), sia sul piano del prestigio sociale e quindi sui vantaggi che la loro frequentazione potrebbe apportare, sia su quello strettamente economico.

Due anni dopo il nostro ultimo incontro tornai a Mekelle. Sebbene fossi rimasto in contatto con lui attraverso i social network e mi capitasse spesso di guardare le fotografie che condivideva, quando ci rincontrammo nel settembre del 2016 impiegai diversi secondi per riconoscerlo. Semera era cresciuto, 120

aveva guadagnato centimetri e qualche chilo in più, ma quello che mi stupì maggiormente erano i suoi capelli e la barba, che fino a due anni prima era totalmente assente. Adesso invece la barba era folta e molto lunga, soprattutto sul mento. Si trattava del vestire “gli abiti da lavoro”: Semera si era infatti trasferito ad Addis Abeba e in quei giorni era tornato a Mekelle per festeggiare l’inizio del nuovo anno63.

Nella capitale lavorava come guida turistica per diverse agenzie, e si era specializzato nel ricevere e accompagnare turisti israeliani. Mi raccontò del grande successo che stava avendo in questo campo, favorito dal fatto che si presentava ai suoi ospiti come un falascià, un ebreo etiope. Oltre alla barba e ai capelli lunghi, quando riceveva i turisti Semera indossava anche una kippah, il copricapo usato dagli ebrei osservanti maschi. Ben più importante, inoltre, era il fatto che avesse imparato la lingua ebraica. Mi spiegò che già da molti anni, sebbene durante il nostro primo incontro non me ne avesse parlato, possedeva i rudimenti fondamentali della lingua ebraica, che aveva appreso da un volontario israeliano. Aveva poi iniziato a studiarla fino a quando, una volta trasferitosi nella capitale, aveva perfezionato la sua conoscenza studiando sia la lingua che la Torà assieme ad un rabbino residente ad Addis. Ancora al giorno d’oggi, nei giorni in cui scrivo, Semera condivide spesso fotografie che lo ritraggono assieme al rabbino, nelle quali lo ringrazia con lunghe dediche. Mi spiegò quindi che i suoi studi sono propedeutici a quella che sarà la sua conversione all’Ebraismo. A tal proposito, rimasi molto colpito dal notare che oltre ai vecchi tatuaggi sbiaditi che gli erano stati fatti in galera, su uno degli avambracci era comparso un nuovo disegno, questa volta realizzato da un professionista. Si trattava di una croce accompagnata dalla scritta

“Jesus Christ is my Lord”. Gli domandai spiegazioni, notando lo scarto evidente fra il suo nuovo tatuaggio e la volontà di convertirsi. Imperturbabile, mi spiegò che si era fatto tatuare il simbolo cristiano proprio in virtù della sua futura conversione, solo formale, alla religione ebraica, rimarcando dunque la sua appartenenza. Mi spiegò poi che aveva già pensato al modo in cui giustificarlo: avrebbe detto che anche quello, come gli altri tatuaggi, riguardavano il periodo della sua incarcerazione e si riferivano quindi a un periodo superato della sua vita.

63 Secondo il calendario etiopico, il primo giorno dell’anno è l’11 settembre. 121

Semera aveva cominciato a muoversi nel mondo del settore turistico a Mekelle, partendo dal settore informale, alla stessa maniera di quanto fatto da Ogy. Rispetto al protagonista dello scorso paragrafo aveva però il vantaggio di essere un membro del MYC e poter contare quindi su una rete di relazioni molto più vasta con i forenji. Quando si trasferì ad Addis furono proprio le sue conoscenze, infatti, a permettergli di iniziare a lavorare presso agenzie turistiche ufficiali: il direttore del centro, Jon, lo introdusse personalmente presso alcuni dei suoi conoscenti nella capitale. Oltre al lavoro per le agenzie,

Semera mi raccontò di avere, soprattutto durante il primo anno dal suo trasferimento, lavorato molto anche come guida di strada. Proprio questi ultimi due particolari costituirono il terreno perché entrasse molto in confidenza con Ogy, che conobbe tramite me durante la sua vacanza per l’anno nuovo a Mekelle.

I due si scambiarono i propri numeri di telefono, consigli e contatti, allargando in questo modo le loro reti di relazioni e le occasioni lavorative che potevano ricavarne. Quando tornai in Etiopia l’anno successivo, nel 2017, venni ricevuto proprio da Semera all’aeroporto di Addis Abeba. Rispetto all’anno precedente le cose erano continuate a migliorare per lui sotto l’aspetto lavorativo. Mi era venuto a prelevare, infatti, all’interno del terminal degli arrivi dei voli internazionali, una zona normalmente interdetta agli accompagnatori ma alla quale lui aveva potuto accedere grazie al tesserino di guida turistica ufficiale che gli era stato rilasciato dal Federal Bureau of Tourism. Per conseguirlo aveva ottenuto un master presso uno dei college privati della capitale in Tourism Management e superato un esame gestito dallo stesso ente governativo per diventare a tutti gli effetti una guida turistica ufficiale. Durante il nostro incontro mi raccontò di come il rapporto fra lui e Ogy, che come si ricorderà si era trasferito nella capitale, era rapidamente andato deteriorandosi.

Il tuo amico [si riferiva a Ogy] sta tramando qualcosa [playing some games]. Adesso ha anche telefonato alla mia ragazza, le ha detto delle cose. Non so cosa ha in mente. Credo che voglia portarsela a letto. Io l’ho chiamato, gli ho detto di smetterla, ma se non lo fa gli manderò qualcuno che glielo farà capire in un altro modo [colpisce con un pugno il palmo della propria mano sinistra]. Non può farle queste cose, non si può comportare così dopo quello che ho fatto per lui. Quando è arrivato non conosceva nessuno. Io gli ho fatto conoscere un sacco di persone, l’ho ospitato a casa mia, gli ho persino regalato un paio di scarpe [su quest’ultima frase l’espressione del suo volto trasuda tutto il suo astio: aggrotta le sopracciglia e socchiude le palpebre] e lui mi ripaga in questo modo! Mi deve ancora dei soldi e si comporta in questo modo! Amico, a tutti capita di sbagliare, ok, anche tu mi hai conosciuto quando ero al verde [broke], anche io ho fatto tante cose sbagliate. Ma sono rimasto, ho chiesto scusa, mi sono

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ripulito e ho ricominciato e soprattutto non mi sono mai svergognato [I’ve never put myself into shame].

Il rapporto che si era venuto a creare fra Ogy e Semera può essere letto attraverso la chiave interpretativa fornita da Marco Di Nunzio (2012) nella sua ricerca sull’economia della strada ad Addis

Abeba. Lo studioso napoletano propone di leggere le relazioni che i suoi informatori intrattenevano fra loro navigando l’economia della strada attraverso la nozione di “passive networks” coniata da Bayat64, indicando l’intera gamma di contatti informali e interazioni che in maniera disordinata e a seconda delle situazioni lega fra loro gli attori che agiscono sulla strada (Di Nunzio, 2012: 337).

Mentre il rapporto con Ogy andava peggiorando, il suo successo nel mondo del lavoro sembrava invece aumentare. Mi mostrò infatti il suo biglietto da visita: sullo sfondo c’era la bandiera dello Stato di

Israele e una didascalia in ebraico confermava la sua conoscenza della lingua. Oltre a ricevere e accompagnare turisti provenienti da Israele, le sue conoscenze personali, i suoi studi col rabbino e il nuovo titolo di guida ufficiale gli avevano anche permesso di svolgere diverse mansioni per l’ambasciata israeliana ad Addis, mentre il lavoro con diverse agenzie turistiche continuava ad andare a gonfie vele. Mi raccontò che adesso aveva in mente di mettersi in proprio, aprendo una sua agenzia:

Semera: Mi manca poco amico, ancora un po’ e poi aprirò la mia agenzia! Ormai mi sono fatto un nome, porto un sacco di turisti! La settimana scorsa ho portato in giro un gruppo di ebrei americani. L’agenzia per la quale lavoro ha guadagnato 3000 dollari. Sai quanto mi ha dato il mio boss? 7000 birr65! Cosa sono 7000 birr? Sono niente, sono spiccioli! Potrei guadagnare migliaia di dollari a settimana con la mia agenzia! Hai mai visto “The Wolf of Wall Street”? La mia vita adesso è come quella di Jordan! Io sono solo al punto di partenza, ma voglio essere come lui! Soldi, macchine, ragazze e bella vita! Voglio essere the wolf of Addis Abeba!

Gianmarco: Ma Jordan alla fine finisce in galera!

Semera: Ma in quella prigione ci andrei anche io, amico! Ci andrei dritto anche adesso! I soldi comprano tutto66.

64 Per Bayat, «the street as a public space possesses this intrinsic feature, making it possible for people to mobilize without having an active network. Such a mobilization is carried out through passive networks – the instantaneous communication among atomized individuals, which is established by the tacit recognition of their common identity and is mediated through space» (Bayat, 1997: 19, cit. in Di Nunzio, 2012: 437). 65 Nel giugno del 2017, 3000 dollari equivalevano a circa 69000 birr. Semera faceva quindi notare come, rispetto alla somma guadagnata dall’agenzia per la quale lavorava, il suo guadagno di 7000 birr (circa 300 dollari) rappresentava una somma esigua. 66 Semera si riferiva al film del 2013 “The Wolf of Wall Street”, diretto da Martin Scorsese. Parla della vera storia di Jordan Belfort, uno speculatore finanziario che accumula una fortuna straordinaria vendendo azioni in modo 123

Anche Semera, quindi, sembrava convinto della possibilità di poter mettersi in proprio, contando sul fatto di essere, ormai, bene inserito nel settore turistico oltre che in una posizione di vantaggio grazie alle sue relazioni e al suo essersi specializzato nel ricevere e lavorare insieme a persone israeliane. L’idea di aprire una propria agenzia faceva parte di un percorso che, nei suoi piani, non avrebbe rappresentato il punto conclusivo. Come emerse durante il nostro dialogo e nelle volte successive in cui ci incontrammo, così come ho avuto modo di ascoltare spesso durante le nostre conversazioni attraverso i social network,

Semera non inseguiva soltanto il desiderio di una mobilità sociale ma anche geografica. Secondo il mio giovane amico, dopo la sua conversione all’Ebraismo e attraverso le sue relazioni personali, sarebbe riuscito a raggiungere proprio Israele.

5. Mickey, il “borko”

Un esempio ulteriore del coinvolgimento nell’economia sotterranea e nel ricorso alle capacità di un iwala è rappresentato dalle attività di Mickey, un giovane di 22 anni membro del MYC. Così come

Semera, conobbi anche lui nel 2013, quando aveva solo 18 anni. Mickey era orfano di madre e a causa delle ristrettezze economiche di suo padre venne affidato alle cure di un orfanotrofio. Fin dall’infanzia la sua vita è stata segnata dal contatto continuo e costante con persone provenienti dal mondo Occidentale.

L’orfanotrofio nel quale è cresciuto è ancora oggi presente a Mekelle e si tratta di un’istituzione nata dalla collaborazione fra enti pubblici etiopi e organizzazioni non governative tedesche. La presenza al suo interno di volontari e insegnanti provenienti dalla Germania e da altre nazioni europee ha fatto sì che il ragazzo apprendesse l’inglese, pur non avendo mai seguito corsi di lingua e avendo, al contempo, terminato i propri studi nelle scuole pubbliche al grade 10. Nel caso di Mickey, il contatto con individui occidentali è stato decisivo anche per quanto concerne il suo nome. Durante uno dei nostri primi incontri mi ha infatti raccontato che quello che in realtà è un soprannome gli è stato dato per la sua capacità di

illecito. Alla fine del film Jordan viene incarcerato, ma viene mostrato come attraverso la propria ricchezza il protagonista riesca a corrompere i suoi carcerieri riuscendo a passare il suo periodo di reclusione all’interno del carcere in uno stato di benessere e tranquillità. Ironicamente, il personaggio ammette di essere stato terrorizzato dall’andare in galera solo per pochi minuti, prima di “ricordarsi” di essere ricco. (http://www.imdb.com/title/tt0993846/plotsummary?ref_=tt_stry_pl#synopsis). 124

imitare il Moon Walk, il tipico passo di danza reso celebre da Michael Jackson. Le esibizioni della celeberrima pop star gli sono state mostrate per la prima volta proprio dai volontari occidentali dell’orfanotrofio, che lo hanno quindi rinominato col nome del cantante. Nel corso dei miei diversi soggiorni a Mekelle, il MYC è rimasto il punto di riferimento per Mickey: ancora durante il mio ultimo viaggio nel capoluogo tigrino riusciva infatti a sbarcare il lunario con lavori occasionali per conto del centro. Il ragazzo è una sorta di magazziniere e factotum del centro e molto spesso, inoltre, arrotondava le sue entrate facendo da guida turistiche a visitatori stranieri, sia che essi fossero operatori del MYC o semplici turisti, oltre che impiegati presso compagnie pubbliche e private oppure studiosi.

Fin dai tempi del nostro primo incontro, alcuni dei volontari occidentali del centro mi confidarono che avrei dovuto “stare attento” a Mickey, arrivando a definirlo un “imbroglione” e adducendo il fatto che fosse sua abitudine subissare i diversi volontari con richieste incessanti di denaro.

La mia prima reazione fu quella di ignorare questi consigli, considerandoli come retoriche fastidiose e irritanti, considerato che arrivavano proprio dai volontari che, come proclamavano, erano lì per aiutare e seguire i giovani membri del centro. Una ragione ulteriore della mia irritazione era la consapevolezza delle misere condizioni nelle quali versava il ragazzo. In più di un’occasione visitai la sua abitazione, sita in

Kebele 05, una delle zone periferiche della città. Mickey condivideva la casa col suo amico Abel, cresciuto insieme a lui nell’orfanotrofio e diventato allo stesso modo membro del MYC. I due vivevano in una minuscola casa di pietra pagando 200 birr67 al mese. Aveva un tetto in latta, senza finestre, con l’ingresso riparato da un pezzo di lamiera utilizzato come porta a fungere da unico accesso d’aria e non pavimentata, grande appena da ospitare un solo lettino e un altro materasso poggiato in terra. All’interno poster di santi e alcune immagini dei giocatori della squadra inglese dell’Arsenal adornavano le pareti vuote.

L’ambiente era illuminato dalla luce di un’unica lampadina e, oltre al letto e il materasso, le sole cose presenti nella misera abitazione erano un fornellino a carbone per cucinare, alcuni effetti personali tra cui diversi album di fotografie che li ritraevano da bambini assieme ai volontari dell’orfanotrofio e pochi

67 All’epoca del nostro primo incontro, 200 birr corrispondevano a circa 8 euro. Per un’idea sulla capacità d’acquisto della somma nel contesto di Mekelle, si pensi che lo stipendio mensile di un insegnante pubblico o un impiegato di primo livello corrispondeva, nello stesso periodo, a circa 1300 birr. Lavori meno remunerativi invece, come nel caso delle giovani ragazze impiegate presso le sale da biliardo, prevedevano stipendi mensili di 500 birr. 125

indumenti malridotti, anch’essi a terra. L’aspetto in cui si presentava l’abitazione sembrava riflettere quello dei suoi affittuari: per tutto il periodo in cui rimanemmo in contatto gli vidi indossare quasi sempre gli stessi vestiti logori, consumati e sporchi, che si dividevano a seconda delle occasioni. Nel loro

“guardaroba” figuravano anche quelli che sembrerebbero apparire come una costante delle persone meno agiate, dei sandali in plastica colorati acquistabili per pochi birr. Per queste ragioni, considerai i commenti dei volontari occidentali come assolutamente privi di senso, rendendomi conto che le richieste di denaro da parte di Mickey erano giustificate da evidenti condizioni di indigenza.

Essendo alla mia prima esperienza di campo e avendo la necessità di allargare la rete di interpreti che lavoravano per la MEITE, pensai di approfittare dell’ottima conoscenza dell’inglese di Mickey, illustrandogli il metodo di lavoro della Missione e proponendogli quindi di lavorare con me e Silvia Cirillo, anche lei alla sua prima esperienza di campo in Etiopia. Un giorno ricevetti una sua chiamata nella quale mi disse della possibilità di intervistare un suo amico e mi diede così appuntamento per iniziare il lavoro.

Ci incontrammo presso uno dei bar più noti del centro cittadino, un posto dove era possibile trovare dolci appena sfornati e gelati. Contrariamente alle indicazioni che gli avevo dato nei giorni precedenti,

Mickey e il ragazzo che avremmo intervistato arrivarono insieme ad altri tre ragazzi, ai quali mi venne consigliato dal mio interprete di giornata di offrire qualcosa da mangiare. Già prima di iniziare l’intervista iniziai a notare uno strano comportamento da parte dei presenti, che si scambiavano sorrisi e sguardi divertiti. Quello che però mi destava particolari sospetti era il fatto che il ragazzo che avremmo dovuto intervistare pronunciava saltuariamente parole in inglese. Mickey mi aveva infatti detto che parlava solo tigrino. Ad ogni modo, iniziammo l’intervista. Già durante le prime domande mi resi conto che il nostro intervistato sembrasse comprendere le mie domande ben prima che Mickey le traducesse. I miei dubbi svanirono del tutto grazie all’intervento, decisamente inaspettato, di un uccellino. Il piccolo animaletto era entrato nel bar e non riusciva più a trovare la via d’uscita, continuando a sbattere e picchiettare proprio contro il vetro della finestra accanto alla quale eravamo seduti. Deciso a liberare l’animale, che stava evidentemente distraendo il nostro ospite, aprii improvvisamente la finestra, facendolo uscire. Fu in quel momento che il ragazzo che stavamo intervistando tradì quanto mi era stato detto da Mickey, esclamando

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in un inglese perfetto: «Finally! Now he is really free as a bird!». Decisi di non farne parola con Mickey ma dopo un’ultima domanda mi sbrigai a chiudere la nostra intervista e a prendere congedo dal gruppo.

Dopo quanto accaduto non mi rivolsi più a Mickey per farmi fare da interprete ma continuai a frequentarlo.

Oltre alle attività presso il MYC, sia Mickey che il suo amico Abel frequentavano dei corsi di meccanica per automobili presso uno dei maggiori college privati di Mekelle, sperando di poter in questo modo trovare lavoro in un campo, mi dicevano, con ottime possibilità di remunerazione. Quando gli chiesi come facessero a pagare la retta dell’istituto dove studiavano mi spiegarono che entrambi avevano ricevuto uno sponsor da alcuni volontari del centro, coi quali avevano instaurato un rapporto di amicizia

(cfr. cap. II). Si erano infatti rivolti a loro facendosi inviare il denaro necessario a pagare interamente la loro iscrizione ai corsi di studio. La richiesta di un aiuto economico a membri del centro, però, non era limitato a questo episodio. Entrando, nei mesi successivi, più in confidenza con Mickey, questi mi raccontò di come, quasi sempre adducendo la necessità di dover pagare per la propria istruzione, fosse una cosa ormai abituale per entrambi contare sull’invio di denaro da parte degli stranieri che avevano conosciuto a Mekelle. Mickey mi raccontò apertamente delle volte in cui riuscì a farsi inviare soldi nonostante non servissero a pagare il suo percorso di studi, come invece aveva detto ai suoi mecenati, parlandomi di quanto, pur conscio del fatto di mentirgli, avesse bisogno di quel denaro per sostenere le sue spese quotidiane.

Quando tornai a Mekelle nel 2016 incontrai nuovamente Mickey al Mekelle Youth Center nei primi giorni di settembre. Aveva da poco compiuto 22 anni e rispetto all’ultima volta in cui ci eravamo visti, risalente a due anni e mezzo prima, aveva una nuova acconciatura in stile rasta, come lui stesso la definiva, con i capelli rasati nella nuca e nei lati e dei lunghi dread sulla testa. Mi raccontò che rispetto al nostro ultimo incontro aveva completato la sua istruzione come meccanico per automobili ma non era ancora riuscito ad ottenere un impiego nel settore, a causa, sosteneva, della sua mancanza di esperienza.

Mi raccontò anche di vivere ancora nella casa che avevo visitato anni prima e che, sostanzialmente, poco era cambiato dal nostro ultimo incontro. Era mattino presto e il centro era ancora vuoto. Era stato

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proprio Mickey ad aprire i cancelli, e prima che io arrivassi era seduto all’ombra su uno dei tavolini esterni, impegnato a redigere una lista dei suoi buoni propositi per il nuovo anno che sarebbe iniziato pochi giorni dopo. Aveva iniziato a scrivere pochi minuti prima, e sul foglio c’erano solo due punti. Il primo recitava solo la scritta, in inglese, “Holy Water”. Mickey mi spiegò quindi della sua volontà, per l’inizio del nuovo anno, di recarsi presso una fonte di acqua santa, in tigrino may c’elot68: «Per il novo anno devo lavare via i miei peccati. Quest’anno voglio sciacquare i miei peccati, il mio passato, e ricominciare un anno nuovo, un anno migliore». Il secondo punto, invece, recitava “New home, new Life”. Mickey mi disse che continuava a vivere nella vecchia casa che avevo già conosciuto ma di avere la volontà di trasferirsi in una casa che fosse più vicina al centro, ma soprattutto della sua volontà di cambiare la proprie attitudini: «Col nuovo anno voglio cambiare casa e voglio cambiare anch’io. Voglio essere più saggio, voglio essere più onesto. In passato ho detto tante bugie, ma ora basta! Devo smetterla e trattare tutti bene». Passarono solo pochi minuti dopo che ci salutammo e incontrai, proprio alle spalle del centro, il suo amico Abel che stava per raggiungerlo. Proprio al contrario di quanto mi aveva detto Mickey pochi minuti prima, i due non vivevano più insieme nella casa che avevo visto anni prima ma si erano sistemati, ognuno per sé, in un condominio poco distante dal MYC.

Durante una ulteriore occasione trascorsi qualche ora presso il Mekelle Youth Center, parlando con Jon, il direttore, e vecchi amici che avevo conosciuto anni prima, fra cui lo stesso Mickey. Fu proprio lui a farmi fare un giro sui campi da gioco che erano stati da poco rinnovati. Quando arrivammo al campetto di cemento per il basket Mickey mi presentò il nuovo allenatore, altissimo ragazzo di Mekelle che, dopo le presentazioni in lingua tigrina, indicò il mio amico esclamando: «Borko!», provocando l’ilarità dei presenti e la reazione stizzita di Mickey che, rispondendogli in tigrino, inveì contro l’allenatore facendo poi il gesto di star zitto. Quando gli domandai cosa volesse dire quella parola, Mickey rispose imbarazzato

68 «Le may’celot sono sorgenti alle quali la comunità attribuisce un potere terapeutico. Normalmente diventano luoghi di culto e di cura in seguito a sogni rivelatori che indicano la presenza di una sorgente sotterranea o nascosta. Le fonti prendono il nome da figure della religione ortodossa a cui i malati si rivolgono per ottenere la grazia, come i Santi o la Vergine Maria, e in molti casi accanto ad esse viene costruita una chiesa dedicata alla stessa figura da cui la fonte prende il nome. Le persone vi si recano per compiere abluzioni rituali, solitamente accompagnate da preghiere, ingerire l’acqua o cospargere i propri corpi con il fango che si trova in prossimità delle sorgenti. Possono accamparsi in prossimità delle sorgenti per tutta la durata del trattamento oppure raccogliere l’acqua santa in contenitori e bottiglie, per poi compierne un utilizzo terapeutico “domestico”. Le pratiche legate all’uso dell’acqua santa possono avere sia un potere preventivo, poiché proteggono dagli attacchi delle entità maligne, sia curativo, in caso di malattia, sventura, infertilità, e altro ancora» (Villanucci, 2014: 210-211). 128

che si riferiva al suo nuovo taglio di capelli e che avrebbe significato “rasta”. Naturalmente, subito dopo aver salutato Mickey telefonai in tutta fretta il mio fidato amico e interprete Afeworki, chiedendogli se conoscesse il termine. Afe scoppiò a ridere per poi rispondere semplicemente con «no money», aggiungendo la spiegazione che si trattasse di un modo offensivo per chiamare i vagabondi, i mendicanti, i senzatetto. Molto più importante, Afe aggiunse che una delle sue possibili traduzioni in amarico era proprio il termine “duruye”, di cui si è già detto nei paragrafi precedenti. Le stesse interpretazioni mi sono state fornite da tutti gli interlocutori a cui ho chiesto cosa volesse dire; spiegazioni sempre accompagnate da sorrisi e precisazioni sul fatto che fosse considerata una parola notevolmente offensiva. Pur non avendo potuto affrontare in l’argomento con il diretto interessato, ritengo che la battuta esclamata dall’allenatore di basket nei confronti di Mickey fosse scaturita proprio dal fatto di averlo visto in compagnia di uno straniero al quale, anche in quell’occasione, stava facendo da guida mostrandomi il centro e facendomi conoscere i nuovi membri.

Non fu l’unica occasione nella quale il comportamento di Mickey veniva giudicato in modo negativo, per quanto scherzosa potesse essere la battuta dell’allenatore. Durante un pomeriggio di ottobre, infatti, il mio telefono venne raggiunto da una chiamata di Mickey nella quale mi chiese di incontrarci presso un bar nei dintorni del MYC poiché aveva intenzione di presentarmi una ragazza. In quel momento mi trovavo in compagnia di Ogy, così gli chiesi di farmi compagnia invitandolo quindi a mangiare qualcosa al bar. Quando arrivammo, Mickey era già seduto a uno dei tavolini all’esterno del bar ed era in compagnia di una ragazza giovanissima di nome Ruta. Ruta disse di avere 22 anni, sebbene sembrasse mostrarne di meno. Si trattava di una ragazza bellissima, curata in ogni dettaglio e vestita in modo seducente. Ruta era infatti attentamente truccata, con del rossetto di un colore rosso scuro e ciglia lunghissime, al pari dei capelli che portava liscissimi, raccolti con uno chignon sulla testa e lasciati invece sciolti sulle spalle. Il busto era coperto da una maglia trasparente che lasciava trasparire una fascia reggiseno, portata insieme a un pantalone scuro attillato e delle scarpe col tacco. Al collo, invece, indossava un nastrino nero. Ruta ci raccontò, parlando un inglese eccellente, di essere nata a Mekelle ed essersi poi, in anni recenti, trasferita ad Addis Abeba dove disse di vivere in un appartamento di sua

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proprietà. Ogy, col suo solito tono provocatorio, sorrideva sornione ogni volta che Ruta parlava della sua vita ad Addis, tanto da provocare la reazione stizzita della ragazza, che gli chiese i motivi delle sue risatine.

Ogy si difese dicendo di ridere per alcune cose che stava leggendo sul suo cellulare. Mickey mi invitò a prendere il numero della ragazza, invitando entrambi a restare in contatto. Una volta congedati da Mickey ed Ruta, Ogy prese finalmente la parola:

Ogy: Hey man, da quanto tempo conosci quel tipo?

Gianmarco: Da 3 anni.

Ogy: È una vergogna, amico. Certe cose non si fanno, amico! Quando conosci qualcuno da così tanto tempo non puoi trattarlo così. D’accordo, qui tutti truffiamo i forenji, ma non in questo modo. Quando le persone diventano amiche non puoi fregarle. Prendi me e te, dopo tre giorni eravamo già amici, e adesso non potrei mai imbrogliarti!

Gianmarco: A cosa ti riferisci?

Ogy: Avanti amico! L’hai vista quella? Quella è una sugar baby, amico! Hai sentito cosa ha detto? Ha detto di avere una casa, una macchina…ma lei lavora con questa [con le mani fa un gesto per indicare una vagina]!

Nelle parole di Ogy compariva ancora una volta una critica a quello che riteneva essere un comportamento scorretto, pur ammettendo che anche per lui quella di truffare gli stranieri fosse una pratica abituale, visto che tra me e Mickey c’era un rapporto di conoscenza reciproca che andava avanti già da diversi anni. La definizione di sugar baby che aveva attribuito a Ruta è stata al centro della ricerca di dottorato condotta a Mekelle da Desireé Adami. La studiosa ha infatti indagato sul fenomeno che vede queste giovani ragazze agire all’interno di ciò che definisce come “sesso transazionale”, i rapporti sessuali basati, cioè, sullo scambio di danaro o beni materiali69 (Adami, 2017: 285). La studiosa mette bene in guardia dall’evitare di ridurre queste transazioni al rango di semplice prostituzione (ivi: 334-337), e spiega

69 La studiosa tende però a dimostrare che le risorse alle quali accedere tramite il sesso transazionale non sono solo economiche o relazionali, ma anche che: «la risorsa cui mi riferisco non è prettamente monetaria, o meglio trascende l’aspetto puramente materiale associato al denaro per riconnettersi, piuttosto, al raggiungimento di quella “visione” che è l’elemento centrale di questa tesi, nonché delle preoccupazioni, delle speranze e dei microprocessi quotidiani delle giovani protagoniste» (Adami, 2017: 286). Anche il sesso transazionale sul quale si è contrata Desireé Adami viene considerato, quindi, un modo attraverso cui costruire il proprio futuro e superare le difficoltà quotidiane: «l’utilizzo del sesso con partner multipli per scopi transazionali fanno parte di una stessa economia morale in cui le giovani donne ricorrono alla sfera intima delle relazioni con l’altro sesso come mezzo di affermazione sociale, di costruzione di un sé moderno e rispettabile, e di acquisizione di potere, in un contesto socio-economico in profondo cambiamento. Da qui, l’interesse a concentrare la ricerca anche su coloro che, nel contesto locale, venivano etichettate con l’appellativo di “sugar baby”». (ivi: 289, corsivo dell’autrice). 130

anche come le relazioni fra queste ragazze e gli uomini che frequentano per ottenere benefici vengono spesso mediate da broker, ai quali vengono accordate forme di pagamento (ivi: 296). Pertanto, secondo quanto sostenuto da Ogy, Mickey avrebbe potuto volermi introdurre a Ruta con lo scopo, qualora tra me e la giovane ragazza si fosse instaurata una relazione, di ottenere la propria ricompensa.

Durante uno dei nostri ultimi incontri, avvenuto durante il mio ultimo soggiorno a Mekelle nel settembre del 2017, fu lo stesso Mickey a raccontarmi diversi particolari a proposito di Ruta. Mi raccontò infatti che la ragazza era tornata a vivere ad Addis, dove viveva insieme a un uomo cinese. Aggiunse inoltre che durante il periodo in cui la ragazza frequentò Mekelle, l’uomo in questione le inviò diverse volte grosse somme di denaro tramite servizio di money transfer. Ulteriore particolare, Mickey mi raccontò di come nello stesso periodo – circa un mese – Ruta si fosse trasferita a casa di un ingegnere francese, un uomo che il mio amico definì il suo “boyfriend”. Prima di salutarci, scambiai con Mickey qualche parola circa quelli che sarebbero stati gli impegni futuri di entrambi. Mi chiese se, una volta tornato in Italia e aver finito il mio percorso di dottorato, mi sarei sposato. Gli risposi spigandogli che prima di potermi sposare avrei ancora dovuto trovare un lavoro stabile ma soprattutto avrei dovuto trovare la persona giusta con la quale pensare a un passo del genere. Prendendo la parola, mi rispose: «Non dobbiamo perdere la speranza. Un giorno troveremo qualcuno che ci ama! C’è una ragazza per noi che noi non conosciamo ancora e che non ci conosce, ma c’è una ragazza che ci aspetta. Spero solo che sia una forenji, così mi porterà via da questo posto, per sempre».

6. Conclusioni

Le parole di Mickey con le quali si è chiuso il paragrafo precedente pongono ancora una volta enfasi su quanto, attraverso il coinvolgimento nell’economia informale e nell’economia della strada, gli attori coinvolti rincorrano obiettivi di mobilità sociale. Mickey sognava di sposare una donna straniera e riuscire quindi a trasferirsi in un paese occidentale e, sorprendentemente, lo stesso desiderio è registrato da Marco Di Nunzio. Parlando di una guida di strada di Addis Abeba, lo studioso scrive:

«His hopes, instead, consist of meeting or marrying a foreigner who might take him to the West. In this regard, Tewodros argues, “Being a guide is a pass for something else”, as it 131

would enable him to gain skills, knowledge, and meet people who might help him in the future» (Di Nunzio, 2012: 438).

Lo studioso napoletano descrive in modo minuzioso come l’economia della strada sia preferibile ai settori più bassi dell’economia legale non solo per quanto riguarda la remunerazione economica ma proprio per il fatto stesso di costituire un terreno più florido di vie d’accesso alla mobilità sociale:

«Their engagement with the street economy offered “wages” that were comparable to the ones provided by jobs at the bottom of the urban labor market. However, […] the very reason for the engagements with the street is the fact that hustling might potentially open up more opportunities for social mobility than, for instance, being a waiter» (Di Nunzio, 2012: 445).

Come nel caso studiato da Di Nunzio, anche i protagonisti dei paragrafi precedenti navigano l’economia della strada per guadagnare relazioni, competenze, abilità in grado di aiutarli a perseguire i propri obiettivi e a permettergli di guadagnare un “pass” per qualcosa di diverso. Mickey sognava di sposare una straniera per trasferirsi legalmente in un paese occidentale e sfruttava le sue abilità nel creare relazioni con individui occidentali per ottenere “sponsor”; Semera, allo stesso modo, ha riabilitato la sua immagine di “ragazzo problematico” attraverso le proprie frequentazioni, fino allo sviluppo di una figura professionale in grado di fargli costruire traiettorie possibili di mobilità sociale ma anche geografica; Ogy, invece, si era trasferito ad Addis per aumentare le proprie possibilità di lavoro come guida di strada e agente turistico. Come si è visto, la capacità di saper sfruttare ogni occasione e sapersi destreggiare nelle situazioni fa parte del repertorio culturale e sociale di chi nel contesto di Mekelle viene definito come iwala. Gli attori sociali che navigano l’economia della strada possiedono un capitale sociale e culturale in grado di garantirgli il successo nelle strategie quotidiane che mettono in atto e per realizzare gli inganni e i sotterfugi che, come si ha avuto modo di vedere, sono spesso al centro delle loro attività. Si ricorderà, inoltre, che le capacità di un iwala sono state descritte nel primo paragrafo come fondamentali non solo per navigare la strada ma anche per essere “ragazzi di città”, come mi era stato riferito dai miei informatori. Oltre alle giuste considerazioni, già citate, su quanto i media occidentali abbiano contribuito attraverso la cultura gangsta e la musica hip-hop e rap a diffondere e rivalutare positivamente stili di vita basati sull’astuzia e sugli inganni, ritengo opportuno indagare il fenomeno restituendogli maggiore profondità storica. I valori di intelligenza, astuzia e furbizia come caratteristiche fondamentali per 132

compiere trucchi e inganni sono al centro delle storie di un famoso personaggio noto col nome di Aboy

Gavranha. Il personaggio e le sue storie sono estremamente note e vedono spesso il protagonista ribaltare situazioni sfavorevoli grazie alle sue trovate furbe e geniali70. Durante il mio primo soggiorno in Etiopia ebbi l’occasione di discutere del personaggio con un docente della Mekelle University, il Professor

Behrane Acciane, il quale all’epoca ricopriva anche la carica di vice rettore dell’istituzione. Come accadeva spesso con tutti gli interlocutori con i quali affrontavo l’argomento, il solo nominare il personaggio provocò nel professore una fragorosa risata, che poi mi spiegò: «Aboy Gavranha è un uomo molto anziano e saggio; conosciuto per la sua grande intelligenza e la sua straordinaria furbizia. Le sue storie sono molto divertenti e si tramandano di padre in figlio da più di cento anni».

Questa citazione introduce i tratti fondamentali del personaggio e corrisponde in buona parte alla descrizione che ho ricevuto ogni qual volta abbia chiesto informazioni dettagliate su di lui: tutti i miei interlocutori, interpellati su questo tema, hanno sempre rimarcato tratti salienti quali la spiccata intelligenza, la furbizia e anche la vena comica delle sue avventure. Il docente aggiunse inoltre ricchi dettagli sul personaggio, come la sua provenienza dalla regione Amhara, nell’Etiopia centrale, e quello che lo avrebbe voluto in veste di giullare di corte durante il regno dell’Imperatore Tewodros II, in un’epoca storica che partirebbe dunque dal 1855, anno di incoronazione del sovrano (Calchi Novati,

1994).

I giovani iwala che al giorno d’oggi navigano l’economia della strada a Mekelle sono spesso coloro rimasti ai margini del sistema educativo, incapaci di accedere agli alti vertici dell’istruzione pubblica a causa dei loro scarsi punteggi e privi dei mezzi necessari a pagare le costose rette dei college privati, oltre che privi dei fondi di partenza e delle relazioni fondamentali per gestire un’attività in proprio. Per molti di essi, navigare la strada ed essere coinvolti nell’economia sotterranea, rappresenta dunque l’unica via percorribile per superare gli ostacoli della quotidianità e aspirare, al tempo stesso, a un reale cambiamento delle proprie condizioni di vita, effettuando un avanzamento di status altrimenti irraggiungibile.

70 Per una descrizione più dettagliate delle storie di questo personaggio rimando al mio lavoro di laurea magistrale (Salvati, 2015: cap. 6). 133

Prendendo in prestito le parole di Trond Waage, la capacità di improvvisazione e gli inganni costituiscono per questi giovani i soli “repertori culturali” per la mobilità sociale (Waage, 2006: 81).

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CAPITOLO IV – DIPENDENZA DA SOSTANZE E PERCORSI DI

RIABILITAZIONE

1. Introduzione

Nel capitolo precedente si è evidenziato come, per i giovani che navigano l’economia della strada, il loro coinvolgimento in attività informali, criminali o al limite della legalità, sia preferibile ai settori più umili dell’economia legale grazie alle possibilità di movimento – simbolico o reale – che è possibile raggiungere, costituendo di fatto una modalità concreta di pensare e intraprendere percorsi per il proprio futuro. I protagonisti di questo capitolo, invece, saranno quei giovani per i quali il futuro sembrerebbe aver perso qualunque consistenza, persone prive ormai di speranze e possibilità che pertanto hanno sviluppato dipendenze da droghe e alcolici. Come si vedrà, molte delle storie di vita prese in considerazione sono quelle di giovani istruiti, laureati, rimasti delusi dai loro percorsi di studio che non hanno portato l’avanzamento sociale che nelle loro aspettative risultava essere percepito come garantito o addirittura inevitabile. Le loro storie serviranno a mettere in luce una realtà forte e sempre più concreta nel contesto di Mekelle: la dipendenza, soprattutto da parte della popolazione giovane, da sostanze che causano stati alterati di coscienza è al centro del dibattito pubblico e ha rappresentato, nel corso dei miei soggiorni nel capoluogo tigrino, uno degli argomenti maggiormente tenuti in considerazione quando affrontavo assieme ai miei interlocutori il discorso circa quelli che essi ritenevano essere i “problemi” della gioventù mekellese.

A Mekelle, e più in generale in tutta l’Etiopia (Mains, 2012: 44), larga parte della gioventù locale consuma, più o meno abitualmente, foglie di khat, una pianta dalle proprietà narcotiche e stimolanti. In alcuni casi, come quelli che verranno presi in considerazione in queste pagine, l’uso di questa sostanza diviene abitudine quotidiana e vera e propria dipendenza, causata e al tempo stesso alla base di diversi

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problemi sociali. Come si vedrà, infine, dall’esame dei percorsi di riabilitazione offerti a coloro che hanno sviluppato forme di dipendenza da questa e da ulteriori sostanze alteranti, le cause sociali, o strutturali che dir si voglia, di questi fenomeni vengono spesso omesse o addirittura negate.

2. “Eravamo ragazzi brillanti”. La dipendenza dal khat

Il khat o qāt (Catha edulis), è un arbusto spontaneo coltivato negli altopiani del Corno d’Africa, soprattutto in Etiopia: rientra infatti fra le materie prime, assieme al caffè, maggiormente esportate dal

Paese (Villanucci, 2014: 26-27). L’uso comune prevede di masticare a lungo le foglie fresche che contengono un alcaloide dall'effetto stimolante. Tra i miei informatori, i consumatori abituali venivano appunto indicati come “chewers”, “masticatori”. Chi ne fa uso, infatti, mastica a lungo le foglie tenendole in bocca fino a formare un fascio abbastanza folto da poter essere tenuto ai lati della bocca, fra i molari e la guancia, di cui si ingeriscono i fluidi. L’alcaloide presente nelle foglie causa forti stati di eccitazione e di euforia, provocando uno stato noto col nome di mirqana. Daniel Mains lo ha descritto in questo modo:

«Approximately one hour after beginning to chew, a high is reached that is known as mirqana. Fort the most youth the purpose of chewing khat is to reach mirqana. During mirqana the heartbeat is noticeably faster, one begins to sweat, and there is a general sense of happiness and satisfaction with life» (Mains, 2012: 56, corsivo dell’autore).

L’uso prolungato dello stimolante conduce a importanti forme di dipendenza: nel 1980 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha infatti classificato il khat tra le droghe (Al Zarouni, 2015). Sin dalla mia prima esperienza di ricerca a Mekelle ho riscontrato quanto fosse diffuso l’uso dello stimolante, soprattutto fra i giovani: tutti i miei interlocutori hanno confermato di averne fatto uso, anche una sola volta nella vita. Tante delle persone alle quali mi sono rivolto, mi hanno risposto di averlo provato poche volte o di farne un uso saltuario in occasioni particolari, come le giornate libere dal lavoro e da impegni o per serate di svago. Nel contesto di Mekelle, invece, alcune categorie di persone venivano considerate nelle retoriche comuni come le più avvezze all’uso dello stimolante. Fra queste comparivano gli studenti e gli autisti, soprattutto quelli degli autobus che percorrono lunghe tratte. A essi veniva attribuito l’uso costante dello stimolante proprio in quanto immaginati come coloro i quali avessero maggiormente bisogno delle proprietà principali del khat: quelle di far aumentare il livello di concentrazione, di donare 136

vigore e di far rimanere svegli nonostante la fatica. Inoltre, secondo le opinioni dei miei interlocutori, tra le sue facoltà ci sarebbero anche quelle di aumentare la sicurezza individuale, di allentare i freni inibitori e rendere più estroversi coloro che ne masticano le foglie.

Un’altra categoria di individui è considerata essere particolarmente interessata dall’uso, o meglio sarebbe dire abuso, dello stupefacente: quella dei giovani disoccupati. Nel corso della mia presenza a

Mekelle ho registrato con grande frequenza questo tipo di opinioni, che provenivano tanto da individui adulti quanto da giovani. Secondo il loro giudizio, l’uso costante e prolungato nel tempo delle foglie narcotiche rappresenterebbe non solo la causa di una grave mancanza di lucidità ma, secondo un percorso ciclico, uno dei motivi e al tempo stesso un effetto diretto dell’inattività dei giovani. Più volte ho preso nota dei pareri di quegli individui, persone comuni quanto ufficiali governativi, secondo cui a causa della mancanza di impiego e di qualsiasi altra attività molti giovani siano diventati “masticatori” abituali per rimediare alla noia derivante dalla mancanza di un’occupazione. Al contempo, l’assuefazione provocata influirebbe in modo diretto sulla loro capacità di azione rendendoli pigri, stanchi e svogliati e contribuendo quindi in modo decisivo a farli rimanere privi di occupazione. Questo tipo di retoriche è stato notato, in modo interessante, dallo stesso Daniel Mains nella sua ricerca fra i giovani disoccupati di

Jimma, nel sud dell’Etiopia. L’antropologo americano riporta questo tipo di considerazioni citando il lavoro di uno studioso etiope, per il quale: «No question about it khat is a stimulant, it kills work enthusiasm, wastes time, deflects the working force from productivity, shortens one’s life span, and thus it hurts the economy as a result»

(Negatu, 2004: 3, cit. in Mains, 2012: 63).

Per esaminare queste dinamiche durante la ricerca di dottorato, mi affidai come di consueto al mio amico e interprete Afeworki, al quale domandai di mettermi in contatto con alcuni consumatori abituali di khat. Nel corso della mia precedente esperienza di ricerca, quando mi recai per la prima volta in Etiopia durante il mio percorso di laurea specialistica, avevo infatti affrontato l’argomento soltanto con persone che masticavano occasionalmente e avevo registrato le opinioni più comuni circa il fenomeno, che quasi sempre contenevano retoriche come quelle appena esaminate. Come sempre,

Afeworki seppe cosa fare e insieme decidemmo di incontrare un suo vecchio amico di scuola di nome

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Asmelash, un giovane di 25 anni. Stando alle parole di Afeworki, il ragazzo che avremmo dovuto incontrare era un ex studente della Mekelle University, laureato in Architettura già da un anno. Dopo il suo percorso di laurea non aveva trovato lavoro e quindi, rapidamente, aveva sviluppato una vera e propria dipendenza dal khat, che consumava quotidianamente. La prima volta che lo incontrammo fu durante un piovoso pomeriggio di inizio settembre. La stagione delle piogge era quasi del tutto terminata, ma quel pomeriggio aveva in serbo un colpo di coda che colse me e il mio interprete completamente alla sprovvista, facendoci arrivare all’appuntamento bagnati fradici. Il posto in cui incontrammo Asmelash, infatti, sorgeva a lato di un lunghissimo lembo di strada asfaltata, una delle arterie principali che collega il centro cittadino all’aeroporto di Quiha, distante pochi chilometri. Nel tratto che io e Afeworki percorremmo a piedi non esistevano ancora edifici in cui ripararsi ma solo le loro fondamenta.

L’unico posto presso cui riuscimmo a ripararci fu proprio il luogo dell’appuntamento, una minuscola baracca completamente fatta di latta. Al suo interno incontrammo dunque Asmelash, in compagnia di altri dieci compagni, coi quali stava trascorrendo il pomeriggio. La baracca era fondamentalmente una bunna bet, una piccola caffetteria improvvisata del tipo di quelle più diffuse nel centro cittadino, specializzata nel servire caffè, tè e bevande fresche, gestita come di consueto da due donne che preparavano le bevande e servivano i clienti. Non si trattava dell’unica bunna bet presente nella zona: nello stesso tratto di strada ne sorgevano diverse tutte di seguito, grazie al fatto di essere al centro di una vasta area interessata dalla costruzione di diversi edifici e su una strada trafficata quotidianamente da bus e mezzi pesanti. La stanza era piena del fumo dei chicchi di caffè tostati e del vapore generato dai nostri corpi e dal nostro respiro. A causa della pioggia, divenuta copiosa e incessante, la porta d’ingresso della baracca era socchiusa e lasciava entrare un solo filo di luce solare che manteneva la baracca in penombra, illuminata all’interno da una piccola serie di lampadine luminose. La scelta del luogo da parte del gruppo non era casuale. Si trattava, ufficialmente, di una bunna bet e aveva il vantaggio di essere lontana dal centro, offrendo quindi riparo ai propri clienti dagli occhi giudicanti delle loro famiglie e soprattutto da quelli della polizia. I luoghi deputati al consumo esclusivo del khat, noti appunto

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come “khat bet” sono infatti divenuti illegali (Adami, 2017: 303-304), e anche l’uso dello stimolante in gruppo e in luoghi pubblici è soggetto a frequenti retate, come mi fu testimoniato dai ragazzi del gruppo.

Asmelash ci accolse con grande entusiasmo. Era stato già contattato in precedenza da Afeworki, che gli aveva accennato i motivi della mia presenza in città e i temi che avrei voluto affrontare. Durante il nostro primo incontro i ragazzi avevano già masticato khat per qualche ora e stavano contrastando l’effetto stimolante bevendo caffè e ouzo, il liquore al forte sapore di anice. Mi spiegarono infatti che lo stato di euforia tipico del mirqana era già svanito, lasciando il posto ai suoi effetti stimolanti. Grazie all’alcol e al caffè, sostenevano di “spezzare” l’effetto del khat, che altrimenti gli avrebbe fatto trascorrere la notte insonni. Asmelash si dimostrò fin da subito volenteroso di aiutarci e di raccontare la propria esperienza, ma non si limitò a questo. Grazie alla sua ottima conoscenza dell’inglese mi presentò anche agli altri e mi invitò a conoscerli e fargli domande. Da quel momento iniziai una lunga frequentazione con lui e gli altri membri della compagnia, raggiungendoli spesso durante i loro incontri alla piccola baracca. Passata la stagione delle piogge, il gruppo era solito incontrarsi all’esterno della bunna bet, in uno spazio antistante recintato da fusti secchi di mais. Un albero piantato al centro del recinto proteggeva dal sole gli ospiti, che si sistemavano su panche e sgabelli di legno o su grosse pietre levigate. Non tutti frequentavano la bunna bet quotidianamente: molti si univano solo durante il fine settimana, altri comparivano saltuariamente. Asmelash, invece, passava lì praticamente tutte le sue giornate. Tra i più assidui, poi, comparivano altri amici di scuola del mio interprete Afeworki, due giovani ventiquattrenni di nome Bruku e Alem. L’età dei diversi membri del gruppo variava considerevolmente. Oltre ai frequentatori più assidui, tutti fra i 24 e i 25 anni, facevano spesso capolino un ragazzo di appena 19 anni, di nome Amid, e il fratello di suo padre, un uomo di circa 30 anni, chiamato Edy. La loro eterogeneità anagrafica contrastava con quella che era invece una totale omogeneità di genere: oltre alle donne che gestivano la piccola baracca, tutti i frequentatori del posto erano maschi. Attraverso la mediazione di

Asmelash che mi introdusse formalmente a tutti gli altri membri, iniziai a frequentare i ragazzi soprattutto durante i loro pomeriggi, quando il gruppo si riuniva per masticare le foglie di khat. A seconda delle disponibilità economiche dei presenti, il gruppo raccoglieva i soldi necessari all’acquisto delle foglie, per

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poi mandare un incaricato a comprarle in centro. In un vicolo lungo e stretto nella zona del mercato principale della città sorgono numerosi negozi che vendono khat. Le qualità delle foglie sono numerose e variano nella potenza degli effetti narcotici e nel prezzo. Quella più consumata dai ragazzi del gruppo era quella proveniente dalla città di Bahar Dar, alla quale attribuivano effetti moderati e che acquistavano alla modesta cifra di 15 birr per ogni fascio da 50 grammi. Come mi venne spiegato, un fascio da 250 grammi era sufficiente per essere masticato da almeno sei persone. A essere condivisa non era solo la spesa per le foglie, ma anche quella per acquistare ogni altro bene accessorio che accompagnava di solito il rituale di masticazione, come noccioline, bevande leggere e pacchetti di sigarette. Allo stesso modo, passato il pomeriggio e terminato il fascio di foglie, il gruppo consumava caffè e alcolici per contrastare gli effetti stimolanti della pianta.

La presenza di Asmelash e quella di Edy, Bruku e Alem, che conoscevano tutti un ottimo inglese, mi diede la possibilità di andare da loro anche senza interprete. Molto spesso la situazione evolveva in veri e propri focus group alimentati dalle mie domande e dal dibattito, molte volte acceso, fra i membri del gruppo. Le retoriche più frequenti che emergevano riguardavano l’assenza di lavoro, la loro dipendenza dal fumo, il khat e gli alcolici che essi attribuivano alla loro inattività e alla mancanza di prospettive e di reali cambiamenti. Asmelash ricopriva spesso il ruolo di mattatore: nei suoi discorsi emergevano grosse dosi di rabbia e risentimento contro il Governo, contro la politica, contro l’Università.

Il suo sentimento principale era quello di sentirsi tradito da queste istituzioni perché, diceva, ora che il suo percorso universitario era finito non era ancora riuscito, dopo quasi un anno, a trovare un lavoro in qualità di architetto dove poter applicare le sue conoscenze. Il suo astio era acuito anche dal fatto di essere stato incarcerato tre volte nel corso dello stesso anno durante alcune retate della polizia. Durante un pomeriggio, Asmelash e Bruku mi raccontarono alcune delle loro esperienze:

Asmelash: Io ho fatto il mio dovere, ho studiato, mi sono laureato e adesso devono darmi un lavoro. Adesso dicono che se non trovo nulla è colpa mia, ma io ho fatto tutto quello che dovevo! Qui funziona così: vai all’università ma sai dal primo giorno fino alla laurea che impari solo teoria! Teorie, teorie, teorie, niente pratica! Non ho idea di come applicare la teoria al lavoro! Adesso sono laureato, e infatti non ho un lavoro. E allora cosa devo fare? Sto qui, seduto, a sprecare il mio tempo con questo [prende in mano una foglia di khat], a bere e a fumare, perché non so che altro fare. Guardaci: qui tutti abbiamo iniziato a masticare all’università. Ci serviva per studiare, per concentrarci. E adesso che abbiamo finito ci è 140

rimasta solo la nostra dipendenza. Guarda me, guarda Bruku, guarda Afe [si riferisce al mio interprete], prima di iniziare l’università eravamo ragazzi brillanti. Poi ci siamo persi.

Bruku: È vero. Prima di iniziare a frequentare il campus eravamo brillanti, poi una volta all’università ci siamo tutti persi. All’inizio eravamo contenti di essere liberi, di non avere il controllo della famiglia, ma poi io ho iniziato subito a fumare sigarette e marijuana e a masticare khat. Mi serviva per studiare, ma presto ne sono diventato dipendente. Sono all’università da sette anni, e forse quest’anno, con l’aiuto di Dio, riuscirò finalmente a laurearmi.

Asmelash: E dopo che ti sarai laureato tornerai qui! [Riferendosi alla bunna bet, provocando l’ilarità dei presenti, mentre Bruku invece aggrotta le sopracciglia]

Bruku stava per concludere il suo percorso universitario che lo avrebbe portato a laurearsi in legge presso l’Università di Jimma, e nel periodo in cui ci conoscemmo era tornato a Mekelle per le vacanze estive. Come si è visto, il ragazzo non aveva preso bene la battuta sarcastica di Asmelash e una sera, prima di trasferirsi di nuovo presso la sua sede universitaria, mi chiese di incontrarci da soli. Durante il nostro incontro mi raccontò che le parole di Asmelash lo avevano colpito molto e che quelle frasi lo avevano pesantemente buttato giù di morale, essendo arrivate in un momento critico della sua esperienza universitaria:

Non capisco, perché Asmelash deve spaventarmi in questo modo? Proprio ora che finalmente sto per finire l’università! Mi dice «resta qui, cosa ci vai a fare fino a Jimma? Tanto è inutile». Ho bisogno di stare tranquillo, di restare concentrato. Invece lui mi spaventa, dice che nella mia vita ho solo studiato, che so solo leggere le carte. E ha ragione…non ho esperienza, non ho nessuna abilità. Cosa farò se non potrò diventare avvocato? A volte piango.

Il giorno dopo questo sfogo Bruku tornò a Jimma. Molto spesso mi telefonava per raccontarmi come stavano andando le cose e per sentirsi motivato a portare a termine il suo percorso di studi. Nei nostri incontri mi aveva infatti chiesto spesso di restare in contatto con lui una volta che sarebbe andato via e di motivarlo, dandogli quelli che chiamava “buoni consigli”.

Sia Bruku che Asmelash oscillavano fra gli stati euforici provocati dal consumo delle foglie narcotiche e momenti di forte scoraggiamento, se non di forme depressive. Anche Alem, uno dei frequentatori abituali della bunna bet, aveva avuto come gli altri due giovani problemi nel suo percorso universitario. Laureatosi in ingegneria civile già da due anni, non aveva trovato un’occupazione nel suo settore e aveva sviluppato una dipendenza da khat. Durante uno degli incontri col gruppo avvenuto al

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ridosso del nuovo anno, che secondo il calendario etiopico inizia nel mese di settembre, Alem fece questa battuta mentre masticava le foglie, con una delle guance gonfie che conteneva il bandolo di foglie: «con l’anno nuovo arriveranno tanti cambiamenti! Ci saranno più lavoro, più istruzione, più ricchezza…e poi non ci resterà altro che impiccarci!», accompagnandola col gesto vistoso di una mano che mimava un cappio tirato intorno al collo. La sua battuta scatenò l’ilarità fra i presenti ma nascondeva un’amara ironia. Il giovane, con gli angoli della bocca resi verdi dai pigmenti delle foglie, prospettava un nuovo anno privo di cambiamenti ed eventi significativi, come i due anni precedenti che lo avevano visto inoccupato.

Oltre ai ragazzi appena menzionati, uno dei frequentatori più assidui della bunna bet era un uomo nei suoi tardi 30 anni, chiamato Edy. Arrivava spesso insieme a suo nipote, ma a differenza di quest’ultimo e degli altri ragazzi non era particolarmente attivo nel partecipare ai discorsi del gruppo. Pensai che uno dei motivi del suo silenzio fosse il fatto di non conoscere bene l’inglese; tuttavia l’uomo non interveniva spesso neanche parlando tigrino, che restava la lingua principale nella quale si svolgevano gli incontri.

Quando non era presente, gli altri mi spiegarono che a causa della sua dipendenza aveva sviluppato un disordine mentale. Capitava spesso che i presenti parlassero di lui in toni preoccupati, temendo i rischi dell’uso prolungato dello stupefacente. Edy viveva a casa di suo fratello, una grande villa poco distante dall’abitazione che avevo preso in affitto. Nella zona vivevano famiglie molto benestanti, professori universitari e imprenditori. Una mattina, mentre stavo per raggiungere lo stazionamento dei minibus che portavano al centro cittadino, lo incontrai presso una delle piccole bunna bet che sorgevano nei dintorni di casa mia. Fu lui a chiamarmi e a farsi notare, invitandomi a prendere un caffè. Nonostante fosse mattino presto, mi raccontò di essere appena stato in centro, dove aveva comprato dei fasci di foglie che però non aveva ancora iniziato a masticare. Contrariamente a quello che credevo, Edy conosceva un ottimo inglese e da lì a poco mi avrebbe chiesto espressamente di parlarmi di quella che definì la “condizione dell’Etiopia”, invitandomi a usare il registratore. Come tutti gli altri membri del gruppo, anche lui conosceva benissimo il motivo della mia presenza a Mekelle e il tema che volevo affrontare per la mia ricerca. Iniziò quindi una lunga conversazione di cui riporto alcuni stralci, quasi un monologo, interrotto saltuariamente da alcune mie domande.

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Edy: Sono stato a comprare il b’rcha71 Ho comprato quello di Bahar Dar, perché è buono, ne basta poco per raggiungere il mirqana e non ha troppi effetti collaterali, non è come quello con le gambe lunghe [indica il picciolo delle foglie], quello di Maychew72. Quella è un pianta del deserto, ma è potente come un serpente del deserto. Quello è proprio come l’hashish, se ne prendi anche un po’ ti senti male, non puoi pensare, non puoi mangiare, invece con questo [quello di Bahar Dar che aveva comprato] puoi mangiare, puoi dormire, e puoi pensare. È per questo che io mastico tutti i giorni, per pensare, per non sentire la fatica, perché se non mastico penso «ok, lo faccio dopo, o lo faccio domani», invece così mi sento attivo, sento l’energia e posso concentrarmi sul mio lavoro. Questo [mostrando il khat] è come un amico, è come una famiglia. È una persona di se stessa. È un amico se ti senti solo, è una famiglia se non hai una famiglia. Quando lo mastico riesco a concentrarmi e così posso lavorare al mio progetto.

Gianmarco: Lavori per una compagnia?

Edy: [con un ghigno]. Una compagnia? Qui nessuna compagnia ti assume. Loro non ti vogliono, non vogliono le tue idee. Sto lavorando a un aereo. Un giorno te lo mostrerò. E spendo tutte le mie energie per lavorarci. Ci sto lavorando in proprio. Se c’è una cosa che so fare è costruire le cose. Ho una grande creatività, è il dono che mi ha dato Dio. A 12 anni ho costruito un piccolo aereo che poteva volare, a 17 un aereo che poteva anche andare sull’acqua. Ho grande confidenza in me stesso, non la perdo mai. Non lo dico per apprezzarmi o per dimostrare qualcosa, ma il mio talento è creare le cose. E adesso sto lavorando a un aeroplano per un solo passeggero, così potrò andare via e vivere. È per questo che mastico, perché vivo in questo paese, perché non ho altro da fare, perché non ho i soldi nemmeno per andare in città, perché se vai lì devi avere i soldi per un caffè, per una birra. Tutti i soldi che ho li spendo per questo [indica il khat], per lavorare al mio progetto e per comprare i pezzi per costruire l’aereo. Questo fottuto Paese non ci dà niente, il governo non ci dà lavoro, non ci dà istruzione. A scuola e all’università ci insegnano solo cose stupide! Una volta ho conosciuto un bambino, aveva 12 anni, e parlava tanto, aveva tanta voglia di parlare, ma parlava solo di politica. Riesci a crederci? Un bambino di 12 anni che parla di politica. A quell’età non dovrebbero nemmeno sapere che cos’è la politica, ma a scuola gli parlano di politica, la famiglia gli parla di politica; dovrebbe vedere film per bambini e invece gli fanno vedere documentari sulla politica. Io ho studiato da solo, su internet, sui libri, perché loro [il Governo] vogliono farci studiare solo quello che vogliono. Ma tutti i libri migliori vengono da fuori, perché qui in Africa non sono sviluppati. È per questo che vi invidio, ragazzi. Perché voi avete le possibilità, avete la conoscenza, vi danno supporto. Tu per esempio sei qui per fare la tua ricerca, sei venuto in Africa da molto lontano perché ti hanno dato la possibilità, ti hanno dato dei soldi, ti hanno insegnato e poi ti hanno sostenuto. Ma qui nessuno può andare fuori a fare ricerca, perché non ti danno un soldo. Preferirei essere un albero in Europa piuttosto che un essere umano in Etiopia. Perché qui un essere umano non è un umano. È inutile. Qui non viviamo come esseri umani. Sto tutto il giorno seduto ad annoiarmi perché non ho niente da fare, perché non ho nessun posto dove andare. Per questo tutti qui masticano il b’rcha. Scrivilo nella tua ricerca [avvicinandosi al microfono], non devi prendertela con nessuno, perché noi non viviamo. È per questo che sto lavorando al mio aereo, così potrò volare in Europa o in America, e finalmente vivere. C’è una sola cosa di cui sono veramente geloso. I vostri attrezzi. Qui non posso trovare tutti gli attrezzi che mi servono per costruire l’aereo.

Gianmarco: Quanti anni hai?

71 Uno dei modi coi quali viene indicato il khat. 72 Una città del Tigray meridionale. 143

Edy: Non importa. Ho smesso da tempo di contare gli anni. Potrei averne 35, 36. Sì, forse 35.

Edy era magrissimo; sul suo volto emaciato sporgevano la mascella e una arcata sopraccigliare molto pronunciata che faceva apparire i suoi occhi, piccoli e spiritati, circondati da grandi contorni scuri.

Le sue parole mostravano in modo evidente la sua fragilità emotiva e un ordine mentale in bilico fra lucidità e momenti di evasione dalla realtà. L’astio verso la politica e la disperazione dovuta alla sua inattività lasciavano trasparire tutta la sua profonda solitudine e la sua frustrazione, culminanti nella fantasia di costruire un aereo che lo avrebbe portato verso l’Occidente, il solo Altrove in cui valesse la pena di vivere.

I sentimenti di frustrazione e indolenza dei giovani del gruppo, assieme alle parole di Edy circa il suo sentirsi “inutile”, che gli portava a dire di sentirsi lontano dall’essere “umano”, trovano un parallelismo interessante con lo studio condotto da Daniel Mains fra i giovani disoccupati di Jimma.

L’antropologo americano registra le medesime considerazioni fra i suoi informatori, anch’essi dediti all’uso del khat, i quali gli ripetevano spesso che vivevano “come animali”, soddisfacendo cioè soltanto il loro bisogno di nutrirsi e riposare e ben lontani dal vedere realizzate le loro aspirazioni (Mains, 2012: 67).

Per Mains, i suoi giovani interlocutori dipendenti da khat esperivano i rischi collegati alla mancanza di

“tempo strutturato” (ivi: 46), che comportavano ansia, stress e depressione. L’uso delle foglie narcotiche, nel loro caso, avrebbe svolto la funzione importante di alleviare i loro stati depressivi e riempire un tempo altrimenti privo di attività, rendendolo maggiormente piacevole (ivi: 50). Allo stesso modo, anche nelle parole dei giovani di Mekelle riportate in precedenza è possibile riscontrare uguali affermazioni: si è visto, infatti, come tutti tendessero a evidenziare la loro abitudine di masticare le foglie imputandola o mettendola in diretta relazione con la loro mancanza di attività. I parallelismi con la ricerca di Mains non si fermano qui. Lo studioso propone un’analisi del fenomeno basata sulla discussione del concetto di

“noia” per come coniato da Elizabeth Goodstein (2005, cit. in Mains, 2012). Scrive l’antropologo:

In Goodstein’s analysis, the production of boredom is based on the existence of a notion of progress […] in which the future is expected to be different and better than the past. This is combined with a sense that the reality of life is note equal to what one had imagined. Boredom is the feeling not only that one has too much time but that that time is not

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meaningful because it is not passed in the progressive manner that one has come to expect (Mains, 2012: 82).

A incidere fortemente sulle aspettative di progresso dei suoi giovani informatori, sostiene lo studioso americano, sarebbe stata la diffusione dell’istruzione superiore, considerata come il mezzo principale per aprire opportunità lavorative (ivi: 72). Nel secondo capitolo di questo contributo ho mostrato come la diffusione e l’ampliamento del sistema educativo in Etiopia coincidesse con una concezione sviluppista dello Stato: anche i giovani di Mekelle modellano le proprie aspettative sul valore dato allo studio, percepito come vero e proprio volano per la crescita personale ed economica degli individui e quindi della nazione. Non sorprende, pertanto, la similarità dei discorsi dei giovani dipendenti da khat fra Jimma e Mekelle. Si è visto come lo zoccolo duro del gruppo che frequentava quotidianamente la bunna bet fosse formato da giovani laureati o universitari, che si sentivano traditi dalle attese di progresso e benessere generate dal loro coinvolgimento nel mondo dell’istruzione superiore, come

Asmelash e Alem, o che, come Bruku, temevano che una volta laureati non avrebbero trovato lavori consoni alle loro aspettative e alle conoscenze acquisite, finendo invece con l’esperire un tempo privo di cambiamenti e di mobilità sociale.

È importante, a questo punto, analizzare un elemento ulteriore che si pone in parallelo con l’indagine etnografica di Daniel Mains, che riguarda la relazione fra classe e attesa. Mains utilizza Jeffrey

(2008: 745-746), che fa notare come quelle che chiama “culture dell’attesa” (di un lavoro remunerativo e in linea col proprio percorso di studi, in questo caso) siano spesso legate alla classe sociale. Lo studioso americano sottolinea quindi che, nel caso dei suoi informatori, giovani con troppo tempo privo di struttura siano spesso relativamente privilegiati, potendo quantomeno contare sul sostegno delle proprie famiglie d’origine e permettersi di trascorrere lunghi periodi privi di occupazione (Mains, 2012: 46). Nel caso della mia ricerca salta subito all’occhio la differenza fra i giovani dipendenti dal khat e i loro coetanei descritti nel capitolo precedente, il cui coinvolgimento nell’economia della strada rispondeva all’esigenza di guadagnare e costituiva una sorta di occupazione a tempo pieno. Si ricorderà, infatti, come questi ultimi venissero da famiglie separate o fossero orfani, non potendo quindi contare sull’apporto dei propri cari nemmeno per garantirsi pasti giornalieri o un posto in cui vivere. Tuttavia, se i giovani dipendenti da khat 145

potevano permettersi di restare a lungo privi di occupazione, sembravano nutrire le stesse aspettative di avanzamento sociale e affermazione personale di coloro che sono stati presentati nel capitolo precedente.

Per esaminare in dettaglio queste tematiche, il prossimo paragrafo sarà dedicato all’approfondimento delle traiettorie per il futuro che i giovani immaginavano durante i loro incontri.

3. Immaginare futuri possibili attraverso il khat

Una delle attività che coinvolgeva di più gli amici che frequentavano la bunna bet e si incontravano per masticare khat insieme riguardava parlare e discutere del proprio futuro. I ragazzi esprimevano i loro desideri, le proprie ambizioni ma anche le loro preoccupazioni circa la difficoltà di vedere realizzati i propri obiettivi. Molto spesso, poi, emergevano sentimenti di impazienza e frustrazione, chiedendosi quando sarebbe arrivato per loro il momento di comporre un proprio nucleo famigliare, trovare un lavoro e avere figli, unitamente al sentimento di essere già “in ritardo” rispetto a quelle che erano le loro aspettative. Tuttavia, anche quando si toccavano temi spinosi, definiti dagli stessi protagonisti come pesanti forme di stress, i loro discorsi erano quasi sempre marcati da una pungente ironia. Uno dei temi emersi con maggiore frequenza riguardava la loro consapevolezza di gravare sulle spese della propria famiglia d’origine ed essere ancora legati a una condizione di dipendenza, elemento che contrastava fortemente con quella concezione secondo cui una persona adulta sarebbe indipendente sul piano economico e soprattutto in grado di fornire assistenza ai propri cari, soprattutto ai propri genitori nel periodo della loro vecchiaia (cfr. cap. II, par. 3). Durante uno dei pomeriggi trascorsi alla bunna bet mi capitò di assistere a una discussione sull’argomento, introdotta come accadeva spesso da

Asmelash. Il giovane descrisse il fatto di sentirsi un peso (shekem, in tigrino), e venne poi seguito a ruota dagli altri compagni che commentarono in modo arguto e irriverente:

Asmelash: Noi ci sentiamo un peso per i nostri genitori. Vorremmo aiutarli [economicamente] ma non possiamo farlo. Loro devono ancora coprire tutte le mie spese, i vestiti, le scarpe, il mangiare…è così dura! Anche il Governo dice che siamo un peso! Nei telegiornali parlano di noi come un peso per la nazione!

Mulie: Conosco uno che vive nel mio quartiere. Ha 40 anni, non è sposato, e vive ancora con i suoi genitori! [Gli altri ridono, mostrando stupore e disappunto] I suoi genitori lo hanno

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mantenuto e hanno pagato per lui quando era bambino, quando era giovane e adesso pagheranno anche per quando sarà vecchio e morirà!

Alem: Io invece ne conosco una ancora più divertente. Uno che conosco viveva ancora con i suoi genitori, tanto che suo padre l’aveva soprannominato Shewit (in tigrino, mais)! Lui credeva che fosse un soprannome che il padre gli aveva dato perché gli voleva bene, ma invece è perché viveva ancora con loro! [Tutti i presenti ridono]

Gianmarco: Che cosa vuol dire?

Alem: Hai mai visto una pianta di mais? Quando cresce, il mais resta attaccato alla pianta fino a che non crescono delle foglie bianche, lunghe, che sembrano una barba bianca! Lui allora è come il mais, perché anche se si è fatto vecchio resta attaccato ai suoi genitori!

Queste storie raccontavano situazioni che i ragazzi ritenevano lontane dalla loro condizione attuale, essendo ancora relativamente giovani rispetto ai protagonisti delle vicende, descritti come individui adulti e maturi. Al tempo stesso, i ragazzi sembravano consapevoli del fatto che i protagonisti delle storie fossero esempi negativi da cui prendere le distanze, modelli da evitare. Gli obiettivi di realizzazione inseguiti dai ragazzi ricalcavano per larga quelli descritti in precedenza (cfr. cap. II), con la volontà di costituire una propria famiglia, assistere i propri genitori, possedere una casa propria e un’automobile. Durante un’ulteriore occasione, il gruppo affrontò in questo modo la questione:

Bruku: Io sono un uomo! Voglio avere i miei figli, voglio avere una moglie! Anche la mia famiglia è preoccupata. Dicono sempre: «Quando si sposerà, quando diventerà un uomo?». A quest’età uno dovrebbe essere sposato, e invece non ho ancora una fidanzata!

Asmelash: Stai sbagliando! Adesso i tempi sono cambiati, ho notato che adesso molte persone si sposano quando hanno 30, 33, anche 35 anni!

Bruku: Può essere, certo! Fra 5 anni, per me! Sì! Però adesso sto sprecando il mio tempo! L’età media in Etiopia quanto è [alta]? 55, 60 anni! Quindi sarà tardi se mi sposerò a 30 anni, significa che tuo figlio ti vedrà per poco, solo 18 o 20 anni.

Asmelash: Il grosso problemi qui in Etiopia sono i soldi. [Tutti i presenti sorridono e annuiscono] Se vuoi sposarti devi avere tanti soldi.

Gianmarco: Soldi per fare cosa?

Asmelash: Celebrare un matrimonio costa già tanti soldi per sé. Ma se non hai i soldi, se sei come me, nessuno [nessuna donna] si avvicina a te. Al giorno d’oggi è cambiato tutto, sono le donne che scelgono gli uomini, e li scelgono solo se hanno i soldi, se hanno un buon lavoro, altrimenti non mi guarderebbero neanche! Allora se non sei ancora sposato [rivolgendosi a Bruku] è perché non hai soldi.

Le parole dei giovani confermano ancora una volta la necessità e la volontà di contrarre matrimonio e fare figli per marcare il proprio passaggio verso l’età adulta, pur marcando la necessità di 147

dover prima realizzarsi sul piano economico e aver raggiunto una situazione di benessere. Se prima di masticare le foglie capitava spesso di assistere discussioni come quella appena presentata, le cose sembravano cambiare quando le foglie iniziavano a sortire i propri effetti narcotici e i ragazzi raggiungevano il mirqana, lo stato di eccitazione ed euforia durante il quale si sentivano più felici e ottimisti. Un pomeriggio, Asmelash si espresse in questo modo mentre era sotto l’effetto del khat:

Sono grato a Dio! Sono pieno di gratitudine! Io non mi arrenderò, amico, non mi arrenderò. Siamo venuti qui [venuti al mondo] perché ognuno di noi ha qualcosa da fare. Voglio fare come Bob Marley…just love…voglio predicare l’amore e la pace. Voglio che tutti sappiano che gli uomini sono tutti uguali, che non esistono negros, non esistono famiglie regali e non esistono inferiori. Voglio insegnare che non ci sono barriere e che tutti possono fare quello in cui credono, basta avere fede in Dio e confidenza in se stessi!

Si trattava di una condizione decisamente nuova e inusuale per lui, che mi aveva abituato ai suoi discorsi acidi, pungenti, pieni di rabbia e astio verso il Governo, verso la politica, verso le istituzioni. Nelle occasioni in cui non era sotto gli effetti delle foglie ripeteva sempre che in Etiopia non c’era libertà, non c’era lavoro, non c’erano possibilità, mentre in quel momento, invece, affermava che tutti gli uomini erano uguali e che chiunque poteva realizzare i propri sogni. Durante un ulteriore incontro, anche Bruku, che spesso parlava delle proprie ansie e frustrazioni, cambiò decisamente tono e si lasciò a esplorazioni ottimistiche circa il proprio futuro:

Voglio che i miei figli abbiano tutte le possibilità. Voglio che non passino attraverso tutte le difficoltà che ho affrontato io. Devono essere diversi, devono crescere feta elu [Gli chiedo cosa significhi], feta elu…con tutti i desideri avverati, con tutte le risposte a tutte le loro domande. Se vogliono giocare, devono giocare, devono avere i giocattoli…devono essere felici!

Bruku dava per scontato il fatto che avrebbe avuto dei figli, ai quali avrebbe assicurato un’infanzia e una vita migliore di quella avuta da lui. Questo tipo di ragionamento rientra in un tipo discorsi sulla genitorialità molto diffusi a Mekelle. Anche Desireé Adami, nella sua ricerca incentrata sulla costruzione di soggettività femminili nel capoluogo tigrino, registra che alla luce dei recenti cambiamenti socio- economici, le nuove concezioni di maternità e genitorialità «onorevoli» e di successo prevedono il saper garantire «un buon futuro ai figli» (Adami, 2017: 267). Lo stesso Alem, pochi giorni dopo aver sottolineato

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le loro condizioni di assenza di cambiamenti con la sua battuta pungente, si ricorderà, sul non avere altra possibilità che commettere il suicidio, si espresse in questo modo:

Quando mastichi e raggiungi il mirqana i tuoi sogni diventano realtà, per questo tutti masticano! Riesci a fare quello che pensi, se vuoi fare qualcosa lo fai, se vuoi dire qualcosa la dici, se vuoi camminare cammini. Ti fa sentire bene, pensieri positivi vengono alla tua mente…trovi soddisfazione nei tuoi pensieri e vedi tutto in modo diverso.

Riprendendo nuovamente il confronto con il lavoro di Daniel Mains, lo studioso americano registra le medesime considerazioni fra i suoi informatori, analizzando il consumo di khat come non solo un modo per riempire un tempo altrimenti privo di attività, ma soprattutto come metodo per immaginare futuri positivi (Mains, 2012: 55). Scrive l’etnologo:

[During mirqana] Thoughts and conversation turns to hope for the future, youth begin to dream (hilm), and the particular social interaction associated with khat emerge. Chewers describe the “opening of the mind” (amro yikefetal) and a sense of unlimited possibility (ivi: 56, corsivo dell’autore).

Dagli esempi riportati in precedenza si può notare quanto, anche per i giovani di Mekelle, l’uso del khat svolga le medesime funzioni. Da un lato, quella di riempire il loro tempo privo di struttura e di attività, dall’altro quello di alleviare le loro ansie e la loro depressione attraverso il ricorso all’immaginazione e alla fantasia. Durante i loro pomeriggi trascorsi a masticare le foglie, i miei interlocutori indugiavano in lunghe conversazioni su fantasie sessuali, lavorative e migratorie73, che venivano percepite come possibilità realistiche quando raggiungevano il mirqana.

Per Mains, inoltre, non è il solo consumo del khat ad assolvere a questi compiti. Secondo lo studioso anche la visione di film internazionali costituisce un espediente per generare continuamente nuove possibilità immaginative per il proprio futuro (2012: 43). Lo studioso evidenzia anche come coloro che fanno uso di khat si riferiscano alla loro attività col termine “chewata”, che l’autore traduce con «“play”, but is used to refer to conversation more generally» (ivi: 60) e quindi si collega alla ricerca di Cindi Katz su infanzia e sviluppo in Sudan (2004), concludendo, insieme con l’autrice, che «play is a process through which alternate realities are explored and new possibilities are constructed» (Mains, 2012: 60). Allo stesso modo Michael Ralph

73 La migrazione internazionale, intesa come possibilità concreta per il futuro, costituirà l’oggetto di indagine specifico del prossimo capitolo. 149

descrive l’uso comune tra i giovani inoccupati di Dakar di passare parte delle proprie giornate bevendo tè (2008). Nei contesti studiati da entrambi gli autori, politiche economiche di aggiustamento strutturale hanno condotto ad alti livelli di disoccupazione senza precedenti. Secondo i due studiosi, sia il consumo di tè in Dakar che quello di film e khat nel sud dell’Etiopia sono attività attraverso cui i giovani immaginano in modo creativo soluzioni per il proprio futuro ed al tempo stesso arginano i problemi derivanti dall’eccessiva presenza di tempo non strutturato.

Nel contesto di Mekelle l’altra importante attività nelle quali è possibile riscontrare questa duplice funzione è rappresentata dal successo del calcio internazionale. Quella per il calcio europeo e soprattutto per quello inglese è una passione condivisa da tutti i miei interlocutori, che si sono dichiarati tifosi delle compagini più disparate, e in maniera più generale da larga parte della popolazione maschile della città a prescindere da età e condizioni sociali. Le partite inglesi del weekend e quelle di Champions League che si disputano infrasettimanalmente rappresentavano dei veri e propri eventi: la folla di uomini che prima dei match popolava le strade cittadine si riversava all’interno dei bar. In quelli più grandi e frequentati si preparavano panche, sedie e sgabelli che venivano occupati a volte addirittura ore prima delle partite di cartello, in modo tale da accaparrarsi i posti migliori da dove guardare i grandi televisori. Il locale dove ho guardato più partite assieme ai miei amici e informatori è stato il Winter Bar del mio amico Tseghaun, una popolare quanto fortunata birreria posta in una delle strade più frequentate del centro. Come in tanti altri locali si poteva assistere alle partite attraverso la televisione satellitare, che dava la possibilità di guardare diversi match nell’arco della giornata, pertanto era cosa solita per gli appassionati rimanere nel locale interi pomeriggi fino a sera tarda. Le squadre più seguite e con maggior numero di tifosi erano l’Arsenal, il Chelsea e il Manchester United; oltre a queste, le partite che attiravano più clienti erano quelle delle forti compagini spagnole del Barcellona e del Real Madrid, ma seppur con minore intensità gli spettatori seguivano con interesse qualsiasi partita dei campionati europei. In un tipico pomeriggio del sabato, il giorno con più eventi sportivi giocati in Inghilterra, oltre al numero di presenti che stazionava nel bar per tutto il giorno arrivavano in prossimità dell’inizio dei match più importanti svariate decine di spettatori che riempivano rapidamente tutti i posti messi a disposizione. In genere tutti consumavano da

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bere, con le birre alla spina a farla da padrone che spesso venivano accompagnate da fagioli secchi o altre piccole merende, tutte preparate nel bar, mentre coloro che assistevano soltanto alle partite erano tenuti a versare una quota di pochi Birr per potersi accomodare. Mi bastò poco tempo per rendermi conto che il Winter Bar rappresentava una sorta di piccola comunità: nel corso delle settimane potei osservare che il locale era frequentato da un folto numero di habitué che costituiva il vero zoccolo duro della sua clientela, di cui la maggior parte era composta da amici intimi del proprietario. Assistere alla partita sembrava essere anche una maniera per rinsaldare le proprie reti sociali: non c’era evento durante il quale non mi capitasse di osservare i camerieri e le cameriere che, nel via vai di ordinazioni e di consegne, recapitassero ad alcuni clienti boccali di birra che gli erano stati offerti come segno d’amicizia, ai quali provvedevano anche a indicare chi fossero i responsabili del generoso gesto; i beneficiari provvedevano allora con quello che mi sembrò essere un determinato canovaccio di gesti: visto che spesso a separare gli amici concorreva la folla degli spettatori, questi ringraziavano sollevando un braccio mentre portavano l’altra mano sul proprio petto, stringendo ed agitando entrambe le mani come per suggellare una stretta tra le parti e quindi alzando il boccale ricevuto per brindare assieme nonostante la distanza. Dopo un po’ di tempo, chi aveva ricevuto l’omaggio era solito ricambiare, con la scena che si ripeteva a parti invertite.

Quando non erano giocate in contemporanea con le partite inglesi o con eventi di particolare rilievo e non ci fosse quindi molta folla all’interno del locale, Tseghaun mi lasciava assistere alle partite della squadra di cui sono tifoso, il Napoli. Lui e molti altri dei miei interlocutori sembravano preparatissimi anche sul calcio italiano: quando mi chiedevano per chi tifassi, ricevuta la mia risposta dimostravano di conoscere le squadre nostrane e anche tutti i loro più importanti movimenti di mercato, a conferma della loro accesa passione per il mondo del calcio europeo, di cui seguivano tutte le notizie più importanti oltre che le partite. La loro passione per il calcio era presente anche in una precisa forma iconografica: alcuni degli stessi bar dove si seguivano le partite erano decorati con le immagini di alcuni popolari giocatori, altri arrivavano addirittura ad intitolarsi coi nomi di alcune delle più celebri squadre inglesi o ad arredare l’interno dei locali con immagini di calciatori e stemmi, presenti in egual misura in

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molti degli album fotografici personali che alcuni dei miei interlocutori mi mostrarono, oltre che come sfondo dei loro cellulari ed in forma di fotografie condivise sulle proprie pagine di un noto social network.

Nella sua analisi dei desideri di Altrove dei giovani in Gambia, Paolo Gaibazzi (2010) esamina l’attitudine di questi ultimi di utilizzare nomi di città straniere, americane ed europee, oltre che frasi e luoghi celebri di alcuni generi musicali come il rap americano o il reggae e, non per ultimi, nomi di squadre di calcio europee per designare i propri luoghi di ritrovo ed i propri gruppi collegandosi alla nozione di

“extraversione culturale” di Thomas Foquet (2008), ovvero «la propensione radicata nel

(post)colonialismo africano, soprattutto a livello politico-statale, di assegnare all’Altrove uno statuto speciale, richiamandone i modelli culturali e appropriandosi delle risorse (im)materiali per legittimare o trasformare la propria posizione nella società “locale”» (2010: 123). Nel caso dei giovani mekellesi appassionati di calcio europeo sembrerebbe possibile affermare, sulla scorta delle analisi compiute da

Didier Gondola sui giovani Sapeurs di La Sape (1999) di età contemporanea o sui Bills di Kinshasa (2009) di epoca coloniale, che la loro passione metta in atto un forte ricorso all’immaginazione per collegarsi in modo diretto a quel mondo Altro simbolo di benessere e ricreare quindi un ordine fantastico altrimenti irraggiungibile, oltre a costituire un espediente per autenticare e convalidare la ricerca di un’identità che le loro condizioni di incertezza per il proprio futuro e mancanza di occupazione continuano a minare. Il sentirsi parte di una tifoseria internazionale, dunque, rende i giovani protagonisti di questa indagine appartenenti a quelle che vengono definite “comunità immaginate” (Anderson, 1991). Come spiegano

Fabietti, Malighetti e Matera, utilizzando la nozione coniata da Benedict Anderson:

L’immaginazione di coloro che vivono in modi locali tende ad articolarsi in forme via via più complesse all’interno di contesti globali, anche quando il movimento dei soggetti nello spazio è limitato o addirittura assente. Tali contesti globali sono i processi indotti dalla presenza di entità quali il mercato, lo stato e i mezzi di informazione. La cultura di molte località si trova così proiettata in un contesto di globalità proprio perché gli elementi con cui entrano in contatto i mondi locali sono dipendenti da flussi culturali globali. […] È pertanto anche nei mondi “nuovi” creati dall’immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture. Se l’immaginazione consiste nel rappresentarsi realtà che sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri, nella pratica quotidiana essa permette di pensarsi in congiunzione ad altri soggetti come soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. Politiche, espressioni collettive, in poche parole identità, nascono da questo contesto come entità nuove, come comunità “immaginate”. (Fabietti, Malighetti, Matera, 2002: 107, corsivo degli autori).

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4. “Dalle tenebre alla luce”

Oltre ad Asmelash, Bruku, Alem e alcuni altri amici che si incontravano ogni giorno alla bunna bet per “giocare”, indicando in questo modo il loro consumo di khat, un folto numero di persone si univa saltuariamente al gruppo per passare qualche ora in compagnia dei propri amici. Fra questi c’era Mulie, un giovane di 24 anni. A differenza degli altri, Mulie non partecipava alla masticazione delle foglie né tantomeno condivideva alcolici e sigarette con gli amici, limitandosi a sorseggiare caffè o bere qualcosa di fresco. Il motivo della sua astinenza da tutti questi tipi di sostanze risiedeva nel fatto che ormai da tre mesi aveva completato un percorso riabilitativo, dopo essere stato a lungo dipendente da khat, marijuana, hashish, sigarette e alcool. Mulie non parlava una parola di inglese, ma si dimostrò fin da subito spinto da una grande volontà di comunicare con me, raccontandomi del suo percorso e soprattutto di quella che considerava la sua “missione” attuale, quella di convincere i suoi amici a smettere di condurre questo tipo di vita e rivolgersi alle persone che lo avevano aiutato. Grazie all’aiuto del mio interprete Afeworki e di

Asmelash, quando Afe non era presente, Mulie mi raccontò in dettaglio quello che descriveva, in aerea quasi mistica, come “un passaggio dalle tenebre alla luce”, condividendo la sua esperienza con gli amici che incontrava alla bunna bet:

Ero nell’oscurità. Ero cieco, ma adesso vedo. E ora che sono nella luce posso riconoscere l’oscurità, posso dare forma alla mia vita. È per questo che voglio convincere i miei amici a smettere. Loro sono ancora nell’oscurità, non riescono a vedere quello che stanno facendo e il pericolo che stanno vivendo. Non sanno cosa fare per uscire dalla situazione in cui si trovano adesso. La mia missione è quella di condividere la mia conoscenza e portare anche loro nella luce.

Come di consueto, il resto del gruppo commentava in maniera sarcastica, talvolta pungente il tentativo di Mulie:

Alem: Siamo preoccupati per te, Mulie. Tu sei come il sale e noi siamo come l’acqua. E sai cosa succede se il sale finisce nell’acqua? Si dissolve…

Asmelash: Ha ragione, devi stare molto attento ed essere forte! Noi abbiamo paura che invece di convincere noi potresti riprendere con le tue dipendenze.

Mulie non si dava per vinto, e per tutto il periodo nel quale frequentai il gruppo ci incontrammo spesso alla bunna bet nei giorni in cui il giovane non doveva lavorare. Nel corso di una lunga intervista

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svolta insieme ad Afeworki, mi raccontò che da quando aveva completato il suo percorso di riabilitazione aveva infatti iniziato a lavorare nella sala giochi di proprietà di suo fratello maggiore. Il mio interlocutore era l’ultimo di tre figli e viveva solo insieme a sua madre. I suoi genitori si sono separati quando era ancora piccolo e da allora non ha mai più incontrato suo padre. Nonostante la sua giovane età Mulie aveva vissuto una vita ricca di esperienze, a volte drammatiche. Ci spiegò del periodo in cui, abbandonati gli studi a soli 17 anni, si trasferì illegalmente in Sudan insieme a un gruppo di amici con l’intenzione di intraprendere il viaggio che attraverso il deserto, la Libia e poi il mare, lo avrebbe condotto in Italia74.

Tuttavia, dopo aver trascorso più di un anno nella capitale Khartoum decise di tornare a Mekelle. Dopo il suo ritorno la situazione continuò a peggiorare, e rapidamente Mulie iniziò a sviluppare quelle che sarebbero poi diventate vere e proprie dipendenze. Pertanto, ci raccontò la storia del suo percorso riabilitativo:

Mulie: Tutto è cominciato prima che andassi a Khartoum, a scuola, con gli amici. Usavo il khat per studiare, per essere più concentrato. Poi a Khartoum ho iniziato anche a bere, a fumare, ma poco, una volta ogni tanto. Quando sono tornato a Mekelle è iniziato tutto. Non andavo a scuola perché l’avevo abbandonata. Tutti i miei amici andavano a scuola. Non avevo un lavoro, non sapevo cosa fare. Stavo tutto il giorno seduto, non avevo nulla da fare. Se avessi avuto un lavoro all’epoca le cose sarebbero cambiate.

Gianmarco: Tuo fratello non aveva ancora la sala giochi?

Mulie: Sì, ce l’aveva, ma io non volevo lavorare. La mia situazione con la società era debole, e soprattutto con la mia famiglia andava male. Ho commesso tanti errori. Non ho nemmeno seppellito mio zio. Quando mia madre mi disse che mio zio era morto le ho risposto «prima o poi tutti dobbiamo morire». Ma quando sei drogato è così. La marijuana ti offusca il cervello, ti fa essere sempre felice e ti fa ridere di tutto, anche senza motivo. Non riesci più a distinguere la realtà, è come avere degli occhiali verdi che ti fanno vedere il mondo sotto un’altra luce, ma non è reale. È proprio come se un bue avesse degli occhiali rossi, in questo modo non riconoscerebbe più l’erba che deve mangiare e morirebbe. Poi ho combattuto, ho combattuto contro me stesso. Ero triste a causa di mia madre. Lei mi pregava, mi diceva «ti prego, oggi non bere» ma io invece la trattavo male, e lei piangeva molto, piangeva per colpa mia. Poi un giorno un mio amico venne da me e mi disse «perché non vai al centro di riabilitazione? Io ci sono stato, sono cambiato e ne sono uscito [dalle dipendenze], quindi perché non lo fai anche tu?». Lo disse anche a mia madre, ne parlammo insieme. Allora dissi «va bene, lo faccio. Così mia madre sarà felice». All’inizio non ci credevo, sai, infatti il primo giorno volevo scappare via! Poi mi dissi di avere pazienza, pensavo a mia madre. Così restai e il secondo giorno ricevemmo una lezione molto interessante sui danni di una dipendenza. Dopo che imparai tutte quelle cose mi rilassai, iniziai ad abituarmi! Tutte le cose che ho imparato lì sono interessanti, sono cose di cui non avevo idea. La cosa principale che mi ha spinto a restare, comunque, è mia madre. Il mio obiettivo principale era farla felice, cambiare

74 La storia del progetto migratorio di Mulie verrà esaminata in dettaglio nel prossimo capitolo. 154

e ricompensarla. Siccome molte volte le ho fatto del male volevo cambiare e ricompensarla. Lei mi ha sempre aiutato, anche quando ero lì. Veniva a trovarmi due volte a settimana, mi portava i vestiti puliti, mi aiutava. E quando poi sono tornato a casa era felicissima! Diceva sempre «sono rinata»! Adesso sono tre mesi che ho iniziato a vivere, e ora che lavoro lei si sveglia presto la mattina, mi prepara il caffè, mi prepara la colazione, mi prepara il pranzo e me lo manda al lavoro, fa tutto per me! Questa è la cosa che mi fa più felice, più del fatto stesso di essere cambiato. Vedere mia madre felice mi rende ancora più felice! Prima la trattavo male, le chiedevo soldi, a volte le ho anche rubato dei soldi…litigavo sempre con lei, le urlavo «dammi i soldi»! Adesso invece posso darle 50 birr al giorno, riesci a crederci?

Questo stralcio della lunga intervista che Mulie ci concesse contiene alcune indicazioni fondamentali circa i motivi della sua dipendenza e della ritrovata serenità personale, che nel racconto del giovane coincidevano con la riconciliazione con sua madre, ma, come si è visto dalle sue parole, anche con la “società”. La mancanza di lavoro e la sovrabbondanza di tempo non strutturato lo avevano spinto a occupare le sue giornate masticando khat, bevendo e fumando, ma quello che il giovane aveva sottolineato descrivendo “debole” la sua “situazione con la società” era il fatto di esserne rimasto ai margini. Fuori dal mondo del lavoro, da quello dell’istruzione, privo di relazioni amichevoli o sentimentali, e dedito ad attività soggette a forte stigma da parte della comunità, il giovane si era ritrovato ben presto escluso ed emarginato. Parlando della sua riabilitazione, inoltre, descriveva il suo percorso come l’essere tornato a “vivere”; parole che facevano eco a quelle di Edy, il quale, come si ricorderà, commentava la sua esistenza come quella di un non-umano e sognava di trovare un luogo in cui iniziare finalmente a vivere. Infine, la relazione di Mulie con sua madre corrispondeva a quanto detto diverse volte all’interno di questo lavoro e a una delle più comuni retoriche circa il passaggio dei giovani allo status di adulto, quello del passare da una condizione di dipendenza a una di sostegno ai propri cari: il mio interlocutore sottolineava con gioia e orgoglio il fatto che, a differenza del periodo in cui chiedesse o rubasse denaro a sua madre, dopo avere iniziato a lavorare potesse “ricompensare” la donna e sostenerla con 50 birr al giorno.

Mulie ci raccontò anche i dettagli sulla sua permanenza nel centro e le attività che si svolgevano al suo interno. Mosso dalla volontà di verificare le sue informazioni e documentarmi meglio in merito, riuscii attraverso un documento redatto dalla Mekelle University a visitare personalmente il centro in compagnia di Afeworki. Il centro si trovava a pochi chilometri di distanza dal centro cittadino di Mekelle,

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nel piccolo distretto di Laci. Un viaggio con due minibus ci condusse prima in kebele 05, una delle zone periferiche della città, quindi prendemmo un altro mezzo alla volta del distretto. Una volta scesi dal minibus dovemmo camminare per un lungo tratto a piedi percorrendo una strada non asfaltata che conduceva al centro. Durante il tragitto Afe apprezzava «l’aria fresca e pulita che non si trova a Mekelle», facendo emergere immediatamente la differenza rispetto al caos e all’inquinamento del centro cittadino.

L’ingresso era segnalato da una grossa insegna recante la scritta “Substance Rehabilitation Centre” e il nome dell’Ayder Hospital, ospedale specialistico fra i più importanti del capoluogo tigrino, con cui il centro collaborava. Nel compound appena all’ingresso, controllato da un uomo e una donna in uniforme militare ai quali mostrammo i nostri documenti di identità e il mio permesso di ricerca, sorgevano delle baracche di lamiera che ospitano le cucine. La parte interna dell’edificio, che si sviluppava su tre piani, si presentava con un largo cortile interno, illuminato da un grande lucernario piramidale. Al centro del cortile c’era un’aria adornata da piante, con al centro panche e sedie, dove si svolgevano le visite e le cerimonie di saluto per coloro che avevano completato il loro percorso riabilitativo. Non appena entrati venimmo ricevuti dal direttore del centro, il Dottor Etsedingl Hadara, psicologo e insegnante presso la Mekelle

University. Il direttore ci ricevette in modo molto cordiale e, saputi i motivi della mia visita, ci condusse verso una visita guidata del centro e delle attività che si svolgono, facendoci conoscere anche il resto del personale impiegato. Al piano terra c’erano una nursery in cui erano impiegati due infermieri, un uomo e una donna; l’ufficio dello psichiatra, che non era presente durante la mia visita; un magazzino e una grande sala che fungeva da refettorio e sala divertimenti, dove c’erano infatti due televisori e uno stereo. Poi, invitandoci nel suo studio, il direttore ci concesse una lunga intervista condotta interamente in inglese, di cui riporto diversi passaggi:

Direttore: Il nostro è un centro molto giovane, è attivo soltanto da un anno e 4 mesi, ma abbiamo assistito più di 185 persone, compreso quelli che abbiamo adesso. Abbiamo dei criteri, dei protocolli. Abbiamo visitato tanti ospedali in Tigray e nessuno ha dei protocolli per la riabilitazione. I criteri riguardano l’ammissione: devono essere volontari. Non devono essere obbligati dalle famiglie. Prima che li ammettiamo, devono essere motivati, per restare qui almeno 2 o 3 mesi. La dipendenza è una malattia. Non è un problema di tipo psichiatrico, non è un problema epilettico, ma una malattia. Inoltre anche le loro dipendenze possono comportare altre malattie, quindi noi dobbiamo sapere tutto di loro. Se quando arrivano qui hanno problemi di salute vengono prima portati all’ospedale di Ayder e dopo una settimana verranno qui. Abbiamo diversi laboratori perché nessuno deve essere ammesso con problemi 156

di salute, come problemi renali o di fegato. Non abbiamo specialisti per queste malattie, qui. I nostri laboratori riguardano le “skill therapy”, le “group therapy”, terapie individuali con lo psicologo. La “spiritual therapy”, poi è quello che fa la differenza in questo centro, nessun altro la offre. Chi è ortodosso parla coi preti ortodossi, allo stesso modo come i musulmani o i protestanti, ma finora abbiamo avuto solo pazienti ortodossi. La spinta della religione [fa il gesto con le mani che mimano una spinta dal basso verso l’alto] è un fattore positivo molto importante. Abbiamo anche attività opzionali come il giardinaggio. Si svolge nell’orto esterno che viene curato dai ragazzi stessi, che coltivano cipolle, patate e pomodori come “occupational therapy”. Devono anche essere consci delle sostanze che hanno assunto, quindi gli insegniamo anche questi studi. La comunità deve essere parte del trattamento. Il governo, i pazienti e le loro famiglie, i professionisti medici, tutti dobbiamo cooperare. Famiglia, comunità, governo.

Gianmarco: Cosa può dirmi a riguardo della dipendenza dal khat?

Direttore: Sostanzialmente è un’anfetamina. Possiamo vederlo da diversi lati. Economicamente, prende molti soldi. Una persona può consumarne anche 100 grammi al giorno. E può costare anche da 30 a 50 birr per ogni fascio, ma dipende dalla qualità. Da 30 a 100. Socialmente ha degli impatti, particolarmente in Tigray, perché non era accettata alla mia epoca, per esempio, era un peccato! Adesso l’uso sta crescendo fra i giovani, soprattutto fra gli studenti. L’effetto è sociale, perché per esempio dovranno rubare alla famiglia, colpirà il nome della famiglia. E poi la società non ti accetta, sentirai stigma, verrai giudicato. Per esempio se gli studenti vengono trovati a masticare, vengono cacciati. E poi c’è l’aspetto della salute. Gli impatti fisici sono molteplici, partire da problemi dentali. Molti di loro non hanno i denti. Gastrite. Problemi alle vie urinarie. Alcuni possono essere disidratati. Problemi di insonnia, perché è uno stimolante. Perdita dell’appetito. Inoltre, il khat conduce a problemi mentali, perché può portare a disordini mentali. Si diventa iperattivi. Può causare de- personalizzazione. Ansia, depressione. I nostri pazienti hanno dipendenze da khat, cannabis, hashish, alcool, sigarette. Il 10% dei nostri ospiti sta usando la psichiatria moderna. Pensa, solo il 10%. Quando sviluppano malattie mentali si recano da guaritori tradizionali, stregoni, maghi, acque sante. Ma ci sono delle malattie che in questo modo non fanno altro che peggiorare. Se per esempio qualcuno ha comportamenti maniacali, col tempo peggiora. Stiamo cercando di convincere la popolazione a rivolgersi alla medicina moderna, e lasciami dire che la policy etiopica è la migliore, perché è gratuita per chi ha problemi mentali. Ci sono sia persone non istruite che persone con due lauree, ma continuano a usare la medicina tradizionale. Per esempio, c’era una paziente, una giovane studentessa, che era stata nominata leader della propria classe e ha subito uno stress così forte che in poco tempo l’ha portata a usare droghe e ad avere un disordine mentale. Suo padre ha insistito per farla curare in modo tradizionale alle acque sante, mentre sua madre spingeva per un aiuto medico. Il padre ha avuto la meglio e la ragazza è stata alle acque sante per un anno, ma solo per aggravare la sua condizione. Alla fine sua madre è riuscita a portarla al centro. Le donne sono coinvolte maggiormente rispetto agli uomini nei programmi di associazionismo e assistenza medica, ma la ragazza era devastata.

Gianmarco: Quali sono le sue opinioni su questo grande uso di sostanze fra i giovani?

Direttore: Innanzitutto è molto facile procurarsi alcolici, come il mes, la suwa75. La birra si trova in ogni bar. La comunità è troppo permissiva. Se pensiamo al khat, poi, l’Etiopia è uno dei produttori principali, e trovarla è troppo facile. Inoltre conta molto il condizionamento del gruppo [peer pressure]. Se lo fanno gli amici, lo faranno anche loro. Se però una persona è

75 Il mes e la suwa sono due bevande alcoliche molto diffuse in Tigray. La prima è a base di miele fermentato, mentre la seconda è a base di teff e mais. Fanno parte del corredo tradizionale della produzione alcolica tigrina, che spesso avviene all’interno delle mura domestiche, e sono sempre presenti durante feste, ricorrenze e celebrazioni. 157

alcolizzata o drogata, specialmente in Etiopia, quella persona non sarà più accettata dalla comunità. Non si capisce che è una malattia e viene considerata come male, come un peccato. Il nostro obiettivo è quello di creare una substance free generation!

Commentando le parole appena riportate, ritengo opportuno poter trarre diverse conclusioni.

Innanzitutto, si può facilmente notare come il direttore facesse rientrare la questione delle dipendenze nel campo e nella pertinenza esclusiva della biomedicina, ristabilendo il primato di quest’ultima sulle differenti risorse che ancora oggi compongono il sistema medico76 “plurale” del Tigray (Schirripa, 2010;

Massa, 2010). Nella sua tesi di dottorato, Alessia Villanucci ha preso in considerazione il tema dell’introduzione della biomedicina in Etiopia come mezzo e strumento per la costruzione di uno Stato moderno e sviluppato e per il consolidamento del potere nelle mani dei sovrani, prima, e dei governanti poi (Villanucci, 2014: 129-130)77. La studiosa descrive, in un’ottica foucaultiana, il consolidamento nelle maglie dello Stato del bio-potere78:

A partire dal XIX secolo, pertanto, si può parlare del biopotere, in relazione allo Stato, come dell’articolazione di biopolitica e disciplina, ovvero come governo della popolazione per mezzo di istituzioni molto diverse (la famiglia, l’esercito, la scuola, la polizia, la medicina individuale o l’amministrazione delle collettività), di tecniche, di tecnologie e di dispositivi che hanno come oggetto e allo stesso tempo come perno del proprio operare i corpi dei soggetti. In tal modo, lo Stato opera un disciplinamento di quegli aspetti della vita che prima – in quanto

76 Con “sistema medico” si intende «l’insieme delle rappresentazioni, dei saperi, delle pratiche e delle risorse, nonché le relazioni sociali, gli assetti organizzativi e normativi, le professionalità e le forme di trasmissione delle competenze, che in un determinato contesto storico-sociale sono finalizzate ad individuare, interpretare, prevenire e fronteggiare ciò che viene considerato come “malattia” o comunque compromissione di un “normale” stato di salute» (Schirripa, Zúniga Valle 2000: 210). 77 In particolare, l’autrice nota, citando Schirripa (2011: 235-236) che «l’introduzione della zemenawi medhanit (in Amarico, zemenawi significa “moderno” e medhanit sta per “medicina”) è stata il frutto della volontà delle élites che si sono susseguite al potere, nell’ambito di una rete di relazioni con le potenze estere, in particolare occidentali, la cui intensità e i cui scopi sono variati nel tempo» (Villanucci, 2014: 129, corsivo dell’autrice). 78 Per la descrizione di “bio-potere”: «Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due forme principali a partire dal XVII secolo; esse non sono antitetiche; costituiscono piuttosto due poli di sviluppo legati da tutto un fascio intermedio di relazioni. Uno dei poli, il primo sembra ad essersi formato, è stato centrato sul corpo in quanto macchina: il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini, l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo umano. Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la metà del XVIII secolo, è centrato sul corpo-specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di vita, la longevità con tutte le condizioni che possono farle variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta una serie d’interventi e di controlli regolatori: una bio-politica della popolazione. Le discipline del corpo e le regolazioni della popolazione costituiscono i due poli intorno ai quali si è sviluppata l’organizzazione del potere sulla vita. (…) La vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita. Sviluppo rapido nel corso dell’età classica delle varie discipline – scuole, collegi, caserme, ateliers; emergenza anche, nel campo delle pratiche politiche e delle osservazioni economiche, dei problemi di natalità, di longevità, di salute pubblica, di habitat, di migrazione; esplosione dunque di tecniche diverse e numerose per ottenere la subordinazione dei corpi ed il controllo delle popolazioni. Si apre così l’era di un “bio-potere”» (Foucault, 2010: 123-124, corsivo dell’autore, cit. in Villanucci, 2014: 50). 158

naturali – erano esclusi dalla politica. Se la sovranità si fonda sulla spada, sul diritto di uccidere il nemico e di esporre la vita dei sudditi per salvaguardare il sovrano, il governo moderno si legittima attraverso la riproduzione e la salvaguardia della vita (ivi: 50-51, corsivo dell’autrice).

L’analisi di Villanucci può essere applicata ai commenti del direttore, volti a evidenziare il primato della biomedicina sulle risorse terapeutiche tradizionali. La medicalizzazione di coloro che hanno sviluppato una dipendenza da sostanze alteranti e l’ascrizione del problema al campo della biomedicina sono evidenti nelle parole che l’uomo impiegava per descrivere i giovani che si recavano al centro, definiti appunto come “pazienti”, oltre a quando affermava chiaramente che «la dipendenza è una malattia». Un ulteriore esempio di ciò si cela nella polemica che l’uomo intraprese contro le forme di cura tradizionale per quelli che definiva “disordini mentali”, puntando il dito contro coloro che continuano a recarsi presso fonti di acqua santa e guaritori invece di affidarsi alla medicina e alla psichiatria moderna. Quest’ultimo passaggio trova un importante collegamento con l’analisi di Villanucci. Come si è visto, infatti, il direttore sottolineava il fatto che fosse stata la madre della ragazza affetta dal disturbo mentale causato da stress a spingere per suo il ricovero presso il centro, e che non a caso fossero le donne le protagoniste più attive e informate sulle pratiche della medicina “moderna”. Alessia Villanucci ha descritto e analizzato il funzionamento dell’Health Extension Programme79, programma di educazione sanitaria esteso a tutto il territorio nazionale (ivi: 139 e ss.), che vede proprio nelle donne i soggetti principali. Scrive l’antropologa:

La medicalizzazione e l’igienizzazione dei corpi e delle abitazioni, il superamento delle credenze “arretrate” e l’abbandono delle harmful practices, proprie del mondo “tradizionale”, retaggi di un passato “feudale” di ignoranza e sottomissione, sono considerate tappe essenziali del cammino verso la “modernità”. In tale processo, la donna è investita di un ruolo-chiave: è a lei che è addotta la responsabilità della gestione della salute della casa, dal concepimento fino alla cura dei figli e del marito, passando per la gravidanza, il parto, la nutrizione dei membri della famiglia. Nell’ottica dei suoi ideatori, l’HEP consiste in uno strumento di empowerment, enlightment e di educazione femminile. Destinatarie maggiori del programma le donne ne diventerebbero automaticamente le principali promotrici: incorporandone le pratiche e i valori, la donna non solo modificherebbe le proprie attitudini comportamentali, ma si proporrebbe in maniera consequenziale come un esempio e un modello per i membri della propria famiglia e per le altre donne della comunità, permettendo così il cambiamento su larga scala (ivi: 147).

79 «The Extension Program /HEP/ is a defined package of basic and essential promotive, preventive and selected high impact curative health services targeting households, based on the concept and principles of PHC. It is designed to improve the health status of families, with their full participation, using local technologies and the community’s skill and wisdom. HEP is similar to PHC in concept and principle, except HEP focuses on households at the community level, and it involves fewer facility-based services» (Federal Ministry of Health 2007: 6, cit. in Villanucci, 2014: 146) 159

Quando chiesi la sua opinione circa l’alto numero di giovani che abusa di sostanze come il khat e gli alcolici, poi, si è notato come il direttore ponesse l’accento sulle cause del fenomeno concentrandosi esclusivamente sul condizionamento da parte della società, considerata “troppo permissiva” per il fatto di offrire facilmente luoghi dove consumare o trovare prodotti alteranti, e sulla peer pressure, il condizionamento da parte del gruppo. Il mio interlocutore sembrava concentrarsi solamente sulle conseguenze sociali derivanti dall’uso di queste sostanze, facendo ricorso alla categoria, ormai nota, di sikifta (o yilunta, in amarico. Cfr. Cap. II, par. 3). Descriveva infatti la situazione per cui la presenza, al suo interno, di una persona con dipendenze avrebbe influito sul buon nome della famiglia e come il singolo individuo sarebbe andato incontro a un forte stigma da parte della società. L’aspetto sociale, quindi, rientrava nelle sue parole solo fra le conseguenze della dipendenza, e mai fra le sue cause: l’assenza di occupazione o di altre attività era da implicare alla responsabilità dell’individuo, biasimato per il suo abuso finito per divenire vera e propria malattia.

Dopo l’intervista che conducemmo nel suo studio, il direttore ci fece compiere una visita del centro mostrandoci tutte le parti della struttura e i luoghi dove si svolgevano le diverse attività, per poi mostrarci alcune camere dei giovani presenti. Al loro interno c’erano diversi letti a castello, tutti protetti da zanzariere, mentre sulle pareti erano attaccati diversi fogli su cui c’erano scritti slogan motivazionali.

Fra gli altri, ne notai uno che recava il motto dettomi dal direttore: “Costruire una Addiction-Free Generation”.

Nel periodo delle mie visite gli ospiti erano solo uomini, tutti stabiliti nelle camere al primo piano della struttura. Tutti indossavano delle uniformi grigie, che mi venne spiegato erano utilizzate per distinguerli dai visitatori. Durante la visita, i ragazzi furono chiamati a raggiungere il salone per svolgere una sessione della skill-therapy: un incontro nel quale venivano insegnati ai ragazzi metodi per sviluppare e affinare diverse abilità tramite cui affermarsi nel mondo del lavoro. A dirigere la lezione era Abebe, uno dei fondatori dell’associazione per la lotta alle dipendenze chiamata Meqamia (“stampella”, in tigrino). Si trattava di un’associazione nata, come mi raccontò lo stesso fondatore, tre anni prima e che fra le altre cose collaborava assiduamente col centro. Abebe era un uomo di 34 anni, che in passato aveva avuto una lunga dipendenza da khat, alcolici e tabacco. Mi raccontò brevemente della sua vicenda. Aveva iniziato a

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masticare khat a 16 anni, durante la scuola, lasciandolo definitivamente solo a 28 anni. Mi raccontò di aver perso tutto ciò che aveva a causa della sua dipendenza, il lavoro, la sua fidanzata e i propri amici, per poi disintossicarsi e ricominciare. Contrariamente a quanto mi aspettassi, data la sua stessa esperienza di dipendenze, Abebe utilizzava le solite retoriche circa le cause e le conseguenze dell’abuso di sostanze, adducendo la pigrizia dei giovani, la loro indisponibilità al lavoro duro e alla gavetta e la loro volontà di diventare ricchi in fretta, ponendosi dunque obiettivi irrealizzabili o che necessitavano impegno e dedizione costanti. La lezione si svolse interamente in amarico, salvo utilizzare diverse parole in inglese.

Il motivo della scelta linguistica era dovuta alla presenza di persone provenienti da diverse regioni del

Paese che pertanto non parlavano tigrino. Dopo che tutti i venti ospiti del centro si accomodarono,

Abebe accese il proiettore e cominciò la sua lezione:

Abebe: La lezione di oggi è sul “time management”. Chi ha una dipendenza non ha un progetto [plan], quindi non ha lista di cose da fare per domani. Si sveglia presto quindi e non si ha niente da fare. È così che si perde la speranza, la mente va solo a quello che si vede in quel momento, non si hanno scopi ma si è guidati dalla situazione del momento. Se si vede un business di successo, si desidera ma non si hanno ambizioni o scopi. Tutti dovremmo fissare un obiettivo e poi farlo in tanti piccoli pezzi, con un programma: ho un programma e lo divido in passi, per raggiungere la vetta. Concentratevi su cosa fare oggi, ma dovete avere un obiettivo futuro! Un obiettivo per il domani ma con un piano per oggi. Per esempio, se vuoi riempire un pavimento, comincia da una mattonella, poi aggiungi la seconda e così tutto il pavimento sarà completo: lo scopo è riempirlo ma bisogna iniziare con una.

Uno dei presenti: [Interrompendo il discorso di Abebe] Voglio sposarmi e avere bambini, vuol dire che non devo pensare a questo futuro obiettivo ma concentrarmi su cosa mi serve adesso?

Abebe: Devi pensare al tuo obiettivo, ma concentrarti su cosa ti serve per realizzarlo! Cosa ti serve? Prima devi avere la capacità di prendere le tue responsabilità, la capacità di soddisfare quello che si aspettano da te. Devi avere ambizioni e scopi. Per esempio, perché sei qui? Per abbandonare la tua dipendenza! E allora per il momento pensa a questo, il tuo primo obiettivo è abbandonare la tua dipendenza! Poi dovrai costruire la tua capacità di avere una famiglia. Noi [usa il plurale] abbiamo obiettivi poco chiari. Cosa voglio? Dove voglio andare? Queste sono le domande che dobbiamo porci. Ognuno deve prendere tempo per se stesso e pensare alle conseguenze delle sue azioni. Il carattere di un grande uomo è quello di vedere i risultati che verranno seguendo le sue azioni. Se una persona deve scrivere un libro, scrive una pagina al giorno. Se avete una dipendenza pensate solo ad avere cose in breve tempo, ma invece dovete avere delle priorità, dovete costruire l’abilità di dire «non ho tempo per questo». Se un amico ci invita gli diciamo «certo», e invece dobbiamo imparare a dire che non abbiamo tempo per quello! Come siamo stati creati?

Tutti i presenti in coro [doveva trattarsi di un slogan frequente]: Beautiful and unique [in inglese].

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Alla fine della sua lezione Abebe invitò tutti i presenti che volessero intervenire ad alzarsi e a comunicare qualcosa all’intera classe. A turno, coloro che intervennero si alzarono salutati dagli applausi e raggiunsero la postazione di Abebe, per poi tornare ai propri posti.

Primo: Non ho usato il mio tempo in modo proprio, mi sarei dovuto svegliare tutti i giorni con un obiettivo, adesso dovrei svegliarmi ogni giorno con un obiettivo. Adesso capisco i benefici del tempo, raggiungerò i miei obiettivi, il tempo non è domani ma adesso, dobbiamo usarlo.

Secondo: Sono stato dipendente per 8 anni: molto della mia vita è sprecato e adesso noi abbiamo un obiettivo che è superare la nostra dipendenza. Se avessi lavorato per il tempo che ho sprecato, adesso avrei molte cose e avrei realizzato molto.

Terzo: Ho speso 9 anni in una dipendenza, era parte della mia vita che è stata sprecata. Ora voglio dare tempo alla mia famiglia.

Quarto: Un drogato che si sveglia presto non sa cosa fare, dove andrà, perché non ha obiettivi.

Quinto: Quando eravamo con gli amici le persone che passavano ci dicevano che il tempo è oro e noi ridevamo. Ma adesso capisco che il tempo è anche più dell’oro.

Sesto: Mi piace quello che ci ha detto Abebe! Io inizio ora a vivere.

Settimo: Mi sento pentito per il tempo che ho sprecato ma adesso ho tempo e inizierò a lavorare per domani.

Ottavo: Ho 40 anni e ho speso tutto il mio tempo, non ho fatto niente con gli anni che ho vissuto ma sono nato solo ora, sono un bambino, e da adesso vivrò.

Nono: Prima di entrare nel centro e della lezione di oggi non capivo il tempo ma adesso capisco che dovrei concentrarmi su un obiettivo, prima pensavo che divertirsi significasse bere e drogarmi, adesso capisco e cercherò di ricostruire me stesso.

Decimo: Nel mio passato non avevo un piano, adesso ho imparato come usare il tempo in modo corretto e avere un obiettivo, il tempo non aspetta nessuno.

Undicesimo: Uno dei problemi è che avevo troppi obiettivi, non finivo mai un obiettivo in particolare. Adesso sto lasciando la dipendenza e la dipendenza lascia me.

5. Conclusioni

La lezione di Abebe riproponeva, seppure in toni diversi, le medesime retoriche circa la responsabilità individuale di coloro che avevano contratto una dipendenza da sostanze; retoriche che, nel corso dei miei soggiorni a Mekelle, mi è capitato di ascoltare in modo trasversale, sia che i miei interlocutori fossero giovani, adulti, comuni cittadini o ufficiali governativi o persino le stesse persone

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che trascorrevano le proprie esistenze masticando le foglie di khat. Per fornire un esempio di questo tipo di discorsi inerenti la gioventù inattiva e “drogata” di Mekelle, riporto una conversazione avvenuta in compagnia, come di consueto, del mio principale interprete Afeworki, con Emmanuel, un ufficiale dello

“Youth & Sports Office” del Governo Regionale del Tigray. L’ufficio si trovava presso il Masagagia bet, in tigrino, il Palazzo della Municipalità, ed è l’organo principale che si occupa delle policy relative ai giovani, oltre a quelle sportive. Nel corso della nostra conversazione, chiesi all’ufficiale la sua opinione sulle cause dell’alto numero di giovani che consumano khat.

È tutta una questione di mentalità. Ma non sono solo i giovani a usare il khat. Anche i dottori e gli insegnanti lo usano: è una questione di mentalità. In Tigray l’uso sta aumentando, è vero, ma va meglio se comparato con altre regioni. Ci sono dipendenti da droghe e khat, e per questo dobbiamo lavorare per un cambio di mentalità. Secondariamente, si tratta di un problema di cultura. Per esempio, una volta in Tigray non c’era questo tipo di comportamento. Non c’erano molte persone che usavano il khat, erano pochi. Al giorno d’oggi invece, a causa dell’espansione dell’istruzione superiore e delle università, questo uso sta crescendo. Culturalmente, è proibito in Tigray, ma gli studenti che arrivano a Mekelle per studiare vengono anche dalle regioni di Harar, Oromia, e nella loro cultura c’è l’uso di consumarne tanto, lo usano fino dalla mattina come si usa il caffè in Tigray. Ce l’hanno nella loro cultura, e così quando ti integri con loro, inevitabilmente si trasmettono dei cattivi comportamenti. Tutto ciò necessita di uno sforzo per un cambio di mentalità, perché se la mente dei giovani è rovinata dalla droga non ci sarà nessuno che rimpiazzerà questa generazione e non ci sarà più cambiamento nel Paese. Questo è un pericolo grande! In che modo possiamo risolverlo? Può essere risolto, nel futuro, offrendo training che portino a un cambio di mentalità, dobbiamo fare in modo che le menti dei giovani siano sempre lucide. La dipendenza da droghe esiste, esiste certamente, ma sul come è emersa nel nostro contesto è per le cause che ti ho detto prima. Chi viene da altre regioni ha portato con sé delle vecchie abitudini.

Ancora una volta emergono le retoriche che puntano sulla responsabilità individuale e tralasciano completamente le cause sociali e strutturali che, nel caso dei giovani dipendenti da khat descritti in questo capitolo, li hanno condotti a vivere ai margini della società e a essere etichettati come veri e propri “pesi per la nazione”, parafrasando le parole di Asmelash, a cui fanno eco quelle dell’impiegato governativo che vedeva nelle dipendenze uno dei grandi pericoli del Paese. Il nesso fra dipendenze e istruzione, nelle parole di quest’ultimo, si fermava alla diffusione di “vecchie abitudini” che erano state trasmesse dal contatto fra studenti provenienti da diversi gruppi regionali. Asmelash, Bruku e Alem erano giovani

“brillanti”, ai quali era stata promessa la prospettiva di un cambiamento radicale, in positivo, delle proprie condizioni di vita attraverso lo studio. Sebbene siano stati loro stessi ad ammettere di aver iniziato a

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masticare il khat nel periodo della loro istruzione superiore, terminati i propri percorsi di studio i ragazzi hanno sviluppato forti forme di dipendenza anche a causa della loro mancanza di attività, della depressione derivante dalla delusione e dalla frustrazione di non aver visto realizzarsi quell’avanzamento sociale previsto una volta entrati in possesso di una laurea. Nella loro etnografia sugli eroinomani senzatetto di San Francisco, Philippe Bourgois e Jeff Schonberg (2009) hanno impiegato il concetto di

“violenza simbolica” coniato da Pierre Bourdieu (2000) per descrivere il modo in cui l’abuso di droga e la povertà vengano considerati e criticati come conseguenza esclusiva di inclinazioni personali e comportamenti immorali:

Sociologist Pierre Bourdieu’s concept of symbolic violence links immediate practices and feelings to social domination (Bourdieu 2000). It refers specifically to the mechanisms that lead those who are subordinated to “misrecognize” inequality as the natural order of things and to blame themselves for their location in their society’s hierarchies. Through symbolic violence, inequalities are made to appear commonsensical, and they reproduce themselves preconsciously in the ontological categories shared within classes and within social groups in any given society. Symbolic violence is an especially useful concept for critiquing homelessness in the United States because most people (including the Edgewater homeless themselves) consider drug use and poverty to be caused by personal character flaws or sinful behavior (Bourgois, Schonberg, 2009: 17).

Secondo gli studiosi, la violenza simbolica maschera, e opera in un continuum, la violenza strutturale (Farmer, 2003) e la violenza quotidiana (Scheper-Hughes, 1996):

Structural violence refers to how the political-economic organization of society wreaks havoc on vulnerable categories of people (Farmer 2003). Scheper-Hughes began using the term everyday violence to call attention to the social production of indifference in the face of institutionalized brutalities. She reveals, for example, how the “invisible genocide” of infants dying of hunger in the Brazilian shantytown where she was living was routinized and legitimized by the rituals of bureaucracies, the banal procedures of medicine, and the religious consolation of the mothers who were her neighbors and friends (Scheper-Hughes 1996). (Bourgois, Schonberg, 2009: 16-17).

Lo stesso tipo di retoriche impiegato per descrivere i giovani disoccupati e dipendenti da sostanze di Mekelle è stato registrato da Marco Di Nunzio tra gli ufficiali governativi degli uffici per la gioventù di

Addis Abeba:

By advancing ‘wrong’ cultural attitudes and lack of motivation, government officials in fact depicted the ‘unemployed youth’ as personally responsible for their poverty and exclusion. Similarly, by referring to their lack of entrepreneurial skills and spirit, government officials blamed ‘working’ youth involved in government entrepreneurship schemes for the persistence of their conditions of marginality. The endurance of these narratives of ‘lazy’ 164

unemployed youth and ‘indecisive’ working youth, I argue, was grounded in a broader understanding of marginality and exclusion and, more importantly, assumptions about what a poor person should do while living in poverty or attempting to escape it. Thus, blaming the unemployed youth and the working youth for their continued marginalization and exclusion was not just a way of making sense of the outcomes of the small-scale enterprise schemes. It was a discourse about the position that the urban poor eventually would and should occupy in an increasingly unequal society. In this perspective, social inequalities are understood as an inevitable consequence of economic growth, while the position that individuals occupy in society is an effect of their actions. The role of state institutions is thus more to enable worthy individuals to deal with inequalities and less to address the structural reasons for social inequalities, since to remain living in poverty is a consequence of one’s own ‘failures’ (Di Nunzio, 2015b: 1192-1193).

Lo studioso sostiene come, sposando un’ideologia liberale (ibidem), le diseguaglianze sociali siano considerate delle conseguenze “inevitabili” della crescita economica e che la posizione di marginalità nella quale si trovano segregati gli stati più fragili della popolazione sia da imputare solo ed esclusivamente alle azioni degli individui. Oltre all’essere etichettati come un peso, al biasimo per la loro presunta pigrizia e per la loro mancanza di volontà, Di Nunzio dimostra in un ulteriore articolo come i giovani disoccupati etiopi siano stati riconosciuti come una minaccia all’ordine costituito nelle rivolte che hanno seguito le elezioni del 2005, diventando di conseguenza soggetti privilegiati delle azioni di controllo e di mobilitazione che sono seguite:

Urban and unemployed youth were believed to be the main protagonists of the demonstrations and riots in support of the opposition that followed the disputed 2005 polls. The ruling party claimed that those involved in the protests were “unemployed youth” and “dangerous vagrants”, and responded with heavy-handed repression: more than 200 people were killed in Addis Ababa and 30,000 detained in the capital and other major towns. In the years that followed, development programmes targeted what the government believed to be the main reason for political and social unrest among young people: the lack of employment. With these programmes, however, the ruling party sought not only to tackle the predicaments of Addis Ababa’s marginalized youth, but also to mobilize them (Di Nunzio, 2014a: 4).

L’analisi compiuta da Di Nunzio, confrontata con l’esame delle dinamiche prese in considerazione in questo capitolo sul contesto di Mekelle, permette a mio avviso di instaurare un parallelo interessante con l’analisi compiuta da Loïc Wacquant sulle nuove forme di governo dell’insicurezza sociale negli Stati Uniti e, più in generale, nei paesi Occidentali emerse sul finire del XX secolo (2006).

Per lo studioso, gli Stati Uniti costituiscono il «laboratorio vivente del futuro neoliberista» (ivi: 5), avendo fatto della propria “guerra al crimine” il «punto di riferimento obbligatorio per tutti governi del Primo mondo» (ivi: 7). Scrive Wacquant: 165

L’egemonia incontrastata del sicuritarismo neoliberale su entrambe le sponde dell’Atlantico maschera il fatto che le società contemporanee dispongono di almeno tre strategie per affrontare le condizioni e i comportamenti ritenuti indesiderabili, offensivi o minacciosi. La prima consiste nel socializzarli, cioè nell’agire a livello delle strutture e dei meccanismi collettivi che li producono e li riproducono, ad esempio, per quanto riguarda l’aumento costante del numero di persone senza fissa dimora che con la loro visibilità «rovinano» il paesaggio urbano, costruendo o sovvenzionando degli alloggi o, ancora, assicurando loro un lavoro o un sussidio che permetta loro di procurarsene uno sul mercato immobiliare. […] La seconda strategia è la medicalizzazione: significa considerare che una persona vive per strada perché soffre di dipendenza dall’alcol o di disturbi mentali, e dunque cercare un rimedio medico a un problema definito senza esitazioni come una patologia individuale suscettibile di trattamento medico. La terza strategia adottata dallo Stato è la penalizzazione: in questo caso di portata più generale, non si tratta né di comprendere una situazione di miseria individuale né di ostacolare dei meccanismi sociali; il nomade urbano è etichettato come delinquente […] e si ritrova trattato di conseguenza[…] la penalizzazione, in questo caso serve da tecnica per rendere invisibili i «problemi» sociali che lo Stato, in qualità di strumento burocratico della volontà collettiva, non vuole o non può affrontare fino in fondo (Wacquant, 2006: 12-13).

L’analisi di Wacquant parte dai Paesi Occidentali del “Primo mondo” ma per estensione può essere applicata a tutti i contesti che, come si è visto nel periodo preso in considerazione, sposano ideologie neoliberiste, fra cui, quindi, anche l’Etiopia. Facendo un percorso a ritroso rispetto alle tre strategie descritte dallo studioso, è possibile ritrovarle anche nel contesto di Mekelle e, più in generale, in quello etiopico. Si è visto infatti come i giovani disoccupati, tanto ad Addis quanto a Mekelle, siano stati etichettati come peso e come minaccia per l’ordine costituito, andando quindi incontro a esperienze di

“penalizzazione” e di incarcerazione, come nel caso di Asmelash, messo agli arresti in tre occasioni. La seconda strategia, quella della “medicalizzazione”, corrisponde in maniera esatta ai programmi di riabilitazione e alle considerazioni del direttore del centro circa l’origine patologica delle dipendenze dei giovani, misconoscendo un problema sociale come riconducibile esclusivamente all’ambito della biomedicina. Per finire, la strategia della “socializzazione” è messa in atto anche in Etiopia attraverso la mobilitazione dei giovani disoccupati nei programmi a loro destinati, volti a favorirne l’occupazione e a fungere da strumento di controllo e di creazione di consenso, come spiegato da Di Nunzio (2014a).

Il coinvolgimento dei giovani in questo tipo di programmi avviene anche a Mekelle. Nel corso del mio ultimo soggiorno nel capoluogo tigrino, Asmelash e Alem vennero reclutati all’interno del

Cobblestone Project, un programma che aveva il duplice scopo di realizzare e pavimentare nuove strade

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rendendole pulite e di gradevole aspetto, oltre a quello di creare posti di lavoro per giovani disoccupati80.

Negli ultimi mesi del mio soggiorno nel capoluogo tigrino, l’assenza di Asmelash e Alem, oltre a quella di Bruku che era tornato a Jimma per laurearsi, coincise con la dissoluzione del gruppo di clienti abituali della piccola bunna bet, dove si svolgevano i loro incontri per masticare le foglie di khat. Durante il tempo che trascorsi a Mekelle prima di fare rientro definitivo in Italia, gli amici si incontrarono saltuariamente, solo di domenica quando erano liberi dal lavoro. Venni invitato diverse volte a raggiungere il gruppo. In una delle occasioni era presente anche Mulie, che commentò entusiasta il fatto che i suoi amici avessero finalmente trovato lavoro: «Sono felice per loro! Ora che stanno lavorando bevono e masticano solo quando non lavorano.

Masticano ancora, ma almeno non lo fanno tutti i giorni!».

Quando chiesi ad Asmelash come si sentisse adesso che aveva trovato un lavoro, invece, il mio giovane interlocutore rispose col suo consueto tono piccato:

Asmelash: Non è quello che volevo, ma almeno è un lavoro. Però ho parlato con la mia famiglia, mi hanno detto che se smetto di bere e porto a termine questo lavoro, poi mi regaleranno ventimila birr, e con quelli potrò fare qualcosa, potrei trasferirmi ad Addis e cercare lavoro in uno studio di architettura, di design. Perché credi che il governo mi abbia dato questo lavoro? Loro me lo hanno dato perché parlo troppo. Me lo hanno dato per chiudermi la bocca!

80 Il Cobblestone Project è stato avviato dal governo nazionale col supporto dalla German Development Cooperatve, messo in atto in 140 città dell’Etiopia. Il programma segue il duplice scopo di realizzare e pavimentare nuove strade e quello di creare posti di lavoro per giovani uomini e donne, di cui sarebbero stati impiegati ben 90mila unità (Broussar – Tekleselassie, 2012: 33). 167

CAPITOLO V – “CANOVACCI” MIGRATORI. IMMAGINARI, PERCORSI E

STRATEGIE DI MOBILITÀ.

1. Introduzione

In questo ultimo capitolo verrà indagata una delle immagini del futuro maggiormente tenute in conto dai miei interlocutori: la possibilità di viaggiare (legalmente e illegalmente), studiare e lavorare in altri Paesi al di fuori dell’Etiopia, raggiungendo altre nazioni del continente africano, i paesi del Golfo

Arabo, gli Stati Uniti e l’Europa. Un’indagine sulle aspirazioni e sulle possibilità prese in considerazione dai giovani circa il proprio futuro non può prescindere dallo studio di questa opzione, elemento quasi onnipresente nei discorsi e nelle fantasie dei giovani con i quali sono stato in contatto nel corso dei miei soggiorni a Mekelle. Nella quasi totalità delle mie conversazioni emergevano la volontà e il desiderio di raggiungere, anche una sola volta nella vita, per diversi motivi e con idee molto differenti circa il tempo che vi si vorrebbe trascorrere, uno dei luoghi esteri appena menzionati, con riferimento particolare ai paesi occidentali. Sebbene, come si è cercato di mostrare nel corso di questo lavoro, la città di Mekelle rappresenti un centro di attrazione per il suo sviluppo urbano e quindi per le opportunità economiche e lavorative che potrebbe offrire, una parte consistente dei suoi abitanti81, preferisce trasferirsi nella capitale in cerca di migliori opportunità o prende in considerazione la possibilità di lasciare l’Etiopia. Durante la mia ricerca, una delle retoriche emersa con maggiore frequenza è quella secondo cui, nell’ottica dei miei interlocutori, i percorsi di mobilità sarebbero uno dei modi, o meglio quello principale, attraverso cui realizzarsi come individui adulti, rispettati e di successo. D’altronde, come è stato recentemente notato da Peter Geschiere and Antoine Socpa, il legame fra mobilità e visioni per il futuro è sempre stato molto

81 La maggior parte della quale è costituita da persone giovani (Mekelle City Administration, 2015/2016). 168

forte, soprattutto per quanto riguarda il continente africano, oltre ad avere radici storiche molto profonde

(2016: 167). Scrivono gli studiosi:

In many African societies, there is and there was a particularly close link between mobility and visions of the future. It was not for nothing that in many parts of the continent, colonial authorities were obsessed with “floating populations” as structural elements of disorder, against which the first priority for imposing order was to “fix” people (Roitman 2005). Yet, in practice, colonial measures encouraged new forms of mobility. Indeed, up to the present day, mobility has remained a crucial element in people’s reflection on the future (ibidem).

Prima di entrare nel vivo di questa indagine, esaminando le modalità in cui si declinano e prendono forma le idee e le strategie legate ai percorsi di mobilità nel contesto di Mekelle, occorre premettere alcune precisazioni e richiamare le riflessioni teoriche che sono state mosse di recente da diversi studiosi delle migrazioni, le quali sono alla base di questo contributo. Muoversi nell’ambito degli studi sulla mobilità significa infatti entrare in un dibattito che al giorno d’oggi, anche a causa della vasta visibilità assunta dal fenomeno, continua ad animare l’accademia scientifica (oltre che la scena pubblica).

In un volume recente, Aurora Massa, Osvaldo Costantini e Jvan Yazdani hanno applicato una lettura antropologica delle migrazioni e dei fenomeni legati ad esse proprio con lo scopo di «mostrare quanto ciò che appare naturale e scontato è in realtà frutto di costrutti culturali e sociali, di orizzonti ideologici e politici» (2016: 12). Gli studiosi puntano a decostruire e denaturalizzare categorie che fanno parte dei discorsi e delle pratiche su questo fenomeno, spesso utilizzate in modo acritico dagli stessi addetti ai lavori o dalla lettura divulgativa:

La rilevanza che la questione migratoria ha assunto nell’agone politico ha reso termini quali rifugiato, richiedente asilo, ma anche migrante economico e migrante illegale, parte del vocabolario quotidiano attorno a cui si polarizza il dibattito pubblico. Indipendentemente dai posizionamenti politici, dagli immaginari nei quali si inserisce il fenomeno migratorio e dagli obiettivi che si vogliono perseguire, categorie quali migrazioni forzate, per lavoro, regolari/irregolari rimpatri sono infatti date per scontate e impiegate come termini descrittivi e neutrali per circoscrivere le realtà sociali e per elaborare strumenti di intervento. […] uno dei principali contributi dell’antropologia allo studio delle migrazioni (forzate e non) è stato quello di offrire uno sguardo critico volto a decostruire tali “etichette”. Queste ultime sono infatti molto spesso date per scontate nei discorsi e nelle pratiche degli addetti ai lavori, sono cioè naturalizzate, occultando i percorsi storici che le hanno prodotte e le visioni del mondo e i rapporti di potere che esse veicolano (ivi: 25-26).

Ricostruendo il percorso degli studi volti a denaturalizzare queste categorie, i tre studiosi mostrano come uno dei primi stimoli alla decostruzione dei linguaggi sulle migrazioni sia stato fornito

169

dalla considerazione che l’idea di una “naturale” appartenenza degli individui a luoghi caratterizzati da tratti culturali fissi e omogenei, sia in realtà una costruzione fondata sui risultati di processi storici, politici e sociali (Gupta – Ferguson, 1997, cit. in Massa et al., 2016: 26).

Un ulteriore impulso alla necessità di decostruire rigide etichette analitiche e istituzionali è venuto dagli studi attenti all’accelerazione e all’incremento di movimenti di merci, idee e persone lungo rotte fisiche e virtuali, cifre dell’attuale globalizzazione. L’enfasi sullo spostamento di persone e cose ha infatti favorito lo sviluppo di analisi volte a cogliere le interconnessioni tra i diversi tipi di movimento e più in generale a mettere in discussione il binomio mobilità/immobilità, ribaltando ulteriormente la prospettiva secondo cui il movimento costituisce l’eccezione. Tali studi hanno contribuito all’inversione di quella narrativa secondo cui persone e pratiche culturali sono “naturalmente” sedentarie mentre il movimento è una condizione di non normalità (Massa, Costantini, Yazdani, 2016: 31).

Allo stesso modo, procedendo con un approccio denaturalizzante, Knut Graw (2012) sottolinea i rischi dell’attribuire ai movimenti di persone un carattere non eccezionale ma che faccia parte della

“norma” nei comportamenti umani:

Another problematic tendency in the writing about migrations seems to be what one could call the normalization or naturalization of migrations, that is, the tendency to describe and characterize migration, by reference to either historical precedent or the wide range of migration process in a multitude of sociogeographic context today, as that which is the norm in human behaviour, not its exception. In its most explicit form, this tendency to describe migration as a typical rather than exceptional trait of human nature seems to result in an argument which can perhaps best be described as viewing the human being not as sedentary but as a kind of “homo migrans”. […] In other words, the consideration of migration as a normal or natural trait of human behaviour depoliticizes the phenomenon of migration and, as a result, the question why an increasing number of people engage in (not just) transnational migration needs no longer to be asked (Graw, 2012: 24-25, corsivo dell’autore).

In entrambi gli studi appena riportati, l’approccio decostruttivista e denaturalizzante dei discorsi intorno alle migrazioni si rivela di fondamentale importanza per evidenziare i rapporti di forza e le ineguaglianze insiti negli aspetti politici, economici e sociali, in poche parole gli aspetti “macro-sociali”, che sono alla base delle decisioni degli individui a intraprendere percorsi di mobilità. Ma, fanno notare gli autori, prendere in considerazioni questi ultimi aspetti non vuol dire privilegiarli nello studio dei movimenti migratori. Samir Amin, al contrario, è stato categorico su questo ultimo punto: per il celebre studioso, recentemente scomparso, le considerazioni, le soggettività e la psicologia dei migranti sarebbero strutturate e ordinate dai processi economici e politici in atto e pertanto sarebbero di scarsa importanza ai fini dello studio sulle migrazioni: sostenendo che le motivazioni fornite dagli individui circa la loro

170

scelta di mobilità siano esclusivamente razionalizzazioni delle condizioni di vita che essi devono affrontare, Amin arriva a dire che le motivazioni individuali non sono altro che “parole vuote” (Amin,

1995: 30-32). Pur concordando col celebre studioso sul fatto che le migrazioni debbano essere considerate in relazione agli effetti strutturali di economia e politica, non si può prescindere dalla presa in considerazione delle motivazioni personali che muovono gli individui migranti. È chiaro che, mettendo in evidenza le soggettività dei migranti, non si vogliano dimenticare né tantomeno si voglia evitare di prendere in considerazione le forze strutturali che originano i loro movimenti. Come ricorda Francesco

Vacchiano, «le migrazioni attuali sono in buona parte la risultante di processi di sviluppo sbilanciati, di ingiustizie sociali e politiche, di neocolonialismo economico e culturale, di asservimento del pianeta al valore del consumo» (2006: 171), elementi contro cui gli individui migranti esercitano ciò che Sandro

Mezzadra ha efficacemente definito come il loro “diritto di fuga” (2001). Secondo Mezzadra, concentrarsi sulle soggettività individuali:

[…] non significa, evidentemente, trascurare i fattori “oggettivi” che continuano ad agire alla radice delle migrazioni (i plateali squilibri nella distribuzione della ricchezza tra i molti nord e i molti sud del mondo, la miseria, la fame, le carestie, le tirannidi politiche e sociali, le catastrofi ambientali, le guerre), su cui esiste del resto un’abbondante letteratura. Il punto è, tuttavia, che proprio un’analisi delle migrazioni […] dovrebbe proporsi in primo luogo di evidenziare le determinazioni soggettive che ne sono alla base, le domande di cui i migranti sono portatori. Si può dire in questo senso che quel che unifica, evidentemente a un livello molto astratto, i comportamenti delle donne e degli uomini che optano per la migrazione sono la rivendicazione e l’esercizio del diritto di fuga dai fattori “oggettivi” a cui si è fatto sinteticamente cenno (Mezzadra, 2001: 81-82, corsivo dell’autore).

La citazione appena riportata descrive e serve a evidenziare una volta di più le profonde diseguaglianze che attraversano i contesti interessati dai movimenti migratori; diseguaglianze che, è bene ricordare, interessano la possibilità stessa del movimento: come scrive infatti Zygmunt Bauman, «la mobilità assurge al rango più elevato tra i valori che danno prestigio e la stessa libertà di movimento, da sempre una merce scarsa e distribuita in maniera ineguale, diventa rapidamente il principale fattore di stratificazione sociale dei nostri tempi» (1998: 4). Proprio per evidenziare questa diseguaglianza nella distribuzione di questa risorsa, Nina Glick-Schiller e Noel Salazar usano l’espressione di “regimi di mobilità” al posto di “studi di mobilità”, per marcare la differenza fra gli spostamenti illimitati e privilegiati

171

di chi vive in un mondo fatto di ricchezza e potere e quelli illegali dei senza potere, dei poveri e degli sfruttati (2013: 188, cit. in Costantini, 2016: 150).

Al fine di evitare di continuare un dibattito che vede da un lato studiosi che prediligono un approccio volto a prendere in considerazione gli aspetti strutturali della mobilità e, dall’altro, chi presta maggiore attenzione alla soggettività degli individui, ritengo opportuno rispondere con l’acuta osservazione di Knut Graw, il quale ha bene evidenziato come alla base di un contrasto fra approcci

«structural and agency-oriented» ci sia una differente concezione del concetto di causa (Graw, 2012: 35).

Rifacendosi alla filosofia aristotelica che distingue quattro tipi di causa, lo studioso conclude:

I would argue that what causes the tension between structural and agency-oriented approaches is perhaps not just a disagreement on the question of what constitutes the efficient cause of migration but also a tendency not to distinguish between the efficient and the final cause of migration, that is, between that which produces migration and that for which migration is pursued (ivi: 37).

In poche parole, uno studio a tutto tondo del fenomeno migratorio deve tenere in conto tanto le cause effettive che quelle finali; vale a dire effetti macro-sociali e volontà soggettive, cause e assieme finalità dei percorsi di mobilità. Già Abdelmalek Sayad (2002), d’altronde, ha proposto di guardare alla migrazione come a un “fatto sociale totale”, e cioè a un fenomeno nel quale tutti gli elementi ad esso connessi sono collegati e interdipendenti. Francesco Vacchiano ha, a tal proposito, giustamente fatto notare la necessità di adottare un approccio di “multifocalità”, l’unico in grado di cogliere la moltitudine complessa di fattori «macrosociali, microsociali ed individuali» (Taliani – Vacchiano, 2006: 168). Scrive lo studioso:

Di rado tuttavia le ricerche sul tema hanno osservato il fenomeno della migrazione utilizzando chiavi di lettura capaci di integrare angoli visuali differenti e dislocati in un rapporto di reciproca interazione per ricostruire un paesaggio concettuale nel quale storia, società, cultura, […] potessero essere utilizzati insieme e al contempo per meglio definire la complessità dell’oggetto le esperienze e le domande degli immigrati e delle loro famiglie impongono al contrario la definizione di un metodo che sappia legare, in una ricorsività non deterministica, le vicende individuali e collettive con le determinanti storiche, politiche ed economiche che sempre hanno spinto ed accompagnato nel tempo i movimenti di popolazioni. Quest’ultimo punto va chiarito soprattutto per evitare il rischio di riproporre quelle implicazioni che a volte caratterizzano la definizione della migrazione come “progetto”, come scelta individuale, come rischio soggettivo, come responsabilità oggettivabile dei propri successi e dei propri fallimenti, ma al contempo anche quelle teorizzazioni che, mettendo in luce del fenomeno solo ed esclusivamente le componenti 172

strutturali di tipo macrosociale, rendono evidenti solo gli effetti di imposizione e costrizione sociale. La componente di scelta attiva (quella che sempre più spesso gli antropologi chiamano agency o “agentività”), va comunque letta nella trama connettiva definita dai vincoli pragmatici e concettuali che concorrono a definire lo spazio di relativo movimento che il singolo occupa in relazione, ad esempio, ai suoi ruoli familiari, alle sue appartenenze sociali, alle rappresentazioni dominanti, ai modi di produzione egemoni, ai processi politici e storici in corso (ivi: 169, corsivo dell’autore).

È sulla base di questa preziosa indicazione metodologica che, in questo testo, anche io utilizzo la semplice quanto geniale e immediata definizione coniata da Osvaldo Costantini (2016) di “canovaccio migratorio”, la quale indica agevolmente la continua rinegoziazione e riorganizzazione delle strategie di mobilità individuali, le quali devono necessariamente adattarsi alle forze strutturali, ai contesti, alle situazioni e alle dinamiche che, di volta in volta, agiscono e hanno un’influenza diretta sulla possibilità di mettere in azione queste strategie. Scrive Costantini:

La nozione che qui propongo di “canovaccio migratorio” serve a descrivere un tipo di progettualità che, come il canovaccio nella recitazione, è costruito su punti, lungo una trama di responsabilità ed investimenti sia familiari che individuali, ma che, proprio per il ruolo delle forze macrosociali che strutturano l’azione individuale, è soggetto ad una improvvisazione continua riguardante la realizzazione, la modifica e la reintegrazione di tale progettualità (Costantini, 2016: 150).

Prima di addentrarmi nell’esame dei canovacci migratori immaginati o perseguiti dai giovani di

Mekelle, occorre affrontare un’ultima questione preliminare, che riguarda la distinzione tra migrazione

“forzata” ed “economica”. Si tratta di una partizione che, come fanno notare bene Massa, Costantini e

Yazdani (2016), viene spesso data per scontata ma che merita invece di essere analizzata e decostruita.

Gli autori tentano infatti di superare la separazione netta fra queste due concezioni del fenomeno migratorio, mostrando come tale divergenza sia il fondamento sulle quali si basano le attuali politiche di chiusura delle frontiere e del riconoscimento (sempre più ristretto) del diritto d’asilo, ed evidenziando la constatazione che «anche alla base della mobilità dei migranti forzati (i richiedenti asilo/rifugiati) esistano delle motivazioni legate al miglioramento del regime economico personale e familiare, ad aspettative di vita basata su un ideale di soggettività globale fatta di indipendenza dal nucleo familiare ristretto, al desiderio di accesso al mercato dei consumi e al successo come orizzonte di vita» (ivi: 16). Sull’altro versante, proseguono i tre studiosi, superare questa distinzione netta permette di cogliere elementi di

“forzatura” anche per quanto riguarda i migranti “economici” (ibidem). 173

È su questa linea che si pone anche il capitolo presente. Nelle pagine che seguono si cercherà di dimostrare come, nel caso dei giovani di Mekelle, alla base delle loro idee di migrazione esistano motivazioni di tipo economico, sociale, immaginativo, ma anche ragioni che impongono la mobilità come unica alternativa possibile e, dunque, come “scelta forzata”.

2. Un’immagine onnipresente

Nel corso dei miei soggiorni a Mekelle, l’immagine della mobilità ha fatto parte della mia quotidianità. Posso affermare, senza timore di eccedere in una semplificazione, che i discorsi sulla migrazione sono stati al centro – o anche solo evocati – in ognuna delle conversazioni o delle interviste che ho svolto con tutti i miei interlocutori. Chiaramente, come è facile evincere, era la mia stessa presenza

– quella di un individuo occidentale bianco – a fornire il pretesto per affrontare l’argomento e far nascere spontaneamente domande da parte delle persone con cui conversavo, che mi chiedevano sovente da dove venissi, assieme a tante altre curiosità o perplessità a proposito di quel “mondo altro” che io stesso rappresentavo. Ogni giorno mi veniva raccontato di congiunti o amici che si erano trasferiti, in ogni modo possibile, in Europa, America o nei Paesi Arabi, oltre alle storie personali di chi aveva provato a intraprendere un percorso migratorio. Allo stesso modo, ascoltavo i desideri di mobilità dei miei stessi interlocutori, tanto da parte di chi sperava di viaggiare in modo “legale”, come essi stessi dicevano, che da parte di chi si dichiarava pronto a sfidare i rischi e le violenze di un viaggio “illegale” attraverso il deserto, prima, e il mare poi. L’altro lato della medaglia era rappresentato invece da chi si dichiarava apertamente contrario alla mobilità dei propri connazionali, soprattutto di quella illegale, ribadendo la necessità di trattenere i giovani – veri e propri protagonisti dei discorsi pubblici e politici sulle migrazioni

– in Etiopia ed esternando le loro preoccupazioni circa l’enfasi che anche nei media locali veniva posta sul fenomeno, rappresentato al pari dei media nostrani, come una vera e propria “emergenza”.

Si è già fatto notare quanto fosse la mia stessa presenza a dare il la a conversazioni di questo tipo.

Tuttavia, come ha ben fatto notare Francesco Vacchiano:

La matrice dei fenomeni migratori contemporanei è perciò di carattere duplice, affiancando al dato economico e politico anche un importante aspetto ideativo e rappresentazionale: i 174

paesi industrializzati hanno acquisito una visibilità senza precedenti, una rappresentazione pervasiva, quasi familiare, che si diffonde non solo attraverso le imprese o i marchi dei prodotti, ma soprattutto grazie ai messi di comunicazione principali. Mediante i canali via satellite, le reti telematiche, il cinema d’azione e i notiziari, ma anche i viaggi e il turismo, il mondo “occidentale”, omologato nel suo complesso in modelli stereotipati e decontestualizzati, ha acquisito un’evidenza incomparabile al passato, in grado di attivare delle narrazioni altamente influenti per i fenomeni diasporici attuali (Taliani – Vacchiano, 2006: 172).

L’immaginario circa i paesi ricchi, – non esclusivamente quelli occidentali – vere e proprie icone di “sviluppo e civiltà” (Latouche, 1992) sembrerebbe aver raggiunto livelli di diffusione e di pervasività mai conosciuti prima. Scrive Appadurai:

Le immagini, le sceneggiature, i modelli e le narrazioni che passano attraverso la mediazione di massa (nelle sue forme realistiche e finzionali) marcano la differenza tra la migrazione odierna e quella del passato. Quelli che desiderano muoversi, quelli che si sono mossi, quelli che desiderano tornare e quelli che hanno scelto di restare formulano di rado i loro progetti al di fuori della sfera della radio e della televisione, delle cassette e dei video, della carta stampata e del telefono. Per gli emigranti sia le pratiche di adattamento a nuovi ambienti sia l’impulso a muoversi o a tornare sono fortemente influenzati da un immaginario mass- mediatico che spesso travalica lo spazio nazionale (Appadurai, 2001: 20, cit. in Taliani – Vacchiano, 2006: 172).

È bene chiarire che queste immagini non sono fruite in modo acritico dagli individui, che ne evidenziano costantemente le contraddizioni e le incongruenze; tuttavia, si tratta di rappresentazioni

«vincenti» (ivi: 174) di un mondo altro pensato progredito, libero e democratico. Lo stesso Vacchiano ha specificato:

Si tratta, va ribadito, di costruzioni ad hoc, artefatti che reificano forme culturali irreali ed illusorie, finalizzate quasi sempre all’invenzione di un simulacro di realtà ad uso e consumo (per l’uso e il consumo) di un prodotto. In tal modo l’immagine del Nord, invece di stemperare la portata proiettiva della fantasia, ne corrobora le conclusioni (Taliani – Vacchiano, 2006: 173, corsivo dell’autore).

Oltre alla vasta esposizione mediatica, il “mondo altro” che alimenta i desideri di mobilità dei giovani di Mekelle è sempre più presente nel capoluogo tigrino nelle sue forme più variegate: dagli enti religiosi a quelli benefici, dalle imprese private americane, cinesi ed europee che investono sul territorio ai programmi di assistenza allo sviluppo finanziati da compagnie occidentali; dai volontari, ai peace-corps statunitensi, ai turisti e, non per ultimi, agli antropologi. Nel corso degli anni che mi hanno visto sul territorio, la presenza di individui stranieri mi è parsa in costante aumento. Presenza che ha anche favorito

175

lo sviluppo di una vasta attività commerciale di servizi di ristorazione e intrattenimento improntata su modelli internazionali: dai club e le discoteche fino ai ristoranti che servono, oltre alle pietanze tipiche della tradizione culinaria tigrina, alimenti classici da fast-food occidentale.

Le rappresentazioni delle aree del mondo ricche, non soltanto quelle occidentali, che Vacchiano definisce «a senso unico» (2006: 174), vengono alimentate da ciò che gli stessi migranti lasciano immaginare dei luoghi in cui si sono spostati, sia attraverso le fotografie che essi condividono su alcuni popolari social network (Costantini, 2016), che dalle loro stesse testimonianze. E, a ben vedere, anche ciò che viene veicolato da queste testimonianze non fa altro che alimentare nuove fantasie e nuovi desideri di mobilità verso questi paesi: è ampiamente nota la dinamica secondo cui gli individui migranti che fanno ritorno nei propri paesi di provenienza o che sono in contatto con la propria famiglia tendono quantomeno a tacere le condizioni di deprivazione morale e materiale che accompagnano le loro esperienze di mobilità, se non a mentire del tutto su quelle che sono le loro reali condizioni di vita all’estero. Abdelmalek Sayad, intervistando un uomo algerino, ha registrato come tutto ciò che i migranti raccontassero ai propri cari fosse una “menzogna” (2002: 40). Lo studioso trascrive questa conversazione:

Quando ritorno al paese che cosa vuoi che dica? Anche se parlassi del mio lavoro e dicessi la verità, per esempio che “il mio lavoro è sporco, che del veleno mi entra nel ventre; o che mi uccido di lavoro e con i francesi con cui lavoriamo siamo come cani e gatti…” Tutto ciò è come se non dicessi nulla. Quello che conta per loro è che dica che lavoro, è solo quello che capiscono. Perché allora far cadere su di loro “l’oscurità”? In ogni caso non farà vacillare la loro fede. Per comprendere qualcosa della Francia bisogna esserci passati. Chi non ha visto nulla ascolta e rimane convinto che il benessere è “futuro”, che lo attende lassù e che non ha che da andare avanti…Se bisogna arrivare fin qui per sapere la verità, allora è un po’ tardi…troppo tardi (ibidem).

Un esempio ulteriore è fornito da Valerio Petrarca, che descrive l’abitudine di diversi migranti africani residenti a Castel Volturno, in provincia di Caserta, di mentire ai propri cari nel corso delle loro telefonate:

Nel corso atipico d’italiano è capitato spesso che, durante i dialoghi telefonici con i parenti rimasti a casa, i migranti raccontassero loro diverse bugie su come passavano la vita a Castel Volturno. Dicevano, per esempio, che avevano trovato casa e lavoro, che tutto andava bene e presto avrebbero mandato qualche soldo in più a casa. Le bugie venivano accompagnate da gesti, sguardi e risa degli astanti, di difficile trascrizione, come per dire che chi stava parlando «le sparava grosse». Quando si provava a commentare le ragioni di tali bugie, all’interno o all’esterno dei corsi d’italiano, in pubblico e in privato, si ottenevano sorrisi e 176

scuotimenti di testa. Non serviva insistere: ciò che in fondo ci veniva richiesto era una sorta di complicità. Non sono in grado di esibire statistiche attendibili per tutta l’area considerata, ma per circa cinquanta migranti dell’Africa occidentale, tra i partecipanti ai corsi atipici d’italiano nel 2009 e nel 2010, le bugie per rassicurare i parenti (e incrementare l’esodo dal loro villaggio o dalla loro città) erano consuetudine, confermata anche da altri migranti estranei alla classe d’italiano. Soprattutto in occasioni involontarie o casuali, sono stato testimone del dramma di moltissimi migranti, anche non più giovani, che confessavano di sopportare a Castel Volturno umiliazioni che non avevano mai così intensamente sperimentato nella società di origine. E tuttavia, anche solo il pensare di tornare indietro era da loro avvertito come una sconfitta decisiva, che li avrebbe segnati definitivamente (Petrarca, 2016: 6-7).

Francesco Vacchiano ha potuto prendere nota delle medesime dinamiche descritte negli ultimi due esempi riportati, interpretando le bugie dei migranti come una delle strategie che essi utilizzano per evitare la rottura col proprio gruppo di appartenenza, verso il quale, molte volte, restano legati da un profondo sentimento di responsabilità proprio in quanto «forma di investimento» economico e psicologico per coloro che non sono partiti, ai quali non può essere rivelato il dramma del proprio fallimento personale (Taliani – Vacchiano, 2006: 174). Scrive Vacchiano:

L’emigrante ha in questo modo l’obbligo del successo, che si esprime nei confronti di se stesso e in relazione alle attese della sua famiglia e del suo gruppo sociale, sia che la partenza sia in accordo con un mandato dei congiunti, sia che avvenga in rottura con essi. L’obbligo del successo è quello che fa sì che si istituisca, fra l’emigrante e i suoi familiari, quel tacito accordo a non dire per il primo e sul corrispettivo impegno a non credere per i secondi (ivi: 174-175, corsivo dell’autore).

L’esame di queste dinamiche è importante per riconoscere la matrice preminentemente sociale dei percorsi di mobilità (ibidem). Come è stato bene illustrato da Aurora Massa a proposito delle reti diasporiche eritree, proprio per citare un esempio vicino all’esperienza tigrina, il viaggio si alimenta di immaginari di modernità, si inserisce in un percorso storico per cui non rappresenta un fenomeno nuovo

– su quest’ultimo punto tornerò a breve – ed è «investito di aspirazioni familiari all’interno di un discorso collettivo in grado di orientare comportamenti e rappresentazioni di sé» (Massa, 2016: 117). Pertanto, prosegue l’antropologa romana, può essere messo in diretta relazione con quella “capacità di aspirare” postulata da Arjun Appadurai (2013), intesa come «l’abilità collettiva di immaginare una mappa di condizioni alternative rispetto a quelle che le costrizioni sociali, politiche ed economiche impongono al soggetto» (ibidem). Osvaldo Costantini è della stessa opinione, quando scrive che «l’elaborazione di immaginari è in parte riassumibile nella categoria di desiderio» (2016: 151). Ciò su cui bisogna 177

concentrarsi, prima di addentarsi negli esempi etnografici provenienti dal contesto di Mekelle, è la considerazione che, proprio come è stato brillantemente fatto notare dagli autori a cui si è fatto più volte riferimento nei lavori citati, gli immaginari e le ambizioni di mobilità come strumento per raggiungere futuri agognanti e migliorare la propria condizione di vita fanno parte – e al tempo stesso si modellano all’interno – di discorsi fondati su un «orizzonte globale di significati» (Graw – Schielke, 2012).

Nell’introduzione al loro prezioso volume, Knut Graw e Samuli Schielke spiegano in che modo la prospettiva della migrazione internazionale e l’immaginario che la alimenta siano divenute possibilità diffuse a livello globale:

People everywhere on earth have probably always been aware that there are other peoples and other places, including distant and exotic ones. But very often the world beyond one’s everyday experience was a very distant and exotic ones. In the age of global migrations, in contrast, the larger world is continuously present in the form of returning migrants, globally traded commodities, media, fashion, and most importantly in the form of likely paths of transnational life. In consequence, the rest of the world is not just a distant place, somewhere beyond the boundaries of one’s homely lifeworld. It has become a more and more constitutive element of people’s lifeworlds and expectations (see Piot 1999). In short, local worlds are increasingly measured against a set of possibilities the referent of which are global, not local. As a result of this, migration gains an almost inevitable attraction as local means are seldom sufficient for one to achieve the demands of a life now measured by global standards. At the same time, however, actual migration becomes increasingly restricted due to labour, border and visa regimes (ivi: 12).

Interrogandosi sui processi di immaginazione e aspettative che rendono la migrazione non solo un’opzione pensabile ma anche attraente in così tanti contesti in tutto il mondo, gli autori hanno posto enfasi sulla mobilità considerandola non solamente come uno spostamento fisico ma come, appunto, un

“orizzonte” di attese e di azione:

In its most immediate and literal sense, derived from the Greek verb horizein, to limit or delimit, horizon refers to the limit or outer rim of our field of visual perception, that is, the distant line where, when one’s view is unobstructed by natural or build structures such as mountains, trees, walls, or buildings, the earth or the sea seems to meet the sky. Evoking images of travel, exploration, and open spaces, the term horizon triggers similar associations as the notion of migration itself. In a more metaphorical sense, moving from the realm of physical space and the vision of the eye to the inner world of the person and vision through thought and imagination, the notion of horizon refers not only to what is actually visible but to what is familiar, known, and imaginable for a person in a much more encompassing sense, here, the world horizon not only describes a limit of perception but becomes almost synonymous with the world itself as that which can be grasped, understood, or thought of by individuals, societies, or cultures in a given moment of life or history. Drawing on this double meaning of horizon as encompassing the realm of both outer and inner perception, 178

the physical world and the world of the mind, the notion of horizon has been and continues to be employed in everyday usage as well as in more formal, philosophical modes of reflection. In everyday usage, for instance, a person’s horizon is often conceived of as the reach and orientation of her or his knowledge, expectations, or personal ambitions. In this sense, a horizon is not just a static given but also entails something very dynamic, something that can be formed and widened for example trough education, working experiences, meeting people, travel, or reading, or a combination of these (ivi: 13-14, corsivo degli autori).

Proseguendo, gli autori descrivono le implicazioni dei processi di globalizzazione sugli orizzonti di aspettative degli individui, per come sono stati delineati:

What the attribute “global” emphasizes in this context is the fact that what constitutes the horizon of many locales today is no longer just another adjacent locality with its own seemingly autochthonous sets of meanings, but instead notions and concepts that are either attributed to abstract, not easily localized concepts such as modernity, development, or progress, or projected onto geographical settings that are seen as setting the standards for these concepts. […] Speaking about a global horizon, we thus want to point out that the effect of globalization is not so much the replacement of one horizon by another but a gradual actualization along conceptual vectors. Such vectors have specific histories, but due to the colonialist and capitalist expansion pf the past centuries, they have now gained such a currency and scale that they have become commonplace among various peoples across the planet (ivi: 16, corsivo mio).

Nel passaggio che ho evidenziato, gli autori descrivono l’adattamento di concetti vaghi quali sviluppo, modernità e progresso a standard che, seppur privi di una precisa localizzazione geografica, appartengono alle “aree forti”, parafrasando Petrarca (2010: 5): i paesi di quel Nord Globale che funge da termine di paragone costante. Ho già ricordato come, oltre alla diffusione dei mezzi di comunicazione e ai racconti dei migranti, anche la mia stessa presenza nel capoluogo tigrino evocava nei giovani con i quali mi relazionavo riferimenti diretti a quel mondo altro che veniva utilizzato come termine di paragone per rimarcare la differenza tra le condizioni che regolano le loro vite e quelle esistenti nei paesi maggiormente sviluppati. James Ferguson utilizza il termine “abjection”82 per descrivere questa situazione, riferendosi alla combinazione fra rappresentazione di un mondo globale sviluppato e moderno e la consapevolezza crescente di non farne parte (2006). È in questa cornice che l’idea della mobilità prende forma e si istaura nelle vite dei giovani mekellesi, che ambiscono a prendere parte a mondi che rappresentano gli emblemi della modernità e della prosperità economica e che continuano a vedere nella

82 Da tradursi nell’italiano “abiezione”; “degradazione”. 179

migrazione una delle più concrete possibilità per immaginare una verosimile via d’uscita da situazioni di disagio, marginalità e incertezza, figurandosi l’idea di un’evasione possibile (Capello, 2008: 13).

Come ha giustamente fatto notare Daniel Mains (2012: 135), il fatto che la migrazione sia concepita dai giovani etiopi come soluzione ai problemi che affrontano quotidianamente agli albori del ventunesimo secolo non deve lasciar credere che si tratti di un fenomeno nuovo nella lunga storia dell’Etiopia, dove uomini e donne, abitanti tanto di aree urbani quanto rurali, sono stati altamente interessati da fenomeni di mobilità (Baker, 1986). In particolare, fa notare l’antropologo americano, durante il periodo del regime marxista del Derg, il folto numero di richiedenti asilo etiopi in fuga dal proprio paese ha contribuito in modo significativo a creare una fitta trama di relazioni intercontinentali

(Mains, 2012: 136). A testimonianza di ciò, è ancora oggi possibile trovare i diversi attestati di solidarietà e congratulazioni che la diaspora etiopica in tutto il mondo ha mandato ai propri connazionali in patria a seguito della decennale lotta di liberazione dal Derg, custoditi ed esposti con orgoglio presso il museo dei

Martiri per la Libertà, l’imponente struttura che sovrasta la città. All’interno delle bacheche del museo sono esposti innumerevoli targhe e piatti in metalli pregiati recanti i nomi di città e nazioni di tutto il mondo presso cui gli esuli hanno trovato asilo: Stati Uniti, Canada, Europa83.

L’immaginario che alimenta e in cui prende forma l’idea della migrazione in Etiopia, che, come ho ricordato più volte, possiede matrici tanto economiche quanto simboliche, risente di un tassello ulteriore – molto spesso dimenticato o decisamente ignorato – da affiancare a quelli già analizzati: il lascito del colonialismo italiano nel Corno d’Africa84. Alessandro Triulzi (2010) ha ripercorso alcuni passaggi e presenze africane nel nostro paese, mostrando «l’eredità non piccola dei passati rapporti di dominazione coloniale» (ivi: 31). Ricordando le storie di diversi ex “sudditi” dei possedimenti italiani, assieme a quelle degli italiani che, finito il secondo conflitto mondiale, si sono stabiliti nelle ex colonie, entrambi parimenti

“insabbiati” nella memoria collettiva, l’autore scrive:

83 Fra le tante, un piatto reca le congratulazione della comunità etiopica italiana residente a Milano. 84 Come ha fatto giustamente notare Valerio Petrarca: «il fatto che l’Italia e gli italiani trattano i migranti e i richiedenti asilo africani quasi come se non esistessero va connesso con il fatto che l’Italia e gli italiani trattano il loro passato coloniale in Africa quasi come se non ci fosse stato» (2010: 13). 180

È con queste immagini, sentimenti e percorsi di vita davanti agli occhi che, credo, ci si debba rivolgere oggi alle nuove figure di migranti, rifugiati, richiedenti asilo, titolari di vari permessi, tutti transitori, chiamati di protezione umanitaria, internazionale o sussidiaria: sono questi i nuovi «sudditi» dell’Italia postcoloniale, tutti indifferentemente «insabbiati» nelle prassi di (mancata) accoglienza e di (illeciti) respingimenti del governo italiano, ospiti stranieri in perenne attesa di un documento di identità, di lavoro o di soggiorno, primi embrioni di una futura cittadinanza italiana ed europea che ancora stenta ad affermarsi. La loro situazione spaesante e discriminata nel nostro paese non è di oggi, come ho cercato di dimostrare, e non può non indurre a riflessioni critiche chi, come chi scrive, ha iniziato da qualche anno un faticoso percorso di ricongiungimento tra la propria attività di studioso sul terreno, i lasciti di memoria che la presenza italiana ha lasciato nei luoghi del passato dominio e gli immaginari che gli odierni migranti provenienti da quegli stessi luoghi portano con sé nei loro percorsi migratori»85 (ivi: 40-41, corsivo mio).

Come si potrà facilmente immaginare, quando i miei interlocutori apprendevano la mia provenienza geografica il discorso si spostava rapidamente sul rapporto fra i nostri paesi86, affrontato nella grande maggioranza dei casi con toni che spesso mi lasciavano in una posizione di disagio o quantomeno di perplessità, dal momento che il passato coloniale dell’Italia sull’Etiopia venisse spesso considerato dai miei stessi interlocutori alla stregua delle più becere retoriche colonialiste come occasione di sviluppo, talvolta persino rimpianta. Solo per fare un esempio di questo tipo di discorsi, mi capitò di assistere a questo singolare dibattito fra i ragazzi che si erano incontrati alla consueta bunna bet per masticare le foglie di khat:

Asmelash: Sai cosa mi dispiace? Mi dispiace che non ci abbiate colonizzato! Se ci aveste colonizzato adesso questa sarebbe una città bellissima, sarebbe come Asmara! Tutto sarebbe stato migliore, le case, le infrastrutture, le strade. Prendi la strada che va da Asmara ad Addis, l’avete fatta voi ed è ancora lì, e invece la strada nuova che hanno fatto i cinesi già è distrutta!

Bruku: È vero, e ci sarebbero state molte più opportunità lavorative per noi! Tutti i lavori nuovi sono stati portati da voi. Lavorare il legno, lavorare il ferro, ce lo avete insegnato voi. Certo, forse non avremmo avuto la nostra libertà…

Asmelash [interrompendolo bruscamente]: Perché, adesso siamo liberi!?

85 Su questo tema, si veda anche Triulzi – Carsetti (2007). 86 Nel mese di ottobre del 2016 presi parte a un viaggio organizzato dal Tigray Bureau of Tourism presso diversi siti di interesse archeologico, storico e turistico del Tigray, ai quali partecipavano almeno un centinaio di persone impegnate, nei modi più vari, in attività inerenti la promozione della storia, del turismo o dell’arte in Tigray. Ero stato invitato dal mio grande amico Kebrom a prendervi parte, e la mia era l’unica presenza straniera in tutto il gruppo. Quando, nel giorno finale del viaggio, ci riunimmo all’interno della maestosa sala riunioni di un hotel di lusso ad Axum, il presentatore della serata mi invitò a salire sul palco e a prendere la parola, annunciando al microfono la presenza di un membro della «patria-sorella dell’Etiopia», l’Italia. 181

Questo breve esempio contiene alcune delle retoriche che ho potuto ascoltare con maggiore frequenza, come il confronto con l’Eritrea, colonizzata a lungo e pertanto considerata maggiormente

“sviluppata” rispetto all’Etiopia, o come la considerazione che i lavori che non facevano parte della tradizione locale fossero stati introdotti in Tigray a seguito della presenza coloniale italiana, ribadendo in questo modo l’accesso ai valori di sviluppo e modernità. Con la medesima frequenza, ho potuto registrare le opinioni di quanti sostenevano che l’Etiopia fosse “indietro” rispetto ai paesi maggiormente sviluppati, come ad esempio l’Italia. A mio avviso, può essere utile leggere queste considerazioni paragonandole all’indagine che Henrik Vigh (2009), ha svolto fra i giovani guineani di Bissau, i quali, allo stesso modo dei giovani di Mekelle, guardavano con rammarico al passato coloniale, marcando la differenza rispetto all’epoca contemporanea segnata da una lunga esperienza di declino e deprivazione (ivi: 94). Lo studioso commenta le parole di un suo informatore interpretando quella che definisce una “nostalgia” per il passato coloniale come la constatazione di una mancanza di progresso e di “padronanza” (mastery) sul mondo, qualcosa che rimarca quel sentimento di abjection a cui si è già fatto riferimento:

Arno clearly sees the world as divided into peoples imbued with different levels of progress and mastery over the world. In both quotes, ineptitude, which is directly related to the ability to master the complex workings of society — or rather to the inability to master the social and political technologies that produce ordered and functioning societies — can be located geographically and historically. They reveal a territorialisation of societal functionality, of technological capacities, in which Bissau is located at the extreme, dysfunctional end of the continuum between progressive and regressive. From within Bissau, the city is seen as historically proven not to “work”, which is why one can currently find large parts of the population who look back on colonial rule not with indignation or rage but with nostalgia, a sentiment fuelled by dissatisfaction with the present and uncertainty about the future. Nostalgia is in itself an act of imagination. It is a temporal transposition of being related to a longing for the conditions that were present in the past, are lacking in the present and presumed absent and unattainable in the future; which in the Guinea-Bissauan case seems to be “order”. However, this negative understanding of Bissau does not mean that people see themselves as being without positive traits or the ability to create positive lives for themselves. On the contrary, though ripe with both nostalgia for colonial times and despondency over the dysfunctional aspects of Bissauan society, people still talk a great deal about being Bissauan or Guinean and name numerous qualities, ranging from strength to resilience, that they see as inherent to this social category. Yet, when talking about politics and society, about creating a space of order for everyone’s benefit, what they remark upon is their experience of lack of mastery over the technologies of power and state that characterizes life in the city (cf. Foucault 1978; Hansen & Stepputat 2001) and, not least, the escape that migration would provide (ivi: 101-102).

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L’autore prosegue evidenziando un ulteriore elemento che deve necessariamente essere tenuto in considerazione per riflettere tanto sull’immaginario legato alla mobilità che sulla nostalgia per il passato coloniale, e cioè quello di avere accesso a beni tecnologici che superano di gran lunga il loro valore materiale, arricchendosi di preziosi valori simbolici proprio in quanto marcatori evidenti delle differenze fra le aree del mondo.

The dominant social imaginary in Bissau, dividing the world into black and white, adept and inept, is born from despair. Globally spread images of other lives and possibilities cause people to reflect upon differences and similarities (cf. Appadurai 1996) and experienced in contrast the world becomes conceptually purified. […] The technology triggers the imagination, so to speak, and every confrontation with the new — with bigger and bigger planes, smaller and smaller phones, new and better mp3s, laptops, cars, cell phones — makes clear that progress both surrounds and evades Bissau. Mechanical technologies are metonymic articulations of functioning technologies of power and state. Every manifestation of a technology, defined as a mechanism to master complexity — social or otherwise — comes to accentuate the fact that mastery over the world resides elsewhere in other places and other people. Technological encounters thus serve as reminders of the existence of better places and times. They illuminate the miseries of Bissau and the possibilities to be found elsewhere. As we experience social death we imagine life elsewhere, insisting that it is an experience of hibernation rather than of demise. And though Bissau, from my informants’ point of view, is characterized by hopelessness, as ‘crisis leads to a kind of generalized and lasting disorganization of behaviour and thought linked to the disappearance of any coherent vision of the future’ (Bourdieu 2000:221), hopes and futures are still seen as factual and desirable, yet positive social being and becoming are imagined as only possible elsewhere, making migration a necessity in the pursuit of a worthy existence (ivi: 103, corsivo dell’autore).

Parafrasando Vigh, migliori tecnologie ci ricordano di posti migliori87. È in questa luce che vanno lette affermazioni, come quella riportata nell’esempio citato in precedenza a proposito della comparazione fra le strade costruite durante l’occupazione fascista e quelle realizzate al giorno d’oggi da manodopera cinese, che tendono a marcare lo iato esistente fra beni e merci provenienti dai paesi del Nord Globale e quelli dei paesi in via di sviluppo, primo fra tutti la Cina. Pertanto, le tecnologie più avanzate, conclude l’autore, servono a ristabilire il primato di “padronanza” dei paesi forti sul mondo, sottolineando una volta di più il fatto che migliori opportunità per il proprio futuro siano da ricercare altrove e rendendo la migrazione una “necessità nella ricerca di una vita degna”.

87 Si ricordino le parole di Edi (Cap. IV, par. 2), che diceva di invidiare l’Occidente per la migliore qualità degli attrezzi che vengono prodotti. 183

A Mekelle, uno dei modi per intraprendere percorsi di mobilità in modo legale è rappresentato dalla lotteria annuale per l’ottenimento del Diversity Visa (da questo momento DV), programma gestito dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America. A partire dal 2000, ogni anno cinquantamila88 vincitori provenienti da paesi di tutto il mondo – eccetto per i Paesi che negli ultimi cinque anni hanno inviato più di cinquantamila unità negli USA89 – vengono selezionati per ricevere un la Green Card, il visto di residenza permanente. Per parteciparvi, i candidati devono possedere uno sponsor negli Stati uniti in grado di fornirgli supporto, non avere precedenti penali e godere di buona salute; inoltre bisogna essere in possesso di un titolo di istruzione secondaria o, in alternativa, di almeno due anni di esperienza lavorativa presso determinati settori90. Nel 2018 l’Etiopia è stata, assieme alla Repubblica Democratica del Congo e all’Egitto, il paese africano con il maggior numero di vincitori selezionati91. Per la durata di un mese, in genere fra ottobre e novembre, tutti gli internet-point di Mekelle segnalano con scritte, fotografie e manifesti che rappresentano la bandiera a stelle e strisce o la Statua della Libertà lo svolgersi della lotteria, ricevendo ogni giorno folti numeri di partecipanti. Sebbene la partecipazione alla lotteria sia completamente gratuita, i centri inoltrano le domande per conto dei candidati per la modica somma di

15 birr. Un pomeriggio di ottobre seguii le operazioni di iscrizione alla lotteria nell’internet-point del mio amico Yared, posto in una delle strade principali del centro cittadino. Yared e i suoi assistenti ricevevano i clienti che volevano partecipare alla lotteria facendogli compilare un modulo con i propri dati personali, un foglio precompilato che in diagonale recava una scritta in amarico che recitava “buona fortuna”; quindi gli scattavano una fotografia da allegare alla domanda di partecipazione e poi proseguivano all’inoltrare le domande sul sito del Dipartimento di Stato americano. Tra un’operazione e l’altra, Yared mi raccontò con orgoglio che, due anni prima, ben tre vincitori della lotteria avevano inoltrato domanda proprio nel

88 http://www.travel.state.gov/content/travel/en/us-visas/immigrate/diversity-visa-program-entry/dv-2018- selected-entrants.html 89 http://www.travel.state.gov/content/dam/visas/Diversity-Visa/DV-Instructions-Translations/DV-2019- Instructions-Translations/DV-2019-ITALIAN.pdf 90 Ibidem. 91 http://www.travel.state.gov/content/travel/en/us-visas/immigrate/diversity-visa-program-entry/dv-2018- selected-entrants.html 184

suo negozio. I loro nomi e le loro fotografie campeggiavano infatti su una delle pareti, contribuendo, secondo il mio amico, ad attirare il grande numero di clienti che ogni giorno affollava il suo negozio.

Yared: fino ad oggi nel mio negozio hanno fatto domanda 600 persone, mentre l’anno scorso 1600. L’America dà tutti questi DV perché loro vogliono avere persone da tutto il mondo. Facciamo finta che le persone siano frutti, loro vogliono assaggiare tutti i frutti del mondo. E sai perché scelgono tanti etiopi? Perché noi siamo i frutti più dolci!

Gianmarco: Ho visto che i clienti di oggi sono quasi tutti giovani. Sono quelli che partecipano di più?

Yared: Sì, i giovani sono tantissimi, ma qui [a Mekelle] tutti partecipano! 15 birr non sono niente, tutti sperano di andare in America, anche i direttori di banca! Anche io e i miei fratelli partecipiamo ogni anno. Chissà, forse questo potrebbe essere l’anno buono.

Conoscevo Yared fin dai tempi del mio primo viaggio a Mekelle, e lui conosceva benissimo i temi della mia ricerca. Per questo, nel sottolineare che anche i “direttori di banca” partecipassero alla lotteria voleva farmi capire che non solo i giovani ma anche persone adulte e con un lavoro ben retribuito coltivavano la speranza di trasferirsi negli Stati Uniti. Nello stesso pomeriggio feci la conoscenza di un giovane di 22 anni di nome Kaleb, che si trovava nel negozio insieme ad altri amici proprio per partecipare alla lotteria. Kaleb era nato e cresciuto ad Addis Abeba, ed era stato assegnato alla Mekelle University per i suoi studi di urbanistica. Pochi giorni dopo ci incontrammo in una piccola bunna bet del centro, dove approfittai della sua perfetta conoscenza dell’inglese per fargli qualche domanda sulla sua partecipazione alla lotteria e, quindi, sulla possibilità di viaggiare.

Kaleb: Partecipo ogni anno alla lotteria. Voglio andare lì [in America], voglio vedere! Loro hanno le conoscenze migliori, le università migliori del mondo. L’università di Mekelle mi piace, la gente è buona con me, non ho mai avuto problemi. Ho anche imparato un po’ di tigrino, riesco a capire cosa dicono, ma poi per fortuna si parla amarico. L’unico problema è che tutte le lezioni sono in amarico. Scrivono il nome dei corsi in inglese e poi insegnano in amarico. Voglio studiare, completare la mia istruzione, allargare la mia conoscenza. E come sai, la conoscenza è saggezza. Vedi, a volte mi sento come se non avessi nulla. Come se studiare non fosse servito. Qui abbiamo poche possibilità di applicare la nostra conoscenza, quello che abbiamo studiato. Questo è un paese povero, qui non c’è futuro.

Le parole di Kaleb contengono alcune delle retoriche che ho potuto ascoltare con maggiore frequenza, soprattutto fra giovani con un’istruzione superiore o universitaria. La difficoltà di applicare le conoscenze acquisite durante i propri percorsi di studi è una delle motivazioni principali che i miei interlocutori hanno indicato per spiegare la loro volontà di intraprendere percorsi di mobilità, perseguita

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soprattutto attraverso la ricerca di borse di studio o sponsorizzazioni in università straniere. L’idea di

“vedere” il mondo occidentale si riferisce alla possibilità concreta di toccare con mano quel mondo altro, simbolo di modernità e sviluppo costantemente evocato dai media, dai racconti e dagli stessi individui stranieri che affollano le strade di Mekelle, che alimentano e arricchiscono l’immaginario legato alla mobilità.

3. Questione di vita o di morte. “Wey n asa, wey n kassa”

Se la DV Lottery costituiva un metodo legale e sicuro per intraprendere percorsi di mobilità all’estero ed era, assieme alla ricerca di borse di studio destinate a studenti africani, una delle modalità maggiormente tenute in considerazione dai miei interlocutori, la possibilità dei viaggi illegali, con il loro carico di rischio, pericoli e violenze, rappresentava un’immagine altrettanto diffusa, forse in maniera addirittura più vasta. Non solo coloro che non potevano contare su titoli di istruzione superiore, che come si è visto è uno dei requisiti fondamentali per accedere alla lotteria, ma anche gli stessi studenti e tanti laureati con i quali ho affrontato l’argomento tenevano in considerazione il viaggio che, attraversando prima il Sudan, poi diversi paesi nordafricani, a seconda della destinazione finale che essi immaginavano, e infine attraversando le acque del Mediterraneo o del Mar Rosso, li avrebbe portati a raggiungere le mete verso cui si proiettavano. È difficile quantificare quante delle persone che, nel corso dei miei diversi soggiorni a Mekelle, mi hanno parlato della loro idea migratoria abbiano la reale intenzione di intraprendere il viaggio. Ciò che risulta in maniera più evidente, invece, è il fatto che fra le immagini del futuro, fra le possibilità tenute in conto per il proprio avvenire, quella dei “canovacci” di mobilità, anche di quella illegale, rappresenti una costante quasi onnipresente. Tutti i miei interlocutori sembravano bene informati sui rischi del viaggio, sulle politiche di respingimento messe in atto dai paesi stranieri, sui costi necessari a finanziarlo, sui percorsi che avrebbero intrapreso e sulle modalità con le quali contattare gli intermediari, coloro che venivano descritti con l’inglese broker o col termine amarico di delala. La loro conoscenza così tanto dettagliata di questi elementi lasciava ben intendere la vasta portata del fenomeno migratorio e l’importanza che essa assume nel contesto di Mekelle. Sono tante le persone con le quali ho

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affrontato l’argomento che mi hanno detto di conoscere in modo diretto amici o membri della propria famiglia che si sono trasferiti all’estero o hanno anche solo tentato il viaggio via terra e poi via mare.

Come si è visto nel paragrafo precedente, la conoscenza dettagliata dei costi e delle modalità in cui si svolge il viaggio contrasta, invece, con la conoscenza delle reali condizioni di vita, spesso segnata da violenza e deprivazioni, dei propri conoscenti all’estero. La presenza di congiunti o conoscenti nei paesi stranieri rappresenta non solo la fonte primaria della loro conoscenza delle diverse fasi del viaggio, ma in molti casi fornisce lo spunto fondamentale per potersi pensare presso quelle stesse mete. Moltissimi fra i miei interlocutori mi hanno messo a parte delle loro idee di intraprendere, un giorno, lo stesso viaggio dei loro contatti, proprio per il fatto di poter contare su una rete di conoscenze già esistenti.

Vorrei pertanto presentare adesso diversi casi etnografici che servano da esempio per comprendere le retoriche e i discorsi più comuni circa l’idea della mobilità. Il primo è quello del mio giovane amico Haile, un giovane di 24 anni che conobbi una sera, di rientro da una cena in compagnia di diversi amici locali. Haile era un autista di bajaj, i piccoli treruote di importazione indiana che costituiscono il perno della mobilità cittadina. Nonostante conoscesse solo poche parole in inglese, appena entrai nel suo bajaj il giovane mi domandò da dove venissi e, sentendo la mia risposta, mi disse che aveva un amico che da pochi mesi aveva raggiunto l’Italia via mare e che, l’anno successivo, anche lui stesso avrebbe tentato il viaggio. Quando gli chiesi, di getto, le motivazioni che lo spingevano a voler tentare una strada così pericolosa, mi rispose in un inglese stentato che in Etiopia non c’era cambiamento, che l’unica chance era quella di andar via. Nei mesi successivi, Haile divenne uno dei miei più assidui interlocutori, ed ebbi modo di intervistarlo diverse volte in compagnia dei miei traduttori. Durante una delle nostre conversazioni, mi spiegò più in dettaglio la sua storia di vita e le ragioni per le quali sperava di trasferirsi in Europa. Haile era nato a Wukro, una cittadina a pochi chilometri di distanza da Mekelle. Quando era piccolo i suoi genitori biologici si sono separati e lui era rimasto assieme a sua madre, mentre il padre si sarebbe trasferito ad Addis Abeba. Quando era al grade 9, a 15 anni, ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare. All’epoca in cui ci conoscemmo, invece, il mio amico viveva da circa 4 anni nel capoluogo tigrino insieme alla famiglia di sua sorella maggiore, che aiutava a gestire un piccolo negozietto durante il giorno,

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mentre di notte guidava il piccolo taxi. Il giovane mi raccontò in questo modo del suo lavoro e della sua idea di mobilità.

Gianmarco: Da quanto tempo guidi il bajaj?

Haile: Da due anni. Ho preso la licenza di guida e ho iniziato a guidare il bajaj di un mio amico. Me lo dà in affitto, di notte, mentre lui lavora di giorno. Io invece di giorno aiuto mia sorella col suo negozio, e di notte guido il bajaj. I guadagni non sono male, ma non sono abbastanza. Devo dare ogni sera 100 birr al mio amico e in più devo lasciargli il pieno di benzina. Se sono fortunato, riesco a guadagnare 200 o 300 birr al giorno. Non sono male, ma vanno bene solo se vivi da solo. Infatti il bajaj è abbastanza per me, per vivere bene da solo. Ma io voglio aiutare la mia famiglia, voglio aiutare mia madre. Ogni mese porto i soldi a mia madre. Lei vive da sola a Wukro, non ha nessuno, non ha un lavoro, e io devo aiutarla. Se non dovessi aiutarla il bajaj sarebbe abbastanza, ma solo per vivere giorno per giorno. Non posso mettere da parte nulla, non posso cambiare la mia situazione.

Gianmarco: Cosa devi cambiare?

Haile: Intendo…la mia situazione! Voglio sposarmi, voglio avere dei figli, voglio avere una good life [in inglese], voglio vivere come voglio! In questo paese non c’è cambiamento, solo i ricchi diventano sempre più ricchi, per i poveri non ci sono possibilità! Vedi? Qui i prezzi delle cose aumentano sempre di più, e i soldi che guadagno non sono abbastanza. Se vuoi aprire qualcosa [un’attività] devi avere una famiglia che ti supporti, altrimenti…la vita qui è dura. Se sei da solo, la vita è dura.

Gianmarco: È per questo che quando ci siamo conosciuti mi hai detto che vuoi andare in Italia?

Haile: Sì! Ho ancora questa idea, ma per il momento non voglio andare. Se non troverò un buon lavoro, allora ci andrò. Però non voglio andare in Italia, in Italia non c’è lavoro, me lo ha detto il mio amico! Lui è lì da tre mesi, ma è ancora in un refugee camp [centro d’accoglienza] e mi ha detto che non c’è lavoro. L’Italia è solo un luogo di transito, voglio andare in Germania! Anche il mio amico vuole andare in Germania, lì ci sono altri amici che ci aspettano, che sono lì da molti anni. Hanno anche imparato il tedesco! Sai, se vuoi vivere e lavorare lì devi imparare il tedesco! In questo modo passi qualche anno, aspetti, impari la lingua, lavori e metti i soldi da parte. Io voglio lavorare! Voglio guadagnare quello che mi spetta! Non voglio diventare troppo ricco, so che è difficile. Ma qui lavori tantissimo e cosa guadagni? Niente! All’estero se lavori tanto, guadagni tanto! Io non voglio essere ricco, ma voglio solo avere quello che mi serve per fare la vita che voglio. Devo cambiare la mia situazione, quella di mia madre. Voglio aiutarla e farla felice! Voglio costruire la mia casa, questa è la cosa che mi farebbe più felice, avere una casa propria. Così potrò sposarmi, e avere dei bambini.

Gianmarco: E visto che hai tutte queste informazioni, i tuoi amici ti hanno detto che provare il viaggio è molto pericoloso?

Haile: Sì, mi hanno raccontato tutto. Ma sono pronto e resisterò. Come si dice…no pain, no gain [in inglese].

Gianmarco: E non hai paura?

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Haile: No, non ne ho. Se quello sarà il giorno in cui dovrò morire, allora morirò. Se è quello il mio destino…potrei anche morire. Sai come si dice? Wey n asa, wey n kassa [tigrino]92…per i pesci o per i soldi. O riesco a cambiare la mia vita, oppure muoio provandoci, la mia vita dipende da questo. Invece di vivere male per sempre, avendo una vita cattiva, è meglio morire o far morire i tuoi problemi! E poi lo sai, con l’aiuto di Dio tutto è possibile. Dentro di me, nel profondo, sento che riuscirò ad attraversare [il deserto, il mare], che non mi succederà niente. Dio desidera solo cose buone per i suoi figli, non è così? Se i tuoi pensieri non sono buoni, se le tue intenzioni non sono buone, a Dio potrebbe non piacere. Ma se credi in lui, e se nel tuo cuore hai voglia di cambiare e di fare cose buone, allora Dio potrebbe aiutarti, e non ti succederebbe nulla. Credo tanto in lui, non l’ho mai tradito! Tu sai come funziona la nostra cultura, noi cresciamo credendo questo: se credi, non ti succederà nulla.

Nel corso dei mesi in cui ci siamo frequentati, Haile non ha mai smesso di tenere l’immagine della mobilità illegale nel novero delle proprie possibilità del futuro, anche se ancora oggi, al tempo in cui scrivo, continua a vivere a Mekelle. Lo stralcio di intervista appena riportato contiene alcuni passaggi importanti sui quali bisogna soffermarsi. Oltre alle retoriche più consuete circa la volontà di cambiare il proprio status passando dalla fase della gioventù a quella della maturità, attraverso il matrimonio e la presa in carico delle proprie responsabilità verso la famiglia, Haile si riferiva alla possibilità di intraprendere percorsi di mobilità come a una questione di vita o di morte. “Per i pesci o per i soldi”, recita il detto citato dal mio giovane interlocutore, un modo di dire che ho ascoltato, seppure in diverse versioni, con una sconvolgente frequenza. Senza timore di eccedere in una generalizzazione, posso dire che tutti gli interlocutori ai quali ho posto la stessa domanda, circa il timore di perire durante il viaggio, mi hanno risposto allo stesso modo, seppur con diverse variazioni di sorta. Non si tratta, d’altronde, di una visione delle cose peculiare al solo contesto mekellese. Nella loro ricerca fra i giovani senegalesi di Tambacounda,

Jesse Ribot e Papa Faye hanno registrato un modo di dire, diverso ma dalle medesime implicazioni citato da coloro che decidevano di intraprendere il pericoloso viaggio attraversando prima il deserto e poi le acque del Mediterraneo. Scrivono gli autori:

Young people feel insecure. They see no secure future at home. They live in anxiety – about the present and future. They feel precarious and hopeless. They explain their decision to depart, saying «I can no longer stand to see my parents suffer», or «how can I concentrate in school while my mother is running left and right trying to find food», or «I can’t sleep at night because I don’t know how I will feed my children». They talk of debt and lack of income. They also talk of a number of related problems – they cannot marry, they are looked down on for not providing for their families. They feel useless in their families and communities. Given their sense of marginality, they are willing to do anything – they

92 Letteralmente, “O per i pesci, o per la cassa”. 189

consciously risk their lives – to help their families and to have a sense of future. They leave for Europe, saying «Barsa walla barsac», meaning «Barcelona (shorthand for Europe) or death», or just «Itali walla yegolu gommo to», «Italy or food for the fish». Their desperation has palpably thickened over the years. By emigrating they know they are taking a grave risk. Yet they go. […] Yet the youth rationalize risking death and explain events along the road as the will of God and one’s luck or misfortune. But a recurring theme when they speak about leaving is that they see no meaningful option and no dignity at home. They tell us «if you stay here, you feel like the family’s donkey» (Faye’s Interview in Tambacounda, September 2017). Staying home feels like a kind of social death (Ribot – Faye, 2018, corsivo mio).

Come si vede, gli autori registrano le stesse dinamiche osservabili nel contesto di Mekelle circa la presa in considerazione della possibilità della mobilità, arrivando a registrare modi di dire e razionalizzazioni simili o del tutto uguali (Italia o cibo per i pesci) a quelle dei miei giovani interlocutori. La mancanza di prospettive per il proprio futuro e la marginalità a cui sono sottoposti tanto i giovani di

Mekelle quanto quelli di Tambacounda fanno sì che la scelta fra il viaggiare o rimanere a casa venga razionalizzata in una scelta fra la vita e la morte. Tante volte, nel corso dei miei colloqui e delle mie interviste, ho potuto ascoltare il pensiero di quanti mi dicevano «se proprio devo morire, tanto vale morire tentando di cambiare la mia vita». Alla morte “fisica” a cui è possibile andare incontro durante il viaggio viene contrapposto un altro tipo di morte, parimenti inaccettabile e forse persino peggiore, quella della morte sociale. Anche Henrik Vigh (2006b) ha registrato le medesime considerazioni fra i giovani ex combattenti di Bissau. Lo studioso ha richiamato l’attenzione sulla morte sociale dei suoi interlocutori, definita come “l’assenza di una vita degna di essere vissuta” (Hage, 2003, cit. in Vigh, 2006b: 45). Scrive lo studioso:

Not being able to gain access to the resources (symbolic and material) required to be a homi completto, a complete man, the vast majority of young men in Bissau thus conform to what has been termed the “lost generation”, a group of “young people [who] have finished their schooling, are without employment in the formal sector, yet are not in a position to set up an independent household” (O’Brien 1996:57; cf. Seekings 1996). As decline has halted the flow of resources between generations and crippled the state’s ability to provide routes to social mobility, urban males have become locked in the social position of youth without the possibility of achieving adulthood. They are unable to attain the momentum and progress of life that is socially and culturally desired and expected, resulting in (temporary) social death – in a social moratorium (Vigh, 2006b: 46, corsivo dell’autore).

Il rischio calcolato di perdere la vita nel tentativo di cambiarla definitivamente, è ciò che stava alla base del canovaccio migratorio intrapreso dal mio amico Mulie. Come si ricorderà, nel capitolo precedente ho accennato al fatto che, prima di iniziare il suo percorso di riabilitazione, Mulie avesse 190

tentato la strada della mobilità. Quando aveva 18 anni e aveva già lasciato la scuola, in compagnia di altri tre compagni riuscì a entrare illegalmente in Sudan, dove sperava di lavorare e mettere da parte i soldi necessari a finanziare il viaggio che nelle sue intenzioni lo avrebbe portato in Italia. Un dettaglio particolare della sua vicenda riguarda il fatto che, a finanziare il viaggio dell’intero gruppo da Mekelle a

Khartoum, fu uno degli stessi amici, il figlio benestante di un noto imprenditore. Questo è il racconto di

Mulie:

Mulie: Io e il mio amico Zeab ci siamo conosciuti a scuola, da bambini. Tutti i giorni ci incontravamo per masticare khat, poi un giorno incontrammo due ragazze, così si formò il nostro gruppo. Un pomeriggio, quando io avevo 18 anni, una delle ragazze disse «sapete cosa dovremmo fare? Dovremmo andarcene da qui». Decidemmo allora che volevamo lasciare l’Etiopia e tentare la fortuna andando in Sudan. Eravamo giovani, non sapevamo cosa stessimo facendo, non sapevamo cosa fare, non avevamo obiettivi nella vita. Così un giorno Zeab, che viene da una famiglia ricca, ci disse che avrebbe pensato lui ai soldi per entrare in Sudan. Rubò 50mila birr a suo padre e qualche giorno dopo andammo a Humera93. Da lì ci mettemmo in contatto con un delala [broker], che accettò di portarci a Khartoum per 25mila birr. La notte ci fecero mettere insieme ad altre persone nel retro di un pickup e partimmo. Quando arrivammo in Sudan, però, ci fecero scendere a più di 30 chilometri da Khartoum, ci picchiarono e ci rapinarono. Camminammo tanto su una strada asfaltata, camminammo tutta la notte. Poi finalmente fermammo una macchina, e anche se loro parlavano solo arabo, noi dicevamo solo «Khartoum, Khartoum», così ci portarono lì. Di giorno andammo al quartiere etiope, Zeab aveva delle conoscenze lì. Io e lui iniziammo a lavorare in un internet point, invece le ragazze vennero prese a lavorare in una fabbrica di cioccolata. La mia idea all’epoca era quella di lavorare e mettere da parte i soldi per andare in Italia, andare lì per lavorare e cambiare la mia famiglia, volevo cambiare la mia situazione e aiutare mia madre. Ero giovane, volevo andare in Libia e poi attraversare il mare.

Gianmarco: E non avevi paura?

Mulie: No! C’è un detto qui in Etiopia, dice che è meglio rischiare di morire per migliorare la tua vita che morire senza averci provato. Dentro di me sentivo che sarei riuscito a farcela e avrei potuto cambiare me e la mia famiglia. Solo che le cose non andarono bene. Dopo un anno avevamo finito tutti i soldi. Le ragazze erano già tornate in Etiopia, Zeab chiese perdono a suo padre per i soldi che aveva preso e gli dissero che se fosse tornato subito sarebbe stato tutto ok. Così tornai anch’io. E poi sono entrato in riabilitazione, come ti ho raccontato. Ho fatto tutto per mia madre.

Anche nelle sue parole è possibile leggere le medesime considerazioni circa la razionalizzazione del rischio, essendo disposti a morire nel tentativo di cambiare drasticamente le proprie condizioni di vita piuttosto che essere incapaci di ottemperare a quelli che, oltre a essere legittime aspirazioni, vengono

93 Una città del Tigray posta sul confine con l’Eritrea, poco distante dal confine col Sudan. Si tratta di una città molto nota in Tigray proprio per il fatto di rappresentare il luogo di partenza di diverse rotte intraprese dai migranti irregolari. 191

avvertiti come veri e propri doveri per considerarsi uomini adulti, rispettabili e di successo. Si ricorderà come, nel caso di Mulie, il giovane si fosse riconciliato con sua madre e avesse trovato la propria dimensione solo dopo il suo percorso di riabilitazione e l’inizio del lavoro nella sala giochi di suo fratello maggiore, potendo sostenere quotidianamente la donna con 50 birr al giorno e passando quindi da una condizione di necessità a una di sostegno (cfr. cap. IV, par. 4). La mancanza di obiettivi e la limitata scelta di possibilità per il proprio futuro sono elementi che Mulie ha ribadito, oltre che nelle motivazioni che lo portarono a sviluppare la sua dipendenza da alcolici e droghe, anche per la decisione di attraversare il confine e raggiungere il Sudan.

Le storie di Haile e Mulie sono state da esempio per riflettere sulle retoriche e sui sentimenti di migranti “potenziali”: il primo si nutriva di un immaginario che, attraverso le testimonianze dei suoi amici in Europa, acquistava fascino e si costituiva come opportunità concreta per l’avvenire; il secondo, pur nutrendo le stesse aspettative, si era fermato alla tappa del Sudan, non avendo trovato il denaro necessario a finanziare gli spostamenti successivi. La storia che sto per presentare, invece, deriva dalla testimonianza diretta del mio amico e interprete Anges, che nel 2016, all’epoca del mio ritorno a Mekelle durante il primo anno di dottorato, mi raccontò dettagliatamente il viaggio di suo fratello minore. Anges e la sua famiglia erano provenienti da Adigrat, nel nord del Tigray. Di famiglia cattolica, Anges era il maggiore di quattro figli e studiava legge alla Mekelle University, ed è stato mio collaboratore fino dal 2013, all’epoca del mio primo soggiorno a Mekelle. Nell’agosto del 2016 mi raccontò che l’anno precedente, nel 2015, suo fratello minore, all’epoca appena quindicenne, era riuscito a raggiungere la Germania attraversando il Sudan, la Libia e infine il Mediterraneo, approdando in Italia ed essendo poi trasferito in Germania.

Durante un’intervista che svolgemmo all’ombra del bellissimo giardino della chiesa cattolica di Mekelle,

Anges mi raccontò in questo modo il viaggio di suo fratello:

Anges: Quando è partito aveva solo 15 anni, era proprio un bambino. Non posso nemmeno dirti come stavo in quel periodo, gli telefonavo ogni giorno. Abbiamo pagato quasi 120mila birr94 per farlo partire. Lui è stato fortunatissimo, grazie all’aiuto e alla volontà di Dio, e anche grazie a me, perché gli mandavo i soldi subito quando mi chiamava. Da quando ha lasciato l’Etiopia a quando è arrivato in Germania ci ha messo solo due mesi e due settimane, mentre

94 Nel 2015, 1 dollaro statunitense valeva all’incirca 21 birr etiopi. Il costo totale del viaggio del ragazzo è stato quindi di circa 6000 dollari. 192

ci sono persone che ci mettono sei mesi, o anche un anno. Adesso si trova in un centro, non lavora ancora ma sta imparando il Tedesco. Una volta che l’idea della migrazione ti entra in testa non puoi fare più nulla per dimenticarla, perché pensi che la scelta è tra morire o tra diventare ricchi. Loro [i migranti] non vogliono lavorare qui [in Etiopia] perché sanno che non possono diventare ricchi, sanno che si tratta di sopravvivere, mentre loro vogliono vivere! E poi dobbiamo dire la verità, questo è un paese povero, dove è difficile anche sopravvivere, ma soprattutto è difficile diventare ricchi. Anche se lavorassero qui sanno che i soldi non sarebbero sufficienti a fargli cambiare vita. Bisogna essere abituati allo studio fin da piccoli, io già da piccolo andavo bene a scuola e quindi ho potuto fare il mio percorso fino al punto in cui mi trovo oggi. Ma mio fratello invece andava male a scuola, si è fermato al grade 8. Lui sapeva di non avere molte possibilità, non ha potuto studiare, non aveva prospettive. Persone che non hanno istruzione vedono una vita cieca [blind life], per questo preferiscono rischiare la morte pur di diventare ricchi. Il motto di mio fratello era “wey n mot, wey n awet” [in tigrino]95, “o la morte o il successo”. Diceva sempre che non vedeva nessun cambiamento. Che qui lavorava per 50 birr al giorno e con quei soldi non sarebbe mai riuscito a cambiare la propria vita. Il viaggio è iniziato da Adigrat a Humera. Un delala [broker] ha radunato un numero consistente di persone che volevano partire, non prendono mai una sola persona, ma sempre gruppi. Quando sono arrivati a Humera mio fratello ha pagato 5mila birr al delala, che li ha messi in contatto con un’altra persona, un delala che si è occupato di portare il gruppo in Sudan, a Khartoum. Dovendo attraversare il confine in modo illegale, sono partiti di notte su strade secondarie a bordo di un Isuzu96. La macchina piena di persone nel retro, e non era coperta. Ci hanno messo quasi tre giorni per raggiungere Khartoum, e quando sono arrivati ogni persona ha pagato tra i 30mila e i 35mila birr ai delala. Mio fratello è stato fortunato ma lo è stato anche perché quando i delala mi chiedevano i soldi io glieli mandavo subito il giorno dopo, perché sapevo che la vita di mio fratello era in pericolo. Li pagavo tramite la Dashen Bank, ho ancora le ricevute [mi ha mostrato tre ricevute, da 32, 36 e 45 mila birr]. Parlavo al telefono con una donna che lavorava in banca, e mi diceva di mettere tutto sul conto di un uomo etiope, ma non so chi sia.

Gianmarco: Come hai trovato i soldi?

Anges: Una sorella di mia madre si trova in Israele. Lei è ricca, ci ha mandato 3000 dollari. Gli altri 3000 li abbiamo raccolti io e i miei fratelli, chiedendo ad altri parenti ad Adigrat, e in più avevamo dei risparmi. Quando mio fratello potrà lavorare restituiremo quello che ci hanno prestato. Mia zia invece ha detto che se farà bene e aiuterà mia madre, non dovrà restituirli. [Riprendendo il discorso] Da Khartoum hanno attraversato il deserto e sono arrivati in Libia. Questa è una delle parti più difficili, mio fratello e gli altri erano tutti nel retro di un furgone, di giorno morivano di caldo, di sera invece gelavano. I delala questa volta erano uomini arabi, parlavano solo arabo e picchiavano chi viaggiava. Appena entrati in Libia ho inviato 36mila birr, e finalmente hanno raggiunto la costa. Dalla costa della Libia mi hanno chiamato di nuovo, e ho mandato 45mila birr. Erano i soldi per il viaggio in barca. Sono arrivati in acque italiane, e finalmente sono stati salvati proprio dagli italiani. La tragedia di mio fratello è incredibile! Non posso nemmeno dirti come sono stato in quel periodo, ero totalmente impazzito. Per due mesi non ho seguito le lezioni, non ho studiato, e ho recuperato tutto dopo, perché seguivo tutto il tempo le notizie alla BBC e sentivo ogni giorno di migranti che erano affondati nel Mediterraneo. Mio fratello è stato molto fortunato. La barca viaggiava con 500 persone a bordo, e prima di essere salvati stavano anche imbarcando acqua.

95 Letteralmente, “O per la morte, o per il successo”. 96 La Isuzu è una casa automobilistica giapponese. In Tigray si tratta di un brand molto noto, essendo il marchio di pickup e mezzi commerciali. 193

Ho scelto di includere questo esempio etnografico in quanto si tratta di uno dei racconti di viaggio più dettagliati e che ritengo attendibili data la sua provenienza, quella della voce diretta di uno dei miei più intimi amici e collaboratori. Il percorso del protagonista racconta dettagliatamente uno degli itinerari che, partendo dall’Etiopia, i migranti percorrono per arrivare in Europa, assieme ai prezzi per ogni tratta e al metodo di pagamento. La somma descritta da Anges corrisponde grosso modo a quella che mi è stata indicata da molti altri interlocutori, che si aggira appunto fra i 100 e i 150mila birr etiopi. Come i miei stessi informatori mi hanno spiegato, si tratta di un prezzo notevolmente lievitato negli ultimi dieci anni.

Ad esempio, nel 2010 Fabio Amato, in un saggio nel quale ha descritto diversi itinerari che connettono l’Africa al Mediterraneo, scriveva che il prezzo dei viaggi poteva variare dai 500 ai 2000 dollari americani, a seconda delle frontiere da attraversare (Amato, 2010: 57). Nelle parole del mio interprete, riemergono inoltre le considerazioni che sono alla base di diverse storie o idee di mobilità che ho potuto ascoltare e di cui ho fornito alcuni esempi nelle pagine precedenti: la mancanza di opportunità concrete (la “blind life” di cui parlava) di effettuare un cambio di status, la consapevolezza che, lavorando in un paese straniero, sarebbe possibile guadagnare molto di più che rimanendo in Etiopia, soprattutto per coloro che, come sosteneva Anges, non possono contare su titoli di istruzione superiore, per quanto, come si è visto, molte volte lo studio non conduce ai cambiamenti e ai miglioramenti sperati.

4. Conclusioni

L’esame della mobilità nel contesto di Mekelle ha messo in luce le modalità di creazione e di diffusione degli immaginari sulla migrazione, che come ha scritto Aurora Massa, diventano «metafore attraverso cui pensare la mobilità sociale, poiché rappresentati come in grado di offrire un prestigio e un benessere che la realtà sociale non è in grado di assicurare» (Massa, 2016: 128-129). Nelle testimonianze etnografiche che ho presentato ha riecheggiato un leitmotiv per cui in Etiopia “non c’è cambiamento”, come usavano ripetere spesso non solo i protagonisti delle pagine precedenti ma la grande maggioranza degli interlocutori che guardavano alla mobilità come unica occasione possibile per evitare quella che con

Vigh (2006b), ho definito come morte sociale. Il cambio di status, il passaggio dalla fase della gioventù

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alla condizione di adulto e l’accesso ai beni, simbolici e materiali, rappresentativi di un mondo moderno e sviluppato, che muovono i desideri di altrove dei giovani di Mekelle sono stati efficacemente raggruppati da Samuli Schielke in ciò che lo studioso ha definito come una «middle-class fantasy» (2012: 179). Lo studioso, analizzando i desideri di altrove e di avanzamento sociale dei giovani egiziani di Alessandria, scrive:

The stereotypical dream of a confortable life that people I know express consist of marriage, children, a reasonably large and well-equipped house, and a private car – a decidedly middle- class fantasy. One of the particular features of contemporary consumer-oriented capitalismi is that while it produces striking inequalities, the social utopia of the good life it offers is that of the middle class, “middle” evoking a sense of being at the centre of society as one of the good, decent people. […] The most important kind of social movement that people with such modest middle class aspirations expect is a movement upwards (or perhaps from the margins towards the middle) (ibidem).

Il matrimonio, i figli, una casa propria e un’automobile, gli elementi onnipresenti nei desideri circa il proprio avvenire dei miei giovani interlocutori, diventano in questo modo i marcatori della agognata mobilità sociale e della volontà di condurre quella “good life” a cui si è spesso fatto riferimento, modellata su orizzonti globali (Graw – Schielke, 2012). Come ha fatto giustamente notare Francesco Vacchiano, inoltre, per i giovani tunisini e marocchini possedere un’auto, una casa, viaggiare e avere una famiglia costituiscono ciò che essi definiscono le “cose di oggi”, le “cose normali”, ed eccedono la loro materialità grazie alla loro “capacità di conforto” (Miller, 2008). Scrive lo studioso:

Le “cose di base”, “le cose normali” (āsāsiyya, ovvero “basiche”, “essenziali”, “elementari”), e “una vita normale” (ma‘īsha ‘adiyya), sono definizioni ricorrenti per parlare di un desiderio di normalità in un mondo di accumulazione, in cui gli oggetti rappresentano molto di più del loro valore d’uso. La loro capacità di “conforto” (Miller 2008) va al di là della loro materialità in quanto prodotti, ma si lega a una profonda simbologia della modernità. Una simbologia costruita su modelli egemonici di larga scala, che accompagnano un modo di essere-nel- mondo, uno “stile di vita globale”, fatto di tempo libero, svago, realizzazione di sé, riconoscimento sociale, senso di utilità e crescita personale. Al di là delle loro componenti strumentali, le “cose normali” rappresentano quel mondo “moderno” che, come ha sottolineato con eloquente efficacia lo psicanalista tunisino Fethi Benslama, produce e si fonda sul «desiderio di essere altro» (Vacchiano, 2012: 7-8, corsivo dell’autore).

Oltre al desiderio di accedere a beni dall’alto valore simbolico oltre che puramente materiale, una delle motivazioni più spesso menzionate nel descrivere le proprie ambizioni di mobilità, si è visto, è la possibilità stessa di “vedere il mondo”, toccando con mano quel mondo altro sviluppato e moderno

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sempre più presente nel contesto di Mekelle attraverso le immagini vincenti diffuse nel capoluogo tigrino e attraverso gli stessi individui stranieri che, sempre più numerosi, affollano le sue strade. Sia nel caso degli studenti che dichiaravano di voler “allargare la propria conoscenza” e completare il proprio percorso di studi, come nel caso di coloro che sognavano di vivere e lavorare per un periodo all’estero e poi fare ritorno in patria investendo i soldi guadagnati col proprio lavoro, si può parlare di ciò che Schielke ha definito, riassumendolo col termine di “cosmopolitismo”, il desiderio dell’appartenere a un mondo

“globale” e vivere in luoghi molteplici allo stesso tempo (Schielke, 2012: 178). A tal proposito Paolo

Gaibazzi parla della volontà di migrare dei giovani Soninke con i quali ha condotto le proprie ricerche come una vera e propria “missione”:

È l’andar a cercar fortuna, in primo luogo il denaro (xalisi) che serve a “far sopravvivere la famiglia” e a “portarla avanti” (farla prosperare), così come il denaro per sé ed i propri progetti. Andar all’estero è anche una missione formativa, spesso paragonata alla scolarizzazione nei termini in cui permette di acquisire consapevolezza (wulliye) del mondo, di conoscere direttamente come funzionano le cose altrove (2010: 122).

Anche per i giovani mekellesi con i quali sono stato in contatto si potrebbe dunque parlare di quel

“cosmopolitismo patriottico” di cui parla Kwame Anthony Appiah (1997), che premia coloro che tornano dopo un periodo passato all’estero riportando le ricchezze materiali e simboliche guadagnate a casa, un modo di esplorare mondi diversi pur rimanendo fedele al proprio luogo e alla propria famiglia di appartenenza.

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CONCLUSIONI

Nel corso di questa tesi di dottorato ho cercato di ricostruire il vasto e variegato panorama che costituisce le immagini del futuro della gioventù di Mekelle. Seguendo le preziose indicazioni metodologiche di Arjun Appadurai, ho definito la capacità di immaginazione come la capacità di pensare alternative possibili per il proprio futuro (1996). Secondo il celebre studioso, e come ho cercato di mettere in evidenza nei capitoli precedenti, i nuovi mezzi di comunicazione globale e i racconti di chi si è trasferito all’estero – o anche soltanto le voci che circolano sul conto di questi ultimi – hanno allargato il “prisma” di alternative possibili per il proprio avvenire (ivi: 73). Tuttavia, come specificato dallo stesso Appadurai

(2013), il fatto che il ventaglio delle vite pensabili si sia ampliato di nuove alternative non significa che le ineguaglianze che segnano le reali possibilità di raggiungerle si siano ridotte. Come è stato sottolineato da

Marco Di Nunzio, la crescita economica che ha interessato l’Etiopia in epoca contemporanea non ha risollevato le sorti di quanti continuano a vivere ai margini della società, andando anzi ad allargare il divario e le diseguagliane fra le fasce più ricche e quelle meno abbienti della popolazione. Scrive Di

Nunzio:

Even though the Ethiopian economy has expanded in the last twenty years, the distribution of the benefits of economic growth has been unequal. Real incomes in urban areas have increased, but while the wealthiest households have seen significant increases in their income, the income of poorer households has declined (Bigsten et al., 1997). As a result, while poor households have observed an increased availability of goods and services in an expanded market, their ability to access these has decreased (Solomon Mulugeta, 2006). (Di Nunzio, 2015b: 1183).

Mettere al centro dell’indagine etnografica il futuro dei giovani di Mekelle ha significato, quindi, investigare le condizioni di vita che segnano il loro presente, analizzando gli obiettivi che i miei giovani interlocutori vorrebbero realizzare, assieme alle strategie che essi adottano per costruirsi un avvenire

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positivo e al tempo stesso superare le sfide della propria quotidianità e le limitazioni contro cui si infrangono le loro idee di cambiamento.

Si è fatto notare, infatti, che due delle immagini del futuro maggiormente presenti nei discorsi e nelle retoriche dei miei interlocutori facciano riferimento alle concezioni “sviluppiste” promosse dai vertici statali, che vedono – e invitano – all’autoimprenditorialità e all’istruzione superiore come ai due modelli virtuosi tramite cui assicurarsi la crescita e il successo individuale e quindi, nel nome dei principi che ispirano la Democrazia Rivoluzionaria (Vaughan, 2011), quelli della nazione. Tuttavia, non soltanto si tratta di due opportunità precluse alla maggior parte della popolazione giovane – tanto per il sistema meritocratico alla base del sistema educativo quanto per la necessità di possedere le reti necessarie all’aprire e gestire un business (cap. II, par. 4-5) – ma che non possono esaudire le lusinghiere aspettative che esse promettono.

È per questi motivi che larga parte della presente etnografia ha messo in evidenza le storie di vita di quanti si siano trovati ai margini del sistema educativo o che, una volta completato il proprio percorso di studi, abbiano fatto esperienza di lunghi periodi di disoccupazione o di lavori sottopagati che poco o nulla avevano a che fare con le conoscenze acquisite durante gli anni universitari, assieme alle testimonianze di chi non poteva contare, date le gravi ristrettezze economiche che segnano le loro esistenze, sulla possibilità del lavoro autonomo (cap. III-IV). Contrariamente a molte delle etnografie prodotte sulla gioventù africana, nelle quali quest’ultima viene rappresentata in uno stato di attesa passiva

(Dhillon – Yousef, 2009; Singerman, 2007), di stallo e di immobilità (Mains, 2012), ho cercato di evidenziare il fatto che i giovani di Mekelle ricorrano a precise strategie di adattamento a un contesto nel quale, anche dove sembra esserci un’apparente immobilità, risulta fondamentale mettere in atto pratiche e tecniche che forniscono, in modo creativo, soluzioni alle sfide del vivere quotidiano.

Maira e Soep (2005) e Honwana (2014), hanno definito “youthscapes” gli spazi di azione entro cui, attraverso l’improvvisazione e la creatività, i giovani sovvertono l’autorità, aggirano gli ostacoli e si aprono a nuove possibilità per andare avanti e costruire il proprio avvenire. Nel contesto di Mekelle, si è visto come queste capacità di azione e creatività prendano forma nella figura di chi viene definito iwala, una

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nuova figura di “city-boy” in grado di approfittare, attraverso l’improvvisazione, di tutte le occasioni che possono essere sfruttate.

Alcinda Honwana (2014) ha proposto pertanto, per la gioventù africana – e più in generale per quella globale – di inquadrarla nella categoria di “waithood”, un periodo compreso fra l’infanzia e l’età adulta in cui, a causa delle fallimentari politiche neoliberiste e dell’instabilità politica e sociale, i giovani sono incapaci di avere lavori stabili e quindi provvedere alla propria cura e a quella delle loro famiglie (ivi:

19). Ciononostante, fa notare la studiosa, le difficoltà e la mancanza di possibilità che segnano la gioventù contemporanea non implicano la mancanza di ampi margini per la sperimentazione, l’esplorazione, l’improvvisazione di modi in cui sopravvivere e superare gli ostacoli (ivi: 26). Attraverso un paragone con altri esempi derivanti da diverse aree dell’Africa subsahariana, ho infatti fatto notare come le capacità degli iwala siano paragonabili alla qualità del dubriagem impiegata dai giovani guineani (Vigh, 2015b) o del se débrouiller dei giovani camerunensi (Waage, 2006).

Gli aspetti creativi e di improvvisazione messi in atto dai miei giovani interlocutori si avvicinano alla definizione che Elizabeth Cooper e David Prattern hanno dato del concetto di incertezza nel loro volume Etnographies of Uncertainty in Africa (2015), nel quale i curatori del libro hanno proposto di considerare l’incertezza presente nelle vite degli individui – soprattutto relativa al loro avvenire – non soltanto come a un ostacolo da rimuovere ma anche come a una risorsa impiegata per ribaltare la situazione, evidenziandone gli aspetti creativi e produttivi. Anche Marco Di Nunzio – al cui lavoro di ricerca sulla gioventù di Addis Abeba si è fatto più volte riferimento – che ha collaborato al libro di

Cooper e Prattern, ha definito l’incertezza insita nell’esistenza dei suoi informatori come a un “terreno di possibilità” (2015a: 153), dal quale non solo non fuggivano ma anzi sceglievano volontariamente di aderire (ivi: 15).

Allo stesso modo, ho cercato di evidenziare come l’incertezza insita nelle vite dei giovani di

Mekelle riguardi soprattutto i mezzi attraverso cui raggiungere e realizzare i propri obiettivi, i quali vengono costantemente riadattati e rinegoziati a seconda delle situazioni, e non le loro idee specifiche circa il proprio avvenire. Le narrative e le possibilità prese in considerazione dai giovani di Mekelle si

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modellano e si prefiggono di raggiungere aspettative e obiettivi socialmente condivisi, ai quali sentono e desiderano di dover aderire. In qualche modo, stando a sentire le loro parole, sentivano che ce l’avrebbero fatta, anche se non sapevano come.

Ciò a cui mirano i giovani di Mekelle è quello che Vigh ha chiamato “social becoming” (2006b: 95), un cambiamento, un avanzamento di stato, una trasformazione in senso positivo delle proprie condizioni di vita. Gli obiettivi fondamentali da essi agognati rispondono, come ho cercato di dimostrare, ai marcatori sociali che segnano il passaggio allo status di adulti: il matrimonio, la genitorialità, la capacità di prendersi le proprie responsabilità verso se stessi, la famiglia e la comunità e passare, quindi, da una posizione di necessità a un ruolo di assistenza. Su queste aspettative di avanzamento sociale, inoltre, grava una forte pressione sociale. L’allontanarsi da quelli che ho definito obblighi sociali e doveri morali genera il sentimento dell’yilunta (sikifta in lingua tigrina), il concetto utilizzato nel contesto di Mekelle per esprimere la paura costante del giudizio e il sentimento incorporato del sapere di dover agire secondo principi e valori stabiliti dalle norme comunitarie e socialmente condivisi, sentimento che Mario Marasco ha efficacemente riassunto come habitus ed ethos al tempo stesso (2016: 12).

Le idee circa il matrimonio e la genitorialità vengono immaginate e poste in relazione alla realizzazione di se stessi non solo in quanto individui adulti ma come persone economicamente autosufficienti e in posizioni di vantaggio. Le aspettative di benessere su cui ho posto enfasi si esprimevano in ciò che i miei interlocutori definivano una “good life”, della quale i simboli prediletti erano una casa di proprietà, un’automobile e la possibilità di viaggiare, “vedendo” il mondo e allargando le proprie conoscenze. Come descritto da Graw e Schielke (2012) le aspettative della gioventù sembrano essersi modellate su idee e “orizzonti globali”, nel senso di una «forma di orientamento al mondo mediata dall’incorporazione di norme, valori e significati storicamente e politicamente definiti» (Costantini, 2016:

153).

Uno dei punti che ho cercato di mettere in risalto riguarda la considerazione che l’immobilità della gioventù africana descritta da diversi accademici debba essere intesa, nel caso dei giovani di Mekelle, come un’immobilità sociale, nel senso di una “non-mobilità”: come è emerso dalle numerose

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testimonianze all’interno del lavoro, i miei interlocutori facevano spesso riferimento alla loro volontà di cambiamento, intendendo un’ascesa sociale che Samuli Schielke ha chiamato «middle-class fantasy» (2012:

179) e che nel loro caso si riferisce al desiderio di esperire un reale cambio di status, effettuando un avanzamento sociale che li porti «dai margini verso il centro» (ibidem, traduzione mia).

Nel corso degli anni che ho trascorso a Mekelle, a partire dalla mia prima attività di ricerca risalente al 2013, ho seguito da vicino le storie e le vicende di diverse persone con le quali, oltre al rapporto di lavoro sul campo, si sono create relazioni di amicizia. Sebbene molti di essi abbiano attraversato diverse fasi della loro vita, cambiando lavori, trasferendosi in altre città, sposandosi o diventando genitori, mi ripetevano spesso che, in fin dei conti, nulla era cambiato. A mancare, secondo il loro punto di vista, era proprio quel cambio di status al quale aspiravano.

Ciò che avviene quando la pressione sociale diventa insostenibile, quando non si rescono a raggiugere gli obiettivi socialmente condivisi, quando invece di un avanzamento di status sembrerebbe esserci un netto peggioramento delle proprie condizioni, insomma quando vengono meno narrazioni positive circa il proprio avvenire, è stato documentato dalle storie dei giovani dipendenti da khat e alcolici descritte nel capitolo IV. In particolare, si è visto come soprattutto per coloro che si consideravano giovani “brillanti”, ai quali l’istruzione universitaria aveva promesso la prospettiva di un cambiamento radicale, in positivo, lo scarto fra le aspirazioni personali e le reali condizioni di vita abbia provocato una rottura totale fra i giovani e la loro comunità, portandoli a diventare dipendenti da sostanze alteranti. Una volta terminati i propri percorsi di studio i ragazzi hanno sviluppato gravi dipendenze anche a causa della loro mancanza di attività, della depressione e della frustrazione di non aver visto realizzarsi quell’avanzamento sociale previsto una volta entrati in possesso di una laurea.

Oltre a trovarsi ai margini della vita sociale, del sistema di produzione economica e del mondo del lavoro, i protagonisti di queste storie di dipendenza sono passati dall’essere giovani promettenti e dal sicuro avvenire all’essere etichettati come un peso per le loro famiglie e per tutta la società, biasimati per la loro pigrizia e per la loro mancanza di volontà. Se la crescita e il successo dell’individuo vengono considerati volano dello sviluppo della nazione e della collettività, il fallimento delle traiettorie di vita che

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ci si era prefigurati è invece una questione strettamente personale. Persino nei programmi di disintossicazione e riabilitazione è stato possibile ritrovare, attraverso le retoriche dei medici e degli impiegati governativi, i germi di una concezione per la quale seguendo un’ideologia liberale, la posizione di marginalità nella quale si trovano segregati gli stati più fragili della popolazione sia da imputare solo ed esclusivamente alle azioni degli individui.

A coloro che non possono riporre le proprie energie e le proprie speranze nel lavoro autonomo e nell’istruzione superiore, a chi ha puntato, perdendo, su queste possibilità e a chi naviga l’economia dell’informalità, resta una immagine ulteriore ben nota: quella della mobilità. Ho documentato le modalità di creazione e di diffusione degli immaginari sulla migrazione, che in mancanza di alternative concrete, diventa la sola possibilità per raggiungere un prestigio sociale e un benessere che le altre immagini non sono più – o non sono mai state – in grado di assicurare (Massa, 2016: 128-129), andando perciò, tramite la mobilità geografica, a realizzare l’obiettivo della mobilità sociale. Senza quest’ultima, senza cioè il

“cambiamento” cui aspirano i miei interlocutori, e senza i mezzi per raggiungere i marcatori sociali del passaggio all’età adulta, tutto ciò di cui i miei interlocutori rischiano di fare esperienza è ciò che con Vigh

(2006b), ho definito come “morte sociale”. «Se proprio devo morire, meglio provare a cambiare la mia vita», è il leitmotiv che accompagna le loro retoriche in merito; «wey n asa, wey n kassa», per i pesci o per i soldi, è il motto di chi non vede altre possibilità di cambiamento se non quella della mobilità.

Il cambio di status, il passaggio dalla fase della gioventù alla condizione di adulto e l’accesso ai beni, simbolici e materiali, rappresentativi di un mondo moderno e sviluppato, che muovono i desideri di altrove dei giovani di Mekelle, sono ciò per cui questi ultimi sono disposti, prefigurandosi l’idea della migrazione illegale, ad affrontare i rischi, le privazioni e le violenze che essi conoscono bene ma che non temono più della morte sociale nel proprio contesto di appartenenza.

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