Mellencamp il puma è ritornato

Ritorno alle radici: la conversione dell’ex rocker statunitense al folk angloamericano di matrice «impegnata» è ormai completa

/ 07.01.2019 di Benedicta Froelich

C’è stato un tempo, nel cuore dei surreali anni ’80, in cui, agli occhi del pubblico, il giovane John Mellencamp era giunto a incarnare il rock a stelle e strisce nella sua accezione più virile e, a voler essere sinceri, anche semplicistica – al punto da essere considerato una sorta di ingenuo emulo di Bruce Springsteen, con il quale condivideva l’enfasi artistica sulla propria identità di patriottico cittadino USA.

Da allora, tuttavia, le cose sono cambiate: nel corso degli anni, l’ormai ultrasessantenne Mellencamp ha infatti abbandonato, oltre al ridicolo pseudonimo «Cougar» («puma»), anche l’antica aria da ruspante fusto americano, per concentrarsi piuttosto su quelli che sarebbero presto divenuti gli elementi più caratteristici del proprio songwriting – ovvero, quella stessa coscienza sociale e coinvolgimento politico già affiorati in brani di denuncia come e, soprattutto, lo straziante Jackie Brown.

Vestiti così i panni di devoto discepolo del cantautorato più impegnato e della canzone di protesta d’altri tempi, John ha confermato la propria «conversione» con come Cuttin’ Heads (2001) e Trouble No More (2003), nei quali – complice la voce oggi molto più ruvida e intensa – ha ripercorso l’antica tradizione folk americana tramite frequenti rivisitazioni ispirate e minimaliste di capisaldi del genere; una linea che continua a seguire ancora oggi, come dimostrato dal recente Sad Clowns & Hillibillies (inciso insieme a Carlene Carter, discendente della leggendaria Carter Family), CD pervaso da un gusto folk-country direttamente riconducibile alla cosiddetta musica «delle radici».

Non sorprende quindi che il nuovissimo disco di Mellencamp, Other People’s Stuff, si presenti, fin dal titolo («roba d’altri»), come una collezione di brani legati al songbook folk – in una tracklist che stavolta comprende non solo classici assoluti, ma anche pezzi più recenti, firmati da autori che possono considerarsi quasi contemporanei dell’artista. E difatti, nonostante le premesse apparentemente banali, il disco regala alcune vere e proprie gemme: lo dimostrano classici assoluti made in USA quali Wreck of the Old 97, esempio di pura drammaticità nella migliore tradizione della «railroading song» di stampo narrativo, qui reso da Mellencamp con evidente maestria grazie a un cantato intenso, eppure trattenuto e mai enfatico.

E in effetti, è proprio nei brani dal forte spessore emozionale che John sembra dare del suo meglio, come accade con l’inquietante Gambling Bar Room – classica «murder ballad» portata al successo negli anni ’30 dall’indimenticato Jimmie Rodgers – o, ancora, con In My Time of Dying, brano favorito da Mellencamp fin dai tempi di Cuttin’ Heads: un pezzo che, pur narrando (in modo peraltro molto pragmatico e scientifico) della preparazione alla morte, si presenta come insolitamente gaio e accattivante dal punto di vista ritmico. Lo stesso si può dire del celeberrimo Stones in My Passway, uno dei molti capolavori del padre di tutti i bluesmen, il geniale Robert Johnson, e definibile come una riflessione esistenziale a ritmo di chitarra; senza, naturalmente, dimenticare Eyes on the Prize, storico canto di emancipazione assurto a inno di ribellione per gli afroamericani di tutto il continente, prescelto da John come primo singolo estratto dall’album.

Tuttavia, come già detto, Other People’s Stuff offre anche pezzi più recenti, tra cui brilla I Don’t Know Why I Love You (originariamente composto da Stevie Wonder), qui proposto sotto forma di blues sporco e rabbioso in puro stile da Louisiana Bayou; e non mancano neppure alcune autocitazioni dello stesso Mellencamp, il quale decide di rivisitare To The River, brano di ampio respiro da lui originariamente pubblicato nell’ottimo (1993), e qui interpretato con spirito quasi Springsteeniano.

Scontata, inoltre, l’inclusione nella tracklist di pezzi tratti dai dischi più palesemente folk firmati da John (si vedano Trouble No More, da cui riascoltiamo la struggente ballata Teardrops Will Fall, e il già citato Sad Clowns & Hillibillies, dal quale proviene un blues démodé come Mobile Blue – un traditional del vecchio Sud in piena regola, firmato dal noto Mickey Newbury Jr.).

Certo, parecchi tra i fan di Mellencamp sono apparentemente rimasti delusi da quella che hanno ritenuto essere semplicemente l’ennesima raccolta di cover e brani anche troppo noti, oltretutto priva della presenza di qualsiasi inedito a impreziosirne la pubblicazione; tuttavia, non si può negare come, negli ultimi anni, John abbia sviluppato un gusto e un talento di prim’ordine per la rielaborazione del traditional angloamericano (in fondo, l’antenato di ogni forma di rock che si rispetti). Anche per questo, la recente produzione di Mellencamp meriterebbe ben più di una passeggera forma di rispetto – specialmente in tempi in cui intraprendere la via del folk può definirsi, per una star, un atto senz’altro coraggioso, ma non certo foriero di successo commerciale.