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KDCOBAIN http://www.kdcobain.it/pagine/recensioni/swordgods.htm

Vengono da Austin (Texas) e con un nome così non potevano che suonare metal. Il loro è uno stile che affonda le radici agli albori del genere, si scorgono infatti elementi alla Judas Priest ma anche ai come testimonia "How heavy this axe". La passione per Tolkien è nota quando si parla dei The Sword e il loro stile forse non particolarmente originale acquista valore se valutato in chiave revival dell'old style. Batteria in primo piano, voce in sordina e filtrata e roboanti riff di chitarra catapultano l'ascoltatore all'inizio degli anni 70. Sono dieci i brani che compongono questo secondo dei The Sword dal titolo estremamente mitologico "Gods of the earth". Austin è sempre stata una vera fucina musicale e di band di ogni genere. Questa volta è proprio dal Texas e da questi quattro ragazzi che parte il giusto tributo alla nascita dell'heavy metal. Sarà per questo che i li hanno scelti come band di supporto per il loro tour di luglio?

AUDIODROME http://www.audiodrome.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=3367

A volte non si riesce a capire il clamore di tanti, tantissimi esponenti della stampa più o meno specializzata nei confronti di una certa band. A volte, infatti, si leggono meraviglie più o meno da tutte le parti sui prodigi di un gruppo, su come questo sia riuscito a rivitalizzare un sound, oppure su come abbia trovato una nuova via per esprimere determinate sonorità… e quindi si parte "positivamente prevenuti" all’ascolto della band in questione, ma dopo si rimane confusi e sconcertati da tutto questo clamore. Gli Sword rientrano perfettamente in questa categoria. Giunti al secondo album, dopo un buon esordio, non cambiano di una virgola il loro sound, incentrato su un possente di matrice sabbathiana, che spesso e volentieri sconfina - soprattutto nelle parti vocali - nello stoner e a volte nell’heavy metal più classico, a metà strada tra e Judas Priest, con sporadici rimandi ai Manowar. Sulla carta tutto funziona alla perfezione, così come in e forse anche di più. La doppietta iniziale “Sundering”/“How Heavy This Axe” (titolo più metal di sempre), pur non essendo molto originale e con frequenti rimandi ai Black Sabbath, colpisce subito nel segno, e la successiva “Lords” è senza dubbio il miglior brano mai inciso dalla band, grazie ad una struttura che fonde alla perfezione i Maiden di Killers e i Sabbath di Master Of Reality, un mix letale, che la band propone - in questa occasione - con tantissima passione e personalità. Personalità che è innegabilmente rintracciabile anche nella splendida “Fire Lances Of The Ancient Hyperzephyrians”, in cui fanno capolino, anche se per poco, i primissimi Metallica, e nella splendida e lunga cavalcata “Black Sea”. Se tutto il lavoro fosse all’altezza di questi quattro brani, allora si potrebbero capire lo stupore e l’ammirazione generalizzati, ma purtroppo così non è. Chiariamo subito, “To Take The Black” (più stoner dello stoner) o l’epica “Under The Boughs” sono comunque delle buone composizioni, così come, in media, tutte quelle presenti in Gods Of The Earth, ma in molte occasioni si ha l’impressione che la band si sia limitata a svolgere un compitino senza sforzarsi minimamente di renderle proprie, dato che le influenze sono evidenti come non mai. Un compitino svolto più che egregiamente, sia chiaro. Senza dubbio sopra la media, ma i capolavori sono lontani anni luce. A scuola si direbbe “Bene, bravi, 7+”. ::: PROMORAMA ::: PRESS :::

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EVOLUTIONFEST http://www.evolutionfest.it/forum2/showthread.php?p=888576

Caparezza disse “Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”. Probabilmente è vero. Quante volte abbiamo visto una band perdersi dopo un esordio buono\ottimo? Troppe. Ripetersi ad alti livelli è difficile per tutti, ma se le idee ci sono veramente, se si è in grado davvero di scrivere ottima musica, il compito risulta molto più semplice. Questo è certamente il caso dei The Sword, che dopo il loro debut “Age Of Winters”(2006), non abbassano la guardia ed escono dal circuito delle “Next Big Things” entrando nel giro che conta. Due album, due centri. Se “Age Of Winters” era un tributo non voluto ai Black Sabbath attualizzato agli anni duemila, il nuovo “Gods Of The Earth”(titolo super trù e la copertina non è da meno) migliora ulteriormente la proposta del gruppo, si arricchisce di nuovi elementi, diventa più “metal”, più pesante e veloce. I soliti ingredienti ci sono tutti, riffoni grassi&grossi, batteria tritatutto, rallentamenti vari e una sensazione di maestosità che pervade tutto il disco. Insomma, stavolta hanno puntato in alto, e il risultato è iper-soddisfacente. Il disco si apre con l’intro strumentale “The Sundering”, arpeggio pulito, tutto tace, poi come se niente fosse ci arriva una legnata in pieno volto, un riff pesantissimo che scivola in un mid-tempo dai toni marziali seguito da un bel solo. 2 minuti e il voto in pagella è già scritto in mente. “How Heavy is this Axe” è un pò il simbolo dei nuovi The Sword, la velocità aumenta, si nota da subito che i ragazzi sono cresciuti dal punto di vista compositivo , inserendo trame melodiche nelle loro sfuriate chitarristiche, il ritornello poi è un fulmine a ciel sereno. È il classico refrain che ti ricordi e che riesci a canticchiare dopo mezzo ascolto. La seguente “Lords” si apre con un riff che potrebbe trovarsi tranquillamente su un disco dei Mastodon, la canzone è un mid-tempo monolitico e quadrato, le chitarre formano un muro invalicabile sostenute da una batteria varia e incredibilmente incisiva, i Black Sabbath sarebbero fieri di loro. Il pezzo nella sua parte finale ci regala una piccola perla di doom puro. Menzione d’onore per le linee vocali, bellissime lungo tutto il disco, molto curate ed inserite al posto giusto e al momento giusto. Subito dopo troviamo “Fire Lances the Ancient Hyperzephyrians”, forse il pezzo più veloce del disco, riff al limite del (ascoltate i primi 10 secondi per credere) e ancora una volta, un ritornello memorabile, epico e cattivo. I The Sword non dimenticano MAI chi comanda e dopo la bella “To Take The Black”, tributano 3 minuti e 58 secondi di applausi ai Black Sabbath teletrasportando l’ascoltatore direttamente negli anni 70. State ascoltando “Maiden, Mother and Crone”, i pezzo più settantiano e “doom” del disco. Assolo voto 10+. “Under The Boughs” si candida alla palma di “pezzo col miglior ritornello del disco”, forse il pezzo più in linea con i The Sword prima maniera. L’album(purtroppo) si conclude con l’accoppiata “The black river”-“The White Sea”, i due brani più lunghi dell’intero album, il primo più energico e groovy, il secondo più pesante e lento,due brani complementari che spiegano perfettamente i The Sword a 360°. Gods Of The Earth è un notevole passo in avanti sotto tutti i punti di vista. I riff di chitarra sono tra i migliori che mi sia capitato di sentire ultimamente, la batteria svolge un compito impeccabile, potentissima, precisa e parecchio varia e dinamica e la voce, pur non essendo eccezionale tecnicamente, è molto personale e soprattutto ci sono delle melodie e linee vocali da brivido. L’unica pecca riguarda la produzione, un po’ debole e confusionaria in alcuni punti, ma davanti ad un disco del genere, questo è un dettaglio da nulla. Le atmosfere si fanno più imponenti, c’è quel tocco di epicità che piacerà ai super-trù e affascinerà gli altri, è un disco maestoso quindi, ma l’avevamo capito già dalla copertina. I The Sword,dicevamo, sono cresciuti e maturati, ormai è riduttivo inserirli nel ,seppur vasto, calderone del doom. Hanno allargato i loro orizzonti e hanno preso influenze qua e là, sono diventati “semplicemente” una band metal. Quello suonato a dovere, con passione, intelligenza e divertimento. Gods Of The Earth è un disco vero e sentito, il gruppo nono vuole ergersi come manifesto dell’innovazione e della sperimentazione(la via scelta da troppi oggi, con pochi risultati davvero interessanti), ma vuole suonare della buona musica, magari non innovativa e rivoluzionaria, ma tremendamente bella, efficace e piacevole da ascoltare. Fanno quello che sanno fare e lo fanno alla grande. Per me è uno dei candidati al titolo di miglior disco dell’anno, e tra quelli usciti finora, è il migliore. Alla faccia di Caparezza. Album consigliato a TUTTI, senza distinzioni, anche a quelli non avvezzi a sonorità doom, visto che in questo disco di doom vero e proprio ce n’è davvero poco. ::: PROMORAMA ::: PRESS :::

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LOUDVISION http://www.loudvision.it/musica_recensioni-the-sword-gods-of-the-earth--2079.html

Il problema coi The Sword è capire dove vogliano andare a parare. Perché finché si trattava di "Age Of Winters", uscito nel 2006, si poteva pensare che questi ragazzi di Austin, Texas, fossero "solo" dei grandi appassionati di anni '70 e di fantasy. Il disco era anche molto carino, e nella sua cronica inutilità era un acquisto consigliato agli amanti di queste sonorità. "Gods Of The Earth", il secondo capitolo della saga The Sword, si muove sulla falsariga del debutto. Ma, a nostro (sindacabile) giudizio, tira troppo la corda. Cioè, l'oscuro revival è OK, è sempre OK, perché sembra che non ci sia mai limite alla quantità di bei pezzi e bei dischi che si possono tirar fuori dalle prime tre note di "Black Sabbath". Già se in questo contesto infilate il metallone classico epico macho tipo Judas Priest o Iron Maiden il rischio del cattivo gusto avanza. Perché? Perché certe cose facevano paura/esaltavano/divertivano ormai trent'anni fa, oggi suonano solo vecchiotte e un po' muffite. Vogliamo buttare nel calderone anche un po' di tolkienismo d'accatto, da nerd terminale di D&D? Fiumi neri, lance di fuoco e il bianco mare. Che anche queste cose abbiano, tipo, fatto il loro tempo? Non si può non riconoscere ai The Sword una discreta dose di passione e amore per quello che suonano. Per dirla con un termine ggiovane, se la credono un sacco. E i pezzi di "Gods Of The Earth" non sono nemmeno male: decisamente più veloci ed epici di quelli del debutto, sembrano aver spostato la lancetta dell'ispirazione qualche annetto più avanti rispetto ad "Age Of Winters". E così ci troviamo di fronte ad un ibrido Black Sabbath/Bathory/Manowar/Judas Priest, ingredienti miscelati in misura diversa nel corso del disco. Trait d'union del tutto resta la voce da cugino povero di Ozzy di J. Cronise. Che a conti fatti è l'unico oggettivo punto debole del disco, che gode di una produzione polverosa ma efficace e di una discreta varietà di soluzioni compositive. Il problema vero resta l'aspetto emotivo. Avete voglia di spade, cavalieri, donzelle, draghi, bla bla bla, il tutto presentato in un'invitante salsa metallona classica? Se la risposta è sì, è probabile che abbiate quarant'anni, un vecchio giubbotto di pelle con le toppe dei Venom, radi capelli lunghi e tanta nostalgia della vostra gioventù. Altrimenti passate prima dai veri classici, magari.