Il Conflitto, I Traumi
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IL CONFLITTO, I TRAUMI Psichiatria e Prima Guerra Mondiale A cura di: Paolo Francesco Peloso e Chiara Bombardieri 1 IL CONFLITTO, I TRAUMI Psichiatria e Prima Guerra Mondiale A cura di: Paolo Francesco Peloso e Chiara Bombardieri 2 Copyright 2019 Azienda USL di Reggio Emilia 3 Indice Psichiatria e trauma al tempo della Grande guerra: pag. 9 tra vicende manicomiali e questioni aperte, di Paolo Francesco Peloso Parte I. Gli Ospedali Psichiatrici Il San Lazzaro di Reggio Emilia e una guerra da « 37 amministrare, di Francesco Paolella «Non atto a prestare ulteriore servizio sotto le armi. « 55 La selezione del corpo militare nella pratica alienista del dott. Salerni all’Ospedale psichiatrico di Verona, di Gabriele Licciardi Il manicomio di Treviso e la Prima Guerra « 70 Mondiale, di Gerardo Favaretto Cesare Colucci e il Manicomio di Capodichino « 85 durante la Grande Guerra, di Marco Romano Interno cremonese. Tra guerra fuori e conflitti « 103 dentro un manicomio modello (1916-17), di Andrea Scartabellati 4 Parte II. Follia e altro Work in psychiatry in the First World War – « 161 between therapy and economy, di Felicitas Söhner Teorie del conflitto e critica della modernità « 170 nell’eugenetica europea: Georges Vacher de Lapouge e Auguste Forel, di Giovanni Cerro Fraternal Traumas: South-Slavic Psychiatric « 188 Casualties in the Opposed Armies of the First World War, di Mirza Redži ć Tragedie silenziose. I «folli» di guerra nella visione « 202 dello Stato Italiano e dell'Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di Guerra, di Ugo Pavan Dalla Torre Lungo un incerto confine: psicologia e psichiatria « 216 di fronte alla Grande Guerra, di Glauco Ceccarelli Parte III. Il cinema Nevrosi in fotogramma: documenti sulle nevrosi di « 255 guerra negli archivi cinematografici e militari. Approccio storiografico pionieristico di un quarto di secolo fa, di Giovanni Nobili Vitelleschi La guerra e i traumi psichici. “Raffiche” di Aldo « 268 Molinari, un esempio dalle immagini d’archivio della Cineteca Nazionale, di Francesca Angelucci 5 Bibliografia « 279 Gli Autori « 305 6 7 Psichiatria e trauma al tempo della Grande guerra: tra vicende manicomiali e questioni aperte di Paolo Francesco Peloso Ci pare di vederli, ormai, questi fanti, sprofondati nel fango, schiaffeggiati dal fragore e lo spostamento d’aria delle cannonate e delle bombe, asfissiati come insetti dall’improvvisa esalazione dei gas o falciati dalle sventagliate della mitraglia, tanto se n’è parlato da cinque anni a questa parte. Rinviati scioccati nelle retrovie, a cercare la pietà e la comprensione di uno psichiatra in abito militare nella rete degli avamposti sanitari, nei centri di prima raccolta, nelle sezioni militari dei manicomi; cercare pietà e incontrare invece, spesso, inflessibile richiamo alla virilità, sospetto, scosse elettriche dolorose, parole che non potevano che ribadire: «da che mondo è mondo, è la guerra. È la guerra e l’uomo adulto deve sapervi far fronte». Che sarebbe stato spaventoso lo si sapeva anche prima. Lo insegnavano - e lo ha ricordato in Italia tra i primi Antonio Gibelli (1991) - i resoconti spaventosi della guerra Russo-Giapponese e lo riferivano ormai anche le cronache dai vari fronti europei durante quell’anno in più che l’Italia ebbe a disposizione per decidere se gettarsi o non gettarsi nel macello. La guerra era diventata industriale, di massa. Gli esiti sul mondo mentale catastrofici. Si scelse ugualmente di gettarsi nella mischia. I risultati - che citiamo qui da una recente pubblicazione dello storico militare Nicola Labanca (2016) - furono quelli che si sarebbero potuti attendere. Dei 4.200.000 soldati che nei poco più di tre anni di conflitto raggiunsero il fronte, 650.000 furono i morti, oltre due terzi di loro in combattimento e gli altri per malattia o in prigionia; circa 1.000.000 i feriti, più di 120.000 dei quali rimasero mutilati. 8 In questo scenario apocalittico, i numeri della psichiatria possono sembrare meno impressionanti, ma non sono trascurabili: circa 40.000 furono i militari sottoposti a osservazione psichiatrica nel periodo del conflitto secondo Bruna Bianchi (2001a). Una parte di questi casi si risolse nei centri di osservazione avanzata organizzati a ridosso del fronte, uno presso ciascun corpo d’armata, perché si era visto che consentire al soldato di allontanarsi dalla zona delle operazioni ne rendeva più difficile il rientro. E poterono rientrare subito in zona di guerra; altri venivano inviati in alcuni manicomi del nord-est, presso i quali erano stati allestiti i Centri di prima raccolta, che dopo Caporetto furono concentrati in un unico Centro, a Reggio Emilia. In questi Centri veniva svolta la vera e propria operazione di filtro: chi poteva rientrare al fronte dopo un’osservazione un po’ più accurata, chi veniva assegnato al manicomio della propria zona per proseguire la degenza, chi inviato per una licenza a casa e chi definitivamente in congedo. Ma di tutto questo molto si è parlato. E non è, evidentemente, tra gli obiettivi di questa introduzione operare una sintesi dell’immensa mole di ricerca inerente il rapporto tra Grande guerra e assistenza psichiatrica nel nostro Paese, che ha visto la luce già a partire dall’epoca stessa dei fatti. Né dei testi che, a partire dal lavoro di Antonio Gibelli e Bruna Bianchi (2001), ha visto storici e psichiatri volgersi all’indietro negli ultimi cinquant’anni e ancora ritornare più insistentemente sul tema in occasione di questo centenario, a partire dal 2014. A cosa è servito allora l’ennesimo convegno, questo Il conflitto, i traumi. Psichiatria e Prima guerra mondiale organizzato dal Centro Studi di Storia della Psichiatria della AUSL di Reggio Emilia diretto da Gaddomaria Grassi il 30 settembre 2016; e dopo di esso a cosa serve la pubblicazione di questo ennesimo volume sulla relazione tra assistenza psichiatrica e primo conflitto mondiale? Beh, probabilmente ad aggiungere poco, ma qualcosa sì credo. Perché mi pare difficile comprendere una realtà così gigantesca e complessa da meritare l’aggettivo di “mondiale”, che ha direttamente o indirettamente interessato centinaia di milioni di uomini, donne e bambini, se non si entra nel dettaglio di ciò che essa è stata nel piccolo delle singole realtà urbane e rurali, delle singole istituzioni. Ma anche di ciò che la guerra ha significato per la vita degli asili, 9 l’evoluzione delle pratiche di cura, quella delle ideologie, delle discipline scientifiche, della relazione tra psichiatria e tecniche di riproduzione iconografica e comunicazione, questioni spesso che si ponevano per la prima volta in quella gigantesca spinta verso la modernità che la guerra ha rappresentato o venivano reimpostate in quel momento e spesso sono ancora aperte. Aprirei dunque con un commento ai cinque contributi relativi ad altrettante realtà manicomiali. In primo luogo quella di Reggio Emilia, il luogo del nostro ritrovarci, che è al centro dell’intervento dello storico Francesco Paolella Il San Lazzaro di Reggio Emilia e una guerra da amministrare, nel quale focalizza l’attenzione sugli aspetti amministrativi relativi alla partecipazione indiretta del San Lazzaro, per varie ragioni un manicomio particolarmente importante nella rete assistenziale italiana, alla guerra. La disponibilità a internare militari e profughi provenienti dal nord-est soprattutto (ma non solo) dopo Caporetto, portò gli ingressi in manicomio - secondo i dati di Paolella - a raddoppiare rispetto all’anno precedente già nel 1916, quadruplicare nel 1917, divenire addirittura sei volte quelli iniziali nel 1918, per poi degradare solo lentamente negli anni successivi. Questo pose, evidentemente, problemi all’amministrazione, con una parte significativa dei medici e degli infermieri mobilitati nell’esercito, una decurtazione nella proporzione tra organici e internati prevista per legge per tutti i manicomi italiani, una parte degli edifici ceduta all’esercito per ricoveri di militari a carattere medico. Il San Lazzaro si trovò così ad affrontare anche momenti drammatici: come quello in cui fu necessario circoscrivere e risolvere, al termine del 1915, un’epidemia di colera «portata in dote», verosimilmente, dagli ospiti militari; o quello in cui la scarsità di vettovaglie, fattasi drammatica nel 1918, determinò una rivolta proprio tra gli stessi internati militari, evidentemente meno ammansiti e rassegnati rispetto alla popolazione stanziale del manicomio. Un capitolo particolare affrontato da Paolella, che se ne è già occupato più diffusamente altrove (2008), è poi l’insediamento proprio a Reggio Emilia, con l’appoggio logistico - specie nella prima fase - del San Lazzaro, del Centro psichiatrico-militare di 10 prima raccolta diretto dallo psichiatra militare Placido Consiglio 1, reduce da una convivenza non priva di momenti di spigolosità a Padova con quello che era in quegli anni lo psichiatra italiano più sensibile ai diritti degli internati, Ernesto Belmondo 2. Il centro nasceva, evidentemente, dalla necessità di arretrare dopo Caporetto, ma forse anche da un disegno dell’esercito di avocare a sé l’attività di filtro per i ricoveri, le licenze e i congedi per ragioni psichiatriche, per la quale Consiglio, militare di formazione rigorosamente lombrosiana, offriva evidentemente la garanzia di criteri più restrittivi rispetto ai colleghi direttori dei manicomi presso i quali i centri di prima raccolta erano in precedenza collocati. Al manicomio di Verona è poi dedicato «Non atto a prestare ulteriore servizio sotto le armi». La selezione del corpo militare nella pratica