Il fascino vintage di

CD - Il «maschiaccio» del rock al femminile, si mette alla prova con un di cover quantomeno fuori dal comune

/ 23.09.2019 di Benedicta Froelich

Il caso di Chrissie Hynde, leader della storica rock band angloamericana dei The Pretenders, costituisce perfetto esempio di come una donna dallo spirito fortemente indipendente e risoluto possa rappresentare, in ambito artistico, una vera e propria «spina nel fianco» per una scena musicale troppo spesso dominata dagli uomini, e in cui accade ancora che le performer femminili siano costrette a rivestire lo scomodo ruolo di pin-up sexy (a volte trasgressive fino alla vera e propria volgarità). In effetti, nonostante il gruppo dei Pretenders abbia indubbiamente rappresentato una delle realtà più interessanti del paesaggio pop-rock anglosassone anni 80, l’energica Chrissie si è sempre distinta come un elemento difficilmente classificabile sia per i critici che per il pubblico, cosa che ha forse condizionato la sua decisione di limitare i propri sforzi solisti al solo Stockholm (2014) – almeno fino ad oggi.

Adesso, alla soglia dei settant’anni, la Hynde tenta infatti un esperimento per lei inedito e si avventura nell’insidioso territorio delle contaminazioni stilistiche, esplorando il mondo degli standard del Great American Songbook (e non solo) con l’aiuto di una formazione di stampo prettamente e orchestrale quale The Valve Bone Woe Ensemble – dando così vita a un nostalgico tributo dal sound davvero vintage e demodé, e, naturalmente, fortemente di classe. Certo, bisogna dire che la natura del progetto – un CD dal poco fantasioso titolo di Valve Bone Woe – non può definirsi propriamente originale, dal momento che, negli ultimi anni, parecchie rockstar si sono cimentate con il catalogo più «datato» (ad esempio, Bryan Ferry e Bob Dylan, per citarne solo due); tuttavia, Valve Bone Woe rappresenta un caso particolare sotto molti punti di vista, dato che la Hynde e la sua band si spingono fino al punto di tentare diverse, ardite incursioni non solo nella musica simil-elettronica, ma addirittura nella bossa nova e nel folk.

Basta infatti un piccolo capolavoro quale Caroline, No (originariamente a firma Beach Boys) per ritrovarsi immersi in suggestioni rarefatte quanto coinvolgenti, in cui la voce intensa di Chrissie si fonde alla perfezione con atmosfere costantemente in bilico tra le suadenti sonorità da night club americano, l’acid jazz più sperimentale e i campionamenti da dj – come accade anche, in maniera perfino più azzardata, con l’efficace ballata Absent Minded Me, la cui coda strumentale finisce per ricordare vagamente alcuni esperimenti dei Kraftwerk. Altrove, tuttavia, la fedeltà di Chrissie e del suo ensemble alla tradizione americana di un tempo è assoluta, secondo una rispettosa forma di omaggio che diviene, a tratti, vera e propria sensazione di dejà-vu: ad esempio con l’irresistibile How Glad I Am, gemma soul portata al successo da Nancy Wilson negli anni 60, o con i celeberrimi standard Once I Loved e I’m a Fool To Want You – i quali si presentano in tutto e per tutto come le ballate romantiche in puro stile «anni ruggenti» che siamo abituati a collegare alle versioni originali. Del resto, stupisce non poco che la voce abitualmente rock della Hynde si adatti in modo tanto magistrale a capisaldi del genere quali You Don’t Know What Love Is e Que Reste-t-il de Nos Amours?, o anche a un particolarmente sognante Wild is the Wind (peraltro già interpretato con successo da David Bowie). Non solo: inaspettatamente, il CD offre perfino due tracce strumentali – , composta dal grande John Coltrane, e Meditation on a Pair of Wire Cutters, tratta dal repertorio dell’altrettanto leggendario Charles Mingus. E accanto a scelte tanto particolari, abbiamo la sorpresa di trovare anche cover di brani folk-rock provenienti da tempi più recenti, tra cui una rilettura quasi trip hop del languido (opera del compianto Nick Drake) e un freschissimo No Return, cavallo di battaglia di Ray Davies dei Kinks, ex marito della Hynde.

Così, la scelta di mescolare tra loro generi ed epoche tanto diverse diviene uno degli elementi cardine in grado di distinguere questo disco dai molti tributi «old-fashioned» già apparsi sul mercato nel recente passato (come, ad esempio, i molteplici album di standard jazz firmati da Rod Stewart); l’altro, forse ancor più cruciale, è costituito, naturalmente, dal timbro magnetico della Hynde, a tutt’oggi raro esempio di voce carismatica la cui interpretazione sappia coniugare misurata potenza (e grande personalità) con la semplicità di un’esecuzione priva di fronzoli, e per questo ancor più efficace. E fa piacere notare come questo Valve Bone Woe ne costituisca ulteriore esempio, al punto da rappresentare forse uno dei migliori exploit mai firmati dall’artista – il tutto a dispetto della struttura di un lavoro che, per sua stessa natura, risulta inevitabilmente definibile come un esercizio di stile improntato sulla semplice interpretazione, e non sulla composizione vera e propria; ma che, nonostante ciò, mostra una profondità espressiva più unica che rara.